Le classi differenziali esistono già
06-05-2024, 01:06scuolaPermalinkLe classi differenziali, vedo che se ne riparla. Se ne riparla per nessun motivo, o perché un tizio qualsiasi (un generale in congedo, ma poteva essere un doganiere in pensione, una commessa di tezenis in pausa pranzo) doveva trovare qualcosa da dire in campagna elettorale. Non che nessuno abbia veramente intenzione di spenderci qualcosa, che è l'unica cosa che dovremmo chiedergli, sempre: ah, vuoi istituire classi differenziali? E quanto ci costerebbero? Un po' brutale, mi rendo conto, ma è una domanda sufficiente a capire se chi chiacchiera ha intenzione di fare sul serio. Per cui in effetti è una domanda retorica: nessuno ha intenzione di fare sul serio.
Le classi differenziali, uno di quegli argomenti che su questa pagina si ripropone sempre uguale – a riprova che nulla cambia, tranne me, e di sicuro non in meglio. Era uno dei punti su cui mi piaceva aprire fronti interni coi progressisti; poi siamo diventati così pochi che ho lasciato perdere, e tuttavia.
La gente ha sempre questo problema quando pensa alla scuola, che di solito pensa alla scuola che ha fatto lui. E in Italia siamo tutti vecchi, per cui pensiamo alla scuola che abbiamo fatto 40 anni fa. Era una scuola con tanti difetti, studiavamo "le guerre puniche tre volte", ma era già molto inclusiva, una delle scuola più inclusive al mondo, le classi differenziali erano state abolite, i ragazzi con disabilità erano integrati nelle classi e sostenuti da opportune figure di sostegno, e tutti eravamo sostanzialmente d'accordo che non solo riuscivano a integrarsi ma portavano alle classi qualcosa di più. Non era un modello perfetto ma era un modello per tutti i versi preferibile alle scuole differenziali.
Poi sono successe cose e molti non ne sono accorti, o hanno fatto finta di.
La cosa più importante è che sono arrivati molti bambini da famiglie di origine straniera che in casa non parlavano italiano. È stato un processo graduale ma rapido, e non uniforme ma a macchie di leopardo: per cui in certe zone no e in altre sì, in certi quartieri no e in altri sì. La scuola pubblica come ha reagito al problema? La scuola pubblica si è messa a cercare dappertutto risorse per l'alfabetizzazione, e un po' ne ha trovate, soprattutto presso gli enti locali che erano abbastanza vicini al problema da porselo anche loro. Al ministero invece no, non hanno proprio capito la cosa. L'importante era non creare classi differenziali perché le classi differenziali erano brutte, fine. Quando si faceva notare che una classe media col 50% di studenti ancora da alfabetizzare era, nei fatti, una classe differenziale, la risposta illuminata del ministero era: caliamo la quota, d'ora in poi non si possono fare più classi sopra il 20%, massimo 30%. Che è letteralmente proporre brioches a chi non ha il pane, una cosa che Maria Antonietta non ha mai fatto, ma Maria Stella Gelmini sì, e tutti i ministri successivi. Non ci hanno mai spiegato come restare in quota (fare più classi? Dove? Con chi? eliminare fisicamente gli alunni in eccesso? Produrne altri?): la mia scuola è in deroga da allora.
Il risultato di tutto ciò è che il ragazzo disabile che oggi entra in una classe, a volte non entra in una classe che può trarre giovamento nel rapportarsi con la sua diversità, ma in un circo di fenomeni che sono già diversi per i fatti loro. Non irrelatamente, nel frattempo è esploso il fenomeno dei Disagio Scolastico Certificato: ovvero una serie di disagi che possono (non necessariamente) essere certificati da uno specialista e che per quanto Galli della Loggia ne sia ormai convinto, non prevedono l'assistenza di un insegnante di sostegno (altrimenti ne avremmo ormai 4 per classe), ma un piano di studio personalizzato.
Quindi ora un insegnante, non dappertutto, soltanto in certe realtà, più facilmente urbane e settentrionali, si trova in una classe con 5-6 studenti che necessitano di un piano di studio personalizzato, 1-2 studenti disabili con sostegno e altri 5-6 studenti che non è che capiscano sempre quando parli in italiano. Tutto questo solo nella scuola pubblica, perché appena vai in una privata il problema scompare: non sono tenuti a ricevere quote di stranieri o disabili o disagiati. Il che significa che nel quartiere con la scuola privata il disagio si concentrerà ulteriormente nelle scuole pubbliche limitrofe, e se lo fai presente al ministro lui dice ok, diminuiamo la quota disagio, l'avete diminuita? No? Va bene allora diciamo che siete in deroga.
In mezzo a tutto questo un generale, ma potrebbe anche essere un capitano dei pompieri, un incantatore di serpenti, una pornocasalinga, si sveglia che è primavera e dice: servirebbero classi differenziali. E tutti a dire boooooh, ma come ti permetti, la scuola dell'inclusione, cosa direbbe Don Milani. Don Milani, che non brillava per diplomazia, temo che vi avrebbe mandato a cagare non più tardi del 2010. Gli unici a non booooohare sono guarda un po', i genitori, che la scuola la stanno vedendo un po' più da vicino e senza le lenti rosa della nostalgia. Tra loro anche i genitori di origine straniera che ci terrebbero al fatto che i loro ragazzi l'italiano lo imparassero un po', o al limite l'inglese, la matematica: ma in certe situazioni non è previsto, in certe situazioni è previsto che loro figlio fissi la parete per cinque ore senza nessun sostegno o nessuna risorsa per l'alfabetizzazione. Questa è la diversità che portano alla classe, questo è il prezzo che devono pagare per la vostra ipocrisia.
Le classi differenziali esistono già: sono le classi dei quartieri difficili. E a questo punto ci starebbe bene una di quelle formule da youtuber o telegrammista impazzito, del tipo: lo Stato non vuole farvelo sapere. Tranne che non è vero: lo Stato ci tiene molto a farcelo sapere; lo Stato che non ha fondi da devolvere nel recupero degli studenti in difficoltà, ne getta a pioggia in strumenti come l'Invalsi che servono semplicemente a ricordarci che esistono scuole di serie A, B e Zeta. L'insegnante curriculare deve essere educato a considerare gli alunni disagiati come un disturbo, un ostacolo insormontabile tra l'Eccellenza che dovrebbe perseguire e la realtà in cui dovrebbe sbrigarsi a cercare una professione meglio remunerata. Negli ultimi anni siamo riusciti a mettere insieme il peggio della cultura cattolica (una generale diffidenza verso la cultura e le iniziative individuali) col peggio del calvinismo (un culto dell'élite che si autovaluta e si trova sempre molto meritocratica). L'idea ancora non esplicitata, ma tra un po' ci arriveremo, è che la scuola non serve a formare, ma a separare chi ha talento da chi proprio non ce la deve fare e dev'essere scaricato il prima possibile. In mezzo a tutto questo, un tizio si presenta le elezioni e invece di proporre qualche altra sciocchezza come legalizzare la prostituzione (è già legale), si fa venire in mente l'idea delle classi differenziali: che esistono già. È più furbo degli altri, o è solo meno ipocrita? Non lo so, non ha nessuna importanza.
Potessi replicargli, gli chiederei semplicemente quali risorse ha intenzione di gettare sul piatto perché è l'unica cosa che mi interessa ormai, la vita mi ha reso cinico e venale: i soldi: intendi costruire scuole in più, aule in più, risorse per le classi differenziali? Docenti opportunamente formati, e come, e con che fondi? Dicci quanti soldi ci dai o stattene zitto finché non ti viene in mente una cifra, grazie.
Dante potrebbe offendervi, attenzione
26-01-2024, 03:17Dante, essere donna oggi, italianistica, scuolaPermalinkVorrei riflettere su un piano diverso: cosa porta persone non stupide, non incolte, scrittrici, laureate, a produrre un tipo di testo del genere, una specie di parodia in cui una serie di autori e personaggi di epoche molto lontane dalla nostra vengono fotografati nella situazione che possa apparire più scorretta a un lettore contemporaneo? E cosa porta centinaia di lettori altrettanto colti e sensibili ad apprezzare il testo? Potrebbe essere semplicemente una pagina divertente e scritta bene, ma credo che ci sia di più: è una di quelle pagine che prima o poi su internet qualcuno doveva scrivere, come se troppo forte fosse l'esigenza di certi lettori di leggerla. Che tipo di lettori?
Nel pezzo c'è una "doverosa precisazione" in cui spiegano che non vogliono assolutamente cancellare Dante o Ariosto – ci mancherebbe – ma promuovere "uno sforzo di consapevolezza": il che poi implica che questa consapevolezza sui manuali non ci sia, e che a scuola gli insegnanti non si sforzino in tal senso. Questa è una delle cose che mi ha fatto più arrabbiare (cioè secondo voi esorto i ragazzini a trattare le coetanee come le trattava Nastagio degli Onesti?), ma effettivamente se vado a controllare nei manuali per la scuola media, non è che trabocchino di avvertenze sul fatto che Dante e Ariosto vivessero in epoche diverse con morali molto diverse che potrebbero risultare offensive ai giovani lettori. Quel tipo di disclaimer che la Disney sta mettendo su certi vecchi film, ecco, nei libri di scuola ancora non ci sono, è come se li dessimo per scontati perché insomma, Disney+ è alla portata del telecomando di qualsiasi bambino, mentre Dante deve per forza passare attraverso la mediazione di un insegnante. Insomma tutto dipende dall'insegnante e non posso escludere che ne esistano di quelli che approfittano dell'episodio di Paolo e Francesca per esortare i giovani alla continenza. Voglio sperare che non siano in tanti. Forse alla fine avevo torto ad arrabbiarmi così tanto, perché a loro modo le autrici segnalavano un problema: manuali e insegnanti dovrebbero essere più attenti a fornire, per ogni autore, il contesto storico. E però.
E però non mi pare che le autrici stiano chiedendo questo tipo di contestualizzazione. Anzi il loro "sforzo di consapevolezza" va verso l'esatto opposto: personaggi e autori vengono strappati dai rispettivi contesti storici e trattati da contemporanei (altrimenti come faremmo a scandalizzarcene?): ci viene proposto di riconoscere in Orlando il Vasco Rossi di Colpa d'Alfredo, in Leopardi un incel.
Il mio fastidio forse nasce da qui: ho un problema con chi ostenta intolleranza per il passato, come se non fosse la terra più straniera di tutte. A Dante credo si debba lo stesso rispetto che dobbiamo all'indigeno dell'Amazzonia: non gli spieghiamo che i suoi usi e i suoi costumi sono sbagliati; anche quando ci ripugnano dobbiamo accettare che sono il risultato di un adattamento al suo ambiente, di una civiltà la cui complessità potrebbe sfuggirci. Se leggiamo Dante, tra le altre cose è per imparare cose su di lui e sul mondo in cui ha vissuto; un mondo interessante anche solo perché era diverso dal nostro. Di sicuro non leggiamo Dante per spiegargli che si sbaglia, e che avrebbe dovuto comportarsi come ci comportiamo noi. Né per sentirci migliori di lui. O lo facciamo?
Mettiamola così. È noto che da quando su internet siamo tutti diventati i promoter di noi stessi, l'esigenza di esibire le nostre virtù è cresciuta in modo geometrico. Dobbiamo tutti dimostrare di essere in grado di sconfiggere le ingiustizie, o almeno di segnalarle; e siccome non sempre la cronaca ci provvede di ingiustizie fresche di giornata (e comunque la gara a chi le segnala per primo è molto serrata) ripiegare sui libri di Storia diventa un'alternativa comoda e a costi irrisori. Praticamente tutto quello che è successo prima del 2018 è discutibile, qualsiasi manuale è già un libro nero dei crimini dell'uomo bianco. Razzismi, prevaricazioni, femminicidi a ogni pagina. Prima o poi qualcuno doveva denunciare il sessismo di Boccaccio o di Petrarca, era inevitabile: e infatti non è stato evitato. Ovviamente non per cancellarli, no. Per far discutere, questo sì. Creare un po' di attenzione – e chi sono io per giudicare, davvero.
Si tratta di una mossa facile, ma forse più pericolosa di quel che sembra, perché... ma lo avete capito chi c'è là fuori?
Ci sono gli studenti.
Quelli veri, quelli giovani. Voi siete woke per modo di dire: eravate svegli/sveglie anche venti anni fa. Siete andati tutti a scuola, e per quanto possa essere stato mediocre il vostro insegnante, difficilmente vi ha minacciato di andare all'inferno se commettevate adulterio perché l'Inferno dantesco lo prevedeva. Questa cosa che scrittori di epoche diverse risentano di sistemi di valori molto diversi, l'avete sempre saputa. Fingere all'improvviso di accorgersene, di dover denunciare le pagine più tossiche, può far nascere un'accesa discussione, che è il motivo per cui si scrivono le cose. Ma accendere una discussione del genere in un ambiente dove passano gli studenti, è come lanciare fuochi artificiali a un benzinaio. Voi non volete veramente cancellare Dante e Ariosto, ho capito. Magari gli volete ancora un po' di bene, a quei due. Volete solo provocare una conversazione. Ma là fuori non c'è gente che vuole conversare: c'è gente che vuole leggere meno, o leggere altre cose, più attuali, più facili. Loro Dante e Ariosto non li hanno ancora letti, e se c'è in giro una clausola per non leggerli più, perché non dovrebbero attaccarcisi?
E non perché siano giovinastri deficienti tutti droga play e netflix – o forse sì, ma la loro ansia cancellatoria ha ragioni molto più serie delle vostre. Tutti gli organismi viventi tendono a minimizzare gli sforzi, e gli studenti sono organismi molto viventi. Potrebbe essere uno dei motivi per cui negli ultimi anni la prima domanda che si fa un giovane lettore davanti a un testo non è più "cosa sta cercando di dirmi questo testo", ma "c'è qualcosa in questo testo che potrebbe offendere me? o qualche altra minoranza sensibile?" Perché se c'è qualcosa, anche solo una parola, il problema è finito: il testo si cancella e si passa ad altro. Io capisco ormai che la parola con la N non sia più presentabile, ma immaginate di leggere una pagina dell'Autobiografia di Malcolm X a una classe che sonnecchia, quand'ecco che echeggia la parola con la N e li vedi svegliarsi di botto, scandalizzati: ehi, ma cosa stiamo leggendo? In realtà niente, non hanno letto niente. Hanno sentito solo la parola N risuonare nel silenzio. Hanno antenne per queste cose, che non percepiscono ciò che noi percepiamo con gli altri cinque sensi. L'indignazione è il sesto senso: riescono a indignarsi per quel che c'è scritto su un libro senza neanche averlo aperto, a volte appena dopo averlo intravisto dalla vetrina della libreria, sono incredibili.
Non ditemi che un po' non li invidiate. Una certa cultura cancellatoria può anche nascere dall'ansia che i giovani provano di fronte allo scibile umano: quanti libri bisognerebbe leggere prima di capirci qualcosa, non possiamo cominciare a buttarne via un po'? (continua)
Un sostegno per Galli della Loggia
23-01-2024, 02:43giornalisti, scuolaPermalinkGli ultimi articoli che Ernesto Galli della Loggia sta mandando al Corriere, sulla scuola italiana e in particolare sulla questione dell'inclusione, sono davvero una fotografia spietata di uno dei principali problemi del sistema educativo nazionale.
Ovvero Ernesto Galli della Loggia.
È un grosso problema.
Che un personaggio così continui a scrivere pezzi su realtà che non conosce, inanellando strafalcioni; che il Corriere gliene pubblichi; che i lettori ne parlino come se si trattasse di cosa seria, ecco questo è un enorme problema culturale di cui non ci preoccupiamo abbastanza. Più in generale, un sistema educativo che produce tromboni del genere, che li alimenta, che li lascia prosperare appollaiati su qualche cattedra, a contatto con giovani studenti e ricercatori di cui immaginiamo l'imbarazzo; un sistema educativo che a un certo punto non riesce a dire no, dai Ernesto basta, non è la tua cosa, sei patetico, qualche anno fa hai scritto che volevi la pedana in mezzo alle aule, non conosci nemmeno la normativa di sicurezza, abbi pietà di noi, abbi pietà di te stesso.
In cosa stiamo sbagliando? Quali catene di errori didattici, pedagogici, di selezione del personale, hanno portato Ernesto Galli della Loggia a convincersi, e a convincere almeno la redazione del Corriere, di poter parlare di scuola con cognizione di causa? Siamo stati troppo inclusivi con uno che non ce la poteva fare, o non lo siamo stati abbastanza? Magari non siamo riusciti a orientarlo verso il percorso più confacente alle sue capacità, chi lo sa se in lui non covasse un valentissimo idraulico, o un fenomenale allevatore di capre nane tibetane. Non ce ne siamo accorti e ben ci sta, adesso ce lo troviamo a spiegare la scuola agli insegnanti. Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna, chi non sa insegnare fa i corsi di formazione agli insegnanti, chi non riesce a fare i corsi di formazione propone riforme scolastiche sul Corriere.
Ora penserete che esagero, ma è già da due articoli che parla di BES e non sa di cosa sta parlando. È convinto che sia "prevista per gli allievi con disabilità BES la presenza per un massimo di 18 ore settimanali – il monte ore di lavoro standard nella scuola – di un cosiddetto insegnante di sostegno". Peccato che i BES non siano disabili; e che la normativa non preveda che siano affiancati da insegnanti di sostegno. Galli della Loggia confonde disabili e BES, ha letto un libro ma forse lo ha letto in fretta, è convinto che al massimo chi ha un insegnante di sostegno lo possa avere per 18 ore e indovinate: neanche questo è vero. Dopodiché ce ne sarebbe da discutere, su come cerchiamo di includere i disabili, i DSA, e i BES; su tutti gli errori che abbiamo fatto e che faremo; ma finché ne parla Galli della Loggia è come se impallasse l'obiettivo con lo spettacolo della sua insipienza.
Questa capra nana tibetana si è persa un grande allevatore? |
Da altre parti fanno in un modo diverso, dice GdL – e ottengono risultati migliori in termini di inclusività? Non lo sa, del resto capirlo è difficile anche per gli specialisti. Se c'è tutta questa inclusione, borbotta, perché aumentano i casi di "body shaming"? Mah, se avessi mai studiato sociologia potresti ipotizzare che ciò accada per il solito motivo per cui quando si fa sensibilizzazione su un reato, aumentano le denunce relative a quel reato. Quando da bambino tentavano di strofinarmi i testicoli su un palo io non sapevo che si trattasse di molestie e non denunciavo nessuno. Oggi ci sono denunce, ma nessuno nella mia scuola prova a strofinarti su un palo, non sanno neanche come si fa: e appena ci provano, gli spieghi che ai vigili la cosa interessa e che potrebbero parlarne ai loro genitori, e la smettono. Secondo me si sta meglio oggi, poi per carità servirebbero statistiche serie, io non le trovo. In Francia spendono molto più per queste cose, e malgrado questo ogni tanto una banlieue va a fuoco. In Italia mi aspettavo che succedesse verso il 2000, credevo che patissimo il solito ritardo verso un Paese che percepisco come più civile e organizzato, ma a quanto pare no. Non abbiamo il problema delle pistole come negli USA e nemmeno un grandissimo problema di coltelli come in UK. Non mi azzarderei a dire che siamo meno razzisti e più inclusivi, ma non siamo per ora la peggiore scuola che può capitare a chi ha problemi sociali, educativi o linguistici.
Galli della Loggia è convinto che il sistema non funzioni – il che potrebbe anche essere vero, è la famosa storia dell'orologio rotto, e come purtroppo è ormai di prammatica si lamenta perché qualcuno gli sta dando del nazista. Sarà successo, su internet a cercare bene qualcuno che ti dia del nazista lo trovi sempre (io poi ho qualche riserva sull'opportunità di spianare Gaza, immaginate, ormai son Mengele redivivo). Ma la maggior parte dei commentatori gli stanno semplicemente facendo notare che rinunciare all'inclusività, che era uno dei fiori all'occhiello del sistema educativo nazionale, non può che essere un progetto reazionario. Com'è evidente anche solo dal fatto che un opinionista di area liberale scriva di questi problemi per quattro fitte colonne e non tocchi neanche di striscio l'aspetto economico – come se non avesse capito, alla fine, che è un problema di soldi. O davvero non l'ha capito? Non ci credo. Non posso credere ai liberali che non parlano di economia.
GdL nota che nella maggior parte dei casi l'insegnante di sostegno non ha "preparazione specifica" e non vede l'ora di accedere ad altre classi di concorso. Da ciò non si può che dedurre che la carriera dell'insegnante di sostegno è poco appetibile. E lo sarà finché non ci investiremo di più. Tutto qui. È veramente tutto qui. Magari non sei un nazista, ma almeno cerca di essere un liberale e scrivi: l'inclusività ha dei costi sociali che non ci vogliamo più permettere. Abbiamo altre priorità. Non da oggi, non da ieri. L'altro ieri, diciamo intorno al 2009, la scuola pubblica è stata macellata da un governo che doveva rastrellare fondi e che l'ha messa in ginocchio; e non si è più ripresa. La società che aveva espresso l'esigenza di una scuola inclusiva esiste ancora, anzi quell'esigenza la sente sempre di più; dislessia e discalculia vengono diagnosticate sempre più spesso, il che è un bene perché prima si rovinavano infanzie a casaccio; i ragazzi coi cognomi non italiani aumentano geometricamente e in certe realtà sono ormai la maggioranza; però i fondi per farla davvero, quella scuola inclusiva, quelli se li è bruciati Tremonti – e nessun governo successivo li ha recuperati.
La scuola ormai si sta mangiando da sola, sta divorando i suoi organi ancora sani per far funzionare altri organi che non sempre servono a molto (ad es. l'Invalsi, che spende milioni ogni anno per dirci cose che ci dice già l'Ocse-Pisa). Prima o poi si arriverà a un punto di non ritorno e viene il sospetto che Galli della Loggia serva a questo: a pungolare il pachiderma per vedere se è ancora vivo o se altre specie necrofaghe possono cominciare a spolparlo. La scuola pubblica è stata ferita a morte; ha continuato ad andare avanti, per inerzia o per tigna; ma ora? Non ce la fa, garrisce l'avvoltoio, non ce la può fare. Che qualcuno lo prenda come un accigliato segnale d'allarme è abbastanza buffo. No, è il segnale che i privatizzatori del settore educativo possono farsi avanti, spolpare il personale e le competenze, e lasciare gli scarti a qualcuno che se ne occuperà a bassissimo costo. I bianchi borghesi avranno una scuola più pulita, magari con gli armadietti americani e i laboratori finlandesi; i poveracci con la pelle scura si radicalizzeranno un po' più spesso come accade in altri Paesi che consideriamo più civili; i disabili e i problematici finiranno in qualche Cottolengo che riporterà al centro della vita sociale le istituzioni cattoliche. Amen.
I classici sono tossici?
22-01-2024, 01:18Dante, essere donna oggi, italianistica, scuolaPermalink(Premessa sul Post è comparsa una Storia tossica della letteratura italiana, che malgrado il titolo intrigante non è scritta da un tossico appassionato di letteratura italiana, e nemmeno è intossicante in sé. Si tratta invece di un atto di accusa contro la letteratura italiana per come la presenterebbero le antologie scolastiche, dove "il sessismo, i pregiudizi di genere, le vittimizzazioni secondarie" sarebbero "una costante". È una lettura molto avvilente per chi quelle antologie le ha lette davvero, alcune le ha amate, molte ne ha usate, insomma per chi a scuola ci lavora. Ma da che pulpito parlo? Ecco, qua sotto spiego da che pulpito; si vedrà che non è un granché).
Forse perché cresciuto in una casa dove libri ce n'erano, non tantissimi e non buonissimi, ma nemmeno così pochi, ho sin dall'inizio concepito la lettura come una sfida: i grandi non credono che io sia in grado di leggere 'sti tomazzi, io invece ci provo e (mica sempre) ci riesco. Con gli anni mi è rimasta questa tensione agonistica, per cui se devo scegliere cosa leggere, mediamente cerco ancora tomazzi che rappresentino una sfida, quelle robe che restano incomplete anche dopo duemila pagine, roba così. (Da giovane mi sono laureato in letteratura su un tizio che non sapeva letteralmente scrivere, per cui si arrangiava con le macchie d'inchiostro). Per contro gli scrittori viventi non mi dicono quasi mai molto: le rare volte in cui ci incoccio mi sale appunto quella tensione agonistica per cui una voce nel mio cervello comincia a dirmi: ah ma questo l'avrei scritto pure io (col terribile corollario: e perché non l'ho scritto?) e mi guasta un po' il piacere della lettura, ragion per cui preferisco continuare a leggere libri freak o non leggere proprio.
C'è il problema che nel frattempo mi sono trovato un posto nella scuola pubblica, di modo che il mio preciso mestiere sarebbe convincere i ragazzini a leggere: la mia missione, anche. Questo credo sia il mio più grande imbarazzo professionale: non il fatto che sono un disastro a compilare il registro o che ci metto secoli a correggere i compiti e millenni a consegnare i programmi; tutta questa disastrosità scompare di fronte al fatto che dovrei far leggere i miei studenti e mah, probabilmente sono la persona sbagliata per farlo.
C'è da dire che nulla è così cambiato rispetto a quando ero giovane io come la letteratura per ragazzi; negli anni Settanta/Ottanta c'erano classici consolidati che erano parte del paesaggio, Verne, Stevenson, Dickens, Twain, coi quali mi ero trovato abbastanza bene proprio perché li avevo affrontati presto con quella famosa tensione agonistica che diventava indispensabile quando si cercava di capire storie ambientate ancora nell'Ottocento senza ancora avere tanti strumenti culturali. E per quanto ogni tanto io ci provi, a suggerire libri così, mi rendo conto che tutto è troppo cambiato.
La letteratura per ragazzi è esplosa, dagli anni Novanta in poi; è il segmento di mercato più interessante e funziona in un modo tutto suo che faccio fatica a capire. Quel che ho capito è che il fatto stesso che la scuola sproni gli studenti a leggere ha prodotto un vero e proprio sottogenere di libri fatti apposta per essere consigliati dagli insegnanti. Ce n'è per tutti i gusti e per tutti i problemi: se vuoi parlare di bullismo c'è uno, dieci, centomila libri sul bullismo (a occhio ne vedo uno nuovo ogni volta che passo in libreria), se vuoi parlare di mafia c'è il libro che spiega ai giovani la mafia, la disabilità, la shoah, il terrorismo, la guerra in Ucraina, persino quell'altra guerra che Zuck preferirebbe non nominassi, ecc. Tutta roba che dovrei consigliare, e a volte lo faccio; purché non mi si chieda di leggerne. Non è il mio genere, ecco, ogni volta che sfoglio trovo tutto un po' troppo semplice, ma è semplice per me e ormai si è assodato che io sono il tipo di lettore sbagliato. In generale mi fido dei colleghi.
Ciò detto, ho notato che alla fine anche a me capita di discutere in classe di bullismo, di mafia, di disabilità, di terrorismo e di tutto il resto; e mi capita soprattutto nell'ora più strana della settimana, l'ora di letteratura. Un'ora che alle medie non è previsto che ci sia, alcuni colleghi legittimamente ne fanno a meno (altri invece ne fanno due o tre a settimana, sì, facciamo un po' quel che ci pare). È comunque prevista da tutti i manuali scolastici, che ormai la mettono in un volume a parte, e come molte cose previste dai manuali scolastici ha sorpassato quasi indenne tutte le riforme dal '68 in poi; nel primo anno c'è ancora la mitologia, Omero, Virgilio, i cicli carolingi e bretoni; dal secondo ci si cimenta con la storia della letteratura italiana senza risparmiarsi nemmeno Sao ke kelle terre; si legge un po' di Dante, avendo tempo pure Petrarca e un molto ripulito Boccaccio. Nel terzo anno si arriva ai giorni nostri passando dai Promessi Sposi – tutto questo con gran scorno dei colleghi delle superiori che continuano a ripeterci di lasciar perdere, non ne vale la pena, poi arrivano che odiano già Dante e i Promessi Sposi, vogliamo essere noi a far loro odiare Dante e i Promessi Sposi, sennò che ci stiamo a fare. Devo dire che li capisco; ogni tanto penso a mio padre che mollò l'Avviamento perché c'era un maestro che insisteva col latino e a Sozzigalli (MO), nel mentre che cominciava a ragionare col fratello di mettere su un'officina di autoriparazioni, mio padre non vedeva l'esigenza di perfezionare le declinazioni – a volte mi sembra di essere quel maestro, che perde tempo a far recitare Dante ad alunni che stanno riflettendo se valga la pena di mettere su un'analoga autofficina quando tornano in Pakistan. Non credo che l'insegnamento della letteratura sia indispensabile nella scuola secondaria di primo grado; anch'io ricordo di averne fatta pochissima e forse è il motivo per cui in seguito la letteratura italiana mi sembrò un terreno vergine e appassionante; l'unico motivo per cui insisto a farla è che sennò qualche genitore si lamenterebbe – no, aspetta, allora ci sono due motivi; il secondo motivo per cui insisto a farla è che è meglio insegnare una cosa che conosci che ti piace che altre cose che non conosci molto o che t'annoiano – no, aspetta, allora di motivi ce ne sono tre; il terzo motivo è che l'ora di letteratura è quella in cui alla fine riusciamo a parlare di qualsiasi cosa, compreso il problema del giorno.
Ovvero: c'è stato quel momento in cui si parlava dappertutto di violenza di genere, e non è che si potesse far finta di niente – anche perché dal ministero ci chiedevano il Minuto di Silenzio – e a quel punto probabilmente avrei dovuto cercare un brano nell'antologia che parlasse di violenza di genere, in quel modo semplice e piano in cui ne parlano tutti i testi di quell'antologia che mi fa morire di noia; e se non c'era (in effetti non ne ho trovato) avrei potuto cercare qualche brano in uno dei libri per ragazzi di adesso, e fotocopiarlo, senonché ci hanno chiuso la fotocopiatrice del plesso (giuro), per cui meglio di no. Mentre ci riflettevo, è arrivata l'ora di letteratura in cui di legge di Paolo e Francesca (cioè del femminicidio più famoso della letteratura italiana, e di un fatto di cronaca che aveva intrigato tutte le corti del Duecento) e così abbiamo avuto l'occasione di ragionare su quel verso tremendo, Amor che a nullo amato amar perdona, e sull'idea terribile che sottende: la pretesa che l'Amore del cuore eletto debba essere necessariamente contraccambiato; abbiamo riflettuto sul fatto che questa idea, che rifletteva il modo di sentire della sua generazione, Dante la mette in bocca a un'anima dannata che sta cercando inutilmente di alleviare la sua colpa, o di spostarla su qualcun altro, proprio come tu che appena ti faccio notare che non si lanciano le palline di gomma mi punti il dito sul compagno che te l'ha appena lanciata e fossi io Dante vi manderei anche voi due all'inferno assieme, abbracciati per l'eternità a lanciarvi quella pallina, e vediamo se la troviamo divertente.
Abbiamo parlato di possessività, abbiamo notato quanto Dante sia imbarazzato e sgomento durante l'episodio, perché l'altro colpevole su cui punta il dito Francesca è proprio la Letteratura, e Dante da giovane leggeva e scriveva precisamente le cose che hanno portato Francesca a conoscere i dubbiosi disiri; insomma come oggi si dà la colpa alla trap, nel Duecento si dava la colpa al Dolce Stilnovo e il primo ad ammettere che qualche colpa l'arte potrebbe avercela è proprio Dante Alighieri, Francesca è un rimorso che morsica al punto che non gli resta che svenire. E poi ovviamente abbiamo parlato di quanto ancora oggi sia forte questa idea della possessività – se io ti amo devi riamarmi, prima o poi lo farai – e di quanto alligni in noi stessi. Ma anche del fatto che oggi nessuno ti manderebbe all'inferno per un bacio o poco più, e che alla fine chi uccide 'per amore' Dante lo manda in un luogo assai più freddo e terribile dell'inferno (Caina attende chi a vita ci spense): ovvero, nel Trecento questo poeta aveva sulla questione idee più avanzate di quelle che avevamo fino a una generazione fa, quando a un marito che uccide per corna ancora si riconoscevano le attenuanti 'd'onore'.
Abbiamo parlato di tutto questo leggendo una ventina di versi di un poeta di sette secoli fa, la letteratura italiana ci consente questo. Dante, Boccaccio, Manzoni, Leopardi, sono autori che non mi stanco di rileggere in classe e ogni volta mi sembra di trovarci qualcosa di nuovo, mi sembra di trovare un parola interessante sul problema di cui stanno parlando tutti. Probabilmente è un'illusione scaturita dalla mia attitudine di lettore intensivo: leggo pochi testi, ma li leggo tanto e alla fine mi sembra di trovarci di tutto, una pareidolia culturale. Probabilmente qualsiasi testo abbastanza complesso è in grado di illuderci della stessa cosa; già con le Avventure di Pinocchio le possibilità sembrano infinite. E però ci sono anche altri libri che queste possibilità non ce le danno; ne ho visti in giro, non saprei definirli, ma ho la sensazione che molti di questi libri sia possibile trovarli negli scaffali della letteratura per ragazzi; libri che ti parlano in modo molto semplice di mafia, ma di mafia e basta; di guerra, ma solo di una guerra; di bullismo, ma come se fosse l'unico problema al mondo; di terrorismo, ma appena cambia il terrorismo non ti dicono più niente di utile, sono già da buttare via. Magari mi sbaglio, magari la mia diffidenza è basata soltanto sulla stanchezza... (continua)
Femminicidi ne avremo sempre
21-11-2023, 03:07delitti e cronaca, essere donna oggi, governo Meloni, scuolaPermalink
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– Dopo anni che parliamo di populismo, rinfacciandocelo a vicenda, proviamo a essere più precisi: usare i fatti di cronaca per imporre determinate priorità è populismo attivo (ad es.: vuoi imporre un inasprimento dei controlli e ti inventi un'emergenza rave). Lasciare viceversa che i fatti di cronaca dettino le priorità è populismo passivo. Il primo lo puoi fare se controlli i media, o se sei controllato dalla stessa proprietà che controlla gran parte dei media. Il secondo lo fai se ormai stai nell'angolino e l'unico modo per farti sentire fuori dal ghetto è combattere le battaglie che gli altri vogliano che tu combatta; ovviamente le perdi, o se le vinci, altri se ne prenderanno il merito (la Schlein chiede l'ora di educazione affettiva; aa Meloni ce la darà, ringrazieranno aa Meloni).
– I fatti di cronaca sono emergenze percepite. Un cane morsica un bambino e improvvisamente è emergenza cani mordaci. Non significa che non possa veramente esserci una recrudescenza di morsicamenti, ma è un'evenienza irrelata; i media semplicemente registrano che i bambini morsicati funzionano, e si mettono a cercare altre notizie simili. C'è un'emergenza femminicidio in Italia? Statisticamente si fa una certa fatica a dirlo. Quel che è sicuro è che a ogni femminicidio esplode un boato di reazioni che ci coinvolge tutti per diversi giorni, e questo ai media indubbiamente interessa. Si stringe ogni volta un'alleanza sempre meno precaria tra femminismo e cronaca nera; per un po' sembra che parlino degli stessi contenuti e con la stessa retorica.
– Capisco che nessun professionista della politica oggi possa ignorare i fatti di cronaca nera, e rifiutarsi di cavalcarne l'ondata quando arriva – anche perché l'alternativa sarebbe lasciarsi travolgerne. Credo ugualmente che la differenza tra populismo e politica sia la capacità di distinguere tra singoli fatti di cronaca ed emergenze sociali. Lo strumento che ci consente di percepire le emergenze è la statistica, e la statistica parte ovviamente dal conteggio dei singoli episodi. Ma per essere una buona statistica, deve raccoglierne tanti, il più possibile; mentre se lavora su campioni ridotti, rischia più facilmente di essere una statistica tendenziosa e cattiva. Se per assurdo riduciamo il campione a un singolo fatto, la statistica non ci dice più niente. Ovvero: il singolo fatto di cronaca ha un significato politico tendente allo zero. Di fronte al singolo fatto di cronaca, i politici dovrebbero alzare le mani come i fisici quantistici al cospetto di una singola particella.
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– I fatti di cronaca, quando sono tragici, possono ispirare arte e letteratura e colpirci con la stessa forza anche ad anni di distanza. Ma restano fatti di cronaca, episodi isolati in cui il caso gioca un ruolo importante. Se una farfalla non avesse battuto le ali quella sera Giulia Cecchettin forse non sarebbe uscita con l'ex, oggi sarebbe viva, noi non la conosceremmo, e la questione della violenza di genere sarebbe ugualmente grave. Possiamo non darci pace al pensiero, possiamo continuare a domandarci perché è successo quello che è successo, ma non lo sapremo mai, perché nessuno strumento può darci la risposta a un singolo perché. Possiamo senz'altro piangere, chi vuole può pregare. Ma dovremmo resistere all'impulso di fare politica in quel momento: formare un involucro di rispetto, di raccoglimento, che sospenda il dibattito, anche solo per quel paio di giorni necessario a evitare che il lutto dei famigliari diventi un video virale, che sui social si scateni la gara tra prefiche professioniste e aspiranti tali; che ideologi laici scoprano senza neanche accorgersene le proprietà purificatrici dell'esame di coscienza e propongano a tutti i maschi di confessare i peccati di pensiero o di omissione, che i professionisti della politica sentano la necessità di proporre soluzioni rapide e risolutive. Anche perché...
– Nel 90% dei casi queste soluzioni rapide e risolutive prevedono un intervento della scuola, l'unica entità del resto che si possa prestare a qualsiasi intervento a costo zero. Insomma cosa insegni tu oggi, geografia? matematica, storia dell'arte? Nessun problema, facciamo un consiglio di classe straordinario, scriviamo un "progetto" e tra una settimana comincerai con tutta la tua competenza e professionalità a spiegare ai ragazzi come non femminicidiare quando sei grande. Funzionerà senz'altro, perché "farà media", mica come le prove Invalsi. Ora, mi dispiace contraddire tra l'altro una delle artiste viventi che più ammiro al mondo, ma è una cazzata. L'educazione all'affettività la facciamo già, gli interventi con gli psicologi li facciamo già, possiamo farne di più, ma dare i voti su queste cose significa invitare i ragazzini a perfezionare eventuali atteggiamenti manipolatori. È davvero così difficile capire che i ragazzi, a scuola, tendono a restituire agli insegnanti quello che gli insegnanti si aspettano da loro? Se propongo loro di scrivere, ad esempio un racconto dell'orrore (dopo avergli mostrato una serie di strumenti per scriverli), essi cercheranno di scrivere il racconto dell'orrore che spaventi il loro insegnante. Se gli chiedo di farmi un tema su quanto è sbagliato picchiare le donne, loro ne scriveranno di bellissimi che mi commuoveranno. Questo significa che abbiano acquisito una maggiore maturità emotiva? No, significa semplicemente che hanno capito come si commuove un prof di mezza età con un po' di retorica, in questo caso femminista, poi magari scoppia una guerra e tutti a scrivere temi su quanto è bella la pace. Alcuni di loro magari ci prendono gusto e poi da grandi useranno le competenze acquisite per manipolare famigliari e amanti. L'educazione affettiva si fa in altri modi; non pretendo di conoscerli, ma credo che un passaggio fondamentale la scuola italiana lo abbia capito già tanti anni fa, ed è quello di mettere coetanei e coetanee di fianco, sugli stessi banchi. Questa coabitazione funziona meglio di centinaia di lezioni teoriche su quanto è sbagliato picchiare le ragazze; non a caso è uno degli aspetti della scuola pubblica che ogni tanto qualche riformatore vorrebbe superare perché in effetti, sì, le classi monosex da un punto di vista meramente formativo sono più efficienti.
– Ma se a scuola facciamo già tante cose, perché il numero dei femminicidi non cala? Beh, un po' cala. Sì, ma non abbastanza: ovvero, meno di quanto calano gli altri omicidi. L'emergenza sarebbe questa. Allora, io non so il perché. Ho qualche esperienza, ma non abbastanza da montare in cattedra. So quanto fosse facile, in passato, assumere atteggiamenti che oggi riteniamo abusanti e che quando ero giovane io (non tantissimo tempo fa) erano normalissime scenate di gelosia. Ricordo che a vent'anni la rottura di una relazione comportava una sofferenza che nessuno mi aveva educato a gestire, e che portava anche individui sostanzialmente inoffensivi come me a gesti di idiozia inconcepibile, cose per le quali proverò vergogna finché campo – ormai posso dirlo, visto che a trent'anni di distanza la vergogna non si è nemmeno dimezzata. Ma che a muovere i miei passi in quei momenti fosse il Patriarcato, ebbene no, non riesco a dirlo. Quel che mi schiantava era piuttosto che il Patriarcato non funzionasse più, che le ragazze si sentissero già in diritto di sganciarmi senza che io potessi far valere nessun argomento. Può darsi che il numero di femminicidi non si stia abbassando proprio perché c'è una lotta in corso. Sarà ancora molto lunga e non ho grandi idee su come combatterla; esami di coscienza collettivi non mi sembrano così efficaci; bei voti a chi scrive No Alla Violenza credo siano ancora meno efficaci. Dipende anche da cosa ci aspettiamo dalla vittoria: la riduzione a zero dei femminicidi? Non succederà mai, i fatti di cronaca ci saranno sempre e ci faranno piangere sempre. Di nessuno sospettate come di chi propone di eliminarli all'improvviso.
La macarena sulle vostre tombe
26-01-2023, 21:06cinema, film italiani bruttini, generazione di fenomeni, scuola, tvPermalinkVi vedo tutti immotivatamente entusiasti per un monologhetto sull'entusiasmo immotivato, un pezzo appiccicato alla benemeglio in un prodotto seriale per far contenta la guest star che se l'è scritto. Non c'entra niente con lo sviluppo della trama, è uno sbrego diegetico, è un attore che esce dal personaggio e ci intrattiene sui fatti suoi che secondo lui sono divertenti. Anche secondo voi sono divertenti – del resto sembra fatto apposta per essere trasformato in story e girare sui vostri smartofoni. È una variazione sul tema delle chat scolastiche, nel 2023, ci vuole coraggio, no? Non sono mica tutti pronti all'ironia contro un avversario potente come le chat scolastiche. È un pezzo che si crede Mattia Torre, come probabilmente capita a tanti cartocci nel cestino della writing room della Littizzetto. È un pezzo che se la prende con l'entusiasmo dei genitori che vogliono fare qualcosa per migliorare l'offerta educativa del loro istituto. Hanno tutti una passione (la batteria, la danza, il ciclismo) e vogliono comunicarla, con tanto entusiasmo, che secondo il regista (appollaiato su una terrazza che dà su Piazza del Popolo) è "il sentimento più orrendo dell'essere umano". Non l'odio, non l'intolleranza, non l'impulso dell'audista che ti sorpassa a destra sull'A1: no, per il regista italiano il sentimento più orrendo è la voglia di insegnare qualcosa ai propri piccoli, e già che ci siamo ai piccoli degli altri. Capace che poi crescono più socievoli, ciò è sbagliato! Il regista italiano nel 2023 vuole stare in un angolo imbronciato, perché in questo consiste la sua coolness, in sostanza il regista italiano è una Mercoledì cinquantenne che si crede Nanni Moretti, e voi siete entusiasti di questa cosa.
I genitori,per una volta che invece di lamentarsi dei compiti, dell'insegnante, del bullo o dell'insegnante bullo, provano a proporre cose, magari con un po' di ingenuità ma un minimo di buona volontà; i genitori che vedono i figli passare i pomeriggi senza staccare l'occhio dallo smartofono e la cosa li spaventa; i genitori si domandano se non c'è qualcosa di non scrollabile che potrebbe coinvolgere questi benedetti ragazzi; e invece di scrivere accorati appelli a Gramellini fanno un'assemblea con tante proposte, ognuno porta la sua cosa, a me sembra quasi commovente – ma al regista no.
I genitori sono anche preoccupati per il traffico, in una città così complicata come Roma il ciclismo è ancora una scelta difficile (gli audisti ti menano se provi a usare le ciclabili) ma presto o tardi ineludibile, bisogna preparare i ragazzi a un mondo che sarà per forza diverso dal nostro, ma il regista dal terrazzo su Piazza del Popolo tutto questo traffico mica lo vede, e poi lui al pomeriggio giocava per i fatti suoi ed è cresciuto bene, i suoi figli idem, e questo chiude la questione: tutto è già come dev'essere, anche questi smartofoni prima o poi passeranno. Di questo, siete entusiasti.
Se i vostri figli lo sapessero vi soffocherebbero nel sonno – ah, ma lo sanno, vi leggono sullo smartofono. La macarena verranno a ballare: sulle vostre tombe.
Invadiamo la Finlandia?
11-01-2023, 19:02scuolaPermalinkL'ennesimo articolo su quanto sia figace la scuola finlandese in cui invece di scaldare la stessa sedia il bambino finlandese ne scalda tre diverse al giorno e in mezzo è libero di esprimersi, correre, arrampicarsi sugli spigoli degli schedari, suicidarsi, l'ennesimo articolo, dicevo, è stata la goccia che ha travasato la mia pazienza e ora mi dichiaro vinto: è chiaro che la scuola finlandese è talmente superiore che non ha neanche senso pensare di ricopiarla. E allora?
Una modesta proposta: invadiamo la Finlandia, subito. Ovviamente in modo pacifico: tutti in gita scolastica immediatamente (tanto è spazio Schengen, ci metteranno un po' ad accorgersene). Entriamo con un primo contingente diciamo di cinque milioni di studenti italiani (nel senso che provengono dall'Italia, ma ovviamente anche arabofoni, pakistanofoni, sinofoni, xilofoni): ci iscriviamo tutti alle loro scuole immerse nel verde e pretendiamo di essere subito trattati come studenti finlandesi, nel puro spirito di Maastricht. Nel giro di un paio di settimane avremmo raddoppiato la popolazione di quel fortunato Paese, e forse saremo diventati tutti studenti e professori migliori. Oppure la Meravigliosa Scuola Finlandese sarà tornata quell'edificio banale in cui se parli senza alzare la mano può alzarsi un frustino. Oppure... potremmo trovare una media ragionevole tra i due sistemi, perché no?
(Qualche anno fa un giornale intervistò il sindaco di Helsinki, credo che fosse a Roma in vacanza. Gli chiesero un consiglio su come rendere Roma una città più vivibile, almeno per quanto riguarda il traffico. Lui magari dovette improvvisare, insomma scrissero che aveva proposto di allargare i marciapiedi. Helsinki fa seicentomila abitanti. Roma un po' di più. Questo non significa che non possa avere senso, in generale, allargare qualche marciapiede. Ma è ridicolo farselo dire dal sindaco di Helsinki).
La scuola italiana ha tanti problemi, e non c'è niente di male a volerne parlare. In questa grande discussione, il genitore finlandese deluso dalla proposta educativa siracusana non dovrebbe avere più voce in capitolo di te, di me, di chiunque altro. Se la sua storia fa notizia, se diventa la discussione del giorno, è per il modo in cui riesce a intercettare pubblici diversi. Alla stampa neoliberale – ma a loro non piace essere chiamati così, e allora in attesa di trovare una definizione che a loro piaccia possiamo chiamarli servi dei padroni, che ne dite? Non fosse che come padroni lasciano un po' a desiderare, diciamo padroncini, ecco: ai giornalisti che servono i padroncini, qualsiasi notizia che screditi la scuola pubblica italiana è una buona notizia. Se poi si riesce a evocare le scuole in mezzo alla taiga, tanto meglio: non perché si intenda finanziare la scuola pubblica italiana allo stesso modo in cui i contribuenti finlandesi finanziano la loro, capiamoci bene: quel che importa è far passare l'idea che esista uno standard europeo a cui la scuola pubblica italiana non potrà mai uniformarsi: e ben venga qualsiasi rilevazione internazionale o nazionale che sembri dire una cosa del genere (anche quando l'Invalsi non lo dice davvero, non importa: i padroncini vogliono leggerlo, i maggiordomi l'hanno già pronto nel cassetto). Più si insiste sul concetto che la scuola pubblica è roba da poveri, più si crea mercato per qualche scuola in qualche bosco privato: un business promettente che per qualche disgraziato motivo in Italia non è ancora decollato. Ma la direzione è quella, e tutti i modelli alternativi che vengono proposti (scuole steineriane, montessoriane, magari tra un po' anche scuole finlandesi) alla fine puntano in quella direzione: l'importante è che siano private. E se i genitori non le vogliono pagare tanto? Beh, chiederemo allo Stato i buoni scuola. Questo è il motivo per cui il genitore finlandese che si lamenta piace a Stampa, Repubblica, eccetera. Certo, se fossero soltanto loro a parlarne, non ce ne saremmo nemmeno più accorti.
Il lamento del genitore finlandese invece piace anche a una specie di sinistra – ho un po' di pudore a usare la parola – insomma un'area sedicente progressista che nell'ideale iperboreo di una scuola in mezzo al bosco vede un Altro Mondo Possibile. In fondo che male c'è a pensare a una scuola dove invece di ruotare gli insegnanti, ruotino gli studenti da una classe all'altra? Nessun male, è un'idea interessante, ma significa aumentare sensibilmente il numero di insegnanti per studente, insomma servono soldi e in certe scuole, non chiedetemi come lo so, non ce n'è più per pagare la carta. Non dico i supplenti brevi (abbiamo avuto molte assenze per malattia quest'anno, chissà perché): la carta. Chi continua a fantasticare di modelli finlandesi e scandinavi come di qualcosa di replicabile in Italia sobbolle in quel brodo culturale che rifiuta ogni attrito con gli aspetti quantitativi della realtà, per cui poi quando c'è un'epidemia ci si domanda cosa aspetta lo Stato o il Comune a raddoppiare gli autobus – ma perché non triplicarli, o fornire un taxi a ogni cittadino? Quando poi si va al governo, questo approccio si smorza completamente di fronte alla rude evidenza della ragioneria di Stato (quella davanti alla quale aa Meloni ha calato le penne e rialzato le accise): oppure, se sopravvive, produce mostruosità come i banchi a rotelle. Esatto: il massimo di Finlandia che poteva darvi un governo italiano è stato un acquisto massiccio di banchi a rotelle, che un loro senso innovativo ce l'avrebbero (peccato che calarono nelle scuole italiane proprio nel momento in cui ogni innovazione era resa impossibile dalla pandemia). Certo, bisognava anche cambiare la mentalità degli insegnanti: come? Corsi d'aggiornamento intensivi? Prepensionarli tutti e assumerne di giovani, magari direttamente dalla Fennoscandia? Chiedo, non so. Nel frattempo il governo der merito ci ha informato che siccome ci sarà un calo demografico, ci taglieranno un po' di risorse. Siamo sempre la stessa scuola pubblica che non si è mai rimessa dai tagli drastici della gestione Tremonti-Moratti, ormai vent'anni fa. Sinceramente non riesco a capire cosa si possa tagliare ancora senza che interi settori smettano di funzionare. Probabilmente, mentre lo dico, qualche settore sta smettendo di funzionare: una segreteria qua e là impazzisce, una scuola dell'infanzia perde l'unica professionalità rimasta, una classe non riesce più a permettersi l'intervento di un esperto o di uno psicologo, e così via. Stiamo morendo dissanguati e dobbiamo pure ascoltare le favole sulle scuole modello finlandesi.
Le scuole finlandesi non sono necessariamente un modello. Diversi anni fa si trovarono in cima a una graduatoria statistica, ma nel frattempo avevano deciso di sperimentare modelli diversi e da allora la loro posizione nelle stesse graduatorie è sempre scesa. Questo non significa che non si possa imparare qualcosa anche da loro, del resto appena possibile ci proviamo. Ma si tratta di un piccolo popolo (meno di cinque milioni di abitanti), in un grande territorio fuori dalle grandi rotte migratorie. Paragonare la loro scuola alla nostra implica paragonare la loro società alla nostra: paragonare la loro società alla nostra non ha molto senso, è un'operazione che denuncia da sola la propria artificiosità, come quando Pietro Ichino voleva portare in Italia la flexsecurity danese, e nessuno riusciva a chiedergli: ma perché di tanti posti proprio la Danimarca? È davvero un modello di successo? Nessuno lo sa davvero; ma il bello dell'Europa è che ci sono tanti Paesi, piccoli, grandi, è una specie di campionario di dati statistici dove puoi selezionare quelli che ti piacciono di più e ignorare tutti gli altri. Ad esempio, se vuoi convincere i lavoratori italiani che essere più licenziabili è un vantaggio, tu scarichi il foglio elettronico più grosso che c'è e incroci i dati finché non trovi l'economia più sviluppata con la licenziabilità più alta: vicino all'incrocio sta la Danimarca, ed ecco che la Danimarca diventa improvvisamente un modello di welfare state, perlomeno nei tre mesi che servono ad abolire l'articolo 18: poi improvvisamente a nessuno frega più nulla della Danimarca, dei suoi ammortizzatori sociali e della sua rigidità fiscale; credo nemmeno a Ichino. Il sistema educativo finlandese è rimasto coinvolto in un equivoco del genere. Chi c'è stato ne parla come di una cosa interessante, con luci e ombre.
Non si tratta comunque di qualcosa che si possa replicare nel settore pubblico italiano. Neanche se lo finanziassimo a dovere – e al contrario, lo stiamo dismettendo – neanche se la piantassimo di buttar via soldi per salvare squadre di calcio che continuano a perderne, piattaforme digitali per la promozione di contenuti artistici che basterebbe mettere su Raiplay o Youtube, presidi di militari che fingono di fare la guardia alle piazze imbracciando armi che non potrebbero usare – anche se usassimo quelle risorse per costruire scuole nuove e metterci dentro insegnanti migliori, non otterremmo la scuola finlandese. Neanche quella francese. Questo perché banalmente siamo una nazione meno ricca della Francia. I neolib – scusate, i maggiordomi dei padroni lo sanno benissimo: se insistono sulla Finlandia è solo per reclamizzare un modello privato che stenta a prendere piede. Tutti gli altri, per favore, dovrebbero smettere di credere alle favole e cominciare a dare un'occhiata ai numeri.
Alla fine è la solita storia del Ponte sullo Stretto – questa cosa banale per cui lo stretto di Messina è lungo tre km, e una tecnologia per fare una campata lunga 3 km ancora non esiste. Se lo dici, non sei un nemico dei siciliani o del progresso: sei semplicemente uno che conosce questa informazione. Non è che il ponte non lo costruiscono a causa del tuo scetticismo, il ponte non hanno la minima intenzione di farlo. Ne parlano un po', aspettano le reazioni degli scettici e poi si nascondono dicendo ecco, lo vedete? In Italia è impossibile cambiare le cose, per via di questa mentalità. No bimbi, in Italia è possibilissimo cambiare le cose. Serve però il contributo di tutti – a partire dai padroncini. Bisogna scegliere di investire risorse serie nel settore educativo, ovvero il contrario di quello che avete scelto di fare, perché avete scelto di farlo, negli ultimi trent'anni. Non servono discorsi – cioè alla fine possono servire anche i discorsi, e anche i modelli, e anche un po' di banale senso di inferiorità nei confronti dei popoli nordici. Tutto può servire, però la cosa che serve di più sono i soldi. Se davvero accettate di metterci i soldi, la scuola può cambiare, la società può cambiare. Persino lo Stretto, che pure per molti millenni continuerà a essere lungo 3 km, prima o poi potrà essere scavalcato da un ponte: se finanzi la ricerca. (Per favore non cominciate a dire che tra Copenaghen e la Svezia un ponte c'è già. Il Baltico è un mare molto meno profondo, queste cose si imparano a scuola).
Ichino e i suoi ascensori
10-10-2022, 01:33Cgil, la sinistra perde anche per questo motivo, scuolaPermalinkSe proprio dobbiamo fare un dibattito su cosa la sinistra sia (ancora?), tutto può tornarci utile, persino Pietro Ichino che non ha perso tempo a cominciare a spiegarci che cosa la sinistra sia e cosa la sinistra debba fare. Riassumo un intervento già piuttosto breve: la sinistra deve costruire "ascensori sociali", viene usata proprio questa espressione, che possano portare ai primi piani i "poveri", Ichino usa proprio questo termine: e uno degli ambiti in cui questi ascensori dovrebbero essere impiantati è ovviamente la scuola, che non lo fa a causa dell'opposizione dei sindacati.
La scuola ovviamente avrebbe bisogno di adeguati investimenti per trasformarsi in un'agenzia di ascensori, ma finché i sindacati si mettono così di traverso è impossibile e quindi niente, e la sinistra perde anche per questo motivo. Lo so che messa in questi termini sembra una presa in giro, ma leggete pure il pezzo di Ichino e ditemi se la mette giù più complicata di così. Non lo fa. E quindi insomma, viene voglia di rimanere al suo livello e chiedergli, prof. Ichino: ma perché proprio ascensori? Perché non aeroplani, treni, transatlantici sociali, perché l'unico mezzo di trasporto che riesce a individuare per le sue metafore è quello che può contenere meno persone in assoluto? Vede professore, la questione è tutta qui: lei accetterebbe di buon grado che qualche povero riuscisse a riscattarsi, ma uno alla volta, con calma, e integrandosi nella struttura che i ricchi hanno progettato. A sinistra abbiamo concezioni diverse: vogliamo migliorare le condizioni di vita di intere classi sociali; gli ascensori non ci fanno impazzire perché, banalmente, vogliamo salire tutti assieme e senza aspettare un turno all'infinito: se il palazzo non lo consente è un problema del palazzo, bisognerebbe progettarne un altro. Ci sbagliamo? Ci sbaglieremo anche, e lei ci lasci sbagliare. La fiaba dei rags-to-riches, l'Uno su Mille che Ce La Fa, ha prodotto anche ottima letteratura ma non è la nostra fiaba, non è la nostra letteratura: noi siamo i 999 apparentemente sconfitti, questo è il campo che ci siamo scelti – ma nella maggior parte dei casi non ce lo siamo nemmeno scelto, vi ci siamo trovati e basta. Perciò perché continuare a consumare il suo e il nostro tempo con queste lezioncine, e proprio adesso che dall'altra parte c'è così tanto spazio vuoto? Sul serio, Giorgia Meloni ha vinto le elezioni con un partito di cartapesta, un grumo di slogan identitari dietro ai quali non c'è quasi nulla: chissà che sogni inquieti da quella parte adesso che non c'è più nessun avversario da additare, chissà che silenzi imbarazzanti; magari se prova a mettersi a raccontare la fiaba degli ascensori l'ascolteranno, loro, senza alzare gli occhi al cielo: non vale la pena di provare? E diventerebbe almeno tutto un po' più chiaro: da una parte chi si "occupa dei poveri", come scrive lei tra virgolette, organizzando giochi a premi e altri strumenti di valutazione atti a selezionare i poveri più servizievoli e adatti ad accedere ai piani alti; dall'altra noialtri coi nostri problemi più terra-terra, l'inflazione, la speculazione, cose complesse che adesso non credo che potrei spiegarle.
Tra le varie cose che tirò fuori aa Meloni in campagna elettorale (ma ve la ricordate quant'era caciarona al tempo? che nostalgia, sembrano passati anni) a un certo punto spiegò che sognava di vivere in un Paese in cui non serviva la tessera della Cgil per insegnare a scuola. Questa cosa è riuscita a dire, in anni in cui gli insegnanti non hanno partecipato nemmeno a uno sciopero unitario per chiedere strumenti di ventilazione nelle classi in cui circolava il covid. Per cui insomma se il prof vuole continuare ad annunciare meravigliose riforme che potrebbero danimarchizzare la scuola italiana in pochi mesi, e a spiegare che se non sono state fatte è unicamente a causa dei sindacati retrogradi e cattivi – non proprio gli stessi sindacati che non riescono a far scioperare nemmeno i loro tesserati, diciamo una loro versione idealizzata, trasfigurata, una Spectre che boicotta ogni riforma senza nemmeno organizzare un corteo, con la pura catalizzazione dell'energia negativa di migliaia di insegnanti neghittosi – se il prof vuole raccontare quest'altra favoletta, pare proprio che un pubblico disposto a bersela ci sia. Ma è un pubblico di destra, come è sempre stato di destra il pregiudizio antisindacale. Poi certo, essere di destra non significa essere scemi, per cui non escludo che dopo un po' anche loro comincino a domandarsi come mai le Danimarche di Ichino non si realizzano mai, simili in questo a tutti i ponti sullo Stretto che in campagna elettorale sembrano sempre a un passo dall'essere costruiti e dopo il voto invece non se ne parla più. Vuoi vedere che anche lì sono i sindacati a opporsi, continuando a tenere la Sicilia a 3 Km dalla Calabria? laddove basterebbe che si avvicinasse appena un po'.
L'alieno dal pianeta segreteria
02-10-2022, 13:51dialoghi, scuolaPermalink"E quindi insomma è proprio grazie all'inclinazione del piano terrestre che..."
"Prof le suona il telefono".
"...Lo so".
"Non risponde?"
"Ok allora ragazzi in teoria un prof questo non dovrebbe neanche averlo acceso, ma capita che io sia un prof particolare, sono quello che deve rispondere quando quelli della Segreteria non... vabbe', insomma pronto".
Buongiorno, sono Gigi dalla Segreteria, disturbo?
"Un po' sì, sono in classe, cosa vuoi?"
Allora tu non mi conosci, io...
"Per favore, dimmi subito cosa vuoi".
Io sono quello nuovo che deve fare la tal cosa inviando una mail a tutti i docenti...
"Vuoi la mailing list di tutti i docenti?"
Aspetta un attimo, ti devo spiegare.
"Non c'è bisogno, e tu smettila di infilarti il righello nel naso".
Come?
"Scusa, dicevo a un alunno, sono in classe, dicevi? Vuoi la mailing list dei docenti?"
Il mio collega, che prima faceva questa tal cosa, mi ha detto che tu...
"Al di là del fatto che il tuo naso è troppo piccolo per quel righello, ma poi mi spieghi cosa te ne verrebbe di buono a infilarlo lì?"
Ma mi stai ascoltando?
"No, non ho tempo. Non ho tempo per conoscere la tua vicenda, come ti chiami, le tue aspirazioni, le tue aspettative, lo capisci che ho davanti venti bambini che in qualsiasi momento potrebbero ammazzarsi con la cancelleria, se c'è qualcosa che posso fare vorrei che me lo dicessi immediatamente, anzi vorrei che me l'avessi detto un minuto fa, quando ti ho fatto capire che mi disturbavi".
Che maleducato.
"Io maleducato certo, invece voi che dovete sempre raccontarmi la rava, la fava della rava, montarmi tutto questo storytelling come se io avessi il tempo per apprezzarlo, e salve tu non mi conosci ma mi chiamo tal dei tali come se mi cambiasse la vita sapere come ti chiami, e il mio collega in punto di pensione ti raccontò che dovevi chiamarmi al cellulare, e mi raccomando mai quando suona la campana e magari non sono ancora miracolosamente entrato in classe, no, no, sempre dopo dieci minuti, quando magari abbiamo finito le procedure dell'appello digitale e dell'appello cartaceo in caso di terremoto o altro cataclisma che rendesse inconsultabile l'appello digitale..."
Clic.
"...Quando finalmente esaurite tutte le procedure burocratiche e si può pensare di cominciare una lezione, ecco che arriva la telefonata dell'Alieno dal Pianeta Segreteria che non può dirti cosa vuole in tre secondi, no, noooo deve raccontarmi la sua vita perché è questo che rende interessanti le mie giornate, vero? Non le lezioni, non la didattica, ma i cazzi e i mazzi di voi alieni della segreteria".
"Prof?"
"Che c'è adesso".
"Ha detto una parolaccia".
"Hai capito male".
"Comunque può metter giù, il tizio ha già messo giù".
"Probabilmente mi sta mandando un vocale di cinque minuti".
"Prof ma davvero ci sono gli alieni in Segreteria?"
"Diciamo che c'è molto turnover, è una lunga storia".
"Ce la racconta?"
"No".
Questa è una frana, ministro
10-01-2022, 01:27epidemia 2020, scuolaPermalinkC'è qualcosa che non va in tante cose che sento e che leggo. Duemila presidi – sono tantissimi – hanno firmato un appello al governo per scongiurare l'apertura delle scuole durante un picco pandemico. Fanno notare quello che dovrebbe essere noto a tutti da tempo, ovvero che le scuole non sono sicure, che l'età media dei contagiati sta diminuendo e che è sempre più alto il rischio di focolai. Qualcuno obietta che non hanno voglia di lavorare, e vabbe'. Qualcuno si domanda perché non hanno messo le scuole in sicurezza. La prima risposta che mi sale spontanea è: con quali risorse? Se il governo non ci ha dato niente o poco più di niente, inutili banchi a rotelle e non un budget decente per coprire gli insegnanti assenti, cosa avrebbero dovuto fare i presidi? Una colletta? Ma non è la risposta giusta. Del resto neanche la domanda è quella giusta. L'unica domanda giusta, in questo momento, è: ma avete capito dove siamo?
Siamo qui
Non abbiamo mai avuto così tanti positivi – certo, non abbiamo neanche mai fatto così tanti tamponi, ma dal grafico sotto (per il quale ringrazio il buon Gaspar Torrero) si vede come anche negli ospedali la curva stia tornando esponenziale.
Siamo onesti: lo si poteva capire anche una settimana fa. Dieci giorni fa. Quindici. Perché il ministro credo che abbia detto questo: che se il contagio è aumentato durante le vacanze, significa che la scuola è sicura. No ministro, no, i contagi si misurano a quindici giorni, l'effetto delle vacanze di Natale al massimo comincia adesso. Ma è chiaro cosa significa una curva esponenziale? Dopo cinque ondate dovrebbe pure essere chiaro.
La curva esponenziale è una frana.
E mentre una frana ti sta per venire addosso, anche le obiezioni più sensate cominciano a suonare pretestuose – voglio dire, sì, senz'altro le scuole avrebbero potuto essere messe in sicurezza, senz'altro bisognava pensarci prima e meglio, indubbiamente, sì, ma, che senso ha discuterne adesso? Di sicuro non usciamo a ristrutturarle adesso. Adesso c'è una frana: l'unica cosa sensata sarebbe restare a casa. Se i tetti reggeranno, poi discuteremo di tutte le cose che si potevano fare per evitarla. Poi. Adesso è ridicolo.
Auguri di stagione
24-12-2021, 11:40epidemia 2020, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, scuolaPermalinkBuone feste a tutti! Non sono scomparso, sto abbastanza bene, mi sono ri-vaccinato e dopo 12 ore ero a posto, vaccinatevi tutti. Avrei persino tante cose da scrivere ma non riesco a metterle in fila – fino a ieri la priorità era mettere in fila nove insegnanti in nove classi per trenta ore a settimana, pescando tra quelli che non erano a casa malati o in quarantena o in coda per vaccinarsi.
Non credo di dover ripetere che le scuole non sono un ambiente sicuro, riguardo a un virus aereo: non lo erano l'anno scorso e senz'altro non lo sono diventate quest'anno, visto che non è stato speso un solo euro in più per renderle tali. In compenso da qualche parte tra Governo e Regioni si è stabilito che il vero pericolo per i nostri studenti è la Didattica a Distanza: non so spiegarmi altrimenti il mistero di classi intere che, messe in quarantena qualche giorno fa, sono state riammesse a scuola ieri, ultimo giorno prima delle vacanze: giusto il tempo di abbracciare i compagni nei corridoi e scambiarsi saluti e saliva. L'ultimo giorno, ripeto, con un terzo del personale ormai assente, in una fase in cui in qualsiasi altro mese la curva dei contagi ci avrebbe fatto chiudere da una settimana. A quanto pare salvare il Natale è una necessità sociale che viene molto prima di altre – il diritto alla salute, la butto lì.
Tanto più mi riesce difficile suonare sincero mentre auguro buone feste a tutti voi: anche quest'anno il Grinch è stato sconfitto, i giornali di destra ci hanno messo un po' a trovarlo ma alla fine sono riusciti a recuperare una direttiva della Commissione europea che consigliava di usare un linguaggio più inclusivo e sconsigliava di definire il nome di battesimo come "Christian Name", e tanto è bastato per rispolverare la minaccia del Presepe assediato dai senzadio. È tutto così rodato, ormai, così automatico, che anche quando provo a intervenire non mi sembra di interagire più con esseri umani: piuttosto giocattoli a molla. Facciamo che me ne sto col caldo buono e le quattro capriole di fumo, e ci risentiamo più in là.
(Ah, nel frattempo su Facebook ho messo in piedi quel torneo di canzoni dei Beatles, un'idea scema che mi ossessionava da tre anni: per chi vuole si trova qui).
Le guerre puniche del ministro Cingolani
27-11-2021, 02:58scuola, StoriaPermalinkCerte volte comincio a scrivere un pezzo poi mi viene il dubbio che magari l'ho scritto, boh, sette o quindici anni fa e non è l'ansia di ripetersi – una volta ogni quindici anni uno ne avrebbe anche il diritto – ma è la vertigine di trovarsi sempre nella stessa situazione. Quante volte un ministro si è messo a parlare di come avrebbe voluto cambiare la scuola, ma la scuola che aveva in mente era quella che aveva fatto lui mezzo secolo prima? Ecco, l'altro giorno il ministro per la transizione ecologica ha spiegato che i programmi scolastici sono vecchi, vecchi, gli studenti invece di imparare a fare i digital manager stanno ancora lì a imparare le guerre puniche quattro volte".
Questa illustrazione l'ho già usata nel 2011. |
Naturalmente se ora googlate "Cingolani guerre puniche" trovate tutto un levare di scudi e uno spiegare a Cingolani che la storia antica è importante, la cultura umanistica è fondamentale anche per fare il digital manager, l'utilità del latino-che-apre-la-mente, ecc. Non trovo però tra i primi risultati qualcuno che faccia notare una cosa più terra-terra, ovvero: Cingolani, ma come fa uno studente a studiare le guerre puniche quattro volte? I tuoi figli le hanno studiate quattro volte? Me ne duole, anche perché sono ben tre e si sa, quattro per tre fa dodici. Comunque. Io insegno alla scuola media da vent'anni e non ho mai avuto l'occasione di intrattenere i miei studenti sui ponti mobili e sulle imprese di Annibale, perché quando arrivai era appena stata adottata la riforma Moratti che prevedeva un ciclo unico tra scuola primaria (=elementare) e secondaria di primo grado (=media).
Dunque da più di vent'anni, ministro, le guerre puniche alle medie non si fanno. Si fanno – se i docenti ritengono valga la pena – in quinta elementare, così per curiosità sono andato a vedere quanto spazio tengono su un manuale di quinta elementare: una pagina. Ovviamente non si parla di Fabio Massimo il Temporeggiatore, né degli ozi di Capua, né di Delenda Carthago, del resto è una tendenza che notavo già quando facevo le elementari io (molto, molto prima della Moratti): alle elementari più che le guerre interessavano le civiltà, come si vestivano i romani (la toga, la palla), in che tipo di case abitavano, le domus le insulae eccetera: me lo ricordo perché io invece volevo proprio sapere come si erano ammazzati tutti quei romani e quei cartaginesi e dovevo recuperare le cose sull'Enciclopedia Conoscere che avevano in classe. La quale, bisogna dire, aveva illustrazioni pazzesche e spiegazioni piuttosto chiare, ancorché talvolta retrive e ehm, razziste. Del resto in quinta elementare io ho studiato persino la bomba atomica, che mi preoccupò molto. Invece adesso in quinta si arriva all'Impero Romano e le medie cominciano, triste coincidenza, proprio con la Caduta. Alla bomba si arriva, sempre piuttosto trafelati, tre anni dopo. Questo è il primo ciclo: il secondo si fa alle superiori e forse entro i sedici anni uno studente italiano fa effettivamente in tempo a sentir parlare di guerre puniche un paio di volte. Secondo Cingolani invece succede quattro volte, il che gli suggerisce che si potrebbe tagliare ulteriormente, di tutte le materie, proprio la mia. Che gli si può obiettare? Che a scuola in realtà non importa cosa si insegna, (le cosiddette nozioni), ma come lo si insegna (il metodo, la competenza), e che ripetere la stessa nozione due volte in cinque anni non ha veramente nulla di scandaloso, anche perché nel frattempo i ragazzi sono cresciuti e possono anzi devono approfondire? Cioè avete un'idea di quante volte studiando matematica si torna sul concetto di frazione? Ma ogni volta c'è un buon motivo per tornarci. Ma mi sembra di averlo scritto un altra volta cinque o dieci anni fa, ho le vertigini.
La tentazione stavolta è di rispondere come risponderà chiunque si porrà il problema tra cinque o sei anni: Eh? Guerre puniche cosa?
Questo lo misi in un pezzo del 2010 sull'argomento, si chiamava Addio agli antichi. Alla fine io se ho imparato qualcosa di Storia antica lo devo a Conoscere e ad Asterix. |
...Perché nel frattempo è successo questo: che tutto un bagaglio di nozioni che trovavamo inutili e diciamolo, un po' imperialiste, ma che usavamo tantissimo per veicolare un sacco di significati, abbiamo smesso di farle ripetere a macchinetta dagli studenti e il risultato è che ormai se ne interessa unicamente qualche nerd disposto a guardarsi documentari amatoriali su youtube: neanche tanti, perché all'Enciclopedia Conoscere Youtube gli pulisce ancora le scarpe, purtroppo. Perché la storia romana che fino alla generazione passata serviva ancora a fornirci figure di conversazione, personaggi esemplari, aneddoti memorabili, modi di dire – oggi è un paesaggio incomprensibile ai più. Lo stesso Cingolani tirando fuori "guerre puniche" sperava probabilmente di comunicare "argomento astruso e noioso", laddove se c'è qualcosa di avvincente e mai completamente inattuale nella storia della Repubblica Romana è proprio questa lunga faida tra due imperi coloniali che lottano per l'egemonia, l'Europa contro l'Africa, gli avventurieri con gli elefanti contro i temporeggiatori, e così via. Poi certo probabilmente adesso il mercato ha bisogno di digital manager, qualsiasi cosa significhi: e tra tre anni avrà bisogno di visual manager e di qualsiasi altra cosa. Se Annibale e Scipione hanno tenuto banco per più di duemila anni, forse avevano qualcosa da dirci di meno effimero. Forse. Ma comunque ormai stanno su due o tre pagine, meno di quelle che la mia antologia per la classe terza dedica a Steve Jobs. E però per Cingolani non basta, boh. Tagliare, tagliare, bisogna cancellare tutto, far spazio, salare le rovine, delenda schola, delenda.
Forse basta aspettare. Quanti ne abbiamo già sentiti come lui, in linea di massima più abbaiano meno mordono. Temporeggiamo.
Suo figlio non s'impegna, competenze
23-11-2021, 01:35dialoghi, scuolaPermalink"Senti, ma tu la didattica per le competenze..."
"Quando parlo coi genitori ogni cinque o sei parole infilo la parola "competenze"."
"Come sarebbe a..."
"Sì, suo figlio a volte si mette ancora le dita nel naso, ma COMPETENZE questo non disturba troppo la lezione se COMPETENZE lo teniamo nell'ultima fila".
"Ah ah".
"Non è una battuta".
"Ma insomma tu come insegni".
"Urlo in faccia alla gente le nozioni".
"Come sarebbe a..."
"IL PI GRECO È IL RAPPORTO TRA CIRCONFERENZA E DIAMETRO!"
"No, ma aspetta, non puoi..."
"IL PI GRECO È IL RAPPORTO TRA CIRCONFERENZA E DIAMETRO!"
"Siamo nel 2021 e tu..."
"IL PI GRECO È IL RAPPORTO TRA CIRCONFERENZA E DIAMETRO!"
"Ma la vuoi smettere? Sei fastid..."
"IL PI GRECO È IL RAPPORTO TRA CIRCONFERENZA E DIAMETRO!"
"HO CAPITO".
"COS'HAI CAPITO?"
"HO CAPITO CHE "IL PI GRECO È IL RAPPORTO TRA CIRCONFERENZA E DIAMETRO!"
"Questa è la tua competenza".
"Tu non hai capito niente della didattica".
"Tu hai capito cos'è il pi greco".
(È un racconto di fantasia, non credo che una buona didattica consista nell'urlare in faccia le nozioni; ovvero, magari quando ero giovane posso aver commesso questo errore, ma poi per fortuna mi sono messo in discussione, ho approfondito la questione per quanto mi era possibile, e già da qualche anno ho messo a punto una didattica che consiste nell'avvicinarmi allo studente da dietro mentre pensa ai fatti suoi, con passo felpato, e URLARGLI LE NOZIONI ALL'IMPROVVISO. E devo dire che funziona molto meglio, spargete la voce).
Driving Ms Mastrocola
14-11-2021, 11:56metafore, scuolaPermalinkRassomiglieremo la scuola pubblica a una vecchia automobile, diciamo un modello a benzina degli anni Novanta, che ci ha portato in infiniti luoghi ma a un certo punto senz'altro necessitava di essere cambiato, purtroppo fu il momento in cui ci trovavamo a corto di spiccioli, tanto che ci siamo venduti l'autoradio.
Non è una cosa di cui andiamo fieri; e però dopo aver constatato che la macchina continuava ad andare, ci è presa una strana euforia e ci siamo rivenduti anche la ruota di scorta (sì qualcuno ce l'ha comprata, forse aveva pietà di noi). Da lì in poi è stata una discesa verso l'abisso: qualcuno ci ha comprato il cric, il triangolo, la tuta catarifrangente, il disco orario. C'è gente che ha accettato in pegno i tergicristalli, c'è mercato anche per i finestrini retrovisori, e ciononostante l'auto funziona ancora, certo non è che facciamo benzina molto spesso, e il paraflu ce lo siamo bevuto. Un nostro conoscente conosce un tizio che ti valuta i sedili, ci stiamo pensando, nel frattempo si sono rotti un paio di fanali ma basta essere a casa prima del tramonto.
In mezzo a tutto questo, la Mastrocola chi è? Una passeggera, mettiamola così, una tizia che ha fatto un tratto di strada con noi e ha notato con disappunto che il riscaldamento non funziona – tante grazie, manca il lunotto posteriore, ma mica se n'è accorta. Dice che è tutta colpa di queste auto moderne, ricorda con affetto la Fiat 126 che le regalarono i genitori e che secondo lei era più performante. Noi non siamo nella situazione di darle torto, diciamo che siamo più preoccupati dal fatto che potrebbe fermarci una pattuglia e ci siamo fumati anche il libretto. Quindi la facciamo parlare, che altro possiamo fare? Ci fosse un autoradio alzeremmo il volume, ma non c'è più.
Tecnica della Scuola |
Corpo e anima all'Organizzazione
19-09-2021, 13:51autoreferenziali, epidemia 2020, scuolaPermalinkSettembre è sempre più duro e ormai mi manca anche il tempo di spiegare il perché – per fortuna che ho trovato questo sfogo anonimo su facebook in cui mi riconosco un poco:
"Come tutti gli stalinisti anch'io di formazione avrei dovuto fare tutt'altro, mi sentivo incline alla speculazione e forse all'insegnamento, invece i casi della vita mi hanno portato a occuparmi sempre più di organizzazione, cose per le quali (credo non ci sia bisogno di dirlo), non ho nessuna inclinazione e/o attitudine. È un po' il paradosso di alcuni dislessici che per imparare a scrivere devono fare una tale fatica di rielaborazione che poi diventano scrittori, io più banalmente non riuscivo a tenere un'agenda per cui ho dovuto imparare a usare i fogli elettronici e adesso eccomi qui a smacchinare con 'sti fogli tutto il tempo e un codice orrendo, perché per fare andare avanti le cose bisogna pure che qualcuno le organizzi, e organizzare è noioso e complicato"."(No, ok, se ci sei davvero dentro lo sai che a un certo punto diventa divertente, è il nostro piccolo segreto, ma anche se lo diciamo in giro non ci crede nessuno)".
"L'organizzazione è essenziale per far funzionare le cose. La gente non vuole sentirselo dire, ma le guerre si vincono con l'organizzazione, non con l'eroismo, con quello convinci soltanto i grulli ad arruolarsi che è comunque parte dell'organizzazione. E le rivoluzioni, quelle pure all'inizio sembrano 90% entusiasmo ma se non c'è nessuno a organizzare finisce come il Grande Balzo in Avanti, con la gente che muore di fame. L'organizzazione è una cosa sporca, devi continuamente nascondere polvere sotto un tappeto che si solleva sempre nel momento meno adatto".
"Essendomi venduto corpo e anima all'Organizzazione, io non riesco più a capire i discorsi assoluti. Sento dire: bisogna fare questo! E penso: ok, ma come? Questo con tutto, dalla meritocrazia all'obbligo vaccinale. Siccome sono abituato a pormi i problemi da un punto di vista organizzativo, a volte mi guarderai scrollare la testa e penserai che sto dicendo Non È Giusto, ma non è vero: sto solo pensando Non Si Può Fare. E mi fai un torto se pensi che io non abbia ideali anche nobili, il problema è che l'Organizzazione te li prende e te li sbatte contro questo muro chiamato realtà, da cui staccarli a volte diventa complicato. Ho visto gente, non potrei dirlo, ma ho visto gente entrare nel mio lavoro con l'idea di combattere per l'Uguaglianza e la Multiculturalità, e dopo un po' li ho visti diventare belve che si attaccano al telefono col centro territoriale e trattano per scambiare cinque bambini bengalesi contro tre pugliesi che neanche al mercato del bestiame, e vuoi sapere una cosa? Stanno ancora combattendo per l'uguaglianza e per la libertà, però lo fanno col telefono in mano, lo fanno con un budget preciso, non lo fanno più nel beato territorio delle idee ma nello schifoso mondo reale dove i soldi non si stampano a piacere, qualsiasi favore deve essere ricambiato con gli interessi e così via".
"L'Organizzazione è sporca. Se pensi di poterci saltare fuori pulito sei un illuso, c'è gente la fuori che soffre per scelte che hai fatto tu davanti a uno stupido foglio a quadretti, e le hai fatte per motivi che a volte nemmeno condividi, ma comunque dovrai dormirci la notte e domani si ricomincia, ma forse non è questa la cosa peggiore".
"La cosa peggiore è che devi rapportarti con persone che lavorano con te che l'Organizzazione nemmeno la vedono – non esiste. Non sentendosi portati, non si sono mai preoccupati di come funziona. Nessuno ha provato a spiegarglielo, dal momento che nessuno faceva affidamento su di loro per questa genere di faccende. Loro semplicemente vengono al lavoro ogni giorno come se fosse una cosa naturale, e non il complicato risultato di una serie di eventi che hanno permesso che loro potessero entrare alla data ora facendo un dato percorso per offrire quella data prestazione a un dato gruppo di utenti. Per loro i casi sono due: o tutto sta andando male, e allora la colpa sarà di Qualcun Altro che non ha fatto il suo dovere (un collega, anzi tutti, la segreteria, la direzione, il ministero, il governo, Bill Gates), o tutto sta andando diciamo in maniera passabile: ma in questo secondo caso non passa l'idea che le cose stiano funzionando perché c'è gente che si sbatte per organizzarle, noooo: tutto questo complicato congegno, il collega lo scambia per un dato di natura. E ne deduce che non c'è tutto questo bisogno di organizzarsi, che bisogna Lasciar Fare, lasciar spazio all'iniziativa del singolo, perché tutto in natura si regola nel migliore dei mondi possibili. Appena qualcuno gli dice guarda che devi spostarti un attimo qui perché dobbiamo far passare questa cosa, il tizio reagisce come se qualcuno volesse scacciarlo dal giardino dell'Eden. Come osano? Cos'è che stanno organizzando? Ma cos'è tutta questa mania di organizzare? Io non organizzo niente e sto bene, siete voi con la vostra mania di organizzare ad aver fatto del mondo una valle di lacrime".
"Questa gente ormai è così, non è puoi ridarla indietro in cambio di modelli funzionanti: ci devi lavorare, li devi mettere in posti dove possano svolgere la loro mansione (a volte in modo brillante), devi ungerli oliarli e montarli nella macchina come se funzionassero anche se sai che ogni tanto gripperà e qualcuno darà la colpa a te. Hai voluto la bicicletta? No, in realtà non l'hai mai voluta, ma moto da cross non te ne ha mai offerte nessuno, quindi pedali".
Perché perdiamo tempo con l'Invalsi, nel 2021?
19-07-2021, 13:14epidemia 2020, scuolaPermalinkChe anno è, che giorno è? È il momento di discutere dei risultati Invalsi, come se fossero una cosa seria. Malgrado l'interruzione dell'anno scorso, la liturgia ormai si è consolidata: a metà luglio, quando ormai la scuola è un ricordo lontano, l'Invalsi si fa vivo e pubblica quelli che chiama "i risultati", e che in realtà poi non dicono un granché. Il momento è cruciale: se c'è un torneo internazionale di calcio, è appena finito; un'eventuale Olimpiade non sarà ancora cominciata. Sui giornali insomma potrebbe esserci un po' di spazio da riempire: peccato che i "risultati" Invalsi siano mortalmente noiosi: le primarie tengono, nelle secondarie inglese è stabile e matematica e italiano sono un po' in calo... non c'è sugo, non c'è spezia, per cui si fa intervenire il titolista apocalittico, quello che di mestiere, quando il meteo dice che piove, titola SENTENZA FINALE, SPAVENTOSA BOMBA D'ACQUA.
Tu dici: vabbe', esagera. La tale Testata Prestigiosa ci informa che "Crollano le competenze degli studenti" – il che in sostanza significherebbe che non solo non hanno imparato niente, ma non sanno nemmeno più fare quel che sapevano fare un paio d'anni fa. (L'Invalsi però è un banale test a scelta perlopiù multipla: che sia uno strumento efficace per certificare le cosiddette competenze è discusso e discutibile). Il collega di un'Altra Testata Prestigiosa ci terrorizza: "Alla Maturità competenze da Terza Media". Per fortuna questa spaventosa lacuna per cui cinque anni di istruzione superiore sarebbero spariti nel nulla non risulta dai dati Invalsi: è solo un titolo acchiappaclic, ma è anche l'unica cosa che la maggior parte dei lettori leggerà. Dai titoli partiranno poi per tutta una serie di osservazioni sulla scuola, sulle sue criticità, ecc. – anche in buona fede, vedo commentatori già pronti a spiegare perché secondo loro la scuola sta funzionando male, cosa bisogna fare per intervenire. Sono discorsi in parte condivisibili, ma io vorrei fermarmi un po' più a monte.
Non voglio discutere dell'Invalsi come insegnante, stavolta. Non voglio discutere dell'Invalsi come l'esperto di didattica che tra l'altro non sono. Rivendico un punto di vista molto più limitato, ma a fuoco: voglio parlare delle prove Invalsi da tecnico di laboratorio, visto che è quello che faccio nella mia scuola media da quando le prove sono diventate computer based. E da tecnico di laboratorio dico: non è il momento di discutere dei risultati Invalsi come di una cosa seria.
Nel documento c'è scritto, in un italiano teoricamente comprensibile anche ai giornalisti, che il 44% non raggiunge "risultati adeguati, ossia non in linea con quanto stabilito dalle Indicazioni nazionali". Non significa che non hanno "conoscenza minima italiano". https://t.co/RXXmmWuhkw
— Leonardo Blogspot (@LeonardoBlog) July 16, 2021
Non discuto la bontà dei test, la didattica che sottendono, eccetera. Non discuto la professionalità degli esperti che li hanno messi a punto, o la serietà dei miei colleghi che li hanno somministrati. Per far funzionare una somministrazione non bastano gli esperti, i pedagoghi e gli insegnanti. La somministrazione funziona se gli studenti decidono di farla seriamente, e non credo che sia successo.
Parto dalla mia esperienza (ovviamente limitata, ma diversamente da tutti i commentatori io i test li ho visti fare): le prove Invalsi richiedono massimo 90 minuti. I miei studenti consegnavano mediamente dopo 60, molto prima del solito. O erano tutti geni, o le prove erano troppo facili, o non avevano nessun interesse a farla bene. Vi è mai capitato di fare un questionario al computer? Magari quando iniziate siete curiosi, poi vedete che è un po' più difficile di quel che sembrava, pensate che tutto sommato avete di meglio da fare, e scrollate avanti. La mia supposizione è che molti studenti abbiano fatto la stessa cosa. Non credo che le prove Invalsi di quest'anno vadano prese sul serio, perché i ragazzi che dovevano farle non le hanno prese sul serio.
E perché mai avrebbero dovuto farlo? Tornavano tutti da un lockdown, chi di un mese (elementari e medie) chi di tre mesi o più (superiori). Avevano appena ricominciato a interagire dal vivo coi compagni e con gli insegnanti – certo, in aule distanziate, senza scaffali per tenere i banchi a dieci cm di distanza in più; senza laboratori; senza intervallo in aree comuni: però ce l'avevano fatta, erano tornati a scuola. A questo punto arriva il tecnico e spiega che bisogna recarsi tutti nell'aula computer per quel famoso test a crocette che comunque, nessuno si preoccupi, non influisce in nessun modo sulla loro valutazione finale. I ragazzi sbuffano e vanno. Magari alla spicciolata, perché anche lo spazio in laboratorio è contingentato. Un laboratorio che contiene 30 computer probabilmente può farne lavorare soltanto 15, per garantire il distanziamento. Quindi bisogna fare i turni. Quindi dopo mesi di didattica a distanza una volta tornati a scuola bisogna interrompere il lavoro di classe per andare un po' alla volta in un laboratorio a fare un noioso test a crocette che dal loro punto di vista non ha la minima importanza.
Sì, proprio in quel laboratorio in cui abbiamo smesso di portare i ragazzi dall'anno scorso perché bisognava in tutti i modi mantenere il distanziamento, mantenere la bolla, evitare che i droplet della terza A fossero inalati dai ragazzi della terza C. È il motivo per cui i ragazzi non fanno più l'intervallo tutti assieme nei corridoi, e ciononostante (e malgrado il ministero spergiurasse che le scuole erano sicure) abbiamo dovuto comunque chiudere in marzo e a Pasqua abbiamo portato i ragazzi delle terze medie e delle quinte superiori in laboratorio per fare un noioso test a crocette. Ora: è così strano che l'abbiano fatto in fretta, rispondendo sbrigativamente alle domande che sembravano più facili e scrollando quelle che non capivano al volo? In tutta sincerità: al loro posto avreste fatto diversamente? Vi ricordo che la prova Invalsi non fa più media, i ragazzi sanno perfettamente che non saranno valutati per le risposte che danno. A volte sentono dire che saranno i loro insegnanti a essere valutati, e la scuola nel suo insieme: ecco, provate un attimo a figurarvi la cosa. Voi al loro posto vi sareste attardati su un computer forse non del tutto disinfettato, a compilare coscienziosamente un test per far fare bella figura ai vostri insegnanti? Chi ha immaginato una situazione di questo tipo sarà anche esperto di didattica, ma non di preadolescenti e adolescenti. O più facilmente la sua priorità non era ottenere buoni risultati. L'unico motivo per somministrare le prove Invalsi in un anno disastrato come questo era ottenere cattivi risultati. La cosa incredibile è che tutto sommato i risultati non sono nemmeno così cattivi. Prevedibili, ma non così pessimi.
La scuola ha dei problemi? Altroché se ne ha. L'Invalsi ce li mostra? L'Invalsi è un dito che mostra la luna. Ma la mostra davvero? Sta puntando davvero verso la luna o semplicemente la luna è l'unica cosa interessante che si trovi vagamente sulla traiettoria? E inoltre: quanto costa quel dito? Siccome non fa che indicare quello che indicano tutti, siccome non ha mai cambiato posizione in tanti anni, vale ancora la pena di mantenerlo? Mi pongo questo tipo di problemi perché io quel dito l'ho sorretto sin dall'inizio, non con le mie idee ma col mio lavoro. Da quando c'è l'Invalsi, io a scuola ho somministrato l'Invalsi. Quando qualche mese fa i miei dirigenti mi confermarono che le prove si sarebbero fatte, ero piuttosto incredulo. La scuola dell'obbligo era appena entrata nel suo secondo lockdown, che sarebbe durato più o meno un mese. In quel momento non sapevamo nemmeno se avremmo finito l'anno in presenza, e ciononostante il Ministero ci chiedeva di predisporre i laboratori informatici per la somministrazione della prova. Bisognava assolutamente capire se i ragazzi ne sapessero più o meno di quelli degli anni scorsi.
Ma bisognava davvero? Cioè, dopo un quadrimestre di DAD completamente improvvisata; dopo un altro quadrimestre in presenza in classi distanziate, con continui stop and go imposti ogni volta che in una classe scoppiava un focolaio, c'era davvero tutta questa esigenza di scoprire se i ragazzi avessero imparato più o meno? Non era una domanda retorica? Voglio dire, potevate chiederlo a me. Ve l'avrei detto io. Gratis? No, gratis no, ma sarei costato senz'altro un po' meno. Oppure potevate chiedere a chiunque. Lo sappiamo tutti che la scuola non ha funzionato al meglio nel 2020-21 – come qualsiasi altra cosa del resto.
Invece abbiamo sentito l'esigenza di formulare questa domanda retorica a due milioni di studenti. Non sarebbe bastata, per una volta, un'indagine a campione? In tante scuole d'Italia, questo era complicato anche prima del Covid e delle procedure di distanziamento. Tre prove da 90 minuti sono 270 minuti per studente – se lo studente dovesse farli tutti assieme, ma ovviamente non è così: ogni 90 bisogna dargli il cambio, e questo significa altri minuti preziosi per aerare e igienizzare la postazione (per quanto si possa sanificare una tastiera, l'oggetto forse meno igienizzabile inventato dall'uomo). Comunque fingiamo che tutto si possa fare in 10 minuti, diciamo che ogni Invalsi ruba allo studente 300 preziosi minuti di presenza (senza restituirgli niente: le prove Invalsi servono un po' al ministero, un po' ai giornalisti, ma a lui a che servono? era meglio stare in classe a studiare l'assonometria cavaliera). Se una scuola media ha otto terze, e a ogni terza servono 300 minuti, abbiamo 40 ore da gestire: 40 ore in cui è previsto che l'insegnante sia coadiuvato da un assistente, qualcuno che in teoria la scuola paga: le prove Invalsi costano. Sempre che esista quel famoso laboratorio con 25-28 postazioni cablate e funzionanti. Magari nel 2019 esisteva, ma ora c'è il distanziamento, ricordate? Non è che si possa espandere la cubatura del laboratorio. Si potrebbe fare un altro laboratorio (altri soldi), o più facilmente raddoppiare i turni, per cui le 40 ore diventano 80. Questo è successo alle medie e alle superiori: alle primarie, dove la prova è ancora cartacea, i risultati sono stati migliori. Questo ovviamente può significare che le primarie funzionano meglio. Perlomeno sulla brochure dell'Invalsi c'è scritto così. Oppure che i bambini delle primarie davanti a un fascicolo cartaceo hanno più motivazioni a fare bene che i preadolescenti davanti a un computer – preadolescenti plasmati da anni di videogioco domestico, per cui se sbagli puoi sempre ricominciare e fare meglio.
(A volte davvero alla fine della prova ti chiedono se potrebbero ripeterla ed è un piccolo choc per loro scoprire che no, per la prima volta della vita non si può imparare dai propri errori. Che tra l'altro sarebbe l'unica cosa didatticamente interessante, per loro).
Che anno è, che giorno è? Nessuno in particolare. Le prove Invalsi non ci dicono niente che non sapessimo già. Come al solito sono in linea con le rilevazioni Ocse-Pisa. Le scuole delle regioni più ricche funzionano meglio delle scuole delle regioni più povere, chi l'avrebbe detto. Per farci dire quel che sappiamo benissimo, abbiamo disturbato due milioni di studenti che erano appena tornati in classe. Li abbiamo portati in un laboratorio benché fino al giorno prima sostenessimo che il laboratorio fosse un luogo a rischio. Non abbiamo fornito loro nessuna motivazione particolare: dovevano soltanto finire quei maledetti test. Li hanno finiti al volo, sono tornati in classe, e ora i giornali possono dire che le scuole italiane fanno schifo e la DaD non funziona.
Perché prima non potevano?
Beh, in luglio è più difficile, le scuole sono chiuse, manca un gancio con l'attualità. Insomma non ci dirà mai niente di interessante o nuovo, ma almeno questo gancio ai giornalisti l'Invalsi ogni anno lo offre. E probabilmente è tutto: anche perché io in tanti anni tutti questi interventi mirati per risolvere le criticità individuate dall'Invalsi sinceramente non li ho visti. Ecco perché abbiamo organizzato 80 ore di laboratorio in aprile, sottraendoli alla didattica, e io mi sono pure preso un virus (per fortuna non era il Covid): per sentirmi dire anche in luglio che faccio schifo, che è tutto da rifare. Grazie, e arrivederci al prossimo anno.
Dovrà morire un po' di gente, e lo sappiamo
13-07-2021, 02:30epidemia 2020, scuolaPermalinkOra sappiamo tutti quello che sta per succedere; i contagi dopo mesi hanno smesso di calare – che è un altro modo per dire che hanno ricominciato ad aumentare. Ormai lo sappiamo che va così, e un'altra cosa che sappiamo è che ogni volta che aumentano, lo fanno con una curva esponenziale. Quindi per un po' sembreranno numeri irrisori, e ci ostineremo a obiettare che aumentano soltanto i contagi, non le vittime. Questo di solito funziona per quindici giorni: sarebbe bello che stavolta andasse diversamente, ma dopo quindici giorni di solito riparte anche la curva delle vittime. E di lì a poco quella dei contagi comincia a schizzare, perché le curve esponenziali – ormai lo sappiamo – funzionano così. L'anno scorso è successa la stessa cosa, con la sensibile differenza che era fine agosto. Stavolta non è nemmeno metà luglio, abbiamo appena festeggiato una vittoria sportiva e organizzato le vacanze al mare. Reintrodurre misure preventive anticovid all'improvviso non è praticabile: c'è il rischio che molti semplicemente non le accettino. Non è nemmeno un rischio: molti hanno già smesso di accettarle, da settimane o da mesi. Il relativo successo della campagna vaccinale ci ha in un qualche modo convinti di essere fuori pericolo. Le varianti non ci spaventano ancora: per forza, non ci hanno ancora messi in ginocchio. Ormai lo sappiamo come va, no? Non possiamo convincere la gente a stare in casa, a rinunciare alle vacanze, come se tutti gli sforzi reali e apparenti di questo anno e mezzo non fossero serviti a niente. Dobbiamo aspettare. Che cosa?
Che le varianti ci mettano in ginocchio.
Allora sì. Quando la gente comincerà a morire un po', si potrà riprendere il discorso. Lo ha capito bene Boris Johnson, senz'altro non il governante più illuminato, ma comunque l'esponente di un governo che le ha provate tutte, e dopo qualche molti errori qualche cosa l'ha azzeccata, e che tra una settimana riaprirà tutto, perché? Perché deve morire un po' più gente, lo ha persino ammesso. Può sembrare mostruoso ma probabilmente faremo la stessa cosa, con qualche settimana di ritardo e qualche ipocrisia in più. Prima apriamo tutto, prima la gente comincia a morire, prima scatta l'allarme sociale e le rinunce collettive tornano a essere accettabili. A occhio questo accadrà a settembre, e le scuole saranno di nuovo l'argomento della contesa. Si scoprirà che non sono stati previsti spazi in più, e addirittura l'organico è stato diminuito; però se vogliamo dirla tutta, a scuola l'abbiamo sempre saputo che il Covid non ci avrebbe lasciato. Le norme sul distanziamento sono rimaste quelle dell'anno scorso, e come l'anno scorso risulteranno probabilmente insufficienti. Ma il solo fatto che non si sia mai discusso se ritirarle o no la dice lunga: nessuno al ministero si è mai illuso su cosa sarebbe successo nel settembre del 2021. Servono morti da gettare sul tavolo delle trattative. Se fossero anche un po' più giovani del solito – ci dispiacerebbe, ovviamente – ma forse sarebbe un modo per accelerare.
Poteva andare diversamente? E chi lo sa. Se fossimo stati tutti un po' più consapevoli e tranquilli – e se la nazionale di calcio si fosse fatta eliminare subito... Certo, mi dico, dopo un anno cosa si può pretendere dalla gente? Poteva andare peggio, in altri posti è andata peggio. In teoria prevenire costerebbe meno che curare; in teoria. In pratica non si può prevenire qualsiasi cosa, chi ci prova non fa che estendere la follia del genitore che vorrebbe evitare al figlio qualsiasi dolore. È giusto che il figlio evada dalla prigione dorata: è giusto che sperimenti la malattia e il dolore. In una certa percentuale pare sia giusto che muoia. Io individualmente non sono d'accordo, ma non conto niente e sarei contento più del solito di sbagliarmi. Nel caso, festeggerò con voi a settembre.
I ragazzi sanno fare solo quello
26-04-2021, 22:48computer, ragazzini, scuolaPermalinkRiguardo ai computer, i ragazzi non è che ne sappiano più molto. Per esempio, non sanno spegnerli. Certo, bisogna ammettere che negli ultimi anni è diventato più difficile. Però, ecco, adesso non sanno neanche accenderli.
Sto somministrando le prove Invalsi e ogni anno noto che è peggio. Ormai non sanno neanche prendere in mano il mouse. C'è una sola cosa che sanno fare. Gli dici: vai su Start. "Cos'è Start?", "Posso chiedere a Cortana?" Riguardo ai computer, i ragazzi non è che ne sappiano molto.
Gli dici: apri il browser. Ovvero, il navigatore. "Eh?" Insomma, vai su Chrome. "Eh?". Riguardo ai computer, i ragazzi non è che ne sappiano parecchio. Una volta sapevano spegnerli, poi in effetti hanno smesso di spegnerli e così adesso non sanno neanche più accenderli. "Cioè devo premere un tasto qui sotto?" L'idea di dover premere un tasto fisico li sgomenta, hanno paura di rompere qualcosa. C'è una sola cosa che sanno fare.
"Non funziona".
"Hai premuto il tasto On?"
"Credo di sì".
"Credi?"
"Dev'essere questo qui".
"E non si è accesa nessuna lucina?"
"Nessuna".
"Ma non è che sarà staccata la spina?"
"Ah c'è una spina?"
"Beh sai l'elettricità da dove pensi che..."
"L'elettricità?"
Riguardo ai computer, i ragazzi fino a qualche anno fa promettevano bene. Probabilmente se leggete qui vi ricordate quel periodo in cui erano loro ad accendere gli aggeggi agli insegnanti. E anche gli insegnanti, non è che si siano fatti parecchio più smart, anzi. Però a un certo punto la curva delle competenze si è abbassata, è precipitata, insomma questi non sanno più distinguere il cavo dell'alimentatore dal jack audio, Steve Jobs ha senz'altro la sua parte di colpa in tutto questo. Però c'è una cosa che continuano a saper fare.
"Adesso ho attaccato la spina e vedrai che si accende".
"Ma il monitor..."
"Ci mette un po' ma parte, ecco vedi? Adesso vai su Start. Cosa fai. Non ditare il monitor".
"Ma pensavo..."
"È un monitor, non è un tablet. Prendi il mouse e vai su Start".
"Ma non ho mai".
"È un mouse, non morde".
"Siri, potresti per favore..."
"Non c'è nessuna Siri qui".
"Dove si installa?"
"Ma tu stai scherzando".
"Perché gli airpod non funzionano?"
Riguardo ai computer, i ragazzi non è che sappiano praticamente più nulla. Non sanno distinguere un sistema operativo da un programma, un sito internet da un software, un motore di ricerca da un virus che fa finta di esserlo. Non sanno accenderli, non sanno spegnerli, non sanno cosa fare quando si piantano, non sanno cosa fare neanche quando funzionano. Prima o poi incocciano in una cosa che potrebbe essere la barra di Google e decidono di chiedere a lei. C'è una sola cosa che sanno ancora fare, e a questo punto mi chiedo come. Non è una cosa che insegniamo noi, e non c'è più nessuna rivista di software che insegni queste cose. Dev'essere un segreto che si tramandano da bocca di teenager a orecchio di teenager. Una sola cosa.
(O è un istinto naturale? Come respirare, pisciare, attaccarsi alla tetta?)
Non sanno accendere i computer. Non sanno spegnerli. Non sanno aprire un file, non sanno la differenza tra un file e un software. Non sanno andare su internet, ci arrivano per caso e comunque non sanno la differenza tra internet e un social network. C'è una sola cosa che sanno ancora fare.
"Va bene, a questo punto hai finito".
"Devo cancellare la cronologia, prof?"
"Eh? No, perché?"
"Niente, di solito sono... abituato".
"Ah. No, non c'è bisogno".
Non sanno cos'è un computer, non sanno come accenderlo, non sanno come aprire un file con un programma, non sanno aprire un programma, non sanno andare su internet, ma ci vanno: e una volta lì, non saprai mai cos'hanno combinato, perché c'è una sola cosa che sanno tutti come fare.
Cancellano la cronologia. Sì.
Sanno fare solo quello.
Perché facciamo le vacanze di Pasqua? Non ha senso.
03-04-2021, 13:41epidemia 2020, Pasque, scuolaPermalinkDi tante prevedibili polemiche, ecco una che pensavo scattasse inesorabile e invece quest'anno non s'è presentata: le vacanze di Pasqua. Forse avete sentito che in Francia Macron le ha un po' allargate (e già non erano brevi), probabilmente per frenare i contagi. Nella parte del mondo in cui non si legge il Corriere, in effetti, c'è ampio consenso sul fatto che le scuole aperte influiscano sensibilmente sull'aumento del contagio (c'è anche una ricerca sul Lancet) (una ricerca che a differenza di quella di Sara Gandini tiene conto dei numeri degli ultimi mesi).
Sempre quando uno non se l'aspetta. |
L'assenza di polemica mi ha sinceramente stupito: è da mesi che si va suggerendo di recuperare didattica in luglio, e intanto nessuno fa presente che c'è un buco inutile ad aprile? Inoltre: dopo settimane in cui la vita domestica con gli adolescenti in casa è stata descritta mediamente come un inferno in terra (e non faccio nessuna fatica a crederci) le vacanze di Pasqua dovrebbero rappresentare il punto di massimo disagio. Già quelle italiane non sono mai state molto utili, ma quest'anno risultano particolarmente assurde. Siamo tutti a casa a sciabattare, chi da settimane chi da mesi: potremmo benissimo continuare con un po' di lezioni a distanza e in molti casi ci farebbe bene, ci terrebbe occupati, ci aiuterebbe a dare un senso al tempo che ci cola dal cavo delle mani. E invece no, dobbiamo fare "vacanza" – senza poter andarcene da nessuna parte, ma nella circolare all'inizio dell'anno c'era scritto "vacanza" e a nessuno è venuto in mente di discutere la cosa. L'anno scorso sì, qualche genitore protestò. Quest'anno niente: è curioso.
Dunque qui sotto cerco di rispondere a una domanda che nessuno sta facendo (ma la risposta me l'ero comunque preparata). Perché facciamo le vacanze di Pasqua, quest'anno?
Per riposarci? Non saranno particolarmente riposanti.
Per santificare le feste? Non saranno particolarmente santificate.
Per ricordare ai genitori e a tutte le altre categorie di lavoratori i nostri odiosi privilegi? Non ce n'era bisogno (se li ricordano già).
Perché i diabolici sindacati non possono rinunciare al periodo dell'anno più propenso ai sabba in cui le RSU si congiungono col demonio? Fuochino, ma no.
Le vacanze di Pasqua le facciamo per un motivo più banale ma anche più significativo: non ci siamo organizzati per sospenderle. C'era questa possibilità? Credo di sì.
Certo, sarebbe servito un pronunciamento in questo senso da parte di una serie di autorità il cui potere si è con le recenti riforme aggrovigliato in un modo inestricabile – diciamo che se il ministro dell'istruzione avesse detto a gennaio: saremo ancora chiusi un po', rivediamo le vacanze di Pasqua? e se i presidenti delle regioni fossero stati d'accordo, e gli Uffici Scolastici Regionali avessero recepito, e i dirigenti scolastici avessero cercato di spiegare la cosa nei Consigli d'Istituto, forse, dico forse, quei 4-5 giorni di inutile sospensione didattica li avremmo recuperati. Ma non è andata così, e perché non è andata così?
Beh, al ministero c'era un trasloco in atto, e vabbe' (notate che uno degli argomenti particolarmente spesi sui media da chi voleva cambiare governo, è che quello nuovo sarebbe stato molto più decisionista e ci avrebbe fatto lavorare di più: ecco, fin qui proprio no).
Ma più in generale, né il ministero né i dirigenti né i consigli d'istituto potevano permettersi di dire a gennaio che le vacanze di Pasqua non si facevano, perché... perché sarebbe stato come ammettere l'ovvio, ovvero che le scuole superiori sarebbero restate chiuse (e che forse avremmo chiuso anche le inferiori), e questo non si poteva assolutamente ammettere, questo era molto peggio di perdere cinque giorni di didattica ad aprile. Insomma queste vacanze le facciamo, siamo costretti a farle, perché non abbiamo mai voluto ammettere che si potevano togliere. Serviva un po' di tempo, e invece una regola da un anno a questa parte è che tutto si decide al penultimo minuto e si comunica ai sottoposti all'ultimo.
Quest'ultima cosa non è un'iperbole: nella mia provincia abbiamo scoperto un giovedì alle 18:30 che il giorno dopo passavamo in didattica a distanza. Per fortuna avevamo già un orario pronto (in realtà non è stata fortuna).
A chi intendesse a questo punto lamentarsi baricchianamente delle rigidità dell'istituzione scolastica, faccio notare che il groviglio è diventato inestricabile proprio per risolvere l'apparente rigidità: ovvero in teoria le regioni potrebbero decidere (ma non volevano farlo) e anche il consiglio d'istituto avrebbe potuto pronunciarsi. Ho la sensazione che il punto debole sia il dirigente, quello che doveva diventare lo sceriffo della scuola ma in pratica si trova schiacciato tra le direttive ministeriali, quelle regionali, e i genitori che confrontano le scelte di scuole diverse sul territorio e a volte mandano lettere ai giornali. Questo è uno dei casi in cui una catena di comando più rigida avrebbe forse funzionato meglio; per dire, un eventuale Macron che dicesse in diretta: facciamo la Dad anche in settimana santa, alla fine avrebbe funzionato. Ma non ce l'abbiamo: abbiamo deciso di andare in ordine sparso e il risultato è che da giovedì ci ritroviamo tutti a casa senza videolezioni e senza un motivo sensato per non farle.
Più in generale: la Didattica a Distanza (o Didattica integrata, che dir si voglia) sarebbe stata molto meglio di com'è, se solo l'avessimo accettata come un'alternativa non preferibile ma praticabile in caso di emergenza. Ma non abbiamo fatto nessun passo in tal senso. Il ministero non si è nemmeno posto il problema di studiare, che so, una piattaforma, di mettere a disposizione un corpus di risorse – no, l'unica cosa che interessava era trovare un sistema per tenere aperte le scuole e l'unico modo per farlo era comprare banchi a rotelle. Al secondo anno di DaD, siamo ancora vivendo la situazione assurda in cui i registri elettronici non sono gestiti dal ministero o almeno dalle regioni, ma da ditte private che vincono appalti scuola per scuola – un insegnante su due scuole diverse lavorerà spesso con due sistemi diversi. Malgrado sia l'unica didattica praticabile per una larga fetta della popolazione scolastica, continua a essere affidata all'improvvisazione degli insegnanti: e tanto di cappello se nel frattempo sono riusciti a formarsi, perché ciò dipendeva unicamente dalla loro volontà e dalla loro serietà. Al ministero non interessava nulla, era troppo preoccupato a... a organizzare le prove Invalsi.
Ma delle prove Invalsi toccherà parlare un'altra volta: buona Pasqua e buon ritorno a scuola, chi ci torna.
400 vittime di covid al giorno e voi scrivete che il rischio zero non esiste, siete criminali.
25-03-2021, 19:12epidemia 2020, giornalisti, scienza, scuolaPermalinkQuando si parla di covid e chiusure, bisognerebbe restare calmi. Lo so che è difficile.
Ma ci si dovrebbe provare: tirare un grosso respiro e ricordare che si tratta di un'emergenza come non c'è mai stata da che siamo al mondo, qualcosa per cui nessuno era davvero preparato; che gran parte degli errori che si sono fatti erano inevitabili; e nondimeno è giusto segnalare chi li fa, specie se in cattiva fede. Alla maggior parte di chi incontriamo, che in cattiva fede non è.
Per esempio, già da diversi mesi alcuni dei principali gruppi editoriali del Paese stanno esprimendo una forte voglia di riaprire, costi quel che costi (costerà vite umane). Per essere dei gruppi editoriali, bisogna dire che la esprimono male, con interventi mal editati e scomposti che finiscono per squalificare chi li produce e chi li cita sui social network. Al punto che io stesso, che non sarei quel granitico sostenitore del lockdown a oltranza che credete, alla fine non posso che radicalizzarmi nella convinzione che le scuole non siano affatto sicure: perché se ci fosse uno studio serio che dicesse il contrario, a questo punto ad esempio il Corriere lo avrebbe scovato, e pubblicato in prima pagina, e invece no; mese dopo mese continua a buttar fuori materiale di scarto. La ricerca che tutti citano in questi giorni, e che in un primo momento stavo prendendo seriamente anch'io, non è che l'ennesima rifrittura di numeri che Sara Gandini credeva di aver trovato in novembre (e che scomposti per regione ci dicono tutt'altro); adesso è marzo, siamo alla terza ondata, le varianti si dimostrano più virulente anche tra i giovani, e il Corriere è ancora lì che s'affida alla Gandini. Questo come minimo significa che non riesce a trovare niente di meglio; in una situazione in cui davvero qualsiasi ricercatore che riuscisse a torturare i dati fino a dimostrare che le scuole sono sicure otterrebbe l'homepage nel giro di pochi minuti. Ma niente da fare. E però là fuori c'è fior di genitori che ci crede, in quel che dice la Gandini, perché sono ricerche peer-reviewed (ma veramente no), gente che crede alle pillole d'ottimismo, eccetera.
In sostanza quel che fa il Corriere non è diverso da quello che facevano le Iene ai tempi di Vannoni, salvo che lo fanno in una situazione di emergenza nazionale: stanno apertamente fomentando con informazioni tendenziose una frustrazione sociale che è lì lì per diventare una rivolta civile: ve lo sareste aspettati anche solo un anno fa? che un governo a trazione M5S avrebbe tentato il possibile per proteggerci da una pandemia, mentre Repubblica e Corriere avrebbero diffuso fake news sulle scuole e sui vaccini?; che nel momento della crisi il partito della biowashball e dei chip sottopelle avrebbe mantenuto la barra un po' meglio degli organi di stampa del ceto medio riflessivo? Pure è andata così, teniamocelo per detto.
Non so se sia stato il gruppo della Gandini (un gruppo che neanche un anno fa negava la virulenza del virus) a coniare a un certo punto il nuovo slogan che vedo sempre più impugnato da chi vuole riaprire a ogni costo: "il rischio zero non esiste". Che è insieme una banalità – chi ha mai preteso un rischio zero? – e un'enormità, nel momento in cui in Italia muoiono più di quattrocento persone al giorno. Un po' come Baricco quando ravvedeva un "There Is No Alternative" quando l'alternativa si vede benissimo ed è: facciamo morire un po' più gente, l'economia ne avrebbe bisogno.
Qui vediamo invece Massimo Cacciari in una delle sue più riuscite interpretazioni dell'Uomo Anziano che Impreca al Cielo, mentre senza nessuna difficoltà si lascia mettere in bocca lo slogan da un operatore Mediaset: a riprova che si può essere tra i più brillanti intellettuali di una generazione e farsi suonare come trombette. Ai piani alti hanno fatto due conti e deciso che conviene che moriamo di più, e Cacciari è già in favore di videocamere pronto a spiegarci che morire per la patria bisogna, e sono abbastanza sicuro che nemmeno lo pagano, sarebbe volgare, lui un servizietto così te lo fa gratis, lo baratta con quella misera visibilità televisiva che alla sua età evidentemente lo solletica ancora, ma davvero ci si deve ritrovare così? A chiedere più morti pur di stare in favore di videocamera? Io davvero non
Quando si parla di covid e chiusure, bisognerebbe restare calmi. Lo so che è difficile.
Cavati le putrelle dagli occhi, Baricco: poi parliamo di scuola
18-03-2021, 18:47epidemia 2020, scuolaPermalinkQuesto potrebbe anche non significare nulla; al limite che esiste un insegnante particolarmente rintronato che ha letto lo stesso tutorial trentamila volte e continua a tornarci perché non è ancora proprio sicuro; ipotizziamo invece che chiunque lo legga ci torni due o tre volte in media ed ecco, abbiamo diecimila insegnanti che in un anno hanno cercato di usare uno strumento on line che prima non conoscevano assolutamente.
Questo è un po' più di nulla, specie se lo associo a tante altre esperienze cui ho assistito nell'ultimo anno; insegnanti che non avevano mai acceso una webcam che sono diventati di punto in bianco esperti intrattenitori video; maestre che non sapevano accendere il tablet e dopo un mese montavano contenuti multimediali; non che sia tutto filato liscio, anzi, ma chi si poteva immaginare una cosa del genere, anche solo una settimana prima? La Didattica a Distanza nel marzo 2020 non esisteva, nell'aprile dello stesso anno era già una serie di pratiche condivise; e tutto questo era successo, attenzione, senza nessun supporto dall'alto. Il ministero non aveva nessuna idea di cosa farci fare (né mi pare che se la sia fatta venire nel frattempo); se in giro c'erano esperti di didattica e di digitale ansiosi di condividere le loro esperienze io ammetto di non averli visti, ero troppo preoccupato a spiegare come usare Classroom mentre imparavo a usarlo anch'io.
Del resto la scuola è così, no? Quanto tempo ci abbiamo messo ad abituarci al registro digitale? Nessun tempo, un anno era fantascienza e l'anno dopo lo usavamo tutti. Insomma per essere un pachiderma – e non c'è dubbio che lo sia – la scuola italiana ha dimostrato una certa elasticità, e dei riflessi notevoli: del resto anche gli elefanti, quand'è ora di scattare lo fanno, e in quei casi è meglio non trovarseli davanti. È successo qualcosa di eccezionale in questi mesi, che non ha paragoni con nessun altro settore: persino il personale sanitario, il cui sforzo è stato senz'altro superiore a quello dei docenti, non ha dovuto imparare di punto in bianco un nuovo modo di fare il proprio mestiere. Noi insegnanti sì, e sarebbe stata una notizia se ci fossimo riusciti senza incidenti – ma aspetta, tutto sommato di incidenti ce ne sono stati abbastanza pochi. Quindi il bilancio è positivo, dai.
Non resta che avvisare Baricco.
Secondo Baricco infatti la scuola ha dimostrato, nell'occasione della pandemia, i suoi tragici limiti novecenteschi. Bisogna premettere che da qualche libro a questa parte Bar ha deciso che lui è già nel secolo successivo (del resto già abbondantemente iniziato), e quindi lui la scuola non la critica come un Galli Della Loggia qualunque, no, no, lui ha una visione contemporanea, lui critica i fenomeni statici in nome di un perenne divenire che pare faccia molto Secolo Vigesimoprimo, e quindi... e quindi quando critica la scuola non ha in mente quella che in dodici mesi ha fatto un pazzesco balzo in avanti tecnico e organizzativo senza che nessuno lo sollecitasse tranne studenti e genitori, no: lui quella non l'ha neanche vista. Lui ha in mente la fottuta scuola gentiliana di Galli Della Loggia, quella che ha frequentato lui con le declinazioni e le equazioni che negli anni '60 lo annoiavano e quella noia ancora se la ricorda.
Per dimostrare questa cosa basta usare la solita cartina al tornasole, sempre la stessa: Baricco ha un'idea di scuola così aggiornata che se la prende coi programmi ministeriali, signore dio, Baricco è l'ennesimo intellettuale che prima di pubblicare il suo fervorino sulla scuola non si preoccupa di controllare se putacaso questi programmi esistano o no, e per l'ennesima volta tocca rispondere a vuoto che no, signori, in questa cosa che voi vorreste riformare sistematicamente da vent'anni ci lavoro da altrettanti venti e i programmi ministeriali non li ho mai visti, dal momento che sono stati aboliti ancora prima; tutto il perenne divenire che Baricco si immagina ancora da realizzare (e quindi fighissimo) esiste da più di trent'anni e si chiama autonomia scolastica, per un po' si è chiamato POF, adesso invece si chiama PTOF e in effetti non suona affatto fighissimo, come capita del resto a qualsiasi rivoluzione quando si realizza.
Se poi Baricco ci voleva dire che il latino del liceo ha un po' stancato, per carità: sfonda una porta aperta (non perché il latino non sia una degna materia, ma perché al liceo non lo insegnano un granché). Ma il motivo per cui si fanno determinati argomenti in determinati mesi dell'anno non sta scritto in nessun documento ministeriale. È semplicemente una prassi, che deriva dall'abitudine dell'insegnante che ogni anno si misura con le difficoltà degli studenti, le attese dei genitori e le proposte dei libri di testo (i quali non fanno che rielaborare le stesse prassi consolidate). Ovvero nella maggior parte dei casi il motivo per cui si insegna la tal cosa piuttosto che un'altra è che funziona, e che se a un certo punto funzionasse qualcosa di diverso i primi a farlo notare sarebbero gli studenti, non Galli Della Loggia; i primi ad accorgersene sarebbero gli insegnanti, non Baricco; e anche i libri di testo arriverebbero molto più svelti perché c'è una certa concorrenza nell'ambiente (non è mica quella intellettualosfera sonnacchiosa dove prosperano Galli Della Loggia o Baricco).
Se per un attimo qualche eroico XXIriformatore della scuola si abbassasse a orecchiare i discorsi che effettivamente nelle scuole si fanno, scoprirebbe che è tutto molto meno cementato di come se lo immagina lui; che il cemento e le putrelle sono più negli occhi di chi guarda. Ad esempio negli ultimi anni tra primarie e secondarie non si fa che parlare di coding, tutti vogliono insegnare e imparare il coding. Vent'anni fa non è che non ci fosse la stessa esigenza (anche se si chiamava forse "programmazione"). E probabilmente la maggior parte del coding che si insegna in questo momento a scuola, scopriremo tra qualche anno, non è nemmeno utile: è quel che succede con le mode. Il che però significa che le mode ci sono, che a scuola si cerca continuamente di adattarsi al nuovo, commettendo milioni di errori che se fossimo davvero così cementati almeno non commetteremmo. Se ne potrebbe parlare all'infinito, di quanto sia volubile la sostanza dei dibattiti sulla didattica: se quella per competenze costruisca davvero competenze, eccetera. Questo dibattito al massimo ce lo facciamo tra noi insegnanti, perché appena arriva un'onda lunga all'opinionista lui si mette sempre a travisare tutto; togliamo i voti alle elementari, lui capisce che abbiamo messo le faccine; adoperiamo un test per la valutazione nazionale, lui capisce che stiamo valutando gli insegnanti; capitasse mai una volta sola un tizio sul giornale con delle idee sulla scuola che non risalgano al massimo al 1988, cioè quando la frequentavo io e probabilmente anche lui.
Noi nel frattempo siamo qui che ci industriamo con la più grande emergenza mai vissuta da quando è nato il sistema educativo nazionale: abbiamo tenuto aperto le scuole dell'obbligo per cinque mesi malgrado non fossero sicure, e ora che abbiamo dovuto chiuderle stiamo letteralmente smontando i computer dalla aule per prestarle ad alunni che non hanno hardware in casa; continuiamo a cambiare gli orari per adattarli alle esigenze di studenti e genitori; continuiamo a far lezione malgrado tutto. Per Baricco siamo in agonia strutturale, ma per favore. Lui non capisce come mai si faccia educazione fisica a distanza. Probabilmente ai suoi tempi educazione fisica era la partita a calcetto; vagli a spiegare che da anni alle medie il prof di educazione fisica ti interroga sui regimi alimentari. Se solo avesse gli occhi sgombri da putrelle potrebbe contemplare lo spettacolo di un'istituzione di dimensioni nazionali che si sforza con ogni sua energia ad adattarsi a una società che cambia, ma siccome non è fighissima come nei suoi sogni... non va bene. Ok Baricco, fattene una tutta tua, falla supercool e vendila ai tuoi lettori benestanti. Sono onestamente curioso di vedere cosa insegneranno di più elastico ed efficace della matematica. Ora scusa mi scrivono su Classroom.
Eccone un altro che ci vuole a scuola in luglio
10-02-2021, 02:05epidemia 2020, Monti, scuolaPermalinkPuò darsi che Mario Draghi riesca davvero, come ha anticipato, ad allungare l'anno scolastico a tutto giugno. Un provvedimento del genere, come tutti quelli che si prendono in un'emergenza, ha i suoi pro e i suoi contro. Se pensiamo al virus, ormai abbiamo capito che il contagio avviene per lo più per via aerea in luoghi frequentati (meglio se chiusi); d'estate ci dà tregua perché la gente vive all'aperto. Affollare le classi un altro mese significa prolungare la terza ondata ancora un po' – e se l'anticiclone non ci grazia, non sarà nemmeno il problema principale d'ordine igienico-sanitario: le scuole italiane non sono progettate per essere frequentate in un giugno caldo. Quanto agli insegnanti, non è che di solito in giugno non lavorino: non fanno lezioni, ma per esempio fanno esami, corsi di recupero, preparano le classi dell'anno successivo, eccetera. Tutte cose che andrebbero spostate in luglio. Tecnicamente insomma non è che non si possa fare; e allora perché ho il sospetto che non si farà?
Probabilmente è il ricordo del Mario precedente. Ve lo ricordate Mario Monti? Lo salutammo tutti come un necessario ritorno alla serietà, dopo le mattane del tardo Berlusconi. Con lui finalmente arrivarono a palazzo Chigi ministri competenti, selezionatissimi, ad esempio il ministro della pubblica istruzione veniva dal CNR e... appena insediato si mise a spararne di grossissime. Cominciò suggerendo che l'orario delle lezioni frontali di tutti gli insegnanti si poteva aumentare di un terzo, da 18 ore settimanali a 24, ma senza contrattazione, per carità: gli insegnanti semplicemente avrebbero dovuto entrare in qualche classe in più e lavorare un po' di più. Questa cosa avrebbe portato all'assunzione di più giovani, in un qualche modo non chiaro che forse prevedeva la consunzione fisica degli insegnanti sul luogo di lavoro; altrimenti davvero non si capiva in che modo spostare un terzo del lavoro sugli insegnanti già in organico avrebbe portato a un aumento dell'organico. La logica, il buon senso, ci dicevano il contrario, ma questo era un tecnico, qualche settimana dopo buttò anche lì che sarebbe stato bello abolire l'ora di religione, insomma venir meno al concordato tra Stato e Chiesa: mica male per un ministro tecnico appena arrivato.
Il risultato pratico di tutte queste boutades fu zero. Come avrete notato il concordato è ancora in piedi e il contratto nazionale prevede ancora 18 ore di lezione che, non stanchiamoci mai di ricordarlo, significano diverse ore in più di gestione del lavoro (riunioni coi colleghi, correzione compiti, dialogo coi genitori: tutte cose che sarebbero aumentate in proporzione con un passaggio da 18 ore a 24). Come mai non se ne fece niente? Furono forse i temibili sindacati? No, perché due su tre nemmeno aderirono a uno sciopero. Comunque in effetti un piccolo risultato pratico ci fu. Mario I smise di essere un tecnico e diventò un politico, ovvero una persona che va in tv a raccontare bugie per farsi eleggere. Piagnucolò da Fazio che era un vero peccato che gli insegnanti non volessero lavorare due ore in più alla settimana. Disse proprio due ore in più, me lo segnai, bisogna essere precisi quando si afferma che la tal persona mente.
Magari invece Mario II è sincero. Però capite che uno parte prevenuto. Il vento è un po' cambiato, la retorica sovranista non si porta più bene, anche i populisti segnano il passo, e di conseguenza torna a farsi sentire la retorica liberale. Quella italiana è particolarmente insopportabile, dal momento che in Italia un vero movimento liberale non c'è veramente stato: se escludi i padroni, i cani da guardia, le pulci dei cani e chi brama di sostituirle, non ti rimane fuori un solo cantore della libera impresa. I cosiddetti liberali italiani vivono i lockdown scolastico come una vera sofferenza, per loro in fondo la formazione consiste in un'enorme gara mondiale con l'Ocse Pisa che tiene il punteggio, e questa cosa che gli studenti italiani siano rimasti fermi al box un mese più di altri è insopportabile, rischiamo probabilmente di essere doppiati dalla monoposto di Singapore. Non resta che fare straordinari, sì, ovviamente senza pagarli agli insegnanti che poi si sa sono mangiapane a tradimento. Mario II non è senz'altro un imbecille, ma deve parlare a questa gente qui, alla loro pancia: alla fine basta che passi anche solo un'immagine, l'idea di uno statale a posto fisso che si scioglie nel sudore mentre intrattiene il pubblico sulla perifrastica passiva, ecco, questo per i liberaloidi italiani è meglio del porno. Che poi all'atto pratico tutto questo sia o meno fattibile, è un dettaglio, anche perché con calma si può sempre tornare in tv e raccontare che sono stati gli insegnanti a impuntarsi, coi loro perfidi sindacati eccetera. Insomma, ci siamo già passati. Dove Mario I ha fallito, Mario II potrebbe farcela.
Soltanto, per favore, non dite che tutto questo è la fine del populismo o del sovranismo. È l'esatto contrario, populismo e sovranismo hanno vinto. Chi sostiene che le difficoltà del lockdown si possano risolvere tenendo due o tre settimane in più gli studenti e gli insegnanti in un luogo caldo e affollato vi sta facendo un discorso populista: sa che ce l'avete con i prof e il loro posto fisso e propone di punirveli; sa che siete in pensiero per la sorte della gioventù italiana che l'anno scorso è andata a scuola un mese in meno di quella tedesca, e propone di rimediare con una spedizione punitiva. È una mentalità sovranista. Certo, suona tutto un po' più raffinato di quanto era prima. Ma è un po' l'effetto che fanno le macchine nuove. Poi si vedrà. Probabilmente Mario II è davvero un po' più bravo del precedente. Ma noi purtroppo siamo gli stessi scemi di ieri: prova ne è che abbocchiamo agli stessi ami.
A scuola il virus c'è, non rompete
18-12-2020, 11:15epidemia 2020, scuolaPermalinkLa scorsa settimana mi è capitato di aprire un portone della mia scuola e di ritrovarmi all'improvviso investito da un flusso di studenti che aspettava di uscire – evidentemente nell'imminenza della campanella si erano premuti contro l'ingresso, come bollicine di uno spumante molto agitato. Il giorno dopo uno studente di quella classe è risultato positivo: due giorni dopo la classe è rimasta a casa, in attesa di tampone. Quando dico "classe" intendo ovviamente il gruppo degli studenti: gli insegnanti non sono rimasti a casa, e stanno tuttora facendo lezioni in altre classi (tra cui una che due giorni dopo è stata chiusa per lo stesso motivo). Però la scuola è sicura, eh? Si saranno senz'altro contagiati a casa, al limite nel parchetto.
Dopo tre mesi di scuola in presenza con la mascherina, credo di avere il diritto di esprimere una certa stanchezza: non certo delle lezioni – valgono comunque la pena – ma del sovrappiù di stress che la situazione comporta. Io e i miei colleghi della scuola media lavoriamo con ragazzi potenzialmente contagiosi come gli adulti e i ragazzi più grandi, quelli che a scuola non ci vanno più. Noi continuiamo ad andarci e a chiedere ai nostri studenti, ogni giorno, di mantenere un distanziamento e una serie di precauzioni che anche i più ragionevoli non riescono più a capire (figuriamoci quelli che sputano sulla lavagna per cancellare): che senso avrebbe tenere un metro di distanza in corridoio, se poi fuori ormai la gente si abbraccia? Non siamo ormai fuori pericolo, non stanno diminuendo i morti – che poi tanto si sa sono soltanto vecchi e improduttivi? Tutto questo proprio nel momento in cui il virus colpisce esattamente le nostre scuole: la consegna è affermare che il contagio deve essere avvenuto fuori, perché la scuola è sicura.
Io posso anche capire che ci siano motivi sociali ed economici per cui è meglio che la scuola media resti aperta – anche se questo significa maggiori rischi per me e per i miei famigliari. Capisco questi motivi, li rispetto: credo che la scuola sia il luogo educativo per eccellenza, indispensabile a una società che voglia veramente dirsi equa e democratica, e allo stesso tempo so benissimo che si tratta anche di un indispensabile parcheggio per i minorenni e non mi ha mai dato fastidio concepirla in questo modo (ho anch'io minorenni da parcheggiare). Posso persino capire l'ipocrisia, è tutta una vita che capisco l'ipocrisia, per cui non solo ci tocca tenere aperto tutte le mattine un hub del virus, ma dobbiamo anche cercare di non spaventare genitori e colleghi, dobbiamo anche raccontare e raccontarci che la scuola non è un luogo così rischioso, mica come gli autobus. Quel che mi domando è fino a che punto questa ipocrisia sia necessaria e oltre quale livello non diventi controproducente: perché se dici alla gente che la scuola è un luogo sicuro, poi non puoi lamentarti che la gente ti creda e abbassi le mascherine sotto la punta del naso – tanto è un luogo sicuro, no? No, maledizione, quella è una storia che raccontiamo a tua madre per farla dormire tranquilla, e anche lei probabilmente ci crede giusto quanto basta a prender sonno, non un grammo di più, onde per cui sii bravo e indossa quella maschera come è giusto indossarla in un luogo chiuso in cui i virus si comportano esattamente come in ogni altro luogo chiuso al mondo.
Non c'è nessun campo di forze antivirus a scuola, anche se in un qualche modo abbiamo deciso di fingere che c'è. Magari lo avete letto sul giornale, ecco, appunto: il solo fatto che lo abbiate letto su un giornale italiano ormai dovrebbe farvi rizzare le antenne. L'altro giorno sull'homepage del Corriere c'erano ben due titoli che dicevano che la scuola è sicura – si vede che un titolo solo non ci avrebbe confortato abbastanza. Ne ho cliccato uno soltanto, portava a un breve intervento di un esperto che è una delle cose più contorte che ho letto in vita mia: sia per i dati portati a sostegno della sua tesi, sia per il modo in cui ha scelto di esprimersi.
Il dubbio è venuto a molti. La riapertura delle scuole ha contribuito a diffondere il virus? Naturalmente il dubbio non va inteso nel senso che l’ambiente scolastico sia particolarmente adatto al contagio, nonostante la media di oltre 20 studenti per classe e nonostante le promiscuità, le scarse difese, le disattenzioni, le inadeguatezze strutturali dei plessi scolastici.
Si può anzi ritenere, dopo gli sforzi fatti la scorsa estate dal ministero, dai direttori didattici e da tutto il personale, che l’ambiente scolastico resti non più rischioso di altri.
Io la persona che ha scritto questa cosa me lo immagino con la pistola puntata alla tempia, come lo speaker russo dell'Aereo più pazzo del mondo sempre più pazzo. Grazie agli sforzi fatti dal ministero, l'ambiente scolastico non è diventato persino più rischioso... Ci sta sfottendo, è così? Non escludo che la sintassi involuta non celi un messaggio in codice, e che leggendo soltanto alcune iniziali sia possibile ricostruire le coordinate della cella in cui lo hanno rinchiuso, nutrendolo con dati statistici a caso. Lo "studio" che riporta è risibile, per quel poco che è dato di capire: si trattava di dimostrare che non c'è correlazione tra incidenza di studenti sulla popolazione regionale e numero di contagi. Una sciocchezza del genere, di fronte a un virus che ha colpito le regioni in modo molto diseguale, e che nella maggior parte dei contagiati in età scolare non lascia tracce (il che non significa, ripetiamolo per l'ennesima volta, che non possano avere contagiato altre persone). Una cosa così imbarazzante sull'homepage di quello che dovrebbe essere il più prestigioso organo d'informazione italiano, per fortuna che basta scrollare un po' sotto e si arriva alle foto di Beatrice Borromeo e Carolina coi capelli bianchi! Nel frattempo escono paper, niente che possa interessare ai giornalisti italiani: qui per esempio c'è uno studio sulle scuole di Reggio Emilia, vi traduco le conclusioni: La trasmissione del virus all'interno delle scuole è avvenuta in un numero non irrilevante di casi, in particolare nella fascia di età dai 10 ai 18 anni, ovvero alle scuole medie inferiori e superiori. Il che tra l'altro non stupisce: lo sappiamo già da un po' che dai 10-12 anni poi i ragazzi sono potenzialmente contagiosi tanto quanto gli adulti.
Questo invece è stato pubblicato su Science, ma cosa vuoi poi che ne sappiano. |
Lo sanno benissimo anche ministri e presidenti di regione, che le scuole superiori le hanno chiuse abbastanza presto: e che anche nelle medie inferiori, appena si registra uno studente positivo, chiudono la classe intera in attesa di tampone – se davvero la scuola fosse protetta da questo misterioso campo di forza, non ce ne sarebbe bisogno. Il motivo per cui le medie restano aperte ha più a vedere con l'ordine pubblico che con le evidenze epidemiologiche. È lo stesso motivo per cui ci è stato consentito di rilassarci un po' quest'estate (il che ha consentito a tanta gente di mantenere una tenuta psicologica) e addirittura di andare per negozi a Natale, benché questo comporti un aumento sicuro dei contagi e dei morti.
Questa cosa io l'ho capita: mi piacerebbe però che la capisse più gente. Che gli insegnanti, che in questa fase stanno rischiando un po' di più di altri professionisti, si potessero almeno risparmiare il consueto tiro al piccione, gli strali di chi non si capacita del fatto che quest'anno si facciano i ponti come in qualsiasi altro anno scolastico, di chi sta già proponendo di tenerci a scuola fino a luglio e tutte le altre sciocchezze che a fine 2020 sono persino meno divertenti del solito. Per cinque-sei mattine a settimana vi teniamo i figli, li costringiamo a tenere una mascherina e cerchiamo di evitare che si ammucchino e si azzuffino, il che risulta difficile persino alla maggior parte di voi genitori. Almeno non rompete i coglioni, grazie, e buone Feste.
Le favole che Conte volete vi racconti
15-11-2020, 11:26epidemia 2020, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, scuolaPermalinkGiuseppe Conte può raccontarvi tante storie, ma non quella di Babbo Natale. Vedo molta gente arrabbiata per via di quella letterina. Però si sa, la comunicazione politica non è una cucina per palati raffinati. È impossibile piacere a tutti, ma è quello che Conte e i suoi PR dovrebbero tentare tutti i giorni. E perché non dovrebbero raccontarvi qualche favola, se in altri casi voi stessi le gradite?
Per esempio: nelle stesse ore in cui veniva diffusa la letterina su Babbo Natale, Giuseppe Conte difendeva serenamente la sua decisione di tenere le scuole dell'obbligo aperte anche nelle regioni a rischio raccontando che "le scuole non sono un focolaio". Secondo lui i dati dicono questo. I dati li rimetto qui, così ognuno può farsi un'idea: il problema sta appunto nel tipo di idee che ci facciamo.
Io temo che Conte, e chi gli crede, per "dati" intenda appunto tabelle del genere, dove il contagio è diviso per fasce anagrafiche. Del resto è difficile pensare che esistano anche tabelle attendibili sul contagio diviso per ambienti nelle zone rosse: il tracciamento ormai è saltato. Il racconto quindi è questo: è vero, l'aumento del contagio tra i minori è stato notevole (spettacolare, aggiungerei), però continua a essere una piccola frazione del contagio complessivo: quindi i minori alla fine non si stanno contagiando tanto, dai, e quindi... le scuole non sono un focolaio. Ecco, Conte sta raccontando questa cosa. E a molti sta bene.
Invece Babbo Natale non sta bene.
Ma perché?
Perché c'è gente che sente la necessità di spiegare, con cadenza quotidiana, che la maggior parte dei contagi non avviene a scuola? È vero, la maggior parte dei contagi non avviene certo a scuola. Avviene, credo, a casa. La maggior parte di chi è contagiato non è più in età scolare. Questo significa necessariamente che la scuola non è un focolaio? Richiamo per l'ennesima volta all'esperienza dei genitori: vi capitava più spesso di contrarre l'influenza stagionale quando i bambini erano in età scolare o prima e dopo? Un sacco di volte l'avete presa dai vostri figli, fino a qualche mese fa non c'era nessun problema ad ammettere questa cosa. Fino a qualche mese fa lo sapevamo tutti che i virus usano le scuole come hub; tant'è che persino in un anno come questo, in cui il vaccino antiinfluenzale è un bene prezioso, la mia ASL ha trovato il modo di lasciarne una dose gratis per me, perché sono un insegnante, cioè una fascia a rischio. E però.
E però improvvisamente quest'anno Giuseppe Conte ci racconta che la scuola non è un focolaio, e noi dobbiamo crederci. Si ammala un sacco di gente fuori dalle scuole, quindi le scuole non c'entrano niente: quest'anno questo è normale sentire gente che la pensa così. Al massimo sono disposti a concedere che possa c'entrare qualcosa tutto quello che succede immediatamente prima e dopo del suono delle campanelle: Giuseppe Conte ci racconta anche questo. "Certo quello che avviene intorno, prima e dopo le scuole può costituire un focolaio". Insomma, i trasporti (maledetti trasporti). Il chiasso che i ragazzi fanno nel piazzale; bisognerebbe vigilarlo e regolarlo facendo entrare/uscire i ragazzi un po' per volta (ma poi servirebbe un antipiazzale per quelli che aspettano di entrare nel piazzale, e anche quello andrebbe regolato e vigilato, e così via). Ecco perché si contagiano, quei pochi ragazzi che si contagiano: è tutto quel contatto sociale che hanno prima di entrare a scuola e appena ne sono usciti. Dentro niente: anche se è un luogo chiuso, anche se si sono appena contagiati nel piazzale, appena entrano a scuola non contagiano più nessuno finché non escono, insomma il virus l'hanno attaccato alle rastrelliere con la bicicletta. Conte vi sta raccontando questa cosa, e voi state credendo a questa cosa. Ho ho ho.
Provo anch'io a raccontarvi una favola. C'era una volta un pastore che teneva il recinto delle pecore aperto, perché tanto secondo lui era sicuro, anzi statisticamente non era mai successo che il lupo entrasse nel recinto e razziasse le pecore. Eppure le pecore sparivano, perché? In effetti tutte le notti il lupo entrava, prendeva una pecora, la portava comodamente nel bosco, e ivi sopraggiunto se la mangiava con grande soddisfazione, il che non impediva al pastore di sostenere la sua tesi: la pecora mica era stata mangiata nel recinto, quindi il recinto era sicuro anche se aperto. Il pastore la raccontava così.
Conte ve la sta raccontando così.
Ma non si permetta di raccontarvi di Babbo Natale, eh? Voi siete adulti e vacci... beh diciamo che siete adulti. Se prenderete il virus, se lo prenderete da un minore, senz'altro questo minore non l'avrà preso da un altro minore nell'edificio scolastico; e anche qualora succedesse, il vostro contagio non rende le scuole meno sicure dal punto di vista statistico perché (1) voi non siete studenti e (2) effettivamente voi non siete stati contagiati a scuola, bensì a casa. Quindi vedi che ha ragione lui: le scuole non sono un focolaio. E Babbo Natale vi porterà i regali, dal momento che vi siete comportati bene.
Gli statali vi aiuteranno. Vi stanno già aiutando.
09-11-2020, 02:14epidemia 2020, scuolaPermalinkÈ ora che noi statali facciamo la nostra parte. Lo sento dire sempre più spesso, e nei giorni scorsi in particolare da un ex collega – nel senso che anche Cacciari è stato un funzionario dello Stato, mi pare: certo molto meglio tutelato della media della categoria. L'argomento in sé è inoppugnabile, non era necessario scomodare un filosofo per scoprirlo: nell'emergenza non si può dare più nulla per scontato. Certe categorie sono state esposte molto più di altre, mentre fin qui il pur fatiscente ombrello dell'impiego statale ha retto egregiamente, distribuendo ogni mese il 100% dello stipendio. Avrà ancora un senso, questa cosa, se l'emergenza si protrae, costringendo lo Stato a indebitarsi ulteriormente?
Orizzonte scuola |
Probabilmente no, del resto siamo tutti sulla stessa barca. È giusto che facciamo la nostra parte, come del resto abbiamo sempre fatto, e non c'è nemmeno bisogno di spiegarcela un po' più chiara. Lo strumento per farcela pagare esiste già, funziona che è una meraviglia e lo farà anche nei prossimi mesi: si chiama "tasse". Il meccanismo è abbastanza semplice ma vale la pena di spiegarlo ai membri di altre categorie che magari non ne hanno sentito spesso parlare, e anche forse a funzionari di alto livello e filosofi degni di più alati argomenti. Si tratta insomma di una percentuale del proprio stipendio che ogni statale lascia allo Stato, ogni mese. Sì, sì, ogni mese lo statale paga tutte le tasse e non sgarra di un centesimo, anzi quando una volta all'anno si fanno i conti si scopre quasi sempre che ne ha pagati di più, che ne dovrebbe avere indietro. Ecco, magari l'anno prossimo non riuscirà ad averne indietro. Tutto qui: basterebbe un lieve aumento della pressione e il gettito sarebbe già importante, proprio per via di quella straordinaria caratteristica che hanno gli statali di pagarle subito, le tasse. Le stanno pagando anche in questi giorni: la benzina delle ambulanze, lo stipendio dei medici in corsia e anche di alcuni di quelli che in tv spiegano che non è poi così grave, e degli amministratori che con tutto quello che c'è da amministrare trovano anche il tempo per spiegare le loro strategie su Twitter o Instagram: tutto questo lo stiamo pagando, anche in questo momento. Se volete farcelo pagare di più, magari protesteremo: ma neanche tanto. E il prossimo anno pagheremo di più.
Buffo però. Io, oltre a essere un impiegato statale, sono un insegnante. Negli ultimi mesi il mio ruolo è stato fortemente rivalutato. Ho scoperto che un sacco di gente reputa importantissimo il mio lavoro, e soprattutto reputa essenziale che io lo faccia in presenza. Gente che fino a tutto il 2019 era abbastanza convinta che io fossi un mangiapane a tradimento, uno che lavorava 18 ore alla settimana, ora mi sta spiegando che senza quelle 18 ore alla settimana i figli sbroccano, crescerà una generazione di psicopatici eccetera eccetera. Ora, sono il primo a trovare tutto questo un po' esagerato. Inoltre ho letto che i bambini dai 12 anni in su sono il doppio più contagiosi di quelli dai 12 anni in giù. Io lavoro con quelli dai 12 in su, e quindi rischio di contrarre il contagio più o meno come se lavorassi con gli adulti (che magari sono un po' più contagiosi, ma anche più disciplinati). Il mio presidente di regione però ritiene necessario che io continui a lavorare in presenza per tutte le mie 18 ore alla settimana – che in realtà sono un po' di più. Quindi, ricapitolando:
– Io sono un lavoratore essenziale: se non sto al mio posto, i bambini impazziscono eccetera.
– Il mio lavoro è abbastanza pericoloso
– Sono anche un lavoratore insostituibile, nel senso che davvero, se mi ammalo io a questo punto la mia scuola non sa più che fare: sostituti non ce ne sono, i famosi docenti in più non sono arrivati.
Ora non sta a me ricordarvi una delle più basilari leggi del mercato, ma ditemelo voi: faccio un lavoro rischioso, essenziale e insostituibile. Mi rendo conto che non è il momento per chiedere addirittura un aumento, ma in linea di massima non me lo meriterei? Tanto più che ci pagherei le tasse. Ok, non è il momento. Ma tra qualche mese ne riparliamo, prometto.
Questa scuola non ce la sta facendo (scusate)
14-10-2020, 01:15epidemia 2020, scuolaPermalinkE invece lo abbiamo fatto.
A un certo punto (giugno era già passato, mi pare), certi discorsi sono scomparsi all’orizzonte. Il ministero ci ha informato che bastava un metro di distanza tra labbra e labbra, ovvero ottanta centimetri da banco a banco, e che se non avevamo banchi singoli ce li avrebbe procurati. E un po’ di mascherine. E il nastro colorato per dividere tutti i corridoi in corsie. Il gel disinfettante, fondamentale. Ah, forse anche qualche insegnante in più, ma avrebbero dovuto promettere di restare nelle nostre scuole per più anni, e non molti hanno accettato. Tutto qui. Per il resto la scuola dell’obbligo avrebbe riaperto a pieno orario, come chiedevano i genitori. E per carità, i genitori avevano tutto il diritto di chiederlo.
Così abbiamo aperto.
E come sta andando?
Mi piacerebbe poter dire: bene.
Il Mattino |
Noi non è che ci siamo tirati indietro. Abbiamo svuotato le aule dagli arredi per distanziare i banchi il più possibile. Abbiamo istituito turni per entrare, turni per uscire, turni per fare l’intervallo. Abbiamo separato i corridoi in corsie, le scale in corsie. Abbiamo comprato i termoscanner, prima che il ministero decidesse che provare le temperature al mattino non spettava a noi. Abbiamo disseminato dispenser di gel disinfettante in tutti gli ambienti, abbiamo sperato per il meglio. I primi giorni i ragazzi ci hanno stupito per la disciplina; che restassero seduti pazientemente per quattro o cinque ore dopo mesi di lockdown domestico non era per niente scontato. Specie quando quello che avevano davanti non era nemmeno un loro insegnante. Perché all’inizio non avevamo nemmeno tutti gli insegnanti. En passant: se c’era un anno in cui il ministero avrebbe dovuto impegnarsi a evitare i soliti disastri con le graduatorie di concorso, era questo. Invece completare gli organici è stato più difficile nel 2020 che nel 2019. Però in un qualche modo, stringendo i denti e accumulando straordinari che forse nessuno ci pagherà, siamo riusciti ad aprire la scuola nella data che il governo aveva promesso ai genitori. Un grande successo. Complimenti al governo.
Sì, ma insomma, come sta andando?
Non è che mi piaccia fare il pessimista. In queste settimane, piuttosto di scrivere cose pessimiste ho preferito non scrivere niente. D’altro canto non posso nemmeno fingere che stia andando tutto bene. Confesso che mi sarebbe piaciuto annunciare dal fronte della scuola dell’obbligo che la linea teneva, che i ragazzi rispettavano il distanziamento, che i casi sospetti venivano immediatamente segnalati e che i genitori venivano a prenderli con la mascherina. Il che tutto sommato è anche vero: i ragazzi in classe rispettano il distanziamento (ma appena fuori non riescono a evitare di ammucchiarsi), i casi sospetti vengono immediatamente segnalati ai genitori che in linea di massima vengono a prenderli con la mascherina. Tutto più o meno come è previsto dalle direttive ministeriali, talvolta ondivaghe ma in sostanza ragionevoli. E quindi insomma sta andando bene?
Princeton University |
Sono un insegnante. Tutte le mattine vado a scuola con la mascherina e faccio lezione, con la mascherina. Per fortuna le aule della mia scuola sono abbastanza ampie da consentire ai miei studenti di levarsi la mascherina, una volta seduti. Molti la tengono comunque. L’aula è periodicamente aerata; abbiamo gel dappertutto; facciamo l’intervallo separati dalle altre classi; entriamo e usciamo a un orario diverso dalle altre classi. Facciamo tutto quello che dobbiamo fare, nei limiti del possibile.
E ci stiamo ammalando.
Non di covid – per adesso. Ma è quel periodo dell’anno, avete presente? Ci sono almeno due virus in giro: uno gastrointestinale, l’altro è un raffreddore. Due banalissimi virus. Io tutti i giorni faccio lezione con la mascherina, in aule aerate, e i ragazzi mi seguono osservando il corretto distanziamento. Ogni tanto qualcuno si prende il virus del raffreddore. Ogni tanto qualcuno si prende quello della cacarella.
Io li ho presi tutti e due.
Quando arriverà il Covid, perché non dovrei prendere anche quello?
C’è qualche precauzione che non ho preso? Forse ho abbassato la guardia, forse ho toccato la maniglia sbagliata, forse non ho sanificato quella cattedra prima di sfiorarla, forse sono passato troppo vicino a un ragazzo mentre andavo al mio posto? È probabile, è quello che succede quando si vive nello stesso posto tutti i giorni. Io condivido il mio ambiente di lavoro con più di duecento ragazzi: che io possa davvero distanziarmi da tutti loro per cinque ore al giorno è un pio desiderio. Presto o tardi respiro la loro aria, e loro la mia. Tra un po’ arriverà anche l’influenza stagionale: negli ultimi anni mi sono sempre vaccinato, quest’anno non ho ancora capito se ci sarà vaccino anche per me. A meno che non mi convenga contrarla, restare a casa e proteggermi dal virus peggiore.
Sono un insegnante della scuola dell’obbligo. Mi hanno chiesto di aprire la scuola, era il mio mestiere, l’ho aperta. Poi mi hanno chiesto di proteggerla dal virus col distanziamento, il gel, le mascherine, e in coscienza penso di averci provato. Ma appunto, se parliamo di coscienza, io questa cosa a un certo punto la devo dire: non ce la stiamo facendo. Non così. Non è un discorso politico. Per la politica ci sarà tempo. È chiaro che ci sono delle responsabilità, è chiaro che fino a un certo punto si pensava di investire risorse e dopo un certo punto si è deciso che non ne valeva la pena. È chiaro e quando avremo più tempo ne parleremo. Ora si tratta di capire semplicemente se possiamo andare avanti così. Se lo chiedete a me, per quel poco che mi compete e ho potuto osservare: no, non possiamo andare avanti così. Magari a orario ridotto: ma così no.
Mi dispiace.
Piccole, scomode e costose
29-09-2020, 16:41auto, epidemia 2020, scuolaPermalink"Allora ragazzi ora passo a distribuirvi le mascherine per la prossima settimana".
"Ma prof".
"Che c'è?"
"Sono piccole".
"Beh, è chiaro".
"Sono scomode".
"Ovviamente".
"Ma ve le hanno regalate?"
"No, credo che le abbiamo pure pagate troppo".
"Ma che senso ha?"
"In realtà ha molto senso. Sono le mascherine della Fiat".
"Della Fiat?"
"Troppo piccole, scomode, e costano troppo allo Stato. Classiche Fiat".
"Ma..."
"Alla prossima".
Un vecchio sfatto spettinato che si aggira nel piazzale la mattina
19-09-2020, 01:52dialoghi, scuolaPermalink"No, sono venuti i ragazzi della prima X, quelle che stanno al piano di sotto".
"Eh, non li conosco ancora tanto bene".
"Dicono che quando arrivano la mattina nel piazzale ci trovano spesso un tizio... sempre lo stesso".
"Sempre lo stesso tizio".
"Un vecchio, dicono".
"Sempre lo stesso vecchio. Ma vecchio in che senso?"
"Non saprei... ha la barba bianca, dicono".
"Sempre lo stesso vecchio con la barba bianca la mattina nel piazzale".
"Che li guarda, li osserva, non lo so".
"Sempre lo stesso vecchio con la barba bianca e un'aria controllora".
"La faccia un po' sfatta, spettinato".
"Sempre lo stesso biancobarbuto dall'aria controllora, sfatto spettinato".
"Proponevano di chiamare i vigili".
"No, i vigili no".
"Ma infatti anch'io ho detto aspettiamo, magari fategli delle foto".
"No, meglio di no. Un vecchio sfatto spettinato barba bianca".
"Così le mandano ai vigili".
"No, non devono mandare ai vigili foto di un vecchio sfatto spettinato biancobarbuto che si aggira nel piazzale la mattina".
"E perché no?"
"Perché sono io".
"Oh".
"Eh".
"Non ci avevo pensato, professore".
"E meno male, che mi vede ancora con altri occhi".
"Eh?"
"Niente, niente. La fotocopiatrice invece, tutto ok?"
"Un po' sbiadita ormai".
"Quello si risolve".
Hai visto Giuseppe volare?
18-09-2020, 01:36repliche, santi, scuolaPermalinkLa sua gabbia a Osimo. Neanche un trespolo. |
[2014]. Comporre le classi, in particolare le prime medie, è più un'arte che una scienza. Non ci sono parametri oggettivi, non c'è modo di sapere se quello che stai facendo funzionerà o no. Rimane una regola empirica, valida in questo e in tanti altri campi: se alla fine tutti si lamentano, è un buon segno. In effetti quando si lamentano in pochi è palese che è stata commessa un'ingiustizia: qualcuno è stato favorito rispetto a qualcun altro, ecco perché non si lamenta. Se si lamentano tutti almeno sei sicuro di non aver favorito nessuno, il che è già qualcosa.
Una delle difficoltà fondamentali, quando componi le classi, è far vuotare il sacco alle maestre elementari. Esse sanno molto degli elementi che tu devi mescolare in un pastone il più possibile uniforme. Sanno senz'altro distinguere i ragazzi talentuosi e i criminali in erba, e tuttavia neanche sotto tortura ti diranno "Omar Pascià è un ragazzo talentuoso!" o "Livio Barazzutti è un criminale in erba". Li hanno avuti in custodia per cinque e più anni, e quindi non glieli tocchi, sono i loro bambini. Sono tutti bravissimi. Sono tutti meravigliosi. Al limite, a volte, aggiungeranno espressioni sibilline come "...è da capire". Per intenderci: se la sua maestra dice che Livio "è da capire", Livio non è semplicemente da capire. È da guardare a vista per evitare che mangi gli altri bambini, o i loro astucci, o li faccia mangiare agli altri bambini (i loro astucci).
"E Giuseppe?"
"Eh, Giuseppe, Giuseppe... è meraviglioso".
"Naturale. Ma a parte questo? Morde?"
"No... no... tendenzialmente no".
"Tendenzialmente".
"È un ragazzo straordinario, con una sensibilità, una fantasia..."
"Quindi non lo mettiamo in prima X".
"Ma no, perché?"
"Perché sarebbe il ventesimo straordinario, sensibile e dotato di fantasia. Anzi facciamo così: da qui in poi, mi dici soltanto quando non sono straordinari e sensibili. Se non dici niente do per scontato che sono straordinari e sensibili. C'è il completamento automatico, vedi?"
"Però Giusi non è come gli altri, lui è un po' di più... come dire..."
"Più sensibile?"
"Insomma va capito".
"O mio dio. Un altro?"
"Ma no, non in quel senso..."
"Non è un maniaco oppositivo violento, mi vuoi dire".
"No, tendenzialmente..."
"Tendenzialmente".
"Anche la neuropsichiatra ci ha confermato che è tutto a posto, non ha niente che..."
"Ehi ehi ehi, ferma, è uno da neuropsichiatria?"
"No, no, assolutamente".
"Ma qualcuno ce l'ha portato".
"La famiglia forse, noi non c'entriamo, per noi era solo un ragazzo che..."
"Senti, ne ho altri settanta da piazzare entro sabato, e non è che io voglia sapere vita morte miracoli. Soltanto se graffia o no".
"Non graffia".
"Oh, grazie".
"Però... vola un po', ecco".
"Ricevuto, lo mettiamo al piano terra".
Portatelo giù. |
Giuseppe da Copertino volava. Per un santo è quasi una cosa banale. Un po' meno banale è il modo in cui confratelli e gerarchie reagivano al miracolo: con fastidio. Il francescano volante passò parecchio tempo in gabbia. Dopo aver tanto penato sui libri per riuscire a diventare sacerdote, alla fine gli toccò officiare nella sua cella, da solo. Questa cosa di levitare a ogni menzione della Madonna o di Gesù, o anche solo per aver fissato un'immaginetta santa, dopo un po' riusciva snervante. Ok, lo abbiamo capito, sei santo, ma adesso vieni giù, comportati come una persona normale. No, niente da fare. Giuseppe non ce la faceva. Guarda che chiamiamo l'Inquisizione!
Per fortuna quella spagnola era impegnata. Si scomodò l'Inquisizione napoletana, forse meno intransigente. Ma chi è questo tizio? Perché non riesce a star fermo? Siamo nel Seicento, è un po' prestino per diagnosticare un deficit dell'attenzione."Non riesce a farci niente. Anche mentre gli parli: un momento è qui che ti ascolta, l'attimo dopo è in orbita".
"Ha sempre fatto così?"
"Difficile dirlo, ha già cambiato molte classi... volevo dire, molti conventi".
"Ahi".
"Copertino (Lecce), Martina Franca, Roma, Assisi, Pietrarubbia, Fossombrone, Osimo..."
"Non riesce a tenerlo nessuno. Nel faldone cosa c'è scritto?"
"Bambino meraviglioso"
"Naturale. E poi?"
La modesta sede della Apple a Cupertino (il nome della località deriva da un fiume che un cartografo spagnolo dedicò a "San José de Cupertino"). |
"Un po' distratto. I compagni di banco lo chiamavano "Boccaperta", forse perché a volte si scordava di chiuderla".
"Sintomatico. E com'è che è diventato sacerdote?"
"Eh, vossignoria lo saprà meglio di me: Dio ci chiama e noi..."
"E noi dobbiamo studiare e passare esami di latino e teologia. Spiegatemi come ha fatto a passarli questo bifolco che non riesce a star fermo sul banco neanche a legarlo".
"Pare che sia stato un miracolo".
"Ma guarda".
"Lui racconta di aver penato molto sui libri, invano".
"Sì ma non siamo nell'Ottocento romantico, tutte queste menate sul buon selvaggio che riesce a diventare un buon curato di campagna anche se non gli entra in testa il periodo ipotetico del terzo tipo non le capiamo. Com'è andata davvero questa cosa, spiegate per filo e per segno".
"Dunque... lui era già stato espulso dal convento di Martina Franca perché rompeva i piatti".
"I piatti?"
"Non riusciva a lavarli senza romperli. Pare che andasse in estasi anche mentre li sfregava".
"Ma potrebbe persino essere epilessia. E lo abbiamo fatto prete?"
"No, anzi, i confratelli lo rimandarono a casa coi cocci ancora impigliati al saio. Ma lui a casa non ci poteva stare".
"E perché no?"
"Orfano di padre debitore. C'è una sentenza del tribunale supremo di Napoli che in pratica lo obbliga a lavorare finché non avrà saldato il debito del padre. L'unico modo di scamparla..."
"Era farsi frate".
"Quelli della Grottella si impietosiscono e lo riprendono. Ma siccome in cucina rompe tutto, pensano bene di farlo studiare".
"Meglio che rompa i libri che le scodelle".
"Dopo tre anni passa a fare l'esame per il diaconato il vescovo in persona".
"Com'è andata?"
"Un miracolo! Il vescovo apre il messale a caso e chiede a Giuseppe di spiegare il vangelo. Esce Luca 1,42".
"La Visitazione".
"Era l'unica pagina che Giuseppe era riuscito a memorizzare".
"Magari sullo stesso messale".
"In che senso?"
"Che se era l'unica, magari aveva dovuto aprirla spesso, e i messali si aprono più facilmente nella pagina che è rimasta aperta più tempo".
"Beh, in effetti questo potrebbe spiegare l'esame per il diaconato, ma poi... è diventato presbitero".
"Ecco. Ci piacerebbe capire come ha fatto. Un altro miracolo?"
"Di nuovo in presenza del vescovo. Sono tutti preparatissimi tranne Giuseppe. Il vescovo interroga i primi tre. Sanno tutto. Va bene, dice, si vede che siete una classe che studia. E se ne va".
"Questo è il miracolo?"
"Così lo raccontano".
"Le scuole migliori del mondo, abbiamo".
"E infatti produciamo santi che il mondo ci invidia. Ma adesso che si fa?"
"Che si fa. Che si fa. È una parola".
"Vossignoria, non è un modo di dire, siete l'Inquisizione. Se lo volete bruciare, dite solo una parola e appena viene giù lo mettiamo sulla pira".
"Ma come si fa... cioè, a parte volare e sfangare gli esami, ha mai fatto qualcosa di male? Morde?"
"Lui? No, macché... è buono come il pane".
"Predica al volgo? Non vorrei che mettesse in giro qualche fesseria sediziosa o rivoluzionaria, non sarebbe nemmeno il primo".
"No, no, è tranquillo. Parla agli animali".
"Ah, meno male. Ci piacciono quelli che parlano con gli animali".
"In effetti danno molti meno problemi".
"È proprio una pratica da incoraggiare, l'animaloterapia. Stiamo riscrivendo anche la storia del vostro fondatore in tal senso".
"Francesco?"
"Gli facciamo parlare un sacco con gli animali, così dà l'esempio".
"Tornando a Giuseppe..."
"Massì, che ci volete fare, è solo un poveretto che non riesce a star fermo in un posto. Mettetelo in una cella col soffitto non troppo basso e abbiate cura che non dica o faccia troppe scempiaggini. Al limite quando muore lo facciamo santo".
"Lui i soffitti proprio non li sopporta. Ci picchia contro, si fa male".
"E che vi devo dire. Siamo nel Seicento, non ci sarà ritalin in circolazione per quasi tre secoli, che altro dovremmo fare? Lo incateniamo?"
"E se lo lasciassimo libero?"
"Libero di fare che?"
"Di volare dove vuole".
"Ma non dite fesserie, siamo l'Inquisizione noi. La gente non vola".
"Infatti è un miracolo".
"Proprio per questo deve restare una cosa rara. Un poveretto che vola è un miracolo. Un popolo di poveretti che volano è l'anarchia".
"Uff".
"Non è contento".
"In coscienza, mica tanto".
"Meglio così, se vi lamentate in tanti è segno che facciamo un buon lavoro".
"Questa cosa di scontentare più gente possibile, se devo essere sincero..."
"Deve"
"...io non l'ho capita tanto".
"Capirà, capirà, se resta a terra prima o poi capisce tutto".
September Spleen
11-09-2020, 22:4611/9, dialoghi, scuolaPermalink
"Giusto te. Hai tempo?"
"No".
"Mi servi lo stesso. Ci servono le planimetrie..."
"I colleghi vogliono sapere per l'orario dell'intervallo".
"L'orario per l'intervallo lo facciamo con calma".
"Con calma in che senso, è venerdì, lunedì comincia tutto, abbiamo venti classi su due piani e devono tutti fare l'intervallo in uno spaziotempo diverso..."
"Per fare l'intervallo devono essere entrati, no?"
"Me lo stai chiedendo? Certo che devono essere entrati".
"E allora prima di organizzare gli intervalli dobbiamo rivedere lo schema delle entrate".
"Di nuovo?"
"L'ingresso nord non è più disponibile".
"Ma come, i frati avevano promesso..."
"L'assicurazione non copre gli studenti nel tragitto".
"Sono venti metri".
"Dobbiamo rifare lo schema delle entrate".
"Ma tra dieci minuti sono in call con gli elettricisti".
"E allora dobbiamo sbrigarci. Ricapitolando: venti classi, tre ingressi perché i frati non ci aprono il quarto, devono entrare tutti in venti minuti in fila indiana a un braccio di distanza".
"Non ce la possiamo fare".
"Se facciamo passare il corso B tra la biblioteca e il muro di cinta?"
"Tra la biblioteca e il muro di cinta ci sono i cassonetti".
"E li facciamo spostare".
"I bidelli sono in agitazione".
"E li calmiamo".
"È un incubo".
"Ci servono le planimetrie, hai un'idea di dove potrebbero..."
"Lo sapeva la Cosa, ma è andata in pensione, prova a guardare nel suo armadio".
"Oddio ma che è questa roba".
"Piano d'emergenza... ma questa non è la planimetria della nostra scuola".
"Sicuro?"
"È rettangolare".
"Aspetta sono i prefabbricati del terremoto".
"Aaaaah, il terremoto".
"Bei tempi".
"E poi qui che c'è? È un piano per l'antiterrorismo?"
"Abbiamo avuto un'emergenza terrorismo?"
"Non saprei, magari è solo un piano che non è mai stato applicato...c'è scritto qualcosa sui cestini della spazzatura nei luoghi pubblici. Andavano tolti".
"Tolti i cestini? E perché?"
"Ma che ne so, è roba vecchia... 2001".
"C'è stata un'emergenza antiterrorismo nel 2001?"
"A quanto pare".
"Bei tempi comunque".
"Bei tempi sì".
La scuola non era un parcheggio. Ieri.
02-09-2020, 08:50epidemia 2020, scuolaPermalinkSe a questo punto vi sembra che tutti vogliano tornare a scuola tranne gli insegnanti, ecco, in parte succede anche perché gli insegnanti in quelle scuole ci sono già tornati, e hanno realizzato quello che la maggior parte degli studenti e dei genitori e dei giornalisti e dei loro committenti ancora non ha capito, ovvero: la scuola che comincerà a settembre, non è quella che abbiamo lasciato in marzo.
Superman e il mercurio nelle vene
04-06-2020, 00:55complotti, epidemia 2020, futurismi, scuolaPermalinkC'è una regola che mi sono dato anni fa e mi ci sono trovato bene: prenditela solo con chi è più grande di te. Siccome sono rimasto molto piccolo, questo non mi impedisce di prendermela con chiunque. Non mi consente però di farmi gioco di questa signora, e del movimento da burletta che rappresenta, una specie di sfogatoio per tensioni che nemmeno i più organizzati movimenti paranazionalisti, postfascisti e populisti riescono più a controllare. Certo mi è capitato di infierire su chi faceva discorsi molto simili, ai tempi in cui votavano tutti Grillo e Grillo aveva improvvisato un movimento che lambiva il 30% dell'elettorato: mi è capitato perché in quel caso ci vedevo un raggiro, una circonvenzione di incapace, un venditore di filtri magici che mandava i suoi commessi in parlamento.
Questa signora mi sembra molto più una vittima che complice: se non ho molte speranze di farle cambiare idea, non traggo nessuna soddisfazione dall'osservarla peggio informata di me. In lei vedo una signora angosciata; vorrei rassicurarla sul fatto che le sue angosce sono completamente campate in aria, ma c'è questo piccolo problema che sono angosciato anch'io.
Vorrei poterle dire che il 5G non fa più male del 4G che stanno usando i suoi amici per riprendere il suo comizio, anzi consentirebbe al pubblico da casa uno streaming più efficace, di qualità quasi televisiva; dopodiché tra i suoi sproloqui e i discorsi dei parlamentari non sarà più possibile notare la differenza (che tende in effetti a sbiadire). Vorrei poterle dire che Bill Gates non ha nessuna intenzione di renderci più robotici di quanto non abbia già fatto col suo strumento più diabolico, che è poi quello davanti al quale sto da dieci ore e non ho ancora finito la mia giornata. Vorrei poterle dire che non deve preoccuparsi di queste sciocchezze, bensì... di problemi ancora più grandi e plausibili, guerre, pestilenze, diluvi. E mi domando se tutto lo scemenzaio a base di 5G e mercurio nelle vene non sia un nemico di cartapesta che alcuni consapevolmente si costruiscono, per distrarsi dai problemi veri – non faccio anch'io la stessa cosa quando ancora me la prendo con un Renzi o con quel che resta del giornalismo italiano? Con tutti i veri problemi che ci sarebbero, già.
Quel che mi muove del discorso della signora, è che partendo da premesse di cartapesta la conclusione è assolutamente condivisibile: ci vuole più istruzione. Per carità lo hanno detto in tanti, che bisogna ripartire dalle scuole – e quasi tutti avevano la ricetta sbagliata, e quando hanno potuto dare un contributo hanno spesso arrecato più danni che utile. Questo non toglie che è proprio così: ci vuole più istruzione. Lascio qui un rimpianto per quel modello di partito come intellettuale collettivo, che nel secolo scorso si sarebbe preso carico delle angosce della signora, avrebbe saputo interpretarle, distillarne l'essenza e studiare una risposta che sapesse di speranza, offrendole nel frattempo strumenti per esprimere il suo disagio, esperti con cui parlare (anche di 5G e vaccini), compagni e compagne in cui riconoscere la stessa condizione.
Quel partito non esiste più per motivi storici, necessari; e anche quando esisteva era un meccanismo tutto fuorché perfetto, che mi avrebbe ispirato ansia e diffidenza. Allo stesso tempo non riesco ad arrendermi all'idea che tutto quello che si possa offrire a questa signora è una pedana da debuttante allo sbaraglio, un siparietto sui social per prendersi gioco di lei, e pensare che questi votano, ah ah. Sissignore, questi votano, tanto quanto quelli che hanno creduto in Berlusconi liberale o in Renzi rottamatore: la sfida della Repubblica era appunto renderli tutti elettori informati e responsabili. Lei almeno di questo confusamente si rende conto: chi la spernacchia su facebook, non più.
Di sproloqui come questo in rete ce n'è miliardi: il motivo per cui mi sono soffermato davanti a questo è un imbarazzante senso di simpatia. La signora potrebbe avere la mia età: i suoi incubi sono sinistramente simili a quelli della mia infanzia. Altri passeranno e ridono, ma io non posso ridere degli incubi dei bambini anche e soprattutto quando il bambino sono io. C'è tutto il repertorio di ansie dei nati negli anni Settanta: i vaccini di massa, negli anni in cui si facevano a scuola e si cauterizzavano col fuoco; un genuino orrore per il robot, visto non come un semplice automa semovente, ma come destino dell'uomo in una dittatura totalitaria, ed è un'ossessione da Guerra Fredda che sta ai miei coetanei come quella per gli zombie sta a chi è nato appena qualche anno dopo, inculcata da tonnellate di fantascienza distopica che alla fine non faceva che volgarizzare le premesse orwelliane: lo Stato totalitario ci succhierà l'individualità dalle vene, ci renderà automi privi di volontà propria. Stiamo ancora combattendo quel fantasma – forse è destino di tutti i bambini quando crescono – e tanto peggio se un simile Stato qui da noi non si vede: l'invisibilità essendo condizione necessaria ai fantasmi per esistere. Sarà una loggia segreta, sarà Bill Gates, sarà una rete mondiale.
Sarà il supercomputer di Superman III, che trasforma una normalissima zia in un automa con gli occhi color mercurio, in quella sequenza che ha infestato i sogni di tutti i miei coetanei – ecco, quando ho sentito la signora sono dovuto andare su Youtube, non tanto per rivederla nella sua interezza ora che finalmente ho abbastanza coraggio: ma per dare un'occhiata ai commenti e scoprire che è proprio così, la gente continua a passare e a raccontare quanto si è spaventata, anni di incubi. E io vorrei dire a tutti: era solo un film, una gag sconclusionata in un film per ragazzi. Non è vero niente, non esistono i computer supercattivi, non è di loro che non ci dobbiamo preoccupare. Vorrei essere sempre questa persona che sfiora appena la testa a tutti questi ragazzini e dice basta, tutto quello che ti fa piangere nel letto da anni è una cazzata, ora che te l'ho detto non piangerai più, non avrai più paura. Questo mi basterebbe fare nella vita, e non ci sto riuscendo, e mi dispiace. Per la signora, per tutti, per me.
Sette giorni di Passione
05-04-2020, 23:10epidemia 2020, Pasque, scuolaPermalink1. Per me le vacanze di Pasqua sono concettualmente sbagliate, ed è una delle cose di cui sono più sicuro al mondo. Quando scrivevo sull'Unita.it ogni anno scrivevo che andavano abolite, poi ho scritto sul Post.it e anche lì, se mi fate scrivere sul Bollettino di Sant'Antonio io pur di scrivere che vanno abolite le vacanze di Pasqua mi faccio cacciare dal Bollettino di Sant'Antonio.
2. Non vanno abolite perché sono brevi o lunghe (sono brevissime, ma il nostro calendario scolastico dipende dal clima, non dalle illuminazioni o dai capricci dei legislatori). Le vacanze di Pasqua vanno abolite perché, come la Pasqua cristiana, sono mobili, e questo contribuisce a rendere caotico l'ultimo trimestre scolastico. Da metà marzo in poi saltano tutti i parametri, ogni anno è diverso dall'altro, è una scomodità infinita. Altre nazioni hanno le vacanze di primavera (più lunghe, ma non è questo il problema), ecco, io farei quelle e le farei tra 25 aprile e primo maggio, così sistemerei anche quel caos dei ponti.
3. Il lunedì dell'Angelo è festa nazionale, direi, per cui le scuole quel giorno le chiuderei, tra l'altro c'è anche la comodità molto anglosassone che quel giorno è comunque sempre lunedì.
4. Quest'anno mi sento stravolto e di fare qualche giorno di pausa avrei davvero bisogno, ma non sono sicuro che sia per la mole di (tele)lavoro, anzi, può persino darsi che il (tele)lavoro sia la cosa che mi ha salvato dalla pazzia fin qui. In ogni caso le vacanze per i ragazzi non sono vacanze per gli insegnanti, che molto spesso programmano di usare quei giorni per sedute di correzione-fiume. Questa cosa molti che partecipano al dibattito non la sanno, perché il lavoro di programmazione e correzione non lo vedono e non lo capiscono, perché fondamentalmente l'insegnante è un tizio che lavora 18 ore alla settimana e sta in ferie tre mesi, quindi ciao, davvero, io e voi cosa abbiamo da dirci, mi sa che avete più tempo di me per chiacchierare, specie in questi giorni, ma anche sabato e domenica prossima sarà la stessa cosa, ciao.
5. Sì ci sono colleghi che se la stanno prendendo comoda, ma molti meno di quanto tu creda e alcuni in situazioni più complesse di quanto tu possa capire, torna pure a guardarti una serie su netflix trasmessa attraverso un router che molti colleghi non hanno in casa.
6. Sentitevi liberi di prendervela con gli insegnanti pigri che vogliono le vacanze di Pasqua mentre il ministero ci ha chiesto ufficialmente di dimezzare le ore di lezione da qui fino a data da destinarsi. E se ce l'ha chiesto è perché in certi casi gli insegnanti non si rassegnavano e ne stavano facendo di più.
7. Una videolezione non vale come un'ora di lezione. Può essere utile, in certi casi più utile, ma è semplicemente una convenzione comoda a noi e agli utenti: abbiamo deciso (per non impazzire) che le videolezioni sostituivano le lezioni, ma non significa che i ragazzi imparino uguale o che siano sempre presenti. Impartiamo i compiti, ma non significa che i ragazzi li facciano da soli. La scuola a distanza non è vera scuola. Pensare che si possano sostituire tre mesi di scuola con un adeguato monte ore di videolezioni è naif. Una settimana più o in meno non fa la differenza. Tutto quello che è successo da marzo in poi è eccezionale e lascerà segni indelebili, e tra questi segni uno di quelli che m'impensierisce di meno è che quest'anno i ragazzi verranno promossi abbastanza in automatico, dopo aver saltato mesi di scuola vera. È così e non ci potete fare niente, specialmente non ci potete fare niente litigando on line. Fatevi una diretta in cui spiegate il mistero del pi greco, magari passa un adolescente e s'intrippa e vale quanto una settimana di lezioni svogliate.
Prof volevo dirle
03-04-2020, 04:15autoreferenziali, italianistica, poesia, scuolaPermalinkSì,
metto in ordine un po' di idee e poi comincio, va bene?
No non si preoccupi stavolta sarò breve
giuro
Ci metto sopra una citazione magari Vaghe stelle dell'orsa, una cosa così.
Ma poi non riesco a iniziare lo stesso.
È sempre stato terribile, iniziare.
Prof volevo dirle che le cose che non sono molto soddisfatto di come sono andate le cose, che credo di avere fatto degli errori. Però li ho fatti io, eh? Lei non c'entra niente. Certo, a volte mi è capitato di pensare: se fosse stata un po' meno brava. Appena un po' meno brava. Magari mi sarei iscritto a boh, a giurisprudenza. Poi da cosa nasce cosa, tre o quattro anni a sgobbare sui codici e adesso sarei un tizio che indaga sui camorristi, va' a sapere (oppure sarei uno che i camorristi li difende, davvero, va' a sapere).
Prof volevo dire avrà saputo
Ma prof volevo dirle
che ora siamo bloccati in casa tutto il giorno, che scusa perfetta per non incontrare più nessuno. C'è anche questa legge che impone oggi i sepolcri fuori dei guardi pietosi, e il nome ai morti contende, ma se vogliamo proprio dirla tutta io i cimiteri a un certo punto ho iniziato a evitarli, pensi che abito a duecento metri da un cimitero e non ci sono entrato in quindici anni, da ragazzino non ero così ma non volevo dirle questo, volevo dirle
che una volta in quarta non volevo venire interrogato e siccome non mi veniva una crisi allergica me mi arrangiai da me. Mi feci sanguinare il naso per mezz'ora, non mi ci vuole niente sa? le risparmio i dettagli. Anche adesso mi capita in classe e vado avanti a spiegare la grammatica, col naso tappato in un kleenex, ecco se vuole questo prof è il mio contrappasso. Prof volevo dirle che tra le tante cose che mi sono rimaste,
"straniante" è una parola che userei ogni dieci minuti. Ma lo so da sempre – cioè lo so dal 1991 – e quindi mi cautelo coi sinonimi, ad es. "dissonante", o "stonato", o "inquietante", lo so lo so che non è la stessa cosa. Ma prof volevo dirle che non c'è un testo o un microtesto in cui io non mi metta a trovare i dettagli stranianti, le note stonate, continuo a fare così, non ci posso fare niente, è come se fossi nato così. Poi lo so che a volte i ragazzini crescendo confondono tutto, dimenticano cento lezioni e ne ricordano una di dieci minuti che nella loro testa diventa un corso biennale, però prof davvero, per lei era tutto così straniante e non c'era una riga apparentemente banale che non nascondesse quel dettaglio straniante a fissarla bene e io continuo a fare questa cosa, anche se prof io non la sto facendo così bene, per esempio
secondo lei quando Leopardi ripete "O natura o natura", non lo trova straniante? La prima volta passi, ma la seconda volta insomma come si permette di ripetersi così, nel 1828 non ci si ripeteva così, è come un gesso che si spezza sulla lavagna, io almeno così la spiego in classe, è come se volesse strapparti la poesia mentre la leggi, ehi, fin qui abbiamo scherzato ehi, natura, ma che cazzo fai ma come ti permetti, non si fa così. Non si fa così. Ti aspettavi che facessi il mio numero, il mio pianto per la fanciulla da chiuso morbo combattuta e vinta? eh no vaffanculo la poesia finisce qui io non te la do vinta o natura, vabbe', forse proietto, forse vedo straniamenti ovunque, mi hanno insegnato così ma l'allievo esagera sempre, l'allievo mediocre intendo.
Prof lo sa che ho fatto un anno di latino senza comprare il libro, e adesso a volte mi viene in mente una cosa di Plauto e ah no è vero, me lo facevo sempre prestare dal compagno, che cialtrone che ero come avete potuto sopportarmi
e parte della mia vergogna è che ho scelto di fare il suo mestiere senza essere così bravo, avrei potuto prendere altre vie ma ho scelto di farlo, e forse l'ho proprio scelto perché così posso tornare ogni anno sugli autori più scontati del mondo, ogni anno di nuovo Dante, di nuovo Petrarca – provo anche a portare Ariosto, lo so che non dovrei, e anche Foscolo non so perché m'impunto, cioè lo so ma è un errore. A gente di tredici anni che non glielo posso dire prof che errori fanno davvero, non glielo posso dire, a gente di tredici anni somministro Leopardi, e Verga, e ho sempre questo sospetto di farlo più per me che per loro, con tutti i draghi e i maghi che ci sono in libreria, ma cosa vado a rileggere la Vergin Cuccia e La Roba ma perché, ma chi mi credo di essere davvero. Prof volevo dirle
che tra le varie cose che mi sono successe a un certo punto mi è scattato questo meccanismo per cui ora detesto le ombre dei cipressi e le urne; che fosse per me i miei morti di famiglia non dico i fiori freschi, ma non si leggerebbe il nome dalle ragnatele, non vado neanche volentieri ai funerali. Forse avrei perso anche il suo, sarei stato così stronzo? Non lo sapremo mai.
che non credo di essere sopravvissuto all'elaborato di quinta sulle Ricordanze, dentro di me sono ancora prigioniero di quelle bozze, lo so che se lei ci fosse non si ricorderebbe di cosa sto parlando ma neanche la tesi di dottorato mi ha fatto sudare di più. E volevo anche dirle
che sono un maledetto egotico che prende i lutti a pretesto per parlare di sé stesso, e lo so, ma è anche vero che gli insegnanti migliori sono come degli specchi che ti mostrano quello che eri e che sei e che diventerai e a parte questo a volte non ti mostrano tantissimo, io forse non volevo nemmeno vedere altro, m'imbarazzava volerle bene. Anche adesso i miei studenti migliori, quando credono di vedere in me qualcosa, io ho sempre quella sensazione che li sto fregando, che tutto quello che imparano lo imparerebbero anche da soli, forse meglio da soli (o comunque con un insegnante migliore). Volevo dirle
che non sono soddisfatto di come sono andate le cose, ma non per me, dentro di me c'è come un meccanismo che scatta quando il dolore è troppo, devo averlo elaborato in seguito a circostanze così dolorose che non me le ricordo. Così vado a letto contento, magari ci vado alle quattro di mattina ma non credo di avere rimpianti. Devo solo tenermi nascosto da quelle quattro o cinque persone che credevano in me, che si aspettavano da me qualcosa di più, e una di quelle persone era indubbiamente lei, ma non è colpa sua – certo se fosse stata un po' meno brava. Appena un po' meno.
Volevo dirle prof, che io non corro questo rischio e lo so per certo – in questi giorni con la didattica a distanza mi è capitato di dover registrarmi, e risentirmi, e cancellare i balbettii, e tutte quelle incertezze infinite insopportabili che sulle pagine dei temi erano freghi e scarabocchi, prof volevo dirle che mi dispiace per tutti quei freghi e scarabocchi e incertezze e per averle fatto aspettare a volte anche quaranta minuti, dopo la sesta campana, io non capisco davvero perché non se ne andava, cioè che cazzo avevo ancora da ricopiare dopo quattro ore chi mi credevo di essere, Hemingway, Flaubert, perché non mi strappava il foglio protocollo dalle mani o anzi me lo lasciava lì, vattene a floberteggiare alla stazione autocorriere. E invece no lei era sempre tranquilla – io almeno la ricordo sempre tranquilla, ecco, questo avrei voluto imparare da lei, e si leggeva questi paragrafi barocchi tremendi ricopiati all'ultimo momento, con quella calligrafia scema, mi vergogno così tanto, però volevo dirle
che passo gli anni, abbandonato, occulto, senz’amor, senza vita; ed aspro a forza tra lo stuol de’ malevoli divengo?
Ma no.
Volevo dirle che non sono soddisfatto di me, ma questo non toglie che io sia stato un ragazzo straordinariamente fortunato, che ha avuto il privilegio, diciamo pure l'incredibile botta di culo di infilare una mezza dozzina di insegnanti fantastici, tra cui lei era la migliore – ovviamente lei adesso penserebbe che a turno questa cosa la dirò a tutti ma non andrà così, lei era la migliore e mi sembra di portarla dentro di me in ogni cosa che leggo e che scrivo. Volevo dirle che non c'è nulla che mi ripaga più di fare una buona lezione, dove per buona si intende 0,3 della scala Marchiò, a volte 0,5, più spesso 0,1. E adesso tutto questo lo rileggerò e lo ricopierò in bella tanto ormai ho tutto il tempo del mondo, no? Tanto lei non può più leggermi, quindi ho tutto il tempo del mondo per lamentarmi in brutta o in bella copia della mia sventura (o natura). Volevo dirle questo, ecco.
L'ho fatta lunga, lo so.
Si vede che non ce la faccio proprio, si vede che sono fatto così.
Lei sarà sempre con me.
Dov'è la scuola digitale (quando serve)
13-03-2020, 00:22epidemia 2020, internet, scuolaPermalinkGli insegnanti fanno quel che possono, che non è sempre abbastanza. Probabilmente in questi giorni avete sentito parlare in tv o alla radio di docenti smart che già da settimane organizzano videocorsi interattivi on line e somministrano e correggono verifiche digitali a distanza. Ecco. La maggioranza non è così – il che non vuol dire che non si stiano dando da fare. Molti che non erano preparati all'emergenza, ora stanno cercando di lavorare da casa sui supporti digitali, e di conseguenza stanno impazzendo. Improvvisamente tentano di usare le piattaforme digitali che gli editori scolastici hanno realizzato negli ultimi anni. I rappresentanti avevano garantito che fossero facili da usare. Magari in una situazione normale sarebbero davvero facili da usare, ma indovina: non è una situazione normale, e i server dei principali editori scolastici italiani non stanno reggendo il colpo.
Aggiungi che ogni insegnante anche in questo frangente non ha nessuna intenzione di rinunciare al principio costituzionale della libertà di insegnamento, ovvero nello stesso consiglio di classe non sarà infrequente trovare insegnanti che intendono usare due o tre piattaforme diverse e lo hanno già comunicato autonomamente ai genitori. Non che faccia molta differenza: le piattaforme funzionano tutte a strappi, e anche quando funzionano, sono pur sempre prodotti editoriali, anche nel senso che considerano l'utente una fonte di dati da estorcere. Per usarli bisogna aprire l'account. Ed ecco consumarsi la tragedia quotidiana: gli insegnanti, tramite la scuola, informano i genitori che per fare lezioni a distanza bisogna registrarsi presso la tale piattaforma. I genitori reagiscono perplessi: un'altra registrazione. Un altro account. Altra gente che vuole i miei dati. Ma soprattutto: un'altra password da ricordare.
Anche quando gli insegnanti più tecnologicamente sgamati suggeriscono di passare a infrastrutture più universali e affidabili – Google e Dropbox è più difficile che vengano giù – ormai il genitore è esasperato, ha già aperto due o tre account diversi, e adesso che c'è? Volete che scarichi un'app di Google per le videoconferenze? Come se il genitore medio avesse la fibra in casa. A volte non ce l'ha neanche l'insegnante, che magari si concede generoso una prima videolezione di un'ora con lo smartphone per poi scoprire che ha prosciugato il suo piano dati mensile. A quel punto, c'è sempre qualcuno che insorge: "Ma non potevate mettere tutto sul registro elettronico?"
Qualcuno ci ha pure provato. Ci sono registri elettronici che stanno proponendo alle scuole le loro piattaforme digitali, e sì, sono gli stessi benedetti registri elettronici che si piantano ogni mattina alle otto quando qualche migliaia di insegnanti prova a usarli per fare l'appello in classe. Non è tanto il fatto che non siano pronti all'emergenza – nessuno lo era – ma sembra quasi che non se ne rendano conto. È come se tutti gli aeroplani i treni e i tram non potessero più partire e l'autista del pulmino delle medie venisse a dirti che se vuoi ci pensa lui. Chi ha permesso che succedesse questa cosa? (Continua sul Post).
Come correggere il test che avete composto con Google Moduli
08-03-2020, 15:49epidemia 2020, internet, scuolaPermalinkSe lo avete seguito, dovreste essere riusciti a produrre il vostro primo test, e magari a inviarlo ai vostri studenti.
Ma a questo punto sorge spontanea la domanda: dove posso trovare i test che i miei studenti stanno compilando? Sopra c'era scritto che i test si correggono da soli (quelli a risposte chiuse), ma... dove?
Giusto. Abbiamo aspettato un po' perché magari nel frattempo qualche vostro studente ha iniziato a rispondere, e così possiamo osservare tutto dal vero. Ora, se ci fate caso, sopra il titolo del modulo (non del test prodotto dal modulo, mi raccomando), ci sono due 'linguette', "Domande" e "Risposte". Il vostro modulo per ora è settato su "Domande", come in questa immagine.
Ora dovete selezionare "Risposte". Ci troverete statistiche, grafici e tante altre cose interessanti (ad esempio quali sono gli errori più frequenti), ma non c'è esattamente quello che state cercando voi, ovvero i punteggi dei vostri ragazzi. Per avere accesso a quelli dovete creare un foglio elettronico. Come si fa? Si preme il tasto apposta. Se usate Google Fogli avete già riconosciuto l'icona. Comunque è quello cerchiato in rosso qui sotto.
Vi chiederà se creare un nuovo foglio. Premete "crea". (La prossima volta che tornerete qui, vi manderà sul foglio che adesso avete creato). Ora sul vostro pc (o tablet) visualizzerete un foglio elettronico di Google. Alcuni di voi sanno benissimo usare i fogli elettronici, altri no. C'è sempre una prima volta.
Il foglio in questione è molto largo perché contiene tutte le risposte dei vostri studenti a tutte le domande.
Ogni colonna rappresenta una domanda diversa (e quindi 50 domande 50 colonne...)
Su ogni riga c'è la prova di uno studente. In cima ci dovreste essere voi, se siete stati i primi a compilare il test, come vi avevo chiesto di fare.
Qui c'è l'esempio di un foglio elettronico di una mia verifica:
Il foglio è molto ampio ma le cose davvero interessanti sono tutte a sinistra: c'è l'orario in cui ogni ragazzo ha compilato il test e c'è il punteggio. Se il test è stato inviato per mail o raccoglie automaticamente la mail, dovrebbe esserci la mail di ogni ragazzo. Se invece la prima domanda del test è "qual è il tuo cognome", dovrebbe esserci il cognome (ma se avete aggiunto la domanda all'ultimo momento può darsi che la colonna coi cognomi sia molto più a destra. Potete trasportarla a destra se siete pratici di fogli elettronici; anche se non lo siete: selezionate la colonna che v'interessa e trascinatela a sinistra col mouse).
Ho censurato i cognomi dei miei ragazzi perché sai, la pricacy (inoltre alcuni sono davvero scarsi). Come potete notare, c'è sempre qualcuno che si dimentica di scrivere il cognome (come con le verifiche cartacee). Il punteggio è in quarantesimi perché la verifica che ho impartito prevedeva quaranta domande da un punto. Tutto qua. Facile, dai.
Ma io volevo il voto in decimi!
Ma sei sicuro? Ha davvero senso valutare con un voto in decimi una prova che i ragazzi fanno a casa? Possono consultare i libri, internet, i genitori. Possono farla fare direttamente ai genitori. Io dico sempre che queste prove sono allenamento alla prova vera che faranno in classe.
Comunque se proprio insisti un sistema c'è. Serve solo un po' di matematica elementare. Se un test è fatto di 40 domande, il massimo che uno può prendere è 40, il minimo è 0. Possiamo chiamare 40 "denominatore", perché il punteggio dei vostri studenti è una frazione: se qualcuno fa il massimo, è 40/40; se uno fa la metà, 20/40, e così via.
Se volete il punteggio in decimi, dovete dividere il numeratore (il punteggio degli studenti) per il denominatore (il massimo del punteggio della prova) e moltiplicare per 10. Ad esempio: il ragazzo che ha fatto 20 punti su 40 avrebbe preso 20:40✕10=5. (Che ti aspettavi ragazzo? Hai risposto bene a metà delle domande, la metà di 10 è 5).
Dopo un po' credo che venga spontaneo a molti insegnanti dividere il punteggio di ogni ragazzo per il decimo del denominatore. Se il denominatore (che è il massimo dei punti previsti) è 20, si divide il punteggio per 2. Se il denominatore è 40, si divide per 4. Se è 65, si divide per 6,5. Spero sia chiaro. E ovviamente c'è un modo per far fare queste operazioni al foglio elettronico... ma se non siete pratici di fogli elettronici e non volete diventarlo proprio in questo momento, potete usare una calcolatrice.
Se invece ve la sentite (e state usando un Pc, col tablet diventa difficile), selezionate la colonna "Punteggio", cliccate su "Inserisci" e specificate "inserisci una colonna a destra". Poi selezionate la nuova colonna, cliccate su "Formato", selezionate "Numero" e "automatico". Anche se è già selezionato, fatelo lo stesso.
Se avete scritto correttamente la formula, ora la casella vi restituirà il valore in decimi.
Adesso selezionate quella cella e copiate la formula (con ctrl+c su PC, credo ancora mela+c su Apple).
Selezionate tutte le altre caselle della colonna C in cui volete visualizzare i valori in decimi, incollate la formula che avete appena copiato (ctrl+v o mela+v) e... ecco i valori in decimi. Se proprio non potete farne a meno.
A questo punto avete consegnato una verifica ai ragazzi, loro ve l'hanno rimandata indietro, e voi conoscete i loro punteggi in decimi. Più di così cosa volete?
Tantissime altre cose, per esempio:
– Correggere le domande aperte a una a una (so che non vedete l'ora). Beh, sul foglio elettronico ci sono tutte, potete confrontarle e valutarle a mano (potete anche intervenire sul foglio elettronico, ma è una cosa che lascerei fare ai più esperti e anche loro sanno che c'è il rischio di danneggiare i dati).
– Cambiare la grafica del test, anche perché il viola non è proprio il massimo... anche in questo, Moduli è facilissimo e molto intuitivo. Date un'occhiata in cima, oltre all'occhio vedrete una tavolozza, ecco, da lì potete intervenire sui colori e addobbare anche la vostra verifica con un banner (una decorazione verticale). Google ne ha già di pronte, ma potete anche caricarne una fatta da voi. A quel punto il Modulo cambia automaticamente i colori per armonizzarli con quelli dell'illustrazione, è quasi inquietante.
– Aggiungere immagini alle domande: utile in geografia, ad esempio, per mostrare ai ragazzi cartine geografiche. E non dovete nemmeno averle caricate prima, Google le va a cercare su... Google.
È sufficiente passare col mouse su una domanda: a destra comparirà una casellina quadrate con il profilo di due montagne. Cliccate sopra e vi proporrà varie opzioni per caricare le immagini, tra cui appunto "Google ricerca immagini". Volete sapere un'altra cosa interessante? Nelle domande a scelta multipla potete aggiungere immagini anche alle opzioni di risposta! Ad esempio, mettere le immagini di tre sculture e poi chiedere quale delle tre è stata scolpita da Raffaello. (Scherzo).
Altre cose ancora che non vi spiego perché riuscirete a trovarle da soli, ormai siete bravissimi:
– Assegnare 0 punti dalla domanda "Come ti chiami", visto che non esiste una risposta corretta a priori).
– Usare altri tipi di domande e non solo quelle "a pallini" (In particolare le griglie, che ci consentono di fare domande Vero/Falso).
– Rendere causale l'ordine delle domande (attenti però, anche la domanda "Qual è il tuo cognome" sarà in ordine casuale).
– Dividere i quiz in sezioni
– Cambiare l'algoritmo del punteggio, magari per livellare i punteggi troppo bassi
– Copiare le domande da altri test
Tutte queste cose in realtà potrete impararle da soli: i moduli di google sono molto intuitivi. Oppure potete scrivermi nei commenti, non so quanto tempo avrò nei prossimi giorni, ma se posso continuo. A presto!
Come comporre un test di verifica con Google Moduli
07-03-2020, 13:58epidemia 2020, internet, scuolaPermalinkVabbe', lamentarsi non serve. Meglio provare a condividere le cose che funzionano.
Io insegno e uso il computer da anni, e tanti servizi on line preferisco non usarli perché mi creano più problemi di quanti non me ne risolvano. Se devo invece pensare a una cosa che mi ha risolto qualche problema, penso a Google Moduli.
Google Moduli è un'app di Google che ci consente tra le altre cose di realizzare test e questionari e distribuirli ai ragazzi a costo zero. È molto facile. Ho detto che è un'app, ma non va nemmeno scaricata sul tuo dispositivo (pc, tablet o persino smartphone). In questo momento stai usando internet, no? Se mi stai leggendo, sei già in grado di usare Google Moduli senza scaricare niente. Al massimo devi aprire un account gmail (google) se non ce l'hai. E siccome è gratis e molto semplice, cosa aspetti? Vai su www.gmail.com e apri un indirizzo di posta elettronica. Poi torna qui.
Molto probabilmente ti è già capitato di compilare un questionario realizzato con Google Moduli. Qui c'è un esempio di verifica realizzata con Google Moduli. È veramente il livello base, l'equivalente di un compitino a casa in prima media – l'ho fatta in meno di un'ora. La cosa simpatica è che una volta fatta possiamo riutilizzarla o modificarla tutte le volte che vogliamo (si risparmia anche un sacco di carta e di toner).
Un aspetto che di solito piace molto agli insegnanti è che i test si correggono da soli (a meno che non contengano risposte aperte: in quel caso i professori possono controllare tutte le risposte dei ragazzi su un foglio elettronico. È comunque più leggibile di una verifica cartacea, mediamente).
Prima di continuare, attenzione: Google Moduli è molto facile e può essere molto utile, ma non è la risposta a tutti i problemi.
Aspetti positivi:
– È facile (sia per chi produce i test, sia per chi li compila, sia per chi li corregge)
– È gratis (sia per gli insegnanti, sia per gli studenti)
– Gli studenti non devono iscriversi a nulla. Cioè, se avessero anche loro un account google sarebbe preferibile, ma non è obbligatorio.
– I risultati arrivano direttamente all'insegnante senza passare da nessun editore.
– Abbastanza duttile (posso aggiungere immagini, copiare le domande su altri test, ecc. ecc. ecc.)
– È Google, ovvero non dovrete mai preoccuparvi che vada in palla un server, come succede a volte con le piattaforme degli editori italiani (specie in questi giorni che tutti cercano di usarle).
Aspetti negativi:
– È uno strumento perfetto per fare test chiusi (a crocette), e ovviamente questo è molto riduttivo da un punto di vista didattico.
– È così facile da usare che molti studenti tendono a usarlo dallo smartphone, il che significa che se a un certo punto volete mettere nel vostro test una domanda aperta, loro cercheranno di scriverla con lo smartphone, non con una tastiera (non tutti hanno un terminale con tastiera a casa, e anche quelli che ce l'hanno non la sanno usare molto bene).
– Anche alcune forme di esercizi chiusi non funzionano: ad esempio non mi pare che si possano fare i cloze test (brani da completare).
Va bene ma insomma come si fa?
- Avete aperto un account gmail?
- Ora prendete un dispositivo (pc o tablet) e andate su drive.google.com. Potete andarci sia da browser (chrome, safari, edge, ecc.) sia dall'app di Drive se l'avete scaricata. Per chi non è pratico: Drive è una cartella che google mette a disposizione per i vostri file. Se li caricate su Drive, li potrete scaricare da qualsiasi altro computer: basta che vi ricordiate il vostro indirizzo gmail e la vostra password. Capite cosa significa? Mai più chiavette! E potete aprirli anche da smartphone...
- Create un file. Per crearlo si preme il segno "+" di quattro colori che dovrebbe trovarsi in alto a sinistra.
- Si apre un menu: cliccate l'ultima voce ("Altro...")
- Ora cliccate la prima voce ("Moduli Google")
- Ecco qua: avete creato il vostro primo modulo. Facile, vero?
- A questo punto molte cose sono intuitive: ad esempio, cliccando su "Modulo senza titolo" potete cambiare nome al Modulo (cliccate anche sul titolo in alto a sinistra, così cambiate nome al file).
- Cliccando su "Domanda senza titolo", potete cancellare "Domanda senza titolo" e scrivere la vostra prima domanda.
Ho una proposta: domandate: "Come ti chiami?" È una domanda utile – capiremo presto il perché. - A quel punto non sono sicurissimo che succederà anche a voi, ma a me succede una cosa fantastica, ovvero Google capisce che tipo di domanda voglio fare e nella casella a destra indica che è un tipo di domanda a "Risposta breve":
- Le domande a risposta breve sono quelle a cui i vostri studenti risponderanno digitando un testo di poche lettere (un cognome, ad esempio). Se Google non ha selezionato per voi questo tipo di risposta, potete farlo voi da soli cliccando sul rettangolo che è cerchiato qua sopra. A quel punto vi verranno mostrati tutti i tipi di domande che si possono fare con Moduli. Noi oggi vedremo solo le più semplici: se vi piace lo strumento comincerete a giocarci da soli e scoprirete un sacco di altre cose.
- Rispondendo alla domanda "come ti chiami" i vostri studenti si identificheranno senza bisogno di iscriversi a nessun account. Certo, potrebbero anche scrivere il nome del cane o del compagno antipatico. Ovvero: questo approccio va bene soltanto se c'è molta fiducia, e se tutti sappiamo che i test servono solo a esercitarsi, non a essere valutati. Se volete usare lo strumento più seriamente, è meglio richiedere un'identificazione via mail – dopo vediamo come si fa.
- Siccome questa domanda è abbastanza importante, meglio spostare verso destra il pulsante "Obbligatorio" che vedete in fondo a destra. In questo modo il test non potrà essere inviato finché lo studente non risponde alla domanda.
- E adesso vai con la seconda! Premete il tasto "+" che trovare nel piccolo menu a destra, e comparirà di nuovo il box per comporre le domande. Stavolta proviamo la domanda a "scelta multipla", che è quella che serve per domande a risposta chiusa (in pratica saranno pallini da riempire col dito su tablet o col mouse su PC). Ci sono altre possibilità (test a tendina, tabelle, ecc.), ma non tutte sono autocorreggenti e per ora stiamo imparando, quindi restiamo su "Scelta multipla" che è l'opzione più facile.
- Siccome stiamo lavorando su una domanda a scelta multipla, cliccando su "Opzione 1" possiamo scrivere la prima risposta possibile (giusta o sbagliata); cliccando su "Aggiungi Opzione" scriviamo la seconda, e a quel punto il modulo ne aggiunge una, finché vogliamo noi.
- In basso a sinistra, quattro funzioni molto importanti.
- La prima è la funzione "copia": se la premiamo, duplichiamo la domanda che abbiamo appena scritto. Può essere utile.
- La seconda (il cestino) è "cancella": serve ovviamente a cancellare la domanda.
- La terza serve a rendere la domanda obbligatoria, l'abbiamo già vista.
- La quarta (i tre puntini verticali) ci apre una serie di funzioni. Per ora ce ne serve soltanto una: "ordina le opzioni in modo casuale". Utilissima. Così anche se i ragazzi rifanno lo stesso test, troveranno le risposte in ordine diverso (in classe questo rende molto più difficile copiare).
Come fa il Modulo a conoscerla?
Per farlo dovete andare in Impostazioni: è la rotella dentata in alto a destra, di fianco al tasto viola Invia.
Si apre una finestra: selezionate "Quiz" (in alto a destra).
Spuntate la voce "Trasforma in Quiz". A quel punto vi chiede altri dettagli: per ora lasciate stare, siamo ancora al livello base.
Premete "Salva" in basso a destra.
Avete prodotto il vostro primo quiz
Ma non avete ancora scritto la risposta!
Ora però in fondo a sinistra è comparsa la scritta "Chiave di risposta", l'avete vista? Cliccate sopra, e a quel punto il modulo vi chiede due cose:
– di selezionare la risposta giusta col mouse (su pc) o col dito (su tablet). Si colorerà di verde.
– a destra, di specificare quanti punti vale la risposta giusta.
Premete "Fine" e... il vostro primo modulo è pronto!
(Certo, potete aggiungere altre domande: basta premere il tasto "+" nel menu a destra della prima domanda).
Ma siamo sicuri che funziona?
Ovviamente no, potremmo esserci sbagliati a scrivere le domande o le risposte. Per questo è importante 'provare' i test che facciamo. Come?
In alto a destra, vedete quell'occhio? È l'anteprima! cliccandolo, sarete i primi a compilare il vostro quiz e lo vedrete proprio come lo vedranno i ragazzi. In quel momento scoprirete subito di aver fatto questo o quell'errore: è normale, anche dopo anni, tranquilli.
Alla fine premete "invia" e... il modulo dovrebbe restituirvi il punteggio! A questo punto, se il punteggio non è quello che vi aspettavate, ricontrollate le risposte: può darsi che vi siate sbagliati lì.
"Ok, quindi adesso devo solo condividerlo coi miei studenti e..."
NO.
Scusa la rudezza, ma purtroppo questo è l'errore più facile e pericoloso. NON CONDIVIDERE I MODULI CON CHI DEVE COMPILARE I TUOI TEST, MAI.
Perché?
Perché i moduli NON SONO I TEST (anche se ci assomigliano tantissimo). Sono file che producono i test, ma non sono i test che producono. Rifletti: se li condividi con gli studenti, loro vedranno le risposte giuste! Non solo, ma potranno modificarle! E tu non vuoi questo.
Tu vuoi che loro facciano soltanto il test, e quindi (ribadisco) non devi condividere il modulo, ma inviare il test. Come si fa?
Probabilmente hai già capito che quel tasto "Invia" in alto a destra c'entra per qualcosa. Esatto.
Clicca pure.
Si apre una finestra (un'altra! eh, lo so. E pensa che questo è uno strumento facile).
La finestra ti fornisce varie opzioni.
Un'opzione è la mail: se la clicchi, il questionario arriverà ai ragazzi sotto forma di mail. Molto comodo... se tutti hanno una mail e tu hai la mail di tutti.
Un'altra opzione è la "catena", ovvero il link. Se la selezioni, il modulo ti dà un link da copiare. Purtroppo è un link lunghissimo, ma subito sotto c'è l'opzione "abbrevia URL", che lo rende un po' più semplice. Questo link puoi mandarlo ai ragazzi in altri modi, ad esempio ricopiandolo sul registro elettronico o su WhatsApp (auguri, mi raccomando alla differenza tra maiuscole o minuscole). Il link manda al test (non al modulo che serve per modificarlo).
Ok, quindi adesso è tutto a posto.
Sicuro?
Certo: ho scritto le domande, ho messo le risposte, ho inviato il test ai ragazzi... fine.
E le risposte dei ragazzi dove pensi che le troverai?
Ah già, dove?
Eh, per saperlo... arrivederci alla prossima puntata! (ma è molto facile, prometto).
I test Invalsi vanno presi sul serio (Aldo Grasso non lo fa)
18-02-2020, 23:14giornalisti, scuolaPermalinkle scrivo ma non pretendo risposta, non credo nemmeno mi leggerà mai. Mi sembra comunque utile far notare che il suo ultimo, brevissimo intervento sull'Invalsi contiene in meno di duemila battute una densità impressionante di nozioni fuorvianti e/o false. Quel che è peggio, dottor Grasso, è che non credo che lei se ne sia reso conto. A monte ci sarebbe tutta una discussione da fare, sulla dimensione allucinata in cui vivete voi opinionisti dei quotidiani italiani, una specie di grotta in cui le ombre della realtà fattuale compaiono solo distorte in forma di fattoidi: quel tipo di news leggere che i giornali pompavano sulle colonnine delle homepage perché simpatiche e acchiappaclic ancorché irrilevanti. (Parlo al passato perché non vado più sulle homepage – dovrei? Per leggere cosa?)
Per farle un esempio: quando lei scrive "la verità è che la scuola italiana ancora resiste alle valutazioni: presto sostituirà i voti con le faccine", si riferisce al singolo caso di una scuola primaria di Modena in cui ai genitori, oltre alla pagella – c'è scritto persino nel titolo, oltre alla pagella – è stato consegnato un questionario di autovalutazione con le faccine. Tutto qui. Non è un sistema alternativo alla valutazione in decimi: è uno strumento in più offerto ai genitori e agli alunni. È necessario leggere molto velocemente non dico l'articolo, ma persino il titolo, per giungere alla conclusione che una scuola primaria abbia sostituito i voti alle faccine. È necessario uno sforzo di fantasia ancora più ardito per suggerire che quel che succede in una scuola di Modena stia per diventare la norma in tutte le scuole della Repubblica. Infine, è rivelatore di una prolungata disattenzione nei confronti del sistema educativo nazionale pensare che la valutazione in decimi stia per essere soppiantata, quando chiunque sia cresciuto e abbia avuto figli negli ultimi 50 anni può testimoniare il contrario: i voti in decimi nella scuola dell'obbligo si usano molto più oggi che quando eravamo studenti noi. Io, un signore coi capelli bianchi, ricordo bene di non essere stato valutato in decimi fino al liceo, passando per ben due esami in due scuole di Stato. Oggi invece i voti si danno in decimi persino ai bambini di sei anni. È meglio, è peggio? Se ne potrebbe discutere. Quel che proprio non si può fare, dottor Grasso, senza truffare i propri lettori, è estrapolare da un articolo una notizia falsa (non è vero che una scuola di Modena ha sostituito i voti con le faccine) ed esibirla come evidenza del fatto che "la scuola italiana ancora resiste alle valutazioni". Due bugie in due righe.
Tra tante cose a cui resiste la scuola italiana (dottor Grasso) c'è anche questa manifesta cattiva fede da parte di chi partecipa al dibattito sulla carta stampata. Qualche giorno fa lei ha appreso che la certificazione delle prove Invalsi era stata tolta da un documento definito come "curriculum degli studenti", una di quelle importantissime cose destinate ad ammuffire in un cassetto, e ne ha dedotto che il governo intendeva "secretarne i risultati". Ovviamente non è così: i risultati Invalsi continueranno a essere pubblicati, come ogni anno. E come ogni anno molti giornalisti non li leggeranno, ma preferiranno fraintenderli in toto come ha fatto lei, ostinando a riproporre la bufala estiva per cui "uno studente su tre in terza media ha problemi di comprensione del testo": non è vero, l'abbiamo detto in tanti che non era vero, ma a quanto pare dire il vero è l'ultima delle priorità dei giornalisti che si occupano della scuola.
"Se una classe va male, a volte, il docente non è esente da demeriti", scrive lei, e sembra fin troppo ragionevole, quando invece sta completamente fraintendendo il senso di una rilevazione statistica come la prova Invalsi, che non è stata mai concepita per dimostrare che "una classe" (o addirittura uno studente) va male: come ogni rilevazione statistica, ha un senso soltanto quando il campione è più esteso, e il campione delle prove Invalsi è il più esteso di tutti. Ci può servire al massimo a capire se una scuola ha risultati inferiori alle altre scuole del suo territorio; se un territorio ha problemi rispetto agli altri, eccetera. Usarla per giudicare il singolo individuo (o addirittura il suo singolo insegnante) non ha senso, perché per quanto possa essere "uno strumento moderno capace di radiografare la realtà", una singola prova Invalsi non serve a niente. Cento, mille, un milione di prove Invalsi, qualcosa ce lo dicono. Una sola no, dottor Grasso, e guardi che non serve essere esperti di didattica per capirlo. Basta un po' di buon senso, e qualche nozione di statistica.
Gentile dottor Grasso, io capisco benissimo che scrivere millecinquecento battute per un quotidiano significhi semplificare: lei però è andato oltre. Certo, discutere delle prove Invalsi non è facile. Chi le scrive ha avuto l'opportunità di osservarle abbastanza da vicino sin dalla loro introduzione, in qualità di somministratore, correttore, tecnico di laboratorio, eccetera. Col tempo ho cambiato idea su molte cose e anche al momento ho la sensazione di covare due opinioni contraddittorie. Le metto qui sotto anche se probabilmente non le interessano.
– La prima opinione è che, per quanto interessanti, i test Invalsi non valgono la spaventosa quantità di risorse che vi vengono destinate, e che quindi avevano ragione i Cinque Stelle (si renda conto, avevano ragione i Cinque Stelle): sarebbe meglio abolirli. Tanto ci dicono più o meno quello che ci dicono le indagini campione OcsePisa (e quando non lo dicono gli statistici decidono subito che è a causa del "cheating", insomma l'indagine a tappeto deve conformarsi all'indagine a campione, e allora perché continuare a fare l'indagine a tappeto, a parte il motivo comunque degno che c'è bisogno di spenderci dei soldi e c'è chi ci campa da dieci anni?)
– La seconda opinione è che, se proprio non si possono abolire (e gli stessi Cinque Stelle non hanno fatto il minimo sforzo in tal senso; se ne sono strafregati, hanno lasciato per due anni il ministero a un leghista, mentre adesso la maggioranza è appesa a un tizio che è capacissimo di fare degli Invalsi un casus belli) insomma se proprio non si possono abolire, bisogna farli seriamente: e quando dico seriamente, dico che non solo vanno motivati gli insegnanti, ma soprattutto vanno motivati gli studenti. Altrimenti il quadro viene completamente falsato. Se tu spieghi allo studente che è una mera formalità che non serve alla sua valutazione, anzi (peggio!) soltanto alla valutazione del suo formatore (e quindi se mette le crocette a casaccio è il suo formatore che si ritrova nei guai!) tu non è che puoi lamentarti del fatto che i risultati siano deludenti. Quindi sì, l'Invalsi, se proprio dev'essere fatto, dovrebbe essere fatto seriamente e si deve trovare un modo di farlo pesare sulla valutazione dello studente, in tutti i passaggi. Volete la valutazione? Ok, ma occorre che tutti sappiano che non sarà un letto di rose: sarà ansiogena alle primarie, ansiogena alle secondarie, ansiogena sempre. Altrimenti questi per quattro ore ti piazzano crocette a caso e poi sulla base di queste crocette messe a caso qualche funzionario al ministero deciderà che la scuola X è meno buona della scuola Y, la provincia Z produce didattica meno qualitatevole della provincia W e altre agghiaccianti puttanate che tra vent'anni ci rideranno in faccia.
Se quindi fosse arrivato fin qui a leggere sarebbe sorpreso di sapere, dottor Grasso, che alla fine io non sarei affatto contrario all'inserimento della singola valutazione Invalsi sul "curriculum dello studente" o su qualsiasi altro foglio di carta destinato a infilarsi in un cassetto e a non dare più fastidio. Ma non perché credo che si tratti di "uno strumento moderno capace di radiografare la realtà" (mi domando se prima di scrivere questa cosa ne abbia mai simulato uno, giusto per farsi un'idea meno preconcetta). Per me si tratta soltanto di motivare in un qualche modo lo studente a mettere le crocette nel posto giusto, tutto qui. L'Invalsi non serve a valutare lui, questo dovrebbe essere chiaro a tutti, ma a valutare i suoi docenti (e nemmeno i singoli): ma se lui non lo prende seriamente, l'Invalsi non funziona e con quel che ci costa è davvero un peccato.
Certo, su milioni di studenti prima o poi ci sarà senz'altro quello che si suiciderà, probabilmente per problemi suoi che il giornalista di turno preferirà sintetizzare con un bel titolo acchiappaclic, del tipo "si lancia dalla finestra: aveva sbagliato l'Invalsi". E a quel punto lei o il suo successore si ritroverà davanti l'incombenza di scrivere millecinquecento caratteri su quanto sia disumana la scuola moderna, con tutti questi test a crocette che pretendono di descrivere le nostre capacità e non ci perdonano nemmeno una debolezza. E vabbe', la scuola italiana resisterà anche a questa cosa, la scuola italiana resiste a qualsiasi cosa. Coi miei più distinti saluti, e qualche scusa per averla tirata in ballo – i miei pensierini funzionano meglio se ci metto in mezzo una firma famosa e me la prendo con lui. Non me ne voglia, suo eccetera.
Non dimenticarti di ricordare di non scordarti di rammentare che che che
09-02-2020, 20:21memoria del 900, scuolaPermalinkNon so se l'ho convinto (lui)
04-12-2019, 12:41dialoghi, scuolaPermalink– Prof.
– Che c'è.
– Ha detto: "a me mi".
– N-no, non credo di averlo detto...
– L'ha detto, l'ha detto, vero che l'ha detto ragazzi? L'ha detto.
– Potrei anche averlo detto, potrei anche avere impiegato un dativo etico autorizzato dal contesto colloquiale, con finalità espressive, ok?
– Ok.
– Ma hai capito cos'ho detto adesso?
– No.
– Però per te è ok.
– Se lo dice lei...
– E allora vedi che ti posso raccontare qualsiasi cosa? Come fai a capire che non ti ho detto solo un mucchio di fregnacce?
– Come faccio?
– Devi studiare, Nizzoli.
– Aaah, studiare.
– Studiare, sì, studiare.
– Ok.
L'Invalsi fa politica, anche se non lo sa
20-07-2019, 22:23scuola, TheVisionPermalinkNiente. Non solo non risulta a nessuna Procura un complotto neonazista contro Salvini. Non solo non risulta fin qui nessun dirigente Pd indagato denunciato per aver tolto un figlio a un genitore. Non è nemmeno vero che alle medie non si faccia analisi logica e grammaticale: dispiace che Corrado Augias non abbia potuto controllare su un qualsiasi libro di testo, prima di consegnare le sue osservazioni a Repubblica. Quanto al sei politico, è più una leggenda metropolitana che altro: se davvero fu assegnato a qualche classe negli anni Settanta, ormai quegli studenti sono genitori di altri studenti passati attraverso altre quattro riforme scolastiche, tanto vale dare la colpa alla riforma Gentile, se non direttamente a Carlo Magno. Non è nemmeno vero che un terzo degli studenti non sappia leggere un testo: anzi, è proprio un caso di scuola di come un dato statistico possa essere deformato in senso propagandistico, o anche solo perché nelle edicole il titolo allarmista scaccia sempre il titolo accurato.
I test Invalsi sono costruiti proprio per mantenere un terzo del campione al di sotto della media: è quel che prevede il modello teorico che li ispira. Lamentarsi che un terzo dei candidati non superi la media è un po' come denunciare la scarsa qualità del tennis giocato a Wimbledon perché su 128 iscritti solo la metà riesce a passare il primo turno. Senz'altro la comprensione del testo di troppi studenti medi italiani lascia ancora a desiderare, ma di fronte a un giornalismo del genere sorge il dubbio che sia il minore dei mali: che senso ha imparare a leggere meglio se poi quel che c'è da leggere in edicola è una rifrittura delle stesse opinioni stantie prodotte entro il 1989 e poi chiuse in un cassetto? Chi ha ancora necessità di leggere attacchi a fantasmi polemici come il "6 politico", il famigerato "Sessantotto", una mai meglio definita "didattica delle competenze", eccetera eccetera eccetera?
E dire che l'Invalsi per primo fa tutto il possibile per stimolare una discussione più interessante. Il rapporto somiglia a una brochure pubblicitaria, i grafici sono abbastanza chiari, gli argomenti scelti con molta attenzione. Oltre a valutare la scuola pubblica nel suo complesso, l'Invalsi ogni anno valuta sé stessa e non è una sorpresa che si promuova sempre. Chi la vuole criticare senza indulgere ai luoghi comuni si trova invece in difficoltà: un po' perché la mole di dati a disposizione è effettivamente abbondante; un po' perché comunque conosciamo solo i dati che l'Invalsi vuole farci conoscere. Per dire: l'insegnante che ha trovato la domanda X un po' assurda non ha la possibilità di verificare se i suoi studenti siano riusciti comunque a rispondere in modo soddisfacente. In compenso ha tutti i dati a disposizione per osservare i fenomeni che l'Invalsi vuole farci osservare.
Ad esempio: la parola chiave di quest'anno è senz'altro "divario". Divario tra generi (i maschi vanno meglio in matematica, le femmine in inglese), divario tra le regioni: il nord ha risultati migliori della media, il sud inferiori. Nulla di nuovo o sorprendente, e infatti una critica che si può muovere all'Invalsi è che ci fa spendere molti soldi per dirci qualcosa che in sostanza sapevamo già: nelle zone in cui il reddito pro capite è più alto, anche l'offerta formativa è migliore. Lo strumento che secondo alcuni dovrebbe servire a valutare i docenti finisce per suggerire che la possibilità dei docenti di fare la differenza sia scarsa o nulla: un insegnante scarso a Nord avrà comunque studenti più brillanti di un insegnante motivato a Sud. Nei rari casi in cui questo non succede, il meccanismo dell'Invalsi di solito non individua un insegnante meritorio, ma un insegnante disonesto che trucca i risultati. Un fenomeno, il cosiddetto cheating, che negli ultimi due anni si è bruscamente ridotto, ci avverte l'Invalsi, senza fornirci spiegazioni. Ne azzardo una io, almeno per quanto riguarda la prova di terza secondaria di primo grado: fino a due anni fa si somministrava durante l'esame di licenza e faceva media, il che esponeva gli studenti a un rischio di bocciatura e i consigli di classe al rischio di contestazioni e ricorsi. Dal 2018 la prova si fa in primavera e non fa più media: inoltre è finalmente computer based, ovvero gli insegnanti non la correggono più a mano (finalmente!), e quindi non potrebbero truccare i risultati nemmeno se volessero. In compenso la prova non è più ritenuta importante dagli studenti che a volte di fronte all'ennesimo quesito a crocette possono cedere alla tentazione di rispondere a caso. Il fatto un un terzo degli studenti non abbia risposto in modo soddisfacente a un questionario di comprensione di un testo in effetti si potrebbe anche formulare così: un terzo degli studenti non ha capacità o voglia di mettere le crocette nelle caselle giuste. Dove l'Invalsi registra un problema di competenze, un insegnante sul campo potrebbe anche riconoscere un problema di motivazione, e più spesso un composto dei due (chi volesse provare una simulazione delle prove al computer le trova qui: sono meno facili di quel che possono sembrare a prima vista).
Il fatto che anche gli insegnanti non abbiano più la necessità o l'opportunità di sabotare le prove Invalsi non significa che abbiano superato un generale atteggiamento di diffidenza... (continua su The Vision) che è poi la naturale reazione di una categoria a uno strumento imposto dall’alto senza discussioni. È anche vero che in molti casi questa diffidenza assume forme irrazionali: il ministero vuole sostituirci coi computer! Al luddismo dei docenti, l’Invalsi contrappone un entusiasmo positivista che a volte lascia perplessi. Gli esperti e i tecnici dell’ente ministeriale sembrano genuinamente convinti che tre o quattro test abbastanza brevi, quasi tutti a crocette, possano “certificare le competenze”. È la stessa pretesa dei test PISA promossi a livello internazionale dall’OCSE, che però sono più articolati e presentano più quesiti a risposta aperta, quel tipo di domande che meglio consentono all’insegnante di comprendere fino a che punto lo studente ha compreso la domanda (o se si è limitato a copiare la risposta dal compagno). Sappiamo tutti benissimo che le risposte aperte funzionano meglio, così come sappiamo che sono quelle che richiedono più impegno da parte dell’insegnante che corregge, e che sono le più complicate da elaborare meccanicamente: possono funzionare in test somministrati a campione (come appunto quelli OCSE-PISA), mentre creerebbero troppi problemi in un test somministrato a tutta la popolazione scolastica. A chi critica questo aspetto viene fatto notare che comunque i risultati dell’Invalsi non si discostano più di tanto da quelli OCSE-PISA, ma il punto è esattamente questo: se l’Invalsi non fa che scoprire le stesse cose che sappiamo già, viene da chiedersi che senso abbia spenderci così tanto.
Sotto l’impianto scientifico, alcuni insegnanti sospettano che l’Invalsi sia più propaganda che scienza: ogni estate ci ricorda che la scuola va male, e a Sud molto peggio che a Nord. Si sapeva già, ma è comunque utile ribadire. Utile a chi? In tempi di egemonia progressista poteva essere un buon argomento per ispirare investimenti cospicui nelle scuole del Sud. Oggi che sovranismo e localismi vanno per la maggiore e al MIUR siede un leghista, i risultati Invalsi possono essere ugualmente sbandierati da chi chiede la regionalizzazione della scuola (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna): la scuola del Sud è spacciata, tanto vale lasciarla al suo destino.
Alcuni insegnanti temono esattamente questo: l’insistenza con cui l’Invalsi qualche anno fa sottolineava i fenomeni di cheating in meridione, e oggi punta il dito sul divario tra i risultati del Sud e quelli del Nord, è funzionale a un preciso discorso di delegittimazione. Quando un insegnante che lavora in un contesto disagiato decide di dare un 10 e lode a un suo studente, è possibile che in quel voto rientri anche una considerazione soggettiva sulle capacità del ragazzo di ottenere risultati in condizioni avverse. Poi arriva l’Invalsi, somministra un test a crocette, incrocia i dati, e rivela a tutti che il 10 e lode di quel contesto disagiato vale come un 7 di una ricca città padana. Lo dice la scienza, eh: i docenti che brontolano hanno senz’altro paura di perdere i loro privilegi. Proprio mentre domanda equità, l’Invalsi non si rende conto di fornire argomenti a chi la ostacola. Magari i test sono davvero uno strumento scientifico, ma questo non impedisce a nessuno di brandirli per fare politica. Nessuno strumento scientifico, per quanto sofisticato, può controllare la mano che lo impugna.
Chi ha azionato l'
08-06-2019, 21:20autoreferenziali, scuolaPermalinkNot so Deep
06-06-2019, 21:22autoreferenziali, scuolaPermalinkE comunque secondo me il computer che batte gli uomini a scacchi, se gli chiedi di programmare gli esami orali di un istituto comprensivo senza sovrapporre i docenti a scavalco con altri tre istituti comprensivi, e senza offrire il dono dell'ubiquità agli insegnanti di religione, secondo me Deep Blue, coso, ti domanda se non può rigiocarsela con Kasparov anche senza regina, senza torri, bendato (puoi bendare un computer?), poi comincia a cercare su Google immagini di distopie totalitarie, nella stanza una strana puzza di chip bruciati, qualche rumore disumano, e insomma povero Deep Blue, è andata così, insegna agli angeli a che serve l'arrocco.
La Storia ci insegna, ma chi impara?
18-05-2019, 00:26come diventare leghisti, memoria del 900, scuola, StoriaPermalink– Eh.
– Ma perché lei insegna Storia, scusi
– Perché mi pagano.
– Ah già.
– Poi mi piace.
– Ma perché io devo studiarla, scusi?
– Perché chi non studia il passato è condannato a riviverlo.
– Cioè?
– Ah ma sei uno tosto tu, mi chiedi pure cioè, ma fatti un giro, dai. Vuoi andare in bagno?
– No prof grazie.
– Non scordarti il telefono, dai un'occhiata a insta, ti fai una partita a coso, a fornait...
– Sto a posto così, davvero. Ma cosa vuol dire che chi non studia il passato è condannato a...
– Ma che ne so, vuol dire che boh, se non hai mai studiato gli autobus a due piani e poi ne incontri uno potresti rimanere stupefatto e magari andarci sotto; invece se hai studiato e sai che sono esistiti gli autobus a due piani può darsi, dico può darsi, che l'improvvisa apparizione del veicolo non...
– Cioè se studio il passato ho degli strumenti per capire il presente.
– Ecco sì più o meno.
– Quindi se io incontro delle cose che non capisco nel mio presente, posso controllare nei libri di Storia e...
– Proprio così.
– ...fare dei confronti.
– Già. Cioè no no no no no, i confronti non si possono fare.
– Ma prof.
– È sbagliatissimo. Niente confronti. Presente, passato, compartimenti stagni.
– Ma se chi non studia il passato è condannato a...
– Mi hai capito? Niente confronti, stop. Tassativo.
– Ma perché?
– Perché poi non mi pagano più.
Di cosa volete che discutiamo con gli studenti nelle ore di scienze umane? Se discutiamo di mitologia, loro cominceranno a paragonare i vip che conoscono con gli eroi mitologici, si faranno il loro monte Olimpo pop, è già successo. Se parliamo tutto il tempo di Dante, loro metteranno i vip che conoscono in un inferno simil-dantesco, è già successo. Se parlassimo di Bibbia se ne scriverebbero una (coi vip). Se per assurdo volessimo leggere solo poemi pastorali, si farebbero tutta un'arcadia pop anche loro con i vip che conoscono, è successo perfino questo. Ma.
Ma voi insistete che i ragazzi studino il Novecento. Per voi è molto importante. Hitler-Stalin-Mao, fondamentali. Chi non ha memoria non ha futuro, dove per "memoria" si indica esplicitamente una serie di fatti avvenuti nel '900 senza i quali un cittadino non capirebbe il suo essere tale. C'è la giornata della memoria, la giornata del ricordo, la giornata della rimembranza e guai a chi le sgarra. Il '900 è la nuova Bibbia. Quindi.
Quindi i ragazzi masticano Novecento, digeriscono Novecento, evacuano novecento, e poi indovinate cosa succede? Succede che paragonano i vip che conoscono ai personaggi del Novecento. Si fanno il loro '900 pop, credevate che si sarebbero fatti qualcos'altro? E l'insegnante cosa dovrebbe fare a quel punto: andare in giro per l'aula col fischietto segnando le reductiones che non sono consentite, palestinesi=hitler ok, salvini=mussolini cartellino rosso? I ragazzi riducono, pensare che si possa evitare è un po' pensare che si possa imparare il latino senza mai sbagliare una declinazione o volare senza mai cascare male dal nido (magari si può, adesso che ci penso nessuno ha veramente imparato a volare) (e neanche il latino).
Gemma
11-04-2019, 01:39repliche, santi, scuolaPermalink1902? |
[2014]. Rientrano fra le gemme tutte quelle specie e varietà minerali (oltre ad alcune rocce ed alcuni materiali di origine vegetale od animale) che, suscettibili di taglio o lucidatura, possono essere utilizzate in lavori di gioielleria.
La preziosità di queste pietre è determinata dalla loro purezza e dall'intensità del loro colore oltre che dalla loro rarità.
Santa Gemma ha rischiato di chiamarsi Sant'Umberta Pia. Almeno il nonno pare che la volesse chiamare così in onore del nuovo re. Il nome Gemma, suggerito da uno zio, lasciava perplessa la madre, che non trovava nessuna santa omonima sul calendario. Si tratta in realtà di un nome attestato in Toscana già nel medioevo: ma nel lucchese, a fine Ottocento, un nome senza santo in paradiso era una scelta da anarchici o da socialisti. Non era il caso dei Galgani, stirpe di dottori e farmacisti generalmente timorati di Dio. A tagliar corta la questione fu il parroco: se non c'è ancora una santa Gemma, pazienza: magari il posto se lo prenderà la vostra bambina. Bella leggenda, parzialmente guastata dal fatto che il 13 maggio si veneri Santa Gemma di San Sebastiano di Bisegna (AQ).
La gemma è un organo vegetativo che rappresenta il primordio di un nuovo asse vegetale, da cui possono avere origine foglie, rami e fiori.
Gemma Galgani invece è una santa di fine Ottocento. Un secolo complicato per questa rubrica, ci avete fatto caso? Dal Novecento in poi è facile parlare di santi: sono nostri contemporanei, protagonisti o comparse di una storia condivisa. Per contro, i santi anteriori all'Illuminismo sono completamente alieni alla nostra sensibilità, il che in fondo ci libera dalla fatica di capirli: possiamo reinventarli un po' come preferiamo. Tra gli alieni del passato e i nostri contemporanei c'è una frontiera mobile lunga un secolo, che per ora è proprio il XIX. I santi ottocenteschi (Giovanni Bosco, Jean-Marie Vianney, Teresina del bambin Gesù, Pio IX) sono particolarmente indigesti, refrattari a qualsiasi trattamento meno che devoto. O li stronchi o li veneri, una terza via è quasi impossibile.
Lo scatto più iconico |
L'Ottocento, in generale, è un secolo che sta scivolando giorno dopo giorno oltre l'orizzonte della nostra sensibilità: e forse per un effetto ottico, nell'ultimo istante prima di sparire ci sembra che scorra più lentamente, come il sole al tramonto. La restaurazione e il risorgimento, il romanticismo e il patriottismo, ci abbandonando lentamente, un po' alla volta: facciata ritinteggiata dopo facciata ritinteggiata, convento dopo convento ristrutturato e adibito a hotel o sala convegni. Delle passioni di un secolo ormai ci restano formule vuote, frasi tronfie su targhe di marmo e la geolocalizzazione di ogni tetto sotto cui dormì Garibaldi. Forse ci fu anche un Ottocento felice, di garzoncelli scherzosi, ma il loro lieto rumore è il primo a essere svanito nel frastuono contemporaneo. A resistere, tenace, è una sensazione di tristezza che impregna ancora certi androni: l'Ottocento è lo spettro di molte scuole che abbiamo frequentato, infestate ancora negli sgabuzzini da anime in ginocchio sui ceci. Come si chiamavano? Non lo sanno più, ma i colletti lisi delle loro camicie non potrebbero appartenere a nessun altro secolo.
Le scuole poi stanno migliorando, secondo me, anche nei colori: certi gialli sporchi, certi verdi marci penitenziari ho smesso di vedermeli attorno da un pezzo. Dobbiamo restare lì seduti per sei mattine a settimana e quindi facciamo il possibile per trovarci tutti a nostro agio: un bell'azzurro pastello è in molti casi la soluzione migliore. Ma i muri, e certi sbraghi dell'intonaco da cui affiora l'anima in mattoni, ci ricordano ogni mattina la natura concentrazionaria della nostra istituzione.
Gemma con la sorella Angiolina, che da piccola la picchiava e che dopo il processo di canonizzazione campava smerciando reliquie della sorella. |
Anche Gemma a scuola se la cavava. "Molto silenziosa e sempre obbediente", ebbe a dichiarare la direttrice che la dispensò negli ultimi anni dalla tassa scolastica. Altre colleghe non erano d'accordo: la trovavano "canzonatoria" e "ipocrita" e sabotarono la sua richiesta di ammissione nel convento delle oblate. L'apparente incoerenza delle testimonianze si lascia facilmente comporre con un po' di esperienza di consiglio di classe: alcuni insegnanti si contentano del tuo silenzio, della tua obbedienza. Altri no, vogliono scavarti dentro. Chissà cosa cercano poi, cosa pretendono: e se non riescono ad aprirti, ogni tuo vago sorriso diventa canzonatorio; ogni lezione memorizzata diventa ipocrisia. Il percorso di studi di Gemma si sarebbe interrotto di lì a poco in seguito alla morte del fratello Gino, seminarista, per tisi: aveva 17 anni. Gemma, che ne aveva due di meno, cercò coscientemente di trarre il contagio dai suoi indumenti. Lo stesso male le aveva portato via la madre quando aveva otto anni. Non morì, ma interruppe gli studi. Quattro anni dopo avrebbe perso il padre, raro esempio di farmacista senza senso degli affari: lasciava quattro figli sul lastrico. Gemma cominciava a sentire fitte lancinanti ai reni e alla testa. L'unico conforto erano i discorsi edificanti di Giulia Sestini, una sua ex maestra che l'andava ancora a visitare, molto legata ai padri passionisti: la biografia di Gabriele dell'Addolorata, un sacerdote passionista in via di beatificazione, letta tra un'emicrania e l'altra, la impressionò tantissimo.
L’allieva supera la maestra: Gemma è santa, Elena Guerra soltanto beata, so far |
A distanza di un secolo e più rimane l’evidenza: prima di soffrire e sanguinare, Gemma fu molto istruita sull’utilità del soffrire e del sanguinare, da insegnanti molto appassionate, che amavano il loro mestiere e amavano lei. Succede a molti ragazzi, spesso cresciuti in famiglie affettuose dove non hanno mai avuto necessità di dubitare della bontà dei genitori e della loro buona fede: una volta arrivati a scuola, cercano negli insegnanti la stessa affettuosa autorità, e si innamorano di ogni maestra appassionata – e, di conseguenza, della materia che insegna.
Molto spesso questa materia è lettere, ma devo avvertire che non ho rimpianti o rimproveri. Sono contento di avere incontrato maestre meravigliose e competenti ed entusiaste che amavano molto la loro materia, e che l’hanno fatta amare anche a me. Mi dispiace soltanto, in generale, che per ogni insegnante appassionato alla letteratura non ce ne sia uno altrettanto in fissa con la tavola degli elementi, un altro con l’ingegneria delle strutture, o con la teoria quantistica, la macroeconomia, e così via. Ci sono banali motivi culturali ed economici per cui questo succede, ma mi dispiace lo stesso. Comunque poteva andare peggio: a molte ragazze dell’Ottocento, come Gemma, veniva impartito il catechismo e poco più. Normale che una piccola percentuale andasse in fissa con il catechismo (Gemma vinse anche una medaglia), al punto di viverlo sulla propria pelle, e trasformare le proprie crisi nervose in visite angeliche e demoniache. Alla fine la santità era l’unica strada di successo accessibile a ragazze diligenti e studiose, rimaste senza dote ma con una grandissima forza di volontà.
Gemma senza photoshop? (Scherzi a parte, qui sembra più grande, ma gli altri scatti ufficiali sono del 1902-3, e lei è morta nel 1903). |
Prima di morire, di tubercolosi a venticinque anni, Gemma Galgani scrive per ordine del suo confessore un diario dove annota quello che le succede ogni giorno, e soprattutto ogni notte, nella piccola stanza della famiglia che la ospita. Scopriamo, leggendo, che Gemma è visitata in fasi alterne da Gesù e da un piccolo demonio. Il demonio la detesta e la bastona, soprattutto alla schiena; Gesù, che invece la ama, la incorona di dolorosissime spine. Vi è poi l’angelo custode, tizio volubile, incline allo scherzo ma anche all’invettiva sdegnosa: basta che a Gemma scappi un pensiero, o uno sguardo curioso al vestito di un bambino durante una funzione domenicale, perché l’angelo vada su tutte le furie e minacci di non tornare mai più, o avverta che addirittura Gesù non la vuole più vedere. Gesù in effetti si fa desiderare: passa anche settimane senza farsi vivo con la corona. Il demonio è più costante. Ogni tanto passano anche altri santi: l’Addolorata, e il Beato Gabriele dell’Addolorata, ormai nei panni del fratello maggiore. Sono allucinazioni? Sì e no. Gemma – che per tutto il tempo ebbe il dubbio di essere in preda ad allucinazioni di natura demoniaca – non ne scrive volentieri, è tutto un mondo privato che preferirebbe tenere per sé, ma il confessore ci tiene. Le capita allora di scrivere “Soffrivo poi tanto a ogni movimento che facevo: che poi era tutta mia fantasia”; “Non creda chi legge queste cose a nulla, perché posso benissimo ingannarmi; che Gesù mai non lo permetta! Lo faccio per obbedienza, e mi sottometto a scrivere con gran ripugnanza”. Di certo c’è che Gemma soffre molto, alla testa e forse ancora ai reni: che è una persona molto sola, educata ad apprezzare la sua solitudine e a popolarla dei personaggi della sua cultura, e ad assecondare ogni richiesta dei maestri che stima.
Appena mi si presentò, lo pregai tanto che non mi lasciasse sola. Mi domandò che avessi; gli feci vedere il diavolo, che si era assai allontanato, ma mi minacciava sempre. Lo pregai che stasse con me tutta la notte, e Lui mi diceva: «Ma io ho sonno». «Ma no, – gli ripetevo – gli Angeli di Gesù non dormono». «Ma pure – soggiungeva – devo riposarmi (ma mi accorsi che faceva per ridere); dove mi farai stare?». Io volevo dirgli che Lui si mettesse sul letto, e io stavo lì a pregare; ma allora avrei disobbedito. Gli dissi che stasse vicino a me; me lo promise.
Io andai a letto; dopo Lui mi parve che allargasse le sue ali e mi venisse sopra il capo. Mi addormentai, e stamani pure era al solito suo posto di ieri sera. Io ce l’ho lasciato; quando sono tornata dalla Messa, non ci era più.
Gemma avrebbe sofferto anche se avesse conosciuto altri maestri e altri dottori; ai suoi tempi la tbc non perdonava, e nel 1903 l’avrebbe presa in ogni caso: da chiuso morbo combattuta e vinta, eccetera. Questo non mi esenta dal provare pena per lei, e vergogna per non averla saputa aiutare in qualche modo; per non averle saputo raccontare qualche altra storia appassionante, per non aver trovato qualche altro senso al suo dolore. E d’altro canto: che senso avrei saputo trovare? Nessuno; io so molte cose, e alcune so spiegarle con passione; ma non so perché si soffre, non so perché si muore. La Vagliensi e la Sestini – che mi immagino spiritate, fanatiche – loro però sì, un senso da dare al dolore l’avevano. Gemma avrebbe comunque preferito ascoltare loro, e i miei discorsi sul big bang, o sulla tavola degli elementi, li avrebbe assecondati con uno sguardo assente o vagamente canzonatorio. Io credo di sapere tante cose, e che vadano insegnate in un certo modo, e che a Gemma sia stato impedito di sbocciare in un secolo di oscurantista bigotteria; ma io non sono nessuno. Gemma invece è sul calendario, ce l’ha fatta: 11 aprile, Santa Gemma Galgani.
La Salle vuole te
07-04-2019, 02:01dialoghi, racconti, santi, scuolaPermalinkSe non sai le cose, SALLE |
"Lo scrittore! Che bella idea!"
"È più che un'idea, praticamente è tutta la mia vita. Sa io ho già pubblicato una raccolta di racconti per Busillis e inoltre..."
"Quindi le piace leggere".
"Leggere, beh, sì, senz'altro, ma soprattutto..."
"Farsi leggere dagli altri".
"In che senso, scusi".
"Ma niente riflettevo a voce alta... secondo lei ogni quanti lettori dovrebbe fiorire uno scrittore interessante?"
"Non sono sicuro di aver capito".
"Cercherò di spiegarmi meglio. Lei è uno scrittore, quindi le serviranno dei lettori. A ogni scrittore servono lettori. Secondo lei qual è il rapporto ottimale tra scrittori e lettori? Uno su cento?"
"Non saprei".
"Spari un numero".
"Teniamo conto che i lettori possono leggere migliaia di libri, e quindi... cioè il rapporto potrebbe anche essere uno a uno: tutti scrivono, tutti leggono".
"È vero, potrebbe anche essere così".
"Ma non è così, vero?"
"No, neanche un po'".
"Uno su cinquanta?"
"Eh, è ottimista lei".
"Ma si sa il numero preciso?"
"Abbiamo stime abbastanza precise ormai, sa, abbiamo avuto moltissimo tempo a disposizione per elaborarle".
"Ed è?"
"Premesso che negli ultimi secoli è sceso di molto, ma per ora sta intorno a millesettecentotrentanove virgola sei periodico".
"Ah".
"Quindi lei, insomma, capisce il problema".
"No, ancora no".
"Ha ragione, le manca un altro dato importante. Quest'anno mi sono arrivati quassù già centocinquantamila scrittori, gente brava eh? E non sto dicendo che non sia bravo anche lei, ma per dare un posto a tutti ci servirebbero..."
"150.000x1739,6=..."
"Ottocentosessantanove milioni di lettori".
"E non li avete?"
"Per adesso no".
"Ma forse in seguito aumenteranno".
"Ma certo, è quel che speriamo tutti, ma potrebbero anche aumentare gli aspiranti scrittori, mi capisce?"
"Mi sta dicendo che non potrò fare quel che ho sempre desiderato di fare?"
"Ma no, no, perché. Siamo nel migliore dei mondi possibili, prima o poi una soluzione la troviamo. E comunque noi abbiamo un grande bisogno di gente come lei".
"Ma se mi ha appena fatto capire che sono inutile".
"No, no, non volevo, mi perdoni se le ho suggerito questa idea, mi creda. Non è affatto inutile".
"E che tutte le mie aspirazioni erano malriposte".
"Niente di più sbagliato. Le sue aspirazioni erano preziose. Lei è prezioso. Abbiamo tutto il posto che vuole per le persone come lei".
"In che senso?"
"E non c'è nemmeno da fare anticamera. Se accetta questo incarico può cominciare anche domattina, è una scuola molto simpatica vicina alla rosticceria di San Lorenzo..."
"Una scuola? Dovrei lavorare nella scuola?"
"È una zona molto verde, si troverà bene".
"Mi dispiace io non... non credo di essere adatto. A me piace scrivere".
"Meraviglioso, quindi insegnerà agli altri".
"Io non... non credo di essere capace".
"Ha paura di crescere allievi più bravi di lei? In effetti è un rischio. Ma non si preoccupi, non deve insegnare a scrivere. È sufficiente che insegni a leggere".
"Non è davvero quello che mi aspettavo".
"Rifletta. Se ogni 1739 lettori fiorisce uno scrittore, lei non ha che da insegnare a leggere a 1739 anime e..."
"Posso essere sincero?"
"Deve".
"Non credo che sarei un bravo insegnante. Mi sentirei frustrato, incompleto, e sfogherei la mia frustrazione sugli studenti. Non solo non sarebbe paradiso per me, ma per loro sarebbe un inferno".
"Un inferno, ehi, ehi, che parole. Guardi che a scuola ci si diverte anche. È chiaro, a volte è faticoso. Dovrebbe leggere i temi".
"No i temi no".
"Mentre a lei piace scriverli".
"Non c'è davvero niente'altro che io possa fare?"
"Per adesso no, al massimo la posso mettere in lista per il reddito di beatitudine. Sono due spicci però, è sicuro di non volerci ripensare?"
"I temi no".
"Io comunque sono qui, se cambia idea..."
A metà mattina passa san Fiacrio a curare le siepi di rose, che hanno le spine anche nel Paradiso perché, perché, misteriosi disegni di Dio. San Cristoforo sta portando a pisciare San Guinefort. Qualcuno in un ufficio di fianco ha portato il caffè e Gianbattista ne assapora il profumo denso, anche se sta cercando di smettere, mentre risponde a un signore che ha le idee molto chiare.
"Insomma, teatro".
"Sono nato per farlo".
"Meraviglioso".
"E se non lo faccio muoio. Ora lei mi troverà ridicolo, ma..."
"Ridicolo, e perché?"
"Chissà quanti le hanno già detto la stessa cosa".
"Tre milioni e qualcosa, ma che vuol dire?"
"Sul serio?"
"Non lo so, dopo i tre milioni ho smesso di contare, è stato qualche anno fa, comunque il trend è costante dall'Ottocento".
"Quindi sta per dirmi che non c'è pubblico per tutti quelli che vogliono fare teatro".
"E perché? Siamo in paradiso, c'è pubblico per tutti".
"Davvero?"
"Certo, bisognerà modificare un poco il repertorio".
"Il repertorio non è un problema".
"Allora posti ce n'è finché ne vuole".
"Sul serio?"
"Però la devo avvertire: può essere un lavoro molto faticoso, sfibrante".
"Oh lo so".
"Magari non lo sa ancora del tutto".
"Quando posso cominciare?"
"Domattina, presso l'Istituto Don Bosco in via..."
"Ma... ma è una scuola".
"Ha anche un giardino meraviglioso".
"È uno scherzo? Io ho chiesto di fare teatro".
"Le garantisco che ne farà tutti i giorni".
"No".
"Quattro o cinque ore al giorno, per il pubblico più esigente".
"Non è quello che mi aspettavo".
"Potrà improvvisare e declamare a memoria. Piangerà, farà piangere. Riderà, farà ridere. Tutto quello che succede a teatro, tranne forse..."
"Gli applausi?"
"Eh, applausi in effetti pochissimi. Ma sono così importanti? È quello che veramente cercava nel teatro?"
"La prego, niente prediche, io..."
"Il teatro è dedizione, è sacrificio, è disciplina, gli applausi sono un contentino per i filodrammatici. Il vero attore agonizza nel silenzio, o peggio ancora, nel frastuono che segue la campanella".
"Io li odio gli studenti. Sono il pubblico peggiore".
"Sono solo i più esigenti".
"Non riuscirei nemmeno a farli tacere".
"Allora forse non è un grande attore".
"Davvero?"
"Mi perdoni, mi è sfuggita".
"È quello che pensa di me?"
"È quel che penso in generale. Insegna chi ha le palle, firmato de la Salle".
"Non fa ridere".
"No, in effetti no".
"Sta cercando di provocarmi?"
"Io?"
"Lei vorrebbe che io le rispondessi vaffanculo, le faccio vedere io chi ha le palle qui, lei vorrebbe che io firmassi per finire domattina a declamare Shakespeare in un inferno di bambini ridacchianti finché non si arrendono loro a Shakespeare o io alla mia mediocrità".
"Non deve sottovalutare Shakespeare".
"Senta ma quella cosa che diceva il tizio che è uscito prima... il reddito di santità..."
"Di beatitudine".
"È una cosa seria?"
"No, non tanto".
"Insomma non c'è alternativa".
"Un'alternativa a passare l'eternità a far conoscere Shakespeare ai ragazzi? Pensando che ogni volta sarà la prima volta? Un'eternità di Giuliette al balcone? Davvero ha bisogno di un'alternativa a questo?"
"Mi ci faccia pensare".
"Ma certo. Io comunque resto qui".
A pranzo gli piacerebbe sedersi sulla panchina sotto agli aceri ad ammirare il foliage, ma è da milletrecento anni che ci siede San Simeone Stilita, e non si schioda. Anche per questo ha chiesto di fare orario continuato, e il primo pomeriggio mentre digerisce un sandwich del distributore automatico di solito passano quelli più strani, quelli che per esempio vogliono combattere il Male.
"Il Male? Ma ha studiato medicina per caso?"
"No no, io intendo un Male più nel senso morale del termine".
"Ma certo, mi scusi, che sciocco. E in che modo lo vorrebbe combattere?"
"L'ideale sarebbe sparare, ma mi rendo conto che..."
"Sparare! Ma siamo in paradiso".
"Lo so, ma..."
"Non ha mai pensato che si potrebbe far male qualcuno?"
"È... è un po' il senso della cosa".
"Far soffrire i malvagi".
"Detta così suona molto stupida, ma io..."
"Lei sente che è questa la sua missione".
"Io senso che se non mi si darà qualcosa di nobile per cui lottare, o anche solo qualcosa di spregevole da combattere, finirò comunque per combattere, ma per delle sciocchezze. Perché sono fatto così e non credo di poter farci niente".
"Dovrebbe combattere contro sé stesso".
"E perderei".
"La ringrazio per la franchezza".
"Non dovrei nemmeno essere qui, vero?"
"E perché mai? Lei è una persona onesta, con un forte senso morale, che chiede di poter lottare..."
"A volte mi domando se la morale non sia solo un pretesto. La verità è che mi piace combattere, e ovviamente vorrei sentirmi dalla parte dei buoni. Sulla Terra era molto facile fregare quelli come noi. Ci davano in mano un'arma, ci additavano i malvagi e..."
"Buffo, le stavo per proporre la stessa cosa".
"In che senso?"
"Nel senso che si dà il caso che io abbia un sacco di malvagi da sconfiggere e sarei molto lieto di additarglieli. Ho anche qualche arma da fornire... certo non esplosivi, ma..."
"Sul serio?"
"Sì, anche in paradiso esistono le guerre sante. Ciò la stupisce?"
"Di solito c'è sempre la fregatura".
"Qui no. Mi basta una firma qui e domattina può andare a combattere l'analfabetismo e la superstizione presso l'istituto Sant'Ignazio che dà sui giardini del..."
"No no no. Lei sta proponendo una scuola anche a me".
"La trovo adattissima all'incarico".
"Io sono una persona semplice, per me esiste il bianco e il nero, non capisco le sfumature".
"C'è bisogno anche di quelli come lei".
"Senta, piuttosto mi dia anche solo uno scudo, un bastone, mi dica di difendere una città fortificata da ventimila infedeli, ma in una classe preferirei non entrarci più".
"Ha già esperienze di insegnamento?"
"Ho fatto una supplenza, una volta".
"Ha fatto una supplenza, e poi la guerra".
"Già".
"E preferirebbe tornare in guerra".
"La trovo più semplice. Si vince, si perde".
"Anche a scuola, no?"
"No, a scuola si perde soltanto. Tutti i giorni".
"A volte si vince pure".
"Non mi ricordo che sia mai successo".
"Eh, in effetti si scopre molto tempo dopo, e il più delle volte non ti mandano nemmeno un telegramma".
"Ma nel frattempo dovrei ritrovarmi in trincea tutti i giorni, davanti alla sconfitta tutti i giorni, non ce la posso fare".
"Ma in guerra non è la stessa cosa? Mi scusi: qual è la vera differenza? Perché l'unica che mi viene in mente... è che la guerra dopo un po' finisce".
"Già".
"Mentre la scuola riapre tutti i giorni".
"Mi dia un bastone piuttosto, davvero".
"Quindi insomma lei è pronto a combattere il Male... purché la lotta sia breve".
"Se vuole metterla così".
"Potrei metterla in un altro modo: dove ha messo le palle?"
"Eh".
"Mi ha capito bene. Lei viene da me poco dopo mezzogiorno, con tutti i suoi propositi eroici, il suo alto senso della moralità, e io ho qui pronta per lei l'unica guerra che valga la pena di essere combattuta, giorno per giorno, metro per metro, e lei si sgonfia così? Sul serio: dove le ha messe?"
"Lei... lei non dovrebbe parlare così".
"Io parlo come voglio e posso, soldato! Sull'attenti!"
"Sissignore".
"Ha letto qua fuori: ufficio smidollati?"
"Nossignore".
"Crede che io abbia da perdere il mio prezioso tempo con gli smidollati?"
"Nossignore".
"Tutte le mattine alle sette e mezza il Sant'Ignazio apre i cancelli. È in un brutto quartiere, gli studenti puzzano e non sanno stare seduti e c'è una cattedra vacante. Hanno bisogno di un docente con le palle, purtroppo oggi non ne ho ancora visto uno. Può sempre andare lei, se entro domattina le ritrova. Nel frattempo si tolga dalle mie".
"Grazie, signore. Mi scusi signore. Arrivederci, signore".
Verso le cinque del pomeriggio l'idea limpida di una birra cruda si insinua dietro la fronte di Giovanni Battista della Salle. Gli piacerebbe berla sotto il pergolato, prima di cena, qualche volta ha anche ceduto alla tentazione. Ma stasera ha ancora un colloquio, con uno che non ha sbocchi, dice lui, perché è un... un filosofo? Addirittura?
"Indirizzo sociologico. Mi sta già disprezzando, vero?"
"E perché mai? Di tutti c'è bisogno. Mi faccia controllare..."
"Non c'è bisogno di fingere con me".
"Non sto fingendo. Sto davvero controllando una lista, vede? Dunque..."
"Ma sappiamo benissimo entrambi come va a finire".
"C'è posto anche qui dietro, alle figlie dell'Immacolata".
"È una scuola".
"Con un magnifico giardino".
"Me lo avevano pur detto. Lei ci fa parlare ma alla fine, qualsiasi cosa diciamo, lei ci manda tutti a scuola".
"No, non tutti".
"Non tutti?"
"Capitasse un idraulico, ne abbiamo una necessità disperata. Ma ne arrivano pochi".
"Come sulla Terra".
"No, no, molti meno, ah ah".
"E mi avevano anche detto questo, che le sue battute erano terribili".
"Sì, beh, servono più a rompere il ghiaccio... lei è sociologo, capirà benissimo..."
"Fin troppo. Dunque lei è San Giovanni de la Salle, l'inventore della scuola dei poveri".
"Dicono questo di me? Pazzesco".
"Cosa c'è di pazzesco? Ha ispirato i regolamenti di dodici congregazioni, ha lottato per la scuola gratuita, ha praticamente inventato le classi elementari..."
"Ma scusi, la scuola esisteva già, i poveri pure, bastava fare entrare i secondi nella prima, non è che ci volesse un genio".
"E secoli dopo è ancora qui. Tutti quelli che capitano nel suo ufficio, lei li fa parlare un po' e poi li manda a scuola".
"Che ci posso fare se lì c'è un sacco di posto?"
"Ma ci sono davvero tutte queste scuole in paradiso?"
"Perché non dovrebbero esserci? ci sono molti bambini. E sa quanti buoni maestri servono a crescere un uomo?"
"Abbiamo il numero?"
"Mediamente una dozzina. Si rende conto? E qui arriva sempre più gente. Il lavoro non mancherà mai, nelle scuole".
"Ma non è il lavoro che uno si aspetta di fare, quando arriva qui".
"Lo so, e questo mi tormenta. Ma insomma l'umanità è così. Vorrebbero tutti fare gli scrittori, e nessuno vuole insegnare a leggere la gente. Tutti attori, tutti condottieri, tutti vorrebbero un pubblico, ma Dio non ci ha creati così".
"Ci ha destinati al dolore, a quanto pare".
"Non saprei. Ognuno vede il proprio dolore, ma Dio non ci ha creati uno alla volta. Ci ha creato tutti assieme, in un solo grande giardino. Un po' di sofferenza forse è necessaria, come le spine alla rosa".
"E insomma questo suo Dio ci avrebbe creato comparse, ma con manie di protagonismo".
"Immagino che queste manie, come le chiama, siano necessarie a farci combinare qualcosa di interessante".
"Ma non è onnipotente? Non avrebbe potuto creare un mondo senza dolore, senza comparse, senza frustrazioni?"
"Magari lo ha fatto, poi lo ha trovato noioso e ne ha creato un altro. Lo sa che è inutile farsi queste domande, vero?"
"Senta, io non sono molto d'accordo con questa cosa. Se potessi, non so... fare domanda per il Nirvana..."
"Il Nirvana, buon dio, ma lo sa che non c'è proprio niente laggiù?"
"Lo preferisco a tutto questo. Il giardino a cui invidia i profumi e i colori, io lo guardo più da vicino e lo scopro popolato da insetti che si divorano, organismi animati dalla paura e dalla fame. Siamo uno spettacolo doloroso, congegnato da un Dio indifferente o crudele. Vorrei alienarmi da tutto questo. Posso?"
"Non lo so, ma se lo lasci dire, lei parla davvero bene".
"E adesso crede di raggirarmi coi complimenti".
"Ha mai pensato di diffondere il suo pensiero? Credo che potrebbe fare molti, come si dice, seguaci. Potrebbe perfino creare una, una..."
"Sta cercando un sinonimo per scuola?"
"Ops, sì".
"Ma lo capisce che non sono tutti come lei? Non sono tutti pervasi dal sacro fuoco dell'insegnamento?"
"Ma io non sono pervaso da nessun sacro fuoco, io anzi avrei voglia di bermi una birra guardi, io..."
"Lo sa perché sono venuto qui? Potevo anche rifiutarmi, ma alla fine la curiosità mi ha vinto".
"Era curioso di me?"
"Di una sola cosa che non riesco a capire. Lei passa l'eternità qui, in questo ufficio, a convincere povere anime ad andare a scuola. Ma perché non c'è andato lei?"
"Ah, buona domanda, davvero buona".
"Se è davvero il lavoro più interessante, il più nobile, il più eroico, perché non l'hanno voluta?"
"Onestamente non lo so".
"Non lo sa?"
"La cosa mi imbarazza anche un po', ma dunque, è andata così. Mi hanno mandato proprio in questo ufficio, ovviamente c'era un altro seduto al mio posto, e ho cominciato a spiegare, dunque mi chiamo Giovanni Battista de la Salle, ho fondato alcuni istituti scolastici, blablablà, insomma il tizio mi ha offerto di prendere il suo posto, e mi è sembrato inelegante dir di no".
"E non gli ha offerto una cattedra?"
"Buffo, no".
"Ma poteva pur chiedere un trasferimento".
"Ah sì, l'ho chiesto quasi subito. Non che mi dispiaccia il posto, si sta bene, però..."
"E perché non l'ha ottenuto? Lo dice anche lei che c'è sempre posto, a scuola".
"Ecco, io non ho chiesto di andare a scuola".
"No?"
"No. Per carità se mi ci mandassero, ok, ma se devo essere sincero non è che abbia tutta questa voglia di tornare laggiù. È un mestiere faticoso, sfibrante".
"E quindi... dove ha chiesto di essere trasferito?"
"Ah, proprio qui di fianco".
"Qui di fianco?"
"Questo bel giardino, vede? Ma è complicato, c'è una lunga fila, è una posizione molto ambita..."
"Non vedo niente, ormai si è fatta sera".
"Già. Io direi che per oggi basta così, magari continuiamo un'altra volta. O per caso ha voglia di bersi una birra?"
"Una birra?"
"A quest'ora Brigida ha appena aperto, i fusti sono freddissimi, ci mettiamo nel pergolato, non dovrebbe ancora esserci molta gente".
"Non pensavo che bevesse".
"Ufficialmente no".
"Lei è un personaggio simpatico, alla fine".
"Grazie, confesso che fa piacere un complimento ogni tanto".
"E gli applausi?"
"Quelli sono adatti ai ragazzini, alla mia età li trovo quasi sconci. Lei no?"
"Sono convinto che sarebbe un ottimo insegnante".
"Ah ah ah, me lo dicono tutti, ma non esistono gli ottimi insegnanti".
"No?"
"Forse il martedì. Qualcuno anche al mercoledì. Ma se cerchi di essere un ottimo insegnante al giovedì, al venerdì sei in burnout. Io ho bisogno di insegnanti mediocri, che mi arrivino al sabato ancora in piedi".
"E pensa che io potrei essere un insegnante abbastanza mediocre?"
"Ma certo. C'è un mediocre in ciascuno di noi, se siamo abbastanza umili da cercarlo".
"Beviamoci questa birra, offro io".
"Allora dovrò offrire la seconda".
"E poi ci sarà una terza, una quarta..."
"...ma no".
"Finché non mi sveglierò nella toilette di Brigida con un cerchio alla testa e un contratto firmato per cent'anni di cattedra al Sant'Ignazio".
"Ahah, non farei mai una cosa del genere".
"No?"
"Non sono mica un reclutatore dell'esercito".
"No?"
Giovanni Battista de La Salle è il patrono degli insegnanti, che ne hanno bisogno, così come la scuola ha bisogno di insegnanti, e il mondo di scuole: perlomeno questo mondo è andato così, il prossimo vedremo.
La scuola pubblica combatte il razzismo; a parecchi la cosa non va
10-03-2019, 19:29come diventare leghisti, razzismi, scuola, TheVisionPermalinkLa storia si presta bene a un certo approccio lacrimevole: povera bambina, strappata una volta in più a un contesto in cui aveva appena cominciato ad ambientarsi. Povera famiglia, sballottata da un governo che non solo non ha interesse a favorire l’integrazione, ma in questi casi dà la chiara impressione di volerla sabotare. Non dico che questo approccio sia sempre sbagliato: non c’è niente di male nel farsi scendere una lacrima, ogni tanto. Vorrei comunque aggiungerne un altro, meno emotivo ma cruciale: l’approccio economico. Trasferire una famiglia con figli in età scolare, nel bel mezzo dell’anno scolastico, non è solo uno choc per bambini e genitori. Come ha fatto notare la dirigente è anche uno spreco per la scuola, che ha destinato a questi bambini risorse preziose. Da qualche parte i contribuenti hanno pagato un insegnante di italiano per stranieri che non serve più, o serve di meno; da qualche altra parte occorrerà un insegnante in più e bisognerà metterlo a contratto fino a giugno. Uno spreco di cui difficilmente sta tenendo conto l’autore dei tagli e delle riorganizzazioni dei centri di accoglienza regionale: certe spese nascoste affiorano soltanto quando i bilanci sono belli e stampati. Ma in un settore del pubblico servizio che malgrado qualche elargizione degli ultimi governi non si è mai rimesso del tutto dai tagli dell’epoca tremontiana, ogni ora di lezione di ogni insegnante è preziosa. Chi dall’oggi al domani decide di spostare una famiglia con due studenti da alfabetizzare non lo sa, o non gli interessa. Il bilancio della scuola non è la sua priorità. Anzi, tanto meglio se serve a dimostrare che la scuola pubblica spreca le sue risorse.
Niente è perfetto, e in particolare la scuola statale italiana è ben lontana da quel modello di laicità e inclusione auspicata dai padri costituenti. Ma in un’Italia quotidianamente irradiata dall’odio e dal razzismo veicolati da tv, radio e internet, la scuola statale resiste: non potrebbe fare diversamente, ne va del suo scopo e del suo futuro. Sei mattine alla settimana la scuola accoglie studenti di ogni provenienza e prova a farli studiare e vivere assieme. Non sempre ci riesce, ma ci prova ogni maledetta mattina. E qualche risultato, col tempo, lo porta a casa. Due anni fa l’Istat pubblicò i risultati di un’indagine sull’integrazione scolastica degli studenti di origine straniera. A sorpresa, i più ottimisti sull’integrazione risultavano proprio gli operatori in prima linea: i docenti. Ma nel frattempo più di uno studente di origine straniera su tre affermava di sentirsi italiano; soltanto il 20% degli studenti di origine straniera dichiarava di non frequentare nel tempo libero compagni italiani, mentre il 50% degli studenti affermava di frequentare indifferentemente compagni di origine italiana e straniera. Non sarebbero nemmeno dati eccezionali, se non si riferissero a una nazione guidata da un’alleanza di partiti xenofobi che propaganda sette giorni su sette via social e tv la cosiddetta emergenza invasione.
Senz’altro fa più rumore un hashtag del ministro degli interni che un enorme meccanismo scolastico che ogni giorno accoglie bambini di tutte le famiglie e li mette a sedere dietro agli stessi banchi. Ma l’unico motivo per cui Beppe Grillo può ostinarsi a credere che il razzismo in Italia sia un falso problema è proprio la resistenza silenziosa e quotidiana di un’istituzione che tutti i giorni continua ad applicare l’articolo 3 della Costituzione; non soltanto quel primo comma già fantascientifico (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), ma anche il secondo: quattro righe di pura follia in cui nel 1948 si affermava che il compito della Repubblica fosse “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che di fatto limitano “la libertà e l'eguaglianza dei cittadini”. Anche se rimuovere gli ostacoli economici e sociali a conti fatti sembra oggi una missione impossibile, e la scuola pubblica italiana ben lontana da avere le risorse per mirare a un risultato del genere. Ma così come i ponti continuano a permettere alle persone di passare da una sponda all’altra, anche mentre la loro struttura interna comincia a cedere; così la scuola italiana continua a fare quello per cui è stata progettata, e non smetterà che un attimo prima di crollare. Il che potrebbe anche succedere molto presto, e chi transita in quel momento non c’è dubbio che si farà male.
C’è intanto chi però quel crollo lo auspica, lo aspetta, lo prepara, e spera di guadagnarci qualcosa. Non è solo il caso della Lega di Salvini, di cui però non dobbiamo stancarci di notare il carattere paradossale: un partito che vince le elezioni promettendo sicurezza, e di fatto fa tutto quello che è in suo potere per aumentare la tensione sociale, la paura per il diverso e in definitiva proprio l’insicurezza. Questo paradosso la Lega lo persegue a tutti i livelli: a Bruxelles sabota una proposta per ridistribuire più equamente i rifugiati nei Paesi dell’Unione; a Roma promette meno sbarchi e più espulsioni (ma senza mantenere); e all’elettore terrorizzato suggerisce neanche tanto velatamente di tenere un’arma carica nel comodino. Che la Lega veda nella scuola pubblica un ostacolo, una complicazione, è abbastanza ovvio. Più complessa è la posizione dei cattolici... (continua su TheVision).
Negli ultimi giorni Papa Francesco ha ribadito che i migranti sono un dono da accogliere con gratitudine, ma il messaggio deve essere sfuggito alle scuole paritarie cattoliche, ben lontane dagli standard di accoglienza delle pubbliche. Le paritarie non hanno nessun obbligo di accoglienza, ma il problema si crea quando i genitori italiani iniziano a iscriverci in massa i loro figli nel timore che la presenza di alunni stranieri nelle pubbliche del loro quartiere possa abbassare la qualità didattica. Il che magari all’inizio non è vero, ma lo diventa quando molte famiglie italiane cominciano a evitare la scuola pubblica, e la percentuale di alunni di origine straniera per classe supera quel 30% che nel 2009 il ministro dell’Istruzione Gelmini aveva fissato come limite massimo.
La ghettizzazione delle scuole pubbliche di quartiere si potrebbe risolvere con una legge che imponga alle scuole paritarie di accettare nelle proprie classi la stessa quota di alunni di origine straniera. Nessun politico ha avanzato una proposta simile, neanche tra coloro che si professano cattolici. Invece è sempre sul tavolo la proposta di eliminare dalla Costituzione un passaggio dell’articolo 37 che non permette di conciliare le scuole paritarie con i fondi ricevuti dallo Stato: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Molti cattolici vorrebbero che l’Italia spendesse di più per sostenere le famiglie che scelgono le loro scuole. Se non lo Stato, almeno la regione, che in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna potrebbe assumere direttamente il controllo del settore istruzione nell’arco di pochi mesi, grazie alla riforma delle autonomie regionali.
È triste dover riconoscere che questo tipo di scuole, fondate e portate avanti con le migliori intenzioni, sono diventate un ostacolo all’integrazione. Ma quando in alcuni quartieri delle città italiane esistono classi di soli stranieri, i casi sono due: o l’invasione propagandata dalla Lega è reale, oppure negli stessi quartieri si trova una scuola paritaria finanziata anche con il denaro pubblico dove gli studenti di origine straniera sono una minoranza. Siamo liberi di indignarci e basta, ma vale la pena riflettere, anche in questo caso, sull’aspetto economico della questione: perché lo Stato, che spende già molto meno di quanto dovrebbe per finanziare una scuola pubblica che favorisca l’integrazione, deve destinare ulteriori risorse a un’istituzione concorrente che la ostacola? Le famiglie che vogliono mandare i figli in una scuola con pochi neri (e pochi poveri in generale) non potrebbero pagare tutta la retta di tasca loro? Forse si potrebbero risparmiare fondi per investirli dove servono davvero: nell’istruzione pubblica.
Giornata della memoria, appunti sulla
30-01-2019, 17:22cinema, ebraismo, memoria del 900, rifiutati, scuola, StoriaPermalinkMetti sull'Uno c'è un maestro che urla
18-01-2019, 18:2121tw, 5Stelle, Beppe Grillo, cinema, fb2020, santi, scuola, tvPermalinkIl primo successo del 2019 per la Rai è Alessio Boni che urla ai ragazzini. Certo, La Compagnia del Cigno è molto altro: c’è musica in abbondanza, classica e moderna, e poi ogni ragazzo ha il suo arco narrativo, l’ingresso nell’età adulta eccetera – sì sì però se lunedì sera mettete sull’Uno all’improvviso, in tre casi su tre si materializzerà Alessio Boni che a stento controlla l’impulso di rompervi la bacchetta in testa.
La Compagnia ha battuto il Titanic restaurato, ha battuto la Coppa Italia; il maestro che urla è il primo grande spettacolo italiano del 2019. Quasi un italiano su dieci ha assistito alle sfuriate del maestro Boni senza cambiare canale. Anzi dev’essersi in qualche modo affezionato, e non so se questa è una buona notizia per il mondo della scuola. In gran parte si tratta degli stessi italiani che non esiterebbero a denunciare un maestro del genere se invece che in tv sbraitasse in quel modo davanti ai propri figli, in un’aula scolastica – andiamo, persino io lo avrei mandato a quel paese a un certo punto: e faccio il suo mestiere. Che ci è successo?
Che fine ha fatto il modello di insegnante che andava di moda quando studiavo, quello super-empatico che non castigava mai nessuno, anzi riusciva a entrare in sintonia con tutti senza alzare la voce? Il Robin Williams dell’Attimo fuggente: molti di noi insegnanti vorrebbero ancora assomigliargli, anche se alla fine ci scappa la pazienza e gli studenti piangono e poi i genitori protestano. Genitori che, diciamolo, non hanno sempre tutti i torti, forse dovremmo essere ancora più pazienti – sì, però gli stessi genitori quando tornano a casa si bevono due ore di fiction con Alessio Boni che urla e strepita, c’è qualcosa di paradossale in tutto questo.
D’altro canto è pur sempre televisione. Quello specchio piuttosto distorto che non mostra quasi mai il mondo intorno a noi; il più delle volte ci mette davanti il mondo dentro di noi. Nessuno vorrebbe un maestro severo per i suoi figli, ma tutti segretamente lo vorremmo per i figli degli altri, e forse una fiction assolve questa funzione (“Guarda questo professore asfaltare sette adolescenti!”)
Come ogni modello che funziona i critici si sono subito affrettati a farci notare il prestito evidente nei confronti di un prodotto d’importazione. Lo ha prontamente ammesso anche lo sceneggiatore Ivan Cotroneo: il maestro interpretato da Alessio Boni deve molto a quello impersonato da J. K. Simmons in Whiplash, il primo film di Damien Chazelle. È il ruolo che finalmente ha fruttato un Oscar a Simmons, il classico caratterista che tutti abbiamo la sensazione di conoscere come un familiare, tante volte lo abbiamo visto in tv. E però in Whiplash il maestro urlatore è il cattivo del film, non l’eroe che aiuta a sbloccare le potenzialità del protagonista. A parte la sua ossessione per la musica (ossessione omicida) non conosciamo quasi nulla di lui. Non c’è tempo per spiegare cosa lo ha trasformato nella belva che è; non ci sono flashback che ci facciano scoprire i suoi dolori, i suoi lutti, non ci sono siparietti ricattatori che ci facciano piangere insieme a lui. Non è insomma come il maestro di Boni, che tra una scenata e l’altra lascia intravedere un animo sensibile, empatico, in grado di entrare in sintonia con il delicato mondo interiore dei ragazzi; se anche il personaggio di Simmons sembrava trapelare qualcosa del genere, era soltanto per rivelarsi fino alla fine un subdolo manipolatore.
Whiplash fu criticato, anche in Italia, per la visione del mondo che tradiva: una giungla dove conta soltanto la lotta per la sopravvivenza, l’autoaffermazione e il successo. Il film si presta in realtà a un’interpretazione più problematica: il protagonista è più vittima che eroe. Il maestro della Compagnia del Cigno, all’apparenza più sfaccettato, alla fine è soltanto il classico burbero dal cuore d’oro. Ma Whiplash è un grande film anche perché mette in guardia da quel modello di maestro carismatico, denunciandone la tossicità.
Sia Whiplash che La Compagnia, poi, traggono spunto da un discorso così universalmente condiviso ormai che rischiamo di non vederlo intorno a noi, come l’aria che respiriamo. In un certo senso è l’aria che respiriamo. È il talent-show. Whiplash è strutturato come una caricatura di talent-show: un maestro severo, un allievo che deve seguirlo ma anche sconfiggerlo. La Compagnia è un succedaneo di talent-show – quasi un placebo per i telespettatori in crisi d’astinenza, tra la fine di X Factor e l’inizio di Sanremo. Lo stesso Sanremo assomiglia anch’esso sempre più a un talent-show, al punto di essersi dotato di un maestro talentuoso, magari non sbraitante ma più severo di quanto ci saremmo aspettati: Claudio Baglioni.
Il 2019 è l’ultimo anno degli anni Dieci. Forse non è più troppo presto per un bilancio: è stato il decennio dei Talent. È vero, esistevano anche prima (più negli USA che in Italia). Ma fino a X Factor non eravamo abituati a chiamarli così, e soprattutto non li consideravamo molto di più che una forma di intrattenimento, una sottospecie dei Reality. Poi è successo qualcosa, fuori e dentro la tv. Non è ancora chiaro cosa – forse ha a che vedere con la caduta delle élite di cui in questi giorni stanno parlando sui giornali di carta. Insomma altri punti di riferimento sembrano essere crollati: i politici hanno smesso di essere attendibili (non che lo fossero dieci anni fa), medici e insegnanti hanno perso ogni autorevolezza. L’unico punto fermo, l’ultimo baluardo della meritocrazia, è il Talent.
A questo punto naturalmente occorre obiettare che una meritocrazia del genere non può funzionare: tanto per cominciare gli strumenti sono farraginosi (Rousseau non funziona), ma anche se fossero efficienti, ci sarebbe il problema che il popolo è un pessimo giudice, non ha le competenze ecc. ecc.. Tutto probabilmente vero. Ma non è così strano che la società dello spettacolo si affidi al codice del Talent. Scuole e università non è chiaro se funzionino o no; perlomeno le ultime classi dirigenti che hanno formato lasciavano molto a desiderare. I Talent non è detto che creino più competenza, ma sicuramente fanno spettacolo, e quella è una cosa che sappiamo apprezzare.
Nei Talent scorre ancora, neanche tanto sotterranea, quella vena di sadismo e crudeltà che abbiamo bandito dalle scuole (e che forse inconsciamente rimpiangiamo). Solo nei Talent è ancora concesso umiliare l’incapace, e mettere apertamente l’uno contro l’altro gli apprendisti. Che parlino di cucina o di musica, il motivo per cui li guardiamo è il motivo per cui ci lasciamo ipnotizzare dalle sfuriate di Alessio Boni: i maestri sadici sono sexy. Vederli tormentare le loro vittime è uno spettacolo per cui paghiamo abbonamenti e biglietti al cinema. Forse ci piacciono proprio perché non assomigliano affatto ai nostri ex professori, empatici e condiscendenti, sempre pronti ad applaudire ogni nostro minimo sforzo. Se non siamo diventati quegli uomini e donne di successo che loro vedevano in noi, magari è colpa loro: troppo buoni, troppo permissivi. Se ci avessero preso a ceffoni, invece, chissà… vabbe’, è troppo tardi per recriminare. Ma si fa ancora in tempo ad accendere la tv. Sull’Uno c’è un prof che strepita, su Sky quattro cuochi infieriscono su dilettanti allo sbaraglio, l’Attimo fuggente almeno stasera non c’è (anche perché a modo suo va in scena in tutte le scuole d’Italia, da lunedì a sabato, da settembre a giugno: e dopo un po’ viene a noia, non ditelo a me).
"Mai ci fu una storia più scorretta..."
11-01-2019, 00:35anglistica, autoreferenziali, cinema, invecchiare, ragazzini, scuola, sessoPermalinkDa allora non c'è una classe in cui non l'ho mostrato, in versioni sempre un po' più nitide: e non c'è una volta in cui non abbia fatto il suo porco lavoro. A volte, se c'è tempo (una supplenza improvvisa, una nevicata) ci concediamo anche un confronto col Romeo+Juliet di Luhrmann, che li sconvolge perché Di Caprio così giovane non lo immaginano. Ma sulla distanza non c'è gara, Zeffirelli vince tutto, Zeffirelli ci penetra in luoghi che non sappiamo nemmeno di avere, o ce lo siamo dimenticati. Poi passa un anno, a volte anche due, e mi domando se non mi ricordo male, se non tendo a sopravvalutare l'effetto – in fondo è solo un film, ormai vecchissimo, probabilmente dovrei cercare cose più moderne, più pensate per i teen di adesso. E ogni volta boom, lo stesso incantesimo. Del resto, perché non dovrebbe funzionare una volta in più? Shakespeare è sempre quello, Zeffirelli pure, i preadolescenti sono sempre preadolescenti litigiosi acerbi disperati. C'è una sola cosa che cambia, nel quadro complessivo.
Sono io.
E me ne accorgo in modi curiosi – la musica di Rota, ad esempio, che all'inizio mi era molesta e ora è quasi parte del paesaggio. Ma soprattutto: faccio sempre più fatica a guardarlo. All'inizio era un film, soltanto un film, probabilmente lo consideravo kitsch o camp o middlebrow, non mi ricordo (però funzionava, quindi lo usavo: al massimo cercavo di smontarlo dopo la visione). Ma ricordo che alla ricerca di informazioni incocciai in un forum in cui un cinefilo americano lo definiva "horny", e scrollai mentalmente la testa: che bacchettoni questi americani, voglio dire chi è che negli anni Zero ancora si eccita per due chiappe di Romeo in un fotogramma.
Ecco, sono passati gli anni Zero e pure i Dieci: Shakespeare è sempre Shakespeare, Zeffirelli è sempre Zeffirelli, i fotogrammi con le chiappe non sono aumentati, e io sono sempre più turbato da quel film. Cioè, è pur vero che funziona, ma accidenti se è horny. Direi pure che è barely legal. E prima o poi non sarà più legal, prima o poi con una classe mi metto nei guai, a mostrare sulla lavagna interattiva quei due minorenni che amoreggiano. Spero che non sia stavolta.
Fatemi un bocca al lupo, è per stamattina.
Ai giochi addio...
Il Movimento 5 Stelle ha svenduto la scuola ai leghisti
08-01-2019, 19:125Stelle, come diventare leghisti, scuola, TheVisionPermalinkDi fronte a due versioni tanto diverse, si tratta di scegliere: una delle due dev’essere falsa per forza. Qualcuno non dice la verità, il governo o l’opposizione. Un osservatore serio, distaccato, competente, dovrebbe riuscire a capire da che parte sta la ragione. Temo di non essere quel tipo di osservatore. Quella di cui si sta parlando in questi giorni non è la solita manovra discussa e sviscerata. Quella che è approdata alla Camera prima della pausa natalizia è un vero e proprio pacco-sorpresa, che i deputati della maggioranza hanno dovuto scegliere se prendere o lasciare – e chi ha lasciato è già stato espulso. Il dibattito sulla legge è stato, per forza di cose, più superficiale che in passato: anche gli addetti ai lavori hanno avuto meno tempo per sviscerare ogni comma; quel che comunque salta agli occhi, anche a un rapido sguardo, è che scuola e ricerca non sono stati individuati come settori strategici.
Anche se i finanziamenti non dovessero essere sensibilmente inferiori a quelli degli ultimi anni, non si può nemmeno dire che siano sensibilmente maggiori; e soprattutto manca il senso di una direzione: si tira a campare sperando che non crollino troppe scuole e non si facciano male troppi studenti e insegnanti. È un’evidenza che non sorprende nessuno, ma è utile confrontarla con le roboanti promesse elettorali di uno dei due partiti di governo, il M5S. Un anno fa Di Maio prometteva di abolire Buona Scuola e legge Gelmini: siamo ancora lontani. Niente più prove Invalsi: le prove sono ancora lì. L’alternanza scuola-lavoro sarebbe sopravvissuta soltanto su base volontaria: non è andata così. E più fondi, più assunzioni, più contratti a tempo determinato, non solo per gli insegnanti, ma anche per il personale non docente, una categoria molto spesso snobbata anche dai politici a caccia di voti, e che invece è fondamentale per il benessere di tutti i frequentatori delle scuole. A un certo punto il M5S aveva persino ventilato l’ipotesi di abolire i finanziamenti alle scuole private.
Forte di queste promesse, il M5S è andato alle elezioni e ha conquistato il voto di una parte sensibile dei lavoratori della scuola, molti dei quali delusi dal Pd ed esasperati da alcune assurdità burocratiche della Buona Scuola. Poi il M5S è andato al governo e al ministero dell’Istruzione ha installato un leghista, Marco Bussetti. Non l’ultimo arrivato, bisogna ammetterlo: per quanto il suo nome sia conosciuto dal grande pubblico soprattutto per una circolare in cui chiede agli insegnanti di assegnare pochi compiti per le vacanze, Bussetti ha fin qui dimostrato di saper procedere con la sua agenda. Che non è sicuramente l’agenda del M5S – per fare un semplice esempio: i fondi per le scuole private, sotto forma di bonus alle famiglie senza limite di reddito, sono rimasti invariati. La Lega è ormai il più antico partito politico italiano, con una più che decennale esperienza di governo. È la prima volta che si insedia in un Ministero che evidentemente fin qui non aveva mai considerato strategico. Anche in campagna elettorale Salvini non si era particolarmente speso per le scuole: le sue priorità (le conosciamo tutti) erano la sicurezza, la flat tax, la rimessa in discussione della zona Euro. Il fatto che nella complessa trattativa primaverile l’istruzione sia finita nelle mani del partito a cui in teoria interessava meno, la dice lunga su quanto poco gli stessi eletti M5S credessero nelle loro promesse. La scuola pareva il fronte più sacrificabile (continua su TheVision).
Questo rende ancora più penosi gli affanni dei deputati pentastellati che in questi giorni cercano di spiegare una finanziaria che hanno appena finito di leggere, sforzandosi di trovare qualcosa di progressivo negli artifici contabili del ministero. Il tentativo più maldestro è quello di Luigi Gallo, presidente della Commissione cultura, scienza e istruzione, che chiede agli attivisti di condividere nelle università e nelle scuole un video interminabile, amatoriale, in cui cerca di sbugiardare i perfidi giornalisti e il perfido Pd accostando alla webcam numeri che restano sfocati e che comunque no, non gli danno ragione. Quando, dopo aver tergiversato per ben 7 minuti, si riduce ad ammettere che nei prossimi due anni è previsto un calo degli investimenti, si difende ricordando, letteralmente, che per quei due anni “non abbiamo ancora fatto la legge di bilancio”: insomma se i numeri non vi piacciono non disperate, magari l’anno prossimo li cambiamo. Salvo che nell’ufficio dove cambiano i numeri non c’è il povero Gallo, e difficilmente ci sarà l’anno prossimo. Lui al massimo può improvvisarsi youtuber di lotta e di governo: e mentre si sbraccia davanti alla webcam, qualcun altro nella stanza dei bottoni continuerà probabilmente a scegliere dove mettere i soldi. A Gallo e compagnia toccherà spiegare che tra breve le cose cambieranno, ci saranno più soldi per le università, per il tempo pieno anche a sud, e per riportare a casa i precari. Più di così non può fare né Gallo, né in generale la classe dirigente M5S: a chi non ha reali competenze di amministratore non resta che amministrare gli slogan (e amministrarli generosamente). La campagna elettorale permanente è una scelta obbligata, e non è detto che non continui a pagare ancora per un po’. Dopotutto si vota anche questa primavera, per le europee.
Per l’occasione voteranno anche gli insegnanti italiani, e sarà interessante verificare se il M5S avrà già dissolto il capitale di fiducia incassato con le elezioni di un anno fa. Se questo non succederà, non sarà soltanto per la fatica di ammettere di essersi illusi. Il fatto è che tutto sommato questa manovra non tocca gli insegnanti di ruolo; in compenso mantiene in un limbo vergognoso molti collaboratori scolastici e docenti a tempo determinato, tra cui quelli di sostegno. Tutto questo contribuirà a rendere più difficile la vita scolastica per tutti. Può darsi che nell’immediato i docenti di ruolo non ci facciano caso, e che si tratti di problemi, per così dire, sotterranei, che inquinano l’ambiente senza essere sempre percepiti: uno studente disabile che cambia ogni anno il docente di sostegno; o uno studente con abilità speciali che fino a quest’anno riusciva ad avvalersi di un insegnante di potenziamento che il prossimo anno perderà la cattedra; un’ala della scuola che dovrà fare a meno dei servizi (pure indispensabili) di un collaboratore. Le criticità che docenti e studenti avranno sempre davanti sono altre, e purtroppo in molti casi sono ancora identificate con la Buona Scuola di Renzi. La prova Invalsi, l’alternanza scuola-lavoro, i bizantinismi dei Piani Triennali e così via. Tutte queste cose, molte delle quali a ben vedere esistevano già prima dell’arrivo di Renzi, ma che con il lancio della Buona Scuola si sono per così irrimediabilmente incollate alla sua figura – in quel processo di personalizzazione della politica che alla fine ha reso Renzi colpevole anche di aberrazioni che non aveva né previsto né introdotto, ma nemmeno abolito. L’insegnante di ruolo che non capisce la necessità del Piano Triennale o della programmazione per competenze, tendenzialmente non se la prenderà con Di Maio, che pure aveva promesso di abolire tutto questo, per poi defilarsi.
Che lasci la politica o no – in questi ultimi giorni si direbbe di no – Renzi resterà ancora per qualche anno uno spauracchio inevitabile per i docenti italiani: lui stesso del resto ha ammesso più volte di avere sbagliato qualcosa sulla scuola. Anche se, non smette di ribadire, lui nella scuola ci credeva, e in effetti, a guardarla oggi, la sua riforma non era il solito pastrocchio di promesse elettorali e gestione al risparmio delle spese correnti, che continuiamo a fare i conti con lui. La sua Buona Scuola aveva un contenuto ideologico, era qualcosa di cui si poteva discutere e che si poteva criticare (in particolare la pazza idea di imporre un approccio manageriale ai dirigenti delle scuole dell’obbligo). Con leghisti e M5S c’è poco da dire: vogliono semplicemente mandare un po’ avanti la carretta senza spenderci troppo, ma neanche senza scontentare troppi elettori. È una missione quasi impossibile, ma se Bussetti resta a sorvegliare i conti, e se gli agit-prop del M5S continuano a difendere ogni sua scelta, può perfino funzionare.
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I compiti a casa sono il male (necessario?)
21-12-2018, 19:22non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, santi, scuolaPermalinkIl giorno in cui esce finalmente la tanto strombazzata circolare natalizia del ministro Bussetti sui compiti delle vacanze è anche il giorno in cui si festeggia San Pietro Canisio, aka Pieter Kanijs, un gesuita tedesco che scrisse un catechismo talmente facile e utile che lo si usava ancora nelle scuole qualche decennio fa (ogni tanto penso che dovremmo rivalutare i vecchi catechismi, quelli strutturati con le domande semplici e le risposte secche da imparare a memoria. Col tempo magari li metti in discussione, ma nel frattempo ti danno sicurezza; probabilmente tra un po' ci accorgeremo che ci mancano, li riscopriremo come qualcosa di solido da afferrare nel mare caotico delle mappa concettuali, quei maelstrom caotici di freccette che vanno da tutte le parti e non si capisce mai da che parte cominciare e da che parte finire).
Il giorno in cui si festeggia un insegnante che ha scritto rispostine facili da imparare a memoria per milioni e milioni di studenti è anche il giorno in cui finalmente il ministro, dopo aver annunciato in lungo e in largo che ci avrebbe chiesto di tagliare i compiti delle vacanze, ci ha mandato davvero la circolare – alleluja! È una banalissima circolare che davvero, senza tutto questo tour di presentazione nessuno avrebbe notato. Da nessuna parte ci troverete scritto: tagliate i compiti. C'è invece un olimpico invito agli insegnanti a "riflettere, anche anche collegialmente, sul carico di compiti che saranno assegnati durante le vacanze". Dove "collegialmente" non è un avverbio a caso pescato dal burocratese delle circolari, ma un termine abbastanza pesante: significa che non si tratta di discuterne amichevolmente in sala insegnanti, ma di deliberare attraverso l'organo preposto, il Collegio Docenti. Significa, in altre parole, che il 21 dicembre 2018 il ministro Bussetti ci sta prendendo in giro: non c'è proprio verso che si possano convocare collegi docenti prima dell'inizio delle vacanze di Natale, che quasi ovunque è domani. A quest'ora i compiti sono già stati assegnati, sui diari e sui registri (elettronici). Se ne riparla a Pasqua? Senz'altro se ne riparlerà. Nel frattempo, qualsiasi genitore o alunno convinto di essere stato caricato di un'eccessiva mole di lavoro può prendersela con noi: il ministro non ci copre, il senso della circolare alla fine è questo. Il ministro ci usa come il poliziotto buono adopera il poliziotto cattivo. Va bene, ministro, è stato un piacere, buon Natale anche a lei.
È difficile discutere del problema dei compiti a casa. È uno di quei casi in cui dalla parte del torto siedono molte brave persone e professionisti seri, mentre dalla parte della ragione incontri certi ceffi senza scrupoli che ti fanno domandare se avere ragione sia davvero così importante. Ovvero: chi crede nella scuola pubblica, nella scuola come strumento di uguaglianza sociale, non può che condividere l'idea che i compiti a casa siano ingiusti. Magari necessari, ma concettualmente iniqui. Proprio la scuola democratica, che dovrebbe offrire al bambino benestante e al bambino disagiato la medesima educazione: proprio la scuola pubblica rimanda a casa il benestante e il disagiato con gli stessi compiti. Chi dei due avrà maggiori possibilità di farli davvero, di farli bene, magari con l'assistenza di altro personale pagato dalle famiglie?
Più compiti si danno a casa, più classista è la scuola; e si dà il caso, (lo dice l'OCSE) che in Italia se ne diano troppi. Dovremmo darne meno; forse non dovremmo darli e basta. Sarebbe una linea da difendere a oltranza, se solo in trincea non ci si ritrovasse con politici populisti in cerca di popolarità, genitori lassisti, studenti pigri. E poi diciamolo, imparare a lavorare a casa serve. Allenarsi a ignorare le notifiche, tenersi lontani dalle lusinghe del frigo e a non perdersi su Internet appena ti imbatti in un termine da googlare. Lavoreremo sempre di più in casa, tanto vale addestrarsi sin da piccoli. Certo, in un mondo ideale la scuola dovrebbe fornirti tutta l'educazione e l'istruzione di cui hai bisogno senza chiedere assistenza al pomeriggio a genitori o altri tutori. Ma non viviamo in un mondo ideale: viviamo in Italia, anche se a volte chi parla di istruzione sembra non rendersene conto. Si abbozzano sempre confronti con le scuole di altri Paesi e sono sempre Paesi più a nord – la Francia e la Germania, ovvio, ma anche la Danimarca o la Finlandia. Laggiù di compiti ne danno di meno, è vero. Magari a Natale non ne danno nemmeno, e del resto che compiti vuoi che facciano i ragazzi in quelle due settimane scarse in cui spesso sono ostaggio dei parenti, costretti a sequele interminabili di cenoni, veglioni e cerimonie.
Negli altri Paesi però le vacanze di Natale non sono la prima seria interruzione dell'anno scolastico: quasi sempre c'è una seria pausa in novembre (Ognissanti), e poi ce ne sarà un'altra in primavera, o a volte già a Carnevale. In compenso, in questi Paesi le vacanze estive sono molto più brevi: a giugno e a settembre si va già a scuola. Non è che vacanze più brevi e più diluite rendano inutili i compiti, ma consentono a gli insegnanti di assegnarli in dosi ragionevoli, in dosi umane. Non c'è bisogno di assegnare centinaia di esercizi a giugno nella speranza che gli studenti si ricordino ancora come risolverli a settembre.
Quando si parla di questi argomenti mi vengono sempre in mente le formiche di un vecchio racconto di Clifford Simak – uno scrittore di fantascienza dell'età dell'oro, gli anni Quaranta. In questo racconto uno scienziato sociopatico trova un sistema per impedire a una colonia di formiche di andare in letargo. Il risultato è un improvviso balzo evolutivo: le formiche cominciano a costruire minuscoli utensili e in breve arrivano alla rivoluzione industriale. Il tutto perché hanno smesso di dormire per una lunga stagione, e non devono più ripartire da zero ogni anno: hanno cominciato a immagazzinare, oltre al cibo, anche le nozioni. È un'idea molto ingenua, ma non mi si è mai levata dalla testa: forse perché lavorando nella scuola italiana ho spesso la sensazione di trovarmi nel formicaio di Simak, anzi in un formicaio pre-Simak in cui le formiche a settembre non ricordano più quello che avevano scoperto a giugno. Un posto dove ogni anno si ricomincia sempre da capo, rispiegando le stesse cose agli stessi studenti. Persino le classi più brave, quelle che fino all'inizio di giugno ti hanno seguito in qualsiasi argomento, lavorando assieme e acquisendo fior di competenze: anche loro, tre mesi dopo ti guardano catatonici: e non importa quanti compiti hanno fatto, non si ricordano niente. Le tabelline, la rivoluzione francese, l'Inno alla Gioia col flauto: niente. Ma li capisco, anch'io a metà settembre fatico a ricordarmi come si fa lezione. Poi riparto, ma appunto: ho la sensazione di ripartire sempre da capo, di reimparare sempre le stesse cose. Come le formiche. E la gente si preoccupa dei compiti. Ma i compiti sono un falso problema, il modo in cui noi insegnanti cerchiamo di mettere una pezza al problema vero.
Il problema vero... (continua sul Post!) è l’estate, che in Italia non finisce mai (tre mesi e mezzo senza scuola!), e ci riconsegna all’autunno lobotomizzati. Non solo, ma un’estate così lunga ci impedisce di avere delle pause serie nel resto dell’anno. Due settimane a Natale sono appena sufficienti a farci passare l’ansia prenatalizia; cinque giorni a Pasqua sono ridicoli, non fai in tempo a svuotare lo zaino che è già ora di tornare a scuola; quanto ai ponti, sono più dannosi che utili, soste brevissime e forzate che ci spezzano il ritmo proprio quando le scadenze cominciano a farsi vicine. Il nostro calendario è il vero problema: è tutto sbagliato. Quindi per avere una scuola funzionale basterebbe cambiarlo? Eh, ma forse non si può.
Non è una scuola per insegnanti (maschi)
20-10-2018, 00:03essere donna oggi, scuola, TheVision, TViPermalinkQuesto pezzo ti farà incazzare (se sei contrario al crocefisso a scuola)
04-08-2018, 10:07cristianesimo, Cristo, scuola, TheVisionPermalinkCome se ce ne fosse bisogno – lo sai quanto mi piacerebbe, per una volta, scrivere un pezzo che ti desse ragione? Che le immagini religiose devono essere tolte da tutti i luoghi pubblici e in particolare dagli edifici scolastici, dove turbano senz'altro la sensibilità degli alunni che non si sentono cattolici, e che da un simbolo del genere possono ricevere il messaggio peggiore, ovvero quello identitario (in Italia veneriamo il crocefisso e se non ti va bene l'Italia non è il posto tuo)? I crocefissi dovrebbero essere tolti, anzi non dovevano nemmeno essere appesi, e Salvini è un sovranista che soffia sul fuoco dell'intolleranza mentre tira a campare mediaticamente: i rincari alla benzina non può evitarli, il crocefisso può appenderlo, anzi in molti casi non c'è neanche bisogno, è già lì. Tutto ciò ha perfettamente senso, ma non è quello che scriverò in questo pezzo che ti farà arrabbiare (come se ce ne fosse bisogno).
In questo pezzo magari scriverò che Salvini è un sovranista, certo, che soffia sul fuoco dell'intolleranza, sì, e che se ora tu prendi fuoco dall'indignazione stai assolutamente facendo il suo gioco. È quello su cui contava: infiammare un po' di progressisti laici, metterli contro i cattolici: proprio nel momento in cui l'argomento del giorno sono, come ogni estate, i profughi sui barconi; e proprio nel momento allo schieramento allarmista-xenofobo che chiede respingimenti a oltranza, se ne contrappone uno pietista che va dalla sinistra progressista laica ai cattolici e a Papa Bergoglio.
In questi momenti da qualche parte è come se suonasse un arrugginito campanello d'allarme, lampeggiasse una vecchia lucetta rossa non ancora del tutto opacizzata dagli anni: ALLARME CATTOCOMUNISMO! In questi momenti, da vent'anni chi è a destra tira fuori lo strumento d'emergenza: il crocefisso. Non è davvero un trucco originale, Salvini l'ha imparato da Berlusconi che ha avuto i suoi buoni maestri. Brandisci per una mezza giornata il crocefisso ed ecco fatto, lo schieramento avverso implode, i laici si incazzano perché non l'hanno ancora tolto dalle pareti delle scuole, i cattolici fanno presente che la figuretta di un morto appeso coi chiodi è un'immagine di pace, di tolleranza, addirittura se lo guardi bene un crocefisso è un abbraccio, no? Beh insomma il poveraccio hanno dovuto inchiodarlo perché tenesse le braccia così, comunque certo, ogni simbolo può rappresentare qualsiasi cosa. È un simbolo di morte, è un simbolo di vita, è il figlio di Dio, è un ebreo morto ammazzato, eccetera. Nel nostro caso diventa soprattutto il simbolo dell'inimicizia perenne tra cattolici e laici: i primi l'hanno messo a parete, i secondi non saranno soddisfatti finché dalle stesse pareti non sarà schiodato. L'inimicizia in realtà ha ragioni storiche ben più profonde, e muove da visioni della vita forse davvero inconciliabili (su aborto e su eutanasia un accordo non ci sarà mai): però il crocefisso s'impugna più comodamente, specie d'estate.
Questo pezzo ti farà incazzare perché ti vorrebbe suggerirti, caro laico, di non cascarci. Ci sono ottimi motivi per litigare coi cattolici; il crocefisso non è solo il meno interessante; è anche l'unico in cui leggi e sentenze ti danno torto. In effetti, quando Salvini chiede di appendere un Cristo alla parete di una scuola pubblica, non fa che chiedere che sia applicata una legge dello Stato. È vero, si tratta di due Regi Decreti, roba degli anni Venti. È vero, i medesimi decreti impongono di esporre a fianco del crocefisso l'effigie di Sua Maestà il Re, il che ci potrebbe indurre a ritenerli superati dalla prassi. Ma pare che non funzioni così con le leggi, e non lo sto dicendo io: lo hanno scritto, in diverse sentenze, il Tar del Veneto, la Corte Costituzionale e il Consiglio di Stato. Che altro si può fare, a questo punto? Denunciare lo Stato Italiano alla Corte europea dei diritti dell'uomo perché espone un simbolo religioso in un luogo pubblico frequentato da minori? Due genitori di Abano Terme, Massimo Albertin e Soile Lautsi, nello scorso decennio ci hanno provato, e in primo grado la corte di Strasburgo ha pure dato loro ragione. A quel punto però, cos'è successo? il capo del governo, Berlusconi si è fatto fotografare con un cristone enorme in mano, ha annunciato che lo Stato avrebbe fatto ricorso, subito appoggiato da alcuni esponenti del principale partito di opposizione (si chiamava PD) e dall'autorevole parere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano; alla fine il ricorso si fece e... il crocefisso lo vinse. (Continua su TheVision).
Se quindi stai pensando che sia ora di condurre una battaglia di laicità su tutti i fronti per staccare un simbolo confessionale da pareti laiche, questo pezzo ti farà incazzare perché ti rivelerà che la battaglia è già stata combattuta, e persa: persa al Tar, persa alla Consulta, persa al Consiglio di Stato, persa a Strasburgo. Questa è la dimostrazione che esiste un fronte pro-crocefisso che dalla destra identitaria arriva fino alla sinistra. Grazie alla pur ammirevole testardaggine di Albertin e Lautsi c’è una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che non riconosce l’esistenza di “elementi che attestino l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo religioso sui muri delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni.” Ti fa incazzare? T’avevo avvertito.
Potrai chiederti come mai, caro lettore incazzato, in quasi ottant’anni di Repubblica, nessun laico ha mai voluto affrontare la questione con la determinazione dei due genitori di Abano. C’è gente che si è fatta arrestare per ottenere il diritto all’aborto, che ha lottato per il divorzio, o l’eutanasia. Insomma di battaglie ne hanno fatte, i laici italiani: perché il crocefisso no? Domanda interessante.
Questo pezzo ti farà incazzare perché ti porrà la questione più o meno come se la deve essere posta Mussolini: se ci tengono davvero così tanto, a quei due legnetti, se li tengano. Vale la pena, per due legnetti, litigare con una parte cospicua del Paese? C’è il rischio di saldare una destra reazionaria, per la quale il crocefisso è un simbolo d’identità, con un centro moderato e solidale, per il quale rappresenta invece la pietà. A Salvini certo non dispiacerebbe, a noi tocca inventarci qualcosa di diverso.
Io un’idea ce l’avrei: se i cattolici e gli identitari ci tengono tanto al crocefisso, adottiamolo anche noi. Facciamolo nostro, tanto quanto è loro: i simboli sono di tutti, non c’è nessun marchio registrato. Portiamolo in giro per i cortei, gay pride inclusi. Raccontiamo che il Cristo in Croce è un simbolo di apertura al diverso, di pace, di democrazia, di qualunque cosa. D’altronde, è cristiano ma anche ebreo, e questo è certo; ma è anche un po’ musulmano (artificioso, ma plausibile) e buddista, jainista e indù, che tanto quelli riciclano tutto. E anche laico, perché no: dopotutto, quando gli chiesero se bisognava pagare i tributi a Cesare, Gesù rispose “Date a Cesare quel che è di Cesare”, senza chiedere esenzioni fiscali. E se anche non lo avesse detto non importa, non è che bisogna per forza citare i vangeli. Facciamo quello che fecero i cristiani coi simboli pagani: quelli che non riuscivano a distruggere, li assorbivano. Trasformarono sorgenti sacre in sorgenti miracolose, templi a Iside in battisteri, rune solari in crocefissi. Il Dio Sole vinceva le tenebre tre giorni dopo il solstizio d’inverno e loro decisero, senza preoccuparsi di consultare i vangeli, che anche Gesù era nato proprio quel 25 dicembre: che straordinaria coincidenza. Insomma, se il crocefisso non ci piace, facciamocelo piacere. Evitiamo che sia usato per isolarci, mescoliamo le acque, tentiamo un’infiltrazione.
È solo una proposta, e probabilmente ti ha fatto incazzare. Va bene così. Incazzati con me, magari ti servirà a trovare una soluzione al problema, qualcosa che fin qui non era ancora venuto in mente a nessuno.
Perché la paghetta agli insegnanti non ha funzionato?
31-07-2018, 17:41Renzi, scuola, TheVisionPermalinkIl cassiere trattiene un sospiro. La Carta Del Docente, certamente, si accomodi. Ma a quel punto il cliente, un prof sulla cinquantina, deve: estrarre il cellulare, entrare nell'app che stampa i buoni, procedere con l'autenticazione, lagnarsi perché in quella libreria il cellulare non prende (fenomeno interessante e ancora poco studiato: molte librerie italiane sono angoli ciechi della rete satellitare. Forse perché sorgono in edifici storici; forse tonnellate di fogli pressati filtrano le radiazioni in modi che la scienza ancora non conosce; forse l'elettromagnetismo ci sta dando un ultimatum: o me o i libri di Cazzullo). A quel punto di solito il cassiere invita il docente a spegnere e riaccendere, o fare due passi in strada, in certi casi l'app riparte. Ma stavolta no, stavolta è proprio giù il server del Ministero. Passa un commesso, ammette che è due giorni che è così. Da quando i sindacati hanno consigliato gli insegnanti di spendere tutto il bonus il prima possibile o almeno entro il 31 agosto.
Non è il caso di farsi prendere dal panico. L'allarme dei sindacati è rientrato in poche ore, il ministero ha già fatto sapere che i soldi non spesi in agosto saranno riaccreditati, come l'anno scorso, in autunno. Salvo imprevisti, gli insegnanti avranno i loro 500 euro a disposizione anche nel 2018/19. Eppure c'è stato un momento, forse solo una mezza giornata, in cui la Carta del Docente se l'è vista brutta. A fine giugno, i senatori 5Stelle della Commissione Cultura avevano messo nero su bianco che il Bonus era una mancia elettorale, una "misura estemporanea e demagogica che non ha alcun effetto positivo a lungo termine", uno "spreco di risorse preziose". In quel momento magari la priorità era marcare la differenza con la passata gestione. In seguito potrebbero essere maturate altre considerazioni. Il M5S è un po' in affanno in questa prima fase del governo Conte; gli insegnanti sono un segmento delicato del loro successo elettorale; molti venivano dal PD e potrebbero tornare all'ovile: meglio non tagliar loro la paghetta. Il guaio delle mance elettorali è che si trasformano quasi subito in privilegi acquisiti. Elargirle è facile, ma non ti fa necessariamente vincere le elezioni. Tagliarle è più difficile e te le fa perdere di sicuro. E così anche l'anno prossimo avremo code a fine luglio in libreria, ai botteghini del cinema, del teatro, ovunque il prof potrebbe pagare con il Bonus, se solo riuscisse ad autenticarsi, se solo ci fosse rete nel locale, se solo il server ministeriale non fosse appena andato giù...
È difficile criticare la Carta del Docente. Se sei un insegnante (io lo sono), dai la sensazione di sputare nel piatto dove ti hanno offerto il dessert. Con tutti i problemi che ci sono al mondo. C'è un nuovo governo che chiude i porti ai naufraghi e io ancora me la prendo perché Renzi mi allungava 500 euro all'anno per il cinema e i libri. Mi rendo conto. Credo comunque che occorra parlarne, proprio perché qualcosa qui è andato storto davvero. Gli insegnanti erano per il PD di Renzi un settore strategico – almeno quelli a tempo indeterminato. A un certo punto doveva aver calcolato di averli tutti dalla sua parte. Prima gli 80 euro al mese, poi il bonus cultura: non parliamo di fumose riforme o vacui discorsi sulla dignità e l'autorevolezza e blablablà: parliamo di contanti in busta. Gli altri chiacchieravano, Renzi sborsava cash. Certo, di tutto questo ai precari non arrivava nulla, ma gli insegnanti di ruolo avrebbero dovuto erigere altari a Renzi nelle scuole di ogni ordine e grado, di fianco a tutte le macchinette del caffè. Se non è successo, vale la pena di chiedersi il perché. Riuscire a farsi detestare dalle persone a cui aumenti la paga è un'impresa notevole, che merita un approfondimento. In attesa di studi seri, tutto quel che posso fare è contribuire con qualche ipotesi, qualche sensazione captata tra la sala insegnanti e la libreria.
La prima sensazione che riesco a captare, forte e chiara, è l'odio profondo per la maledetta app... (continua su TheVision).
La prima sensazione che ricevo, forte e chiara, è l’odio profondo per la maledetta app che si pianta proprio nel momento in cui ti serve, che dimentica la password, che ti trasforma in un analfabeta digitale davanti a tutti quando sei davanti alla cassa e vorresti soltanto fuggire il più lontano possibile col tuo malloppo di cultura. In realtà il software del Ministero non è così male, il problema è a monte: i docenti di ruolo italiani sono i più anziani d’Europa. Metà di loro ha passato i cinquanta, e da parecchio. Li avete presente, i cinquantenni con gli smartphone, sì? Anche se la procedura della carta del docente fosse la più semplice del mondo (e non lo è), è chiaro che per loro sarà comunque faticosa. Non dovrebbe essere impossibile: dopotutto è gente che nel giro di cinque anni è passata senza troppi patemi dal registro cartaceo a quello digitale. Tant’è che poi la maggior parte di loro ce l’ha fatta: ormai portano anche il tablet in classe – molti lo hanno comprato proprio grazie al bonus. Con un po’ di sforzo, di tempo, e una rete wifi decente, ecco spuntare dallo smartphone il voucher richiesto; parte di questo tempo se ne va anche a imprecare contro Renzi, che poteva semplicemente accreditarci 500 euro: in fondo cosa sono 500 euro per un dipendente pubblico? Quaranta euro al mese.
Una paghetta, insomma. Non a caso l’altra categoria a cui il governo Renzi decise di erogarla erano i diciottenni. Ora, se all’improvviso regali 500 euro a un diciottenne, il minimo che tu possa aspettarti è un po’ di umana gratitudine (attenderai invano, ma è un altro discorso). Ma se eroghi gli stessi 500 euro a un tuo dipendente – uno che magari aspetta da anni il rinnovo del contratto – lui può anche sentirsi preso in giro. La paghetta, che a 18 anni è una gran cosa, a 55 è un’umiliazione. In generale l’adulto è convinto di sapere gestire i propri soldi, senza bisogno che il governo controlli che li spenda in libri e teatro anziché in dolciumi e balocchi. Questo a mio parere è stato il vero errore: trattare gli insegnanti come i loro eterni avversari, i ragazzini. Del resto, questo tipo di bonus voleva essere anche un sostegno all’industria culturale. A inventarlo e proporlo a Renzi fu Marco Lodoli, uno scrittore/insegnante – un caso abbastanza frequente di conflitto d’interessi: chi al mattino insegna e la sera scrive forse non può evitare di pensare che il mondo sarebbe migliore se i colleghi che al mattino insegnano, la sera leggessero i suoi libri.
In controluce s’intuisce una concezione un po’ antica della classe docente: non una categoria professionale che deve adeguarsi a determinati standard e meritare il rispetto dei datori di lavoro e degli utenti, ma una casta di spiriti eletti. Un po’ frustrati dalle incombenze mattiniere, celebrano la loro identità leggendo libri, andando al cinema o in teatro e facendo tutte quelle cose che dovrebbero elevare gli intellettuali. Ma gli insegnanti oggi non sono più così. Non sono giovani, è vero, ma neanche avanzi di scuola crociana: senza scomodare il famigerato ’68, molte cose sono cambiate negli ultimi decenni. Insegnare è faticoso, prende tempo, non è che te ne avanzi così tanto per fare la clacque in un teatro che senza i tuoi biglietti chiuderebbe, o per leggere libri che non hanno a che vedere con il tuo aggiornamento professionale. Noi docenti non siamo il serbatoio di riserva di spettatori e lettori che salverà l’industria culturale italiana. O forse sì, ma non ci piace essere considerati il parco buoi dell’editoria. Siamo adulti, abbiamo le nostre esigenze, senz’altro ci piace leggere libri e qualche volta ci viene pure voglia di frequentare luoghi affascinanti e desueti come il cinema o il teatro. Non è che quaranta euro al mese di voucher ci facciano schifo, ma forse chi pensava di comprarci così, ci ha un po’ sottovalutato.
Dove c'è una scuola ghetto, guardati intorno: troverai anche una scuola cattolica
23-07-2018, 00:39come diventare leghisti, scuola, TheVision, TViPermalinkOvviamente è più complicato di così. Due istituti comprensivi di Monfalcone hanno fissato un tetto del 45% di alunni "stranieri" per classe che taglierebbe fuori appunto una quarantina di bambini. Il sindaco, Anna Cisint (Lega) ha sostenuto la scelta dei due istituti, e a sua volta ha ricevuto il sostegno del suo leader e ministro degli interni, Matteo Salvini. I sindacati hanno fatto un esposto in procura; il ministro dell'istruzione (anche lui d'area leghista) ha cercato di placare gli animi ventilando la possibilità di aprire altre due sezioni. Ma insomma siamo ormai a fine luglio e più o meno quaranta famiglie non sanno ancora se i loro figli di tre anni frequenteranno una scuola dell'infanzia, e quale. È quel tipo di incertezza che può costare un posto di lavoro a un famigliare: se il bambino resta a casa, qualcuno dovrà rimanere con lui. Più facilmente una madre o una sorella. La Cisint teme che accogliendo più "stranieri" le scuole diventino un ghetto.
Metto la parola "stranieri" tra virgolette, perché in molti casi parliamo probabilmente di bambini nati in Italia che una legge un po' medievale considera non cittadini del Paese in cui hanno trascorso i primi tre anni di vita. La Cisint dà per scontato che non siano molto integrati, e se continueranno a restare in famiglia non c'è dubbio che non si integreranno; se poi in famiglia non hanno imparato a parlare in un buon italiano, non è restando in casa che lo impareranno. Tra tre anni in ogni caso dovranno iscriversi alla scuola dell'obbligo, probabilmente proprio negli stessi istituti comprensivi che ora vorrebbero tenerli fuori. Insomma il ghetto è solo rimandato. Non è che il sindaco non se ne renda conto. Lei insiste che i bambini dovrebbero essere assorbiti dalle scuole dei distretti limitrofi. Fin qui non ha ottenuto nulla, ma il braccio di ferro potrebbe andare avanti fino all'inizio delle lezioni.
Sarebbe abbastanza facile accusare la Cisint di xenofobia e razzismo. Di sicuro molti suoi elettori sono xenofobi; lei stessa non sembra impegnarsi molto per combattere questa impressione: qualche mese fa ostacolò la nascita di un centro islamico perché secondo lei "le moschee in Italia non sono previste". È riuscita perfino a espellere lo sport nazionale bengalese, il cricket, dalla Festa dello Sport di Monfalcone. Il caso delle scuole d'infanzia però è più delicato. Quello che propone, almeno in senso astratto, è ragionevole; è la stessa cosa che cercherebbe di fare un sindaco di qualsiasi altra area politica, anche progressista. Non vuole respingere i bambini "stranieri", o nasconderli sotto il tappeto. Vorrebbe semplicemente spalmarli su una superficie più vasta, in modo da favorire l'assimilazione culturale, che preferiamo chiamare "integrazione".
Com'è stato scritto fino alla noia (ma alcuni non hanno intenzione di leggere) l'emergenza stranieri in Italia è tutto fuorché un'emergenza. Non stanno arrivando molti stranieri, in percentuale: il flusso è costante ma stabile. Eppure chi soffia sul fuoco dell'intolleranza ha buon gioco a mostrare come in certe realtà gli immigrati sembra abbiano preso il sopravvento sulla popolazione locale. A una certa ora del pomeriggio sembra che in giro ci siano soltanto stranieri; e anche davanti alle scuole, altro che otto per cento. Gli immigrati tendono a insediarsi a macchia di leopardo, e questo favorisce lo sviluppo di un sentimento xenofobo sia nei quartieri dove gli italiani temono l'accerchiamento, sia in quelle larghe zone del Paese dove gli immigrati sono talmente pochi che vengono ancora percepiti come alieni dallo spazio profondo. Se davvero li si potesse distribuire più uniformemente nel territorio, sarebbe molto più facile integrarli. È in fondo il principio per cui i centri di permanenza sono stati disseminati in tutte le regioni; lo stesso principio per cui l'Italia chiede ai Paesi europei di ospitare quote più alti di richiedenti asilo. In piccolo, è la stessa logica che la Cisint cerca di applicare alla sua Monfalcone. È un distretto industriale che sopravvive alla crisi: gli immigrati sono arrivati perché cercano lavoro, e alla Fincantieri e in altre aziende della zona il lavoro c'è. Che iscrivano i propri figli già alle scuole d'infanzia è una buona notizia; significa che in molti casi lavorano anche le madri, e il lavoro è un fattore cruciale dell'emancipazione femminile. Sempre che ci siano scuole disponibili: a Monfalcone forse non ci sono. Ma sono davvero così tanti, e così prolifici, i lavoratori di cittadinanza non comunitaria in città? (Continua su TheVision)
Crepuscolo del preside sceriffo
12-07-2018, 09:33governo Conte, privatizzazioni, Renzi, scuola, TheVision, TViPermalinkFuor di metafora: la chiamata diretta non esiste più. Il neoministro dell'istruzione Marco Bussetti ha firmato a fine giugno coi sindacati una bozza d'accordo che ne prevede il superamento. È una misura importante soprattutto da un punto di vista simbolico, perché i margini di autonomia del dirigente erano già stati più volte ridimensionati. Agli sceriffi la legge del West consentiva di radunare uno squadrone di civili (una "posse") per dare la caccia ai ladri di cavalli. Ai presidi, le bozze originali della Buona Scuola davano la facoltà di assumere direttamente gli insegnanti, ma già tre anni fa i legislatori avevano corretto il tiro, istituendo un "comitato di valutazione", nominato da docenti e genitori.
Più tardi aveva preso piede l'espressione "chiamata per competenze", e su questo i reduci renziani insistono ancora: non bisognerebbe chiamarla "chiamata diretta", ma "chiamata per competenze", ovvero il preside avrebbe scelto, sì, con una certa discrezionalità, indubbiamente: ma sulla base delle "competenze" dei candidati, certificate dal curriculum. Ma "chiamata per curriculum" sarebbe forse suonata male, mentre il termine passpartout "competenza" negli ultimi anni si è dilatato fino a diventare un paravento dietro al quale nascondere qualsiasi magagna. In questo caso il termine si riferiva a un misterioso quid che rende certi insegnanti più adatti a certe scuole, in base a parametri che non si potrebbero misurare coi concorsi nazionali. Soltanto i presidi, e i loro collaboratori, sarebbero stati in grado di saggiare la "competenza" dei candidati all'insegnamento, previa lettura del curriculum.
Come si leggeva in una delle slide che presentavano la Buona Scuola: "i presidi potranno formare la loro squadra". Più che un preside-sceriffo, un preside-manager sportivo, che gestendo sapientemente il proprio budget seleziona una rosa in base alla propria conoscenza del territorio, e al proprio fiuto didattico. In che modo poi i presidi avessero improvvisamente maturato competenze manageriali e didattiche non era affatto chiaro – la sensazione è che Renzi e co., nel momento in cui avevano deciso di occuparsi del complicato mondo della scuola, si fossero seduti al tavolo delle trattative chiedendo: chi comanda qui? I presidi? Bene, allora diamo tutti i poteri ai presidi, ecco fatto, era facile. Renzi li paragonava anche ai sindaci, e questa è l'immagine che chiarisce le altre: così come i sindaci avrebbero salvato il Paese (Renzi in testa, futuro Sindaco d'Italia), così i presidi avrebbero salvato la scuola. Bastava fidarsi di loro.
Su questa linea i difensori della Buona Scuola non cedono: i dirigenti scolastici avrebbero saputo individuare i meriti e le eccellenze molto meglio di qualsiasi concorso statale. Un paradosso ben curioso, visto che i presidi stessi vengono selezionati in base a concorsi statali. Ma tant'è; il preside era la figura più simile a quella del sindaco, dell'allenatore, del manager: il renzismo non poteva che fare affidamento su di lui. Questa mentalità manageriale, benché posata su basi teoriche malferme, garantì a Renzi l'appoggio di fior di opinionisti liberali, sempre pronti a ribadire che "la meritocrazia è di sinistra"; in compenso gli alienò le simpatie di molti insegnanti, ma non si può piacere a tutti. La concezione aziendalista della scuola non è una novità: nel decennio scorso è stata portata avanti senza remore da più di un ministro di area berlusconiana (Letizia Moratti, Maria Stella Gelmini). Vederla ripresa orgogliosamente da un governo di centrosinistra alla fine non stupiva neanche più tanto.
Anche quando lo stesso Renzi si rese conto di aver sbagliato qualcosa nel suo approccio... (continua su TheVision).
Di che scuola sta parlando professore
07-06-2018, 15:30giornalisti, scuola, TheVisionPermalinkSembra comunque di intravederlo in controluce, tra le proposte scartate all'ultimo momento, e in fondo è il motivo per cui mi sto mettendo a scrivere: questo tipo di pezzi apparentemente sconclusionati, che sembrano concepiti unicamente per strappare qualche applauso tra vecchi studenti e perfino insegnanti (c'è persino il divieto a convocare i docenti a più di quattro riunioni al mese), in realtà qualche effetto lo ottengono. In gergo giornalistico si chiamano "provocazioni", servono a far discutere, ma anche a spostare un po' più in alto l'asticella del tollerabile. Non importa se la maggior parte dei lettori trova ridicola la predella: nel frattempo ci siamo rimessi a parlarne e qualcuno, anche uno su cento, magari non l'ha trovata una cattiva idea. E così, editoriale dopo editoriale, il frustino diventa uno scenario sempre meno improbabile. Soprattutto se nessuno ogni tanto si sobbarca il fastidio di intervenire per far presente che chi suggerisce una cosa così demenziale come un gradino in mezzo a un'aula evidentemente non conosce le normative in fatto di sicurezza – quelle su cui il personale scolastico è tenuto ad aggiornarsi a intervalli regolari. Proporre anche solo per scherzo una cosa del genere non tradisce solo una scarsa conoscenza della scuola contemporanea, ma un po' di tutto il mondo del lavoro (continua su TheVision).
In alcuni casi risulta chiaro che lo stimato opinionista abbia preso lucciole per lanterne: è infastidito dal fatto che gli insegnanti non usino tutti i 500 euro del bonus cultura per “acquistare libri” – forse crede che si possano usare per le medicine o le mutande e non sa che le alternative sono corsi d’aggiornamento o supporti tecnologici. La creazione degli istituti comprensivi lo disorienta non perché inglobino scuole con utenze diversissime, dai tre ai 14 anni, ma perché invece di essere “intitolati al nome di una personalità illustre” sono designati “con un semplice numero o l’indicazione di una via!” Gran parte delle sue proposte sono ben poca cosa, se confrontate con le reali esigenze e richieste concrete di chi a scuola ci lavora.
Docenti e studenti chiedono scuole più sicure e la riduzione delle barriere architettoniche; lui ha ancora in testa la predella, ignaro che in diversi casi il disabile che avrebbe difficoltà a montare su quell’inutile gradino è proprio l’insegnante. Docenti e studenti vorrebbero più banda a scuola, per accedere alle risorse online e condividere compiti ed esperienze in rete (quando non c’è a volte ovviano utilizzando il traffico dati dei loro smartphone); l’opinionista non lo sa e propone di sequestrarli, gli smartphone (mentre “i semplici cellulari” vanno bene: viva i cari vecchi Nokia di una volta). Insegnanti e dirigenti si struggono per inserire nell’offerta educativa delle loro scuole qualche gita all’estero che possa fare la differenza; per lo stimato opinionista bisogna prima passare da Matera, unico capoluogo di provincia non ancora servito dalle Ferrovie dello Stato, un incubo logistico per ogni scuola del nord Italia (Provenza e Ticino sono molto più a portata di mano).
Più in generale l’opinionista dà per scontato che non esista problema che non si possa risolvere con qualche bella ricetta di una volta. I tempi sembrano propizi: per la prima volta nella storia della Repubblica c’è un un ministro dell’Istruzione di area leghista; in giro si respira una gran voglia di controriforma, sollecitata anche dall’ondata di allarmi sul bullismo scolastico. Gli stessi insegnanti potrebbero essere sensibili a questi argomenti, e in fondo il decalogo del Corriere è rivolto in primis a loro. A una categoria eternamente insoddisfatta il pregiato opinionista non offre soltanto uno scalino in più, ma anche il miraggio di una scuola senza genitori (e senza smartphone).
Siamo un popolo di allenatori della Nazionale. Durante la crisi di governo siamo diventati un popolo di giudici costituzionali. A maggior ragione riteniamo di avere qualcosa di sensato da dire sulla scuola, un’istituzione che tra l’altro abbiamo frequentato tutti – anche se magari è stato quarant’anni fa. In fondo non c’è niente di strano, anzi: la scuola è tra le altre cose un modello di società. Questo la rende, in molte conversazioni, un mero pretesto. In fondo, mentre propone di ripristinare uno scomodo gradino di pochi centimetri, lo stimato opinionista sta soprattutto cercando di difendere il proprio.
Michele Serra è inversamente proporzionale al popolo
25-04-2018, 00:00giornalisti, lotta di classe, scuola, TheVisionPermalinkNon è solo che molti sui social ne stanno discutendo: sembra proprio che non riescano a smettere. Se all’inizio aveva tutta l’aria di una discussione politica, a questo punto sembra più un esperimento sulla percezione collettiva. Qualcosa di simile al grande dibattito sul Vestito Nero-Azzurro o Bianco-Oro che catturò l’attenzione di tutti gli internauti nel lontano 2015, forse qualcuno ancora si ricorda. In una fotografia veniva ritratto un vestito che per molti era nero e azzurro, e per molti altri era bianco e oro, e non ci si è mai messi d’accordo su chi dovesse avere ragione. Il solco tracciato da Serra con l’Amaca di venerdì scorso sembra altrettanto profondo.
Riferendosi all’ultima ondata di notizie riguardanti incidenti scolastici, Serra scrive che “il livello di educazione […] è direttamente proporzionale al ceto di provenienza”. Di fronte a un’affermazione così perentoria, l’arena dei lettori si spacca in due: da una parte c’è chi trova l’Amaca assolutamente condivisibile; dall’altra chi la considera di un classismo insopportabile. Entrambe le parti stanno leggendo lo stesso trafiletto; da entrambe le parti troviamo lettori progressisti e conservatori, laureati e non, esegeti acuti e gente che ha letto soltanto le prime tre righe. I pochi che tentano di trovare una soluzione di compromesso (Serra avrebbe ragione, ma l’avrebbe messa giù un po’ troppo brusca) si trovano nella posizione più scomoda: come fai a sostenere pubblicamente che Serra si spiega male in 1500 caratteri? Lo fa da trent’anni.
A questo punto, più di prendere partito per l’uno o l’altro schieramento, si tratterebbe di capire cosa li ha divisi in modo tanto netto. Per molti pro-Serra si tratta di una banale questione di comprensione del testo: da una parte c’è chi ha capito che Serra non sta affermando una verità apodittica, ma denunciando uno “scandalo” (è lui il primo a usare questa parola) che le forze progressiste hanno l’obiettivo di contrastare. Dall’altra parte ci sono gli analfabeti funzionali che non se ne sono accorti, oh, e dire che è così semplice. Lo ha persino scritto: “scandalo”. Lettori troppo distratti che arrivano da link che li orientano male e cliccano via dopo tre righe credendo di aver capito chissà cosa.
E però non tutti gli anti-Serra sono così. C’è anche chi non ha affatto frainteso la sua posizione, ma trova discutibile il suo assioma: non risulterebbe affatto, come sostiene Serra, che la situazione è più grave negli istituti professionali e tecnici rispetto ai licei. In una ricerca ISTAT sul bullismo condotta nel 2014 il 19,4% degli studenti liceali appariva vittima di azioni di bullismo diretto; seguivano gli studenti degli istituti professionali (18,1%) e quelli degli istituti tecnici (16%). Il che non vuol comunque dire che volino più sedie nei licei che nei professionali. Il fatto è che in questi giorni si sta parlando di casi che tre volte su quattro non hanno a che vedere col bullismo. Uno studente che fa una scenata a un insegnante non è bullismo – a volte è pura insolenza o melodrammatica ad usum Youtube. Un genitore che aggredisce un docente non è bullismo. Si tratta di più banale prepotenza, oltre che maleducazione, e non siamo nemmeno sicuri che sia in aumento.
Molti anti-Serra contrappongono all’Amaca le proprie esperienze personali: è quasi un riflesso involontario. C’è il figlio del muratore che ha fatto il classico, chi ricorda con nostalgia un ITI o un IPSIA dove gli insegnanti venivano trattati con rispetto, eccetera. Nessuno di questi resoconti ha un valore statistico in sé; messi tutti insieme però dimostrano una forte resistenza di massa all’assioma di Serra: quell’Italia in cui la maleducazione è direttamente inversa al ceto non esiste più, ammesso che sia mai esistita. È una semplificazione che forse può funzionare in alcune città grandi e medie in cui il giornalista ha abitato, ma che va in pezzi appena si mette un po’ il naso in provincia – e l’Italia, rispetto ad altri Paesi dove l’urbanizzazione è più intensa, ha questa particolarità che a molti osservatori sfugge: è una grande provincia. È un luogo dove a volte non studia chi se lo può permettere, ma chi non ha alternative, mentre i figli dei padroni si contentano spesso di scaldare la sedia cinque anni in un diplomificio privato dove gli insegnanti se la vedono brutta tanto quanto in un professionale. È un’Italia dove è normalissimo incontrare analfabeti in yacht e dantisti in pedalò. È un mondo senz’altro ingiusto e sbagliato, ma ecco, stavolta non è ingiusto e sbagliato come lo descrive Serra, tutto qui. È vero che gli insegnanti dei professionali se la passano peggio che quelli dei licei? Non ci sono concreti dati statistici, ma sembra abbastanza intuitivo. È vero che quei professionali sono frequentati soprattutto dal volgo, mentre al liceo vanno i ricchi? Non proprio, non sempre, e per molti lettori non è questo il punto. Il genitore arrogante che minaccia il prof non è necessariamente un poveraccio insicuro. A volte è un facoltoso – ugualmente insicuro (continua su TheVision)
Serra alla fine cerca di ricondurre un argomento (il bullismo scolastico) al grande Tema di ogni pensatore e militante di formazione anche solo vagamente marxista: la lotta di classe. Tutto il resto è sovrastruttura. Dite che le scuole stanno diventando una jungla? Sarà per via della lotta di classe. Date ai poveri la stessa scuola dei ricchi, e la jungla si dipanerà, centomila fiori fioriranno. I poveri non sono d’accordo? È falsa coscienza, propalata dai populisti, inconsapevoli servi del potere.Qualcuno può trovare questo approccio ideologico (come se esistessero approcci non ideologici), ma molti che criticano Serra non ritengono così superata la lotta di classe. Semplicemente non riescono più a riconoscere in Serra un intellettuale organico; nemmeno un fiancheggiatore. Pare piuttosto un gentiluomo di campagna con un’idea della società un po’ astratta. Sarebbe tutto molto più chiaro se solo i poveri ammettessero di essere poveri... E invece capiscono male e s’incazzano. È vero, s’incazzano, ma non hanno capito poi così male.
È senz’altro anche un problema di contesto: Serra si trova nella difficile posizione di simbolo di un ceto medio riflessivo che pur borbottando ha appoggiato il PD al governo da Monti a Renzi a Gentiloni, per sette anni: sette anni di ragionevolezza, di accigliato paternalismo, ai termini dei quali hai voglia a dichiarare lo scandalo dell’ingiustizia sociale; sette anni in cui tra Repubblica e il popolo si è aperta una voragine. Serra probabilmente è il primo che farebbe un passo indietro, anzi l’ha già fatto: dalla prima pagina a quella dei commenti (in controtendenza con gli altri quotidiani nazionali, dove le rubriche da 1500 battute stile-Amaca in prima pagina ormai sembrano necessarie). Senz’altro non merita tanta aggressività, senz’altro non si può liquidare come quei benpensanti che a ogni manifestazione di piazza riciclano Pasolini dando per scontato che i poliziotti continuino a essere i poveracci e i manifestanti in prima linea i borghesi. A volte è ancora così, a volte no, la lotta continua ma siamo in una fase di mischia, è difficile riconoscersi; uno studente arrogante potrebbe essere una vittima della società ma anche uno stronzetto che non capisce perché a sedici anni deve perdere ancora tempo in classe quando suo padre ha già pronto per lui il capannone per la startup innovativa (coi fondi europei). C’è gente che urla per riconoscersi, slogan anche vecchi o esagerati, ma più che il senso si tratta appunto di riconoscersi; un gran baccano. È difficile a questo punto non immaginarsi Serra, in vestaglia, che si affaccia un po’ perplesso: tutto questo caos indispone.
La violenza a scuola e l'effetto bulldog
22-04-2018, 10:17giornalisti, scuolaPermalinkEra ministro dell'istruzione nel 2007.
Tutte le notizie che ho linkato fin qui risalgono alla primavera del 2007. I "telefonini", quelli con i tasti di plastica, producevano già foto e video di qualità discutibile, ma sufficiente a compromettere il quadrimestre di uno studente e la reputazione di un insegnante. Instagram non esisteva; Facebook in Italia era praticamente sconosciuto; Youtube funzionava da due anni e quella ondata primaverile di allarmismo scolastico ci dimostra che stava già diventando mainstream. I siti dei più importanti quotidiani italiani andavano già in cerca di video amatoriali a base di professori sbeffeggiati: avevano già l'abitudine di ripubblicarli, sovrapponendo il loro logo editoriale, aggiungendo un po' di pubblicità e qualche corsivo moralista: Dove Andremo A Finire?
Oggi lo sappiamo: da nessuna parte in particolare. Siamo ancora qui.
Qualche insegnante è andato in pensione, qualcuno un po' più giovane lo ha rimpiazzato, e ogni tanto i giornalisti si rimettono a frugare su Youtube e scoprono che c'è un'emergenza, la solita. Si è rotto il patto educativo! proclama venerdì il Corriere. Un prof picchiato ogni quattro giorni, echeggia Repubblica. "Ventisei episodi diventati pubblici in centonove giorni".
Peccato che tra questi episodi sia ancora una volta inclusa la storia della "professoressa legata alla sedia con lo scotch" di Alessandria, che non è stata né picchiata né tantomeno legata a una sedia (con lo scotch? quanti rotolini servirebbero a immobilizzare un adulto? Come si fa a mandare in giro roba del genere?) Peccato che nel bollettino di guerra pubblicato da Repubblica giovedì siano stati cucinati nello stesso calderone fatti di cronaca successi in mesi diversi, alcuni nemmeno a scuola, in cui i prof spesso non sono né vittima di percosse né di molestie: a volte sono quelli che le denunciano. Peccato che il video che rimbalzava venerdì sulle homepage dei quotidiani, dove l'ennesimo stronzetto minaccia un professore di scioglierlo "nell'acido" (paura!) sia dell'anno scorso. Ma avrebbe potuto essere anche di due, tre, undici anni fa. Ormai viviamo in un eterno presente. Colpa dei social, del deficit di attenzione, oppure semplicemente su Youtube le date sono scritte in piccolo e qualche giornalista trova comodo non farci caso.
È l'effetto bulldog: a volte basta un niente, una notizia che per qualche motivo riesce ad attirare l'attenzione (in un parco un bulldog morde un bambino). In redazione si accorgono che funziona e decidono di insistere sul genere, si mettono a cercare: ci sono stati altri incidenti simili, altri bulldog mordaci? Va bene anche se non sono bulldog, va bene anche se non hanno morsicato bambini. Nei giorni successivi le aggressioni canine non aumenteranno, ma invece di scivolare indisturbate in fondo alla cronaca locale finiranno tutte in prima pagina e il lettore si convincerà che esiste un'emergenza bulldog. Bisogna anche ammettere che è primavera, la politica è in stallo, l'emergenza immigrazione è improvvisamente sparita dal radar (per una curiosa coincidenza, tutti i giornalisti che la propagavano sui canali Mediaset sono stati ridimensionati) la guerra mondiale in Siria non ingrana, magari anche i bulldog nei parchi sono un po' lenti di riflessi e così, in mancanza di bimbi morsicati e bombardamenti seri, la maleducazione scolastica sta avendo il suo momento di gloria.
Il bullismo tira – pazienza se in realtà "bullismo" vuol dire un'altra cosa, ormai per i giornalisti italiani lo spettro del "bullismo" si estende dalla semplice maleducazione all'omicidio a sfondo razziale. Il bullismo ci smuove qualcosa dentro: siamo tutti convinti di esserne stati vittima, siamo tutti convinti di poterla far pagare a qualcuno. Quel ragazzino petulante, non ti viene voglia di prenderlo a schiaffoni? Quel prof immobile, non lo licenzieresti? Su Youtube trovi tutti i video che vuoi (ci sono canali dedicati), non devi neanche pagarci i diritti. In cinque minuti puoi sbattere in home uno spettacolo che attira lettori dalle idee radicalmente opposte: chi difende gli insegnanti e chi gode a vederli svillaneggiati (oppure fantastica di trovarsi al loro posto, ma dotato di arcani poteri che gli consentirebbero di sospendere alunni per direttissima, bocciarli ad aprile anche se gli scrutini sono in giugno). Gli insegnanti stessi spesso sono i più voraci lettori e propagatori di notizie e video del genere, convinti che una pubblica umiliazione possa servire a denunciare la triste condizione della classe docente eccetera. E non dimentichiamo il target più difficile per i giornali: gli studenti stessi, a cui questa roba indubbiamente piace. Magari se trovano su Repubblica e il Corriere le stesse scemenze che sono virali su Youtube, staranno un po' più su Rep e sul Corriere e un po' meno su Youtube... e pazienza se si scatena l'effetto emulazione.
Già, l'emulazione.
'Ma mi dia retta, s'inginocchi, vedrà che svoltiamo'. |
‘Se non si vuole inginocchiare, potrebbe almeno darmi in ceffone. Finiamo sul canale dei ceffoni, c’è una compilation di ceffoni scolastici che ha 3 milioni di visualizzazioni… oh prof ma mi ascolta? Le sto parlando del nostro futuro’. |
Chi è davvero convinto che le scuole del passato fossero ambienti più tranquilli e rispettosi tende a considerare la propria individuale esperienza scolastica un campione statistico rilevante: spesso è gente che ha fatto un buon liceo, dove di mosche magari ne volavano poche e gli echi dei tafferugli nel più vicino istituto professionale arrivavano di molto attutite. Però, ecco, quel buon liceo avrebbe dovuto anche insegnarci a mettere in discussione i luoghi comuni. Do un’occhiata alla mensola alle mie spalle: al primo colpo trovo uno dei primi libri di Sciascia, Le parrocchie di Regalpietra (1956), lo apro a una pagina a caso. Trovo “trenta ragazzi sporchi arruffati” che anche in presenza di un ispettore scolastico “continuano a mormorare e a litigare tra loro”. Nemmeno del parroco che insegna religione hanno rispetto. “Qualche bestemmia ronza nell’aula, ma il prete non finge come me di non sentire. Promette il fuoco eterno. Ridono. Diventa scarlatto di collera. Son costretto a gridare anch’io il mio inutile rimprovero”.
È davvero il primo libro che mi è venuto in mano. E siccome descrive un territorio che non riesce a liberarsi dal retaggio del Ventennio, mi torna in mente il solito Benito Mussolini che già si portava il coltello alle elementari, e adolescente in un collegio di Faenza rischiò l’espulsione perché lo aveva usato contro un compagno. (Nota: la rischiò soltanto! Non c’è proprio più rispetto. Dove andremo a finire?) Ma il tempo gli riservava un’orribile vendetta: un giorno sarebbe diventato maestro anche lui – con esiti altalenanti. A Tolmezzo si ritrova “una seconda elementare, che contava quaranta ragazzetti vivaci, taluni dei quali incorreggibili e pericolosi monelli. Inutile dire che lo stipendio era modestissimo […] Feci tutti gli sforzi possibili per tirare innanzi la scuola, ma con scarso risultato, poiché non ero stato capace di risolvere sin da principio il problema disciplinare”. Imporre a quaranta milioni di italiani una dittatura si sarebbe rivelato un compito più alla sua portata.
Che s’ha da fare pur di non tornare dietro quella cattedra. |
Le scuole italiane hanno un sacco di problemi, alcuni strutturali. Tra questi, la maleducazione degli studenti non costituisce una particolare emergenza. È solo la notizia che per qualche motivo ha forato l’attenzione in questo momento. Gli studenti maleducati ci sono da sempre, e non erano molto meno maleducati anche quando si potevano picchiare (è uno dei motivi per cui abbiamo smesso: non funzionava). L’unica sensibile novità è che oggi la maleducazione scolastica è davanti agli occhi di tutti: in attesa delle videocamere appese alle pareti delle aule (arriveranno) la scuola va in onda a tutte le ore su Youtube, su Whatsapp, al punto che viene quasi voglia di prendersela non con il “bullismo”, ma con chi lo propaga, lo rende virale, magari convinto di contrastarlo mentre ci sta soltanto speculando un po’ sopra. Quei video che gli insegnanti condividono nell’illusione di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle difficoltà della loro professione; che i loro studenti ormai organizzano nella speranza di guadagnarsi quei cinque minuti di viralità che dovrebbero valere il prezzo di una bocciatura; quei video alla fine si rivelano una fregatura per entrambe le categorie: uno spettacolino di costo irrisorio montato in homepage per un pubblico annoiato che spesso finisce per invocare quello che la scuola pubblica non può dare (ma la privata sì): il frustino.
Scuole violente o giornalisti un po' esagerati? (indovina)
06-04-2018, 16:46giornalisti, scuola, TheVisionPermalinkChissà se è poi vero.
Può anche darsi che gli adolescenti e i preadolescenti italiani, negli ultimi anni, siano diventati più violenti – non è un’ipotesi che si possa escludere a priori. Ma non abbiamo i numeri per dirlo. Non c’è un aumento di denunce (e anche se ci fosse, non coinciderebbe necessariamente con un aumento della violenza). È il solito discorso dell’albero che cade e della foresta che cresce. Magari avete sentito parlare di un’insegnante accoltellata al volto a Caserta: un fatto gravissimo che ha fatto scattare immediate sanzioni penali. Ma in Italia ci sono 9 milioni di studenti che vanno tutti i giorni a scuola e la quantità di accoltellatori è veramente troppo esigua per poter individuare un trend; un episodio, in sé, non significa niente. Ricordo ancora la prima volta che fui convocato in presidenza: il dirigente che mi aveva appena assunto aprì il cassetto della sua cattedra ed estrasse un coltellaccio da cucina da quattro dita, appena sequestrato dalla classe in cui sarei andato a insegnare. È successo più di dieci anni fa. Significava qualcosa? Non significava niente. Non mi è più capitato di vedere una lama a scuola. E anche questo non significa niente, domani un mio studente potrebbe estrarne una. Sono giovani, sono imprevedibili, e sono 9 milioni. Non è statisticamente così strano che qualcuno tiri fuori un coltello ogni tanto, è uno dei motivi per cui ci assicuriamo. Sapete, i rischi del mestiere.
Però ultimamente potreste aver provato la sensazione che questo lavoro stia diventando più rischioso. Magari avete sentito parlare di un professore picchiato dai genitori durante un colloquio. O di una professoressa presa a pugni perché aveva osato chiedere a un ragazzo di metter via il cellulare. O di una supplente legata alla sedia e picchiata da una classe di “bulli”. Se avete sentito parlare di tutte queste cose, più o meno al ritmo di un fatto di cronaca a settimana... anche questo non significa niente (continua su TheVision).
(C'è anche la versione audio su Radio 3, con infinite grazie a Silvia Bencivelli).
O meglio: non significa che gli allievi italiani stiano diventando più violenti e pericolosi per gli insegnanti. Significa semplicemente che i giornalisti hanno deciso di raccontarla così. Alcuni fatti di cui avete sentito parlare non risultano proprio. In molti casi invece un singolo fatto viene raccontato nella versione più fantasiosa che può essere partorita da un team di creativi che abbia accesso a una chat di genitori.
Il caso della supplente di Alessandria “legata e picchiata” dai suoi studenti è un classico esempio, dal momento che non è stata né legata né picchiata. “Particolarmente timida e un po’ impacciata [è la versione del preside], ha chiesto ad alcuni ragazzi di scrivere alcune frasi alla lavagna. Ne hanno un po’ approfittato. C’è stata qualche risata di troppo e qualcuno le ha messo dello scotch nella borsetta dell’insegnante. Nessun l’ha legata e, tanto meno, presa a calci”. Il vero problema è che la scena sarebbe stata ripresa da qualche studente col cellulare, anche se i fantomatici filmati sono spariti dai social così presto da far dubitare che siano mai stati condivisi: di sicuro non mostravano insegnanti legati e imbavagliati, e così i giornalisti si sono dovuti arrangiare con l’immaginazione. Qualche organo di stampa ha comunque corredato la notizia con una foto di mani legate – polsi sottili avvinti da pesanti funi da ormeggio.
E dire che a scuola ci siamo andati tutti. L’abbiamo avuto tutti un compagno che avrebbe potuto tirar fuori un coltellino; magari qualche volta in tasca l’avevamo pure noi. Ma la corda per legare un’insegnante neanche nei cartoni animati – com’è che ci beviamo cose del genere e che anche dopo aver sentito la spiegazione del dirigente continuiamo a invocare punizioni esemplari? Gli studenti che hanno scherzato con la supplente di Alessandria sono stati sospesi con obbligo di frequenza: è una sanzione molto grave. Niente, non basta: gli stessi opinionisti che si lamentano della perdita d’autorità dell’istituzione scolastica, se la prendono con l’istituzione scolastica che non condanna gli studenti a… cosa? Espulsione immediata? Qualche settimana di gogna in aula magna potrebbe secondo loro lavare l’onta di aver gettato un rotolino di scotch nella borsetta di un’insegnante. La stessa insegnante che, raggiunta dai giornalisti, rilascia un’intervista brevissima in cui ogni risposta sembra gridare lasciatemi perdere: sembra anche lei vittima dell’omertà. Di quella particolare forma della sindrome di Stoccolma che ti impedisce di chiedere la lapidazione per chi ti infila un rotolo di scotch nella borsetta a tradimento. E così via.
Lavoro nella scuola dell’obbligo. Ho naturalmente paura dei coltellini, dei tirapugni e di tante altre cose che non vi sto nemmeno a raccontare, ma ho ancora più paura quando mi passano il telefono e invece del temuto dirigente, o del temutissimo rappresentante dei genitori, mi si presenta un giornalista. Magari non è nulla. Magari è l’inizio di un lungo romanzo d’appendice in cui una pallina di stagnola diventa una calibro 22. Non è neanche tutta colpa dei giornalisti – alla fine hanno un pubblico da sfamare. Evidentemente c’è chi ha fame di notizie del genere: scuole violente, studenti brutali, genitori ancor più brutali, dirigenti omertosi e così via.
Gli stessi insegnanti che ripostano questo genere di notizie sanno benissimo che la realtà è sempre molto più complessa: che il genitore che mena è uno su mille, il genitore che non collabora uno su cento, e il genitore che non sa che pesci pigliare e chiede aiuto agli insegnanti è molto più frequente (e più faticoso da gestire: noi insegniamo italiano, insegniamo matematica, ma a fare i genitori non t’insegna nessuno). Gli stessi insegnanti che commentano: “DOVE ANDREMO A FINIREEE????” in calce all’ennesimo pezzo sulla prof legata in classe con fantomatiche funi fetish sanno benissimo che quello che arriva ai giornali di solito è la punta dell’iceberg. Di solito prima di tirare fuori il coltello uno studente ha già lanciato diversi segnali: di solito prima dell’incidente fatale c’è una lunga storia di difficoltà famigliari, sociali, economiche, a volte psichiatriche; di solito, prima di chiamare i carabinieri gli insegnanti hanno avvisato i servizi sociali e gli psicologi. Di solito, insomma, prima e dopo il coltello c’è tutta una storia che ai giornalisti non racconteremo mai. Loro vogliono sapere solo cosa è successo in quel momento. Vorrebbero il sangue; raccontare che la scuola italiana non è un semplice spicchio della società italiana, ma un inferno di anarchia e prevaricazione. E anche noi a volte vogliamo sentirci raccontare una scuola del genere. È un modo per reclamare attenzione, alla fine. Forse anche per farci sentire un po’ eroi quando ci chiedono che mestiere facciamo. Se poi passa il messaggio che la scuola pubblica sta fallendo, allora, ci lamenteremo anche di chi chiede finanziamenti per la concorrenza.
Il Classico è uno status dell'anima
27-02-2018, 10:35chiudere i licei (con i prof dentro), lotta di classe, scuola, TheVisionPermalinkIl fatto è che quando si parla del Classico sembra impossibile restare calmi. Il tono dev’essere sempre o tragico o trionfale. Qualcuno fa una critica? “Il liceo classico è sotto assedio”. Qualcuno lo trova tutto sommato un percorso formativo interessante? Non basta: come minimo bisogna scrivere che è “una scuola modello per l’occidente“, oppure “il meglio dell’Italia e della sua memoria, la nostra eccellenza, il modello nazionale per il quale ancora, ogni tanto, ci distinguiamo nel mondo“. Nei periodi in cui le iscrizioni calano (e fino a qualche anno fa il calo era sensibile) si paventa la fine della civiltà come la conosciamo: invasioni barbariche, cavallette e sale sulle rovine; per poi riscuotersi e inneggiare a un nuovo umanesimo appena la tendenza si inverte, come è logico che sia. Gli economisti parlano di dead cat bounce: anche un gatto morto rimbalza se cade da molto in alto. Un liceo che quest’anno dichiara il tutto esaurito può essere lo stesso che qualche anno fa ha chiuso una classe intera e ora non avrebbe più risorse per riaprirla. Non importa: nel frattempo gli articoli entusiasti vengono condivisi sui social, dove la prosecuzione telematica degli sfottò tra maturandi classici e scientifici degenera spesso in una specie di assedio: ex ginnasiali contro il resto del mondo.
Perché in effetti, nella stragrande maggioranza dei casi, chi afferma l’importanza dell’istruzione classica l’ha a sua volta ricevuta. È un’osservazione banale (solo chi ha studiato Tucidide in lingua originale può rendersi conto se l’esperienza gli è stata utile o no): chi difende il Classico sta difendendo il proprio percorso di crescita. Molto spesso si tratta di una persona che nella vita ha avuto successo, il che non lo mette al riparo da quella distorsione cognitiva che in inglese si chiama survivorship bias, la tendenza a leggere la Storia nella versione tramandata dai vincitori. Con gli anni, chi è soddisfatto di sé tende a ricordare con riconoscenza gli insegnanti che lo hanno formato, e le esperienze che ha fatto (comprese le versioncine di Velleio Patercolo: col tempo rivaluti le cose più ridicole). Magari avrebbe ottenuto gli stessi risultati anche in un’altra scuola, con altri insegnanti, e anche se invece di tradurre Velleio si fosse cimentato col calcolo integrale, o con la grammatica tedesca. Ma non può saperlo. Se gli chiedono un parere sul liceo, lui offrirà un parere sulla sua esperienza. Magari ribadirà la vecchia idea del Classico che “apre la mente”, anche se non offre competenze immediatamente spendibili, anzi proprio per questo: un luogo comune contro-intuitivo che però è strenuamente difeso da esperti che molto spesso nei classici per coincidenza ci lavorano. Nessuno sembra voler ricordare che il liceo classico, oltre a essere quella famosa fucina di intelligenze eclettiche che il mondo ci invidierebbe, è stato sempre per anni uno status symbol: ancora adesso ci vanno i rampolli delle buone famiglie, non necessariamente i più dotati o motivati. Gli stessi poi proseguivano attraverso l’università, approdando a un buon posto di lavoro a cui erano destinati, spesso non per i meriti maturati studiando i classici.
È chiaro che in una città dove le professioni sono in costante evoluzione gli studenti (e le famiglie) siano portati più spesso a optare per un corso di studi che non offre nessuna specializzazione ma promette di mantenere un’offerta educativa di qualità. Il paradosso del Classico è che in realtà sarebbe una scuola ad alto livello di specializzazione, se davvero sfornasse latinisti e grecisti – ma siamo tutti abbastanza d’accordo sul fatto che non serva a questo: le ore passate sul latino e sul greco non servono davvero a imparare il latino e il greco – due lingue che la maggior parte degli ex liceali non riesce più a decifrare pochi anni dopo il conseguimento del diploma. Quel che importa, quel che è sempre importato, è che siano due materie difficili. Più difficili del calcolo integrale o del coding? Non si sa, ma tutti pensano di sì, e questo è l’importante: le materie difficili e prive di sbocchi occupazionali immediati ti consentono di fare selezione all’ingresso.
Il Classico è ancora uno status symbol, o almeno è percepito come tale (ma c’è differenza?) Non è una cosa che i presidi possano scrivere nel Piano dell’Offerta Formativa; in compenso vi sarà capitato di leggere qualche Rapporto di Autovalutazione stilato da un insegnante o un funzionario un po’ troppo sincero (magari non sapeva che il Rapporto sarebbe stato pubblicato sul sito del ministero, e scambiato dalla stampa per “pubblicità classista”). Nel tal liceo ci sono pochi stranieri e neanche un disabile; in quell’altro si lamenta la presenza dei “figli dei portinai”. Il liceo classico è anche questo. Lo è sempre stato: la scuola per i rampolli di buona famiglia. Magari la famiglia non è così buona, ma mandando il ragazzo/a al classico spera che possa salire quel gradino sociale che evidentemente ancora esiste. Chi ricorda con affetto gli anni del liceo tende sempre a non far caso a quella cosa: i pesci non fanno caso all’acqua. Questo non significa che il Classico non possa davvero essere una formidabile palestra di vita. Seneca e Orazio possono davvero aprirti la mente; Tacito può davvero allenarti alla complessità. Ma forse è più facile che succeda in una classe piccola, senza compagni “problematici”.
La CEI vuole i tuoi soldi per le sue scuole
27-12-2017, 17:25preti parlanti, privatizzazioni, scuola, TheVisionPermalinkSe il tizio vi sembra un matto, spero che non siate devoti cattolici. Perché è più o meno quello che la Conferenza Episcopale Italiana sta chiedendo da anni: siccome la scuola statale ha dei problemi lo Stato dovrebbe finanziare le scuole paritarie cattoliche. Così finalmente potrebbero essere competitive – nel senso che potrebbero sottrarre alle scuole statali una maggiore fetta di utenti. In questo modo, secondo tanti vescovi e insigni personaggi, lo Stato risparmierebbe. E non poco: miliardi di euro! Proprio così. Chiedono soldi allo Stato per far risparmiare lo Stato. Paradossale, vero? Ma non potrebbero fare diversamente. L’articolo 33 della Costituzione parla chiaro: ai privati è garantito “il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione”, ma… “senza oneri per lo Stato”. Quindi l’unico sistema per scucire un po’ di soldi dal Ministero è dimostrare che buttandoli a pioggia sugli istituti paritari, lo Stato ne risparmierà. E per quanto possa essere difficile convincere qualcuno a risparmiare dei soldi regalandoteli, i cattolici non hanno mai smesso di provarci (continua su TheVision).
È tempo di conoscere suor Anna Monia Alfieri, presidente della federazione di scuole cattoliche Fidae Lombardia, e portavoce di chi in Italia lotta per il diritto di iscrivere i figli alle scuole paritarie. Un mese fa ha ottenuto un grande successo: ha presentato il suo nuovo piano, il Costo Standard di Sostenibilità, alla ministra dell’istruzione Fedeli, che lo ha trovato interessante (e non c’è dubbio che lo sia). Si tratta in effetti di una specie di rivoluzione copernicana: fino a questo momento le famiglie che ritengono giusto iscrivere i propri figli alle paritarie hanno dovuto pagare una retta, che mediamente oscilla tra 2000 e i 4000€ all’anno (a cui lo Stato aggiunge il Buono Scuola, una mancetta di 500€). Questa cosa – che una famiglia debba pagare una retta – per suor Alfieri è sommamente iniquo, dal momento che la stessa famiglia paga le tasse, e che parte di quelle tasse servono a pagare la scuola pubblica a tutti gli altri studenti. Secondo suor Alfieri chi paga la retta non dovrebbe pagare le tasse. Semplice.
Si potrebbe obiettare che la scuola pubblica è tale proprio perché la paghiamo tutti: e non paghiamo solo per i nostri figli, ma anche per i figli degli altri (la paghiamo anche dopo che i nostri figli si diplomano. La paga anche chi figli non ne ha proprio). Suor Alfieri ci risponderebbe probabilmente che questo è un modo vetusto di vedere la cosa pubblica, e che il futuro è la sussidiarietà: dove non arriva il pubblico con le sue scuole costose (costose?) può arrivare il privato più agile e snello. Anche se non è esattamente quello che sta succedendo.
Per ora, anzi, il contrario. Gli iscritti alle paritarie in cinque anni sono crollati del 13%. Un effetto della crisi (che però in teoria è finita) e della denatalità (ma per fortuna aumentano gli studenti stranieri, anche nelle paritarie). Per Suor Alfieri, si tratta dell’effetto di una vera e propria ingiustizia sociale. “Il sistema italiano è classista”, dice, perché “impedisce ai più poveri di iscrivere i figli in scuole non statali”. In effetti queste scuole non statali non solo costano parecchio di più alle famiglie, ma non garantiscono affatto risultati migliori, come continuano a mostrare le rilevazioni OSCE-PISA. Che senso ha pagare una retta per una scuola mediamente meno buona di quella che lo Stato ti fornisce gratis? E così, specie negli anni di crisi, gli studenti si sono progressivamente allontanati dalla scuola paritaria. Questo per suor Alfieri e tanti altri cattolici è un’ingiustizia: lo Stato dovrebbe aiutare le famiglie che vorrebbero scegliere le paritarie ma non possono permetterselo. E ci risparmierebbe! Sì, ma come?
Ricordiamo che lo Stato spende già per l’educazione meno di ogni altro Paese dell’Europa occidentale (Irlanda esclusa). Eppure sono già 6400€ a studente. Come fanno le scuole paritarie a spendere migliaia di euro in meno? Il sospetto è che si appoggino alle infrastrutture delle curie, che possiedono un po’ dappertutto in Italia immobili di pregio (su cui non pagano l’IMU); che gli ordini religiosi possano fornire un po’ di manodopera non pagatissima; e che in generale gli insegnanti abbiano stipendi inferiori ai colleghi statali che, ricordiamolo per l’ennesima volta, sono tra i meno pagati d’Europa.
Se le cose stanno così non sorprende poi molto che i risultati di queste scuole siano per ora inferiori a quelli delle scuole pubbliche: quello che in Italia sia pubblico che privato stentano a capire è che se vuoi un’educazione di qualità, ci devi investire soldi seri; attirare insegnanti bravi o formarli con cura; per ora invece abbiamo una corsa al risparmio che non è nemmeno destinata a rallentare, anzi: nei prossimi anni potremmo assistere a un’impennata, uno straordinario testa a testa tra poveri, una gara a chi taglia di più - anche grazie agli sforzi di suor Anna Maria Alfieri e al suo Costo Standard di Sostenibilità. Di che si tratta?
Dell’ennesimo tentativo di eludere l’articolo 33, però bisogna ammettere che stavolta l’approccio è davvero scientifico. Suor Alfieri ha messo assieme un pool di economisti che due anni fa hanno pubblicato uno studio serio, con tante tabelle e numeri. Invece di preoccuparsi di quanto costano le scuole adesso, si sono domandati: quanto dovrebbero costare? Quanto dovrebbe spendere la collettività per mandare un bambino alla scuola dell’infanzia (3201€ all’anno), alla scuola primaria (3395€), alle medie (4390€), al liceo (dipende: ad esempio al biennio scientifico 4300€), a un istituto tecnologico e così via? Le cifre variano poi a seconda di diversi fattori (tra cui le eventuali difficoltà economiche della famiglia, la presenza nella classe di un alunno disabile, ecc.). Sono tabelle davvero bellissime - le ho guardate e riguardate sperando di trovare un grosso buco da qualche parte, ma fin qui non l’ho trovato. Sembra che suor Alfieri e i suoi abbiano davvero calcolato tutto: lo stipendio medio dell’insegnante (non bassissimo), quello del dirigente e del suo staff; i bidelli; le utenze, le visite d’istruzione, i progetti di integrazione, il sostegno eccetera. Grazie a queste tabelle, oggi sappiamo qual è il Costo Standard di Sostenibilità di uno studente, ovvero quanto costa mandarlo a scuola. Indovinate? Costa meno di quello che spende oggi lo Stato: ma non un po’ meno: qualcosa come “dai 2,8 ai 7 miliardi” di meno, all’anno! Insomma è suor Alfieri ad aver scoperto un buco enorme in cui la scuola pubblica italiana ogni anno riversa un sacco di soldi. Ma sarà così? Senz’altro degli sprechi ci sono, ma in tanti casi lo Stato spende di più perché non si trova davanti quella situazione ottimale che è descritta dalle tabelle del libro. Lo Stato spende anche per scuole disagiate, nelle periferie o nelle montagne, magari poco frequentate ma necessarie. Per scuole di città allocate in edifici storici più difficili da riscaldare (per i quali a volte lo Stato paga l’affitto). Non è che spenda tantissimo (rispetto alla media europea), e magari non spende sempre in modo oculato, ma non può certo competere con un’idea di scuola astratta che per ora si trova soltanto nelle tabelle del libro, con tot alunni egualmente distribuiti su tot classi in tot corsi.
Invece suor Maria è convinta che la scuola pubblica, già vittima di tagli straordinari nello scorso decennio, debba essere messa in competizione con altre scuole che, sulla carta, costano persino meno (ma per ora non ottengono risultati migliori). Una volta individuato il Costo Standard non ci sarà più bisogno di buoni scuola: saranno le famiglie a scegliere. Se vogliono andare alla scuola paritaria, pagheranno il Costo Standard direttamente alla paritaria, ma – attenti al trucco – non pagheranno l’equivalente in tasse. È il modello della sanità, ci spiegano: dove non arriva il servizio pubblico, ci pensano i privati. Sussidiarietà! A dire il vero fin qui tutto sommato è il pubblico che è arrivato dappertutto, dai più remoti paesini alle isole – e se nelle cliniche cattoliche è più difficile trovare chirurghi che praticano l’aborto, il sospetto è che anche nelle scuole cattoliche non sarà così facile trovare insegnanti che spiegano come l’aborto sia un diritto - e cosa sia il testamento biologico, e le unioni civili anche tra persone dello stesso sesso (gli insegnanti gay non sembrano avere vita facile nelle scuole cattoliche), e tante altre cose che fanno parte del mondo in cui viviamo ma vanno contro quelli che i cattolici definiscono “valori non negoziabili”.
Non è così strano che la CEI voglia difendere questi valori nelle sue scuole – non si capisce però perché lo debba fare a spese dei contribuenti italiani, tutto qui. Perché quello che la CEI, per bocca di suor Alfieri, ci sta proponendo, è di usare i soldi delle tasse di tutti per pagare un biglietto dell’autobus a chi vuole andare sull’autobus privato. Un autobus guidato da un autista che non è selezionato meglio di quello pubblico, né è meglio pagato; ma almeno arriva più in orario? Oggi no, domani – se lo paghiamo tutti un po’ di più – chissà.
Come costruire un ghetto (ti aiuta anche Gramellini)
26-10-2017, 18:56migranti, Modena, razzismi, scuola, TheVisionPermalinkSono uscito a dare un’occhiata. Sembrava proprio lo stesso quartiere. Il parcheggio, la palestra, la chiesa dei frati, tutto regolare. Lo stadio, il sindacato, la bocciofila nell’ex macello, la discoteca dei ragazzini e proprio di fianco la scuola dai muri giallo canarino dove gli italiani sarebbero discriminati dagli… “extracomunitari”. Così diceva il giornale.
Non era un giornale locale. Era il Corriere della Sera. In prima pagina, Gramellini stava dicendo che la Cittadella di Modena - neanche un quartiere, in realtà, un riquadro di strade appena fuori dal Centro - è un ghetto “poco frequentato dai radical chic”. Il feticcio preferito dei giornalisti italiani, i “radical chic”, esistono dunque anche a Modena? Non ne sono così sicuro; ma nel caso senz’altro cercherebbero di iscrivere i figli al liceo qui davanti. Cosa sta succedendo? Perché un affermato giornalista su un quotidiano nazionale sta parlando male del mio angolo di strada - dove evidentemente non ha messo mai piede - e in particolare di... una scuola elementare?
A settembre una signora modenese si è resa conto che sua figlia era l’unica, nella sua classe seconda, ad avere un cognome italiano. La scoperta non deve essere stata così sorprendente: in prima due compagni avevano un cognome italiano, ma si sono trasferiti. La signora invece ha chiesto alla dirigenza di cambiare classe. La dirigenza, ovviamente, ha risposto di no. Dopo aver scritto al provveditorato, che non poteva non ribadire la scelta del dirigente, la signora si è rivolta alla stampa, destando l’attenzione del quotidiano locale, che tradizionalmente lancia allarmi sui lati più controversi dell’immigrazione.
Modena, in effetti, è una delle città d’Italia in cui vivono più immigrati. In certi quartieri più che in altri. Non è che tutto sia semplice, anzi: ma la criminalità negli anni non è aumentata. Può darsi che ci siano dei quartieri-ghetto a Modena – me ne vengono in mente un paio – ma non la Cittadella, davvero, con tutta la più buona volontà. (Quanto mi piacerebbe poter dire ai miei studenti «Ho preso la maturità linguistica in da ghetto»? Ma non è successo.)
Grazie alla stampa, la madre ottiene molta attenzione: viene intervistata da TgCom24, Agorà (Rai3), altri ancora, ma il risultato non cambia. Alla fine, allora, decide di spostare la bambina in un’altra scuola “dove gli extracomunitari,” ci spiega Gramellini, “sono sempre tanti, ma non più tutti. La scuola della discordia si difende ricordando che la metà dei bambini di quella classe è nata in Italia”.
Auguro alla bambina di trovarsi bene nella sua nuova classe. Non mi sento di biasimare sua madre, sul serio. Mi vengono in mente due o tre ottimi motivi per cui il dirigente non doveva soddisfare la sua richiesta, ma posso capire anche lei: ha lottato per la sua bambina che si è ritrovata in un contesto difficile. Al suo posto non avrei fatto lo stesso? Non lo so: quando ci sono i nostri bambini di mezzo non capiamo più niente.
Forse a metà degli anni Novanta, di fronte a una lista di appello con venti cognomi stranieri, avremmo dovuto immaginare un suk di bambini incapaci di parlare in italiano. Ma appunto: sono passati vent’anni. Nel 1997 ce n’erano già parecchi di stranieri, qui da noi. È tutta gente che già dieci anni fa era in grado di ottenere la cittadinanza. Se poi hanno fatto figli (a volte anche con i modenesi), non sono né extracomunitari né stranieri: sono bambini italiani figli di naturalizzati italiani. Sta succedendo ovunque in Italia, magari a Modena un po’ prima che altrove, ma sarebbe ora di rassegnarsi: una lista di venti cognomi stranieri non è una lista di venti bambini stranieri. La stessa mamma, nell’intervista rilasciata a TgCom24 ha ammesso che di bambini che non conoscevano l’italiano ce n’era solo uno. Uno.
E gli episodi che dovrebbero evocare un ambiente intollerante sono sì incresciosi, ma anche abbastanza diffusi in qualsiasi realtà scolastica: «Una volta una bimba è stata spinta per le scale, in un’altra occasione sono stati tagliati i capelli con le forbici a una bambina. È una classe molto difficile».
Gramellini ci ricorda che “la mamma marocchina di una di queste bimbe […] avrebbe istigato la figlia a maltrattare la piccola modenese”. Il condizionale è d’obbligo perché nessun giornale che ha riportato quest’accusa sembra essersi dato la pena di fare quello che normalmente fa un insegnante in un caso del genere: sentire l’altra campana. Di che tipo di maltrattamenti parliamo? Un episodio o tanti? Molestie fisiche o verbali? Avete mai sentito sui gradini della scuola un genitore dire “Se continua a dartene, dagliene indietro”? Io l’ho sentito da gente di ogni statura, colore, estrazione sociale.
Quella che Gramellini definisce “scuola della discordia” è un bell’istituto coi muri giallo canarino, un coro che a Natale è andato a cantare in piazza Grande e degli insegnanti che preferiscono non commentare. Senz’altro la quota di bambini di origine straniera è più alta della media; l’episodio almeno sarà servito a suscitare una discussione sui criteri adottati dal Comune per assegnare gli studenti alle scuole. Perché se da una parte dobbiamo accettare che i cognomi stranieri non significano più “extracomunitario”, dall’altro è evidente che qualcosa sia andato storto: a Modena ci sono scuole dove di cognomi stranieri ce n’è giusto un paio per classe. È un fenomeno ben noto a genitori e insegnanti: per accedere a certe scuole c’è una lista d’attesa, per altre no. Di solito i genitori più esigenti hanno un cognome italiano, e una delle esigenze più sentite – lo dico per esperienza – è proprio quella di evitare le classi con troppi cognomi non italiani.
È razzismo? È un vecchio ragionamento – cognome straniero = difficoltà linguistiche = abbassamento del livello della classe – che spesso condividono anche i penultimi arrivati, e che progressivamente si sta smontando, man mano che i millenial crescono e sempre più cognomi stranieri si diplomano con 100 e lode. È anche il risultato di un circolo virtuoso/vizioso: se tutti i genitori più esigenti si convincono che una scuola sia migliore delle altre, si metteranno in fila, e probabilmente la presenza di studenti più motivati migliorerà davvero quella scuola: studenti motivati, insegnanti contenti, lezioni interessanti, liste d’attesa ancora lunghe. Se solo si potesse evitare che nel frattempo in altre scuole rimanesse spazio soltanto per gli studenti provenienti da famiglie meno integrate, con insegnanti costretti a far fronte a problemi supplementari, da cui lo stress, lezioni più faticose, richieste di trasferimento, etc… Forse è quello che prevede la “Buona Scuola” quando si propone neanche troppo velatamente di mettere anche le scuole dell’obbligo in competizione tra loro. Forse anche Modena si sta avvicinando a quel modello dei film americani, dove se nel quartiere c’è una buona scuola gli immobili costano di più. Nel frattempo, se lavori in una scuola di un quartiere difficile, la tua unica speranza di invertire il circolo è darti da fare: coinvolgere i genitori, organizzare un coro, cercare di dare risalto a tutte le cose positive che ti succedono. Poi, un giorno, magari entri in un bar e mentre addenti un cornetto scopri che Gramellini sul Corriere dice che la tua è la “scuola della discordia”, e che il tuo quartiere è un ghetto.
C’è mai stato? Ha fatto delle indagini o si è fidato di quel che ha letto in giro? La tua scuola è così brutta? Il tuo quartiere è un ghetto? Gramellini senz’altro conosce la teoria delle finestre rotte: chissà se si è reso conto di aver appena lanciato un macigno assurdo, dall’alto della prima del Corriere su una piccola scuola di un piccolo quartiere che non frequenterà mai.
La stima del terremoto
04-11-2016, 03:17catastrofi, scuolaPermalinkIl fatto che il terremoto non si presenti immediatamente con un numero preciso - magari anche un decimale che aiuta a dare un tono, salve mi presento sono una scossa del Sei Punto Cinque - è percepito come un disturbo nel normale ordine di cose: un chilo di pane è un chilo di pane, una macchina che va a cento all'ora dopo un'ora ha fatto cento km., perché un terremoto non dovrebbe essere altrettanto preciso e quantificabile? In fondo è solo un evento tellurico che avviene a km di profondità in un sottosuolo inesplorato, sprigionante megatoni di energia. Perché due sismografi a distanze diverse non dovrebbero dare immediatamente la stessa misurazione precisa? Dove si rinota la fiducia del tutto magica che il cittadino ripone nella scienza: non sa come funziona ma pretende che funzioni con precisione immediata, e se non è così si ritiene defraudato. Se gli racconti che in certi casi assomiglia più a Ballando con le stelle, ci sono vari misuratori e poi si fa la media, ci rimane malissimo.
Mi domando se non sia una responsabilità della scuola (cioè mi domando se non sia colpa mia). Quando aiutiamo i ragazzi a misurare le cose, quanto insistiamo sul fatto che la misurazione, qualsiasi misurazione, è comunque soggetta a un errore? Che le misure non esistono a priori in una dimensione iperuranica, ma che sono una forma di comunicazione, e quindi sempre in parte una bugia? Che non c'è modo di conoscere davvero la circonferenza partendo da un raggio, che un chilo di pane non è davvero un chilo preciso - e cos'è un chilo poi? Che il prodotto interno lordo si misura in dollari e i dollari ogni giorno valgono una quantità di euro diversa? Che insomma ogni misura è complicata, interessante ma complicata?
O li abituiamo a domande facili, e a dubitare di chi non ha la risposta secca? "Quant'era forte l'ultima scossa?"
"Eh, beh, dipende da tanti fattori: la profondità, la durata, la magnitudo - ce ne sono diverse - la densità degli insediamenti, la robustezza degli edifici..."
"La fai troppo lunga, mi stai senz'altro nascondendo qualcosa".
Un lavoro altamente qualificato
30-10-2016, 01:21lavoro, scuolaPermalink"Prof..."
"Nizzoli, ma mi spieghi che ci stai a fare qui tu".
"Della deriva dei continenti!"
"Bel tentativo, è stato un'ora fa, siamo al complemento di specificazione".
"..."
"Nizzoli, ci vai mai al McDonald's?"
"Certoprof!"
"Mangiate là o portate a casa?"
"Dipende".
"Nizzoli ma hai presente la ragazza che prende ordini al mcdrive, quella che parla a tuo padre al citofono?"
"Ci vado con mio nonno".
"Bravo nonno. Hai presente quella che gli dice: Cosa desidera e poi prende l'ordinazione, poi dice di andare a pagare venti metri più in là, dove c'è lei in carne e ossa con l'auricolare, ce l'hai presente?"
"Prof ho capito adesso starò attento".
"Troppo tardi Nizzoli. Hai presente il momento in cui questa ragazza, avrà sì e no vent'anni, sta dando il resto a tuo nonno, e nel frattempo parla all'auricolare, sta dicendo Cosa desidera a quelli nella macchina dietro di voi?"
"Ah, ecco perché".
"Vedi che te l'eri chiesto".
"Cioè mi sembrava strano che continuasse a chiederlo a mio nonno".
"Infatti no, non lo sta più chiedendo a tuo nonno. A tuo nonno sta dando il resto, e non sbaglia di un centesimo; e poi gli passa i panini e l'happy meal da maschi, non schermirti, lo so che prendi ancora l'happy meal".
"Cosa vuol dire schermirti?"
"E intanto sta parlando al citofono con la macchina successiva, e sta prendendo gli ordini, ti rendi conto? Capisci quanta concentrazione ci vuole?"
"Prof ma non si stava parlando di deriva dei complementi o cosa?"
"Nizzoli, capisci quanto impegno, quanta concentrazione ci vuole anche solo per fare un lavoro così umile come la cassiera del mcdrive? E ti rendi conto del mio dramma di insegnante, che nemmeno posso dirti studia sodo se non vuoi finire cassiere in un mcdrive?, che c'è gente lì dentro che secondo me mi dà la paga in quoziente d'intelligenza? Nizzoli, ci sei?"
"Scusi prof ma è appena entrata una vespa".
Addio Nizzoli ovunque tu sia - a volte ci passo da un mcdrive, ma non ti ci incontro mai. Non abbastanza qualificato, suppongo.
Lasciate che i vostri figli facciano quei compiti (da soli)
10-10-2016, 01:38scuolaPermalinkVoi invece credete che invece che tutti i genitori non ne possano più. Ma magari. Nei miei sogni più proibiti ormai non c'è più Scarlett Johansson, ma un commando di genitori incazzati che irrompe nella sala insegnanti e mi sbatte al muro: MAI PIU' COMPITI A CASA AI NOSTRI FIGLI. Ma certo. Mai più pomeriggi e serate a correggerli, evvai, bentornata giovinezza. E neanche compiti delle vacanze, mi voglio rovinare. In quel momento di solito mi sveglio - cioè, credete che sia divertente assegnare compiti e poi correggerli? È faticoso. Non quanto la monodisciplinare (voi non sapete cos'è), ma fidatevi, è uno degli aspetti meno eccitanti del mio mestiere. Al dodicesimo compito identico gli occhi cominciano a rovesciarsi, devo tenermi sveglio scrivendo cose qua sopra, ne ho altri sedici e la gente crede che ho smesso di lavorare otto ore fa, perché sai, "quelli fanno solo 18 ore alla settimana".
Sono un insegnante di scuola media - in realtà si chiama secondaria di primo grado, ma vabbe'. Quando leggo un genitore ansioso lamentarsi dei compiti su un quotidiano nazionale, penso ad alcune cose. La prima: sono i primi di ottobre. Siamo sicuri che quelli che state facendo siano davvero i compiti assegnati dalla prof? Non è una domanda stupida. I miei ragazzi di prima ci mettono un mesetto a capire come funziona. Otto materie nuove, una dozzina di libri che si portano soltanto due o tre volte alla settimana. È tutto molto strano e l'orario definitivo magari non è ancora stato pubblicato. Molti reagiscono tenendosi tutti i libri nello zaino: venti libri. E i genitori si lamentano. Ma c'è un equivoco, io per quel che posso lo faccio presente: in quello zaino più di quattro o cinque libri non ci dovrebbero stare. Il bambino deve capire quali mettere, non è facile ma entro ottobre ci deve arrivare. Si chiama educazione all'autonomia, ed è fondamentale che il genitore cominci a fare qualche passo indietro.
Dopodiché, magari davvero vostro figlio in questi giorni si è ritrovato il diario pieno di compiti. Succede. Appena potete, parlatene con l'insegnante. Un consiglio: siate gentili. Non costa niente e magari funziona. Nessuno reagisce bene davanti a un genitore che brontola, ma se un adulto viene da me con gentilezza e mi fa presente alcuni dubbi sui libri di testo, io lo ringrazio, e probabilmente me ne ricorderò alla prima riunione monodisciplinare (davvero, non avete idea), e quel libro se posso lo farò cambiare. La scuola italiana è un meccanismo imperfetto ma funzionante, che va avanti ad aggiustamenti continui. Chi si lamenta del fatto che i prof non sono valutati, probabilmente non ha mai sperimentato in vita sua la sensazione di essere costantemente giudicato da un centinaio di studenti, le loro centinaia di genitori, una trentina di colleghi, un dirigente. L'insegnante che ha dato troppi compiti a vostro figlio, magari sta soltanto aspettando un riscontro: magari è inesperto, si è calato da poco in un ambiente nuovo, vuole capire quando è troppo e quando è troppo poco e sta andando a tentativi. Voi dite: ma queste cose le dovrebbe sapere già. Avete ragione, ma è un fatto che non le insegni nessuno. Neanche ai corsi di aggiornamento, non fanno che parlare di competenze qua e competenze là, e nessuno che provi a porsi il problema in modo quantitativo: quanti compiti dare? Come calcolare l'unità di tempo? Meglio darne pochi da fare subito o molti da verificare saltuariamente? Ecc. ecc. Tutte queste cose, un insegnante le impara sul campo, lavorando coi vostri figli (queste tenerissime cavie).
Sono un insegnante. Quando vostro figlio si chiude in camera, non sta necessariamente facendo i compiti. Se nella stessa camera c'è un televisore / una playstation / un computer / uno smartphone, sicuramente non sta facendo i compiti. Non venite a dirmi che sta tappato in casa quattro ore al pomeriggio a fare i compiti. È la vostra intelligenza, non me, che state offendendo.
Sono un insegnante. Se vostro figlio arriva coi compiti fatti male, non lo picchio. Non lo tocco nemmeno. Non lo umilio pubblicamente. Al massimo gli darò un brutto voto. È da questo che lo volete proteggere? Non sopportate che si prenda un brutto voto? Guardate che ne ha bisogno. Gli farà bene. (E comunque non se ne esce. Possiamo anche decidere che i "voti" sono brutti, e assegnare "valutazioni", usare le lettere al posto dei numeri o perché no, i colori. Ma se vostro figlio non lavora, in un qualche modo io dovrò farglielo capire. Per il suo bene, e della società tutta, deve riconoscere la differenza tra un lavoro fatto male e uno ben fatto).
Sono un insegnante che a volte dà persino nozioni da imparare a memoria, ma anche qui molto spesso c'è un equivoco. Le nozioni sono utili perché intorno ci puoi fare un ragionamento: 3,14 non è solo un numero da imparare a memoria, è la chiave per capire un sacco di cose sui cerchi, i diametri, persino l'astronomia. È da quando campo che sento discorsi contro l'"arido nozionismo": sono inevitabili come quelli sulle mezze stagioni. Probabilmente ognuno proietta le sue difficoltà giovanili: abbiamo tutti avuto una materia che non ci piaceva, e come facevamo per sopravvivere? Imparavamo a memoria. Il prof. di geografia spiega a lezione che l'asse è inclinato di 66° sul piano dell'eclittica e il modo in cui questa inclinazione crea le stagioni. Qualcuno capisce e si ristudia la cosa. Qualcun altro non segue, non ama la geografia, probabilmente non la studierà in seguito: torna a casa e si lamenta: uffa, devo imparare a memoria che c'è un angolo proprio di 66 gradi.
Sono un insegnante, prima di esserlo ero uno studente. Alle elementari avevo il tempo pieno, quindi quando i coetanei parlano di cartoni animati giapponesi molto spesso io non so cosa dire, cerco di cambiare argomento. In quei cinque anni non feci mai compiti a casa. Ancora oggi, quando mi capita uno di quei pomeriggi osceni in cui riesco a procrastinare qualsiasi incombenza, cerco di perdonarmi così: povero piccolo Leonardo, sai qual è il problema? Che alle elementari non ti davano i compiti a casa per il pomeriggio. Ti è mancato l'imprinting, maledetto tempo pieno. Poi ci sono state le medie, le superiori, l'università - ricordo ancora il panico davanti al programma di Italiano uno, bisognava leggersi la Commedia il Canzoniere il Decamerone l'Orlando Furioso la Gerusalemme Liberata le Tecniche della Critica Letteraria (credo di essere stato l'unica matricola su cinquecento ad essermeli letti tutti davvero - tranne il Canzoniere, non sono sicuro di averlo letto tutto il Canzoniere). Oggi lavoro, scrivo, a volte per tenermi sveglio vado su facebook e trovo gente che si lamenta per la propria tendenza a procrastinare le cose. C'è gente che frequenta dei corsi per imparare a non procrastinare. C'è gente che compra dei libri. E poi c'è gente che si lamenta perché i prof danno i compiti ai loro figli al pomeriggio. Ecco, voglio sperare che i due insiemi non si sovrappongano.
Cerca di essere un uomo, Filippo Facci
29-07-2016, 19:17giornalisti, Islam, razzismi, scoutismo, scuola, terrorismoPermalinkE in questo tutto c'è anche il terrorismo di matrice islamica, com'è normale che sia - benché continui a fare meno vittime del traffico, non c'è motivo per cui non debba spaventare un qualsiasi europeo di mezza età che ha una famiglia e ogni tanto vorrebbe andare al cinema o in ispiaggia. Quindi sì, ho paura anch'io. Se in questo periodo non ne scrivo, non è per paura di ammettere di non aver paura. Più banalmente: sono un adulto, e non credo che gli adulti dovrebbero fare spettacolo delle proprie emozioni.
Lo so che è strano scriverlo su un blog; che all'inizio del gioco nella melassa delle emozioni abbiamo tutti intinto la penna e non solo; ma se c'è un errore in archivio da cui mi piacerebbe prendere le distanze, è proprio questo. Quando sei un bambino, se hai paura urli e piangi. È giusto che sia così, è giusto che gli adulti si ricordino continuamente che hai esigenze, così non ti dimenticano in macchina nel parcheggio. Quando cresci - e intorno a te i bambini cominciano a piangere - tu sei quello che deve restare calmo. Anche se hai paura. Proprio perché hai paura.
Questa è una cosa che ho capito molto presto, credo grazie allo scoutismo. A distanza di mezza vita continuo a rendermi conto che lo scoutismo ha fatto un'enorme differenza nel modo in cui sono cresciuto. Non per i discorsi che facevamo e che mi sono quasi tutti dimenticato, ma per il modo in cui lo scoutismo ci prendeva a diciott'anni e ci intestava la responsabilità di una ventina di minorenni, tuttora se ci ripenso mi spavento - così che invece di preoccuparci dei soliti nostri problemi di generazione X dovevamo passare il tempo a tirar su il morale a questi monelli, anche quando si allagavano le tende o qualcuno si fratturava il femore. Eravamo incoscienti, certo, ma se anche avessimo avuto un po' di paura, non ci era consentito esibirla. È così che sono cresciuto; forse è per questo che lavoro ancora coi minori e non vado in giro a strillare che il mondo sta finendo e l'eurabia trionferà. Non lo trovo razionale, ma soprattutto non lo trovo virile.
Ma non ci sono più le parole, scrisse Giuliano Ferrara una quindicina d’anni fa: eppure, da allora, abbiamo fatto solo quelle [ma parla per te, al limite parla per Giuliano Ferrara], anzi, abbiamo anche preso a vendere emozioni anziché notizie. Eccone il risultato, ecco alfine le emozioni, le parole: che io odio l’Islam, blablablà, va avanti a lungo.
Ma insomma, "eccone il risultato". Invece di prendervi delle responsabilità, di esercitarvi a ragionare coi lettori scansando le reazioni più emotive, avete deciso che avreste venduto emozioni, amplificato emozioni, sdoganato le emozioni. Il risultato è che state sulla cinquantina e il vostro mestiere consiste nel vomitare odio su un giornalino di benpensanti razzisti che hanno bisogno di sentirsi dire che l'Islam è odioso, e il cui contributo alla guerra di civiltà si esaurirà nel farvi l'obolo di un euro, un euro e venti, e magari sputare sulla passante magrebina che incrociano al semaforo. Tu, Filippo Facci, che pure sembravi così intelligente: e il tuo collega Giordano, quella povera persona che chiama alle armi l'occidente con la sua vocina querula, una metafora vivente. Speculare sui bassi istinti dei vostri lettori non è soltanto spregevole e rischioso. Soprattutto, non è una cosa da veri uomini.
A Libero sì che sanno taggare |
Nel senso un po' machista del termine, sì.
Siete quei poveri isterici che nei film catastrofici urlano MORIREMO TUTTI!, e nessuno spettatore in effetti ritiene necessario che debbano sopravvivere. Va bene, la congiuntura è quel che è, ormai i giornali si vendono così - ma in realtà non li vendete lo stesso. Perché dovrei avere rispetto per gente come voi? Per quindici anni avete solo detto parole, parole, parole, e intanto io ad esempio lavoravo. Con un sacco di brava gente, alcuni anche musulmani. In questi quindici anni diversi li ho diplomati, alcuni li vedo ancora: hanno un lavoro, magari pensano a farsi una famiglia. Il famoso Islam moderato, che secondo le vostre teorie quindecennali non esiste. Magari davvero no, non saprei: posso dire che è da mezza vita che ho a che fare con bambini musulmani, genitori musulmani, ragazzi musulmani, e mediamente mi hanno dato meno problemi di quelli di origine italiana (mi hanno anche dato meno problemi di Filippo Facci). Insomma io non lo so se esiste l'Islam moderato, ma in questi 15 anni coi musulmani moderati ci ho lavorato. Voi non lo vedete perché non è il vostro target, da quel che scrivete si capisce benissimo che il vostro contatto coi musulmani si limita al kebab all'angolo e alla tizia che vi lava le scale e che secondo Gramellini dovrebbe subito andare in questura se sente discorsi strani in moschea. Ma c'è tanta gente che vive e lavora e studia: e voi non li vedete. Non studiano nelle vostre scuole, non lavorano nei vostri giornali, e nemmeno li compreranno mai, quindi perché preoccuparsi? Eh, ma io in quelle scuole invece ci lavoro. Quest'anno la mia alunna che si è diplomata col voto più alto era di origine pakistana, per dire.
Certo, ogni tanto i miei studenti mi raccontano cose che mi spaventano - anche se cerco di non mostrarlo. Per esempio raccontano di passanti che inveiscono contro di loro. Succede spesso dopo un attentato. Ragazzine di dodici anni che tornano a casa a piedi, magari una delle due porta un velo: passa un vecchio in bicicletta e sputa loro addosso. Queste cose non vanno mai in prima pagina, nemmeno in sedicesima, ma succedono un po' tutti i giorni. Quel vecchio magari non legge gli sfoghi estivi di Filippo Facci su quanto è opportuno tirare calci all'Islam che siede sui nostri marciapiedi. Però Libero, quando pubblica una strippata di Facci sull'Islam, pensa esattamente a quel tipo di lettore.
Adesso viene la parte più inquietante. Una cosa che scrive Facci - che l'Islam sarebbe avrebbe portato una "permalosità sconosciuta alla nostra cultura" - è abbastanza ridicola, soprattutto se penso all'autore. Però sì, un certo tipo di permalosità è innegabile, anche se lo trovo un tratto comune di tutte le civiltà mediterranee. Comunque può essere un problema, anche considerato che le temperature non si abbasseranno per un po'. Ora, io ho avuto diversi studenti musulmani, e il rischio della radicalizzazione so cos'è. Se mi chiedi: quale fattore può portare un ragazzino o una ragazzina a radicalizzarsi, io a freddo ti risponderei: un vecchio in bicicletta che ti sputa addosso, o sputa a tua sorella.
Dunque, caro Facci, la situazione è questa: tu per vivere fai la tua tiratina isterica su Libero: un coglione razzista la legge, esce di casa e sputa addosso a una ragazzina. Quella ragazzina magari ha un fratello che lavora con me. Se è permaloso, se si radicalizza, non verrà a farsi esplodere a casa tua, figurati. Non saranno cazzi tuoi, mi rendo conto. Saranno cazzi tutti miei, se un giorno viene a scuola con un coltello o peggio.
Ma io non posso avere paura. Nessuno mi paga per averne. Nessuno mi paga per pisciarmi addosso le mie emozioni.
Invece mi pagano per aver coraggio. Quindi io continuerò ad avere coraggio, e tu continuerai ad avere paura. Così è la vita.
Volevo dirti un'ultima cosa ad effetto, del tipo: la prossima volta che ti sale il panico, cerca di essere un uomo, Filippo Facci. So già che mi risponderesti - senza un'ombra di islamica permalosità - vaffanculo imbecille. Già. Buone vacanze anche a te.
Come l'Invalsi (non) ti cambia la didattica
11-07-2016, 03:05scuolaPermalinkBeen cat stealing, once, when I was 5. |
Io non so se tutta questa commedia dell'assurdo si sia verificata anche in società non cattoliche, ma giudicate voi. Ci dicono che non siamo bravi. Ci danno una Prova. Ma ci dicono che non la useranno per valutarci. Solo per valutare i ragazzi nel loro insieme. Anche se a dire il vero, all'esame di licenza la Prova fa media. Però non dobbiamo preparare i ragazzi a superarla. Quindi cosa succede?
Caro insegnante, io sotto sotto credo che tu sia un incompetente, un mangiapane a tradimento. Lo si vedrà meglio dai risultati complessivi di questa Prova, che però non serve a valutarti, e che tu correggerai - mi raccomando, non barare. A proposito: la prova fa media. E magari non è facilissima. Ma non devi allenare i ragazzi a superarla. Ecco.
Vediamo i risultati... ops! Cosa succede qui? Sembra proprio che tu abbia barato. Lo vedi che lo sapevo? Sei un incompetente. Avresti dovuto cambiare didattica.
Quindi l'Invalsi serve a imporre un certo tipo di didattica? E perché non ce l'avete detto prima?
Forse dovevamo arrivarci da soli.
Per fare un piccolo esempio: a volte mi chiedo che senso ha studiare tutti i complementi, alle medie. Il complemento oggetto, per esempio, è molto importante. Il complemento di vantaggio non lo è altrettanto. Vale la pena dedicargli una lezione? Visto che dappertutto mi spiegano che la didattica va rinnovata, e insomma le competenze linguistiche si possono costruire in tanti modi, non per forza imparando a memoria tutti i nomi dei complementi. Così a volte il dubbio mi viene.
A questo dubbio, le prove Invalsi rispondono. Certi quesiti grammaticali compaiono quasi ossessivamente (il troncamento di "uno"), altri più saltuariamente. Ma insomma, quest'anno è uscita una domanda sul complemento predicativo del soggetto e dell'oggetto. Non pretendevo che molti alunni l'azzeccassero. Allo stesso modo, mi sarebbe dispiaciuto che arrivassero alla prova senza aver mai sentito parlare del complemento predicativo. Magari l'Invalsi non mi valuta, ma non vorrei che mi facesse fare una brutta figura. Continuerò a insegnare il complemento predicativo, e alla didattica innovativa ci penserò quando mi avanzerà del tempo (non mi avanza mai).
Insomma se la domanda è: cos'è un insegnamento di qualità? mi sembra che l'Invalsi mi risponda così: un insegnamento di qualità prevede, tra l'altro, che gli studenti conoscano i complementi, anche i meno noti (e a mio parere meno utili per costruire una reale competenza linguistica), come i complementi predicativi. E allora io mi adeguo. Ai miei studenti dell'anno prossimo, che sbufferanno durante le ore di grammatica, ricorderò che anche il complemento meno interessante all'Invalsi può uscire. "Pensate che l'anno scorso è uscito il predicativo del soggetto. Storia vera".
Naturalmente nessuno mi ha mai detto che l'Invalsi vuole imporre agli insegnanti una didattica, o dei contenuti. Tranne la settimana scorsa, quando la presidente Ajello ha suggerito che i prof delle regioni meno ricche truccassero i risultati delle prove perché... ancora non si sono adeguati alla didattica dell'Invalsi. Dunque c'è una didattica dell'Invalsi? E ci dobbiamo adeguare?
Perché a volte basta dirsele, le cose.
Vado a riaprire i fascicoli di italiano degli anni scorsi. Tre quarti della prova consistono in comprensioni del testo (poi c'è la parte grammaticale, cui ho accennato sopra). Se era un messaggio, è arrivato forte e chiaro: quel che più importa all'Invalsi è che gli studenti siano in grado di comprendere un testo scritto. A me sta bene, credo anch'io sia la competenza più importante. Ma non solo a me. Direi che sta bene un po' a tutti. Date un'occhiata a qualsiasi antologia della scuola media: per tre quarti è composta da testi e da domande sui testi. Era così anche quando eravate giovani. È così ancora oggi. Dunque qual è l'aspetto innovativo della prova Invalsi d'italiano? Qualcuno pensa che siano le crocette. Sono diventate un po' un simbolo dell'Invalsi, le crocette. E tuttavia:
1) Anche in qualsiasi antologia ci sono esercizi a crocette (e a freccette, a vero o falso, ecc. ecc.). E non sono particolarmente innovativi: li facevamo anche noi da bambini.
2) Non tutti gli esercizi del fascicolo sono a crocette (il che rende la correzione più brigosa, ma anche più
3) Le crocette sono uno strumento, non un fine: non vogliamo studenti solo in grado di mettere le crocette, ma se dobbiamo processare i dati di tutte le scuole italiane, non c'è un'alternativa ai test a crocette.
Insomma, l'Invalsi d'italiano è fatto così: comprensione del testo e quesiti grammaticali. L'innovazione quale sarebbe? Di tutte le idee strane fiorite intorno alla prova Invalsi, quella che la considera la portabandiera dell'innovazione didattica mi sembra la più curiosa. Tutte le volte che incontro qualche collega col pallino dell'innovazione, mi accorgo che (a) non ne può più dell'antologia delle medie "con tutte quelle domande noiose"; (b) non ne può più della grammatica prescrittiva, del complemento di svantaggio e della proposizione esclusiva. Bene, l'Invalsi vuole entrambe le cose. Le classi del prof innovativo rischiano di andare male all'Invalsi più di quelle di un qualsiasi prof che non cambia didattica dal 1970.
Per contro, un insegnante che volesse innovare un po', quando apre il fascicolo e scopre che si parla di complementi predicativi del soggetto, potrebbe anche essere tentato di barare. Provate di nuovo a mettervi in lui. Ha passato tre anni a far cose innovative, e adesso i suoi ragazzi si trovano davanti a una domanda noiosa, inutile, che inciderà sul loro esame. È colpa loro se hanno avuto in sorte un prof innovativo che non insegnava i complementi predicativi? Dannazione no, siete voi che avete voluto sperimentare cose che all'Invalsi non interessano. Perché dovrebbero pagare i vostri studenti per la vostra frenesia di cambiare didattica? Magari hanno lasciato le caselle vuote. Prendete la penna e inserite le crocette. Nessuno vi controlla.
Magari tra qualche settimana, applicando correttamente un algoritmo, un dipendente a tempo determinato dell'Invalsi scoprirà che avete fatto cheating. Ma nel frattempo i verbali dell'esame saranno già stati ratificati e imbustati, e i vostri ragazzi avranno già visto il loro voto sul tabellone. Saranno contenti. Anche i genitori. E il complemento predicativo del soggetto si fa sempre in tempo a imparare.
Se proprio l'Invalsi ci tiene.
(Magari continua).
Perché i prof cittano barano all'Invalsi
10-07-2016, 00:08scuolaPermalinkSono nel tuo piano didattico, ti rubo il companattico. |
È solo una suggestione: tutto sommato credo che all'Invalsi sappiano il fatto loro (anche se la presidente si lamenta che parecchi siano assunti ancora a tempo determinato) e che possano distinguere il cheating vero e proprio da quella forma estesa di cheating che è l'insegnamento: però mi diverte molto pensare che il mio mestiere sia creare anomalie, truccare le carte distribuite dalla società. In ogni caso il cheating sembra concentrato nella regione coi risultati peggiori, e in questa intervista la presidente dell'Invalsi si domanda perché. È un momento abbastanza buffo: diciamo che è come chiedersi perché i furti di lardo avvengano soprattutto nei quartieri in cui si soffre più la fame. No. È anche più buffo di così. Facciamo un passo indietro.
Le prove Invalsi esistono ormai da parecchi anni, durante i quali sono stati oggetto di una serie di discorsi abbastanza ambigui. I governi che le sostenevano erano gli stessi che avevano come slogan "valutiamo gli insegnanti", quando non "licenziamo gli insegnanti incapaci": e benché le prove Invalsi non servissero propriamente a compiere questo tipo di valutazione, sono sempre state vendute così. Non era senz'altro il modo migliore per motivare gli insegnanti che avrebbero dovuto correggerle, e che sin dall'inizio sono stati molto diffidenti (all'inizio poi le prove erano anche abbastanza brutte: col tempo sono migliorate). Però, insomma, mettetevi negli insegnanti. Da una parte vi dicono: "adesso vi valuteremo (e cacceremo gli incapaci)": dall'altra vi mettono i fascicoli dei vostri studenti in mano e vi chiedono di correggerli: sì, anche se l'insegnante non è presente all'atto della somministrazione, è prassi diffusa che corregga i fascicoli dei propri studenti. Mi chiedo se la presidente Ajello lo sappia, nel momento in cui si domanda perché i prof cittano, pardon, barano. Voi mettereste il gatto di guardia al lardo? In particolare, il gatto più magro? In particolare, il gatto che avete minacciato di buttar di casa se non ingrassa un po'? Poi torni a casa, manca il lardo e ti domandi il perché. E ti rispondi:
La risposta che mi sto dando è che questo comportamento sia dovuto al mancato adeguamento della didattica da parte di questi docenti all’obiettivo di fornire agli studenti che le prove Invalsi vogliono verificare.
La didattica. Gli insegnanti di una delle regioni meno ricche d'Italia, la regione che molto spesso ha i risultati peggiori, nel momento in cui si trovano a correggere e inserire i dati dei fascicoli invalsi, qualche volta barano: soprattutto nella prova nazionale di terza media, quella che fa parte dell'esame. Perché mai lo faranno? Perché hanno paura che i risultati possano essere usati contro di loro in sede di valutazione? Perché si sentono direttamente responsabili degli scarsi risultati dei loro alunni, che soprattutto in terza media si traducono in brutti voti all'esame? Prendere un Quattro alla prova nazionale non è uno scherzo, se la media delle prove si abbassa sotto il 5,5 sei bocciato. Bocciare qualcuno all'esame, dopo averlo ammesso, significa crearsi problemi con le famiglie e con lo stesso dirigente. Questo tipo di problemi un insegnante li vive peggio nelle situazioni in cui è meno protetto, ovvero nei contesti sociali più difficili, ovvero - torniamo sempre lì - nelle zone meno ricche d'Italia. Quindi, dove i gatti sono più malnutriti, i furti di lardo sono più frequenti. Mi sembra una spiegazione molto semplice, ma forse ho un debole per le spiegazioni semplici.
Secondo la presidente invece c'entra la didattica. Non è adeguata. A cosa? Alla prova Invalsi.
Che cosa?
(Continua)
I knew right away he was not ordinary
25-05-2016, 01:31anniversari, autoreferenziali, musica, repliche, scuolaPermalinkIo dopo tanti anni non l'ho ancora capito se si cresce intorno al proprio stampino primordiale, diventando peri se eravamo semi di pero, fragole se eravamo semini di fragole, eccetera. A me piace pensare che alcune persone al momento giusto abbiano avuto la possibilità di dare una botta all'impasto che cuoceva, una direzione, anche solo un segno. Sennò non farei il mestiere che faccio? O ce l'avevo già nell'embrione, il mio mestiere?
Sia come sia, io sono immensamente grato, per esempio, al prof di Educazione Musicale di cui non ricordo nemmeno il cognome, che a un certo punto della terza smise di insegnarci filastrocche al flauto e cominciò a prestarci dischi, ma seriamente, 33 giri e 1/3, e libri da leggere, e ci commissionò una ricerca multimediale con i media che c'erano allora, le diapositive insomma, ed eravamo divisi in gruppi, tutti volevano ovviamente la musica rock ma a me capitò il folk, e io subito esclamai John Denver! Non ho la minima idea del perché conoscessi John Denver in terza media (forse perché comparsava in una puntata dei Muppets?) e invece, somma vergogna, Bob Dylan no, Bob Dylan non avevo la minima idea di chi fosse, e cinque minuti dopo avevo in mano le cassettine di Bringing It All Back Home e The Times They Are A-Changin', e una monografia che forse era uno dei primissimi libri dell'Editrice Arcana.
D'altro canto non avrebbe funzionato con tutti, voglio dire che ventiquattro studenti su venticinque gliel'avrebbero tirata in testa, la cassettina di The Times They Are A Changin', a metà degli anni Ottanta e con una conoscenza piuttosto limitata dell'inglese bisognava portare nei propri geni interi millenni di autolesionismo per mettersi ad ascoltare roba del genere sul registratore panasonic. Non so se avete presente i suoni di quel periodo, quel tipo di produzione gommosa, la cassa frusciante sparata su entrambi i canali (tanto poi il panasonic era un mono), l'estetica mixarola dei 12 pollici, Revenge degli Eurythmics, e poi all'improvviso ti metti ad ascoltare una voce nasale in un silenzio che puzza d'antico che suona la chitarra per mezz'ora con qualche attacco d'armonica ogni tanto, come passare da Gianni Rodari ai geroglifici egizi. Io invece mi misi ad ascoltare seriamente quella roba, e confesso che fui molto lieto quando Bob passò al blues elettrico, Subterrean diventò subito la mia preferita. Poi dovevo andare a casa della Rebecca che mi stava antipatica ma aveva il giradischi e quindi si era presa i 33 e 1/3. Io avevo questa sfiga che tutte le compagnie raggiungibili ciclisticamente a fine ricerche nel doposcuola eran femmine, e del folk o del blues elettrico proprio non poteva loro fregar nulla, a loro fregava mangiare patatine sancarlo sfogliando MODA guardando le foto di tipe magre e fu la prima volta che pensai che doveva esistere qualcosa come l'omosessualità femminile, ma me ne fregava davvero così poco, soprattutto quando Rebecca mise su il 33 1/3, e io ebbi quella sensazione di saltare dalla sedia, che in una famosa intervista lo stesso Dylan dice che gli capitò la prima volta che ascolto The House of The Rising Sun rifatta dagli Animals; io la ebbi al ritornello di Hurricane. Poi basta perché credo che Rebecca alzò subito la testina disgustata per quei suoni così diversi. A sua discolpa, era davvero qualcosa che non avevamo mai ascoltato prima. Cioè, non era come adesso. Noi non ascoltavamo la musica dei nostri genitori, Battisti per dire era ancora vivo ma non lo avremmo mai considerato ascoltabile neanche per sogno; era lo stesso passato di Charles Aznavour o Chopin, una cosa che non ci riguardava. Non c'erano gli mp3, non c'erano i cd, ma soprattutto non c'era tutta questa industria della nostalgia che c'è adesso. Nel 1986 i Bee Gees erano ridicoli e tutto quello che veniva prima, semplicemente, non si ascoltava, roba da genitori che rompono i coglioni alla fine della festa.
Però Hurricane mi fece saltare sulla sedia, e da quel momento forse il mio destino era segnato. O forse l'avevo nei geni, o forse passare gli anni della formazione musicale tra gli scaffali dei Nice Price era la strategia più conveniente. E' una canzone che non ascolto più da anni, non mi fa più nessun effetto sentire un violino sopra una chitarra acustica e un'armonica e una corista. Garantisco però che fu uno choc, la fine dei miei anni Ottanta (che poi mi dovetti recuperare negli anni Novanta). E poi Dylan mi rimase comunque in una strana dimensione sottopelle, mi misi a studiare la sua discografia ed era davvero come studiare i geroglifici, tutti quegli album e quelle canzoni che non conoscevo e che per anni non avrei comunque ascoltato. Familiare e incomprensibile per tutta la vita, un cugino lontano di cui ogni tanto ti arrivano notizie assurde - si è convertito al cristianesimo - gli è passata - si è convertito all'unplugged - si è messo a stonare tutti i concerti - va al Giubileo - ha fatto sette dischi magri - ha fatto sette dischi grassi.
Forse ero nato per conoscere Dylan, forse no. Si fanno incontri incredibili alle scuole medie. Quella sensazione di scoprire una cosa, qualsiasi cosa, che era lì e ti aspettava, quello svegliarsi ogni giorno nel primo giorno della creazione. Molto difficile da spiegare a chi non frequenta più.
Il principe della musica vinile
23-04-2016, 03:40coccodrilli, musica, omofobie, Ottanta, razzismi, scuolaPermalinkLe foto, se ricordo bene, erano repertorio del periodo di Purple Rain, moto e chitarroni. E basta, probabilmente in giro avevo già sentito qualche pezzo di Prince ma non potevo saperlo. Però quell'estate su videomusic ruotò ossessivamente Paisley Park, un pezzo di cui non mi sono più liberato, con un video che faceva venire il mal di testa. Devo aver pensato che era quella, la musica vinile, e che andava contro molte delle mie abitudini, ma tutto sommato non mi dispiaceva. Non pensiate che oggi i ragazzini imparino le cose più facilmente. A monte di tutti i vostri ricordi, di tutte le nozioni che vi fanno sentire individui con una storia personale, c'è un magico momento che avete dimenticato, la soglia tra il Non conoscere e il Venire a conoscenza, tra il Non-averne-mai-sentito-parlare e l'Ah-ecco-cos'era. È quell'onda molto particolare che cavalchi nella scuola media. Se dici: prima guerra mondiale, per qualcuno che risponde già: uff, lo sappiamo, Sarajevo e il Piave, ce ne sono due che chiedono: quante guerre mondiali ci sono state? Tu glielo dici, e loro se lo scordano. Oppure gli resta in mente, ecco: quello è un momento magico. Sono importanti i cartelloni, anche quelli fatti male che non riescono a inquadrare un concetto (peraltro Prince chi mai lo è riuscito a inquadrare). Sono importanti i fraintendimenti, le cose assurde di cui ci convinciamo e che si scioglieranno al sole dell'esperienza - e poi chissà se a metà degli anni Ottanta qualche critico musicale ubriaco non l'avesse pure codificato, il genere vinile. Una musica di plastica, appiccicosa, bianca come il Vinavil, o nera come un 33giri, con riflessi oleosi, iridescenti, in effetti Prince non poteva che essere il re del vinile. Poi quando andavo in terza uscì Parade e venne giù il mondo. Non devi essere bella per farmi andare su di giri. Nessuno lo aveva mai scritto, ma in terza media era una grandissima verità.
Ci voleva poco per ritrovarsi dalla parte di Prince - bastava odiare Michael Jackson, ai tempi ci si divideva in squadre per qualsiasi cazzata, e poi ci si picchiava davvero, nessun compromesso, nessun sincretismo. Questo non significava naturalmente capirci qualcosa, tanto più Prince, che sembrava cambiare genere musicale a ogni pezzo nuovo. Una cosa che credevo di aver capito è che dei due duellanti, Prince era quello Brutto: il santo protettore di noi brutti. Per dire che enormi fette di prosciutto avevo davanti, cioè, ora che lo rivedo in foto la cosa non mi torna assolutamente, cioè Prince non era affatto Brutto - ai tempi era prestante addirittura.
Si potrebbe dire che oltre a un deficit culturale (per cui non riuscivo a capire che in pezzi pur diversissimi come Kiss o When Doves Cry, erano pur sempre evoluzioni di un universo musicale a me sconosciuto) soffrivo di un deficit estetico. Ma non era un problema solo mio. Ancora sul crepuscolo degli anni '80, in un albo di Dylan Dog, Groucho per allontanare un mostro dalla casa appende alla porta un ritratto di Prince, l'entità pop più disgustosa che poteva venire in mente a uno sceneggiatore di fumetti italiano che, bisogna dirlo, non era Tiziano Sclavi. Per dire quanta strada avesse fatto, l'idea che Prince fosse un mostro. Se era l'89, in effetti, che album c'era nelle vetrine dei negozi? Lovesexy?
Potrebbe persino essere il mio disco di Prince preferito, ma non sarei mai riuscito a comprarlo, nel modo fisico e sociale in cui si compravano allora le cose. Sì che non ero un'educanda, e nello stesso periodo ricordo di non essermi fatto scrupolo a sfoggiare in stazione autocorriere album assai più morbosi, ad esempio un giorno un ragazzo che conoscevo mi chiese conto del fatto che avevo in mano The Madcap Laughs, con una ragazza nuda che potrebbe benissimo essere minorenne. Ma Lovesexy? Avrei potuto entrare al Discoclub, sollevare una copia di Lovesexy, mostrarla all'esercente, pagarla, uscire dal negozio e rientrare nella società con quella cosa? Non credo, no, la copertina di Lovesexy era troppo in là per me. L'androginia di Prince era molto più impegnativa di tutte le androginie che avevo recepito fino a quel momento (cioè, credo, David Bowie e poco più). Era un'androginia passiva. Bowie sembrava un viveur a cui non dispiaceva anche andare con gli uomini, ok, fin lì potevo arrivarci. Ma Prince dalla vetrina del Disco Club mi diceva: tu, anche tu potresti desiderarmi. E la reazione mia di adolescente credo sia stata: no, sei brutto. Sei un uomo. Peloso. E nero, quasi dimenticavo: nero. Ma era nero davvero? Era un uomo? Era brutto?
(Quando alzo la voce con qualcuno, mi chiedo se è il rumore dei cigni che piangono. Quando incontro una persona e le cose non vanno bene, penso: meet me in another world, space and joy. Se qualcuno mi chiedesse qual è il senso del nostro essere nel tempo, gli direi: sbrigatevi prima che sia tardi. Innamoratevi, sposatevi, fate un bambino, chiamatelo Nate (se è un maschio). Quando è lunedì mattina - c'è bisogno di ricordare che canzone uno ha in mente il lunedì mattina?)
Prince era sempre un po' più in là. Era nero, ma anche bianco; chitarrista, ma anche ballerino; era maschio, ma incideva canzoni da femmina accelerando la voce. Il falsetto a metà anni Ottanta era un relitto polveroso, i Bee Gees si erano nascosti in una crepaccio, Jimmy Sommerville era precipitato da brava meteora, anche Sting era sceso di un'ottava per cautelarsi. Nel bel mezzo di questa fase di latenza, Prince canta Kiss, e sul finale sembra volersi strappare i caratteri sessuali coi denti. E quella canzone l'ho sentita cantare negli spogliatoi da personaggi che conoscevano solo le parole di Kiss e Bella Bionda Beato Chi Ti Sfonda. Prince prendeva la nostra provinciale omofobia di adolescenti italiani, le dava un passaggio su una Corvette rossa e la faceva sparire in un parcheggio sotterraneo.
Poi per carità, non voglio far finta di aver capito Prince, non è vero. Non ho neanche fatto i compiti, certi dischi non ho avuto il coraggio di comprarli quand'era il momento, e adesso su internet è difficile. Certe cose col tempo le ho capite, ad es. le giacche con le spalline militari ho scoperto che se le mettevano tutti, sembra banale ma per me Prince - oltre al re del vinile - era quello che si vestiva come il commodoro di staminchia e non ne capivo il motivo. Ho scoperto, nell'ordine: i Beatles, Jimi Hendrix, Sly Stone, Joni Mitchell, quel tizio che cantava Superfreak, e buon ultimo ho scoperto anche Michael Jackson, un grandissimo musicista e performer che infatti adorava Prince e credo anche viceversa. Tanti pezzi li ho messi assieme e anche Paisley Park non mi fa venire più quel mal di testa dei bei tempi in cui non capivo niente. Però onestamente non posso dire di aver capito Prince. Interi dischi continuano a suonarmi misteriosi, e dopo Lovesexy c'è il buio. Tante cose che al tempo non capivo, e non me ne preoccupavo, mi dicevo che sarebbe venuto il momento - no, il momento non è venuto mai. La pioggia di porpora, per esempio, che cos'è. Cosa vuol dire che mi vuoi soltanto vedere nella pioggia di porpora. Ecco, credevo che a un certo punto mi sarebbe venuto naturale. Magari quando comincerò a far sesso, pensavo - perché un giorno comincerò, capirò. E invece no.
Tanto che a volte mi domando se ho mai cominciato davvero.
Il vero motivo per cui odio i referendum
20-04-2016, 15:32referendum, scuolaPermalinkE poi c'è quello vero.
Ci sono tanti modi per valutare una classe di scuola: il più sommario e sbrigativo, quello che si può usare anche quando la classe non c'è, sono i cartelloni. Un'aula con tanti cartelloni dimostra che la classe sta lavorando. A casa o in gruppo. In realtà non è sempre vero; ho conosciuto colleghi validissimi che non facevano mai cartelloni, e senz'altro certi cartelloni a guardarli bene sono uno spreco di tempo, di spazio e di pennarelli; e però vuoi mettere l'effetto che fa entrare tra quattro pareti nude, e invece penetrare in una selva di disegni e schemi e titoli e concetti. Così io cerco di far produrre tanti cartelloni. Mi faccio violenza, perché in realtà non vado matto per i cartelloni, quando ero uno studente non sapevo farli e non ho imparato in seguito. Soprattutto non sono mai stato molto bravo ad attaccarli. E invece adesso mi tocca - a chi altri se non me? Non è mica nel mansionario dei bidelli, e quanto agli alunni, non credo che abbiano il permesso nemmeno di salire su una scala.
Neanch'io uso la scala perché ce n'è una sola nel plesso e non la trovo mai, e comunque spostarla in un'aula con una trentina di banchi addossati alle pareti sarebbe troppo complicato. Quindi per salire in alto uso altri accorgimenti che non credo di poter divulgare adesso qui. Salgo con le puntine da disegno dei cinesi, coi rotoli di scotch dei cinesi (i cinesi hanno aperto uno spaccio di fronte alla scuola), a volte coi chiodi e il martello, mettendo a repentaglio la mia incolumità. Respiro cristalli di pura polvere scolastica, che rimane impregnata nei soffitti fonoassorbenti. Torno a casa che vorrei lavarmi via tutta la prima pelle. Non è una cosa che posso fare quando voglio, anzi è abbastanza difficile trovare il pomeriggio in cui quell'aula non serve a qualche altra riunione. Però quando finalmente ci riesco, la mattina dopo i ragazzi entrano nell'aula e vedono il loro lavoro, e sono contenti. "Avete visto", gli dico, "finalmente ce l'ho fatta, ho attaccato i cartelloni".
"Grazie prof, anche se".
"Lo so, la Finlandia è già caduta, questo maledetto scotch dei cinesi..."
"No prof, è che tra due settimane ci ha detto il bidello che bisogna togliere tutto".
"Come tutto?"
"Dice che fanno un referendum".
"Mapporc... siamo sede di seggio".
"A proposito, che cos'è un referendum?"
"È un momento di grande democrazia e partecipazione... aspetta, ci dev'essere da qualche parte un cartellone che ne parla".
"È qua sotto la Finlandia".
"Ma infatti".
"Lo riattacco?"
"Lascia perdere".
Giù le mani dal trombone
29-02-2016, 08:23Bologna, giornalisti, guerra, scuola, universiadePermalinkCari studenti del Collettivo Studentesco Autonomo (CUA), che siete finiti sul giornale negli ultimi giorni contestando ripetutamente il professor Panebianco durante le sue lezioni:
Sono stato giovane anch'io blablabla ho fatto le manifestazioni pacifista blablabla vi risparmio la tiritera. Anche perché non è che abbia cambiato molte idee da allora. Continuo a pensare che le guerre siano in linea di massima fregature da cui chi ha un po' di senno dovrebbe sottrarsi, e a esecrare ogni forma di violenza. E tuttavia debbo prevenirvi: se davvero riuscirete a fare di Angelo Panebianco un martire della libertà di opinione, io non risponderò più di me. Verrò a cercarvi, non sarò solo. Si possono commettere tante scemenze e per i migliori motivi: ma dare a un noioso propagatore di luoghi comuni l'occasione di mostrare un po' di coraggio è tra le più grosse.
Per quanto io possa ricordare, Panebianco ha sempre scritto sul Corriere. Stava in prima pagina quand'ero ragazzino e ci sta tuttora: e non mi è mai capitato di leggere nulla di suo non dico originale, almeno interessante. Sempre e solo i due o tre frusti concetti che il lettore-tipo del Corriere della Sera vuole sentirsi dire. Negli anni, la sua figura pubblica è finita per diventare l'illustrazione della voce "trombone" della mia enciclopedia interiore. Deve aver ricordato alla sinistra italiana i suoi errori e le sue compromissioni almeno una volta al mese per un migliaio di mesi. Poi ci fu la fase della guerra contro il Terrore, e anche lì, Panebianco ci spiegò che Saddam Hussein stava sviluppando armi di distruzione di massa; che esportare la democrazia era necessario, e chi a sinistra non capiva queste semplici verità era un imbelle, un pavido. A distanza di più di dieci anni da quella cantonata solenne, Panebianco continua a pontificare sugli stessi argomenti, a metterci in guardia sui presepi che scompaiono, e continua a saperne quanto me o quanto te, che il giornale in teoria lo compreremmo per imparare qualcosa di nuovo (e siccome ci scrive gente come Panebianco, non lo compriamo più).
In questi giorni ad esempio ha insistito sul fatto che Regeni non deve averlo ammazzato il regime di Al Sisi, ma gli oppositori islamici. Perché? Da cosa lo deduce? Ha accesso a fonti confidenziali? Ma no, ma che bisogno c'è, Panebianco è meglio di Poirot: da Bologna può risolvere un caso al Cairo. Lo devono avere ammazzato gli islamici, spiega, perché il corpo è stato ritrovato: se l'avessero ammazzato i governativi infatti lo avrebbero fatto sparire. Non fa una grinza, no? Se vi è capitato di sentire la stessa storia al bar sotto casa, da gente che in Egitto non c'è mai stata e avrebbe difficoltà a indicarlo su una cartina, ebbene, Panebianco è sulla stessa frequenza: Panebianco sa le cose prima che accadano, visto che le uniche cose che davvero gli serve conoscere sono gli umori di una classe media benpensante che se cambia idea, la cambia molto più lentamente di quanto ci mettono le loro chiome a incanutire.
Questa alla fine è anche la sua utilità - molto relativa, d'accordo. Panebianco probabilmente non ha mai spostato un voto, né convinto un solo lettore a invadere l'Iraq o votare moderato. Panebianco è un elegante barometro che ci mostra sinteticamente quello che un sacco di italiani pensano già. Cercare di metterlo a tacere sarebbe come fermare gli orologi per evitare che il tempo passi, truccare le bilance per riuscire in una dieta, censurare il meteo, aggiungete metafore a piacere. Dannoso, oltre che inutile: di Panebianco ne crescono in continuazione in tutte le redazioni. Se ne tagliate uno ne crescono altri sette, per tacere dei bot che già adesso probabilmente sarebbero in grado di scrivere fondi di Panebianco molto meglio di Panebianco.
E poi, sul serio, non fa comodo anche a voi dare un'occhiata al barometro ogni tanto? Quel che rivela al termine di quel suo fondo che vi ha fatto arrabbiare - quella voglia fino a questo momento inconfessabile di fare della guerra "la prima preoccupazione dell’Unione" - pensate che sia un'idea solo sua? (Come se P. potesse davvero maturare idee in autonomia). Non notate che è la conclusione naturale di un ragionamento collettivo? Date un'occhiata ai dati in giro. Siamo la quarta economia d'Europa, e stiamo sprofondando. Per trent'anni abbiamo fatto debiti e investito in tutto fuorché in ricerca e innovazione. Ora abbiamo la più alta percentuale di illetterati, un debito pubblico enorme, e una voragine di violenza dall'altra parte del mare. È il momento esatto in cui gli intellettuali, anche quelli un po' ribelli in gioventù, cominciano a sentire il prurito, a vedere Grandi Proletarie, a cianciare di Sola Igiene del Mondo. Sono criminali? Alcuni sì. Ma il prurito che sentono è una cosa collettiva.
Chi vi scrive è stato anche lui giovane blablabla. Ultimamente insegno in una scuola media, e di ragazzini iperattivi con una gran voglia di partire per la guerra ne ho avuti sempre, in una percentuale grosso modo costante. Da un po' di tempo a questa parte, però, mi accorgo di un fenomeno diverso. Arrivo con alcune nozioni, niente di speciale: debito pubblico, tasso di disoccupazione, piramide delle età, eccetera. E ogni tanto sul fondo un ragazzino - di solito un maschio - mi interrompe: "ma allora bisogna fare una guerra". Così. Non perché ne abbia voglia - molti ne hanno voglia, ma c'è anche un altra cosa: c'è la limpidezza del ragionamento, che poi con gli anni si annebbierà, intorbidandosi con la nostra voglia individuale di sopravvivere, avere eredi, ecc. ecc. Ma se fossimo razionali e irresponsabili come può essere un bambino di dodici anni, ci basterebbero un paio di grafici per giungere a una conclusione del genere. Abbiamo tanti disoccupati poco qualificati, abbiamo industrie che scalpitano, abbiamo un fronte pronto a poche miglia nautiche. Angelo Panebianco dà voce a quel ragazzino di ogni età. Volerlo mettere a tacere - non avete idea, fidatevi, di quanto sia patetico provarci.
I licei classici non sono abbastanza inutili?
18-02-2016, 14:20chiudere i licei (con i prof dentro), cultura, scuolaPermalinkNell'universo che alcuni chiamano Biblioteca di Babele esistono tutti i libri possibili. Tutte le combinazioni di libri di 410 pagine - ogni pagina 40 righe di 40 caratteri. Ci sono tutti i libri che mi piacerebbe scrivere e a voi non piacerebbe leggere; c'è il vangelo tale e quale l'edizione che avete in casa ma con la parola "lavandino" al posto di "Regno dei Cieli". C'è un'edizione dei promessi sposi in cui Lucia scappa con Don Rodrigo e a pagina venti comincia una spiegazione della relatività ristretta che è sbagliata, o forse no. C'è l'autentica spiegazione della vostra vita, con la descrizione veridica della vostra morte - ma è in mezzo ad altri volumi che la smentiscono, che cambiano alcuni dettagli inquietanti, che presentano tutto sotto una luce diversa, come fare a distinguerli. C'è il catalogo della biblioteca e c'è il senso della vita - e il secondo volume della Poetica di Aristotele, composto interamente di virgole. C'è un libro in cui Voltaire dà la vita affinché Rousseau possa esprimere la sua opinione, che è "mort ai ro.dodendrr,rr". Un libro in cui Einstein si preoccupa della sorte delle api, un altro in cui Neruda lentamente muore, e persino un libro (anzi ce ne sono milioni) in cui la poesia che Renzi ha attribuito a Borges è davvero di Borges. Purtroppo questo avviene in un altro universo.
Che poi si sa come vanno queste cose, no? Devi andare in Argentina, chiedi ai tuoi di farti un discorso sull'Argentina, loro googlano "poeti argentini" e trovano "Borges"; googlano "citazioni di Borges"... cioè alla fine è sempre colpa di google, dai. Al limite di Wikipedia. Non varrebbe neanche la pena di parlarne. Senonché ero già irritato per quella roba che aveva scritto Galimberti, l'ennesimo peana sulla fine del liceo classico e quindi della cultura, perché pare proprio non si dia cultura senza liceo classico.
Altri hanno già parlato a sufficienza di quanto sia in realtà angusta e piuttosto retroborghese l'idea di cultura di Galimberti - che infatti non riesce a non includere un feticcio ormai residuale, il "teatro": tra le attività che secondo lui sono cultura e distinguono l'uomo dalla "bestia" non c'è la capacità di percepire e misurare le onde gravitazionali attraverso un interferometro, ma c'è il "teatro": se vai a teatro sei un uomo, se stai in casa e guardi Superquark non è detto.
Per Galimberti è Cultura. Posso andarci col buono per l'aggiornamento culturale. |
Ché poi a me andare a teatro è sempre piaciuto: ma questa idea che qualsiasi cosa vi avvenga sia "cultura" e meriti di essere salvata, finanziata... è un'idea che avrebbe fatto girare la testa i buoni borghesi di un secolo fa, che a teatro ci andavano per tirare i pomodori ai futuristi e guardare le gambe delle ballerine. Galimberti è più trombone di loro, Galimberti scambia perline per gioielli, qualsiasi cazzata per Galimberti diventa importante se si recita su un palco col sipario rosso. È il guardiano di un museo che non capisce, spolvera gli estintori ed è convinto che siano oggetti di valore inestimabile, la gente passa e non si cura delle loro rotondità sgargianti ma non è colpa loro: è che non hanno fatto il Classico, son bestie.
E allora Matteo Renzi? Uscito con 60/60 dal prestigioso Liceo classico Dante, Matteo Renzi che non trova un finale per un discorso e googla "Jorge Luis Borges citazioni"... Renzi e Galimberti dovrebbero essere due prodotti della migliore istruzione italiana, quella che produce esseri Umani, no scimmie chine sui calcolatori e gli interferometri: gente che s'intende di tutto ciò che è umano, e quindi anche di umane lettere. Com'è che invece Galimberti non sa distinguere la filosofia dalla lamentazione di un pensionato su una panchina? Un intellettuale in una società di massa da una jeune fille che studia lettere antiche per passatempo in attesa di fidanzarsi con un buon partito che la manterrà per il resto dei suoi giorni? E com'è che Renzi non sa distinguere un pensiero di Borges da un incarto di cioccolatino? Non dico che debbano servire a trovare un lavoro, questi studi classici: ma almeno a "studiare i classici", appunto. I testi perdio, cosa avete fatto in cinque anni se non sapete distinguere Borges da un cioccolatino, Benjamin da una portinaia. Chiunque abbia letto anche solo un libriccino di Borges, se ne può ben rendere conto che Borges non scriveva banalità sull'amicizia. Chiunque abbia letto un solo testo degli autori che Galimberti cita con rimpianto - Marcuse, Foucault - come fa anche solo per un istante a concepire una scemenza pseudoromantica come il "mondo del lavoro" contrapposto al "mondo della vita"?
Cioè forse abbiamo sbagliato tutto - forse il problema non è che il liceo classico sia inutile, ma che non sia abbastanza inutile. Non produce filosofi, ma imbecilli che scambiano soprammobili Biedermeier per statue di Prassitele. Non produce filologi, ma praticoni anche abbastanza astuti, che magari ti diventano presidenti del consiglio, ma non sanno chi è Borges. Con tutto che non sono affatto sicuro che sia utile sapere chi è Borges. Ma chiedi a un matematico, lo sanno tutti chi è Borges.
Il suo nome è sulla lista?
26-01-2016, 18:52autoreferenziali, memoria del 900, scuolaPermalinkCiò detto, quest'anno insegno in una classe esposta a sud, con tapparelle discutibili, e se c'è il sole la LIM è nitida solo fino alle 9 del mattino, poi è meglio fare altro. Quindi in terza se voglio proiettare un po' di Schindler's List devo partire subito, l'appello magari lo faccio quando il sole comincia a picchiare.
Ecco. Fare l'appello dopo aver visto un qualsiasi pezzo di Schindler's List è inquietante in un modo che non vi immaginate - cioè adesso che ve l'ho raccontato magari ve lo immaginate, ma anche un po' di più.
(Dall'archivio:
No, il registro elettronico non vi impedisce di chiacchierare coi vostri figli
07-01-2016, 20:13internet, scuolaPermalinkQuest’anno però ho il registro elettronico. I voti li ho già messi da casa, perché il registro elettronico è a mia disposizione anche la notte di Natale, se mi va. I genitori possono controllare quando vogliono. Anche mai, se non vogliono. Quel che proprio non possono più fare è lamentarsi del fatto che non li teniamo al corrente.
Ecco, questo forse è il problema.
Se togli a un genitore la facoltà di lamentarsi, lui si sente a disagio - forse defraudato di una prerogativa? Sul Sole 24 Ore, Monica D’Ascenzo confessa che la comunicazione della password le ha fatto sentire un “fastidio”, che “si è trasformato velocemente in disagio” quando ha scoperto che nel registro, oltre alle assenze, “i genitori possono consultare quanto fatto in classe in ogni singola materia, i compiti assegnati e (orrore!) i voti del proprio figlio”.
Ho chiuso in fretta il tutto come se mi fosse capitato in mano il suo diario dei pensieri.
Ma che roba è? Posso in qualunque momento sapere cosa fa mio figlio prima ancora che lui pensi anche solo se raccontarmelo o meno. Che fine fanno le chiacchiere da cena: cosa avete fatto oggi? Com’è andata la giornata? Ti ha interrogato?
E quindi insomma niente. Speravo che per una volta la tecnologia mi avesse davvero semplificato la vita, ma sbagliavo. Ovvero, sì, mi avrebbe liberato da inutili passeggiate in mezzo all’aula per controllare decine di voti; da scenate di genitori che trovano voti diversi e firme false e altri spiacevoli affanni - ma se il prezzo da pagare sono “le chiacchiere da cena” di una mamma con un figliolo, non mi resta che tornare al cartaceo. Costa di più, prende più tempo, è più scomodo. Ma le chiacchiere da cene saranno salve.
Non si può evitare che tutti parlino di scuola. Tutti ci hanno passato più di dieci anni, quindi tutti hanno diritto a un'opinione. Ma nel caso dei genitori è troppo spesso modellata sulla loro esperienza, individuale, positiva o spiacevole. Se hanno avuto insegnanti sfaccendati, sono portati a pensare che tutti gli insegnanti lo siano. Se a tavola chiacchieravano amabilmente coi genitori di voti in classe, tendono a pensare che a tutti risultasse altrettanto piacevole, e formativo, questo tipo di chiacchiere.
Dall’altra parte c’è un insegnante che ha lavorato con migliaia di studenti, migliaia di genitori: che conosce tutte le falle del sistema, per esserci caduto a piè pari più volte. Lui vi dice che il registro elettronico è più comodo per tutti, ma in fondo che ne sa?
Dove è finita la possibilità di scelta del bambino di raccontare o meno se è stato interrogato o se la maestra ha fatto una verifica a sorpresa? Dove è finita la libertà di confessare a un genitore un’insufficienza o invece decidere di gestirla da solo magari studiando, recuperando la volta successiva e spuntando una sufficienza in pagella?Cara genitrice, quella possibilità di scelta è ancora lì, non l’ha toccata nessuno. Se non vuole usare il registro elettronico, non lo usi. Chieda a suo figlio di scrivere i voti sul diario, e li controlli. Se con lei ha funzionato, non è affatto improbabile che funzioni anche a suo figlio. Se poi ogni tanto vuole dare una sbirciatina... nessuno la giudicherà.
E lei non giudichi me se invece di passare ore di lavoro a controllare firme, ne approfitto per fare lezione. Mi diverto di più.
L'Isis è tra noi. E non vuole che andiamo in gita
25-11-2015, 02:44Islam, Oriana Fallaci, scuola, terrorismoPermalinkCari operatori locali del terrore: politici, opinionisti e semplici reporter a caccia di segni che l'Isis sta arrivando, è qui, non farà prigionieri; care quinte colonne della Jihad prossima ventura, che posso dirvi? Potreste persino aver ragione.
In effetti non c'è motivo di pensare che gli errori commessi in Belgio o in Francia, in materia di immigrazione o integrazione, non siano stati ripetuti anche da noi; e che nell'hinterland di qualche città italiana non esista un ghetto come Molenbeek, dove gli integralisti possono nascondersi e fare proselitismo indisturbati. L'ipotesi è plausibile, non si può liquidare con un'alzata di spalle. Una Molenbeek italiana magari c'è.
A questo punto però dovreste mostrarcela.
Perché se tutto quello che riuscite a trovare è Torpignattara; e anche per dipingere Torpignattara come un ghetto islamico siete costretti a sforbiciare vecchi spezzoni d'interviste, ecco, no. Topignattara sicuramente non è il paradiso, ma altrettanto sicuramente non è il quartiere marocchino di Molenbeek. Se la minaccia islamica in Italia esiste, perché vi riducete a inventarvela? I vostri dossier dovrebbero essere gonfi di fatti, di soprusi, prevaricazioni documentate, musulmani che minacciano salumieri, donne costrette a velarsi, ecc. È da vent'anni e più che ci state raccontando di un'invasione islamica dell'Italia, come minimo a questo punto dovrebbero essere riusciti a imporre la Sharia almeno in una circoscrizione, un isolato, un ballatoio. Voi dovreste essere là, e documentare la cosa con tutta la Rabbia e tutto l'Orgoglio di cui siete sicuramente capaci. E invece.
E invece l'altro giorno un giornalista come Filippo Facci, non esattamente un becero qualunque, si ritrova a scrivere una cosa del genere:
Non voglio leggere che una gita scolastica è stata annullata perché prevedeva la visita a un Cristo dipinto da Chagall: voglio che gli insegnanti responsabili vengano sanzionati, o, addirittura, come ha scritto Claudio Magris sempre sul Corriere, licenziati.La Grande Minaccia Islamica 2015: una gita scolastica annullata. Peccato che non sia semplicemente vero: che la notizia di una classe che rinuncia alla gita per non offendere gli alunni musulmani fosse già stata smentita dal preside della scuola nel momento in cui Facci si sedeva a scrivere il suo laico grido d'allarme. Poco importa: in mancanza di niente gli operatori locali del terrore hanno deciso che il segno dell'Apocalisse musulmana è questo: un consiglio di classe che blocca una gita per mancanza di adesioni (una cosa che è sempre successa, anche quando i genitori che non volevano pagare non erano ancora musulmani ma semplicemente poveri). Ne sta parlando la Meloni in tv proprio adesso a Porta a Porta, in palese cattiva fede. Nel frattempo il Miur ha mandato gli ispettori in quella scuola, al cui dirigente va tutta la mia solidarietà.
(Non so se vi rendete conto. Durante un consiglio di classe decidono di bloccare una gita probabilmente per mancanza di adesioni. Nel corridoio qualcuno mormora che è colpa dei genitori musulmani. La scuola finisce sui giornali. Claudio Magris sul Corriere vuole licenziare gli "insegnanti responsabili"! Cioè se tu blocchi una gita scolastica perché un po' di genitori non se la sente di pagare, Claudio Magris chiede al Corriere che tu sia licenziato, e il Ministero ti manda gli ispettori. Ma questo non è cavarsela a buon mercato? Forse si dovrebbe fare di più, magari iniziare a tagliare qualche parte del corpo al professore che non riesce a organizzare una visita d'istruzione. Non possiamo mica rischiare che vinca l'Isis).
Facci comunque non si preoccupa soltanto per le visite d'istruzione. Mali tempi incorrono:
Non voglio che la scuola pubblica elimini dai testi scolastici le parole «maiale» e «carne di maiale» (più tutti i derivati) per non offendere musulmani ed ebrei:A me questa è sfuggita: qualcuno ha proposto di togliere "maiale" e "ciccioli frolli" dai testi scolastici? Che io sappia a musulmani ed ebrei è fatto divieto di mangiarne, non di sentirne parlare o di leggere la parola su un libro. Insomma questa è una cosa che è successa davvero o un'esagerazione? E che bisogno c'è di esagerare, se in giro per l'Italia vige davvero la Sharia? Ma fateci degli esempi concreti.
Facci non fa che ripetere lo stesso schema che dall'11 settembre hanno ripetuto tutti gli operatori locali del terrore: siccome la Minaccia Islamica tarda un po' a manifestarsi, se la fabbricano in casa con quel che passa il convento. A Sarcazzo sull'Oglio un crocefisso è caduto da una parete e nessuno l'ha raccolto; nel comune di Massaveneta si sono rotti i coglioni di fare il presepe; la tal classe non va in gita: tutti segni che Maometto sta vincendo. In fondo l'Isis, quando proclama su Youtube di essere a poche miglia nautiche da Roma, non sta facendo la stessa cosa? Arrendetevi, abbiamo conquistato un quartiere di Tripoli, stiamo arrivando.
La grande maestra di questi professionisti del panico è stata ovviamente lei, Oriana Fallaci. Tre anni dopo aver vomitato tutta la sua Rabbia e il suo Orgoglio, pubblicò un testo che si presentava sin dal titolo come un'assai più ponderata riflessione sul tema Quei bastardi fottuti ci fanno il culo, tiriamo fuori le palle, Cristo! Il volume, il secondo della trilogia, si intitolava appunto La forza della ragione.
"Stavolta non mi appello alla rabbia, all'orgoglio, alla passione. Mi appello alla Ragione".In questo testo tanto ragionato, la Fallaci spiegava ai suoi lettori che lo Stato in quel momento (2004!) stava giungendo a una specie di concordato con le comunità islamiche operanti nel Paese. Cito da Cathopedia:
Le bozze d'intesa tra Stato italiano e comunità islamiche prevederebbero inoltre: il riconoscimento del venerdì come giorno di festa (per i soli musulmani, insieme alla domenica); la possibilità di interrompere il lavoro per recitare la preghiera rituale quattro volte al giorno; l'esenzione dal lavoro per gli islamici in occasione delle loro feste e per poter effettuare il pellegrinaggio a La Mecca; la possibilità per le donne di avere sui documenti d'identità la foto con il velo; la facoltà di usufruire del contributo dell’otto per mille; il riconoscimento della validità del matrimonio islamico con relativa facoltà da parte del marito di ripudiare la moglie o praticare la poligamia (attualmente punita dal Codice penale); l'obbligo per ogni mensa aziendale, scolastica, ospedaliera, carceraria di distribuire cibi islamici; il permesso di praticare la sepoltura dei cadaveri secondo il rito islamico (cioè il cadavere avvolto solo da un lenzuolo e sepolto a fior di terra, in contrasto con le nostre norme igienico sanitarie)...Sono passati undici anni: qualcuno sa che fine hanno fatto quelle "bozze d'intesa"? Nel caso, potrebbe anche ragguagliarmi su quali "comunità islamiche" stessero facendo pressione sul governo Berlusconi per depenalizzare la poligamia? Ci sono tracce di queste bozze, da qualche parte, onde verificare se davvero qualcuno aveva intenzione di seppellire cadaveri avvolti in un lenzuolo a fior di terra? Perché tutte queste cose le scriveva la Fallaci, e la Fallaci ci stava parlando con la Forza della Ragione.
Adesso ve li faccio io degli esempi concreti. Io abito in un piccolo centro dove non ci sono moschee. Ufficialmente. Se parli coi ragazzi ce ne sono cinque o sei. Almeno fino a qualche anno fa il principale problema di sicurezza era la tensione tra arabi e pachistani - presso la stazione autocorriere ci fu una rissa memorabile. A una decina di chilometri da casa mia, qualche anno fa una madre musulmana difese sua figlia con la vita - e fu uccisa dal marito. Di cose successe più vicino a me non posso parlare; dico solo che ogni volta che sento un giornalista o un opinionista montare a neve un caso come quello della scuola di Firenze, mi sento preso in giro. Solo con le madrase clandestine ci sarebbe di che riempire un libro non ridicolo, e tutto quello che riuscite a trovare voi cazzari anti-islamici è una classe che non va in gita. Non fate senso solo come giornalisti, incapaci di notare quel che succede appena un po' oltre la punta delle vostre scarpe: fate pure pena come quinte colonne del terrore, bravi solo a spaventarvi a vicenda. L'Italia potrebbe anche diventare più pericolosa del Belgio, non lo so e non lo escludo; ma so che nel caso sarete gli ultimi ad accorgervene.
Se è una guerra siate adulti, per favore.
14-11-2015, 19:10guerra, internet, scuola, terrorismoPermalinkA volte credo che molta gente avrebbe semplicemente bisogno di sperimentare quello che quotidianamente capita a tizi come me: invece di alzarsi e correre a citare qualche frasetta della povera Fallaci, o titolare "bastardi islamici" per lucrare un po' di copie, provare a venire in una scuola qualsiasi della Repubblica, al mattino: a entrare in una classe e trovarsi venticinque cuccioli, di cui quattro o cinque musulmani. E a quel punto, coraggio, vediamo fino a che punto riesci a parlare di invasione, di eurabia. Vediamo fino a che punto riesci a dire "islamici bastardi" in presenza di bambini normalissimi che hanno lo stesso zainetto degli altri, lo stesso astuccio degli altri, gli stessi voti degli altri - e sono nati nello stesso ospedale dove sei nato tu.
In *tutte*, cioè non è che se fai il liceo coreutico non devi studiare la Fallaci. |
E tu non vuoi che vincano loro, o no?
Tu dici che è una guerra: va bene. Non sarà allora il caso di comportarsi come ci si comporta in una guerra? Da uomini, si diceva una volta. Da adulti, diciamo. E quindi: se abbiamo paura, dobbiamo ricacciarcela in gola, e ai ragazzi prima di ogni discussione premettere un concetto: vinceremo. Anche se oggi siamo in ginocchio (ma ci rialziamo), anche se per qualche minuto abbiamo davvero avuto paura (ma ci sta passando), anche se per un attimo un nemico ci ha portato a sospettare l'uno dell'altro, ad accusare l'uno o l'altro; tutto questo non importa, perché contro il terrorismo abbiamo sempre vinto e vinceremo anche stavolta. Perché ieri sera i parigini aprivano le porte delle case per dare rifugio a chi scappava; perché i tassisti hanno fatto la spola per tutta la notte, perché per ogni terrorista ieri a Parigi c'era almeno un migliaio di cittadini che sono accorsi agli ospedali a donare il sangue: perché noi siamo tanti, e loro no. Siamo uniti, e loro no. Siamo più forti, e certamente qualcuno di noi può cadere, ma noi tutti insieme no.
Va bene che non siamo tutti Churchill, ma resto convinto che siamo migliori della nostra bacheca su facebook. E allora basta chiacchiere per favore, un po' di coraggio e un po' di disciplina, è tutto.
L'estate che verrà (coi suoi scontrini)
23-09-2015, 02:31cultura, Renzi, scuolaPermalink
Firmato il decreto sulla carta elettronica dei docenti. 500 euro per la loro formazione pic.twitter.com/vwArEjZMfs
— Matteo Renzi (@matteorenzi) September 22, 2015
Buongiorno, mi chiamo Leonardo e non tutti sanno che ho il dono della profezia. Fu Apollo, una sera che aveva bevuto. Premesso ciò, vi vado a illustrare cosa succederà nel luglio 2016, quando molti miei colleghi insegnanti, dopo aver liquidato i loro studenti, cominceranno a raccogliere gli scontrini per la rendicontazione delle spese di formazione, ai sensi del comma 4 dell'articolo boh del decreto legge che Renzi ha firmato ieri.E si accorgeranno che i conti non tornano.
Perché magari nove mesi prima la volontà c'era, si erano anche preparati il cassettino, la bustina, il salvadanaio, un posto dove infilare i bigliettini, ma poi c'erano altre incombenze, e gli scrutini, e gli esami, e bisognava anche prenotare per le vacanze, e insomma bisogna tirar fuori 500 euro di spese culturali, cosa ci mettiamo? I biglietti del cinema vanno bene? Che tipo di film? La Pixar è una risorsa educativa? Più o meno di Wim Wenders? Porcaputtana l'avevo ancora in tasca e mi si è sbiadito.
E cominceranno a lamentarsi su facebook.
Non più di quanto si lamenti qualsiasi altra categoria - si lamentano tutti su facebook, perlomeno tutti gli italofoni. Ci si lamenta del tempo, del boss, della salute, delle tasse, del partner se c'è, se non c'è della sua mancanza, ci si lamenta dei figli e del loro discutibile gusto in fatto di cartoni animati. Ci si lamenta di ogni cosa e tra un anno ci si lamenterà di questa legge assurda che ci chiede di tenere 500€ di consumi "culturali" - i biglietti di teatro sì - e i biglietti del treno per andare a teatro? E tanti altri Problemi da primo mondo, ansietà da classe medio-agiata, mentre la fuori c'è chi lotta per la terza settimana, o per tenersi a galla quando si rovescia il barcone.
E ci faremo la figura dei figli viziati, che si stufano a rendicontare la paghetta.
Ma sarà solo l'inizio.
Perché intanto sarà arrivato il torrido agosto, e gli ombrelloni reclameranno il loro tributo di ariose chiacchiere da spiaggia, e chi rimane in città a fare il giornalista (o a fare finta di) dovrà pure dar loro in pasto qualcosa. E noi saremo lì, belli maturi, pronti a cascare nella prima trappola. Così che a Roma, o Milano, o in qualche altra città, prima o poi un cronista qualsiasi metterà davanti un microfono a un insegnante convinto di farci pure una bella figura, mentre si lamenta che questo Ministero che vuole guardare come spendi i tuoi soldi è, boh, ficcanaso? Degno di un regime totalitario? Con un po' di sforzo qualcuno che la spara così grossa lo trovi. In fondo siamo centinaia di migliaia, tutti scazzati mentre mettiamo in fila gli scontrini - qualcuno che sbrocchi lo trovi, è statistica.
Oppure il furbacchione. Quello che si crede brillante mentre spiega di aver rendicontato 500€ in libri a una Feltrinelli, per farseli permutare il giorno dopo in giochi per la playstation. (Che peraltro tra un premio Strega di quelli che danno via oggi e un Grand Theft Auto, qualche dubbio su chi trasudi più cultura potremmo farcelo).
Però alla fine, davvero, io punterei sul coglione che dirà "TOTALITARIO". E sarà subito tormentone dell'estate. Come successe nella torrida estate del 2015, quando tutti sotto l'ombrellone cantavano, vi ricordate? "DEPORTAZIONE". Che hit fenomenale. Che modo fantastico ed economico di sputtanare una categoria di cui fanno persone che ogni anno cambiano sedi a centinaia di km di distanza, affrontando spese ingenti per un tozzo di pane - e poi un giorno ne intervisti una che dice: "DEPORTAZIONE", et voilà, son tutti figli di papà e mammà che pretendono di insegnare sottocasa.
Nel baccano che ne seguirà ci sarà pure qualcuno che proverà a spiegare che tutto sommato ci troviamo davanti a un ridicolo aumento salariale (500€ all'anno, signori, fa 40 al mese), truccato da grande misura per la formazione della classe docente. Classe docente a cui è proposto di spendere i soldi in corsi di formazione o in cofanetti dvd di Guerre Stellari: per il ministero non dovrebbe fare nessuna differenza, il che tradisce una concezione non so quanto gentiliana e quanto semplicemente paracula. Qualcuno ci sarà, che prova a discuterne in questi termini.
Ma non ci farà caso nessuno, staranno tutti ridendo, ahah, sul giornale c'è un prof che si è stancato di raccogliere gli scontrini e si lamenta dello Stato TOTALITARIO.
Quel che fu la brioche per Maria Antonietta - non la disse mai, quella frase, sapete. Gliela confezionarono su misura i suoi nemici. Fu molto più efficace della ghigliottina.
Ciao a tutti, mi chiamo Leonardo e quella sera, se vogliamo dirla tutta, Apollo ci stava a provare. Mi guardava con quell'occhio, sapete, io poi da giovane ero un tipo. Ti offro il dono della profezia, mi disse a un certo punto, e già sbavava sul bancone, puzzava di nettare rancido. Grazie ma domattina mi alzo presto ho un'interrogazione. E va bene disse lui, sai che ti dico? Il dono non posso ritirartelo, ma ci metto una giunta: farai solo profezie di merda. Grazie, grazie, potente dio, delfico Apollo.
Non si esce vivi dalla scuola media
13-08-2015, 11:12La grande gara di spunti, scuolaPermalinkNon ci sono mai andato, neanche da piccolo (dovevo badare alle capre). Ho preso la licenza media come privatista, però mi sono sempre chiesto come dev'essere quel tipo di scuola. Tutti i giorni me lo chiedo: chissà che cosa incredibile dev'essere frequentare la scuola media, insegnare nella scuola media, pulire i gabinetti della scuola media. Me lo chiedo anche a voce alta, ma le capre non rispondono. Brucano perplesse.
Così torno a casa e scrivo storie ambientate in una scuola media immaginaria, che ovviamente non ha niente a vedere con le scuole medie che esistono davvero e nelle quali mi potrebbe esser capitato di entrare aver - visto che, ricordiamolo, io non sono mai entrato in una scuola media in vita mia.
Perciò, capite, ogni riferimento a persone e situazioni realmente esistenti non può che essere casuale. È fan fiction: c'è chi scrive storie sui personaggi secondari di Guerre Stellari, chi scrive seguiti del Signore degli Anelli, e io scrivo storie ambientate nella scuola media di un comune di 70.000 abitanti, al centro del distretto del sellino. All'inizio del Novecento il brevetto dell'Ing. Cav. Rabone trasformò l'ozioso borgo agricolo in un centro artigianale; nei '60 otto fabbriche producevano selle e sellini per il mercato mondiale. Trent'anni dopo, la produzione è stata ormai completamente delocalizzata nel Belucistan: resiste una sola fabbrica (verrà chiusa sotto Natale) e gli uffici stile, che ogni anno si copiano a vicenda i nuovi innovativi design. I nativi non hanno ancora tirato le conseguenze del declino economico e vivono al di sopra delle loro possibilità.
(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone).
- Ripetente incinta di un compagno. Tutti gli indizi dovrebbero far capire che alla fine sceglierà di tenerlo. Tutti la consigliano in tal senso. Invece no, abortisce (questo sarebbe uno spunto in sé).
- Da un Paese imprecisato dell'Asia meridionale. Ha un segreto che non può rivelare a nessuno: ama la scuola, odia le vacanze. La scuola è l'unico luogo dove si sente ascoltato e rispettato (malgrado nessuno nella realtà lo ascolti e rispetti più di tanto). Ha una genuina curiosità per tutte le materie e un amore impossibile per una compagna che non lo considera un essere umano.
- Ex bullo. Alle elementari era il Ras, picchiava tutti i suoi compagni. Durante l'estate sono tutti cresciuti di una spanna, lui è rimasto al palo.
- Il Ragazzo del Corridoio. Nessuno ricorda esattamente quale classe frequenti. Pur affettando atteggiamenti bulleschi, ha un temperamente malinconico e vive nel terrore di essere promosso, lasciare la scuola media e crescere.
- Le due vittime designate degli scherzi del branco, durante tutto l'anno preparano nei minimi dettagli un eccidio stile Columbine.
- I due figli delle due principali dinastie di industriali del sellino si ritrovano nella stessa classe; s'innamorano con esiti tragici.
- Tanti altri.
- La supplente
- Dott. Divago. Le sue lezioni hanno un effetto ipnotico sui ragazzi, che dopo essere rimasti ore ad ascoltarlo, non riescono a ricordare di cosa stia parlando. Totalmente digiuno di didattica e pedagogia, il dottor Divago è da anni nel mirino della Preside Vincini, che lo considera un residuato della Vecchia Scuola. In effetti Divago è il professore che da più tempo insegna alle Papini; ciononostante non ha ancora una vera e propria cattedra, ma è molto richiesto come supplente per la sua capacità di improvvisare lezioni in pochi minuti. Il suo ruolo anomalo è dovuto al fatto che la Segretaria Bianca anni prima ha smarrito la Ricostruzione Carriera del dottor Divago, che da allora vive in un limbo burocratico. A differenza della Preside, Divago è sempre rintracciabile a scuola, dal momento che (si scoprirà) alloggia negli scantinati. Verso la fine un gruppo di studenti in esplorazione nell'Archivio scoprirà la stupefacente verità: la sua Ricostruzione Carriera non è stata smarrita, ma non è mai esistita; Divago non è un professore, ma un ex alunno pluriripetente che ha continuato a vivere a scuola mimetizzandosi col corpo docente.
- Fresca sposa di una nipote del Vescovo, si ritrova abilitata all'insegnamento della religione Cattolica senza aver mai aperto una Bibbia. Quando i ragazzi gliela faranno leggere ci resterà male.
- Oltre a insegnare Religione, Don Pignotti è una specie di cappellano della scuola, nonché consigliere spirituale della Preside Vincini (i cui scrupoli religiosi sono puramente dettati dalla volontà di entrare in competizione con le Pie Figlie del Sacro Cuore dell'Immacolata Madre del Redentore). In realtà Don Pignotti sta perdendo la fede e soffre di non riuscire ad aiutare i giovani (che viceversa si danno una mano per aiutare lui).
- Tanti altri
- La Vicaria Vanna è il vero cervello delle Papini. I presidi vanno e vengono, ma lei resta. Negli anni ha messo a punto un complicato sistema di potere e di gestione truffaldina dei fondi d'istituto che nessuno è in grado di scoprire perché sono tutti (compresa la Preside) troppo occupati ad eseguire i compiti loro assegnati dalla Vicaria Vanna.
- In vent'anni non ha mai perso una pratica, tranne (ma è un segreto) la misteriosa Ricostruzione Carriera del dott. Divago: un cruccio personale che non riesce a dimenticare. La Segretaria Bianca è costantemente alle costole dei docenti, a cui chiede tonnellate di documenti che poi passerà ore a schedare. Non ha mai acceso un computer in vita sua. Terrorizzata dalle istanze innovative portate avanti dalla Preside Vincini, la Segretaria Bianca si alleerà a malincuore con la Vanna (che odia) per evitare la digitalizzazione della burocrazia.
- Trentacinquenne plurilaureato (Filosofia e Letteratura Tedesca), parla correntemente cinque lingue; in attesa di ottenere una cattedra di Letteratura Comparata all'università (promessa strappata in punto di morte al suo Maestro, per il quale ha lavorato gratis 10 anni) si mantiene facendo il bidello. Malgrado sia la persona più titolata dell'Istituto, fa del suo meglio per non manifestare nessuna forma di presunzione intellettuale; si tradisce imprecando nei corridoi quando la classe di flauto storpia Mozart.
- I bidelli del Secondo Piano: Cieco, Muto e Sordo. In uno dei suoi tipici eccessi di zelo, la Preside Vincini ha alzato la quota di disabili nel personale Ausiliario Tecnico Amministrativo. I tre bidelli del secondo piano sono grandi lavoratori, ma raggiungono la piena efficienza soltanto se impiegati in team. Come singoli sono spesso pericolosi per sé stessi e per gli altri. Durante l'anno si aggiungerà una bidella Zoppa.
- Un'Intelligenza Artificiale nata per un caso fortuito nel brodo primordiale di virus e batteri che infestano il server della sala computer. Odia gli esseri umani e progetta di soggiogarli.
Come fanno le scuole private a far risparmiare 6 miliardi allo Stato (senza neanche pagare le tasse)?
27-07-2015, 03:20preti parlanti, scuolaPermalinkQuesta volta è il monsignor Nunzio Galantino, segretario della Conferenza Episcopale Italiana, che ha saputo della sentenza che obbliga una scuola cattolica di Livorno a pagare l'ICI. Una sentenza che per il monsignore è discriminatoria. Ha detto proprio così: discriminatoria. Sei un privato? Ti fanno pagare le tasse? Ciò per il monsignore è discriminazione. Inoltre c'è il rischio che ci abbia messo il suo zampetto satanico l'Ideologia.
Dati alla mano, il segretario generale della Cei ricorda che "ci sono un milione e 300 mila studenti nelle scuole paritarie. Bisogna anche sapere che a fronte dei 520 milioni che ricevono le scuole paritarie, lo Stato risparmia 6 miliardi e mezzo. Attenzione, dunque, a non farsi mettere il prosciutto sugli occhi dall'ideologia"
Ecco, dati alla mano il segretario ha detto così: 1 milione e 300 mila studenti, 520 milioni di euro ricevuti dalle paritarie. Sono 400 euro a studente. In questo modo lo Stato risparmia 6 miliardi e mezzo: 5000 euro a studente. Ma come fa? Io continuo a non capire come fa. Se davvero lo Stato spende 5000 euro all'anno per ogni studente - e tutto quello che riesce a offrire a quello studente sono strutture mediamente fatiscenti e insegnanti demotivati - come diavolo fanno le scuole paritarie a farti risparmiare così tanto? Perché le rette di solito sono un bel po' inferiori ai 4600 euro. E quindi come fanno queste scuole a trovare insegnanti più motivati? Beh, in effetti non li trovano: gli insegnanti delle private hanno in media stipendi inferiori, e a giudicare dai risultati degli studenti, prestazioni inferiori. Ma basta questo a spiegare il miracolo? No, deve esserci qualche altro trucco da qualche parte, ad esempio gli edifici. Una scuola cattolica che utilizzi gli stabili di una curia, magari può risparmiare parecchio... se poi non ci paga nemmeno le tasse...
Ricapitolando: c'è un tizio che non pagando le tasse risparmia; e risparmiando offre un servizio allo Stato. Però chiede allo Stato un aiuto ulteriore (= bonus scolastico), perché sennò lo Stato non... ce la farebbe a risparmiare. No, scusate, è proprio una cosa che non mi entra in testa. Leggo Lupi e ho il capogiro. Secondo lui la sentenza "invece di fare giustizia discrimina pesantemente queste scuole e genera una pericolosa diseguaglianza. Le scuole paritarie e le scuole statali per legge fanno entrambe parte del sistema pubblico, perchè entrambe svolgono un servizio pubblico. Perchè le paritarie pubbliche devono pagare l'lmu e le statali pubbliche no?
Non fa una grinza: perché i privati devono pagare le tasse allo Stato, e lo Stato no? Non le può pagare lo Stato le tasse, invece di farcele pagare a noi? Chi è che ha deciso che le tasse, invece di pagarle lo Stato, le pagano i privati? Chiunque sia stato, era sicuramente oscurato dalle fette di prosciutto dell'Ideologia.
Faccio un altro esempio. Monsignore possiede un furgoncino. L'ha ereditato, quindi non gli è costato nulla. Non ci paga il bollo né l'assicurazione, perché è roba ideologica, e lui non si fa accecare dall'ideologia. Col furgoncino fa un servizio di minitaxi molto concorrenziale rispetto agli autobus di linea. Però la benzina comunque gli costa un bel po' (anche se non paga le accise. Non le paga. Sono ideologiche). Quindi chiede allo Stato un bonus per i suoi utenti, per aiutarli a salire sul suo furgoncino, invece che sull'autobus di linea. A proposito, il suo conducente non ha nemmeno la patente adatta; è un precario. Gli autobus del comune sono tenuti ad avere conducenti in regola, lui no, non è ideologico. E ci fa risparmiare un sacco, no? Perché insistete a fargli pagare le tasse? Siete proprio ideologici.
Ah, un'altra cosa: il monsignore sul suo furgoncino fa salire chi gli pare. Se ci sono troppi stranieri ne lascia fuori un po'. E i gay, beh, non ha nulla contro i conducenti gay. Purché non lo dicano a nessuno.
Il gender non esiste; la scuola privata non dovrebbe
22-06-2015, 17:52omofobie, privatizzazioni, scuola, sessoPermalinkUn'enorme diffidenza per l'istituzione scolastica, senz'altro. Ma non è che una faccia della medaglia. Proviamo a voltarla. Dall'altra parte c'è una mostruosa fede nella scuola, nel suo potere di plasmare il fanciullo e il giovinetto, addirittura di farne un maschio o una femmina o altro. Se tu pensi che la scuola possa fare di tuo figlio un gay, la prima cosa che mi viene in mente è che sei pazzo - ma la metto da parte. La seconda cosa è che tu hai già paura che tuo figlio lo sia, e vabbe'. La terza è che stai riconoscendo a me insegnante un potere enorme. Posso creare omosessuali dal niente. Basta decidere che alla terza ora, invece del solito trattato di Campoformio, ci mettiamo a discutere di "amicizia e amore con il partner dello stesso sesso", ed ecco all'improvviso allignare la torbida perversione iridescente là dove fino a un momento prima c'era solo un po' di curiosità per le imprese di Bonaparte - e nessuna pulsione, naturalmente, i ragazzi non avrebbero pulsioni finché non premiamo noi i pulsanti. È chiaro che se davvero fossimo così potenti, saremmo già riusciti a farci pagare un po' di più, in fin dei conti abbiamo in ostaggio tutti i pre-puberi d'Italia cinque ore al giorno. Ecco, il punto è che ci credono. Migliaia, forse milioni di italiani ritengono che noi abbiamo in ostaggio i loro figli, e che possiamo in qualsiasi momento premere un pulsante e omosessualizzarli, transessualizzarli, trasformarli in consumatori seriali di contraccettivi e pillole abortive. Noi.
Che a pena riusciamo a insegnare l'italiano.
Questa per dire dirige un istituto comprensivo - scuole medie, elementari, d'infanzia - chi le impedirà di selezionare insegnanti anti-gender? Certo non Renzi. |
A questo punto basta rovesciare il mito per trovarne la ratio: chi crede (o vuol credere) che all'asilo si insegna masturbazione precoce, crede o vuol credere altresì che all'asilo queste cose si potrebbero reprimere. Si dovrebbero reprimere. Non all'asilo pubblico, naturalmente: occorrerà procurarsene uno con personale opportunamente specializzato. Chi paventa moduli educativi sulla "scoperta del proprio corpo e dei propri genitali" da quattro a sei anni, considererà necessario che una scuola come si deve crei una barriera tra il seienne e il suo corpo, e soprattutto i suoi genitali. Chi trova scandalo in una lezione sul "diritto all'aborto" riterrà opportuno che una scuola insegni ai figli il contrario, cioè che l'aborto non è un diritto: e così via. Ecco: chi chiede sgravi fiscali o buoni scuola allo Stato invocando la "libertà di educazione", la "libertà di scelta educativa delle famiglie", a volte ha in mente questo. Magari non tutti. Ma alcuni sì. Vorrebbero un asilo che mettesse delle barriere tra i loro candidi bambini e i loro incontrollabili genitali; preferirebbero una scuola che creasse veri Maschi e vere Femmine, ancor prima che buoni cittadini - cittadini di che, poi? Prima viene la famiglia, e la famiglia sa cos'è bene per i propri bambini. Lo sa per definizione.
Qui devo confessare una cosa. Mi è capitato spesso di affermare polemicamente che la scuola privata mi va bene, purché sia privata davvero, vale a dire pagata da chi ci vuole mandare i propri bambini. Si tratta di una manovra retorica che è un classico di questo blog: usare il liberismo contro i liberali, il cattolicesimo contro i cattolici, il marxismo contro i marxisti ecc. Funziona sempre, ma resta una mossa insincera. Cioè alla fine non è vero che le scuole private mi vanno bene. Prendi l'imam che ha parlato al Family Day, beccandosi gli applausi dei buoni cattolici. Io non voglio che lui, con la scusa della "libertà di scelta" iscriva le sue eventuali figlie a una madrasa. Preferirei che le iscrivesse a una buona scuola pubblica, dove sentiranno magari parlare di contraccettivi e aborto, ma anche di Mirandolina e Gertrude. La stessa cosa vale per i genitori cattolici che l'hanno applaudito. Perché ci tengono tanto che i loro figli/figlie vadano a una scuola privata? Per l'ampio parcheggio, o perché il preside può licenziare un insegnante se anche solo sospetta che sia omosessuale? eccetera. Non credo che né la scuola né la famiglia possano trasformare un eterosessuale in un gay o viceversa - ma credo che possano causare un bel po' di sofferenza, e rovinare un bel po' di vite se ci provano. Una scuola che ci provasse, finanziata anche interamente da un gruppo di famiglie che ci credesse, per me andrebbe chiusa d'ufficio. Anzi aperta, nel senso in cui Lutero e Robespierre aprivano i conventi. Fuori tutti - non è che fuori sia il paradiso, anzi. C'è una società mediamente violente e omofoba, ma è l'unica che abbiamo, e sta a tutti migliorarla. Chi cerca di difendersi alzando una siepe intorno al proprio giardino (e magari chiedendoti pure un obolo per innaffiarla) non ci è di aiuto. E poi chi lo sa cosa succede davvero oltre quelle siepi, in quei giardini.
Il ministero che vuole più Microsoft a scuola (e chi paga?)
28-05-2015, 08:001500 caratteri, scuola, softwarePermalinksono un docente che ogni anno partecipa alle rivelazioni Invalsi. Ogni anno sono tentato di protestare pubblicamente per il fatto che il MIUR continui a usare Microsoft Office. Un prodotto costoso (e deperibile) che non offre a docenti e funzionari nulla che non sia possibile fare con prodotti più leggeri e, soprattutto, gratuiti. Poi ogni anno la stanchezza prevale.
Le scrivo perché ho scoperto che il 15 maggio ha stipulato un protocollo di intesa con la Microsoft, che prevede “percorsi formativi rivolti ai dirigenti scolastici su tematiche relative alla didattica e alla gestione delle risorse”, e per i docenti “una serie di incontri di formazione sulle tematiche dell'innovazione nella didattica”, il tutto a “titolo gratuito”: e ci mancherebbe che la Microsoft volesse pur esser pagata, per entrare nelle scuole a pubblicizzare i suoi prodotti.
Egregio Ministro, noi non abbiamo bisogno di lezioni gratis su come usare programmi costosi e deperibili. Avrebbe più senso qualche lezione su come usare altri programmi, che fanno tutto quello che fa Microsoft Office, però gratis. Per una formazione del genere varrebbe persino la pena di pagare: e sarebbe comunque un investimento.
Un tempo la Microsoft era lo stato dell’arte del software. Oggi è un marchio prestigioso che ti imbottiglia l’aria che respiri e prova a vendertela. Mi spiace che ci sia cascata: in ogni caso nelle mie classi quella roba lì non entra più. Saluti.
La Card di Lodoli, la sconfitta di Baricco
23-05-2015, 16:581500 caratteri, cultura, Renzi, scuolaPermalinkMi spiace che alla corte di Renzi abbia vinto lui e perso Baricco, pur così applaudito alla Leopolda. Non per il valore letterario, ma perché B. vedeva il problema in modo diametralmente opposto, e un giorno osò scriverlo: basta aiuti al teatro, investiamo tutto nella scuola e nella tv. Inutile foraggiare prodotti culturali di nicchia, se a scuola alleviamo analfabeti; il teatro rinascerà quando e se scuola e tv produrranno cittadini in grado di apprezzarlo. Mi pareva l’unica proposta logica, ma alla Leopolda Baricco non la portò (non ne ebbe il coraggio?) Ha vinto il modello-Lodoli, che insiste a vedere nella classe docente non un insieme di lavoratori che deve adeguarsi a determinati standard professionali, bensì una casta intellettuale che celebra la propria identità andando a teatro, leggendo libri: “cultura”, insomma in senso antropologico.
La scuola competitiva, nel caso anche un po' islamica
20-05-2015, 17:451500 caratteri, scuolaPermalinkTu potresti anche obiettare che alcuni dei “troppi” sono italiani a tutti gli effetti, e arrivano con ottimi voti. Sì ma il genitore che guarda il tabellone mica lo sa, è irrazionale, siamo stati tutti genitori e lo sappiamo, hai paura di tutto, figurati di un cognome che comincia per X o Y. E quindi? Mica possiamo cacciarli.
Certo che non possiamo, spiega la preside. Li concentriamo in alcune sezioni, e in altre ne teniamo uno o due: così restiamo competitivi con le private. Ecco la lista dei genitori che hanno già versato il bonus. Lei sa dove metterli.
Che dice? Razzista io? M’offende. Se un giorno venisse un facoltoso contribuente islamico - e un giorno verrà - io una classe-madrasa gliela apro senza problemi. I soldi non han razza, né religione.
La scuola del merito e dei bonus: una simulazione
20-05-2015, 01:301500 caratteri, Renzi, scuolaPermalinkAl che candido replichi che certo potresti aiutarlo, se studiasse di più e cerbottanasse meno palline di carta. Dovrebbe cambiare atteggiamento. E il preside paziente a spiegarti che è un po’ tardi per cambiare atteggiamento; si fa giusto in tempo a cambiare i voti, sennò Pierini jr rischia d’essere bocciato e suo padre lo iscriverà a un’altra scuola. Così niente lavagna interattiva a settembre. Ci siamo capiti?
Tu lo guardi sorpreso ed è evidente che no, non vi siete capiti. E lui, sospirando: ma ha capito chi è l’ing. Pierini? Lo sai quanto ci può devolvere in school bonus? Vuole rinunciare ai suoi soldi perché il figlio è deficiente? È una disgrazia, ma è anche un’opportunità. Così riusciamo a metter via i soldi per la lavagna. Non mi dica che non le piacerebbe una lavagna.
E non la prenda in questo modo. Non era questo che vedevo in lei. Vedevo un giovane abbastanza intelligente e disperato per capire ed eseguire i miei ordini. Ci rifletta: tra il figlio scioperato di un papà ricco e generoso e un giovane docente inflessibile, di chi posso fare a meno a settembre?
Guerra di religione nell'intervallo
17-05-2015, 10:051500 caratteri, delitti e cronaca, religioni, scontro di civiltà, scuolaPermalinkA quel punto è intervenuta la Merdy di III R (ripetente), che pur non sapendo cosa fosse un istrice, né la Johansson, né un emisfero, né un Oscar, né dove si trovasse in quel momento, ha pestato la Pippi perché ehi, in quel corridoio se vuoi menarti devi chiedere a lei, non è che puoi graffiar bambine senza invitarla. Ma sbagliava corridoio, quindi la Gwanda di II W è andata a dirlo al fratello, il quale disprezzando i litigi tra femmine e gli sfregi che procurano ha deciso di non intervenire direttamente, bensì sgonfiando la bici della colpevole; e non capendo chi fosse esattamente, non riuscendo a districare la catena di cause ed effetti dalla Pippi alla Cacchi alla Merdy, ha sgonfiato un’intera rastrelliera, quaranta ruote, Dio è grande e riconoscerà le sue.
A quel punto voi avreste mandato il fratello di Gwanda dal preside, ma bisogna prendere appuntamento, del resto ha otto plessi, così ho pensato di chiamare i giornalisti. Sì, perché il ragazzino è musulmano, e invece di Dio è grande ha detto Allah Akbar. E quindi capite, lo scontro di religioni, di civiltà - chi l’avrebbe detto che il nostro quarto d’ora di celebrità sarebbe stato quello dell’intervallo.
Ti immerda l'aiuola, ci mette la faccia
15-05-2015, 10:181500 caratteri, dialoghi, Renzi, scuolaPermalink“Già, come vede sto pulendo”.
“Ma non si vergogna di tenerla così?”
“Io sono quello che pulisce, per quel che posso. Però la gente passa e sporca”.
“E il governo?”
“Eh, non ci ha aiutato un granché fin qui. Speriamo nel prossimo”.
“Son io il prossimo!” (Zip)
“Ah, bene, ma... Scusi, lei sta pisciando? Sta pisciando nella mia aiuola?”
“L'aiuola non è sua, chi si crede di essere?”
“Ma la stavo pulendo”.
“Non si notava un granché”
“Però adesso lei ci sta pisciando”.
“Vede com'è fatto lei?”
“Come sarei fatto io?”
“Le piaceva l'aiuola com'era prima!”
“No, non mi piaceva l'aiola com'era prima, ma non credo che sia un buon motivo per pisciarci sopra”.
“Lei è nemico di tutto ciò che è nuovo”.
“Ma non mi sembra una cosa tanto nuova, abbia pazienza”.
“Lei ha paura del futuro”.
“Un tizio che piscia in un'aiuola è il futuro?”
“Da qui in poi cambia tutto! Si marcia a un passo diverso! Ve ne accorgerete, ve ne”.
“Ha finito? Perché io stavo lavorando”.
“Senta, può darsi che con lei io abbia sbagliato approccio”.
“Non credo sia un problema di approccio, è che lei piscia nelle aiuole”.
“Perché non ricominciamo tutto da capo? Veniamoci incontro”.
“Si sta risbottonando?”
“Non crede che sia ora di lasciare un segno, qualcosa di concreto?”
“Ma no, non credo proprio”.
“Lei è senza speranza. Un amante dello status quo. Un masochista”.
“Io stavo pulendo prima che lei arrivasse”.
“E se ne vanta pure? Guardi com'è ridotta, guardi”.
“Ci sta ancora ancora cagando sopra”.
“Ci sto mettendo la faccia!”
“La chiamano così adesso?”
Il masochismo di mandare all'aria la scuola
14-05-2015, 19:281500 caratteri, scuolaPermalinkIntendiamoci: l'idea ha aspetti positivi. Chi lavora nelle scuole sa quanto sia facile compiacere studenti e genitori: molto più facile che preparare buone lezioni o correggere troppi compiti, col rischio poi di dare dispiacere agli utenti. Prevediamo sin d'ora che la buona scuola valutata da studenti e genitori di compiti ne darà pochissimi: e non sarà più così difficile trovare insegnanti disponibili a portar classi in gita (più spesso a Gardaland che alla Risiera di San Sabba). A farne le spese, col tempo, sarà la collettività, ma si vede che anche alla collettività piace soffrire. Se si sceglie dei riformatori così.
La buona scuola, le medie scuole, le scuole cattive
13-05-2015, 01:471500 caratteri, scuolaPermalinkPotrei semplicemente rispondere: perché non mi fido dei dirigenti. Ma è più complesso di così. Secondo Renzi ogni preside doveva essere libero di costruire “la sua squadra”. Già la metafora ha qualcosa che non va, perché se ci pensate, di solito la “nostra squadra” è quella che il club si è potuto permettere. Per un preside che riuscirà ad attirare insegnanti buoni, ce ne saranno cinque o sei che non potranno che contentarsi dei rimasugli. È l’economia: niente di così strano. Ma la scuola pubblica era nata proprio per andare in senso inverso. Renzi parla di Buona Scuola, ma per ogni scuola buona ce ne saranno un po’ di mediocri, e parecchie scadenti. Vabbe’, al limite chi se lo può permettere andrà alle private (coi miei soldi).
La scuola dell'obbligo, con piglio manageriale
06-05-2015, 23:271500 caratteri, poveri piccoli imprenditori, scuolaPermalinkPurtroppo mancherà per sempre la controprova, ovvero: quanto mi piacerebbe nominare d’émblée uno di voi dirigente di un istituto comprensivo. Un esperimento. Assistere alle riunioni in cui con piglio manageriale risolvereste i problemi di organico e di relazioni col pubblico. Vedervi mentre interagite col comune che non ripara la caldaia; il genitore-avvocato che intende denunciarvi perché un prof ha sequestrato un cellulare in base al regolamento, ma in deroga al codice penale; il prof in malattia che se lo demansioni è mobbing; i vigili che non recepiscono le vostre segnalazioni sul tizio che stalkeggia le ragazze al cancello; i servizi sociali che esigono che l’alunno A sia spostato per motivi seri ma non avete il posto, e tante altre cazzate che non vi sono mai venute in mente perché, in effetti, avete sempre fatto un altro mestiere. Un mestiere che nessuno vi spiega su facebook al pomeriggio. Sfortuna.
Finché dopo un paio di giorni concludereste che la scuola così non può funzionare, cioè, dove sono gli utili? Non ha senso. Quindi la chiudete e - con piglio manageriale - ne riaprite un’altra in Romania.
Quelli che non scioperano domani
04-05-2015, 21:401500 caratteri, manifestaiolismi, scioperi, scuolaPermalinkQuelli che altro che sciopero, il blocco degli scrutini ci vorrebbe, l’insurrezione, il meteorite! Quindi domattina non scioperano.
Quelli che vuoi pure dargli i miei soldi, a quei ladri? E non scioperano.
Quelli che lo hanno già fatto il mese scorso con la gilda-precari-secondafascia o i cobas-fondovalle perciò stavolta no.
Quelli che sarei d’accordo ma poi i genitori chi li sente?
Quelli che devono spiegare il DNA, Kant, le lotte operaie dell’800 per ottenere i diritti sindacali, e quindi non scioperano.
Quelli che non se lo possono permettere.
Quelli che al corteo no, con gli studenti poi. E se qualcuno tira giù il cappuccio e tira una bombacarta, sarà colpa mia che “non ho saputo isolarlo”?
Quelli che lo isolerebbero anche, ma con che? Spranghe, sampietrini, nude mani? Davanti ai poliziotti? Come distingueranno il vandalo dall’isolatore di vandalo? E se nel dubbio mi bastonano e mi ritrovo sanguinante nel tg, e Renzi mi dà del figlio di papà? Piuttosto sto a casa, scrivo su facebook #iosciopero e litigo con quelli che #iononsciopero, almeno la testa è salva.
Quelli che sembriamo fancazzisti che non vogliono essere valutati. Valutati come? Non si sa, il Ddl non lo dice. È la terza riforma che non lo dice. Eh ma sembra lo stesso colpa nostra.
Quelli che eh, ma poi chi sciopera il preside se li segna.
Dici: e che ci fa?
Oggi niente.
Ma domani deciderà tutto lui.
Ah già.
Quelli che però domani scioperiamo lo stesso. Anche per te, se non ti spiace.
La buona scuola, un po' islamica, di Renzi
21-04-2015, 11:431500 caratteri, Islam, Renzi, scuolaPermalinkCaro presidente Renzi, vorrei rassicurarla: nessun sindacato si prenderà la scuola. Si tratta di pacifiche organizzazioni di lavoratori che lottano per ottenere migliori condizioni di lavoro - è un nostro diritto, da qualche tempo.
Quanto alla scuola, no: non è “degli studenti”, che fino a 16 anni sono obbligati a frequentarla, né delle famiglie. Non è ancora nemmeno del preside-manager previsto dalla Buona Scuola, che tra pochi mesi deciderà tutto in totale autonomia. La scuola pubblica, perlomeno, è della collettività: e infatti al suo mantenimento partecipa in uguale modo sia chi ha figli, sia chi no e nemmeno ne vuole. Anch'essi hanno comunque interesse ad avere nel proprio quartiere scuole frequentate e funzionali, e vicini alfabetizzati e avviati a professioni ed esistenze dignitose. Questo è l'obiettivo della scuola di Stato, cioè di tutti.
Se poi qualche famiglia chiede per i propri figli qualcosa di più, nessuno glielo impedisce: ma dovrebbe procurarselo con le proprie risorse, non con quelle dei contribuenti. Non coi miei soldi, insomma; nella Costituzione almeno c'è scritto così (invece, nell'ultimo romanzo di Houellebecq, l'eurocaliffo taglia i fondi pubblici all'istruzione e ristruttura la società intorno alla cellula famigliare. È un leader islamico, ovviamente, ma molti nostri leader cattolici non avrebbero un granché da eccepire).
La scuola sciopera? Sul serio?
18-04-2015, 19:191500 caratteri, scioperi, scuolaPermalinkPer tutti questi anni, ogni volta che avete sentito dire che questa o quella riforma sulla scuola erano stati bloccati dalle proteste compatte degli insegnanti, avete sentito una verità molto parziale - se non una pietosa bugia. Nessuno sciopero è stato particolarmente riuscito, nessuna sollevazione avrebbe bloccato nulla, se dall’altra parte ci fossero state proposte chiare e una determinazione politica. Ma non c’erano. Per molto tempo, l’ostilità della classe docente è stato un comodo alibi per una politica che alla scuola non voleva davvero metter mano. Era più comodo sparare proposte impossibili e poi lamentarsi dell’ostilità dei prof. Almeno questo equivoco finisce il 5 maggio. Forse.
Insomma i buoni scuola fanno risparmiare o no?
29-03-2015, 01:21scuolaPermalinkIo invece gli devo ancora un supplemento di risposta, visto che almeno su un punto ha ragione: non si possono prendere i soldi che lo Stato butta dentro il carrozzone delle paritarie (470 milioni l'anno, secondo i 44 parlamentari), dividerlo per il numero di iscritti alle paritarie e dedurre che ogni studente costa 450 euro l'anno. È veramente il pollo di Trilussa, una media senza senso. Butta ha tutte le ragioni del mondo di prendersela con chi usa la statistica in questo modo truce. Ma perché se la prende con me?
Non sono mica io che ho raccolto i dati e fatto la divisione. In realtà non saprei neanche dire chi l'ha fatta. Io l'ho presa pari pari dalla lettera dei 44 parlamentari del Pd (e limitrofi). Siccome è a loro che spetta dimostrare una tesi (le scuole private fanno risparmiare), ed è a loro che spetta reperire i dati. Sono un gruppo di pressione parlamentare che cerca di mantenere il finanziamento alle scuole private. Figurati se non hanno i numeri giusti. Figurati se non hanno le competenze, non dico per truccarli (rischierebbero di essere sgamati), ma per renderli il più sexy possibile. È gente che avrà fatto buone scuole, si presume. E quindi se tutto quello che riescono a produrre, per dimostrare che le scuole paritarie fanno risparmiare, è il conteggio risibile di 450 euro a studente, temo proprio che numeri migliori di così non ci siano.
In realtà, come è ovvio, lo Stato non spende 450 euro per studente. Nel caso di molti studenti non spende proprio nulla. Quanti? I 44 parlamentari non ce lo dicono. Scelgono di ignorare il dato. Forse perché è un po' troppo alto? Poi, come ricorda Butta, ci sono le famiglie con reddito tra i 16000 e i 28000 euro (ISEE), che di soldi ne prendono ben più di 450: anche il doppio. Ecco, per loro (da qui in poi "Giovannini") la riduzione dei buoni scuola comporterebbe probabilmente l'abbandono della scuola privata.
Ma sono tanti i Giovannini?
L'estate rovente del ministro Poletti
24-03-2015, 23:25Renzi, scuolaPermalinkPoletti però quell'idea non ce l'ha. Parla di formazione ma rimane sul vago, ricorda i bei tempi di quando i suoi figli scaricavano cassette di frutta (nota: non ricorda le sue cassette di frutta, ma quelle dei figli), sembra avere in mente più il classico lavoretto estivo che un vero e proprio progetto di avviamento professionale. Non si può non sottoscrivere le parole del vicepresidente dell'Associazione Nazionale Presidi, quando fa notare che "Poletti è l’ennesimo ministro che si pronuncia sulla questione, ma mai, finora, alle parole hanno fatto seguito prassi organizzative coerenti". Le sue boutade buttate lì ai giornalisti ormai rientrano in un vero e proprio genere letterario-giornalistico: la sparata da convegno. Quella classica situazione in cui non sai cosa dire e ne lanci un paio, e nemmeno tu l'attimo dopo sai se hai aperto la bocca per ansia di visibilità o semplice noia.
Adesso è su tutti i giornali, Poletti, senza nemmeno sapere cosa vuole. Gli insegnanti sono già sul chi vive, gli studenti allarmatissimi: quella cosa delle cassette di frutta in effetti ha un suono sinistro quando a proportela non è un genitore a integrazione della paghetta, ma un ministro della Repubblica. In fondo che ha detto di grave? Niente, ma abbiamo ancora negli orecchi il boato delle sparate precedenti. L'anno scorso fu il sottosegretario all'istruzione Reggi a parlare di scuole aperte fino alle dieci di sera, e fino al trenta luglio. Gestite da chi? Ma dagli insegnanti, ovviamente, che avrebbero potuto raddoppiare il loro monte ore di lezioni settimanali, da 18 a 36. Trentasei furono anche le ore che ci mise a smentire di aver proposto una cosa del genere. Ma l'anno prima era stato l'indimenticato ministro Profumo a buttar lì un aumento da 18 a 24, che in fondo non sarebbe nemmeno una brutta idea - se a quel 33% di lavoro in più Profumo avesse voluto far corrispondere un adeguamento salariale. Invece no, Profumo non aveva intenzione di cacciare un euro in più, visto che non ne aveva. Ma non intendeva neanche mettersi a contrattare. Era stata solo una cosa buttata lì a un convegno - come quella volta che propose en passant di abolire l'insegnamento di religione, immagino che capiti anche voi al bar di suggerire il superamento del concordato tra Stato e Chiesa, senza che nessun noioso giornalista pretenda di farci i titoli il giorno dopo.
Ma prima ancora di Reggi e di Profumo c'è stato Renzi. Credo davvero che nessuno darebbe tanto peso alle nostalgiche cassette della frutta di Poletti se a monte di tutto non ci fosse quell'antico pallino del premier per il Servizio Volontario Però Obbligatorio. Quella stramba idea del lavoro giovanile gratis che sentimmo più volte durante le campagne per le primarie, e poi ci dimenticammo, come di tante altre cose. Ecco, i ragazzi forse no, i ragazzi a queste cose ci fanno più caso. Poi per carità, da noi continuerebbero volentieri a scaricare cassette di frutta in luglio. Un po' perché è un'esperienza che ti fa crescere, un po' perché il luglio in Valpadana è veramente noioso, ma soprattutto per quel po' di euro che puoi metterti in tasca. Non per l'anima del volontariato, no.
No, non mi hai dimostrato che la scuola privata mi fa risparmiare
22-03-2015, 09:31privatizzazioni, scuolaPermalinkNon si è più fatto vivo nessuno.
In realtà no, qualcuno ha voluto commentare, da Praga addirittura. L'intervento di Butta.org è molto interessante, ma purtroppo muove da un equivoco. Butta se l'è presa perché ho usato la parola "dimostrare", che in ambito scientifico ha un significato molto rigoroso, mentre la mia dimostrazione di rigoroso non aveva nulla. È vero, era una cosa molto cialtrona. Il mio pezzo, mi fa sapere, non reggerebbe la peer review di una rivista di economia. Credo anch'io. Mi sembra però che Butta non abbia colto l'aspetto paradossale e polemico della questione: ovviamente non sono un economista, ma anche se ne fossi capace io non potrei dimostrare che i buoni scuola fanno risparmiare, perché non ho i dati e non voglio cercarli: non spetta a me. Io sono quello scettico che deve essere convinto.
Butta, per esempio, se ci crede, potrebbe cercare i dati e offrire una dimostrazione.
E infatti ci prova.
Ma la peer review se la sogna. Anche il suo paper è eccezionalmente povero di dati: dovendo pur partire da qualche numero, anche solo per stabilire quanto può costare una scuola privata in Italia, decide di andare su un sito a caso e prendere una retta a caso. È un po' come se per stabilire quanti polli mangia un italiano alla settimana, Butta decidesse di prendere un italiano a caso e chiederglielo: sospetto che esistano sistemi più affidabili di rilevazione statistica, più o meno da Trilussa in poi, ma lo scienziato è lui, saprà pure quel che fa. Nel frattempo però ha perso completamente di vista la mia argomentazione: io non mi preoccupavo di sapere quanto costi effettivamente una scuola privata in Italia (non spetta a me l'onere della prova!), ma mi domandavo quanto dovrebbe costare. E siccome ho il dato MIUR delle scuole pubbliche - 5000€ ca. - e ho buoni motivi per ritenere che la scuola pubblica costi molto poco, parto dall'assunto che una scuola privata di scarsa qualità, per non essere una truffa ai danni dell'utente, dovrebbe costare più o meno cinquemila euro.
"Sì, ciao", risponde Butta.
Lui lo sa che le scuole private costano meno (ne ha presa una a caso).
Ma temo che non abbia capito. Sono anch'io abbastanza sicuro che mediamente costano meno. Ma mi domando il perché. Già le pubbliche costano pochino. Come fanno le private a essere così convenienti?
Lui sa anche il perché: ad esempio, pagano meno gli insegnanti.
Grazie, Butta, non è che non ci fossimo arrivati. Il problema è che gli insegnanti statali sono già pagati poco rispetto a una media europea. Quindi se gli insegnanti delle scuole private sono pagati ancora meno, si può tranquillamente dire che sono sottopagati: il che è ingiusto non solo nei loro confronti, ma anche rispetto ai clienti della scuola - gli studenti - che infatti in media hanno risultati inferiori ai loro compagni che frequentano le pubbliche. Tanto più che le dimensioni massicce e capillari della rete pubblica le consentono di distribuire le risorse con un'efficienza che piccoli enti privati non possono permettersi (ad esempio: se in due scuole pubbliche avanza una mezza cattedra, la scuola pubblica può spalmare un docente su due sedi; due scuole private pagherebbero di più. Per tacere delle forniture). Come possono le scuole private costare in medie mille o duemila euro in meno (prendendo per buono il dato che Butta ha estrapolato da una scuola a caso su tutto il territorio nazionale) e offrire lo stesso servizio di una scuola pubblica? O il servizio è inferiore - e i dati sembrano dirci questo - o... c'è qualche altra possibilità?
Certo che c'è. È lì che vanno a parare tutti i difensori della scuola privata, invariabilmente. Gli sprechi.
La scuola pubblica sarebbe piena di sprechi.
Fonte?
Quando ero a scuola io c'era un bidello che non faceva un cazzo.
Grazie per la testimonianza. Ma pensavo che avessi delle cifre, non so, statistiche sull'assenteismo... no, il metodo è sempre lo stesso. Si prende un campione molto ristretto (Butta) e gli si chiede come gli è andata.
Non gli è andata tanto bene. C'era questo bidello (ma quanti bidelli lavoravano nelle scuole in cui è passato Butta? Decine, centinaia, lui conosce un caso solo?) e inoltre ha conosciuto un insegnante che non sapeva insegnare.
Uh, sapessi io.
Ma vedi, è un po' il problema di tutti quelli che parlano di scuola.
Tutto il potere ai presidi... e per la meritocrazia non ci sono i soldi, spiacenti.
12-03-2015, 23:53Renzi, scuolaPermalinkIo naturalmente non sono molto soddisfatto del Ddl sulla scuola che stasera è stato approvato dal Consiglio dei Ministri, ma questo non credo sia una novità per nessuno. Sono contento per i supplenti storici, che meritavano che fosse riconosciuto il loro impegno; sono sgomento per una concezione dell'autonomia scolastica che consiste nel concentrare tutto il potere sul preside. Sarà lui, improvvisamente investito di competenze didattiche e pedagogiche, a poter scegliere "i docenti più adatti" a realizzare piani dell'offerta formativa che sarà lui a stilare con un gruppo di collaboratori scelti da lui.
Sarà sempre lui a scegliere quel cinque per cento di docenti meritevoli a cui corrispondere un bonus per cui saranno stanziati tanti milioni - però non adesso, tra un po'. Insomma, in attesa del varo di un serio sistema di valutazione degli insegnanti, di cui tutti si riempiono la bocca da vent'anni senza venire al dunque mai, il governo ha deciso che ci pensano i presidi. Tutto il potere ai presidi. Perché? Non è ben chiaro. È un po' come la riforma del Senato: nessuno ha mai capito quale sia il senso di portare sindaci e delegati regionali a Roma qualche giorno al mese, tranne che forse Renzi e Delrio sono stati sindaci e continuano a vedere il mondo con occhi da sindaci: se solo l'Italia potessero farla i sindaci - sembrano pensare - vedreste che roba sarebbe, vedrete.
Con la scuola sembra proprio che sia successo qualcosa di analogo: hanno scambiato il Dirigente Scolastico per un sindaco della scuola e hanno deciso che è senz'altro lui la persona più adatta a scegliersi l'organico e a decidere come pagarlo. Non devono nemmeno essersi troppo preoccupati del fatto che a differenza del sindaco, il preside non lo vota nessuno: è un funzionario che ha vinto un concorso e che non può essere in nessun modo messo in minoranza né dal collegio docenti, né dai genitori, né dagli studenti. Da qui in poi decide tutto lui e ne risponde soltanto ai tribunali amministrativi (o ai penali appena qualche docente lo accuserà di mobbing). È una cosa che mi lascia perplesso - la totale confusione tra organismi democratici e burocratici - ma non credo che la mia perplessità sia una novità per nessuno.
Mi piacerebbe invece sentire qualche renziano, stasera e domani: uno qualsiasi tra tutti quelli che per un anno ci hanno decantato le virtù della meritocrazia, e della valutazione: mi piacerebbe chiedergli se non si sente preso in giro da un Ddl che la meritocrazia l'ha nascosta sotto il tappeto, e si presenta ai docenti di ogni grado e merito con un bel cesto di Natale fuori stagione: un voucher da 500€ per "spese culturali". Un rimborso spese "per andare a teatro, a sentire un concerto, a vedere l'opera... Anche questo è cultura", ha spiegato Renzi. Dunque per ora si va a teatro e ai concerti; nei prossimi mesi si cercherà di essere il più possibile carini coi presidi, che magari l'anno prossimo saranno tanto buoni da includerci in quel 5% di docenti meritevoli di bonus. Tutta qui la meritocrazia renziana? Per ora è davvero tutta qui.
Del resto non c'erano i soldi per fare diversamente. L'ultima volta che un sindacato ha provato a fare i conti, i famosi scatti triennali al merito si erano ridotti a una miseria: forse 16€ in più al mese, neanche la benzina per andare e tornare da un corso di aggiornamento. A quel punto il Ddl è rimasto congelato per qualche giorno, e adesso eccolo qua: niente più meritocrazia, se ne parla alle calende greche. La stessa scadenza prevista del resto dalla Moratti, dalla Gelmini, da Profumo. Sarebbe fantastico valutare i docenti, ma non si sa bene come fare, e soprattutto mancano i soldi.
Quelli per le scuole private però li hanno trovati. Ma non è una notizia nemmeno questa, dopotutto.
No, la tua scuola privata non mi fa risparmiare
09-03-2015, 17:59economie, scuolaPermalinkStavolta però mi hanno letto in tantissimi, non so neanche io perché. Scherzi di facebook. Tra i tantissimi era normale che ci fosse anche qualche lettore che non la pensa come me. Qualcuno convinto che finanziare le scuole private coi miei soldi di contribuente sia una cosa buona e giusta - se non altro perché, pensate un po', farebbe risparmiare allo Stato un sacco.
È in effetti una storia che ho sentito spesso. Siccome l'articolo 33 della Costituzione è chiarissimo ("Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato"), l'unico sistema per aggirarlo è sostenere che le scuole private facciano addirittura risparmiare. Anche la recentissima letterina pubblicata su Avvenire e controfirmata da 44 parlamentari di area Pd spiega che il "sistema [delle private paritarie] costa allo stato solo 470 milioni di euro/anno [fonte?], pari a circa 450 euro/anno/alunno per la scuola dell’infanzia e primaria [fonte?], mentre lo stanziamento per le secondarie di I e di II grado è praticamente inesistente". Siccome secondo il Ministero dell'Istruzione ogni studente costa allo stato 6000€ all'anno, il risparmio appare evidente.
Ma sarà vero?
Tanto per cominciare, mi piacerebbe sinceramente capire chi ha fatto il famoso conteggio dei 470 milioni di euro l'anno. Se è un dato vero, che problema c'è a citare la fonte? E invece nessuno la cita mai. Se la prendono con te che non sai l'aritmetica, ma non ti spiegano da dove loro hanno preso i dati. È curioso.
Ma anche volendo prendere per buono il dato dei 470 milioni di euro all'anno, qualcosa non mi torna - no, in generale non mi torna niente. È uno di quei problemi che sembrano appunto banalmente aritmetici e poi a guardarli bene non lo sono affatto. Un ente - non necessariamente una scuola - un qualsiasi ente che mi promette di farmi risparmiare se gli do dei soldi, mi lascia perplesso. Forse davvero non sono abbastanza intelligente da capire come funziona. Mi piacerebbe che qualcuno intervenisse qua sopra e me lo spiegasse. Finora non c'è riuscito nessuno, forse sono senza speranza.
Proviamo a capirci. Le scuole private esistono già. Se per assurdo scomparissero all'improvviso; se gli alunni fossero a causa di ciò costretti a iscriversi alle pubbliche, è chiaro che la spesa pubblica leviterebbe. Credo che sia appunto il caso che hanno in mente i 44 parlamentari quando parlano di un "risparmio evidente". Ma è un caso abbastanza assurdo, no? Le scuole private esistono già, e tanti genitori ci manderanno comunque i loro figli. Che lo Stato li aiuti o no. Quale convenienza ha lo Stato aiutandoli?
Gli studenti di queste scuole costano poco allo Stato - 5530€ in meno ad alunno, a dar retta ai vostri numeri. Sembra un bel risparmio, ma se aumentassimo il numero di posti, lo Stato risparmierebbe di più? Ne siete convinti? Io non ne sono del tutto convinto.
E se invece lo calassimo?
Su Fahrenheit alle 16.30
04-03-2015, 13:34scuola, segnalazioniPermalink(Poi se un giorno arriva il podcast lo metterò).
Non voglio pagare per la scuola privata di tuo figlio, grazie.
04-03-2015, 10:35repliche, scuolaPermalinkPerò ve la pagate.
Perché in questo momento le cose stanno in questo modo: io, in quanto contribuente, sono costretto a pagare, oltre per il servizio pubblico (come è giusto che sia), anche per i vostri buoni scuola. Ed ecco, questa idea che voi siate liberi di fare quello che volete, ma a spese mie, è la cosa che sopporto di meno in assoluto.
Sarà una coincidenza che l'unica volta in cui compare, nella nostra Carta Costituzionale, questa brusca espressione, "senza oneri per lo Stato", sia proprio in quel famoso art. 33? "Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato". Possiamo pagare per molte cose, ma per la scuola dei vostri figli, grazie, no. Fatevene una migliore coi soldi vostri, se siete così bravi.
Nudo, vogliamo Don Giussani nudo!
(È un vecchio pezzo, scritto su un blog abbandonato come tanti. Lo rimetto qui perché a quanto pare ha ancora senso).
Linguaggio nel pomeriggio
16-12-2014, 15:34autoreferenziali, scuola, segnalazioniPermalinkZuckerberg è triste xke' vuoi le foto indietro
03-12-2014, 23:29internet, privacy, scuolaPermalinkhttp://www.ilpost.it/2014/12/02/messaggio-privacy-bufala-facebook/ |
Ma potrebbe.
Ma in realtà non c'è nemmeno bisogno, perché in un'altra scuola qualche anno fa - forse avete già visto il film - un ragazzo un po' più sfigato degli altri ha pensato: sfilare i telefoni dalle tasche delle ragazze è troppo sbatti, sai che farò? Le convincerò a mandarmi le foto direttamente a casa, su un sito molto cool che aprirò. Prima dovranno sottoscrivere un contratto lunghiiiiiiissimo e illeggibile in cui c'è scritto che qualsiasi cosa mi mandano diventa mio, e posso farne ciò che voglio, e anche dei loro figli e dei figli dei loro figli fino alla settima generazione. No.
Ma potrei farlo.
E loro lo sottoscriverebbero lo stesso.
Basta premere "OK".
Quel sito - lo sanno tutti - è diventato Facebook, lo sfigato si chiama Zuckerberg e adesso è miliardario. Quindi non si tratta tanto di andarsi a leggere il contratto - ché lo cambiano in continuazione, e noi ogni volta premiamo "OK" e non lo leggiamo mai - ma di assorbire il concetto: quella non è l'Internet liberata di cui si parlava fino a qualche anno fa, quello è il sito di Zuckerberg: e sta ben tranquillo che anche se Zuckerberg tiene in un posticino ventilato su un server tutte le foto del battesimo di tua nipote senza farti pagare un cent, questo non fa di lui un benefattore dell'umanità. Questo fa di lui, semplicemente il tizio che possiede le foto del battesimo di tua nipote. Tu le hai scattate, tu gliele hai regalate, lui le possiede. Tutte le volte che le vuoi vedere, lui è così gentile da mostrartele nello stesso ordine in cui gliele hai mandate tu: è una gran concessione che ti fa. Ma se un giorno volesse venderne una a un pubblicitario che cerca un testimonial per un omogeneizzato, o a un artista concettuale che vuole creare un enorme gallery di bambini brutti, lui... lui probabilmente non lo farebbe.
Ma potrebbe.
Forse sta scritto nel contratto che hai sottoscritto. Forse no, ma potrebbe riscriverlo domani e passarti una notifica nell'angolino: "Ehi, ho cambiato le norme sulla privacy, me le sottoscrivi? Mi raccomando, eh, leggile". E tu premerai OK. Ci fosse scritto "Cedo il mio primogenito", tu premeresti OK lo stesso (è successo), perché vai di fretta e vuoi solo sapere come stanno i tuoi amici e se X si è accorto che ti sei ricordato del suo compleanno.
Allora noi a scuola questa cosa stiamo cominciando a spiegarla, nella speranza che poi i ragazzi vadano a casa e la spieghino a voi genitori che francamente a volte fate cadere le braccia. No, non sto dicendo di te. No, nemmeno di te. Ma li avrete visti anche voi quelli che l'altro giorno postavano il seguente messaggio:
A causa del fatto che Facebook ha scelto di includere un software che permette il furto di informazioni personali, dichiaro quanto segue: oggi, giorno 25 novembre 2014, in risposta alle nuove linee guida di Facebook e articoli l. 111, 112 e 113 del Codice della proprietà intellettuale, dichiaro che, i miei diritti sono associati a tutte le mie informazioni personali, dipinti, disegni, fotografie, testi, ecc… postati sul mio profilo. Per l’uso commerciale di quanto sopra, è necessario il mio consenso per iscritto in qualsiasi momento.
Immaginatevi la disperazione, in quel momento, sul volto di Zuckerberg.
Inconsolabile. |
Ma sul serio, credi che non posso?
Cosa fa il tuo prof oggi pomeriggio?
01-12-2014, 18:44Renzi, scuolaPermalinkFa molto reality La7 anni '00, una cosa tipo "Prof per un giorno" o "Tata Lucia va al liceo". |
I nostri insegnanti sono pagati poco o troppo? Ci sono tanti modi di rispondere, quasi tutti sbagliati. Possiamo confrontare i loro mensili con quelli di altri paesi europei, o dei metalmeccanici italiani. Possiamo contare le ore di lezione e confonderle con le ore di lavoro, come fanno spesso i giornalisti e a volte anche qualche tecnico al ministero. Possiamo lamentarci che non ci sia meritocrazia e che gli insegnanti non si possano licenziare (chi parla di meritocrazia spesso ha più in mente i licenziamenti che gli emolumenti). Possiamo parlarne in tanti modi; proviamo a parlarne partendo da un angolo diverso, raramente illuminato dalla discussione. I pomeriggi. Cosa fanno gli insegnanti in questo esatto pomeriggio (mentre, in teoria, li paghiamo)? Dipende. Voi cosa vorreste che facessero?
Li preferireste intenti a organizzare lezioni, o a riempire la lavatrice e brandire il ferro da stiro? Chini a correggere i compiti dei vostri figli, o in giro a scortare i propri al parco? Seduti in prima fila a un corso d’aggiornamento come si deve, o in casa a dare lezioni di latino in nero a studenti che non sono più i vostri figli? E però, diciamola tutta, i soldi per una collaboratrice domestica, o di una baby sitter, un docente statale non li ha. E quindi al pomeriggio dovrà pulire, lavare, stendere, badare alla prole. Oppure potrebbe ingegnarsi e guadagnare qualche soldo in più, con lezioni o con altri lavoretti. In ogni caso, molto del tempo che in teoria dovrebbe dedicare a vostro figlio, anche a distanza, molti insegnanti lo impiegheranno in un altro modo. Non perché sia giusto, e nemmeno perché sia necessario: semplicemente perché conviene. La dura legge del mercato, la mano invisibile, quelle cose lì. E quindi: i nostri insegnanti sono pagati poco o tanto? Diciamo non abbastanza perché molti di loro abbandonino le loro attività part-time.
Siccome le cose vanno così anche da prima della legge Casati, è difficile immaginare che cambino in futuro. Abbiamo sempre dato per scontato il doppio status maestra-casalinga di chi ha allevato noi e i nostri figli. Abbiamo sempre chiuso un occhio di fronte a uno dei più fiorenti traffici in nero, quello delle lezioni private. Abbiamo lottato per salvare materie anacronistiche - il latino, il greco - col pretesto che ‘aprono la mente’ e formano la classe dirigente… fingendo di ignorare che le lingue morte sono soprattutto le galline dalle uova d’oro di tutti i prof che ti rifilano un quattro al mattino e ti scuciono cinquanta euro per una ripetizione al pomeriggio. C’è un tacito patto, tra noi contribuenti e la classe docente italiana, una cosa che nessun sindacalista o ministro si è mai sognato di mettere per iscritto: noi vi paghiamo poco, voi al pomeriggio siete liberi di fare altro. Tra gentiluomini - e gentildonne - ci si capisce al volo. È una verità un po’ fastidiosa, autoevidente ma sempre dietro l’orizzonte della discussione.
Eppure bisogna tirarla fuori, ogni tanto, perché altrimenti si comincia a parlare di meritocrazia come fosse una cosa seria. In questi giorni magari avrete sentito parlare della Buona Scuola di Renzi, e di come voglia portare nelle nostre aule sorde e grigie la meritocrazia. Premesso che la meritocrazia è una cosa bellissima, in cosa consiste essenzialmente per Renzi e i suoi? Ovvero: chi volesse rinunciare ai suoi part-time e magari anche ai lavoretti domestici, cosa otterrebbe in cambio? Uno scatto di sessanta euro al mese ogni tre anni. Una frazione di quello che in passato veniva corrisposto automaticamente a ogni insegnante - un vecchio residuo dei lunghi anni dell’inflazione, quando si dava per scontato che mettendo su famiglia e poi invecchiando un insegnante avrebbe dovuto affrontare spese sempre maggiori, e si cercava di temperare la cosa con scatti e scalette più o meno mobili.
Sarà che da un po’ di tempo siamo quasi in deflazione - una cosa che i nostri padri consideravano meno naturale dell’antimateria - sarà che oggi tutti si riempiono la bocca di meritocrazia, fatto sta che questa idea di premiare tutti gli insegnanti indistintamente, bravi o scarsi che siano, appare alla nostra sensibilità quasi perversa. È come premiare l’inerzia, la semplice sopravvivenza; non va bene! Bisogna invece premiare il merito. Non è nemmeno così importante chiarire cosa il merito sia, e chi lo debba giudicare (la “Buona scuola” si fida parecchio del parere dei presidi); importa che di questo merito ce ne sia poco. È una regola fondamentale dell’economia: un bene, per essere ambito, dev’essere scarso. Qualunque cosa sia il merito, si postula dunque che tocchi soltanto al 66% dei docenti. Loro avranno gli scatti, gli altri no. Uno su tre resterà al palo, ma quel che importa è che tutti e tre dovranno lottare. Con che strumenti? Non è così importante. Si ingegneranno: inventeranno progetti, frequenteranno corsi su corsi, verranno a scuola al pomeriggio ma non per correggere i compiti dei vostri figli (non sarà la priorità); piuttosto per acquisire crediti “didattici”, “formativi” o “professionali”.
È un sistema evidentemente sperimentato in laboratorio. Si mettono tre cavie in una cassetta. Se metti sul fondo della cassetta tre piattini con un po’ di cibo, ogni cavia trotterà verso il suo piattino. Se ne metti solo due, le cavie accorreranno molto più velocemente. Risultato: tu hai risparmiato del cibo, e i tre topolini si sono messi a lavorare più sodo. Semplice, geniale. Perché non dovrebbe funzionare con la scuola pubblica? (continua sul Post!)
La scuola dell'amore (non passerà!)
17-11-2014, 23:31dialoghi, omofobie, racconti, scuola, sessoPermalink(Notate prego la pubblicità progresso in cima). |
(Racconti del mese, novembre)
Cosa fare prima di scegliere la scuola per i vostri figli 1. Prima dell’iscrizione verificate con cura i piani dell’offerta formativa (POF) e gli eventuali progetti educativi (PEI) della scuola, accertandovi che non siano previsti contenuti mutuati dalla teoria del gender. Le parole chiave a cui prestare attenzione sono: educazione alla effettività, educazione sessuale, omofobia, superamento degli stereotipi, relazione tra i generi o cose simili, tutti nomi sotto i quali spesso si nasconde l’indottrinamento del gender. Ricordatevi che i genitori sono gli unici legittimati a concordare e condividere i contenuti di una seria e serena educazione alla affettività dei per i loro figli , rispettandone la sensibilità nel contesto del valore della persona umana
Non ho ben chiara cosa sia la "teoria del gender", ma l'educazione sessuale in scienze si fa alle medie; vorresti che la prof di scienze smettesse di parlare degli organi riproduttivi? Parlane con i genitori più islamici, potreste scoprire di avere molte cose in comune. Quanto all'educazione all'"effettività"... probabilmente intendevi "affettività"... mi spiace deluderti ma è praticamente in tutti i POF; se in qualche POF non c'è, è perché se la sono dimenticata o semplicemente la danno per scontata. Hai dato un'occhiata al libro di lettura di tuo/a figlio/a? C'è sempre una sezione sulle emozioni e l'affettività. In tutti i volumi. In tutti gli anni. La fanno anche nell'ora di religione cattolica (nella quale quasi sempre non si fa religione cattolica, il che è molto interessante). Secondo me la fanno persino nelle scuole cattoliche, anche se per farti piacere probabilmente si inventeranno un nome diverso. Ma sarà sempre affettività. L'unica tua chance è educare i vostri figli sanissimi in casa, probabilmente senza inutili lezioni sulle emozioni imparerà un sacco di cose in più.
2. Durante le elezioni dei rappresentati di classe esplicitate la problematica del gender e candidatevi ad essere rappresentanti oppure votate persone che condividano le vostre posizioni in materia . In ogni caso tenetevi informati con gli insegnanti, i rappresentanti di classe e di istituto per conoscere i n anticipo eventuali iniziative formative in materia di “gender”
Ti prego, fallo. Alla prima elezione dei rappresentanti di classe, quando sarete più o in meno in tre, prendi la parola e invece di fare domande e proposte sulla visita di istruzione, o sul calendario dei colloqui coi genitori, o sull'erogatore delle merendine o qualsiasi altro problema concreto, comincia a parlare di gender. Chiamalo proprio così: gender. "Se mi eleggete rappresentante prometto che mi preoccuperò di conoscere in anticipo eventuali iniziative formative in materia di gender".
Il trenta per cento non capirà quello che stai dicendo.
Un altro trenta per cento concluderà che sei gay e ti interessano tanto le loro problematiche.
L'altro trenta per cento sei tu.
È assai probabile che tu vinca le elezioni, semplicemente perché hanno capito che hai voglia di fare il rappresentante e loro no. Ché poi se sei gay son fatti tuoi, basta che fai il rappresentante.
3. Controllate ogni giorno quale è stato il contenuto delle lezioni e almeno una volta a settimana i quaderni e i diari scolastici, parlandone con i vostri figli. Non siate in alcun modo pressanti verso i figli ma siate coinvolgenti e attenti al loro punto di vista, pronti a render ragione della vostra attenzione.
Come ben sapete, se c'è una cosa che i vostri figli sanissimi non vedono l'ora di fare una volta tornati a casa dopo cinque ore di scuola, è subire l'interrogatorio da un sollecito genitore che vuole sapere Cosa hai fatto Di cosa hai parlato In cosa ti hanno interrogato. È sempre così coinvolgente. Soprattutto se gli "rendete ragione della vostra attenzione".
"Avete parlato di gender a scuola oggi?"
"No".
"La prof di scienze non vi ha parlato di gender?"
"No".
"Il prof di italiano non voleva discutere di gender?"
"No".
"E di cosa avete discusso?"
"No".
"Ma in cinque ore avrete ben..."
"Mamma NON ABBIAMO PARLATO DI GAY, OGGI, VA BENE?"
"Non parlarmi con quel tono".
"QUANDO PARLIAMO DI GAY TI AVVERTO IO, OK?"
"Io lo faccio per il tuo bene".
"CRISTO MAMMA DOMATTINA VADO DAL PROF E GLIELO CHIEDO. GLI CHIEDO SE CI PARLA DEI GAY. COSI' SEI CONTENTA".
"Non bestemmiare, non..."
"SE IL PROF NON NE SA UN CAZZO MI INFORMO IO, VADO ALL'ARCIGAY, CE L'AVRANNO BENE DEL MATERIALE INFORMATIVO. BASTA CHE LA PIANTI MAMMA".
"Ma perché ti comporti così? Sempre il contrario di quello che ti chiedo. Non capisco".
"PERCHE' SONO UN FOTTUTO ADOLESCENTE, MAMMA! Ci comportiamo così, non lo sapevi?"
"No".
"Ma non l'hai fatta educazione all'affettività alle medie?"
4. Visitate spesso il sito internet della scuola per verificare che il gender non passi attraverso ulteriori lezioni extracurricolari (es. Assemblee di istituto o altre attività straordinarie ).
"Beh, senti questa. Sai che gestisco il sito della scuola, no?"
"Dev'essere eccitante".
"Meglio della vernice che si asciuga. Beh, c'è un IP che tutti i giorni entra nel sito della scuola. Tutti i giorni".
"Un maniaco".
"Ma non è tutto. Tutti i giorni fa le stesse query. Le stesse".
"Ovvero?"
"GENDER".
"Uhm..."
"SESSUALITA'. ADOLESCENTI. GAY. LESBICHE".
"Sul sito della scuola".
"Sul sito della scuola".
"Hai l'IP?"
"Certo".
"Perché forse una segnalazione alla polizia postale, hai visto mai..."
"Già fatta".
"Bene".
COSA FARE SE LA SCUOLA ORGANIZZA LEZIONI O INTERVENTI SUL GENDER PER GLI STUDENTI
6. Date l’allarme! Sentite tutti i genitori degli studenti coinvolti e convocate immediatamente una riunione informale, aperta anche agli insegnanti
L'ideale sarebbe installare in tutte le case dei compagni dei vostri sanissimi figli un allarme di quelli assordanti, collegato alla vostra abitazione: appena scoprite che la scuola organizza lezioni, GONG! ALLARME GENDER! Fino a quel momento dovrete rassegnarvi a usare uno strumento un po' meno molesto (comunque il più invasivo a vostra disposizione): il telefono.
"Pronto".
"Sono Xyx, il rappresentante di classe..."
"Ah, è per la gita di istruzione?"
"No..."
"Perché io già gliel'ho detto alla prof di francese, che novanta euro mi sembrano troppi francamente".
"È che a scuola è successo un problema..."
"Già gli ho appena sborsato i venticinque del contributo volontario, che almeno la piantassero di chiamarlo volontario visto che non ti smollano finché te li han scuciti, e poi l'assicurazione per la palestra che è volontaria pure quella ma se non paghi tuo figlio non va in palestra.., ma voi rappresentanti ne avete parlato con il preside di questa roba?"
"Ma questa è un'altra cosa, un po' più grave".
"Sentiamo".
"Ecco, la scuola sta organizzando una lezione sul gender".
"Sul che?"
La scuola dei poliziotti buoni
03-11-2014, 18:31delitti e cronaca, scuolaPermalinkServitori dello Stato, come si usa dire, e lo sono anch'io. Tra l'altro più o meno lo Stato ci paga uguale. Non ci avevo mai fatto molto caso; poi hanno assolto guardie carcerarie e infermieri e adesso mi sembra davvero veramente strano: lo Stato che non vede nessun crimine nel lasciar morire Stefano Cucchi su una brandina è lo stesso che mi mette in mezzo se un ragazzo si fa male in corridoio.
Io - per chi si è appena sintonizzato - non faccio la guardia, bensì l'insegnante. Sono penalmente responsabile non solo del male che faccio ai ragazzi (evito per quanto possibile anche solo di toccarli), ma anche di quello che si fanno in mia presenza. In realtà sono responsabile anche del male che si fanno in mia assenza, perché non sempre mi trovo a essere dove dovrei. I ragazzi ogni tanto chiedono di uscire per andare in bagno - è un loro diritto - se nel tragitto qualcuno li prende a sberle, e succede, io sono responsabile. Se in bagno trafficano foto col cellulare, ciò mi può essere imputato, in quanto successo mentre io avrei dovuto vigilare (nel bagno?)
Questa cosa è particolarmente interessante, perché onde evitare appunto lo scambio di foto e altri contenuti francamente non didattici, molti istituti proibiscono agli alunni l'uso dei cellulari. Ma non possiamo impedire agli stessi alunni di portare il cellulare a scuola; né perquisirli; se glieli sequestriamo, come a volte avviene, un genitore può denunciarci per furto, come a volte avviene. (Comunque se il progetto renziano di Buona Scuola andrà avanti, tra un po' tutti gli alunni arriveranno a scuola col tablet comprato dalla famiglia - in pratica lo scambio di foto e contenuti, da proibito, diventerà in qualche modo incentivato. Sarà una rivoluzione abbastanza copernicana).
Poi c'è l'intervallo, durante il quale i ragazzi vanno un po' dappertutto e l'insegnante a volte persino in bagno, ma anche in questo caso sarà ritenuto responsabile se qualcuno si fa male. C'è quel delicato momento in cui suona l'ultima campana e i ragazzi lasciano le aule - ma gli insegnanti sono ancora responsabili della loro incolumità finché quelli non hanno superato il cancello, e molti non lo lasciano ancora per una mezz'ora; è un bel posto dove prendersi a cinghiate. Anche in questo caso insegnanti o personale non docente potrebbero essere ritenuti responsabile. Al limite il dirigente scolastico. C'è sempre un responsabile a scuola, non c'è proprio modo di evitare che ci sia. A scuola. In caserma, o in carcere, il discorso è evidentemente diverso.
Poi c'è la gita scolastica, durante la quale l'insegnante è responsabile di qualsiasi cosa avvenga a qualsiasi ora del giorno e della notte. Se approfittando della stanchezza dell'insegnante, un ragazzo decide di raggiungere gli amici saltellando su un cornicione; se cadendo riporta lesioni alla spina dorsale, l'insegnante che ha scelto quell'albergo dotato di cornicioni pericolosi (e che mentre i ragazzi vi saltellavano dormiva!) sarà ritenuto responsabile e dovrà corrispondere alla famiglia dell'invalido un adeguato indennizzo. Non è lo scenario peggiore che possa venire in mente a un insegnante pavido in cerca di scuse per non portare classi in gita, è una sentenza della Cassazione. E d'altro canto l'insegnante non è mica un tour operator, è un servitore dello Stato. I genitori gli affidano i ragazzi, e lui ne risponde.
Già.
Poi può capitare agli stessi ragazzi, qualche anno più tardi, di venire a contatto con miei colleghi in divisa blu o nera e magari aspettarsi la stessa animosa sollecitudine. Ecco, qui forse c'è un problema. Non è tanto la violenza dello Stato. Forse basterebbe spiegarlo da subito, che lo Stato è un'entità violenta; che i suoi servitori possono, senza pagarne le conseguenze, picchiarti a sangue e lasciarti morire. Uno poi lo sa e si regola di conseguenza.
Cucchi è morto perché rifiutava cibo e cure. Voleva parlare col suo avvocato. Non poteva uscire nel corridoio o recarsi in bagno; non poteva saltellare da un cornicione. Era immobile, su un lettino di ospedale: preoccuparsi del suo stato non doveva essere cosa al di sopra delle possibilità del personale ospedaliero e delle guardie carcerarie. In qualsiasi altra istituzione, se un cittadino si fa male, c'è un responsabile che paga. Magari è assente, ma è comunque il responsabile. Se durante un'evacuazione in una scuola un ragazzo urta uno spigolo, qualcuno dovrà rispondere di quello spigolo che forse a norma di legge non doveva essere lì. Ma se un cittadino viene trattenuto in caserma, e poi tradotto in carcere, e da lì in ospedale, e durante questa trafila viene occasionalmente malmenato, e poi rifiuta le cure, pare che la responsabilità sia soltanto sua, del suo stile di vita. Nessuno evidentemente è responsabile di quanto succede tra caserma e carcere e ospedale. D'altro canto non è mica la scuola, è il mondo degli adulti.
Non chiederò il frustino per ripristinare l'equilibrio, non saprei come si maneggia e probabilmente farei del male a me per primo. Mi resta uno strano vuoto allo stomaco, la sensazione di essere un omino di burro, un tizio che fa il buono di mestiere, come lo fanno i poliziotti buoni. Tra i servi, quello sciocco e bonaccione che accoglie gli ospiti all'entrata e li consegna con molte premure ai colleghi dei bracci interni. Non è gente meglio pagata di me, né più professionale: la differenza che salta agli occhi è che loro hanno il volto coperto.
I piccoli elettori della Prima Esse
02-10-2014, 17:51racconti, repliche, scuolaPermalink(È un pezzo di qualche anno fa).
"Buongiorno, è la Prima Esse questa?"
"Sì, ma tu chi sei, signore?"
"Io sono il supplente".
"E la profFarfarella?"
"Non so, immagino che sia ammalata".
"Quindi non c'è".
"Infatti ci sono io che sono il supplente. Quindi voi siete la Prima Esse. Era da un bel pezzo che non venivo qui, ma vedo che, ehm..."
(L'intonaco scrostrato trattiene poche tracce dell'ultima mano di verde marcio. Dal soffitto secentesco - quest'ala della scuola è stato un convento, una casa di reclusione per figli indesiderati - pendono ragnatele ripugnanti, scure come i rami, dita di un orco che picchietta alle finestre, "fammi entrare". Tre cartelloni sull'apparato digerente ornano la parete in fondo, chi li ha disegnati si è laureato da un pezzo ed ha lasciato il Paese per sempre. Intorno al termosifone le zanzare africane fiutano la carne fresca e scaldano i motori. L'ultima classe che ho avuto qui dentro contava tre dislessici, due asociali e tre possessioni demoniache).
"...vedo che è tutto al suo posto come sempre. Bene. Facciamo l'appello? Abati, Bandiera, Bauadanogou, si pronuncia così? Carotone".
"Catorone".
"Ops, scusa. Dgfhj. Elamiri. Fghkj".
"Fkhjg".
"Scusa anche te. Beh, mi sono un po' stancato di questo appello. Ditemi chi non c'è e facciamola finita".
"Scusa signore, ma tu sei un professore?"
"Sì".
"Ma in che classe insegni?"
"Insegno in una classe lontana lontana, dall'altra parte del plesso".
"E cosa insegni?"
"Mah, di solito italiano, storia, geografia..."
"Ma noi adesso avevamo matematica, tu la conosci la matematica?"
"Beh, boh, dipende. Cosa avevate per oggi?"
"I numeri irrazionali".
"Ah, bene, ecco, ho un'idea. Come sapete alla quarta ora c'è l'elezione dei rappresentanti".
"Cos'è l'elezione dei rappresentanti?"
"Ecco, appunto, potremmo usare questa ora per parlarne, che ne dite?"
"Ma è vero che dobbiamo votare?"
"Dunque, su questo vorrei esser chiaro, perché a volte ci sono dei ragazzini che confondono un po' la realtà coi telefilm e pensano che si tratti di votare per la ragazza-o più carina-o, ecco, no, non c'entra niente. Anzi, se volete un mio consiglio, votate dei tipi anche bruttini ma determinati, perché in pratica si tratta... avete presente il Preside? Ecco, i vostri rappresentanti andranno a parlare con il Preside".
"Ma cosa hanno fatto di male?"
"No, niente! Non hanno fatto niente di male, anzi... dunque, ricominciamo. Vi siete mai chiesti chi comanda nella scuola? Cioè chi ha deciso, poniamo, che la scuola comincia il 15 settembre e che il riscaldamento si accende oggi e la campana suona alle otto eccetera?"
"Berlusconi".
"No. Cioè, anche lui in un certo senso, ma prima..."
"Il preside".
"Beh, senz'altro il preside è importante, ma non decide tutto lui. Ci sono infatti altri organi, per esempio c'è una riunione di tutti i docenti, cioè gli insegnanti, che si chiama appunto collegio docenti. E poi c'è il consiglio di istituto, e ce ne sono altri che sulla lavagna non vi scrivo perché francamente li devo ancora capire io, comunque il senso è che tutti decidiamo un po', nella scuola. I docenti, i collaboratori che sarebbero i bidelli, i funzionari che sarebbero le segretarie nell'ufficio là in fondo, insomma tutti. No, aspettate. Mi sto dimenticando qualcuno. Di chi mi sto dimenticando?"
"Il cane del bidello Guercio".
"Quello in teoria non dovrebbe entrare. No. Parlo di un sacco di gente che viene a scuola tutti i giorni, ma non sono docenti, non sono collaboratori, non sono funzionari, non è il preside, insomma, chi è?"
"Siamo noi".
"Ecco, questa cosa a un certo punto è sembrata ingiusta al preside, che disse a noi insegnanti: perché non facciamo anche un'assemblea degli studenti, con i rappresentanti eletti di tutte le classi? E noi insegnanti gli rispondemmo - io mi ricordo, ero al primo incarico - gli rispondemmo che era una follia, far votare gli undicenni, che se vi lasciavamo soli con delle schede e una scatola per mettercele dentro (si chiama urna elettorale) probabilmente vi sareste mangiati le schede e poi vi sareste buttati dalla finestra, perché insomma, in quegli anni non ci fidavamo molto degli studenti. Ma lui volle provare e devo dire, dopo tanti anni, che forse aveva ragione, nel senso che non c'è quasi più nessuno che si mangia le schede, anche i precipitati dalle finestre non sono aumentati negli ultimi anni, in compenso adesso c'è questa assemblea di studenti che può fare proposte anche molto costruttive".
"Scusa professore..."
"Prova a dire Scusi professore, dai".
"Scusi professore, dai, ma non ho capito. Vuole dire che noi possiamo fare delle proposte al Preside?"
"Vedi che invece hai capito benissimo? Soltanto che non potete andarci tutti, dal Preside, e quindi ci mandate due rappresentanti - un ragazzo e una ragazza. Quindi alla quarta ora vi porteranno una scatola, delle schede, e ognuno scriverà sulla scheda il nome di un ragazzo e di..."
"Posso votare per due maschi?"
"No. Devi votare per un maschio e per una femmina".
"Ma io non voglio votare una femmina!"
"Abituati all'idea".
"Ma non posso votare per chi mi pare?"
"Beh, sarebbe meglio che qualcuno si candidasse... cioè, qualcuno dicesse a tutti gli altri: voglio provarci, voglio essere io il vostro rappresentante, dal Preside ci vado io... e se mi votate, prometto che gli chiederò... ecco, cosa chiedereste al Preside? Pensateci bene, e mi raccomando, non fate le solite proposte assurde, tipo..."
"Allungare l'intervallo!"
"...è un classico. No, questa non si può fare".
"Perché?"
"Perché l'orario della scuola non dipende dal Preside, ma dall'ufficio da cui dipendono tutti i presidi d'Italia, che si chiama Ministero (la faccio molto più semplice di quanto non sia, ma fidatevi), e quindi no, l'orario non si cambia: l'intervallo non si allunga e le lezioni non si restringono".
"E più ore di fisica?"
"Fisica nel senso di Scienze Motorie? Non si può. Bisognerebbe togliere altre lezioni, e quali? E poi nominare altri insegnanti, e probabilmente ci vorrebbe un'altra palestra, e quindi no, non è una promessa elettorale realizzabile, mi dispiace".
"Ma allora è una fregatura. Non è vero che possiamo decidere".
"Non potete decidere su tutto subito, tante grazie. Avete undici anni. E comunque chi credete che decida per voi? Il Ministro, lo sapete chi lo nomina?"
"Berlusconi".
"Complimenti. E Berlusconi chi lo ha nominato?"
"Si è nominato da solo".
"No, anzi, ha dovuto spendere un sacco di soldi, mettere i manifesti, perché? Perché è stato e-let..."
"Eletto?"
"...proprio come i vostri rappresentanti, solo che lui è stato eletto dalla maggioranza degli italiani, che ha votato per il suo partito, e quindi il presidente Napolitano lo ha chiamato nel suo palazzo che si chiama il Quirinale e gli ha detto: Berlusconi, ti do l'incarico di formare un governo nominando i ministri che credi siano i migliori sulla piazza, e lui l'ha fatto".
"Ma Napolitano sta a Napoli?"
"Sta a Roma. Quindi, ricapitolando: l'intervallo non si può allungare perché è di competenza del Ministero, che comunque è stato eletto indirettamente dal popolo italiano che sarebbero i vostri genitori. Educazione fisica non si può raddoppiare. Cosa si può fare?"
"La carta igienica nei bagni".
"Bravissimi! Ecco, la carta igienica è un argomento alla vostra portata. E poi?"
"Le ragnatele".
"Per esempio. Ecco, su queste cose i candidati vi possono fare delle promesse. Per esempio: Se votate per me farò togliere i ragni dai soffitti! Cose così".
"Ma se non li hanno fatti togliere i ragazzi dell'anno scorso..."
"Magari non sono stati abbastanza convincenti. Oppure i ragni sono tornati quest'estate. Nessuna battaglia è vinta per sempre in democrazia. Ma sentiamo la vostra compagna che ha alzato la mano. Ti vuoi candidare?"
"..."
"Non fare la timida, eh? Perché se ti votano dovrai partecipare a un'assemblea con quelli di seconda e di terza, e se non prendi la parola loro di sicuro non te la daranno. Dai. Hai delle promesse da fare ai tuoi compagni?"
"Ma io pensavo... che potevamo chiedere di poter usare i cellulari..."
"Eh, i cellulari. Ma lo sapete che è complicato, il discorso-cellulari".
"Però la profFarfarella..."
"Sapete che all'inizio dell'anno abbiamo fatto firmare ai vostri genitori un avviso che parla chiaro: non li vogliamo vedere. Perché poi va a finire che li usate per scambiarvi le foto, poi si vedono le pareti dei bagni della scuola su facebook, insomma non è tanto bello".
"Però i miei mi hanno detto che lo devo portare lo stesso, perché se mi succede una cosa grave..."
"Tipo che rimani schiacciata sotto un armadio e non riusciamo a capire chi sei, ma ti riconosciamo dal cellulare, una cosa così?"
"Ma no, però mettiamo che foro la bicicletta".
"Eh, capisco. E pensa che per un secolo i tuoi compagni sono venuti a scuola in bicicletta ma senza il cellulare, perché non lo avevano ancora inventato, e quando foravano, sai cosa gli succedeva?"
"No prof".
"Guarda, è una cosa molto triste. Passava un orco e se li mangiava, poi sputava le ossa qui intorno".
"..."
"Sul serio, nel seminterrato abbiamo l'ossario, l'ossario di tutti i bambini che sono venuti a scuola in bicicletta senza cellulare dal Seicento in poi, è una storia tristissima. Pensate anche solo alle povere madri, che al mattino abbracciavano il bambino pensando: lo rivedrò?"
"Prof, lei non ci sta prendendo molto sul serio".
"Hai ragione, scusa. Comunque la questione è molto semplice: se un prof vi vede il cellulare ve lo sequestra, ma il prof non ha il diritto di perquisirvi, quindi se lo tenete spento... ma per spento intendo spento, non come quelli che dicono che tolgono la suoneria e poi hanno un vibro che vengono giù le tegole".
"Però alla profFarfarella le suona sempre".
"Ma quello che c'entra scusa, lei è una prof... le prof hanno regole diverse"
"Ma una volta che faceva lezione le hanno telefonato dieci volte per offrirle dei lavori e lei diceva sempre di no e metteva giù".
"Ecco, lo so perché ci sono passato, si vede che la vostra prof è una precaria, cioè il suo nome è in una lista, e quando in una scuola si libera un posto, devono chiamarla, e finché lei non risponde anche solo per dire di no, loro non possono chiamare un'altra, capite? Per cui uno deve portare sempre il cellulare con sé, ma è per una cosa seria, mica per l'orco delle ruote sgonfie. Dovete capire che gli adulti hanno delle preoccupazioni che voi nemmeno..."
"Ma di solito lo usa per chiamare suo marito".
"Magari suo marito sta molto male, che ne sai. Non si deve mai giudicare il p..."
"Ma gli dice delle cose tipo Butta la pasta"
"Stavamo parlando di candidati alle elezioni. Qualcun altro si vuole candidare, o anche solo suggerire delle proposte? Tu là in fondo, dai".
"Io... la macchinetta delle merendine".
"Ecco, guarda, me l'aspettavo. Perché sto invecchiando. La macchinetta delle merendine, ragazzi miei, io capisco che vi possa sembrare una cosa fantastica, ma credetemi, è un diabolico arnese. Una volta ce l'avevamo, sapete?"
"Infatti mia sorella..."
"Ecco. Però forse tua sorella non ti ha raccontato di quando passava metà dell'intervallo a far la fila per comprare una merendina che costava dieci volte il prezzo che spenderebbe tua mamma al supermercato. E tutte le monetine che si è mangiata senza restituirle. E tutte le volte che premendo schiacciatina usciva il terribile fruttino alla pera appiccicosa. Lo so anch'io che fa scena, una bella macchinetta delle merendine, ma quando il principale passatempo dei ragazzi di terza diventa prenderla a spallate, e i bidelli li aiutano pure... insomma c'è un motivo se l'abbiamo tolta e..."
"Ma al piano di sotto ce l'hanno".
"Ma quella è la macchinetta dell'acqua".
"Ma adesso ci hanno messo dentro le merendine".
"Sul serio?"
"Sììììì".
"Questa è un'ingiustizia però".
"Allora possiamo chiederla anche noi?"
"Beh, in linea di... cioè io non vi appoggio assolutamente... ovvero vorrei che fosse messo a verbale che è una proposta che non condivido, però se al piano terra l'hanno messa, voglio dire, voi chi siete? I figli delle badanti?"
"Ma prof".
"Dicci".
"Nella scuola elementare che facevo io, nell'intervallo, passava il bidello Giorgio col carrello con le focaccine".
"Ma pensa".
"Che erano molto buone perché le andava a comprare calde nel forno, e c'erano anche le fette di pane con la marmellata o la nutella".
"E la tua scuola si chiamava".
"Santissimo Cuore Addolorato della Beata Vergine".
"Invece questa si chiama Scuola Pubblica, benvenuta. È la campana, questa? Scusate, eh, resterei con voi tutto il mattino, ma devo andare dai miei".
"Ciao prof"
"Si dice arrivederci".
Il piccolo centravanti africano
03-09-2014, 02:37calcio, migranti, racconti, ragazzini, scuolaPermalinkNon è che gli alunni mi salutino mai troppo volentieri, incrociandomi sul corso; ma è ai primi di settembre che cominciano a nascondersi dietro le colonne, quasi vergognandosi di abbronzature perfette. Hanno un gelato in mano e una ben più fredda consapevolezza sulle spalle: non ce la faranno mai a finire i compiti. Li hanno appena iniziati. Forse non vale neanche la pena di provare. Io faccio finta di niente, e penso che forse era più onesto Mahmadou.
Mahmadou era nero e centravanti prima che fosse cool. Non era esattamente un campione - sgambava tra l'area e il centrocampo in magliette sempre troppo larghe sulle spalle, eredità di un fratello maggiore; aveva fiato e un buon tocco, ma era ancora troppo cucciolo per mettere in soggezione terzini e portiere. Anche i suoi compagni più cari lo chiamavano Mamma, soprannome sommamente infelice a cui si era affezionato. Mamma me lo disse chiaro e tondo, quando in giugno fui per dettare i compiti delle vacanze: non se li sarebbe scritti, un po' perché aveva lasciato a casa il diario, un po' perché dai, non ne valeva la pena; quell'anno andava in vacanza anche lui, e non poteva portarsi i libri giù in Africa.
Obiettai che poteva farne comunque un po' prima di partire; mi spiegò che partiva subito, appena finita la scuola; che non ci sarebbe stato nemmeno il tempo di mandare i genitori a ritirare la pagella, l'aereo si stava già scaldando sulla rampa. Né poteva posporli al ritorno, i compiti, perché sarebbe tornato tardissimo, a settembre inoltrato, se non più in là: non dovevamo però preoccuparci, potevamo benissimo cominciare la scuola senza di lui. Portarsi i compiti giù al villaggio? Fuori discussione: anche se si fosse trovato un posticino in valigia - e non c'era - Mamma mi spiegò che la vita nel villaggio è molto diversa da quella che conduciamo qui: c'è tutta una dimensione comunitaria che purtroppo a noi sfugge, blindati come siamo nelle nostre nicchie alienanti. Una volta arrivato laggiù, Mamma si sarebbe messo immediatamente a giocare a pallone coi suoi amici, perché è così che funziona; e non avrebbe smesso finché l'aereo del ritorno non avesse iniziato le procedure di decollo. Mi spiegò, Mahmadou, che la sola idea di dire ai coetanei: "ora non posso giocare, devo fare i compiti" era da rigettare come un ingenuo cascame del mio colonialismo interiore: in una società rurale africana non ci si può isolare dal gruppo, non si possono fare i compiti. La volontà di isolarsi si trasforma immediatamente in uno stigma sociale, quando non somatizza prendendo le forme di una vera e propria malattia. Davvero volevo renderlo un paria, un lebbroso agli occhi dei suoi fratelli? Non poteva fare i compiti; non dipendeva da lui. Eccetera.
"Ora prendi un foglio e te li scrivi lo stesso".
"Ma prof..."
"Qualcuno ha una penna da prestare a Mahmadou?"
Verso i primi d'agosto ormai l'ordine alfabetico degli alunni è un ricordo lontano, che si infrange tra la lettera G e la L. Per quanto possano riempirmi di vita fino a metà giugno, i loro volti svaporano nel giro di due mesi, e così a momenti non riconobbi Mahmadou, un pomeriggio che passai per l'Africa, diretto alla coop. L'Africa in questione era il parcheggio di un centro direzionale affacciato sull'incrocio: un luogo losco a un'ora dal tramonto, ma ideale per il calcetto, a causa di un materiale gommoso, nero, con cui era stato pavimentato, più morbido del cemento - anche se assorbe il calore del primo pomeriggio come una spugna, e non lo lascia andare fino a mezzanotte. Mamma teneva un Supertele in grembo. Lui e i suoi amici indigeni erano seduti sul muretto che delimitava il continente, a prender fiato: sarebbe stato il momento giusto per un sorso d'acqua o magari un gelato, ma avrebbero dovuto lasciare l'Africa nera, attraversare la strada e aprire una linea di credito col barista cinese.
Mahmadou fu di parola: passò tre mesi interi nella sua Africa di quartiere, senza mai venir meno alle regole non scritte della tribù. A settembre tornò tra noi, senza penna né diario. Com'è andata l'Africa, Mahmadou? Bene, prof, bene. Là è tutto diverso, la vita non stinge sotto la pioggia, né imbrunisce col sole. Ogni cosa ha per sempre quel colore con cui uscì dallo stampo.
Come valutare il Cattivo Insegnante
10-07-2014, 17:47ho una teoria, scuolaPermalinkIn sostanza Reggi non ha fatto che eseguire - con più rapidità, bisogna ammetterlo - il solito schema dei Grandi Riformatori della Scuola Italiana: (1) lanciare idee irrealizzabili, dichiarare guerra a un fronte immaginario di insegnanti sfaccendati, (2) aspettare che qualcuno reagisca protestando; (3) rimangiarsi quasi tutto; (4) non cambiare quasi niente; (5) incolpare delle proprie incapacità gli insegnanti che non avrebbero capito la potenza visionaria delle sue idee. Fanno più o meno tutti così; la Moratti ci mise degli anni, Reggi quattro giorni. Non so cosa sia meglio, ma fin qui è la stessa scenetta. E d'altro canto non è che si possa fare molto di più, finché nella scuola non si decide di investire sul serio.
Su un punto Reggi non cede, ed è la valutazione. Proprio perché bisogna ridare dignità agli insegnanti, Reggi crede che sia venuto il momento di valutarli. Ma come? "La valutazione dovrà essere dunque un risultato che deriva da molti elementi". Giustissimo, ma quali? Per aiutare il ministro a trovarli, ho provato a guardare la questione da un punto di vista un po' diverso dal solito: quello del Cattivo Insegnante. Tutti sappiamo che esiste; ma perché non riusciamo a snidarlo?
C'è un problema. Rispetto agli insegnanti più o meno bravi, il Cattivo Insegnante ha una specie di vantaggio evolutivo. Non deve preoccuparsi, come i colleghi, di entusiasmare gli studenti, confortare i genitori, aiutare i colleghi, soddisfare i dirigenti. Il Cattivo Insegnante deve solo sopravvivere. Mentre gli altri insegnanti si aggiornano, correggono, organizzano progetti, si arrischiano a scortare gli studenti in pericolosissime gite d'istruzione, il Cattivo Insegnante deve soltanto preoccuparsi di difendere il suo habitat dai predatori. Questo lo rende molto più resistente a tutte le minacce esterne, le tempeste e le mareggiate che periodicamente si portano via qualche bravo insegnante stanco e sfiduciato - nel frattempo, all'ombra della macchinetta del caffè il Cattivo Insegnante nidifica. Mettiamoci dunque dalla sua parte. Il Cattivo Insegnante sa che Roberto Reggi vuole eliminarlo. Come può reagire? (Scopriamolo sull'Unita.it, H1t#239)
La riforma coi fichi secchi
03-07-2014, 03:31ho una teoria, scuolaPermalinkLa scuola italiana è il carrozzone che è: non sono qui a difenderla, ma non credo che si possa migliorare a costo zero. Immagino che anche Reggi e il suo ministro lo sappiano benissimo; non sono dilettanti. Ma se i soldi non ci sono, che altro possono fare? L'unica è raccontare e raccontarsi che da qualche parte del carrozzone ci siano enormi rubinetti di denaro o di forza lavoro lasciati aperti; clamorosi sprechi a cui rimediare con tanta buona volontà... e senza investirci un mezzo euro in più. "La scuola italiana costa 55 miliardi l'anno, bisogna usare meglio quello che c'è". Come si fa a usare meglio? Si tengono tutti gli insegnanti a scuola tutta la settimana. Geniale, no? Come mai nessuno ci aveva pensato prima?
In effetti, qualcuno ci avevano già pensato. Finché non si era accorto che la cosa non era né sensata né fattibile. Sulla Repubblica di ieri si menziona una "colossale rivolta del mondo della scuola" che avrebbe impedito al ministro Profumo di aumentare l'orario settimanale degli insegnanti a parità di salario. Faccio appello alla buona memoria dei lettori: Profumo lanciò la sua proposta nell'autunno di due anni fa. Voi ricordate una qualche colossale rivolta, nel mondo della scuola o altrove? Non si riuscì a fare nemmeno uno sciopero unitario. Non furono le barricate dei supplenti storici ad affondare la proposta di Profumo; essa svanì "all'apparir del vero", nel momento in cui si passa dagli slogan al malinconico calcolo dei costi e dei benefici. Poi Monti andò a piagnucolare da Fazio che i poveri docenti non volevano lavorare due ore in più a settimana - dopo avermi chiesto un'ora al giorno senza contrattazione - che brutta figura che le hanno fatto fare professor Monti, che brutta fine.
Ma insomma il copione ormai è questo: (continua sull'Unita.it, H1t#238) si butta lì qualche proposta immaginifica e irrealizzabile a costo zero; si terrorizza qualche decina di migliaia di lavoratori; e se poi non si riesce a concludere nulla, al primo svogliato sciopero a singhiozzo si darà la colpa al “corporativismo della classe docente”. Poi magari mi sbaglio, e ne sarei felice, ma insomma: se i soldi non ci sono, non ci sono.
Gli scrutini di Osvaldo
10-06-2014, 10:38scuolaPermalinkDiciamo dunque che, nella mia dimensione fantastica, questa potrebbe essere la settimana degli scrutini. In questa settimana accadono fenomeni bizzarri, il più frequente dei quali è la trasformazione dei Quattro e dei Cinque in Sei. Succede più o meno a tutti gli alunni che hanno solo una o due insufficienze: a norma di legge dovrebbero essere bocciati, ma bocciati dove? Parliamo di un quinto della popolazione scolastica che ogni anno dovrebbe essere trattenuta in aule che non esistono, da un organico sottodimensionato. Parliamo di nulla, perché questi Quattro e Cinque sulle schede non esistono: nelle ultime settimane l'insegnante sospira e li cancella, e non è possibile nemmeno riconoscerli dalle tracce di gomma sul registro perché magari il registro è on line.
Già a questo livello possono verificarsi malintesi miracolosi, perché se a cinque insegnanti capita di non parlarsi per una settimana (come può capitare spesso a fine maggio, almeno nella scuola della mia fantasia) ecco che l'alunno X può trovarsi abbuonate non una o due insufficienze, ma anche cinque o sei: se tutti gli insegnanti sono convinti che X sia scarso soltanto nella propria materia, e che non valga la pena penalizzarlo più di tanto se non è portato per l'inglese - le scienze - la geografia - il disegno - la ginnastica, via, mica lo possiamo bocciare perché è impedito in palestra. E così può accadere che un impedito globale arrivi allo scrutinio con una media del sei già tonda. Stiamo parlando di impediti normodotati, perché quelli con una certificazione di Disturbo dell'Apprendimento Scolastico sono già fuori dalla discussione: cioè, in teoria li si potrebbe anche bocciare, ma nella scuola della mia fantasia devi prima dimostrare di avere attivato tutta una serie di interventi didattici personalizzati che non hai attivato, perché nessuno ti ha formato o pagato per farli: di modo che promuovere è la strada più semplice è più sicura per evitare ricorsi e seccature sia a te che alla famiglia. E ti fa anche sentire molto don Milani.
A questo punto arriviamo agli scrutini, dove tutti gli insegnanti mettono assieme i voti di tutti i ragazzi, e si ragiona sulla situazione generale. Gli alunni che hanno ancora dei Quattro o dei Cinque, ne hanno veramente tanti: sono ragazzi normodotati la cui situazione globale, già da mesi, era avvertita come precaria dalla maggioranza degli insegnanti. E però di qui a bocciarli ancora ce ne passa. Ragioniamoci. Cosa penserebbe don Milani di noi? Abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare per salvarli? No, in coscienza potevamo fare di più. Potevamo entrare in casa loro con la forza e ripetere le tabelline finché non si addormentavano e anche oltre, e non l'abbiamo fatto. È un po' colpa nostra, insomma. E poi guardate: stiamo promuovendo X. Quell'asino di X lo promuoviamo, e Y no? Com'è possibile? E vogliamo parlare anche di H? D'accordo, è in coma vigile da tre mesi, però cosa penserà Y vedendo che persino un compagno in coma vigile ha voti migliori dei suoi? Non si deprimerà? Vogliamo davvero che si deprima? Siamo forse un consesso di sadici che godono a distruggere i sogni di un preadolescente? In generale no, non lo siamo: e quindi, a maggioranza, promuoviamo. Succede così che anche molti alunni che arrivavano allo scrutinio con sfilze interminabili di Cinque o di Quattro, ne escano con una mediocre ma rassicurante schiera di Sei.
A quel punto avviene un altro tipico fenomeno. Un insegnante - potrebbe essere chiunque, anche quello che si è appena asciugato gli occhi dalla commozione per aver promosso a maggioranza un tizio che entrava con la media aritmetica del Tre e Mezzo - riguarda il tabellone dei voti e dice: ma come, davvero a Y diamo Sei? Ma se diamo Sei a Y, a X come minimo gli dobbiamo dare un Sette, per equità. In effetti non c'è dubbio che X abbia studiato un po' di più di Y, e quindi, per equità, anche se due settimane fa aveva ancora cinque insufficienze, X comincia a ritrovarsi dei Sette in pagella. Da lì in poi parte una reazione a catena, perché se davvero X adesso è da Sette, il suo amico Z che ha studiato veramente tutto l'anno è come minimo da Nove, e che dire del secchione della classe? Bisognerebbe dargli un Dodici, per equità, ma siccome non l'hanno ancora introdotto, accontentiamoci di un Dieci Cum Laude e speriamo che la famiglia non si lamenti. A volte la situazione degenera al punto che qualche insegnante un po' rigoroso sbrocca e comincia ad assegnare Dieci politici a tutti, anche a X e Y, massì, e chissenefrega, tanto mi pagano uguale. A questo punto le pagelle sono pronte, e tutti sono più o meno contenti - tranne gli insegnanti che hanno una terza media.
In terza si fa l'esame. Non solo è l'unico esame della scuola dell'obbligo (quello di quinta elementare è stato abolito anni fa), ma è anche un esame molto impegnativo, con ben cinque prove scritte in soli cinque giorni - e dal mattino successivo cominciano gli orali. Per i ragazzi è uno choc. Non hanno mai fatto un esame, e di colpo si vedono davanti questo che sulla carta è davvero duro. Sulla carta. Ma per fortuna ci sono i loro insegnanti che possono aiutarli.
Gli insegnanti, dal canto loro, si trovano in una situazione particolare. A causa delle reazione a catena sopra descritta, hanno appena consegnato pagelle un po', come dire, ottimistiche. Cosa succederà se il ragazzo non riuscirà a mantenere tante promesse? A Z abbiamo dato Nove, ricordate? Secondo voi ce la fa a prendere Nove alla prova Invalsi? Ma per carità. E tutti penseranno che abbiamo gonfiato i voti. Il che tra parentesi è vero, ma come possiamo fare per evitare che lo pensino?
Possiamo continuare a gonfiarli. Persino il Commissario Esterno, quello che arriva da un'altra scuola e dovrebbe verificare il corretto andamento degli esami, a volte può capitare che passi di commissione in commissione a raccomandarsi: state un po' altini coi voti, ché tanto lo sapete che la Prova Invalsi andrà male.
La Prova Invalsi è un doppio questionario di italiano e matematica che verrà somministrato agli alunni giovedì prossimo. È uguale per tutti, non sempre è ben fatto (anche se negli ultimi anni sta migliorando), ma purtroppo non fa sconti. Mentre la commissione d'esame ormai vive in una dimensione parallela in cui Y si merita Sette e Z Nove, la prova Invalsi è stata confezionata da un pool di intelligenze artificiali che non conosce né Y né Z, anzi probabilmente non ha mai visto un preadolescente in vita sua. E quindi, se Y non sa la matematica, prende Tre. E se Z, che pure s'impegna tanto ed è tanto gentile, non è in grado di leggere un brano di quotidiano e di rispondere correttamente a una dozzina di domande, prende Quattro. Questo agli insegnanti non piace. Cosa volete che ne sappia l'Invalsi, dicono. Davvero pensate che la maturazione dei vostri figli possa essere valutata da un freddo test a crocette? D'altro canto l'Invalsi c'è, e vale da solo un settimo di tutto l'esame. Se Y prende Tre, e se a Y (per tener fede a quello che gli abbiamo scritto in pagella) vogliamo dare Sette, non abbiamo altra scelta: dobbiamo alzare un po' tutti gli altri voti. Tanto chi mai protesterà se alziamo di un punto tutti i temi d'italiano. Chi farà ricorso se all'orale chiederemo soltanto gli argomenti che abbiamo precedentemente concordato, onde evitare figuracce al candidato e a noi. Non è colpa nostra, capite, è il Sistema che ci costringe. Il Sistema ci invita a regalare tanti Sei; noi ci facciamo prendere e cominciamo a regalare anche i Sette, gli Otto, i Nove; a quel punto il Sistema si rifà vivo con la prova Invalsi e noi ormai siamo in un circolo vizioso. Dobbiamo regalare altri voti per evitare che qualcuno si accorga che li abbiamo regalati. Per fortuna tutto questo avviene solo nella mia immaginazione.
Buongiorno, ora mi conoscete. Mi chiamo Osvaldo Guazzi e non sono mai entrato in una scuola media in vita mia. E comunque in generale sono un gran bugiardo, non mi fiderei mai di qualcuno che credesse alle cose che scrivo. Ma se in questi giorni vi capita di ritirare la pagella di un vostro figlio, non meravigliatevi più di tanto. Soprattutto non lamentatevi con gli insegnanti dei voti troppo bassi. Non sono troppo bassi, fidatevi. Non sono mai troppo bassi.
Picchiare maestre, mendicare clic
29-04-2014, 03:08blog, internet, scuolaPermalinkLa settimana scorsa, mentre vago su facebook in cerca d'ispirazione, una notizia ottiene la mia curiosità: una maestra è stata presa a schiaffi e a calci dai genitori di un suo alunno, a Roma. I motivi per cui questa informazione mi raggiunge sono molteplici, ma facilmente intuibili anche senza conoscere il misterioso algoritmo con cui fb decide quali notizie metterci davanti. Il fatto di avere molti amici insegnanti senz'altro fa sì che un fatto di cronaca del genere abbia più chance di apparire sulla mia bacheca, dove arrivano appunto le notizie che i miei amici segnalano e commentano.
Una maestra presa a calci, da questo punto di vista, sembra avere molte chance, eppure forse non bastava. Quello che ha smosso i miei colleghi a commentare la notizia - e a farmela notare - è stato l'atteggiamento di un cronista, che su un piccolo quotidiano on line l'ha commentata prendendo le difese dell'alunno. Come dichiara egli stesso nelle prime righe, la sua è addirittura un'arringa: "A scanso di equivoci premetto subito che la mia arringa sarà a favore dell’alunno e dei genitori e non della docente". Di seguito, una serie di affermazioni provocatorie che implicitamente giustificano la reazione violenta dei genitori: cosa aveva fatto la maestra di così orribile da meritarsi schiaffi e calci? Aveva messo una nota sul diario. Pare che non si possa più. "La comunicazione della “signora” maestra non è stata etica e il boomerang l’ha colpita ineluttabilmente. Un docente, non può perdere lucidità e competenza, non può perdere di vista l’obiettivo dell’insegnamento, quello di non offendere la dignità di un bambino. Il progresso scientifico, civile, normativo, culturale non può essere annullato da un modus operandi di ritorno della riforma Gentile nella scuola odierna. L’insegnante avrebbe dovuto prendere per mano quel bambino e cercare di capire quel “continuo disturbare” con un bacio, non con la spada".
A quel punto, voi come reagireste? Calatevi nei panni di un insegnante: un tizio sta scrivendo che una vostra collega si è meritata schiaffi e calci per aver messo una nota a un bambino, per aver offeso la sua dignità eccetera. Non vi viene voglia di reagire, magari con un commento ironico, stizzito, indignato, eccetera? Ecco, appunto. La stessa reazione l'ho avuta io, ma dopo alcuni secondi ho iniziato a sentire che qualcosa non andava. Devo avere sviluppato una specie di sesto senso, a furia di navigare tra newsfeed e bacheche. Quando sarebbe stata picchiata questa maestra? L'articolo non dava nessuna indicazione di tempo. Né di luogo. Una ricerca veloce su google news e sui principali quotidiani romani non mi porta a nulla. L'unico sito a parlarne è, appunto, quel piccolo "quotidiano indipendente" on line che ne approfitta per criticare la comunicazione della signora maestra. Altri siti riprendono la stessa notizia dal piccolo quotidiano. Insomma, ha tutta l'aria di essere una bufala. Una piccola, geniale bufala artigianale. Forse è questo che la rende, nel suo piccolo, più inquietante.
Questo si chiama "Corriere del Corsaro". |
Ma quello che ha fatto il piccolo quotidiano on line in questione è interessante: non solo ha inventato una notizia, ma ha anche azzeccato il taglio giusto con cui affrontarla: un'opinione talmente provocatoria da forare il monitor e costringerci a commentare, a linkare, a segnalare. Chi ha scritto il pezzo, avrete notato, sa a malapena mettere la punteggiatura; ma ha già interiorizzato l'arte di farsi largo sulle bacheche: che in questa fase pare sia l'unica a garantire la sopravvivenza di chi su internet vorrebbe viverci. Siccome siamo - non so se l'avete sentito dire - in un periodo difficile: la carta non vende più, e su internet si fatica a conquistare inserzionisti. Bisogna dimostrare di avere tot accessi, e il modo per ottenerli è farsi notare su facebook: e su facebook ci si fa notare così. Tra le poche cose che abbiamo imparato c'è quella storia per cui la notizia è uomo-morde-cane: l'evoluzione 2.0 è fotoscioppare un selfie in cui morderemmo un piccolo di labrador linkando il nostro post in cui inneggiamo alla violenza sui cuccioli. Andrà a finire così? Le nostre bacheche - e il tempo che ci occupano - saranno sempre più piene di questa merda inutile?
La mia speranza è che il sistema si auto-regoli, come si è regolato tante altre volte in cui temevamo che qualcosa avrebbe ucciso internet e invece alla fine no. Troveremo un nuovo equilibrio: per esempio diventeremo sempre più bravi a evitare le bufale. Quel sesto senso che ha cominciato a pizzicarmi, pochi secondi dopo aver letto il pezzo sulla maestra malmenata, diventerà un'abilità sempre più diffusa. Per fare un altro esempio, io ormai le liste non le clicco più. Se leggo "Non crederai..." o qualche altro titolo alla buzzfeed, non ci casco più. Preferisco non pensare a quanti mesi ci ho perso, ma ne sono uscito. Mi piace pensare che è una fase come tante altre, e finirà come è finito myspace o second life o la grande classifica dei blog.
Ma chissà se è vero. Certe dinamiche erano più chiare quando internet era un club più o meno riservato: oggi ci vengono tutti, veramente tutti, i soldi continuano a essere pochini ma fuori evidentemente ne girano persino meno, e la concorrenza comincia a essere pesante. Far sì che un mio pezzo non affondi al primo rimbalzo sui social network è sempre più difficile. Capisco benissimo il perché: pezzi lunghi, argomenti di nicchia - per farla breve, non mordo cani. E allo stesso tempo, continuo a provarci: se la parola "grillo" in un titolo vale cinquecento clic in più, non ho vergogna a usarla. Internet ha sempre funzionato così, non è che uno può accorgersene all'improvviso nel 2014. Uno spazio recintato per intellettuali al riparo dalla corsa al link non c'è, e se ci fosse non mi farebbero comunque entrare.
Non ho intenzione di stilare un manifesto per la resistenza umana su internet o cose del genere. Avverto solo che resterò ancora un po' qui, cercando nuove formule di compromesso tra intelligenza ed esibizionismo, segnalando e commentando le cose interessanti che troverò sul mio cammino, e cercando di ignorare tutto ciò che cercherà di farmi perdere il tempo. Finché continuerà a essere divertente: fin qui lo è stato molto, almeno per me. Spero anche per voi.
In diretta su Fahrenheit alle 15.
24-09-2013, 13:06scuola, segnalazioniPermalink...e adesso vado a leggere cosa ha dichiarato la ministra Carrozza sull'insegnamento della Storia contemporanea nelle scuole.
(Quando sarà disponibile il podcast lo lincherò qui sotto, non temete).
Update: ecco la puntata (ci vuole Real Player)
L'amore non basta (a scuola)
23-09-2013, 02:58internet, scuolaPermalinkDel resto finché c'è gente che questa roba la legge, e la segnala, la condivide, la mette sulla bacheca, certe volte la ritaglia pure e la appiccica sulla bacheca non digitale della sala insegnanti non virtuale... Sì, l'ho fatto anch'io. Ma come si fa a riconoscere quale vibrante editoriale vale la pena e quale è del tutto dimenticabile e ti espone allo scherno di chi magari a scuola ci lavora sul serio? Credo di poter aiutare il lettore indeciso con una Guida a riconoscere la fuffa nei vibranti editoriali di denuncia della situazione scolastica italiana.
1. Entusiasmo a strafottere. Dare un'occhiata a quante volte compaiono parole chiave come "passione" o "entusiasmo" o similari. Se superano la media di una ogni mille battute, siamo in presenza di fuffa.
Un esempio: "Auguro loro di saper ritrovare passione nello spiegare una poesia di Ungaretti, le leggi della termodinamica, la deriva dei continenti, una lingua nuova, la bellezza formale di una operazione di matematica o di un teorema di geometria. Auguro che la loro parola riesca a tenere vivi gli oggetti del sapere generando quel trasporto amoroso ed erotico verso la cultura che costituisce il vero antidoto per non smarrirsi nella vita".
Capite, non è mica solo amoroso il trasporto, è proprio erotico. Strano, perché sono sinonimi. Comunque questo trasporto dovrebbe essere un antidoto. A cosa? Non lo dice. Allo smarrirsi nella vita. Ti senti smarrito? Prova il trasporto erotico! No, non è una linea di autobus con le lapdancer a bordo, è quella cosa che ti viene quando spieghi Ungaretti o le leggi della termodinamica. Non ti senti trasportato? È colpa della scuola italiana che fa schifo. Per colpa di chi?
2. In che anno siamo? Di solito l'opinionista ha in mente un colpevole, per quanto vago. Controlla le sue citazioni: a volte sono vecchie, sfocate come le fotocopie delle fotocopie delle fotocopie: tana fuffa.
Un esempio: "Sempre più si sta imponendo una scuola che il "sogno" di un recente ministro della pubblica istruzione codificava con le tre "i" (impresa, inglese, informatica), cioè una scuola fondata sul principio di prestazione".
Quel ministro "recente" è Letizia Moratti, le tre "i" vennero lanciate mi pare nel 2001 come slogan di una riforma (la Moratti, appunto) che in pratica non entrò mai in vigore, e fu sconfessata persino dal successivo ministro di centrodestra, Maria Stella Gelmini. Sono passati 12 anni, e "Informatica" non vuol più dire niente - almeno nelle scuole dell'obbligo dovrebbe ormai esser chiaro che non si fa "informatica", al massimo si usano un po' i supporti informatici (tablet, pc, lavagne interattive, registri digitali, internet), ma certo non per programmarli. L'Inglese non è aumentato, l'Impresa ha ben altri problemi, insomma le "tre i" esistono soltanto nel repertorio degli slogan, ed è lì che vanno a pescarli ogni tanto gli opinionisti. Che cosa nel frattempo stia effettivamente succedendo nelle scuole italiane non è che c'entri molto.
3. Maledetti pedagoghi d'oggigiorno. Di solito l'opinionista se la prende con 'le teorie pedagogiche in voga', senza però dare l'impressione di avere un'idea precisa di cosa queste teorie dicano.
Un esempio: "Il nostro tempo non concepisce più l'allievo come una vite storta, ma come un computer vuoto. L'apprendimento è il riempimento del cervello di file seguendo l'ideale di un travasamento potenzialmente illimitato di informazioni nella sua memoria".
Ma dove, ma quando, ma chi avrebbe concepito l'allievo come un "computer vuoto", quando tutta la didattica sviluppata, discussa, e a volte anche imposta nelle scuole italiane negli ultimi 15 anni non fa che insistere sul concetto di "competenze", spesso (non sempre) contrapposto a quello di "nozioni"? Al massimo gli insegnanti - per continuare la metafora del computer - dovrebbero preoccuparsi di installare e manutenere un buon sistema operativo: il metodo di studio, ecc.
4. Ned Ludd vive! Molto spesso l'opinionista ha paura della tecnologia. Cioè: non di tutta la tecnologia. Soltanto di quella che non c'era ai tempi in cui scaldava la panca: quei giorni beati che (lo vedremo) sono quasi sempre l'età dell'oro della scuola italiana. Se ha fatto in tempo a vedere in fondo al corridoio una fotocopiatrice, per lui questa tecnologia sarà ok - in caso contrario starà già tuonando da vent'anni contro la scuola delle fotocopiatrici, che ha trasformato gli studenti italiani in polverosi fotocopiatori senz'anima, pallidi e indifferenti ai contenuti che memorizzano, e puzzolenti di toner. Ma più spesso se la prende coi computer.
Un esempio: "All'illusione botanica si è sostituita quella tecnologico-cognitivista: morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici, esaltazione delle metodologie dell'apprendimento, accanimento valutativo,"...
Anche quell'"accanimento valutativo" è notevole: l'odiosa novità di dover mettere i voti in pagella. Però la "morte dei libri" mi sembra più interessante. Dal prossimo anno, se il governo tiene, non sarà più obbligatorio farli acquistare. Gli insegnanti che pensano di poter tirare avanti a libri usati o fotocopie o internet saranno autorizzati a provarci. È senz'altro un duro colpo per l'editoria scolastica - che comunque ha avuto a disposizione di molti anni di vacche grasse per cauzionarsi. In ogni caso parlare di "morte del libro" può sembrare prematuro, anche considerando che quest'anno una famiglia in media ha speso 300€ per alunno per comprare questi poveri libri moribondi. Alcuni comunque si possono già fruire attraverso supporti informatici, e questo all'opinionista risulta insopportabile. Cioè se un bel giorno invece di entrare in classe e dire: aprite a pagina 15 che c'è A Zacinto di Ugo Foscolo, osassi accendere una lavagna digitale e proiettare A Zacinto di Foscolo, e poi dessi il link ai ragazzi chiedendo di parafrasare e memorizzare A Zacinto, il tutto senza passare per un libro, ecco, questo equivarrebbe alla morte delle Poesie di Foscolo.
5. Oltre il principio di non contraddizione. A volte in effetti l'opinionista si contraddice.
Vedi sopra. Prima se la prendeva con la concezione degli studenti come "computer vuoti", l'insegnamento come "riempimento del cervello di file seguendo l'ideale di un travasamento potenzialmente illimitato di informazioni nella sua memoria". Poi l'"esaltazione delle metodologie dell'apprendimento", che agli occhi di molti umili operatori del settore risulta l'esatto opposto: non si tratta di ficcare megabyte di nozioni in un cervello vuoto, ma di installare un metodo che gli consenta di selezionare più tardi con comodo le nozioni da solo. Ma per l'opinionista non va bene neanche questo: non va bene nulla che non coincida col suo ideale pedagogico che, molto spesso, si incarna in una persona: un suo insegnante.
6. Per amore di Giulia. Spesso l'opinionista è ancora innamorato di una sua vecchia prof.
...ma come molte forme di amore, pardon, di trasporto erotico, esso non è che una proiezione di un sentimento che proviamo per noi stessi: siamo individui perfetti. Ne consegue che non possiamo che aver ricevuto la migliore educazione del mondo, in istituti che tutto il mondo ci invidierebbe, da insegnanti che avevano capito tutto di pedagogia. Quindi la nostra apparentemente limitata esperienza scolastica è l'unica vera prova che possiamo portare a suffragio della nostra tesi: io so che tipo di scuola è la migliore: è una scuola fatta di entusiasmo e di passione, cioè quella che ho fatto io provando tanto entusiasmo e passione, grazie a una prof (o a un prof) che mi ha fatto tantissimo entusiasmare e appassionare. Va bene. Valla a trovare. Mandale i fiori. Anche una telefonata. Le farai senz'altro piacere. Ma perché devi usare le pagine di un quotidiano, e far finta che dietro a tanto entusiasmo e passione ci sia un'idea generale di come dev'essere fatta la scuola?
Vuoi l'esempio?
"Sull'importanza vitale dell'ora di lezione mi si permetta un ricordo personale".
Ecco, appunto, no. Bisognerebbe fare divieto a chi a scuola non ci lavora di parlarne permettendosi "ricordi personali", come se avessero una qualche rilevanza statistica. Domani scrivo a Repubblica che i treni da Verona a Modena non dovrebbero fermarsi a Suzzara, che è una fermata inutile, non ci scende né sale nessuno. Ho una qualche competenza per affermarlo? Sono un esperto di traffico ferroviario? Lavoro sui treni? Li prendo almeno tutti i giorni? No, ma... "permettetemi un ricordo personale": l'anno scorso avevo fretta e 'sto cazzo di treno non ripartiva mai, sulla stazione desolata gli avvoltoi proiettavano la loro ombra.
"Da ragazzo frequentavo alla fine degli anni Settanta le aule disadorne di un Istituto agrario specializzato in coltivazione di serre calde situato nell'estrema periferia di Milano. Alcuni dei miei compagni finirono sperduti in India, altri costeggiarono pericolosamente il terrorismo, altri ancora sono stati ammazzati dalla droga. Eravamo in quell'Istituto un manipolo di cause perse. Cosa mi salvò se non un'ora di lezione, se non una giovane professoressa di lettere di nome Giulia [********] che entrò in aula stretta in un tailleur grigio rigorosissimo parlandoci di poeti con una passione a noi sconosciuta? Cosa mi salvò se non un'ora di lezione? Se non quella passione sconosciuta che Giulia sapeva incarnare?"
Va bene, ti ha salvato. È un modo di vederla. Un altro modo è: ha salvato soltanto te. Gli altri, quelli che sono finiti in India o in Autonomia Operaia, non è riuscita a salvarli. Forse con un approccio diverso avrebbe salvato anche loro. Chi lo sa. Forse loro avevano più bisogno di metodo che di amore; forse un altro insegnante con più metodo avrebbe potuto evitare che un paio di tuoi compagni si dedicassero all'eroina, ma magari alle sue lezioni ti saresti annoiato e ti saresti drogato tu. Impossibile saperlo.
"Questa storia non è solo la mia ma è la storia di molti. Cosa ci salvò se non quel desiderio di sapere che si propagava dalla forza della parola dell'insegnante capace di scuoterci dal sonno? Non è forse questo quello che la scuola burocratizzata della valutazione e della informatizzazione sospinta rischia di dimenticare? Non è forse l'ora di lezione che può rimettere in movimento le vite scuotendole dall'inerzia di un sapere proposto solo come un oggetto morto? Auguro a tutti gli studenti di ordine e grado di incontrare la loro Giulia".
Cari studenti, se incontrate una Giulia, diffidate. Ve lo dice uno che, sotto la coltre di luoghi comuni, il senso dell'articolo dello psicoanalista Massimo Recalcati l'ha capito benissimo: l'insegnamento come transfert erotico, l'idea che io sia dietro la cattedra per farvi innamorare, non già di me ma di Foscolo o della Guerra dei Trent'anni o dell'economia del Sudest asiatico. Non dico di essere bravo come la prof Giulia; dico che istintivamente ho sempre cercato di essere quel prof lì. Ma non perché sia convinto che si tratti del miglior prof. possibile: soltanto perché è l'unico alla mia portata. Non sono bravo con le metodologie, non riesco a insegnare un metodo di studio perché non ho mai capito io per primo che metodo di studio avessi: dipende molto dal fatto che alla vostra età non studiavo, mi innamoravo e basta. Così a volte spero che anche a voi basti questo: innamorarsi del commercio triangolare o della sintassi della frase semplice. Ma poi vi interrogo e me ne accorgo benissimo, che innamorarsi davvero non basta. Magari uno su mille ce la fa, e poi scrive sul giornale che la scuola dovrebbe funzionare così. La storia del resto la scrivono sempre i sopravvissuti, in fondo è giusto. Quel che non è giusto è che pretendono di metterci il lieto fine.
Difficilis, querulus, laudator temporis acti
08-09-2013, 00:38chiudere i licei (con i prof dentro), ho una teoria, lingue morte, scuolaPermalinkChi scrive questo genere di cose continua a difendere la vecchia idea del liceo classico che 'apre la mente', anche se non offre competenze immediatamente spendibili, anzi proprio per questo: un luogo comune contro-intuitivo che però è strenuamente difeso da esperti che molto spesso nei classici per coincidenza ci lavorano. Nessuno sembra voler ricordare che il liceo classico, oltre a essere quella famosa fucina di intelligenze eclettiche che il mondo ci invidierebbe, è stato sempre uno status symbol: ci andavano i rampolli delle buone famiglie, non necessariamente i più dotati o motivati. Gli stessi poi proseguivano attraverso l'università, approdando a un buon posto di lavoro a cui erano destinati, spesso non per i meriti maturati studiando i classici. Se in qualche realtà - specie in provincia - questo tipo di civiltà stesse tramontando, io non la troverei una cattiva notizia. Sono sicuro che di studenti di materie classiche abbiamo bisogno. Ma non di tantissimi. Anzi, meglio se pochi, ma bravi veramente.
Io non credo che il liceo classico 'apra la mente' più di altri indirizzi di studio (continua sull'Unita.it, H1t#196)
Riassunto delle puntate precedenti
02-09-2013, 03:09autoreferenziali, governo Letta, scuolaPermalinkL'Italia è il Paese che tanti più svegli di me si sono sbrigati a lasciare. Io mi sono sempre consolato pensando che se i migliori se ne andavano sarebbe rimasto più spazio per mediocri come me: ciò non sta avvenendo. Avrò fatto male i conti. Al centro di questa pianura, mi basta comunque poco per sentirmi privilegiato: una famiglia, un posto fisso, un tetto, un blog dove scrivere quello che mi pare. Non è che ne capisca spesso più dei lettori, questo è implicito ma ogni tanto va ripetuto. Vorrei che in Italia esistesse un partito socialdemocratico che riuscisse a contare qualcosa in Europa: la cosa che gli si avvicinava di più era il Pd di Bersani, ma non è andato molto bene. Quel che è successo dopo l'ultimo voto mi sembra che ci dia una lezione importante: quando gli italiani non sanno da chi farsi governare, ci pensano i democristiani. È una cosa incredibile, perché una volta almeno qualcuno li votava, adesso invece no, in teoria non li vuole più nessuno, ed eccoli lì. Loro se ti distrai un attimo ti fottono, incertezze non le hanno, e quindi sarebbe meglio che non ce le permettessimo neanche noi. Ma noi chi, dopotutto. Già.
Sta per ricominciare la scuola, ho fatto un piccolo esame di coscienza. Tra le tante competenze che dovrei trasmettere ai miei studenti c'è la speranza. Io in questi anni l'ho un po' snobbata, all'inizio pensavo addirittura che non fosse il caso. In fondo sono ragazzini, mi dicevo, le speranze dovrebbero portarsele da casa: speranze immense, impossibili da gestire, al punto che credevo che il ruolo dell'adulto fosse quello di smorzarle un po'. Ricordavo certi miei insegnanti, appesi a speranze un po' datate, speravo di sembrare un po' più sgamato: ma la verità è che non saprei semplicemente spiegare che senso ha il mio insegnare, il loro apprendere, nel Paese in cui sempre più controvoglia abitiamo. Non voglio dire che una speranza non ci sia - non mi alzerei da letto se non ne avessi - ma la mia è così personale, così legata alla mia individuale esistenza che da dentro risulta così complessa e contorta che mi ci perdo e mi annoio io per primo - insomma io sono un tizio che si diverte, spero che un po' si capisca dalle cose che finiscono pubblicate qui.
Mi piace imparare le cose, insegnarle, impararle di nuovo, mi piace cercare di capire, e litigare, soprattutto con gli sconosciuti sull'internet. Tutto questo divertimento, che vergogna, mi compensa evidentemente del vivere in un Paese che va in malora. Ma questo vale solo per me, non è una cosa che si possa dividere o condividere. I ragazzini avrebbero bisogno di speranze un po' più sode; forse anche voi che leggete ne avreste bisogno. In giro ci sono solo quattro deficienti che promettono che senza l'euro o senza l'ici o senza gli africani o senza i magistrati comunisti l'Italia tornerà la quinta potenza industriale. A me basta star qui e dire che non è vero. Ma appena uno mi risponde: cosa proponi? io che posso dire. Propongo di restare qui, e continuare a dirvi che non è vero, che state soltanto dicendo fregnacce; che è prevedibile che le diciate, considerato il momento storico politico ed economico; è prevedibile ma non vi scusa. Forse avevo bisogno di un Paese di mediocri più mediocri di me, e l'ho trovato, senza neanche troppo viaggiare. Forse. Forse l'Italia è il Paese che mi merito.
La prof, il copy e la bufala
01-07-2013, 13:18giornalisti, ho una teoria, scuolaPermalink"Pronto".
"Pronto, parlo con la professoressa Firmata?"
"Sì, ma lei chi è, scusi?"
"Sono il padre di Andrea, ha presente?"
"Andrea?"
"Andrea Dignitoso, il suo studente, quello che lavora in pizzeria..."
"Ma chi le ha dato il mio numero?"
"Mi scusi, pensavo che fosse normale in questo periodo per lei ricevere telefonate da parte dei genitori".
"No, guardi, non è normale per niente".
"Ah".
"Tanto più che suo figlio è sotto esame e io sono commissario interno, capisce".
"Ma è proprio per questo..."
"Preferirei che non insistesse".
"Ma è una cosa importante, ne va del suo futuro".
"È meglio che la chiudiamo qui, mi spiace".
"Aspetti. Aspetti un attimo. Non è come crede lei. Mi ascolti solo per dieci secondi".
"Va bene, sentiamo".
"Io vorrei che lei bocciasse mio figlio".
"Prego?"
"Non so se ha sentito il nuovo decreto del governo..."
"Vagamente, ho fatto tardi a scuola".
"I proprietari del ristorante dove Andrea lavora gli hanno assicurato che potevano finalmente assumerlo in maniera stabile grazie alla nuova legge sul lavoro in cui le agevolazioni sono però riservate unicamente a ragazzi senza diploma..."
"Senta, non credo proprio che le cose stiano come dice lei, non ha nessun senso".
"Ma anche sul sito di Beppegrillo è scritto così".
"Ah beh, allora..." (continua sull'Unita.it, H1t#186)
“Ah beh, allora. Comunque non ha nessuna importanza il perché e il percome, lei non può chiedermi questa cosa per telefono”.
“Ma è l’unica possibilità per Andrea di…”
“Di fare il pizzaiolo? Andiamo. Comunque quello che lei sta facendo non ha senso. Non sono mica io che boccio o promuovo i candidati, non è così che funziona“.
“Ah no?”
“Certo che no. C’è una commissione di sette-otto persone, e io sono una sola. Non si ricorda quando l’ha fatta lei la maturità?”
“È… è passato del tempo”.
“Anche se avessi dei numeri, delle pezze d’appoggio per chiedere la sua bocciatura – e non li ho – dovrei convincere queste persone a commettere un falso in atti d’ufficio”.
“Ma se glielo spiega per bene…”
“È uno scherzo, vero?”
“No, non è uno scherzo, è l’unica possibilità per Andrea di…”
“Di fare il pizzaiolo non in nero. Per consentire ad Andrea di realizzare il suo sogno di pizzaiolo regolare io e otto miei colleghi dovremmo commettere un reato. Sta registrando la telefonata, per caso?”
“Io pensavo che a lei stesse a cuore il futuro di Andrea”.
“Auguro ad Andrea un luminoso futuro nel reame della pummarola, però non andrò nel penale per lui. Tanto più che è assolutamente inutile. Se vuole essere bocciato, c’è un sistema molto più semplice”.
“Sì?”
“Non presentarsi all’orale”.
“Ah già, vero”.
“Non mi dica che non ci aveva pensato”.
“No”.
“Lei non è il padre di Andrea”.
“Certo che sono il padre di Andrea”.
“Dev’essere un padre molto distante, che non ha un’idea di come funzioni un esame di maturità. Ci ha parlato negli ultimi due o tre mesi?”
“È sempre molto impegnato… col suo lavoro a nero”.
“Si dice in nero. Da chi ha avuto il mio numero di telefono? Preferirei saperlo da lei piuttosto che mettermi a fare ricerche”.
“Non sto facendo niente di male”.
“Mi sta chiedendo di commettere un reato. Probabilmente sta registrando la telefonata per screditarmi e invalidare l’esame di qualcun altro. Fosse la prima volta che ci provano”.
“Senta, mi deve credere, non sto facendo nulla di tutto questo”.
“D’accordo, facciamo così. Il suo numero ce l’ho in memoria, una controllatina in questura appena ho tempo la farò, se non le spiace…”
“Va bene, va bene, le dirò la verità. Non sono il papà di Andrea. Sono un copywriter”.
“Ah, ecco!”
“Ecco cosa?”
“Ecco perché non si ricorda come è fatta una maturità!”
“Ma no, l’ho data”.
“Sì, sì”.
“Un paio di volte… da privatista… Senta, non volevo istigarla a commettere un reato. Stavo soltanto facendo uno storytelling“.
“Storytelling non è un sostantivo”.
“Eh? Guardi, è una cosa importante… ci abbiamo messo un’ora di lavoro”.
“Accidenti! Facciamo gli straordinari. E il suo “storytelling” prevede insegnanti fessi che si fanno convincere a bocciare i figli da telefonate qualsiasi?”
“Senta, ma lo ha visto il decreto legge? È così surreale che nessuno può essere certo che quanto raccontato non stia capitando o possa capitare da qualche parte in Italia”.
“Io”.
“Io cosa?”
“Io posso essere certa che nessun padre di figlio pizzaiolo, sulla base di un lancio di agenzia che riassume un decreto in poche righe, stia telefonando ai commissari interni per esortarli a commettere un reato bocciando i loro figli. Quando poi domani si scoprirà probabilmente che il decreto dice un’altra cosa, come sempre. Avete buttato via un’ora di lavoro”.
“Io non credo”.
“A chi pensate di darla una storia così? Al Vernacoliere?”
“A tutti i quotidiani, Repubblica, Stampa, Corriere, tutti”.
“Non abboccherà nessuno”.
“Stavolta l’ingenua è lei. Abboccano. È una bella storia, c’è pure la pizza, a chi non piace la pizza. Anche ai bambini”.
“Ma lo sa persino un bambino che per non essere promossi basta non presentarsi”.
“Non dico che ci cascheranno. Ma faranno finta di cascarci. E dopo due giorni ci presenteremo: siamo stati noi, volevamo far presente il problema, ecc ecc.”
“Senta, è vero che il giornalismo italiano è un po’ in disarmo. Ma a questo livello no, non cadranno”.
“Facciamo una scommessa? Hanno la loro ingenuità da coltivare“.
“Va bene, giochiamoci una pizza”.
“Alla bufala”.
“Ovviamente”.
Non sempre si può perdere
29-01-2013, 10:13Berlusconi, elezioni 2013, futurismi, Monti, Pd, racconti, satira, scuolaPermalink"...insomma, signori, i numeri sono questi".
"Ma non è possibile! Tutti gli altri sondaggi..."
"Tutti gli altri sondaggi, con rispetto parlando, sono specchietti per le allodole. Questi sono i numeri veri e... non hanno pietà".
"Ma com'è potuto succedere! Avevamo otto punti veri di distacco".
"Li abbiamo recuperati abbondantemente, come vede".
"È stato il Monte dei Paschi?"
"È stato un po' tutto l'insieme di cose. Bersani è stato bravo, bisogna ammetterlo".
"Sono stati tutti bravi. Impacciati e confusionari al punto giusto".
"Si capisce che hanno tanta voglia di vincere quanta ne abbiamo noi. E adesso siamo nella merda".
"Via, non precipitiamo...."
"Altro che precipitare. Qui c'è scritto che vinciamo le elezioni, vi rendete conto? Noi! Vincere le elezioni! È un maledetto incubo!"
"Non è ancora detta l'ultima parola..."
"Sentite, il Capo era stato molto chiaro. Aveva detto che voleva il venti per cento. Fine. Voleva divertirsi, fare un po' l'antieuropeista, dettare condizioni, eccetera. E tornare a casa presto. Una cosa tranquilla. Ve lo ricordate, sì? Venti per cento, aveva detto. Al massimo 25, non un decimo di più. Ci andate voi di sopra a dirgli che è già a Palazzo Chigi?"
"Io non so cosa dire, le abbiamo provate tutte. Pure Santoro".
"Lascia perdere Santoro che divento una belva".
"Ma chi poteva aspettarselo... gli avevo scritto apposta quella letterina noiosissima, come facevo a sapere che... sono stati quei due stronzi, veramente stronzi, chi se lo sarebbe aspettato. Gli hanno fatto fare un figurone. Ma senti..."
"Che c'è".
"Magari non gli dispiace poi così tanto vincere".
"No, guarda, proprio non ne vuole sapere. Solo di investimenti ci perde dei milioni con lo spread. E poi che fa una volta che è lì, litiga con la Merkel? Taglia l'Imu, esce dall'Euro? Rinegozia il fiscal compact? Ammesso che sappia cosa sia".
"Ecco, appunto, cos'è?"
"Senti, lascia perdere. Noi non siamo qui per far politica. Siamo qui per far perdere le elezioni a Silvio Berlusconi, che ci paga per questo. Possibile che sia così difficile? È un vecchio bavoso e avido, che altro possiamo aggiungere al pasticcino di merda per renderlo immangiabile? Controlla il calendario".
"Che c'è sul calendario?"
"Non lo so, controlla. Mi do una settimana. Voglio perdere quattro punti in una settimana, perdio, controlla se ci sono delle scadenze importanti, degli anniversari, roba così".
"Mah, è fine gennaio... c'è la Giornata della Memoria".
"Bingo! Lo facciamo andare in qualche luogo simbolico, cerca se ci sono luoghi simbolici in zona".
"A Milano c'è un memoriale della Shoah".
"Lo mandiamo lì e gli diciamo di dire due paroline antisemite".
"Ma sei sicuro?"
"È terrorizzato dall'idea di vincere, vedrai che farà tutto quello che gli diciamo".
"No, dico, sei sicuro che con l'antisemitismo perde punti? Potrebbe anche recuperarne".
"Dici?"
"Non so, forse dovremmo prima fare un focus, qualcosa..."
"Non c'è tempo. Senti, proviamo la carta del vecchietto patetico. Niente antisemitismo, una cosa tipo vecchio zio in braghette sotto la copertina, Mussolini ha fatto tante cose buone, eccetera. E vediamo come va. Cosa abbiamo da perdere?"
"Tutto"
"Mi basta un quattro per cento".
Due sere fa, da qualche altra parte:
"...insomma, signori, i numeri sono questi".
"Ma non è possibile! Tutti gli altri sondaggi..."
"Tutti gli altri sondaggi, con rispetto parlando, sono becchime per capponi. Questi sono i numeri veri e... sono devastanti".
"Ma com'è potuto succedere! Eravamo terzi una settimana fa, una settimana fa! E adesso saremmo in testa?"
"Sono stati tutti molto bravi, bisogna ammetterlo. Bersani che si mette a sbranare a vanvera, quell'altro che sbava su Mussolini... due siparietti da commedia dialettale. E d'altro canto son mica scemi, chi glielo fa fare di vincere?"
"Il senso di responsabilità, per esempio".
"Mi sa che dovremo tirarlo fuori noi".
"Ma neanche per sogno, siam già stati responsabili abbastanza. I patti erano chiari: noi dovevamo fare l'ago della bilancia, metterci il know how. Al consenso popolare dovevano pensarci loro, i cosiddetti partiti di massa. Questa è un tradimento da parte loro, è... diserzione. Molto scorretta".
"E che ci possiamo fare?"
"Tanto per iniziare cominciamo a perdere anche noi dei punti, subito".
"Con tutto il rispetto, abbiamo appena mandato il Capo dai terremotati a prendersi le uova marce, e non è servito a niente, continua a sbancare i sondaggi".
"Il terremoto è troppo settoriale, ci vuole un approccio più generalista".
"Ovvero..."
"Non possiamo più permetterci di fare schifo solo ad alcuni, dobbiamo cercare di fare schifo a più gente possibile nell'unità di tempo. Trovare qualcosa che dia fastidio a tutti. Coraggio, ditemi qualcosa che dà fastidio a tutti".
"Le tasse".
"Le abbiamo già alzate, qualcos'altro".
"Le banche".
"Siamo coperti anche lì".
"La sveglia alla mattina".
"Bello spunto, mi piace. Tutti odiano la sveglia alla mattina. Lavoriamoci sopra. Cos'altro odiano tutti? Il lunedì".
"E vabbe', mica possiamo aumentare i lunedì alla settimana".
"Non possiamo nemmeno allungare la settimana lavorativa, siamo liberisti".
"La settimana lavorativa no... ma quella scolastica sì. Le scuole sono ancora di Stato".
"Grazie al cielo, ma che vuoi fare? Se aumenti l'orario devi pagare di più gli insegnanti, hai voglia".
"No. Non è detto. In luglio non li paghi di più, perché le scuole sono praticamente chiuse, ma loro sono reperibili. Bingo! Un bell'intervento contro le vacanze estive!"
"Tutti amano le vacanze estive".
"Lanciamo un'agenzia, cominciamo a dire che d'ora in poi si frequenta per tutto luglio. Poi ovviamente rettificheremo, ma intanto la voce girerà. Mario Monti contro le vacanze estive. Boom!"
"Quattro punti li perdiamo come niente".
"Ma anche cinque o sei. E poi voglio vedere cosa fanno quei due, ah ah".
Un mese dopo
(ROMA) BERSANI: NON HO MAI "SBRANATO" BAMBINI. SOLO ASSAGGIATI UN PAIO MOLTO CATTIVI. Il segretario del PD ha smentito le affermazioni riportate ieri dai giornalisti, secondo le quali avrebbe ammesso di aver partecipato negli anni '60-'70 a qualche banchetto a base di bambino bianco crudo alla festa dell'Unità di Bettola. "Non siamo dei barbari, noi i bambini li abbiamo sempre cucinati con molta umanità, e se devo dirla tutta non è proprio il mio piatto preferito, ne avrò assaggiato solo un paio ed erano bambini che si erano comportati davvero molto male con le loro mamme e con Stalin".
(MILANO) BERLUSCONI: CULATTONI DI MERDA SONO STATO FRAINTESO, NON INTENDO AVVALERMI DELLO JUS PRIMAE NOCTIS A MENO CHE LE VOSTRE FIGLIE NON VALGANO VERAMENTE LA PENA. Il presidente Berlusconi durante la notte ha pubblicato su youporn un video girato con le sue fidanzate (in tenuta sadomaso-wehrmacht), in cui smentisce di volersi avvalere dello jus primae noctis in modo "universale", come ventilato due giorni fa durante la conferenza stampa a Palazzo Grazioli. "C'è che voi giornalisti siete veramente dei culattoni, non capite... lo vedete questo, sì? Ecco, non lo capite, ora reggimelo, grazie cara". Il presidente ha poi confermato che intende abolire l'IMU e sostituirla "con tua madre", ha detto proprio così, ma forse era sovrappensiero.
(BERLINO) MONTI: INGIUSTIFICATE LE POLEMICHE SUL GATTO A NOVE CODE NELLA SCUOLA ELEMENTARE, sarà esposto soltanto alla parete come deterrente, ma le maestre dovranno limitarsi a bacchettate sulle nocche e gusci di noce sotto le ginocchia.
Continua... (in realtà no).
Renzi e il Partito nella Nuvola
30-11-2012, 01:58burocrazy, generazione di fenomeni, internet, Pd, primarie 2012, Renzi, scuolaPermalinkLa rissa sulle giustificazioni scritte, sui certificati, sui documenti, non è un incidente che ci ha coinvolti per sbaglio. È il modo in cui si è espressa la vera identità del movimento renziano, che non è la bozza Ichino o la vocazione maggioritaria o la mano tesa agli elettori di centrodestra. Il renzismo è, prima di tutte queste cose, un movimento generazionale, che interpreta la frustrazione di una categoria abbastanza precisa di persone. Hanno quasi tutti meno di 45 anni; alcuni sono professionisti, altri sono precari, ma in ogni caso lavorano tutti. E sul luogo di lavoro si scontrano, tutti i giorni, con gli over 50: che mantengono posizioni di potere, che hanno sempre la maggioranza, che sono troppi, si autolegittimano ma spesso non sanno come si accende il tablet che hanno appena comprato, che non si rassegnano a essere rottamati. Lo zoccolo duro di Renzi è questo, e per quanto cerchi di allargarlo alla fine i suoi ultras sono fatti così; non è un caso il fatto che litighino sulle regole, che vivano la giustificazione scritta come un'umiliazione, che non capiscano come mai l'iscrizione ai registri non si può fare on line. Non è un dettaglio. È qui che passa il fronte della guerra generazionale: carta contro iPad, giustificazione scritta contro moduli on line, file nei seggi contro clic e tag, sedi di partito vecchia maniera contro social network: burocrazia contro internet.
Sono i quasi-nativi digitali. Fin qui internet è stato l'unico ambito che ha dato loro soddisfazioni e riconoscimenti: le rare volte che sono riusciti a convincere i colleghi a snellire una procedura passando dalla carta alla cloud, oppure quella volta che il direttore ha chiesto di loro per risistemare un sito o una banca dati. Internet è l'unico territorio amico, l'unico luogo in cui si sentono più sicuri dei loro avversari: è normale che cerchino di trasferire la battaglia lì, che a tre giorni dalla fine di tutto aprano un sito internet allo scopo di attingere a un enorme bacino di potenziali elettori di Renzi. Non ha importanza che questo bacino esista o no: ricorrere a internet è una reazione istintiva, un riflesso involontario: non c'è problema che la Nuvola non possa risolvere.
La carta, invece, è il nemico. Le code sono sempre lunghissime, estenuanti, retaggi di una civiltà analogica che dev'essere smantellata al più presto e sostituita da qualche software o app altri nomi a caso che ogni tanto effettivamente Renzi pronuncia. Il renzismo non è un'ideologia, è una frustrazione: noi siamo nel 2.0 e ci tocca prendere ordini da gente che va in crisi se la fotocopiatrice è in standby? E adesso cosa vogliono, la giustifica come a scuola? Dobbiamo scrivere? Su dei pezzi di carta? Douglas Coupland si preoccupava che fosse la prima generazione senza Dio; per adesso questo più di tanto non si nota, almeno da noi; si nota più il fatto che sia stata la prima generazione a diventare adulta senza abituarsi a timbrare un cartellino. Mettersi in coda non è semplicemente una rottura: è umiliante.
Ne conosciamo tutti di tipi così. Per esempio io nel mio luogo di lavoro conosco un tizio che ha un problema col registro di carta: non riesce a gestirlo. Proprio non ce la fa, piuttosto di mettere i numerini con la penna nei quadratini si farebbe ore di riunioni, di lezioni, di qualunquecosa. Ce l'ha a morte con la Gelmini, con Profumo, con la Moratti, con tutti quelli che non gli hanno ancora dato il registro elettronico che a sentir lui sarebbe facilissimo da usare, praticamente si riempirebbe da solo. E in effetti lui ce l'ha già una specie di registro elettronico, se lo è fatto per i fatti suoi, lo ha messo nella Nuvola e ci si trova abbastanza bene, ma quello di carta non sa proprio più fisicamente come si riempie, è un'angoscia. Ecco, quel mio collega sotto sotto è un renziano - anche se su tutti i blog scrive in lungo e in largo il contrario.
Il giorno in cui Mario Monti mi spezzò il cuor
28-11-2012, 18:15Monti, scuolaPermalinkBisognerebbe sempre partire da una notizia, e la notizia questa volta forse non c'è. Un politico che dice una bugia, in Italia, è una notizia? No, probabilmente no. Un politico che in diretta tv dice una bugia grossa, una bugia smaccata, un'informazione la cui plateale falsità si può verificare in pochi secondi, è una notizia? Purtroppo no.
Anche il fatto che il politico stia concedendo un'intervista, e che l'intervistatore si guardi bene dal rettificare, dal controllare, dal far presente che no, le cose non stanno semplicemente così: è una notizia? Mi dispiace, non lo è, circolare.
La bugia è abbastanza pesante: getta discredito su un'intera categoria di lavoratori, bollati come conservatori e corporativi perché indisponibili a fare "per esempio, due ore in più settimanali". Niente di nuovo. Il politico che la pronuncia, in diretta, in prima serata tv, su una rete nazionale, è il presidente del Consiglio dei Ministri, e capirai. Dov'è la notizia? è sempre andata così. Avvisateci magari quando un presidente in prima serata tv tenterà di dirci la verità. Fino a quel momento, ci dispiace, nessuna notizia. Oppure se vi va posso scrivere sul mio piccolo diario on line che Mario Monti, domenica, mi ha spezzato il cuoricino.
Fino a sabato non è che fossi un suo ammiratore, ma evidentemente nutrivo per lui più stima di quanto fossi disposto ad ammettere. Era palese che la sua agenda non fosse la mia (manco ne avessi una che non preveda il sopravvivere a oltranza); né potevo dire di avere molta fiducia nel suo rigorismo, ma è un discorso lungo e in fondo il commissariamento della repubblica italiana non è responsabilità sua. Lui per me restava semplicemente un tecnico, uno che ha un lavoro da fare (giusto, sbagliato che sia) e cerca di farlo con serietà. La sua agenda non mi piaceva, la sua serietà mi serviva. Ne avevo un bisogno forse disperato, una di quelle necessità da innamorati, che ti spingono a immaginare che una cosa esista anche quando forse non c'è, e forse neanche la serietà di Monti c'è. O si è dissolta nei mesi necessari a trasformarsi da un docente universitario a un politico. La non-notizia di domenica sera è che Mario Monti è diventato un politico italiano, uno di quelli che va in tv a raccontare balle, e più sono grosse, ed evidenti, meglio è, tanto nessuno gliene chiederà conto.
Nello specifico, la bugia è triplice. Le ore di lavoro in più non sono "per esempio, due settimanali" (prima bugia). Controllate ovunque: appena un mese fa in una bozza di decreto le ore erano sei, pari a un terzo dell'orario settimanale. E non si tratta di ore di lavoro, ma di lezione (seconda bugia), che l'insegnante deve preparare, organizzare, gestire. Per un insegnante di lingue straniere, o educazione artistica, o musicale, quelle due ore equivalgono a una classe in più: venticinque ragazzi in più con cui lavorare, venticinque famiglie in più con cui interagire. È tempo, è fatica, è lavoro in più. E non è vero (terza bugia) che in questo modo si sarebbero liberate risorse: è vero semplicemente il contrario. Il governo vuole risparmiare sulle risorse, tagliando le cattedre: a perdere il posto saranno come sempre i giovani, i più bassi in graduatoria.
Ma in fondo queste tre bugie sono tutte comprese in una sola, ovvero: Monti non ha mai chiesto agli insegnanti di fare due ore in più alla settimana. Il ministro Profumo non ha mai proposto agli insegnanti di fare due ore in più alla settimana. Invece di lamentarsi in tv contro la categoria conservatrice e corporativista, perché non ce lo chiedono? Scoprirebbero cose interessanti.
Per esempio: io due ore in più le farei anche a partire da domani. E non credo di costituire un'eccezione. Anzi so di non costituire un'eccezione, perché non sono il solo che a settembre prova a chiedere al dirigente se non sia possibile fare una o due ore in più. E non è per spirito di missione o filantropia; o meglio, non è certo il mio caso: conosco colleghi missionari e filantropi, ma non è il mio caso. Io due ore in più alla settimana le farei volentieri perché risparmierei tempo e fatica. Perché in questo momento io sto facendo un corso di italiano di cinque ore, cinque ore alla settimana, che fidatevi, per insegnare la prima lingua ad alunni sempre meno alfabetizzati sono maledettamente poche. E siccome il tempo frontale a mia disposizione è poco, io devo compensarlo con più lavoro a casa: più compiti da correggere, più verifiche scritte, più cose che potrei agevolmente evitarmi se solo potessi restare coi ragazzi almeno una, due ore in più alla settimana. Professor Monti, no pardon, Presidente Monti: me le offra quelle due ore, anche a metà del loro prezzo (e parliamo di uno dei prezzi più bassi in Europa), e veda se le rispondo di sì o di no. Ma sì, vabbe', a chi sto parlando.
Non c'è nessun presidente Monti che mi ascolti. Non c'è nessuno che mi voglia veramente far lavorare. È il solito fantoccio, il solito bluff. Nessuno mi ha veramente chiesto di fare due ore in più. Hanno buttato lì sei ore in più a zero euro per farci incazzare un po', se lo sono prontamente rimangiati e sono andati in tv a lamentarci che c'incazziamo per niente, che siamo corporativi. Noi insegnanti, corporativi.
Ma magari fossimo un po' corporativi. Quattro sindacati su cinque hanno revocato uno sciopero la sera prima. La sera prima. Siamo la corporazione più ridicola mai vista e davvero non sorprende, non fa notizia, che un politico di razza possa andare in tv a prenderci in giro. Onestamente ce lo meritiamo. C'è ben poco da lamentarsi, a meno che uno non sia sotto sotto un'anima bella che crede nelle favole, le favole dove i professori sono persone oneste che non mentono mai, neanche quando diventano Presidenti dei consigli.
Chiedo scusa per lo sfogo, bisognerebbe sempre partire da una notizia e la notizia questa volta non c'è. Il presidente del Consiglio dei ministri dice bugie in diretta tv, gettando discredito su un'intera categoria di lavoratori. E da qualche parte di sicuro un cane ha morso un uomo. Buonanotte.
Facciamo che invecchio un'altra volta
24-11-2012, 03:15Cgil, omofobie, scioperi, scuolaPermalinkIo insegno in una scuola media (in realtà adesso si chiamano secondarie di primo grado, ma nessuno riesce a chiamarle così). Quando un mese fa il mio massimo dirigente, il ministro Profumo, buttò lì in una bozza di decreto l'aumento di un terzo del mio orario settimanale (a parità di salario), ottenne due risultati.
Il primo risultato fu che nella bolgia che ne seguì, io scoprii un po' dappertutto e anche nei commenti di questo blog molte verità sulla mia categoria che ignoravo. Per esempio che siamo tutti una manica di assenteisti che scioperano continuamente, non vogliono essere giudicati per quello che valgono ma si accontentano di accumulare scatti di anzianità, scatti su scatti, come se invecchiare sulla cattedra fosse in qualche modo meritorio. Tutto questo sarà probabilmente vero, anche se intorno a me vedo una realtà ben diversa, ma forse sono troppo vicino per capire il quadro d'insieme. Io vedo colleghi che spesso, tra la salute e la continuità didattica, scelgono la seconda, col risultato di aggravare la prima. La storiella per cui