Chi gabella Gino Paoli

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A volte mi domando che ci sto a fare qui, a spacciare cookies di terze parti - manco più la pubblicità mi fanno mettere. Poi mi capita di leggere una notizia, per esempio, Gino Paoli che fa una lezione sulle tasse.

No, ovviamente è più complicata di così. L'avrete sentita anche voi: Gino Paoli, in qualità di non si sa bene cosa, è stato invitato come relatore a una cerimonia di consegna di diplomi di un master universitario altamente patrocinato dall'Agenzia delle Entrate. Nell'internet che frequento - e sui giornali che sfoglio - la cosa fa notizia perché Gino Paoli è tuttora indagato per evasione fiscale. Perlomeno, il taglio con cui viene riferita la notizia è sempre questo. Non so se la responsabilità sia del Fatto Quotidiano e se gli altri organi di stampa gli siano andati a ruota, o se ormai l'impostazione del Fatto sia talmente egemone che tutti la imitano, anche senza rendersene conto; fatto sta che per due giorni sui giornali e su internet ho letto che chi è indagato (per evasione fiscale) non dovrebbe permettersi di esprimere opinioni.

Mi domando se chi scrive queste cose sui giornali, o le rimbalza sui social, non è mai stato indagato per evasione fiscale. Probabilmente no, altrimenti se ne starebbero tutti zitti per coerenza, vero? A me l'anno scorso l'agenzia delle entrate ha chiesto certi estratti conto del 200x per un accertamento, probabilmente dovrei chiudere il blog finché non si fanno più vivi. Invece scrivo. Mi sento quasi obbligato.

Scrivo perché nell'internet che vorrei, e sui giornali che volentieri comprerei, Gino Paoli che parla di tasse non farebbe notizia perché è indagato per evasione - capirai - ma perché il signore che si lamenta della burocrazia e della mancanza di buonsenso, è lo stesso che da presidente della Siae chiese e ottenne di raddoppiare la prestazione patrimoniale imposta nota come "copia privata". Ovvero un tizio che ha voluto che pagassimo di più per ogni cd vergine, chiavetta usb, lettore mp3, pc, eccetera, e quel di più (più o meno 200 milioni di euro) lo devolvessimo alla Siae. Un piccolo rimborso per tutte quelle canzoni e film che potremmo salvare sui nostri supporti - e se non salviamo nulla di scritto dal signor Paoli e colleghi? Niente, dobbiamo pagare lo stesso. Ecco, quel signore che ha ottenuto 200 milioni di euro così, è lo stesso che è andato alla Camera di Commercio di Genova e ci ha spiegato che le tasse italiane sembrano ancora le gabelle medievali. Mi sarebbe piaciuto che qualcuno l'avesse fatto presente, ma continuo a scrollare e niente, non ne ha parlato nessuno.

Così ne parlo io. A volte mi domando ancora che ci sto fare qui - tempo cinque minuti e mi rispondo.
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In soffitta e così siae

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(di Mogol, Bacal, F'nqul)

C'era una volta una gatta
che aveva una macchia nera sul muso,
e una vecchia
soffitta vicino al mare,
con una finestra
a due passi dal cielo,
o no?

Gino Paoli, pittore e compositore.
Se la chitarra suonavo
la gatta faceva le fusa,
e una stellina
scendeva vicina vicina,
poi mi sussurrava:
"Non male, il giro di do".

Ora non abito più là.
Tutto è passato, non abito più là...
Ho una casa bellissima: bellissima, come vuoi tu.

Ma devo tutto a una gatta
che aveva una macchia nera
sul muso, e una vecchia
soffitta vicino al mare,
e un bel giro di do,
e milioni di borderò.

C'era una volta un cartello
di autori e di musicisti. Era molto bello.
Scuciva miliardi per due strofe ed un ritornello.
Bastava un giro di do...

Se dalla radio passava,
il cartello incassava i diritti - poi c'erano i dischi,
ai concerti la gente pagava
(anche per far fischi),
che gran cosa i borderò!

Ora non mi rendono più.
Tutto è passato, le radio non van più.
Ho una casa carissima, da ristrutturare anche un po'...

Gino Paoli, presidente della Siae
Ma quella troia di gatta
ormai non mi rende un euro, puttana vacca.
Sì che ho preso già più di Bach
per un giro di do
copiato a Burt Bacharach.

C'era una volta una lobby,
che infine ha spuntato un aumento
su tutti i supporti
sui quali potresti ascoltare, in qualsiasi momento,
la gatta che ho scritto io.

Tu che magari ci hai l'hobby
di fare le foto ai tuoi gatti,
e le metti su un disco
che è rigido oppure no
- quel che vuoi, me ne infischio -
ma devi i diritti a me. 

Ora non me li paghi più,
né ipad né tablet, tu non li compri più.
Li ordini on line all'estero,
ti costan meno, bastardo, perché?

Che cos'hai contro la gatta?
Vuoi proprio vedermi finire i miei giorni in soffitta
da solo a guardare il mare
da una finestra
a due passi dal cielo blu?

Col cazzo, che torno in soffitta.
Io sono un artista famoso, ci ho i miei diritti,
Anche ora canticchi La gatta... beh, io l'ho scritta!
Compilami il borderò.

Sono miei tutti i giri di Do!
Volete pagarli o no?
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La tassa sulle orecchie

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Questa ed altre su http://sanjuro.blogspot.it/
A un certo punto degli anni Novanta la Siae (la corporazione degli autori italiani) si accorse che ogni anno incassava meno di quello precedente, e non perse molto tempo a identificare il colpevole: il cd vergine. La gente non comprava più i cd originali degli artisti, così generosamente offerti nei negozi a 30.000 / 40.000 lire il pezzo, ma li "masterizzava" - come si diceva allora - ovvero li copiava su cd vergini. E siccome non si poteva proibire la commercializzazione degli odiosi cd vergini, l'unica soluzione fu lobbizzare il parlamento fino ad ottenere una specie di pedaggio: chiunque avrebbe comprato un cd vergine di lì in poi avrebbe pagato una tassa alla Siae. Una specie di rimborso agli autori che potenzialmente, con quel cd vergine, avrebbe potuto derubare. Naturalmente l'acquirente avrebbe dovuto pagare il pedaggio anche se nel cd intendeva incidersi i fatti suoi, la tesi di laurea o le foto del bambino.

Tutto questo, stranamente, non disincentivò la pirateria. Continuammo a comprare cd vergini, pagandoli qualche centesimo in più, ma in realtà ci servivano sempre meno, perché la tecnologia ci stava offrendo supporti alternativi ben più capienti e affidabili: hard disk, chiavette, lettori mp3, eccetera. Su tutto questo continuavamo a pagare il pedaggio alla Siae (anche se vi riversavamo musica che avevamo regolarmente acquistato), ma non era abbastanza per pagare la rata della maserati del cantautore o il lifting al rapper, ed era destinato a calare, visto che i prezzi aumentavano molto meno della capienza dei supporti.

Un giorno la Siae se ne accorse, e decise di far pressione sul parlamento per raddoppiare, dico, raddoppiare il pedaggio: e, vuoi per l'incompetenza dei nostri rappresentanti, o vuoi per la complicità di alcuni di loro, la spuntò. Fu un momento epico per tutta la lobby, e tuttavia ormai gran parte della musica veniva ascoltata direttamente dalla nuvola, senza neanche passare dal supporto fisso: per quanto pedaggio si potesse far pagare agli acquirenti di pc e tablet, ormai erano briciole. Nel frattempo però il cantautore aveva ordinato una ferrari e i tatuaggi del rapper si stavano di nuovo nascondendo nelle grinze del mento, sicché bisognava pensare a qualcosa di nuovo.

A un certo punto un autore un po' più coraggioso degli altri pensò: ma sentite, tutta questa gente che esce di sera, dove va? Dove vuoi che vada? E' chiaro che va da qualche parte dove si ascolta la musica. Musica che abbiamo scritto noi! Non vi sembra giusto che paghino? All'inizio sembrava un'idea assurda.

Dieci anni dopo fu istituita l'imposta sul pubblico ascolto. Ti veniva addebitata nei locali, quando ti facevano il conto. La consumazione naturalmente era diventata obbligatoria per legge. Non fu un gran successo, c'era la crisi e la gente si mise a uscire di meno.

Ma gli autori non si diedero per vinti, dopotutto è una categoria di creativi. Montarono altoparlanti in tutte le città, ora se uscivi a qualsiasi ora del giorno ascoltavi Solo Musica Italiana - e la pagavi, era una voce nel Modello Unico. La gente usciva con le cuffiette per non ascoltarla, il pezzo più scaricato era un fruscio infinito che riusciva a coprire qualsiasi ritornello orecchiabile. Ma dovevi pagare anche quello. Se avevi orecchie dovevi pagare. I sordi provarono a opporsi.

Allora montarono in tutte le strade pannelli su cui scorrevano i testi delle canzoni. Ai turisti piaceva, il Bel Paese era diventato un grande karaoke, scrivevano. Noi non ci facevamo più caso, avevamo smesso di leggere da un pezzo.
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Troppo tardi per amare Arturo

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La prima metà degli anni Zero fu quella in cui una cospicua parte di noi scoprì improvvisamente una pulsione fino a quel momento poco conosciuta e persino poco intuibile: l'enciclopedismo. Volevamo sapere tutto (e fu wikipedia), condividere tutto, vedere tutto, ascoltare tutto. Eppure avevamo sempre meno tempo. Proprio per questo, forse, avevamo fretta di accumulare esperienze e file. Gli steccati della proprietà intellettuale si potevano rialzare da un momento all'altro. Ma nel frattempo, per esempio, io potevo diventare un esperto dei Kinks.

Mi erano sempre piaciuti i Kinks. Tutti i pezzi che conoscevo dei Kinks erano forti. Nella fonoteca di Poitiers mi ero acquattato il loro disco migliore ed era bellissimo. Reggeva il confronto con Sgt Pepper, con il grosso vantaggio che non li ascoltava più nessuno (questo era prima che Picture Book diventasse un jingle pubblicitario, che Wes Anderson facesse quei film, eccetera). Per anni era stato impossibile, oppure semplicemente molto costoso. Nel giro di pochi mesi bastava pensare "voglio", digitare una stringa, aspettare che in un paio d'ore una colonnina diventasse verde, e la discografia dei Kinks diventava di tua proprietà. Ma.

Ma come diceva quel professore: non fotocopiate i libri che dovete studiare davvero. Lasciate perdere i diritti d'autore e tutto l'annoso dibattito. La questione è molto più semplice. Fotocopiandoli voi avete l'impressione di studiarli. Ma non li avete studiati. Li avete soltanto sfogliati a rovescio, schiacciandone un po' la costa. A un certo punto successe la stessa cosa con i download. La fine improvvisa di Napster ci aveva lasciato un impulso all'accaparramento. Benché ostentassimo sicumera, da qualche parte sapevamo che quello che facevamo era realmente eversivo, che realmente avrebbe messo in discussione tutto un mercato musicale, il che magari era buono, ma non poteva continuare così per sempre. Prima o poi le acque del Mar Rosso si sarebbero richiuse, bisognava sgaggiarsi e scaricare tutto quello che ci veniva in mente. Io certe volte davvero non riuscivo più a immaginare niente, niente che desideravo ascoltare. Soddisfai tutte le mie voglie proibite e imbarazzanti, mi misi a setacciare allmusic alla ricerca di qualche residua lacuna, immagazzinai tutto quello che valeva la pena e molto di più, perché la pacchia p2p non poteva durare per sempre. I discorsi teorici, gli ideologemi sulla libertà e la condivisione li lasciavo agli altri: io saccheggiavo giorno e notte, e a un certo punto non ebbi più desideri.

E nel frattempo non avevo nemmeno ascoltato tutti quei dischi dei Kinks. Ero troppo impegnato a scaricare.
O meglio: li avevo ascoltati. Ma in sottofondo, facendo altro, pensando altro, perché chi aveva il tempo per ascoltare seriamente un disco, ormai, per girarlo lato a e lato b fino alla noia, fino a oltrepassare la noia, fino a quel momento in cui ti accorgi che lo sai a memoria, che il tuo bambino interiore lo sta cantando al mattino mentre ancora dormi? Era troppo tardi per innamorarsi di Arthur. Mi sarebbe piaciuto. Tornando indietro, tra Sgt Pepper e Arthur non avrei probabilmente avuto dubbi. Ma la cassettina di Sgt Pepper me l'ero procurata a 14 anni: m'era costata 14.000 lire, mille a canzone, e per 14 giorni non avevo più ascoltato nient'altro. 14 giorni per Arthur, nel 2005, non li avevo più. Non era più un problema di soldi, ma lo era mai stato davvero? Era un problema di tempo.

E poi in fondo Arthur non mi piaceva così tanto. Era bellissimo, ma dopo averlo atteso dieci anni, non potevo che restare deluso. Dei Kinks avevo già i greatest hits: senz'altro fino a quel momento mi ero perso qualche perla, ma non così tante. Riempire le lacune significava molto più spesso ascoltare dischi minori, canzoni minori, pezzi riempitivi, perdite di tempo. E il tempo era sempre più prezioso.
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With dreamland coming on

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Io credo che ai posteri la racconteranno così: prima c'era l'industria musicale, che produceva molta monnezza e qualche cosa buona, e la vendeva a consumatori disciplinati sotto forma di dischi, cassette, cd: poi arrivò l'orribile Napster e tutto crollò. Questo è più o meno il modo in cui di solito i fenomeni si squagliano e si ricoagulano in narrazioni semplificate. È pertanto mio dovere cercare di spiegare che non andò così, non proprio esattamente così. Anche prima di internet, intanto, in mezzo ai consumatori disciplinati che facevano girare l'economia c'erano torme di parassiti come me, che vivevano di musica senza quasi comprarne. E quando arrivò internet non è che ci buttammo a scaricare discografie su discografie, come successe in seguito. Non ce lo consentiva la connessione lenta, la mancanza di un sacco di roba on line, e l'inerzia. All'inizio su Napster ci si andava per altri motivi. Per cercare di recuperare le canzoni che non avresti mai trovato in giro, per esempio. Mica rarità sconvolgenti, ma mettiamo che tu abbia voglia di sentire l'originale di Spirits in the Sky, nel 2000. Dove la trovi? Ti attacchi a una radio finché non la programmano? Non passavi più tutto questo tempo in casa - e poi potavano passare anni. Fai una richiesta, come i ragazzini? Vai in un negozio? Ma non è che vuoi comprarla, la vuoi solo ascoltare una volta, così. Oggi si sa cosa fai: Youtube. La centrale degli ascolti occasionali e disimpegnati. Il posto dove vai sempre di meno perché, da qualche anno in qua, hai sempre meno voglia di ascoltare questo o quel pezzo del passato, sarà che il tempo libero si è ristretto, ma è un appetito che avverti molto meno.

Forse perché ormai è troppo facile. Come faceva Spirits in the Sky? Aspetta che digito... fatto. Soddisfazione immediata. Non c'è neanche più il tempo per desiderare. Io quando riascoltai Australia mi resi conto che me la ricordavo, che il mio bambino interiore da qualche parte aveva continuato a canticchiarla per dieci anni, senza più ascoltarla, in autonomia, come un prigioniero. Queste attese sono finite per sempre. Anni passati a domandarsi chi è che aveva inciso una Dreamland psichedelica senza i bonghi che ci metteva Joni Mitchell, poi arriva google, fai una ricerchina di tre minuti, ecco fatto. Quando dico che è finita la musica, forse alludo a questo. Non alla musica in sé, al silenzio che stava tutto intorno. Un silenzio pieno di misteri: canzoni sconosciute, passate in radio a tarda notte, bellissime e anonime, di cui a volte conservavo solo un ritornello in testa. Arrivò Google, e la prima cosa che feci fu cercarle. Arrivò Napster, e me le scaricai, e fu bellissimo per i primi tre mesi, fu l'infanzia ritrovata, e l'adolescenza, e tutti i suoi sogni, tutti in una volta. All saints, all sinners shining.

Prima o poi saltarono tutti i misteri. Bastava ricordare una sola stringa di testo, e prima o poi la canzone saltava fuori. L'unica che resisteva era quella maledetta canzone che ascoltavo sul Panasonic della prima comunione, perché... perché non ricordavo nulla del testo, ero troppo piccolo per riconoscere una sola parola del testo, ricordavo solo survaivor, ma continuavo a incocciare nella colonna sonora di Rocky, che non c'entrava nulla. E intanto il mio bambino interiore cantava, cantava, sempre più eccitato. La ricerca durò anni.
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Parassita nei '90

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Manifesto dei finti pezzenti

Io, per tutta l'adolescenza e la giovinezza - quella fase così cruciale in cui il giovane Consumatore veniva scandagliato e monitorato e segmentato e targettizzato e sifonato - sono stato un pezzente. Un pezzente orgoglioso ed estremamente consapevole, anche un po' ipocrita, un fintopovero, un poser? La cosa era più complessa. C'è un personaggio dostoevskijano che a un certo punto attraversa una lunga seria di peripezie che ho dimenticato, ma in sostanza ha una necessità impellente, cogente, di denaro: ne va della sua vita, del suo buon nome, eccetera eccetera, e quindi lui attraversa steppe e taighe alla ricerca di questo denaro; forse a un certo punto commette anche un orribile delitto, eppure per tutto questo tempo conserva appeso al collo un borsellino con un rotolino di rubli che avrebbe risolto ogni suo problema, ma non lo può toccare, per una questione di onore, ecco, io ero un po' così: non è che mi mancassero i soldi, ma non li volevo toccare. Non mi facevano schifo, i soldi non mi hanno mai fatto schifo. Avevo invece per essi un profondo rispetto, in gran parte dovuto al fatto che non li stavo guadagnando io.

C'entrava tantissimo aver scelto un corso di studi che mi condannava quasi certamente a una carriera improduttiva e profitti modesti. Qui cominciavano ad annodarsi tutti i miei fallimenti futuri: invece di preoccuparmi di come fare a guadagnare, io negli anni della mia formazione ero ossessionato dalla questione di come risparmiare. Mi doveva sembrare più logico, più alla mia portata, chi lo sa. Poi studiavo a Bologna, un luogo dove gli studiosi delle scienze umane dividono il portico con gli accattoni e i pancabbestia, e questo deve avermi probabilmente ispirato tutta una serie di riflessioni, di quelle che si fanno mentre si corre a prendere un treno, e poi non ti mollano più fino a casa.

Insomma io in quegli anni in cui la mia generazione era nel punto di massima esposizione consumistica, nel punto in cui dai nostri consumi dipendeva un giro di affari e di indotto che valeva svariati punti del PIL, composi nella mia testa una specie di Manifesto del Pezzente, in cui in sostanza spiegavo che l'intellettuale (tipo io) è effettivamente un parassita della società, e che è normale che abbia comportamenti parassitari, come appoggiarsi sulle grate della metropolitana per scaldarsi - no, questo veramente lo fanno i barboni, ma secondo me avrebbero potuto farlo anche gli intellettuali, non ci vedevo nulla di male. Non mi lamentavo nemmeno, non è che accusassi il sistema di trattarci da parassiti: no, per me la cosa era abbastanza buona e giusta. Eravamo parassiti, facevamo le cose buone e cattive che di solito i parassiti fanno; segnalare i problemi, tenere pulito l'ambiente metabolizzando i rifiuti, eliminare le carcasse, dare il colpo di grazia a chi se lo merita. Un po' ci credo anche adesso, anche se non reclamo più l'etichetta di "intellettuale". Però per esempio quello che faccio qui, da tanti anni, è ancora una pratica parassitaria: mi nutro di cose che non mi appartengono, punzecchio, irrito, attacco i morti ignari (di essere morti), sono sempre quello lì. E non pretendo di essere pagato per fare queste cose, ci mancherebbe. Mi accontento di quel che riesco a trovare qua e là, un buon parassita deve sapersi accontentare.

D'altro canto essere parassiti negli anni '90 era uno stile di vita che poteva regalare soddisfazioni. Si trattava di comprare il meno possibile, approfittando senza nessuna vergogna - il parassita non si vergogna - della calda brezza che esce dalla grata, dell'enorme offerta culturale che arrivava nelle città, anche piccole. Stavano aprendo biblioteche bellissime; i comuni più illuminati gestivano fonoteche dove noleggiavano CD con sopra scritto "proibito il noleggio". D'estate si riusciva persino a trovare dei concerti notevoli, gratis. E poi ovviamente si duplicava, si masterizzava, si fotocopiava, senza vergogna e anche con un certo orgoglio. Si approfittava delle falle del sistema perché è questo quello che i parassiti fanno. Io sapevo perfettamente che fotocopiando un libro di un mio insegnante gli causavo un danno, e mi andava benissimo. Allo stesso modo non potevo ignorare che copiando un CD di un musicista gli toglievo un guadagno, e la cosa non mi creava nessun problema. Me ne crea adesso, forse perché non sono più un vero parassita, forse perché sono stanco di vivere di espedienti e mi piacerebbe obbligare degli studenti a comprare un mio libro, o essere iscritto a qualche albo che ogni mese mi versasse dei soldi per le opere di ingegno che senza dubbio da qualche parte avrei composto. Me ne crea adesso perché un conto è minare le fondamenta del sistema, un conto è trovarsi a vivere sulle fondamenta dopo che è davvero crollato: si rimane lì un po' perplessi, forse non volevamo davvero che finisse tutto, forse ci bastava soltanto punzecchiare qua, suggere là, per quanto ne dicessimo peste e corna ci eravamo affezionati, alla vecchia carcassa. Forse non ci aspettavamo di essere così tanti.

Ma in effetti non eravamo così tanti. Quel che ha veramente cambiato le cose, da un certo punto in poi, è stata la tecnologia.
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Guarda indietro con imbarazzo

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La mia generazione sarà tenuta prima o poi a render conto di un fatto paradossale e imbarazzante: avevamo una cosa, una cosa sola a cui tenevamo veramente, e l'abbiamo uccisa. Era la musica. Perché lo abbiamo fatto?

Sono cose di cui abbiamo discusso milioni di volte, però stavolta faccio lo sforzo di rivolgermi al futuro, un ipotetico futuro che dia per scontato che in Occidente tra il secondo dopoguerra e i '90 c'è stata un'importante fioritura artistica di questo genere che possiamo chiamare musica leggera - che si è interrotta più o meno nello stesso momento in cui la gente ha definitivamente smesso di comprare le canzoni, grazie al dilagare di tecnologie che consentivano di condividere la musica eludendo il mercato. Potrebbe anche trattarsi di una coincidenza, ma in quel futuro sono quasi sicuri che non lo sia: i soldi sono finiti più o meno quando è finita la creatività. Cosa possiamo dire a nostra discolpa?

Prima scusa: non lo sapevamo. Cioè, potevamo immaginarci che tra il mercato musicale e la creatività ci fosse qualche connessione (io me lo immaginavo almeno nel 2001, quando chiusero Napster), ma non ne eravamo proprio sicuri sicuri. Gli spagnoli non lo sapevano, che portando in Europa l'oro del Nuovo Mondo stavano facendo abbassare la quotazione del medesimo, e causando un generale aumento dei prezzi; pensavano: "ehi, il pane diventa ogni giorno più caro, che si fa? Andiamo a prendere altro oro in America, così risolviamo il problema". Forse ragionavamo così: ci lamentavamo che ogni anno ci fosse sempre meno roba buona, e intanto ne scaricavamo sempre di più. Questa scusa equivale più o meno a invocare l'insanità mentale, e quindi magari per il momento l'accantoniamo.

Seconda scusa: il sistema era tutt'altro che perfetto. Magari voi nel futuro pensate che fosse una cosa semplice: inserisci la monetina, e dall'altra parte c'è un artista che si guadagna l'autonomia per creare qualcosa di nuovo e piacevole. No. Gran parte delle monetine finivano nelle mani di chi produceva mangime industriale. Una piccola percentuale veniva effettivamente reinvestita in ricerca, e in questo modo a un certo punto il mercato riusciva ad accorgersi di artisti interessanti e a metterli a contratto, però tutto questo a noi non sembrava affatto perfetto, ed effettivamente non lo era. Cioè ma vi ricordate quanti soldi facevano i divi negli anni Ottanta? Ne facevano veramente troppi, e spesso sbroccavano. Noi di tutto il sistema vedevamo solo gli eccessi, e non ci piacevano. Non stavamo rubando musica ad artisti disperati sull'orlo del suicidio. All'inizio la stavamo rubando a scapestrati che non sapevano dove sbattere i soldi, e al loro indotto di puttane e pusher, vabbe', pazienza. C'era anche un certo moralismo nel nostro febbrile downloading. Li volevamo punire, perché guadagnavano troppo. C'era anche dell'invidia, certo, noi nel frattempo perdevamo potere d'acquisto - forse esagero, ma a me è capitato di vivere il boom di Napster e di ricevere la mia prima busta paga, orribilmente bassa, nelle stesse settimane, e mi è impossibile non collegare le due cose.

Terza scusa: voi non avete idea (voi del futuro, intendo) di cosa fosse il mondo in cui noi siamo nati e cresciuti, il Consumismo. Vi guardate le vostre clip degli anni Ottanta, tutte restaurate coi colori fluo al posto giusto, e pensate che doveva essere bellissimo consumare tutte quelle cose - ma tutte quelle maledette cose costavano, e noi dovevamo pagare, pagare sempre, sin da piccoli col PacMan, e le centolire non ci bastavano mai, noi forse ci salvammo dall'eroina perché avevamo già iniziato a ragionare da eroinomani a sette anni con le centolire per il PacMan, quando tutto quello che ci interessava veramente era un'altra manciata di centolire. E poi i vestiti, e i dischi, e i libri, e man mano si andava avanti si scoprivano sempre più mondi interessanti, ma non era come oggi: di ogni mondo ti facevano vedere soltanto uno spiraglio, un bagliore ammiccante, e se volevi entrare anche solo a fare un giro dovevi pagare. Per dire: hai notato quel mezzo vecchio video di David Bowie? Interessante, vero? Ti interessa sapere che dischi faceva dieci anni fa? Paga. Sai quanti ne ha fatti? Comincia a mettere da parte i soldi, e prega di trovarne qualcuno a metà prezzo, o uno zio che te ne presti. Magari qualcuno è brutto e non vale la spesa, ma come fare a saperlo? Da qualche parte ci dev'essere anche un libro che ti orienta. Paga. E avresti sempre dovuto pagare, e tutta la cultura che avresti ammucchiato l'avresti conteggiata in multipli di centolire.

Voi che adesso giudicate, voi potete giocare a Pacman gratis dal gabinetto di casa vostra per ore, finché non vi si marmorizza il culo - ma probabilmente Pacman smette di essere interessante nel momento in cui dal destino del mangia-fantasmini non dipende nemmeno un centolire. In pochi minuti vi potete scaricare la discografia completa di Bowie, che non ascolterete mai: chi ce l'ha il tempo e l'attenzione per una discografia completa? Poco importa, su Wiki in pochi clic potrete sapere cosa vi conviene ascoltare e cosa no. Non scoprirete mai nulla che non sappia già il più stupido contribuente alla pagina wiki su Bowie, ma probabilmente il concetto di scoperta personale vi è alieno tanto quanto l'arcana iscrizione INSERT COIN.

Ecco, voi non potete capire che importanza avesse in quegli anni condividere, registrare, duplicare, masterizzare, prestare, non restituire, e poi finalmente scaricare. Era la lotta al Consumismo. Era la resistenza umana. Era l'unico modo per imparare qualcosa in più, perché il mondo era già vastissimo e complicatissimo, e le centolire per accumulare conoscenza non sarebbero bastate mai.

Quarta scusa: eravamo tirchi. Io, almeno, tirchissimo: non per inclinazione, ma per ideologia. Questa magari ve la racconto un'altra volta.
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L'ultima canzone al mondo (era piratata)

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You wouldn't steal a nightmare
C'è un ragionamento che mi piacerebbe portare avanti quest'agosto, se ho tempo - e non è detto - che potrei cominciare da mille parti, per esempio da qui: hanno scoperto che la colonna sonora del più famoso spot antipirateria è... piratata. La cosa si presta a considerazioni ironiche che avete già fatto da soli, bravi - quando l'ironia si deposita, rimane un'osservazione quasi disperata: è capitato a tutti di piratare qualcosa per scelta, ma sembra proprio che a un certo punto dell'ultimo decennio non piratare sia diventato impossibile; al punto che piratavano anche i signori del copyright... vabbe'.

Quando ho letto la notizia mi è venuta in mente una cosa. Sono uno dei pochi che quel pezzo lo ascolta ancora, probabilmente; non perché noleggi ancora i dvd, ma ne ho comprati usati, e mi capita di guardarli, non da solo - non guardo più dvd da solo da ere immemori - ma in classe. Sì, sono dvd da combattimento che uso per proiettarli nelle aule scolastiche. Quando ci sono situazioni difficili e compromesse, supplenze, ponti soppressi, cose del genere, io arrivo col carrello, il vecchio monitor col tubo catodico, l'unico lettore dvd che funziona ancora (i lettori dvd si rovinano con niente), spengo la luce, abbasso le tapparelle, e carico questi vecchi dvd con il brano anti-pirateria un po' ansiogeno. Ma ansiogeno per modo di dire, penserete voi, cioè si sa, nei blog si esagera... no.

Non sto esagerando.
I dodicenni, quando carico questi dvd col brano antipirateria e le immagini tutte mosse, si agitano.
Anche i tredicenni.
Mostrano chiari segni di disagio.
Al che io non pauso - non posso pausare - ma accendo le luci e dico: ehi, scherzate? È solo una pubblicità, eddai, mica fanno sul serio. Cioè: è vero. Piratare è un furto. Ma piantatela di tremare, su. Passano pochi secondi ed è tutto finito, stanno già pensando ai fatti loro, al laptop in standby che li aspetta a casa col torrent del MagicoMondoDiPatty. Però accidenti, per qualche minuto ha funzionato. Gli adulti queste cose non le capiscono. Stanno sempre tra loro, hanno tutti questi filtri, queste ironie, tutta una struttura di diaframmi e di intercapedini che gli consente di non notare la differenza tra una lieve inquietudine e un gancio nel plesso solare. I ragazzini no, i ragazzini quando una cosa li fa piangere, piangono. Quando una cosa li rende nervosi, s'innervosiscono. Quello spot li rende nervosi. Perché?

Forse perché parla di loro. Che non hanno mai rubato, mai picchiato, mai fatto niente di male tranne, ehi, piratare questo o quel gioco, quel film, quel, come si diceva una volta? "Disco". Per la prima volta qualcuno osa mettere in dubbio la loro integrità morale. Neanche i preti ci provano più, assolvono tutti. In molti casi è un'ansia già retrospettiva. Quando gli chiedo cos'hanno, mi dicono che da bambini quella musica e quelle immagini mettevano loro tanta pura. Insomma sono entrato nella classe senza dire niente e ho iniziato a proiettare gli incubi della loro infanzia, Belfagor. Un mostro.

Forse è semplicemente uno spot ben fatto. La missione era spaventare: missione compiuta. Tendiamo a dimenticarci che anche lo spot migliore ha come obiettivo ideale "un undicenne neanche tanto intelligente". Tutti gli altri continueranno a scaricare e scambiare senza provare nessuna inquietudine - ma nel frattempo abbiamo messo l'ansia a una generazione di ragazzini. Vabbe', pazienza, sarebbe successo in un modo o nell'altro.

Qualcosa da aggiungere? Sì: in questi anni in cui abbiamo smesso tutti di ascoltare la radio, e ci siamo rinchiusi nelle nostre playlist autistiche, permettendoci soltanto qualche saltuaria incursione in podcast rigorosamente gestiti da amici di comprovata affinità elettiva; in questi anni in cui i negozi di dischi hanno chiuso e le tv musicali hanno smesso di programmare musica... forse questo è stato l'ultimo pezzo che abbiamo ascoltato tutti. Perché eravamo costretti, non si poteva skippare col telecomando, dovevamo ciucciarcelo tutto, e non lo sapevamo, ma forse la musica è finita lì. Era l'ultimo pezzo. Quella che stiamo ascoltando adesso non è più proprio musica, forse è un'altra cosa. È un'idea. Volevo provare a svilupparla nei prossimi giorni, non so se avrò tempo.
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(Le giornate si accorciano)

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La notte della rete in diretta in streaming (meglio tardi che mai).


Online video chat by Ustream
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Ho plagiato Hugo Proff

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Aggiornamento: Hugo ha chiesto scusa e ora sul suo blog riconosce le fonti dei post che ha... preso in prestito. Per quel che mi riguarda siamo a posto così.

"Personalmente mi ritengo soddisfatto quando un mio Post o comunque un Articolo postato su questo Blog gira per la rete.
L’unica cosa che chiedo è mettere un link al sito.
Poi esiste un’altra classe di furbacchioni che non soltanto copiano, ma addirittura postano l’ articolo con data precedente allo stesso, spacciandolo per proprio.
I più odiosi".



Il copione

Lo so che qualcuno penserà che questo è solo un patetico tentativo di salvarmi in corner. Ormai Hugo Proff è sulle mie tracce. Ha snidato Ghebreigziabiher, e ben presto troverà anche me. Questione di giorni, ore, forse minuti.

Eppure il mio pentimento è sincero. Eppure nel fondo del mio cuore ho sempre saputo che stavo facendo qualcosa di sbagliato, di orribilmente sbagliato. Ho copiato per mesi i suoi bei post, sporcandoli appena un po' con la mia prosaccia schifosa. L'ho saccheggiato a man bassa, pensando che non se ne sarebbe mai accorto. Tanto è roba che sta su internet gratis, pensavo.

Il pezzo su Ferrara, per esempio. È tempo di ammetterlo: è farina del suo sacco. Lo potete leggere sul blog di Hugo Proff, nella giornata di lunedì 14 febbraio. Io l'ho preso da lì, compresa la citazione di quel Bertolt Brecht che non so bene chi sia (uno svaligiatore di banche, credo), e l'ho pubblicato pre-datandolo, in modo che tutti credessero che lo avessi scritto io. Perché sono astuto, io, nella mia cialtronaggine. E siccome non scrivo bene come Hugo, ahimè, ho cambiato qualche espressione qui e là (per esempio ho tolto i riferimenti alla sua tumultuosa vita personale, non avendo io nessuna vera “vita”, in realtà passo il tempo su internet a copiare i pezzi degli altri). Ho tolto molti a capo, per dissimulare l'eleganza stilistica di Hugo. Ho sostituito “Berlusconi” a “Psico-pedo-papi”, il divertentissimo epiteto coniato da Hugo, che è il suo marchio di fabbrica più riconoscibile. E poi, sentite un po' che ho fatto, perché è da dettagli come questi che si capisce che povera persona sono: ho plagiato anche i commenti. Esatto, ho preso i commenti in calce al suo pezzo, li ho copiati e li ho reincollati in calce al mio, perché io a uno bravo come Hugo gli invidio anche i commenti, se fossimo due cani gli invidierei le pulci sotto i coglioni.

Ma ho fatto di peggio. Qualche settimana fa Wikimedia Italia mi chiese un contributo per 10annidisapere.it, il blog che festeggia il decennale di Wikipedia. Io accettai con entusiasmo, e... siccome non avevo nemmeno ben chiaro cosa fosse, Wikipedia, andai a documentarmi in uno dei pochi blog italiani che valgono la pena, ovviamente il blog di Hugo Proff (che scrive anche sul Fatto Quotidiano, non si sa bene dove, forse tra le righe). Dove infatti trovai un pezzo con un punto di vista molto interessante... che copiai di pacca, anche in questo caso modificando lo stile qua e là, allungando il brodo succulento con le mie scipite esperienze d'insegnante, perché nessuno mi crederebbe, se di colpo mostrassi di saper scrivere bene come Hugo Proff.


Vent’anni dopo è successa una cosa straordinaria.
La possibilità di andare su internet quando vogliamo. Qualsiasi domanda ci venga in mente… tu digiti, e in pochi secondi internet ti risponde. E così mi sono reso conto di una cosa.
Oggi i computer assomigliano molto di meno a quegli scatoloni vuoti che ho cominciato a usare gli albori cibernetici, e molto di più a quei cervelloni che sognavo da bambino.
Vent'anni dopo è successa una cosa straordinaria. Mi hanno montato una lavagna interattiva in una classe, e ora possiamo andare su internet quando vogliamo. Qualsiasi domanda ci venga in mente... tu digiti, e in pochi secondi internet ti risponde. I ragazzi ci si abituano subito, del resto la maggior parte ha già internet in casa, e le ricerchine le sanno fare, anche solo per trovare le specifiche di un videogioco. E così mi sono reso conto di una cosa.

Oggi i computer assomigliano molto di meno a quegli scatoloni vuoti che ho cominciato a usare alle medie, e molto di più a quei cervelloni che sognavo da bambino. Guarda il modo in cui li usano i ragazzi: fanno domande, e il computer risponde. 


E poi che altro c'è... ah, sì, pensate, in settembre Proff scrisse un altro pezzo lungo e curioso sull'ora di religione, non so bene il perché lo fece proprio in quel momento: so solo che in quel periodo ero alla disperata ricerca di cose interessanti da scrivere, e così... sì, lo copiai anche quella volta. Senza pietà. Ma per aggiungere verosimiglianza alla cosa, lo pre-datai di cinque mesi, al maggio 2010, rendetevi conto della mia intelligenza diabolica, in modo che sembrasse scritto immediatamente dopo la sentenza del Consiglio di Stato di cui si parla nel pezzo!

Bene, la pacchia è finita. Stamattina Hugo Proff si è accorto che un altro ladruncolo come me lo scopiazzava, e ha minacciato di tirar fuori il suo nome e il suo cognome, nientemeno! La gogna mediatica! La stessa che meriterei io. Spero soltanto che questo mio tardivo autodafé possa in qualche modo rabbonirlo.

Hugo, davvero, mi dispiace. Fino a un certo punto non mi ero nemmeno reso conto. Trovavo i tuoi contenuti in giro per la rete, tutto quel ben di Dio disponibile gratis, e pensavo che non ci fosse niente di male a rubare qualcosa che è gratis.

Ora ho capito che quel che ho fatto è terribilmente grave e stupido. Stupido, perché prima o poi te ne saresti accorto. Grave, perché saccheggiando i tuoi bei contenuti, sporcandoli col mio brutto stile, e rimettendoli in circolo col mio nome, io ti ho tolto l'unica proprietà a cui tenevi: la proprietà delle tue idee... ma no, nemmeno quella in realtà, le idee sono di tutti. Il tuo stile. È tutto quello che sei. E io l'ho preso, l'ho strapazzato e me lo sono messo indosso, indegnamente. Avrei mai potuto farti qualcosa di peggiore?

E ora cosa farai? Mi denuncerai (dopotutto non ho rispettato le licenze d'uso)? Pubblicherai il mio nome e il mio cognome e l'indirizzo IP, su una pagina ben indicizzata da google, con il resoconto preciso e gli screenshot di tutte le mie malefatte? Beh, forse me lo merito. Che tutti sappiano, googlandomi, che razza di individuo sono. Eppure imploro pietà. Non sono cattivo. Sono soltanto uno che ha cominciato a giocare senza aver capito le regole. In fondo sono ancora nuovo dell'ambiente.

Insomma, se tolgo tutti i pezzi che ho scopiazzato e chiedo pubblicamente scusa a tutte le persone a cui li ho scopiazzati, tu me la daresti una seconda possibilità?
[Grazie a Mazzetta, come sempre].
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Ritorno del Coccodrillo à Pois

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Copiare è ok, ma

In margine al pezzo già lunghissimo di venerdì, alcune osservazioni:

1. Per chi non l'abbia letto (vi capisco): in sintesi, gli articoli 'in memoria' di Lelio Luttazzi pubblicati dai quotidiani all'indomani della sua scomparsa erano tutti troppo simili. Identiche le informazioni (e fin qui non ci sarebbe nulla di male), identiche le imprecisioni, i modi di dire, persino gli errori di ortografia. Si parla di dozzine di organi di informazione. Gran parte riceve dallo Stato i contributi per l'editoria. Gran parte etichetta le sue pagine con la dicitura © riproduzione riservata.

2. La fonte principale degli scopiazzamenti erano due agenzie di stampa. Nei commenti è stato fatto presente che è normale per i quotidiani attingere dalle agenzie; che pagano per farlo: insomma, la riproduzione è “riservata” a loro. Giustissimo. Purtroppo anche le due agenzie sembrano essersi scopiazzate a vicenda. Il problema è alla radice. Se è normale che i giornalisti peschino dalle agenzie, da dove pescano le agenzie?
Nel caso di Luttazzi è a questo livello che è successo un guaio, perché l'agenzia ha diffuso una frase che lasciava intendere che il personaggio non fosse stato completamente scagionato da una “vicenda di droga”. Luttazzi invece da quella vicenda è saltato fuori pulito, malgrado i venti giorni in galera abbiano contribuito ad allontanarlo dai palcoscenici tv. A poche ore dalla sua scomparsa, i quotidiani di tutt'Italia hanno scritto che la vicenda aveva dei contorni “mai chiariti” (???) e che le colpe “non erano tutte sue”. Perché lo avevano letto sull'agenzia. Ma l'agenzia da chi lo aveva saputo? Se n'è accorto DestraLab: la fonte della frase incriminata sarebbe un pezzo di Repubblica del 2003, dove si legge identica (e nello stesso pezzo, finalmente! c'è l'accento giusto su rentrée). Ricapitolando: un quotidiano scrive un'inesattezza, l'agenzia la ricopia, tutti i quotidiani copiano l'agenzia (e hanno il diritto di farlo), Luttazzi viene infamato per l'ennesima volta. Se succedesse a me non sarei contento.

3. Di chi è la colpa? Un'agenzia non è un'enciclopedia: il suo ruolo era quello di dare succintamente la notizia che Luttazzi era morto. Poi, per spiegare chi fosse questo signore, ha aggiunto un profilo biografico: ma siccome non è un'enciclopedia, ha messo insieme informazioni trovate on line alla bell'e meglio, tanto poi i quotidiani le avrebbero vagliate. Ma era già giovedì, e venerdì si scioperava; faceva caldo; di questo tal Luttazzi non si ricordava bene nessuno... insomma, è andata così. Magari di solito va meglio. Magari. Perché poi è inutile lamentarsi che nessuno compra i giornali. Per quale motivo l'utente medio dovrebbe voler spendere per leggere la copia non corretta di qualcosa che è già gratis on line? Qual è il valore aggiunto?

4. Un giornalista che copia così, o ha molta fretta (troppa), oppure è convinto che nessuno se ne accorgerà. Si comporta come se il tasto “cerca” di Google fosse suo esclusivo privilegio, quando ormai sta nella homepage di vecchi e bambini. I giornalisti forse non hanno capito che con internet non cambia soltanto la paginazione, ma anche il rapporto coi lettori. Il lettore del cartaceo ha scelto proprio quel quotidiano, e difficilmente può sfogliarne un altro per accorgersi che i contenuti sono identici. Il lettore via internet ha un approccio diverso. Non necessariamente più intellettuale. Ma provate a pensare agli utenti di youtube. Come si comportano? Quando trovano un video interessante, ne cercano di simili. Se ne trovano uno identico, lo riconoscono subito e cliccano oltre. Non sono intellettuali, sono nonni o bambini, e a volte siamo noi. Su internet ci comportiamo così. Il lettore che trova un articolo interessante su Luttazzi può rimanere incuriosito dalla vicenda e cercarne altri che la illustrino meglio. Ci mette pochi secondi, e ancora meno ad accorgersi che i testi sono simili o identici. Un quotidiano su carta può permettersi di copiare, ma un quotidiano on line che copia così è spacciato.

5. Con un po' di tempo sui quotidiani sono arrivate anche i famosi contenuti di qualità: per esempio l'Unità di sabato aveva un bel ricordo di Fazio. Nel frattempo il Corriere pubblicava questo pezzo di Grasso, che ci dice una cosa interessante: Luttazzi ogni tanto querelava (vincendo) quelli che lo davano ancora per implicato nel famoso scandalo. Avrebbe quindi querelato anche il Corriere di due giorni prima? Ma dunque i quotidiani hanno le risorse per fare informazione di qualità: il problema è che non sono tempestivi, ovvero, non sono abbastanza “quotidiani”. Può anche darsi che lo sciopero di venerdì abbia complicato le cose: in ogni caso il mio quotidiano ideale è quello che a cadavere caldo ha già nel cassetto il pezzo di Grasso. Il caro vecchio coccodrillo, esatto.

6. Se la prendono in tanti col Post perché molti suoi articoli sono semplicemente citazioni da altri organi di stampa: ma al Post non fanno altro che rendere esplicito il meccanismo con cui tutti i quotidiani producono i loro “contenuti”.

7. Il problema non è che i quotidiani copiano. Continueranno a farlo, perché è troppo facile, e l'alternativa (produrre contenuti originali) troppo costosa. Il problema è che il sistema permette la diffusione di notizie incontrollate, come l'infamia su Luttazzi. Quello che vorrei dai quotidiani è il cosiddetto fact-checking: copiate pure le agenzie, ma verificate ogni singola affermazione che fanno (e già che ci siete, sì, anche un controllo all'ortografia). Quando un'informazione non si riesce a verificare (non era certo il caso della fedina penale di Luttazzi), è meglio fare come al Post: citare la fonte.

8. Venerdì citavo Wikipedia. In realtà l'articolo su Luttazzi di su Wikipedia Italia è ben lontano dall'essere perfetto. Non si tratta di allungare la polemica tra contenuti liberi amatoriali (wiki) e contenuti professionali coperti da copyright. Wikipedia per me è soprattutto un metodo. Nei primi anni ci rovesciavamo dentro tutto quello che sapevamo, senza preoccuparci troppo di spiegare perché lo sapevamo, chi ce l'aveva insegnato. Col tempo Wiki ci ha insegnato l'importanza delle fonti. In teoria (ed è una teoria ancora lontana dalla realtà, ma non importa) tutte le informazioni inserite su Wiki dovrebbero rimandare a una fonte. Questo rende a tutt'oggi Wiki una risorsa impagabile: non per i contenuti, che possono essere scarsini, ma per le fonti a cui punta. Per esempio, io non riuscivo a capire come si conciliava la “caduta in disgrazia” di Luttazzi dopo lo scandalo del 1970 col fatto che continuasse a lavorare in Rai fino al 1976. Nessun quotidiano me lo spiegava. Invece nella pagina di discussione su Wiki qualcuno ha spiegato che a partire dal 1970 Luttazzi smise di essere un personaggio tv: il varietà che aveva condotto fino all'anno prima cambiò conduttore. Ma quel che è importante, è che questa affermazione puntava a una fonte: una pagina della Rai con l'organigramma dei varietà dal 1954 al 2006. Ecco, questa è un'informazione verificata. Questa si può copiare.

9. Perché il problema non è copiare. Copiare è ok. Il problema è copiare le cose giuste. Sapere dove trovarle e sapere come verificarle. A quel punto copiare diventa così impegnativo che l'alternativa – produrre contenuti originali – diventa quasi preferibile.
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Coccodrillo à pois

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E invece sei più cinico di me!

Salve, sono Leonardo, e per molti di voi sono un fenomeno. No, magari per te che stai leggendo in questo momento sono solo un poveretto, ma ti garantisco che qui passa gente convinta che io potrei subentrare a Eugenio Scalfari da un momento all'altro, e se non lo faccio è soltanto perché sono troppo timido io, oppure per via che in Italia non c'è la meritocrazia eccetera... Balle. Chi mi conosce veramente lo sa. Io non sarei un bravo editorialista, in effetti non lo sono. La verità è assai più prosaica.

Io ero nato per scrivere i coccodrilli.
Lo sapete cosa sono i coccodrilli, no? Quei pezzi che si scrivono in morte del tal personaggio famoso... quando però il personaggio è ancora in vita. Dove si finge tristezza, quando in realtà ci si sta soltanto portando avanti col lavoro. A dire il vero i miei non sono veri coccodrilli: mi è capitato soltanto una volta di mettermi avanti, e non ne vado fiero. Di solito scrivo a corpo già freddino.

Però non ne sbaglio uno. Personaggi di reality, poeti di neoavanguardia, presentatori senza scrupoli, attori decrepiti, musicisti dimenticati (forse giustamente), fumettisti oscuri, tenori strampalati, ciclisti tossicomani, io riesco a spremere una lacrimuccia per tutti. Sarà che più si diventa vecchi... Ma no, è proprio un dono di natura. Che comunque va esercitato.

Il problema è che di Lelio Luttazzi io so pochissimo, giusto qualche antica canzone e ricordi confusi di repliche in bianco e nero. Le poche cose che so, tra l'altro, non combaciano: da qualche parte ho letto che condusse Hit Parade in radio per tantissimi anni, fino a metà dei '70. Ma da qualche parte ho appreso che proprio nel 1970 fu coinvolto in uno scandalo di droga, e che la sua carriera s'interruppe bruscamente. Eppure non smette di condurre Hit Parade, com'è possibile? La verità è che non ne so niente. In quel periodo ero molto impegnato a venire al mondo.

Comunque non è un problema. Questione di mezza giornata, il tempo che serve alle redazioni per tirare fuori i loro veri coccodrilli, a stamparli e poi metterli on line. Nel giro di poche ore la rete sarà piena di informazioni sulla vita di Lelio Luttazzi, e saranno tutte notizie sicure, messe insieme da giornalisti seri, che hanno avuto il tempo di prepararsi e che possono accedere ad archivi importanti. Meno male che esistono, questi giornalisti. Altrimenti non saremmo mai sicuri di niente. Sarebbe tutto un enorme sentito dire. V'immaginate che caos?

Lascio passare dunque una mezza giornata, e poi consulto il Corriere (Luttazzi m'ispira Corriere, saranno i doppiopetti).

Lelio Luttazzi era nato a Trieste (la «sua» Trieste) il 27 aprile del 1923: aveva compiuto 87 anni. È stato uno dei personaggi di maggior successo della canzone italiana degli anni '50 e '60 ma soprattutto un protagonista della televisione, dell'epoca d'oro di Studio Uno, della radio e del cinema. Tra i primi ad inserire nella canzone italiana le strutture del jazz, un modo di comporre "swingato"...

Vabbè, fin qui ci siamo.

Probabilmente l'apice della popolarità lo ha toccato grazie ad «Hit Parade» uno dei più longevi programmi radiofonici, uno dei primi esempi italiani di trasmissione dedicata alle classifiche trattate con lo spirito del varietà. L'annuncio con il titolo dilatato ('Hiiiiiit Parade!!) come in uno spettacolo di Broadway è rimasto nella memoria del pubblico italiano che seguiva la radio negli anni '60-'70.

Ahimè, non nella mia. Ma quella storia dello scandalo?

...ha visto interrompersi bruscamente la sua parabola artistica quando è rimasto coinvolto in una vicenda di droga dai contorni mai chiariti della quale è risultato in un primo tempo responsabile di colpe che non erano tutte sue. Questo episodio, insieme all'atteggiamento di alcuni colleghi che gli erano più vicini e che certo non lo hanno aiutato in quel momento così difficile, hanno spinto Luttazzi ad una volontà di esilio da quale è uscito soltanto raramente per qualche piccolo spettacolo con alcuni musicisti amici.
© RIPRODUZIONE RISERVATA


Fine dell'articolo. Non dice molto. Notate quante ambiguità: “Contorni mai chiariti”, “colpe che non erano tutte sue” (quindi aveva alcune colpe? Quali?), “alcuni colleghi” (chi?) È il classico pezzo di qualcuno che non ha accesso a informazioni di prima mano e non vuole sbilanciarsi (me ne intendo). Insomma, non è un vero coccodrillo. Non è stato scritto mesi fa, e poi chiuso in un cassetto in attesa che venisse utile. È stato buttato giù in fretta da qualcuno che non aveva tempo per documentarsi.

Cosa pensare? I coccodrilli sono cinici, ma professionali. E se smettono di essere cinici i giornalisti, dove lo trovo io il materiale per fare un pezzo empatico e straziante? Mi sarebbe piaciuto leggere un bel pezzo documentato sulle traversie giudiziarie di Luttazzi, magari piagnucolare un po' sul modo ingiusto in cui si è interrotta la sua carriera. Ma in realtà non sono ancora sicuro che si sia interrotta bruscamente, o in modo ingiusto. Non ne so niente.
Vabbè, mi dico, il Corriere ha bucato. Proviamo la Stampa.

Il maestro e compositore Lelio Luttazzi è morto la scorsa notte nella sua casa, a Trieste. Lo si è appreso dal suo amico e agente, Roberto Podio, portavoce della famiglia. Aveva 87 anni e soffriva da tempo di una neuropatia. È stato uno dei personaggi di maggior successo della canzone italiana degli anni '50 e '60 ma soprattutto un protagonista della televisione, dell'epoca d'oro di Studio Uno, della radio e del cinema. Tra i primi ad inserire nella canzone italiana le strutture del jazz, un modo di comporre 'swingato'...

Ehi ehi, un momento. L'ho già letto, questo pezzo.

...ha visto interrompersi bruscamente la sua parabola artistica quando è rimasto coinvolto in una vicenda di droga dai contorni mai chiariti della quale è risultato in un primo tempo responsabile di colpe che non erano tutte sue. Questo episodio, insieme all' atteggiamento di alcuni colleghi che gli erano più vicini e che certo non lo hanno aiutato in quel momento così difficile, hanno spinto Luttazzi ad una volontà di esilio da quale è uscito soltanto raramente per qualche piccola rentreè con alcuni musicisti amici.

Oddio, qualche differenza c'è: per esempio, nella versione della Stampa al posto di “spettacolo” c'è “rentrée” (con un errore di ortografia, ma passi). Ma al Corriere lo sanno che la Stampa li scopiazza così? E se fosse la Stampa che scopiazza il Corriere? Tanto comunque ne sanno poco entrambi. Che fare?
Proviamo la stampa locale. Una cosa che ho capito è che Luttazzi è nato e morto a Trieste. (La "sua" Trieste). Figurati se al Piccolo non gli hanno preparato un coccodrillo decente...

Lelio Luttazzi era nato a Trieste (la "sua" Trieste)...

No. Anche il Piccolo no.
Ora, io lo so che scrivere profili biografici è molto meno facile di quanto sembri. Mi è capitato di farlo per lavoro, e il mio lavoro consisteva esattamente in questo: scopiazzare informazioni a destra e manca. Però mi hanno insegnato che oltre a copiarle devo cambiarle un po', lavorare di sinonimi, rimescolare la sbobba... sennò non sono più un pubblicista. Non sono neanche più un essere umano, sono un software semantico neanche troppo elaborato. È la seconda volta in due necrologi che leggo “la «sua» Trieste”. È un inciso ridondante, la prima cosa che un essere umano taglierebbe per dissimulare il furto di contenuto. Ma qui non c'è più nessuna umanità, a parte quella che serve a premere ctrl+c e ctrl+v.

L'annuncio con il titolo dilatato ('Hiiiiiit Parade!!) come in uno spettacolo di Broadway è rimasto nella memoria del pubblico italiano che seguiva la radio negli anni '60-'70. 

Sì, e anche nella mia: è la terza volta che leggo lo stesso necrologio. Contro questa epidemia di contenuti scadenti non mi resta che usare l'arma finale: Google. Lo faccio anche coi ragazzini che mi portano tutti orgogliosi una ricerca stampata al pc: prendo una frase un po' strana, la virgoletto, la butto su google, e in 0,3 secondi trovo la fonte del copione. Vediamo un po' quanti giornalisti hanno scritto la stessa frase:


329 risultati.
No, aspetta, 329?
Vabbè, non sono tutti giornalisti: molti sono blogger che scopiazzano i contenuti professionali dei giornalisti senza nessun rispetto per la proprietà intellettuale, quei felloni. E tuttavia... Avvenire. Il Sole 24 Ore. Il Mattino. L'Unità, ahimè. Il Corriere Adriatico. Il Velino. Il Gazzettino. Il GiornaleRadio KissKiss. Tgcom. RaiNews24. Il Messaggero. La Gazzetta di Parma. È l'elenco di tutte le testate che non hanno ritenuto nemmeno necessario cambiare il numero di “i” della parola “Hiiiiiit”: si vede che Luttazzi ne pronunciava esattamente sei, né una di più né una di meno. E ancora: il Nuovo Quotidiano di Puglia. Leggo On Line. Agi. Alt! Ho scritto Agi? Forse ci sono, ho trovato la fonte. L'Agi è un'agenzia: fornisce le notizie di prima mano ai quotidiani. Il suo articolo mi pare di averlo già letto una mezza dozzina di volte, ma mancano due elementi che ormai mi sto allenando a riconoscere: la “sua” Trieste e la parola rentrée. A questo punto mi viene la curiosità di guardare la concorrenza, ovvero l'Ansa. Molto interessante:

Lelio Luttazzi era nato a Trieste (la ''sua" Trieste) il 27 aprile del 1923: aveva compiuto 87 anni.
© Copyright ANSA - Tutti i diritti riservati

Bingo!
Dunque forse ho capito: i quotidiani non fanno più i coccodrilli. Quando muore qualche personaggio importante prendono le schede delle agenzie e le pasticciano un po'... però, aspetta.

Tra i primi ad inserire nella canzone italiana le strutture del jazz, un modo di comporre 'swingato' 

Questo c'era anche nella scheda dell'Agi, maledizione. Quindi anche le Agenzie si pasticciano le informazioni tra loro?
C'è un altro dettaglio interessante. Nella versione Ansa compare la parola rentrée Ma è scritta in un modo diverso. Comunque sbagliato, ma diverso. Controllo in giro: trovo tre versioni diverse (rentreé, rentree', rentreè). Tutte e tre sbagliate, dannazione – e va bene, il francese è ormai una lingua esotica. Però il dettaglio getta una luce inquietante su tutta la faccenda: questo è un errore di copiatura. Un errore che un ctrl+c e un ctrl+v non potrebbero mai commettere.

Dunque questi non sono pezzi copia-incollati all'ultimo momento. Sono stati scritti a mano. Sbagliare un accento è una prerogativa umana. Insomma: qualcuno ha perso ore e fatica, per ottenere alla fine dei pezzi che sono più o meno scopiazzature reciproche. E se ci sono degli errori, difficilmente li avrà corretti. Al massimo ne ha aggiunti. Questo mi ricorda qualcosa.

Una delle discipline più interessanti che ho studiato da giovane è l'ecdotica. È la scienza – forse è meglio considerarla un'arte – che si occupa di restaurare per quanto possibile le versioni originali dei testi. Specialmente quelli che ci sono stati tramandati lungo il medioevo, quando il software più elaborato era un monaco con pennino tra le mani e neanche un paio d'occhiali decentemente graduati. Questi monaci, non ci credereste, facevano tantissimi errori. Ma era proprio grazie agli errori che si poteva risalire in qualche modo al testo originale. L'idea è che ogni copiatura aumenti il numero di errori contenuti in un testo. Quindi la versione più vicina a quella originale è quella che contiene il minor numero di errori. Insomma, se ci fosse anche una sola versione del coccodrillo di Luttazzi con la parola rentrée scritta correttamente, forse avrei trovato l'originale. Poi ci sono le lectio facilior, le situazioni in cui il copista si trova davanti una parola che non riesce a capire e a copiare, e la sostituisce con una più semplice. È il caso del copista del Corriere, che si è trovato davanti a rentreé o rentreè, ha capito che il rischio di sbagliare accento era altissimo, e ha tagliato la testa al toro scrivendo “spettacolo”. Una lectio facilior che dimostra che il testo del Corriere non è quello originale.

Errori e banalizzazioni permettono di raggruppare le versioni in famiglie. Se cinque manoscritti contengono lo stesso errore, o la stessa lectio facilior, probabilmente derivano da un manoscritto solo, e così via. In questo modo i filologi riescono a costruire l'albero genealogico delle versioni manoscritte dello stesso testo, e a recuperare un'immagine il più possibile precisa di come doveva essere la versione originale.
Ecco, avendo una vita a disposizione mi piacerebbe diventare il filologo di questa roba. Sul serio, mi piacerebbe capire chi ha copiato chi e chi ha aggiunto cosa. L'idea che mi sono fatto è che esistano due coccodrilli originali, entrambi piuttosto reticenti sui trascorsi giudiziari di Luttazzi. Il primo contiene l'urlo di guerra “Hiiiiiit Parade”; l'altro insiste sulla “sua” Trieste e parla di una rentrée. I giornalisti li hanno smontati e rimontati a piacimento, quasi sempre senza usare il copia-incolla automatico. I più scrupolosi hanno aggiunto informazioni prese da altre fonti; alcuni hanno semplicemente giustapposto i due articoli, riscrivendo due volte le stesse informazioni.

A proposito, pare che Luttazzi sia stato incastrato da un'intercettazione telefonica: fu arrestato con Walter Chiari e Franco Califano per detenzione e spaccio. Si fece 27 giorni in prigione, durante i quali Hit Parade fu condotta da Giancarlo Guardabassi. Però poi tornò, completamente scagionato, e continuò a condurla per altri sei anni: insomma, di una carriera troncata di netto non si può parlare. È vero tuttavia che non condusse più “Ieri e oggi” in tv: fu sostituito da Arnoldo Foà. Sapete da dove ho preso queste informazioni, alla fine? Esatto. Wikipedia.
Il bello è che sono le uniche informazioni che avrei potuto copiare e incollare senza temere complicazioni.
Tutti gli altri brani che ho citato sono coperti da copyright.

(Ps: ma chi è il vero re dello swing? Luttazzi batte Arigliano 25.300 a 3.930!)
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A copiare i copioni

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Copy-cut economy

Quando un divulgatore di chiara fama, come Corrado Augias, viene scoperto a scopiazzare da un saggio Adelphi;
quando un critico d'arte universalmente conosciuto come Vittorio Sgarbi infila in una sua prefazione ampi stralci tratti da un volume dei “Maestri del colore”;
persino negli USA, quando Maureen Dowd, columnist del New York Times, ammette che qualche frase di un suo editoriale è presa di peso da un blog;

la prima reazione del lettore medio è l'increduli... no, in effetti la prima reazione è quella bieca soddisfazione dell'uomo medio nei confronti del Nome Famoso: “Aha, lo vedi che copia. Anch'io potrei fare il mestiere che fa lui”. E per quanto sia una reazione che tutti ci unisce e affratella, noi mediocri, è poco interessante.

Più degno d'attenzione è quel sentimento d'incredulità che segue di lì a poco; il momento in cui tutti noi ci chiediamo: Ma insomma, com'è possibile che dei professionisti così si mettano a copiare come l'ultimo dei furbetti in quarta fila? Davvero pensavano di poterla fare franca? Davvero si possono giocare la faccia così? E passi per Sgarbi che ci ha abituato alle sue mattane: ma voi ve lo immaginate Corrado Augias che sottolinea un paragrafo di un libro e intanto pensa: “questo è forte, questo me lo rivendo”? No, non è possibile che succeda una cosa del genere. Infatti non succede.

Qui entrano in gioco i fantasmi, come li chiamano gli anglosassoni (ghost writers): noi invece li chiamavamo negri. Quelli che di mestiere scrivono per gli scrittori. O pensavate che tutto quello che vi capita di leggere a firma “Augias” o “Sgarbi” sia stato scritto dai signori che vedete in tv o alle conferenze? Ma no, non funziona così. Altrimenti Vespa sarebbe scoppiato da un pezzo: sessanta trasmissioni all'anno e 300 pagine tutti i Santi Natali, non dite che sareste capaci anche voi.

No. Stare sotto i riflettori, vendere il proprio Nome+Faccia, è già di per sé un mestiere. Se poi vuoi capitalizzarlo stampigliandolo sopra un cartonato di Prima Fascia (quelli, per capirci, che fanno il mucchio in libreria quando escono) non ti sarà difficile trovare qualcuno che lo scriva per te. Di intellettuali dis- o sottoccupati ce n'è quanti ne vuoi, ed è gente seria e preparata.

Lo so che è difficile da mandare giù per quelli che speravano di trovare nella scrittura quell'agognato percorso di solitudine, ma sono pochissimi i libri che non siano frutto di un lavoro di gruppo. Un gruppo gerarchico: al di sopra di tutto c'è l'autore, quello che magari non scrive una parola ma ci mette il Nome, la Faccia, e che se è una persona seria e coscienziosa supervisiona il tutto. Ma anche una persona seria e coscienziosa non può mica sempre accorgersi che il negro ha copiato.

D'altro canto, il negro di uno scrittore affermato guadagna bene (spesso in nero) e campa di un rapporto basato sulla fiducia; la domanda iniziale quindi andrebbe riformulata così: com'è possibile che i negri di Augias o di Sgarbi, professionisti stimati ancorché oscuri, si mettano a copincollare come il primo studente asino che va su Wiki, preme “print” ed è convinto di aver fatto una ricerca? Cos'è successo? Non lo sapremo mai e certo Augias non si affannerà a dircelo, quindi io ho sviluppato una teoria.

Secondo me, coi tempi che corrono, la crisi e tutto il resto, i negri bravi (che non devono essere molti) si sono messi ad accettare più lavoro di quanto non riescano a portarne a termine. E quindi, quando le scadenze cominciano ad affollare il calendario, cosa fanno? Si rivolgono anch'essi a dei negri, meno professionali dei primi. Il che non significa che siano dei minchioni convinti di poter copiare e incollare la prima cosa che trovano. Ma c'è la crisi, il mutuo, gli interessi passivi, e insomma mi hanno offerto questo lavoro e non ho saputo dirgli di no, ma adesso non so come finire... anche il sottonegro, alle strette, avrà chiesto aiuto a un sotto-sottonegro. La piramide scende fino al punto in cui non si trova uno abbastanza minchione da copiare pezzi interi da un libro in commercio, tanto “chi vuoi che se ne accorga”, oppure “anche se se ne accorgono, chi vuoi che risalga fino a me?” Il sottonegro legge, apprezza, corregge la punteggiatura e manda al negro, che è talmente felice che dà giusto un'occhiata agli accenti e passa ad Augias, e la frittata è fatta. Tutto questo per dirvi cosa?

No, niente.
Solo che tra un po' finisce l'anno scolastico, il che significa che avrò un po' di tempo libero e, se non ve ne siete già accorti, sono uno che scrive bene e abbastanza in fretta. Non copio mai, perché non mi piace e non mi conviene; onestamente faccio prima a buttar giù cose originali che a correggere i testi degli altri. La mia mail è in fondo a destra e, insomma, a buon intenditor.
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Mi scuso se ritorno sul trito argomento di ieri, ma:
(1) Non è mica facile trovare uno spunto originale tutte le sante sere.
(2) E' il caso di dare diritto di replica a Stefano Porro di Quintostato, che qui fornisce la sua versione (grazie a Giuseppe Caravita).

Ora, se non ricordo male, come ogni nuova testata registrata, QS dovrebbe essere osservata dagli organi preposti per controllare se le 3 copie inviate al momento della registrazione corrispondono a verità, così come la descrizione fornita al Tribunale dell'oggetto della testata.

Cosa potrebbe accadere se qualche "controllore" capitasse, tramite Google, su quIntostato al posto che su Quintostato? Si tratta di un problema remoto, evidentemente, ma che comunque vorremmo evitare del tutto
.

Si tratta di un falso problema, secondo me. il "controllore", chiunque sia, non dovrebbe mettersi a cercare i siti con marchio registrato su un motore di ricerca. Nessun motore di ricerca è infallibile, nessuna testata giornalistica è tenuta a trovarsi al primo posto della ricerca su un motore.

Questo sito, fino a pochi giorni fa, si chiamava Leonardo: indirizzo http://leonardo.blogspot.com. E se cerchi leonardo su google.it, lo trovi al nono posto. Perché nessuna ditta, nessun marchio registrato, nessun www.leonardo.com o wwww.leonardo.it mi ha ancora scritto una mail di protesta?

Questa, sapete, è una storia vecchia. Ci ho fatto un pezzo sopra due anni fa, il 28 giugno 2001. Ora lo ricopio qui, e anche per stanotte il problema di cosa scrivere è risolto. Auguro a tutti una buona Pasqua Ebraica, o Di Resurrezione, o un buon plenilunio laico, e arrivederci a martedì (spero con qualche idea originale).


Anche tu, brevetto registrato!

[...] Sulla corsa sempre più sfrenata alla proprietà intellettuale di qualsiasi cosa, materiale e non, c'è un altro aneddoto interessante. Questo sito, com'è noto, si chiama Leonardo: non è un nome registrato, ma credo di avere comunque qualche diritto a chiamarlo così. Dopo aver passato quasi trent'anni della mia vita a sentirmi chiamare prima "Da Vinci" e poi "Di Caprio" da qualsiasi imbecille, è una bella soddisfazione, no?
E tuttavia parlando di siti chiamati "Leonardo" c'è un precedente un po' inquietante. Sì, sì, parlo d'un precedente legale: una causa intentata da un'agenzia finanziaria, la "Leonardo Finance", al sito culturale della International Society for the Arts, che porta lo stesso titolo della rivista della Società (pubblicata sin dal 1967): Leonardo.
Qual è la materia del contendere? La Leonardo finance lamentava che i suoi clienti – o potenziali tali – digitando "Leonardo" su un motore di ricerca, si sarebbero più facilmente imbattuti in una delle innumerevoli pagine del sito culturale. Perciò chiedevano sei milioni di franchi di danni (meno di un miliardo e ottocento milioni di lire). Una bella pretesa, no? E infatti un mese fa i giudici hanno dato ragione all'International Society. Ma Leonardo Finance potrebbe ricorrere in appello…
La vittoria è stata vinta anche sul web, grazie anche a una ben riuscita campagna di solidarietà tra gli internauti francesi: oggi, digitando "Leonardo" su un qualunque motore di ricerca, trovate non soltanto il sito della Society, ma anche numerose pagine di sostenitori che gettano fango sulla Leonardo Finance. E di quest'ultima neanche l'ombra. Almeno, io non l'ho trovata.
(Non ho trovato neanche il mio sito – forse dovrei fare causa a qualcuno).
Tirato un sospiro di sollievo, rimane lo stupore per l'arroganza con la quale gli aspiranti proprietari del mondo partecipano a questa corsa alla proprietà intellettuale di qualsiasi cosa --– un nome, un logo, un segno grafico qualsiasi… Sono anche un po' ingenui. Chi è che al giorno d'oggi si mette a cercare una consulenza finanziaria su un motore di ricerca?
Questi di Leonardo Finance, poi, mi ricordano qualcosa da vicino. Quando produci qualcosa e la chiami "Leonardo", è perché la vorresti unica, geniale, inimitabile… perlomeno, con mia madre è andata così. Poi, al momento di andare all'asilo, si è scoperto che c'erano due Leonardo in classe. E così già a tre anni ho cominciato a farmi chiamare col cognome. Mia madre si arrabbiava molto: "Il suo nome è Leonardo!" Mamma, che ci vuoi fare. Anche tu, avresti dovuto brevettarmi…

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Siamo tutti Quintostato

Lo so che è una piccola cosa, ma è fastidiosa. E se è una bufala, sarò contentissimo di dovermi smentire.
Riassumo: www.quintostato.it è un sito d'informazione sulle nuove tecnologie che ha avuto sin dalla sua nascita (qualche mese fa), un'attenzione speciale, non sempre benevola, nei confronti dei blog. E non c'è niente di male.
E' stato l'organizzatore di BlogAge, conferenza di cui s'è parlato lungamente qui e altrove.

Due giorni fa, alcuni autori di blog particolarmente ispirati (tra cui e Gonio), hanno messo su una parodia di Quintostato, all'indirizzo quintostato.splinder.it.
La parodia poteva piacere o non piacere (a me piaceva), ma il gioco stavolta è durato davvero poco. Invece di subire con sportività, i redattori di Quinto Stato hanno minacciato "grane legali non indifferenti" agli scrittori che avevano osato parodiarli. E questo perché "Quinto Stato è una testata registrata in tribunale e, in quanto tale, soggetta alla regolamentazioni della FNSI, che richiedono l'autenticità del marchio e soprattutto della testata!" La Fnsi, anvedi.

Una reazione così sproporzionata da parte di un sito che, come osserva Mantellini "si riempie la bocca ogni 15 secondi di Copyleft, Open Source, diritto alla libera espressione ed altre meraviglie", lascia quasi sconcertati. In fondo era solo uno scherzo. E neanche troppo cattivo.

Ma cosa sta succedendo ai blog italiani? Hanno sempre scritto più o meno quel che gli pareva: il tal libro, il tal sito, il tale articolo mi è piaciuto / non mi è piaciuto, ecc.. Ma ora, se parli male di un libro l'autrice ti risponde incazzata; se correggi un paio di errori a un giornalista quello ti querela, o almeno fa finta; se fai la parodia di un sito, il sito parodiato reagisce minacciando "grane legali". Ehi, ma chi è che sta prendendosi un po' troppo sul serio, qui?

Comincio a pensare che avesse ragione il grande Marco Formenti, in un articolo dei primi anni Novanta, quando ci metteva tutti in guardia: i blog saranno oggetto di operazioni di censura tanto più dure ed efficaci in quanto rivolte contro soggetti che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono persone comuni che non usufruiscono della protezione di lobby professionali o accademiche, di partiti politici, ecc. (grazie a Massitwosteps per avermela rammentata)

Cosa dite? Formenti è il direttore responsabile di Quinto Stato?
Maddai, su, state scherzando. Non esistono più i direttori responsabili, triste retaggio delle leggi fasciste sulla stampa. Sono stati aboliti negli anni Cinquanta, poco prima che eliminassero l'albo del giorn....
Un momento. Che universo è questo?
Ops, scusate. Mi ero confuso.
Saluti.


Una proposta concreta: giù le mani dal marchio Quintostato!

Un coraggioso sito d'informazione indipendente, con un marchio registrato, rischia il linciaggio da parte della potentissima lobby dei blog-cazzeggiatori. Questa mandria di solipsisti compiaciuti, seduti proprio nel bel mezzo della produzione della ricchezza, a metà tra il piacere di essere considerati trendy e il fastidio di essere reputati tali, ha osato appropriarsi indebitamente del marchio coraggiosamente registrato, per farne scempio in un sito di parodia reazionaria e di cattivo gusto.
Per reagire compatti all'infame provocazione, proponiamo una mobilitazione generale delle URL confederate. Chiamiamoci tutti Quintostato, per un giorno, per un'ora, per il tempo necessario a far sentire forte e chiara la nostra voce. Giù le mani dai marchi registrati! Potere al copyright! Abbasso il solipsismo autocompiaciuto di chi senza marchio registrato osa prendersi il gioco di stimati professionisti. Ma chi vi dà la patente per riderci dietro?
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Può darsi che abbiate deciso anche voi di passare questi ultimi giorni a mungere napster, questa meravigliosa vacca grassa, prima della chiusura. E può darsi che anche voi vi siate trovati davanti al ‘blocco dello scaricatore’. Vale a dire: avete a disposizione, ancora per pochi giorni, tutto lo scibile musicale: cosa salvate?
Questo è il principale difetto di napster e simili (secondo me): bisogna già avere idea di cosa cercare. Gli incontri fortuiti e indimenticabili, quelli per dire che possono capitarci ascoltando la radio a un’ora tarda, o anche un’ora qualsiasi, sono esclusi in partenza. Il massimo è trovare qualcosa che si è lungamente (e disperatamente) cercato: per cui inevitabilmente si scade nell’infanzia stupida e dorata: nel mio caso gli anni ’80, i Nu Shooz o i World Party, dimenticabili e dimenticati. Oggi ho finalmente messo le mani su Marinai delle Orme: ma quanto era brutta? Non ci si crede.
Detto ciò, vi do una dritta. Non perdete troppo tempo con le rarità e le scemenze. Scaricate i Beatles.

Perché bisogna scaricare i Beatles
1. In primo luogo, perché non li conoscete. Non potete avere tutti i dischi, che sono più o meno una dozzina (concentrati nello spazio di otto anni). Forse avete qualche antologia, ma non è gran cosa. Specie se è quella appena uscita, una fregatura incredibile, l’esempio di come la pubblicità riesca a creare un evento con il nulla: in commercio c’erano compilazioni anche più complete, a prezzi inferiori.
2. I Beatles sembrano fatti apposta per essere scaricati da napster. Le canzoni pullulano in decine di copie, sono brevi e, quel che più conta, non soffrono molto la compressione in mp3. Immagino che i maniaci di alta fedeltà non si siano mai trovati a loro agio in rete, ma che senso avrebbero, i Beatles, in alta fedeltà? Meglio sentirli così, con una certa patina di passato, che giustamente è passato.
E in una così sterminata mole di materiale (quasi 200 pezzi) pescare a caso è una vera emozione.
Addirittura esistono in circolazione mp3 dei loro LP interi: tenete conto che un lp dei Beatles durava mezz’ora. Mezz’ora di felicità.
3. Per farsi una cultura veramente universale. Non è che in tutto il mondo conoscano e cantino i Beatles. Ma poche opere danno, come le loro canzoni, un senso di condivisione con l’umanità. Penso.

Ogni canzone dei Beatles ha l’aria di essere un esperimento. Nulla è sicuro in partenza. La chitarra potrà scordarsi. Ringo potrà sbagliare. I coretti stavolta potrebbero anche incrociarsi male. Lennon potrebbe cantando tossicchiare e accartocciarsi. Ma ogni volta il peggio è evitato. E si ricomincia con una nuova scommessa. Uno strumento nuovo, un giro armonico diverso, sempre qualcosa che non si era mai esattamente sentita prima. Come nei primi secondi dopo il Big Bang le ere si susseguivano in pochi attimi, così tutta la musica che poi ci avrebbe tormentato e sollazzato in seguito veniva fuori così, in un’esplosione confusa che non ti lascia il tempo di riflettere. Un giorno alla radio si sente uno strano “Yeah yeah”, e cinque anni dopo è già il tempo di “Happiness is a warm gun”. Oggi un gruppo medio pubblica nello stesso periodo di tempo due o tre CD. Molto meno eccitanti. L’universo forse è ancora in espansione, ma rallenta, rallenta… tra un po’ inizierà il riflusso.
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Piccola proprietà intellettuale (inc.)
Oggi è passato Andrea e volevo passargli questa proposta per un business, era lui che me ne chiedeva sempre. Anche se ha l’aria di essere l’idea giusta nel momento sbagliato…
Sappiamo che nei prossimi mesi il gratuito su internet andrà ridimensionandosi: da luglio napster inizierà a chiedere soldi agli utenti – intanto stanno studiando il modo di inibire il comando “copy” sui siti, ecc.. Chissà, forse qualcuno comincia a pensare che l’utente medio sia pronto al grande passo: diventare un acquirente di file. Sarà vero?
Su wordtheque la maggior parte degli acquirenti erano gli stessi autori. Siccome gli spettavano il cento per cento dei diritti, si creavano situazioni paradossali (gente che telefona protestando: “mi hanno addebitato l’acquisto ma non mi hanno ancora accreditato la vendita”, ecc.). Il servizio è sospeso (non serve a niente e costa burocrazia), ma almeno ha dimostrato che persone anche a digiuno di computer, pur non avendo alcuna intenzione di acquistare on line, possono essere interessati a vendere. Dopotutto, perché no? Oggi il medio utente può mettere qualsiasi cosa on line, ma gratis. Perché non offrirgli una vetrina?
Attenzione: non si tratta di diventare ‘editori’. Non bisognerebbe prendere nessuna percentuale sulle vendite: non è bello, e, soprattutto, non conviene. Invece ci si fa pagare il servizio. Che cosa significa? Che si guadagna qualcosa anche coi file che nessuno venderà mai (e forse sono la maggioranza).
Può sembrare una semplice riedizione delle case editrici-bidone, quelle che da sempre stampano ‘on demand’, o per meglio dire, a spese dell’autore. Ma, oltre che la spesa sarebbe molto inferiore, oltre che sarebbe comunque opportuno mantenere una soglia (bassina) di qualità, potrebbe trattarsi del luogo ideale per l’utente medio che non è necessariamente uno scrittore, artista o programmatore maledetto, ma che ha del materiale a disposizione e vuole non tanto farci soldi, quanto vedere riconosciuta la propria proprietà intellettuale. Dandogli il 100% dei diritti noi gliela riconosciamo: nulla gli vieta di cedere a un editore vero, se ne incontra uno interessato, grazie al nostro sito-vetrina.
Alla fine quel che conta veramente non è ‘vendere’. Quel che conta è mettere le proprie cose in vetrina, proteggendosi però dal copia-incolla selvaggio.
A vedere bene si tratta di un nuovo modo per vedere internet. Non più la zona franca del tutto è gratis (ma non lo è mai stato), ma nemmeno l’ennesimo centro commerciale in mano alla grande distribuzione. Un più umano bazar dove chiunque esibisce la propria mercanzia. Chiunque di noi potrebbe almeno sperare di mettere da parte qualche soldo extra con qualcosa realizzato nel proprio tempo libero: un libro, una canzone in mp3, un programmino per dare da mangiare ai pesci rossi sullo screen-saver, ecc..
L’obiezione è sempre: “Ma chi comprerà questa roba?”
La risposta è: “Chi se ne frega, noi non ci facciamo pagare per i file che vendiamo, noi ci facciamo pagare la vetrina”.
Comunque per i primi due anni almeno bisognerebbe fare tutto gratis, per lanciare la cosa come si deve.
Il maggior pregio del progetto, mi pare, è l’esiguità delle spese: occorre soltanto attivare un contratto con una banca per l’e-commerce, e mantenere un portale efficiente. Nessun magazzino: si venderebbero soltanto file.
La cosa che principalmente mi sfugge è il ruolo della SIAE in tutto questo. Soprattutto per quanto riguarda gli mp3, che sarebbero il mercato più promettente (gli esordienti interessati a commerciare il proprio demo), ecc..
Beh, che ne dite?
Forse non ci si farebbero i miliardi, ma secondo me è un buon inizio. C’è l’aspetto proditorio che deve avere ogni buona iniziativa imprenditoriale (fare soldi sulle velleità creative della gente); e allo stesso tempo c’è anche un’idea globale, politica, contro la distribuzione massificata, per la piccola proprietà intellettuale, geee…
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