Il mistero del vecchio Pansa

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Nell'accingersi a scrivere un coccodrillo su Giampaolo Pansa, il suo collega giornalista correrà subito con la memoria al primo incontro col venerato maestro; non tarderà a esaltare l'eccellenza di uno stile che negli anni Settanta doveva risultare dirompente e antiretorico (se invece oggi suona stucchevole è appunto perché il maestro ha avuto troppi allievi, e tutti inferiori). Questo avranno scritto i giornalisti, alcuni li ho già letti – altri no, più o meno è la stessa zuppa, scusate.

Autoreferenziarsi
Scrivendo in morte di Giampaolo Pansa, lo studioso di Storia non potrà avere che una priorità: difendere la disciplina (e la categoria). Perché negli ultimi vent'anni Pansa ha fatto peggio che contribuire a diffondere la retorica del "sangue dei vinti", un revisionismo ubriaco che equipara fascisti e antifascisti. Per condurre un'operazione del genere, Pansa doveva rinnegare qualcosa di più prezioso del suo progressismo: era necessario rinunciare alla sua professionalità di cronista e mandare al macero la sua laurea in Storia della Resistenza. Così ha fatto, spacciando libri di fiction per opere di divulgazione storiografica, mettendo in circolo monete false che alla lunga hanno reso impossibile uno scambio civile di opinioni. Fake news, Pansa non ha avuto bisogno di internet per recuperare ingigantire e diffondere fake news: il mercato editoriale si è prestato con entusiasmo. Questo scriveranno gli storici; alcuni li ho già letti, non ho molto di originale da aggiungere.

Quel che nessuno fin qui ha scritto (mi pare), l'unica cosa che veramente mi interesserebbe leggere, è la soluzione al mistero che Giampaolo Pansa impersonava da vent'anni. Magari è una soluzione banale – molte soluzioni lo sono, come i moventi in tanti gialli di Agatha Christie: un mutuo da pagare, una malattia, una ripicca fermentata negli anni. O era già tutto scritto nei suoi geni? È stata la stessa attitudine a chiamarsi 'fuori dal coro' a portarlo con gli anni a steccare sempre di più, a individuare un mercato per chi le stecche le apprezzava, a coltivarlo con determinazione industriale, negli anni in cui avrebbe potuto rilassarsi e pensare con soddisfazione alla sua lunga carriera?

Più in generale: perché in Italia i giornalisti invecchiano così male, e non smettono di scrivere mai? Al punto che i quotidiani nazionali sembrano diventati il bollettino di un gerontocomio: non li compriamo più per sapere che succede tra USA e Iran, anzi non li compriamo proprio; ma se lo facessimo sarebbe piuttosto per informarci sulla salute del tale giornalista, se è ancora spaventato per l'odore dei nigeriani che ha percepito da una panchina del parco, o se invece quell'altra prestigiosa firma ha ancora visto il Papa durante la pennichella. Forse Pansa aveva paura di invecchiare così, e ha deciso che sarebbe diventato un vecchio più interessante, quel tipo di vecchio stronzo. Forse era inevitabile, forse invecchiare equivale davvero a diventare la caricatura di sé stessi: nel suo caso, la caricatura di uno storico del Novecento e di un cronista del medesimo secolo. A volte dava quasi la sensazione di considerarlo un gioco: il vecchio stronzo contro tutti. Magari invecchiare è anche questo, smettere di prendere sul serio le cose; al punto che anche l'eventualità di essere tramandato ai posteri come un rivalutatore del fascismo ti fa ghignare, ah ah, fottetevi posteri. Più che piangere per un Pansa che se ne va, oggi mi sento triste per tutti i Galli della Loggia che ci toccheranno ancora per tanti, tanti anni. Quanti cartonati, quante opinioni già decrepite alla prima stesura che qualche sventurato stagista dovrà pure correggere, e qualche malcapitato possessore di librerie si ritroverà impacchettate sotto l'albero a Natale perché il suocero ha sentito dire che t'interessi di politica. Poi la gente si lamenta che i giovani non leggono. E meno male; anzi speriamo che leggano sempre meno.
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Uno, nessuno, centomila Calogero

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18 giugno – San Calogero eremita 

"San Calogero di Girgenti, miracoli non ne fa nienti;
San Calogero di Canicattì, miracoli non ne fa tri;
San Calogero di Naro, miracoli ne fa un migliaro".

Calogero di Agrigento
[2018]. Di Calogero si sa che fu eremita e fu in Sicilia; su tutto il resto i siciliani disputano. Potrebbe essere vissuto nel primo secolo ad Agrigento o nel decimo a Naro. Potrebbe aver viaggiato l'isola in lungo e in largo, soggiornando in quasi tutte le grotte da cui sgorgano acque termali; potrebbe esser vissuto a lungo, veramente molto a lungo. Per gli abitanti di Naro la questione si risolve come sopra, in modo molto pragmatico: cosa importa il passato? Quel che conta è determinare il Calogero più efficace nel presente, quello che fa più miracoli, e il nostro ne fa mille. Al che gli agrigentini obiettano: "San Calogero di Girgenti, le grazie le fa per nienti; San Calogero di Naro le fa sempre per denaro". Alla fine della disputa ognuno rimane col Calogero suo. Siccome poi "Calogero" in greco vuol dire "buon vecchio", non si fatica a immaginare che di Calogeri ce ne siano veramente stati più d'uno, e che a un certo punto della tarda antichità "Calogero" fosse il semplice appellativo con cui i siciliani si rivolgevano i vecchi e saggi eremiti che vivevano nelle grotte. Per non sottoporre i loro fragili corpi alle tentazioni del secolo? Per trovare nel silenzio e nella solitudine una via più diretta all'assoluto? Ma anche perché avevano scoperto che bagnarsi in acque solforose fa bene alla salute e ti aiuta a invecchiare più lentamente.

Di tutte le leggende, quella della cerva avvalora l'ipotesi. Racconta che giunto intorno ai novant'anni, Calogero non riuscisse più a mandar giù nessun tipo di cibo. Il digiuno, che di solito nelle storie dei santi è una pratica autoindotta e consapevole, qui è semplicemente il segno dell'invecchiamento. Calogero dunque si nutre unicamente del latte ad altissima digeribilità prodotto da una cerva che Dio gli invia tutte le mattine. Finché un cacciatore, Siero, non gliela ferisce a morte. La cerva fa giusto in tempo a tornare nella grotta di Calogero e morirgli tra le braccia; il cacciatore che la stava braccando arriva anche lui nella grotta, vede il monaco che l'ha battezzato bambino chiudere teneramente gli occhi alla preda che ha ucciso: minchia, pensa, l'ho fatta grossa. Ma il santo lo perdona immediatamente, e già che c'è gli mostra la grotta vaporosa e gli illustra tutte le virtù delle acque che sgorgano in quelle falde, un vero tour guidato al termine del quale Siero diventa un suo discepolo, appena in tempo perché Calogero non sopravviverà alla cerva che per quaranta giorni.

Calogero è un buon vecchio che conosce le virtù nascoste all'interno della terra; lo si venera a Sciacca, il cui monte era dedicato al dio Crono; sul monte di Termini Imerese dove avrebbe scacciato i demoni e lasciato l'impronta della mano; mentre a Vicari avrebbe lasciato quella del piede. Calogero è insomma una figura dell'inculturazione, il nome dietro al quale uno dieci o centomila chierici, forse davvero provenienti dalla Grecia bizantina, scacciarono le antiche divinità ctonie dalle grotte della Sicilia; che poi uno o dieci avessero davvero la pelle scura, non è implausibile; ma il momento in cui San Calogero diventò davvero nero fu quando cominciarono a circolare le sue statue, più spesso in bronzo o in rame. Il bronzo dei Calogeri di Agrigento e di Naro ha anche l'indubbio vantaggio di scintillare al sole, il che deve suggerire durante la processione del pomeriggio di giugno l'idea che anche il santo stia sudando; che il suo sudore sia qualcosa di fisico, che si può trattenere nelle pezzuole e poi usare per curare i malati. Il sudore di Naro pare che funzioni di più di quello di Agrigento (ma che sia anche più costoso).

La madonna nera di Czestochowa è talmente nera
che a Haiti è diventata una divinità Vudù,
storia lunga, un’altra volta la raccontiamo.

La negritudine di Calogero nei secoli è stata spiegata con tante ipotesi diverse, nessuna del tutto soddisfacente. Fino a un certo punto deve essere sembrata una cosa naturale, così come era naturale in ambito bizantino dipingere icone della Madonna con un certo pigmento; poi a un certo punto (nel basso Medioevo?) i colori hanno preso un significato diverso, un’icona qualsiasi della Madonna è diventata una “Madonna nera” e gli agiografi hanno cominciato a domandarsi il perché fosse stata dipinta con una tinta così scura (che magari in quel secolo era l’unica a disposizione): o non si era annerita col tempo, e il fumo degli incensi e dei ceri? O il colore scuro indicava la sofferenza? Più difficilmente si sarebbe potuta trattare di un’insolita concessione al realismo, visto che Maria di Nazareth in fin dei conti era un’ebrea della Palestina.


Anche nel caso di Calogero, il colore scuro forse dipende unicamente dai materiali a disposizione degli artisti. Però si lasciava facilmente interpretare anche come un segno della lotta dell’eremita contro i demoni del sottosuolo, quelle forze della terra che aveva domato, ottenendone in dono le acque della salute. Solo al termine del medioevo il colore assume un significato etnico o geografico; è il momento in cui davvero qualcuno potrebbe aver sostituito in un manoscritto l’appellativo Chalkhidonos, (“di Calcedonia”, la città bizantina sulla sponda asiatica del Bosforo), con “Karchidonos“, “Cartaginese”. A Cartagine poi non è che la gente abbia mediamente la pelle molto più scura che sul Bosforo, o a Sciacca. Ma lo scambio segna il momento in cui “nero” comincia a significare “africano”, ovvero “alieno”. Con la complicazione che in Sicilia, a differenza che nelle altre regioni dell’Europa cattolica, qualche alieno ci viveva: persino a quei tempi il Mediterraneo non aveva la chiusura ermetica che piacerebbe a Salvini e ai suoi seguaci. Il fatto che il nero fosse il colore di San Calogero portò a un curioso corto circuito: ai frati neri veniva chiesto più spesso di fare miracoli; e a furia di chiederli evidentemente i miracoli si realizzavano, sicché dopo Calogero in Sicilia nacque e visse più di un santo nero: Benedetto il Moro di San Frau, che oltre a essere nero come un etiope parlava pure un dialetto lumbard, in Sicilia nel XVI secolo, c’è da perderci la testa, e almeno tre Antonii: uno ad Avola (chiamato anche Catagerò, morto verso il 1550), uno a Caltagirone e uno a Camerano; tutti e tre portano il nome di quell’Antonio di Padova che in molti santini viene raffigurato con la pelle olivastra, benché sia nato a Lisbona.

Cercando “Calogero” sulla libreria di immagini
del Post ho trovato la foto di Sacko Soumali,
che è stato ucciso a 29 anni a San Calogero.
Ma il Calogero originale di che colore era? Non ha nessuna importanza. Proviene da un’epoca in cui in effetti nulla di individuale aveva molta importanza: non il colore, non il luogo di provenienza, né la data di nascita, né lo stesso nome. “Calogero” era chiunque riuscisse a invecchiare serenamente in un luogo salubre e appartato; anche tu potevi diventare Calogero e in fondo te lo auguro: è sufficiente togliersi dai piedi, farsi crescere più barba bianca possibile e mandare a memoria un po’ di buoni consigli da snocciolare ai giovani che salgono a trovarti e a portarti qualcosa di non troppo difficile da digerire. La cosa migliore è che quando diventi Calogero il tuo passato individuale scompare: anche se in teoria è il motivo per cui sei lì, nessuno ti chiede più davvero cosa hai combinato, chi eri, contro chi hai combattuto. Il tuo passato finisce sottoterra come quello di tutti i Calogero prima di te: l’idea che si fanno i giovani è che hai passato qualche migliaio di anni a lottare contro i demoni del sottosuolo, che ti hanno carbonato la pelle e incanutito le chiome ma non ti hanno vinto, e se ci rifletti un attimo è andata proprio così. Buon San Calogero a tutti.
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"Mai ci fu una storia più scorretta..."

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Sono passati davvero parecchi anni da quell'inverno in cui, disperato per non riuscire a trovare in videoteca un film sensato sul medioevo da mostrare in una classe – qualcosa che desse a un undicenne una vaga idea di cos'era la vita nel medioevo, almeno nelle scenografie, nei costumi – mi ridussi a infilare in un vhs una vecchia copia domestica e sfuocata del Romeo e Giulietta di Zeffirelli. Mal che vada è Shakespeare, ricordo che pensai. Il tempo di tre minuti e boom, eravamo già completamente immersi in una Bella Verona in cui si cammina proprio come nei corridoi delle medie, e si fanno esattamente le stesse cose stupide. Voglio dire, "È per me che ti succhi quel pollice?" è una battuta che non riesco a immaginare in bocca a nessuno che non sia un preadolescente in un corridoio. Mi sembra incredibile che Shakespeare possa avere scritto Romeo e Giulietta per un pubblico diverso da quello che gli procuro io.

Da allora non c'è una classe in cui non l'ho mostrato, in versioni sempre un po' più nitide: e non c'è una volta in cui non abbia fatto il suo porco lavoro. A volte, se c'è tempo (una supplenza improvvisa, una nevicata) ci concediamo anche un confronto col Romeo+Juliet di Luhrmann, che li sconvolge perché Di Caprio così giovane non lo immaginano. Ma sulla distanza non c'è gara, Zeffirelli vince tutto, Zeffirelli ci penetra in luoghi che non sappiamo nemmeno di avere, o ce lo siamo dimenticati. Poi passa un anno, a volte anche due, e mi domando se non mi ricordo male, se non tendo a sopravvalutare l'effetto – in fondo è solo un film, ormai vecchissimo, probabilmente dovrei cercare cose più moderne, più pensate per i teen di adesso. E ogni volta boom, lo stesso incantesimo. Del resto, perché non dovrebbe funzionare una volta in più? Shakespeare è sempre quello, Zeffirelli pure, i preadolescenti sono sempre preadolescenti litigiosi acerbi disperati. C'è una sola cosa che cambia, nel quadro complessivo.

Sono io.


E me ne accorgo in modi curiosi – la musica di Rota, ad esempio, che all'inizio mi era molesta e ora è quasi parte del paesaggio. Ma soprattutto: faccio sempre più fatica a guardarlo. All'inizio era un film, soltanto un film, probabilmente lo consideravo kitsch o camp o middlebrow, non mi ricordo (però funzionava, quindi lo usavo: al massimo cercavo di smontarlo dopo la visione). Ma ricordo che alla ricerca di informazioni incocciai in un forum in cui un cinefilo americano lo definiva "horny", e scrollai mentalmente la testa: che bacchettoni questi americani, voglio dire chi è che negli anni Zero ancora si eccita per due chiappe di Romeo in un fotogramma.

Ecco, sono passati gli anni Zero e pure i Dieci: Shakespeare è sempre Shakespeare, Zeffirelli è sempre Zeffirelli, i fotogrammi con le chiappe non sono aumentati, e io sono sempre più turbato da quel film. Cioè, è pur vero che funziona, ma accidenti se è horny. Direi pure che è barely legal. E prima o poi non sarà più legal, prima o poi con una classe mi metto nei guai, a mostrare sulla lavagna interattiva quei due minorenni che amoreggiano. Spero che non sia stavolta.

Fatemi un bocca al lupo, è per stamattina.

Ai giochi addio...
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Metodo infallibile contro qualsiasi insonnia

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"Scusa hai visto il libro?"
"Che libro".
"Non lo so. Quello che stavo leggendo".
"Non riesci a dormire?"
"Ne stavo pur leggendo uno da qualche parte".
"Non riesci a dormire".
"Ma ci pensi a che anno è?"
"Duemilaediciannove".
"Non dovrebbe essere un anno del genere".
"Per questo non riesci a dormire?"
"Non avevo previsto di essere ancora vivo, nel duemilaediciannove".
"No?"
"Da piccolo mi sembrava già tanto se sfangavamo il Duemila".
"Tutto il resto è grasso che cola, allora".
"Ma ti sembra un anno in cui possiamo esserci, io e te? Il Duemilaediciannove?"
"Puoi leggere il mio libro se vuoi, è carino".
"Quando ero piccolo erano gli anni dei film di fantascienza. 2019 i guerrieri dello Spazio. 2019 Fuga da staminchia".
"Ecco, guardati un film".
"Non funziona".
"Quello coi bivi".
"Mi mette angoscia. 'sti cazzo di anni Ottanta. Sempre lì a ricordare gli anni Ottanta, e intanto precipitiamo, precipitiamo nel vuoto. Tra un po' sono i Venti, ti rendi conto".
"Scrivi un pezzo".
"Ho l'ansia".
"Conta le pecore".
"È come contare i respiri che mi restano".
"Di' il Rosario".
"Con che faccia ormai".
"Correggi i temi".
"zzzzz".
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Oggi è la festa di San Budda Abate (e voi non lo sapevate)

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27 novembre - Santi Barlaam e Iosafat, leggenda.

Più di ogni altra cosa il re indiano Avenir desiderava che suo figlio Iosafat fosse felice. Più di ogni cosa temeva quelle nuove sette che arrivavano dall'occidente, quei corvacci neri che speculavano sulla paura della morte, quei cristiani. Li aveva già visti rovinare uomini ricchi e potenti, dignitari di corte ridotti a vestirsi di sacco e a mendicare. Così quando un astrologo predisse che Iosafat si sarebbe convertito al cristianesimo, per poco non impazzì...

Questo è Gautama Buddha,
il Budda storico…
Decise così di nascondere suo figlio al mondo, di crescerlo il più lontano possibile dalla sola idea della morte, della sofferenza. Lo rinchiuse bambino in un palazzo ricolmo di ogni lusso; gli diede amici e amiche in abbondanza, tutti sani e senza difetto: quando qualcuno si ammalava, nottetempo veniva sostituito con qualcun altro in salute; e così Iosafat cresceva senza conoscere né malattia né dolore, eppure non era felice.

(Dove ho già sentito questa storia?)

C'era come un vuoto che gravava sul suo capo, la sensazione di galleggiare sulla superficie delle cose. Un giorno piantò una grana, non avrebbe più mangiato né bevuto finché il papà non lo avesse lasciato uscire a fare un giro nel mondo. Alla fine il re acconsentì. Preparò l'uscita in ogni dettaglio, infiltrò i suoi ministri nella scorta del figlio, fece per la prima volta ripulire le strade in cui sarebbe passato il corteo principesco, disseminando lungo il percorso danzatori e ballerine, affinché tutto sembrasse il più possibile ameno. Qualcosa però dovette andare storto, perché appena Iosafat uscì, incontrò un cieco e un lebbroso, che lo stupirono molto.

"Sono malanni che capitano agli uomini", risposero gli uomini del re.
"A tutti gli uomini?"
"No, a tutti no".
"Meno male. E si sa già prima a chi accadono questi malanni, o sono imprevedibili?"
"Il futuro nessuno può prevederlo, o sire".
"Quindi anch'io potrei un giorno diventare cieco come questo cieco, o lebbroso come questo lebbroso?"
"Si è fatto tardi, rientriamo".

...questo invece è Budai, non c'entra quasi niente.
Il vuoto che gravava sul capo del principe cominciò a riempirsi di angoscia e di paura, sentimenti a cui non sapeva nemmeno dare un nome. Un'altra volta che volle uscire, la security fu più efficiente: non trovò nel suo percorso né paralitici né appestati, tutto andava per il meglio, finché non passò un vecchietto. Un vecchietto assolutamente standard, niente di eclatante, ecco forse perché le guardie non avevano pensato a tenerlo lontano: la faccia un po' vizza, la schiena curva, i denti pencolanti, ma a parte questo in forma. Lo aveste visto voi, avreste pensato: che bel vecchietto, spero di poter invecchiare anch'io così. Ma lo vide Iosafat, e Iosafat non aveva mai visto un vecchio.

"E questa che malattia è? Una sottospecie di lebbra?"
"Sire, questa non... non è una malattia".
"In che senso? Il tizio quasi non si regge in piedi, se non è una malattia questa qui..."
"È solo vecchiaia. Non è una malattia, nel senso che... che viene a tutti".
"A tutti? State scherzando? E si guarisce?"
"...No, sire, non si guarisce".
"Ma allora il mondo dovrebbe essere pieno di vecchi come questo qui, dai. Mi state prendendo in giro".
"No sire, no. Effettivamente la vecchiaia non dura in eterno. Al massimo venti, trent'anni..."
"Eh? Trent'anni così? Siete matti?"
"Ma poi si muore, pur troppo - o per fortuna".
"Che significa si muore?"
"Si è fatto tardi..."
"No, adesso mi spiegate sul serio cos'è questa cosa, io con tutto che ho studiato non riesco a immaginare niente di peggiore che questa roba che chiamate... vecchiaia, e invece adesso salta fuori che c'è una cosa peggiore e si chiama... come avete detto che si chiama?
"Si chiama morte, è... è la fine".
"La fine di cosa?"
"Di tutto, la fine della vita".
"La vita finisce? E perché non mi avete detto niente?"
"Suo padre preferiva non disturbarla..."
"E come si fa a evitare questa cosa?"
"Evitare la morte? Non si può".
"Come sarebbe a dire non si può, mi state dicendo che moriremo tutti? Tutti? Anche voi?"
"Certo che moriremo, sire".
"E perché non impazzite al solo pensiero?"
"In effetti, ora che ce lo fa pensare, perché non impazziamo?"
"Io impazzirei".
"Non avrebbe tutti i torti. Si vive per settant'anni, ottanta con un po' di fortuna, si scansa per quanto possibile la lebbra e altre malattie, per arrivare al momento in cui si muore, questa in ultima analisi è la vita".
"Settant'anni? E me lo dite così?"

Iosafat comunica il suo desiderio di farsi monaco, in un manoscritto greco del Duecento

Iosafat ovviamente non impazzirà, anzi conoscerà un saggio monaco di nome Barlaam, che lo stordirà di apologhi e lo convertirà alla vera fede, dopodiché dovrà sfidare il padre che arriverà al punto di riempirgli il palazzo di giovani fanciulle seminude per metterlo in tentazione – ma niente da fare. Invece di continuare nella storia – che altri hanno raccontato meglio di me – vorrei chiedere se non vi suona in qualche modo familiare. Dovrebbe.

È in effetti una leggenda antichissima, che il solito Iacopo da Varazze attribuisce a San Giovanni di Damasco (l'arabo che amava la Madonna), ma in realtà è probabilmente entrata in Europa da ovest. Un autore ebraico di Barcellona, Abraham ibn Chisnai, la porta qui nel dodicesimo secolo. In seguito, opportunamente cristianizzata, la leggenda del principe che non conosceva la morte conosce un successo strepitoso: in meno di cent'anni è tradotta persino in islandese, e di lì a poco Iosafat e il suo amico Barlaam entrano nel calendario. Ma la storia è ben più antica.

Se ne rende conto un navigatore portoghese nel Seicento, Diego do Couto. Ascoltando un resoconto cingalese dell'adolescenza di Gautama Buddha, quando era ancora un Bodhisattva, un uomo che non aveva ancora ricevuto l'illuminazione, do Couto esclama: ma questo principe chiuso in un palazzo che non conosce né malattia né morte io lo conosco: è San Iosafat: Bodhisattva=Iosafat! Ma allora... allora... questi pagani hanno fondato la loro religione sulla vita di un santo cristiano! Il buddismo è un equivoco!

Benedetto Antelami, leggenda di Barlaam, Battistero di Parma

A noi oggi sembra abbastanza ovvio il contrario: la fiaba di Iosafat e Barlaam è la vita di Budda, cristianizzata quanto basta per entrare nei martirologi cristiani. Ma ci vollero altri due secoli perché gli studiosi europei lo ammettessero. Eppure già nel Duecento Marco Polo aveva menzionato nel Milione un personaggio simile, anche lui vissuto a "Seila" (Ceylon), Sergamon Borgani:
Ora era tanto tempo istato in casa ch’egli non avea mai veduto veruno morto né alcuno malato; il padre si vollé uno dí cavalcare per la terra con questo suo figliuolo. E cavalcando loro, il figliuolo si ebbe veduto uno uomo morto che si portava a sotterare ed avea molta gente dietro. E ’l giovane disse al padre: «Che fatto è questo?». E ’l re disse: «Figliuolo, è uno uomo morto». E quegli isbigotío tutto, e disse al padre: «Or muoiono tutti li uomini?». E ’l padre disse: «Figliuolo, sí». E ’l giovane non disse piú nulla, ma rimase molto pensoso.
"Sergamon" è la prima traduzione in veneto di Sakyamun, "saggio della famiglia Sakya", uno dei tanti appellativi del Budda. "Borgani" deriva dal sanscrito Bhagavan, "signore", che è anche la più probabile origine di "Barlaam". "Iosafat" invece dovrebbe venire da Bodhisattva; la B potrebbe essersi trasformata in I durante un lungo percorso di traslitterazione dal sanscrito all'arabo al latino. Il romanzo della giovinezza di Buddha è stato messo per iscritto più o meno nel primo secolo dopo Cristo: Buddha dovrebbe essere vissuto cinque secoli prima. È popolarissimo in Sri Lanka, in India, in Nepal (suo luogo d'origine), in Cina, in Giappone, dove i cristiani clandestini lo usavano come copertura per i crocefissi e le altre immagini sacre.

In occidente, nel frattempo, veneravamo Buddha come santo cattolico e apostolico, senza accorgercene. Era già quel tipico budda occidentale, quel soprammobile fuori contesto (spesso confuso con un altro), sconosciuto e familiare, che se ne sta su qualche ripiano a prender polvere. Eppure la sua storia è anche la nostra, ci racconta con poche variazioni quel giorno lontanissimo e vicino in cui abbiamo visto per la prima volta il dolore, e abbiamo scoperto che si muore, che è normale, che capiterà anche a noi, infallibilmente: e chissà perché non siamo impazziti. Già, in effetti, ripensandoci, perché.
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Quando i citofoni erano bianchi (e gli hacker giocavano ai "videogames")

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Michele Serra non capisce gli hacker. È stato lui stesso a sentire l’esigenza di spiegarcelo, qualche giorno fa, quando la polizia postale ci ha informato di aver identificato Evariste Galois. Galois l’estate scorsa aveva bucato Rousseau, il cosiddetto sistema operativo del Movimento Cinque Stelle. Nell’occasione Galois si era dimostrato un perfetto “white hat”, o hacker etico: lo scopo della sua intrusione non era rubare dati sensibili, ma segnalare ai gestori del sito una vulnerabilità (evidentissima, peraltro). Secondo Serra avrebbe fatto meglio ad “accontentarsi dei videogames, o dei tornei di matematica”. “Non capisco che cosa spinga lui [l’hacker] e i suoi simili al virtuosismo informatico, alla violazione di ogni porta, alla messa a nudo di ogni meccanismo. Una destrezza fine a se stessa, come i free-climber ai quali non interessa la vetta, ma la bellezza del gesto?”

Magari, anche, perché no. Ma tra i tanti bei gesti che può commettere un virtuoso o uno sportivo, avvisare il pubblico e i gestori di un sito delle falle di sicurezza non sembra davvero il più fine a se stesso. A quel punto, se i gestori del sito fossero stati tempestivi, non ci sarebbe stata nessuna fuga di materiale sensibile: ma non lo furono, e nel giro di pochi giorni i dati furono trafugati da un hacker “black hat”, Rogue0, che li mise in vendita: anche lui a quanto pare è stato identificato dalla polizia postale, ma tutto ciò a Michele Serra pare non interessare.
E a questo punto forse qualcuno ha già un forte sospetto su dove voglio andare a parare: un altro pezzo sugli editorialisti di mezza età che non riescono più a parlare ai giovani? Babyboomers contro millenials, ancora? Ecco, in realtà no. Anzi forse il problema è proprio l’opposto: questa non dovrebbe essere una questione generazionale. Per quanto possano essere giovani Evariste e Rogue0, quello che hanno fatto (bucare un sito) è una prassi vecchia quanto l’informatica, e l’informatica non è poi giovane: se assumiamo che sia nata mentre Alan Turing tentava di bucare Enigma, è un po’ più vecchia di Serra. Che per quanto ormai ami crogiolarsi nel suo personaggio di gentiluomo di campagna, quando al cinema uscì Wargames aveva trent’anni. Più di trent’anni dopo, la figura dell’hacker che passa sui quotidiani italiani assomiglia ancora terribilmente al personaggio interpretato da Matthew Broderick all’inizio del film, che per far colpo su una ragazza entrava nel registro elettronico della sua scuola per alzarle la media (a metà film aveva già bucato il Pentagono e portato il pianeta a un passo dalla Guerra Termonucleare Globale). Un ragazzo che si mette a giocare e combina solo disastri. Perché non si concentra sui “videogames”?


Nel frattempo il paesaggio tutt’intorno è parecchio cambiato. Oggi milioni di italiani usano internet non ancora per dichiarare la guerra al vicino, ma controllare gli estratti conto, votare i candidati Cinquestelle, prenotare visite mediche o i colloqui con gli insegnanti dei figli – sì, adesso anche nelle scuole statali c’è il registro elettronico! Ci abbiamo messo trent’anni, ma oggi anche i nostri insegnanti possono essere bucati come quelli di Matthew Broderick nel 1982. L’hacking non è mai stato un argomento così importante come oggi, e non per i “giovani”. Non sono i giovani d’oggi a temere che il sito della loro azienda venga bucato o defacciato; o a rischiare un infarto se scoprono che il loro pc è stato infettato da un ransomware (una minaccia che a volte viene sventata proprio dagli hacker). Sono rischi concreti per milioni di italiani.



A proposito di milioni di italiani: la stessa sera in cui si stampava l’Amaca di Serra sugli hacker, dal teatro Ariston di Sanremo Biagio Antonacci invitava il pubblico in eurovisione a metter via i cellulari e a usare il citofono (continua su TheVision...) Una battuta fantastica, che in poche parole mette a fuoco l’universo strapaesano del Festival della Canzone: l’Italia come un enorme villaggio in cui tutti i tuoi amici non possono che vivere a qualche isolato da casa tua – e se per tenerti in contatto con loro usi whatsapp è solo perché sei pigro, pigro, dai, valli a suonare (chissà poi Antonacci a che numero civico sta). E poi questa idea che esista una tecnologia cattiva, alienante, disumana (lo smartphone) e una buona, rassicurante (il citofono). Vengono in mente le regole di Douglas Adams sulla tecnologia: “Qualunque cosa esista nel mondo quando nasciamo, ci pare normale e usuale e riteniamo che appartenga per natura al funzionamento dell’Universo [...] Qualunque cosa sia stata inventata dopo che abbiamo compiuto trentacinque anni va contro l’ordine naturale delle cose”. È quell’“ordine naturale” che viene descritto in tanti film italiani dove tutte le tecnologie che hanno radicalmente cambiato la nostra vita negli ultimi trent’anni sono sempre descritte come orpelli inutili e dannosi di cui è necessario liberarsi per riscoprire un’esistenza più pura, magari in una masseria in Puglia, un casolare in Toscana o in qualche altra angolo remoto dove il cellulare non prende (ormai solo nella finziona cinematografica), ma il citofono, lui sì. L’ultimo film di Federico Moccia si intitolava proprio Non c’è campo. In una delle commedie più viste l’anno scorso, Beata ignoranza, due insegnanti con un approccio antitetico alle tecnologie si scambiano i ruoli: Alessandro Gassman buttando via il cellulare, ovviamente, riscopre il piacere dell’interazione sociale (ovvero si iscrive a un corso di teatro). Marco Giallini, che orgogliosamente si teneva al di fuori da ogni social network, fa una rapida immersione in un mondo insano, gioca agli sparatutto coi suoi studenti e verifica che le recensioni on line dei ristoranti sono tutte false.

Perché gli sceneggiatori italiani, i cantanti italiani, i giornalisti italiani, si fidano così poco delle nuove tecnologie – che pure adoperano quotidianamente? È come se ci trattassero tutti come Cazzullo tratta i suoi figli: metti via quel cellulare. L’ipotesi più semplice è che siano gelosi: su quel cellulare ci può essere un articolo più interessante di quello di Cazzullo o di Serra, o un film più divertente delle commedie italiane in sala, o una canzone più originale dell’ultimo successo di Antonacci. Più in generale, si percepisce la sensazione che queste nuove tecnologie, per quanto comode, non siano che passeggere: qualcosa che prima o poi se ne ritornerà da dove è venuto, e saremo di nuovo liberi di contemplare i tramonti e chiamarci al citofono. Dietro a questo fastidio per la modernità, c’è un’osservazione persino banale: la rivoluzione digitale è qualcosa che ha completamente spiazzato la nostra industria. Non ce l’aspettavamo: l’abbiamo vista arrivare e salvo qualche eccezione quasi miracolosa non siamo stati nemmeno capaci di inseguirla. A un certo punto è come se ci fossimo semplicemente seduti in un angolo, gli occhi chiusi, nell’attesa irrazionale che tutto questo passi.
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I giornalisti italiani non parlano ai ventenni

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Buon Anno a tutti – capita anche a voi che i nuovi calendari diano le vertigini? Certi anni hanno dei nomi che da bambino associavo più ai film di fantascienza che alla possibilità di arrivarci vivo. Prendi “2018”, poteva essere il titolo giusto per un romanzo sui sopravvissuti della Terza Guerra Mondiale, non l’anno in cui cambio un lavoro o decido di comprare una macchina nuova (nemmeno volante). Ma forse la vera vertigine è notare come certe cose anche futili restino al loro posto, mentre tutto il resto (giorni, settimane, mesi, governi, legislature) accelera. Per esempio la settimana scorsa, sulla prima del Corriere, mi è capitato di leggere la parola “Tafazzi”. Ancora. Possibile?

È stato Gramellini. Dovendo definire l’autolesionismo dei senatori Pd – che hanno contribuito a far mancare il numero legale sull’ultima votazione per lo ius soli – ha deciso di evocare “il ritorno di Tafazzi”. Questa è forse una buona notizia: almeno è un “ritorno”, insomma, pare che per un po’ Tafazzi non sia stato tra noi. Non solo, ma delle venti righe che ha a disposizione, il giornalista decide di spenderne almeno un paio a spiegare di chi si tratti: per fortuna il personaggio non merita veramente più di questo. “Tafazzi era l’omino di uno sketch televisivo interpretato da Giacomo Poretti che si martellava il basso ventre a bottigliate”: davvero niente da aggiungere, a parte che gli stessi autori (Aldo, Giovanni e Giacomo) lo definivano “lo zero comico assoluto”, e lo utilizzarono per lo più in brevissime gag nella trasmissione Mai dire Goal tra 1995 e 1996. Ci siete? parliamo di una macchietta che si prendeva a bottigliate nelle palle in alcuni sketch andati in onda ventidue anni fa. Ventidue anni fa.

Com’è che ne stiamo ancora parlando?

La vertigine.

Quello che sta facendo Gramellini – quello che Gramellini è bravissimo a fare – si può definire “riferimento alla cultura pop”. Ha due precise funzioni: (1) creare complicità con chi condivide la stessa cultura pop e (2) tagliare fuori tutti gli altri. In effetti di solito questi riferimenti hanno una precisa dimensione generazionale, e tendiamo a riservarli alle conversazioni tra amici. E forse dovrebbe lusingarmi il fatto che io possa ridere a una battuta del giornalista, ti ricordi di quando Giacomo si martellava le palle su Italia1? Ahah, che metafora della sinistra, a quasi un quarto di secolo di distanza. Sul serio, cosa c’è di male? Tafazzi ha 2340 risultati su Google, “tafazzismo” e “tafazzista” sono entrati nella Treccani senza destare un decimo delle polemiche riservate a “petaloso” (che nella Treccani ancora non c’è). Cos’è che mi infastidisce così tanto (a parte l’immagine di Giacomo in calzamaglia?)

C’è che gli amici che ridono cominciano a diradarsi. I quotidiani cartacei hanno perso il 50% dei lettori in dieci anni – aumentando, nel frattempo, appena del 4% su web. Le indagini sulla lettura ci confermano che la percentuale degli italiani che legge un libro oscilla da un decennio intorno al 40%. Dunque, non solo molta gente della mia età ha smesso di leggere libri e giornali, ma moltissima gente più giovane di me non ha mai iniziato. Quand’è l’età giusta per imparare a leggere un giornale? Io al liceo lo compravo. Non è che capissi tutto, ma potevo farcela. E un ventenne di oggi ce la può fare, visto quello che ci viene scritto sopra? Me lo domando spesso.

E quando leggo “il ritorno di Tafazzi” in prima pagina, mi rispondo: No. I ventenni del 2018, quando Tafazzi si sbottigliava le palle su Italia 1, non erano nemmeno nati. Non è una questione di comprensione del testo – alla fine se uno ha pazienza di leggere due righe il giornalista è pure disposto a condividere con il giovane lettore la fondamentale nozione di storia della tv degli anni ‘90 – ma chi ce l’ha quella pazienza? Se io avessi vent’anni oggi, e uno smartphone in tasca, al primo “Tafazzi” cliccherei altrove. Non saprei chi sia e nemmeno m’interesserebbe. Nome già sentito, roba da vecchi. Perlomeno ai miei tempi ragionavamo così, ogni volta che fiutavamo qualche riferimento a commedie italiane in bianco e nero o dialoghi di western con John Wayne – c’è puzza di vecchio qui, filare. A meno che nel frattempo la soglia di attenzione degli adolescenti non sia aumentata – ahahah, NO (continua su The Vision, dopo la foto di Mentana).



I giovani italiani non leggono i giornali, né su carta né altrove, e forse non li leggeranno mai. È colpa di Gramellini che si ostina a scrivere “Tafazzi” come andava di moda vent’anni fa? No. Credo che più che una causa rappresenti un sintomo. C’è una generazione di giornalisti che ai potenziali giovani lettori ha consapevolmente volto le spalle; ha fatto due calcoli e si è resa probabilmente conto che la fatica di trovare un nuovo linguaggio per recuperare i venti-trentenni non li ripagherebbe del rischio di perdere l’unica (semi)solida certezza: il pubblico ultracinquantenne.


Questi calcoli li possiamo fare anche noi: non sono difficili. Solo un po’ deprimenti. Durante le feste qualcuno è stato così gentile da allungarmi un link a un sito che non solo mi ha ragguagliato sulla data della mia probabile morte (quella più o meno l’avevo già calcolata), ma anche sulla mia posizione rispetto al resto della popolazione mondiale o nazionale. Dunque.





La cosa interessante è che mentre sono entrato a far parte già da un po’ del terzo più vecchio della popolazione mondiale, in Italia farò ancora parte per qualche anno della metà più giovane – il che è molto indicativo di quanto sia sbilanciata verso l’alto l’età media di noi italiani.


Ma che senso ha parlare di me? Stavamo parlando di Gramellini, che invece si trova qui:




Insomma ha appena scollinato, e questo spiega in parte il suo successo – è come se dalla sua terrazza Gramellini dominasse tutta la vallata che dalle vette dei Cinquanta-e-qualcosa declina lentamente verso i Novanta. Tutti quei declivi li conosce a memoria: sono il paesaggio che ha avuto davanti a sé da quando è nato. Conosce ogni sentiero e ogni modo di dire, sa dove si nasconde il Tafazzi e il Sarchiapone e ogni altra bestia fantastica dell’immaginario dei suoi lettori. Si trova nella posizione ottimale per echeggiare la porzione della popolazione italiana che i giornali ancora li legge.


La discesa non diventerà particolarmente ripida ancora per un pezzo; quanto agli abitanti della vallata a sinistra, tentare di raggiungerli non vale probabilmente la fatica di aggiornarsi. È viceversa ai venti-trentenni che viene chiesto lo sforzo di decifrare gli oscuri riferimenti alla cultura pop del secolo scorso: per fortuna c’è Google, oppure si può dare un’occhiata alla tv – specialmente alla Rai, che da questo punto di vista non è venuta meno alla sua missione di servizio pubblico: negli anni ‘60 insegnava l’italiano agli analfabeti, oggi in prima serata con il suo programma di punta (Techetechetè) insegna gli anni ‘60-’70-’80 a chi ha avuto la tremenda sfortuna di essere nato dopo.


Il grafico non è utile soltanto per mostrarci quando moriremo: ci fornisce anche una previsione ragionevole sul momento in cui auspicabilmente non sentiremo più parlare di “Tafazzi” e “tafazzismo” – più o meno verso il 2040. A quel punto Gramellini sarà sugli 80, che già oggi in Italia per un editorialista è un’età ragguardevole ma non eccezionale: Scalfari ne ha 93, Sartori ne aveva 90 quando si arrabbiò perché al Corriere gli toglievano i corsivi dalla prima pagina senza il suo permesso

Non è invece affatto facile capire cosa succederà, nel frattempo, nel mondo dell’informazione in lingua italiana: che riferimenti culturali condivideremo quando i babyboomers andranno in pensione (tardi) e non sarà più indispensabile comunicare con loro e attraverso loro? Esisterà una lingua comune che i millennial italiani possano adoperare o finiranno per usare anche loro “tafazzi” come sinonimo colorito per “masochista”, anche quando si sarà del tutto persa l’immagine terribile di Giacomo sbottigliantesi i testicoli? Non saprei. So che prima o poi dovremo preoccuparcene – il 2040 in fondo è tra poco più di vent’anni.



(La vertigine).
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L'ultimo sanguinario, tempestoso Dylan

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Tempest (2012)
(Il disco precedente: Christmas in the Heart)
Poi c'è una specie di canzone: Murder Most Foul).

Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Fischia come per spazzarmi via.
Mi fermo un po' a Carbondale, poi riparto,
il Duquesne mi riprenderà con sé.
Mi dai del giocatore, del ruffiano,
Ma non sono né l'uno né l'altro.
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come fosse l'ultima partenza.


È stato un lungo viaggio. Anche per chi come noi lo ha fatto tutto in un anno solo, concentrato, una stazione alla settimana. Per più di un anno abbiamo accettato l'idea che un insieme arbitrario di canzoni incise sullo stesso supporto ("disco") possano avere un senso, una qualità superiore (o inferiore, talvolta) alla somma delle parti. Alcune stazioni erano famosissime, altre in disuso; altre sconosciute, artificiali, monumentali, postume. Spesso abbiamo avuto la sensazione di ritornare indietro; talvolta ci siamo messi a fantasticare di ideali scorciatoie, o di stazioni immaginarie che avrebbero avuto più senso di quelle che invece esistono davvero (e che non hanno sempre senso). Tre o quattro volte siamo arrivati in una stazione che sembrava essere concepita come l'ultima - già Blonde on Blonde in qualche modo suggeriva questa sensazione. E poi i dischi con Lanois; alcuni confanetti; e tutti i dischi dal 2000 in poi: hanno tutti quell'aria di capolinea che non ci ha mai impedito di ripartire. Tempest, uscito nel 2012, allude all'ipotesi già dal titolo, che ogni buon ex studente anglofono collega, ancor prima che a un evento atmosferico, all'ultima opera di William Shakespeare. Quella però si chiama The Tempest, con l'articolo: fu Dylan stesso a ricordarlo ai giornalisti, almeno una volta. Segno che si era posto il problema; che non trovava poi così immodesto paragonarsi al più grande bardo inglese, dopo essersi paragonato più di una volta a Picasso - e proprio di Shakespeare avrebbe parlato nel primo biglietto di ringraziamento spedito all'Accademia di Svezia dopo l'annuncio del Nobel: uno Shakespeare impresario di sé stesso, che oltre a scrivere tot righe all'anno deve anche preoccuparsi di fundraising e oggetti di scena (“Dove posso procurarmi un cranio umano?”). Chissà se poi le cose andassero davvero così, se Dylan si sia realmente documentato sulle incombenze dei drammaturghi elisabettiani. Fatto sta che a un certo punto Dylan ha voluto chiamare una stazione "Tempest"; ha voluto che pensassimo che poteva essere l'ultima; quando gliel'hanno chiesto, ha negato; e in effetti ci sono state altre stazioni, ma ora che ci siamo lasciati parecchie miglia alle spalle ci rendiamo conto che forse è andata proprio così: Tempest era l'ultima.

Certo, il treno è andato avanti. E potremmo andare avanti anche noi, almeno per un po'. Ma in un certo senso Dylan è sceso. Il Dylan compositore, perlomeno: ovvero quello che ci interessa di più. Seguono altre tre stazioni di cover di lusso, una interminabile playlist di pezzi confidenziali che potrebbe essere quel tipo di musica che suonano nell'ascensore mentre uno va in paradiso, ecco, forse da Tempest in poi ci troveremo in un limbo del genere, e sai quanto ci divertiremo! Abbiamo tre stazioni per decidere se Dylan abbia preso più da Sinatra o più da Louis Armstrong o per caso niente da entrambi. Ma prima di tutto questo dobbiamo affrontare Tempest con la consapevolezza che è davvero, che ha proprio tutta l'aria di essere l'ultimo disco di inediti che Dylan ha voluto pubblicare. E com'è questo Ultimo Disco di Dylan, com'è? Beh:


Ha una della copertine più brutte mai autorizzate da Dylan ("Qualcuno è stato davvero pagato per questa cosa?" "Sembrano i primi passi su photoshop di uno studente del primo anno"). Ma dal punto di vista musicale, l'unico che c'interessi davvero, com'è?

È... straordinario (per un settantenne, almeno).

Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Fischia come non ha fischiato mai.
Il blu lampeggia, il rosso avvampa
come sulla porta della mia camera.
E tu sorridi ancora dal cancello
come mi sorridevi un dì?
Senti come fischia il vecchio Duquesne:
come se non dovesse fischiare più.

La straordinaria opera di un settantenne. Temo che a questo punto del viaggio l'età del conducente non possa più essere considerata una curiosità. Per quanto ancora possano essere suggestive le stazioni, è il viaggio che sta diventando un'opera in sé; nessun treno dello stesso genere ha percorso un tratto così lungo e complicato. Forse non abbiamo neanche gli strumenti per descriverlo, il disco rock di un settantenne; ci mancano i punti di riferimento - persino i Rolling Stones (comunque partiti dopo) sono rimasti indietro, su una pista tutta loro che torna sempre alle stesse stazioni. La grandezza del Dylan di Tempest rischia di essere la grandezza di certi atleti che vanno alle olimpiadi senior per la quarta volta e finalmente vincono la medaglia perché i loro avversari storici nel frattempo sono morti. Allo stesso tempo, come si fa a ignorare che Dylan continui a suonare ottanta concerti all'anno all'età in cui voi vi immaginate davanti a un brodino caldo all'ospizio? Che stia ancora scrivendo canzoni mezzo secolo dopo aver pubblicato Blowin' in the Wind?




Stavolta a soffiare è una vecchia locomotiva a vapore, la "Duquesne", metafora semplice e immediata della vita e della morte. È un soffio che gli ricorda chi è stato e chi non potrà mai non essere; è un fischio che annuncia il destino, come quello di When the Ship Comes In; se è della morte che si sta parlando, non è questa gran novità: ne parlava più ossessivamente il Dylan del suo primo disco di 50 anni prima. La novità è magari il modo sornione con cui ne parla: Duquesne è il brano più allegro, più sereno del disco, l'unico vero swing (e l'unica collaborazione con Robert Hunter, a mio avviso la più riuscita). Dylan attraversa la canzone come un vecchio giocatore con qualche brutta avventura alle spalle e un pensiero fisso che gli fa compagnia come una vecchia amante. Il riff della chitarra è un capolavoro di sintesi tipico del suo ultimo stile chitarristico (lui nel frattempo nei concerti era passato alla tastiera, segno che forse le articolazioni gli danno qualche difficoltà). Due note; di nuovo due note ma con una velocità diversa; di nuovo il primo intervallo di due note; e infine un intervallo un po' più esteso. Come la biella della locomotiva, che ha solo due direzioni e manda avanti un treno intero. Qui e in The Long and Narrow Way (che gira intorno a una versione semplificata del riff di Hoochie Coochie Man) il minimalismo chitarristico di Dylan potrebbe essere un modo per adeguare la musica ad articolazioni meno reattive: ma ricorda anche quel certo tipo di sbrigatività con cui affrontava i suoi cavalli di battaglia acustici già dopo qualche anno, accelerandoli e semplificandoli. Il vecchio Dylan contiene sempre il giovane Dylan.

Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come se facesse a pezzi il cielo.
Sei l'unica cosa viva che mi manda avanti,
sei una bomba a orologeria nel mio cuore.
Riesco a sentire una voce che mi chiama...
Dev'essere la madre di nostro Signore.
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come se il mio amore fosse a bordo.



Poteva essere molto peggio, questo ultimo disco di Dylan. (Per esempio: poteva essere Together through Life).  Come uscita di scena di un grande autore, è comunque notevole: contiene almeno due brani (DuquesneTin Angel) che salgono immediatamente nell'empireo delle trenta canzoni migliori di tutti i Dylan: il che non si può dire di dischi più robusti come Modern Times Time Out of Mind. Allo stesso tempo contiene anche brani che possono lasciare perplessi (Long and Wasted YearsTempestRoll On John), come non succedeva ormai da parecchi anni; perché Dylan in Tempest si prende dei rischi che non si prendeva da tantissimo tempo, da quanto? Forse dal 1990 di Under the Red Sky. Ricordate che a un certo punto il viaggio si è fatto molto più tranquillo, senza più scossoni improvvisi, con tappe più lunghe e rifornimenti confortevoli, ma come dire, un po' ripetitivi? Ecco, Tempest non è così e sarebbe il suo più grande pregio - se non contenesse Duquesne Tin Angel, che sono pregi più grandi. Proprio quando ci aspettavamo l'Ennesimo Disco Alla Jack Frost, metà blues metà ballate confidenziali, il settantenne Dylan si rimette a pasticciare con altre cose; e i risultati non è che siano sempre limpidi, però...



Però a questo punto meglio così, davvero. Meglio cose torbide come Pay in Blood e persino filastrocche interminabili e inascoltabili come Tempest: meglio tutto questo all'ennesima collezione di rockabilly e blues, perdio, lo so che sono la quintessenza del folklore americano e una componente ineludibile della dylanità, ma sono su questo scompartimento da un anno e non so se sarei riuscito ad ascoltarne tre in più. In Tempest ce n'è il minimo sindacale (sul serio, probabilmente se non ne infila almeno un paio ad album Robert Johnson sale dall'inferno a complicargli i sogni): entrambe variazioni di Hoochie Coochie Man: la già citata Long and Narrow Way ed Early Roman KingsHoochie Coochie era un inno all'arroganza del maschio alpha; le nuove Hoochie Coochie di Dylan sono canzoni più trucide che arroganti, ma è un aspetto che condividono con quasi tutto il disco - è un disco che trabocca di sangue. Quel che più sorprende è che non sia sangue di Dylan. Lui stesso ce lo spiega per cinque lunghi minuti: “pagherò col sangue, ma non col mio”... (continua sul Post).
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Insieme attraverso i brutti dischi

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Together through Life (2009)
(Il disco precedente: Tell Tale Sign.
Il disco successivo: Christmas in the Heart).

Immagino che se invecchi abbastanza riesci ad arrivare a un momento in cui rimpiangi qualsiasi cosa. Io perlomeno credo che potrei arrivarci, per dire ultimamente a volte penso a un autogrill. Non provo nostalgia di una ragazza che andavo a trovare - cioè la provavo, ma ormai è una nostalgia che ha perso il suo sapore, come un bubblegum molto rimasticato - non provo più nostalgia per la città in cui abitava. Anche quel tratto di autostrada ormai per me è un tratto qualsiasi. Ma a volte mi fermavo in autogrill e quello ancora un po' mi manca. L'hanno buttato giù per farne uno più grande che invece non mi ricorda nessuno. Stavamo dicendo?

"Che se invecchi abbastanza riesci ad arrivare in quel momento in cui rimpiangi qualsiasi cosa".

Ah già. Bob Dylan per esempio, a un certo punto ha smesso di avere nostalgia per The Freewheelin'. Ma anche per Blonde on Blonde Blood on the Tracks. Dylan a un certo punto deve aver cominciato ad aver nostalgia per quando registrava certi suoi dischi inutili, bruttini, senza capo né coda. È la famosa legge dei vent'anni: negli anni Quaranta era tornato di moda lo swing degli anni Venti (ma Mussolini aveva piuttosto nostalgia di quando i fascisti marciavano sulle capitali). Negli anni Sessanta si credevano tutti partigiani. Negli anni Settanta improvvisamente si ricordano di quanto era smagliante e cromato il rock'n'roll. Negli anni Ottanta avevano tutti nostalgia di quando negli anni Sessanta si credevano tutti partigiani. Nel 2008, Dylan è maturo per provare nostalgia per i dischi più deprimenti che ha fatto; roba come Knocked Out Loaded, o Down in the Groove, roba che mette tristezza solo a pensarci - ma se la lasci decantare per vent'anni, quella tristezza a un certo punto deve assumere un sapore interessante. Ve lo ricordavate di com'era difficile essere dylaniti negli anni Ottanta, quando il nostro registrava quaranta tracce con quaranta musicisti diversi in cinque studi in sei mesi e un attimo prima di buttar via tutto pubblicava i cocci? E noi glieli compravamo, e glieli ascoltavamo, e glieli stroncavamo... Che nostalgia.


Quelle belle giacche di una volta
non torneranno più
Ehi Bob, ma lo sapresti fare ancora un disco triste e buttato lì come Down in the Groove? Nah, io dico di no. Ormai sei diventato una macchina, non te ne accorgi? Hai una band che non sgarra una battuta, hai musicisti che sanno quel che vuoi suonare un attimo prima che tu voglia suonarlo. Ogni tre-quattro anni fai uscire il tuo cd da un'ora, metà blues e metà altro, e non c'è un solo critico che osi criticarti davvero, ormai sei un'istituzione. E dire che una volta erano la specialità della casa, i dischi venuti male. Erano anche un po' la garanzia della genuinità del prodotto: se volevi la ciambella di Dylan, sapevi di non poterti aspettare il buco. Ma quei tempi sono finiti ormai, ormai le ciambelle di Dylan sono fatte con lo stampino, non riusciresti a sbagliare un buco nemmeno se ti ci impegnassi, scommettiamo?

MOTIVI PER CUI TOGETHER THROUGH LIFE, USCITO NEL 2008, FU IL SUO DISCO PIÙ BRUTTO IN 20 ANNI.

1. Ve ne viene in mente un altro? Come passa il tempo, sono già 20 anni che è uscito Oh Mercy. In seguito abbiamo avuto Under the Red Sky (che secondo me è piuttosto bruttino, ma vedo in giro che piace), i due acustici, Time Out of Mind“Love and Theft” Modern Times. Appena sette dischi in vent'anni! In compenso la qualità ha smesso di oscillare sull'ottovolante come le succedeva negli orribili anni Ottanta e nei complicati Settanta. Together non è un disco brutto come Self Portrait Knocked Out, ma rispetto ai tre dischi precedenti ha qualcosa di dissonante, di irrisolto, di affrettato - qualcosa che in fondo ci mancava. Ben tornato, cattivo Bob, cos'hai combinato stavolta? Hai licenziato i tuoi fedeli musicisti? Non risulta, eppure si capisce da subito che c'è qualcosa che non va. Appena parte Beyond There Lies Nothing, con quella tromba un po' stonata (chi la sta suonando?) e poi... la fisarmonica?



2. La fisarmonica. Ogni tanto succede che uno strumento insolito dia un colore particolare a un disco di Dylan - l'organo di Kooper in Blonde on Blonde, il violino di Scarlet Rivera in Desire, il sax di Street-Legal, e quella fantastica batteria elettrica in Empire Burlesque, ve la ricordate? che nostalgia. Ecco. Together Through Life è il disco di Dylan con la fisarmonica in tutti i brani. La suona David Hidalgo, chitarrista-pluristrumentista dei Los Lobos. Non la suona male. Ma la suona in tutti pezzi, ed è una maledetta fisarmonica. Se voglio sentire le fisarmoniche ascolto Raul Casadei. Ok, forse è un problema mio. Probabilmente uno choc infantile. Odio le fisarmoniche.

3. Il mandolinoNon così onnipresente - si sdilinquisce all'inizio di Life is Hard, ma di solito è molto più discreto, però allora dillo che lo fai apposta. Fisarmonica e mandolino, come ai tempi di Joey: non dirmi che rimpiangi anche quelli. This Dream of You, 35 anni dopo Joey, è il secondo tentativo di scrivere una ballata all'italiana, con quell'idea tutta particolare di italianità che possono farsi a Manhattan quando vanno a mangiare le fettuccine Alfredo. Certo che ce ne vuole di nostalgia del disastro, per tornare sulle orme di un delitto come Joey. Di quali altri delitti senti la mancanza, Bob? Qual è la cosa peggiore che rifaresti? Non so, un altro tour coi Grateful Dead? Troppo tardi, Garcia non c'è più. In compenso puoi sempre rimetterti a collaborare con...

4. Robert Hunter"Hunter è un vecchio amico, potremmo probabilmente scrivere un centinaio di canzoni assieme se pensassimo che ne valesse la pena"... è un'affermazione che suona vagamente minacciosa. Hunter era un membro atipico dei Dead: benché scrivesse per loro, non li seguiva dal vivo. Il suo rapporto con Dylan ha qualcosa di inspiegabile. Robert Hunter è l'autore di una delle canzoni che Dylan ha cantato più dal vivo, Silvio. La leggenda ci dice che aveva trovato la pagina col testo nello studio dei Dead. Cosa ci abbia trovato proprio in quella paginetta nessuno lo sa. È un rock senza infamia e senza lode: Hunter ne ha scritti a dozzine, Dylan ne ha scritti centinaia. Nel 2008 si ritrovano insieme e decidono di scriverne un altro po', casomai ce ne fosse venuta la mancanza (non c'era venuta). Hunter è un grande autore? Ha scritto tantissima roba, ma niente che abbia mai veramente superato il suo ambito di competenza (per dire: mi sapreste dire un grande successo dei Grateful Dead?) Io i Dead non li ho mai capiti e non saprei neanche esattamente dire cos'hanno di diverso i testi di Together - forse sono più brevi del solito, ecco, magari Dylan portava la penna e Hunter le forbici. In questo caso bravo Hunter, perché uno dei pregi di Together è che dura un quarto d'ora meno del solito (ma mezz'ora più del necessario).



5. I just want to make love to you. Metà dei brani, che ve lo dico a fare? sono blues o derivati. Blues in 8 misure, blues in 12 misure, rockabilly, rock and roll, non è che non conosca certe differenze, ma sapete una cosa? Mi rifiuto, è come quando un birraio pretende di farti degustare delle lager, ma andiamo. E il retrogusto, e i profumi, e neanche fosse cognac, sant'iddio, è birra, servila fredda e non rompere i coglioni. Che Dylan sia uno dei più grandi bluesman della storia è ormai fuori discussione; se ne poteva discutere al massimo nei primi mesi del '64, quando con Subterranean Homesick Dylan aveva stravolto il genere come un calzino, dimostrando che il blues per lui non era antiquariato, ma qualcosa di vivo e pulsante. Ma ormai sono trent'anni che per Dylan suonare il blues è giocare in difesa. Come quando gli chiedono: perché suoni cento concerti all'anno? E lui risponde che B.B. King ne suona trecento, che discorso è? C'è che nessuno se la prende se B.B suona gli stessi blues da una vita, e nessuno dovrebbe prendersela se Dylan fa la stessa cosa. Negli ultimi vent'anni ne ha buttati fuori talmente tanti che potrebbe persino aver messo lo stesso blues in due dischi diversi, con due titoli diversi, e nessuno se ne sarebbe accorto - nessuno. I blues si somigliano tutti; alcuni si somigliano più di altri; in Together a un certo punto Dylan sembra volerci cantare I Just Want to Make Love to You (ma si chiama My Wife's Home Town). Jolene è un vecchio rudere r'n'r che cerca di commuoverti al bancone così gli paghi da bere anche stasera. In Forgetful Heart fa capolino un riff che sembra il tema di Peter Gunn (e il rullante della batteria sembra un po' svitato); Shake Shake Mama è la cosa più divertente del disco, ma è come quando hai voglia di birra e te ne servono una fredda, va bene? Vuoi farmela pagare il doppio perché è artigianale? Non siamo tutti un po' vecchi per queste stronzate? (continua sul Post)
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Avanti, a passi sempre un po' più corti

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Modern Times (2006)
(Il disco precedente: "Love and Theft";
il disco successivo: Tell Tale Signs).
Avete notato come passa alla svelta il tempo ultimamente? Roba che ormai ti addormenti in autunno ti risvegli in primavera. Oppure, non so, inviti una ragazza a cena ma passi a prenderla un po' in ritardo e lei nel frattempo si è sposata e ha avuto tre figli uno dei quali vuole fare il liceo scientifico, io che ne penso? Penso che me l'avevano pur detto, che il tempo funzionava così. Pare sia una questione percettiva, abbastanza elementare se ci rifletti.
Quando compi un anno di vita, tutta la vita è in quell'anno; ma poi ne compi un altro e ti sembra un periodo lunghissimo, addirittura la metà della tua vita. E già pensi che ti aspetta un altro anno, ma quando arriva è soltanto un terzo della tua vita (che per carità, è ancora parecchio). Ma insomma, ogni anno che passa, passa più alla svelta: e per quanti anni metti assieme, la somma di tutti gli anni dopo il primo non durerà mai quanto il primo. La funzione insomma è y=x/1+x/2+x/3+x/4+x/5 eccetera, c'è senz'altro un modo più elegante ed esauriente di scriverla ma non ho fatto lo scientifico. La cosa interessante è che quando arrivi a x/65 - l'età di Dylan quando incise Modern Times, in realtà devi ancora arrivare al quinto anno di età percepita. Roba da matti.


Infatti secondo me ho fatto un errore. Eppure il ragionamento spiegherebbe perfettamente il perché a un certo punto oltrepassi una specie di soglia dopo la quale gli anni passano talmente alla svelta che non li riconosci più. C'entra anche il modo in cui ti tratta la vita: fino a vent'anni puoi provare a cambiare spesso i partner, o la città, o la professione, ma a un certo punto fatalmente rimani incastrato in una famiglia e/o una città e/o un ufficio, e da lì in poi certe cose come, che so, fare la spesa, assumono una ritualità ipnotica: se all'Esselunga ogni tanto non cambiano il posto ai prodotti degli scaffali, tu sul serio certe volte non ti ricordi più se quei cetriolini li hai comprati la settimana scorsa o dieci anni fa. Oppure entri in un bar e il cameriere ti serve senza chiederti niente, ma come si permette, poi fai due calcoli e sono già cinque anni che entri e chiedi la stessa cosa, cinque rapidissimi anni, ma in realtà per te ne sono passati appena (1/35+1/36+1/37+1/38+1/39)=0,13, cioè quando dici che ti sembra ieri che inauguravano il locale, dal tuo punto di vista hai ragione (è che il tuo punto di vista sta accelerando man mano che muori).
Il peggio è che lo avevo sempre saputo che sarebbe finita così, ma per qualche motivo ero convinto che l'avrei gestita meglio degli altri. Per esempio: scriverò una pagina tutti i giorni per tutta la mia vita. Quando mi chiederanno, dove hai messo il tuo tempo? Eccolo qua. E non si sgarra, vedrete che ogni anno sarà più o meno di trecento pagine. Che ingenuo, vero? Beh, l'ho fatto sul serio. Meno male che hanno inventato i blog, sennò ormai mi ritroverei in soggiorno una pila di manoscritti che mi accuserebbero: "dove hai messo il tuo tempo?" E, indovinate? Ogni pagina è come se fosse un po' meno importante della precedente. Per esempio: cosa facevo nel febbraio del 2006, mentre Bob Dylan incideva Modern Times (sembra ieri e infatti è successo 11 anni fa)? Voi non vi ricordate di cosa stavate discutendo nel febbraio del 2006. Io sì, io ho l'archivio on line. Io infatti stavo discutendo... delle vignette satiriche di Charlie Hebdo su Maometto.
No, aspetta
Sono passati già undici anni?
Dio mio.
Ma parliamo di Dylan. Ha appena ottenuto una nomination ai Grammy - beh, ne ha già vinti dodici, di cui uno alla carriera. Ultimamente lo candidano nella categoria "Miglior album pop tradizionale", che come ci spiega l'eminente Madeddu non è un campo qualsiasi, ma il teatro di una logorante guerra di posizione tra Tony Bennett e Michael Bublé. Che ci fa Dylan tra questi crooner, questi interpreti confidenziali? Diciamo che la cosa non ci sorprende più. Forse ci avrebbe ancora sorpreso l'altro ieri - ovvero nel 2006, quando uscì Modern Times.


Una cosa dovete riconoscere al signor Dylan: non ha mai voluto incidere lo stesso disco due volte. Diciamo *quasi* mai. Persino quando aveva a disposizione solo una chitarra e un'armonica, ogni disco era il segnale che il tempo stava cambiando. The Freewheelin' non assomigliava a The Times They Are A-changin' che non assomigliava ad Another Side. Solo verso gli anni Ottanta le sue difficoltà in studio lo hanno portato un po' a ripetersi: ma persino Saved non assomigliava a Slow Train Coming; persino Knocked Out Loaded, che è pure fatto con gli avanzi di Empire Burlesque, in qualche miracoloso modo è già un disco diverso. Per quanto la gente continuasse a pensare a lui principalmente come al menestrello delle foto in bianco e nero, o il rocker d'avanguardia in occhiali scuri - tutti ricordi risalenti ai suoi pochi, primi, lunghissimi anni - Dylan ha combattuto l'accelerazione del tempo con tutte le sue forze, continuando a cambiare pelle a ogni disco. Questo forse per lui era più importante che la qualità - posso capirlo. Immagino che trovare un seguito a The Freewheelin' debba essere dura, ma quando invece hai fatto trenta dischi, è così importante se il trentunesimo è un capolavoro o è inascoltabile? Smetterai di essere il grande Bob Dylan, se capita che sia un brutto disco? E se invece è buono, qualcuno oserà metterlo sullo stesso piano di Blonde On Blonde e di quei dischi che hai inciso in fretta e quasi per caso da giovane, quando gli anni non finivano mai e succedeva qualcosa di diverso tutti i giorni?



Modern Times è il 32esimo disco di studio di Bob Dylan, e com'è? È buono. Buono come "Love and Theft" Più o meno. Buono come Highway 61? In teoria si potrebbero mettere sullo stesso piano - se potessimo avere un punto di vista fuori dal tempo, e magari tra uno o due secoli un ascoltatore ce l'avrà. Per adesso è come paragonare una stella di media grandezza al big bang. La cosa più notevole è che almeno per una buona metà Modern Times suona quasi identico al precedente, di cui ricalca la struttura (un brano rockabilly, uno swing, di nuovo un rockabilly, ecc.): il che non è poi sorprendente per un tizio che ha già stampato trentadue dischi (i Rolling Stones hanno cominciato a cristallizzarsi trent'anni prima) ma lo è per Dylan. Soprattutto se pensiamo che tra i due dischi ci sono cinque anni: un'eternità.



È lo stesso tempo che separa il suo disco d'esordio da John Wesley Harding. Quante pelli Dylan aveva già cambiato tra 1962 e 1967? Tra 2002 e 2007, Dylan sembra congelato. E invece si stava dando parecchio da fare: nel 2004 pubblica il primo e per ora unico volume della suona biografia, Chronicles I. Nello stesso periodo assiste (per la verità in modo abbastanza distante) alla lavorazione del documentario di Scorsese, No Direction Home; nel frattempo i negozi di dischi vengono riforniti regolarmente di nuove uscite della sua Bootleg Series. Sono insomma anni in cui Dylan sta lavorando molto sul suo passato: lo corregge, in certi casi lo stravolge, inserisce dettagli che mai ci saremmo aspettati... ad esempio scopriamo con Chronicles che a lui i grandi standard jazz sono sempre piaciuti, e che quando nel 1970 tutti lo aspettavano sulle barricate, lui andava con Sara a sentire un concerto di Sinatra Jr. Ma non è sempre stato così con lui? Quando passò al rock, non si premurò di informarci che aveva sempre sognato di suonare il rock? E il country? Non era la musica che aveva sempre sognato di fare prima di riuscirci con Nashville Skyline? Dylan è sempre fedele al suo passato, che però può modificare quando e come vuole.



Accanto a questa incessante opera di revisionismo storico, c'è una vita quotidiana fatta soprattutto di concerti: più o meno ottanta all'anno, in Europa, Asia e soprattutto America. Forse Dylan ha avuto un'idea migliore della mia: quando ha capito che fare un disco all'anno non avrebbe fermato il tempo, ha deciso di svegliarsi ogni mattina in un albergo diverso. Magari il Tour Infinito è il suo modo di fermare l'istante. Che dire: beato lui. In albergo, tra una data e l'altra, trova anche il tempo di registrare il suo "Theme Time Radio Hour", un programma radiofonico che comincerà nel 2006 e andrà avanti fino al 2009. Un'ora di trasmissione, una dozzina di vecchie canzoni collegate dallo stesso argomento, e tra un pezzo e l'altro la voce di Dylan che si atteggia a vecchio dj notturno - quel caldo timbro sussurrato delle vecchie FM (continua sul Post)
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Pietà per Dylan

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Oh Mercy (1989)
(Il disco precedente: The Traveling Wilburys Vol. 1
Il disco successivo: Under the Red Sky).

Broken lines, broken strings. Broken threads, broken springs.
Broken idols, broken heads. People sleeping in broken beds.

Ain’t no use jiving, ain’t no use joking:
Everything is broken.

Scusate, sono un po' in ritardo coi dischi di Dylan, però non avete idea di cosa mi è successo questa settimana. Tanto per cominciare c'è puzza - dovrei telefonare l'amministratrice ma a proposito mi si è rotto il telefono - il modem di casa mi sta morendo, niente linea fissa. È da tre mesi che lo voglio cambiare ma Telecom Italia (sì dico proprio a te amica TIM) non riesce a farmi un contratto. Chiamarli al telefono è inutile, dovrei uscire ma si è rotto il ventilatore dell'auto, o va al massimo o non va, e mi è anche venuta un po' di bronchite. L'elettrauto doveva cambiarmi la resistenza, ma non riescono a collegarsi con la casa madre, non gli funziona la rete. Forse volevano passare a TIM anche loro. Anche a scuola c'è puzza, per un cantiere dicono, che però è bloccato perché hanno rotto qualcosa. Non riesco a configurare in rete la fotocopiatrice del plesso. In seconda un nativo digitale si è appeso al cavo di alimentazione di una LIM (le LIM si rompono continuamente). I genitori che fanno le collette per le LIM, anche loro si rompono spesso. Mentre penso a tutto questo mi chiama una signora dall'Albania e mi chiede se per caso non vorrei passare a TIM. Mi lasci perdere signorina, le dico, tra me e TIM ormai c'è una storia troppo complicata, ne stia fuori, le conviene: ma lei insiste, occupando l'unica linea telefonica che mi funziona (così i colleghi che hanno rotto qualcosa non mi possono chiamare). Per comprare un modem nuovo potrei usare il Bonus Docente, ma anche lì si dev'essere rotto qualcosa, non mi riconosce la password. Neanche il codice di emergenza. Rotto anche quello. Il Bonus Docente poi devo stare attento a usarlo, mi serve anche per la Nuova Piattaforma Formativa del Ministero, che è appena nata e si è già, ovviamente, rotta. La signorina insiste che lei risolverà qualsiasi problema tra me e TIM, dall'Albania, lei non è come tutte le altre che ci hanno provato da giugno in poi. Entra un ragazzo e chiede se lo stereo funziona, ne ha bisogno la collega d'inglese. Lo stereo sì, ma il cavo di alimentazione l'altro giorno ha fatto saltare una valvola in mezzo corridoio. Sotto il corridoio c'è una stanza, io lo so che c'è, piena di cose che si sono rotte o sono state dichiarate tali. Bisognerebbe caricarle su un furgone e portarle in discarica, ma suppongo sia rotto anche il furgone. Oppure prendersi un paio di ragazzi e cercare di capire cosa è rotto davvero e cosa potremmo ancora recuperare - sarebbe molto bello ma anche i ragazzi rischiano di rompersi, bisogna far firmare un'autorizzazione ai genitori, con cosa la stampo? La stampante è rotta. Dovrei configurare la fotocopiatrice. Oh, pietà.

Broken cutters, broken saws. Broken buckles, broken laws
Broken bodies, broken bones. Broken voices on broken phones.
Take a deep breath, feel like you’re chokin':
Everything is broken


Si è rotto anche il cuore di Tom Petty, troppo presto a mio parere. Forse non sembrerebbe così assurdo se Dylan non fosse ancora in circolazione - pubblica dischi, ritira premi - la vera notizia non è un rocker sessantenne che muore, ma Dylan che continua a sopravvivere. Lista di rockstar vive nate prima del 1942: Bob Dylan, Charlie Watts, Ringo Starr, David Crosby, altri in mente non mi vengono. Dylan ha iniziato a seppellire colleghi quando aveva vent'anni, e non ha mai smesso. Ha debiti infiniti con gente che non verrà più a riscuoterli, e Chronicles a volte dà l'impressione di essere proprio questo: il libro dei debiti morti e coi vivi. Tom Petty era uno dei due artisti più giovani a comparire in bilancio: a metà anni Ottanta i suoi Heartbreakers lo avevano raccolto con il cucchiaino e rimesso in sesto. "Tom stava dando il meglio di sé e io stavo dando il peggio". Con gli Heartbreakers ritrovò la voglia di suonare dal vivo, ed è curioso che non esista un disco live che documenti l'evoluzione dei loro concerti tra il 1986 e il 1987 - un'ottantina di date. Per dire, coi Grateful Dead ne suonò soltanto sei, e di quel tour abbiamo il disco (purtroppo). Magari è solo un problema di diritti. In realtà anche Petty, quando incrociò Dylan, era un po' appannato e bisognoso di visibilità. E le cose cominciarono a girare per entrambi soltanto quando presero un po' il largo: anche grazie a Dylan, Petty incontrò Jeff Lynne, mentre Dylan un giorno si ritrovò nello studio di Daniel Lanois.

What good am I then to others and me
If I had every chance and yet still fail to see
If my hands are tied must I not wonder within
Who tied them and why and where must I have been



Quando ero giovane mi si rompeva tutto perché mi piacevano le cose usate (è un modo elegante di dire che ero taccagno). Il mio primo giradischi, mi ricordo, era amplificato con due vecchie casse per automobili - io vivevo sopra un'auto-officina e avevamo un cortile pieno di quelle cose un po' rotte un po' no. Queste casse a volte vibrando finivano per cascare sul giradischi segnando orribilmente i vinili. A un certo punto mi ruppi e comprai un impianto stereo, col lettore CD. Era già il 1989 e io non avevo davvero l'intenzione di mettermi a comprare CD (costavano il doppio delle cassette, maledette major, gli mp3 ve li siete cercati) ma intendevo copiare tutti quelli dei miei amici. In questo modo comunque cominciarono a entrare nella mia camera molti CD, e cominciai ad ascoltare la musica in un modo diverso. Prima alzavo il volume e amen, sperando che verso l'alto il canale sinistro e quello destro avrebbero trovato un loro equilibrio, e che i bassi non facessero cascare qualche libro da una mensola. Ma verso la fine degli anni Ottanta, magari fu una coincidenza, cominciai ad ascoltarli a un volume molto basso, mentre studiavo o leggevo o pensavo o facevo finta di. Il cd all'inizio aveva qualcosa di magico: potevi abbassare il volume finché non si sentiva nulla: col vinile la puntina continuava a gracchiare qualcosa, col nastro c'era qualche altro rumore (le testine?), il cd invece scompariva del tutto - solo se accostavi l'orecchio udivi qualcosa di simile a un piccolo sputacchio. A quel punto gli eroi del rock, quelli che mi avevano urlato nelle orecchie per gli ultimi cinque anni, potevano improvvisamente esprimersi sottovoce, come amici venuti a trovarmi. Sarà stata una coincidenza, ma proprio in quell'anno due vecchi fracassoni uscirono con dischi confidenziali: Lou Reed pubblicò New York, Bob Dylan Oh Mercy. Non avevano mai cantato così piano. Ma forse prima non avevo la rotellina del volume. Sul serio, fino al 1989 non osavo toccare troppo certe rotelline, mi si rompeva tutto, oh, per carità.

Most of the time I’m clear focused all around;
Most of the time I can keep both feet on the ground.
I can follow the path, I can read the signs
Stay right with it when the road unwinds
I can handle whatever I stumble upon
I don’t even notice she’s gone
Most of the time

Un altro posto dove tutto sembrerebbe rotto è la biblioteca di Babele, quella di Borges. Dentro ci sono tutti i libri che si possono scrivere - il che significa che per un volume con un briciolo di senso ce ne sono miliardi composti di stringhe di lettere senza significato. Gli abitanti della biblioteca si aggirano per il loro universo ripetendosi, come noi, che è tutto rotto, ogni libro è rotto, e non c'è rimedio. In uno degli scaffali c'è un libro che contiene un racconto molto singolare. Comincia esattamente come il quarto capitolo di Chronicles I: c'è Dylan preoccupato perché si è rotto una mano, non sa se ne recupererà la sensibilità, e questa disgrazia domestica gli è successa proprio nel momento in cui ha solo voglia di suonare. Non vuole più scrivere canzoni - dice che ne ha scritte già abbastanza e nel 1988 sembrava un argomento sensato. Gli si è rotta l'ispirazione. Non vuole nemmeno più incidere, ormai le sale d'incisione sono diventate luoghi dove si trova a disagio e non riesce a combinare niente di buono. Gli si è rotta la concentrazione. Vuole soltanto cantare e suonare dal vivo, ma gli servono le mani e si è rotto anche quelle. Oh merda.

Far away where the soft winds blow, far away from it all
There is a place you go where teardrops fall.



È il momento in cui in una leggenda appare un santo o una madonna; in questo caso entra Bono con una cassa di Guinness. Dylan lo frequenta da qualche tempo: ci ha cantato assieme in Sun City, hanno duettato in Rattle and Hum, c'è stima reciproca - forse perché Bono è l'unico artista al mondo che sostiene di amare Shot of Love. A questo punto della storia Bono è la Voce del Rock, e non solo. Ha combattuto l'apartheid, ha pianto con le madri di Plaza de Mayo e coi minatori inglesi in sciopero. Ma che importanza ha visitare i carcerati e sfamare gli affamati, se Bob Dylan nel frattempo continua a fare dischi di merda? Così, dopo aver ben chiuso le 99 pecorelle nel recinto, Bono parte per Malibu con una missione: salvare Bob Dylan, condurlo da Daniel Lanois. Il produttore che lo salverà. Oh, grazia.

Seen a shooting star tonight and I thought of you
You were trying to break into another world
A world I never knew
I always kind of wondered if you ever made it through
Seen a shooting star tonight and I thought of you


Daniel Lanois è canadese (sua sorella suonava nei Martha and the Muffins), ma da un po' di tempo lavora nelle paludi della Louisiana: il che significa che Dylan, imbeccato da Bono, tornerà a Sud per l'ennesima volta. Dieci anni dopo aver lavorato con Jerry Wexler; venti esatti dopo Nashville Skyline: è come se ogni dieci anni Dylan sentisse il richiamo delle paludi. Ma quello che cerca davvero a sud non sono le atmosfere decadenti o la retorica del sottosviluppo: a Sud di solito Dylan ci va per trovare dei musicisti professionali (ricordiamo anche Leon Russel ai tempi di Watching the River Flow) e dei produttori al passo coi tempi. In effetti il racconto che sto leggendo non è così credibile; nell'88 Lanois non era un nome sconosciuto che Bono ti passa dopo una bevuta: tra gli ultimi dischi a cui aveva lavorato c'era So di Peter Gabriel e The Joshua Tree. Tutt'un'altra idea di anni Ottanta, rispetto per esempio ad Arthur Baker: il ritorno degli strumenti acustici, dei suoni caldi - ma riprodotti con una tecnologia all'avanguardia e quindi insolitamente vicini all'orecchio dell'ascoltatore: cos'ha in comune il Peter Gabriel di Don't Give Up e il Bono di With or Without You? Sembra che siano usciti dallo stereo e stiano cantando direttamente in camera tua. Non sono uno spettacolo lontano e artefatto, sono tuoi compagni di stanza e sono disperati, vogliono strapparti il cuore. È come se in mezzo a tutte le strumentazioni escogitate dagli ingegneri del suono negli anni Ottanta, tutti gli artifici e i bip e i clang, Gabriel e Lanois avessero finalmente trovato il tasto EMOZIONE, e avessero deciso di spingere solo quello (Lanois aveva anche un debole per il tasto TREMOLIO). Oh, pietà.

Ring them bells, ye heathen from the city that dreams
Ring them bells from the sanctuaries
’Cross the valleys and streams
For they’re deep and they’re wide
And the world’s on its side
And time is running backwards
And so is the bride

Lanois aveva reso la voce di Bono l'assoluta protagonista di Joshua Tree. Era abbastanza inevitabile che lui e Dylan si incontrassero, presto o tardi. Forse successe troppo presto, ma per Dylan aveva tutta l'aria dell'ultimo tentativo. Arrivò in Lousiana con qualche testo scritto, nemmeno una musica. Per quel che ne sappiamo, Dylan aveva scritto testi senza musica solo ai tempi di John Wesley Harding. Ora però, forse a causa della mano convalescente, si ritrovava nella situazione di chi ha parole e non ha note. Il risultato è una maggiore attenzione al ritmo e al suono delle sillabe; certi testi di Oh Mercy sembrano nati come filastrocche, scioglilingua. Non è la prima volta che Dylan si affida agli aspetti più formali del linguaggio: gli era già capitato ad esempio con All I Want to Do (e già allora l'espediente serviva a smarcarsi: tutti volevano che lui scrivesse inni generazionali, lui si metteva a scrivere filastrocche). Il suo gioco preferito, l'anafora, ritorna prepotente in Everything is Broken, ma a ben vedere è la trama di tutto il disco. I titoli di Oh Mercy sono le arie su cui Dylan costruisce variazioni nelle sue strofe, giocando con le rime e sapendo che alla fine deve tornare a scandire "Man in the long black coat", "Disease of conceit", "What good am I?" o "Most of the Time". Certe parole le ripete così tanto che finiscono per perdere il significato. È il caso di "disease of conceit", che Dylan ha deciso di ripetere al termine di ogni verso della canzone omonima.

There’s a whole lot of people suffering tonight
from the disease of conceit.
Whole lot of people struggling tonight
from the disease of conceit...

All'inizio sei propenso a considerarla un "disagio dell'orgoglio", di cui siamo sicuramente tutti afflitti, una delle malattie della contemporaneità bla bla. Ma lui ci insiste così tanto, e così meccanicamente, che ti viene il sospetto che stia raccontando una storia su una specie di pandemia misteriosa.

There’s a whole lot of hearts breaking tonight
From the disease of conceit
Whole lot of hearts shaking tonight
From the disease of conceit
Steps into your room, eats your soul
over your senses, you have no control.
Ain’t nothing too discreet - about the disease of conceit. 

Pare che si tratti di una cosa per cui non c'è cura - i dottori hanno fatto un sacco di ricerche, ma per ora niente da fare. Dice proprio così. Ci sta prendendo in giro? È difficile capire, la musica è molto austera, senza sbavature. Lou Reed era entusiasta, e si capisce: ha lo stesso minimalismo cocciuto di certe canzoni di Songs for Drella. Anche la "politica" di Political World sembra non essere proprio "politica" in senso stretto - a meno di non considerare Dylan nel 1989 quel tipo di vecchietto che si mette a borbottare sulla panchina "la politica è una cosa sporca", e in effetti un po' già ci assomiglia. In ogni caso si tratta di testi che hanno perso tutta la magniloquenza con cui Dylan era entrato negli anni '80: sono secchi, umili, apparentemente intimi, eppure Dylan non riesce a specchiarcisi. "Io non c'ero",  dice di Political World. Non l'ha scritta per esprimersi. Neanche perché gli premesse dire qualcosa. L'ha scritta - di getto - perché, finalmente, una sera ne è stato capace: oh, grazia. Sono incastri di parole, puzzle nemmeno troppo difficili. Sono tutto quello che portava in valigia a Daniel Lanois un convalescente sulla soglia della cinquantina, esaurito e disilluso. Daniel Lanois invece voleva lavorare col grande Bob Dylan. Non l'aveva capito che si era rotto tutto, e da un bel pezzo? Non aveva un po' di pietà?



Di tanto in tanto, mentre registravamo Series of Dream, mi diceva: "Abbiamo bisogno di canzoni come Masters of WarGirl from the North Country With God on Our Side". Cominciò a tormentarmi, un giorno sì e uno no, che avevamo bisogno di cose di quel tipo. Io annuivo. Lo sapevo anch'io, ma mi veniva voglia di ringhiare. Non avevo niente di paragonabile a quelle canzoni.

Nel lungo percorso che stiamo percorrendo, Oh Mercy è senz'altro una pietra miliare. Pochi dischi segnano la strada di Dylan in modo così netto, dividendola in un prima e in un dopo. Prima di Oh Mercy c'era una traiettoria discendente il cui esito sembrava chiaro e vicino. Era un'impressione condivisa da ascoltatori, critici e dallo stesso Bob Dylan. Dopo Oh Mercy, e una lunga fase di incubazione che prende quasi tutto il decennio successivo, c'è quel miracolo che riscatta tutta la storia - ovvero a un certo punto Dylan, invece di lasciarsi spegnere, come stava succedendo negli anni Ottanta e come in fondo era naturale che succedesse, si è bloccato. Ha smesso di consumarsi. Come se avesse trovato una nuova fonte di energia. E l'ha trovata davvero. Si è rimesso a suonare dal vivo, e non ha mai suonato così tanto. Si è rimesso a fare dischi e ha scoperto, a sessant'anni, che è persino capace di produrli - lui che in studio ormai nemmeno riusciva a entrare. Si è rimesso a scrivere canzoni e ne ha scritte di ottime. Ha scelto la vita, per la seconda volta. La prima volta, nel 1966 aveva rifiutato di sfracellarsi su una moto (com'era naturale che succedesse). Tra Ottanta e Novanta dev'essere successo qualche altro strano non-incidente, ma è difficile capire esattamente dove, quando, cosa. Lui stesso non ne è sicuro, anche se il quarto capitolo di Chronicles sembra scritto da una persona che vorrebbe capire, vorrebbe ricordarsi. È vero, ci sono stati episodi che sembrano miracoli - quella passeggiata notturna a San Rafael, quel concerto in Svizzera, ma quel che è accaduto in seguito non sembra per nulla miracoloso. Dylan va in Lousiana, decide che Lanois gli va a genio e comincia a lavorare con lui, con poche idee e un'insolita arrendevolezza. A questo punto la versione ufficiale è che Lanois riesca a riparare il grande Bob Dylan e a cavargli di gola un capolavoro - per molti dylaniti Oh Mercy lo è. Oh, finalmente! (continua sul Post)
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La mummia contro Tom Cruise

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La mummia (Alex Kurtzman, 2017).

"Tom Cruise, la MUMMIA" (ma solo io ci sento l'ironia?)
Nessuno resiste al suo sguardo, nessuno sa opporsi alla sua parola. Giace da ere immemori, in una tomba che non è una tomba, ma una prigione. Imbalsamato vivo, per le sue colpe e affinché il suo orrore sia per sempre occultato ai mortali. Eppure non è lontano il giorno in cui ancora una volta il suo non-sonno sarà disturbato. Qualcuno ancora una volta ritroverà la cripta; qualcuno, per scommessa o per necessità, alzerà il sarcofago e farà la sua proposta:
"Salute a te, divino Mapother Quarto".
"Chiamami pure Tom, come butta?"
"Senti, io rappresento l'Universal, sai, quelli che hanno i diritti dei mostri classici".
"Volevate fare un film su di me?"
"...non proprio, no, volevamo fare un film in cui tu affronti un mostro classico".
"Perché, io non sono un mostro classico?"
"N-non ancora".

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Alex Kurtzman ha detto di aver scelto Sofia Boutella per gli occhi; che non importa quanti effetti e computergrafica ci sarebbe stata intorno: il pubblico l'avrebbe guardata negli occhi. È una cosa molto bella da dire ed è persino un po' vera. La Boutella è una mummia struggente; per quanto crudele, riesce in un qualche modo a farti empatizzare - in pratica, riesce a soggiogarti. Tinta di blu, avvolta in cartapecora, truccata da cadavere, sembra comunque più umana di Thomas Cruise Mapother IV, Tom Cruise per i mortali.

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"Hai ucciso tuo padre!"
"Sì però lo amavo. Volevo che mi ammirasse".
"Hai ucciso sua moglie... e il bambino!"
"Erano tempi diversi".
(Come fate a riconoscere un vero mostro? A uccidere i bambini sono tutti buoni, ma il vero mostro si giustifica col relativismo culturale).

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No, adesso, sinceramente: secondo voi come andrà a finire con Tom Cruise? Perché un giorno o l'altro dovrà finire. Come la civiltà. Spero un po' prima. Cioè non ho niente contro Tom Cruise, davvero, grande attore e personaggio - però a un certo punto bisognerà porsi il problema: può invecchiare? Ne è in grado? E noi possiamo accettarlo? Internet dice che ha 55 anni (non mi fido. Se c'è qualcuno che potrebbe davvero mandare in giro un esercito di zombie a levargli gli anni su tutti i siti internet del mondo, costui è Tom Cruise). In questo film interpreta un tizio che potrebbe averne al massimo 35. Al massimo. E mi chiedo: è mai successo? che un attore interpretasse un tizio di 20 anni più giovane? Sì, ovviamente. In un altro film di Tom Cruise. Ma a parte lui? C'è Brad Pitt. Anche Brad Pitt, in Allied, sembrava un po' troppo tirato (che era poi il suo modo di sembrare la cosa più umana di Allied). Però ormai Pitt il massimo che fa è sparare ai nazisti - una cosa che è già un po' old-fashioned di suo; Cruise continua a fare lo stuntman di sé stesso e in questo film, per esempio, ha voluto una scena in cui recita in assenza di gravità. Galleggia in un aereo che precipita. Non è una scena incredibile, se non sai che l'hanno girata veramente in quel modo. Ormai col digitale si può fare di tutto e così non è che ti si cada la mascella, mentre Tom e la Bella in Pericolo rotolano dentro la fusoliera. C'era senz'altro un modo meno pericoloso di girarla, ma a Tom piaceva così. È il suo modo di dirci Sono Immortale?

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Forse il fatto che La Mummia abbia floppato negli USA e stia andando forte nei mercati emergenti ha a che vedere con questo aspetto di Tom Cruise. Là dove Tom Cruise viene considerato ancora un essere umano, La Mummia stenta a convincere. Lontano dalla patria, dove forse è una specie di mito senza tempo (Italia compresa), la sospensione della credulità rientra nei limiti di norma. (Poi non è che in luglio escano tutti questi film imperdibili, eh).

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Se la civiltà non finisce (e spero proprio di no, non vedo alternative interessanti) a un certo punto gli storici del cinema si troveranno davanti, ci pensate? trecento, quattrocento anni di immaginario sedimentato(continua su +eventi!). Chissà se degneranno di qualche interesse Guerre Stellari, chissà in quanti riterranno interessante scavare sul fondo per cercare tutti i resti del Marvel Cinematic Universe. La Mummia ha più chance. Lo so che sembra intollerabile e ingiusto, ma parliamo di un concetto che al cinema ha già 80 anni; parliamo di Boris Karloff. Di saghe sulla Mummia la Universal ne ha prodotte già tre o quattro e non c'è motivo per cui non debba continuare finché al pubblico continueranno a interessare i cadaveri male imbalsamati nelle tombe egizie, cioè... per sempre. Anche i cross-over non sono questa novità. La Mummia contro Dr Jeckyll? Al cinema queste cose si son sempre fatte. Gli Zombie della Mummia contro Gli Uomini in Nero del Dr Jeckyll? Perché no. Gli Zombie della Mummia contro Tom Cruise? Interessante, diranno i cinefili del futuro. Quando uscì, la Mummia era una specie di archetipo dell'inconscio collettivo, mentre Tom Cruise era ancora considerato un attore in carne e ossa. Secondo alcuni era davvero in carne e ossa; abbiamo persino i video in cui fa gli stunt più pericolosi; ma c'è da dire che nello stesso periodo cominciava ad andare in voga il ringiovanimento digitale dei divi di Hollywood, e quindi è difficile capire quanto ci fosse ancora del vero Tom Cruise in quello che poi è diventato a tutti gli effetti un franchise a sé (nel 2317 al cinema c'è Tom Cruise contro Gozzilla) (Gozzilla è animato da un algoritmo sofisticato che riproduce i passi dell'automa gigante del mitico film del 2287 il quale a sua volta era animato da un software che imitava le mosse dei vecchi pupazzi in stop-motion) (Tom Cruise invece è davvero lui in carne e ossa, anche se nessuno ci crede: da decenni sono tutti convinti che si tratti di un clone-bot e nessuno fa caso ai casi di vergini morsicate sul collo nei dintorni del set).

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Non dico che valga il biglietto, ma a un certo punto Tom Cruise e Russell Crowe si menano. Per dire quanto ci credeva l'Universal nel progetto.

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La Mummia somiglia un po' alla Lega degli Uomini Straordinari: prendiamo i vecchi mostri gotici dell'Ottocento e li rimontiamo con le logiche della continuity dei fumetti contemporanei. Purtroppo di Alan Moore ce n'è uno solo (e neanche tutto). Moore è un folle, un visionario, ma è anche uno sceneggiatore di buon senso, ad esempio: ok, mettiamoci pure la continuity contemporanea: ma se sono mostri dell'Ottocento devono restare nell'Ottocento. Il loro fascino sta lì. Il fantastico ha bisogno di un Altrove, di un orizzonte diverso dal nostro per svilupparsi, e l'Ottocento è un Altrove perfetto. Ma Kurtzman la sa lunga. Ti piazza un dottor Jeckyll contemporaneo. Ma se togli l'Ottocento al dottor Jeckyll ti rimane un bipolare qualsiasi - non proprio la persona che dovrebbe dirigere l'Agenzia contro il Male Universale. In effetti basta che il primo arrivato gli levi la siringona di mano e patatrac, tutto a carte e quarantotto.

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A proposito di Guerre Stellari: la lavorazione del prequel sul giovane Han Solo ha riaperto il dibattito: ma esiste un giovane erede di Harrison Ford? Uno che potrebbe mangiarsi la scena sia in un'astronave-cargo, sia in un tempio maledetto, un figlio di buona donna col grilletto facile e la battuta pronta? Io! (sussurra la Creatura nella cripta). Io sono l'Erede di Harrison Ford! Datemi un frustino, mortali, e tremate!

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La Mummia somiglia ovviamente ai cinefumetti, che invece ambientano il fantastico in un setting contemporaneo (tranne alcune eccezioni suggestive, come Wonder Woman). Questo spesso causa corti circuiti interessanti: ad esempio è sempre più difficile commettere disastri nei cinefumetti. Prendi un grattacielo: hai presente quanti grattacieli finti cascavano nei vecchi film di mostri? Ordinaria amministrazione. Il pubblico andava in sollucchero, non è che si mettessero a pensare a tutte le vittime - tanto si sa che è un grattacielo di cartone. Ma il grattacielo del cinefumetto contemporaneo sembra un grattacielo vero. Non è solo una questione di effetti speciali; è che i cinefumetti spingono sul realismo, vogliono stupirti portando uomini incredibili nel nostro mondo - ma nel mostro mondo se casca un grattacielo ci sono migliaia di vittime, è una cosa orribile. La Mummia ha rinunciato alla confortevole ambientazione ottocentesca per ottenere gli stessi effetti di un cinecomic, ma il risultato è che abbiamo un primo atto in cui l'Iraq odierno viene descritto come un allegro far west dove se i pistoleri locali esagerano nell'assediarti puoi sempre chiedere un intervento aereo. Poi arriviamo a Londra, dove per fortuna c'è un po' di bruma e, i grattacieli e... non ce ne frega niente. Sul serio. C'è una tempesta di sabbia davvero ben congegnata e assolutamente scenografica, ma non ti viene nemmeno per un attimo il pensiero per i poveri londinesi soffocati. È una Londra completamente finta, minacciata da un Male che non riesci a prendere sul serio nemmeno per un istante. La Mummia somiglia anche a un altro sfortunato blackbuster estivo di qualche anno fa, War World Z: in entrambi i film si registra il tentativo di ripulire un po' gli zombie, di renderli meno spaventosi, più pop, meno vietati ai minori. Forse quelli della Mummia sono un filo più paurosi di quelli di WWZ, ma la vera differenza sta nell'angoscia. Per quanto ripulito dal sangue e dalle cervella, WWZ restava un film apocalittico, eccessivamente cupo per le famiglie in cerca di aria condizionata (il finale fu modificato proprio per questo motivo). Nella Mummia tutta questa angoscia manca completamente. Il dark universe comincia ben poco dark.

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La Mummia somiglia un po' a Suicide Squad, un film che brucia le tappe, che ha fretta di buttare sul fuoco più storie possibile, magari già intrecciate. Per cui ok, qui abbiamo la Mummia, gli zombie, il dottor Jeckyll e... non posso dire che altro. Non era meglio andare per gradi; dedicare alle origini di ogni mostro un film? Eh, ma ci avevano già provato (Dracula Untold) e non è andata bene. E così beccatevi la macedonia, pubblico estivo. Qualcosa di buono c'è, ma anche molti scarti che non ti saresti mangiato mai, toh, se lo fa la Warner perché la Universal non dovrebbe permetterselo?

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La Mummia è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, alle 20:20 e 22:40.

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Solo un dimenticabile ritorno di fiamma

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Planet Waves (1974)
(Il disco precedente: Pat Garrett & Billy the Kid.
Il disco successivo: Before the Flood).

In una notte come questa, sono così contento che ti sia fatta viva... abbracciami stretto che scaldo un po' di caffè. (Che inizio promettente per un disco, vero? No, appunto).

L'Asylum gli aveva evidentemente
dato carta bianca per la grafica
delle copertine: e il pittore Dylan, ehm,
faceva progressi.
Nel mezzo del cammin di vostra vita, diciamo sulla trentina, potrà capitare anche a voi di ritrovarvi soli, o male accompagnati. Sono cose che possono succedere a tutti, e in teoria non c'è niente di male, ma a un certo punto potreste dovervi arrendere all'evidenza: non sta succedendo a tutti, sta succedendo a voi; e fa male, eccome se fa male. È proprio in quel momento, in cui cominciate a sentire quanto sia salato il pane altrui, che statisticamente aumentano le possibilità di incrociare per caso una vecchia fiamma che non sentivate da anni, da mesi, e poi improvvisamente da settimane, e poi dopo un po' cominciate a chiamarvi tutte le sere perché avete un sacco di cose da dirvi, un sacco, cosa sta succedendo? Forse siete cresciuti; gli errori che vi siete lasciati alle spalle ormai sembrano sciocchezze, incomprensioni giovanili; e le cose che invece funzionavano, ora, con più esperienza, non potrebbero che funzionare meglio.

Insomma dovreste rimettervi assieme. È un segno del destino essersi ritrovati dopo tanto tempo. Forse è così.

Oppure siete entrambi nel panico, perché state sulla trentina e siete soli; e non farete che tirarvi giù a vicenda.

Stenditi accanto a me, tienimi compagnia... (c'è un sacco di spazio, per cui, per favore, non sgomitarmi). (Questo forse è uno dei versi più profondi di Dylan).

Sia come sia, nel 1974 Dylan e la Band decisero di rimettersi assieme. Per un po'. Per vedere come andava. Un disco e un tour. Dylan nel frattempo si era trasferito a Malibu, California, ai margini del cantiere di una casa enorme che sua moglie riprogettava tutti i giorni: un pozzo senza fondo in cui finivano i diritti delle sue vecchie canzoni. Aveva persino rotto con la sua Casa Madre, la Columbia, che aveva lasciato scadere il contratto e poi per ripicca pubblicato un brutto disco a nome suo, una collezione di scarti. Quanto alla Band, beh...

Mamma Tosta, ti balla la ciccia sugli ossi. Andrò al fiume a prendere un po' di pietre. Tua sorella è per strada con la squadra dei minatori. Papà è nella grande casa, ha finito di faticare. Mamma Tosta, posso soffiarti un po' di fumo addosso?

La Band era molto cambiata. Non era più la fanciulla screanzata con cui Dylan aveva fatto tutto quello straordinario baccano nel '66; non era quella ragazzina emozionata e inesperta che aveva piantato in asso a New York per andare a registrare Blonde On Blonde a Nashville, con musicisti seri. Non era neanche la ragazza volenterosa e disponibile alle sperimentazioni che lo aveva coccolato e rimesso in sesto nella cantina della Grande Rosa. Ma nemmeno la splendida signora che si era emancipata a partire da Music From the Big Pink, e che senza il patrocinio di Dylan, disco dopo disco, era diventata una vera professionista, puntuale, affidabile sul palco e impeccabile in sala di registrazione. Nel mezzo del cammino della sua vita, anche la Band si stava perdendo in una di quelle tipiche selve anni Settanta che attendevano i musicisti di successo: alcool droghe e ripicche. Gli ultimi due dischi non erano andati un granché bene, anche Robertson aveva smesso di imporre le sue canzoni ai colleghi alcolisti o eroinomani. Nel 1974 si ritrova pure lui a Malibu, a pochi isolati da casa Dylan, guarda tu la coincidenza. Ehi Bob, hai notato che dopo tanto tempo siamo ancora qua tu e io? Qualcosa vorrà dire. E se ci rimettessimo assieme? Ora che siamo adulti, che siamo seri, che abbiamo imparato come si fa. Un disco, ci vuole, e un tour. Cosa potrà andare storto?

Planet Waves è l'unico disco che Dylan e la Band hanno inciso assieme. Pazzesco, se uno ci pensa: si frequentavano da otto anni (e continueranno a frequentarsi, fino all'Ultimo Valzer). Basterebbe questo a renderlo un disco memorabile, no?

No. Perché Planet Waves non è un disco memorabile. Non sto dicendo che sia un brutto disco, perché davvero, non si può dire che lo sia: Dylan sa fare molto di peggio, lo abbiamo visto. Ma è davvero un disco facile da dimenticare. Alzi la mano chi si ricordava che dopo Pat Garrett c'era Planet Waves. Visto? Anch'io stavo quasi per passare direttamente a Blood on the Tracks. Ho notato che è un lapsus che commettono in parecchi - è come se Planet Waves avesse qualcosa che implora di passare inosservato. Qualcosa come... come...

Come un ritorno di fiamma che non ha funzionato.

(Del resto è mai successo che funzionasse?)

cahoots

Credevo di essermi scrollato di dosso le meraviglie e i fantasmi della mia giovinezza. Giorni piovosi nei Grandi Laghi, a spasso sulle colline di Duluth. C'ero io e Danny Lopez, dagli occhi freddi come la notte nera e c'era anche Ruth. C'è qualcosa di te che mi riporta a una verità dimenticata da tempo. 

Non funziona mai. Non importa quanto siate disperati, quanto ci siate riavvicinati, quanto vi stiate impegnando: tempo due settimane, un mese, e starete litigando per gli stessi antichi motivi. La Band aveva bisogno di Dylan per superare le lotte intestine e disintossicarsi; Dylan aveva bisogno della Band per non impazzire a Malibu mentre la moglie gli spostava per l'ennesima volta la posizione del camino nel soggiorno. Avrebbe dovuto filare tutto liscio. Erano grandi stavolta, erano professionisti, avevano avuto altre esperienze e sapevano come fare a farla funzionare, almeno questa. E invece si rimisero a suonare all'infinito la stessa canzone senza che Dylan riuscisse a spiegare cos'era che non funzionava. Le stesse, perverse dinamiche di tanti anni prima. La canzone in questione era, significativamente, Forever Young. Dylan l'aveva scritta durante la permanenza sul folle set di Pat Garrett, paradossalmente uno dei momenti più felici per la sua ispirazione: anche Knockin' on Heaven's Door viene da lì. Knockin' era perfetta per il film; Forever Young rimase nel cassetto ancora per un po'. Non sapeva cosa farci. Cioè: era chiaro che ci avrebbe fatto un sacco di soldi. Ma esitava. Cosa avrebbe perso nella transizione? Un po' di credibilità, un po' di... giovinezza?

Eppure su Google i primi sono ancora
gli Alphaville, incredibile.
Era un brano dal potenziale altissimo. Il testo è semplice, una variazione sul tema della lista (o anafora), simile ad altri suoi brani discograficamente fortunati, All I Really Want to Do e Rainy Day Women (in seguito verranno Gotta Serve Somebody ed Everything Is Broken). L'argomento è una tipica ossessione dylaniana: la necessità di essere giovani, la lotta contro un invecchiamento morale prima che anagrafico. Ma varcata la boa dei trenta, Dylan non può più come in My Back Pages permettersi di rivendicare il suo ringiovanimento, senza rischiare di passare per uno di quegli adulti patetici che cominciano a frequentare palestre e tingersi i capelli. Forever Young è anche un paradosso: è evidente che chi la canta non è più davvero giovane da un po'.

Che tu cresca per essere giusto, che tu cresca per essere sincero.
Che tu conosca sempre la verità, e vedere luce intorno a te.
Che tu sia sempre coraggioso, sempre saldo sui tuoi piedi,
che tu possa essere
per sempre giovane.

È una canzone che implica la paternità - la prima, direi, in cui parla in seconda persona a un figlio. È anche la canzone di Dylan che più si avvicina a un testamento morale: nel senso che se uno si domandasse cosa significa essere Per Sempre Giovane, Dylan qui per la prima volta avrebbe delle risposte: significa aiutare gli altri e farsi aiutare, significa sincerità e rettitudine, etica del lavoro e "forti fondamenta" che non cedano al "vento del cambiamento". Insomma è una canzone in cui finalmente papà Dylan scopre le carte e ci mostra la sua scala di valori - a costo di perdere la mano col pubblico, perché tutto sommato si tratta proprio dei valori di un onesto lavoratore del Midwest. Era una canzone che avrebbe funzionato: in radio, sul palco, in classifica. Dylan ormai aveva l'esperienza sufficiente per capirlo subito. Ma forse lo avrebbe anche rovinato. Forever Young scorreva troppo liscia, credo che quando l'abbia scritta Dylan abbia sentito come se improvvisamente il piano si stesse inclinando; magari di pochissimo ma adesso scendeva, verso cosa? forse verso il rincoglionimento? Figlio mio, comportati bene e non smettere mai di lavorare, e resterai Per Sempre Giovane. Mio Dio. Ci vorrebbe un arrangiamento che prendesse le distanze, qualcosa di dissonante. La Band avrebbe dovuto capirla, questa cosa.

Che ci fa un angioletto come te
in una storiaccia del genere?


Ma - questo è il punto - la Band non capiva, neanche stavolta. Erano vecchi amici, sul palco s'intendevano al volo, conoscevano Dylan da quando erano ragazzini, eppure... non erano fatti per stare assieme, tutto qui. Planet Waves, se proprio vogliamo, potremmo ricordarlo come la cronaca di come andò l'ultima volta che provarono a mettersi assieme: dalla smagliante introduzione chitarristica di Robertson a On a Night Like This, fino a quel senso di spossatezza e nessuno-sta-andando-a-buttare-la-spazzatura di Wedding Song. Gran parte delle sessioni se ne andarono in realtà nel tentativo di capire cosa voleva fare Dylan con Forever Young: lui ovviamente era il primo a non avere una chiara idea in testa. Lavoravano in uno studio di Los Angeles, assistiti da Bob Fraboni, un tecnico del suono che aveva fatto la gavetta con Phil Spector e lavorato con gli Stones. Se Forever Young fu davvero pubblicata nel '74 nella sua versione più famosa (quella lenta), lo dobbiamo a Fraboni. La storia è nota: dopo una serie di tentativi infruttuosi, finalmente erano riusciti a registrare questa versione che Fraboni definiva "immediata", "potente", "avvincente" (anche se per me quando parte l'armonica è come se tutti se ne stessero andando per i fatti loro; ma forse non si poteva pretendere di più). A un primo ascolto anche il silenzio di Dylan si lasciava interpretare come un segno di assenso: questa sì, questa funziona. Ma poi... (continua sul Post)
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Daniel Blake sono io, sei tu, noi voi essi

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Io, Daniel Blake (Ken Loach, 2016).

Che inquadratura statica, asimmetrica, che colori smorti.
Daniel Blake un giorno era un signore che si fece arrestare fuori da un ufficio dell'impiego. Non ce la faceva più. Dopo un infarto il medico del lavoro gli aveva proibito di lavorare. La previdenza sociale, per dargli il sussidio, pretendeva che cercasse un lavoro. Così lui andava in giro cardiopatico per le officine, lasciava il suo curriculum, e il bello è che qualche lavoro glielo offrivano pure ma lui doveva dire di no, lui non poteva lavorare. Poteva solo cercare lavoro, anzi era obbligato a farlo.

(C'è chi dice che i film di Ken Loach non sono cinema. Tanto per cominciare sono tutti a tesi, e pure la tesi è sempre quella, non potrebbe almeno cambiarla un po'? E poi è sempre tutto così appiattito, così realistico -  ma senza quella fissa per i dettagli dei cineasti che hanno pretese - in una parola, così televisivo).

Che fotografia discutibile, e le luci poi, mah. 
Daniel Blake è quella collega che un giorno in lacrime ti ha chiesto se potevi passarle un assorbente; è quel vicino a cui stavano staccando la luce l'estate, il riscaldamento in ottobre. Daniel Blake è quel signore in biblioteca che deve andare su internet per compilare un modulo, e all'inizio ti fa ridere perché non sa dove mettere il mouse, ma dopo dieci minuti che cerchi di spiegarglielo no, non ti fa più ridere un cazzo, il mondo contemporaneo dal punto di vista di un non vedente.

(C'è chi dice che Ken Loach è superato. Non ha l'intensità dei Dardenne, la profondità di Mungiu, alla fine gira sempre lo stesso film).

Daniel Blake è quel tuo collega che un giorno si è ammalato e a tutti dispiaceva, all'inizio; ma col tempo ha prevalso il fastidio, lui proprio non si rassegnava a pre-pensionarsi e faceva sempre più assenze, sempre più problemi, finché un giorno è morto e di nuovo a tutti è dispiaciuto, ma almeno aveva finito di soffrire: e anche voi.

(C'è chi dice che Ken Loach non fa più cinema, se mai l'ha fatto. Prende un caso limite, e ci imbastisce il solito temino veterolaburista. Il suo Daniel Blake è l'ennesimo martire della società. Non ha difetti, divide il suo sussidio con gli orfani e la prostituta).

Daniel Blake sarò io, il giorno che qualcuno mi dirà che non posso più farcela... (continua su +eventi!) e all'Inps mi diranno che per la pensione è troppo presto, che ci avrei dovuto pensare prima. In realtà ci sto pensando, ma, ecco, una soluzione proprio non la vedo. Tranne salutare tutti, esser gentile con tutti, e sperare che quel giorno qualcuno sia gentile con me.
(C'è chi dice che Ken Loach non fa cinema, fa propaganda; che la società è un po' più complicata di Poveri ma Buoni contro il Sistema. Lo è senz'altro).
Daniel Blake quel giorno ha scritto con la bomboletta che pretendeva un riesame del suo caso prima di crepare. Ma fuori nella strada c'era solo un gruppo di signore che andavano a un addio al nubilato e un ubriacone che ha inveito contro i poliziotti, quando sono venuti ad arrestarlo. Nessun altro avrebbe fatto caso a Daniel Blake - ma forse in quel momento passavano anche Ken Loach e il suo sceneggiatore di sempre, Paul Laverty. Pochi mesi dopo Daniel Blake era a Cannes e ha vinto la palma d'oro. Lo so che è stupido, ma è come se l'avesse vinta anche per me, per te, per noi. C'è chi dice che non è cinema, Ken Loach, e in effetti può darsi. Ma certi giorni mi sembra di non avere poi così bisogno del cinema, mi sembra di avere più bisogno di Ken Loach.
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Scrivere Hard Rain a vent'anni (e sopravvivere altri 50)

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Live at the Gaslight 1962 (2005).

(L'album precedente: Bob Dylan
L'album successivo: The Freewhelin' Bob Dylan)

Come sapete Dylan non è andato a Stoccolma, pare avesse un impegno. Come avete forse sentito ha mandato una discepola, Patti Smith - una tra quel migliaio di artisti importanti che senza l'esempio di Dylan sarebbero cresciuti in un modo molto diverso, o non sarebbero cresciuti. Magari avete anche visto la clip in cui Patti Smith canta A Hard Rain's A-Gonna Fall ma a un certo punto si blocca per l'emozione. Patti Smith che avrà fatto più di un migliaio di concerti in vita sua - ma è pur sempre all'Accademia di Svezia, e Hard Rain è veramente un testo difficile. È pieno zeppo di numeri, di simboli, di immagini apocalittiche - un giorno Dylan disse che l'aveva scritto durante la crisi dei missili di Cuba, nell'imminenza della terza guerra mondiale e delle piogge radioattive che ne sarebbero seguite, e che in ogni verso era condensato l'argomento di una canzone che non credeva avrebbe più avuto tempo per scrivere.

C'è un problema: la crisi scoppiò nell'ottobre del '62 (quando un aereo spia U2 americano scoprì una base missilistica a Cuba), e noi sappiamo che Dylan la stava già cantando nel settembre di quell'anno, quando partecipò a una specie di festival folk alla Carnegie Hall. Presentava il leggendario cantautore Pete Seeger, che prima di cominciare avvisò gli artisti: solo tre pezzi a testa, non più di dieci minuti. Al che il giovane Bob alzò la mano: ehi, ma io come faccio? Una delle mie canzoni ne dura proprio dieci. Seeger non fu l'unico a innamorarsi di Hard Rain al primo colpo. Quando Allen Ginsberg la ascoltò, appena tornato dall'India, racconta di essersi messo a piangere: di colpo la sua generazione sembrava superata. Insomma se devi scegliere quale canzone portare alla cerimonia del Nobel, Hard Rain sembra una scelta da intenditori. Non è famosa come Blowin' in the Wind, non è acclamata come Like a Rolling Stone, perfino Hurricane è più ascoltata su Spotify, però tutte queste canzoni Dylan le avrebbe potute scrivere soltanto in un determinato periodo della sua carriera. Invece canzoni apocalittiche e immaginose come Hard Rain ne ha sempre scritte, e ne scriverà finché campa.

Resta una terribile evidenza, a cui nessuno fa molto caso (ma forse Dylan sì): di tutte le canzoni apocalittiche e immaginose, quella che merita di essere scelta per il Nobel l'ha scritta a ventun anni. Pensateci. Non è così strano che un ventunenne scriva grandi poesie - Shelley, Rimbaud, eccetera. Sì, ma Shelley è annegato a trent'anni, e Rimbaud ha smesso di scrivere a venti. Dylan ne ha 75 e scrive ancora, ma quando si tratta di mandare una canzone a Stoccolma, ce ne manda una del 1961. Voi che rapporto avete con le cose che scrivevate a vent'anni? Se avete vent'anni adesso non potete capire (ma tanto non state nemmeno leggendo). Io di solito comincio ad avere problemi dopo undici anni: attualmente mi sto dissociando dalle cose che ho scritto nel 2005. Non significa che le trovi disgustose - ok, sono disgustose - ma ogni tanto c'è persino roba buona, però è come se l'avesse scritta qualcun altro, un parente, un tizio con cui ho avuto una relazione che m'imbarazza un po'. Non riesco nemmeno più a correggere, a cambiare qualcosa, sarebbe come produrre un falso. In sostanza non sono più quella persona: persino le cellule delle ossa credo che nel frattempo si siano rigenerate. Quel che voglio dire è che sì, forse Dylan davvero quella sera aveva un impegno. O forse non è voluto andare a Stoccolma perché sapeva che il premio era per il sé stesso di cinquant'anni prima, e lui semplicemente non si sente più quel Dylan lì. Sarebbe come mentire - non che a Dylan ripugni mentire, ma forse non gli andava (continua sul Post)
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Compra un esame in Transilvania (prima che lei compri te)

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Un padre, una figlia (Bacalaureat, Cristian Mungiu, 2015).

Romeo ha una cinquantina d'anni, una moglie che non lo guarda più negli occhi, un appartamento dignitoso al piano terra di un quartiere in sfacelo, un telefono che suona in continuazione, un reparto di ospedale da mandare avanti, un'amante che comincia a lanciare ultimatum, un'unica figlia a cui ha insegnato l'importanza dell'onestà, dell'integrità, del duro lavoro. La Romania è un disastro, ma Eliza può farcela; ha vinto una borsa di studio per l'Inghilterra, l'importante è superare l'esame di maturità. Cosa può mai andare storto? Romeo ha una settimana di tempo per rovinare tutto; perdere la famiglia, la stima di sua figlia e di sé stesso. Può bastare un sasso, una distrazione, una tentazione, una macchina ferma sul lato sbagliato della strada. La Romania è un cantiere abbandonato, chi ha vinto l'appalto è scappato per primo, c'è gente che ci si nasconde e gente che gira a vuoto, in cerca di uscita.

Oh com'è difficile restare padre quando i figli crescono e le mamme imbiancano - oh oh oh oh 
Quel po' di esotico che la Transilvania aveva conservato in Oltre le colline, Mungiu lo distrugge con Bacalaureat. La periferia cementifera di Cluj-Napoca è così anonima che potremmo essere nella Vallonia dei fratelli Dardenne, che del resto producono. Mungiu ha ammesso di sentirsi più vicino alla loro poetica che a quella dei cineasti rumeni della sua generazione, e a suo modo è globalizzazione anche questa: il suo eroe dardennizzato è ripreso di spalle più spesso del solito e lotta contro una società che non gli permette di giocare pulito. Qua e là Mungiu sembra voler tentare una chiave di lettura un po' più simbolica, che però rientra subito tra i ranghi: i Dardenne, e i loro fan, sanno meglio di tutti cosa vogliono vedere per due ore: marciapiedi sbrecciati, playground arrugginiti, una volta il cinema era l'alternativa low cost ai viaggi esotici, ormai l'ultima frontiera dell'esotismo sono le periferie urbane decadenti per le quali non ci verrebbe mai voglia di acquistare un biglietto. Ma dopo due ore in compagnia di Romeo ci sembrerà di conoscere Cluj come quel quartiere dormitorio in cui abbiamo passato un semestre.




(Ani de liceu, cand tii soarele in mana si te crezi legendar Prometeu...)


Vien voglia di chiedere la cittadinanza onoraria, anche perché Mungiu si è fatto un po' prendere la mano. Ormai lontana la secchezza di 4 mesi 3 settimane e 2 giorni, con quella scansione fulminante in tre atti: Bacalaureat dura venti minuti in più, di cui alcuni passati semplicemente a far girare a vuoto il protagonista, o a farlo riflettere immobile su una panchina. E per quanto la sceneggiatura sembri infierire contro di lui, alla fine non si riesce a non voler bene a questo povero tizio che vuole salvare la figlia dal disastro che lui stesso è diventato. Del resto Bacalaureat parla di corruzione sociale ma anche fisica - di come sia inevitabile venirci a patti, a una certa latitudine e a una certa età. Ma anche chi è scappato in terre meno corruttibili potrà voler dare un'occhiata - il film è al Fiamma di Cuneo fino a mercoledì (ore 21); da giovedì è al Monviso (sempre a Cuneo, sempre alle 21).
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Non t'immischiare con Capitan Totomorto

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La XXth Century Fox, in associazione con la Marvel Enterteinment non si vergogna affatto di presentarvi il nuovo film di un qualche cazzone. Nei panni del supereroe, un coglione. Con la straordinaria partecipazione della gnocca di turno. Poi c'è un cattivo dal forte accento inglese, la spalla comica, un'adolescente musona, un personaggio completamente fatto al computer, un cameo gratuito. Prodotto da dei figli di buona donna, scritto dai veri eroi qua dentro, diretto da un automa superpagato. (Questa non è una recensione, questi sono i veri titoli iniziali - per inciso, la cosa migliore del film. Dopo Morena Baccarin).
Lei è Morena Baccarin.

Dopo i supereroi coi superproblemi, i supereroi dal destino tragico e dalle grandi responsabilità, i supereroi recalcitranti, finalmente arriva Deadpool, ed è soltanto un coglione. Non è una ventata d'aria fresca? Un po' lo è. D'altro canto, non basta ammettere di essere coglioni per smettere di esserlo. A volte è il primo passo. Ma può anche essere un passo indietro. Di solito è il modo in cui cercavamo di sfangarla al liceo.

A volte penso a quanto sono fortunati i ragazzini di adesso, con tutti questi supereroi al cinema che ai miei tempi te li potevi soltanto sognare. Altre volte penso a quanto dev'essere difficile crescere in un mondo in cui i genitori conoscono tutti i personaggi dei tuoi sogni. Prendi Star Wars. Trent'anni fa era un mondo nuovo, qualcosa che creava un'immediata frattura tra il tuo mondo e quello dei grandi. Tuo padre non sapeva chi fosse Luke Skywalker - non era previsto che lo sapesse. Anzi, era previsto che non lo sapesse e non lo capisse. Invece adesso noi maledetti grandi coi capelli grigi sappiamo tutto, tutto. Tutte le vite di tutti gli eroi. Per i buchi di memoria ci sono le ristampe, le antologie, se proprio butta male wikipedia.

Nel frattempo, in virtù di un calcolo di mercato neppure troppo oscuro, l'Universo Cinematico Marvel continua a insistere su storie di quarant'anni fa, che perfino noi abbiamo letto in ristampa. Vedi l'ultimo Avengers: contiene due personaggi irrimediabilmente datati, l'androide Ultron e il suo antagonista buono, Visione, un tizio col mantello. Non so se vi rendete conto: il mantello. E quell'incarnato magenta che probabilmente negli anni Settanta era più pratico da stendere in quadricromia. Qual è il senso di resuscitare situazioni così vecchie, a parte compiacere i genitori che portano figli e nipotini e vogliono mostrare di saperla lunga? Per fortuna che da qualche cassetto la Fox ha tirato fuori Deadpool.

Una mossa abbastanza disperata, da parte di una major che negli ultimi anni ha fatto tutto quello che poteva fare per sputtanare gli eroi Marvel di cui deteneva ancora i diritti. Un Uomo Ragno per ragazze, un X-Men che ha definitivamente incasinato la timeline, un Fantastici Quattro horror, e poi cosa?
"Ci sarebbe un assassino psicopatico onnisessuale che non tace mai".
"Stai scherzando?"
"Ryan Reynolds ci tiene tantissimo".
"Ah beh allora".
"È un personaggio autoironico, dice un sacco di parolacce, infilza la gente con le spade..."
"Non si può fare, lo vieterebbero ai minori".
"Magari così funziona".
"Dici?"
"Teniamo basso il budget e vediamo. Insomma qualcosa prima o poi dovrà pur funzionare. È la legge dei grandi numeri".

Beh, ha funzionato. Però resta un sospetto. Forse più dell'autoironia da quattro soldi, di quel turpiloquio da macchinetta delle merendine, più di quella cosa così sovversiva che è sfondare la quarta parete (che non è un valore in sé, se la sfondi solo per dire cretinate) Deadpool ha funzionato proprio perché noi vecchi non lo conosciamo. Chi è questo Deadpool, in fin dei conti?

Che è un po' come chiedersi chi è questo Eminem di cui tutti i parlano - sì, il personaggio nei fumetti fa sfracelli già da più di vent'anni. Ma noi lo abbiamo appena intravisto, quindi dev'essere l'ultimo arrivato. E come si permette di sbancare il botteghino?
Se Deadpool ha un merito - non sono del tutto sicuro che ce l'abbia - è proprio quello di tagliarci fuori. Finalmente un supereroe che non è fatto per noi. Il film non ha niente di originale - anzi, cavalca senza vergogna e con una certa foga tutti gli stereotipi del genere "origini di un eroe". Di buono ci mette uno script compatto, che mira al sodo e taglia tutto il grasso; si sente che stavolta gli sceneggiatori non provavano la solita ansia da primo episodio ("Oh mio dio devo raccontare le origini di questo famoso personaggio senza tradire i fans e trasformandolo in un eroe maturo a metà del secondo tempo"). Deadpool non è una leggenda, Deadpool è una barzelletta: era essenziale non tirarla in lungo. Detto questo, rimane pur sempre la storia della sfida mortale tra due galletti che ce l'hanno a morte perché hanno iniziato a sfottersi in un corridoio. Il target è più ristretto del solito: è un film che in patria è vietato ai minori di 16 e che nessun normodotato maggiore di 24 dovrebbe avere un motivo serio per guardarsi. Gli X-Men forniscono due guest star, si fa per dire, due avanzi di continuity che rappresentano abbastanza fedelmente l'idea che lo spettatore tra i 16 e i 24 ha della generazione successiva (una teen-ager musona che whatsappa durante il combattimento) e della precedente, ovvero Colosso. Ecco: il nobile Colosso, che finalmente ha recuperato il suo accento russo, è il personaggio in cui gli spettatori più grandi sono costretti a immedesimarsi. Per tutto il film non fa che chiedere a Deadpool di non fare il deficiente. Indovinate che figura ci fa.

Deadpool, tra le altre cose, è un segnale eloquente che mi manda l'industria cinematografica: la vuoi piantare di andare a vedere i film di supereroi e di uscire deluso? Cosa ti aspetti ancora alla tua età da dei tizi in maschera e tutina colorata? Da bravo, perché non vai a vedere i film intensi o di denuncia sociale o non porti semplicemente i tuoi popcorn ai piccioni nel parchetto più vicino? Niente di personale ma insomma ci spaventi i clienti veri. I ragazzini. Deadpool è al Citiplex di Alba (20:00, 22:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:40), all'Impero di Bra (20:20, 22:30), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
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Chi ha ucciso Woody Allen

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Irrational Man (Woody Allen, 2015)

– Woody Allen ha ucciso qualcuno. Impossibile stabilire chi e perché. Un'amante che sapeva troppo, un ricattatore, un semplice passante che non doveva essere in un certo posto proprio in quel momento. Woody Allen ha pagato un sicario, oppure lo ha ucciso con le sue mani: e il rimorso lo tormenta da allora - ma non si costituirà mai. Però ce lo sta dicendo da più di vent'anni - Crimini e misfatti è del 1989, e a ben vedere sotto il travestimento è una confessione fatta e finita. Da allora è tornato sullo stesso soggetto quante volte? Settembre, Pallottole su Broadway, Match Point, Cassandra's Dream, e adesso Irrational Man: tutte variazioni sul tema. Come si fa a non notare l'ossessione, come si fa a non sentire il muto grido di dolore sepolto sotto il rassicurante tappeto di fotografia elegante e swing d'epoca? Woody Allen è un assassino. Oppure:

– Woody Allen è morto. Impossibile stabilire chi è stato e quando. Un'amante che sapeva troppo, un ricattatore, un semplice psicopatico che lo ha trovato in un certo posto nel momento sbagliato. Woody Allen ci ha lasciato da un pezzo, ma il piccolo carrozzone che ha messo assieme in più di quarant'anni di carriera, la sua piccola Disney per anziani, doveva in un qualche modo andare avanti. Un film all'anno, niente che il pubblico pagante non si aspetti già. All'inizio hanno usato qualche vecchio copione scartato. Poi hanno iniziato a scriverne di nuovi alla sua maniera. Ultimamente usano un software che riesce a simulare anche l'invecchiamento di Woody Allen, per cui per esempio il 'suo' ultimo film, Irrational Man, sembra veramente scritto da un ottuagenario molto preoccupato di farsi capire a spettatori altrettanto rintronati. Joaquin Phoenix è un insegnante di filosofia morale depresso e alcolizzato: lo si potrebbe indovinare dagli occhi disperati, dal pancino alcolico, ma anche dal fatto che tira continuamente fuori una fiaschetta di scotch (la offre anche alle studentesse in mezzo al campus), e dalla voce fuori campo che martella ogni due minuti. ERO DISPERATO. LA VITA NON AVEVA PIU' SENSO. INFATTI AVEVO VOGLIA DI MORIRE. DA UN PO' ERO ANCHE IMPOTENTE. VI AVEVO GIA' DETTO CHE ERO MOLTO DEPRESSO? Così per un'ora. Nel frattempo Emma Stone si innamora di lui. Lo si capisce dal modo in cui sgrana gli occhioni, dal fatto che accetti di passeggiare con lui in mezzo al campus, che lo inviti alle feste dei compagni e a casa dei genitori,, dalle scuse che racconta al suo ragazzo ufficiale, nonché da dialoghi del tipo OH PROFESSORE HAI CAPITO CHE MI SONO INNAMORATA DI TE? ORA TI FICCO LA LINGUA IN BOCCA FAMMI UN CENNO SE TI ARRIVA IL MESSAGGIO. Woody Allen, insomma, è morto. Questa almeno è la mia ipotesi preferita, ma ce ne sono anche altre.

– Woody Allen sta benone, (continuava su +eventi!) rilascia interviste lucidissime. Ultimamente ha compiuto 80 anni e un sacco di gente su facebook si è divertita a stilare la sua lista dei cinque film migliori. È un gioco che funziona con Allen meglio che con qualsiasi altro regista, perché chiunque ne sappia almeno un po', senza sforzo riesce a ricordarsi una ventina di titoli. Tanta prolificità ha anche il suo lato oscuro, e infatti a un certo punto per il puro istinto di distinguermi ho pubblicato la classifica dei film di Allen che mi erano piaciuti di meno. Se ci riflettete, ha molto più senso, perché nessuno ci ha fatto vedere tanti film mediocri come Woody Allen – qualsiasi altro autore, dopo un paio di mosse false lo avremmo abbandonato. Invece da lui siamo tornati anno dopo anno, sempre sperando di assistere al miracolo di un nuovo Harry a Pezzi, un nuovo Zelig. E ci siamo sciroppati Another Woman, Vicky Cristina Barcelona, Magic in the Moonlight, senza neanche lamentarci troppo.
In questo senso Woody Allen è un po' come Bob Dylan, che oltre ai suoi capolavori, è riuscito a venderci una discreta manciata di dischi talmente scadenti che nessun altro artista ci avrebbe potuto propinare senza perdere la sua credibilità: dischi così orrendi che li ricordiamo con affetto. Alla fine chi ascolta Dylan, o chi guarda un film di Allen, ha soprattutto voglia di ritrovare un vecchio amico – non importa quanto sia fuori forma. Woody Allen magari è in perfetta forma, ma a questo punto si preoccupa dell'inevitabile invecchiamento del suo pubblico. Si chiederà: ma che razza di rincoglioniti tornano in sala a vedere qualunque cosa io faccia? Meglio non rischiare, meglio l'usato sicuro: ancora Dostoevskij, ancora un Raskolnikov (pazienza se rischia di sembrare quel tipo di studentessa di un suo film, che di ogni autore conosceva solo una citazione a effetto). Il protagonista deve essere un misantropo disilluso. Forse è meglio ribadirlo ogni due o tre minuti, metti che qualcuno in sala si addormenti – ehi non è uno scherzo, fare film di Woody Allen è una scienza, magari si sono addormentati durante un focus group.
Il protagonista deve commettere un omicidio, perché da sempre questo è l'unico modo che hanno i personaggi di Allen di votarsi al Male – omicidi e al limite le corna, ma queste ultime da un pezzo sono state derubricate a peccato veniale. Tutto il resto non conta - ad esempio farsi corteggiare da una studentessa davanti a colleghi e compagni di lei, per Allen è un comportamento normalissimo, accettato anche da superiori e genitori: ed è anche l'indizio più forte del fatto che ci troviamo ancora nell'universo mentale dell'autore e vecchio satiro Woody Allen, e non in quello di un software in grado di produrre intrecci verosimili.
Come in Pallottole su Broadway ci dev'essere un artista irresponsabile, irrazionale, assassino, e un piccoloborghese che lo ammira ma non potrà seguirlo per la sua strada: non si tratta di una vera e propria scelta, semplicemente la via del Male (ma anche dell'Arte) non è per lui/lei. Rispetto a dieci o vent'anni fa, la novità di rilievo non è tanto la colonna sonora più blues, ma l'atteggiamento sempre più didascalico, ai limiti dell'autoparodia. La trama che occupava una mezz'oretta di Crimini e Misfatti è dilatata sui novanta minuti. Allen può lavorare con gli attori migliori sulla piazza, e quello che vuole da loro ormai è che vestano una specie di costume kabuki e continuino a ripetere al centro della scena: SONO DISPERATO. VOGLIO MORIRE. TUTTO È ASSURDO. MA SE AMMAZZO QUALCUNO LA MIA VITA CAMBIA. AMMAZZO QUALCUNO. ECCO LA MIA VITA È CAMBIATA. SONO FELICE. HO FAME, RIESCO ANCHE A SCOPARE. Il risultato è un prodotto che oltre a funzionare in sala – ma in sala ormai ci andremmo in ogni caso – avrà un senso anche sul digitale terrestre tra un annetto o due, al pomeriggio, mentre stiriamo o diamo la polvere: quelle fiction che riesci a seguire anche se guardi una scena ogni tre.

Woody Allen a ottant'anni ci conosce meglio di noi stessi: ha capito che cominciamo a perdere colpi e si sta adeguando. Continua a macinare film che nessun altro sa fare, e che forse a nessun altro perdoneremmo. D'altro canto prima o poi ci regalerà qualche altra perla, anche solo un Whatever Works. Nel frattempo Irrational Man è al Cityplex di Alba (21:10), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:10, 17:20, 20:10, 22:20), al Baretti di Mondovì (21:00) e al Cinecittà di Savigliano (22:30). Prego notare che è alla terza settimana di permanenza in sala; ed è quella tra Natale e Capodanno. Whatever works.
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Che ne sai tu di un campo di grano

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Prisco e Davide sono amici d'infanzia. Suonano assieme in una band che viene liquidato nelle prime scene del film, perché Prisco, il cantante, scatena una rissa al concerto per la festa di laurea di Davide. (Il quale appena vede che le cose vanno male inizia a smontare la batteria).

L’indomani vediamo Davide appendere per sempre la maglietta dei Nirvana e infilare una timida giacca e cravatta. Inizia una serie di frustranti colloqui di lavoro, a cui assistiamo rapidamente, per flash: non si sa bene cosa abbia studiato Davide, ma è qualcosa di abbastanza inutile: in tanti modi diversi tutti gli dicono di no. L’estate è alle porte, e lui non ha di che andare in vacanza. Incontra Prisco che sta andando a farsi due settimane in collina, un bel posto, c'è l'aria buona. Con che soldi? Niente soldi, vado a fare volontariato in una comunità terapeutica. C'è un frate che conosco. Coi tossici in astinenza? Tu sei matto. Sarà, io intanto vado al fresco. Perché non vieni anche tu? Vitto e alloggio gratis. E poi è gente interessante.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone).

Il posto è sorprendentemente ameno, il frate assai simpatico. Davide confessa con lui le sue paure, di non saper trovare il suo posto nella vita degli altri, di essere un batterista fallito fra tanti, ecc. Devi avere pazienza, gli dice il confessore. Gli regala una strana sveglia fatta a mano. È puntata per suonare ogni tre anni, gli spiega. Conservala vicino a te, e quando la sentirai suonare, misurerai la strada che hai percorso.

Gli ex tossici sono in ottima forma (durante una partita a pallone fanno stramazzare i nostri eroi); mietono coi sistemi tradizionali il grande campo di grano della comunità. Molti sembrano avere anche idee chiare sul loro futuro: metteranno su casa, famiglia, un agriturismo (pare ci siano dei fondi dell’UE per recuperare gente come loro).

“Questi qui stanno meglio di tutti quanti”, scappa detto a Davide una sera, mentre rolla di nascosto in un boschetto.
“L’hai notato?”, dice Prisco “Infatti mi è giusto venuto un’idea su cosa fare nella mia vita”.
“L’ex tossico?”.
“Proprio”.
“Dovresti prima intossicarti”.
“Non sarà questo gran sacrificio - hai sentito quel che ha detto la sdentata l'altra sera?"
“Ha veramente bisogno di una protesi".
"Come novanta orgasmi in una volta. I neuroni sono sollecitati novanta volte di più. È scientifico".
"E se ci prendi gusto?"
"Ma a quel punto arrivi tu".
"Io".
"Diamoci tre anni. Se tra tre anni io sono ancora nel giro, mi prendi e mi riporti qui. Anche se io non sono d’accordo. Me lo prometti?”
“Sei matto”.
"Punta la sveglia del frate".

Tornato in città, Davide ricomincia il suo calvario di colloqui. Un giorno, al 57esimo no, esplode. “Tutti non fanno che dirmi di no”, si sfoga, “me lo sono sentito dire in 57 modi diversi”. “Davvero? Forse allora lei è l’uomo che cercavamo”.
Viene assunto in un'agenzia interinale. Lo pagano per dire no alla gente. Ora assistiamo a tutte le scene dei colloqui invertite: dietro la scrivania c’è lui. Rapidamente il taglio della giacca migliora.
Un giorno le capita un colloquio con una ragazza carina, Gloria. Davide gli pone tutte le domande di rito e anche altre più personali. Niente, non ne azzecca una. Davide le dice no e poi la invita a cena. In breve vanno a vivere insieme, prima in un bilocale, poi cinque stanze più cucina, gli affari vanno sempre meglio.

Una sera, uscendo dall’ufficio, Davide incontra Prisco, sono anni che non si vedono. Ha una pessima cera.
“Che ci fai qui?”
“Non lo so, andavo a una festa”.
“A una festa a quest’ora?”
“Perché, che ora è?”
“Ma ti senti bene?”
“Forse no”.
“Vieni a casa mia, dai”.
“Abiti qui?”

A casa i due vecchi amici rivangano i vecchi tempi. (Gloria cucina). Ti ricordi il gruppo, e di come mandasti a puttane la mia festa di laurea? Ah, che ridere. E quando siamo andati in vacanza coi tossici perché non avevamo un soldo? Che pazzi che eravamo. Prisco ha gli occhi lucidi. Si guarda intorno, Davide ha una bella casa. Ha una bella moglie. D'impulso decide di andarsene. Prima però chiede se l’amico non può prestargli cento, duecentomila lire. Intasca e scompare.

Che tipo strano il tuo amico, dice Gloria quella sera, a letto. Sembrava un po’ sconvolto, no? Sei sicuro che non prenda qualche cosa? Può darsi, risponde Davide, soprappensiero. Gli ho prestato dei soldi, avrò fatto bene? Del resto potevo anche dargliene di più, mi hanno appena fatto una gratifica… lui, invece… In quel momento (Gloria ha già cominciato ad accarezzarlo), si sente da molto lontano come uno squillo debolissimo di sveglia. Lascia perdere, dice Gloria, sarà l’antifurto del vicino. No, dice lui, è la sveglia del frate, dove l’avevo cacciata? In quale fondo di valigia? È il segno. Prisco si sta rovinando la vita, devo andare a salvarlo.

Si mettono sulle sue tracce. In un agriturismo un comune amico ex tossico conferma: sì, al ritorno si era messo in un brutto giro, sniffava, spacciava. Ha fatto le cose più strane. Anche girato un film porno: regista e interprete. Recuperiamo la videocassetta (suggerisce Gloria), magari c’è qualche indizio.

Le tracce raccolte qua e là (bische clandestine, bordelli, ippodromi) sembrano confermare soprattutto che negli ultimi tre anni Prisco se l’è spassata. Davide comincia ad avvertire i morsi dell'invidia, anche perché più l’amico si rivela una sentina di vizi, più Gloria sembra tradire un certo interesse.

Una sera arriva una telefonata: Prisco è stato visto al casino di ***. C’è da guidare tutta la notte, dice Davide. Lei: non importa, quando ci ricapita? Non usciamo mai. Arrivano molto tardi, ma davanti a un albergo c’è una Porsche che Prisco ha preso in leasing e mai restituita, la targa coincide. I due prendono una camera e decidono di aspettarlo al varco. Davide si addormenta come un sasso e sogna di suonare la batteria a torso nudo nel grande campo di grano. Quando si sveglia Gloria non c’è più. Non c’è neanche la macchina di Prisco. Se ne sono andati.

Davide picchia un po’ il muro (ha questo vizio di tamburellare su ogni cosa che ha in mano), poi ricomincia da solo la ricerca, tornando sui luoghi loschi dove Prisco era già stato visto: invano. Nella casa troppo grande, si decide a rimontare la batteria - ma appena comincia a pestare duro i vicini si lamentano. Qualche mese dopo ripassa per caso nell’agriturismo: trova i due piccioni nel parcheggio che litigano.

Sono già una coppia in crisi. Gloria ha persuaso il ragazzo terribile ad affittare anche lui il suo pezzo di terra: sogna di redimerlo attraverso il sano lavoro dei campi (e vuole un bambino da lui). Prisco si è lasciato fare, ma non è che ci creda così tanto: appena incontra Davide gli fa la festa e decide di scappare con lui. Ma quando è già salito in macchina scopre con orrore che Davide vuole portarlo nella comunità del frate, per tenere fede a una scommessa fatta per scherzo tre anni prima.

“Maccheccazzo ma anche tu vuoi salvarmi? Da cosa poi? Io tutto sommato me la passavo bene”.

Gloria li insegue e li raggiunge proprio davanti ai cancelli della comunità. Nel grande campo di grano, l’ultimo duello a tre. Prima una schermaglia verbale: Gloria chiede a Prisco di tornare, perché ormai ha delle responsabilità nei confronti di lei. Senti chi parla di responsabilità, ribatte Davide, e iniziano a rinfacciarsi le miserie di tre anni di matrimonio. Prisco ne approfitta per fare un passo indietro, lo bloccano in due. Il sole è alto in cielo. Le recriminazioni lasciano lo spazio al silenzio. Un minuto di primi piani.

Alla fine Gloria si gira e si avvia verso l’auto. Davide resta immobile. Prisco, incredulo: “ma come, non le corri dietro?”. Dopo un po’ le corre dietro lui. Davide, impassibile, bussa alla porta del convento.

Dieci anni, quindici chili più tardi, Gloria lavora in un ufficio di lavoro interinale. Esamina l'improbabile curriculum di un mezzo pancabbestia, sandali, barbone, brutti denti.
“E così lei ha una lunga esperienza professionale come percussionista?”
“Suono ai matrimoni, alle sagre, per strada, dappertutto..."
“Bene. E… oh, scusi, devo rispondere al telefono... Amore, non disturbarmi mentre… come non trovi i pannolini, guarda che la Chicca non li porta più da… ah sì? Beh, cerca di pulire intorno. Con una spugna, uno straccio, non so! Ti devo dire tutto io? E in posta ci sei andato?… Scusi, mio marito in casa è una frana. Dicevamo?”
“E avete un bambino?”
“Una bambina. Ma torniamo a lei. E quando ha deciso di fare il… percussionista?”
“È stato dieci anni fa, in seguito a un esaurimento nervoso. Mia moglie mi aveva lasciato, e avevo perso il lavoro, e…”
“Va bene, le faremo sapere”.

Fatemi sapere voi, votando Che ne sai tu di un campo di grano, che oggi se la gioca contro I banditi della montagnaPotete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.
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Capodanno

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Questo è molto antico - ispirato a un capodanno del secolo scorso - e ha l'aria di essere uno spunto per un lungometraggio. Non ricordo bene, ma a un certo punto qualcuno mi chiese se avevo dei soggetti per un film, o forse lo chiese a qualcuno che conoscevo, insomma io me ne uscii con qualche roba del genere, e ovviamente nessuno mi ha più chiesto nulla.

O. è neolaureato, fa il servizio civile. Il 31/12, mentre si annoia in servizio, si imbatte in una conoscente 45enne (amica della madre? ex insegnante? boh). Divorziata di recente. O. odia il capodanno come tutti, ma l'idea di non avere nessun invito, nessuna festa a cui andare, un po' lo spaventa. Impietosita la sorella (un paio d'anni più grande) lo invita a una cena. In auto ascoltano il discorso del presidente, un invito alla responsabilità, ecc ecc. Alla cena, in una corte di campagna, incontra alcuni personaggi, tra i quali:

— Un tizio di età indefinibile, bassino, stempiato, barba rossiccia, in poltrona. Sarcastico fino alla misantropia/misoginia. Si mostra interessato delle vaghe referenze di O.: ha degli amici (all'università? nell'editoria?), può dargli una mano con la carriera…
— Fidanzato della sorella, tizio scontroso. Forse la mena.
— Ragazza matricola all'accademia d'arte, ancora con l'apparecchio ortodontico, entusiasta di qualsiasi cosa.
— Coetanea praticante in uno studio legale.
— Allegri compagnoni. A un certo punto della serata tirano fuori non la playstation, ma cose più vintage (Pong).

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui).

La festa ha un rapido decorso. Si mangia, si beve, si discute di cinema, si sentono cose abbastanza bestiali (Kubrick è lento, Fellini ridondante, ecc). A mezzanotte si stappa, O. si assenta per telefonare alla 45. Sa di trovarla sola. Poi si balla scalzi su un tappeto, a un certo punto O. è avvinghiato alla studentessa d'arte. Più tardi sullo stesso tappeto O. e la coetanea laureata in legge si confidano i timori sul futuro. Cresceranno? Sembra inevitabile, eppure non sanno come fare. La maturità è stata recapitata senza istruzioni.

Verso le cinque i convitati residui si gettano dove capita. O. si ritrova sotto le coperte con sua sorella e l'avvocatessa.

— In un sogno i colori si sono spostati verso lo spettro disney: Il bagno, per esempio, è azzurro pastello, e O. vomita vernice gialla. I resti del banchetto sono enormi. Qualcuno gioca ancora a Pong. Nessuno può andarsene prima di aver sparecchiato. Pesa su tutti la consapevolezza che nessuno sparecchierà mai. La casa è una trappola.

— Poi invece si risveglia, si riassetta in un bagno normale, esce in macchina, ricomincia la vita. Due giorni dopo invita l'avvocatessa al cinema. All'uscita incontra la 45enne col bassino sarcastico, che chiede come vanno gli affari. Sale in macchina, accende l'autoradio, c'è di nuovo il discorso del presidente. E al suo fianco c'è la 45enne. L'avvocatessa dov'è? Angoscia, risveglio. È al suo fianco. È ancora capodanno.

— Un anno dopo, O. ritorna allo stesso casolare. La matricola ha tolto l'apparecchio. Vanno nuovi suoni, nuovi abiti, è difficile raccapezzarsi. O. ha un'avventura con lei; in breve vanno a vivere in un casolare, cani. Al matrimonio rivede l'avvocatessa che ora sta con un uomo (tipo scontroso, forse la mena). Al buffet, il bassino propone di comprargli l'anima. Quando la ragazza partorisce, O. l'abbandona in ospedale e si barrica in un ascensore. Chiude gli occhi e si risveglia al solito Capodanno.

— Qualche anno dopo, O. è un professionista di successo, anche se ai consigli d'amministrazione si gioca a pong. Sta divorziando dall'avvocatessa, che gli succhierà ogni stilla di sangue; ha una storia con la ragazzina, che è insopportabile. A volte la mena.

— Infine si sveglia e riporta la sorella a casa. Cerca di spiegarle i suoi sogni. Per strada, un incidente, una macchina bruciata: dentro c'erano tre allegri convitati e la ragazzina (nell'autoradio, ancora il Presidente). La sorella vomita vernice gialla. Arrivano i soccorsi.

A casa i genitori hanno dato una festa: caos ovunque. Verso sera la 45enne telefona. O. esce a incontrarla e per strada incontra il bassino, che gli propone un lavoro interessante. Poi al cinema incontra l'avvocatessa e la saluta, fingendo di essere lì da solo. La 45enne capisce e lo lascia da solo davvero. Buio in sala, titoli del film. In sottofondo una recensione scema.

Vabbe', insomma, ci si può lavorare. Mi farete sapere votando per Capodanno. Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.

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LA GRANDE GARA DEGLI SPUNTI

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Un'altra estate se ne sta andando, e io non ho ancora scritto un romanzo. Sapete, a volte ci penso.

D'altro canto, che bisogno c'è di farne uno? Ce ne sono già così tanti in giro. Il mondo scoppia di romanzi. C'è gente che li spara a getto continuo, senza rispetto per lo spreco di legname, di energia, l'effetto serra. Gente che dovrebbe avere più precauzioni quando scrive, usare il cestino ogni tanto... e invece niente. Pubblicano, pubblicano, e il mondo diventa ogni giorno più ingombro di parallelepipedi cartonati e inutili. Di fronte a uno scempio tanto dissennato a volte mi domando se non esser fiero del fatto che non scrivo romanzi. Dovrei rivendicarla con orgoglio, questa scelta.

Se fosse una scelta.

Ho sempre pensato che i romanzi avessero qualcosa di simile ai bambini, e ora che ho passato i 40 vi confermo che è così. La gente comincia a guardarmi con quell'espressione, avete presente? Poverino. Ha 40 anni e non è ancora riuscito ad averne uno. Hanno anche smesso di chiedermelo. Fino a qualche anno fa ogni tanto qualcuno si permetteva: "Scusa, ma quand'è che ti metti a scriverlo?"
"Ma io veramente ho il blog..."
"Sì, il blog, certo, ma prima o poi lo scriverai questo romanzo, no?"
"Ma perché devo proprio scriverne uno, scusa?"
"Mah, è un impulso naturale, no?"
"Davvero?"

Di solito a quel punto mi guardavano come se avessi ammesso di non amare il cioccolato. Il sesso. La bacheca di Gianni Morandi. Come si può vivere senza avvertire l'impulso più naturale dell'uomo, quello di infliggere storytelling ai propri simili? Come oso io sottrarmi alla natura - chi mi credo di essere?

In effetti.

E va bene, tanto prima o poi sarei crollato. Non è vero che non provo l'impulso. Non è che non mi ticchetta l'orologio. Sono anch'io un umano come tutti gli altri, sapete? Mi piace il sesso, il cioccolato, ma soprattutto non posso resistere all'idea del mio cognome sbalzato su una copertina in similpelle in una libreria di noce massiccio. Vorrei tanto scrivere un romanzo - no, in realtà vorrei tanto averlo già scritto, perché è così faticoso provarci.

È una vita che ci provo.

Vedo un sacco di imbecilli che ci riescono, e io no.

Credevo che a una certa età sarebbe stato naturale. Come parcheggiare nel garage, riempire la lavastoviglie in modo efficiente. Ma l'età ormai è passata, e io continuo a girare a vuoto. Mi manca qualcosa che non so cos'è.

Sono andato anche dagli specialisti. Dicono che non c'è niente che non vada. Però non mi viene l'idea, lo spunto giusto. No, anche questo non è vero.

Di idee me ne vengono troppe. E sono tutte bislacche. Le vedo crescere in me come virgulti promettenti. Le vedo svilupparsi in forme bizzarre ed effimere. E seccarsi al primo sorgere del Buon Senso. Questa storia è troppo triste, questa scherza troppo con le cose serie, questa se la comprerebbero in tre, questa somiglia a qualcos'altro, ecc. ecc.

Col tempo mi sono fatto un armadio di vecchie idee che per un attimo mi sono piaciute e che adesso avrei vergogna a indossare. Un sacco di idee. Possibile che nessuna valga un po' più la pena? Forse ho già avuto un'idea fantastica e non me ne sono accorto. Forse potrebbe accorgersene qualche mio educato lettore.


Vi presento ordunque la Grande Gara degli Spunti, che è il simpatico modo in cui su questo blog trascorreremo l'agosto.

Tra gli innumerevoli spunti di romanzo da me buttati giù negli ultimi 20 anni ho selezionato 32 candidati, che nei prossimi giorni si sfideranno in un torneo a eliminazione diretta. Ogni giorno somministrerò agli affezionati lettori due spunti, due aborti di romanzo, e loro potranno scegliere quale eliminare e a quale dare una chance. Per salvare uno spunto (e condannarne un altro) sarà sufficiente mettere un like su facebook, o ritwittare, o scrivere qualcosa di carino nei commenti, come ai vecchi tempi. Potete anche votare per entrambi i concorrenti, se non sapete decidervi - vi capisco benissimo.

In capo a un mese, tra questi 32 spunti spunterà un vincitore. E a quel punto, saprò che romanzo mettermi a scrivere. Questo non significa che sarà un bel romanzo, anzi probabilmente riuscirà illeggibile, ma ogni scarrafone è bello a mamma sua. Vi ringrazio sin d'ora per la collaborazione, e do il via alla Grande Gara di Spunti. Come prima sfida, una classica senza tempo: David Bowie contro Gesù Cristo. Siete pronti?

***Update: il Grande tabellone degli spunti


SedicesimiOttaviQuartiSemifinaliFinale
Stardust48
38
37
31
I Catari 48
Gesù52
5 a Genova20
26
Capodanno27
Claudio Augusto9
28
34
Fiume 192068
La prima volta43
20
O viceversa17
I banditi34
16
46
46
Campo di grano19
I Catari53
39
Il basilisco6
Scuola media44
26
12
Sauron vive!34
Dama e cavaliere18
31
Zombi vs vegan39
Scie chimiche53
35
15
31
Copernico 68
Eyjafjöll40
La prigioniera42
27
Pinocchio uccide22
L'ultimo uomo10
61
38
Addio ai procioni50
La marmellata41
55
Tutte le ex52
Gioconda 30
48
21
67
Marinetti duce60
Redenzione29
8
Pandolfo17
Perpendicolare15
63
54
Copernico47
Love of My Life8
6
1+2+3+4+5+6+...29
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Giovani non ci si improvvisa

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Passa ai ruoli drammatici, dicevano.
Si suda di meno, dicevano.
Giovani si diventa (While We're Young, Noah Baumbach, 2014)

Hai presente quel dolorino al ginocchio che non riesci nemmeno a ricordare quando è cominciato - quel dolore trascurabile che se ne sarebbe andato presto, e invece a un certo punto non sei più riuscito a salire in bicicletta, e il medico ti ha prescritto una medicina per l'artrite? L'artrite? C'è in giro una nuova generazione di artrite che colpisce i giovani? Ok, tu non sei tecnicamente più un giovane, ma l'artrite, suvvia, tuo padre soffriva di artrite. A quarant'anni... Perché, tu invece quanti anni hai?

Hai presente quel dolorino? Non se ne andrà mai più.

Giovani si diventa non è Duri si diventa, anche se sono usciti la stessa settimana. In Duri si diventa c'è Will Ferrell che deve imparare a fare il duro perché sa che andrà in prigione. Dirige Etan Cohen che non è Ethan Coen, occhio all'H. In Giovani si diventa c'è Ben Stiller che deve imparare a sembrare giovane perché improvvisamente non lo è più - cose che succedono soltanto nei film, per fortuna. Un attimo prima era un documentarista ribelle di belle speranze, un attimo dopo è un vecchio frustrato col cappello sullo sfondo di feste a cui non lo invitano.

Naomi che balla l'hip-hop però vale tutti i $ che è costata.
Dirige Noah Baumbach e la sensazione è che qualcuno, dopo avergli fatto i complimenti per Frances Ha, gli abbia detto: peccato che manchi la trama. "Il prima e il dopo. Questi vogliono gli americani. Un prima e un dopo". Lo stesso refrain sentirete due volte nel film, all'inizio e verso la fine. Forse Baumbach se l'è presa, al punto di decidere di autosabotarsi: dite davvero che gli americani vogliono più storytelling? E io ve ne darò più che posso: invece di limitarmi a ritrarre un personaggio umanissimo che scopre di invecchiare, gli darò un antagonista, un giovane con tutti i vezzi della fauna di Williamsburg, tranne la barba. Un compagnone supersimpatico, ma chissà se sotto sotto non è il più opportunista di tutti, eh, chissà. Vi darò l'indagine, i tradimenti, i colpi di scena, perfino gli inseguimenti (ma coi pattini. Il destino del Ben Stiller maturo è andare a rotelle). Il lieto fine, vi darò pure quello, con tanto di nota agrodolce. E con tutto questo, riuscirò a incassare meno che con Frances Ha, che era un prodotto artigianale e ha portato a casa 5 milioni di $ netti. While We're Young partiva con un budget di dieci milioni (che oltre a Ben Stiller a rotelle includono Amanda Seyfried e Naomi Watts che balla l'hip hop) e fin qui è riuscito appena a recuperarli. Volevate un prima e un dopo? Toh. Adesso mi farete fare i film come piacciono a me? (Continua su +eventi!)
Baumbach è uno dei registi più interessanti della nuova mia generazione. Il fatto che nemmeno lui riesca a darne un ritratto corrosivo senza cadere nel macchiettismo sfoggiato da Sam Mendes in Away We Go un po' preoccupa. In molte sequenze di While We're Young lo troviamo a sparare ai pesci nel barile: le ossessioni naturiste delle neo-mamme e dei neo-papà che vanno in aspettativa, quelle analogiche degli hipster viziati con una parete intera di 33giri, l'angoscia dei quarantenni che non riescono più a trattenersi dal consultare lo smartphone al ristorante. È un film che poteva graffiare e si limita a mostrare le unghiette. Alcuni riferimenti alla filmografia di Woody Allen, più che voluti inevitabili, non fanno che darci la misura del baratro - e dire che se c'è un regista che avrebbe qualche chance di colmarlo nei prossimi anni, è proprio Baumbach. C'è da sperare che il ritratto del regista terrorizzato dall'ansia di fallire al punto da minare la propria carriera sia il meno autobiografico possibile. Giovani si diventa è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:35.
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Come invidiare Sorrentino

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Youth - La giovinezza (Paolo Sorrentino, 2015)

Non so quanti siano, e quanta barba sfoggino. Me li immagino seduti in poltrona, o distesi su un tappeto. Stanno scrivendo il nuovo film del grande regista italiano. Da qualche parte comunque c'è un piattino con qualche ammenicolo - un paio di dadi, un mazzo di tarocchi, il libro di I Ching, e soprattutto una manciata di baci perugina. Quando la storia non va avanti, e la battuta non si trova, e i tarocchi dicono picche, e i dadi sempre due, il più giovane scarta un cioccolatino.
Bravissimi, per carità, ma Boldi e De Sica
avrebbero aggiunto quel quid.
"Checcescritto?"
"Torno sempre alla casa del padre".
"Sì, ma sotto?"
"Novalis".
"Suona bene".
"Scrivo?"
"Aspe', scartane un altro per sicurezza".
"Nessuno si sente all'altezza".
"Questo è vero".

Ma chi l'ha poi detto che uno debba lasciare a casa i propri pregiudizi. I pregiudizi sono divertenti. I pregiudizi ci aiutano a vivere meglio. Forse il miglior modo di guardare Youth è bersi nell'anticamera una coppa amara di pregiudizio - bene, ecco la giovane promessa del cinema italiano, che per due o tre anni sembrava avere inventato un nuovo modo di raccontare le storie, e poi all'improvviso un giorno si sveglia Venerato Maestro e comincia a scaracchiare fellinate imbarazzanti su sfondi pittoreschi per la gioia dei turisti. E sbanca i botteghini. E porta a casa Oscar e Goldenglobe. E quindi, insomma, adesso chi lo fermerà più? Quanti altri vecchietti saggi e perplessi ci somministrerà, quante piscine e giraffe e fenicotteri? Ecco, se uno si siede in poltroncina con queste premesse, alla fine rischia di rivalutarlo, Youth. Cioè alla fine non è così male, dai. C'è pure una scena action con le esplosioni. Adesso però non so andare avanti, cosa dice l'I Ching?

"Tutta invidia".

Sì.


Ma guarda che invidiare è il mio mestiere. Dal latino in-video, "guardo contro", ma quell'"in" all'inizio voleva dire "dentro". Nessuno sa guardarti dentro come un invidioso, perché nessuno ha così tanta voglia di guardarti. Sì, Sorrentino, siamo tutti invidiosi.
Io perlomeno non riesco più a passarti nulla ormai. Non c'è nulla che si dicano o facciano i tuoi personaggi che non mi suoni falsa. Il grande compositore che dirige le vacche al pascolo. Miss Mondo che si esibisce in una scena che sembra un calco di un Vanzina, ma non prima di aver impartito una lezione di vita, non prima di averci mostrato che è anche intelligente. Bambini saggi, massaggiatrici ambigue, Maradona obesi, lama volanti, avanspettacolo. E dire che io sono uno di bocca buona, mi piacciono i film di robot. Persino il Kitsch, una volta che hai accettato che è Kitsch, posso apprezzarlo in quanto tale. Metti il buon Baz Luhrmann. Lui non si vergogna di nulla, però sta anche molto attento a coprirsi. Ad esempio, è maniacalmente fedele ai classici. Come se ti dicesse, vedi? Non sono io a essere Kitsch, è Shakespeare. È Francis Scott Fitzgerald. È la vita, insomma, che ci parla attraverso i baci perugina. A me va bene anche il Kitsch, se lo sai fare, eppure a Sorrentino non glielo perdono. Lui non vuole semplicemente fare un film sul Sublime, lui pensa di poter andare dritto al punto (continua su +eventi!)
Ci prova davvero. Poteva usare la Montagna Incantata come canovaccio, magari un sottile gioco di rimandi rarefatti alla Wes Anderson - no, niente, per fare il sottile gioco di rimandi bisogna leggere il libro, roba da intellettuali. E noi non vogliamo essere intellettuali, gli intellettuali non hanno gusto, lo ha scritto Stravinskij su Wikiquote. Quindi si va in villeggiatura, si annotano i tic dei villeggianti, ed eccoci massimi esperti in Umanità. Cos'è la Vita? Cosa sono i Ricordi? E l'Amore sopravvive alla Morte? Sicuri? Non soccombe talvolta anche solo alla Lunga Degenza? Dopo i temi importanti, veniamo alle rubriche: Quanto è Importante essere Bravi a Letto? Non Crederai Mai a Quello Che È Capace di Fare Questo Lama Tibetano! Miss Mondo Senza Veli, gli Scatti Esclusivi! E il nuovo video di Pamela Faith.

No, Sorrentino non si accontenta di girare intorno al Sublime. Lui vuole essere Sublime. È convinto che sia alla sua portata, perché no? In fin dei conti basta riflettere un po' sulla Vita, sparare due massime più o meno originali, e metter su la canzone giusta. Qui in un qualche modo l'invidia si ribalta in ammirazione, perché quello che Sorrentino cerca di fare nel finale del film è una spacconata incredibile, senza precedenti almeno alla portata della mia memoria. Quando in letteratura ci si inventa un artista, di solito un grande artista, ci si premura sempre di lasciare le sue opere sullo sfondo, dando per scontato che siano grandi, che siano belle, ma siccome nessuno le ha scritte davvero non ce le possono mostrare. Mann mica poteva comporre le sinfonie del Doktor Faustus. Sorrentino, lui sì. Lui si inventa un compositore e poi commissiona a David Lang il suo capolavoro, che ci vuole? E poi ce la fa ascoltare. Il soprano è vero, l'orchestra è vera, in platea c'è una sosia della regina, dirige Michael Caine. E com'è questo capolavoro, che dovrebbe dare un senso a una carriera, a un matrimonio, a un film, com'è?

Mah.

Il riff somiglia un po' a Sweet Child Of Mine.

Sorrentino alla fine è davvero sublime, a modo suo, e io lo invidio. Non ho la competenza né il talento per sdraiarmi sui vostri tappeti, ed è un bene, perché sarei quello che vi boccerebbe tutto. Questa battuta è troppo banale. Questa sembra profonda, ma guardate che in realtà non vuol dire niente. Questa è una citazione inconsapevole. Questa è troppo consapevole. Questa scena è pacchiana. La scena non diventa commovente se mostri un personaggio che piange, è un trucco volgare. Nulla, non vi passerei nulla. Fosse per me il film non si farebbe; fosse per me, non si farebbe più nessun film. Perché io non sono all'altezza, voi non siete all'altezza, nessuno è all'altezza. E invece eccolo qua, Youth di Sorrentino. Com'è? Credevo peggio, dai.

Youth è al Citiplex di Alba (20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); all'Impero di Bra (20:15, 22:30); al Fiamma di Cuneo (21:10); ai Portici di Fossano (20:15, 22:30); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (21:30).
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L'ultimo dei nonni

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Oggi forse eleggono il presidente e io non ho niente da mettermi. Sono molto contento di aver trovato altro di cui parlare, in questi giorni, visto che non avevo la minima idea di cosa sarebbe successo. Sono contento che Berlusconi sia rimasto spiazzato - credo che lo spiazzamento di Berlusconi abbia un valore in sé. Sono anche relativamente soddisfatto che dagli anfratti del colle Quirinale si sia trovato qualche altro notabile settantenne: non che il nome di Sergio Mattarella trasfonda in me un qualsiasi entusiasmo, ma nelle ultime settimane erano girati nomi tali da renderlo ai miei occhi, per contrasto, un padre della patria. In realtà ricordo poco di Mattarella (fece anche il ministro dell'istruzione in un antichissimo governo Andreotti), ma in un qualche modo sono già sicuro che sarà un buon presidente. D'altro canto, c'è mai stato un presidente che non mi sia piaciuto?

Questo blog esiste da quattordici anni, infida età. C'era giusto lo spazio per due settennati, ma le cose si sono un po' complicate, e così abbiamo assistito agli ultimi cinque anni di Ciampi e a nove, dico nove anni di Napolitano. In tutto questo tempo ho scritto un sacco, soprattutto di politica, non perché io ne capisca un granché ma perché è l'argomento più semplice e quello che richiama più lettori. Persino il calcio secondo me richiede più impegno della politica (come minimo ogni tanto ti devi guardare una partita). In tutto questo tempo credo di essermela presa con chiunque - certo con qualcuno più che con qualcun altro - eppure non trovereste, nemmeno se aveste davvero voglia di cercarla, un sola riga di biasimo per il presidente Napolitano o per il presidente Ciampi. Nessuno dei due mi ha fatto impazzire, nessuno dei due mi sembrava criticabile. Forse c'è in me un senso dello Stato, un rispetto per le istituzioni più forte di quanto uno possa sospettare.

Ai tempi di Scalfaro non avevo un blog, ma posso dire di averlo molto stimato anche se i suoi messaggi alla nazione erano insopportabilmente lunghi e alati, e il suo "non ci sto!" mi imbarazzò parecchio. Prima di Scalfaro c'era Cossiga: l'unico presidente che ho trovato discutibile. Molto discutibile: ma solo negli ultimi anni. Col senno del poi non sono tantissime le cose di cui mi pento, ma tra quelle c'è l'aver pensato che l'impeachment per il caso Gladio fosse una cosa seria. Prima di Cossiga c'era Pertini e questo potrebbe anche spiegare tutto: io sono di quello scaglione che è cresciuto con Pertini alla tv, e Pertini alla tv non si discuteva, si amava. Sono passati molti anni, la figura di Pertini mi si è parecchio ridimensionata (grazie soprattutto a chi ne ha fatto un santino), ma forse per me il presidente è ancora un nonno. Un tizio che merita rispetto prima di tutto, anche se non è detto che capisca sempre quello che succede. Questa idea del presidente nonno mi ha forse impedito di ironizzare sulle derive patriottarde dell'ultimo Ciampi, o di preoccuparmi il dovuto della situazione del tutto particolare in cui si trovò Napolitano dalle dimissioni di Berlusconi in poi. Continuo a credere che in quel frangente, e nei successivi, Napolitano prese decisioni forti, ma del tutto ragionevoli. Però forse sono obnubilato dal mio rispetto per il nonno. Il che spiegherebbe parzialmente il mio disagio per i nomi che erano stati fatti nei giorni scorsi. Alcuni di questi erano persino ragionevoli, ma non sarei mai riuscito a considerarli davvero i miei presidenti (a parte Veltroni, che avrei voluto al Colle solo per divertimento). Erano tutti politici di lungo corso che conosco troppo bene per ammirare, forse il problema è tutto qui. Ma forse c'è un'altra spiegazione: non appartengono più alla generazione dei nonni.

Mattarella dovrebbe essere il primo presidente nato negli anni Quaranta, seppur di striscio ('41). Mio padre è dell'anno successivo: il discrimine. Di quelli nati dopo non mi fido. Alcuni so che sono bravi, anche molto bravi. Ma ho la sensazione che possano essere bravi ai miei danni, una sensazione che i nonni non danno mai. L'idea che ormai sia finita, che la cosa pubblica sia interamente nelle mani di gente più giovane di mio padre, se non di me, mi dà una vertigine tremenda e mi spinge ad aggrapparmi a qualsiasi sostegno, sia pure un canuto moroteo. Esprimo dunque i miei più cordiali auguri al nuovo presidente, sempre che oggi lo eleggano.
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La doppia o quadrupla vita di Walter Mitty

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I segreti di Walter Mitty (The Secret Life of Walter Mitty, Ben Stiller, 2013)


A cosa pensa Walter mentre gli parli? Cosa sta guardando mentre fissa nel vuoto? A volte semplicemente Walter è altrove, prigioniero di un film che non è mai il suo. In questi casi occorre aspettare un attimo, resettare, e tutto riparte come prima. Su Tvtropes la chiamano Daydream surprise: è quel momento di pazzia in cui un personaggio, fino a quel momento ritratto in un contesto realistico, all'improvviso compie qualcosa di folle (ad es. lanciarsi da un grattacielo). Ma è solo un sogno: un attimo dopo la storia ritorna sui binari del realismo quotidiano. Se la fantasia in questione permette al personaggio di sfogare un enorme potenziale di violenza repressa si parla invece di Indulgent fantasy segue. È il caso della sequenza più spettacolare del film, la lotta onirica tra due skater che precipitando da un ascensore sbriciolano il cemento di Manhattan; la prova della resistenza di Matrix nel nostro inconscio collettivo. Un attimo dopo siamo di nuovo nell'ascensore della Time-Life, non è successo nulla. È solo Walter che sogna ad occhi aperti. Non sarebbe Walter Mitty, altrimenti.

In inglese esiste anche l'aggettivo, "mittyiesque". Per il World English Dictionary "mitty" è un personaggio finzionale caratterizzato da sogni a occhi aperti elaborati e grandiosi. Nel gergo dell'esercito è un miles gloriosus, un fanfarone che si attribuisce successi immaginari. Ma nel 1939 Walter Mitty era semplicemente il protagonista di un raccontino di James Thurber, più famoso come vignettista del New Yorker. Un ometto insignificante che accompagna sua moglie a fare shopping e inganna il tempo immaginandosi al centro di scene d'azione che rivelano una fantasia già dominata da stereotipi cinematografici: ufficiale di marina durante una tempesta, chirurgo di fama mondiale, imputato di omicidio, pilota della RAF, condannato per fucilazione. L'intreccio è esile, ma le potenzialità sono immense, così il solito Samuel Goldwyn ne acquista i diritti.

Il film che esce dieci anni dopo è già completamente diverso dal racconto: ora Walter è uno scapolo svagato ma di bell'aspetto (Danny Kaye) che dopo qualche dubbio pirandelliano scopre che il complicato intreccio noir intorno a lui non è un sogno nutrito dai giornaletti pulp, ma è la realtà: compresa la bionda Virginia Mayo che sta cercando di salvare i gioielli della corona olandese eccetera. In sostanza è come se avessero comprato i diritti della metamorfosi di Kafka per girare un thriller sull'uomo scarafaggio.  Thurber si è già dissociato, ma il suo Mitty ormai è patrimonio dell'umanità: nel '52 George Axelrod lo ribattezza Richard Sherman e gli scrive attorno la commedia The Seven Year Itch, la crisi del settimo anno: noi però lo conosciamo col nome italiano del film di Wilder che uscirà qualche anno più tardi, Quando la moglie è in vacanza, con Marilyn Monroe che combatte l'afa in quei modi originali. Probabilmente Sherman è il personaggio più simile al Mitty originale: non un giovane pronto a lanciarsi all'avventura, bensì un quarantenne esposto all'Itch, il prurito che ti coglie quando ti rendi conto che la tua vita ha preso una forma precisa, e che ormai sarà sempre più difficile voltarti, provare un'altra posizione, anche solo per curiosità - ecco, proprio in quel momento qualcosa che se ne stava buono da anni comincia a prudere. Gli ometti di Thurber erano spesso disegnati alla mercé di donne immense, che ad altre longitudini li avrebbero aspettati a casa con il mattarello.

Il Mitty tipico della mia generazione invece è Zach Braff quando in Scrubs alzava gli occhi in quell'espressione estatica... (continua su +eventi!) Anche il figlio di Samuel Goldwyn, indovinate, Samuel Goldwyn Jr, a metà anni Novanta pensava a un Mitty più giovane, visto che lo immaginava tagliato su Jim Carrey. È curioso che Mitty esca nelle sale assieme alla Regina delle Nevi (o a quel che resta di lei): sono due progetti che rimbalzano da quasi vent’anni – per Mitty furono coinvolti a turno Ron Howard, Spielberg, Owen Wilson, Sacha Cohen – e in entrambi casi il problema era lo stesso: la storia. Non funzionava mai, e così registi e attori venivano risucchiati da qualche altro soggetto meglio definito. Accantonato l’intreccio pulp del vecchio film, Mitty non riusciva a diventare il personaggio di una storia tutta sua. Tre anni fa Ben Stiller entra nel progetto come attore; in seguito ne diventa anche il regista, e forse è in quel momento che il film ha preso la svolta che lo ha reso in qualche modo possibile. Il risultato che è uscito nelle sale sembra un compromesso, un po’ faticoso ma riuscito, tra un film di Ben Stiller attore, con numeri fracassoni che si richiamano al genere delle parodie demenziali, e un film di Ben Stiller regista. Quest’ultimo è un professionista meno demenziale di quanto potremmo ricordarci: ha esordito tantissimo tempo fa, con Reality bites (Giovani, carini e disoccupati), è stato il primo a intravedere il potenziale drammatico nelle smorfie di Jim Carrey (The Cable Guy) e poi ha girato soltanto altri due film, molto divertenti ma decisamente sopra la media della commedia ridanciana per famiglie (Zoolander e Tropic Thunder).


Il suo Mitty sembra un Frankenstein ottenuto ricucendo due script nel tentativo di ridurre al minimo i dani. Nella prima mezz’ora è il Ben Stiller che piace ai bambini di ogni età, quello da Notte nel museo, a cui grazie agli effetti digitali succedono cose assurde e buffissime che però stavolta non sono mai davvero divertenti; è come se uscissero dal cilindro di un prestigiatore in una giornata no. Aggiungi che il dilagare dei “movie movie” ci ha un po’ resi diffidenti verso gli sketch parodici. A un certo punto il film salta su un binario diverso e nel secondo tempo Mitty ha praticamente smesso di sognare a occhi aperti: non se lo può più permettere. Sta girando il mondo alla caccia di un fotoreporter vecchia scuola (Sean Penn che si prende in giro da solo, almeno io spero che ci sia molta autoironia). Ogni tanto il primo film fa capolino con intermezzi assurdi, squali e risse aeroportuali; addirittura prende le forme di un nerd di Los Angeles che riesce a trovarti al telefono anche sull’Himalaya. Il secondo film nel frattempo non è che abbia scelto la via più originale: il cattivo è ancora una volta il responsabile risorse umane che deve curare una fusione aziendale (=cacciare un sacco di gente con la scatola di cartone). Però almeno la storia è ambientata in un’azienda vera, anche se re-inventata da capo a piedi: la redazione di Life, nel momento in cui interrompe l’edizione cartacea per trasferirsi su internet (anche lì sarebbe durata poco). È l’occasione per sciogliere un’elegia fuori tempo massimo al bel passato analogico, le foto da sviluppare in camera oscura, i telegrammi, i trentatré giri eccetera. Se non si è capito, stiamo parlando di quarantenni che cominciano a sentire quei pruriti imprudenti e tirano giù dal solaio i vecchi skateboard, le magliette dei Buzzcocks, i piani per un Interrail mai fatto. Se il vostro partner rientra anche solo vagamente nel quadro, tenetelo lontano da questo Walter Mitty: è pericoloso. Anche i ragazzini che si aspettano il Ben Stiller buffo potrebbero restare un po’ delusi. Altri meno giovani saranno felici di rivedere Shirley MacLaine, ti voglio bene Shirley MacLaine.

Non so a che categoria appartenesse il tizio che sedeva alla mia destra. Non ha taciuto per metà film. A un certo punto nel terso cielo d’Islanda sono comparsi stormi d’uccelli. “Vedrai che adesso disegnano la faccia della ragazza”, ha detto lui. Due secondi dopo il volto di Kristen Wiig sorrideva sullo schermo. Mi è caduta la mascella sotto la poltrona – dopo un anno di recensioni per i pregevoli cinema di Cuneo pensavo di essere diventato un po’ più esperto, e invece prendo ancora lezioni dal primo spettatore natalizio che incontro. Ne devo mangiare di popcorn.

I segreti di Walter Mitty è al Cityplex di Alba (20:00 22:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:40, 20:10, 22:40); al Multisala Impero di Bra (16:10, 20:20, 22:30); ai Portici di Fossano (18:30, 20:30, 22:30).
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Il Toto in me

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Non parla di Sanremo.

Sanremo alla fine è semplicemente una cosa che succede tutti gli anni, e come le ferie e le feste comandate ti rimbalza ricordi e fototessere più o meno sgraditi. Non c'è niente di meglio di queste scadenze per misurare quanto stai crescendo e/o invecchiando e/o morendo.

Qui bisognerebbe spiegare un carattere poco noto della mia generazione, ovvero che noi - anche grazie a Sanremo - siamo cresciuti non nella Contemplazione della Morte, come i monaci che fissavano i teschi cercando di interiorizzare il concetto di putrefazione, ma nella Contemplazione dell'Imborghesimento. Ogni volta che vedevamo un 40enne sul palcoscenico - e ne vedevamo già troppi - lo trovavamo insopportabilmente bolso, "commerciale" che a quel tempo era un'offesa orribile; ad esempio prendi i Pooh, erano già circonfusi da un disprezzo che oggi neanche Maria Nazionale. Però poi saltava sempre fuori qualcuno che la sapeva più lunga e ti diceva che da giovani erano bravi i Pooh, avevano fatto dei dischi progressive. Era sempre così, con tutti (tranne Toto Cotugno). Erano stati tutti prog, o punk, o fighi in qualche altra maniera, finché non eravamo arrivati noi ed erano diventati bolsi, assimilati, ogni resistenza era inutile. Dylan, Bowie, McCartney, Neil Young, Sting, erano tutti in circolazione, stavano tutti facendo dischi nel migliore dei casi noiosi, ma i fratelli maggiori ci giuravano che erano stati grandi e risalire ai dischi vecchi non era semplice come adesso. Ci sembrava di vivere in qualcosa di strano e deprimente, come quando nella pièce di Ionesco tutti diventano rinoceronti, finché i Litfiba - i già splendidi, assurdi Litfiba di 17 Re - uscirono con Pirata e per la prima volta assistemmo al fenomeno in diretta, vedemmo la new wave fiorentina tramutarsi in pochi mesi in un trucido pachiderma da mostrare al circo mentre caga puzzolenti pezzi di canzoni altrui mescolate a crusca e feci. Eravamo troppo giovani per capire il concetto di "tengo famiglia", la cosa ci sembrava semplicemente disumana, come se a 24 anni uno gnomo salisse a scavarti il cervello col cucchiaio - perché va bene la tossicodipendenza, va bene tutto, ma come si fa a passare in cinque anni da Eroi nel vento ad ariba ariba el diablo? Come funziona, com'è fisicamente possibile che un giorno sei un comunista e il giorno dopo Giuliano Ferrara? E sul serio succede a tutti?

Sarebbe successo anche a noi?

Avevamo la grossa paura che potesse succedere anche a noi, che saremmo stati assimilati anche noi. Ancora oggi non sono sicuro che si trattasse di un peccato d'ingenuità (sul serio pensavamo che il carrozzone avesse posti anche per noi?) o se tutto sommato non avessimo ragione - siamo stati assimilati. Forse ci siamo imborghesiti, nei limiti in cui ci si possa imborghesire ultimamente, ma comunque potrebbe essere successo. È difficile rendersene conto, perché ora siamo dall'altra parte e ci sembra tutto naturale, l'unico modo è leggere vecchie pagine di diario, o di blog, o pensare a come ci sentivamo fino a qualche anno fa alle feste comandate, o a Sanremo.

Io per esempio ho un blog, il che mi consente a volte di imbattermi in versioni antiche, spesso imbarazzanti, talvolta incomprensibili di me stesso. Per esempio ho trovato un pezzo in cui me la prendo con Sanremo, chiedo a tutti di non parlarne, di spezzare il circolo vizioso dell'autoreferenzialità di un festival che festeggiava sé stesso in quanto festival delle canzoni da festival. Guardatelo pure, dicevo, ma per amordiddio non scrivete niente. Ecco. In seguito poi ci dev'essere stata una mutazione antropologica, oppure il famoso gnomo col cucchiaio, perché a farci caso sono sempre riuscito a parlare un po' di Sanremo, anche quando non lo guardavo, persino nel 2025, sempre. Un anno ho pubblicato persino un pezzo sulle vallette sull'Unita.it, e non posso nemmeno dire che quella domenica non avessi nient'altro di interessante da scrivere, ricordo benissimo anzi che avevo già due pezzi abbozzati ma sentivo l'inderogabile esigenza di scrivere un pezzo su Belen e la Canalis. Cosa mi è successo. Due teorie.

La prima è che, crescendo, l'Italia mi è diventata sempre meno antipatica. Continuo a vederne molti difetti ma, come succede tra figli e genitori, capisco che sono gli stessi miei, e questo mi forza all'indulgenza. Toto Cotugno non è più un corpo estraneo da combattere, ormai so che Toto è in me, tutte le volte durante un giorno in cui potrei sforzarmi di trovare soluzioni eleganti ma preferisco tagliar corto col solito giro-di-Do che funziona sempre. C'entra molto anche la crisi, le crisi, questa costellazione di crisi una dentro l'altra, la crisi dei consumi più la crisi mondiale del mercato musicale e la forse conseguente crisi della creatività, per cui mi succede nel 2013 di non aver ancora ascoltato una canzone che mi piaccia, non solo del 2013; una sola canzone in assoluto - al che mi scopro ad aspettare persino Sanremo, c'è Elio, magari qualcosa tireranno fuori - e loro suonano una nota sola per tre minuti, perfetta sineddoche di come mi sento. In mezzo a tutte queste crisi persino i Moloch della mia adolescenza, il teatro Ariston, i Ricchi e Poveri, mi sembrano poveri diavoli da abbracciare, ormai siamo tutti sulla stessa zattera alla deriva. Negli ultimi anni mi sono messo a stimare gente che da giovane avrei odiato con un'intensità talebana; dopo aver ingiustamente disprezzato Jovanotti qualunque cosa provasse a fare ora appena un Fabri Fibra azzecca una rima gli voglio bene. Anche gli amici di Maria mi fanno tenerezza, loro almeno credono ancora in qualcosa. In loro stessi, sì, non è un granché, ma è meglio di tutta la depressione che ci circonda, per cui stringiamoci forte, cantiamo, televotiamo, coraggio, ha da passà 'a nuttata, Sanremo è il nostro ultimo Piave. Questa è la prima teoria.

La seconda è che mi sono rincoglionito.
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Bruce non si rottama facile

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Looper (Rian Johnson, 2012).

Il viaggio nel tempo non è stato ancora inventato, ma tra cinquant'anni lo sarà; e a quel punto la malavita organizzata lo utilizzerà per sbarazzarsi dei cadaveri scomodi spedendoli nel passato. Il giovane Joe (Joseph Gordon-Levitt), nel 2044, di mestiere fa il "looper" ("colui che gira in circolo"): ammazza sconosciuti incappucciati che gli arrivano dal futuro. Non se la passa male, ma sa che un giorno sotto uno di quei cappucci ci sarà lui: il contratto base dei looper prevede che il circolo si chiuda in questo modo. Bene. C'è solo un piccolo problema: Joe, da vecchio, è Bruce Willis. E nessuno vorrebbe avere contro Bruce Willis da vecchio, neanche lui da giovane. Questo per dire come i distributori italiani abbiano perso una meravigliosa occasione, facendolo uscire adesso e non nel novembre scorso, quando Matteo Renzi lottava per rottamare il Bersani che diventerà tra trent'anni. Bastavano un paio di pezzi sui quotidiani e avrebbero portato al cinema anche quelli che al giovedì guardano Santoro. Invece hanno deciso di programmarlo in questo pazzo, pazzo pazzo gennaio 2013.

Chissà se ce ne ricorderemo ancora tra qualche anno, di quel mese in cui nelle sale italiane sono arrivati quasi contemporaneamente i film di P.T. Anderson, dei fratelli Wachowski, di Tarantino, di Spielberg, di Zemeckis: un'offerta così generosa da farci diventare persino schizzinosi, quando ci siamo sorpresi a osservare che beh, sì, The Master non è il Petroliere, Cloud Atlas non è Matrix, persino Django è tanto bello ma non è Inglourious Basterds, quanto a Lincoln non è senz'altro Amistad, insomma, tutti i Grandi Nomi tirati fuori dai distributori dopo aver evacuato i cinepanettoni ci hanno mostrato film belli e interessanti, ma forse neanche un capolavoro, uno di quei film che ti sconvolge. E pensi che forse alla fine, sommando e sottraendo aspettative e soddisfazioni, può darsi che ti sia divertito di più con Looper, il terzo film di un regista americano che non conoscevi (continua su +eventi). È un piccolo film che puoi metterti a guardare senza l’ansia di dover applaudire al  capolavoro. Può sorprenderti come nemmeno Tarantino e i Wachowski riescono più a fare: per quanto originali li hai già visti all’opera. Ma questo Rian Johnson non hai la minima idea di dove vada a parare; il film procede in un modo tutto suo, disorientante, è come se, invece di innervarsi lungo il solito e rassicurante arco narrativo, accumulasse una serie di false partenze. La premessa del film è introdotta in pochi minuti; poi la storia prende una piega del tutto imprevista e si scontra in modo originale con uno dei Grandi Temi della filosofia dei viaggi nel tempo: è giusto fare la prima cosa che viene in mente a tutti di fare, ovvero ammazzare Hitler da bambino? (No, Hitler nel film non c’è, ma c’è qualcosa di analogo). Mi torna in mente un meraviglioso raccontino, in cui i viaggiatori del tempo sembrano volontari di wikipedia, che passano il tempo a correggere la Storia, rettificare qualche errore qua e là, e poi c’è sempre qualche scemo che vuole andare negli anni ’30 a Monaco per sparare al futuro Führer, e ogni volta devi spiegare loro l’arcano: niente Hitler, niente seconda guerra mondiale, niente guerra fredda, niente progresso tecnologico, niente macchina del tempo. 

Looper piacerà ai patiti di viaggi del tempo; non deluderà troppo quelli che vogliono vedere pistole molto grosse; però alla fine lascia la sensazione di essere qualcosa di nuovo, finalmente. È una sensazione sempre più rara ultimamente, per la quale sono disposto a passare sopra a tanti difetti. Forse è un problema anagrafico – invecchio, comincio a somigliare più a Bruce che a Gordon-Levitt e ovviamente tifo per l’anziano – ma temo che sia anche una tendenza generale, per cui una certa struttura del film d’azione che ha funzionato sin da quando eravamo bambini (’80) ormai mostra le corde, è stata sfruttata fino all’osso; già i Wachowski lamentavano quella sensazione per cui a tre quarti di un qualsiasi film sai già più o meno cosa succederà. Per non parlare di altri elementi, uno a caso: l’abbigliamento. All’inizio del film il boss di Joe gli dice: ma si può sapere perché porti il cravattino? Il boss di Joe viene dal futuro, una delle cose che ci porrebbe più problemi se viaggiassimo nel tempo è la moda, perché segue evoluzioni quasi totalmente arbitrarie e siamo abituati a subirla in gruppo, ad accettare le cose che piacciono a tutti intorno a noi. Ma se viaggiassimo nel tempo non sentiremmo questo istinto del gregge, e dovunque andremmo non capiremmo perché la gente veste in un modo arbitrario e stupido (è la reazione di un bambino di fronte a un film di vent’anni fa: perché sono tutti pettinati come dei matti?)

Dunque, dice il boss a Joe: ma lo sai cosa significa quel cravattino? Lo sai che lo hai preso da film che citano altri film che non hai mai visto? Joe sorride, non capisce, dice che è solo moda, ma la moda è la misura del tempo. Noi misuriamo l’antichità dei film dalle dimensioni dei telefoni dei personaggi (in Looper ce li hanno trasparenti). E poi continua, il boss: perché invece di un cravattino non provi un’altra cosa, invece degli stereotipi di stereotipi di cose che non hai nemmeno visto? Qualunque cosa, anche buffa, un collarino di plastica, perché non sperimenti un po’? Ecco, se anche solo il senso di Looper fosse tutto qui (il tentativo di sperimentare qualcosa di nuovo, anche sbagliato) varrebbe comunque la pena di una visione. Non ci si può aspettare che l’ultimo film di Tarantino o di Spielberg sia sempre il migliore film di Tarantino o di Spielberg (sarebbe anche molto ingiusto) ma da un regista giovane sì, deve giocarsi tutto e provare a mandare all’aria il vecchio action movie senza nostalgie. Altrimenti continueranno a servirci film con Schwarzenegger, non scherzo, questa settimana ne è uscito anche uno con Schwarzenegger che spara. A un certo punto con tanto affetto questi qui bisogna rottamarli, anche se sono noi stessi da vecchi.

Looper è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:15, 22:45); al Multisala Impero di Bra (20:15, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (20:20; 22:30). Buona visione. 
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Il ministro della terza età

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(Chiedo scusa ai più giovani, ma per quelli della mia età il primo giorno senza un tg di Fede sarà davvero come il primo giorno senza muro di Berlino. Lo festeggio ripubblicando un vecchio pezzo che vaga malsepolto, spezzettato tra Piste e l'archivio dell'Unità.)

Il complotto dei vecchietti

E se il ministro Frattini avesse ragione? Se davvero esistessero "strategie dirette a colpire l'immagine dell'Italia sulla scena internazionale", cioè in pratica un complotto? È davvero così paranoico mettere in collegamento i crolli di Pompei, la crisi dei rifiuti, Finmeccanica che perde una commessa, e le altre figuracce che nelle prossime ore Wikileaks pubblicherà?

Ora, nella migliore tradizione della letteratura paranoica, facciamo un passo indietro. Qualche sera fa, mentre gli studenti cominciavano a scendere in piazza, in un ristorante di Milano due vecchietti si prendevano a botte. La notizia, succosa in sé (cosa ci fanno due settantenni, a mezzanotte, in un locale alla moda? Perché non se ne stanno tranquilli al caldo nelle loro case, magari circondati dagli affetti dei loro cari?) è passata quasi inosservata, occultata dalle generalità dei due personaggi. Uno dei due signori era Gian Germano Giuliani, produttore di un famoso amaro digestivo; l'altro, Emilio Fede, uno dei più dileggiati e sottovalutati uomini chiave di Berlusconi: il suo Ministro per la Terza Età, imbonitore di un favoloso parco buoi elettorale che può ancora fargli vincere le elezioni in barba a qualsiasi scandalo o contestazione.

È difficile perfino accorgersi che si tratta, in effetti, di due persone anziane. Giuliani è fresco di terze nozze, e terza separazione; Fede, l'aggredito, poche ore dopo era già davanti alle telecamere, coi lividi imbellettati, instancabile, a chiedere alla polizia di menare "la gentaglia", gli studenti "che capiscono solo di esser menati", i "poveri cuccioloni" che hanno osato violare il Senato, l'assemblea degli anziani intoccabili.

La vitalità di questi personaggi ha qualcosa di stupefacente. Non c'è dubbio che entrambi abbiano fatto cose importanti per l'Italia e gli italiani. Il primo negli anni Settanta vendeva a casalinghe e pensionati sostanze alcoliche sotto forma di prodotti medicinali; allo stesso pubblico, un po' più incanutito, Fede ha smerciato per anni un varietà propagandistico sotto forma di telegiornale. Tutto questo comunque andrebbe scritto su un libro di Storia, nelle ultime pagine riguardanti il secolo scorso. E invece questi e altri settantenni sono ancora qui, nelle prime pagine dei quotidiani del 2010, a reclamare il loro diritto a innamorarsi e fare a pugni. Esponenti di una classe di ferro che non ha nessuna voglia di mollare le redini del Paese.

Questi vecchietti, lo scrivo qui quasi di nascosto, mi riempiono di invidia e di ammirazione. Una loro seratina standard è più avventurosa di svariati miei semestri. Personaggi che si meritavano un Balzac che i figli e i nipoti non sono stati affatto in grado di produrre. Posso dirmi che è stato il boom, l'inflazione, una bolla d'ottimismo tutta finanziata dalla guerra fredda - posso suonarmela e cantarmela, ma mi resta il dubbio che le cose siano molto più semplici. Siamo figli dei titani, quando se ne saranno andati tutti di cosa parleremo, alle dieci e mezza di sera sul divano, la palpebra già a mezza serranda? Cosa ci racconteremo? Le barzellette sui bunga bunga che non abbiamo mai vissuto faranno ridere i nostri nipotini?

Quanto al complotto denunciato da Frattini... nulla, sono solo paranoie. Eppure... se uno prova a unire i puntini, si rende conto che le recenti disgrazie colpiscono un aspetto specifico del nostro Paese: il futuro. Quello dell'Italia, in fin dei conti, non è difficile da prevedere. Le coordinate le abbiamo: siamo una nazione piccola, con una grande Storia, in un mercato globale ormai aperto agli enormi serbatoi asiatici di manodopera a buon mercato. Per restare competitivi non possiamo che investire sulla ricerca, sull'innovazione, sull'istruzione. È una scelta obbligata, gli stessi imprenditori non fanno che ripeterlo. E proprio mentre continuiamo a ripetercelo, scuola e università crollano; il dicastero è occupato da personaggi di dubbia competenza, che elaborano fantasiose riforme che nascondono (neanche troppo bene) una realtà fatta di tagli all'osso.

L'altro investimento obbligato è quello sul carattere specifico dell'Italia: anche nel mezzo di una crisi come questa, il Bel Paese rimane apprezzato nel mondo per il suo patrimonio naturale e culturale. E qui si dovrebbe intervenire: salvando il salvabile, eliminando senza pietà gli eco-mostri, investendo pesantemente nel turismo. Magari anche nel cinema, che negli anni del boom ci rese un grandissimo servigio, diffondendo in tutto il mondo il sogno di una Dolce Vita che a ben vedere era ancora un sogno anche per noi. Dovremmo offrire a miliardi di potenziali turisti la forza di sogni nuovi... Sì, sono considerazioni perfino banali. E mentre le facciamo, il patrimonio è affidato a personaggi di conclamata incompetenza; siti archeologici unici al mondo giacciono in abbandono; il meridione, che potrebbe essere la nostra Mecca, qualcosa che ogni cittadino del mondo dovrebbe sentirsi obbligato a visitare, è stato convertito in discarica dalla malavita organizzata. In mezzo a tutto questo, il ministro dell'Economia dà le mazzate finali al settore affermando che con la cultura non si mangia. Possibile che tutto questo avvenga per caso? È davvero così azzardato ipotizzare un complotto?

Io non so che volti hanno gli uomini che, tra una cena e l'altra, complottano contro l'Italia e il suo futuro. L'unica teoria che mi sento di fare riguarda la loro età. Sono vecchi. Un po' più anziani di quella Repubblica che hanno offeso e depredato senza nessun timor reverenziale. Hanno vissuto alla grande gli anni del boom, hanno finanziato le loro avventure ipotecando il futuro di figli e nipoti. Oggi, nel mezzo di una crisi mondiale, vivono gli ultimi fuochi senza progetti a lungo termine - e perché dovrebbero averli? Ancora un'altra donna, un'altra barzelletta, un'altra bella serata al ristorante. Di accompagnarci al disastro non hanno nessuno scrupolo: sono i primi a sapere che se ne andranno prima.
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Vi rifaccio Benito?

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Berlusconi ha detto di nuovo che sta leggendo i diari di Mussolini. Al di là di ogni dibattito sull'autenticità, quei diari han da essere una vera palla: è da un anno e mezzo che dice che li sta leggendo, ci hanno messo meno tempo a scriverli.



E insomma, lui racconta sempre le stesse storielle, io riciclo i vecchi pezzi. Dovrei aggiungere qualcosa? Anzi, ho tolto parecchio. Il Mussolini triste sul comodino di Silvio B. è sull'Unità.it.

«Sto leggendo i diari di Mussolini e le lettere della Petacci, e devo dire che mi ritrovo in molte situazioni. Anche con le lettere della Petacci», dice l’ex premier, che ricorda come Mussolini si lamentasse del fatto di non potere neppure raccomandare una persona. «Che democrazia è questa?», si chiedeva Mussolini. E infatti, fanno notare a Berlusconi, non era una democrazia quella di Mussolini. «Beh, era una democrazia minore», aggiunge Berlusconi.
Più che indignare fa tristezza, Berlusconi che si paragona a Mussolini; se non altro perché si ripete, e forse nemmeno se ne accorge. I (finti) diari del duce, per esempio, li stava già leggendo nel maggio del 2010, quando erano ancora inediti nelle mani di Dell’Utri. Insomma la lettura non è che stia proprio procedendo spedita. L’altra ipotesi è che i diari siano diventati il suo livre de chevet: li tiene sul comodino e ogni sera ne rilegge un po’. Devono avere ormai soppiantato la sua antica passione, l’erasmiano Elogio della Follia.
Il fatto che all’ironia e al vitalismo di Erasmo sia subentrata la stanchezza di uno Pseudo-Benito, che contempla lo sfascio della sua nazione e non riesce nemmeno a raccomandare un’amica, ci dice molte cose: e nessuna di queste cose riguarda Mussolini, che quei diari non li ha mai scritti. Il duce è ormai un mito più patetico che tragico: il grande uomo (tanto buono) che si prende sulle spalle la responsabilità di una nazione, ma nonostante i titanici sforzi non riesce a spostarla di un passo. Né lo Pseudo-Benito né il vero Silvio sono verosimili, quando confessano la loro impotenza: entrambi potevano fare e disfare ministeri, godevano di consenso popolare, controllavano i mezzi d’informazione. Eppure non ce l’hanno fatta: l’Italia è un corpo inerte che non si lascia possedere. Perlomeno, il finto Benito e il vero Silvio la pensano così. Il primo illumina il secondo di una luce crepuscolare: il Berlusconi che legge lo Pseudo-Benito è un potente affaticato, esaurito, che cerca nei fallimenti degli uomini illustri una consolazione ai propri, e si domanda cosa resterà di lui. http://leonardo.blogspot.com
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un pezzo su Sanremo, perché no

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MTT SU RAI1!!!

E dire che l'ho odiato tanto, il Festival, e non riesco neanche più a capire il perché. Ormai mi fa solo tenerezza. Sarò invecchiato, ma soprattutto è invecchiato lui.

Però fa lo stesso; non importa quanto siano ciarlieri i presentatori, male acconcie le vallette. Non importa quanto sia ridondante l'orchestra.
Non importa quanto siano stanche le canzoni, ogni singola parola d'ogni testo di canzone, e quanto stracchi e prevedibili le strofe e i ritornelli.
Non importa quanto siano anziani i cantanti, quanto siano stonati i cantanti, quanto poco cantabili i cantanti.

Non importa nulla di tutto ciò, finché ci sarà ancora qualche vecchio gagà che ci crede ancora, qualche papavero-nato-paperino in platea colto dalla telecamere mentre scrive un sms: "METTI SU RAI1!!! SONO ALL'ARISTON!!!". E qualcuno, l'ho visto io, ancora c'è.
Ed è Fabrizio Del Noce.
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contiene sconvolgenti rivelazioni

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Cadendo, dalle nuvole a terra

In Italia la stampa fa mediamente schifo, e si sa; i blog sono solo diari adolescenziali, e quindi uno come fa per tenersi aggiornato? Di solito ci si abbona a Internazionale. C'è il meglio della stampa estera, giornalisti che vivono nel mondo vero e non nell'isoletta di Corona e Briatore, eccetera.

Sull'ultimo numero di Internazionale ho trovato un fondo di Paul Kennedy che mi ha discretamente sconvolto. E' anche on line, così potete farvene un'idea da soli. Kennedy parla di numeri. Ammette che "i dotti editoriali pieni di statistiche invitano anche il lettore più attento a girare pagina. Ma ci sono alcuni articoli pieni di dati che a mio avviso meritano un'attenta riflessione". Kennedy ne cita due che lo hanno addirittura "turbato". Sentiamo.

Il primo è un articolo del Financial Times che documenta la crescita demografica nella striscia di Gaza. "Tra il 1950 e il 2007 la popolazione di Gaza è passata da 240mila a quasi un milione e mezzo di abitanti, a causa dell'alto tasso di natalità delle famiglie palestinesi". Se gli statunitensi fossero cresciuti allo stesso ritmo, adesso sarebbero quasi un miliardo. Questo significa che "ci sono molti più giovani arabi (frustrati, arrabbiati e disoccupati) che giovani israeliani, e il loro numero sta crescendo così rapidamente da renderli incontrollabili. Se questo è vero, allora tutte le missioni di pace degli Stati Uniti o dell'Unione europea potrebbero essere inutili". Pensa un po'.

Il secondo è un pezzo del "Catholic Worker" che già nel titolo censisce la popolazione carcerata USA: "2.193.798 e continuano ad aumentare". Sono raddoppiati in meno di un decennio. Nessun Paese ha così tanta gente in carcere (nemmeno la Cina). Gli europei ne hanno sette volte in meno, in proporzione alla popolazione. Di fronte a queste cifre Kennedy ammette di rimanere confuso.

Io invece mi sono spaventato. E non tanto per la crescita demografica di Gaza, né perché gli americani stanno per avere un carcerato ogni cento abitanti. Mi sono spaventato perché Kennedy è un professore di storia di Yale, che scrive saggi di politica internazionale e ha una sua proposta per riformare l'Onu, e in questo editoriale sta lettteralmente cadendo dalle nuvole. Voglio dire, davvero là fuori c'è qualcuno che ancora non sa che la Striscia di Gaza sta scoppiando perché il tasso di crescita dei palestinesi è uno dei più grandi al mondo? Davvero un intellettuale USA può ignorare che il suo sistema economico e sociale poggia saldamente sul network di prigioni più strutturato e accogliente del mondo? Come fanno a presentare questi dati come novità sconvolgenti, come fanno a non saperle già? E se Kennedy, che sta a Yale, queste cose le ha imparate la settimana scorsa, come si spiega che io, vivendo nell'isoletta di Lele Mora e Materazzi, le so già?

Chi me le ha insegnate? Nemmeno me lo ricordo. Sono cose che mi sembra di conoscere da sempre; tanto che al limite mi aspettavo di leggere su Internazionale un pezzo che le smentisse come leggende urbane. Magari un fondo muffito di Sandro Viola sui ragazzini della prima Intifada. Magari uno di quei reportage di Marco D'Eramo dagli USA, che prendevo con le molle perché erano stampati sul Manifesto, e adesso sta a vedere che il Manifesto guardava più in là. Insomma, salta fuori che anche nell'edicola Italia ci si può fare una cultura.

Si tratta di quei semplici dati che tanti anni fa mi hanno fatto prendere una parte piuttosto che un'altra: se non sapessi che gli americani attingono dalla criminalità reclusa come da un enorme bacino di lavoro sottopagato, magari potrei essere un filoamericano anch'io. Se non sapessi che in Palestina tra qualche anno ci saranno più che palestinesi che israeliani, forse griderei forza Israele anch'io. E invece sapevo queste cose, perché le ho lette da qualche parte e non ho mai trovato nessuno che le smentisse. E non solo le sapevo, ma a un certo punto le davo persino per scontate, le consideravo banalità su cui non soffermarsi, come il due più due.

Ora mi viene il sospetto: ma quelli che mi hanno accusato, prendendosi anche sul serio, di essere antiamericano o antisemita, queste cose le sapevano? Io ero convinto di sì. Ero convinto che le sapesse anche Camillo, anche se magari non ci insisteva troppo. Eppure capita che negli USA un opinionista di area liberal le trovi sconvolgenti. Figurati i neocon, i neodem, i neolib e tutti gli altri.

Ora, qui non si tratta di sentirsi più intelligenti di un prof di Storia che sta a Yale. Per carità. L'intelligenza non c'entra molto con l'accesso alle informazioni: quello che mi schianta è che io, dei prof di Yale, degli opinionisti liberal, della grande stampa americana e internazionale, sotto sotto mi fidavo. Speravo di trovarci un centro di gravità, un brandello di oggettività nel marasma globale. E' abbastanza terrorizzante accorgersi che a volte ne sanno meno di me. Anche perché io, onestamente, non ne so molto.

Ha anche a vedere con la crisi dei trent'anni. Non importa quanto complesso stesse diventando il mondo: fin qui avevo sempre contato sull'esistenza di uomini con la barba grigia in grado di assorbire informazioni e restituire analisi di saggezza. Ma da qui in poi il rischio di imbattersi in rincoglioniti con l'aria da guru aumenta a ritmo esponenziale.

Ormai il mondo è roba nostra, ne rispondiamo noi. E' un'idea che mi spaventa, più di Gaza e Guantanamo. Mi dà le vertigini, o piuttosto l'impressione di precipitare dalle nuvole a un mondo dove ci si aspetta seriamente che io sappia quel che accade. Vien voglia di chiudersi nella stanza, rileggersi i fumetti.
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don't care about the old folks

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Secondo voi domenica sera a Mirandola, a vedere Soda Fountain Rag, la rivelazione indiepop norvegese, quanta gente c’era? Provate a dire.

Sbagliato, un centinaio. Età media: cinquant’anni. Questo secondo me è interessante, Soda ne ha trenta in meno. Il suo vero nome è Ragnhild Hogstad Jordahl, ma ha preso il nome dalla prima canzone scritta da Duke Ellington a quindici anni (una volta mi piaceva parecchio, Duke Ellington. Adesso ascolto Soda Fountain Rag). Si presenta in inglese: “Salve, sono Soda Fountain Rag e non so l’italiano, ma non importa, tanto non dico niente di importante”. Mentre canta suona la batteria in piedi; il bassista a sinistra, il chitarrista a destra, a cinquant’anni ci arrivano a malapena in tre. Alessandro, l’impavido indie-promotor dei Le Man avec les Lunettes che guida la band su e giù per la val Padana, siede in prima fila e non osa voltarsi indietro. Che cosa sta succedendo.

Fontana dell'eterna giovinezza (frizzante)


Un’ordinaria storia padana. Al castello dei Pico il comune aveva organizzato un ciclo di incontri sulla condizione femminile, “la Fortezza delle donne”. Un assessore conosce Alessandro, Alessandro ha un tour da organizzare, Soda è una ragazza di oggi che scrive canzoni d’amore per le ragazze di oggi, per cui ok, si può fare, perfetto.

Ma il pubblico? Il tipico pubblico dei concerti indiepop si muove sostanzialmente attraverso blog e radio (soprattutto radio). A Mirandola l’unica radio da cui captare indiepop era Antenna Uno, e ha chiuso. I blog in luglio languiscono, sono poco letti e chi li scrive è in giro per i festival. Insomma, è un periodaccio, ma che importa? La piazza davanti alla rocca è piena, perché il comune di Mirandola ha il suo zoccolo duro di partecipanti ad eventi culturali. Cinquantenni emiliani, il sale della terra. Si sono bevuti i comizi di Pajetta, la corazzata Potemkin, le retrospettive di qualunque cosa, le feste etniche e il ritorno della pizzica, figurati se non sono in grado di bersi, perdonatemi il giochino, Soda Fountain Rag. Anzi: va giù che è un piacere, la ragazzuola.
L’Indiepop è un universo cantabile e rassicurante, il porto necessario e senza pretese dove ripararsi quando le angosce dell’adolescenza cominciano a diventare angosce adulte. È un mondo che si schiude confortevole al primo ascolto, strofa ritornello strofa ritornello, questa gente si è bevuta molto di peggio senza batter ciglio. Così la radice punk di questi ragazzini, che a mille miglia da casa suonano come nel loro garage, si ritorce contro sé stessa: i punk sputavano ai vecchi, Soda li intrattiene. Suo malgrado, forse, ma li intrattiene. I punk sputavano ai vecchi, i vecchi hanno vinto.

Se avesse il coraggio di voltarsi, Alessandro scoprirebbe che sta andando tutto bene, gli umarells brizzolati reggono il colpo, mantengono un’aria concentrata ed applaudono bulgaramente ogni volta che la canzone s’interrompe. Paradossalmente sono i giovani i meno attenti: stanno in fondo, nella zona bar, chiacchierano e gestiscono i figli, sì, perché son poi giovani per modo di dire, sulla trentina andante. Fa un bel fresco, tira persino il vento, che nella Bassa di luglio è un sospirato miracolo.

Penso che questa cosa è interessante, ma non so da che parte tirarla. Potrebbe trattarsi di una parabola sull’età pensionabile, sì? In Norvegia investono sui giovani, in Italia sui pensionati, ecco il risultato: una ventenne norvegese che canta per un pubblico di pensionati italiani che nel tempo libero estivo si annoia talmente tanto da trovarla interessante. Ma è una forzatura: è domenica sera, i giovani italiani non sono mica in fabbrica a lavorare per pagare i contributi ai loro vecchi sibariti. Sono a Marina di Ravenna a fottersi fegato e capillari, ballando roba che i vecchietti di stasera non percepirebbero nemmeno come musica, così come noi non percepiamo certi infrasuoni interessanti per i cani. Invece percepiamo l’indiepop. Musica composta ed eseguita da gente rigorosamente più giovane di noi. Accordi che si tirano giù al primo ascolto, canzoni che sapremmo suonare meglio, in teoria. Cos’è questa regressione? Ho sempre pensato che a una certa età avrei cominciato ad ascoltare Schubert, a legger Proust. Col cacchio. Ascolto Soda Fountain Rag.

Quando avevo vent’anni ascoltavo Paolo Conte, e non ero mica il solo. In gita scolastica al liceo, tutti a cantare Un gelato al limon, possibile? All’università ho incontrato Enzo, e anche lui ascoltava Conte (giuro). Perché lo facevamo? Beh, perché ha scritto canzoni favolose, e anche molto cantabili (e di nascosto ballabili). E poi per darci un tono, certe ragazze non le intorti coi Van Halen in autoradio. È l’età in cui si impara a bere i liquori e ad annodare le cravatte.

Poi arriva un’altra età, la cistifellea manda segni pessimi, la cravatta che ti sembrava ironica comincia a stringerti il collo, ti manca il fiato, e Paolo Conte è l’ultima cosa che ti viene in mente di ascoltare. Non c’è più nessuna necessità di affettare gusti adulti, anzi, lode a Dio se trovi ancora un posto dove ti fan ballare. Eppure hai bisogno di carne fresca, hai bisogno di canzoni nuove, e l’indiepop è una manna dal cielo. Fa lo stesso se Soda canta di amorazzi puberali, ha ragione lei, le parole non sono importanti. Conta la musica, e questa musica è… giovanile. Colui che scrisse che giovanile è il contrario di giovane aveva maledettamente ragione, ma c’è poco da fare ironia qui. Qui gli anni precipitano, e ci si aggrappa a quel che c’è. Soda canta e io per lei sono solo uno dei brizzolati che ascoltano e applaudono. Ho cinquant’anni? Ne ho trenta? Secondo voi una ventenne norvegese sarebbe in grado di apprezzare la differenza? Meglio non chiedere, ascoltare e battere il tempo con gratitudine. Sto combattendo la Vecchiaia, vediamo chi vince.

Per fortuna ci sono anche i bambini. A loro non interessa sembrare adulti o giovani, a loro non interessa sembrare; loro ascoltano la musica e queste strofe, questi ritornelli, sono fantastici. Ogni tanto c’è persino un na na na na, tutto quattro quarti, non è meraviglioso? Così in realtà abbiamo passato metà del concerto a guardare un bambino che con due bacchette suonava una batteria immaginaria, con rullante charleston e pure il campanaccio. Era fantastico, così gli abbiamo rubato l’anima. Però è venuta scura.

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il bat-archetipo

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Entrare in una vecchia calzamaglia

Sempre a proposito di Frank Miller, non so se qualcuno ha già fatto caso a questa cosa:
è più o meno da dieci anni che il cinema ci sta restituendo, in versione stupida, i fumetti più complessi e intelligenti che avevamo letto da giovani. E continua.

Ma il bello è che questi fumetti complessi è intelligenti, in realtà erano già versioni intellezzualizzate a posteriori di baracconate in calzamaglia. E cioè: in principio ci fu un peplum qualsiasi, poi Miller lo trasformò in un’epica a fumetti, e adesso lo riciclano in un peplum (digitale) qualsiasi.

Oppure: in principio c’era il Batman pacchiano dei telefilm; poi Miller lo ha trasformato in un eroe hard-boiled un po’ fascista ma veramente complesso; a questo punto il cinema se l’è rimangiato, restituendoci un personaggio più o meno pacchiano in calzamaglia. Ma a dire il vero con Batman la storia è ancora più complessa, perché dal 1939 a oggi il pipistrello è diventato ridicolo molte volte – eppure ha sempre trovato qualcuno disposto a riprenderlo sul serio. Va a finire che è un archetipo dell’inconscio collettivo.

Potremmo leggere la cosa in termini di Decenni (un concetto arbitrario che ci piace molto): a metà degli anni Ottanta cercavamo di prenderci sul serio; non credevamo più alla favola Bene/male Usa/Urss e volevamo complicarci il quadro (l’anno di riferimento naturalmente è il 1986: escono il Cavaliere Oscuro e Watchmen). Verso il 2000 ripiombiamo in una situazione manichea: Bene/male Usa/Islam, e abbiamo di nuovo bisogno di eroi semplici. Potrebbe essere andata così.

Oppure potrebbe essere cambiato il pubblico di riferimento. Nel 1986 Miller, Moore e gli altri parlavano a un pubblico di grandicelli, oggi le stesse storie si riciclano per i ragazzini. In realtà vanno a vederle anche i grandicelli di ieri. Magari è una metafora della vecchiaia, come al solito: da ragazzini leggevamo i fumetti, ma volevamo prenderci sul serio ed essere presi sul serio; da adulti vorremmo sembrare ragazzini e allora ci rituffiamo sui vecchi fumetti. Siamo ridicoli e vitali esattamente come il vecchio Wayne, che finché non si rimette la calzamaglia non si sente uomo.

O ancora, potrebbe trattarsi del medium (il cinema) che snatura il messaggio. Del resto, se date la stessa storia a un cartoonist e a un regista, vedrete che il primo la smonterà e la complicherà, mentre il secondo cercherà di semplificarla. In una parola: il fumetto è analitico, il cinema è sintetico. La storia a vignette seleziona un pubblico in grado di mettere insieme una vignetta e l’altra, al cinema basta sedere e non fare troppo rumore col popcorn.
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- la città delle crepe

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Da venerdì è riaperta la Tenda, il locale all'incrocio di viale Molza e Monte Kosica che scuoterà dalle fondamenta la vita notturna modenese e non solo. La redazione di Leonardo ci andrà spesso, e consiglia a tutti di consultare il programma (non appena sarà disponibile) e farci un salto. Oggi e domani, per esempio, c'è un incontro su Pier Vittorio Tondelli nel cinquantenario della nascita, con testimonianze, interviste inedite e racconti a cura di Enos Rota ed Ennio Trinelli.

Il pezzo che segue non c'entra niente, è una serie di frasi senza senso.


4 domande

Uno passa una mezza vita a combattere contro il concetto astratto e stucchevole di "generazione" –
– finché non si arrende: è proprio così. Siamo nati tutti nello stesso momento (più o meno una trentina di anni fa) e continuiamo più o meno a trovarci negli stessi luoghi. Se esiste altra gente (dovrà pur esistere) si muove in posti e in orari che non frequentiamo. Non frequentandoli, difficilmente riusciremo a riprodurci con loro. Continueremo a stare tra noi, e quando faremo dei figli, li faremo nello stesso momento (il che sta accadendo).
Certo, in trent'anni sono cambiati un poco i luoghi, l'abbigliamento, e (grazie al cielo) gli argomenti.

Dieci anni fa le domande erano: "cosa studi" e "che musica ascolti".

Si trattava di quesiti identitari: volevamo sapere chi eravamo. Chi ci preparavamo a diventare ("cosa studi?") e, nel frattempo, che stile di vita stavamo abbracciando (apprezzate l'economia del quesito: "che musica ascolti". Non hai bisogno di dirmi in che tipo di locale vai, come ti vesti, se ti piace o no ballare e cosa: se ti piacciono gli U2 ho già capito tutto questo e anche di più. La condivisione dei gusti musicali è l'equivalente umano dell'annusarsi canino).

Lentamente, ci siamo spostati al "ti stai laureando? / ti sei già laureato?"

Una domanda già un po' minacciosa. Dopo aver capito più o meno chi eravamo, e che musica ascoltavamo, abbiamo iniziato a sospettare che ci fosse gara tra noi. Per cui: come stai andando? Sei davanti a me o dietro? Non è necessariamente competitività o invidia. Si trattava anche di capire dove sono io: la mia posizione. Perché i sorpassi esistono, è inutile far finta di niente. Gente che fino a qualche tempo fa ti stava dietro, improvvisamente te li trovi che ti danno le spalle. Il minimo è fargli i complimenti. E si passano degli anni così, a fare complimenti e a incassarne. È un quadretto stucchevole, perché di solito chi fa i complimenti è sinceramente ammirato, sinceramente invidioso, sinceramente angosciato: e tutta questa invidia e ammirazione e angoscia va a sbattere contro un neolaureato (magari pure neoimpiegato) che fa spallucce. Come se laurearsi fosse la cosa più semplice del mondo.
Il problema è che è vero: laurearsi è la cosa più semplice del mondo. Quello che per il suo inseguitore sembra il traguardo della vita (cui seguiranno mesi di bisbocce e viaggi per il mondo) era solo una mediocre tappa di trasferimento, e il neolaureato lo sa. Lui sta già chiedendo a qualcun altro:

"Che lavoro fai / Dove abiti adesso?"

In realtà non siamo quella generazione di mammoni sfigati che qualcuno pensa: non è che fino alla laurea siamo tutti restati a casa dei genitori senza fare altro che studiare. Ma per molto tempo il domicilio e il lavoretto non sono stati veri argomenti di discussione. Non dicevano davvero nulla sulla nostra identità, e nemmeno sulla nostra posizione. Erano simpatici diversivi. Poi ti laurei e ti accorgi che la vita è tutta lì: un ufficio e un bilocale. A chi va bene. E a nessuno frega più di quel che ascolti in cuffia.
A quel punto – che per molti è coinciso con l'inizio di una fase critica della storia dell'umanità (l'11 settembre, il Berlusconi-bis, l'Euro, la Cina nel WTO, la crisi strutturale della piccola economia italiana, l'islamofobia dilagante ecc. ecc.) – a questo punto in città hanno iniziato ad aprirsi dei solchi.
In un primo tempo sembravano solo corrugamenti dell'asfalto, quel tipo di cose che fanno le radici degli alberi. Ma nessuno veniva a riasfaltare. E i solchi sono diventati crepe, e le crepe sono diventate profonde, e chi più chi meno ci siamo tutti cascati dentro; e siccome non siamo persone molto tragiche, siccome siamo cresciuti in anni di operetta, e la commedia ce l'abbiamo nel sangue, cosa si pretendeva che facessimo? Ci siamo semplicemente adoperati a rendere questa crepe più confortevoli. Ci abbiamo portato la nostra musica, la pergamena della nostra laurea, il nostro CV con tutti i lavoretti, e il contratto di affitto, e abbiamo fatto il possibile per non trovarci male, nella crepa.
Addirittura ogni tanto ancora usciamo – specie quando torna la bella stagione, e apre un posto nuovo. Nominalmente, si tratta ancora di uno spazio aggregativo "giovanile". Ma la domanda che gira non è più molto giovanile, infatti è:

"Che fine hai fatto?"
Che domanda è. Sono andato a stare in una crepa di fianco alla tua. Non si sta male, non mi lamento. Ovvero sì, potrei lamentarmi all'infinito, ma che senso ha. Era una bella giornata e siamo usciti, adesso non tiriamoci giù da soli con le nostre domande stupide. Piuttosto: che musica ascolti, adesso? Che mestiere fai? Abiti sempre lì? Ti sposi? Ma certo che vengo, ci mancherebbe altro. Aspettate un bambino? Che bello.
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Nel campo da tennis del bene e del male

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(appunti su Match Point) (contiene spoiler).

Allen-Moravia 
Qualcuno sicuramente avrà già provato a paragonarli. Entrambi stacanovisti (un libro all'anno – un film all'anno), stuccano il pubblico tornando ossessivamente sugli stessi temi. Entrambi, visti in prospettiva, sgomentano. Dunque è possibile passare un'esistenza intera a descrivere lo stesso problema senza risolverlo mai. Sì, è possibile, anzi è questo il lavoro quotidiano dello scrittore o del cineasta. Per le soluzioni, rivolgersi all'autorità trascendente. Allen è noioso e inconcludente, Moravia è noioso e inconcludente, la vita è noiosa e inconcludente. Consigli ai giovani scrittori? cambiare mestiere. Anche ammesso di arrivare, dopo un lungo apprendistato, a una completa padronanza dei propri strumenti, il rischio è trovarsi davanti a un impiego più noioso del brokeraggio finanziario. Una pagina al giorno. Un film all'anno. Sempre i soliti problemi. Al limite, c'è il tennis. 

L'Europa è sopra le righe 
Allen è un regista americano che fa film per il mercato europeo. E (se ho ben capito come va a finire Hollywood Ending) è il primo a meravigliarsene. Non che lui non conosca e non ami il cinema europeo. Ma i suoi interpreti? Gli attori americani sono felici di lavorare con Allen (sottocosto), perché le probabilità di conseguire una nomination all'Oscar sono curiosamente alte. Capita spesso, però, di vederli recitare sopra le righe. Ansia di strafare? O fraintendimento culturale? È come se l'americano, sapendo di lavorare a un prodotto d'esportazione, si sentisse obbligato a fare qualcosa di diverso. Mossettine, ammiccamenti… "Ho bevuto troppo", dice la Johansson al futuro cognato. Sembra effettivamente a un passo dal delirium tremens. In realtà noi europei preferiamo una recitazione più sobria, al limite legnosa, proprio come ce la passa Hollywood – ma questo è il punto: forse a Hollywood non lo sanno. Hanno una loro idea di Europa, smorfie e mossettine. Teatrale, in una parola. L'Europa è il continente dove si va a teatro.

Contemporaneo 
Se non si evolve mai (e da un pezzo ha smesso di arrischiare esperimenti), almeno Allen invecchia. Con molta onestà, va detto. Negli anni Novanta il suo protagonista preferito era il vegliardo svitato (su tutti, Deconstructing Harry). Un Dormiglione sempre più anziano e disperato. Dopo qualche tentativo disperato di rianimarlo, facendogli indossare panni di gangster o detective, da qualche anno a questa parte il vecchietto ha definitivamente ceduto lo spazio a una nuova generazione – alla quale non ha nulla da insegnare, come è stato messo in chiaro in Anything Else. Si tratta semplicemente di un passaggio di consegne: i nuovi arrivati vivranno, stanno già vivendo, i problemi che tormentavano il vecchietto (esiste il Bene e il Male, perché mi piace la ragazza del mio amico, eccetera). Ma naturalmente li vivranno a modo loro. Per esempio: in Match Point non c'è un minimo accenno alla psicoanalisi. Niente. Negli anni Novanta i lettini erano ancora onnipresenti nelle sceneggiature alleniane. Stavano sullo sfondo, immarcescibili elementi di una natura eterna, come il ponte di Brooklyn e Central Park. I suoi personaggi andavano a consultarsi dall'analista come gli eroi omerici visitavano l'Ade: periodicamente, per informarsi sui propri problemi. Tanto che il lettino era qualche volta intercambiabile con lo studio di una maga (Brodway Danny Rose, Celebrity) e il risultato non cambiava. Ma adesso basta, l'analisi non c'è più. Usanza di una generazione andata. Il divano di Match Point si apre e contiene un letto: il trampolino di lancio dell'arrampicatore sociale. Per confidarsi basta una panchina in un parco e un amico tennista. Allen è un vecchio onesto, che continua a descrivere gli stessi problemi, ma almeno non ci annoia con le liturgie del passato. Vecchio, ma nostro contemporaneo. E dici poco. 

La fine del perdente 
In Crimini e Misfatti un uomo di successo deve far fuori l'amante chiacchierona. Qual è la differenza con Match Point? Che nel frattempo Allen si è chiamato fuori. Nei suoi film l'istanza morale è sempre affidata al buffone, al clown, al perdente (non dico una novità). È una tradizione che viene da lontano. Ma nel corso degli anni l'immagine del clown si precisa sempre di più. Spesso è un artista (di scarso successo), e un fallimento con le donne. In quel periodo Allen continuava ad accostare criminali 'naturali', che non si pongono problemi di coscienza (oppure smettono di porseli, come in Crimini e Misfatti, perché nessuna giustizia interviene a punirli) a simpatici perdenti che continuano a credere nel bene e nel male, ma che alla fine sono troppo deboli sia per l'uno che per l'altro. Quel che è peggio, è che non sono nemmeno grandi artisti, perché l'artista autentico per Allen è proprio il criminale naturale: il gangster di Pallottole su Broadway o il chitarrista di Accordi e Disaccordi (anche l'Harry-a-pezzi in fondo appartiene a questa famiglia di carogne istintive). Insomma, sul crepuscolo della sua produzione, Allen sembra aver concluso che il vero intoppo è lui. E si è cancellato. Ora la storia fila molto più liscia: non c'è più nessun intellettualoide a filosofeggiare di bene e di male e a consigliare libri e film. La storia fila talmente liscia che fa paura: la cultura non serve più a stimolare le coscienze (che non esistono). È puro entertainment, lusso e pacchianeria, senza soluzioni di continuità. La "Super-Traviata", la biblioteca di libri antichi, la Tate Modern (solo quadri brutti, sarà voluto?), i Diari della Motocicletta, Lloyd Webber. Non c'è niente che dia da pensare. Fa tutto parte della vita e "la vita è meravigliosa", dice la moglie di Chris, "voglio goderne ogni momento". Mi ha fatto venire in mente quel che diceva Diane Keaton nel Dormiglione: Il mondo è pieno di cose meravigliose. Perché deve esserci qualcosa che vien fuori a guastare tutto? C'è il globo, c'è il teleschermo e c'è l'orgasmatic!. Siamo già nel 2173. E ci annoiamo parecchio (da questa parte dello schermo, almeno). Cavalli, tiro al piattello, libri pregiati, Lloyd Webber, brutti quadri… Perché deve esserci qualcosa che vien fuori a guastare tutto? 

L'arrampicatore 
Perché Chris Wilton legge Dostoevskij? Solo per allenarsi inconsciamente ad ammazzare una vecchietta? Ma Wilton non è Raskolnikov. Non si fa nessuna illusione sulla moralità del proprio agire. Il suo vero romanzo è il Rosso e il Nero. Wilton si fa broker finanziario come Julien Sorel si fa prete – e ha lo stesso problema: le donne. Desidera quelle sbagliate. E siccome non riesce a zittirle (specie oggi con tutta questa telefonia), deve ucciderle. Come Julien, Chris non è un ipocrita. È un arrampicatore autentico: chi ne ha conosciuti saprà cosa s'intende qui. Non fingono di provare interesse per l'opera o per Dostoevskij: ci credono davvero. Provano un rispetto sincero per ogni gradino che salgono e per ogni cosa che trovano lungo la salita. Per un'ora buona è impossibile capire se Wilton finga o sia sincero – se legga Dostoevskij perché gli piace o perché gli servirà a fare buona impressione sul padre della ragazza (per motivi analoghi Sorel leggeva Plutarco e ne discuteva coi suoi superiori). Sono vere entrambe le cose. Chris realizza il suo destino senza possedere una vera e propria coscienza, finché non commette l'irreparabile con la donna sbagliata. Da lì in poi avrà una coscienza. Cattiva (che è meglio di niente?) 

Nel campo da tennis del bene e del male 
Se l'Allen-attore non appesantisce più i dialoghi coi suoi dubbi e i suoi riferimenti, l'Allen-regista si attiene più che mai al suo tema preferito: il Dilemma Morale. Devo dire che questo è uno degli aspetti che capisco di meno. È che non abbiamo la stessa idea di Male. Per me il Male è qualcosa di corpuscolare, tenace, corrosivo: dovessi evocarlo, penserei alla polvere, o alla ruggine. Non è qualcosa che si sceglie, è un tarlo che s'insinua. Per Allen, invece, il Male è l'alternativa secca al Bene, e viceversa. Forse non c'era immagine migliore del gioco del tennis per descriverlo. Ogni giocata di una partita da tennis può andare a segno per te o contro di te. Non esistono terze possibilità, zone grigie. Lungo il film assistiamo a una serie di episodi in cui Chris può decidere se agire Bene o Male. In quei momenti l'esitazione è fatale, l'istinto è subdolo, e il pronunciamento è decisivo: da ogni bivio imbucato non si può tornare indietro. 

(7-6) (7-6) 
Dunque il film consiste in due set. Nel primo (un po' lento) è in gioco l'anima di Chris. È un uomo di umili natali e di talento, gentile e sincero, combattuto tra due donne che ama? O è una schifosa canaglia, disposta a mentire al mondo e a uccidere se necessario? Impossibile capirlo. In realtà è entrambe le cose, fino all'ultimo punto. Quando la moglie gli comunica che la vacanza in Grecia è saltata, Chris chiama Nola, poi mette giù. Di bugie ne ha già dette tante, ma questa è la decisiva. Da quel momento Chris non sarà più sincero con nessuno. Gioco, Partita. Il secondo set (molto più divertente, secondo me) riguarda il destino di Chris. Andrà in galera o la farà franca? La trovata del film è mostrarci subito il punto decisivo (l'anello che non cade nel Tamigi), senza spiegarci da che parte è caduta davvero la pallina: è un punto per Chris, o per la Giustizia? Andate a vedere il film. Ma se conoscete Allen, l'esito è scontato. 

La banalità del male (non in quel senso) 
Secondo Allen la differenza tra il Bene e il Male è nitida: unico intoppo, il Bene non sarà premiato e il Male non sarà punito. Dio, che evidentemente ha creato il campo da tennis, ha dato buca la premiazione. Tutto avviene dunque per caso nel migliore dei mondi qualsiasi. Ma cos'è, in pratica, il Male, per lui? Gira che ti gira, molto spesso si riduce al prurito di far sesso con la donna di qualcun altro (e in seguito alla necessità di farla fuori). Che sia Dostoevskij o Stendhal, comunque è Ottocento puro: adulteri e omicidi, omicidi e adulteri. Questo è un altro aspetto che fatico a mandar giù. Ho la sensazione che esistano in commercio forme di Male non solo più corpuscolari, ma anche più interessanti e seducenti. Cito a casaccio: la corruzione, l'inquinamento, la dipendenza (i personaggi di Match Point dicono Droga con la "D", come se fosse una voce enciclopedica), la speculazione… Sono cose alla portata di sceneggiatori anche molto meno dotati. Ieri per esempio ho visto In good company (ancora un po' e la Johansson mi darà la nausea, coraggio). Come film non mi è sembrato un granché: un'occasione mancatissima. Ma c'è comunque un'idea di Male molto più convincente e realistica del solito adulterio: l'incompetenza mascherata da marketing, la prevaricazione mascherata da sinergia, la svalutazione dell'etica del lavoro, la globalizzazione che si boicotta da sola… tutte idee che sono moneta comune, anche presso il pubblico tipico di un film di Allen, ma che Allen non ha mai messo in un film. Insomma, è probabile che esercitando la sua 'naturale' professione di broker, Chris si destreggi tra crimini e devastazioni molto più subdole di un semplice adulterio. Ma per il regista l'unico modo di raffigurare il Male è fargli ammazzare una vecchia e un'amante incinta con un fucile a canne mozze. Roba da Agatha Christie, in fin dei conti. E se Allen fosse, dopotutto, un autore reazionario?
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- 2025

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Rapporti sessuali verticali

Caro Leonardo, come va?
Come vuoi che vada.
Non mi faccio illusioni. So cosa mi sta succedendo, era previsto, era descritto. E so cosa accadrà. Nulla di buono per me, in definitiva. Non si spianeranno le rughe sulla mia fronte, non mi cresceranno i capelli; non si spegnerà il fuoco allo stomaco, né il mal di schiena; i ricordi continueranno a sbiadire e i sogni a non farsi ricordare. È solo primavera, una in più, una in meno. Non si rinasce in primavera, al limite ci si innamora, e non c'è nulla di eccezionale in qsto. Era previsto. E quando dico 'previsto' non mi riferisco mica a horus o barbanera, heh. È stato Arci.

Fu una delle prime volte che ci rivolgemmo la parola – già ci conoscevamo di vista, eravamo membri di un'associazione che poi confluì in un partito che si scisse in due tronconi, di cui il nostro passò in clandestinità e si federò a un'altra rete di movimenti che organizzava spesso riunioni a San Petronio, prima che la città prendesse qsto nome. Eravamo in pausa pranzo e lui mi stava spiegando che faceva nella vita.
"Ricercatore".
"Pure tu, un'orda, siete. E che ricerchi?"
"Statistica applicata alla sociologia. Studio i rapporti sessuali verticali".
"Ah, sì. Interessanti, anche se io preferisco…"
"No, non in quel senso. Per 'verticale' si intende intergenerazionale: i rapporti sessuali tra individui di generazioni diverse".
"Mm".
"Non fare qlla faccia. Fino a cento anni fa erano i rapporti più frequenti, anzi, a ql tempo erano i rapporti tra individui della stessa generazione a esorbitare dalla norma. Il matrimonio 'standard' prevedeva una differenza di 15-25 anni tra uomo e donna. Poi qlcosa è cambiato, e non è chiaro il perché".
"La parità dei sessi…"
"La parità dei sessi è un grosso problema, da un punto di vista sociale, perché crea un conflitto in più. È chiaro che due persone della stessa età, con esperienze magari diverse, ma di cui si riconosce la pari dignità, non potranno che entrare in competizione e lottare per il predominio, fino a far scoppiare il rapporto di coppia. I matrimoni intra-generazionali, cioè tra persone della stessa generazione, durano in media 15 anni".
"Perché, i rapporti tra vecchi e ragazzine durano di più?"
"Buffo, sì".
"Che?"
"È un dato molto curioso, che nessuno ha interesse a divulgare, comunq sì. I matrimoni intergenerazionali sono più stabili. In pratica, accade che in coppie di qsto tipo non ci sia una vera lotta per la conquista del ruolo di capofamiglia, perché nella prima parte del rapporto esso spetta di 'diritto' al coniuge più anziano, mentre in seguito…"
"…il vecchio rincoglionisce e la signora prende il comando".
"In pratica sì, ma qsto succede anche a sessi scambiati, sebbene siano casi più rari. In pratica, la lotta per il predominio viene sostituita dal normale avvicendamento biologico. Il coniuge più debole sa che un giorno sarà il più forte, e qsto rende più sopportabile la sua momentanea sudditanza. E poi c'è un aspetto fondamentale: il trapasso delle nozioni sessuali".
"Sarebbe a dire…"
"L'educazione sessuale. Sai che è solo con la diffusione della coppia orizzontale che nasce la moderna educazione sessuale. E perché nasce? Perché un maschio e una femmina alla prima esperienza non hanno la minima idea di cosa fare e perché. Con la coppia orizzontale viene a mancare un aspetto fondamentale della conoscenza sessuale: il trapasso delle nozioni".
"Se ho ben capito, stai dicendo che era meglio nell'Ottocento. I ragazzini imparavano educazione sessuale al casino…"
"Con professioniste più anziane di loro, esatto".
"E poi si sposavano verginelle sedicenni e…"
"E trasmettevano in qsto modo le loro nozioni sulla pratica sessuale".
"Lo trovo ripugnante".
"Ma funzionava".
"Ma che vuol dire funzionava, anche il calesse coi buoi funzionava".
"E funziona. E non ha mai smesso di funzionare. In realtà è stato dimostrato che anche in una società orientata verso i rapporti orizzontali, l'iniziazione sessuale avviene per via verticale. Cerca di ricordare le tue prime esperienze sessuali. È probabile che tu ti sia rivolto, istintivam, a una partner più esperta di te".
"Che mi diede picche".
"Vedi qnt'è frustrante, ai nostri giorni? In ogni caso, per diversi anni la tua pratica sessuale è stata (mi auguro) piacevole, in quanto scoperta, processo di conoscenza. Oggi, probabilm, hai scoperto tutto ql che dovevi scoprire".
"Ma mi diverto ancora molto".
"Infatti sei ancora relativam giovane, per gli standard attuali. Ma è inevitabile che da qui a vent'anni inizierai a rivolgerti a partner più giovani. Trarrai piacere non più dallo scoprire, ma dall'insegnare".
"Non credo che avrò nulla da insegnare a…".
"Qsta è una tua valutazione razionale, di cui tra vent'anni la tua libido si fregherà altamente".
"La mia libido".
"Tra vent'anni ti suggerirà di instaurare rapporti di coppia verticali con ragazze di vent'anni più giovani".
"Beh, sarà molto difficile, non lavorando io all'università".
"Ih, ih, in effetti l'ambiente accademico è una delle poche oasi dove è possibile coltivare i rapporti verticali al giorno d'oggi. Non che siano particolarm incentivati. Ma altrove non sono nemmeno tollerati. Ed è un grande problema, perché sempre più uomini e donne tendono a cercare partner intergenerazionali. Purtroppo la società non fornisce molti luoghi adatti a intrattenere qsto tipo di relazione. E qsto è uno dei motivi per cui sono qui".
"Qui dove? A un congresso di un movimento politico clandestino?"
"Ssst. Non dirlo in giro".
"Vuoi dire che sei qui perché stai facendo una ricerca sul sesso nei…"
"Nei movimenti politici. È buffo, ma il secondo luogo più adatto dopo l'accademia, per i rapporti verticali, sembra essere il movimentismo politico. Avrai notato anche tu che tende a essere sempre più intergenerazionale: vai a un forum e ci trovi la diciottenne, il ventiquattrenne, la trentaseienne, il quarantacinquenne… Guardati in giro".
Io lo feci: mi guardai in giro e vidi Concetta (che non si chiamava così) puntare dritta verso di me, con un plico di fotocopie in mano. "È una mezz'ora che ti cerco. Hai visto Defarge?"
"È senz'altro giù al bar che complotta. Ti posso presentare…"
"…dopo. Ho qui un messaggio che devo portare a Defarge subitissimamente. Ci vediamo. Un bacio. Ciao".

Vidi che Arci si mordeva le labbra, in un'espressione che avrei imparato ad associare all'imbarazzo.
"Carina, è la tua ragazza?"
"Sì".
"E avete più o meno la stessa età".
"Pochi mesi di differenza, sì".
"Complimenti".
"Abbiamo tutte le statistiche contro, vero?"
"Ah, ma il futuro è molto incerto. E poi: sai qual è il rapporto tra le statistiche e gli individui?"
"No".
"È un rapporto orizzontale. Le statistiche si fottono degli individui. E gli individui si fottono delle statistiche".
"Grazie".
"Ma di che".
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Ma quando cresci

A un certo punto i calciatori hanno smesso d'invecchiare. Si vede perfino dalle foto. O è un'impressione mia?

Ho qui davanti un almanacco Panini del 1984, con Bruno Conti in copertina. Bruno Conti, per me, è un uomo. È sempre stato un uomo. Mi costa fatica ammettere che quando vinse la Coppa del Mondo aveva la mia età. Riguardandolo, mi accorgo della muscolatura notevole, e dell'addome che sporge lievemente: negli anni Ottanta era ancora un attributo mascolino. E mi sembra un uomo, maturo e affidabile.

In fondo è una questione di punti di vista. Io guardo il mondo da un punto in movimento (anche voi, del resto). Attraverso il mondo precipitando, ma in mancanza d'attrito ho l'impressione di galleggiare fermo, mentre il mondo mi precipita intorno. E le cose più vicine appaiono distorte, una specie di effetto Doppler. A un certo punto la figura del calciatore si è distorta, è passata da eterno adulto (mio padre…) a eterno ragazzo, bambinone, pupo. Quando è successo? Provo a guardarmi indietro. Paolo Maldini.

Paolo Maldini, in effetti, sembrava non crescere mai. Il Tom Cruise, il Michael J. Fox del calcio italiano: quando comincerà ad assomigliare a un adulto? (Se ci rifletto bene, mi accorgo che gli sto chiedendo di invecchiare prima di me, di precipitare più alla svelta). Accanto a lui giocava Franco Baresi, l'ultimo grande adulto. Forse la generazione di mio padre finisce con Baresi (Franco), la mia comincia con Maldini (Paolo). E forse anche la mia è già finita. Da qualche anno in qua i calciatori mi sembrano tutti bambocci.

D'altro canto, non devo neanche dare eccessivo peso alla mia soggettività. Può darsi che siano davvero un po' tutti bambocci. Troppi soldi troppo presto, e un modello di giovanilismo estenuato, perché il calcio è marketing e il marketing punta tutto sul grande target giovanile. L'orecchino, il tatuaggino, l'acconciatura carina… e poi questi addomi concavi, questo nuovo modello di mascolinità fortemente innaturale (gli antropologi di domani guarderanno alle copertine di Men's Health come noi guardiamo le foto delle donne africane che si allungano il collo coi collari o gli aborigeni che si allungano labbra o lobi delle orecchie: "che strani gusti… mah… era la loro cultura").

Tutto questo non mi piace, non mi è mai piaciuto, sin dal primo momento, dal primo spot orientato su di me. Così guardo indietro, ai campioni del Mondo. Quelli sì che erano uomini. Giganti. Poi arriva Gigi Riva e mi scuote un po' di certezze.

Riva è una figura mitica per me, di quelle scolpite nel bianco e nero. Ieri, in un'intervista alla radio che non riesco a lincare, ha detto che Totti ha sbagliato, sì, ma che lui sa quanto le marcature a uomo possano essere esasperanti (il giornalista ricorda che Riva è il solo calciatore a essersi fratturato due gambe in maglia azzurra). Che Totti ha sbagliato, ma ai suoi tempi avrebbe spesso voluto prendere i suoi marcatori a rivoltellate. Che è giusto che Totti paghi, ma ai suoi tempi al fischio finale si metteva a rincorrere i suoi mastini, "e quattro o cinque li ho anche presi, non lo dico per vantarmi". Che non dobbiamo mitizzare la sua generazione, non era affatto più matura di questa. Sottointeso: quel che è cambiato davvero è la prova video.

La prova video. L'ossessione della diretta. Una telecamera fissa su Totti per 90 minuti. Un reality show su Totti. E quanto assomigliano ai calciatori bambinoni, i protagonisti dei reality show. Anche loro tengono stretta la pancia, portano orecchini e treccine, sembrano in grado di reggere lo stress della diretta, finché, prima o poi, sbroccano. Sono lì apposta per sbroccare, d'altra parte. È per questo che li guardiamo.

Bene, ho trovato il colpevole perfetto: il Grande Fratello. La ripresa televisiva moderna, invasiva e pervasiva, che ci rende tutti più patinati e più immaturi. È colpa sua se non vinceremo mai la Coppa del Mondo dei nostri papà (e nemmeno gli Europei). I nostri genitori probabilmente non erano dei santi, né dei campioni di eleganza: ma quando posavano per una foto si presentavano eleganti e ben pettinati. Così anche in campo, dove si picchiavano con meno complimenti di noi: ma il montaggio, compiacente, filtrava e ci restituiva un'immagine di uomini adulti e responsabili. Ma oggi la telecamera sempre in diretta restituisce ogni vaffa, ogni sputo. Tira fuori il peggio da ognuno di noi, perché è quel peggio che ci piace guardare. O no?

O forse no. È difficile descrivere la realtà mentre si precipita. Ma tante filippiche sul bel tempo che fu, si potrebbero riassumere in una sola frase: perdonatemi, sto invecchiando. I calciatori sono tutti più giovani di me, adesso. Non posso che trattarli da ragazzini. E mi dispiace per Totti, davvero. È dura rovinarsi una carriera per dieci minuti di follia.

Del resto i tempi cambiano, le mode si adeguano, e anche la tendenza del pupone irresponsabile potrebbe avere i giorni contati. La "mia generazione" si è ritrovata le strade e le case piene di telecamere, e non ha saputo fare di meglio che salutare con la manina, sputare e mettersi le dita nel naso. La prossima generazione troverà un modo di eludere anche questo controllo. Reagirà, crescerà, in modi e forme che io non posso nemmeno immaginare, e forse nemmeno capirò. Continuerò a precipitare brontolando che non ci sono più i calciatori di una volta, quelli che vinsero il Mundial.

(Ma se i puponi, nelle loro divise attillate, stringessero i denti e andassero avanti, sarei così felice di essermi sbagliato).
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Tutti abbiamo diritto almeno a una canzone che ci faccia sentire immensamente tristi e stupidi, non trovate? Almeno, io la penso così.

Karaoke esistenziale, ciak! 12

"Show me, show me, show me
how you do that trick
The one that makes me scream" she said
"The one that makes me laugh" she said
And threw her arms around my neck


Anche se ormai tutto è finito, non ci restano che le briciole. Non tornerà più l’inverno tra l’ottantasette e l’ottantotto, pioggia battente e mezza pagella insufficiente, e Robert Smith, con quella voce che assomiglia a un bambino che ha pianto per ore e ore, e se anche ora cerca di smettere non riesce; Robert Smith che dice che va tutto bene, che è come il Paradiso.
Perché anche se non riesce a smettere di frignare sa che da qualche parte c’è una persona che ti ama: tu non la conosci, ma lei ti aspetta da qualche parte nel tuo futuro, per ridere, per urlare, per gettarti le braccia attorno al collo, per correre via con te.

"Show me how you do it
And I promise you I promise that
I'll run away with you
I'll run away with you"


Passeranno gli anni, ti farai una cultura, e quando ti troverai davanti Verlaine, col suo Rêve familier, ti sembrerà davvero familiare: “Faccio spesso questo sogno, strano e penetrante / di una donna sconosciuta che io amo, e lei m’ama / e che ogni volta non è mai la stessa,/ e non è nemmeno un’altra, e mi ama, e mi capisce”: e per lei “il mio cuore trasparente / cessa di essere un problema”. “È bruna, bionda, rossa? Non lo so". Per forza. Come facevo a saperlo?

Spinning on that dizzy edge
I kissed her face and kissed her head
And dreamed of all the different ways I had
To make her glow


Come potevo essere sicuro che esistesse? Solo la certezza di volerle bene, e il tempo passato a sognare “tutti i modi diversi di farla avvampare”. Perché sei così lontano?, lei chiede, in sogno, Perché non capisci che ti amo?

"Why are you so far away?" she said
"Why won't you ever know that I'm in love with you
That I'm in love with you"


Com’è bello l’inglese con la sua aggettivazione incongrua, com’è bello sapere parole dolci in una lingua che non corrispondono alle nostre. È come perdere il proprio corpo (e a quindici anni uno ne ha tanto bisogno), o come calarsi in un corpo diverso, che non c’entra nulla col tuo. “Soft”, in realtà, è traducibilissimo con “dolce”, ma per me il corpo di questa donna sconosciuta era davvero “soffice”, lieve, qualcosa da premere con cura, come quando qualcuno mise un lento giù in saletta da Mario, e Anna mi abbracciò come se fosse la cosa più naturale del mondo, e aveva una camicia di flanella. Soft and only. Qualcosa a vedere con la flanella.

You - Soft and only
You - Lost and lonely
You - Strange as angels
Dancing in the deepest oceans
Twisting in the water
You're just like a dream


E poi sentirsi solo, ma non solo come uno che ha ancora tutti i suoi amici alle medie e non sa con chi scherzare in corriera, no, non come uno che a 15 anni rischia di farsi segare e fallire la prima occasione della sua vita (dicevano che non mi avrebbero riammesso), di più: solo nell’universo, come gli astronauti di Odissea nello Spazio, congelati e poi abbandonati nel vuoto. Perché tutti pensano ai due astronauti svegli: nessuno che spenda una lacrima per quei poveracci che stanno nelle celle frigorifere, immobili e morti per tutto il film. Io ero uno di quelli. E stavo sognando. E se sognavo lei, era Proprio Come il Paradiso.

Daylight licked me into shape
I must have been asleep for days
And moving lips to breathe her name
I opened up my eyes…


“Ciao, non ti spaventare. Questa è una visione”.
“Mi state scongelando?”
“Non proprio. Vedi, tu sei Davide Ognibene, hai quindici anni, stai attraversando un periodo di depressione, ma ti passerà, non ti devi preoccupare”.
“E tu chi sei per dirlo”.
“Io, ehm, sono te stesso da grande”.
“Da grande?”
“Sì, diciamo… a trent’anni”.
“A trent’anni?
“Non far caso alla pancia, è provvisoria. Sono venuto a confortarti in questo momento, che ora ti sembra il più difficile della tua vita, e in un certo senso lo è: ma vedrai, ce ne saranno altri”.
“Altri momenti difficili?”
“Sì, molto più difficili di questo, ma come vedi li supererai, infatti io li ho superati”.
“Hai dei capelli bianchi”.
“Senti, bimbo, io già ti faccio un favore ad apparirti in sogno, e lo faccio solo perché credo che tu ne abbia bisogno, ora vedi di non rompere troppo i coglioni, eh? Se lo vuoi sapere, dall’autunno prossimo ti aspetta un acne giovanile devastante. Ho ancora i segni sotto la barba, guarda. E poi sconfitte e umiliazioni a non finire, pianto, stridore di denti… solo per farti un esempio, hai presente Berlusconi? Quello del Milan? Ti sta sulle palle?”
“Un po’ sì”.
“Ecco, non hai idea. E storie d’amore squallide, sai quante? Non t’immagini neanche quante”.
“Ma alla fine lei c’è?”
“Lei chi, scusa”.
“Lei”.
“Aaaah, intendi quella della canzone dei Cure? Be’…”
“C’è o no, dimmelo”.
“Se proprio vuoi saperlo, c’è”.
“E mi aspetta?”
“E ti aspetta”.
“E quanto tempo ci vuole ancora?”
“Vediamo… tu hai quindici anni, no? Allora te ne vogliono ancora, ehm, altri quindici”.
“Quindici?”
“Così praticamente è come se tu fossi a metà strada! Non sei contento?”
Quindici?
“Dai, non prendertela, meglio tardi che… che…”
“Meglio tardi che cosa? Questo è molto peggio di restare ibernato per sempre nello spazio! Mi stai dicendo che la ragazza della mia vita mi aspetta a quindici anni da qui? E cosa dovrei fare nel frattempo, laurearmi? Fare il missionario? Fare la rivoluzione?”
“Ecco, sì, occuparsi un po’ di tutte queste cose. E anche tirare giù il Commodore dal solaio, è un filone che ti consiglio di…”.
“Vattene via, tu non esisti. Non ti voglio credere. Anzi, ti misconosco. Tu non sei il mio futuro. Tu sei il futuro di un altro sfigato. Io non ti merito. Non ho fatto niente di male”.
“Se la metti così…”
“Vattene!”

And found myself alone alone
Alone above a raging sea
That stole the only girl I loved
And drowned her deep inside of me

You - Soft and only
You - Lost and lonely
You - Just like heaven


(Cure, 1987. It's torture, but I'm almost there).
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questa mano non esiste piùTre anni
(e neanche una nozione superflua)

Io non so, onestamente quanti anni impieghi un corpo umano a rigenerare tutte le sue cellule, per cui si possa dire che è realmente diventato un altro corpo rispetto a tot anni prima. Sarà scritto da qualche parte che non trovo.
Non so neanche dopo quanti anni un’accusa cada in prescrizione.

Quello che so è che tre anni di solito sono il limite a partire dal quale le cose che ho scritto non le ho più scritte io, le ha scritte un altro, e non ha più molto senso correggerle o tentare di fare una figura migliore di quella che ormai s’è fatta. Magari se rileggo posso essere d’accordo, come capita di andare d’accordo con estranei che non si è mai visti in faccia (“toh! Questa cosa avrei voluto scriverla io… ah, aspetta, l’ho scritta io”).

Questo significa, tra l’altro, che le ragazze, signorine e signore in possesso di lettere firmate da me entro e non oltre la data del 26 gennaio 2001 sono pregate di non ritenerle più valide, distruggerle se è il caso, oppure continuare a leggerle e sghignazzare ma non attribuirle più al qui presente, che nel frattempo ha totalmente rigenerato le sue cellule ed è un altro uomo.

Significa anche che le pagine più antiche di questo sito, che sabato ha compiuto tre anni, stanno per scivolare inesorabilmente nella maturità: sono documenti di una persona che esisteva tre anni fa e che non ha ormai più nessun potere su di loro. Il bello è che tra tre anni succederà lo stesso di queste righe. (L’idea che si muore un po’ tutti i giorni mi dà una certa vertigine).

***

Il bilancio del 2003 ve lo risparmio. Fino a novembre gli accessi sono cresciuti, poi sono un po’ calati. È anche calato il mio interesse per gli accessi. Per un po' sono diventato il primo risultato mondiale per “Leonardo” su Google, il che è assurdo (in questo momento sono il n.2). Stavo pensando di usare il blog diversamente, scrivere meno e un po’ meglio, ma non è semplice. Scrivere è una ginnastica, e purtroppo per avere un paio di cose buone la settimana devo riscaldarmi con altre due o tre scemenze di contorno.

A complicare la cosa, molto spesso quello che io reputo scemenza può piacere a parecchi, e la “cosa buona” passare nell’indifferenza (o nell’imbarazzo) più totale. È per questo motivo che quindici giorni fa avevo chiesto ai lettori di esprimere una preferenza sui post di quest’anno: non è che abbiano risposto in tantissimi, eh? In ogni caso il vincitore della consultazione è questo. E mi pare un degno vincitore, per vari motivi:

1. Mentre di solito faccio le ore piccole a limare periodi, questa è appunto una scemenza scritta di getto in un dopopranzo.
2. Mentre di solito d’inverno qui si scrive a lambrusco, questo post andava a trebbiano.
3. Alla faccia di tutti quelli che mi danno del professorino, questo post è un inno alla crassa ignoranza.
4. Varie persone ci si sono riconosciute, e hanno voluto contribuire. Io non sono molto bravo nei lavori di gruppo, però sono contento di averci provato.
5. Per quanto scemenza, il Simulator ha dimostrato di funzionare benissimo, e io ne sono la prova vivente. Sul serio, io mi sto facendo strada continuando a raccontare palle come la leggerezza di Calvino. E la gente mi dà del professorino. Nel mondo dei ciechi il guercio è un re, chi l’ha detto? (non so neanche quello).
6. Per quanto scemenza, il Simulator è un’applicazione di uno dei principi fondamentali di questo blog sin da quando un tale (che nel frattempo non esiste più) cominciò a scrivere i primi post nel gennaio 2001: la critica al concetto di cultura. Cosa intendiamo con cultura? L’insieme di cose che sappiamo? Non più. Da un po’ di tempo a questa parte la cultura è diventata l’insieme di cose che fingiamo di sapere, o (nel migliore dei casi) le strategie che mettiamo in atto per fingere di sapere alcune cose.

I primi mesi di quel 2001, del resto, furono un periodo molto interessante. Tra le altre cose si finì di mappare il genoma umano, giungendo così (credo) alla dimostrazione scientifica che il concetto di razza non ha senso. Un po’ troppo tardi per evitare la tratta degli schiavi e Auschwitz, ma meglio di niente.
La destra identitaria aveva però già fiutato l’aria da un pezzo, e si stava ricalibrando su un nuovo concetto: la cultura, la “civiltà”: The Clash of Civilizations, come si chiamava il saggio di un professore americano che sbagliava le cartine. E fu il defunto Edward Said a ribattezzarlo The Clash of Ignorance. Avevano ragione entrambi: Civilization, Ignorance e Cultura sono tre parole per la stessa cosa. Una cultura non è fatta di nozioni, ma di finzioni, e si caratterizza più per le cose che sceglie di escludere che per quelle che include. E qui arrivano i blog, che ci servono proprio a definire la nostra “Cultura”, la nostra “Civilization”, la nostra “Ignorance”: si tratta di scegliere quali nozioni non c’interessano e quali vogliamo fingere di possedere.

Dal 2001 in poi ne abbiamo fatta di strada, e ne abbiamo scritte e lette, di scemenze. Cultura occidentale, Guerra Globale, Guerra al terrorismo, Islam terrorista, Islam moderato… un giorno (spero in meno di tre anni) tutti questi concetti ci sembreranno campati per aria come oggi ci sembrano campate per aria le speculazioni degli scienziati ‘ariani’ sul “primato della razza”.
Nel frattempo, se il discorso v’interessa, credo che continuerete a trovarmi in questo settore della barricata: là dove non solo si rifiuta a priori il concetto di “cultura”, il concetto di “civiltà”: ma si cerca in un qualche modo di dimostrarne l’impossibilità scientifica, così come nel 2001 è stata dimostrata l’impossibilità scientifica del concetto di “razza”. La demolizione della razza spettava ai biologi: la demolizione della cultura dovrebbe essere il lavoro degli umanisti. Non male come missione.
Ma credo che a un obiettivo del genere valga la pena di dedicare il proprio tempo libero, se non la propria vita. (Magari tra tre anni la penserò diversamente).
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Titicaca Lake

Ero seduto lì, la radio mandava una canzone, mi sono ricordato di una cosa, mi è sembrato d’un tratto di capire qualcosa di fondamentale, di aver risolto un problema importante per me, per tutti, poi una gran luce, poi –

Let’s take break on the Titicaca Lake
Got some more in Ecuador
Stole a car in the streets of Panama
Went too far in Bogota


Devo stare calmo.
Devo stare calmo.
Devo stare calmo. Che non è successo niente.
Devo stare calmo. Che andrà tutto bene.

Io non mi sono perso. Io so chi sono. Io mi chiamo… tra un attimo mi verrà in mente. Ma so chi sono.
E so dove sono. Questo è un bar. È un bar che conosco. Sono già stato qui.
Questo è un bar fuori Porta Santo Stefano.
Quindi so cos’è un bar, e so dov’è Porta Santo Stefano. E so che non è la mia città, e che di solito non dovrei essere qui. Almeno credo. Io abito in un’altra città. Io abito… tra un attimo mi verrà in mente.

Però so altre cose. Per esempio conosco la canzone che danno per radio. È una canzone di qualche anno fa.
(Come faccio a saperlo?)
Dice A little weak
a little pale today
looks like it's time
for that certain holiday
.

È una canzone stupida che parla del Lago Titicaca. E' un lago sulle Ande. Ecco, non so come mi chiamo e so dov'è il Lago Titicaca.
E' una canzone che si ascoltava per radio nel… nel… io ero in un mercatone, e cercavo dei mobili. Cercavo dei mobili perché avevo preso una stanza a Modena. Ecco, vedi? Si chiama Modena. So anche l’anno. Ci sono andato all’inizio del Duemila. Ma oggi non è il Duemila, vero?

C’è il Carlino, appoggiato qui. Dice: gennaio 2004. È così.
Beh, cosa mi aspettavo? Le astronavi? L’uomo su Marte? La terza guerra mondiale? Quattro anni sono niente, per l’arredo di un bar. E se ora andassi fuori scommetto che troverei Bologna tale e quale, con tutte le sette chiese e le due torri al loro posto. (Ma è meglio se per adesso resto qui) È un mattino di gennaio limpido. Ha il colore di mille altri mattini di gennaio limpidi. Il clima più di tanto non dev’essere cambiato. There is no global warming.
Stamattina, perlomeno.

Sul giornale c’è Berlusconi. Da come ne parlano probabilmente al governo c’è lui. Questo è quasi consolante. Non mi devo essere perso un granché. E poi… Palestina… solite cose. No, aspetta. Autobomba in Iraq? Cosa c’è in Iraq? Gli americani? Beh, prima o poi sarebbe successo, no? Niente d’imprevedibile, direi.

E anch’io. Non devo essere molto cambiato. Quanti anni ho? Vediamo. Lo so. So quando sono nato. Perciò se oggi è il 2001 io ho… trent’anni. È così. Ho trent’anni.
E mi mangio ancora le unghie, pare. Che vergogna.
Altro? Non direi. Un po’ di pancia, è comprensibile. Mi sono appena tagliato i capelli e… forse qui sulle tempie ce n’erano di più ma… stessi occhiali. Ovviamente. È un periodo che tengo la barba. I vestiti… perché tanto nero? Non mi piaceva il nero.
Forse nel frattempo è passato di moda.
Le scarpe?
Non dico… no. Non sono brutte, ma… le ho prese io? Davvero?

Ora farò una cosa. Mi alzerò da questo tavolino, come se niente fosse, andrò al bancone e chiederò di pagare il… il caffè. Qui c’è una tazzina di caffè: ne ho appena bevuto uno, evidentemente. E probabilmente ne bevo troppi.
Mentre vado verso la cassa, mi guarderò attraverso i liquori nello specchio a muro. E so già cosa vedrò: capelli bianchi e rughe sotto gli occhi. Ho trent’anni, no?

Temevo peggio, dai…
“Ottantacinque”.
“Come?”
“Ottantacinque!”
“Ah, sì, scusi”.
Dovevo pensarci prima. Sono cambiate tutte le monete. Qui dentro probabilmente ne ho abbastanza. Ma non si sa mai, tiro fuori una banconota.
Sono strane. Sembrano nuove anche se sono spiegazzate. Dieci euro. Un caffè ce lo compro di sicuro. E mi dà anche un sacco di resto. Bene.
Ora, già che ci sono, senza dare nell’occhio tiro fuori la carta d’identità.

Cognome: OGNIBENE
Nome: DAVIDE
Cittadinanza: ITALIANA
Stato civile: ==========
Professione: ==========
Statura: 1,65


Beh, di crescere di statura non mi aspettavo, ma quei segni cosa vogliono dire? Non ho un lavoro? A trent’anni? E cosa ci faccio qui?
C’è una borsa qui sotto il tavolino. Non so, magari è mia. Ci do un’occhiata?
(E se non è mia?)
Di sicuro è mia. Era qui. Sono solo in questo bar.
(E se trovo qualcosa che non mi piace?)
Sembra leggera, allora… fogli. Manoscritti. Ma non è la mia callig… aspetta.

L’allevamento dei bovini in Europa non offre alti redditi. Vero. Falso.
Gran parte dei bovini europei vengono allevati allo stato brado. Vero. Falso
.

Sono compiti. Compiti di scuola. Quindi io insegno. Ho passato il concorso e insegno nella scuola… direi media. Ecco cosa faccio.
E siccome sono qui, e ho questi compiti nella borsa, io insegno in una scuola media di Bologna. Ma perché? Devo essermi trasferito.
Forse ho trovato una ragazza qua, e viviamo assieme. Può essere. Magari è una che conosco. Non mi viene in mente nessuno.
(Speriamo sia carina).
Del resto, di sicuro in tasca ho un mazzo di chiavi. Ecco. Mi sembrano le solite chiavi. Le solite squallide chiavi, se posso aggiungere. Ho trent’anni, vesto in nero, insegno a Bologna, e non mi posso ancora permettere una porta blindata. Ma non importa. La chiave della macchina è la stessa. Questo è importante.
Significa che non ho fatto incidenti gravi. Qui fuori da qualche parte c’è la mia vecchia macchina (magari con una multa).
Ma per ora non esco. Non è prudente. Devo aver avuto una cosa che non mi era mai successa prima. Non posso mettermi in macchina, ora, e poi per andare dove. (Dai miei. No. Si spaventano).

E poi cosa c’è qui… ma guarda! Un cellulare. Per forza non lo sentivo, è troppo piccolo. Prima avevo un affare più pesante.
(Prima quando?).
Con lo sportellino. Ho sempre odiato i cellulari con lo sportellino. Me l’avrà regalato qualcuno.
Adesso, appena capisco come funziona, posso chiamare qualcuno. Trovo la rubrica, e poi… i nomi me li ricordo, più o meno fino al Duemila.
Sì, ma magari chiamo qualcuno con cui nel frattempo ho litigato, e non ci parliamo da quattro anni, e poi un mattino sta lavorando e all’improvviso lo chiama Ognibene Davide: “ciao, ti ricordi di me? Ho un problema. Sono bloccato in un bar fuori porta Santo Stefano e non so come uscire”. Patetico. No.
Posso chiamare i miei genitori. Con loro non posso aver litigato più di tanto. E sono pur sempre i miei genitori.
Ma aspetta. No. Loro si preoccupano. E poi magari li chiamo e loro… quattro anni… non può essere successo niente di grave… non può… però.
Però succedono cose gravi in continuazione. Succede che io sono qui e da un momento all’altro non mi ricordo chi sono, e ricordo solo una canzone che avevo già sentito quattro anni fa. Per ora i miei non li chiamo. Chiamo mio fratello. Certo.
Doveva venirmi in mente prima. Se siamo nel 2004 lui fa l’università, ha la macchina, può venire a prendermi. Se c’è qualcosa che non va vedrai che lui trova il modo di dirmelo con le buone. Sa come prendermi. È una fortuna che c’è lui. Adesso lo chiamo.
No, aspetta. Qualcosa non va.
Non c’è il suo numero.

- poi buio.
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Nel trentunesimo anno

Grosso modo la sensazione è la seguente:
Mettiamo che la tua vita sia una grossa pietra, allora fino a questo momento non hai fatto altro che infilarci sotto le mani, sempre più a fondo, per sentire quant’era ruvida e pesante: ma non la reggevi.
Adesso sì: si è spostato qualcosa, magari un centimetro appena, e adesso senti che il peso è tutto sulle tue mani, e questa sensazione sarà fastidiosa o piacevole, spaventosa o inebriante, a seconda dei casi, delle stagioni, e delle persone che ti stanno a guardare.
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