C'è un romanzo attualissimo che dovremmo studiare in tutte le scuole, l'ha scritto Alessandro Manzoni

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Due ragazzi vorrebbero diventare grandi, mettere su famiglia, cominciare un'attività. Ma un boss che già da settimane stalkerava la ragazza è di un altro parere, e manda i suoi picciotti a intimidire le autorità. Costretti a dividersi, i due protagonisti perdono le proprie tracce in un contesto apocalittico: crisi economica, guerra, epidemia. Le autorità sono completamente incompetenti, la popolazione crede a qualsiasi fake news. La ragazza trova rifugio in una comunità chiusa femminile dove però scopre che l'autoreclusione non abolisce i rigidi rapporti di forza della società, anzi li esalta. La sua protettrice, ricattata a causa di un torbido passato, la consegna a un altro boss. Il ragazzo, frustrato, si radicalizza: coinvolto nei moti di piazza viene criminalizzato come un terrorista dal potere costituito, in caccia di capri espiatori. E così via.


Partendo da un piccolo caso di provincia – un banale caso di molestie, un'intimidazione di stampo mafioso  – l'autore allarga il quadro fino a dipingere un'intera società in stato disfunzionale. Le leggi descrivono i reati invece di reprimerli; il governo, ignorando i più elementari concetti di economia conduce la popolazione alla fame e al caos; i ricchi vivono in una bolla, cosplayer di una fiction in costume medievale; la cultura è custodita da eruditi ottusi che disprezzano la scienza; le guerre sono il risultato di farraginosi meccanismi diplomatici che scattano quasi automaticamente, decidendo il destino di milioni di persone. E proprio quando le cose sembrano volgersi al meglio, un'apocalittica epidemia travolge la vita di tutti i personaggi. Il romanzo italiano più attuale che possiate aprire oggi forse è stato scritto nel 1827, quando ancora non era chiaro se in Italia si potessero scrivere libri – e in che lingua andassero scritti.

Quante volte, anche in questi giorni, di fronte ai tweet di qualche sovranista esagitato che cercava di cavalcare la paura del coronavirus per chiedere la chiusura dei porti, ci siamo detti: dagli all'untore. Quante volte di fronte a quel meccanismo giornalistico conosciuto come macchina del fango, non abbiamo pensato alla colonna infame. Un cosiddetto intellettuale si lamenta della crisi del liceo classico, senza nemmeno disporre degli strumenti statistici per stabilire se il classico sia in crisi o no: l'ennesimo Don Ferrante. C'è crisi, qualcuno propone di stampare moneta all'infinito, che problema c'è? come Ferrer coi forni e la farina – salvo che sappiamo già come andrà a finire, appunto: ce l'ha spiegato Alessandro Manzoni. Viene emanata una legge per risolvere un problema che ha già ispirato tante altre leggi rimaste inapplicate: come non pensare allo scrittoio ingombro di carte dell'Azzeccagarbugli, mentre cerca la grida più recente perché quelle fresche di stampa fanno "più para". C'è una manifestazione, qualcuno fa dei danni, qualcun altro rimane impalato davanti alla telecamera del giornalista: domani sarà su tutte le homepage come il leader dei facinorosi, la stessa storia sin dai tempi di Renzo Tramaglino. E a proposito di Renzo, il suo rancore per chiunque abbia avuto il tempo e la facoltà di studiare, non lo vediamo all'opera tutti i giorni sui profili di milioni di laureati all'università della vita? La dinamica con cui le folle deformano ogni informazione, qualcuno l'aveva già descritta così bene prima della notte delle beffe? Per farla breve: se cercate un romanzo italiano che ci descriva meglio di quello scritto da Manzoni duecento anni fa, e ambientato duecento anni prima, non è detto che lo troviate.

Andrebbe letto in tutte le scuole – il problema è che lo facciamo già. E tante volte ci siamo detti che forse proprio questo era il problema coi Promessi sposi: l'obbligo scolastico. Un libro che ci racconta con abbondanza di dettagli un'avventurosa vicenda di soprusi, duelli, malintesi, drammi interiori e quant'altro, in un periodo storico così apparentemente lontano dal nostro, evoca in tutti noi per prima cosa la fornica sciupata dei banchi di scuola. Ogni tanto qualcuno butta lì la provocazione: e se smettessimo di imporlo agli studenti? Magari a quel punto sì, comincerebbero davvero ad apprezzarlo. Qualcuno senz'altro lo leggerebbe di nascosto, mentre il prof spiega Tolstoj o la Ferrante.



Purtroppo niente lascia pensare che le cose andrebbero così... (continua su TheVision)
Le classifiche dei libri ci dicono l'esatto contrario: gli unici classici della letteratura italiana a salire ciclicamente le classifiche sono i testi che vengono assegnati dagli insegnanti come letture estive in giugno, o imposti nel pacchetto dei libri di testo a settembre. Il Fu Mattia Pascal, La Storia di Elsa Morante, i Malavoglia di Verga e così via. Tutti testi interessanti e ancora attuali, ma se la scuola non li riproponesse, nel medio termine rimarrebbero materia per gli specialisti. La stessa cosa succederebbe per i Promessi sposi, che tra questi è anche uno dei meno facili da leggere. La prosa di Manzoni è quanto di più diverso si possa immaginare da quella svelta e spesso cinematografica che siamo abituati a trovare nei best seller di oggi, anche quelli con pretese letterarie: è tornita, abbondante, si dipana come la lezione di un professore di Storia a cui nessuno abbia imposto limiti di tempo. È uno stile quasi miracoloso per gli anni in cui Manzoni lo produsse, e che per molto tempo fu uno standard ineguagliato, ma oggi ha bisogno del filtro scolastico per essere apprezzato: molti testi postmoderni che fondano il proprio successo di nicchia sul fatto di essere quasi impossibili da leggere (penso a Infinite Jest, o L'arcobaleno della gravità) sono per certi versi più facili da leggere con comodo in poltrona o persino sotto l'ombrellone. Un altro aspetto che ci aliena ineluttabilmente da Manzoni è proprio quello che più contribuì a renderlo una lettura obbligatoria per così tanto tempo: il cattolicesimo. Perché per quanto sia tragico e decadente il mondo descritto da Manzoni, non può che urtare la nostra sensibilità postmoderna il fatto che ci abbia messo la soluzione davanti al naso: la Provvidenza. Ovviamente le cose sono molto più complesse di così, e anche il cattolicesimo di Manzoni, a conoscerlo, è un sentimento religioso molto sui generis: in un Paese dove tutti nascono cattolici e smettono di crederci dopo aver preso i sacramenti, Manzoni fece il percorso contrario, convertendosi in età adulta, e rimanendo molto vicino a una corrente abbastanza esotica per la sensibilità italiana, il giansenismo. La fede di Manzoni non gli impedisce di muovere critiche severe al clero, anzi: due dei personaggi meglio definiti dall'autore, con precisione spietata, sono com'è noto due figure di religiosi: Don Abbondio e Gertrude. Per quanto si avvicini a loro, per quanto li descriva nei moti più reconditi, Manzoni non sospende mai un fermo giudizio morale nei loro confronti: per quanto non smetta di riconoscere e di descrivere come il loro carattere e le loro mancanze siano il risultato delle pressioni sociali subite sino dalla nascita, Manzoni non smette di affermare che a queste pressioni, in qualsiasi momento, il timido prete e la monaca reclusa avrebbero potuto e dovuto dire di no. Non esattamente il cattolicesimo bonario delle nostre sacrestie, come si vede: da integralista del libero arbitrio Manzoni non può perdonare Gertrude: è "sventurata", è vero, ma nessuno la obbligava a rispondere. Mentre in Italia è passato molto spesso per cattolicesimo un dispositivo morale che ci allontana dalle nostre responsabilità individuali, Manzoni non ha pudore a rimettercele costantemente davanti agli occhi, con quell'insistenza che passa per paternalismo (e in un certo senso lo è davvero): siamo noi che scriviamo troppe leggi invece di preoccuparci e farle rispettare, siamo noi che di fronte a una minaccia più o meno vaga ci inchiniamo come davanti don Abbondio davanti ai bravi "troppo giusti, troppo ragionevoli". Siamo noi che malgrado ogni tentativo di contenerci, di fronte alle provocazioni di un interlocutore nemmeno troppo astuto cominciamo a vedere rosso e ci facciamo possedere dall'ira, come fra Cristoforo davanti a don Rodrigo. Siamo noi che di fronte a una difficoltà, invece di lottare per ciò che abbiamo di più caro, decidiamo di rinunciarci come se Dio ce lo chiedesse, come Lucia nella sua notte più terribile. Siamo noi i personaggi dei Promessi Sposi, e questo ci fa arrabbiare: tutti gli altri popoli europei vivono in romanzi più recenti. Noi forse no: uno scrittore pietoso e spietato insieme come Manzoni forse non lo abbiamo trovato e a questo punto magari è troppo tardi.
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Anche Salvini, a Gerusalemme?

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[Questo pezzo ci ha messo un po', ma alla fine è uscito su TheVision]. Salvini è un troll. Qualsiasi cosa faccia, la fa per provocare una reazione, possibilmente rabbiosa o scandalizzata. Non è senz'altro il primo a portare nella politica l'antica arte della provocazione; però maestri come Berlusconi e Bossi praticavano il trolling per arrivare a un risultato – attirare l'attenzione, certo, ma anche innervosire gli avversari e lasciarli autoridicolizzarsi con reazioni scomposte. Salvini è un passo oltre: dai maestri ha appreso l'arte ma non il senso; e oggi che ha il campo libero, lo vediamo trollare non tanto per imporre un'agenda politica, ma piuttosto imporre un'agenda politica che gli permetta di trollare.

Questo andrebbe premesso a qualsiasi commento sui comportamenti di Salvini, sia che disturbi la gente al citofono accusandola di reati gravi sia che riconosca Gerusalemme come capitale di Israele (per citare due cose che ha fatto in una surreale settimana di campagna elettorale). Perché si comporta così? Perché è un troll. Vuole la nostra frustrata attenzione, e infatti eccoci qui: stiamo parlando di lui, forse ha vinto. Magari l'idea di un aspirante capo del governo che gioca a fare il Gabibbo ci fa infuriare, ebbene, Salvini voleva esattamente questo da noi, Salvini si nutre della nostra furia.

Quanto a Gerusalemme, è il classico esempio di minima spesa per massima resa. Riconoscere Gerusalemme capitale dello Stato Ebraico è un gesto che non gli costa nessuna fatica e sarebbe gravido di conseguenze, se Salvini fosse al governo (si tratterebbe di tradire l'approccio UE al problema). Ma Salvini al governo più di tanto non riesce a starci: l'anno scorso è resistito fin quasi a Ferragosto perché in effetti un ministro degli interni a torso nudo al Papeete è ancora un po' provocatorio; ma non un minuto di più. E poi, certo, Salvini dimostra anche in questo caso l'allineamento della Lega alle posizioni del sovranismo europeo, che vede in Netanyahu un alleato in Medio Oriente, sì: ma davvero a Salvini premevano così tanto le sorti del Medio Oriente, e proprio la settimana scorsa? È difficile immaginare che la sorte della Spianata delle Moschee gli interessi più del centro di Bologna, dove le sue provocazioni ancora non sfondano, ma circola ancora qualche fuorisede filopalestinese in kefiah (il tizio ragiona per stereotipi un po' muffiti). Se solo si riuscisse a farli incazzare a portata di videocamera, magari in quello storico campo di battaglia tra via Irnerio e Piazza Verdi, che colpo sarebbe: che fantastico modo di terrorizzare i bolognesi benpensanti e mandarli a votare i candidati della Lega – e invece no, Piazzale VIII Agosto si riempie, ma di placide Sardine che di Gerusalemme non si preoccupano, come di tanti altri problemi.

A indignarsi rimane soltanto una piccola frangia di osservatori, per così dire, professionisti o appassionati; quei pochi che ancora in Italia si ostinano a considerare la marginalizzazione dei palestinesi un problema e non una soluzione. Combattuti, anche questi ultimi, tra la necessità morale di non prendere il troll sul serio e il richiamo della foresta, se non il fascino dell'abisso: perché ci sono livelli davvero sotto i quali nessuno era sceso, e Salvini li sta perforando in caduta libera. Cioè lui ha davvero cercato di rifarsi una verginità invitando a un convegno sull'antisemitismo Liliana Segre (che prontamente ha declinato l'invito). Salvini ha davvero spiegato a un giornale israeliano che l'antisemitismo, in Italia, lo hanno portato gli immigrati islamici – e questo malgrado l'osservatorio sull'antisemitismo continui a registrare con cadenza quotidiana episodi che hanno protagonisti dai nomi e dai cognomi italianissimi. Salvini, il più celebre tra i propagatori italiani di complottismi su George Soros, ha davvero affermato di non avere nulla a che spartire con l'antisemitismo di una "destra tradizionalista", e lo ha fatto proprio mentre il comune di Verona, con una giunta a trazione leghista, intitolava una via a Giorgio Almirante, fascista repubblichino e poi fondatore del Movimento Sociale Italiano. Magari ignorando in buona fede che la leggenda nera sul governo mondiale occulto del perfido Soros non è che la rielaborazione postmoderna di cose che nel 1938 si potevano leggere sulla Difesa della Razza, rivista ufficiale del razzismo fascista. Almirante era il segretario di redazione.

Qualcuno ha già rimarcato il cinismo con cui Salvini si è rivolto a Israele, mostrando di considerarlo, più che una nazione sovrana, un ente morale deputato a rilasciare "una patente di rispettabilità politico-religiosa". Certo, perché il giochino funzioni bisogna che dall'altra parte qualcuno si presti, e Netanyahu ha già dimostrato una certa disponibilità in questo senso: ha ricevuto Duterte, è andato a trovare Orban, perché non dovrebbe accostarsi a Salvini... [continua su TheVision

Per Netanyahu la Storia è subordinata alla politica: ogni nemico di Israele può essere paragonato a Hitler, se necessario (mentre paradossalmente Hitler può essere ridimensionato: non più ideatore della Shoah, ma semplice artefice dei piani genocidi del Gran Muftì). Netanyahu ha un'agenda, che a differenza di Salvini non si esaurisce nel vincere le prossime elezioni; da un punto di vista culturale, il suo obiettivo è includere nella definizione di antisemitismo qualsiasi forma di critica a Israele. Se vuole definirsi amico di Israele, Salvini non solo deve promettere di trasferire l'ambasciata italiana a Gerusalemme, come ha già fatto Trump; deve anche impegnarsi a chiedere "a Bruxelles" di proibire il boicottaggio dei prodotti israeliani. Promessa, quest'ultima, di molto difficile realizzazione: non solo perché Salvini a Bruxelles ci va il meno possibile, disertando in particolare qualsiasi riunione possa ottenere risultati concreti: ma soprattutto perché un boicottaggio è una forma di protesta non violenta e passiva. Certo, il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), può anche essere definito antisemita e messo fuori legge (se ne parla sia negli USA che in Germania), ma nessuna direttiva comunitaria può costringere i consumatori europei a comprare i pompelmi israeliani, se non li vogliono. L'obiettivo di Netanyahu è culturale: si tratta di convincere gli europei che chi non compra i pompelmi israeliani è antisemita, tanto quanto il complottista che ricicla i Protocolli dei Savi di Sion o il nazista che vandalizza i monumenti sulla Shoah.

Quello che a noi europei può sembrare una strumentalizzazione ha comunque un senso storico (e geografico). Netanyahu è il primo ministro di un Paese che vive il ricordo della Shoah in modo sensibilmente diverso da come lo si percepisce in Europa. Per noi europei il 27 gennaio è la ricorrenza annuale del senso di colpa collettivo, il giorno in cui ricordiamo di essere portatori neanche troppo sani di malattie che hanno sconvolto il mondo: nazionalismi, fascismi, xenofobia. Gli israeliani non possono e non devono viverlo con lo stesso senso di colpa: il loro 27 gennaio (che quest'anno celebreranno ospitando delegazioni di 50 Paesi) non può che confortarli nell'idea che se 80 anni fa fosse esistito Israele, la Shoah sarebbe stata impossibile. Questo può spiegare perché per un sionista come Netanyahu la memoria della Shoah combaci totalmente con la difesa a oltranza delle politiche di Israele. Un po' meno spiegabile è che un aspirante leader di una nazione come l'Italia si presti senza un plissé a fargli da megafono: Netanyahu vuole i BDS fuori legge? Salvini andrà a Bruxelles a chiedere i BDS fuorilegge. E tutto questo, badate bene, dopo aver sibilato per anni contro i politici europei servi di una fantomatica lobby ebraica. Un bel paradosso, se solo se ne fosse reso conto. Ma anche se se ne fosse reso conto, non ha molto senso mettere Salvini di fronte alle sue contraddizioni. In fondo, ricordiamolo, non è che un troll.

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L'Emilia-Romagna non esiste (ma resiste)

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[Questo pezzo è stato scritto ieri ed è uscito su TheVision]

Oggi non è una brutta giornata. Ovvero: se do un'occhiata dalla finestra, l'Emilia-Romagna continua a sembrarmi la stessa regione inquinata e decadente di ieri. I problemi sono ancora tutti lì esattamente dove erano sabato, e in parte si tratta di problemi che Stefano Bonaccini non risolverà, perché l'Emilia-Romagna alla fine è semplicemente un pezzo d'Italia, d'Europa e di mondo, ritagliato in modo anche abbastanza casuale.

In alcune zone di questo pezzo d'Italia, la propaganda salviniana funziona, ed è facile notare che sono le zone periferiche di un tessuto che progressivamente si sta trasformando in una grande periferia. I centri resistono, ma sono sotto assedio: oppongono un modello ma non riescono più a irradiare un messaggi alternativi a quelli declinati dalla Mediaset e dalle sua varianti; già prima di arrivare alle tangenziali i discorsi nei bar cominciano ad assomigliare agli stessi discorsi che puoi sentire a Varese, Viterbo, Vibo Valentia. Bibbiano perde i contorni di placido comune in provincia di Reggio nell'Emilia e diventa un campo d'internamento dove bambini rasati venivano sottoposti a elettroshock da assistenti sociali satanisti.

Ma non si tratta soltanto di una gara a spararla grossa (che Salvini comunque era determinato a vincere). Nelle zone montane, in certa Bassa, nelle new town fungate sulle strade statali, Salvini vince come vince il Capo Indiano che chiama a raccolta i nativi messi ai margini dall'avanzata del progresso. Nelle zone industriali dove un capannone su due è una carcassa di cemento, nella riviera che non è soltanto Rimini e Riccione ma migliaia di pensioncine a trazione famigliare che la Croazia spazzerà via, Salvini non vince soltanto perché racconta cazzate. In un certo senso, non è il solo che le dice. In un tessuto sociale che ha smesso da un pezzo di essere competitivo, e mese per mese assiste al suo stesso smembramento, anche chi continua a raccontarci che siamo la terra delle Ferrari, di Farinetti, di Fellini, a volte non ha percezione di quanto ci stia ammorbando di chiacchiere. Modena era una realtà industriale quando c'erano le fonderie, e la Ferrari era poco più di una fabbrichetta – famosa in tutto il mondo ma abbastanza marginale. Ora al posto delle fonderie c'è il museo Enzo Ferrari ma non creerà mai la stessa ricchezza, non è che puoi davvero pensare di sostituire lo storytelling all'acciaio. C'è un limite oltre il quale anche la narrazione delle eccellenze diventa un tormentone non molto meno tossico dell'elettrochoc di Bibbiano, e oltre quel limite perché Matteo Salvini non dovrebbe vincere? Perché non dovrebbe raccontare che l'euro ci sta strangolando, che negli anni Ottanta si stava meglio, che l'immigrazione abbassa il costo del lavoro? È una visione superficiale, ma non più superficiale di quella che propone di risolvere tutto con l'auto di lusso, l'abbigliamento di lusso, la ristorazione di lusso.

(Mesi fa il sindaco di un piccolo centro sull'appennino parmense scrisse una circolare ai genitori degli studenti, chiedendo per favore di non ordinare lo zaino scolastico su Amazon ma di comprarlo nell'unica librocartoleria superstite. Dalla stampa nazionale insorse un editorialista progressista: ma come! Ai ragazzi bisogna insegnare a eccellere, a studiare, a diventare Bezos, non a combatterlo. Sì, in pratica bisogna insegnare ad andarsene dall'appennino, un luogo dove tenere aperta una libreria è ormai un eroismo inutile). (L'editorialista in questione non è cresciuto in appennino ma in una redazione; è figlio di un altro editorialista, perché raccontare i pregi della meritocrazia è un'arte che in Italia non s'impara in una generazione).

Però alla fine oggi non è una brutta giornata, dai. Si è alzata anche la foschia, ora splende il sole, l'aria continua a essere tra le più carbonate sul pianeta, ma non si può pretendere. Di tutto aveva bisogno questo pezzo d'Italia tranne che di un'altra gang di amministratori incompetenti e parolai. La maggior parte degli elettori del vecchio bacino emiliano 5Stelle ha deciso, di fronte a un bivio, che la direzione indicata da Salvini non era praticabile: non era affatto scontato. E soprattutto abbiamo dimostrato che un certo tipo di campagna elettorale non funziona ovunque, e quindi alla lunga non funziona. Da questo punto di vista bisogna ringraziare Salvini, proprio perché in quest'occasione ha dato il peggio di sé e ci ha dato un'occasione gloriosa per dimostrare che Salvini, anche nella sua versione peggiore, non è sostenibile. Non vince neanche se fa il Gabibbo, non vince neanche se fa Cronaca Vera (il martellamento ossessivo su Bibbiano), non vince a imbucarsi in qualsiasi sagra, ad afferrare un prodotto gastronomico e a spararsi un altro selfie con quei poveri sostenitori che ormai in memoria hanno più faccioni di Salvini che foto dei figli. Dopo Craxi, dopo Renzi, Salvini è l'ennesimo avventuriero che due o tre battaglie hanno illuso di poter conquistare almeno mezza Italia: è senz'altro bello pensare che si sia dovuto fermare sul Taro. Significa che l'Emilia rossa resiste? Anche l'Emilia rossa è storytelling. Comunista in senso stretto non lo è mai stata: forse le è capitata in sorte una classe dirigente un po' più pratica, un po' più onesta, ma quello che vedo io dalla finestra è un pezzo d'Italia individualista e frustrato che un candidato di centrodestra decente lo voterebbe. È da almeno vent'anni che lo implora: un candidato liberale, pragmatico, amico delle piccole medie imprese o di quel che ne resta. Ecco, questo candidato la destra italiana non ha mai voluto proporlo. Sia Berlusconi ieri, sia Salvini oggi, si sono sempre lasciati incantare dal mito della fortezza rossa da espugnare con gli slogan e le recriminazioni identitarie: non hanno mai pensato di proporre una vera alternativa a livello di amministrazione, forse semplicemente perché non era disponibile o credibile. Il giorno che lo sarà, qualcosa mi dice che l'Emilia smetterà di essere rossa nel giro di poche ore. Ma è una prospettiva lontana, lontana. Il centrodestra che tira è il centrodestra che la spara più lunga, tant'è che al declino della stella di Salvini sta iniziando a sorgere quella di Giorgia Meloni. Le chiacchiere che producono funzionano in tv, funzionano sui social, funzionano in tante edicole e bar, ma non ti fanno vincere le elezioni, perlomeno tra Taro e Rubicone. È una bella giornata oggi, dai.
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La passione mancata di Bettino C.

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La sera del 23 aprile del 1993 gli uomini della scorta di Bettino Craxi gli chiesero invano di uscire dal retro dell’Hotel Raphael. Nella piccola piazza antistante, già da un paio d’ore, si era formata una folla sempre più rumorosa che brandiva biglietti da mille lire (91 centesimi del 2020, al netto dell’inflazione). “Vuoi pure queste?", cantavano, "Bettino, vuoi pure queste?”, sull’aria di Guantanamera. Craxi, essendo Craxi, decise che non si sarebbe lasciato intimorire da quella che riteneva una manifestazione organizzata dai suoi avversari politici. Uscì dall’ingresso principale. E... si lasciò intimorire, eccome. “Ho provato per la prima volta sulla mia pelle lo squadrismo”, disse poi. Non c’è motivo di dubitare che si sia trattato di un vero choc per lui, al termine di una giornata particolarmente drammatica. Ma nel filmato il tragitto tra la porta dell’hotel e l’auto blu non dura più di quattro secondi, durante i quali gli agenti di polizia gli fanno da scudo umano. È vero, la piazza era piena (ma è anche abbastanza piccola). È vero, i manifestanti stavano tirando “di tutto! monetine, pezzi di vetro, di tutto!”, come gridò nel microfono l’inviata Rai Valeria Coiante. Ma non fu squadrismo, nel senso che il termine ha sui libri di Storia di cui Craxi era avido lettore: non fu l’azione di una banda armata nei confronti di un avversario politico inerme. Craxi era ben difeso, dalle forze dell’ordine di uno Stato che aveva appena deciso – con un voto del Senato – di non indagare su quattro delle sei accuse che i magistrati gli rivolgevano. La decisione era stata accolta con rabbia da una parte rilevante dell’opinione pubblica, e qualcuno aveva deciso di aspettarlo fuori dal Raphael. Tutto qui, e forse non sarebbe stato questo macigno sulla traiettoria politica di Bettino Craxi, se per una volta avesse deciso di essere un po’ meno Craxi e di uscire dal retro. In fin dei conti era il 1993, Craxi non era il primo leader politico a rimediare fischi e monetine, né sarebbe stato l’ultimo.

Perché non riusciamo a rivalutare Craxi? Nemmeno dopo vent’anni – vent’anni passati all’ombra di politici quasi sempre inferiori a lui per cultura e strategia – perché non riusciamo a dare allo statista quel che gli spetta? Cosa posso dire, è complicato. Forse per la mia generazione è una questione di imprinting. Nel 1993 io ero una matricola universitaria e detestavo Craxi da sempre, cioè al massimo da dieci anni: come tutti i politici del periodo, avevo imparato a riconoscerlo dalle caricature di Forattini sulla prima di Repubblica. Spadolini era quello nudo, Andreotti quello quadrato, Craxi era vestito da Mussolini, e molto spesso al balcone. Da un certo punto in poi diventò una questione tribale, come per qualsiasi altra cosa negli anni Ottanta: o si era per Prince o per Michael Jackson, non c’erano mediazioni possibili; tra fan dei Duran Duran e fan degli U2 non erano contemplate possibilità di dialogo (solo relazioni clandestine, come tra Montecchi e Capuleti). Quanto a Craxi, lo si detestava come si detestavano i personaggi arroganti delle fiction imposte dai genitori. In seguito avremmo avuto tutto il tempo e l’agio per rivalutare qualsiasi scemenza di un decennio a conti fatti abbastanza spensierato, ma questo non significa che non avesse un senso detestarlo, mentre ci vivevi. Rifiutare l’estetica del disimpegno, rifiutare far caso alle crepe nella narrazione del benessere, sentirsi semplicemente tristi nel bel mezzo di una festa di adulti: una cosa molto adolescenziale, e del resto eravamo davvero adolescenti. E Craxi e Andreotti sembravano eterni, parte del paesaggio, come la mafia e l’inflazione. Mani Pulite arrivò come il grunge: non ci speravamo nemmeno, non credevamo di meritarcelo, eppure da un giorno all’altro li mandò a casa tutti.


Ora, tutto questo è molto puerile, e abbiamo avuto trent’anni per rimetterlo in discussione. Trent’anni in cui abbiamo persino rivalutato i Duran Duran: perché non Craxi? Che davvero, qualche argomento lo aveva.

A volte ho il sospetto che sia anche responsabilità dei craxiani... (continua su TheVision) una tribù ormai minuscola ma irriducibile, che a ogni anniversario si riversa in televisione e sui giornali impossessandosi dell’argomento. Non importa quanto tempo sia passato, e quante impressioni nel frattempo uno abbia accumulato: basta accendere la tv, sentirli parlare e le mani corrono al portafoglio, alla ricerca di altre mille lire che vorresti di nuovo brandire in favore delle telecamere. Un episodio che, capitasse oggi a un politico di rango analogo, sarebbe liquidato da un Salvini o da un Renzi con un #abbraccio o un #ciaone, a distanza di quasi trent’anni è ancora raccontato dagli orfani e dai vedovi di quella stagione con accenti epici.

Ogni tentativo di santificare Craxi si scontra con questo problema: la cosa più tragica che in Italia viene ricordata del declino di Craxi, l’apice della lotta al sistema politico corrotto che aveva contribuito a costruire, è stata una pioggia di monetine. Certo, se Craxi fosse rimasto in Italia avremmo visto scene ben più tragiche, ma lui per primo non se l’è sentita. Va biasimato per questo? Dopotutto era stato lui stesso a costruire il suo personaggio, con molta attenzione per i costumi e l’intonazione della voce.

Craxi in questo modo ha finito per impersonare quel tipo di eroe greco la cui hybris gli Dei non si stancano di punire. E di peccati ne ha commessi ben due: il primo è la la collusione con un sistema corrotto; il secondo è che per un intero decennio ha voluto e creduto di poter diventare il Mitterrand italiano, di mettere sotto scacco la DC e di poter profittare dell’esaurimento ideologico del PCI; ha creduto di poterci riuscire da solo, con una strategia attendista che faceva a pugni con quel “decisionismo” che credeva di impersonare. Per tutto quel tempo il suo partito non ha mai superato il 15% dei suffragi. Malgrado questo, Craxi puntava davvero alla Grande Riforma presidenziale: non molto diversamente da Renzi nel 2016 (che in questi giorni lo ha ricordato con una certa ammirazione) da Berlusconi in passato, riteneva che gli italiani, messi di fronte a una scelta secca tra lui e chiunque altro, avrebbero scelto lui. Si sbagliava, e non di poco: oggi lo sappiamo con certezza, ma non era poi così difficile capirlo anche allora. Gli elettori comunisti non gli avrebbero mai perdonato l’abolizione della Scala Mobile, e su un piano più tribale l’imboscata del Congresso PSI del 1984, quei fischi a Berlinguer da cui non aveva preso le distanze (anzi: “Se sapessi fischiare, fischierei anche io”). Gli elettori della sinistra DC non gli avrebbero mai perdonato il tradimento di De Mita, il patto col camper con Andreotti e Forlani, al punto da applaudire ai propri ministri che si dimettevano dal governo Amato piuttosto di non votare il decreto salvaberlusconi voluto da lui: quel momento che più di tutti preannunciava la fine della DC e della Prima Repubblica, se non già l’inizio dell’Ulivo.

Al di fuori del suo partito – trasformato a metà anni Ottanta in un’estensione del suo ego – Craxi era fortemente impopolare, ma non è mai sembrato preoccupato della cosa e forse non ne era nemmeno consapevole, come capita agli uomini potenti quando la salute declina e i cortigiani cominciano a stringere il cerchio. Fino a quella fatidica pioggia di monetine, che più che un linciaggio fu una doccia fredda. Gli italiani non si sono accontentati della versione dei fatti che ha reso in parlamento, incolpando l'intero sistema per sminuire le responsabilità dei singoli corrotti, per poi fuggire in Tunisia e fare il martire con vista mare.

In seguito abbiamo avuto più di un’occasione per riflettere sulla complessità di un sistema che si dice democratico ma che rende impossibile per i partiti finanziare le loro attività (situazione denunciata con impeto da Craxi sotto la voce ipocrisia, durante il discorso pre-monetine); abbiamo scoperto che i quotidiani funzionano davvero come macchine del fango, condannando gli indagati molto prima che se ne celebrino i processi; abbiamo verificato come i magistrati abusino spesso di intercettazioni e detenzioni preventive. Insomma abbiamo avuto tutto il tempo che ci serviva per ammettere che Bettino Craxi diceva la verità sulle profonde contraddizioni e le aberrazioni diffuse del nostro Paese. Ma abbiamo anche avuto tutto il tempo che serviva per riconoscere che quello che è stato tramandato come un linciaggio non lo è stato affatto: qualche monetina lo mancò di diversi centimetri, qualche manifestante gli sventolò da lontano banconote di mille lire. Craxi, che nel discorso del 29 aprile aveva accettato di rappresentare gli anni Ottanta italiani e ne rivendicava i progressi, rappresentava anche una classe dirigente che assistette impotente al quadruplicarsi del debito pubblico. Quello stesso debito che stiamo ancora pagando tutti, e che forse spiega meglio di tante parole quanto sia difficile riabilitarlo davvero (e quanto fosse facile cavarsi di tasca cento lire e lanciarle a un uomo antipatico, nell’aprile del 1993).
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La vocazione (maggioritaria) all'autodistruzione

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Sarà una coincidenza? Proprio nella settimana in cui abbiamo salutato la nascita di un nuovo movimento di opinione (le “sardine”), i dirigenti del PD hanno deciso di aprire un dialogo con la Lega sulla prossima legge elettorale. I leghisti la vorrebbero più maggioritaria e anche Zingaretti sembra d’accordo, in vista di un auspicato ritorno al bipolarismo. Del resto il M5S continua a scendere nei sondaggi, Forza Italia sembra in fase terminale, Renzi e Calenda dovrebbero contendersi un bacino di elettori abbastanza ininfluente, per cui, insomma, il futuro dovrebbe essere una sfida a due, ed è chiaro che i due vorrebbero essere PD e Lega. Non è scritto nel destino, ma potrebbe diventarlo con la legge giusta: il maggioritario. E proprio nei giorni in cui Zingaretti decide di pronunciarsi sull’argomento, le piazze emiliane suonano un colpo e cominciano a riempirsi di gente che nessuno aveva previsto o calcolato.

Si chiamano sardine, vabbe’, e da dove vengono? Un po’ da ovunque. Alcune affiorano per la prima volta nello specchio della politica, altre hanno perso la voglia di votare tanti anni fa, altre ancora si sono appena disamorati del movimento che fu di Beppe Grillo (e non hanno nessuna intenzione di ammetterlo). Che cosa vogliono? Tante cose vagamente “di sinistra”: ecologia, solidarietà, antirazzismo, tanti temi difficili da sintetizzare in uno slogan o un programma. Anzi no, non è così difficile: non ne possono più di Salvini e del suo sovranismo razzista e cialtrone. Visto: alla fine serve poco per mettersi d’accordo. Basta individuare un nemico, e Salvini sembra non chiedere di meglio.

Va bene, ma per chi voteranno? Ecco. Senz’altro non Salvini, e molto difficilmente le altre formazioni di centrodestra ormai satellitari alla Lega. Ma da qui a mettere tutti una croce sullo stemma del PD ce ne passa: soprattutto in Emilia-Romagna, dove il PD è considerato il partito dello status quo, e in alcune città governa senza soluzioni di continuità dalla fine della seconda guerra mondiale (pur con nomi diversi, e una classe dirigente ormai completamente diversa per mentalità e cultura). No, non è possibile pretendere che tutte le sardine votino per il PD di Bonaccini – finché c’è ancora un sistema ragionevolmente proporzionale...


...Ma con un buon maggioritario, ecco, alle sardine e agli altri pesci non resterebbe altra scelta: o padella o brace.

La strategia di Zingaretti a questo punto si lascia facilmente decifrare: che bisogno c’è di rifondare un partito di centrosinistra che sappia farsi interprete delle necessità e delle attese della popolazione, quando basta presentarsi come l’unica alternativa valida a Salvini? In fondo basta essere un po’ meno brutti e cattivi di Salvini: non ci vuole molto. Certo, c’è sempre la possibilità di perdere le elezioni. Più che una possibilità, coi sondaggi attuali, è una certezza: gli alfieri democratici del maggioritario sembrano davvero determinati a concedere una vittoria elettorale anche a personaggi inquietanti come Salvini, pur di far piazza pulita dei nemici ‘interni’ del centrosinistra. E in effetti, con un buon sistema maggioritario che polverizzasse i piccoli partiti, il PD resterebbe in parlamento l’unico punto di riferimento credibile dell’opposizione. Questo forse non salverebbe l’Italia dalla deriva sovranista e xenofoba di Salvini e dei suoi alleati, e proprio in un momento in cui l’emergenza climatica richiederebbe misure sempre più drastiche e impopolari.

Ma anche in caso di completa catastrofe politica e ambientale dirigenti del PD potrebbero consolarsi di essere almeno sopravvissuti a Renzi, a Calenda, a Rizzo, ecc.: di aver finalmente estirpato quei perniciosi partitini che ai tempi di Prodi venivano chiamati “cespugli”. Col napalm, e distruggendo l’intera foresta: ma pazienza.

Se da lontano può sembrare una strategia suicida, è perché lo è davvero. Possiamo dirlo senza timore di esprimere un pregiudizio, visto che tutto questo è già successo almeno una volta. In fondo Zingaretti non fa che applicare uno schema che è antico quanto il PD (2007), anzi è in un qualche modo scritto nel codice sorgente del PD, al punto che viene da domandarsi se non sia il destino del PD: diserbare il centrosinistra e regalare le elezioni al centrodestra.




È uno schema tutt’altro che segreto, di cui anzi si parlò per anni prima di metterlo finalmente alla prova. Si tratta della cosiddetta “vocazione maggioritaria”... (continua su TheVision), il tratto che nel 2007 doveva distinguere il nuovo partito dai vecchi che lo avevano tenuto a battesimo, DS e Margherita. L’insofferenza nei confronti dei piccoli partiti nasceva dalla situazione contingente: nel 2006 l’Unione di Prodi aveva ottenuto una risicatissima vittoria elettorale contro il centrodestra di Berlusconi. Ne era nato un governo, il Prodi II, che navigava a vista, sostenuto da una litigiosa coalizione che includeva dieci partiti, alcuni molto pittoreschi e in perenne competizione tra loro (memorabili le risse tra Di Pietro e Mastella, entrambi segretari di mini-partiti personali). Nel fondare il nuovo partito, Veltroni spiegò chiaramente che avrebbe messo fine a quel caos. Il suo obiettivo era conquistare la maggioranza degli italiani: e dal momento che la maggioranza degli italiani non sembrava già allora così ansiosa di lasciarsi conquistare da una proposta di centrosinistra (seppure molto annacquata), Veltroni prevedeva già al tempo qualche correzione della legge elettorale “in senso maggioritario”.

Nel frattempo la nascita del nuovo soggetto politico perturbava i fragilissimi equilibri del governo Prodi II, causando una crisi di governo e un’elezione anticipata a cui il PD veltroniano decise di presentarsi senza alleati a sinistra. Il risultato non fu una semplice sconfitta, ma un doppio disastro: il centrodestra di Berlusconi vinse con una larghissima maggioranza, malgrado i tredici milioni di voti raccolti dal PD (un record mai più eguagliato: ma l’Unione di Prodi nel 2006 ne aveva raccolti ben diciannove). I dirigenti del PD potevano però festeggiare di aver fatto scomparire dal parlamento i piccoli partiti d’ispirazione comunista e ambientalista. Una consolazione che già allora appariva piuttosto magra, ma il peggio doveva ancora venire.

Di lì a poco ci saremmo accorti che non bastava eliminare la sinistra antagonista dal parlamento per convincere tutti i suoi elettori a convergere sul PD. Nel 2007 Beppe Grillo aveva già dimostrato di poter riempire le piazze con un programma politico che per il momento si riassumeva in Vaffanculo (anche in quel caso, come per Sardine di 12 anni dopo, Bologna fu l’incubatrice). Il 2008 fu invece lanno dellOnda, forse il movimento studentesco più partecipato degli ultimi vent’anni. Mentre nel 2009 ad autoradunarsi nelle piazze fu il Popolo Viola, oggi dimenticato ma concettualmente non troppo distante dai toni e dalle posizioni delle Sardine di oggi, benché al tempo il nemico pubblico numero uno fosse Silvio Berlusconi. In questi e in altri casi, le piazze reali e virtuali hanno reagito a quello che percepivano come un vuoto di rappresentanza politica. Senz’altro il Pd non era il partito adatto a colmare quel vuoto, preso com’era dallinseguimento di un fantomatico elettorato moderato. Ma era proprio così necessario lottare pervicacemente affinché quel vuoto non venisse riempito da nessun altro?

La parabola del PD tra Veltroni e Bersani dovrebbe essere un esempio di scuola: una volta cacciata Rifondazione Comunista dal parlamento (una Rifondazione peraltro nella sua fase più ragionevole, disposta a votare persino il rifinanziamento delle missioni militari) il PD vi ritrovò un ben più agguerrito Movimento Cinque Stelle che di dialogo non ne voleva sapere. Oggi che il M5S è in crisi, Zingaretti sembra convinto che sia stato soltanto un incidente di percorso, un inciampo lungo il percorso che dovrebbe fatalmente portare la politica italiana verso il suo destino bipolare e bipartitico. E questo malgrado in tutta l’Europa il bipolarismo novecentesco appaia in crisi: persino nel Regno Unito, dove la Brexit ha sparigliato le carte creando un fronte trasversale che divide i partiti principali (il Labour più che i Tories).

Ma è proprio guardando all’Europa che ci accorgiamo quanto sia simile il Pd ai vecchi partiti socialdemocratici che in Spagna, Francia e Germania cercano di contrastare un declino che appare inevitabile (la cosiddetta “pasokizzazione”, da Pasok, il nome del vecchio partito socialista greco divenuto capro espiatorio della crisi ellenica). Alla fine la diffidenza dei democratici nei confronti del movimentismo odierno è più comprensibile dell’ossessione di Veltroni e soci per i “cespugli”. Non si tratta più di ripristinare una governabilità messa in pericolo da partitini litigiosi: i movimenti di oggi sono meno radicati ma possono espandersi all’improvviso come funghi, e altrettanto all’improvviso implodere: poco inclini al compromesso, non si accontentano di qualche fettina di potere ma si fanno portatori di istanze contraddittorie e spesso impraticabili. Tutto questo almeno vale per il Movimento Cinque Stelle, ma anche per chi presto o tardi ne prenderà il posto: probabilmente non saranno le Sardine, ma qualcuno comunque quel posto lo prenderà. Visto che lo spazio c’è, che il PD non lo reclama e la Lega più di tanto non riesce a penetrarlo. Succederà alla faccia di qualsiasi legge elettorale nel frattempo Lega e PD avranno congegnato per impedirlo: succederà perché semplicemente c’è gente che a una logica bipolare non si rassegna. E la storia del M5S si ripeterà di nuovo – non necessariamente in farsa. Anche perché sembra improbabile, più farsesca di così.
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PD e 5Stelle, separati alla nascita

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Un accordo di governo tra Pd e M5S: fino a qualche settimana fa sembrava impossibile, e forse lo è. Certo, il parlamento lo ha accettato: ma la base? Prima o poi qualcuno dovrà spiegare ai milioni di elettori Cinque Stelle che il Pd non è più il partito di Bibbiano. Prima o poi qualcuno dovrà convincere gli elettori del Pd che il ministro Di Maio non è più “er bibbitaro“, e che Rousseau in fin dei conti è una semplice piattaforma di consultazione interna, con molte falle nella sicurezza e zone d’ombra, ma del tutto legittima. Prima o poi, due popoli aizzati da anni l’uno contro l’altro su media e social network dovranno seppellire l’ascia di guerra.

Ammesso che sia possibile, chissà se ne vale la pena. Pd e M5S potrebbero riallontanarsi tanto velocemente quanto si sono avvicinati. A farli convergere per un istante sarebbero mere considerazioni tattiche, in un tentativo più o meno disperato di resistere a un Salvini trionfante nei sondaggi. Ecco l’unica cosa che avrebbero in comune, gli elettori dem e grillini: il nemico. In politica è normale trovarsi a letto col nemico del proprio nemico, ma non significa che devi andarci d’accordo tutto il giorno. Non resta che stringere i denti e ricordare che Di Maio-Zingaretti è meno peggio di Di Maio-Salvini. Con queste premesse, è chiaro che l’alleanza potrà durare fino a un calo di Salvini nei sondaggi, o il nodo di qualche inchiesta su di lui non giunge al pettine. Dopodiché, o si troverà un altro nemico in comune, oppure addio. Potrebbe anche essere tutto qui.

Oppure democratici e cinquestelle potrebbero approfittare di questo strano flirt estivo per rimettersi in discussione. Per qualche anno si sono odiati e disprezzati, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ma quando è cominciato tutto questo, e chi l'ha deciso?

Quella tra elettori del M5S e del Pd non è la tipica contrapposizione ideologica che separa – per fare un esempio – fascisti e comunisti. Non è nemmeno una nuova forma di lotta di classe: i bacini sociali dei due elettorati sono contigui, forse sono gli stessi. Anche l’interpretazione che va per la maggiore (Pd elitista contro M5S populista) convince fino a un certo punto: il Pd ha molto spesso assorbito spinte populiste (specie nella fase rottamatrice della segreteria Renzi), mentre il M5S sembra essere il partito più votato dai laureati. Fingiamo di essere appena arrivati in Italia da un altro pianeta: di fronte a due partiti che si odiano e si spartiscono gli stessi serbatoi elettorali, non potremmo che concludere che si tratta del risultato di una scissione. Non abbiamo mai pensato di analizzarla da questo punto di vista, ma forse potremmo.

Se non è facile trovare una data per sancire l’inizio dell’odio tra i due soggetti politici, è certo che già nell’estate del 2007 c’era una forte diffidenza reciproca. Nell’ottobre di quell’anno i leader di Margherita e Ds decidono di fondersi in un unico partito, con Walter Veltroni come segretario, eletto durante le prime primarie aperte ai cittadini della storia repubblicana. Fino a quel momento lo schema dei Democratici di sinistra era stato quello dalemiano di coalizzarsi con forze più centriste (le schegge dell’esplosione della vecchia Dc), cercando di arginare Berlusconi. Lo schema era sembrato efficace con l’Ulivo di Prodi nel 1996, ma molto meno con l’Unione di dieci anni dopo. Per Veltroni, apparentemente più bonario, quelle stesse forze andavano attirate e assorbite, eliminando gli elementi meno assimilabili grazie a una legge elettorale che prevedesse una soglia di sbarramento sufficientemente alta. D'Alema non credeva nella strategia di Veltroni ma in un certo senso la preparava; Veltroni era insofferente dei tatticismi di D'Alema, ma in un certo senso li portò a compimento. Perché sia i dalemiani che i veltroniani erano convinti che l'unico modo di vincere le elezioni fosse andare verso il Centro, visto come un'immensa pianura in cui pascolava un abbondante elettorato moderato che non poteva davvero sopportare la volgarità di Berlusconi e prima o poi lo avrebbe abbandonato. Sia D’Alema che Veltroni erano convinti che il futuro della socialdemocrazia fosse una liberaldemocrazia allineata alle direttive di Maastricht, mitigata da alcuni ammortizzatori sociali da decidere poi con calma. Il fatto che la classe media cominciasse a impoverirsi non destava molte preoccupazioni: l’eventualità che la frustrazione degli elettori li portasse a cercare formazioni politiche più estreme sembrava fantascienza. Sia D'Alema che Veltroni erano convinti che la battaglia si sarebbe vinta al centro perché, in sostanza, sia D'Alema che Veltroni erano buoni politici di Centro, e non facevano che tendere a sé stessi. E sia D’Alema che Veltroni non ci arrivarono mai.



Oggi forse si è chiarito il perché... (continua su TheVision)


Oggi forse si è chiarito il perché: quel favoloso centro in realtà non esisteva, non era una piana sconfinata ma uno spazio residuale. Tutt'altro che moderati erano gli elettori del sedicente centrodestra: tutt'altro che moderati i toni con cui Berlusconi li aveva attirati e sedotti, raccontando di un pericolo rosso incarnato persino nelle forme rassicuranti e democristiane di Romano Prodi. Berlusconi non sarebbe stato sconfitto dalla moderazione: se solo qualcuno l'avesse capito prima del 2008. Beh, in realtà qualcuno l'aveva capito. 

No, in realtà lo avevano capito in molti. Marco Travaglio, per esempio, che sull'antiberlusconismo aveva già costruito una carriera e che di lì a poco ne avrebbe fondato l'organo di stampa. Antonio Di Pietro, che stava portando il suo piccolo partito giustizialista a conduzione famigliare a sfiorare il 5%. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, i due giornalisti del Corriere autori del caso editoriale del 2007, La Casta, in cui la classe politica italiana veniva accusata di una voracità insaziabile. E Beppe Grillo, che nel settembre di quell'anno celebrò a Bologna il suo primo V Day, un fluviale comizio a pagamento. Il pretesto era una raccolta firme per una legge di iniziativa popolare che conteneva già in nuce uno dei cardini del futuro movimento 5 Stelle: il tetto massimo di due legislature per i parlamentari. 

Alla fine dell'estate 2007 insomma la situazione era chiara a chiunque la volesse capire: gli elettori non stavano cercando contenuti moderali, anzi. Da tredici anni Berlusconi catalizzava l'opinione pubblica, polarizzandola tra due schiere di fan e haters. Se tra i fan cominciava a serpeggiare la delusione per un nuovo miracolo italiano mai realizzato, la rabbia accumulata degli haters ormai tracimava verso nuovi obiettivi: non più soltanto Berlusconi, ma anche tutti i politici che non erano riusciti a batterlo, anzi non ci avevano nemmeno provato: e in effetti né D'Alema né Prodi erano riusciti a far approvare una legge sul conflitto d'interessi; quanto a Veltroni, stava promettendo che Berlusconi non lo avrebbe nemmeno nominato.

La scissione avvenne in quel momento, anche se non ce ne accorgemmo subito e forse non ce ne siamo ancora accorti. Eppure sapevamo che la folla accorsa a Bologna per firmare le proposte di legge di Grillo era formata in gran parte da elettori di centrosinistra. Elettori sempre meno interessati ai discorsi moderati di un Veltroni alla vana ricerca di un Centro che alla fine coincideva con sé stesso. Nel 2008 prese comunque 15 milioni di voti (alla Camera), un dato mai più raggiunto dal PD ma inferiore di 4 milioni al risultato dell'Unione di Prodi due anni prima: anche stavolta la conquista del Centro era rimandata. A quel punto si dimise, ci furono nuove primarie e Beppe Grillo chiese di partecipare. Era soltanto una provocazione: stava già iniziando ad approvare liste locali con le cinque stelle nel simbolo. 

In quell'occasione Piero Fassino pronunciò la famigerata frase che gli sopravvivrà: "Il Pd non è un taxi su cui chiunque può salire. Se Grillo vuole fare politica fondi un partito. Metta in piedi un'organizzazione, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende". Nel 2013 ne avrebbe presi più di otto milioni, superando di misura il PD di Pierluigi Bersani. Il partito che era nato per conquistare il centro moderato lo aveva completamente perso, e oggi sappiamo perché: sappiamo che non era affatto moderato. Sappiamo che sotto la cenere covava un risentimento che abbiamo chiamato prima antipolitica e dopo populismo, e che Grillo ha cavalcato un po' per buona fede un po' per calcolo, finendone quasi travolto. Sappiamo che è un magma in cui si trovano ormai fuse assieme istanze che una volta erano di pura sinistra (l'ecologismo, la questione morale) e veleni di estrema destra. Con questo magma, il PD ora dovrebbe tentare di costruire un'alternativa al sovranismo eterodiretto di Salvini e camerati. Forse è impossibile, probabilmente è troppo tardi, purtroppo non ci sono alternative.
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We are stardust, we are golden

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"Mi sono imbattuto in un figlio di Dio, stava camminando sulla strada. Gli ho chiesto dove stava andando e questo mi ha detto: Sto andando alla fattoria di Yasgur, entrerò in una rock'n'roll band, mi accamperò nella campagna e cercherò di liberare la mia anima.

Mezzo secolo fa stava per cominciare Woodstock, tre giorni di pace amore e musica, e voi non c'eravate. Non è grave. Non c'era nemmeno Joni Mitchell, che pure avrebbe descritto meglio di ogni altro lo spirito di quei tre giorni nella canzone che si chiama, appunto, Woodstock.


Si sa che la colpa in questi casi è del manager: Elliot Roberts aveva convinto Joni che una comparsata televisiva al Dick Cavett Show sarebbe stata una promozione più efficace per il suo secondo album – invece di quell'"Aquarian Exposition in White Lake, NY" che sui manifesti citava Woodstock anche se la contea di Woodstock aveva rifiutato di ospitarlo. Per la cultura giovanile dell'epoca era già un toponimo famoso: il mitico villaggio dove Bob Dylan si era ritirato dopo l'incidente in moto, cancellando una tounée e si era dedicato a far musica in cantina coi suoi amici, suggerendo a un'intera generazione di allontanarsi dalle insidie urbane e tornare al territorio. Ma il festival di Woodstock si sarebbe tenuto 70 chilometri più a sud, nella fattoria del signor Max Yasgur. Lo avrebbero organizzato promoter alle prime armi, e malgrado il cartellone stratosferico nessuno sapeva esattamente come sarebbe andato a finire. Siamo polvere di stelle, siamo oro. E dobbiamo ritrovare la strada per il Giardino...

Finì che invece dei cinquantamila spettatori previsti ne arrivarono quasi cinquecentomila; che chi non si era procurato i biglietti entrò lo stesso; finì che i set degli artisti si dilatarono al punto che Jimi Hendrix, che aveva insistito per chiudere il concerto di domenica 17 agosto, terminò alle 11 del mattino di lunedì. Ma in un qualche stranissimo modo, finì bene: anche se il Dylan tanto evocato non volle presentarsi, perché non sopportava gli hippie (e gli organizzatori del festival all'Isola di Wight lo pagavano meglio). Malgrado gli ingorghi stradali, la disorganizzazione, l'insufficienza delle strutture igieniche e sanitarie, il fango e il caos, e l'allarmismo dei quotidiani che imploravano ai cronisti in loco di calcare su violenze e disastri che avrebbero potuto benissimo esserci, e invece miracolosamente non ci furono. Finì con Max Yasgur che distribuiva acqua gratis, il medico di campo che lodava il comportamento dei giovani, almeno una morte per overdose e almeno un parto prematuro. La cosiddetta controcultura divenne la cultura egemone di una generazione, e a chi non ne voleva vedere le contraddizioni fu offerto ancora qualche mese di tempo. Per i babyboomers americani Woodstock fu un successo necessario quanto inatteso: e Joni Mitchell non c'era.

"Allora posso camminare dietro di te? Sono venuta qui per sfuggire allo smog, e sento di essere l'ingranaggio in qualcosa che si sta muovendo. Forse è un periodo dell'anno, o forse è un periodo dell'uomo. Non so bene chi sono, ma sai, la vita serve a imparare".

Anche in tv si ritrovò a condividere la ribalta con i reduci del concerto che nel giro di due giorni era diventato la notizia di apertura dei telegiornali. Dick Cavett la mise a sedere in cerchio con Grace Slick dei Jefferson Airplane, che parlava del suo set domenicale come di un'esperienza religiosa e non era del tutto ironica; col suo ex David Crosby che diceva di aver assistito alla "cosa più strana mai avvenuta sulla terra", con Sthephen Stills, che sfoggiava ancora orgoglioso i jeans sporchi di fango. A Woodstock c'era stata una battaglia, l'unica che in quel momento aveva un senso combattere: la pace aveva vinto sulla guerra, la speranza sul caos, la solidarietà sull'autodistruzione: e Joni Mitchell non c'era. Maledetto manager.

Questa è più o meno la leggenda consegnata ai cronisti, ma qualcosa non torna. Quando Joni compose Woodstock aveva 25 anni. Neanche al tempo poteva sembrare un'hippie ingenua – non lo era mai stata. A otto anni aveva cominciato a comporre al piano, a nove a fumare; a dodici aveva temporaneamente abbandonato la scuola e iniziato a suonare la chitarra con gli artisti di strada di Saskatoon, Saskatchewan, Canada, cominciando a inventare accordature alternative perché la poliomelite contratta a nove anni le aveva lasciato delle difficoltà articolari. A 20 anni si era spostata a Toronto, con l'idea di fare la folksinger nel breve momento in cui il folk di Joan Baez e del primo Bob Dylan soppiantava il rock nell'immaginario giovanile. Suonava più nelle strade che nei caffè, lavorava ai grandi magazzini; rimasta incinta, aveva sposato un cantautore che le aveva promesso di allevare il figlio come suo (promessa non mantenuta). A 24 aveva lasciato il marito e si ritrovava a New York, la capitale di una scena folk che proprio in quel momento stava implodendo. David Crosby, ex chitarrista dei Byrds, era stato il primo ad avvistarla in un caffè e rendersi conto di avere davanti qualcosa di più dell'ennesima cantautrice. Nell'estate del '69 Joni era una interprete promettente e un'autrice già affermata (Judy Collins aveva scalato le classifiche con una sua canzone, Both Sides Now). Ora faceva coppia con Graham Nash, anche lui folgorato sulla strada per la "fattoria di Yasgur", i cui entusiasti resoconti le ispirarono il testo di Woodstock. Del resto loro storica esecuzione di Suite: Judy Blue Eyes immortalata nel film del concerto, avrebbe reso molto più di qualsiasi apparizione televisiva, anche in termini commerciali. Del resto Crosby Stills e Nash riuscirono sia a regalare un set memorabile al concerto (alle tre del mattino!), sia a partecipare allo show di Dick Cavett in tv. Se loro ci riuscirono, perché a Joni fu chiesto di restare in città? Mancava un posto in elicottero? Senz'altro la logistica era complicata, e il manager non voleva rischiare di ritrovarsi con tutti i suoi artisti di punta bloccati nel fango mentre Cavett intervistava quelli della concorrenza.

Probabilmente Elliot Roberts scelse di lasciare indietro proprio lei perché sapeva che Joni era l'artista meno adatta a un evento del genere. Due settimane prima, all'Atlantic City Pop Festival, aveva reagito allo scarso interesse del pubblico abbandonando il palco in lacrime dopo tre canzoni. Joni Mitchell è probabilmente l'esempio più classico di musicista che piace più ai colleghi che al grande pubblico: un'artista dal valore fuori discussione, ma inadatta ai festival di massa. Il che la rese in qualche modo in grado di descrivere meglio di chiunque altro l'essenza di quei festival. Allo stesso modo in cui nessuno aveva raccontato Waterloo meglio di Victor Hugo, che sul campo non c'era e che se ci fosse stato non ci avrebbe capito niente: allo stesso modo Joni, al riparo dagli aspetti più triviali e problematici, dal fango e dal fumo, descrisse Woodstock non per quello che era, ma per quello che Woodstock aveva voluto essere: l'antiVietnam.

"Quando alla fine arrivammo a Woodstock, eravamo forti di un mezzo milione di anime, e ovunque si cantava e si celebrava. E in sogno vidi i bombardieri portare i loro cannoni nel cielo e trasformarsi in farfalle su tutta la nazione. Siamo polvere di stelle, siamo oro. Siamo carbonio di un miliardo di anni..."

Oggi la chiamiamo FOMO, Fear of Missing Out: Joni aveva la sensazione di essersi persa un momento irrecuperabile. Non avrebbe più voluto permetterselo. La canzone era già pronta un mese dopo per il folk festival di Big Sur (un contesto radicalmente diverso, condiviso da poche migliaia di spettatori): nel film la canta in anteprima, circondata da una folla intimidita che non sa esattamente come prenderla. Prima di cominciare le strofe annuncia il ritornello, quasi un invito a cantarlo in coro: un invito assurdo, chi potrebbe mai intonarsi con quella voce acutissima? L'intuizione di Grace Slick si è realizzata: Woodstock è l'inno di una nuova religione, un salmo inaudito e quasi ineseguibile. Forse non era l'intenzione del regista, ma di fronte a un esibizione così intensa e spudorata gli sguardi catatonici degli spettatori e le scenografie medievali sembrano all'improvviso inadeguati come un teatro di cartapesta. Joni arrivava più in alto di tutti, faceva la musica più complessa di tutti e molto difficilmente si sarebbe trovata a suo agio con tutti. La Woodstock incisa dai colleghi Crosby Stills Nash e Young in Déja Vu lo dimostra già indirettamente: è una cover normalizzata, trasformata in un onesto pezzo rock che sembra rifiutare tutte le potenzialità schiuse dalla melodia. L'unica vera Woodstock restava quella altissima di Joni, incisa sul lato B del primo singolo ambientalista della storia del rock, Big Yellow Taxi ("Hanno asfaltato il paradiso e ci hanno messo un parcheggio". "Hanno tolto tutti gli alberi e li hanno messi in un museo degli alberi, e ora chiedono alla gente un dollaro e mezzo solo per vederli").

Il vero battesimo di folla, la canzone l'avrebbe avuto l'anno successivo, al secondo festival dell'Isola di Wight. Ed è lì che i nodi vennero al pettine, almeno per Joni. Che il miracolo pacifico di Woodstock fosse stato fortuito e probabilmente irripetibile lo si era già visto nel dicembre del 1969 ad Altamont, in California, dove l'idea dell'entourage dei Rolling Stones di avvalersi degli Hell's Angels come servizio d'ordine aveva portato a un disastro molto prevedibile, col senno del poi: c'era scappato il morto – accoltellato dagli Angels – e neanche a farlo apposta si trattava di un afroamericano. Se ad Altamont i concertoni avevano rivelato il loro lato violento, all'Isola di Wight si rivide all'improvviso qualcosa che il flower power sembrava aver annullato: il conflitto di classe tra gli hippy ricchi che avevano potuto permettersi traghetto e biglietto e i poveracci che una volta approdati sull'isola si erano visti confinati in un recinto scomodo e remoto dal palco, prontamente battezzato Desolation Row dagli orfani di Dylan. Tra i reclusi di Desolation Row c'era anche un vecchio maestro di yoga di Joni Mitchell (continua su TheVision...)



"Quel tipo, Yogi Joe, lo conoscevo dai tempi delle grotte di Matala, mi ha dato la prima lezione di yoga. Me lo ritrovo sul palco all'improvviso, si siede ai miei piedi e comincia a suonare i bonghi, un pessimo senso del ritmo. Alza gli occhi su di me e dice: "Lo spirito di Matala, Joni!" Io sposto il microfono e gli dico: "Questo è assolutamente inopportuno, Joe". Era Woodstock, di tutte le canzoni... Al termine dell'esibizione Yogi Joe prese il microfono, annunciò che "Desolation Row è il festival, signori e signore", e continuò a tenerlo finché la security non lo trascinò fuori".

Nel film lo vediamo poi declamare Woodstock e sragionare in favore della cinepresa ("Sono venuto a parlare con la mia vecchia amica Joni Mitchell. Siamo polvere di stelle, siamo oro, siamo presi nella trappola del demonio"): l'archetipo dell'hippy sballato che rovina la festa a tutti. Ma per quanto possa sembrare il peggior avvocato possibile per le sue rivendicazioni, il pubblico non fischia subito lui. Fischia Joni, che non può accettare di rovinare la sua Woodstock coi bonghi (non ha ancora sviluppato quel gusto tribale che la condurrà a The Jungle Line o Dreamland). Joni Mitchell che chiede al pubblico il rispetto per l'artista – spezzando quella illusione democratica che si era costruita a prudente distanza dai grandi palchi. Bagnarsi nello stesso fango del pubblico non è più possibile, se mai lo è stato. Gli hippie saranno anche polvere di stelle, ma troppo spesso sono piantagrane sciroccati senza rispetto per gli artisti. Big Sur è lontana, Woodstock è già un museo di cere. Con l'Isola di Wight finisce la storia d'amore impossibile tra Joni Mitchell e i grandi festival.

Proprio in quei giorni Woodstock scala le classifiche, ma in una versione completamente diversa sia da quella originale che da quella di CSNY: a reinterpretarla è un gruppo semisconosciuto fondato da Ian Matthews, già cantante dei Fairport Convention prima che sfondassero. Il gruppo si chiama Matthews Southern Comfort, e la loro Woodstock aggiunge all'originale un sapore nuovo. Tecnicamente si tratta della pedal steel, una bizzarra chitarra da tavolino che scivola languida tra una nota e l'altra senza soluzione di continuità, e al momento dell'assolo sembra davvero incerta sulla direzione da prendere. La suona l'inventore dello strumento, Gordon Huntley. Ma il vero valore aggiunto dell'interpretazione dei Southern è l'improvviso senso di nostalgia per qualcosa che ieri era ancora possibile e oggi, evidentemente, non lo è più. Joni non aveva nostalgia per Woodstock; solo qualche rimpianto per non esserci stata, e tutta la fantasia per immaginarsela più bella, un sogno oltre il tempo e lo spazio. Ian Matthews la sfoglia già come un vecchio album delle vacanze, con quelle foto dai colori sgargianti che però ingiallivano molto in fretta. Chi ascolta la sua Woodstock non può impedirsi di pensare che i bombardieri non si sono trasformati in farfalle; che la trappola del demonio si era già richiusa tra Altamont e l'Isola di Wight. Nello stesso periodo cominciavano a scomparire, clamorosamente, alcuni degli eroi più promettenti di quell'era: Jimi Hendrix in settembre Janis Joplin in ottobre, Jim Morrison nel luglio successivo. Anche Crosby Stills Nash e Young sbanderanno, imbroccando sentieri diversi che si intersecheranno più e più volte ma non li ricondurranno mai più ai livelli di Déja Vu. Joni avrà ancora una lunga e straordinaria carriera, durante la quale reinventerà la sua musica più di una volta: continuerà a cantare Woodstock, ma non la porterà mai più a un festival.

Il destino più bizzarro di tutti è forse quello di Ian Matthews, che aveva mancato di poco il successo con i Fairport Convention e lo aveva trovato, senza cercarlo, con Woodstock: non morì, e nemmeno litigò coi colleghi. Un bel giorno semplicemente li abbandonò: durante un soundcheck che non stava andando bene, prese un treno e si chiuse in casa per una settimana. Fare la rockstar non gli interessava: interviste e comparsate televisive gli sembravano una perdita di tempo. Da allora non ha più smesso di scrivere canzoni e incidere dischi, ma non ha mai più ottenuto il successo di Woodstock. Forse non ci ha nemmeno provato. Siamo d'oro, siamo di polvere.


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L'Invalsi fa politica, anche se non lo sa

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Se negli ultimi giorni non siete stati completamente assorbiti dal diabolico piano neonazista per uccidere Matteo Salvini, o dal diabolico piano del Pd per rubarvi i figli e darli in adozione ai gay, può darsi che anche voi abbiate sentito parlare dell'ultimo rapporto Invalsi, appena pubblicato. Può darsi che sulle vostre bacheche sia comparso qualche titolo disperato: un terzo degli studenti non sa leggere un brano in italiano! Può darsi che vi siate imbattuti in qualche accigliata riflessione: avete voluto il sei politico e adesso guarda cos'è successo, alle medie non si fa più analisi grammaticale e il risultato è una catastrofe. Può davvero darsi che abbiate letto cose del genere – ebbene, indovinate: non è praticamente vero niente.

Niente. Non solo non risulta a nessuna Procura un complotto neonazista contro Salvini. Non solo non risulta fin qui nessun dirigente Pd indagato denunciato per aver tolto un figlio a un genitore. Non è nemmeno vero che alle medie non si faccia analisi logica e grammaticale: dispiace che Corrado Augias non abbia potuto controllare su un qualsiasi libro di testo, prima di consegnare le sue osservazioni a Repubblica. Quanto al sei politico, è più una leggenda metropolitana che altro: se davvero fu assegnato a qualche classe negli anni Settanta, ormai quegli studenti sono genitori di altri studenti passati attraverso altre quattro riforme scolastiche, tanto vale dare la colpa alla riforma Gentile, se non direttamente a Carlo Magno. Non è nemmeno vero che un terzo degli studenti non sappia leggere un testo: anzi, è proprio un caso di scuola di come un dato statistico possa essere deformato in senso propagandistico, o anche solo perché nelle edicole il titolo allarmista scaccia sempre il titolo accurato.

I test Invalsi sono costruiti proprio per mantenere un terzo del campione al di sotto della media: è quel che prevede il modello teorico che li ispira. Lamentarsi che un terzo dei candidati non superi la media è un po' come denunciare la scarsa qualità del tennis giocato a Wimbledon perché su 128 iscritti solo la metà riesce a passare il primo turno. Senz'altro la comprensione del testo di troppi studenti medi italiani lascia ancora a desiderare, ma di fronte a un giornalismo del genere sorge il dubbio che sia il minore dei mali: che senso ha imparare a leggere meglio se poi quel che c'è da leggere in edicola è una rifrittura delle stesse opinioni stantie prodotte entro il 1989 e poi chiuse in un cassetto? Chi ha ancora necessità di leggere attacchi a fantasmi polemici come il "6 politico", il famigerato "Sessantotto", una mai meglio definita "didattica delle competenze", eccetera eccetera eccetera?

E dire che l'Invalsi per primo fa tutto il possibile per stimolare una discussione più interessante. Il rapporto somiglia a una brochure pubblicitaria, i grafici sono abbastanza chiari, gli argomenti scelti con molta attenzione. Oltre a valutare la scuola pubblica nel suo complesso, l'Invalsi ogni anno valuta sé stessa e non è una sorpresa che si promuova sempre. Chi la vuole criticare senza indulgere ai luoghi comuni si trova invece in difficoltà: un po' perché la mole di dati a disposizione è effettivamente abbondante; un po' perché comunque conosciamo solo i dati che l'Invalsi vuole farci conoscere. Per dire: l'insegnante che ha trovato la domanda X un po' assurda non ha la possibilità di verificare se i suoi studenti siano riusciti comunque a rispondere in modo soddisfacente. In compenso ha tutti i dati a disposizione per osservare i fenomeni che l'Invalsi vuole farci osservare.

Ad esempio: la parola chiave di quest'anno è senz'altro "divario". Divario tra generi (i maschi vanno meglio in matematica, le femmine in inglese), divario tra le regioni: il nord ha risultati migliori della media, il sud inferiori. Nulla di nuovo o sorprendente, e infatti una critica che si può muovere all'Invalsi è che ci fa spendere molti soldi per dirci qualcosa che in sostanza sapevamo già: nelle zone in cui il reddito pro capite è più alto, anche l'offerta formativa è migliore. Lo strumento che secondo alcuni dovrebbe servire a valutare i docenti finisce per suggerire che la possibilità dei docenti di fare la differenza sia scarsa o nulla: un insegnante scarso a Nord avrà comunque studenti più brillanti di un insegnante motivato a Sud. Nei rari casi in cui questo non succede, il meccanismo dell'Invalsi di solito non individua un insegnante meritorio, ma un insegnante disonesto che trucca i risultati. Un fenomeno, il cosiddetto cheating, che negli ultimi due anni si è bruscamente ridotto, ci avverte l'Invalsi, senza fornirci spiegazioni. Ne azzardo una io, almeno per quanto riguarda la prova di terza secondaria di primo grado: fino a due anni fa si somministrava durante l'esame di licenza e faceva media, il che esponeva gli studenti a un rischio di bocciatura e i consigli di classe al rischio di contestazioni e ricorsi. Dal 2018 la prova si fa in primavera e non fa più media: inoltre è finalmente computer based, ovvero gli insegnanti non la correggono più a mano (finalmente!), e quindi non potrebbero truccare i risultati nemmeno se volessero. In compenso la prova non è più ritenuta importante dagli studenti che a volte di fronte all'ennesimo quesito a crocette possono cedere alla tentazione di rispondere a caso. Il fatto un un terzo degli studenti non abbia risposto in modo soddisfacente a un questionario di comprensione di un testo in effetti si potrebbe anche formulare così: un terzo degli studenti non ha capacità o voglia di mettere le crocette nelle caselle giuste. Dove l'Invalsi registra un problema di competenze, un insegnante sul campo potrebbe anche riconoscere un problema di motivazione, e più spesso un composto dei due (chi volesse provare una simulazione delle prove al computer le trova qui: sono meno facili di quel che possono sembrare a prima vista).


Il fatto che anche gli insegnanti non abbiano più la necessità o l'opportunità di sabotare le prove Invalsi non significa che abbiano superato un generale atteggiamento di diffidenza... (continua su The Vision) che è poi la naturale reazione di una categoria a uno strumento imposto dall’alto senza discussioni. È anche vero che in molti casi questa diffidenza assume forme irrazionali: il ministero vuole sostituirci coi computer! Al luddismo dei docenti, l’Invalsi contrappone un entusiasmo positivista che a volte lascia perplessi. Gli esperti e i tecnici dell’ente ministeriale sembrano genuinamente convinti che tre o quattro test abbastanza brevi, quasi tutti a crocette, possano “certificare le competenze”. È la stessa pretesa dei test PISA promossi a livello internazionale dall’OCSE, che però sono più articolati e presentano più quesiti a risposta aperta, quel tipo di domande che meglio consentono all’insegnante di comprendere fino a che punto lo studente ha compreso la domanda (o se si è limitato a copiare la risposta dal compagno). Sappiamo tutti benissimo che le risposte aperte funzionano meglio, così come sappiamo che sono quelle che richiedono più impegno da parte dell’insegnante che corregge, e che sono le più complicate da elaborare meccanicamente: possono funzionare in test somministrati a campione (come appunto quelli OCSE-PISA), mentre creerebbero troppi problemi in un test somministrato a tutta la popolazione scolastica. A chi critica questo aspetto viene fatto notare che comunque i risultati dell’Invalsi non si discostano più di tanto da quelli OCSE-PISA, ma il punto è esattamente questo: se l’Invalsi non fa che scoprire le stesse cose che sappiamo già, viene da chiedersi che senso abbia spenderci così tanto.

Sotto l’impianto scientifico, alcuni insegnanti sospettano che l’Invalsi sia più propaganda che scienza: ogni estate ci ricorda che la scuola va male, e a Sud molto peggio che a Nord. Si sapeva già, ma è comunque utile ribadire. Utile a chi? In tempi di egemonia progressista poteva essere un buon argomento per ispirare investimenti cospicui nelle scuole del Sud. Oggi che sovranismo e localismi vanno per la maggiore e al MIUR siede un leghista, i risultati Invalsi possono essere ugualmente sbandierati da chi chiede la regionalizzazione della scuola (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna): la scuola del Sud è spacciata, tanto vale lasciarla al suo destino.

Alcuni insegnanti temono esattamente questo: l’insistenza con cui l’Invalsi qualche anno fa sottolineava i fenomeni di cheating in meridione, e oggi punta il dito sul divario tra i risultati del Sud e quelli del Nord, è funzionale a un preciso discorso di delegittimazione. Quando un insegnante che lavora in un contesto disagiato decide di dare un 10 e lode a un suo studente, è possibile che in quel voto rientri anche una considerazione soggettiva sulle capacità del ragazzo di ottenere risultati in condizioni avverse. Poi arriva l’Invalsi, somministra un test a crocette, incrocia i dati, e rivela a tutti che il 10 e lode di quel contesto disagiato vale come un 7 di una ricca città padana. Lo dice la scienza, eh: i docenti che brontolano hanno senz’altro paura di perdere i loro privilegi. Proprio mentre domanda equità, l’Invalsi non si rende conto di fornire argomenti a chi la ostacola. Magari i test sono davvero uno strumento scientifico, ma questo non impedisce a nessuno di brandirli per fare politica. Nessuno strumento scientifico, per quanto sofisticato, può controllare la mano che lo impugna.
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Tradurre in cattività: il caso Neon Genesis Evangelion

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E così ci siamo arrivati. Un’emittente televisiva (Netflix lo è, a modo suo) ha ritirato il doppiaggio in italiano di una serie a causa delle proteste degli utenti. Prima o poi sarebbe successo, ma probabilmente non è un caso che sia successo con un anime, e in particolare con l’ambizioso Neon Genesis Evangelion. Così come non è un caso che a trovarsi nel mirino ci sia, per l’ennesima volta, l’adattatore Gualtiero Cannarsi, già molto criticato per le sue versioni dei film dello Studio Ghibli. Cannarsi è indifendibile: i dialoghi che ha imposto ai doppiatori di Neon sono ridicoli. Ma chi ora grida al bullismo nei suoi confronti non ha tutti i torti. È vero, il suo italo-giapponese è esilarante, specie se sovrapposto a un prodotto serioso come NGE. Ma per quanto naive risulti la sua personale teoria della traduzione, maturata lontano dalle accademie, bisogna almeno evitare di farne un agnello sacrificale.

Non è responsabilità di Gualtiero Cannarsi se, fino a qualche giorno fa, i personaggi di Neon dicevano cose come “È col tentare di abbatterlo in fretta che la cosa si è fatta dura”, o “L’autoespulsione è entrata in attività”. Non è responsabilità sua se i doppiatori sono stati costretti a recitare battute che non capivano. Se a Cannarsi è stata data sempre più fiducia, malgrado i problemi fossero evidenti (e il pubblico non mancasse di notarli), la responsabilità è di chi questa fiducia per tutto questo tempo l’ha concessa. Ora Cannarsi pagherà anche per loro, ma quel che è successo è che un sincero cultore della materia è stato lasciato solo, per anni, al tavolo di lavoro, da committenti la cui negligenza a un certo punto deve aver interpretato come un attestato di fiducia. Magari sarebbe bastato poco: un editore, un distributore, un collaboratore che in tutti questi anni gli stesse accanto, gli rileggesse a voce alta le frasi che scriveva, lo aiutasse a non allontanarsi dall’italiano parlato e scritto. Qualcuno che smorzasse sul nascere certe velleità ermeneutiche che sono il tipico mostro che nasce dal sonno breve e agitato dei traduttori quando la scadenza comincia a essere troppo vicina (e la scadenza è sempre troppo vicina). Cannarsi invece è stato lasciato solo, e ha fatto quel che facciamo tutti quando siamo soli: ha iniziato a parlare con sé stesso, in una lingua tutta sua.

Tradurre è molto difficile. Bisogna avere due lingue in testa, e non è detto che nella nostra ci stiano davvero. Nelle orecchie, soprattutto, perché a volte è come ascoltare due musiche contemporaneamente. Magari non è impossibile, ma senz’altro non è una passeggiata, e il traduttore non fa altro tutto il giorno. Eppure ci basta leggere due o tre pagine in un’altra lingua, o anche solo ascoltare due o tre episodi in versione sottotitolata, per ritrovarci già in bocca qualche espressione che in italiano non esiste, qualche calco che un buon traduttore dovrebbe sempre saper aggirare, con leggerezza, mentre saltabecca da una lingua all’altra. Questo dovrebbe fare il traduttore ideale. 

Quello reale il più delle volte sbanda, incespica, cade, e pur di rispettare una scadenza finisce per consegnare un ibrido italo-qualcosa che un editor (o più d’uno) faticosamente convertiranno in italiano. Non sempre riuscendoci, come chiunque può verificare aprendo un libro qualsiasi. Il traduttore è un traditore, dicevano, ma temo non renda l’idea. Un maledetto assassino, ecco cos’è un traduttore: anzi una spia, inviata a uccidere un testo che a volte conosce molto bene, al quale magari è affettivamente legato: proprio per questo si rende quasi sempre necessaria l’assistenza di professionisti in grado di mettere da parte gli affetti, ammesso che ne abbiano mai avuti: gente con la mano ferma quando c’è da impugnare il bisturi, la sega e gli altri attrezzi. Tradurre è un lavoro sporco, è la fine dell’innocenza: devi interiorizzare il concetto per cui il tuo rispetto per l’opera va subordinato al rispetto per un lettore italiano distratto che si stanca alla prima frase non scorrevole. Non lo accetti? Allora hai bisogno che qualcuno molto vicino a te non smetta di ricordartelo, a ogni capitolo, ogni pagina, ogni capoverso. Se Cannarsi non ha mai avuto qualcuno tanto vicino, non è colpa sua.


È una vittima designata, in un certo senso. L’uomo giusto nel momento sbagliato... (Continua su TheVision). 

Per qualche anno Cannarsi si è ritrovato confinato in una confortevole nicchia di mercato: un limpido acquario lontano dall’oceano, dove le sue mostruosità erano ritenute inoffensive – forse persino decorative. I film dello studio Ghibli, in Italia, sono un prodotto per appassionati. Il fatto che per molti appassionati il doppiaggio sia un errore a prescindere ha fatto sì che alcune critiche siano passate inosservate agli addetti ai lavori. Ma il sospetto è che alcuni di questi addetti abbiano lasciato Cannarsi libero di fare scempio di lessico e sintassi perché il risultato sembrava aggiungere qualcosa alla versione italiana di quei film: un senso di straniamento, di esotismo che li proteggeva dalle critiche, rassicurando i fan sul fatto di trovarsi davanti a vere opere d’arte dai contenuti preziosi (e a volte enigmatici) e non a banali cartoni-animati-giapponesi per bambini. Un classico equivoco interculturale: i film di Miyazaki in effetti sono cartoni animati, e non hanno alcun bisogno di un registro aulico o pretenzioso per imporsi allo stesso pubblico trasversale che in Occidente si gode i film della Disney. Ma in Italia li si è proposti a un pubblico diverso, più adulto, che andava in un qualche modo confortato sul contenuto artistico dell’opera (quella che Walter Benjamin chiamava aura). Un pubblico del genere non poteva accontentarsi di pagare il biglietto per vedere belle favole: doveva anche avere la sensazione di immergersi in una cultura diversa.

In questo senso Cannarsi era l’uomo giusto. Quel che ha fatto ai film di Miyazaki ricorda in qualche modo l’operazione condotta sui testi omerici da una delle traduttrici italiane più celebrate del secolo scorso, Rosa Calzecchi Onesti. L’aedo omerico si rivolgeva a un pubblico eterogeneo di contadini, guerrieri, casalinghe, bambini: Rosa Calzecchi Onesti pensava essenzialmente ai laureandi in lettere che pur non avendo il tempo di leggere Omero in lingua originale, dovevano conservare l’illusione di esserne capaci. Da cui l’idea di riprodurre in italiano soluzioni sintattiche che l’italiano non consente, che rendono il testo più faticoso ma più ‘autentico’ per l’ex liceale che conservi qualche vaga nozione di grammatica greca. L'Omero calzecchizzato ha perso la sua universalità (non lo puoi più leggere ai bambini), ma ha acquisito l’aura necessaria per apparire un prodotto colto, adatto a un preciso segmento del mercato. Qualcosa di simile Cannarsi ha fatto con Miyazaki. Non c’era una semplice riga di dialogo che non riuscisse a complicare e a rendere esotica, straniante, sempre all’inseguimento di una fantomatica fedeltà “all’opera” che non si accorgeva di tradire. Il risultato è uno strano ibrido che senza suonare né italiano né particolarmente giapponese, ci fa capire che quello che vediamo non è il solito prodotto audiovisivo, ma qualcosa di più profondo che richiede uno sforzo supplementare. Qualcuno se ne lamentava, ma i puristi comunque preferivano i sottotitoli, e forse tutto sarebbe continuato così ancora a lungo, se a un certo punto Netflix non avesse ripreso la pratica di Neon Genesis Evangelion.

Anche qui c’è un equivoco, o forse più d’uno. NGE in Giappone è uno degli anime più popolari di tutti i tempi, mentre in Italia è rimasto un prodotto di nicchia, poco conosciuto al di fuori del bacino degli appassionati. Un bacino di dimensioni comunque rilevanti, ma tant’è; in Italia gli unici mecha a essere già entrati nell’immaginario collettivo sono quelli degli anni della tv dei ragazzi e delle prime emittenti private: Goldrake, Mazinga, eccetera. Quando finalmente il Corriere si è accorto del caso Cannarsi, ha ritenuto necessario spiegare ai propri lettori che Neon Genesis è una “nuova serie che si ispira a Goldrake” (per il lettore medio del Corriere tutto quello che è successo dopo il 1994 è “nuovo”). Segregati a lungo in una nicchia, i fan italiani dell’anime di Hideaki Anno hanno avuto tutto il tempo e l’agio per radicalizzarsi e sviluppare la convinzione che NGE sia molto più di un cartone di robottoni: un’opera profonda e complessa, intrisa di riferimenti culturali da decifrare con cautela. Il fatto che i personaggi non parlino tutto sommato una lingua molto diversa da quella degli altri anime a base di robottoni rischiava, anche stavolta, di danneggiare l’aura del capolavoro. Si veda l’estenuante dibattito sulla opportunità di tradurre shito come angelo o come apostolo, dando per scontato che Anno si ponesse davvero il problema della precisione nei rimandi biblici, e non stesse semplicemente pescando riferimenti colti un po’ a caso, confondendo Nuovo e Vecchio Testamento così come un autore italiano confonde serenamente Buddha e Budai. Un dibattito del genere è esattamente il mangime adatto per un pesce come Cannarsi, che può dimostrare il suo acume di filologo e rassicurare il pubblico adulto italiano sulla profondità di NGE: non il solito anime di robottoni, ma un’opera d’arte, dunque degna di un linguaggio aulico e accessibile solo agli iniziati.

E però Netflix non è la Lucky Red: il bacino di utenza è ormai molto più vasto e in particolare Netflix Italia in un primo momento potrebbe avere sottostimato la popolarità di NGE. Dal suo confortevole acquario, Cannarsi si è ritrovato sbalzato nell’oceano da un momento all’altro, senza avere gli strumenti per accorgersene. Ma ancora: com’è stato possibile che nessuno gli abbia impedito di consegnare ai doppiatori un testo che conteneva espressioni come “senza nessuna recalcitranza” o “hanno già completato di prendere rifugio”? Cannarsi scrive strano, ormai è il suo mestiere, anche se non è sempre consapevole. È abbastanza inutile pretendere che si renda conto di quel che ha fatto o che addirittura chieda scusa. Lui ha fatto esattamente quello che fa in questi casi, senza reagire alle critiche, anzi senza nemmeno capirle. Chi però in tutti questi anni lo ha lasciato lavorare indisturbato, qualche domanda dovrebbe porsela.
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I Beatles esistono in natura?

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Life flows on within you without you...

Tra qualche settimana uscirà anche in Italia Yesterday, il nuovo film di Danny Boyle, e io lo andrò a vedere. Ci andrò malgrado abbia già letto critiche non entusiaste; malgrado dal trailer abbia capito quasi tutta la storia (un musicista mediocre, ritrovandosi in una dimensione parallela dove i Beatles non sono mai esistiti, fa quello che avremmo fatto tutti al suo posto: incide le canzoni dei Beatles e ottiene ovviamente un successo mondiale). Ci andrò e mi domanderò se l’autore del soggetto per caso un giorno non ha davvero visto Non ci resta che piangere, almeno lo spezzone su youtube in cui un Massimo Troisi catapultato nel quasi-Cinquecento prova a farsi bello canticchiando Yesterday. Perché con le buone idee funziona come con le melodie: se due si assomigliano, è più facile immaginare che una derivi dall’altra. Copiare è più semplice di inventare, e questo lo dimostrano gli stessi Beatles, dai quali tutti hanno un po’ copiato qualcosa. Il che però significa anche che un mondo senza Beatles dovrebbe essersi evoluto musicalmente in modo completamente diverso dal nostro, e quindi forse in un mondo del genere Hey Jude e Yellow Submarine suonerebbero strane e magari sgradevoli. O no?


Gli autori del film sembrano pensare di no: le canzoni dei Beatles diventano immediatamente successi. Come se le melodie esistessero davvero in sé, fuori dal tempo e dallo spazio in cui sono state composte, in una specie di iperuranio da cui ogni tanto qualche genio come Lennon e McCartney riuscirebbe a tirarle fuori. Il compositore sarebbe uno scopritore, dotato di qualche geniale senso in più che gli consentirebbe di percepirle e condividerle con noi poveri mortali. La melodia di Yesterday è irresistibile. Se anche non l’avessimo mai ascoltata prima, la troveremmo migliore di qualsiasi cosa ci propone il mercato musicale oggi: Ed Sheran morrebbe d’invidia (Ed Sheran nel film di Boyle interpreta sé stesso che muore d’invidia). Persino nel medioevo di Troisi e Benigni sarebbe piaciuta al primo ascolto – ma allora perché nessuno nel medioevo l’ha trovata? forse mancava il genio adatto. Migliaia di anni al buio, e poi all’improvviso, in un sobborgo di una città portuale inglese, all’improvviso un genio: Paul McCartney. Si sveglia un mattino, si prepara la colazione, si accorge che sta canticchiando un motivetto. Scrambled eggs, oh my baby how I love your legs. Per poi domandarsi all’improvviso: ma questa canzone, di chi è? L’ho davvero scritta io?

Per assecondare questa ipotesi, dobbiamo anche accettare che nella stessa località portuale sia nato, nello stesso periodo, un genio non inferiore a Paul McCartney: John Lennon, lo scopritore di Help, In My Life, Strawberry Fields, Across the Universe e decine di altre melodie geniali. E a questo punto sembra ingiusto tacere di come all’ombra dei due sia cresciuto George Harrison, magari meno dotato dei primi due ma pur sempre in grado di comporre Something e Here Comes the Sun: e che ai tre in un secondo momento si era aggregato Richard Starkey, un batterista che all’inizio lasciava perplessi i critici e che a distanza di mezzo secolo è considerato uno dei principali innovatori della ritmica pop – il paesaggio musicale in cui viviamo è ancora popolato di rullate improvvisate da lui. Certo, si potrebbe obiettare che i Beatles non erano gli unici innovatori sulla piazza: nello stesso periodo c’erano, per esempio, i Rolling Stones. Anche gli Stones però cominciarono a comporre soltanto quando videro, coi loro occhi, Lennon e McCartney completare in pochi minuti il ritornello di I Wanna Be Your Man. Almeno, stando a quel che raccontano i biografi senza l’esempio cruciale dei Beatles non avremmo avuto nemmeno le centinaia di composizioni firmate da Mick Jagger e Keith Richards.

Se davvero la musica esistesse in natura, disponibile soltanto alla sensibilità di rari individui, quel che successe a Liverpool nei primi anni Sessanta sarebbe insomma una coincidenza di proporzioni cosmiche: nello stesso ristrettissimo intervallo di spazio e tempo, quattro individui geniali si sarebbero incontrati e sarebbero riusciti a collaborare, ahinoi, per meno di dieci anni, prima che la combinazione supergeniale diventasse instabile ed esplodesse – non prima di avere ispirato centinaia di emuli, nessuno dei quali altrettanto geniale. Che storia incredibile, meravigliosa e tragica. È appunto la storia che amiamo raccontarci quando ascoltiamo i Beatles ed è quella che mi commuoverà mentre guarderò Yesterday. Ma è una storia, appunto. Ormai talmente consolidata nel nostro immaginario collettivo che forse vale la pena di sfoderare la parola pesante: è un mito. I rocker ragazzini che dopo anni di gavetta si impongono all’attenzione del mondo con la pura forza del loro genio musicale. Non sanno leggere uno spartito, ma in testa hanno più melodie di Mozart. (La stessa storia di Mozart in seguito è stata riscritta per assomigliare un po’ di più al moderno mito delle rockstar). Il mito conosce anche la parabola discendente: la difficoltà a gestire il successo, le divergenze artistiche e caratteriali, la droga, i contrasti economici, e una donna venuta da lontano a mettere zizzania tra i ragazzi. La storia dei Beatles sembra il canovaccio da cui saranno poi sviluppate tutte le biografie delle rockstar. Anche in questo senso, sono stati i primi a scoprire qualcosa che forse esisteva già.

L’idea che le innovazioni siano fenomeni rari, e che dipendano dalla nascita di individui geniali, è tipicamente romantica... (continua su TheVision, sotto questa foto di John&Yoko)




L’idea che le innovazioni siano fenomeni rari, e che dipendano dalla nascita di individui geniali, è tipicamente romantica. Nel tardo Ottocento gli antropologi che la condividevano venivano chiamati diffusionisti, e si contrapponevano in una certa misura agli evoluzionisti. Per questi ultimi le innovazioni sono semplicemente le risposte con cui una determinata cultura reagisce alle sfide dell’ambiente – per fare un esempio: se in due continenti diversi due popoli diversi in un paesaggio simile (foresta) si trovano a dover cacciare per sopravvivere, prima o poi entrambi svilupperanno la tecnologia dell’arco: perché ne hanno bisogno. Per i diffusionisti no: se una civiltà non partorisce un individuo geniale in grado di mettere assieme arco e frecce, dovrà aspettare che qualche altra civiltà sbarchi nei pressi e diffonda la tecnologia dell’arco. Può sembrare un’idea ingenua, ma aveva il grosso vantaggio di giustificare il colonialismo, e la maniera peculiare in cui gli europei avevano diffuso nel mondo un certo modo di usare la polvere da sparo. Ancora un secolo fa il diffusionismo godeva di ottima salute, anzi qualcuno cominciava ad elaborarne versioni ancora più radicali, come l’iperdiffusionismo di Grafton Elliot Smith. Per Smith (egittologo australiano) esisteva soltanto una civiltà innovatrice, e manco a dirlo era quella europea che si era sviluppata nel bacino del Mediterraneo a partire dagli antichi Egizi. Tutte le più antiche innovazioni, per Smith, erano da ricondurre agli Egizi, al punto che per spiegare l’uso di imbarcazioni nell’America precolombiana bisognava ipotizzare contatti antichissimi tra civiltà sulle due sponde dell’Atlantico.

Prima di ridere dell’ennesima fiaba a uso dell’uomo bianco, bisogna riconoscere che il nostro mito dei Beatles non funziona in modo molto diverso. Ipotizziamo che le melodie siano considerabili come innovazioni: un evoluzionista direbbe che sono la risposta di una determinata società a una determinata serie di sollecitazioni. Da questo punto di vista non è così eccezionale che nel nord dell’Inghilterra, all’inizio degli anni Sessanta, i giovani cercassero di sviluppare forme originali di adattamento al rock e al pop d’importazione americana: Liverpool era appunto il porto in cui arrivavano i prodotti d’importazione, compresi i dischi delle Shirelles e degli Isley Brothers che i Beatles coverizzarono nel loro primo disco. Insomma, per un evoluzionista il problema non si pone: se non ci fossero stati i Beatles ci sarebbe stato qualcun altro, magari cresciuto nello stesso quartiere. Per il diffusionista invece quello che succede nel 1963 a Liverpool a opera di tre-quattro individui geniali è una frattura nella Storia: niente sarà più come prima.

È per esempio l’ipotesi di Simon Reynolds, acclamato da Rolling Stone come “il critico musicale più illustre del pianeta”. “Sono nato nel 1963”, scrive in Retromania, “quello che, per ragioni varie e non solo narcisistiche, considero il Primo Anno del Rock. Quando iniziai a interessarmi seriamente al pop, da adolescente negli anni Settanta del post-punk, mandai giù subito una cospicua dose di modernismo: la convinzione che l’arte abbia una sorta di destino rivoluzionario, una teleologia che si manifesta tramite artisti geniali e capolavori che sono monumenti al futuro. Tutte cose che esistevano già nel rock, grazie ai Beatles, alla psichedelia e al progressive…” L’omissione di qualsiasi artista non bianco non è un atto di razzismo, o almeno non lo è consapevolmente. Reynolds non può inserire nel suo mito del rock-come-Forma-Consapevolmente-Innovativa Chuck Berry, Stevie Wonder o gli artisti della Motown, non perché siano così inferiori ai Beatles, ma perché hanno qualcosa che ai Beatles sembra mancare: le radici. Se davvero vuoi raccontare a te stesso che il rock comincia nel tuo anno di nascita, devi ignorare gli afroamericani che prima e dopo il 1963 continuavano a innovare incessantemente, senza però creare fratture così vistose – e ho il sospetto che Boyle tenti di esorcizzare l’aspetto razziale del mito dei Beatles offrendo in dono tutte le melodie del quartetto a un musicista non bianco.

La sua disarmante dichiarazione di modernismo rock, Reynolds la pubblica al termine di un libro che denuncia l’esatto contrario, ovvero l’inarrestabile tendenza della cultura pop a guardare al passato: la retromania, appunto. Lo stesso Reynolds tuttavia ammette di non avere avuto sempre le idee chiare sull’argomento. In un primo momento era convinto che la retromania fosse cominciata col post-punk. A fargli cambiare idea a un certo punto fu una retrospettiva sulla moda inglese, che aveva scoperto il fascino del vintage almeno fino al 1965 – l’anno in cui anche i Beatles cominciano a inserire suoni rétro nei loro dischi: il quartetto di violini di “Yesterday”, il simil-clavicembalo di “In My Life”, l’irruzione improvvisa del valzer nell’inciso di “We Can Work It Out”. Ma a questo punto perché non dare un’occhiata al primo disco dei Beatles, in quel fatale 1963? Please Please Me è tutto fuorché l’urlo primigenio di una civiltà modernista nell’atto di nascere dal nulla. Per essere il prodotto di 24 ore di lavoro di quattro ragazzini è anzi un oggetto sorprendentemente stratificato. Contiene persino una canzone di Burt Bacharach. Più in generale sembra il tentativo di creare una sintesi di tutta una serie di musiche che i quattro avevano già sentito in giro, e di cui avevano sperimentato l’efficacia al Cavern Club e ad Amburgo: non soltanto il rock’n’roll (che comunque nel 1963 doveva suonare già rétro, legato ai ricordi d’adolescenza di Lennon e McCartney), ma anche il pop delle radio AM (Bacharach, appunto), il doo-wop, le armonie vocali che negli Usa avevano fatto la fortuna di Beach Boys e Four Seasons. Persino nel 1963, insomma, i Beatles stavano lavorando su materiale già messo in circolo da altri. Il che non significa che Lennon e McCartney non fossero dei geni, ma non nel senso romantico e diffusionista del termine. Erano ragazzi svegli con le orecchie bene aperte in un paesaggio musicale in costante evoluzione. Erano tra i primi babyboomers a impugnare gli strumenti in un milieu sociale – l’Inghilterra del dopoguerra – che non aveva ancora assorbito tutti i riferimenti culturali e che quindi poteva davvero scambiarli per quattro geni venuti dal nulla.

I Beatles, inoltre, ebbero l’incontestabile fortuna di incontrare sul percorso alcuni rappresentanti della generazione precedente che si fidarono di loro: il loro manager, Brian Epstein, e soprattutto il produttore George Martin, che permise loro di sperimentare suoni e soluzioni con una libertà che forse nessun artista prima di loro aveva avuto. Tutto questo ha reso l’esperienza dei Beatles unica, ma non così unica. Molte loro canzoni, anche tra le più famose, non sarebbero così famose se non le avessero incise loro. Mentre viceversa ci sono canzoni altrettanto valide ma meno conosciute: semplicemente perché invece di averle scritte Lennon o McCartney le ha firmate qualche compositore professionista. Per dirla con Bob Dylan (un altro mitico eroe del 1963, che in realtà in quell’anno stava già saccheggiando musica del passato), ci sono milioni di canzoni come “Michelle” e “Yesterday” negli scaffali di Tin Pan Alley. McCartney e Lennon sono stati due grandi musicisti e compositori, ma senza di loro “Yesterday” l’avrebbe scritta qualcun altro. Lo intuiva lo stesso McCartney, che proprio in quanto compositore sapeva di muoversi in un terreno molto più infido di quanto ci immaginiamo. Non un iperuranio di canzoni perfette da recuperare e portare a terra, ma una jungla di reminiscenze, di melodie assorbite a livello inconscio e modificate costantemente.

Nel 1968, dopo aver composto “Hey Jude”, invece di chiudere lo spartito in cassaforte e precipitarsi in sala d’incisione, McCartney fa ascoltare la sua canzone a “chiunque fosse abbastanza educato da non rifiutare”. Se davvero le canzoni fossero invenzioni, dall’inventore sarebbe logico aspettarsi un maggiore riserbo: specie in un contesto competitivo come la scena pop-rock inglese degli anni Sessanta. C’era il concreto rischio che qualche collega orecchiasse la canzone e corresse a inciderla prima di lui, ma evidentemente McCartney temeva di correre un rischio peggiore: che qualcuno non lo avvertisse che la melodia non era davvero originale, che qualcun altro l’aveva scritta per prima. La stessa preoccupazione lo aveva ossessionato nel 1964, dopo che si era svegliato canticchiando “Scrambled Eggs”. Sarebbe passato un anno prima che si decidesse a inciderla: un anno trascorso a chiedere a tutti i colleghi che conosceva se per caso non avessero già sentito la stessa melodia. È un affanno non troppo diverso da quello del ricercatore che dopo aver fatto una scoperta, invece di gridare un Eureka! liberatorio si mette a esplorare la stampa scientifica con l’incubo di scoprire che qualcun altro ha già messo per iscritto gli stessi risultati.

Tra qualche settimana uscirà anche in Italia Yesterday, il nuovo film di Danny Boyle, e io lo andrò a vedere. Ci andrò anche se non condivido affatto l’ideologia diffusionista espressa nel trailer, anzi la trovo sottilmente razzista in quanto propone l’idea che esista una civiltà superiore alle altre (e no, il fatto che il personaggio che si impossessa di tutte le canzoni dei Beatles non sia un bianco non migliora la cosa, anzi). Ci andrò perché al mito dei Beatles sono affezionato, il che non significa che creda ancora nell’incontro di quattro geni assoluti della musica nella Liverpool di fine anni Cinquanta. Anzi, più invecchio e più mi piace trovare nei loro dischi un sacco di difetti, intuire dietro una qualsiasi canzone la tensione tra John e Paul, il senso di tragedia che comincia a sentirsi già in Revolver, culmina in Abbey Road e riecheggia in Let It Be. Ci andrò anche se non credo che Danny Boyle riuscirà nel prodigio di rifarmi ascoltare le stesse canzoni come se non le avessi mai sentite in vita mia. Però vale la pena provare. Resto convinto che se i Beatles non fossero esistiti, qualcun altro avrebbe preso il loro posto nel nostro cuore, con canzoni diverse e non necessariamente peggiori. In qualche universo parallelo magari è andata così, ma nel nostro universo i Beatles ci sono stati: ci è andata bene.
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I babyboomers che odiano Greta (hanno i loro motivi)

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[Questo pezzo è uscito su TheVision mercoledì]. I più famosi hater italiani di Greta Thunberg – qualcuno l'avrà già notato – sono tre babyboomers. Rita Pavone, che la trova un personaggio da film horror, è del 1945. Maria Giovanna Maglie che la metterebbe “sotto con la macchina” del 1952, come Giuliano Ferrara (“detesto la figura idolatrica di Greta, aborro le sue treccine e il mondo falso e bugiardo che le si intreccia intorno”). Il che significa tra l’altro che nel fatidico 1968 Ferrara e la Maglie avevano la stessa età che oggi ha Greta. Sono personaggi sopravvissuti egregiamente agli anni Sessanta, hanno assistito e a volte partecipato a mobilitazioni ben più radicali di quella promossa dalla sedicenne svedese. Altri detrattori della Thunberg li riconosci dalla mentalità compottarda (“cosa c’è dietro questa ragazzina?”) o ipercorrettista (“Se usa un bicchiere di plastica non può dare lezioni”). I babyboomers non ragionano così. In un certo senso non ragionano nemmeno. Il loro fastidio per il nuovo personaggio è qualcosa di incontrollabile: a malapena riescono a verbalizzarlo, e sì che due su tre vivono di parole.

La morale della favola è assai nota: si nasce incendiari, si muore pompieri. L'Italia è un Paese molto anziano, il dibattito pubblico è un giardinetto ostaggio di pensionati che borbottano e inveiscono contro i giovinastri rumorosi. I giovinastri stavolta non sono nemmeno particolarmente rumorosi – non spaccano neanche più le vetrine – ma i pensionati se la prendono lo stesso. Non dico che questa spiegazione non sia soddisfacente, ma vorrei proporne ugualmente una meno banale. Ferrara, la Maglie, la Pavone, hanno un altro carattere in comune: se la sono goduta parecchio, da enfants gâtés dell'Occidente. Il 1968 fu un episodio importante, ma se allarghiamo un po' lo sguardo il movimentismo è soltanto un momento della storia di una generazione; cui seguì la tentazione della radicalizzazione, il riflusso e il ritorno al privato, l'edonismo degli anni Ottanta, eccetera. Se volessimo assegnare a una generazione un'ideologia... saremmo dei maledetti semplificatori; ma se davvero volessimo farlo, diremmo che la priorità dei babyboomers è stata la liberazione dell'individuo. Una liberazione che negli anni Sessanta prendeva le forme della protesta sociale (ma senza trovarsi più a suo agio nelle forme tradizionali dei partiti di massa e dei sindacati); negli anni Settanta corteggiava la lotta armata; negli anni Ottanta si esprimeva nel consumismo senza più freni inibitori. Una liberazione che forse oggi smette di avere senso, nel momento in cui una ragazza svedese ci ricorda che non c'è futuro per chi non riesce a riciclare carta e plastica. Sono cose che fanno incazzare i babyboomers, non perché siano anziani – ok, ormai sono anziani – ma perché per buona parte della loro vita sono stati abituati a disobbedire alle regole, dubitare delle autorità, mettere in crisi le convenzioni. È stato un momento importante, in certi casi eroico e in altri tragico, ma è finito. Il consumo sfrenato è finito. Persino il capitalismo, sì, potrebbe avere i giorni contati. Non è colpa di nessuno, ovvero è colpa di tutti: siamo troppi, il pianeta si sta scaldando, eccetera eccetera. Greta è fastidiosa perché ce lo ricorda. È inquietante perché da un volto al senso di colpa collettivo di una e più generazioni, nei confronti di quelle che verranno e assisteranno coi loro occhi alla catastrofe ambientale che gli esperti danno ormai per difficilmente evitabile.

Quando il presidente dell’Istituto superiore di Sanità ci informa del rischio che “i nostri nipoti non possano più stare all’aria aperta per gran parte dell’anno a causa dell’aumento delle temperature”, non sta parlando dei protagonisti di un romanzo distopico: i “nipoti” sono Greta e i suoi coetanei. È normale che si preoccupino molto più dei padri e dei nonni. Il benessere che i genitori hanno dato per scontato è fatto di tanti privilegi a cui devono prepararsi a rinunciare. (continua su TheVision).



Oltre a dare un ultimatum ai governi che non sono in grado di recepirli, o a diffondere buone pratiche ambientaliste che da sole non risolveranno mai il problema, le manifestazioni della prossima generazione servono anche ad abituare gli stessi manifestanti ad accettare l’idea. Certo, molti continueranno a rifiutarla, come dimostra il fatto che la lotta ambientalista non è nata ieri eppure in questi decenni i progressi sono stati pochi e lenti. Eppure la lotta di Greta è lungi dall’essere inutile. Non sarà la soluzione, ma il ruolo di un’adolescente svedese per la sua stessa generazione è fondamentale.

Qualsiasi previsione più o meno scientifica sull’aumento della temperatura degli oceani e dell’atmosfera nei prossimi anni non ha ancora tenuto conto del dato più imponderabile: a un certo punto cominceranno a scaldarsi anche gli esseri umani, forse in modo incontrollabile. I tafferugli dei giléts jaunes francesi non sono che una timida avvisaglia di quello succederà in Occidente quando la crisi ambientale busserà davvero alla porta e i governi cominceranno a varare politiche di repressione dei consumi. Il che difficilmente succederà grazie a qualche manifestazione giovanile al venerdì fin quando ben più della metà della popolazione occidentale rifiuta ancora l’evidenza, e vota per chi fa del rifiuto un manifesto politico. Ma prima o poi succederà. E così come il terrorismo islamico non era sentito come un problema fino all’undici settembre, per avere il riscaldamento globale al primo punto dell’ordine del giorno bisognerà aspettare un disastro più eclatante del solito che metta davvero in discussione la vita e la sicurezza dell’Occidente (perché in fondo uragani e alluvioni ci sono già: e l’inquinamento fa già centinaia di migliaia di morti).

Ma quando i primi disastri costringeranno i governi occidentali a varare misure di emergenza, i cittadini accetteranno la progressiva soppressione delle libertà individuali? Giuliano Ferrara sicuramente no, basti ricordare il casino che fece quando un ministro gli vietò di fumare nei locali pubblici. Pazienza per Ferrara e per Maglie, ma quanti sono come loro? Non siamo un po’ tutti come loro? Quanto siamo disposti a modificare la nostra dieta, le nostre abitudini, il nostro stile di vita, i nostri desideri? Il giorno che una coetanea di Greta ci dirà che non possiamo più mangiare carne o prendere un aeroplano, forse capiremo cosa intendeva confusamente Maglie quando confessava di volerle passare sopra con la sua macchina.
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La scuola pubblica combatte il razzismo; a parecchi la cosa non va

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[Questo pezzo è uscito giovedì su TheVision]. Qualche giorno fa una ragazzina ha chiamato una sua compagna di prima media per spiegarle che non sarebbe venuta a scuola, né quel giorno né mai più. È così che gli insegnanti di una scuola di Nichelino (TO) hanno scoperto che la Prefettura aveva disposto il trasferimento in un altro comune della sua famiglia: quattro bambini e due genitori armeni provenienti dalla Germania, richiedenti asilo in Italia. Come ha fatto notare la preside, in altri casi del genere si era almeno attesa la fine dell’anno scolastico. Ma come dicono al Viminale, “la pacchia è finita”: il Decreto Sicurezza prevede tra le altre cose la riorganizzazione dei Centri di accoglienza, il che a quanto pare significa anche che i Centri che hanno vinto i nuovi bandi devono cominciare a ospitare i migranti da subito.


La storia si presta bene a un certo approccio lacrimevole: povera bambina, strappata una volta in più a un contesto in cui aveva appena cominciato ad ambientarsi. Povera famiglia, sballottata da un governo che non solo non ha interesse a favorire l’integrazione, ma in questi casi dà la chiara impressione di volerla sabotare. Non dico che questo approccio sia sempre sbagliato: non c’è niente di male nel farsi scendere una lacrima, ogni tanto. Vorrei comunque aggiungerne un altro, meno emotivo ma cruciale: l’approccio economico. Trasferire una famiglia con figli in età scolare, nel bel mezzo dell’anno scolastico, non è solo uno choc per bambini e genitori. Come ha fatto notare la dirigente è anche uno spreco per la scuola, che ha destinato a questi bambini risorse preziose. Da qualche parte i contribuenti hanno pagato un insegnante di italiano per stranieri che non serve più, o serve di meno; da qualche altra parte occorrerà un insegnante in più e bisognerà metterlo a contratto fino a giugno. Uno spreco di cui difficilmente sta tenendo conto l’autore dei tagli e delle riorganizzazioni dei centri di accoglienza regionale: certe spese nascoste affiorano soltanto quando i bilanci sono belli e stampati. Ma in un settore del pubblico servizio che malgrado qualche elargizione degli ultimi governi non si è mai rimesso del tutto dai tagli dell’epoca tremontiana, ogni ora di lezione di ogni insegnante è preziosa. Chi dall’oggi al domani decide di spostare una famiglia con due studenti da alfabetizzare non lo sa, o non gli interessa. Il bilancio della scuola non è la sua priorità. Anzi, tanto meglio se serve a dimostrare che la scuola pubblica spreca le sue risorse.

Niente è perfetto, e in particolare la scuola statale italiana è ben lontana da quel modello di laicità e inclusione auspicata dai padri costituenti. Ma in un’Italia quotidianamente irradiata dall’odio e dal razzismo veicolati da tv, radio e internet, la scuola statale resiste: non potrebbe fare diversamente, ne va del suo scopo e del suo futuro. Sei mattine alla settimana la scuola accoglie studenti di ogni provenienza e prova a farli studiare e vivere assieme. Non sempre ci riesce, ma ci prova ogni maledetta mattina. E qualche risultato, col tempo, lo porta a casa. Due anni fa l’Istat pubblicò i risultati di un’indagine sull’integrazione scolastica degli studenti di origine straniera. A sorpresa, i più ottimisti sull’integrazione risultavano proprio gli operatori in prima linea: i docenti. Ma nel frattempo più di uno studente di origine straniera su tre affermava di sentirsi italiano; soltanto il 20% degli studenti di origine straniera dichiarava di non frequentare nel tempo libero compagni italiani, mentre il 50% degli studenti affermava di frequentare indifferentemente compagni di origine italiana e straniera. Non sarebbero nemmeno dati eccezionali, se non si riferissero a una nazione guidata da un’alleanza di partiti xenofobi che propaganda sette giorni su sette via social e tv la cosiddetta emergenza invasione.



Senz’altro fa più rumore un hashtag del ministro degli interni che un enorme meccanismo scolastico che ogni giorno accoglie bambini di tutte le famiglie e li mette a sedere dietro agli stessi banchi. Ma l’unico motivo per cui Beppe Grillo può ostinarsi a credere che il razzismo in Italia sia un falso problema è proprio la resistenza silenziosa e quotidiana di un’istituzione che tutti i giorni continua ad applicare l’articolo 3 della Costituzione; non soltanto quel primo comma già fantascientifico (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), ma anche il secondo: quattro righe di pura follia in cui nel 1948 si affermava che il compito della Repubblica fosse “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che di fatto limitano “la libertà e l'eguaglianza dei cittadini”. Anche se rimuovere gli ostacoli economici e sociali a conti fatti sembra oggi una missione impossibile, e la scuola pubblica italiana ben lontana da avere le risorse per mirare a un risultato del genere. Ma così come i ponti continuano a permettere alle persone di passare da una sponda all’altra, anche mentre la loro struttura interna comincia a cedere; così la scuola italiana continua a fare quello per cui è stata progettata, e non smetterà che un attimo prima di crollare. Il che potrebbe anche succedere molto presto, e chi transita in quel momento non c’è dubbio che si farà male.

C’è intanto chi però quel crollo lo auspica, lo aspetta, lo prepara, e spera di guadagnarci qualcosa. Non è solo il caso della Lega di Salvini, di cui però non dobbiamo stancarci di notare il carattere paradossale: un partito che vince le elezioni promettendo sicurezza, e di fatto fa tutto quello che è in suo potere per aumentare la tensione sociale, la paura per il diverso e in definitiva proprio l’insicurezza. Questo paradosso la Lega lo persegue a tutti i livelli: a Bruxelles sabota una proposta per ridistribuire più equamente i rifugiati nei Paesi dell’Unione; a Roma promette meno sbarchi e più espulsioni (ma senza mantenere); e all’elettore terrorizzato suggerisce neanche tanto velatamente di tenere un’arma carica nel comodino. Che la Lega veda nella scuola pubblica un ostacolo, una complicazione, è abbastanza ovvio. Più complessa è la posizione dei cattolici... (continua su TheVision).



Negli ultimi giorni Papa Francesco ha ribadito che i migranti sono un dono da accogliere con gratitudine, ma il messaggio deve essere sfuggito alle scuole paritarie cattoliche, ben lontane dagli standard di accoglienza delle pubbliche. Le paritarie non hanno nessun obbligo di accoglienza, ma il problema si crea quando i genitori italiani iniziano a iscriverci in massa i loro figli nel timore che la presenza di alunni stranieri nelle pubbliche del loro quartiere possa abbassare la qualità didattica. Il che magari all’inizio non è vero, ma lo diventa quando molte famiglie italiane cominciano a evitare la scuola pubblica, e la percentuale di alunni di origine straniera per classe supera quel 30% che nel 2009 il ministro dell’Istruzione Gelmini aveva fissato come limite massimo.

La ghettizzazione delle scuole pubbliche di quartiere si potrebbe risolvere con una legge che imponga alle scuole paritarie di accettare nelle proprie classi la stessa quota di alunni di origine straniera. Nessun politico ha avanzato una proposta simile, neanche tra coloro che si professano cattolici. Invece è sempre sul tavolo la proposta di eliminare dalla Costituzione un passaggio dell’articolo 37 che non permette di conciliare le scuole paritarie con i fondi ricevuti dallo Stato: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Molti cattolici vorrebbero che l’Italia spendesse di più per sostenere le famiglie che scelgono le loro scuole. Se non lo Stato, almeno la regione, che in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna potrebbe assumere direttamente il controllo del settore istruzione nell’arco di pochi mesi, grazie alla riforma delle autonomie regionali.


È triste dover riconoscere che questo tipo di scuole, fondate e portate avanti con le migliori intenzioni, sono diventate un ostacolo all’integrazione. Ma quando in alcuni quartieri delle città italiane esistono classi di soli stranieri, i casi sono due: o l’invasione propagandata dalla Lega è reale, oppure negli stessi quartieri si trova una scuola paritaria finanziata anche con il denaro pubblico dove gli studenti di origine straniera sono una minoranza. Siamo liberi di indignarci e basta, ma vale la pena riflettere, anche in questo caso, sull’aspetto economico della questione: perché lo Stato, che spende già molto meno di quanto dovrebbe per finanziare una scuola pubblica che favorisca l’integrazione, deve destinare ulteriori risorse a un’istituzione concorrente che la ostacola? Le famiglie che vogliono mandare i figli in una scuola con pochi neri (e pochi poveri in generale) non potrebbero pagare tutta la retta di tasca loro? Forse si potrebbero risparmiare fondi per investirli dove servono davvero: nell’istruzione pubblica.
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Il Movimento 5 Stelle ha svenduto la scuola ai leghisti

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Quattro miliardi: questo è quanto il governo prevede di risparmiare sulla scuola nei prossimi tre anni. Non sarà il taglio all’istruzione più clamoroso della storia della scuola italiana, ma è comunque un taglio. L’opposizione non ha dubbi nel definirlo così; anche alcuni sindacati sono piuttosto critici e si preparano già alla mobilitazione – altri sonnecchiano. Per il governo invece no, non ci sarà nessun risparmio: anzi, questa finanziaria spenderà per la scuola persino di più di quanto stava spendendo il governo Gentiloni.



Di fronte a due versioni tanto diverse, si tratta di scegliere: una delle due dev’essere falsa per forza. Qualcuno non dice la verità, il governo o l’opposizione. Un osservatore serio, distaccato, competente, dovrebbe riuscire a capire da che parte sta la ragione. Temo di non essere quel tipo di osservatore. Quella di cui si sta parlando in questi giorni non è la solita manovra discussa e sviscerata. Quella che è approdata alla Camera prima della pausa natalizia è un vero e proprio pacco-sorpresa, che i deputati della maggioranza hanno dovuto scegliere se prendere o lasciare – e chi ha lasciato è già stato espulso. Il dibattito sulla legge è stato, per forza di cose, più superficiale che in passato: anche gli addetti ai lavori hanno avuto meno tempo per sviscerare ogni comma; quel che comunque salta agli occhi, anche a un rapido sguardo, è che scuola e ricerca non sono stati individuati come settori strategici.
Anche se i finanziamenti non dovessero essere sensibilmente inferiori a quelli degli ultimi anni, non si può nemmeno dire che siano sensibilmente maggiori; e soprattutto manca il senso di una direzione: si tira a campare sperando che non crollino troppe scuole e non si facciano male troppi studenti e insegnanti. È un’evidenza che non sorprende nessuno, ma è utile confrontarla con le roboanti promesse elettorali di uno dei due partiti di governo, il M5S. Un anno fa Di Maio prometteva di abolire Buona Scuola e legge Gelmini: siamo ancora lontani. Niente più prove Invalsi: le prove sono ancora lì. L’alternanza scuola-lavoro sarebbe sopravvissuta soltanto su base volontaria: non è andata così. E più fondi, più assunzioni, più contratti a tempo determinato, non solo per gli insegnanti, ma anche per il personale non docente, una categoria molto spesso snobbata anche dai politici a caccia di voti, e che invece è fondamentale per il benessere di tutti i frequentatori delle scuole. A un certo punto il M5S aveva persino ventilato l’ipotesi di abolire i finanziamenti alle scuole private.

Forte di queste promesse, il M5S è andato alle elezioni e ha conquistato il voto di una parte sensibile dei lavoratori della scuola, molti dei quali delusi dal Pd ed esasperati da alcune assurdità burocratiche della Buona Scuola. Poi il M5S è andato al governo e al ministero dell’Istruzione ha installato un leghista, Marco Bussetti. Non l’ultimo arrivato, bisogna ammetterlo: per quanto il suo nome sia conosciuto dal grande pubblico soprattutto per una circolare in cui chiede agli insegnanti di assegnare pochi compiti per le vacanze, Bussetti ha fin qui dimostrato di saper procedere con la sua agenda. Che non è sicuramente l’agenda del M5S – per fare un semplice esempio: i fondi per le scuole private, sotto forma di bonus alle famiglie senza limite di reddito, sono rimasti invariati. La Lega è ormai il più antico partito politico italiano, con una più che decennale esperienza di governo. È la prima volta che si insedia in un Ministero che evidentemente fin qui non aveva mai considerato strategico. Anche in campagna elettorale Salvini non si era particolarmente speso per le scuole: le sue priorità (le conosciamo tutti) erano la sicurezza, la flat tax, la rimessa in discussione della zona Euro. Il fatto che nella complessa trattativa primaverile l’istruzione sia finita nelle mani del partito a cui in teoria interessava meno, la dice lunga su quanto poco gli stessi eletti M5S credessero nelle loro promesse. La scuola pareva il fronte più sacrificabile (continua su TheVision).



Questo rende ancora più penosi gli affanni dei deputati pentastellati che in questi giorni cercano di spiegare una finanziaria che hanno appena finito di leggere, sforzandosi di trovare qualcosa di progressivo negli artifici contabili del ministero. Il tentativo più maldestro è quello di Luigi Gallo, presidente della Commissione cultura, scienza e istruzione, che chiede agli attivisti di condividere nelle università e nelle scuole un video interminabile, amatoriale, in cui cerca di sbugiardare i perfidi giornalisti e il perfido Pd accostando alla webcam numeri che restano sfocati e che comunque no, non gli danno ragione. Quando, dopo aver tergiversato per ben 7 minuti, si riduce ad ammettere che nei prossimi due anni è previsto un calo degli investimenti, si difende ricordando, letteralmente, che per quei due anni “non abbiamo ancora fatto la legge di bilancio”: insomma se i numeri non vi piacciono non disperate, magari l’anno prossimo li cambiamo. Salvo che nell’ufficio dove cambiano i numeri non c’è il povero Gallo, e difficilmente ci sarà l’anno prossimo. Lui al massimo può improvvisarsi youtuber di lotta e di governo: e mentre si sbraccia davanti alla webcam, qualcun altro nella stanza dei bottoni continuerà probabilmente a scegliere dove mettere i soldi. A Gallo e compagnia toccherà spiegare che tra breve le cose cambieranno, ci saranno più soldi per le università, per il tempo pieno anche a sud, e per riportare a casa i precari. Più di così non può fare né Gallo, né in generale la classe dirigente M5S: a chi non ha reali competenze di amministratore non resta che amministrare gli slogan (e amministrarli generosamente). La campagna elettorale permanente è una scelta obbligata, e non è detto che non continui a pagare ancora per un po’. Dopotutto si vota anche questa primavera, per le europee.

Per l’occasione voteranno anche gli insegnanti italiani, e sarà interessante verificare se il M5S avrà già dissolto il capitale di fiducia incassato con le elezioni di un anno fa. Se questo non succederà, non sarà soltanto per la fatica di ammettere di essersi illusi. Il fatto è che tutto sommato questa manovra non tocca gli insegnanti di ruolo; in compenso mantiene in un limbo vergognoso molti collaboratori scolastici e docenti a tempo determinato, tra cui quelli di sostegno. Tutto questo contribuirà a rendere più difficile la vita scolastica per tutti. Può darsi che nell’immediato i docenti di ruolo non ci facciano caso, e che si tratti di problemi, per così dire, sotterranei, che inquinano l’ambiente senza essere sempre percepiti: uno studente disabile che cambia ogni anno il docente di sostegno; o uno studente con abilità speciali che fino a quest’anno riusciva ad avvalersi di un insegnante di potenziamento che il prossimo anno perderà la cattedra; un’ala della scuola che dovrà fare a meno dei servizi (pure indispensabili) di un collaboratore. Le criticità che docenti e studenti avranno sempre davanti sono altre, e purtroppo in molti casi sono ancora identificate con la Buona Scuola di Renzi. La prova Invalsi, l’alternanza scuola-lavoro, i bizantinismi dei Piani Triennali e così via. Tutte queste cose, molte delle quali a ben vedere esistevano già prima dell’arrivo di Renzi, ma che con il lancio della Buona Scuola si sono per così irrimediabilmente incollate alla sua figura – in quel processo di personalizzazione della politica che alla fine ha reso Renzi colpevole anche di aberrazioni che non aveva né previsto né introdotto, ma nemmeno abolito. L’insegnante di ruolo che non capisce la necessità del Piano Triennale o della programmazione per competenze, tendenzialmente non se la prenderà con Di Maio, che pure aveva promesso di abolire tutto questo, per poi defilarsi.

Che lasci la politica o no – in questi ultimi giorni si direbbe di no – Renzi resterà ancora per qualche anno uno spauracchio inevitabile per i docenti italiani: lui stesso del resto ha ammesso più volte di avere sbagliato qualcosa sulla scuola. Anche se, non smette di ribadire, lui nella scuola ci credeva, e in effetti, a guardarla oggi, la sua riforma non era il solito pastrocchio di promesse elettorali e gestione al risparmio delle spese correnti, che continuiamo a fare i conti con lui. La sua Buona Scuola aveva un contenuto ideologico, era qualcosa di cui si poteva discutere e che si poteva criticare (in particolare la pazza idea di imporre un approccio manageriale ai dirigenti delle scuole dell’obbligo). Con leghisti e M5S c’è poco da dire: vogliono semplicemente mandare un po’ avanti la carretta senza spenderci troppo, ma neanche senza scontentare troppi elettori. È una missione quasi impossibile, ma se Bussetti resta a sorvegliare i conti, e se gli agit-prop del M5S continuano a difendere ogni sua scelta, può perfino funzionare.
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L'annosa questione del razzismo di Tolkien

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Make Middlearth Great Again
Sauron non è il Signore Oscuro di cui avete senz'altro sentito parlare, ma un sovrano illuminato che sostiene il progresso industriale. Il perfido Gandalf il Bianco, tiranno feudale (re Aragorn non è che il suo burattino) mira a impossessarsi delle ricche miniere di Mordor – certo, occorrerà sterminarne la popolazione, ma non ha nessuna importanza: la storia la fanno i vincitori, e i vincitori dipingeranno nelle saghe le vittime dello sterminio come mostri subumani, gli "Orchi". È la trama di The Last Ringbearer, la più politica delle parodie del Signore degli Anelli, scritta qualche anno fa da un biologo russo, Kiril Eskov. In Russia fu un caso editoriale, in Italia e nei Paesi anglosassoni è ancora inedito. Eskov ha immaginato che il Signore degli Anelli fosse un'opera di propaganda, e l'ha smontata in quanto tale. Ma l'operazione non avrebbe funzionato così bene se lo stesso Signore degli Anelli non fosse un'opera che si presta, proprio per la sua architettura semplice, ma maestosa, a essere smontata e ricomposta. È una delle qualità dei classici, e Il Signore degli Anelli evidentemente lo è diventato. Malgrado il suo razzismo? Perché ogni tanto l'accusa salta fuori, e c'è sempre qualcuno che si stupisce, come se fosse la prima volta. Ma per qualcuno è sempre la prima volta.

Mappa non autorizzata, anzi proibita, anzi l'ho ritrovata in un sito russo, spero non sia contagiosa.
Quando non hai niente di nuovo da dire, ma vuoi fare notizia comunque, puoi sempre dare a Tolkien del razzista. Funziona: vuoi perché il razzismo è sempre d'attualità, e Tolkien non passa mai di moda; vuoi perché trattandosi di un autore che va per la maggiore tra i giovanissimi, puoi ripescare lo stesso dibattito ogni cinque-dieci anni e troverai sempre qualche giovane lettore che ci rimane male, Tolkien razzista? Non l'aveva mai sentita. E poi c'è un'altra ragione, ovvero che Tolkien, per i nostri standard, è davvero un po' razzista. Veramente poco, per un inglese dell'ultima generazione coloniale; ma quanto basta per far scattare gli allarmi più sensibili, tarati sugli standard di multiculturalità del 2018; quanto basta per riavviare ogni tanto la polemica. Anche a causa dei suoi difensori, esperti e affezionatissimi, e non disposti a lasciar cadere l'argomento senza citare una volta in più le durissime parole di Tolkien sulle derive nazionaliste e antisemite che negli anni Trenta osservava sgomento manifestarsi sul Continente. E tuttavia Tolkien è anche lo scrittore che, dovendo procurarsi migliaia di comparse per le schiere del Male nelle scene di battaglia, decide di reclutarle tra i Popoli dell'Est e del Sud. Una classica commistione tra esotismo e pericolo che i lettori inglesi dovevano percepire come assolutamente naturale nel 1954, l'anno della pubblicazione in Gran Bretagna, e che nel 2018 facciamo molta più fatica a mandar giù.

Nel frattempo la Terra di Mezzo è diventata un universo cinematico, e i volti dei suoi protagonisti sono stati fissati nella coscienza di almeno una generazione dalle scelte di casting di Peter Jackson, filologicamente inappuntabili, ma proprio per questo un po' troppo nordiche per i gusti di uno spettatore globalizzato, assuefatto a prodotti hollywoodiani dove le percentuali di comprimari bianchi, neri e asiatici sono calcolate al millimetro. Jackson non ha neanche voluto evitare di attribuire agli Orchi e agli Orchetti una carnagione scura, ed era destino che prima o poi qualcuno decidesse che la cosa lo offendeva. L'ultimo in ordine di apparizione è Andy Duncan, scrittore fantasy che in un'intervista a Wired ha ammesso di non poter passare sopra alla concezione tolkeniana per cui "alcune razze sono semplicemente peggiori di altre, e che alcuni popoli sono semplicemente peggiori di altri". L'affermazione in sé non ha nulla di clamoroso, ma il Times l'ha ripresa e nel giro di poche ore aveva fatto il giro del mondo, o almeno quella porzione non piccola di mondo che va dal Times al Secolo d'Italia (continua su TheVision)

Ma se lo tagliano, sanguina? Apriamo il dibattito.

La polemica in sé non è affatto nuova, e in Italia in particolare non dovrebbe sorprenderci: in fondo siamo stati i primi a sospettare, già negli anni Settanta, che Tolkien fosse un fascista o peggio. Il Signore degli Anelli, che nell’area anglosassone era esploso nel 1968, anno della prima edizione “tascabile” – si fa per dire, non stava nemmeno nelle tasche degli eskimo di allora – ed era stato adottato gioiosamente dalle star della controcultura, in Italia ha avuto una storia tutta particolare. Fu pubblicato nel 1970 da Rusconi, un editore di rotocalchi a base di gossip sui Savoia e Padre Pio, con una famigerata prefazione di Elémire Zolla che non si contentava di anticipare la trama (oggi diremmo “spoilerare”), ma lo innalzava come stendardo di una letteratura anti-moderna, puramente ispirata al folklore e alla tradizione.

Tolkien a ben vedere era tutt’altro che rispettoso delle tradizioni a cui attingeva, e che spesso deliberatamente pervertiva, ma Zolla non voleva o non poteva accorgersene, e ormai il dado era tratto: liquidato dagli ambienti progressisti come autore d’evasione, negli anni Settanta Tolkien fu adottato da una sparuta ma combattiva minoranza di sedicenti intellettuali di destra a cui non sembrava vero poter disporre di un generoso serbatoio di leggende, neanche troppo difficili da leggere. Tolkien in realtà piaceva a tutti, ma i lettori di sinistra ci misero un po’ di tempo a riorganizzarsi. A fine anni Novanta la riduzione cinematografica rimescolò le acque: il Signore degli Anelli entrò a tutti gli effetti anche in Italia nel calderone della cultura pop, proprio mentre i Wu Ming tentavano di recuperarlo a sinistra, insistendo sull’aspetto multiculturale di quel melting pot che è la Compagnia dell’Anello, e sul fatto che i veri eroi del romanzo non siano i tradizionali cavalieri feudali, ma gli hobbit, antieroi provinciali. Tolkien in generale è un autore molto più raffinato e sfuggente di quanto sembri a prima vista. L’affetto che nutre per i miti che rielabora è molto più smaliziato di quanto appaia; le sue fiabe non hanno un lieto fine, Bene e Male restano intimamente connessi.

E allo stesso tempo Tolkien resta un uomo del suo tempo, e al suo tempo non risultava così offensivo immaginare schiere di nemici avanzare da un Sud arido, a cavallo di elefanti. Possiamo decidere che questa cosa non sia più accettabile, e che l’opera di Tolkien sia destinata a seguire sugli scaffali più alti quella di Kipling o di altri autori dell’era coloniale che solo gli addetti ai lavori sono ancora in grado di leggere senza avvertire un inevitabile fastidio, lo choc culturale che proviamo di fronte all’implicito razzismo che permeava la cultura europea fino a pochi decenni fa.

Ma probabilmente non andrà a finire così: Tolkien sembra ancora avere molto da dirci (più di Kipling, tutto sommato). Un’opera che può essere ancora letta da destra, da sinistra, come una saga di eroi o come materiale di propaganda, non dà l’impressione di poter tramontare ancora per almeno una generazione. Se ne riparlerà tra quattro o cinque anni, quando qualcuno magari si accorgerà che Tolkien odia i ragni proprio mentre l’aracnofobia diventa uno stigma sociale, e qualche lettore appena arrivato strabuzzerà gli occhi: ma come, Tolkien aracnofobo? Peccato, e dire che mi piaceva così tanto.

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Niente di nuovo dal fronte del Natale

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Natale è vicino, si riapre il Fronte del Presepe Nelle Scuole: l'infinita battaglia per salvare una delle tradizioni natalizie più specificamente italiane, nonché più legate all'aspetto cristiano della festa. Il Presepe Nelle Scuole, per definizione, è minacciato, è a rischio di scomparsa, ecc. Il bollettino più aggiornato lo dà il Giornale: dunque pare che un membro del consiglio regionale del Veneto (lista Zaia) abbia tentato invano di regalare un presepe tradizionale a una scuola primaria di Mestre, senza prima chiedere una delibera del Consiglio di Istituto. La sorpresa del consigliere è legittima: l'anno scorso la sua Regione aveva stanziato un fondo di 50.000 euro per non lasciare neanche una scuola veneta senza un presepe. Dove sono finiti tutti quei soldi? Vuoi vedere che li hanno spesi in gessetti e computer invece che in asinelli e in buoi?

Il Krampus
Dal Fronte per ora questo è tutto: un po' poco. Certo, a Trieste è passata una mozione del Consiglio Comunale che dovrebbe rendere il presepe "obbligatorio". Certo, Matteo Salvini non si è dimenticato di ricordarci che "chi tiene Gesù fuori dalla porta delle classi non è un educatore". Insomma l'artiglieria continua a sparare, ma non è chiaro contro chi: tutte queste scuole che smettono di fare il presepe forse non esistono più, ammesso che siano mai esistite. L'impressione è che nelle trincee sia rimasto soltanto qualche ufficiale, mentre il grosso delle truppe festeggia nelle retrovia, magari sotto un abete illuminato. Quanto al nemico, il perfido infedele deciso a distruggere le nostre tradizioni a partire dal presepe, forse nelle trincee non c'è nemmeno mai sceso. I musulmani italiani in particolare non hanno mai dato l'impressione di sentirsi offesi dal presepe, anzi. La Lega Islamica del Veneto addirittura è arrivata al punto di regalare presepi agli amministratori – e nonostante tutto il presidente continua a sentirsi bersaglio di polemiche. Forse è inevitabile, forse il Fronte del Presepe ormai è una tradizione natalizia: c'è chi addobba l'albero, c'è chi compra i regali, c'è chi scrive su facebook che le nostre sacre tradizioni sono in pericolo e se la prende con infedeli immaginari – non i musulmani, gli indù, i buddisti o gli ebrei che lavorano con lui o studiano con suo figlio: piuttosto dei folletti da fiaba malvagi che nottetempo smonterebbero i presepi nelle scuole e nelle chiese.

Il Fronte del Presepe non è che un il teatro minore di un grande conflitto immaginario, la Guerra del Natale – "War On Christmas" la chiamano in America, dove è scoppiata addirittura ai tempi del maccartismo. Ai tempi il bersaglio prescelto erano marxisti ed ebrei, sospettati di voler eliminare l'augurio "Merry Christmas" dalle cartoline, in favore di un più laico e materialista "Happy Holidays", buone feste (ironicamente, molte canzoni natalizie americane sono state scritte da compositori ebrei). Dopo decenni di tregua, la guerra si è riaperta dopo l'Undici Settembre: anche negli USA, a nulla valgono le proteste d'innocenza dei musulmani, o i loro rassicuranti video di auguri natalizi; anche laggiù il vero nemico non sono loro, ma un entità più vaga e malvagia, un complotto anti-cristiano e anti-americano che ogni anno deve minacciare l'esito felice della celebrazione; quasi una rielaborazione postmoderna del Krampus, il mostro che nel folklore dell'Europa Centrale dev'essere domato da Santa Klaus prima della notte di Natale. Quarant'anni fa il Krampus erano i marxisti e gli ebrei, oggi sono i musulmani, domani a chi toccherà.

Natale è vicino, e come ogni anno qualcuno sta per intonare un'invettiva contro la deriva consumistica di quella che era una festa cristiana (l'anno scorso memorabile fu quella di Cacciari). A nulla varrebbe obiettare che il Natale è ormai festeggiato spontaneamente anche dove i cristiani sono un esigua minoranza (in Cina è sempre più popolare); che le tradizioni natalizie universalmente più condivise non sono particolarmente cristiane, ed esistevano già prima che la festa pagana del Sole Vincitore fosse assorbita dal calendario cristiano. Tra le non molte cose che abbiamo in comune coi nostri contemporanei cinesi, c'è la capacità di riconoscere al volo un'immagine di Babbo Natale; tra le ben poche cose che abbiamo in comune coi nostri antenati pagani e barbari, c'è l'abitudine di scambiarci doni e dolci a base di frutta candita nei giorni intorno al solstizio d'inverno. Il vecchio con la barba bianca è San Nicola di Myra, oggi in Turchia, lo sanno tutti; ma forse non tutti sanno che prima di lui era lo stesso Odino a cavalcare nella notte del solstizio, portando dolcetti ai bambini che lasciavano carote sul davanzale per il suo cavallo a otto zampe. Quanto alla data del 25 dicembre, nessun vangelo ne parla (nessun vangelo precisa né il mese né l'anno della nascita di Gesù Cristo), ma coincide singolarmente con la festa del Sole Invitto, che l'imperatore Aureliano introdusse nel 274... (Continua su TheVision).


La scelta di celebrare il terzo giorno dopo il solstizio, quando dopo sei mesi le giornate ricominciano ad allungarsi, fu forse ispirata ai culti mitraici, ma quel che interessava realmente ad Aureliano era imporre un culto universale a tutti i popoli dell’impero – e cosa c’è di più unico e universale del sole? I cristiani – magari suggestionati dall’idea di una resurrezione vittoriosa dopo tre giorni di oscurità – fecero propria la festa neopagana. Nel giro di un secolo, il cristianesimo sarebbe diventato religione di Stato, e l’editto di Tessalonica avrebbe definito i non cristiani come “dementes”, pazzi. Non è difficile riconoscere nell’odierna frenesia natalizia qualche aspetto dell’antica follia dei Saturnali romani e delle feste germaniche. Forse non è una coincidenza se da millenni sentiamo il bisogno di circondarci di luci, di affetti e di zucchero nel periodo più oscuro dell’anno.

Nel 2000 il governo russo donò alla città di Demre, già Myra, una statua di San Nicola, raffigurato secondo la classica iconografia ortodossa; un’immagine che i turisti russi in visita alla tomba del Santo avrebbero apprezzato, ma che lasciava evidentemente perplessi gli automobilisti turchi: al punto che pochi anni dopo fu spostata in una posizione più vicina al santuario, e soppiantata al centro della rotonda da un Babbo Natale di plastica. Che ci piaccia o no, il San Nicola più famoso e riconoscibile dai visitatori di tutto il mondo è quest’ultimo. Non c’è dubbio che sia una banalizzazione: ma forse è il prezzo da pagare per avere una festa davvero universale. Chi chiede con insistenza che il presepe rimanga in tutte le scuole e i luoghi pubblici, si prepari a vederlo trasformato in un oggetto altrettanto banale e universale.
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A Parigi è già inverno (il più caldo)

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Sarà l'inverno più caldo di sempre in Europa, e non a causa dei gilet gialli. Per quanto abbiano dimostrato, nel giro di un paio di settimane, di poter mettere Parigi e la provincia a ferro e fuoco; costringendo il governo a un passo indietro clamoroso, e dimostrando ancora una volta al mondo che ribellarsi paga (almeno in Francia): per quanto abbiano già scritto un pezzetto di Storia, quel pezzetto non racconterà che i gilet gialli furono la miccia dell'inverno più caldo. Tutto il contrario.

Sarà l'inverno più caldo di sempre perché farà più caldo, semplicemente: e l'evidenza non può più essere ignorata. È l'inverno che ha già causato i gilet gialli; è l'emergenza ambientale che sta bussando alla porta; è la catastrofe del clima che si annuncia, e i tafferugli francesi non sono che un timido annuncio di quello che succederà da qui in poi. È normale che l'allarme arrivi dalla Francia: è il suo destino, la sua geografia: la nazione più vasta dell'area più ricca, che include come l'Italia paesaggi diversissimi, ma a differenza dell'Italia non separati da barriere difficili da valicare: il che l'ha resa il laboratorio dell'assolutismo, del protezionismo, e allo stesso tempo ha creato le premesse per la Rivoluzione.

Due secoli e trent'anni dopo, la Francia è l'unica grande democrazia presidenziale europea, ed era assolutamente prevedibile che la tensione tra una provincia avvilita dalla globalizzazione e un'élite tecnocratica confinata nella capitale dovesse spezzarsi proprio qui. In un certo senso la novità non sono i gilet gialli, che protestano come i francesi hanno sempre protestato: la vera novità è il loro avversario, il presidente Macron. Salito all'Eliseo grazie a un sistema elettorale che lo ha investito di un potere e di una responsabilità assolutamente sproporzionate rispetto al credito che gode presso i cittadini, Macron e i suoi uomini si sono ritrovati a incarnare con precisione fin qui mai immaginata l'archetipo del tecnocrate gelido e cosmopolita. L'Europa delle istituzioni, lontana dal cuore del popolo eccetera.  È chiaro che avrebbe risposto all'emergenza con misure impopolari: è ovvio a chi le avrebbe fatte pagare.

L'idea del suo governo aveva un che di disumano, nella sua drastica semplicità: il costo del riscaldamento globale, lo paghino gli automobilisti e gli autotrasportatori. Chi non abita entro i confini della capitale; chi non è stato abbastanza fortunato o avveduto da ritrovarsi da vivere nei centri lambiti dall'Alta Velocità; che anche in Francia ha assorbito l'attenzione dello Stato ai danni delle tratte ferroviarie periferiche; chiunque si ritrovi costretto ancora nel 2018 a usare un'automobile per lavorare (o semplicemente viva in un piccolo centro dove i supermercati sono riforniti dai camion). Per la Capitale sono loro i colpevoli, sono loro che ammorbano l'aria di Co2 e polveri sottili; quindi è a loro che toccherà pagare. C'è il piccolo particolare che sono la maggioranza dei francesi, e i francesi non sono quel tipo di popolo che mugugna ma sopporta.

Questo è più o meno il senso della lotta: non che si possano fare analisi più approfondite, ma si rischia di caricare un movimento spontaneo di connotazioni che ancora deve assumere (magari le assumerà, ma non forziamo lo sguardo). Certo, c'è un programma, e in quel programma ovviamente c'è di tutto e quasi il contrario di tutto: solidarietà con i richiedenti asilo e rigore con i richiedenti asilo respinti. Ci sono tantissime misure sociali che nessuno a sinistra potrebbe respingere, innalzamento del salario minimo e delle pensioni; salvo che ovviamente non ci si pone il problema della copertura; così come non se lo ponevano, in campagna elettorale, né Di Maio né Salvini. Ma quanti gilet hanno davvero letto e sottoscritto il documento, quanti sono scesi in piazza semplicemente per difendersi da un rincaro del carburante? (continua su TheVision)

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L'autocritica maoista di D e G

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Pallidi, smorti, due stracci grigi messi ad asciugare su uno sfondo rosso drago, i due imperatori della moda non vi sono mai sembrati così nudi, così ridicoli: e adesso infatti li irridete. Adesso.

Il problema non è avere un cannolo grande.
Adesso Crozza li può prendere in giro; adesso Gianni Riotta può ammettere che la crisi con la Cina è stata una débâcle“Agire in un mondo unico e social come se vivessimo ancora nell’Italia chiusa anni Cinquanta, porta a disastri”; adesso Vittorio Zucconi su La Repubblica può persino mettere in dubbio la versione ufficiale dell’azienda, quella secondo cui i tweet violentemente anticinesi partiti dall’account di uno stilista sarebbero stati scritti da un malvagio hacker. Come se fosse la prima volta che da quell’account partono tweet disastrosi e autolesivi, come se lo stesso responsabile dell’account non avesse mai definito “brutta” Selena Gomez, o “fascista” Elton John. Fino a venerdì però non c’era quotidiano italiano che osasse mettere in discussione la bizzarra teoria degli hacker. Fino alla settimana scorsa non c'era quotidiano che potesse permettersi a cuor leggero di mettere in discussione Dolce e Gabbana. E così, mentre i siti di e-commerce ritiravano i prodotti griffati, il Ministero cinese annullava la sfilata-evento e su Instagram si postavano video di falò alimentati con i vestiti della coppia di stilisti, per i giornalisti italiani Dolce e Gabbana al massimo avevano sbagliato uno spot, urtato qualche indigeno troppo suscettibile.

Poi però è arrivato il loro grottesco video di scuse, e qualcosa è cambiato. Come se i predatori del circo mediatico avessero sentito l’odore del sangue: Dolce e Gabbana improvvisamente non erano più intoccabili. Non più i capricciosi tiranni del lusso, quelli che qualche anno fa per una recensione negativa avevano ritirato le inserzioni pubblicitarie a un quotidiano. Dolce e Gabbana erano stati colpiti. Non sono immortali, dunque. E quindi addosso – comodo, adesso.

Così comodo che forse vale la pena di chiamarsi fuori. Tanto la frittata è fatta, no? Dolce e Gabbana lavorano sugli stereotipi: lo hanno sempre fatto e per molto tempo ha funzionato. La caricatura di Italia che spacciavano al mondo era davvero ferma agli anni Cinquanta, e potrebbe persino essere stata controproducente per l’immagine della nostra nazione all’estero: ma funzionava, vendeva, e quindi perché lagnarsene. I problemi sono nati quando il metodo Dolce e Gabbana è stato esteso al resto del mondo globalizzato, in aree forse più sensibili ai problemi che gli stereotipi portano con sé.

Il problema è avere un grande cannolo
Un primo segnale d’allarme arrivò durante la sfilata primavera-estate 2013, quando alcune modelle si presentarono in passerella con un ingombrante orecchino che lasciò perplessi i giornalisti anglosassoni (“Are they racist?“): rappresentava la testa di una donna nera; somigliava non troppo vagamente ai quelle raffigurazioni stilizzate e grottesche degli individui afroamericani stigmatizzate da Spike Lee in Bamboozled . In quell’occasione l’azienda si limitò a precisare che avevano voluto citare le “teste di moro”, un simbolo del folklore siciliano. Uno choc culturale interessante, su cui la stampa italiana non trovò molto da dire.

Così come si allarmò particolarmente l’anno dopo, quando le foto dell'”Hallowood Disco Africa” con gli stilisti truccati da africani fecero il giro del mondo e arrivarono in America, dove la “blackface” è ancora vista come un oltraggio dalla comunità afroamericana: un ricordo di quei minstrels show in cui attori bianchi truccati da neri ne irridevano i costumi mentre si appropriavano della loro musica. Gabbana non portava una blackface, ma delle foto sembrava divertirsi, sinceramente inconsapevole dei problemi che avrebbe potuto crearsi con i clienti di oltreoceano. Tanto chi si indigna di queste cose non compra Dolce e Gabbana, no?

I giornalisti italiani si fecero invece sentire nel 2015, quando lo stesso Gabbana definì “sintetico” il figlio di Elton John e quest’ultimo reagì annunciando che non avrebbe mai più comprato prodotti della griffe; al che Gabbana reagì definendolo fascist. Forse fu un hacker anche in quell’occasione, non si può escludere, ma non è questo il punto. Il punto è che allora i giornalisti italiani intervennero, sì: ma per difendere Gabbana; per cercare di spiegare e Elton John che quella di Gabbana su suo figlio era un’opinione, e le opinioni vanno rispettate. Certo, non credo che Elton John si sia scosso più di tanto per i rilievi di Beppe Severgnini, ma il problema resta: quello di una stampa nazionale che sembra spalleggiare Gabbana (o il suo hacker) per partito preso, anche a costo di scadere nel ridicolo... (continua su TheVision).



In un mondo globale sempre più insofferente nei confronti degli stereotipi culturali e di genere, se Dolce e Gabbana hanno potuto remare per anni in direzione contraria è anche colpa di chi, per tutto questo tempo, si è sforzato di trovarli geniali, fingendo di non vedere anche gli esempi più eclatanti, come la pubblicità che alludeva a una violenza sessuale di gruppo. Tutto questo finché un giorno non sono andati a sbattere contro la Repubblica Popolare Cinese. Adesso è tutta colpa loro: gli imperatori sono nudi, gli ex ciambellani di corte si accaniscono su coloro che fino a un momento fa veneravano. Trovano brutto il comunicato di scuse, poco credibile. Chissà se qualche autoeletto guru della comunicazione ha già fatto notare quello che per un qualsiasi studente della Storia del Novecento rasenta l’ovvio: quel video apparentemente imbarazzante è ancora una volta una rielaborazione di stereotipi orientali (l’autocritica maoista) e occidentali (Dolce e Gabbana sembrano due ostaggi davanti alla videocamera fissa).

Costretti a recitare con voce atona formule grottesche come “Chiediamo scusa ai cinesi perché ce ne sono tanti”, Dolce e Gabbana insistono sulla redenzione, ma in realtà stanno dicendo un’altra cosa: umiliazione. È vero che mancano i cappelli di carta con cui le Guardie Rosse di Mao cingevano le teste dei nemici del popolo, ma chi è nato e cresciuto dopo la Rivoluzione Culturale non dovrebbe faticare a cogliere un riferimento, anche inconscio: Dolce e Gabbana si comportano come due capitalisti rieducati, proletarizzati, pronti per indossare la tutina e inforcare la bicicletta.

Nel frattempo l’osservatore occidentale ridacchia, ma percepisce un altro messaggio preciso: Aiuto, siamo prigionieri. Ovviamente non crediamo in quello che stiamo dicendo, siamo ostaggi di questo nuovo mondo globale. Venite a salvarci, o almeno abbiate pietà di noi. Un video così goffo riesce a muovere le corde giuste di due pubblici opposti e complementari. Non male, per essere la mossa disperata di due stilisti a cui adesso, e solo adesso, gli Esperti rimproverano l’incapacità di comunicare. Lavorare sugli stereotipi è pericoloso, e prima o poi ci si brucia. Ma se Dolce e Gabbana ci hanno insistito fin qui, è perché fin qui tutto sommato funzionava. E funziona ancora, a dispetto di ogni critica. Anche coi cinesi, anche con noi.

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Burioni e il futuro del PD (è il futuro del PD?)

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Le primarie non le vincerà, ma almeno il Congresso Pd sembra averlo portato a casa Dario Corallo. A distanza di qualche giorno il suo intervento è l’unico rimasto in mente a chi non segue il dibattito congressuale per mestiere o masochismo. Non era neanche così imprevedibile che un outsider ottenesse questo risultato, anzi, è una situazione ricorrente nelle fasi più critiche della storia del partito: qualcosa di molto simile capitò quasi 10 anni fa dopo la caduta di Veltroni, quando a un’assemblea parlò una giovane Debora Serracchiani. Corallo non era nemmeno l’unico giovane a proporre l’ennesima tabula rasa, l’ennesima rottamazione; se è riuscito a battere la concorrenza e a imporsi su YouTube è perché ha avuto l’idea di scatenare una polemica con un personaggio che in rete funziona meglio di qualsiasi quadro del Pd: Roberto Burioni.


Con una mossa apparentemente pretestuosa, al culmine di un ragionamento un po’ confuso, Corallo ha avuto quel guizzo di genio che gli ha permesso di apparire sulle homepage di più testate nazionali. Anche perché Burioni se l’è presa – ma questa era la cosa più prevedibile di tutte – mettendo in guardia il Pd dalla “tentazione di fregarsene della scienza (e della salute delle persone), per accarezzare il pelo all’ignoranza”.

Vale la pena di spiegare l'equivoco? Corallo ovviamente non proponeva di ”fregarsene della scienza”, ma lamentava che il Pd avesse fatto proprie un insieme di dottrine economiche – più liberali che socialdemocratiche – scambiandole per scienza “esatta” e rifiutandosi di discuterle con gli elettori, così come Burioni si rifiuta di discutere seriamente coi NoVax. È un paragone piuttosto sghembo: i NoVax sono una frangia tutto sommato modesta dell’elettorato (anche se blandita da M5S e Lega); il Pd deve porsi il problema di recuperare un bacino molto più ampio.

Evocando Burioni, Corallo è riuscito a dirottare un po’ di attenzione su di sé, ma il risultato è che ora non stiamo parlando davvero di Corallo: stiamo parlando di Burioni. Malgrado abbia colto l’occasione per ribadire che non intende impegnarsi in politica, è lui il vero vincitore del congresso. Non come candidato, ma come programma politico. Chiunque vincerà le Primarie – Zingaretti o Minniti, la gara non entusiasma – si troverà davanti a un bivio: essere burionisti o rinnegare il burionismo? Il Pd del 2019 sarà il partito delle eccellenze, dei professionisti di successo, o sarà il partito del “99% che non ce la fa”? Sembra che alla fine lo scontro – perché di uno scontro c'è bisogno – sarà questo. In attesa che Renzi si rifaccia vivo (impossibile pensare che non vorrà di nuovo dire la sua); in mancanza di candidati dalla personalità forte; nell’eclissi generale dell’ideologia, il burionismo è almeno un argomento su cui ci si può confrontare.


Ha anche il pregio della chiarezza: il burionismo non è così difficile da definire. È una forma di meritocrazia – parla solo chi è competente, parla solo chi è laureato – che da lontano può somigliare a quel caro vecchio elitismo, quell’attitudine snob che gli avversari della sinistra le hanno sempre imputato. Salvo che una volta la sinistra respingeva la definizione o, quando proprio non poteva respingerla, l’ammetteva con pudore, come una debolezza, un peccato originale; mentre il burionismo oggi rivendica la propria superiorità senza vergogna, anzi con una certa sfacciataggine – e in questo modo, paradossalmente, perde tutta quella patina snob e talvolta finisce per somigliare, nei toni urlati e sprezzanti, ai populisti che combatte: vedi come ha reagito all’intervento di Corallo la fanbase dei seguaci di Burioni su Twitter.


Il burionismo, poi, non poteva che nascere sui social: è una strategia comunicativa che ha senso soprattutto lì. E forse non è un caso che i grandi “blastatori” italiani su Twitter siano quasi tutti professionisti ultracinquantenni, che scoprono il mezzo quando ormai i giorni in cui erano abituati a confrontarsi tra pari sono un ricordo lontano. Paradossalmente è proprio questo approccio verticale a dare spettacolo, quando impatta contro l’architettura democratica dei social network e produce scintille: le “blastate”. La differenza tra il burionismo e il grillismo, o il leghismo 2.0 rifondato su Facebook da Salvini e Morisi non è il mezzo, infatti, ma il fine: il burionismo è arrogante perché deve proteggere la scienza e salvare delle vite. Di questo Burioni è convinto e non si stanca di spiegarlo – anche se non ha ancora i numeri per provarlo: blastare funziona. A chi gli obietta che le umiliazioni e gli insulti non hanno mai convinto nessuno, Burioni risponde che il suo scopo non è convincere i NoVax – per Burioni sono irrecuperabili – ma impressionare il pubblico che assiste agli scambi, e che evidentemente si lascia conquistare più da un blastaggio che da un ragionamento pacato. Il burionismo è uno scientismo cinico: crede nella scienza e solo nella scienza, ma allo stesso tempo non ritiene che la scienza sia comprensibile a tutti. La divulgazione dev’essere semplice, e includere qualche momento catartico-liberatorio in cui l’ignorante viene sollevato dallo spettacolo dell’umiliazione di qualcuno più ignorante di lui.

Luca Morisi

Questo per sommi capi è il burionismo, e non è detto che non funzioni. Il personaggio c’è, vende libri, va in tv, egemonizza il dibattito del principale partito d’opposizione, e nel frattempo le vaccinazioni aumentano – non necessariamente grazie a lui, ma aumentano. Non è così strano che il nome di Burioni desti più attenzione di quello di qualsiasi concorrente alla segreteria del Pd. Il Pd è reduce da un insuccesso storico; Burioni, per dirlo con le sue parole, è: “Qualcosa di unico sia dal punto di vista social media sia dal punto di vista editoriale, non solo nel nostro Paese”. Ma il burionismo può davvero diventare la base programmatica e la strategia comunicativa del Pd? Burioni diventò famoso quando gli capitò di scrivere che la scienza non è democratica, un’affermazione abbastanza controversa che fece breccia però immediatamente, al punto da alimentare un sospetto: non è che a tanti burionisti la scienza piace proprio perché non è democratica? Un bell’argomento per chi si scopre critico nei confronti del suffragio universale, per chi periodicamente propone di “superarlo”.

Può il Partito Democratico ospitare in sé un punto di vista così poco democratico? E cosa succede – si domandava Corallo – quando dalla scienza “dura” si passa a discipline più controverse, come l’economia, la sociologia, l’ecologia? Come impedire che la fiducia nella competenza si trasformi in dogma, e il burionismo diventi una specie di religione? Ammesso che blastare i NoVax funzioni, possiamo pensare di blastare allo stesso modo i NoTav, fingendo che non abbiano argomenti e obiezioni sensati, basati su osservazioni, calcoli, ragionamenti?

Si sarà capito che per me tutte queste sono domande retoriche. Non credo che si possa essere burionisti e democratici, bisognerebbe scegliere: e in un partito che si chiama ancora “Democratico”, la scelta mi sembra ovvia – sempre che possiamo ancora permetterci di essere democratici. Perché ecco, forse il problema è proprio questo: possiamo ancora permettercelo?

Corallo propone di andare verso il popolo, una proposta fin troppo ovvia per quello che in teoria sarebbe un partito di (centro) sinistra. Ma nella pratica il popolo è già stato opzionato da altri due partiti populisti, che si sono contesi lo stesso bacino elettorale con promesse imbattibili, e attualmente governano insieme. Certo, prima o poi saranno costretti a vedere i loro bluff, prima o poi ogni promessa elettorale rivelerà il suo lato oscuro. Ma potrebbe volerci ancora qualche anno, e a quel punto è persino possibile che gli elettori reagiscano alla delusione cercando qualcosa di sensibilmente diverso. Per un partito politico in crisi la ricerca di un’identità coincide spesso con la ricerca di una nicchia elettorale e con due avversari populisti al governo, il Pd non potrebbe essere popolare e democratico, neanche se ci tenesse davvero (continua su TheVision sempre più menagramo).




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Non è una scuola per insegnanti (maschi)

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"Scusami, sto cercando una maestra".
È un cattivo segno quando i genitori la prima volta ti danno del tu. Non è mancanza di rispetto. È proprio che non hanno capito che mestiere stai facendo. 
"Ci sono io".
"Sì, ma cercavo una maestra".
"Beh io insegno qui".
In questi casi la giacca può fare la differenza. Senza giacca è possibile che ti prendano per un bidello. Con la giacca puoi passare anche per un vicepreside. Ma un maestro no, non pensano mai al maestro.
"Ah, mi scusi, non avevo capito".
È una questione di istanti: alla sorpresa subentra il sospetto. D'accordo, ho davanti un insegnante di sesso maschile. Cos'è andato storto con lui? Perché non è da qualche parte a fare un lavoro meglio pagato? Che errori ha commesso? Che peccati sta scontando? Forse semplicemente non aveva abbastanza ambizione.

È difficile essere insegnanti di sesso maschile? Probabilmente non quanto essere ingegneri di sesso femminile. O vigili del fuoco di sesso femminile. O insomma avere il sesso femminile, in generale, in tutti i luoghi di lavoro dove è minoritario e cioè praticamente dappertutto tranne che a scuola e forse in qualche infermeria. Questo è più vero nelle scuole italiane che in quelle di altri Paesi; più nelle scuole primarie che nelle secondarie (all'università, man mano che aumenta il prestigio e il salario, il rapporto si inverte). È una di quelle disparità intorno alle quali ancora oggi è costruita la nostra società. Anche nei più avanzati Paesi al mondo, ci si aspetta ancora che la donna trascorra mediamente più tempo dell'uomo in casa e coi figli: l'insegnamento è un mestiere che lo consente. Certo, con l'aumento del benessere aumenta la fluidità: una donna può permettersi di dedicarsi alla carriera mentre il marito si accontenta di fare un mestiere che gli piace e che gli consente di gestirsi qualche pomeriggio coi figli. Proprio per questo è allarmante il fatto che nei prossimi anni in Europa il gap tra insegnanti maschi e femmine aumenterà. Evidentemente la società si sta irrigidendo, e la scuola non può che rifletterlo. Per esempio, quando i maestri australiani ammettono di avere difficoltà con il contatto fisico, è chiaro che sono vittima di uno stereotipo di genere: nessuno si spaventa se una maestra tocca un bambino, perché con un collega maschio dovrebbe essere diverso? Allo stesso tempo lo stereotipo si basa su un senso comune confermato da dati statistici: la maggior parte dei sex-offenders risultano essere di sesso maschile, e spesso gli individui con tendenze pedofile scelgono una professione che consenta loro di lavorare a contatto coi bambiniCerto, se ci fossero più insegnanti maschi, il sospetto si diraderebbe (ma aumenterebbe anche la possibilità che un maestro risulti davvero un sex-offender). Negli Stati Uniti i maestri elementari non hanno smesso di essere una rarità, ma stanno diventando una rarità ricercata: pare infatti che a parità di condizioni, ottengano mediamente risultati migliori delle colleghe. Ma se questo accade è proprio perché insegnare, per un uomo, è ancora uno stigma sociale, un potenziale disonore che dissuade dall'intraprendere la professione chiunque non sia fortemente motivato. I maestri, insomma, sarebbero buoni proprio perché sono rari: il che significa che diventeranno sempre meno buoni man mano che aumentano e forse ci accorgeremo di aver ottenuto l'uguaglianza quando cominceremo a trovarne di scarsi (continua su TheVision).

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I pazzi e il Pendolo

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Tutto questo non potevamo aspettarcelo: ai posteri cercheremo di spiegarla così. Complottisti al governo, antivaccinisti alla sanità; sottosegretari che non credono alle missioni lunari. Si discute se possa presiedere la Rai un giornalista che ha diffuso notizie sul satanismo di Hilary Clinton. Tutta questa paranoia non l'abbiamo vista arrivare: come avremmo potuto? È troppo irrazionale, e tutto quello che è irrazionale non dovrebbe essere reale. Ai posteri cercheremo di spiegarla così, ma non è detto che ci cascheranno: ma certo che potevate aspettarvelo. Ci sarebbe bastato guardare meglio in giro, studiare con più attenzione i fenomeni, anche soltanto leggere i libri giusti. Ce n'era uno che prevedeva tutto questo con trent'anni d'anticipo, e non era un saggio di antropologia o di sociologia, macché: un romanzo. Un best-seller, addirittura – certo, non il più leggibile dei best-seller.
Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto quest'opera...
Si chiamava Il pendolo di Foucault, e trent'anni esatti fa era l'argomento più caldo dell'estate (bisogna dire che era un'estate dolce e pigra, Gimme Five di Jovanotti duellava con Nick Kamen in cima alle classifiche, Craxi aveva finalmente acconsentito a un governo De Mita che sarebbe durato un altro anno, gli Europei di calcio erano già finiti da un mese e le olimpiadi di Seoul sarebbero iniziate soltanto in settembre). In quell'agosto sostanzialmente tranquillo, sulla stampa italiana cominciarono ad apparire recensioni non autorizzate del secondo romanzo di Umberto Eco, che sarebbe uscito soltanto in autunno. Tutto questo malgrado le proteste dell'autore e del suo editore, Bompiani, che poi sarebbero stati accusati di avere occultamente orchestrato la fuga di notizie per vendere ancora più copie. Non che ne avessero la minima necessità: il primo romanzo di Eco, Il nome della rosa, era appena uscito dalle classifiche italiane di vendita dopo otto anni. Tradotto in più di 40 lingue, si stima che abbia venduto più di trenta milioni di copie: nel dicembre di quello stesso 1988 il film di Jean-Jacques Annaud con Sean Connery sarebbe stato visto su Rai1 da 17 milioni di telespettatori, il pubblico di una partita della nazionale.

"Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto"
[seguono centinaia di pagine sui templari].

Nel 1988 insomma Umberto Eco dava l'impressione di poter piazzare milioni di copie persino di un trattato di cabala babilonese. A qualcuno il Pendolo sembrò esattamente questo: un gioco esageratamente intellettualistico. A chi si aspettava un altro godibile giallo medievale, stavolta Eco infliggeva un labirinto narrativo articolato non solo nello spazio (Gerusalemme, Parigi, Milano, le Langhe) ma nel tempo (dal processo dei Templari agli intrighi massonici dell'Ottocento, dalla Resistenza al '68 alla Milano-da-bere contemporanea), affidato a due voci narranti – addirittura scritto in due font diversi.

Eppure il Pendolo, a rileggerlo trent'anni dopo, non sembra così complicato. C'è da dire che nel frattempo il best-seller postmoderno, il genere che Eco stava collaudando, è diventato un prodotto editoriale codificato: il citazionismo spinto e l'uso sistematico dei flashback non sorprendono più. Ma il sospetto è che già nel 1988 Eco li stesse usando soprattutto per mettere alla prova il lettore (come aveva dichiarato nelle Postille al Nome della rosa): gran parte delle difficoltà si concentrano nei primi capitoli. Proprio il più faticoso, il delirio iniziale di Casaubon al Conservatoire des Arts et Métiers, fu scelto per essere pubblicato in anteprima dall'Espresso. Più che a promuoversi, Eco sembrava deciso a sacrificare parte del pubblico che aveva conquistato. Poteva permetterselo (continua su TheVision).



Il Pendolo scalò immediatamente le classifiche, divivendo i critici (memorabile la stroncatura di Salman Rushdie) e spaventando molti lettori.

Se Il nome della rosa inghiottiva il lettore in un universo compatto, un medioevo ricostruito in laboratorio, Il Pendolo disorientava, accostando pagine autobiografiche ai divertissement eruditi alla Diario minimo. Era un testo scoppiettante, che attirava e respingeva, e verso il finale non resisteva alla tentazione di ammazzare qualche protagonista in scena come certi feuilleton ottocenteschi tanto amati dall’autore. La trama ruotava intorno a un gruppo di intellettuali che, per interesse anche economico, cominciano a frequentare il mondo dell’occultismo, fino a venire risucchiati in un apparente complotto universale che – come nel Nome – si rivela poi solo un grande equivoco. Nel Pendolo, Eco usciva dal suo confortevole Medioevo per cimentarsi con la contemporaneità, arrivando a prestare alcuni ricordi d’infanzia a uno dei protagonisti, Jacopo Belbo. Spesso i protagonisti dei thriller sono versioni idealizzate dei loro autori, uomini tutti d’un pezzo. Nel Pendolo tutto il contrario: Belbo è un Eco che non ce l’ha fatta, che non è riuscito a diventare uno scrittore e non se ne dà pace. Una cultura enciclopedica non lo riscatta dalla mediocrità, anzi sembra fornirgli strumenti più affilati per torturarsi. Troppo giovane per la Resistenza, troppo maturo per la Contestazione, Belbo mentre confida i suoi sogni di riscatto eroico al suo personal computer, continua a compromettersi col sistema; tra le sue mansioni di collaboratore editoriale c’è quella di selezionare i gonzi, gli autori di manoscritti da attirare nella truffaldina ragnatela escogitata dal diabolico editore Garamond. Personaggi ancora più mediocri di lui, poeti da strapazzo ed eruditi della domenica, impiegati e funzionari con un sogno di gloria nel cassetto: chi avrebbe mai pensato che sarebbero legione, movimento, forza di governo? Eco nel 1988 ci stava pensando.





Il pensiero complottista, ci spiegava, farà seguaci non soltanto tra i poveri di spirito, ma anche tra gli intellettuali come Belbo, sedotti anche per un solo istante da un Piano che spieghi ogni mistero e giustifichi ogni fallimento. È una lezione sulla quale forse non abbiamo ancora riflettuto abbastanza, oggi, mentre insistiamo a interpretare il trionfo dei movimenti complottisti e xenofobi come un problema di analfabetismo funzionale (eppure il partito più votato dai laureati è il M5S). L’avversario che ci additava trent’anni fa non era l’ignoranza, ma erano la frustrazione, l’insoddisfazione, l’incapacità di rassegnarsi alla mediocrità. Lo avrebbe ribadito sette anni più tardi in quella famosa lezione alla Columbia che oggi si ritrova in libreria sotto il titolo Il fascismo eterno: “L’ Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici sia stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. Nel nostro tempo in cui i vecchi proletari stanno diventando piccola borghesia (e i Lumpen si autoescludono dalla scena politica), il Fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio”.

Sfogliando manoscritti alla ricerca di gonzi da spennare, Belbo aveva scoperto alcuni temi ricorrenti: l’occultismo, i misteri del passato, i soliti Templari (“Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto”). Nel 1988 forse era presto per capire che Il Pendolo metteva a fuoco con precisione chirurgica la transizione tra anni Settanta e Ottanta, il momento in cui in certe piccole librerie di Milano i saggi sui templari avevano rimpiazzato quelli sul marxismo. L’irrazionalismo di uno Zolla o di un Cioran poteva apparire ancora un fenomeno di nicchia, una nuvola pittoresca e inoffensiva che veniva a stemperare gli incubi ideologici degli anni di piombo. L’impegno con cui Eco si dedicava a smontarlo e sbeffeggiarlo poteva sembrare eccessivo; un voler tirare alle zanzare col cannone. Nel 1988 c’erano cose che ci preoccupavano di più, anche se oggi è difficile ricordare cosa.



Quando nel 2003 le librerie furono infestate da un thriller fanta-storico, Il Codice Da Vinci di Dan Brown, qualcuno si ricordò che l’idea di un Gesù fondatore della stirpe dei Merovingi non era poi così nuova. Ne aveva parlato per esempio Eco; ma la circostanza è un po’ più bizzarra. La trama del Codice era stata anticipata in una pagina del Pendolo in cui i tre protagonisti si divertivano a interpretare le frasi emesse da un computer in sequenza casuale. Lo stesso Eco avrebbe più volte definito Dan Brown come un suo personaggio; e in effetti, il suo stile un po’ meccanico ricorda quello di un computer che si sforza di imitare gli scrittori in carne e ossa. Al di là delle coincidenze abbastanza facili da spiegare (sia Eco che Brown attingevano la loro mitologia da testi precedenti), quel che sorprende è che sia Il Pendolo a funzionare come una parodia del Codice, benché sia uscito quindici anni prima. Una parodia che non solo mette in luce l’ingenuità del complottismo alla Dan Brown, ma ne preannuncia persino il successo. Attenzione, voleva dirci il Pendolo: questa roba sembra ridicola, inoffensiva, ma funziona.

Torniamo a oggi. Quando è crollato il ponte Morandi, nel giro di poche ore su internet sono fiorite le prime ipotesi complottiste sulla “demolizione programmata”. È la prassi, dall’undici settembre in poi; dietro non c’è nessuna mente diabolica, né un’epidemia di analfabetismo di ritorno: solo l’umana esigenza di inserire ogni tragedia in un Piano che la giustifichi e ne dia la colpa a qualcun altro. È un fenomeno interessante, inquietante e ancora abbastanza oscuro: dovremmo analizzarlo meglio, forse avremmo dovuto cominciare a studiarlo per tempo: ma in fondo chi se lo sarebbe aspettato che queste buffonate sarebbero diventate così importanti? Ai posteri cercheremo di spiegarla così. E se siamo fortunati, magari i posteri non avranno letto quello strano romanzo in cui Umberto Eco ci metteva in guardia, ormai trent’anni fa.
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Questo pezzo ti farà incazzare (se sei contrario al crocefisso a scuola)

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Questo pezzo [è uscito ieri su TheVision] ti farà incazzare. Se ti consideri un laico; se malsopporti le ingerenze della Chiesa cattolica nella società italiana, e in particolare nella scuola; se ti sei indignato la scorsa settimana, quando Salvini ha buttato lì di rendere obbligatori i crocefissi "ben visibili" in tutti i luoghi pubblici, scuole incluse, questo pezzo non ti farà passare l'indignazione, anzi.


Come se ce ne fosse bisogno – lo sai quanto mi piacerebbe, per una volta, scrivere un pezzo che ti desse ragione? Che le immagini religiose devono essere tolte da tutti i luoghi pubblici e in particolare dagli edifici scolastici, dove turbano senz'altro la sensibilità degli alunni che non si sentono cattolici, e che da un simbolo del genere possono ricevere il messaggio peggiore, ovvero quello identitario (in Italia veneriamo il crocefisso e se non ti va bene l'Italia non è il posto tuo)? I crocefissi dovrebbero essere tolti, anzi non dovevano nemmeno essere appesi, e Salvini è un sovranista che soffia sul fuoco dell'intolleranza mentre tira a campare mediaticamente: i rincari alla benzina non può evitarli, il crocefisso può appenderlo, anzi in molti casi non c'è neanche bisogno, è già lì. Tutto ciò ha perfettamente senso, ma non è quello che scriverò in questo pezzo che ti farà arrabbiare (come se ce ne fosse bisogno).

In questo pezzo magari scriverò che Salvini è un sovranista, certo, che soffia sul fuoco dell'intolleranza, sì, e che se ora tu prendi fuoco dall'indignazione stai assolutamente facendo il suo gioco. È quello su cui contava: infiammare un po' di progressisti laici, metterli contro i cattolici: proprio nel momento in cui l'argomento del giorno sono, come ogni estate, i profughi sui barconi; e proprio nel momento allo schieramento allarmista-xenofobo che chiede respingimenti a oltranza, se ne contrappone uno pietista che va dalla sinistra progressista laica ai cattolici e a Papa Bergoglio.

In questi momenti da qualche parte è come se suonasse un arrugginito campanello d'allarme, lampeggiasse una vecchia lucetta rossa non ancora del tutto opacizzata dagli anni: ALLARME CATTOCOMUNISMO! In questi momenti, da vent'anni chi è a destra tira fuori lo strumento d'emergenza: il crocefisso. Non è davvero un trucco originale, Salvini l'ha imparato da Berlusconi che ha avuto i suoi buoni maestri. Brandisci per una mezza giornata il crocefisso ed ecco fatto, lo schieramento avverso implode, i laici si incazzano perché non l'hanno ancora tolto dalle pareti delle scuole, i cattolici fanno presente che la figuretta di un morto appeso coi chiodi è un'immagine di pace, di tolleranza, addirittura se lo guardi bene un crocefisso è un abbraccio, no? Beh insomma il poveraccio hanno dovuto inchiodarlo perché tenesse le braccia così, comunque certo, ogni simbolo può rappresentare qualsiasi cosa. È un simbolo di morte, è un simbolo di vita, è il figlio di Dio, è un ebreo morto ammazzato, eccetera. Nel nostro caso diventa soprattutto il simbolo dell'inimicizia perenne tra cattolici e laici: i primi l'hanno messo a parete, i secondi non saranno soddisfatti finché dalle stesse pareti non sarà schiodato. L'inimicizia in realtà ha ragioni storiche ben più profonde, e muove da visioni della vita forse davvero inconciliabili (su aborto e su eutanasia un accordo non ci sarà mai): però il crocefisso s'impugna più comodamente, specie d'estate.

Questo pezzo ti farà incazzare perché ti vorrebbe suggerirti, caro laico, di non cascarci. Ci sono ottimi motivi per litigare coi cattolici; il crocefisso non è solo il meno interessante; è anche l'unico in cui leggi e sentenze ti danno torto. In effetti, quando Salvini chiede di appendere un Cristo alla parete di una scuola pubblica, non fa che chiedere che sia applicata una legge dello Stato. È vero, si tratta di due Regi Decreti, roba degli anni Venti. È vero, i medesimi decreti impongono di esporre a fianco del crocefisso l'effigie di Sua Maestà il Re, il che ci potrebbe indurre a ritenerli superati dalla prassi. Ma pare che non funzioni così con le leggi, e non lo sto dicendo io: lo hanno scritto, in diverse sentenze, il Tar del Veneto, la Corte Costituzionale e il Consiglio di Stato. Che altro si può fare, a questo punto? Denunciare lo Stato Italiano alla Corte europea dei diritti dell'uomo perché espone un simbolo religioso in un luogo pubblico frequentato da minori? Due genitori di Abano Terme, Massimo Albertin e Soile Lautsi, nello scorso decennio ci hanno provato, e in primo grado la corte di Strasburgo ha pure dato loro ragione. A quel punto però, cos'è successo? il capo del governo, Berlusconi si è fatto fotografare con un cristone enorme in mano, ha annunciato che lo Stato avrebbe fatto ricorso, subito appoggiato da alcuni esponenti del principale partito di opposizione (si chiamava PD) e dall'autorevole parere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano; alla fine il ricorso si fece e... il crocefisso lo vinse. (Continua su TheVision).


Se quindi stai pensando che sia ora di condurre una battaglia di laicità su tutti i fronti per staccare un simbolo confessionale da pareti laiche, questo pezzo ti farà incazzare perché ti rivelerà che la battaglia è già stata combattuta, e persa: persa al Tar, persa alla Consulta, persa al Consiglio di Stato, persa a Strasburgo. Questa è la dimostrazione che esiste un fronte pro-crocefisso che dalla destra identitaria arriva fino alla sinistra. Grazie alla pur ammirevole testardaggine di Albertin e Lautsi c’è una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che non riconosce l’esistenza di “elementi che attestino l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo religioso sui muri delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni.” Ti fa incazzare? T’avevo avvertito.

Potrai chiederti come mai, caro lettore incazzato, in quasi ottant’anni di Repubblica, nessun laico ha mai voluto affrontare la questione con la determinazione dei due genitori di Abano. C’è gente che si è fatta arrestare per ottenere il diritto all’aborto, che ha lottato per il divorzio, o l’eutanasia. Insomma di battaglie ne hanno fatte, i laici italiani: perché il crocefisso no? Domanda interessante. 

La risposta provvisoria che mi sono dato è che il crocefisso è un simbolo, e la maggior parte dei laici italiani ha sempre pensato (a torto o a ragione) che i simboli fossero obiettivi secondari, sovrastrutture. Ciò che contava veramente era la lotta per il controllo dei mezzi di produzione, le riforme agrarie, il diritto allo sciopero: cose del genere. Anzi, forse in certi casi ci si poteva pure mettere d’accordo coi cattolici, lasciar loro i simboli e ottenere in cambio qualche concessione. Non sto dicendo che sia stato un buon affare, però le cose sono andate così. Lo stesso Mussolini, ex-socialista ateista e mangiapreti, quando si è ritrovato al potere è sceso a patti col Vaticano e, in cambio di un quartierino Oltretevere e un’ora di cattolicesimo in tutte le scuole del Regno, ha ottenuto il sostegno di tutte le parrocchie d’Italia.

Questo pezzo ti farà incazzare perché ti porrà la questione più o meno come se la deve essere posta Mussolini: se ci tengono davvero così tanto, a quei due legnetti, se li tengano. Vale la pena, per due legnetti, litigare con una parte cospicua del Paese? C’è il rischio di saldare una destra reazionaria, per la quale il crocefisso è un simbolo d’identità, con un centro moderato e solidale, per il quale rappresenta invece la pietà. A Salvini certo non dispiacerebbe, a noi tocca inventarci qualcosa di diverso.

Io un’idea ce l’avrei: se i cattolici e gli identitari ci tengono tanto al crocefisso, adottiamolo anche noi. Facciamolo nostro, tanto quanto è loro: i simboli sono di tutti, non c’è nessun marchio registrato. Portiamolo in giro per i cortei, gay pride inclusi. Raccontiamo che il Cristo in Croce è un simbolo di apertura al diverso, di pace, di democrazia, di qualunque cosa. D’altronde, è cristiano ma anche ebreo, e questo è certo; ma è anche un po’ musulmano (artificioso, ma plausibile) e buddista, jainista e indù, che tanto quelli riciclano tutto. E anche laico, perché no: dopotutto, quando gli chiesero se bisognava pagare i tributi a Cesare, Gesù rispose “Date a Cesare quel che è di Cesare”, senza chiedere esenzioni fiscali. E se anche non lo avesse detto non importa, non è che bisogna per forza citare i vangeli. Facciamo quello che fecero i cristiani coi simboli pagani: quelli che non riuscivano a distruggere, li assorbivano. Trasformarono sorgenti sacre in sorgenti miracolose, templi a Iside in battisteri, rune solari in crocefissi. Il Dio Sole vinceva le tenebre tre giorni dopo il solstizio d’inverno e loro decisero, senza preoccuparsi di consultare i vangeli, che anche Gesù era nato proprio quel 25 dicembre: che straordinaria coincidenza. Insomma, se il crocefisso non ci piace, facciamocelo piacere. Evitiamo che sia usato per isolarci, mescoliamo le acque, tentiamo un’infiltrazione.

È solo una proposta, e probabilmente ti ha fatto incazzare. Va bene così. Incazzati con me, magari ti servirà a trovare una soluzione al problema, qualcosa che fin qui non era ancora venuto in mente a nessuno.
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Perché la paghetta agli insegnanti non ha funzionato?

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Sono giorni convulsi in libreria. Molti stanno per partire per le vacanze, molti non chiuderanno le valigie soddisfatti se prima non saranno riusciti a infilarci venti chili di volumi freschi di stampa, da consumare sotto l'ombrellone. Ma non è questo il vero motivo per cui c'è una coda alla cassa. In nove casi su dieci la fila ha preso forma dietro un acquirente che ha chiesto se può pagare con la Carta Del Docente.

Il cassiere trattiene un sospiro. La Carta Del Docente, certamente, si accomodi. Ma a quel punto il cliente, un prof sulla cinquantina, deve: estrarre il cellulare, entrare nell'app che stampa i buoni, procedere con l'autenticazione, lagnarsi perché in quella libreria il cellulare non prende (fenomeno interessante e ancora poco studiato: molte librerie italiane sono angoli ciechi della rete satellitare. Forse perché sorgono in edifici storici; forse tonnellate di fogli pressati filtrano le radiazioni in modi che la scienza ancora non conosce; forse l'elettromagnetismo ci sta dando un ultimatum: o me o i libri di Cazzullo). A quel punto di solito il cassiere invita il docente a spegnere e riaccendere, o fare due passi in strada, in certi casi l'app riparte. Ma stavolta no, stavolta è proprio giù il server del Ministero. Passa un commesso, ammette che è due giorni che è così. Da quando i sindacati hanno consigliato gli insegnanti di spendere tutto il bonus il prima possibile o almeno entro il 31 agosto.

Non è il caso di farsi prendere dal panico. L'allarme dei sindacati è rientrato in poche ore, il ministero ha già fatto sapere che i soldi non spesi in agosto saranno riaccreditati, come l'anno scorso, in autunno. Salvo imprevisti, gli insegnanti avranno i loro 500 euro a disposizione anche nel 2018/19. Eppure c'è stato un momento, forse solo una mezza giornata, in cui la Carta del Docente se l'è vista brutta. A fine giugno, i senatori 5Stelle della Commissione Cultura avevano messo nero su bianco che il Bonus era una mancia elettorale, una "misura estemporanea e demagogica che non ha alcun effetto positivo a lungo termine", uno "spreco di risorse preziose". In quel momento magari la priorità era marcare la differenza con la passata gestione. In seguito potrebbero essere maturate altre considerazioni. Il M5S è un po' in affanno in questa prima fase del governo Conte; gli insegnanti sono un segmento delicato del loro successo elettorale; molti venivano dal PD e potrebbero tornare all'ovile: meglio non tagliar loro la paghetta. Il guaio delle mance elettorali è che si trasformano quasi subito in privilegi acquisiti. Elargirle è facile, ma non ti fa necessariamente vincere le elezioni. Tagliarle è più difficile e te le fa perdere di sicuro. E così anche l'anno prossimo avremo code a fine luglio in libreria, ai botteghini del cinema, del teatro, ovunque il prof potrebbe pagare con il Bonus, se solo riuscisse ad autenticarsi, se solo ci fosse rete nel locale, se solo il server ministeriale non fosse appena andato giù...

È difficile criticare la Carta del Docente. Se sei un insegnante (io lo sono), dai la sensazione di sputare nel piatto dove ti hanno offerto il dessert. Con tutti i problemi che ci sono al mondo. C'è un nuovo governo che chiude i porti ai naufraghi e io ancora me la prendo perché Renzi mi allungava 500 euro all'anno per il cinema e i libri. Mi rendo conto. Credo comunque che occorra parlarne, proprio perché qualcosa qui è andato storto davvero. Gli insegnanti erano per il PD di Renzi un settore strategico – almeno quelli a tempo indeterminato. A un certo punto doveva aver calcolato di averli tutti dalla sua parte. Prima gli 80 euro al mese, poi il bonus cultura: non parliamo di fumose riforme o vacui discorsi sulla dignità e l'autorevolezza e blablablà: parliamo di contanti in busta. Gli altri chiacchieravano, Renzi sborsava cash. Certo, di tutto questo ai precari non arrivava nulla, ma gli insegnanti di ruolo avrebbero dovuto erigere altari a Renzi nelle scuole di ogni ordine e grado, di fianco a tutte le macchinette del caffè. Se non è successo, vale la pena di chiedersi il perché. Riuscire a farsi detestare dalle persone a cui aumenti la paga è un'impresa notevole, che merita un approfondimento. In attesa di studi seri, tutto quel che posso fare è contribuire con qualche ipotesi, qualche sensazione captata tra la sala insegnanti e la libreria.


La prima sensazione che riesco a captare, forte e chiara, è l'odio profondo per la maledetta app... (continua su TheVision).

La prima sensazione che ricevo, forte e chiara, è l’odio profondo per la maledetta app che si pianta proprio nel momento in cui ti serve, che dimentica la password, che ti trasforma in un analfabeta digitale davanti a tutti quando sei davanti alla cassa e vorresti soltanto fuggire il più lontano possibile col tuo malloppo di cultura. In realtà il software del Ministero non è così male, il problema è a monte: i docenti di ruolo italiani sono i più anziani d’Europa. Metà di loro ha passato i cinquanta, e da parecchio. Li avete presente, i cinquantenni con gli smartphone, sì? Anche se la procedura della carta del docente fosse la più semplice del mondo (e non lo è), è chiaro che per loro sarà comunque faticosa. Non dovrebbe essere impossibile: dopotutto è gente che nel giro di cinque anni è passata senza troppi patemi dal registro cartaceo a quello digitale. Tant’è che poi la maggior parte di loro ce l’ha fatta: ormai portano anche il tablet in classe – molti lo hanno comprato proprio grazie al bonus. Con un po’ di sforzo, di tempo, e una rete wifi decente, ecco spuntare dallo smartphone il voucher richiesto; parte di questo tempo se ne va anche a imprecare contro Renzi, che poteva semplicemente accreditarci 500 euro: in fondo cosa sono 500 euro per un dipendente pubblico? Quaranta euro al mese.

Una paghetta, insomma. Non a caso l’altra categoria a cui il governo Renzi decise di erogarla erano i diciottenni. Ora, se all’improvviso regali 500 euro a un diciottenne, il minimo che tu possa aspettarti è un po’ di umana gratitudine (attenderai invano, ma è un altro discorso). Ma se eroghi gli stessi 500 euro a un tuo dipendente – uno che magari aspetta da anni il rinnovo del contratto – lui può anche sentirsi preso in giro. La paghetta, che a 18 anni è una gran cosa, a 55 è un’umiliazione. In generale l’adulto è convinto di sapere gestire i propri soldi, senza bisogno che il governo controlli che li spenda in libri e teatro anziché in dolciumi e balocchi. Questo a mio parere è stato il vero errore: trattare gli insegnanti come i loro eterni avversari, i ragazzini. Del resto, questo tipo di bonus voleva essere anche un sostegno all’industria culturale. A inventarlo e proporlo a Renzi fu Marco Lodoli, uno scrittore/insegnante – un caso abbastanza frequente di conflitto d’interessi: chi al mattino insegna e la sera scrive forse non può evitare di pensare che il mondo sarebbe migliore se i colleghi che al mattino insegnano, la sera leggessero i suoi libri.

In controluce s’intuisce una concezione un po’ antica della classe docente: non una categoria professionale che deve adeguarsi a determinati standard e meritare il rispetto dei datori di lavoro e degli utenti, ma una casta di spiriti eletti. Un po’ frustrati dalle incombenze mattiniere, celebrano la loro identità leggendo libri, andando al cinema o in teatro e facendo tutte quelle cose che dovrebbero elevare gli intellettuali. Ma gli insegnanti oggi non sono più così. Non sono giovani, è vero, ma neanche avanzi di scuola crociana: senza scomodare il famigerato ’68, molte cose sono cambiate negli ultimi decenni. Insegnare è faticoso, prende tempo, non è che te ne avanzi così tanto per fare la clacque in un teatro che senza i tuoi biglietti chiuderebbe, o per leggere libri che non hanno a che vedere con il tuo aggiornamento professionale. Noi docenti non siamo il serbatoio di riserva di spettatori e lettori che salverà l’industria culturale italiana. O forse sì, ma non ci piace essere considerati il parco buoi dell’editoria. Siamo adulti, abbiamo le nostre esigenze, senz’altro ci piace leggere libri e qualche volta ci viene pure voglia di frequentare luoghi affascinanti e desueti come il cinema o il teatro. Non è che quaranta euro al mese di voucher ci facciano schifo, ma forse chi pensava di comprarci così, ci ha un po’ sottovalutato.
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Hai il diritto di fare il razzista, io di fartelo notare

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Capita un paio di sere ogni estate. Mentre cerco di parcheggiare sotto casa, trovo una camionetta della polizia. Lì per lì non ci faccio caso. Poi verso le dieci di sera, invece dei soliti echi di pianobar, comincio a udire cazzate alla finestra. Ce l'hanno coi musulmani, con l'Europa, ancora loro? Sono arrivati i tizi di Forza Nuova, più puntuali e molesti di un circo Togni. Sono sempre una ventina, probabilmente nel pulmino non ce ne stanno di più. Non fanno numeri di giocoleria, sanno solo sventolare tricolori, uno per braccio, forse nel tentativo di sembrare il doppio. Non mangiano spade, non sputano fuoco, al massimo sempre quelle tre cazzate, l'Europa è Cristiana Non Musulmana e così via. La gente transita un po' perplessa: il mio piazzale è equidistante tra un kebab e la gelateria. Ma in fondo che male c'è. Hanno diritto di dire quello che vogliono, no? In Italia c'è libertà di parola, e quindi perché non occupare un parcheggio con venti ragazzotti, quaranta bandieroni e un megafono e scandire per due ore "L'Europa è Cristiana, non Musulmana"?

E se io scendessi ad avvertire che hanno rotto i coglioni: non sarebbe libertà di parola anch'essa?
È una domanda retorica. Chi ci ha provato le ha prese un po' da loro, un po' dalla polizia: poi è stato denunciato e condannato a pagare multe da 2000 euro. Sembra insomma che la libertà di parola dei forzanovisti sia molto preziosa. Dev'essere il motivo per cui, ogni volta che me li ritrovo nel piazzale, tutto intorno è silenzio: il sindaco fa bloccare il traffico. Il sindaco in effetti non sembra mai molto entusiasta di trovarseli tra i piedi, ma in questura pare che ci tengano molto al diritto di parola dei forzanuovisti. Ci tengono talmente che di solito mandano almeno due camionette, più di una quarantina di agenti bardati di tutto punto, sicché i ragazzotti di Forza Nuova che vengono dal Veneto a sgolarsi sul concetto dell'Europa Cristiana non hanno solo due bandieroni a testa, ma anche due o tre o quattro agenti di pubblica sicurezza che vegliano sulla loro incolumità e sulla loro libertà di espressione. Così la mamma è contenta, dev'essere una tizia assai apprensiva, tesoro, dove vai? Vado in Emilia Romagna a difendere la civiltà cristiana. Tesoro, ma sei sicuro? Tranquilla mamma, ci assegnano quattro agenti a testa, e li paghi tu con le tue tasse, sei contenta?

Se vuoi protestare contro il tour estivo di Forza Nuova devi trovarti in una piazza ad almeno 500 metri di distanza, e accomodarti dietro la transenna, dove ci sono i poliziotti più simpatici che spiegano ai cittadini che non ci possono fare niente, anche loro sono antifascisti, siamo tutti antifascisti, però ehi, la libertà di parola dei forzanuovisti è tutelata dalla Costituzione e quindi dietro la transenna e muti. Ché tra un po' il siparietto finisce, i ragazzotti tornano a casa in pulmino e i poliziotti si pigliano auspicabilmente una serata di straordinario in busta, win win e buonanotte. Vien da pensare che il senso sia tutto qui: questi sbandieratori da noi non se li fila nessuno, e dire che di razzisti anche qui sarebbe pieno, ma più che razzisti sembrano la caricatura. Non ce l'hanno un po' d'orgoglio anche loro, non si vergognano di essere trattati dalle forze dell'ordine come una specie protetta? Anche a Brescia, ho letto che la polizia li scorta mentre fanno le ronde, perché da soli non si azzarderebbero ad andare in giro nei quartieri difficili. Dunque, se ho capito bene: nei quartieri difficili di Brescia si sente la mancanza delle forze dell'ordine; da questa mancanza scaturisce la necessità di una ronda di Forza Nuova, e a questo punto la polizia ci va per scortare i ragazzotti di Forza Nuova che da soli in effetti potrebbero farsi male. Qualcosa non mi torna.

D'altro canto devono pur potersi esprimere: libertà di parola! Quel che non sopportano è che gli altri si esprimano su di loro. Alla vigilia della finale della Coppa del Mondo di calcio un giornalista sportivo molto vicino a Casa Pound scrive un tweet dove saluta la nazionale croata "completamente autoctona, un popolo di 4 milioni di abitanti, identitario, fiero e sovranista", contro il melting pot della selezione francese. Nessuno lo picchia per quel tweet, nessuno lo minaccia; qualcuno ridacchia perché ha scritto "melting pop" che come refuso è abbastanza geniale; molti lo prendono in giro, ma ehi, non si può piacere a tutti, no? Specie se manifesti insofferenza con tutti quelli che non sono "autoctoni", cioè più o meno chiunque. E sicuramente un po' di polverone aveva messo in conto di sollevarlo; non è un ragazzino. Però succede che prenda le distanze la Mediaset, nientemeno: e questo forse non l'aveva calcolato Il tizio in questione infatti non scrive solo su "Il Primato Nazionale / Quotidiano Sovranista": è anche un riconoscibilissimo dipendente dell'azienda, e Mediaset tra l'altro è in una fase delicata. L'approccio allarmista adottato in campagna elettorale nei confronti dei migranti si è molto stemperato, ormai è normalissimo ascoltare opinionisti in prima serata su Rete4 che spiegano che l'Italia ha bisogno di badanti, quindi di migranti – regolari, s'intende – che Salvini dovrebbe pensare a farne entrare di più di regolari, invece di prendersela con quei poveretti sui barconi. Insomma Mediaset sta correggendo il tiro, e così le redazioni giornalistiche e sportive approfittano del tweet del suo dipendente per prendere le distanze dal "contenuto razzista" del tweet. Apriti cielo. Come puoi parlare di "razzismo" per un tweet che difende il sovranismo degli autoctoni? Pare che non sia ammissibile (continua su TheVision).

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Dove c'è una scuola ghetto, guardati intorno: troverai anche una scuola cattolica

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[Questo pezzo è uscito venerdì scorso su TheVision]. Due bambini nati nello stesso ospedale vivono nella stessa strada. I loro genitori lavorano nello stesso cantiere. Un bambino a settembre andrà nella scuola dell'infanzia del quartiere; l'altro no. Forse dovrà prendere un pulmino e andare in una scuola da qualche parte in provincia, oppure resterà a casa. Il primo bambino, ovviamente, ha la cittadinanza italiana: il secondo no. A chi si chiedeva a cosa sarebbe servita una legge sullo ius soli: a evitare aberrazioni come questa. Non è una proiezione, non è un episodio sporadico: è la situazione in cui potrebbero per esempio trovarsi a settembre più di sessanta bambini a Monfalcone, provincia di Gorizia. Il sindaco non li vuole nelle scuole dell'infanzia statali.

Ovviamente è più complicato di così. Due istituti comprensivi di Monfalcone hanno fissato un tetto del 45% di alunni "stranieri" per classe che taglierebbe fuori appunto una quarantina di bambini. Il sindaco, Anna Cisint (Lega) ha sostenuto la scelta dei due istituti, e a sua volta ha ricevuto il sostegno del suo leader e ministro degli interni, Matteo Salvini. I sindacati hanno fatto un esposto in procura; il ministro dell'istruzione (anche lui d'area leghista) ha cercato di placare gli animi ventilando la possibilità di aprire altre due sezioni. Ma insomma siamo ormai a fine luglio e più o meno quaranta famiglie non sanno ancora se i loro figli di tre anni frequenteranno una scuola dell'infanzia, e quale. È quel tipo di incertezza che può costare un posto di lavoro a un famigliare: se il bambino resta a casa, qualcuno dovrà rimanere con lui. Più facilmente una madre o una sorella. La Cisint teme che accogliendo più "stranieri" le scuole diventino un ghetto.

Metto la parola "stranieri" tra virgolette, perché in molti casi parliamo probabilmente di bambini nati in Italia che una legge un po' medievale considera non cittadini del Paese in cui hanno trascorso i primi tre anni di vita. La Cisint dà per scontato che non siano molto integrati, e se continueranno a restare in famiglia non c'è dubbio che non si integreranno; se poi in famiglia non hanno imparato a parlare in un buon italiano, non è restando in casa che lo impareranno. Tra tre anni in ogni caso dovranno iscriversi alla scuola dell'obbligo, probabilmente proprio negli stessi istituti comprensivi che ora vorrebbero tenerli fuori. Insomma il ghetto è solo rimandato. Non è che il sindaco non se ne renda conto. Lei insiste che i bambini dovrebbero essere assorbiti dalle scuole dei distretti limitrofi. Fin qui non ha ottenuto nulla, ma il braccio di ferro potrebbe andare avanti fino all'inizio delle lezioni.

Sarebbe abbastanza facile accusare la Cisint di xenofobia e razzismo. Di sicuro molti suoi elettori sono xenofobi; lei stessa non sembra impegnarsi molto per combattere questa impressione: qualche mese fa ostacolò la nascita di un centro islamico perché secondo lei "le moschee in Italia non sono previste". È riuscita perfino a espellere lo sport nazionale bengalese, il cricket, dalla Festa dello Sport di Monfalcone. Il caso delle scuole d'infanzia però è più delicato. Quello che propone, almeno in senso astratto, è ragionevole; è la stessa cosa che cercherebbe di fare un sindaco di qualsiasi altra area politica, anche progressista. Non vuole respingere i bambini "stranieri", o nasconderli sotto il tappeto. Vorrebbe semplicemente spalmarli su una superficie più vasta, in modo da favorire l'assimilazione culturale, che preferiamo chiamare "integrazione".

Com'è stato scritto fino alla noia (ma alcuni non hanno intenzione di leggere) l'emergenza stranieri in Italia è tutto fuorché un'emergenza. Non stanno arrivando molti stranieri, in percentuale: il flusso è costante ma stabile. Eppure chi soffia sul fuoco dell'intolleranza ha buon gioco a mostrare come in certe realtà gli immigrati sembra abbiano preso il sopravvento sulla popolazione locale. A una certa ora del pomeriggio sembra che in giro ci siano soltanto stranieri; e anche davanti alle scuole, altro che otto per cento. Gli immigrati tendono a insediarsi a macchia di leopardo, e questo favorisce lo sviluppo di un sentimento xenofobo sia nei quartieri dove gli italiani temono l'accerchiamento, sia in quelle larghe zone del Paese dove gli immigrati sono talmente pochi che vengono ancora percepiti come alieni dallo spazio profondo. Se davvero li si potesse distribuire più uniformemente nel territorio, sarebbe molto più facile integrarli. È in fondo il principio per cui i centri di permanenza sono stati disseminati in tutte le regioni; lo stesso principio per cui l'Italia chiede ai Paesi europei di ospitare quote più alti di richiedenti asilo. In piccolo, è la stessa logica che la Cisint cerca di applicare alla sua Monfalcone. È un distretto industriale che sopravvive alla crisi: gli immigrati sono arrivati perché cercano lavoro, e alla Fincantieri e in altre aziende della zona il lavoro c'è. Che iscrivano i propri figli già alle scuole d'infanzia è una buona notizia; significa che in molti casi lavorano anche le madri, e il lavoro è un fattore cruciale dell'emancipazione femminile. Sempre che ci siano scuole disponibili: a Monfalcone forse non ci sono. Ma sono davvero così tanti, e così prolifici, i lavoratori di cittadinanza non comunitaria in città? (Continua su TheVision)

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Crepuscolo del preside sceriffo

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[Questo pezzo è uscito lunedì su TheVision]. Il preside-sceriffo ha i giorni contati. In realtà non ha mai fatto in tempo ad appuntarsi la stella sul petto e appoggiare gli speroni sulla scrivania. L'Italia non è mai stata quel tipo di Far West, e ormai è tardi per cominciare.

Fuor di metafora: la chiamata diretta non esiste più. Il neoministro dell'istruzione Marco Bussetti ha firmato a fine giugno coi sindacati una bozza d'accordo che ne prevede il superamento. È una misura importante soprattutto da un punto di vista simbolico, perché i margini di autonomia del dirigente erano già stati più volte ridimensionati. Agli sceriffi la legge del West consentiva di radunare uno squadrone di civili (una "posse") per dare la caccia ai ladri di cavalli. Ai presidi, le bozze originali della Buona Scuola davano la facoltà di assumere direttamente gli insegnanti, ma già tre anni fa i legislatori avevano corretto il tiro, istituendo un "comitato di valutazione", nominato da docenti e genitori.

Più tardi aveva preso piede l'espressione "chiamata per competenze", e su questo i reduci renziani insistono ancora: non bisognerebbe chiamarla "chiamata diretta", ma "chiamata per competenze", ovvero il preside avrebbe scelto, sì, con una certa discrezionalità, indubbiamente: ma sulla base delle "competenze" dei candidati, certificate dal curriculum. Ma "chiamata per curriculum" sarebbe forse suonata male, mentre il termine passpartout "competenza" negli ultimi anni si è dilatato fino a diventare un paravento dietro al quale nascondere qualsiasi magagna. In questo caso il termine si riferiva a un misterioso quid che rende certi insegnanti più adatti a certe scuole, in base a parametri che non si potrebbero misurare coi concorsi nazionali. Soltanto i presidi, e i loro collaboratori, sarebbero stati in grado di saggiare la "competenza" dei candidati all'insegnamento, previa lettura del curriculum.

Come si leggeva in una delle slide che presentavano la Buona Scuola: "i presidi potranno formare la loro squadra". Più che un preside-sceriffo, un preside-manager sportivo, che gestendo sapientemente il proprio budget seleziona una rosa in base alla propria conoscenza del territorio, e al proprio fiuto didattico. In che modo poi i presidi avessero improvvisamente maturato competenze manageriali e didattiche non era affatto chiaro – la sensazione è che Renzi e co., nel momento in cui avevano deciso di occuparsi del complicato mondo della scuola, si fossero seduti al tavolo delle trattative chiedendo: chi comanda qui? I presidi? Bene, allora diamo tutti i poteri ai presidi, ecco fatto, era facile. Renzi li paragonava anche ai sindaci, e questa è l'immagine che chiarisce le altre: così come i sindaci avrebbero salvato il Paese (Renzi in testa, futuro Sindaco d'Italia), così i presidi avrebbero salvato la scuola. Bastava fidarsi di loro.

Su questa linea i difensori della Buona Scuola non cedono: i dirigenti scolastici avrebbero saputo individuare i meriti e le eccellenze molto meglio di qualsiasi concorso statale. Un paradosso ben curioso, visto che i presidi stessi vengono selezionati in base a concorsi statali. Ma tant'è; il preside era la figura più simile a quella del sindaco, dell'allenatore, del manager: il renzismo non poteva che fare affidamento su di lui. Questa mentalità manageriale, benché posata su basi teoriche malferme, garantì a Renzi l'appoggio di fior di opinionisti liberali, sempre pronti a ribadire che "la meritocrazia è di sinistra"; in compenso gli alienò le simpatie di molti insegnanti, ma non si può piacere a tutti. La concezione aziendalista della scuola non è una novità: nel decennio scorso è stata portata avanti senza remore da più di un ministro di area berlusconiana (Letizia Moratti, Maria Stella Gelmini). Vederla ripresa orgogliosamente da un governo di centrosinistra alla fine non stupiva neanche più tanto.


Anche quando lo stesso Renzi si rese conto di aver sbagliato qualcosa nel suo approccio... (continua su TheVision).
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La guerra di Salvini contro le ONG (e l'umanità)

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[Questo pezzo è uscito lunedì su TheVision ed era stato scritto qualche giorno e duecento morti annegati prima].


Matteo Salvini non sopporta le ONG. "Non toccheranno più un porto italiano", ha annunciato martedì scorso a un convegno di Confartigianato (che forse aveva altre priorità). Non che la cosa abbia molta importanza: in una sola settimana di giugno sono sbarcati più di duemila migranti, di cui appena duecento passati per una nave di ONG. Ecco, quei duecento per Salvini sono uno scandalo, una macchia insopportabile nel uso curriculum di Ruspa Umana. Quanto agli altri 1800, possono accomodarsi: non fanno neanche notizia. Mentre la Lifeline rimaneva bloccata al largo di Malta con 234 migranti, la Maersk ne sbarcava tranquillamente 108 a Pozzallo – ma la Lifeline è la nave di una ONG tedesca, la Maersk è un cargo mercantile: nessuno l'accuserà nemmeno velatamente di trescare con gli scafisti.

È come se gli unici migranti che preoccupano Salvini fossero quelli a cui capita di essere soccorsi dalle ONG. Ricordate l'Aquarius, coi suoi 630 migranti? Dovette affrontare una tempesta e riparare in Spagna, mentre Capitan Ruspa mostrava i muscoli in campagna elettorale twittando #ChiudiamoIPorti; nel frattempo la Guardia Costiera sbarcava 932 migranti a Catania senza che né Salvini né Toninelli trovassero nulla da ridire: insomma i porti sono "chiusi" soltanto per le ONG, e siccome le ONG soccorrono soltanto una piccola parte dei dispersi in mare, i porti sono "chiusi" solo per chi si beve gli hashtag di Salvini. Allontanare le ONG dai porti italiani gli consente di cantare #Vittoria per un'altra mezza giornata, ma non ha nessun effetto misurabile sul fenomeno migratorio: se le navi non governative non possono attraccare da noi, possono pur sempre chiedere soccorso ad altre navi. Che non glielo rifiuteranno.

Il comandante della Guardia Costiera al proposito è molto chiaro: "Abbiamo risposto sempre, sempre rispondiamo e sempre risponderemo a ogni chiamata di soccorso perché è un obbligo giuridico, ma prima ancora morale". È la legge del mare: i naufraghi si soccorrono. Che se ne faccia carico un'ONG o la Guardia Costiera, non fa differenza. O meglio, una differenza c'è, che anche l'elettore salviniano dovrebbe apprezzare: la Guardia Costiera la paghiamo noi. Con le nostre tasse. Ogni litro di carburante, ogni ora di straordinario dell'equipaggio. Le ONG invece si finanziano da sole, senza nulla pretendere dal contribuente italiano. Salvano vite senza chiederci un soldo: questa cosa Matteo Salvini non la sopporta. Piuttosto di fare attraccare l'Aquarius in Italia, preferisce buttar via i nostri soldi facendola scortare dalla Guardia Costiera fino a Valencia. Perché? Storia lunga. C'entra uno youtuber, un libro Mondadori e forse anche un po' Putin (ma non ha senso dare tutta la colpa a Putin).

Prima di raccontarla, fissiamo alcuni punti: le migrazioni nel Mediterraneo non sono un'emergenza (anzi negli ultimi mesi il numero dei migranti è bruscamente calato), ma un processo storico. Non è cominciato a causa del malvaggio Piddì, e non finirà perché Salvini fa la voce grossa con gli interlocutori più piccoli, la minuscola Malta e le minuscole ONG. Né le navi delle ONG, per quanto volonterose, possono essere ritenute responsabili del fenomeno, che non si è intensificato da quando sono in mare. Inoltre a tutt'oggi non risulta che siano colluse con gli scafisti. Probabilmente negli ultimi mesi avete sentito dire il contrario. Da Salvini, che le ha definite "vicescafisti", o da Marco Travaglio, che anche martedì su Carta Bianca parlava di una "collaborazione di fatto" tra scafisti e operatori ONG. È almeno da un anno che ne parla, ma martedì ha precisato che non sta parlando di reati, e che non si aspetta che le indagini "arrestino o colpevolizzino" le ONG. Ne ha parlato molto anche il procuratore di Catania, Zuccaro, anche se confrontando le sue dichiarazioni sembra evidente che col tempo ha corretto il tiro: all'inizio diceva di avere delle prove, ma già da un anno sta parlando di "ipotesi di lavoro". Ultimamente nelle interviste preferisce parlare di reti criminali basate in Africa: non sempre i titolisti se ne accorgono.

Nel frattempo però la procura di Palermo ha archiviato le indagini su due ONG, Sea Watch e Proactiva. La sentenza è importante perché ribadisce che secondo le convenzioni internazionali "le azioni di soccorso non si esauriscono nel mero recupero in mare ma devono completarsi e concludersi con lo sbarco in luogo sicuro": se la Libia non lo è, e Malta non sempre collabora, le navi delle ONG hanno tutto il diritto di attraccare in un porto italiano – o perlomeno non commettono un reato provandoci. Sì, c'è una sentenza di un tribunale italiano che dà ragione alle ONG e torto a Salvini e Toninelli (Continua su TheVision).



Per la Proactiva non è nemmeno il primo risultato positivo: già in marzo era caduta un’accusa di associazione per delinquere. L’equipaggio si era rifiutato di consegnare i migranti alla cosiddetta Guardia Costiera libica, e li aveva fatti sbarcare a Pozzallo. Ma il caso più interessante – e ancora aperto – rimane quello della nave Iuventa, proprietà dell’Ong tedesca Jugend Rettet, tuttora sotto sequestro e indagata dalla procura di Trapani. Non solo per la gravità delle accuse (la Iuventa si sarebbe fatta consegnare i migranti direttamente dagli scafisti, che addirittura avrebbero recuperato i gommoni), ma per la modalità con cui sono state prodotte le prove: su un’altra nave non governativa presente in quel settore, la Von Hestia, c’era un agente sotto copertura del Servizio Centrale Operativo della polizia di Stato. L’agente era stato inviato dopo una segnalazione di due addetti alla sicurezza della nave, due ex poliziotti che avevano inviato un dossier anche a Salvini e Di Battista. Secondo quanto riferito dai rappresentanti della Jugend Rettet sarebbero legati a gruppi di estrema destra italiani. Le foto che sono state esibite però non sono la prova incontrovertibile che avrebbero dovuto essere: le intercettazioni incriminanti che Travaglio citava l’estate scorsa si prestano forse a diverse interpretazioni – lo stesso Travaglio, come si è visto, è diventato molto più prudente; la Jugend Rettet nel frattempo ha pubblicato un cospicuo contro-dossier in cui si difende da tutte le accuse. Ora che le altre inchieste sono state archiviate, il caso Iuventa diventa cruciale: è forse l’ultima possibilità di dimostrare che le Ong fanno parte di un complotto criminale per sostituire la popolazione europea – un complotto assai inefficace: al ritmo attuale servirebbero 200 anni.

D’altro canto, chi racconta falsità del genere non ha così bisogno di prove. Gli hashtag funzionano meglio. “Le navi delle #ONG si scordino l’#Italia, stop a #scafisti e mafiosi,” cinguettano gli account filosalviniani. Per ora non c’è una sola condanna a carico di una Ong. Non una. L’unica cosa che hanno fatto è stata salvare vite senza chiedere soldi al contribuente italiano. Ma se Salvini ha scelto di prendersela con loro, non è soltanto per quell’istinto da bullo che fa impazzire tanti suoi elettori. Al mondo siamo sette miliardi e mezzo, e aumentiamo; l’Italia è un ponte naturale tra il Nord ricco e il Sud in via di sviluppo. Salvini sembra abbastanza furbo da rendersi conto che contrastare i fenomeni migratori è come tappare una diga col dito. Ma se le migrazioni sono inevitabili, altrettanto inevitabile risulta la reazione xenofoba che scatenano nella popolazione impoverita: un’ondata pericolosa, ma che ben cavalcata ti può far vincere le elezioni. Bisogna però avere qualche ricetta pronta, almeno una serie di parole d’ordine facili da ripetere, e Salvini se le è procurate: #FlatTax, #NoEuro, #Ruspa, #Censimento, “Via le #ONG”. Basta convincere il tuo bacino di elettori che combattendo una manciata di organizzazioni non governative si contrasta in qualche modo l’immigrazione. Non è nemmeno necessario che anneghino più poveracci: l’importante è che a ripescarli non siano le Ong.

Per quanto balordo possa sembrare, il complotto mondiale delle Ong assolve a una necessità emotiva di molti italiani, non solo elettori di Lega e M5S. Di fronte a un fenomeno migratorio non particolarmente violento, ma che nei tempi medio-lunghi metterà comunque in discussione il nostro stile di vita, chi assume un atteggiamento di rifiuto non vorrebbe sempre sentirsi accusare di razzismo. Ed ecco che qualche giovane comunicatore ti svela che i veri colpevoli di questo complotto sono europei, sono ricchi e sono bianchi: è l’uovo di Colombo. Ora puoi rifiutare le migrazioni senza passare per xenofobo. Non ce l’hai con gli africani, anzi, vorresti tanto aiutarli a casa loro; ce l’hai con gli scafisti che li rapinano, con i vicescafisti che li supportano; con le cooperative sociali che li sfruttano – e se non riesci a rinunciare a un po’ di antisemitismo vecchio stile, puoi anche incolpare di tutto il grande burattinaio, il solito George Soros. Trasformare le Ong nell’obiettivo primario della propaganda leghista e sovranista è in effetti una mossa geniale per essere venuta in mente a uno youtuber che studia scienze della comunicazione. Eppure è così, prima che Luca Donadel pubblicasse il suo primo video in cui spiegava “Tutta la verità sui migranti”, nessuno se l’era presa con le Ong. Anche il libro di Mondadori che Donadel reclamizzava nel suo video, Profugopoli di Mario Giordano, si concentrava sugli abusi delle Cooperative Sociali che gestiscono l’accoglienza ai migranti sul territorio italiano, il cosiddetto “business dell’accoglienza”, ma non dedicava una sola pagina al ruolo delle Ong nel Mediterraneo. Il ragazzo che nel suo ultimo video attacca Saviano nella sua cameretta, in shorts, prendendo a pugni un cuscino, avrebbe davvero scoperto un argomento che prima in Italia non esisteva. Ma, curiosa coincidenza, esisteva in Russia. Come ha notato Andrea Vigani su Leftwing, la prima nazione europea a dichiarare guerra alle organizzazioni non governative è stata la Federazione Russa; seguita a ruota da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia: le nazioni del gruppo di Visegrad. “In queste prime settimane non sono mancati ammiccamenti del governo italiano al gruppo di Visegrad. Si faccia attenzione perché la guerra alle Ong potrebbe essere un altro passo verso quel modello.”

Lunedì, su la Repubblica c’era un’intervista a un’attivista di una di quelle Ong che Travaglio definirebbe “buone”, quelle che rispettano il codice Minniti e che prima di salvare i naufraghi chiedono istruzioni al Centro di coordinamento. Si chiama Giulia Bertoni, ha 25 anni, studia alla Columbia University, per Salvini e seguaci un po’ filorussi è il bersaglio ideale. Il 18 giugno era di vedetta sulla Seefuchs della Sea Eye, quando ha sentito l’Sos di uno scafo con 120 persone nelle acque libiche, dove le Ong “buone” non dovrebbero entrare. La Seefuchs ha chiamato Roma, a Roma hanno detto di chiedere a Tripoli. Il giorno dopo le 120 persone erano scomparse e Giulia Bertoni non si dà pace. “Io, noi, avremmo dovuto disubbidire al capitano, al direttore della Ong che ci ha ordinato di allontanarci. Ci dovrebbero arrestare per aver ubbidito, per averli lasciati morire. Se volete arrestarci, arrestateci per questo. È come se dei pompieri si fermassero al semaforo di fronte a una casa in fiamme. Se fossimo stati dei privati, la legge del mare ci avrebbe obbligato a soccorrere.”
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Che cultura ti fai col bonus cultura

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[Questo pezzo è apparso ieri su TheVision]. C’è stato un mattino, sulla fine della primavera, in cui i nati nel 2000 e nel 2001 si sono svegliati con 500 euro in meno. Il Consiglio di Stato si era appena accorto che il governo Gentiloni non aveva lasciato scritto dove avrebbe preso i 200 milioni di copertura necessari; il neoministro Bonisoli, bocconiano di area 5Stelle, ha pensato bene di farsi conoscere al grande pubblico con una dichiarazione roboante e piuttosto maldestra: facciamo venire la fame di cultura ai giovani, rinuncino a un paio di scarpe. Ben fatto ministro Bonisoli, ora tutti immaginiamo i tuoi figli calzati con scarpe da 500 euro.


Persino in questa fase di luna di miele, in cui gli esponenti del nuovo governo raccolgono applausi anche quando suggeriscono schedature su base razziale, l’uscita di Bonisoli deve essere stata giudicata disastrosa se nel giro di 48 ore ha dovuto rimangiarsela: da qualche parte i 200 milioni sono stati trovati, il bonus ci sarà anche nel 2019. In commissione cultura i senatori 5Stelle non hanno smesso di borbottare: è solo una mossa elettorale, se davvero si tratta di promuovere la cultura tra i giovani ci vorrebbe qualcosa di più strutturale. Sagge parole che non costano nulla: senz’altro si può fare qualcosa di più “strutturale” che infilare 500 euro in tasca ai 18enni (con l’obbligo di spenderli in sei mesi), ma cosa?


Bisognerebbe fare un ragionamento più ampio sul concetto di cultura; servono idee, serve tempo. Cinque anni fa Matteo Renzi non ne aveva: doveva svecchiare l’immagine della sinistra e ampliare il suo bacino elettorale in tempi brevissimi. I bonus un po’ a pioggia, ai giovani, ai docenti, agli impiegati, non erano una misura né strutturale né elegante, ma facevano notizia e all’inizio sembravano funzionare. Oggi il M5S, ancora impegnato in una delicata campagna per i ballottaggi, non si trova in una situazione così diversa: per gareggiare con le sparate quotidiane di Salvini non può permettersi di scoprirsi su nessun fronte; se la cultura giovanile non è la sua priorità, Di Maio non può nemmeno rischiare di passare per il politico che ha tolto ai diciottenni 500 euro di libri, o addirittura di scarpe – Bonisoli, ma che ti ha detto il cervello? Proporre ai 18enni di fare a meno delle scarpe. Maria Antonietta in confronto con quella cosa della brioches fu una grande comunicatrice (in realtà non disse mai quella cosa delle brioches. L’ho scoperto su Wikipedia).


Insomma il bonus elettorale resta, e la discussione su cosa sia la cultura e su quale sia il modo migliore di promuoverla è rimandata a data da destinarsi. Se vi va possiamo cominciarla qua sotto, gratis. Partirei da un’osservazione empirica: a 18 anni, non so voi, ma io non è che ne capissi molto in generale. Ero un coglione. In altri Paesi europei mi avrebbero aiutato a uscire di casa o a trovare un lavoro; ma se mi avessero infilato in tasca 500 euro e mi avessero costretto a spenderli in “cultura”, li avrei spesi in stronzate. Per fortuna nessuno si era già fatto venire questa buffa idea. E siccome avevo comunque fame di “cultura”, qualsiasi cosa fosse, mi avreste trovato spesso in biblioteca. Nelle città in cui mi è capitato di vivere ce ne sono di meravigliose: le amministrazioni di sinistra in particolare ci hanno investito, aggiungendo al tradizionale prestito dei libri anche quello di CD e DVD originali (tutti con la loro brava scritta “proibito il noleggio”). Ho una grande nostalgia per i miei pomeriggi di ozio in quegli ambienti luminosi e tranquilli, ma mi domando se non rischio davvero di sembrare quel tipo di persona che cerca di infilare il gettone telefonico nell’Iphone, una volta Renzi li descriveva così. Che senso ha insistere su un luogo fisico, ancorché pubblico, oggi che la cultura tende a smaterializzarsi – noleggiare CD e DVD, nell’era di Spotify e Netflix? Un’app che produce voucher è meno scenografica di una biblioteca, ma forse è più adatta ai tempi, così come uno smartphone è più comodo di una cabina telefonica (continua su TheVision).



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Sì, non ho votato il PD; no, non mi sono ancora pentito

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Ciao, forse ci conosciamo. Sono più o meno il responsabile di tutto ciò che sta andando storto in Italia negli ultimi tempi. Hai presente quei poveretti in mezzo al mare? Se annegano li avrò sulla coscienza. Ti ricordi qualche settimana fa, quando un ministro dell'economia in pectore non escludeva di uscire dall'euro a causa della "teoria dei giochi" (scrisse proprio così), e lo spread schizzò alle stelle? Sono stato io.

No, non sono George Soros. Neanche sul suo libro paga, fammi controllare – no.

Durante gli ultimi vertici internazionali non hai avuto anche tu la sensazione che l'Italia fosse rappresentato da un prestanome imbarazzato che si tinge i capelli e mette a curriculum anche le visite alla fidanzata? No, sul serio, chi ce l'ha messo a Palazzo Chigi un tizio così? Indovina: sono stato io. E così via. Di' un solo guaio successo negli ultimi due mesi: l'ho fatto succedere io. Proprio io.

Che non ho votato il Pd.

Eppure lo sapevo. Me l'aveva pur spiegato un sacco di gente, con ottimi argomenti. Le scorse elezioni non erano elezioni qualsiasi: stavolta era in gioco molto di più. La nostra permanenza in Europa, l'Europa stessa, la democrazia – la nostra umanità. Ricordo molto bene tutti questi discorsi, rivolti a quel bacino di elettori che in passato aveva votato Pd e che questa volta si sarebbe rivolto ad altre creature: principalmente il M5S, ma non solo. Si tratta di discorsi ai quali sono stato sensibile tante altre volte: benché abbia sempre odiato l'espressione "turarsi il naso" o "votare col mal di pancia", più o meno è quello che mi è capitato sempre di fare, salvo stavolta: e proprio stavolta, guarda che casino ho combinato.

Adesso ogni giorno c'è qualcuno in tv o sull'internet che mi suggerisce di fare autocritica. L'altro giorno Virzì, intervistato dal Foglio, mi ha spiegato che i 5stelle sono fascisti, e che avrei dovuto arrivarci prima – no, non ho votato 5Stelle; ma ho comunque fatto perdere il Pd: avrei pur dovuto capirlo che se perdeva il Pd i 5Stelle avrebbero rivelato il loro fascismo latente alleandosi con la Lega. Queste cose si sapevano già. È un lungo discorso che si può mirabilmente riassumere in una vignetta di Staino, nata apocrifa ma poi confermata dall'autore stesso: "Fascisti, razzisti, incompetenti. Com'è stato possibile tutto questo?" "Sai, mi stava sulle balle Renzi". Insomma tutto questo – la catastrofe umanitaria, lo spread, le figuracce internazionali – è successo perché sono antirenziano.

Magari è davvero così.

Faccio parte di un cospicuo insieme di elettori che non si trovava a suo agio, per usare un eufemismo, con molte delle proposte di Renzi. Appena ci fu l'occasione di farglielo capire (il referendum del 2016), ne approfittai. A quel punto Renzi sembrò fare un passo indietro, ma il Pd a quel punto continuò a sembrarmi un oggetto distante. In particolare la dottrina Minniti mi sembrava indifendibile, e così quando si è tornati a votare non ho votato il Pd. Per molti osservatori avrei comunque dovuto scegliere il meno peggio, il voto utile – è un discorso che capisco, ma a quel punto davvero un voto al Pd non mi sembrava più utile: al contrario, mi sembrava un voto perso... (continua su TheVision).

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Di che scuola sta parlando professore

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Vedrete che tra un po' chiederanno di reintrodurre il frustino. Qualche settimana fa, quando imperversavano gli articoli e i servizi giornalistici sul teppismo scolastico, mi è capitato di dire ai miei colleghi questa cosa. Ero io stesso convinto di esagerare. Eppure ieri sul Corriere un importante opinionista ha scritto una letterina al neoministro dell'istruzione, suggerendo un decalogo che prevede, tra l'altro: (1), la "predella", il gradino rialzato per la cattedra degli insegnanti; (4) l'eliminazione di "qualunque ruolo delle famiglie o di loro rappresentanze nell'istruzione scolastica"; (8) una cineteca obbligatoria, ma veramente obbligatoria, se non la fai ti chiudono il plesso; (9), "Alle gite scolastiche sia fatto obbligo di scegliere come meta solo località italiane. Che senso ha per un giovane italiano conoscere Berlino o Barcellona e non aver mai messo piede a Lucca o a Matera?" Ci sono altre perle, ma il frustino ancora non c'è.

Sembra comunque di intravederlo in controluce, tra le proposte scartate all'ultimo momento, e in fondo è il motivo per cui mi sto mettendo a scrivere: questo tipo di pezzi apparentemente sconclusionati, che sembrano concepiti unicamente per strappare qualche applauso tra vecchi studenti e perfino insegnanti (c'è persino il divieto a convocare i docenti a più di quattro riunioni al mese), in realtà qualche effetto lo ottengono. In gergo giornalistico si chiamano "provocazioni", servono a far discutere, ma anche a spostare un po' più in alto l'asticella del tollerabile. Non importa se la maggior parte dei lettori trova ridicola la predella: nel frattempo ci siamo rimessi a parlarne e qualcuno, anche uno su cento, magari non l'ha trovata una cattiva idea. E così, editoriale dopo editoriale, il frustino diventa uno scenario sempre meno improbabile. Soprattutto se nessuno ogni tanto si sobbarca il fastidio di intervenire per far presente che chi suggerisce una cosa così demenziale come un gradino in mezzo a un'aula evidentemente non conosce le normative in fatto di sicurezza – quelle su cui il personale scolastico è tenuto ad aggiornarsi a intervalli regolari. Proporre anche solo per scherzo una cosa del genere non tradisce solo una scarsa conoscenza della scuola contemporanea, ma un po' di tutto il mondo del lavoro (continua su TheVision).


In alcuni casi risulta chiaro che lo stimato opinionista abbia preso lucciole per lanterne: è infastidito dal fatto che gli insegnanti non usino tutti i 500 euro del bonus cultura per “acquistare libri” – forse crede che si possano usare per le medicine o le mutande e non sa che le alternative sono corsi d’aggiornamento o supporti tecnologici. La creazione degli istituti comprensivi lo disorienta non perché inglobino scuole con utenze diversissime, dai tre ai 14 anni, ma perché invece di essere “intitolati al nome di una personalità illustre” sono designati “con un semplice numero o l’indicazione di una via!” Gran parte delle sue proposte sono ben poca cosa, se confrontate con le reali esigenze e richieste concrete di chi a scuola ci lavora.

Docenti e studenti chiedono scuole più sicure e la riduzione delle barriere architettoniche; lui ha ancora in testa la predella, ignaro che in diversi casi il disabile che avrebbe difficoltà a montare su quell’inutile gradino è proprio l’insegnante. Docenti e studenti vorrebbero più banda a scuola, per accedere alle risorse online e condividere compiti ed esperienze in rete (quando non c’è a volte ovviano utilizzando il traffico dati dei loro smartphone); l’opinionista non lo sa e propone di sequestrarli, gli smartphone (mentre “i semplici cellulari” vanno bene: viva i cari vecchi Nokia di una volta). Insegnanti e dirigenti si struggono per inserire nell’offerta educativa delle loro scuole qualche gita all’estero che possa fare la differenza; per lo stimato opinionista bisogna prima passare da Matera, unico capoluogo di provincia non ancora servito dalle Ferrovie dello Stato, un incubo logistico per ogni scuola del nord Italia (Provenza e Ticino sono molto più a portata di mano).

Più in generale l’opinionista dà per scontato che non esista problema che non si possa risolvere con qualche bella ricetta di una volta. I tempi sembrano propizi: per la prima volta nella storia della Repubblica c’è un un ministro dell’Istruzione di area leghista; in giro si respira una gran voglia di controriforma, sollecitata anche dall’ondata di allarmi sul bullismo scolastico. Gli stessi insegnanti potrebbero essere sensibili a questi argomenti, e in fondo il decalogo del Corriere è rivolto in primis a loro. A una categoria eternamente insoddisfatta il pregiato opinionista non offre soltanto uno scalino in più, ma anche il miraggio di una scuola senza genitori (e senza smartphone).

Siamo un popolo di allenatori della Nazionale. Durante la crisi di governo siamo diventati un popolo di giudici costituzionali. A maggior ragione riteniamo di avere qualcosa di sensato da dire sulla scuola, un’istituzione che tra l’altro abbiamo frequentato tutti – anche se magari è stato quarant’anni fa. In fondo non c’è niente di strano, anzi: la scuola è tra le altre cose un modello di società. Questo la rende, in molte conversazioni, un mero pretesto. In fondo, mentre propone di ripristinare uno scomodo gradino di pochi centimetri, lo stimato opinionista sta soprattutto cercando di difendere il proprio.
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La repubblica dei padroncini

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Ma insomma alla fine chi ha vinto queste elezioni? Fin qui è abbastanza facile indovinare chi le ha perse, a partire da migranti e famiglie LGBT. Per capire davvero chi ha vinto occorre aspettare che si posi il polverone di promesse e false speranze. Dobbiamo ancora capire quante aliquote avrà davvero la cosiddetta flat tax, e se il reddito di cittadinanza dei CinqueStelle non si ridurrà a "una indennità di disoccupazione un poco rafforzata", come l'aveva definita Giovanni Tria prima di diventare ministro dell'economia. È ancora presto per fare supposizioni; facciamole lo stesso. Secondo me hanno vinto i padroncini.

Si sa che i primi provvedimenti di un ministro hanno soprattutto un ruolo simbolico: Di Maio, arrivato al ministero del lavoro, per prima cosa ha mandato a chiamare Sergio Bramini, un imprenditore brianzolo diventato famoso grazie alle Iene perché... è fallito. La sua impresa di smaltimento rifiuti aveva come clienti lo Stato e altri enti pubblici; lo Stato e gli enti tardavano a pagare e Bramini, piuttosto di dichiarare bancarotta, ha ipotecato la casa; col risultato che gliel'hanno portata via, il suo cane è morto in un canile, e adesso Bramini andrà a Roma ad assistere le piccole imprese. A salvare i padroncini, qui nella Padania periferica li chiamiamo così. Non solo perché sono dirigono aziende piccole, a volte più piccole delle auto di rappresentanza con cui vanno in giro (intestate all'azienda). Non solo perché spesso sono i figli, se non i figli dei figli dei fondatori. Sono quelli che vivono ancora in ville contigue al loro capannone. Una siepe separa il giardino con piscina dal magazzino, dallo sguardo dei facchini indiani. I padroncini.

Forse hanno vinto loro. Il primo messaggio che Di Maio ha voluto dare dal suo ministero è: vi salveremo. A Bramini piace la flat tax, che per il piccolo-medio imprenditore in effetti dovrebbe tradursi in una manna dal cielo. Certo, servono soldi ("coperture", le chiamano), dove prenderli? Per il neoministro dell'economia Tria si può benissimo alzare l'IVA (che è già una delle più alte in Europa). La prima imposta che avete pagato da bambini, quando vi davano i due euro per comprarvi il gelato. Non che il gelataio ritenesse sempre necessario rilasciarvi lo scontrino; ma voi l'IVA la pagavate lo stesso, e presto la pagherete un po' di più. Ne va della sovranità dell'Italia, e poi bisogna salvare i padroncini. "Si tratta di una scelta di policy sostenuta da molto tempo anche dalle raccomandazioni europee e dell’Ocse perché favorevole alla crescita e non si capisce perché non si possa approfittare dell’introduzione di un sistema di flat tax per attuare un’operazione vantaggiosa nel suo complesso". Salvare i padroncini. "Falliscono 320 imprese al giorno", spiega Bramini, uno di quei classici numeri che ogni tanto dava Grillo sul suo vecchio blog. Sono più di centomila imprese all'anno, è abbastanza incredibile. Non solo che chiudano: che in Italia ce ne siano così tante. Eppure Eurostat conferma: ancora nel 2014 avevamo il doppio delle imprese della Germania. Siamo la nazione con più imprese in Europa – siamo anche una delle nazioni che cresce meno.

Potrebbe non essere una coincidenza: l'industria italiana potrebbe avere un serio problema di nanismo. Il caso di Bramini in fondo ci racconta proprio che una piccola impresa che vive di commesse statali rischia di essere strangolata a causa di banali ritardi burocratici. Altrove è lo stesso mercato a favorire la fusione e la creazione di imprese più grandi, in grado di far fronte con più efficienza a crisi di liquidità. Da noi no, da noi occorre salvare l'ecosistema dei padroncini. Quel tessuto sociale di capannoni e villette che era un chiodo fisso di Grillo, che è il Nord della bussola di Salvini (e di Bossi prima di lui). Su tante cose Lega e M5S non andavano d'accordo e probabilmente litigheranno presto; ma i padroncini piacciono a entrambi. Una delle prime destinazioni a cui i parlamentari 5S cominciarono a destinare i loro stipendi da parlamentari fu proprio un fondo salva-piccole-imprese. Nemmeno i panda hanno goduto di tanta attenzione. E come per i panda (orsetti vegetariani che mangiano solo bambù e non lo digeriscono neanche bene) è lecito domandarsi se ne valga la pena; se il modello di sviluppo della piccola impresa non sia per caso condannato dall'evoluzione, che in economia si chiama globalizzazione e ultimamente premia chi riesce ad adattarsi a una tendenza mondiale di livellamento dei prezzi delle risorse e della manodopera.

La risposta è scontata: no (continua su TheVision).


La risposta è scontata: no, non ne vale la pena; la piccola impresa è spacciata, e i primi a rendersene conto sono gli stessi proprietari. I più previdenti hanno delocalizzato da anni, in Romania o in Cina; il capannone italiano lo tengono ancora per una questione di rappresentanza, e poi magari c’è ancora una decina di magazzinieri o qualche operaio che attacca l’etichetta Made in Italy fatta in Romania sul vestito confezionato in Cina. Nel frattempo il padroncino è al bar che si lamenta dei politici rapaci, dei migranti che rubano, dell’embargo contro la Russia, dei migranti che invece di rubare lavorano, ovvero rubano il lavoro; e soprattutto della piovra immonda che ha permesso tutto questo, l’Unione europea. Si stava meglio prima. Lui di solito votava Berlusconi, e quand’era deluso da Berlusconi passava a Bossi; adesso non c’è neanche bisogno di chiederglielo, bisogna rialzare gli steccati. Magari anche stampare le lire. Contro la Germania la lira era fantastica: bastava svalutarla un po’ e ti calavano anche i debiti. Bei tempi, Salvini potrebbe reintrodurli per decreto. Il piccolo imprenditore non è scemo, non sempre perlomeno; non crede per forza in tutto quello che dice, ma è bello credere anche solo per un momento che la Valpadana possa resistere ora e sempre contro l’avversario globale che si chiama Economia.

Il padroncino di solito non ha studiato tanto: non ne aveva motivo. Anche chi non era già instradato sull’asse ereditario si trovava comunque già in quella fascia generazionale in cui un laureato guadagnava a trent’anni la metà di un coetaneo che aveva cominciato a lavorare a diciotto. Studiare era semplicemente la scelta sbagliata, e anche oggi, che una laurea fa comodo anche per il concorso alla nettezza urbana, non è che la cultura offra le soluzioni: permette solo vedere meglio i problemi. Sei hai studiato Economia sai bene che la piccola impresa è ormai finita, con o senza euro: conviene scappare. Se invece hai studiato Storia sai, con una relativa sicurezza, che siamo spacciati com’era spacciata Venezia il giorno in cui Vasco da Gama vide le coste indiane: questo però non le impedì di vivere ancora secoli di meravigliosa decadenza, e forse anche noi ne abbiamo la possibilità. Forse l’Unesco potrebbe fare qualcosa per salvare i nostri capannoni, dichiarando il nostro cemento unico al mondo. La Padania, l’Italia, sorgerà come una piccola patria di officine: costruiremo tutto, un pezzo alla volta, i carri armati e gli acquedotti, le mura intorno alle nostre Zone Industriali. Nessuno avrà il diritto di farci la guerra, o meglio, se ci attaccheranno dovranno farlo ad armi pari, con catapulte costruite secondo gli antichi progetti; i turisti verranno non solo a carnevale e saranno felici di travestirsi da cavalieri o Casanova; il cambio con la lira sarà favorevolissimo. E la legge Merlin, non c’è bisogno di dirlo, abolita.
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Il giorno di Mattarella

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(Questo pezzo è uscito ieri su TheVision). 

“Ho fatto tutto il possibile per far nascere un governo politico.” Alle otto e mezza della sera, il Presidente Mattarella è appena entrato in sala stampa. Salvini sta già tuonando su Facebook che rivuole le elezioni; Di Maio e Giorgia Meloni si allenano a pronunciare la parola “impeachment”. Davanti alle telecamere, Mattarella racconta di come è arrivato a una decisione senza precedenti nella storia della Repubblica. La lista dei ministri presentata da Giuseppe Conte è stata bocciata e Mattarella, a domanda, conferma che la trattativa si è arenata su un solo nome: quello del ministro dell’Economia.

Il presidente è visibilmente nervoso, in queste settimane ha ingoiato diversi rospi. Ha atteso più che pazientemente che Cinque Stelle e Lega trovassero un accordo sul programma di governo e sui nomi da coinvolgere. E anche ieri sarebbe stato pronto a firmare la nomina “di un autorevole esponente politico della maggioranza,” purché non fosse “sostenitore di una linea” che avrebbe potuto provocare “la fuoruscita dell’Italia dall’euro.”Non era evidentemente il caso di Paolo Savona, l’autorevole economista ottantaduenne sul quale avevano trovato un accordo Salvini e Di Maio. Savona, che pure si considera un convinto europeista e auspica la nascita degli Stati Uniti d’Europa, con gli anni ha maturato un’opinione sempre più critica nei confronti dell’unione monetaria, e da tempo sostiene la necessità per l’Italia di un “piano B”– l’eventuale uscita, appunto, dall’eurozona. Più che di un’eventualità realizzabile, si sarebbe trattato di un avvertimento da impugnare a Bruxelles: se continuate a imporci il rigore, noi usciamo davvero. Un deterrente, un bluff, ma in economia forse bluffare non è più concesso (continua su TheVision).


È bastato ricominciare a parlare di euro perché lo spread tra i titoli tedeschi e quelli italiani si divaricasse: la nomina di Savona all’economia avrebbe aggravato la situazione in modo forse irreversibile. Questa è almeno l’opinione di Mattarella. Ieri sera ha affermato che tra i criteri che lo devono orientare nella nomina dei ministri ci sia la “tutela dei risparmi degli italiani”: un’interpretazione apparentemente innovativa delle sue prerogative costituzionali, ma Mattarella sa quello che fa: tra le altre cose è stato anche membro della Consulta. Stamattina riceverà al Quirinale Carlo Cottarelli, e probabilmente gli incaricherà di formare quel governo “neutrale” di cui già parlava venti giorni fa. Cottarelli è l’economista che produsse per il governo Letta un rapporto “per la revisione della spesa” di ottocento pagine. È difficile immaginare che intorno a lui e a un Mattarella indebolito dalla sua presa di posizione si possa formare una maggioranza in questo parlamento: ci aspetta dunque un breve governo estivo (nella prima repubblica li chiamavano governi balneari), che traghetti l’Italia verso nuove elezioni ad autunno. Del resto i comizi telefonici e telematici di Salvini e Di Maio ieri sera sono già pura campagna elettorale. Salvini, soprattutto, dà l’impressione di essersi impuntato sul nome di Savona soltanto per mandare all’aria il tavolo, ora che i sondaggi sono dalla sua parte. I Cinque Stelle sembrano più spiazzati: come se ci avessero creduto davvero, nella possibilità di diventare una forza di governo. Tornare alle elezioni per loro significa ammettere che non ne sono ancora capaci (e ridiscutere la questione del doppio mandato). Ma soprattutto, si tratta anche per loro di vedere un bluff.

Mattarella è stato chiarissimo. Lega e Cinque Stelle devono spiegare ai loro elettori se vogliono uscire dall’euro o no. “Se si vuole discuterne”, ha avvisato ieri sera, “lo si deve fare apertamente e con un serio approfondimento. Anche perché si tratta di un tema che non è stato in primo piano durante la recente campagna elettorale”. Su questo punto anche i più critici dell’operato di Mattarella abbiano poco da eccepire: se davvero vogliono proporre la fuoriuscita dall’euro, anche solo come piano B, Salvini e Di Maio lo devono spiegare forte e chiaro ai loro elettori. E invece durante tutta la campagna elettorale erano stati molto cauti sull’argomento, lasciato cadere anche nell’ultima versione del contratto di governo. Se decidessero davvero di presentarsi in coalizione, e di mantenere il nome-simbolo di Paolo Savona, le prossime elezioni equivarrebbero a un referendum sull’Euro. Ma è una possibilità abbastanza remota. Anche se hanno obiettivi comuni, Cinque Stelle e Lega sono due concorrenti che mirano allo stesso bacino elettorale. E se l’obiettivo dei 5S è da sempre al cinquantuno per cento, l’obiettivo di Salvini è più realistico: diventare la forza portante del centrodestra. C’è sulla sua strada però un ostacolo dal quale forse dipende il destino dell’Italia (e dell’Europa): Silvio Berlusconi.

Berlusconi ieri sera ha fatto sapere che “in un momento come questo il primo dovere di tutti difendere il risparmio degli italiani, salvaguardando le famiglie e le imprese del nostro Paese”. Non è solo un esplicito sostegno al presidente Mattarella, anche in questa inedita veste di difensore dei risparmi; è soprattutto un attacco a Salvini. Può sorprendere chi in questi giorni non abbia dato almeno un’occhiata ai talk di Rete4, dove di colpo l’allarme spread ha preso il posto dell’allarme clandestini. Insomma può darsi che la vera notizia di stamattina, 28 maggio 2018, sia che il Centrodestra italiano è finito; che le due forze principali che lo compongono dal 2001, Lega e Forza Italia, si sono ormai incamminati sue strade diverse e inconciliabili. Se l’abbandono dell’euro, da vaga promessa elettorale, diventa una prospettiva concreta, Berlusconi non ci sta; che Salvini possa rivincere le elezioni senza di lui, e senza l’appoggio mediatico della corazzata Mediaset-Mondadori, è quello che nei prossimi mesi andremo a scoprire. La buona notizia è che dovrebbe essere una campagna un po’ meno razzista: perlomeno le fiaccolate anti-stranieri in tv dovrebbero drasticamente diminuire.

Allontanandosi da Salvini, Berlusconi potrebbe essere tentato di puntare sull’altro Matteo, quel Renzi che sui social continua a manifestare il suo orgoglioso europeismo, e che se non riesce a riprendere il controllo completo del Pd in tempi brevi potrebbe decidere di fondare un nuovo partito – una prospettiva che non a caso sembra entusiasmare soprattutto i redattori del Foglio, autorevole palestra di pensiero berlusconiano. Renzi non è più il cavallo vincente che sembrava qualche anno fa, ma forse qualche ospitata a Pomeriggio Cinque potrebbe aiutare a farlo risalire un po’ sui sondaggi: anche perché molti altri cavalli per ora da quella parte non si vedono. Se l’Europa diventasse davvero il tema delle prossime elezioni, e Berlusconi decidesse di difenderla senza se e senza ma, in una prospettiva liberale, la distanza ideologica tra lui e Renzi diventerebbe davvero impalpabile. L’unico problema è che tra gli elettori di Renzi ci potrebbe essere ancora qualche irriducibile antiberlusconiano: ma sono pochi, ormai: e se solo Berlusconi decidesse di fare un mezzo passo si ridurrebbero quasi a zero. D’altronde è Berlusconi, e ormai si è capito che in Italia aver passato gli ottanta non è in generale considerato un buon motivo per fare neanche quel mezzo passo indietro.

Se la pregiudiziale antiberlusconiana è ormai un ricordo del passato, un’altra ben più ingombrante potrebbe sorgere all’orizzonte: la pregiudiziale anti-Putin. Costretto a correre da solo, Matteo Salvini evidenzierebbe ancora di più quei legami col partito putiniano, Russia Unita, che a ben vedere sono già ufficiali, in nero su bianco. Mattarella non ne ha parlato e forse nemmeno se ne preoccupa, ma la stampa estera sì: in Italia, uno dei membri più importanti e dei fondatori dell’Unione Europea, rischia di vincere le prossime elezioni un partito anti-euro che guarda a Mosca più di quanto guardi a ovest. Lasciamo stare se sia un bene o no per l’Italia: può succedere davvero? Per cinquant’anni in Italia la stabilità politica è nata da una conventio ad excludendum: il PCI filo-sovietico non avrebbe mai potuto governare. A partire dalle prossime elezioni forse vedremo nascere una conventio di opposto colore ideologico, ma nella stessa direzione strategica: i seguaci di Putin potrebbero vedersi esclusi dal governo malgrado i buoni risultati elettorali. Ai comunisti è successo per quarant’anni, e Salvini lo sa bene: dopotutto è stato un rosso, prima di diventare verde.

Qualsiasi cosa succederà, oggi è davvero un giorno nuovo per la politica italiana. Da oggi sappiamo che un Presidente può rifiutarsi di nominare il governo indicato da una maggioranza parlamentare; che i leghisti non bluffano, sono davvero anti-euro (oppure, se bluffano, pretendono di essere presi sul serio); che i 5Stelle erano davvero pronti a governare, e oggi sono davvero delusi e arrabbiati per non esserci riusciti; e che ormai tutto è in discussione: l’Unione Europea, la Nato, tutto. Viviamo in tempi interessanti, tanto per cambiare.

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Netanyahu è d'accordo con Hamas (lo dice lui)

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"Siete pronti per una notizia bomba?" Lunedì scorso, quando ormai le notizie da Gaza erano scomparse dal radar, Benjamin Netanyahu si è rifatto vivo sulla mia bacheca con queste parole. "Sono completamente d'accordo coi leader di Hamas".
Così tipico di Netanyahu, promettere bombe – nel senso di rivelazioni sconvolgenti che magari davvero vanno a segno, specie presso un pubblico distratto. Chi invece segue la questione palestinese da un po', per mestiere o per inerzia, o perché non riesce a distogliere lo sguardo dallo spettacolo di una lentissima e inarrestabile decomposizione, di che cosa può stupirsi ancora? Nell'ultimo mese sono morti più di sessanta palestinesi, forse nel modo più assurdo in cui potevano morire: hanno cercato di varcare il confine della Striscia davanti ai cecchini. Qualcuno senz'altro non si rendeva conto dell'assurdità; qualcun altro non aveva nulla da perdere; qualcuno eseguiva gli ordini o pensava alla pensione che Hamas paga ai parenti di ogni martire. Ora sono tutti morti e Hamas li reclama tutti come suoi. Un movimento di protesta che era nato non-violento è stato completamente fagocitato dalla macchina da martiri di Hamas: a un danno simile il sornione Netanyahu deve per forza aggiungere la beffa.


I leader di Hamas, ci spiega, dicono che è ingannevole definire questa protesta "pacifica", e senz'altro è così; molti hanno cercato di passare il confine armati, e hanno piazzato cariche esplosive anche sugli aquiloni. Non c'è nulla di pacifico in tutto questo: lo dice Hamas, lo dice Netanyahu, insomma non c'è da preoccuparsi. Chiunque morirà nei prossimi giorni sarà senz'altro un terrorista. Almeno cinquanta caduti erano militanti di Hamas, spiega Netanyahu: lo ha detto uno dei loro leader, non importa che altri membri di Hamas lo abbiano smentito. Chi segue la vicenda da un po' non ha davvero di che sorprendersi. Tra i due nemici asimmetrici, Israele e Hamas, c'è un obiettivo comune: dimostrare che Hamas e la Striscia di Gaza sono la stessa cosa. Se la Striscia protesta, è perché si mobilita Hamas; se Israele può reprimerli, è perché è in guerra con Hamas. E noi spettatori attoniti, noi che ancora perdiamo tempo a provare pietà, ora dobbiamo scegliere: o stiamo con Israele o stiamo con Hamas, che (Netanyahu ci ricorda) è un'organizzazione terrorista. Vogliono infatti sterminare gli ebrei; poco importa che non riescano più a fare qualche passo oltre il confine senza essere falciati. Hamas è forse il miglior nemico che Israele poteva procurarsi, e in un certo senso se lo è procurato; non mi riferisco tanto alle circostanze che portarono gli israeliani negli anni Ottanta a sostenere un nucleo di integralisti islamici in funzione anti-OLP, ma a tutto quello che è successo dal fallimento di Oslo in poi. I governi israeliani avevano bisogno di dimostrare al mondo che i palestinesi erano fanatici antisemiti: l'anziano Yasser Arafat, malgrado insistesse a portare con sé la pistola nella fondina e chiedesse di morire come martire, non era abbastanza credibile in questo senso (continua su TheVision)



Hamas invece funzionava egregiamente, e se non fu l’unica organizzazione ad abbracciare la tattica degli attentati suicidi, fu quella che ci investì più risorse: vite umane, dinamite, pensioni ai parenti. Senza Hamas i palestinesi non sarebbero mai diventati, agli occhi degli spettatori occidentali, una tribù di disperati assimilabili ad Al Qaeda. Quando poi nel 2005 Sharon spiazzò tutti ritirandosi dalla Striscia di Gaza, Hamas divenne la forza egemone di una Città-Stato isolata dal resto del mondo, un esperimento sociale che si protrae da allora. Hamas, branca della Fratellanza Musulmana, non è solo in guerra con Israele: anche l’Egitto ha chiuso la frontiera, e persino l’Autorità Nazionale Palestinese raziona l’energia elettrica per punire gli abitanti del loro sostegno al partito integralista. La vita dei due milioni di palestinesi che vivono nella Striscia sarebbe difficile anche se Hamas non destinasse gran parte delle sue risorse alla guerra (razzi, gallerie); una guerra sempre più asimmetrica e disperata che ciclicamente espone la popolazione di Gaza alle rappresaglie sproporzionate di Israele. Nel 2014 l’operazione Margine di Protezione causò più di 2000 morti tra i palestinesi (di cui la metà civili) e 71 vittime israeliane. Nel 2009, l’operazione Piombo Fuso aveva visto una sproporzione di uno a cento: tredici vittime israeliane, circa un migliaio di palestinesi. Chi parla di genocidio, però, è evidentemente fuori strada. D’altro canto si tratta di una situazione davvero particolare, che a qualcuno ha fatto venire in mente le guerre rituali che si combattevano nelle antiche polis Greche: la più famosa è la guerra che ogni anno gli Spartiati dichiaravano ai membri della casta inferiore, gli Iloti.

Le guerre rituali non si combattevano per il territorio (e infatti dopo ogni operazione la Striscia viene riconsegnata a Hamas); erano probabilmente connesse con le cerimonie di iniziazione che trasformavano i giovani in adulti, e servivano per fortificare l’identità delle caste in cui erano suddivise le polis. La guerra a bassa intensità che si combatte ciclicamente a Gaza offre ai giovani israeliani che fanno il servizio di leva un battesimo delle armi non privo di pericoli (ma nemmeno troppo pericoloso); mantiene la società israeliana in uno stato di allerta permanente contro un nemico esterno; ricorda alla comunità internazionale che Israele è minacciata nella sua stessa esistenza. La guerra a bassa intensità serve a mantenere uno status quo che evidentemente ai leader che gestiscono i fondi di Hamas non dispiace: tanto peggio se nel frattempo a Gaza la disoccupazione è oltre il 40%, e l’80% della popolazione vive grazie agli aiuti umanitari. La povertà crea disperazione, la disperazione fomenta i martiri, ogni martire è un successo per Hamas che lo rivendica e per Israele che lo abbatte in modo sempre più efficiente. Chi tenta di fuggire finisce falciato nel mucchio e rivendicato comunque tra i combattenti. Se non saranno i leader di Hamas a farlo, ci penserà Netanyahu, che la vede allo stesso modo: chi vuole uscire da Gaza non può che essere un terrorista. No, davvero, che si dica d’accordo con Hamas non sorprende.
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Verso il governo Chiunque I

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Una settimana fa Di Maio e Salvini chiesero 24 ore per formare il governo. Forse oggi riusciranno a presentarlo a Mattarella. Una bozza di contratto fatta filtrare nelle ultime ore dà l'impressione che l'accordo resti molto fragile. Desta stupore soprattutto l'istituzione di un "Comitato di conciliazione" che dovrebbe essere istituito "per giungere a un dialogo in caso di conflitti". Certo, i vertici a porte chiuse si sono sempre fatti, ma mettere nero su bianco il regolamento su una scrittura privata lascia perplessi. In attesa di scoprire se è costituzionale o no, limitiamoci a trovarlo poco elegante, come certe clausole negli accordi prematrimoniali che ti fanno intravedere il disastro. In questo Comitato, oltre ai due leader, sarebbe prevista la presenza di non meglio precisati "soggetti individuati dal Comitato": e il pensiero corre subito a Davide Casaleggio, che sarebbe così ammesso nelle stanze del potere senza bisogno di passare dalle elezioni. L'idea tradisce la tipica diffidenza Cinque Stelle per gli eletti. Anche per i propri, ai quali il M5S impone un contratto capestro con multe altissime a chi osa abbandonare il gruppo parlamentare o tradire il mandato.

Questa diffidenza non è un incidente di percorso: è uno dei caratteri fondamentali del Movimento. E rischia di essere la sua fondamentale debolezza, ora che prova a cimentarsi con un governo. Il partito che non crede nel principio di delega non ha mai voluto creare una vera classe dirigente. A cinque anni dalla prima clamorosa vittoria elettorale, il M5S è rimasto una truppa di soldati semplici. Anche i volti più riconoscibili alla fine non esprimono che una straordinaria medietà; tutto in loro lascia intendere che chiunque potrebbe essere al loro posto, e in effetti loro sono chiunque; nessuno si stupirebbe se scoprissimo che l'algoritmo di Rousseau li sceglie a caso. Persino i più pittoreschi non tradiscono nessuna particolare personalità: urlano e strepitano perché rappresentano quel tipo di cittadino che urla e strepita. Forse Di Battista era un caso a parte, e per il momento si è dileguato. Roberto Fico sembrava un po' più a sinistra di altri, ma ora ha un incarico istituzionale: promoveatur ut amoveatur.


Quanto a Di Maio, c'è chi gli ha imputato una cattiva gestione della trattativa: ma a mio parere non si sarebbe impuntato per un mese su Palazzo Chigi se non gli fosse stato chiesto di impuntarsi. Di Maio non ha fatto che mettere diligentemente in pratica le direttive che gli erano state impartite. Criticare Di Maio significa riconoscergli una volontà propria, un'individualità che non ha mai dimostrato, anzi: in un partito di uomini qualunque, il segreto del suo successo è proprio il suo essere più qualunque di tutti, persino da un punto di vista somatico. Nessun segno particolare, nessun tic linguistico a parte una nota ritrosia nell'uso del congiuntivo che lo accomuna al 90% della popolazione; Di Maio è talmente standard che non si riesce nemmeno a parodiare. Chiunque ci prova finisce per sembrare uno snob: come fai a prendertela con un segnaposto? Di cosa dovresti ridere, della sua maturità, dei lavoretti estivi, dei congiuntivi? È come ridere di un popolo intero. Si sa che le caricature si realizzano esagerando i tratti più riconoscibili, e Di Maio non ne ha. Se assomiglia a qualcuno, è a George Abnego, il personaggio del racconto Null-P di William Tenn, l'uomo super-medio che diventa presidente degli USA proprio per la sua eccezionale medietà (continua su TheVision)

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Perché non ti dai pace, Matteo Renzi?

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E dunque ieri sera Matteo Renzi – quello che si era dimesso da segretario del PD, dopo la batosta elettoraleera in prima serata su Rai1, intervistato da Fabio Fazio. Matteo Renzi, che in teoria nel suo partito non ricopre più nessun incarico, a Fabio Fazio non ha raccontato le sue avventure di senatore del collegio di Scandicci, ma ha spiegato che un confronto con Di Maio lo farebbe con lo streaming. Poche ore prima sul Corriere, lo stesso Di Maio aveva pubblicato una letterina-ultimatum in cui i punti salienti di un eventuale accordo si leggevano con chiarezza: reintroduzione dell'articolo 18, assunzione di 10.000 nuovi agenti di polizia, ridiscussione del trattato di Dublino, del Fiscal Compact, eccetera eccetera. Proposte senz'altro discutibili, probabilmente non tutte attuabili, ma in un qualche modo concrete. Matteo Renzi non le ha discusse: Matteo Renzi ha spiegato che gli piacerebbe di nuovo fare il gioco dello streaming. Quella deriva da reality show per cui, giustamente, una volta si prendevano in giro i Cinque Stelle. E infatti loro hanno smesso: adesso hanno un altro tono, mettono proposte nero su bianco, insomma a loro modo stanno crescendo. Matteo Renzi invece vuole lo streaming. Probabilmente ha già preparato qualche frase memorabile, qualcosa di immediatamente hashtaggabile, come "Beppe esci da questo blog!" Forse ve lo ricordate.

Forse no.

Però continuiamo pure a prendere in giro il Movimento Cinque Stelle perché è un partito che nasconde dietro gli streaming una struttura di potere sostanzialmente opaca. Mica come il PD, un partito che elegge i suoi rappresentanti in modo autenticamente democratico.

Ma insomma ieri sera Matteo Renzi – quello che un mese fa aveva detto che sarebbe rimasto zitto per due anni – è andato in prima serata e in sostanza ha fatto a pezzi qualsiasi speranza di un accordo tra M5S e PD. Certo, la decisione non spetta a lui ma al massimo alla direzione del PD che si deve ancora democraticamente riunire perché è gente che lavora e doveva organizzarsi per il ponte (così ha spiegato il presidente del PD, Orfini).


In realtà la direzione avrebbe dovuto riunirsi più di una settimana fa ma i renziani l'hanno fatta democraticamente saltare. Tutto questo accade forse perché Matteo Renzi pensa che dopo aver detto no a Fico e Di Maio, non si potrà che tornare alle urne: e nelle urne lui non sa cosa potrebbe succedere. Perlomeno a Fazio ha spiegato così. Ovvero, di sondaggi ne sono stati pubblicati ormai parecchi, e benché sia necessario sempre premettere che in Italia non ci beccano mai, bisogna dire che sono tutti concordi su un fatto: Lega e M5S stanno crescendo, anche se litigano. L'unico momento in cui il M5S è apparso in flessione, è quando per un attimo è apparsa credibile un accordo di governo M5S e PD. I sondaggi dicono tutti così ma Matteo Renzi, senatore di Scandicci, non è così sicuro. Chi lo sa. Magari invece se si rivota a ottobre vince lui. O magari perde un po' meno di stavolta. Cosa ha da perdere in fondo. Riproviamo (Continua su TheVision).
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Michele Serra è inversamente proporzionale al popolo

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Se in questi ultimi giorni non siete rimasti chiusi dentro una cella frigorifera, o in un’imbarcazione al centro del grande vortice di plastica del Pacifico settentrionale, o in un campo base alle pendici di un massiccio tibetano, probabilmente sapete già che Michele Serra ha scritto un’Amaca molto dibattuta.

Non è solo che molti sui social ne stanno discutendo: sembra proprio che non riescano a smettere. Se all’inizio aveva tutta l’aria di una discussione politica, a questo punto sembra più un esperimento sulla percezione collettiva. Qualcosa di simile al grande dibattito sul Vestito Nero-Azzurro o Bianco-Oro che catturò l’attenzione di tutti gli internauti nel lontano 2015, forse qualcuno ancora si ricorda. In una fotografia veniva ritratto un vestito che per molti era nero e azzurro, e per molti altri era bianco e oro, e non ci si è mai messi d’accordo su chi dovesse avere ragione. Il solco tracciato da Serra con l’Amaca di venerdì scorso sembra altrettanto profondo.

Riferendosi all’ultima ondata di notizie riguardanti incidenti scolastici, Serra scrive che “il livello di educazione […] è direttamente proporzionale al ceto di provenienza”. Di fronte a un’affermazione così perentoria, l’arena dei lettori si spacca in due: da una parte c’è chi trova l’Amaca assolutamente condivisibile; dall’altra chi la considera di un classismo insopportabile. Entrambe le parti stanno leggendo lo stesso trafiletto; da entrambe le parti troviamo lettori progressisti e conservatori, laureati e non, esegeti acuti e gente che ha letto soltanto le prime tre righe. I pochi che tentano di trovare una soluzione di compromesso (Serra avrebbe ragione, ma l’avrebbe messa giù un po’ troppo brusca) si trovano nella posizione più scomoda: come fai a sostenere pubblicamente che Serra si spiega male in 1500 caratteri? Lo fa da trent’anni.


A questo punto, più di prendere partito per l’uno o l’altro schieramento, si tratterebbe di capire cosa li ha divisi in modo tanto netto. Per molti pro-Serra si tratta di una banale questione di comprensione del testo: da una parte c’è chi ha capito che Serra non sta affermando una verità apodittica, ma denunciando uno “scandalo” (è lui il primo a usare questa parola) che le forze progressiste hanno l’obiettivo di contrastare. Dall’altra parte ci sono gli analfabeti funzionali che non se ne sono accorti, oh, e dire che è così semplice. Lo ha persino scritto: “scandalo”. Lettori troppo distratti che arrivano da link che li orientano male e cliccano via dopo tre righe credendo di aver capito chissà cosa.

E però non tutti gli anti-Serra sono così. C’è anche chi non ha affatto frainteso la sua posizione, ma trova discutibile il suo assioma: non risulterebbe affatto, come sostiene Serra, che la situazione è più grave negli istituti professionali e tecnici rispetto ai licei. In una ricerca ISTAT sul bullismo condotta nel 2014 il 19,4% degli studenti liceali appariva vittima di azioni di bullismo diretto; seguivano gli studenti degli istituti professionali (18,1%) e quelli degli istituti tecnici (16%). Il che non vuol comunque dire che volino più sedie nei licei che nei professionali. Il fatto è che in questi giorni si sta parlando di casi che tre volte su quattro non hanno a che vedere col bullismo. Uno studente che fa una scenata a un insegnante non è bullismo – a volte è pura insolenza o melodrammatica ad usum Youtube. Un genitore che aggredisce un docente non è bullismo. Si tratta di più banale prepotenza, oltre che maleducazione, e non siamo nemmeno sicuri che sia in aumento.

Molti anti-Serra contrappongono all’Amaca le proprie esperienze personali: è quasi un riflesso involontario. C’è il figlio del muratore che ha fatto il classico, chi ricorda con nostalgia un ITI o un IPSIA dove gli insegnanti venivano trattati con rispetto, eccetera. Nessuno di questi resoconti ha un valore statistico in sé; messi tutti insieme però dimostrano una forte resistenza di massa all’assioma di Serra: quell’Italia in cui la maleducazione è direttamente inversa al ceto non esiste più, ammesso che sia mai esistita. È una semplificazione che forse può funzionare in alcune città grandi e medie in cui il giornalista ha abitato, ma che va in pezzi appena si mette un po’ il naso in provincia – e l’Italia, rispetto ad altri Paesi dove l’urbanizzazione è più intensa, ha questa particolarità che a molti osservatori sfugge: è una grande provincia. È un luogo dove a volte non studia chi se lo può permettere, ma chi non ha alternative, mentre i figli dei padroni si contentano spesso di scaldare la sedia cinque anni in un diplomificio privato dove gli insegnanti se la vedono brutta tanto quanto in un professionale. È un’Italia dove è normalissimo incontrare analfabeti in yacht e dantisti in pedalò. È un mondo senz’altro ingiusto e sbagliato, ma ecco, stavolta non è ingiusto e sbagliato come lo descrive Serra, tutto qui. È vero che gli insegnanti dei professionali se la passano peggio che quelli dei licei? Non ci sono concreti dati statistici, ma sembra abbastanza intuitivo. È vero che quei professionali sono frequentati soprattutto dal volgo, mentre al liceo vanno i ricchi? Non proprio, non sempre, e per molti lettori non è questo il punto. Il genitore arrogante che minaccia il prof non è necessariamente un poveraccio insicuro. A volte è un facoltoso – ugualmente insicuro (continua su TheVision)

Serra alla fine cerca di ricondurre un argomento (il bullismo scolastico) al grande Tema di ogni pensatore e militante di formazione anche solo vagamente marxista: la lotta di classe. Tutto il resto è sovrastruttura. Dite che le scuole stanno diventando una jungla? Sarà per via della lotta di classe. Date ai poveri la stessa scuola dei ricchi, e la jungla si dipanerà, centomila fiori fioriranno. I poveri non sono d’accordo? È falsa coscienza, propalata dai populisti, inconsapevoli servi del potere.Qualcuno può trovare questo approccio ideologico (come se esistessero approcci non ideologici), ma molti che criticano Serra non ritengono così superata la lotta di classe. Semplicemente non riescono più a riconoscere in Serra un intellettuale organico; nemmeno un fiancheggiatore. Pare piuttosto un gentiluomo di campagna con un’idea della società un po’ astratta. Sarebbe tutto molto più chiaro se solo i poveri ammettessero di essere poveri... E invece capiscono male e s’incazzano. È vero, s’incazzano, ma non hanno capito poi così male.

È senz’altro anche un problema di contesto: Serra si trova nella difficile posizione di simbolo di un ceto medio riflessivo che pur borbottando ha appoggiato il PD al governo da Monti a Renzi a Gentiloni, per sette anni: sette anni di ragionevolezza, di accigliato paternalismo, ai termini dei quali hai voglia a dichiarare lo scandalo dell’ingiustizia sociale; sette anni in cui tra Repubblica e il popolo si è aperta una voragine. Serra probabilmente è il primo che farebbe un passo indietro, anzi l’ha già fatto: dalla prima pagina a quella dei commenti (in controtendenza con gli altri quotidiani nazionali, dove le rubriche da 1500 battute stile-Amaca in prima pagina ormai sembrano necessarie). Senz’altro non merita tanta aggressività, senz’altro non si può liquidare come quei benpensanti che a ogni manifestazione di piazza riciclano Pasolini dando per scontato che i poliziotti continuino a essere i poveracci e i manifestanti in prima linea i borghesi. A volte è ancora così, a volte no, la lotta continua ma siamo in una fase di mischia, è difficile riconoscersi; uno studente arrogante potrebbe essere una vittima della società ma anche uno stronzetto che non capisce perché a sedici anni deve perdere ancora tempo in classe quando suo padre ha già pronto per lui il capannone per la startup innovativa (coi fondi europei). C’è gente che urla per riconoscersi, slogan anche vecchi o esagerati, ma più che il senso si tratta appunto di riconoscersi; un gran baccano. È difficile a questo punto non immaginarsi Serra, in vestaglia, che si affaccia un po’ perplesso: tutto questo caos indispone.
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Democratico, troppo democratico

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Piccolo esperimento mentale. Supponiamo che da un momento all'altro un economista italiano di un certo rilievo dichiari il suo appoggio per il Movimento Cinque Stelle. Riuscite a immaginare lo stesso economista, dopo pochi giorni, tentare di dettare la linea al Movimento, magari minacciando di stracciare una tessera appena presa? Nel M5S sarebbe impossibile.


Infatti è appena successo nel Pd, onorato all'indomani della sconfitta elettorale dall'adesione via twitter del ministro Calenda. Dopo poche ore Calenda già spiegava al Pd cosa doveva fare e non fare per non perdere la sua preziosa adesione. Provate a immaginare la stessa situazione nella Lega, o in Forza Italia – non ha senso. Nel Pd non è nemmeno la prima volta. Ogni tanto arriva qualcuno, prende la tessera e spiega agli altri cosa deve fare il partito.


La stessa avventura renziana, in fondo, è cominciata così: appena otto anni fa anche l'allora sindaco di Firenze era sostanzialmente un outsider. Quel che è successo dopo, a ben vedere, non ha molti precedenti nella storia dei partiti italiani: in una manciata di anni, grazie a un paio di consultazioni di base (le Primarie!), l'outsider si è preso il partito di cui è tuttora, malgrado le dimissioni ufficiali, il leader più rappresentativo. È una traiettoria impensabile in partiti-azienda come Forza Italia o M5S; molto improbabile nella Lega, che ormai è a tutti gli effetti il partito italiano più vecchio in parlamento, l'unico che mostri ancora vagamente una struttura tradizionale novecentesca. Forse è la prova che il Partito Democratico è davvero democratico; di certo è la dimostrazione che è un partito straordinariamente scalabile: che chiunque abbia una visione e un po' di sostenitori – e di finanziatori – può davvero entrare e cominciare a dettare la linea. Gli altri partiti non sono così e gli altri partiti, bisogna ammetterlo, non perdono così tanti voti (più di sei milioni in dieci anni). A questo punto si tratta di capire se quello che doveva essere il punto di forza del Partito Democratico non si sia rivelato la sua principale debolezza: se i segni di vitalità che ci sta mostrando in questi giorni (incontri, dibattiti, correnti che nascono) siano un segno promettente o gli ultimi rantoli di un'entità che non si rassegna al declino. Il Pd non è certo l'unico partito a strutturarsi in correnti, ma è l'unico in cui le correnti diano la sensazione di poter nascere, agglutinarsi, defluire, nel giro di pochi anni o mesi. Matteo Richetti ne ha appena tenuta a battesimo una, "Harambee", affrettandosi a spiegare che si tratta di una parola swahili che non ha un vero e proprio senso: una generica affermazione di volontà e unione, una specie di "daje", "oh issa": non che l'"I care" di Veltroni e il "Big Bang" di Renzi alludessero a significati molto più complessi, ma insomma la sensazione è che siano finiti non soltanto i contenuti, ma ormai anche i nomi per chiamarli.


Il fatto è che in questi dieci anni di vita ormai il Pd le ha provate tutte... (continua su TheVision).
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Scuole violente o giornalisti un po' esagerati? (indovina)

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Lavoro nella scuola dell’obbligo. Fino a qualche anno fa, quando la gente lo scopriva, tradiva una smorfia di compassione: poveraccio, chissà quali incidenti di percorso, quali peccati deve espiare. Ultimamente ho notato che qualcosa sta cambiando; nelle smorfie più recenti ho infatti intravisto una sfumatura di ammirazione. Pare che il mio mestiere stia diventando qualcosa di eroico. Sempre più spesso mi chiedono se sono stato testimone di colluttazioni o fatti di sangue. Si direbbe che insegnare ai preadolescenti sia sempre più pericoloso: scherzi pesanti, botte, coltelli; e se ti lamenti con i genitori pare che vada ancora peggio (ancora più botte, ancora più coltelli). Perlomeno è quello che la gente mi racconta, quando le spiego che lavoro a scuola: è quello che si sente dire.

Chissà se è poi vero.

Può anche darsi che gli adolescenti e i preadolescenti italiani, negli ultimi anni, siano diventati più violenti – non è un’ipotesi che si possa escludere a priori. Ma non abbiamo i numeri per dirlo. Non c’è un aumento di denunce (e anche se ci fosse, non coinciderebbe necessariamente con un aumento della violenza). È il solito discorso dell’albero che cade e della foresta che cresce. Magari avete sentito parlare di un’insegnante accoltellata al volto a Caserta: un fatto gravissimo che ha fatto scattare immediate sanzioni penali. Ma in Italia ci sono 9 milioni di studenti che vanno tutti i giorni a scuola e la quantità di accoltellatori è veramente troppo esigua per poter individuare un trend; un episodio, in sé, non significa niente. Ricordo ancora la prima volta che fui convocato in presidenza: il dirigente che mi aveva appena assunto aprì il cassetto della sua cattedra ed estrasse un coltellaccio da cucina da quattro dita, appena sequestrato dalla classe in cui sarei andato a insegnare. È successo più di dieci anni fa. Significava qualcosa? Non significava niente. Non mi è più capitato di vedere una lama a scuola. E anche questo non significa niente, domani un mio studente potrebbe estrarne una. Sono giovani, sono imprevedibili, e sono 9 milioni. Non è statisticamente così strano che qualcuno tiri fuori un coltello ogni tanto, è uno dei motivi per cui ci assicuriamo. Sapete, i rischi del mestiere.




Però ultimamente potreste aver provato la sensazione che questo lavoro stia diventando più rischioso. Magari avete sentito parlare di un professore picchiato dai genitori durante un colloquio. O di una professoressa presa a pugni perché aveva osato chiedere a un ragazzo di metter via il cellulare. O di una supplente legata alla sedia e picchiata da una classe di “bulli”. Se avete sentito parlare di tutte queste cose, più o meno al ritmo di un fatto di cronaca a settimana... anche questo non significa niente (continua su TheVision).
(C'è anche la versione audio su Radio 3, con infinite grazie a Silvia Bencivelli).

O meglio: non significa che gli allievi italiani stiano diventando più violenti e pericolosi per gli insegnanti. Significa semplicemente che i giornalisti hanno deciso di raccontarla così. Alcuni fatti di cui avete sentito parlare non risultano proprio. In molti casi invece un singolo fatto viene raccontato nella versione più fantasiosa che può essere partorita da un team di creativi che abbia accesso a una chat di genitori.

Il caso della supplente di Alessandria “legata e picchiata” dai suoi studenti è un classico esempio, dal momento che non è stata né legata né picchiata. “Particolarmente timida e un po’ impacciata [è la versione del preside], ha chiesto ad alcuni ragazzi di scrivere alcune frasi alla lavagna. Ne hanno un po’ approfittato. C’è stata qualche risata di troppo e qualcuno le ha messo dello scotch nella borsetta dell’insegnante. Nessun l’ha legata e, tanto meno, presa a calci”. Il vero problema è che la scena sarebbe stata ripresa da qualche studente col cellulare, anche se i fantomatici filmati sono spariti dai social così presto da far dubitare che siano mai stati condivisi: di sicuro non mostravano insegnanti legati e imbavagliati, e così i giornalisti si sono dovuti arrangiare con l’immaginazione. Qualche organo di stampa ha comunque corredato la notizia con una foto di mani legate – polsi sottili avvinti da pesanti funi da ormeggio.

E dire che a scuola ci siamo andati tutti. L’abbiamo avuto tutti un compagno che avrebbe potuto tirar fuori un coltellino; magari qualche volta in tasca l’avevamo pure noi. Ma la corda per legare un’insegnante neanche nei cartoni animati – com’è che ci beviamo cose del genere e che anche dopo aver sentito la spiegazione del dirigente continuiamo a invocare punizioni esemplari? Gli studenti che hanno scherzato con la supplente di Alessandria sono stati sospesi con obbligo di frequenza: è una sanzione molto grave. Niente, non basta: gli stessi opinionisti che si lamentano della perdita d’autorità dell’istituzione scolastica, se la prendono con l’istituzione scolastica che non condanna gli studenti a… cosa? Espulsione immediata? Qualche settimana di gogna in aula magna potrebbe secondo loro lavare l’onta di aver gettato un rotolino di scotch nella borsetta di un’insegnante. La stessa insegnante che, raggiunta dai giornalisti, rilascia un’intervista brevissima in cui ogni risposta sembra gridare lasciatemi perdere: sembra anche lei vittima dell’omertà. Di quella particolare forma della sindrome di Stoccolma che ti impedisce di chiedere la lapidazione per chi ti infila un rotolo di scotch nella borsetta a tradimento. E così via.

Lavoro nella scuola dell’obbligo. Ho naturalmente paura dei coltellini, dei tirapugni e di tante altre cose che non vi sto nemmeno a raccontare, ma ho ancora più paura quando mi passano il telefono e invece del temuto dirigente, o del temutissimo rappresentante dei genitori, mi si presenta un giornalista. Magari non è nulla. Magari è l’inizio di un lungo romanzo d’appendice in cui una pallina di stagnola diventa una calibro 22. Non è neanche tutta colpa dei giornalisti – alla fine hanno un pubblico da sfamare. Evidentemente c’è chi ha fame di notizie del genere: scuole violente, studenti brutali, genitori ancor più brutali, dirigenti omertosi e così via.

Gli stessi insegnanti che ripostano questo genere di notizie sanno benissimo che la realtà è sempre molto più complessa: che il genitore che mena è uno su mille, il genitore che non collabora uno su cento, e il genitore che non sa che pesci pigliare e chiede aiuto agli insegnanti è molto più frequente (e più faticoso da gestire: noi insegniamo italiano, insegniamo matematica, ma a fare i genitori non t’insegna nessuno). Gli stessi insegnanti che commentano: “DOVE ANDREMO A FINIREEE????” in calce all’ennesimo pezzo sulla prof legata in classe con fantomatiche funi fetish sanno benissimo che quello che arriva ai giornali di solito è la punta dell’iceberg. Di solito prima di tirare fuori il coltello uno studente ha già lanciato diversi segnali: di solito prima dell’incidente fatale c’è una lunga storia di difficoltà famigliari, sociali, economiche, a volte psichiatriche; di solito, prima di chiamare i carabinieri gli insegnanti hanno avvisato i servizi sociali e gli psicologi. Di solito, insomma, prima e dopo il coltello c’è tutta una storia che ai giornalisti non racconteremo mai. Loro vogliono sapere solo cosa è successo in quel momento. Vorrebbero il sangue; raccontare che la scuola italiana non è un semplice spicchio della società italiana, ma un inferno di anarchia e prevaricazione. E anche noi a volte vogliamo sentirci raccontare una scuola del genere. È un modo per reclamare attenzione, alla fine. Forse anche per farci sentire un po’ eroi quando ci chiedono che mestiere facciamo. Se poi passa il messaggio che la scuola pubblica sta fallendo, allora, ci lamenteremo anche di chi chiede finanziamenti per la concorrenza.
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Di Maio e Salvini: due populisti inconciliabili?

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In seguito magari avremo il tempo per domandarci se un governo M5S-Lega sarebbe stato evitabile: se l’asse tra le due forze populiste non si sarebbe potuto in qualche modo scongiurare. Fin qui però l’impressione è quella opposta. Anche perché chi avrebbe ancora qualche carta in mano per evitare un accordo tra Salvini e Di Maio sembra deciso a non volerla giocare. Berlusconi e il Pd, in particolare, sembrano ormai rassegnati, se non sollevati, all’idea che i populisti e i sovranisti assumano il controllo delle operazioni. Il Pd li guarderà dalla sponda del fiume, mentre Berlusconi addirittura potrebbe appoggiarli.



Berlusconi, lo si è visto nei giorni delle elezioni dei presidenti di Camera e Senato, è un po’ troppo sfibrato per mettersi contro un’ondata che avanza. E poi lo conosciamo: a lui le ondate piace cavalcarle, e proverà a montare anche su questa. Finirà probabilmente disarcionato, ma è la sua natura. Per ora i tg Mediaset hanno smesso di soffiare sull’emergenza criminalità e l’emergenza invasione, un segno abbastanza eloquente. Quanto al Pd, non è proprio sull’Aventino, ma poco ci manca. La linea è ancora quella del segretario dimissionario, ovviamente riassunta in un hashtag: #ToccaALoro. Lasciamoli governare. Vediamo quello che combinano. Sottinteso: non riusciranno a combinare niente, e molto presto ci ricondurranno alle urne. Questo per ora sembra essere l’unico schema del Pd – è anche l’unico schema che preveda una sopravvivenza politica di Matteo Renzi. Ma sembra più il frutto di un’infantile fantasia di rivalsa che di una serena valutazione delle forze in campo. L’idea è che la miscela di Lega e M5S sia talmente instabile da deflagrare prima di trovare un suo equilibrio, come successe per esempio al primissimo Polo delle Libertà del 1994, quello che si spezzò nel giro di sei mesi, portando alla vittoria elettorale dell’Ulivo di Prodi, due anni dopo. Al Pd sembrano pensare che stavolta tutto esploderà anche prima. Eugenio Scalfari su l’Espresso ha aperto i dialoghi di Platone e ne ha tratto auspici favorevoli: facciamogli scrivere una legge elettorale (un’altra!), e poi via che si torna alle urne, anche a ottobre. C’è da dire che lo Scalfari divinatore non va sottovalutato, predisse anche la rielezione di Napolitano al Quirinale. Anche lui sembra convinto che il populismo sia un fenomeno passeggero, intrinsecamente instabile, che appena gli dai un po’ di corda si impicca. Ma alla prova dei fatti non è mai andata così... (continua su TheVision)

I leghisti sopravvivono ad alterne fortune da quasi trent’anni ormai, e il M5S è decisamente più solido di quel che sembrava a prima vista. I suoi avversari hanno sempre amato pensare che si sarebbe contentato di restare all’opposizione, e che non avrebbe retto alla prima prova dei fatti. Ma ci sono sindaci M5S che ormai stanno serenamente terminando il loro primo mandato, e che probabilmente saranno confermati. Anche quando entrano in rotta col Movimento (come Pizzarotti a Parma, o Marco Fabbri a Comacchio), gli elettori continuano a preferirli alle alternative di centrosinistra e centrodestra. A Livorno c’è ancora Filippo Nogarin, a Torino Chiara Appendino e a Roma è ormai chiaro che la giunta Raggi durerà più di quanto è durata la giunta Marino. Insomma malgrado incidenti di percorso anche gravi, il M5S non perde il sostegno dei suoi elettori nei municipi. Perché dovrebbe perderlo quando comincerà a occupare qualche ministero? Non è poi così difficile trovare ministri più simpatici di Pier Carlo Padoan o di Valeria Fedeli, e non devono essere per forza più capaci. Se saranno giovani e abbastanza telegenici gli elettori perdoneranno volentieri l’inesperienza.

C’è anche chi, pur riconoscendo la stabilità degli ingredienti Lega e M5S, ritiene che la miscela si riveli esplosiva. Benché condividano qualche battaglia e qualche parola d’ordine, Lega e Movimento hanno proposte inconciliabili (flat tax e reddito di cittadinanza), espressioni di classi in conflitto (il nord industriale umiliato dalla crisi, il centro-sud piagato dalla disoccupazione). Insomma non funzionerà, non durerà. Come si diceva una volta: le contraddizioni scoppieranno.

Da parte mia non dico che non sia prevedibile e persino auspicabile; e capisco anche chi, giocando al tavolo di Salvini e Di Maio, a questo punto ha una gran voglia di scoprire il bluff. Ma questo non è un normale giro di poker, è la politica italiana: un gioco alquanto più subdolo in cui le contraddizioni tendono a non scoppiare mai, anzi. Il Pd era liberista e socialdemocratico, Berlusconi era miliardario e populista, la Balena Bianca di Moro e Andreotti era conservatrice e (moderatamente) progressista, Mussolini era nazionalista e socialista, e così via. Potremmo risalire fino a Cavour, fino ai Gracchi forse, dappertutto contraddizioni che invece di scoppiare si ingrossano fino a schiacciare gli avversari. Lega e M5S sono le due facce, solo in apparenza inconciliabili, di un unico movimento, che assume diverse incarnazioni in tutta Europa e in Nord America, e che per comodità chiamiamo populismo – la parola più giusta potrebbe essere “sovranismo”. Da Trump a Orban lo schema è simile e prevede l’arroccamento nei propri confini geografici e psicologici, insieme con l’individuazione di un nemico che minaccia la nostra integrità e ci impedisce di essere grandi come nei bei tempi andati. Make America Great Again, grida Trump; l’Italia torni a essere la prima potenza europea, echeggia Salvini senza preoccuparsi troppo del senso del ridicolo. Di solito, però, il nemico individuato è sia esterno che interno: i nemici della grande America di Trump non sono soltanto la Cina e l’Iran ma anche i democratici che hanno stretto con Cina e Iran patti vergognosi.

Anche in Italia i populisti hanno proceduto da tempo all’individuazione del nemico: ma il nostro caso è particolare perché invece di coagularsi intorno a un solo polo, come negli Usa e altrove, c’è stato un curioso sdoppiamento. Da una parte un populismo endogeno, che si è raccolto intorno al M5S e cerca i nemici del popolo esclusivamente al suo interno, identificandoli nella Ca$ta dei politici corrotti e collusi. Dall’altra un populismo esogeno che ha occhi solo per le minacce esterne, vere o presunte (l’Euro, la tecnocrazia di Bruxelles, Soros, Bilderberg); i suoi ispiratori per un po’ hanno pascolato anche nei territori grillini, ma ormai sono stati quasi del tutto reclamati dalla Lega di Salvini. Così succede che nei momenti più propizi per dare addosso agli immigrati, gli uomini di Grillo si sottraggono mostrando spesso il lato più umano (votarono per depenalizzare la clandestinità); viceversa ogni volta che si scoperchia qualche scandalo romano, i leghisti si dimostrano molto meno arrabbiati, molto più garantisti dei grillini – in fondo in trent’anni almeno una tangente l’hanno presa anche loro.

Messi insieme, Grillo e Salvini produrrebbero il populista perfetto: sarebbe davvero una gran fortuna se si rivelassero inconciliabili. Ma è più facile immaginare che siano complementari, e che lo sdoppiamento tra populisti endogeni ed esogeni sia stato causato, piuttosto, dall’altra grande anomalia italiana, Berlusconi. Quel che ha allontanato fin qui leghisti e grillini, infatti, non è un destino ineluttabile, ma la figura dell’ex capo supremo del centrodestra italiano: sostenuta dai primi, invisa ai secondi. E ora che Berlusconi tramonta, c’è il grosso rischio che i populismi apparentemente inconciliabili di Salvini e Di Maio si svelino complementari. Un pericolo che gli avversari dovrebbero sventare a ogni costo. Ammesso che ci siano avversari, ormai.
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Beppe Grillo, obsoleto e felice

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Il M5s, quelli del “Grillo fondi un partito e vediamo quanti voti prende”, sono diventati a tutti gli effetti una forza di governo – o almeno potenzialmente. Chi pensava che si sarebbero accontentati del ruolo tutto sommato confortevole di oppositori duri e puri al sistema ha avuto il tempo di ricredersi: i grillini ci vogliono provare davvero. Ci stanno già provando, a livello locale: non si sono tirati indietro nemmeno in municipi importanti (Torino, Roma), per nulla scoraggiati dagli inevitabili errori di percorso. Se non sarà Di Maio stavolta, sarà qualcun altro la prossima, ma prima o poi avremo ministri a Cinque stelle. Conviene rassegnarsi, come si è già rassegnato, per esempio, Beppe Grillo. Già, a proposito: quando andranno al governo, cosa succederà a Beppe Grillo?

Qualcosa, a dire il vero, è già successo, anche se forse non abbiamo ancora capito cosa. A un certo punto sembrava addirittura che Grillo avesse lasciato il movimento da lui fondato e lanciato dieci anni fa. Non è esattamente così, o meglio, una scissione c’è stata, ma non nel senso politico del termine. A scindersi sono stati due siti web, lo storico beppegrillo.it e il Blog delle Stelle, che ormai ha tutta l’aria di essere il blog ufficiale del Movimento. Si tratta di una partenogenesi difficile da documentare: Grillo e i suoi redattori hanno infatti sempre approfittato della possibilità di intervenire sugli archivi del blog riscrivendo il passato. Fino a qualche mese fa, la testata “Il Blog delle Stelle” compariva ancora in cima a beppegrillo.it, sopra lo storico sottotitolo, “il primo magazine solo on line”. Dopo le parlamentarie, il 23 gennaio, è avvenuta la famigerata scissione e il Blog delle Stelle è diventato un sito a parte che ha mantenuto la denominazione di “primo magazine solo on line”, mentre all’indirizzo beppegrillo.it è comparso un nuovo blog – è lo stesso Grillo ad ammettere che si tratti di una novità. Più leggero, più rilassato. Senz’altro meno politico.

La prima cosa di cui ci siamo accorti tutti è l’assenza, sul nuovo beppegrillo.it, di qualsiasi riferimento al Movimento 5 Stelle, il che ci ha fatto immaginare chissà quale scontro col vertice e con Roberto Casaleggio; uno scontro completamente smentito dalla partecipazione di Grillo agli ultimissimi eventi della campagna elettorale, e da almeno un’intervista rilasciata dopo le elezioni. Grillo non è più il “capo politico” del M5s, ma non ha ancora tradito un solo accenno polemico nei confronti della nuova dirigenza e del nuovo corso. Quel che è evidente è che nel nuovo sito non ha nessuna intenzione di parlare di politica: persino quando pubblica quel che può sembrare un doveroso ringraziamento agli elettori, evita con attenzione di parlare di voto e anche solo di nominare il Movimento. Beppegrillo.it è diventato uno di quei salotti tranquilli in cui può discutere amabilmente (per modo di dire, visto che i commenti sono stati chiusi), con un’olimpica serenità che davvero non ci si aspetterebbe dal bizzoso fondatore di un movimento che ha appena vinto le elezioni, ma che per ora non ha i numeri per formare un governo. Si ha quasi l’impressione si sia trattata di una svolta dovuta a motivi più “clinici”: Grillo più volte aveva lamentato la stanchezza, lo stress di dover rivestire un ruolo politico per il quale non si sentiva tagliato.

Ora che non deve più dibattersi nelle schermaglie quotidiane tra sostenitori di Salvini, Berlusconi e Renzi, il comico genovese ha più spazio per occuparsi di tante cose, come in fondo ha sempre fatto. Si guardi anche solo al sommario dell’ultima settimana, “una delle più interessanti da quando siamo partiti con il nuovo blog”: c’è di tutto. Accanto a riflessioni sconclusionate, che per ammissione dello stesso Grillo sono il parto di una notte insonne (“Abbiamo il polo nord, il polo sud… Ma il polo est e il polo ovest dove sono?”) ci sono le solite mirabolanti notizie dal mondo dell’hi-tech, tipo che in Arizona stanno per arrivare i taxi che si guidano da soli; due ricercatori del Mit hanno fondato una start-up che vuole fare “il back-up della tua mente”, il primo passo verso l’“immortalità cerebrale”?

Anche il vecchio blog dava molto spazio all’innovazione tecnologica, ma a essere cambiato è l’approccio, oggi più sereno, fiducioso. Da quando calca le scene, Grillo ha sempre usato due maschere: quella tragica e apocalittica in cui gridava “ma siamo impazziti?”, e quella dai tratti più concilianti del guru futurologo che annuncia le grandi promesse del domani, che ok, il mondo presente è un disastro, ma le cose stanno per cambiare. Stampanti 3D, veicoli che si guidano da soli, bio-washball e così via. Grillo ha sempre promesso ai suoi seguaci un paradiso tecnologico oltre il disastro imminente; ora che il Movimento si avvicina alla prova dei fatti, quell’orizzonte per Grillo è sempre più vicino. È anche un modo di dare un senso al suo ruolo di guida della rivoluzione: se non può e non vuole fare il leader politico, può sempre dare un contributo additando la direzione dal balcone virtuale del suo blog – oggi ai militanti M5s, domani ai ministri. Qualcosa di simile al ruolo di Mao negli anni precedenti alla rivoluzione culturale cinese. Non sono certo il primo ad accostare grillismo e maoismo; è un paragone irresistibile anche perché Grillo sul suo blog scrive pensieri sempre più semplici e lineari, leggibilissimi, ormai molto vicini allo stile elementare del Libretto Rosso (L'obsolescenza felice di Beppe Grillo continua su TheVision).





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Perché ci siamo stancati così presto di Matteo Renzi?

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Come ha fatto Matteo Renzi a bruciarsi così presto? Appena quattro anni fa portava trionfalmente il Pd oltre la soglia storica del 40% alle europee (con un’affluenza all’epoca del 58%, contro il 73% delle recenti politiche). Berlusconi era un relitto, la Lega stava al 6%, gli stessi Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio sembravano ormai due vecchi guru disorientati che avevano fatto il loro tempo. La vera novità era Renzi. Il Pd ormai era il suo partito, ben presto anche Palazzo Chigi sarebbe stato suo.
Qualcosa deve evidentemente essere andato storto, perché quattro anni dopo, lo stesso Pd è fermo sotto il 20%, e Renzi sembra diventato una macchietta triste, su cui i giornalisti infieriscono impietosi. La spiegazione più accreditata è che stia scontando l’esperienza di governo: il potere logora, nessun centrosinistra europeo viene confermato alle elezioni, eccetera. Questo spiegherebbe una sconfitta, ma forse non una batosta del genere.

Aggiungi che l’azione di governo di Renzi è stata tutt’altro che disastrosa, e malgrado Bruxelles gli lasciasse esigui margini di manovra, è riuscito a redistribuire qualche risorsa. Ha infilato 80 euro nelle buste paga dei dipendenti, altri 500 nel bonus cultura dei 18enni, ha tolto l’Imu sulla prima casa – misure e misurine non sempre raffinate, ma che qualche effetto sull’aumento dei consumi possono averlo avuto. Ha anche abbassato il canone Rai (aumentando il gettito, un piccolo capolavoro che agli evasori storici però non è piaciuto). Ha ottenuto risultati notevoli nella lotta all’evasione fiscale (e nel frattempo chiudeva l’odiata Equitalia); ha investito nell’edilizia scolastica e nel sostegno della natalità. Non è tutto oro quel che luccica, in particolare il Jobs Act e la Buona Scuola sono leggi molto controverse, ma un bilancio provvisorio non potrebbe essere che positivo. Il Pil è aumentato, la criminalità è diminuita.
Tutti questi risultati Renzi avrebbe dovuto difenderli in campagna elettorale, ma non ci è riuscito. La spiegazione ufficiale è la solita, c’è un problema di comunicazione. Renzi & co. fanno un sacco di cose buone, ma non riescono a spiegarle alla gente. Forse era più facile quattro anni fa, quando Renzi era ancora un rottamatore all’assalto di un partito tradizionale, mentre adesso si trattava di giocare in difesa, di rassicurare. Ma i tempi in cui Mitterand vinceva con lo slogan “La forza tranquilla” sono ormai passati, e nel grande mercato delle notizie i messaggi rassicuranti funzionano meno degli allarmi strillati in tv e sui social. Minniti può adoperarsi in tutti i modi per dimezzare gli sbarchi, ma la gente non smette di credere che dall’Africa sia in atto un’invasione, o che la disoccupazione stia aumentando vertiginosamente malgrado l’Istat registri un lieve calo. Vince chi strilla, e Renzi – pur nato strillatore – una volta al governo doveva per forza cambiare registro, ma a quel punto non ha più trovato il suo. Se è così, la sua sconfitta era inevitabile, così com’è inevitabile la sconfitta di chiunque governerà da marzo in poi, leghista o grillino o chissà. Uno può anche pensarla così.

Io la penso diversamente. Su una cosa sono d’accordo con Renzi e i suoi: è vero che c’è stato un serio problema di comunicazione. Ma non perché Renzi non sia capace di comunicare. È che secondo me stavolta non ha proprio comunicato (continua su TheVision).

Ai talk show c’è andato, l’ho visto anch’io. Ma i talk servono più che altro per predicare ai convertiti. Qualche spot elettorale in giro si è visto (e non erano nemmeno i peggiori spot della storia del Pd). Ma erano pochi, e quanti li avranno visti? Anche per quanto riguarda i manifesti, è notevole che si siano viste in giro più facce di Grasso e della Bonino che di Renzi. La sensazione complessiva è che il Pd abbia fatto tutto al risparmio. Non è stato l’unico. Il fatto è che un altro dei risultati dei governi di sinistra dell’ultima legislatura è il drastico taglio ai fondi dei partiti: se nel 2011 erano ancora complessivamente 190 milioni di euro, oggi sono appena 15. Col meccanismo del due per mille, varato dal governo Letta, quest’anno il Pd ha ricavato appena otto milioni. Non è il budget di un partito ramificato in tutto il territorio, con più di 150 dipendenti solo a Roma. Con una cifra del genere è chiaro che per i cartelloni e le inserzioni ti restano soltanto le briciole. È anche vero che cartelloni e inserzioni sono residui del passato. Guarda ad esempio il M5S, che non li usa. Usa il web. Anche Renzi ha sempre cercato di promuoversi su web e social, ma forse gli è mancata una strategia (e i soldi, anche quelli). Ha aperto diversi siti e blog, ha tentato varie strade e qualche esperimento virale è stato persino controproducente (vedi le tragicomiche avventure di Matteo Renzi News). Però anche se avesse azzeccato tutte le mosse via web, il risultato finale non sarebbe cambiato molto. L’Istat ci dice che ancora nel 2017 l’80% degli italiani forma le sue opinioni politiche davanti alla tv. Insomma anche il grosso degli elettori grillini su Rousseau non si è mai visto, è gente che riconosce Di Maio non perché ne ha letto sul Blog delle Stelle, ma perché lo ha visto in tv. Se vuoi comunicare i tuoi successi, hai bisogno della tv.

Ma la tv ha bisogno di te?

Perché l’impressione è un po’ che la tv abbia trattato bene Matteo Renzi finché era un prodotto nuovo, qualcosa che poteva tener sveglio il pubblico. Quando si è esaurita quella spinta, Renzi ha smesso di forare il video. Certo, ha continuato a essere un ospite di eccezione per i talk show, ma forse dovremmo smettere di relegare la tv ai talk show. Non è con quelli che la tv sposta i voti. I media non ti fanno vincere le elezioni perché ti intervistano e ti trovano simpatico. I media ti fanno vincere perché costruiscono intorno al tuo elettore potenziale una bolla, un mondo parallelo in cui tu sei l’unica soluzione a una serie di problemi. Salvini non vince (solo) perché dice “ruspa” alle telecamere: Salvini vince perché molto prima di avvicinarsi alle telecamere, la stessa tv ha mandato in onda a ripetizione notizie non verificate su ondate migratorie incontrollabili, su orde di profughi che rubano e stuprano, su complotti internazionali orditi da ONG al soldo di potenze straniere. Salvini in sostanza vince perché in cabina di regia c’è qualcuno che ha deciso di investire su determinati sentimenti. Invece su Renzi, a un certo punto, non ha investito più nessuno. E neanche Renzi aveva più molto da investire.

Torniamo nel 2014, al trionfo di Renzi. I suoi due principali avversari (Berlusconi e Grillo) hanno una cosa sola in comune, rappresentano due aziende di comunicazione. Da una parte il gruppo Mediaset-Mondadori, una corazzata un po’ arrugginita ma ancora importante. Dall’altra la startup imprevedibile, la Casaleggio Associati. Tv contro Web. Renzi nel ‘14 arriva di slancio, usa sia tv sia web senza spenderci troppo. È l’uomo nuovo, è naturale che lo invitino nelle trasmissioni più popolari, e che su internet il pubblico condivida i suoi contenuti senza chiedere nulla in cambio. Forse Renzi in questa fase è stato vittima di un equivoco e si è convinto che tutti fossero interessati a lui non in quanto novità, ma in quanto Matteo Renzi, e che finché sarebbe rimasto Matteo Renzi, tutti avrebbero continuato a interessarsi di lui. Ma l’attenzione del pubblico è mutevole, l’effetto novità finisce presto. I media hanno i loro tempi, e nel medio termine digeriscono tutto. Nel medio termine non c’era motivo per cui i media di Silvio Berlusconi dovessero continuare ad attirare l’attenzione sul prodotto della concorrenza, Matteo Renzi, specie dopo l’elezione di Mattarella, quando Forza Italia ritirò il sostegno alle riforme costituzionali. A quel punto Renzi si è ritrovato vaso di coccio tra i vasi di ferro. Non aveva i canali di Berlusconi e non aveva il know how internettiano di Casaleggio. Avrebbe dovuto trovare altri canali per comunicare i suoi contenuti. Non gli bastava un’ospitata in uno show serale: gli serviva un sistema mediatico che attirasse il cittadino telespettatore e gli mostrasse un’Italia renziana positiva e rassicurante. Ma per fare una cosa del genere occorrono molti soldi, e Renzi stesso si era auto-imposto di spenderne pochi. A quel punto la sconfitta era inevitabile.

Eppure qualche mossa avrebbe almeno potuto tentarla. Soprattutto all’inizio, quando aveva anche qualche risorsa da investire, imprenditori che (legittimamente) credevano nel suo progetto riformista e che erano disposti a dare una mano. A quei signori Renzi non propose di creare un magazine online che potesse contendere il bacino di utenti di beppegrillo.it, ma di sostenerlo con un progetto molto meno innovativo, un giornale cartaceo. Una di quelle cose antiquate che si stampano tutti i giorni e che ormai non legge più nessuno – però con una testata nobile, l’Unità. Non era la mossa rottamatrice che ci si aspettava da lui, ma un senso poteva averlo. Se era un espediente per riavvicinare al partito gli antichi militanti PCI, comunque non funzionò. I precedenti del resto lasciavano poco margine alla speranza: prima che la rifondasse Renzi, l’Unità era già fallita due volte in 15 anni. Renzi la rimise in piedi lo stesso, e come certi scommettitori che di fronte al baratro raddoppiano la posta, decise o lasciò decidere che la nuova Unità sarebbe andata in edicola senza i fondi per l’editoria. “Navigheremo nel mare aperto del mercato,” scrisse il nuovo direttore. Lui sarebbe durato un anno, il giornale qualche stagione in più. Gli investitori amici di Renzi sbagliarono investimento e Renzi rimase senza un organo di stampa. Nulla di irreparabile, in fondo la vera battaglia era in tv. Ma ecco, Renzi non ha neanche provato a combatterla.

E sì che è rimasto a Palazzo Chigi per due anni. Altri al suo posto avrebbero almeno tentato di plasmare la Rai a loro immagine. Lui no. Forse non si capì con Andrea Campo Dall’Orto, forse sottovalutò il problema, forse fu nell’occasione fin troppo corretto. Perché è vero, la Rai non dovrebbe diventare terreno di battaglia politica, ma se il tuo avversario possiede un terzo dell’etere in chiaro (e quando governava l’Italia si è fatto scrivere una legge su misura) il fair play non te lo puoi permettere. Matteo Renzi sicuramente è stato ingenuo, a pensare di poter gareggiare con Berlusconi senza avere né i suoi soldi né i suoi canali; a pensare di poter sembrare per sempre più giovane dei grillini anche dopo essere salito a Palazzo Chigi, dove più giovane sei più rapidamente invecchi. Matteo Renzi forse si è fatto un po’ illudere dalla sua bolla personale, e in particolare – mi costa parecchio aggiungerlo – dalla sua lunga esperienza nei boy scout, nel mondo del volontariato e dell’associazionismo cattolico. Gli scout sono abituati a fare cose straordinarie senza chiedere un soldo per sé: Renzi, senza troppo preoccuparsi delle risorse a disposizione, ha cercato (1) di rottamare la sinistra intera e (2) di cambiare verso al Paese. Non è incredibile che abbia fallito il secondo obiettivo: è già molto notevole che abbia centrato il primo.
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Tre partiti in cerca di autore

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(Ieri mattina ho trovato in homepage su TheVision un pezzo dal buffo titolo L’ODIO E L’INVIDIA VINCONO SEMPRE SULL’AMORE; ovviamente ho cliccato e ho scoperto che l'avevo mandato io, un paio d'ore prima; era già un po' vecchio e adesso lo è di più).


Com’era ampiamente prevedibile, l’unica cosa che ci è dato sapere dopo queste elezioni è che in Italia non c’è una maggioranza. Non è una novità, anzi: con questa legge elettorale era l’unico risultato possibile. Nel momento in cui scrivo le proiezioni danno il Centrodestra al 37,5% (con la Lega oltre il 17%, record assoluto, tre punti sopra Forza Italia), il M5S quasi al 32% (il che lo porta a essere il primo partito), il Centrosinistra al 23% col Pd quasi al 19%, minimo storico. Dunque malgrado la comprensibile esultanza del M5S, ha vinto il Centrodestra – e all’interno del Centrodestra, la Lega di Matteo Salvini, che in una legislatura ha quadruplicato i suoi voti. Questo è uno dei dati più importanti, forse il più cruciale: Salvini ha ottenuto un successo clamoroso e l’ha ottenuto anche cannibalizzando il suo partner più importante, Silvio Berlusconi. A questo punto, in teoria, il leader di centrodestra è il leghista (c’era un accordo esplicito, tra i partiti della coalizione: il partito più votato avrebbe espresso il candidato premier). Secondo la prassi istituzionale, il presidente Mattarella dovrebbe offrire l’incarico a lui. Ma quante possibilità ha Matteo Salvini, segretario della Lega (ex Nord), di formare un governo?

Forse adesso è più facile capire quel fuori-onda di qualche giorno fa, in cui Salvini affermava di sperare in un Pd al 22%. Salvini in questi anni ha prosperato, vendendo ai telespettatori rabbia e odio. Ha promesso di ruspare i campi rom ; di respingere i barconi; ultimamente ci ha avvertito di voler vietare l’Islam. Tutte queste cose, Salvini non può realizzarle davvero: non solo perché sono in effetti misure disumane e incostituzionali, ma soprattutto perché una volta esaudite queste promesse, Salvini non saprebbe che altro promettere. Probabilmente sperava di poter rimanere il protagonista dell’opposizione (se Berlusconi fosse riuscito ad arrivare al 20% da solo e a trovare un accordo con Renzi); oppure, se il centrodestra fosse arrivato al 50%, avrebbe potuto portare la Lega in un governo, ma in una posizione subalterna, come la Lega di Bossi che chiese per dieci anni a un governo Berlusconi il federalismo fiscale e poi si accontentò di aprire qualche ministero a Mantova. Ma se sale a palazzo Chigi, Salvini deve passare dall’arte di promettere alla scienza del mantenere. E a proposito di promesse: molti suoi elettori si aspettano che ci faccia uscire dall’Euro. L’ha promesso varie volte – sempre meno convinto, va detto – ma è quello che molti suoi sostenitori si augurano. A quel punto però si ritroverebbe in conflitto con lo stesso Berlusconi: una situazione interessante (magari improvvisamente i canali Mediaset smetterebbero di pompare l’emergenza criminalità-migranti, che alla fine ha favorito l’elemento più estremista della coalizione ai danni di chi quei canali li possiede e ci mette i soldi). Potrebbe, certo, proporre un accordo di governo al Movimento Cinque Stelle. In teoria sarebbe la maggioranza più stabile, sia alla Camera che al Senato. Ma solo in teoria.

Nella pratica, il M5S si trova nella situazione speculare a Salvini: anche loro vendono un prodotto, e non è nemmeno un prodotto così diverso; ma non sempre ha senso mettersi d’accordo con la concorrenza. Basta guardare la cartina: non era forse mai successo nella storia della Repubblica che due partiti si dividessero il territorio in modo così netto. La Lega è il partito delle fabbrichette del nord umiliate dalla globalizzazione e dall’Euro; il Movimento è il partito del meridione depresso e disoccupato. La Lega vuole la flat tax, cioè sborsare di meno; il M5S vuole il reddito di cittadinanza, ovvero intascare di più. Possono mettersi d’accordo? Fino a settembre, magari: poi c’è la finanziaria, e ciao. Entrambi vogliono uscire dall’Euro, a parole: nei fatti, l’uno può fornire una comoda scusa all’altro per non realizzare mai nemmeno questa promessa. Basta che Di Maio affermi “mai con Salvini, è un razzista!” e Salvini “mai con Di Maio, è un populista!” ed entrambi possono rimanere padroni dei rispettivi feudi elettorali, senza troppo compromettersi con la realtà. A quel punto però la realtà chi la può gestire? Una coalizione dei disperati, PD + Forza Italia + Fratelli d’Italia + chiunque ci sta? Anche questa sembra una combinazione troppo instabile.
In particolare, ci sono tre partiti che insieme potrebbero costituire una solida maggioranza, e che stanno per perdere la loro identità pre-elettorale: ormai sono anonimi contenitori di parlamentari.
Il primo è Forza Italia, ormai niente più che il marchio privato di un anziano signore che ha ancora un seguito notevole nel Paese, ma residuale. Potrebbe anche essere stata la sua ultima corsa: molti suoi eletti, una volta installati in Parlamento, non potranno che cercare un migliore offerente. In questi casi si privilegia sempre la stabilità, una cosa che Salvini coi suoi contenuti esplosivi non può offrire. Bisogna guardare altrove (continua su TheVision)

Il secondo contenitore anonimo è il Movimento Cinque Stelle, che dopo aver perso il suo guru Gianroberto Casaleggio negli ultimi mesi ha divorziato persino da Beppe Grillo, e ha vinto le elezioni lo stesso. Ora in cabina di comando c’è Casaleggio Junior, che conosciamo ancor meno del padre: con lui però c’è stata un’evidente normalizzazione del Movimento. Anche la mossa – tanto criticata – della presentazione di una lista di governo mandava un segnale preciso: non siamo disfattisti, stavolta siamo pronti a governare e anche a collaborare. Alcuni ministri-ombra del M5S erano ex sostenitori di Renzi: più espliciti di così, Casaleggio e Di Maio non potevano essere.

Perché a sinistra del M5S c’è il terzo contenitore in cerca di identità: il Pd post-renziano. Quando Renzi lo rilevò, il Pd valeva 10 milioni di voti, che nel 2013 sembravano una batosta. Con lui al timone alle Europee dell’anno successivo volò al 40%, ma si trattò in parte di un effetto ottico: aveva preso appena un milione di voti in più. Per contro forse gli capitò di sopravvalutare la sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016, quando comunque più di 13 milioni di italiani votarono sì alle sue proposte di riforma. Il vero crollo è avvenuto nei mesi successivi e oggi l’elettorato del Pd si ferma davvero intorno ai 7 milioni, con intere porzioni dell’Emilia e della Toscana che lo abbandonano. Non si può nemmeno puntare il dito sugli scissionisti di Liberi e Uguali, che ambivano a un risultato a due cifre e non arriveranno al 4%. È tutta la sinistra, dalla più moderata alla più radicale, a essere sconfitta, malgrado i risultati non tutti disprezzabili ottenuti negli ultimi cinque anni. Il problema è che dall’altra parte c’era chi soffiava sulle paure più basilari, chi raccontava di un assedio e di un’invasione: su internet, certo, ma soprattutto in tv (e sui giornali, e sui libri).

In un qualche modo, Renzi pensava che avrebbe ovviato il problema forse soltanto grazie alla sua brillante personalità: in un primo periodo probabilmente fraintese la benevolenza con cui veniva trattato anche dai media berlusconiani, forse lo scambiò per fair play e lo diede per scontato. Renzi non è il primo leader della sinistra a farsi fregare dalla controparte, ma a questo punto sarebbe maramaldesco infierire. Di solito a quest’ora aveva già pronunciato uno di quei concession speech che appassionavano tanto i suoi ammiratori; per come si sono messe le cose faccio persino fatica a immaginare che riesca a restare in Parlamento, dove è stato eletto per la prima volta, ma a far cosa? Ad ascoltare gli altri che parlano? Si annoierà subito. Dopo la sconfitta al referendum, invece di ritirarsi come pure aveva promesso, ha trasformato il Pd nel suo comitato elettorale: ora, senza di lui, anche il Pd non è che un involucro in cerca di identità. Un Pd renziano non potrebbe mai allearsi col M5S: ma un Pd post-renziano, cosa avrebbe da perdere? Di Maio potrebbe limitarsi a imporre l’allontanamento di Renzi – la pelle di un orso già caduto. La base del M5S si lamenterebbe? Si è già visto durante le parlamentarie quanto poco i vertici M5S si preoccupino dei rumori della base e di Rousseau. E persino se ci fosse una piccola scissione, si potrebbe tamponare coi voti dei forzisti post-berlusconiani, anche loro in libera uscita. Tutto questo stamattina può sembrare fantascienza: ma anche un governo Pd + Forza Italia sembrava impossibile all’indomani delle elezioni di cinque anni fa: finché Enrico Letta non giurò al Quirinale. Se cinque anni fa è successo davvero, da oggi può succedere tutto. Almeno viviamo in tempi interessanti.

Chiedo scusa se non uso il tono depresso che è di prammatica, tra persone di sinistra (io sono di sinistra) ogni volta che la sinistra perde (perde anche quando vince, ma oggi perde proprio). Non so neanch’io perché non riesco ad abbattermi, forse ho sofferto troppo una sconfitta precedente e ormai non sento il dolore. Oppure mi ha tirato su il morale Potere al Popolo. È che a un certo punto della maratona notturna, dopo aver intervistato un frignosissimo esponente di Casapound che riusciva soltanto a recriminare di essere stato poco in tv, Mentana ha dato la linea al quartier generale di Potere al Popolo, una lista che ha preso appena il doppio di Casapound – non che il doppio di uno zero virgola sia un granché – ma evidentemente non se lo aspettavano: festeggiavano più loro dei leghisti. È che abbiamo bevuto, ha spiegato la portavoce Viola Carofalo: “e continueremo a bere”. Ecco, beviamoci sopra.
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Il voto è un gioco (anche quello utile)

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Le elezioni sono alle porte, lo senti nell’aria. Nelle scuole stanno già arrivando paraventi e scatoloni; su Facebook si ricomincia a parlare di “voto utile”. Ancora. Sì, ma stavolta non è come tutte le altre volte. Stavolta l’alternativa è il baratro, il caos, la fine della vita sulla Terra per come la conosciamo. I grillini (o i leghisti, o i fascisti, o qualche altro spauracchio) saliranno al potere, toglieranno l’obbligo vaccinale e moriremo tutti. Usciremo dall’Euro, dalla Nato, dall’emisfero boreale, verremmo sbalzati nello spazio profondo. Tutto questo senz’altro accadrà se non usiamo il nostro diritto di voto con responsabilità. Nella maggior parte dei casi si tratta di turarsi il naso e votare Pd. Forse esistono anche inviti al voto utile in altri schieramenti, ma sono fuori dalla mia bolla, non li vedo. Da che mi ricordi il voto ragionevole, il voto un po’ schifato ma necessario, è sempre stato quello per il centrosinistra. Il mio voto, per inciso (sì perché io al voto utile ci ho sempre creduto: si tratta se mai di mettersi d’accordo su quale sia l’utilità in questo momento).

Gli Utilitaristi del voto di solito amano mettere a fuoco un certo tipo di avversario dialettico, l’Anima Bella: quel tipo di elettore che concepisce il voto come l’espressione della propria identità (voto comunista/liberale/Berlusconi perché credo di essere comunista/liberale/Berlusconi). Per l’Anima Bella il risultato delle elezioni è un mezzo, non il fine. L’importante è non compromettersi, non sporcare le proprie nobili idee con la rude realtà – buffo, il voto in teoria è segreto, eppure molti lo vivono ancora come un pubblico atto di fede. “Io credo X, non chiedetemi di votare per Y”. È gente che ci tiene a farti sapere che non cede ai compromessi. Non sul luogo di lavoro quando il boss ti chiede uno straordinario, e nemmeno in famiglia quando si tratta di decidere dove andare in vacanza, no: l’unico posto in cui rifiutano i compromessi è la cabina elettorale. Per quanto possano risultare insopportabili, le Anime Belle sono necessarie: il giorno che riusciremo a farne a meno non sarà un bel giorno.
Per esempio: stavolta si vota anche per decidere come gestire la questione migranti nel Mediterraneo: non è poi così strano che a sinistra qualche Anima abbia difficoltà a sostenere il partito di Minniti. Sono anni che raccontiamo ai ragazzi che al momento della verità non potrai dire che hai soltanto obbedito agli ordini: magari qualcuno ci ha veramente dato retta e ora non riesce a votare per l’ordine e la disciplina, i respingimenti e gli annegamenti. Magari dovremmo spiegare nelle scuole che c’eravamo sbagliati, che tutto sommato certe volte voltare lo sguardo dall’altra parte è ok. Nel frattempo dobbiamo rassegnarci a conservare una certa quota di Anime Belle. Li abbiamo allevati, si vede che pensavamo che ci sarebbero stati utili (forse speriamo che salvino anche la nostra anima, forse non escludiamo di averne una).

A fianco dell’Anima Bella milita spesso il Messaggiatore, che ne è una specie di evoluzione postmoderna: non crede più di avere un’anima da salvare, ma senz’altro ha una reputazione da difendere sui social e nei capannelli di amici. Questa sua modernità percepita in realtà lo schianta: mentre l’Anima Bella è tutta contenta del proprio voto – un piccolo segno con cui ti metti a posto con l’umanità e forse con Dio che nel segreto dell’urna ti vede – il Messaggiatore ha studiato e fatto i calcoli e sa che il suo voto è un atto in teoria performativo, ma dal valore irrisorio. Un trentamilionesimo di sovranità popolare, una goccia nel mare, tanto vale stare a casa. A questa mediocrità, il Messaggiatore non si rassegna. Il mio voto non può davvero contare come quello di una pensionata di Sarcazzo di Sotto che mette la croce su Casa Pound perché crede sia un lista animalista e la tartaruga in particolare le è molto simpatica. Il mio voto sarà più importante perché… lo socializzerò (e socializzandolo, spero di poterlo moltiplicare). Il mio voto non sarà più importante in quanto cessione di sovranità, ma in quanto Messaggio. Non mi piace il modo in cui il Pd con Minniti ha di fatto avallato la criminalizzazione dei migranti nel Mediterraneo? Voto la Bonino che dei migranti ha sempre parlato tanto bene. Sì, ok, ma la Bonino vuole anche bloccare la spesa pubblica, il che potrebbe indirettamente portare a qualche altro taglietto di macelleria sociale: qualche altra fabbrica nel frattempo delocalizzerà all’estero, lasciando a piedi operai che disperati se la prenderanno coi migranti che abbattono il costo dei lavori più umili, e alla prossima tornata voteranno per chi i barconi dei migranti vuole accoglierli a cannonate, e non è pazzesco che quei poveracci che votano così male abbiano diritto a votare quanto te, che invece sei capace di ragionamenti così raffinati e speri… che la Bonino abbia bisogno del tuo voto per fare una sfuriata a Minniti. Non ti viene il dubbio che ti stiano un po’ prendendo in mezzo, la poliziotta buona e il poliziotto cattivo? Se vuoi davvero mandare un messaggio al Pd, perché non spedisci una cartolina? Scrivi uno status su Facebook, annoia i tuoi lettori sul blog, ce ne sono di modi più efficienti per mandare messaggi. Magari vuoi avvertire che il Pd si sta spostando troppo a destra, beh, di solito il Pd capisce l’esatto contrario: “a sinistra c’è disaffezione, proviamo ancora un po’ più a destra”. Che ottuso. Ma non è che si possa pretendere molto di più da un mucchio di crocette su fogli piegati in quattro... (continua su TheVision)
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Fuori dall'Italia i libri sacri anticostituzionali, dai

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Giura sul Vangelo, sfoggia un rosario: ma chi è questo nuovo integralista cattolico che avanza da destra? L’ex comunista padano, Matteo Salvini in un comizio a Milano ha giurato di “applicare davvero la Costituzione rispettando gli insegnamenti del Vangelo”. Un libro sacro e una costituzione laica possono andare d’accordo? Tutto sommato sì. È Salvini che non sembra c’entrare molto con entrambi: ce lo vedete nel Vangelo, a scacciare con la ruspa il Buon Samaritano? O tra gli apostoli a polemizzare con Gesù Cristo che rifiuta di prendere una posizione coerente contro l’Unione Europea del tempo, l’Impero Romano? Quanto alla Costituzione, basta aprirla a pagina uno: l’articolo 8 dice che tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge, ok, che problema c’è? C’è che appena una settimana fa Salvini, a “Speciale Fatti e Misfatti” (TgCom24), ha dichiarato che una volta al governo metterà “lo stop”, “il veto”, a “ogni presenza islamica organizzata, regolare o abusiva in Italia”. Insomma, se vince Salvini i musulmani non potranno né organizzarsi né nascondersi: dovranno levare le tende? Sono quasi due milioni, di cui trecentomila cittadini italiani: è difficile pensare che il leader leghista stia parlando sul serio. Il suo punto di vista merita comunque di essere discusso, se non altro perché è condiviso da una parte della popolazione ormai maggioritaria: “L’Islam è incompatibile con i nostri valori e la nostra cultura,” afferma. “L’Islam applicato alla lettera, il Corano applicato alla lettera […] sono atti di violenza”. Il che peraltro è vero.






Momenti di preghiera nelle città di Torino, Milano e Roma

Esatto, ho appena dato ragione a Matteo Salvini.
Applicare il Corano alla lettera sarebbe senz’altro un atto di violenza. Basta leggere qualche versetto, per esempio quelli sulla condizione femminile. È un libro che comincia con Allah che dice alla prima donna: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (GE 3,16). In un’altra sura si legge: “Dalla donna ha avuto inizio il peccato: per causa sua tutti moriamo” (SI 25,24); “se non cammina al cenno della tua mano, toglila dalla tua presenza” (SI 25,26). Non è certo tra queste pagine che troveremo anche la minima ispirazione all’emancipazione femminile: (“Motivo di sdegno, di rimprovero e di grande disprezzo è una donna che mantiene il proprio uomo”) (SI 25,21).



Persino nella preghiera comune le donne sono ghettizzate: “Non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in pubblico” (CO I 14,34-35). Da queste pagine nasce anche il barbaro costume del velo: “L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Allah; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli” (CO I 11,5-10). Il profeta: non concede “a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo […] Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia” (TI I 2,12-15).






Se, malgrado tanta modestia e tante barriere, un uomo riuscisse comunque a vederla e a desiderarla, il consiglio del Profeta è dei più drastici: “Vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi organi, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna” (MT 5,28-29). Che altro dire? Il Dio del Corano è un Dio della guerra (“Non sono venuto a metter la pace, ma la spada”), determinato a portare la sua jihad fin dentro all’istituzione famigliare (“Sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera”). Un libro del genere, se applicato alla lettera, non può che ispirare atti di violenza e di prevaricazione.
Quindi Salvini ha ragione. Bastano anche solo i versetti che ho citato per dimostrarlo.

Salvo che... (continua su TheVision)
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Il Classico è uno status dell'anima

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In questi giorni potreste aver sentito parlare di un boom delle iscrizioni al liceo classico – indovinate un po’: non esiste. A crescere (ma appena dell’1%) sono le iscrizioni al liceo in generale: da settembre lo frequenteranno 54 nuovi iscritti su 100. Tra questi, 24 sceglieranno lo scientifico e nove il linguistico. Soltanto in sei andranno al ginnasio: un dato in linea con quello del 2017. Eppure si insiste sul “boom”, soprattutto sulla stampa locale: il Secolo XIX saluta il “ritorno della classicità” perché a Savona ci sono “quasi una decina di iscritti in più”. Il Tirreno invece parla di un “Rinascimento del liceo classico” perché al Machiavelli di Lucca le iscrizioni sono aumentate di ben tre unità. Nel frattempo il Corriere della Sera scomoda l’ex prof. Roberto Vecchioni per domandargli perché gli studenti “tornano oggi a desiderare una formazione classica”: lui non si fa cogliere impreparato e spiega che si tratta della reazione a un “vuoto di valori”, vecchio asso pigliatutto che la persona colta sa giocare davanti a qualsiasi fenomeno sociologico, esistente o no. Perché aumentano gli scippi / i tossicodipendenti / i bitcoin / gli iscritti al ginnasio? Vuoto di valori. Funziona così bene che Vecchioni la usa sia quando i licei perdono gli iscritti, sia quando ne guadagnano.

Il fatto è che quando si parla del Classico sembra impossibile restare calmi. Il tono dev’essere sempre o tragico o trionfale. Qualcuno fa una critica? “Il liceo classico è sotto assedio”. Qualcuno lo trova tutto sommato un percorso formativo interessante? Non basta: come minimo bisogna scrivere che è “una scuola modello per l’occidente“, oppure “il meglio dell’Italia e della sua memoria, la nostra eccellenza, il modello nazionale per il quale ancora, ogni tanto, ci distinguiamo nel mondo“. Nei periodi in cui le iscrizioni calano (e fino a qualche anno fa il calo era sensibile) si paventa la fine della civiltà come la conosciamo: invasioni barbariche, cavallette e sale sulle rovine; per poi riscuotersi e inneggiare a un nuovo umanesimo appena la tendenza si inverte, come è logico che sia. Gli economisti parlano di dead cat bounce: anche un gatto morto rimbalza se cade da molto in alto. Un liceo che quest’anno dichiara il tutto esaurito può essere lo stesso che qualche anno fa ha chiuso una classe intera e ora non avrebbe più risorse per riaprirla. Non importa: nel frattempo gli articoli entusiasti vengono condivisi sui social, dove la prosecuzione telematica degli sfottò tra maturandi classici e scientifici degenera spesso in una specie di assedio: ex ginnasiali contro il resto del mondo.

Perché in effetti, nella stragrande maggioranza dei casi, chi afferma l’importanza dell’istruzione classica l’ha a sua volta ricevuta. È un’osservazione banale (solo chi ha studiato Tucidide in lingua originale può rendersi conto se l’esperienza gli è stata utile o no): chi difende il Classico sta difendendo il proprio percorso di crescita. Molto spesso si tratta di una persona che nella vita ha avuto successo, il che non lo mette al riparo da quella distorsione cognitiva che in inglese si chiama survivorship bias, la tendenza a leggere la Storia nella versione tramandata dai vincitori. Con gli anni, chi è soddisfatto di sé tende a ricordare con riconoscenza gli insegnanti che lo hanno formato, e le esperienze che ha fatto (comprese le versioncine di Velleio Patercolo: col tempo rivaluti le cose più ridicole). Magari avrebbe ottenuto gli stessi risultati anche in un’altra scuola, con altri insegnanti, e anche se invece di tradurre Velleio si fosse cimentato col calcolo integrale, o con la grammatica tedesca. Ma non può saperlo. Se gli chiedono un parere sul liceo, lui offrirà un parere sulla sua esperienza. Magari ribadirà la vecchia idea del Classico che “apre la mente”, anche se non offre competenze immediatamente spendibili, anzi proprio per questo: un luogo comune contro-intuitivo che però è strenuamente difeso da esperti che molto spesso nei classici per coincidenza ci lavorano. Nessuno sembra voler ricordare che il liceo classico, oltre a essere quella famosa fucina di intelligenze eclettiche che il mondo ci invidierebbe, è stato sempre per anni uno status symbol: ancora adesso ci vanno i rampolli delle buone famiglie, non necessariamente i più dotati o motivati. Gli stessi poi proseguivano attraverso l’università, approdando a un buon posto di lavoro a cui erano destinati, spesso non per i meriti maturati studiando i classici.

Questo potrebbe spiegare l’unico vero dato eccezionale delle nuove iscrizioni (non proprio un “boom”, ma quasi): in tre anni a Milano sono passate dal 3% all’8%; trenta studenti sono ancora in attesa di assegnazione perché nei classici milanesi non c’è posto. Come se il “vuoto di valori” denunciato dal prof. Vecchioni fosse localizzato nella Lombardia occidentale. Più probabilmente Milano si sta allineando con Roma, dove i ginnasiali sono sempre stati più numerosi. È una città sempre meno industriale e sempre più proiettata nel terziario avanzato – la seconda città lombarda, Brescia, ancora molto ancorata alla realtà industriale, ha il record inverso: più iscritti agli istituti che ai licei. C’è chi sostiene che gli studi umanistici possano addirittura avvantaggiare chi cerca un impiego in un mondo del lavoro in costante evoluzione. Chi difende il Classico in questi casi spesso non si accorge di averlo tradito, nel tentativo di trovare applicazioni pratiche a quell’otium studiorum che orgogliosamente le rifiutava. Cosa c’entrano gli studi umanisti con l’alternanza scuola-lavoro che avrebbe umiliato qualsiasi discepolo di Quintiliano? Del resto il Classico-classico era una scuola che prevedeva due sole ore di lingua straniera alla settimana, e solo nel biennio del ginnasio: se uno dà un’occhiata alle offerte formative del Parini o del Berchet si rende subito conto che un liceo così classico, oggi, almeno a Milano non esiste più.

È chiaro che in una città dove le professioni sono in costante evoluzione gli studenti (e le famiglie) siano portati più spesso a optare per un corso di studi che non offre nessuna specializzazione ma promette di mantenere un’offerta educativa di qualità. Il paradosso del Classico è che in realtà sarebbe una scuola ad alto livello di specializzazione, se davvero sfornasse latinisti e grecisti – ma siamo tutti abbastanza d’accordo sul fatto che non serva a questo: le ore passate sul latino e sul greco non servono davvero a imparare il latino e il greco – due lingue che la maggior parte degli ex liceali non riesce più a decifrare pochi anni dopo il conseguimento del diploma. Quel che importa, quel che è sempre importato, è che siano due materie difficili. Più difficili del calcolo integrale o del coding? Non si sa, ma tutti pensano di sì, e questo è l’importante: le materie difficili e prive di sbocchi occupazionali immediati ti consentono di fare selezione all’ingresso.

Il Classico è ancora uno status symbol, o almeno è percepito come tale (ma c’è differenza?) Non è una cosa che i presidi possano scrivere nel Piano dell’Offerta Formativa; in compenso vi sarà capitato di leggere qualche Rapporto di Autovalutazione stilato da un insegnante o un funzionario un po’ troppo sincero (magari non sapeva che il Rapporto sarebbe stato pubblicato sul sito del ministero, e scambiato dalla stampa per “pubblicità classista”). Nel tal liceo ci sono pochi stranieri e neanche un disabile; in quell’altro si lamenta la presenza dei “figli dei portinai”. Il liceo classico è anche questo. Lo è sempre stato: la scuola per i rampolli di buona famiglia. Magari la famiglia non è così buona, ma mandando il ragazzo/a al classico spera che possa salire quel gradino sociale che evidentemente ancora esiste. Chi ricorda con affetto gli anni del liceo tende sempre a non far caso a quella cosa: i pesci non fanno caso all’acqua. Questo non significa che il Classico non possa davvero essere una formidabile palestra di vita. Seneca e Orazio possono davvero aprirti la mente; Tacito può davvero allenarti alla complessità. Ma forse è più facile che succeda in una classe piccola, senza compagni “problematici”.
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Quando i citofoni erano bianchi (e gli hacker giocavano ai "videogames")

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Michele Serra non capisce gli hacker. È stato lui stesso a sentire l’esigenza di spiegarcelo, qualche giorno fa, quando la polizia postale ci ha informato di aver identificato Evariste Galois. Galois l’estate scorsa aveva bucato Rousseau, il cosiddetto sistema operativo del Movimento Cinque Stelle. Nell’occasione Galois si era dimostrato un perfetto “white hat”, o hacker etico: lo scopo della sua intrusione non era rubare dati sensibili, ma segnalare ai gestori del sito una vulnerabilità (evidentissima, peraltro). Secondo Serra avrebbe fatto meglio ad “accontentarsi dei videogames, o dei tornei di matematica”. “Non capisco che cosa spinga lui [l’hacker] e i suoi simili al virtuosismo informatico, alla violazione di ogni porta, alla messa a nudo di ogni meccanismo. Una destrezza fine a se stessa, come i free-climber ai quali non interessa la vetta, ma la bellezza del gesto?”

Magari, anche, perché no. Ma tra i tanti bei gesti che può commettere un virtuoso o uno sportivo, avvisare il pubblico e i gestori di un sito delle falle di sicurezza non sembra davvero il più fine a se stesso. A quel punto, se i gestori del sito fossero stati tempestivi, non ci sarebbe stata nessuna fuga di materiale sensibile: ma non lo furono, e nel giro di pochi giorni i dati furono trafugati da un hacker “black hat”, Rogue0, che li mise in vendita: anche lui a quanto pare è stato identificato dalla polizia postale, ma tutto ciò a Michele Serra pare non interessare.
E a questo punto forse qualcuno ha già un forte sospetto su dove voglio andare a parare: un altro pezzo sugli editorialisti di mezza età che non riescono più a parlare ai giovani? Babyboomers contro millenials, ancora? Ecco, in realtà no. Anzi forse il problema è proprio l’opposto: questa non dovrebbe essere una questione generazionale. Per quanto possano essere giovani Evariste e Rogue0, quello che hanno fatto (bucare un sito) è una prassi vecchia quanto l’informatica, e l’informatica non è poi giovane: se assumiamo che sia nata mentre Alan Turing tentava di bucare Enigma, è un po’ più vecchia di Serra. Che per quanto ormai ami crogiolarsi nel suo personaggio di gentiluomo di campagna, quando al cinema uscì Wargames aveva trent’anni. Più di trent’anni dopo, la figura dell’hacker che passa sui quotidiani italiani assomiglia ancora terribilmente al personaggio interpretato da Matthew Broderick all’inizio del film, che per far colpo su una ragazza entrava nel registro elettronico della sua scuola per alzarle la media (a metà film aveva già bucato il Pentagono e portato il pianeta a un passo dalla Guerra Termonucleare Globale). Un ragazzo che si mette a giocare e combina solo disastri. Perché non si concentra sui “videogames”?


Nel frattempo il paesaggio tutt’intorno è parecchio cambiato. Oggi milioni di italiani usano internet non ancora per dichiarare la guerra al vicino, ma controllare gli estratti conto, votare i candidati Cinquestelle, prenotare visite mediche o i colloqui con gli insegnanti dei figli – sì, adesso anche nelle scuole statali c’è il registro elettronico! Ci abbiamo messo trent’anni, ma oggi anche i nostri insegnanti possono essere bucati come quelli di Matthew Broderick nel 1982. L’hacking non è mai stato un argomento così importante come oggi, e non per i “giovani”. Non sono i giovani d’oggi a temere che il sito della loro azienda venga bucato o defacciato; o a rischiare un infarto se scoprono che il loro pc è stato infettato da un ransomware (una minaccia che a volte viene sventata proprio dagli hacker). Sono rischi concreti per milioni di italiani.



A proposito di milioni di italiani: la stessa sera in cui si stampava l’Amaca di Serra sugli hacker, dal teatro Ariston di Sanremo Biagio Antonacci invitava il pubblico in eurovisione a metter via i cellulari e a usare il citofono (continua su TheVision...) Una battuta fantastica, che in poche parole mette a fuoco l’universo strapaesano del Festival della Canzone: l’Italia come un enorme villaggio in cui tutti i tuoi amici non possono che vivere a qualche isolato da casa tua – e se per tenerti in contatto con loro usi whatsapp è solo perché sei pigro, pigro, dai, valli a suonare (chissà poi Antonacci a che numero civico sta). E poi questa idea che esista una tecnologia cattiva, alienante, disumana (lo smartphone) e una buona, rassicurante (il citofono). Vengono in mente le regole di Douglas Adams sulla tecnologia: “Qualunque cosa esista nel mondo quando nasciamo, ci pare normale e usuale e riteniamo che appartenga per natura al funzionamento dell’Universo [...] Qualunque cosa sia stata inventata dopo che abbiamo compiuto trentacinque anni va contro l’ordine naturale delle cose”. È quell’“ordine naturale” che viene descritto in tanti film italiani dove tutte le tecnologie che hanno radicalmente cambiato la nostra vita negli ultimi trent’anni sono sempre descritte come orpelli inutili e dannosi di cui è necessario liberarsi per riscoprire un’esistenza più pura, magari in una masseria in Puglia, un casolare in Toscana o in qualche altra angolo remoto dove il cellulare non prende (ormai solo nella finziona cinematografica), ma il citofono, lui sì. L’ultimo film di Federico Moccia si intitolava proprio Non c’è campo. In una delle commedie più viste l’anno scorso, Beata ignoranza, due insegnanti con un approccio antitetico alle tecnologie si scambiano i ruoli: Alessandro Gassman buttando via il cellulare, ovviamente, riscopre il piacere dell’interazione sociale (ovvero si iscrive a un corso di teatro). Marco Giallini, che orgogliosamente si teneva al di fuori da ogni social network, fa una rapida immersione in un mondo insano, gioca agli sparatutto coi suoi studenti e verifica che le recensioni on line dei ristoranti sono tutte false.

Perché gli sceneggiatori italiani, i cantanti italiani, i giornalisti italiani, si fidano così poco delle nuove tecnologie – che pure adoperano quotidianamente? È come se ci trattassero tutti come Cazzullo tratta i suoi figli: metti via quel cellulare. L’ipotesi più semplice è che siano gelosi: su quel cellulare ci può essere un articolo più interessante di quello di Cazzullo o di Serra, o un film più divertente delle commedie italiane in sala, o una canzone più originale dell’ultimo successo di Antonacci. Più in generale, si percepisce la sensazione che queste nuove tecnologie, per quanto comode, non siano che passeggere: qualcosa che prima o poi se ne ritornerà da dove è venuto, e saremo di nuovo liberi di contemplare i tramonti e chiamarci al citofono. Dietro a questo fastidio per la modernità, c’è un’osservazione persino banale: la rivoluzione digitale è qualcosa che ha completamente spiazzato la nostra industria. Non ce l’aspettavamo: l’abbiamo vista arrivare e salvo qualche eccezione quasi miracolosa non siamo stati nemmeno capaci di inseguirla. A un certo punto è come se ci fossimo semplicemente seduti in un angolo, gli occhi chiusi, nell’attesa irrazionale che tutto questo passi.
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Marco Minniti ha visto un mostro

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Marco Minniti è il ministro degli Interni. Già ai tempi di Renzi (e Letta), era sottosegretario con delega ai servizi segreti. Qua fuori magari c’è gente che si spaventa per un nonnulla, ma Marco Minniti, in virtù della sua posizione e della sua esperienza, è probabilmente la persona che conosce meglio di chiunque in Italia il quadro generale. Se fossimo alla vigilia di una rivolta di popolo, Minniti dovrebbe essere il primo a rendersene conto. Se fossimo alle soglie di una guerra civile, il primo a farsene un’idea dovrebbe essere lui. Tutto questo, che a noi può sembrare improbabile, se c’è qualcuno che può vederlo è Minniti.
Marco Minniti a un certo punto ha visto qualcosa di orribile. Qualcosa che nessun altro ancora ha visto, e che lo ha terrorizzato. E non ha terrorizzato un politico qualsiasi, uno di quelli che si allarmano per una sciocchezza e per mestiere; ha talmente preoccupato proprio Marco Minniti, da spingerlo a zelanti iniziative: a concludere accordi svilenti; a fornire, secondo Amnesty International, navi ai miliziani libici a cui è stato di fatto subappaltato il respingimento dei migranti; rinnegare quello che fino a qualche anno fa era considerato un tratto irrinunciabile della nostra identità nazionale: l’umanità. Tutto questo Minniti non può averlo fatto semplicemente per l’orgoglio di annunciare che quest’anno è sbarcato qualche migliaio di disperati in meno. O per spostare un po’ la lancetta dei sondaggi verso il centrosinistra. No. Se Minniti ha fatto quel che ha fatto è perché deve aver visto Qualcosa.
Lo aveva visto già sei mesi fa, lo ha ribadito ieri. Noi magari pensavamo che cinque milioni di stranieri residenti in Italia non costituissero un’invasione; che fossero, viceversa, quasi indispensabili al bilancio demografico e alla vitalità del Paese; che al netto del fenomeno della clandestinità, non delinquessero molto di più degli italiani; che contro di loro si stesse montando su tv e organi di stampa una squallida campagna di propaganda con evidenti finalità elettorali. Stolti che siamo stati. Se abbiamo creduto in tutto questo, è perché non abbiamo visto quello che hanno visto gli occhi da oracolo di Marco Minniti.
Deve aver scorto la sagoma di un mostro, tratteggiata in qualche rapporto top secret o sondaggio confidenziale: uno di quegli esseri impossibili alla Cloverfield, che è impossibile racchiudere in un solo sguardo perché sono più grandi di qualsiasi cosa, e sfidano ogni possibilità di essere descritti e definiti. Una Bestia assetata di sangue che in qualsiasi momento potrebbe sorgere dalle viscere dell’Appennino – basterebbe la minima sollecitazione, lo sbarco in Sicilia di appena qualche centinaio di stranieri in più. A quanto pare, però, questa orripilante creatura per ora si limita a far perdere la ragione a qualcuno. Ma ecco: se un leghista un po’ impressionato da quel che ha sentito al telegiornale si mette a girare per Macerata tirando a tutti gli afro-italiani che trova, Minniti se l’aspettava e non si è fatto trovare impreparato. “Traini, l’attentatore di Macerata, l’avevo visto all’orizzonte dieci mesi fa, quando poi abbiamo cambiato la politica dell’immigrazione”. Non c’è dubbio che la politica sia cambiata – quanta gente sia annegata a causa di questo cambio di politica, per contro, non lo scopriremo mai. La politica è stata cambiata, eppure questo non ha impedito a Traini di innervosirsi davanti a un Tg e di prendere la pistola in mano: oppure dobbiamo pensare che la tentata strage di Traini sia il male minore e che senza l’intervento di Minniti sarebbe successo qualcosa di molto più grave.
Qualcosa di più grosso ribolle nelle viscere di questo Paese e potrebbe risvegliarsi con un nonnulla, ad esempio una manifestazione antifascista. Il sindaco di Macerata ha chiesto ad ANPI, ARCI e CGIL di non venire a testimoniare la propria solidarietà ai feriti – un’attestazione di umanità che potrebbe infastidire la Bestia – e Minniti ha espresso soddisfazione. Ha anche aggiunto che in ogni caso è pronto a vietarle lui, le manifestazioni. A vietare anche una manifestazione antifascista. Promossa dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Nella città dove un leghista si è esercitato per mezza giornata al tiro all’africano, e poi si è fatto trovare coperto dal tricolore davanti a un Monumento ai Caduti. Ai nostri ciechi occhi tutto questo parrebbe alquanto paradossale.
Ma diciamo pure che non è successo niente di grave, niente di cui ci si debba troppo vergognare o per cui ci si debba troppo allarmare. Salvini ha già spiegato che sono cose che succedono se in giro ci sono troppi immigrati; Renzi è disposto ad ammettere che ci sia stato un po’ di razzismo nel deprecabile gesto di Traini, ma “non sa se chiamarlo terrorismo”:  come se quella parola potesse infastidire la Bestia.


Una Bestia che a questo punto davvero ci si domanda che contorni possa avere... (continua su TheVision)
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Liberi e non troppo uguali a Corbyn

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Compreremo ottomila case. Non è andato proprio per il sottile, Jeremy Corbyn, quando domenica scorsa Andrew Marr della BBC gli ha chiesto cosa avrebbe fatto il Labour per i senzatetto britannici. Potrebbe sembrare la classica promessa elettorale, salvo che le elezioni ci sono già state, ma a questo punto nel Regno Unito potrebbe succedere davvero qualsiasi cosa – qualcuno comincia a parlare di un secondo referendum sulla Brexit. L’approccio di Corbyn è quello di un solido marxista che dietro a ogni fenomeno riconosce la sagoma della lotta di classe: la polemica contro gli speculatori che lasciano le case sfitte in attesa che i prezzi risalgano è un suo tradizionale cavallo di battaglia. Dietro allo spot populista (compriamo subito ottomila case, nessuno dormirà più per strada) c’è quindi l’abbozzo di un programma sociale: daremo alle autorità locali il potere per requisire le abitazioni che non vengono deliberatamente immesse nel mercato. C’è l’identificazione di un nemico di classe: il proprietario che non vende o non affitta. Lui probabilmente non voterà Corbyn, e Corbyn senz’altro il suo voto non lo chiede.
Questa è forse la differenza più grande coi gentisti italiani: anche loro, ultimamente, in fatto di promesse non scherzano. Ma quando poi si chiede a Di Maio dove troverà la copertura per il reddito di cittadinanza, o a Berlusconi dove raccatterà i soldi per portare la pensione a mille euro (specie se nel frattempo Salvini pretende la flat tax), la risposta è sempre un po’ vaga. Il populismo italiano è un fenomeno trasversale che rifugge la lotta di classe e si basa sull’idea che da qualche parte esista un immenso tesoro, un serbatoio di risorse intatte a cui lo Stato ancora non ha attinto a causa della malignità dei suoi rappresentanti. “Aboliremo gli enti inutili!” propone Di Maio, forse senza sapere che se ne parla almeno da 40 anni e che molto è stato già abolito – ma non importa, da qualche parte probabilmente esistono ancora milioni di euro da redistribuire ai disoccupati. E poi, naturalmente, si possono mandare a casa i politici (che in effetti hanno sempre meno soldi per la campagna elettorale, e questo per ora sembra renderli più disperati e rapaci), e che altro c’è? Le banche avide (ma molto spesso sono in sofferenza), i dipendenti pubblici fannulloni (ma quanti saranno?), gli insegnanti che invece di fare 18 ore alla settimana potrebbero farne di più (ma ne fanno già molte di più) e, stavamo per dimenticarli, gli evasori fiscali. Ma di quelli Berlusconi, Grillo (e Casaleggio) hanno sempre parlato poco.
Ne parla più volentieri la sinistra – già, perché c’è anche una sinistra che andrà alle elezioni in Italia. Neanche a farlo apposta, poche ore dopo la dichiarazione di Corbyn è stato pubblicato il programma elettorale di Liberi e Uguali, il movimento che proprio dal Labour sembra avere copiato almeno lo slogan (“Per i molti, non per i pochi”). Si parla di alloggi per i senzatetto, nel programma di LeU?
Se ne parla, sì: e meno male, visto che i senzatetto che nel Regno Unito vengono considerati un’emergenza sono intorno ai quattromila, mentre in Italia l’Istat ne conta molti di più: cinquantamila nel 2014. Ciononostante l’argomento non scalda la campagna elettorale (i senzatetto non votano) e anche LeU dedica a tutta la questione della prima casa appena due righe al capitolo Welfare: “La crisi ha lasciato in eredità un enorme patrimonio immobiliare abbandonato che pesa sui bilanci delle banche. Dalla sua acquisizione, come abbiamo già detto, può venire una risposta importante all’esigenza di tornare a rendere effettivo il diritto alla casa”. Più su in effetti si era proposta “la creazione di un fondo pubblico per l’acquisizione dei crediti in sofferenza garantiti da immobili, da destinare all’edilizia popolare con affitti calmierati”. Sono proposte di buon senso, molto tecniche e che svelano un approccio piuttosto distante da quello di Corbyn. Per lui una bella casa sfitta è un’ingiustizia, e il fondo immobiliare che la possiede l’evidente nemico; per LeU il patrimonio immobiliare abbandonato “pesa sui bilanci delle banche”, un’espressione che tradisce un istintivo moto di pietà, del tipo “povere banche, che vi siete accollate la prima bolla immobiliare dal dopoguerra, in un qualche modo vi aiuteremo”.
In controluce, si indovina tutta la differenza tra le due storie: Corbyn è un virus vetero-marxista che è sopravvissuto nel Labour a ogni vaccino blairiano, fino a prendere il sopravvento. Mentre i Liberi e gli Uguali che si stringono intorno al cartellone di Pietro Grasso sono per lo più amministratori, che con le banche dei loro territori hanno un’antica familiarità: conoscono i loro limiti e non saprebbero chiamarle nemiche nemmeno quando si tratta di spararle grosse in campagna elettorale.Con tutto questo, da elettore di sinistra non mi sento davvero di poter fare lo schizzinoso:
Con tutto questo, da elettore di sinistra non mi sento davvero di poter fare lo schizzinoso... (continua su TheVision)
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Senza Sinistra Sulle Schede (Si Sopravvive) (Spero)

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Lo sapete che la sinistra è in crisi? Lo è più o meno da sempre, almeno nella narrazione dei quotidiani. Lo è per definizione: mentre la destra fa paura, sempre sul punto di svoltare, la sinistra è divisa, disorientata, eccetera. Serve un esempio? Questo è appunto il mestiere del commentatore. Trovare ogni tot giorni un esempio diverso.

Lo spunto dell’ultima settimana: pare che sulle schede elettorali, per la prima volta dopo tanti anni (ma quanti?) non vedremo più la parola “sinistra”. In realtà qualche fortunato avrà modo di vederla ancora, nel bollino col quale si presenteranno insieme i principali partiti trotzkisti italiani, che sono appena due. Folklore a parte, le formazioni di sinistra che hanno qualche chance di sbarcare in parlamento (Potere al Popolo, Liberi e Uguali) hanno rinunciato a mettere nel simbolo la parola che comincia per S. Quanto al PD, com’è noto, la “S” l’ha rottamata ben prima che arrivasse Renzi: già nel 2007, quando gli allora Democratici di Sinistra si fusero con i post-democristiani e centristi della Margherita. Risultato: a 22 anni dalle elezioni del ‘96 (in cui il partito più votato in Italia risultò proprio quello dei DS) gli elettori italiani non troveranno “sinistra” sulla scheda. È un fatto grave?

No.

Ma è interessante notare come viene raccontato, con quell’attenzione per il bicchiere mezzo vuoto che è necessaria a chiunque voglia parlare di sinistra (e quindi di crisi). Si dà per scontato che qualsiasi novità debba coincidere con qualcosa di negativo: se non c’è più la parola “Sinistra” ci stiamo senz’altro perdendo qualcosa. Qualcosa che c’era già, e quindi senz’altro è qualcosa di antico, e di nobile. Qualcosa che non riusciamo più a recuperare perché siamo in crisi. Nota: questo modo di pensare è in assoluto l’atteggiamento meno “di sinistra” che si possa immaginare. L’attenzione maniacale alle tradizioni antiche o presunte tali è quello che ci si aspetterebbe dalla destra: ma appunto, in Italia la destra si racconta in tutt’un altro modo. È scaltra, si annida, prolifica nell’ombra e al momento giusto prenderà il sopravvento. Se la destra rinunciasse all’improvviso al suo nome, i commentatori non penserebbero che è in crisi. Sagacemente suggerirebbero che si stia mascherando per ottenere più consensi. Il problema in realtà non si pone, perché la destra ha usato raramente la parola “Destra” sui suoi bollini elettorali. E invece, la Sinistra, l’ha usata poi così spesso?

Neanche tanto... (continua su TheVision)
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Al di là del Partito del Piacere

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C’è mai stata una campagna elettorale tanto simile a un saldo di fine stagione? Sarà che Berlusconi non ha più niente da perdere; sarà che il M5S ha più voglia di lanciare promesse assurde che di vincere (col rischio poi di doverle mantenere); sarà magari anche la stagione, la depressione post-natalizia; proprio mentre stiamo lentamente elaborando la delusione per non aver trovato sotto l’albero quello che desideravamo, ecco che arriva Di Maio con uno scrigno pieno di Reddito di Cittadinanza. Ma da dietro spunta Berlusconi e promette di togliere tasse per sei anni a chiunque ci assuma a tempo indeterminato, se le elezioni le vince lui. Quanto a Pietro Grasso, lui non vince di sicuro ed è un peccato, sennò potremmo tornare all’università gratis, magari riavere indietro i nostri vent’anni.


Intruppato in mezzo a questi favolosi personaggi da presepe, Matteo Renzi sembra l’imbonitore meno convinto. Si intuisce che anche lui vorrebbe partecipare al gioco; abolirci, che so, il canone in bolletta. Ma si trova inchiodato a un ruolo che non ha mai incarnato volentieri, ma che è il fardello di ogni leader italiano di Centrosinistra: il rappresentante del Principio di Realtà.

Proprio lui, che appena ieri era il più giovane: proprio a lui ora tocca il ruolo antipatico dell’adulto che fa due conti e scrolla la testa: mi dispiace, ma non ce lo possiamo permettere. Salvini vuole la flat tax? Un bel regalo ai ricchi, ma con che soldi? I Liberi e Uguali vogliono l’università gratis per tutti? Non sarebbe poi un’idea così fantascientifica, per esempio in Danimarca qualcosa del genere c’è, ma qui da noi manca la copertura (la Danimarca ci piace solo quando licenzia facile). Il Principio di Realtà, spiegava Freud, non è opposto al più infantile Principio del Piacere, ma ne è per così dire una versione più evoluta, modellata dalle stesse “pulsioni di autoconservazione dell’ego”: è come se per tutti noi venisse una specie di 7 gennaio della vita in cui capiamo che non possiamo alimentarci per sempre a torrone e pandoro. Dobbiamo in qualche modo accettare l’idea che esiste il diabete, esistono i lunedì, le tasse, i debiti e tutte queste cose orrende e insormontabili che compongono la dimensione chiamata realtà. Un momento del genere arriva persino per gli italiani, più o meno ogni otto/dieci anni: è l’unico momento in cui la sinistra ha qualche chance di vincere le elezioni. Peccato che dopo averle vinte non possa fare quasi nulla di sinistra...

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Dell'Iran (non capiamo niente)

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L’Iran non è mai quello che ti aspetti. Quando verso la fine di dicembre abbiamo iniziato a sentir parlare di proteste, la prima immagine che abbiamo messo a fuoco era quella di una donna giovane che si toglieva il velo e lo sventolava in una strada di Teheran. Semplice e perfetta. Per Roberto Saviano era “il simbolo della rivolta in Iran. Non una rivolta contro il velo ma contro l’obbligo del velo”.

Nel giro di poche ore abbiamo però scoperto che la foto, per quanto potente, non aveva a che fare con le proteste, che non erano nate a Teheran ma a Mashhad (seconda città dell’Iran) e che non sembravano riguardare il velo, ma i rincari dei prezzi e le difficoltà economiche causate da una crisi finanziaria. È una protesta molto diversa dall’Onda Verde del 2009, scriveva una settimana fa sul New York Times lo scrittore iraniano-americano Amir Ahmadi Arian. A protestare non è la classe media, ma quella metà della popolazione a cavallo della soglia della povertà (40 milioni di iraniani): “la folla dei mangiapatate”, come li definisce il giornalista dissidente Ebrahim Nabavi. È una classe sociale che non solo non ha il velo tra le proprie priorità, ma che osserva con rabbia crescente lo spettacolo dei giovani rampolli iraniani, la riccanza locale che ostenta un lifestyle ben poco islamico. “I giovani ricchi iraniani si comportano come una nuova classe aristocratica, inconsapevoli delle origini della loro ricchezza”, scrive Arian. Quel che è peggio è che la postano su Instagram, su account eloquenti come TheRichKidsOfTeheran (“Questo è RKOF, ti avvertono: se sei politicamente frustrato, scoreggiati altrove”). Altro che obbligo di portare il velo: qui c’è gente che posa in bikini a bordo piscina, semplicemente perché può permetterselo (continua su TheVision).


Ci aspettavamo un movimento per i diritti civili, per la libertà di espressione, e invece questi mangiapatate se la prendono per cose proletarie come il carovita. Pensavamo che le protagoniste delle dimostrazioni fossero le donne, ansiose di togliersi il velo, e invece a dominare la scena sono gli iraniani delle aree rurali, ostili verso chi il velo può permettersi di toglierlo, in barba alla shari’a. Speravamo che gli smartphone li avrebbero aiutati a coordinarsi e a comunicare con l’estero (via Telegram e Signal), e invece salta fuori che molto spesso si riducono a uno spaventoso catalizzatore di invidia sociale (via Instagram). Ci aspettavamo una protesta civile, nonviolenta, come l’Onda del 2009, e abbiamo una massa scomposta e forse manovrata dalla frangia ultraconservatrice: l’ex presidente Ahmadinejad sarebbe agli arresti con l’accusa di aver “incitato alla rivolta”. Durante i suoi mandati le cooperative di credito avevano attirato i piccoli risparmiatori, offrendo interessi inverosimili e mandandoli sul lastrico: quando il governo del successore Rouhani ha tentato di normare il settore il sistema è crollato come un castello di carte e ora chi ha perso tutto se la prende con i politici.

Le cose probabilmente sono ancora più complicate di così, soprattutto ora che la protesta è arrivata a Teheran ed è diventata più interclassista. Azar Nafisi (l’autrice di Leggere Lolita a Teheran) su Repubblica domenica scorsa ha ribadito che le donne sono “sempre in prima fila”, e che “stanno portando avanti questa campagna contro il velo”, anche se “non è contro il velo e basta che si battono. È in nome della libertà di scelta…” Anche la Nafisi è un’esule, vive negli USA: uno dei motivi per cui facciamo fatica a raccapezzarci su quanto accade in Iran è che molte delle informazioni filtrano attraverso i contatti – complicati – mantenuti da parte di chi è fuggito. I corrispondenti esteri sono pochi e faticano a uscire da Teheran, che come tutte le capitali non è la città più adatta a capire quel che succede nel Paese profondo.

In una situazione del genere è abbastanza normale che ciascuno proietti sul mistero dell’Iran le proprie ombre: e il velo in questi casi è sempre la prima cosa di cui si parla, il dettaglio più appariscente. Può darsi che non sia l’attuale priorità dei manifestanti che scendono nelle strade a rischio della propria vita: ma di sicuro è una nostra priorità, di occidentali globalizzati che con le donne velate nei luoghi pubblici hanno appena cominciato a convivere, perlomeno in Italia. Forse per gli iraniani il velo è davvero un simbolo, di sicuro lo è per noi. Ed è di noi che stiamo parlando quando crediamo di parlare dell’Iran. Una popolazione povera che protesta contro un brusco rincaro dei prezzi (contro la fame, insomma) è qualcosa di lontano dalla nostra quotidianità, dalla nostra sensibilità. Un gruppo di donne che vuole sfilare a testa scoperta è molto più facile da capire.

L’Iran moderno è un Paese isolato che comunica per lo più attraverso i suoi dissidenti. Gran parte di loro facevano parte di una classe media che forse è quella che ha maggiormente sofferto l’avvento del regime oscurantista degli ayatollah. È lo spicchio sociale descritto con straordinaria efficacia in Persepolis, il fumetto e libro di Marjane Satrapi – anche lei esule, in Francia. La Teheran in cui cresce la protagonista è una città che partecipa alla rivoluzione del 1979 con entusiasmo. La famiglia di Marjane è relativamente benestante (la giovanissima protagonista scopre di discendere da una famiglia di principi); uno dei suoi zii è un dissidente comunista, scarcerato durante la rivoluzione e prontamente riarrestato quando i pasdaran prendono il potere. Di fronte alla notizia che gli islamici hanno stravinto le elezioni, reagisce con la flemma del materialista storico: l’Iran è un Paese di contadini – dice – è normale che votino per gli uomini di religione. La Satrapi non potrebbe raccontare la storia di quei contadini, e quel che rende Persepolis una storia straordinariamente onesta ed efficace è proprio il fatto che nemmeno ci prova: il suo è il punto di vista di una figlia della borghesia che durante gli anni della guerra assiste alla perdita dei propri privilegi. È un milieu che tenta di risollevarsi il morale organizzando feste clandestine in cui si può ancora ballare la disco e bere alcolici: fuori, in strada, pattugliano ragazzini fanatici talmente giovani che non riescono a farsi crescere la barba – l’età media della popolazione non raggiunge i 30 anni.

In una delle scene più rivelatrici, una conoscente di Marjane, costretta a chiedere un visto per far operare suo marito all’estero, scopre con orrore che il funzionario che glielo può concedere – l’uomo che ormai ha diritto di vita o di morte su suo marito – è il suo ex lavavetri. Per lo spettatore progressista occidentale è un po’ il momento della verità: fino a che punto saresti pronto ad accettare una rivoluzione? E se il ribaltamento degli assetti sociali portasse il tuo lavavetri su un gradino più alto del tuo? Dal nostro punto di vista è difficile accettare che quella del 1978-1979 sia stata una vera rivoluzione, dal momento che ha condotto l’Iran a un regime teocratico e oscurantista. Per il ceto borghese delle città è stato senz’altro un passo indietro: ma per il popolo delle campagne? Ogni tanto un quotidiano italiano ripubblica foto di donne iraniane prima della rivoluzione, a capo scoperto e vestite nelle tinte sgargianti che negli anni ‘60 e ‘70 potevano andare di moda anche da noi. Il messaggio è chiaro: la Persia dello Shah era un Paese in procinto di diventare una democrazia occidentale, gli ayatollah hanno interrotto quello che ci sembra il progresso naturale delle cose. Ma quelle foto selezionano una classe sociale ben precisa, la borghesia cittadina: nelle campagne, e nei ceti più umili, il velo resisteva. Possiamo considerarlo un simbolo religioso, e odiarlo per la sottomissione che implica, ma è anche un simbolo sociale: è la campagna (tradizionalista, clericale) che vince sulla borghesia cittadina e sulle sue velleità cosmopolite. Appena sentiamo che l’Iran si rivolta, speriamo che c’entri in qualche modo il velo: vorremmo che fosse una protesta moderna, una campagna sui diritti civili, come quelle che combattiamo in occidente e che ormai coincidono con l’agenda progressista di qualsiasi partito di centrosinistra.

Lo zio marxista di Marjane forse direbbe che abbiamo perso la coscienza di classe, e che ci siamo dimenticati che anche l’obbligo del velo è una sovrastruttura. Che le donne smetteranno di indossarlo quando conquisteranno un potere contrattuale che nella società iraniana ancora non hanno, e che conseguiranno quest’ultimo dopo aver conquistato il lavoro e il diritto di voto: perlomeno nelle nostre campagne è andata così. Allo zio, però, potremmo rispondere che le cose si sono rivelate più complesse; per esempio si è scoperto che la Storia non va necessariamente in una direzione. Si pensava che una rivoluzione sociale diretta dal clero sciita fosse un controsenso, ma è un controsenso che va avanti da 40 anni, ormai. Forse più che di progresso bisogna parlare di adattamento all’ambiente, e che finché funziona, il regime degli ayatollah ha dimostrato di sapersi adattare. Un giorno comunque finirà, perché tutto finisce: possiamo sperare che finisca presto, anche se da qui ci è impossibile capire come.
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I giornalisti italiani non parlano ai ventenni

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Buon Anno a tutti – capita anche a voi che i nuovi calendari diano le vertigini? Certi anni hanno dei nomi che da bambino associavo più ai film di fantascienza che alla possibilità di arrivarci vivo. Prendi “2018”, poteva essere il titolo giusto per un romanzo sui sopravvissuti della Terza Guerra Mondiale, non l’anno in cui cambio un lavoro o decido di comprare una macchina nuova (nemmeno volante). Ma forse la vera vertigine è notare come certe cose anche futili restino al loro posto, mentre tutto il resto (giorni, settimane, mesi, governi, legislature) accelera. Per esempio la settimana scorsa, sulla prima del Corriere, mi è capitato di leggere la parola “Tafazzi”. Ancora. Possibile?

È stato Gramellini. Dovendo definire l’autolesionismo dei senatori Pd – che hanno contribuito a far mancare il numero legale sull’ultima votazione per lo ius soli – ha deciso di evocare “il ritorno di Tafazzi”. Questa è forse una buona notizia: almeno è un “ritorno”, insomma, pare che per un po’ Tafazzi non sia stato tra noi. Non solo, ma delle venti righe che ha a disposizione, il giornalista decide di spenderne almeno un paio a spiegare di chi si tratti: per fortuna il personaggio non merita veramente più di questo. “Tafazzi era l’omino di uno sketch televisivo interpretato da Giacomo Poretti che si martellava il basso ventre a bottigliate”: davvero niente da aggiungere, a parte che gli stessi autori (Aldo, Giovanni e Giacomo) lo definivano “lo zero comico assoluto”, e lo utilizzarono per lo più in brevissime gag nella trasmissione Mai dire Goal tra 1995 e 1996. Ci siete? parliamo di una macchietta che si prendeva a bottigliate nelle palle in alcuni sketch andati in onda ventidue anni fa. Ventidue anni fa.

Com’è che ne stiamo ancora parlando?

La vertigine.

Quello che sta facendo Gramellini – quello che Gramellini è bravissimo a fare – si può definire “riferimento alla cultura pop”. Ha due precise funzioni: (1) creare complicità con chi condivide la stessa cultura pop e (2) tagliare fuori tutti gli altri. In effetti di solito questi riferimenti hanno una precisa dimensione generazionale, e tendiamo a riservarli alle conversazioni tra amici. E forse dovrebbe lusingarmi il fatto che io possa ridere a una battuta del giornalista, ti ricordi di quando Giacomo si martellava le palle su Italia1? Ahah, che metafora della sinistra, a quasi un quarto di secolo di distanza. Sul serio, cosa c’è di male? Tafazzi ha 2340 risultati su Google, “tafazzismo” e “tafazzista” sono entrati nella Treccani senza destare un decimo delle polemiche riservate a “petaloso” (che nella Treccani ancora non c’è). Cos’è che mi infastidisce così tanto (a parte l’immagine di Giacomo in calzamaglia?)

C’è che gli amici che ridono cominciano a diradarsi. I quotidiani cartacei hanno perso il 50% dei lettori in dieci anni – aumentando, nel frattempo, appena del 4% su web. Le indagini sulla lettura ci confermano che la percentuale degli italiani che legge un libro oscilla da un decennio intorno al 40%. Dunque, non solo molta gente della mia età ha smesso di leggere libri e giornali, ma moltissima gente più giovane di me non ha mai iniziato. Quand’è l’età giusta per imparare a leggere un giornale? Io al liceo lo compravo. Non è che capissi tutto, ma potevo farcela. E un ventenne di oggi ce la può fare, visto quello che ci viene scritto sopra? Me lo domando spesso.

E quando leggo “il ritorno di Tafazzi” in prima pagina, mi rispondo: No. I ventenni del 2018, quando Tafazzi si sbottigliava le palle su Italia 1, non erano nemmeno nati. Non è una questione di comprensione del testo – alla fine se uno ha pazienza di leggere due righe il giornalista è pure disposto a condividere con il giovane lettore la fondamentale nozione di storia della tv degli anni ‘90 – ma chi ce l’ha quella pazienza? Se io avessi vent’anni oggi, e uno smartphone in tasca, al primo “Tafazzi” cliccherei altrove. Non saprei chi sia e nemmeno m’interesserebbe. Nome già sentito, roba da vecchi. Perlomeno ai miei tempi ragionavamo così, ogni volta che fiutavamo qualche riferimento a commedie italiane in bianco e nero o dialoghi di western con John Wayne – c’è puzza di vecchio qui, filare. A meno che nel frattempo la soglia di attenzione degli adolescenti non sia aumentata – ahahah, NO (continua su The Vision, dopo la foto di Mentana).



I giovani italiani non leggono i giornali, né su carta né altrove, e forse non li leggeranno mai. È colpa di Gramellini che si ostina a scrivere “Tafazzi” come andava di moda vent’anni fa? No. Credo che più che una causa rappresenti un sintomo. C’è una generazione di giornalisti che ai potenziali giovani lettori ha consapevolmente volto le spalle; ha fatto due calcoli e si è resa probabilmente conto che la fatica di trovare un nuovo linguaggio per recuperare i venti-trentenni non li ripagherebbe del rischio di perdere l’unica (semi)solida certezza: il pubblico ultracinquantenne.


Questi calcoli li possiamo fare anche noi: non sono difficili. Solo un po’ deprimenti. Durante le feste qualcuno è stato così gentile da allungarmi un link a un sito che non solo mi ha ragguagliato sulla data della mia probabile morte (quella più o meno l’avevo già calcolata), ma anche sulla mia posizione rispetto al resto della popolazione mondiale o nazionale. Dunque.





La cosa interessante è che mentre sono entrato a far parte già da un po’ del terzo più vecchio della popolazione mondiale, in Italia farò ancora parte per qualche anno della metà più giovane – il che è molto indicativo di quanto sia sbilanciata verso l’alto l’età media di noi italiani.


Ma che senso ha parlare di me? Stavamo parlando di Gramellini, che invece si trova qui:




Insomma ha appena scollinato, e questo spiega in parte il suo successo – è come se dalla sua terrazza Gramellini dominasse tutta la vallata che dalle vette dei Cinquanta-e-qualcosa declina lentamente verso i Novanta. Tutti quei declivi li conosce a memoria: sono il paesaggio che ha avuto davanti a sé da quando è nato. Conosce ogni sentiero e ogni modo di dire, sa dove si nasconde il Tafazzi e il Sarchiapone e ogni altra bestia fantastica dell’immaginario dei suoi lettori. Si trova nella posizione ottimale per echeggiare la porzione della popolazione italiana che i giornali ancora li legge.


La discesa non diventerà particolarmente ripida ancora per un pezzo; quanto agli abitanti della vallata a sinistra, tentare di raggiungerli non vale probabilmente la fatica di aggiornarsi. È viceversa ai venti-trentenni che viene chiesto lo sforzo di decifrare gli oscuri riferimenti alla cultura pop del secolo scorso: per fortuna c’è Google, oppure si può dare un’occhiata alla tv – specialmente alla Rai, che da questo punto di vista non è venuta meno alla sua missione di servizio pubblico: negli anni ‘60 insegnava l’italiano agli analfabeti, oggi in prima serata con il suo programma di punta (Techetechetè) insegna gli anni ‘60-’70-’80 a chi ha avuto la tremenda sfortuna di essere nato dopo.


Il grafico non è utile soltanto per mostrarci quando moriremo: ci fornisce anche una previsione ragionevole sul momento in cui auspicabilmente non sentiremo più parlare di “Tafazzi” e “tafazzismo” – più o meno verso il 2040. A quel punto Gramellini sarà sugli 80, che già oggi in Italia per un editorialista è un’età ragguardevole ma non eccezionale: Scalfari ne ha 93, Sartori ne aveva 90 quando si arrabbiò perché al Corriere gli toglievano i corsivi dalla prima pagina senza il suo permesso

Non è invece affatto facile capire cosa succederà, nel frattempo, nel mondo dell’informazione in lingua italiana: che riferimenti culturali condivideremo quando i babyboomers andranno in pensione (tardi) e non sarà più indispensabile comunicare con loro e attraverso loro? Esisterà una lingua comune che i millennial italiani possano adoperare o finiranno per usare anche loro “tafazzi” come sinonimo colorito per “masochista”, anche quando si sarà del tutto persa l’immagine terribile di Giacomo sbottigliantesi i testicoli? Non saprei. So che prima o poi dovremo preoccuparcene – il 2040 in fondo è tra poco più di vent’anni.



(La vertigine).
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La CEI vuole i tuoi soldi per le sue scuole

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Immagina di essere il sindaco di una città che ha qualche problema con il traffico. Una mattina irrompe nel tuo ufficio un tale, dicendo che ha un’idea che risolverà i tuoi problemi. Lo conosci, ha messo su un servizio di minibus in alcuni quartieri – è stato anche accusato di discriminazione perché assume solo determinate categorie di autisti. Ma insomma, che vuole? “I miei bus hanno qualche problema”, dice, “non sono abbastanza competitivi”. Come se fosse un tuo problema di sindaco. Gli suggerisci di abbassare le tariffe. “Non ce la faccio”, ammette lui, “ma ho un’altra idea. Perché non calare le tasse ai cittadini che scelgono di usare i miei bus invece che i vostri?” Tu ti domandi se hai capito bene. “Sì, hai capito bene! In questo modo darai ai cittadini il vero diritto di scegliere, e io riuscirò a riempire i miei veicoli.” Tu gli fai notare che se lui riempie i suoi, quelli del servizio pubblico si svuoteranno. “Meglio così, no? In questo modo potrai togliere alcune tratte, licenziare qualche autista e risparmiare un sacco di soldi! Ci stai?”

Se il tizio vi sembra un matto, spero che non siate devoti cattolici. Perché è più o meno quello che la Conferenza Episcopale Italiana sta chiedendo da anni: siccome la scuola statale ha dei problemi lo Stato dovrebbe finanziare le scuole paritarie cattoliche. Così finalmente potrebbero essere competitive – nel senso che potrebbero sottrarre alle scuole statali una maggiore fetta di utenti. In questo modo, secondo tanti vescovi e insigni personaggi, lo Stato risparmierebbe. E non poco: miliardi di euro! Proprio così. Chiedono soldi allo Stato per far risparmiare lo Stato. Paradossale, vero? Ma non potrebbero fare diversamente. L’articolo 33 della Costituzione parla chiaro: ai privati è garantito “il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione”, ma… “senza oneri per lo Stato”. Quindi l’unico sistema per scucire un po’ di soldi dal Ministero è dimostrare che buttandoli a pioggia sugli istituti paritari, lo Stato ne risparmierà. E per quanto possa essere difficile convincere qualcuno a risparmiare dei soldi regalandoteli, i cattolici non hanno mai smesso di provarci (continua su TheVision).




È tempo di conoscere suor Anna Monia Alfieri, presidente della federazione di scuole cattoliche Fidae Lombardia, e portavoce di chi in Italia lotta per il diritto di iscrivere i figli alle scuole paritarie. Un mese fa ha ottenuto un grande successo: ha presentato il suo nuovo piano, il Costo Standard di Sostenibilità, alla ministra dell’istruzione Fedeli, che lo ha trovato interessante (e non c’è dubbio che lo sia). Si tratta in effetti di una specie di rivoluzione copernicana: fino a questo momento le famiglie che ritengono giusto iscrivere i propri figli alle paritarie hanno dovuto pagare una retta, che mediamente oscilla tra 2000 e i 4000€ all’anno (a cui lo Stato aggiunge il Buono Scuola, una mancetta di 500€). Questa cosa – che una famiglia debba pagare una retta – per suor Alfieri è sommamente iniquo, dal momento che la stessa famiglia paga le tasse, e che parte di quelle tasse servono a pagare la scuola pubblica a tutti gli altri studenti. Secondo suor Alfieri chi paga la retta non dovrebbe pagare le tasse. Semplice.

Si potrebbe obiettare che la scuola pubblica è tale proprio perché la paghiamo tutti: e non paghiamo solo per i nostri figli, ma anche per i figli degli altri (la paghiamo anche dopo che i nostri figli si diplomano. La paga anche chi figli non ne ha proprio). Suor Alfieri ci risponderebbe probabilmente che questo è un modo vetusto di vedere la cosa pubblica, e che il futuro è la sussidiarietà: dove non arriva il pubblico con le sue scuole costose (costose?) può arrivare il privato più agile e snello. Anche se non è esattamente quello che sta succedendo.

Per ora, anzi, il contrario. Gli iscritti alle paritarie in cinque anni sono crollati del 13%. Un effetto della crisi (che però in teoria è finita) e della denatalità (ma per fortuna aumentano gli studenti stranieri, anche nelle paritarie). Per Suor Alfieri, si tratta dell’effetto di una vera e propria ingiustizia sociale. “Il sistema italiano è classista”, dice, perché “impedisce ai più poveri di iscrivere i figli in scuole non statali”. In effetti queste scuole non statali non solo costano parecchio di più alle famiglie, ma non garantiscono affatto risultati migliori, come continuano a mostrare le rilevazioni OSCE-PISA. Che senso ha pagare una retta per una scuola mediamente meno buona di quella che lo Stato ti fornisce gratis? E così, specie negli anni di crisi, gli studenti si sono progressivamente allontanati dalla scuola paritaria. Questo per suor Alfieri e tanti altri cattolici è un’ingiustizia: lo Stato dovrebbe aiutare le famiglie che vorrebbero scegliere le paritarie ma non possono permetterselo. E ci risparmierebbe! Sì, ma come?

Ricordiamo che lo Stato spende già per l’educazione meno di ogni altro Paese dell’Europa occidentale (Irlanda esclusa). Eppure sono già 6400€ a studente. Come fanno le scuole paritarie a spendere migliaia di euro in meno? Il sospetto è che si appoggino alle infrastrutture delle curie, che possiedono un po’ dappertutto in Italia immobili di pregio (su cui non pagano l’IMU); che gli ordini religiosi possano fornire un po’ di manodopera non pagatissima; e che in generale gli insegnanti abbiano stipendi inferiori ai colleghi statali che, ricordiamolo per l’ennesima volta, sono tra i meno pagati d’Europa.

Se le cose stanno così non sorprende poi molto che i risultati di queste scuole siano per ora inferiori a quelli delle scuole pubbliche: quello che in Italia sia pubblico che privato stentano a capire è che se vuoi un’educazione di qualità, ci devi investire soldi seri; attirare insegnanti bravi o formarli con cura; per ora invece abbiamo una corsa al risparmio che non è nemmeno destinata a rallentare, anzi: nei prossimi anni potremmo assistere a un’impennata, uno straordinario testa a testa tra poveri, una gara a chi taglia di più - anche grazie agli sforzi di suor Anna Maria Alfieri e al suo Costo Standard di Sostenibilità. Di che si tratta?

Dell’ennesimo tentativo di eludere l’articolo 33, però bisogna ammettere che stavolta l’approccio è davvero scientifico. Suor Alfieri ha messo assieme un pool di economisti che due anni fa hanno pubblicato uno studio serio, con tante tabelle e numeri. Invece di preoccuparsi di quanto costano le scuole adesso, si sono domandati: quanto dovrebbero costare? Quanto dovrebbe spendere la collettività per mandare un bambino alla scuola dell’infanzia (3201€ all’anno), alla scuola primaria (3395€), alle medie (4390€), al liceo (dipende: ad esempio al biennio scientifico 4300€), a un istituto tecnologico e così via? Le cifre variano poi a seconda di diversi fattori (tra cui le eventuali difficoltà economiche della famiglia, la presenza nella classe di un alunno disabile, ecc.). Sono tabelle davvero bellissime - le ho guardate e riguardate sperando di trovare un grosso buco da qualche parte, ma fin qui non l’ho trovato. Sembra che suor Alfieri e i suoi abbiano davvero calcolato tutto: lo stipendio medio dell’insegnante (non bassissimo), quello del dirigente e del suo staff; i bidelli; le utenze, le visite d’istruzione, i progetti di integrazione, il sostegno eccetera. Grazie a queste tabelle, oggi sappiamo qual è il Costo Standard di Sostenibilità di uno studente, ovvero quanto costa mandarlo a scuola. Indovinate? Costa meno di quello che spende oggi lo Stato: ma non un po’ meno: qualcosa come “dai 2,8 ai 7 miliardi” di meno, all’anno! Insomma è suor Alfieri ad aver scoperto un buco enorme in cui la scuola pubblica italiana ogni anno riversa un sacco di soldi. Ma sarà così? Senz’altro degli sprechi ci sono, ma in tanti casi lo Stato spende di più perché non si trova davanti quella situazione ottimale che è descritta dalle tabelle del libro. Lo Stato spende anche per scuole disagiate, nelle periferie o nelle montagne, magari poco frequentate ma necessarie. Per scuole di città allocate in edifici storici più difficili da riscaldare (per i quali a volte lo Stato paga l’affitto). Non è che spenda tantissimo (rispetto alla media europea), e magari non spende sempre in modo oculato, ma non può certo competere con un’idea di scuola astratta che per ora si trova soltanto nelle tabelle del libro, con tot alunni egualmente distribuiti su tot classi in tot corsi.

Invece suor Maria è convinta che la scuola pubblica, già vittima di tagli straordinari nello scorso decennio, debba essere messa in competizione con altre scuole che, sulla carta, costano persino meno (ma per ora non ottengono risultati migliori). Una volta individuato il Costo Standard non ci sarà più bisogno di buoni scuola: saranno le famiglie a scegliere. Se vogliono andare alla scuola paritaria, pagheranno il Costo Standard direttamente alla paritaria, ma – attenti al trucco – non pagheranno l’equivalente in tasse. È il modello della sanità, ci spiegano: dove non arriva il servizio pubblico, ci pensano i privati. Sussidiarietà! A dire il vero fin qui tutto sommato è il pubblico che è arrivato dappertutto, dai più remoti paesini alle isole – e se nelle cliniche cattoliche è più difficile trovare chirurghi che praticano l’aborto, il sospetto è che anche nelle scuole cattoliche non sarà così facile trovare insegnanti che spiegano come l’aborto sia un diritto - e cosa sia il testamento biologico, e le unioni civili anche tra persone dello stesso sesso (gli insegnanti gay non sembrano avere vita facile nelle scuole cattoliche), e tante altre cose che fanno parte del mondo in cui viviamo ma vanno contro quelli che i cattolici definiscono “valori non negoziabili”.

Non è così strano che la CEI voglia difendere questi valori nelle sue scuole – non si capisce però perché lo debba fare a spese dei contribuenti italiani, tutto qui. Perché quello che la CEI, per bocca di suor Alfieri, ci sta proponendo, è di usare i soldi delle tasse di tutti per pagare un biglietto dell’autobus a chi vuole andare sull’autobus privato. Un autobus guidato da un autista che non è selezionato meglio di quello pubblico, né è meglio pagato; ma almeno arriva più in orario? Oggi no, domani – se lo paghiamo tutti un po’ di più – chissà.


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Il M5S non ha tutta questa voglia di uscire dall'Euro

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La novità delle ultime ore è che finalmente Luigi Di Maio, leader elettorale del Movimento Cinque Stelle, ha voluto dirci se lui uscirebbe dall’Euro o no. Messo alle strette da Myrta Merlino all’Aria che tira (La7), ha ammesso che: nel caso in cui si arrivasse a un referendum; come extrema ratio; dopo averle provate tutte; se proprio l’Europa non ci volesse ascoltare… Di Maio voterebbe per uscire. Anche se le cose non stanno più come nel 2013, ha spiegato, l’Europa sta cambiando, ci sono molte opportunità… e a questo punto la Merlino, impaziente, ha cambiato argomento.
Insomma, è stata tutto tranne che una risposta categorica. Di Maio ha preferito dilungarsi in premesse, in distinguo, in quella cautela così tipica dei leader politici pre-Berlusconi. Se Di Maio è sempre sembrato tra i grillini il più morbido, diplomatico – insomma il più democristiano – Matteo Renzi tra i post-democristiani è sempre parso il più irruente: e anche in questo caso non ha perso tempo a replicare, via tweet“Stavolta Di Maio ha fatto chiarezza, bisogna ammetterlo: lui voterebbe per l’uscita dall’Euro. Io dico invece che sarebbe una follia per l’economia italiana”.
Dunque, i giochi sono fatti: il M5S vuole uscire, Renzi vuole restare, votate di conseguenza. Nessuna sfumatura, nessuna cautela, Renzi è così. C’è un bivio – c’è sempre un bivio per lui – e lui sa sempre da che parte stare. Il M5S promette referendum, Renzi li fa. Poi al massimo li perde. Ma se Renzi sposa la causa europeista e perde, quanto margine avranno i vincitori per fingere che gli italiani non abbiano un parere preciso sull’uscita dall’Euro? Da cui la domanda: di chi deve aver più paura, oggi, un europeista? Di un leader del M5S che glissa, prende tempo, mette le mani avanti, o di un leader del PD che abbraccia convinto la causa dell’Euro, salvo che rischia di perdere le elezioni, tornare nell’ombra e trascinare con sé anche questa causa?
Beh, in fondo perché scegliere? Possiamo avere paura di entrambi... (continua su TheVision)
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L'arte dei mostri è l'unica interessante

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Non è cominciato tutto con Weinstein. Ho vaghi ricordi di discussioni precedenti – per esempio quando Bill Cosby fu processato per violenza sessuale devo aver sentito qualcuno lamentarsi del fatto che non sarebbe più riuscito a guardare un episodio dei Robinson. Lì per lì non devo aver prestato molta attenzione alla cosa (anche perché, insomma, oggi dove li trovi gli episodi dei Robinson?), ma è stata la prima volta che ho fatto caso al fenomeno.

Quando usciva un film di Woody Allen mi imbattevo regolarmente in qualcuno che, tra tanti motivi per non andarli a vedere, tirava fuori quella triste accusa di molestie alla figlia. Pensavo fosse una forma un po’ stravagante di boicottaggio. Ma poi è scoppiato lo scandalo Weinstein e mi sono reso conto che molte persone intorno a me non sembrano riconoscere la differenza tra contenuto dell’opera e vissuto dell’artista – no, in realtà è più sottile di così. Non è che non la riconoscono: chiunque sa riconoscere la differenza, poniamo, tra Adolf Hitler e uno dei suoi mediocri paesaggi. È che non la vogliono riconoscere. Carino quel paesaggio, di chi è? Di Adolf Hitler? Ah, allora è orribile.



(Ho scritto un pezzo su TheVision che parla di Woody Allen, Dostoevskij, e di quanto Leni Riefenstahl fosse una schiappa a girare i film).

Esagero? Leggo di gente che apprezzava molto l’umorismo di Louis CK, le sue gag sulla masturbazione seriale. Poi scoprono che Louis CK si masturbava davanti a delle sottoposte e all’improvviso le stesse gag non sono più divertenti. Fioriscono sul web mille domande, che all’inizio credevo retoriche, e invece no: possiamo ancora guardare i film con Kevin Spacey? E i film prodotti da Weinstein? Quando Lasseter ha ammesso di aver commesso qualche errore e si è preso una pausa alla Disney, qualcuno ha iniziato a domandarsi se possiamo ancora guardare Toy Story. Ok, sono solo titoli esagerati per attirare l’attenzione. Ma nel frattempo Jonathan Franzen ammette candidamente di avere delle difficoltà ad ammirare i quadri di Caravaggio, perché sai, “ha ucciso un uomo”. La scrittrice Claire Dederer si domanda “cosa fare dell’arte degli uomini mostruosi” – nel suo elenco troviamo Polanski, Cosby, Burroughs, Wagner, Caravaggio… ma il mostro dei mostri è sempre lui, Woody Allen. La Dederer non ha nemmeno bisogno di credere alle accuse di Dylan Farrow: la relazione con Soon-Yi è più che sufficiente a formulare un giudizio di mostruosità. “Era una teenager affidata a lui la prima volta che andarono a letto assieme, e lui il più famoso regista del mondo”! Puoi apprezzare ancora Manhattan, dopo avere scoperto una cosa del genere?

Lei dice di no, ma in questo caso effettivamente i confini tra autore e opera sono più ambigui che altrove: un film in cui un quarantenne trova assolutamente normale scoparsi una liceale, girato da un grande regista che qualche anno dopo si è messo con una 17enne. Siamo di nuovo di fronte al paradosso di Louise CK? Ovvero: un film che parla di desideri e pulsioni diventa discutibile quando scopri che è autobiografico? Gli interlocutori della Dederer (maschi) si oppongono con affermazioni ridicolmente parnassiane: ribadiscono piccati la necessità di giudicare l’opera d’arte soltanto in base ai criteri estetici, e quando affermano di apprezzare in Manhattan “l’equilibrio e l’eleganza”, il lettore ha il sospetto che direbbero la stessa cosa di Olympia di Leni Riefenstahl (l’elegantissimo, ben equilibrato inno ai successi olimpici del Terzo Reich).

In effetti di fronte all’ammissione di Franzen, o ai dubbi della Dederer, è molto facile reagire in modo categorico, magari accatastando un bell’elenco di artisti con la fedina penale complicata (in queste liste Caravaggio non manca mai). Stavo cominciando anch’io, ma mi sono bloccato al primo nome – chissà perché, mi è venuto in mente Dostoevskij. Ma mentre mi fermavo a controllare la grafia esatta, mi sono reso conto che stavo confondendo Dostoevskij coi suoi personaggi: con l’assassino di vecchiette Raskolnikov, con lo stupratore di bambine Stavrogin. Forse perché li ho letti quand’ero troppo giovane e quel famoso esercizio di separare l’autore dall’opera non riusciva neanche a me. Ammesso che mi sia riuscito in seguito. I quegli anni io cercavo nei libri le cose che non avevo la possibilità o il coraggio di vivere in prima persona, ed erano perlopiù cose criminose: leggevo Christiane F perché pur non avendo l’inclinazione per la dipendenza l’eroina mi sarebbe piaciuto vedere com’era da dentro; leggevo Il giovane Holden perché mi sarebbe piaciuto ogni tanto mandare al diavolo scuola e famiglia, ma non ne avevo il coraggio; e Dostoevskij, appunto, mi forniva un prezioso succedaneo ogni volta che mi veniva voglia di ammazzare una vecchietta ricca e improduttiva. Non credo di essere stato l’unico a cercare nella letteratura e nell’arte una forma di turismo nelle perversioni che non avevo i soldi o il fegato di permettermi. Ero un ragazzino.

Se avessi potuto da ragazzino rispondere a Franzen, gli avrei detto qualcosa di insopportabilmente arrogante, del tipo: io se l’artista non è un assassino non mi scomodo neanche a dargli un’occhiata. E alla Dederer: guarda per me Manhattan è molto meglio adesso che so che a Woody Allen piacciono le ragazzine – non che ci fossero molti dubbi prima, eh? – ma non lo trovi anche tu molto più genuino, ora, più sincero? E se ti fa incazzare, ok: non è mica un paesaggio, non è una natura morta, è un film di Woody Allen. Arte moderna, quella che a volte può essere equilibrata ed elegante, ma il più delle volte è disarmonica e dissonante e ci puoi anche litigare. Cioè, non ci vai mai al cinema a litigare col regista, con gli attori, con gli scenografi? È uno dei piaceri della vita e del cinema, io in mancanza di meglio me la prendo anche col direttore della fotografia. Insomma alla domanda cosa facciamo dell’arte degli uomini mostruosi, il me stesso ragazzino risponderebbe: facciamo un gran casino! Li stronchiamo tutti senza pietà, anche se sono bravissimi, chissenefrega (sei una frana con la macchina da presa, Leni). Lo scopo dell’arte è stimolarci; se certa roba ci stimola rabbia e indignazione, prendiamo la nostra rabbia e trasformiamola in una meravigliosa stroncatura che farà incazzare a sua volta qualcun altro eccetera – insomma, ero un coglione, ero arrogante, ero ignorante, ma avevo già chiara internet in testa.

Oggi non la penso più così, ma forse non sono molto più sgamato di quelli che non riescono più a vedere una sit-com con Bill Cosby. Forse anch’io non sono così bravo a separare l’opera dallo scrittore, dopotutto, se continuo a preferire gli artisti e gli scrittori che hanno qualcosa da rimproverarsi. Quel che mi piace di Franzen è il modo in cui fa oscillare i suoi personaggi davanti a un abisso morale prima di dare una spintarella: lo fa con l’aria di chi c’è stato lì sul bordo, di chi sa benissimo cosa si prova. In un angolo della mia testa non ho smesso di pensare che Dostoevskij abbia davvero ammazzato una vecchietta, e anche Franzen secondo me deve aver fatto qualcosa di inconfessabile. Persino Woody Allen, che tante volte ha messo in pellicola lo stesso canovaccio: un uomo di successo è ricattato da qualcuno che minaccia di rivelare qualcosa di torbido sul suo passato, finché non decide di ucciderlo. A quel punto lo spettatore si aspetta una giusta punizione che (spoiler) quasi sempre le sceneggiature di Allen non prevedono: l’assassino salva il suo buon nome e il suo status. Crimini e misfatti è del 1989, Match Point (il più dostoevskjiano dei suoi film) del 2005, Irrational Man del 2015: come se Allen volesse dirci qualcosa.

Un altro film di Woody Allen a cui non saprei rinunciare nemmeno se Allen invadesse la Polonia è Pallottole su Broadway. Racconta la storia di David Shayn, un tizio che si crede un artista, un commediografo, ma a un certo punto si accorge che non lo è. Se ne accorge perché incontra un artista puro, Cheech, un talento naturale che ha la sfortuna di essere cresciuto in una gang criminale. Non solo è più bravo di lui a scrivere dialoghi, ma soprattutto non è disposto ad accettare compromessi: per salvare la sua opera è disposto a uccidere. David no. Il momento in cui si accorge di non essere un vero artista è il momento in cui capisce di non essere un criminale.
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È facile ridere dei Liberi (e Uguali)

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È facile fare ironia su Liberi e Uguali – la nuova formazione politica tenuta a battesimo domenica scorsa – e molti osservatori infatti non hanno perso tempo. Tanto per cominciare è un raggruppamento di sinistra, e mentre la destra è per definizione inquietante e in crescita, la sinistra è sempre sventurata e in crisi. È una questione di percezione, che nulla ha a che vedere coi fatti o coi numeri (in questo momento i sondaggi danno a LeU qualche punto in più di Fratelli d’Italia, una formazione di destra che ha una storia altrettanto travagliata).
Quando si parla di sinistra non ci si stanca mai di rivangare i dissidi, le scissioni, i partitini che fanno più notizia quando si spaccano di quando si ricompattano. In effetti LeU raccoglie i cocci di tre piccole scissioni del PD: i fuoriusciti di quest’anno che hanno creato il Movimento Democratico Progressista Articolo Uno; i civatiani di Possibile che erano usciti già nel 2015; il gruppo di Fassina, che nello stesso 2015 aveva formato Sinistra Italiana con i vendoliani di Sinistra Ecologia Libertà, partito che a sua volta nasceva da due microscissioni in seno a Rifondazione Comunista e PCdI, e dalla fusione con alcuni ambientalisti – ma a questo punto probabilmente vi siete persi, servirebbe un disegno e su internet ce ne sono di divertentissimi. Il disegno poi si potrebbe prolungare andando indietro nel passato fino al 1989 – ma anche al 1968 – ma anche al 1890, perché il frammentarismo della sinistra ha radici antiche, e al di là delle facilissime ironie è un fenomeno strutturale: se la sinistra è il luogo (mentale) della libertà e del confronto, è abbastanza logico che sia anche il luogo delle divisioni, dei dissidi, degli scazzi – chi preferisce obbedire a un capo può andarsene a destra, dove scissioni e scazzi ci sono comunque, ma fanno meno notizia.
 



(Ho scritto un pezzo per TheVision, si chiama proprio È TROPPO FACILE FARE IRONIA SU LIBERI E UGUALI).

È facile ridere di Liberi e Uguali, magari facendo notare la contraddizione tra l’impostazione progressista e l’età media degli esponenti più importanti: Pietro Grasso, nominato leader per acclamazione, ha 73 anni. Massimo D’Alema, condannato dal suo personaggio a impersonare l’eminenza grigia della situazione, ne ha 68. Pierluigi Bersani 66. La sinistra non la dovrebbero fare i giovani? Sì, e infatti tra i Liberi e Uguali ci sono anche Giuseppe Civati (42) e Roberto Speranza (38). Il fatto che gli anziani siano più spesso inquadrati è in parte un effetto ottico: i giornalisti discutono più facilmente di e con personaggi che sono già stati a lungo sotto i riflettori. Fino a qualche anno fa questa era la prassi in tutti i partiti dell’arco costituzionale: poi sono arrivati i grillini e i rottamatori renziani, e oggi, guardando un notiziario, è più facile imbattersi in un politico quarantenne che in un sessantenne. Berlusconi è ovviamente un’eccezione, e la sinistra è un’altra – ma quest’ultima è un’eccezione tutt’altro che italiana: Jeremy Corbyn, leader dei laburisti inglesi, ha la stessa età di D’Alema; Bernie Sanders, agguerrito candidato di sinistra alle primarie del Partito democratico USA, ne ha tre più di Pietro Grasso. Anche loro sembravano rispettabili “vecchietti”, con entrambi i piedi nella terza età, prima di svelare un carisma d’altri tempi appena la campagna elettorale è entrata nel vivo: a Grasso potrebbe succedere la stessa cosa? Vedremo. Senz’altro sinistra e giovinezza non sono più sinonimi, ammesso che lo siano mai stati. Se non lo sono in Gran Bretagna o negli USA, non c’è motivo che lo siano in Italia, dove gli elettori da (ri)conquistare hanno un’età media ancora maggiore.

È semplice fare ironia su Liberi e Uguali, non solo insistendo sull’età dei protagonisti, ma anche sui loro trascorsi; con l’importante eccezione di Grasso, che fino a cinque anni fa faceva il magistrato, quello che accomuna D’Alema, Bersani, Civati, Speranza, Fassina e compagnia sono le sconfitte. È gente che ha perso quasi sempre e quasi tutto – a volte con onore, ma a sinistra “con onore” non significa poi molto, contano i risultati. Non parliamo soltanto di sconfitte elettorali (contro Berlusconi in parlamento, contro Renzi nel PD). Parliamo anche di sconfitte strategiche: D’Alema si fece prendere in giro da Berlusconi con la bicamerale del 1997, Bersani si fece prendere in giro dai grillini con il famoso vertice in streaming del 2013; anche Civati deve aver commesso qualche errore se nel 2010 era uno dei leader della Leopolda con Renzi e oggi non è nemmeno più nel PD. E così via. È semplice immaginare Liberi e Uguali come un raduno di rancorosi, ognuno a suo modo animato da un proposito di rivalsa, se non di vendetta. E le cose potrebbero anche essere così: alla fine la politica è fatta dagli uomini, e gli uomini sono fatti anche delle loro debolezze.

Allo stesso tempo, se insistiamo troppo sulle debolezze, rischiamo di perderci molto. Oltre alle mille motivazioni personali che possono spiegare la longevità di alcuni personaggi, alla base della nascita di Liberi e Uguali c’è un ragionamento lineare: a sinistra di Renzi c’è molto spazio da riempire. Quanto? Diamo un’occhiata agli altri Paesi dell’Europa occidentale. In Germania la Linke è quasi al 10% – molti voti li sta erodendo ai Socialdemocratici, che da più di dieci anni scontano l’alleanza elettorale con i Cristiano-Democratici della Merkel. In Francia il partito di sinistra di Mélenchon in Parlamento ha ottenuto appena il 3%: in compenso il suo leader col 19% di voti al primo turno ha mancato di appena due punti percentuali il ballottaggio presidenziale. In Gran Bretagna c’è un sistema elettorale molto diverso, che ha dissuaso la sinistra laburista da qualsiasi tentazione scissionista; il risultato però è che dopo tante sconfitte, oggi la sinistra controlla il partito. In Spagna il successo improvviso di Podemos (che nel 2016 valeva il 20% dell’elettorato) è un caso a parte, forse più affine all’affermazione altrettanto improvvisa del Movimento Cinque Stelle in Italia. In Grecia, anche grazie al super-premio elettorale, Syriza è al governo ormai da tre anni – tre anni di crisi nerissima in cui il primo ministro Alexis Tsipras non si è esattamente potuto permettere una politica antiliberista, ma tant’è. Syriza, per altro, è un bell’acronimo che nasconde all’osservatore distratto una tipica storia di frazionismo di sinistra: la sigla sta per “Coalizione della Sinistra Radicale”, e il suo percorso cominciò nel 2004 con una piattaforma programmatica che mise insieme cinque piccoli partiti marxisti, altermondialisti ed ecologisti.

Insomma, per quanto possano sembrare ridicoli e incerti i primi passi di Liberi e Uguali, bisogna riconoscere che anche le più recenti storie di successo della sinistra europea sono iniziate così: frammenti di esperienze passate che tornano assieme, trovano leader che a volte sono facce nuove (Tsipras, Iglesias) e altre volte decisamente no (Corbyn), e occupano uno spazio esistente. Perché – e questo va sempre ricordato – uno spazio a sinistra esiste ancora, e se non lo occupa Grasso lo occuperà qualcun altro. Anche Di Maio, perché no? Non è un caso che di recente abbia proposto di reintrodurre l’articolo 18. Non sarà l’argomento più trendy, ma c’è una fetta di elettorato che è sensibile esattamente a queste proposte: fanno meno notizia di due o tre bande di esaltati in bomber nero che lanciano fumogeni sotto le redazioni dei giornali o disturbano le assemblee, ma sono pur sempre due, tre, magari quattro milioni di potenziali elettori in più. E non si capisce nemmeno perché dovrebbero diminuire in futuro – soprattutto se il PD di Renzi si dovesse ritrovare costretto dopo le elezioni a un governo di coalizione col centrodestra di Berlusconi: proprio la situazione in cui di solito i voti travasano dal centrosinistra di governo alla sinistra di opposizione. Quanto allo scenario alternativo – un’eventuale alleanza di governo tra il M5S di Di Maio e LeU, fin qui sembra soltanto un bluff pre-tattico: difficilmente l’elettorato grillino potrebbe mandare giù la contiguità con personaggi che Beppegrillo.it addita al pubblico ludibrio da sempre (quando Bersani avverte di essere ancora disponibile allo streaming, rasenta il comico, non si sa quanto involontario). Allo stesso tempo, è bastato annunciare la nascita di un nuovo soggetto a sinistra perché l’articolo 18 tornasse un argomento elettorale anche per i grillini: la politica si fa anche così. Non sempre si vince, anzi, mai, ma a volte riesci a portare i vincitori nel tuo campo. Sarebbe già molto (per la sinistra italiana).
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E se avesse vinto il Sì? Renzi sarebbe più tranquillo? (No)

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È passato un anno da quando ce la siamo vista bella. L’Italia stava per affondare nel caos e nella recessione. Ricordate? Il 4 dicembre del 2016 gli italiani furono chiamati alle urne: ufficialmente per dare il proprio assenso ad alcune “non lievi” riforme costituzionali, in pratica per scegliere tra il Governo Renzi e la Catastrofe. Ci aveva ben avvertito Confindustria, fin dall’estate precedente: la vittoria del “No” avrebbe causato “il caos politico” e le aste dei titoli di Stato sarebbero andate deserte, con la conseguente crisi di fiducia degli investitori, fuga di capitali, svalutazione dell’Euro, recessione, pioggia di rane, invasione di cavallette. Se tutto questo non è successo, non possiamo che ringraziare la prudenza e il giudizio degli elettori italiani, che tra Renzi e l’Apocalisse hanno scelto… ehm, cos’hanno scelto?



Perché in effetti ha vinto il “No”: a quest’ora le cavallette dovrebbero essere passate da un pezzo. Qualcuno le ha viste? (Ho scritto un pezzo per TheVision: A un anno dal referendum la vittoria del No è stata un disastro solo per Renzi).
Da parte sua Confindustria nel suo ultimo rapporto ha rivisto al rialzo le stime per il PIL italiano (nel 2017 +1,5%; nel 2018 +1,3). “A fine 2018 il PIL recupererà il terreno perduto con la seconda recessione (2011-13)”. Le esportazioni addirittura “volano”, il Made in Italy guadagna quote di mercato, “gli investimenti mostrano un vivace dinamismo”, l’occupazione sale dell’1,1% e di questo passo nel 2018 dovrebbe toccare i massimi storici. Non è tutto rosa e fiori, sia chiaro: l’Italia cresce, ma meno degli altri Paesi della UE; abbiamo quasi otto milioni di disoccupati, troppi dei quali sono giovani. Ma tutto sommato quest’anno Uno dal Referendum poteva andare molto peggio di così. Insomma forse l’anno scorso Confindustria aveva un po’ esagerato. Dopo Renzi non c’è stato il diluvio, ma un passaggio di consegne molto rapido e quasi indolore; Gentiloni gli è subentrato a Palazzo Chigi sostenuto più o meno dalla stessa maggioranza, che nei sondaggi risulta spesso più popolare di Renzi. Altri sondaggi danno il partito di Renzi dietro al M5S, a volte anche dietro Forza Italia. Insomma il 4 dicembre è stata davvero una catastrofe: magari non per l’Italia ma per Renzi e i suoi sostenitori.

La fatidica data va quindi ad aggiungersi al Catalogo delle grandi occasioni perdute del centrosinistra, un volume ormai cospicuo e straziante, che i lettori affezionati non riescono a non riaprire a intervalli regolari, ogni volta che sale quella tipica voglia di piangere sul latte versato – ah, se Bersani non avesse sostenuto il governo Monti. Ah, se il Prodi Due non fosse caduto per un voto. Ah, se Bertinotti non avesse fatto cadere il Prodi Uno. E così via, credo che si possa risalire almeno fino all’Aventino (quello del 1924, ma forse anche quello del 494 aC). Ah, se Renzi avesse vinto il referendum... In che Italia vivremmo adesso? Certo, la Storia non si fa coi Se. Ma in politica non c’è niente di male a sperimentare qualche “Se” ogni tanto. Chiamiamolo esercizio mentale. Se le cose dopo il No al referendum non sono andate malaccio, è lecito sospettare che con un Sì sarebbero andate ancora meglio. Renzi sarebbe rimasto al suo posto e… cosa sarebbe successo, poi? Se lo chiedi a un renzista, ti dipingerà uno scenario idilliaco: Renzi avrebbe finalmente governato indisturbato.

Più che un’ideologia il renzismo è un credo, un atto di fede. Chi lo professa è serenamente convinto che Renzi possa trasformare l’Italia in un Paese migliore. Per farlo, però, Renzi (come tutti i rivoluzionari) deve essere lasciato indisturbato per un impreciso periodo di tempo – niente compromessi, niente volgari coalizioni e ammucchiate, insomma niente democrazia parlamentare (che con l’Italicum si proponeva neanche tanto velatamente di superare). Renzi si realizzerà soltanto nel momento della vittoria totale; e siccome il tizio non è mai riuscito a farsi votare da più di 11 su 50 milioni di elettori italiani, vale la pena di domandarsi se si realizzerà mai. La prospettiva renziana sul post-referendum dipendeva molto da questo assunto: una volta vinto il referendum, Renzi sarebbe diventato super-popolare e imbattibile. Di lì a poco Mattarella (che Renzi fortissimamente volle al Quirinale) avrebbe probabilmente sciolto le camere, di modo che già nella primavera 2017 avremmo avuto la possibilità di votare e di veder trionfare un governo Renzi Due completamente monocolore. Che prospettiva esaltante (per un renziano).

Ma le cose difficilmente sarebbero andate così. Per pensare a uno scenario del genere, non bisogna soltanto credere in Renzi, ma anche che la democrazia contemporanea preveda l’annichilimento dell’avversario. I nemici di Renzi (Berlusconi, Grillo, Bersani, Salvini, insomma tutti), una volta sconfitti al referendum, avrebbero dovuto accettare una resa incondizionata e ritirarsi a vita privata. In democrazia accade spesso il contrario: l’avversario sconfitto non scompare, ma incattivisce. Dietro a Berlusconi, Grillo, Bersani e Salvini ci sono quattro fette di elettorato che difficilmente Renzi avrebbe potuto erodere in pochi mesi - se vi ricordate i toni della campagna di un anno fa si erano fatti piuttosto accesi. Renzi era già l’uomo da battere prima del referendum: dopo il 4 dicembre gli agguati trasversali si sarebbero intensificati. Uno in particolare era già predisposto sul cammino di Renzi: il 25 gennaio del 2017 la Consulta avrebbe dichiarato incostituzionale la legge elettorale inventata da Renzi e Berlusconi al Nazareno, il cosiddetto “Italicum”, e in particolare l’istituzione del ballottaggio nel caso nessuna lista avesse sorpassato il 40% dei suffragi.

In realtà già a dicembre l’Italicum era considerato dagli stessi renziani una legge sorpassata, da modificare al più presto. Non per una serie di obiezioni costituzionali più che fondate, ma perché ormai i sondaggi avevano chiarito che l’Italicum, per come era stato disegnato, rischiava di consegnare una solida maggioranza parlamentare al Movimento Cinque Stelle. Possiamo anche immaginare che Renzi, ebbro del successo appena ottenuto col referendum, decidesse di giocarsi il tutto per tutto in inverno con l’Italicum: ma difficilmente Mattarella avrebbe sciolto le camere a Natale (e in tal caso, comunque, si sarebbe aperta una fase di incertezza politica non molto diversa da quella prospettata da Confindustria in caso di vittoria del No). Più probabilmente, Renzi avrebbe atteso la primavera per rassegnare le dimissioni: e a quel punto la bocciatura dell’Italicum non lo avrebbe mortificato, anzi. Dopo aver vinto il Referendum – quindi dopo aver ottenuto più del 50% dei voti su un quesito costituzionale – Renzi avrebbe senz’altro immaginato di poter ottenere più del 40% dei suffragi alle elezioni anticipate. E quindi? E quindi ci avrebbe portato a votare in primavera.

E avrebbe vinto?

Non possiamo saperlo, ma dobbiamo immaginare a cosa sarebbe successo a quel punto in Italia: di che cosa si sarebbe discusso nei mesi tra la campagna referendaria e quella elettorale. Ma visto che negli ultimi mesi il centrodestra ha puntato tutto sulla cosiddetta emergenza dei rifugiati, azzardiamo un’ipotesi: Berlusconi e Salvini avrebbero fatto la stessa cosa. Storicamente la Lega e Forza Italia insistono sempre sul tema della sicurezza, in campagna elettorale. Bossi proponeva di sparare ai barconi più di dieci anni fa; Berlusconi è meno drastico ma ha sempre chiamato il suo popolo a raccolta contro la minaccia esterna, i comunisti, i musulmani che vogliono invaderci, eccetera. A Renzi sarebbe rimasto il ruolo ingrato di difensore dell’accoglienza: dopotutto fu il suo governo ad accettare la missione Frontex, che prevede che le navi che pattugliano il Mediterraneo portino i profughi in Italia. Renzi sarebbe andato alle elezioni in primavera non solo come l’uomo da battere, ma come l’uomo di Frontex e dello Ius Soli. Avrebbe vinto? Secondo me no, non ce l’avrebbe fatta. Forse avrebbe prevalso su un Berlusconi ancora intorpidito e un Grillo poco intenzionato a governare; forse avrebbe avuto persino il mio voto; ma non avrebbe raggiunto il 40% dei voti. E quindi?

E quindi ci saremmo trovati un altro governo di coalizione, come quello che ci aspetta, probabilmente, nel 2018. Forse avremmo risparmiato un anno. Forse il Pd non si sarebbe spaccato. Ma di sicuro avremmo vissuto un’altra stagione di incertezza, e Confindustria ce l’ha già spiegato: ai mercati l’incertezza non piace.
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Cosa deve fare un razzista per farsi prendere sul serio in Italia?

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Qualche giorno fa è morto un razzista, che era stato il leader di una piccola organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. 

E i giornali italiani hanno scritto che è morto un satanista.

Insomma cosa deve fare un razzista per farsi accreditare come tale in Italia? Incidersi una svastica in fronte? No, neanche così. Manson non era il diavolo: Manson era un razzista si legge su TheVision.





Qualche giorno fa è morto, dopo una vita in galera, Charles Manson, un personaggio di cui avrete probabilmente sentito parlare. Se la sua storia non vi ha mai particolarmente appassionato, se avete soltanto dato una veloce scorsa ai titoli dei quotidiani italiani, probabilmente sapete che era un serial killer satanista che tra l’altro pugnalò, in modo particolarmente efferato, la giovane attrice incinta Sharon Tate. Eppure Charles Manson non era esattamente un serial killer, non era un satanista e non ha pugnalato Sharon Tate. Siamo davanti all’ennesima fake news, penserete. Si e no. Diciamo che siete davanti a una libera interpretazione della stampa italiana.

Charles Manson è davvero nato nel 1934 a Cincinnati, Ohio, in un contesto disagiato – sua madre, sedicenne, fu subito abbandonata dal padre di Charles. È davvero entrato in riformatorio a 13 anni, per evaderne molto presto su un'auto rubata; e non era che l'inizio. Buona parte degli anni Sessanta Manson li osservò da dietro le sbarre, mentre scontava pene per furto e sfruttamento della prostituzione. Questo se da un lato gli impedì di godersi l’esplosione del flower power californiano, gli diede qualche elemento per captare meglio di tanti osservatori le tensioni più distruttive che covavano in quegli anni – in particolare la questione razziale. Verso il 1968 Manson aveva davvero messo insieme la “family”, una setta abbastanza scalcagnata, ma non esattamente satanica; in quel periodo Manson più che a Satana faceva riferimento a una sua personalissima interpretazione degli insegnamenti di Gesù Cristo, filtrati attraverso i testi delle canzoni dei Beatles. A un certo punto sostenne di essere lui stesso il Cristo: è un tratto classico di tanti predicatori che perdono la brocca, ma ha poco a che vedere col satanismo. I suoi adepti uccisero davvero Sharon Tate e altre sei persone tra il 9 e il 10 agosto del 1969, e lo fecero seguendo le sue indicazioni. Quindi insomma la storia c’è, e per quanto sia stata raccontata migliaia di volte rimane pazzesca. Non solo, ma nel 2017 la storia di Manson sembra più attuale che in passato: oggi che il razzismo è un’emergenza non solo dall’altra parte dell’Atlantico, è particolarmente interessante ricordare che Charles Manson predicava ai suoi discepoli la necessità di un’imminente guerra razziale: molto presto i neri avrebbero cominciato ad attaccare i bianchi, e dal caos che ne sarebbe derivato la “family” di Manson avrebbe governato il mondo.

Di questo scenario delirante, i più autorevoli quotidiani italiani non fanno cenno. Insistono molto di più su un presunto satanismo di Charles Manson, che in prigione si era fatto una cultura rudimentale su tante cose, dalla magia nera alle filosofie orientali: definirlo satanista o “satanico” è altrettanto impreciso che definirlo buddista. La BBC, per esempio, di Satana non parla: ricorda invece che Manson aveva convinto le sue discepole di essere il Cristo. Per Rainews invece Manson è un killersatanico; per la Repubblica i suoi adepti “credono in Scientology e in Satana(*)”; mentre Corriere e La Stampa, non riuscendo a trovare una sola dichiarazione satanista di Manson, arrivano a un compromesso: “Sosteneva di essere la reincarnazione non solo di Gesù, ma di Gesù e Satana insieme”. Manson in effetti parlava tantissimo, e da qualche parte potrebbe anche aver detto questa cosa. Sembra però che a Satana i giornalisti italiani tengano in modo particolare – “Da Satana ha preso molto,” ribadisce La Stampa, mentre Repubblica li chiama “delitti satanici”. Così come spesso accade nelle narrazioni del giornalismo italiano, le principali testate tengono molto a ricordare i dettagli più scabrosi del delitto Tate, rievocando l’aggressione con uno stile quasi cinematografico: “Il primo a morire fu Steve Parent, un ragazzo di 18 anni che era andato a trovare il custode e che passava nella via. Linda restò fuori a fare da palo. Watson spaccò un vetro per entrare in casa e la banda radunò Sharon Tate e i suoi amici in salotto. Sharon fu legata per il collo a Sebring, mentre Waston legava le mani di Frykowski. La Atkins disse all’attrice “Puttana, stai per morire”, Sebring cercò di difenderla e fu ucciso da Watson, che gli sparò e lo accoltellò più volte, usando anche un forchettone” (La Stampa).

E ancora, Il Corriere: “Armati di coltelli, revolver e corda di nylon tagliarono i fili del telefono per impedire che venisse dato l’allarme. Il primo a morire fu un amico del guardiano della villa, che stava uscendo in macchina, Stephen Earl Parent. Poi toccò a Jay Sebring, che implorò inutilmente di risparmiare la vita a Sharon Tate. Fu finito a coltellate, così come le altre tre vittime. L’ultima fu proprio Sharon, incinta all’ottavo mese”.

Di questi siparietti nel pezzo della BBC non c’è traccia. In compenso è segnalato il movente di cui nei giornali italiani non si parla: “Race war”. Del resto chi ha bisogno di un movente quando ha Satana? Satana spiega senza sforzo qualsiasi follia: i membri della Family scrivevano “Helter Skelter” e “Pigs” sulle pareti col sangue delle vittime? Sarà un qualche rituale satanista. Ma “Pigs” era anche l’appellativo con cui erano chiamati i poliziotti dai manifestanti (un po’ l’equivalente di “ACAB” sui muri di oggi). Manson intendeva probabilmente depistare le indagini sulla comunità afroamericana, scatenando una rappresaglia che avrebbe portato alla guerra razziale. Perché prima di essere satanista, scientologo, buddista e fanatico dei Beatles, Charles Manson era profondamente razzista. Pensava che i neri e i bianchi non avrebbero mai potuto vivere insieme, e aveva in orrore soprattutto le unioni interrazziali. Un mese prima il delitto Tate aveva dato l’esempio sparando a uno spacciatore afroamericano (che era sopravvissuto); venti giorni dopo, quando aveva fatto uccidere un suo seguace che gli doveva dei soldi, aveva lui stesso usato il sangue per scrivere sul muro “political piggy” e disegnare un simbolo delle Pantere Nere, l’organizzazione rivoluzionaria afroamericana.

Insomma se c’era una logica nella sua follia era una logica razzista, non satanista. La stessa logica che rende Charles Manson, a mezzo secolo dal funerale degli hippy, una figura ancora attuale. Ed è anche quello che i giornali italiani non dicono: un po’ perché devono concentrarsi sulle coltellate, il sangue, i dialoghi pulp, un po’ perché Satana vende di più.

A questo punto, forse senza un motivo, viene in mente Gianluca Casseri, uno scrittore fantasy fiorentino che qualche anno fa si mise a sparare ai neri che vedeva in giro per Firenze. Quando lo presero ne aveva già uccisi due. Qualcuno scrisse che era depresso. Può darsi: però aveva anche opinioni politiche molto definite, di cui non faceva mistero. Dopo aver negato, la sezione fiorentina di Casapound dovette ammettere che Casseri li frequentava. Insomma era uno scrittore un po’ di destra, un po’ depresso, a cui era capitato di mettersi a sparare a degli africani in giro per Firenze, tutto qui (se capitasse il contrario, un africano che va in giro per Firenze a sparare agli scrittori bianchi, non avremmo molte remore a definirlo terrorista).

Con Charles Manson mi sembra che sia successo qualcosa di simile. È appena morto il capo di un’organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. Per i giornali italiani più che un razzista questo è un satanista. Ma allora cosa deve fare un razzista per farsi riconoscere come tale dai giornalisti italiani? Incidersi una svastica in fronte? No, niente da fare, neanche quella basta.



Integrazione di lunedì 30 novembre ore 12:40

*Con riferimento all’articolo “Manson non era il diavolo: Manson era un razzista” pubblicato il 24/11/17, a seguito della richiesta di precisazione di “Chiesa di Scientology di Milano Continentale”, che riferisce essere falsa la notizia che Charles Manson fosse legato a Scientology e basasse la propria filosofia sulla stessa, precisiamo che l’articolo ha inteso dare conto del fatto che secondo la stampa sia nazionale che internazionale egli è stato un conoscitore e uno studioso delle teorie di Scientology e non che ne fosse membro. Circostanza, quest’ultima, esclusa dalla “Chiesa di Scientology” [La redazione di TheVision].
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Italo Calvino è un troll dal Cremlino?

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Come se non ne producessimo già noi in abbondanza.

Li abbiamo sospettati, li abbiamo sognati, ci abbiamo scherzato sopra, e adesso sappiamo che esistono: i “troll russi” hanno veramente creato dei meme per influenzare la campagna elettorale americana. Alcuni erano così efficaci che sono rimbalzati persino da noi: ricordate la ragazza velata che consulta indifferente il cellulare sullo sfondo del tragico attentato di Westminster? A osservarla bene, la ragazza non sembrava affatto serena o indifferente (qualche giorno dopo avrebbe partecipato, nello stesso luogo, a una manifestazione di solidarietà alle vittime dell’attentato). Aveva tutto sommato l’espressione che potrei avere io sulla scena di un disastro, mentre cerco in rubrica il numero dei miei per rassicurarli - impressione confermata dallo stesso fotografo. Eppure per qualche giorno la foto rimbalzò in rete come esempio dell’indifferenza di tutti i musulmani d’Europa e d’Occidente. Ma chi era stato il primo a farla circolare? Un account twitter apparentemente e fieramente texano, @SouthLoneStar, aveva twittato di una “donna musulmana che cammina disinvolta vicino a un uomo che muore mentre guarda il suo telefono”. Oggi @SouthLoneStar non esiste più; nel frattempo è stato inserito in una lista di 2700 account che secondo una commissione del Congresso Usa sarebbero stati appositamente aperti a San Pietroburgo per diffondere in Occidente odio e disinformazione.

Come se non ne producessimo già noi in abbondanza.

(Ho scritto un pezzo per TheVision, dall'allarmante titolo I TROLL RUSSI STANNO GIÀ INFLUENZANDO L’OPINIONE ITALIANA).

Se è davvero un meme russo, potrebbe essere il primo ad avere avuto un certo successo anche in Italia. Qui da noi la foto è apparsa qua e là nelle bacheche corredata da un’eloquente didascalia (NO IUS SOLI) che chiunque non seguisse da vicino e con una certa esperienza la politica italiana farebbe fatica a decifrare - insomma, è più probabile che la didascalia sia stata aggiunta in Italia, magari da un islamofobo in buona fede. Non ne mancano. Purtroppo cercare queste cose su internet è difficile - buffo, su internet trovi informazioni su tutto, tranne che sulle informazioni che girano su internet. Quelle possono essere continuamente modificate, cancellate (la Stampa ha appena scoperto che da Beppegrillo.it spariscono parecchie pagine). In un qualche modo riesco a risalire a un personaggio televisivo che per quanto bizzarro non è senz’altro un troll (sul suo profilo twitter si qualifica “Medico Psichiatra, psicoterapeuta, criminologo, Primate Metropolita Chiesa Ortodossa Italiana”). Quest’ultimo a sua volta non ha fatto che ritwittare un altro tizio sconosciuto dal profilo molto peculiare - ma a questo punto forse è il caso di aprire una parentesi: siccome è ormai dimostrato che in mezzo a noi ci sono professionisti del fake, gente che li sparge per mestiere, c’è un modo per riconoscerli?

Propongo alcuni criteri empirici.

  1. Un professionista non potrà evitare di tradire un minimo di professionalità. Questo è il suo punto debole, visto che deve produrre contenuti apparentemente rozzi, amatoriali, involuti. I troll russi scrivevano schifezze, ma secondo l’inchiesta del Congresso rispettavano un orario di ufficio. Le persone che non stanno su internet per lavorare non parlano sempre dello stesso argomento: i professionisti sì. Se un tizio twitta tutti i giorni contenuti sullo stesso argomento, molto probabilmente lo sta facendo di mestiere.

  1. Un professionista ha tempo per fare cose che il semplice passante non avrebbe mai tempo di fare. Ok, un meme si fa in cinque minuti, ma il 90% degli utenti di facebook o whatsapp non perderebbero nemmeno quei cinque minuti - se glielo offri già pronto lo ripostano con gioia, ma farselo in casa è troppo sbattimento. Insomma un tizio che si inventa molti meme forse non lo sta facendo gratis.

  1. Un dettaglio dissonante - non so come spiegare. Il professionista che si finge dilettante commetterà sempre un errore stupido a un certo punto. È come nei vecchi film di guerra, quando il nazista interroga l’americano in fuga e lui gli risponde in un tedesco perfetto, poi alla fine gli fa: “thank you”, l’eroe risponde “you’re welcome”, ed è fottuto.

Il tizio che ha fatto circolare il meme NO IUS SOLI soddisfa questi tre criteri? Twitta tutti i giorni contenuti xenofobi, sullo stesso argomento: molto spesso sono meme; il suo nome è preso dal personaggio di una serie di racconti di Isaac Asimov, l’avatar su Twitter è una foto di Italo Calvino (ma come banner ha la bandiera degli Stati Confederati). Ecco, secondo me il fotoritratto di Italo Calvino davanti alla bandiera confederata è un dettaglio molto dissonante. C’è una strategia dietro? Oppure c’è un tizio che vuole sembrare autorevole e ha preso la prima foto di “italiano autorevole” che ha trovato su google, ignorando che si tratta di un italiano ancora molto riconoscibile - e che con la xenofobia davvero non ha molto a che spartire? È come se un alieno cercasse di mimetizzarsi tra di noi italiani travestendosi da Giuseppe Garibaldi.

Naturalmente posso sbagliarmi. Non farebbe molta differenza: l’autore dopotutto è la cosa meno interessante di un meme. Un contenuto virale funziona soltanto se trova il terreno adatto: è uno strumento che serve a dire alle persone quello che vogliono sentirsi dire. Quindi che senso ha definire un meme “fake”? Esiste un meme autentico? Un meme razzista avrebbe successo se non ci fosse un pubblico razzista? Il Washington Post ha scoperto che la “fabbrica di troll” russa ha speso centomila dollari in un mese per pubblicare contenuti virali su Facebook durante la campagna elettorale USA? Wow, chissà quanti meme riesci a pubblicare con centomila dollari. Nel frattempo però i comitati elettorali di Trump e Hilary Clinton spendevano su Facebook 81 milioni di dollari. Se davvero i troll russi sono riusciti con una cifra tanto inferiore a fare l’ago della bilancia in qualche Stato del Midwest in bilico, beh, direi che si meritano di manovrare il presidente del mondo (c’è da dire che il meme di @SouthLoneStar non è nemmeno stato sponsorizzato).

Ma supponiamo che quei centomila dollari siano il budget fisso mensile che il Cremlino butta su Facebook: nel 2010 lo stesso Washington Post aveva scoperto che l’esercito americano aveva appena sborsato dieci milioni di dollari per finanziare la creazione di siti web pro-USA in tutto il mondo. La propaganda, insomma, costa, e gli USA ci hanno sempre investito massicciamente, sin dai tempi della radio. Che i russi ci provino è naturale, oserei dire legittimo. Resta da dimostrare che abbiano consapevolmente agito per sostenere Trump: a quanto pare pubblicavano anche contenuti antirazzisti e antitrumpiani. Quello che è stato osservato è che i messaggi trumpiani e razzisti trovavano un terreno migliore su cui attecchire. Insomma, se la storia ha una morale è che quando i toni si fanno accesi, e i memi sostituiscono le discussioni, la destra vince sulla sinistra. Può essere una riflessione utile a chi pensa in buona fede di mutuare a sinistra le strategie virali della destra (vedi alcune disavventure mediatiche dei renziani): se fin qui non ha funzionato, forse c’è un motivo. Attento quando usi un meme: potrebbe essere il meme a usare te.

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Renzi sfida Renzi e Renzi perde

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Forse anche voi ieri sera avete avuto la curiosità di vedere come se la cavava Matteo Renzi in prima serata su La7. Da solo, visto che Di Maio gli aveva dato buca. Anche voi a un certo punto vi sarete resi conto di assistere a uno spettacolo non imperdibile, certo, ma nel suo genere abbastanza unico: un leader politico attirato in un talk show con l’illusione di uno scontro diretto con Di Maio, poi indiretto con Di Battista, poi neanche quello, e accerchiato da un quartetto di giornalisti insolitamente agguerriti. Ne è uscito bene? Per i renziani ovviamente sì: è stato coraggioso e si è battuto come un leone. Bene, bravo, bis. Chi renziano non è – ed è anzi un po’ refrattario a farsi andare giù il personaggio – si sarà facilmente fatto l’idea opposta: lo hanno fatto a pezzi, asfaltato, e così via. Forse la verità sta nel mezzo? No, piuttosto agli estremi.
Un dibattito in TV non è un match sportivo: infatti ognuno può decidere che la propria “squadra” abbia trionfato sugli avversari, e trovare argomenti per corroborare la propria opinione. La forza deitalk show non è la sbandierata capacità di orientare un bacino di indecisi che probabilmente a quell’ora guarda altre trasmissioni, la forza dei talk show sta proprio nell’ambiguità, nella capacità di rivolgersi contemporaneamente a pubblici diversi – renziani e antirenziani, in questo caso – con messaggi antitetici: “Renzi è alla frutta!”, “No, Renzi è un leone!”. Win-win. Ha fatto bene Di Maio a tirarsi fuori e ha fatto bene Renzi ad andare. Chi dà del fifone a Di Maio non lo avrebbe comunque trovato convincente e non voterà per lui, chi detesta Renzi non avrà certo cambiato idea dopo lo show di ieri sera, perché le uniche prediche che funzionano in TV sono quelle ai convertiti.



“Io ho perso, nella politica italiana non perde mai nessuno. Non vincono, ma non perde mai nessuno. Ma io sono diverso, ho perso,” diceva Renzi durante lo spoglio del referendum, un anno fa (continua su TheVision).

E però, anche ai suoi convertiti, cosa ha raccontato Renzi ieri sera? Quasi metà del dibattito ha gravitato intorno allo stesso concetto: il Segretario del PD ha perso. Non poteva che andare così: ci sono appena state le elezioni in Sicilia e senz’altro Renzi non poteva dire di averle vinte. E infatti ha subito ammesso di averle perse. Onesto, no? Del resto i concession speech sono sempre stati una sua passione: i discorsi migliori li ha pronunciati quando doveva ammettere una sconfitta – al punto da far sospettare che la sua missione storica sia proprio quella: visto che la sinistra comunque perde, almeno prendiamoci uno che incassa con stile. Renzi stesso ha spesso rivendicato questa sua caratteristica: lui non è come quei politici da Prima Repubblica che non ammettevano mai le sconfitte, lui le ammette subito, a volte a schede non del tutto spogliate. Da questo punto di vista, è difficile considerare il talk di ieri un tranello: Renzi sapeva che gli avrebbero chiesto conto di una sconfitta e si è preparato, come si prepara sempre in questi casi. Che sportivo.

Peccato però che non ci fosse nessuna sconfitta da ammettere, stavolta.

Perché, numeri alla mano, il PD in Sicilia non ha perso un granché: ha preso quasi esattamente gli stessi voti di quattro anni fa – e nel frattempo c’è stata una scissione importante a sinistra. Una delle tante dimostrazioni del fatto che Renzi non sta portando in questo momento nessun valore aggiunto: in Sicilia, come altrove, nessun indeciso si avvicina al PD grazie alla leadership di Renzi. Se al suo posto ci fosse un altro candidato, il PD siciliano probabilmente non fletterebbe. E forse è questo il dato che infastidisce Renzi, più che un risultato prevedibile e previsto. Gli antichi notabili della Prima Repubblica, quelli abituati a non riconoscere nessuna sconfitta, avevano interiorizzato un semplice principio della comunicazione: chi dice “ho perso” non sembra meno perdente. La sconfitta è una cosa appiccicosa: te la rinfacceranno sia che la neghi sia che l’ammetti. Tanto vale glissare e parlar d’altro.

Renzi non ne è capace. Dicendo “io ho perso”, almeno riesce ancora a dire “io”: a scacciare il sospetto della propria irrilevanza. È a quel punto che scatta un tranello, perché a quanto pare le sconfitte rivendicate per Renzi sono come le ciliegie: una tira l’altra. Basta che Floris lo incalzi un po’ e Renzi è pronto a ricordare che il suo PD ha anche perso Roma, ha perso Torino, ha perso persino Livorno, e il referendum! Non dimentichiamo che Renzi ha perso il referendum. In un’ora di discussione, almeno mezza è stata spesa così: a ribadire le proprie sconfitte, a rivendicare con orgoglio scelte tattiche che evidentemente non hanno funzionato. Perché fuori dai talk ci sono ancora vincitori e vinti, e Renzi da due anni a oggi appare sempre più tra i secondi. Il punto è che non fa nulla per scrollarsi questa immagine di dosso, a volte sembra quasi compiacersene. Ai suoi, evidentemente, piace così, ma a tutti gli altri?

Nel frattempo alla Casaleggio Associati hanno di che brindare. Due settimane fa Maria Elena Boschi (braccio destro di Matteo Renzi, nonché sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio) sfida Luigi Di Maio a un dibattito televisivo “sulla questione bancaria”. Di Maio prende tempo, perché è molto impegnato con la campagna elettorale in Sicilia, e all’ultimo momento rilancia, sfidando direttamente Matteo Renzi. Proprio alla vigilia delle regionali. Qualcun altro a questo punto avrebbe ricordato a Di Maio che c’era un impegno precedente da onorare, e che la Boschi attendeva ancora una risposta. Sarebbe stato un modo abbastanza elegante di evitare la trappola e mantenere un minimo di distanza. Perché per un elettore del PD, in fondo, questo Di Maio chi è? Il candidato presidente del Consiglio del M5S, ma perché? Perché sulla piattaforma Rousseau ha preso trentamila preferenze. Certo. Renzi, anche nel momento più difficile – il fallimento del referendum – è riuscito a trovare un milione di persone che votassero per riconfermarlo Segretario del PD. Insomma, non sarebbe stato sbagliato imporre a questo Di Maio un po’ di trafila. Sarebbe anche stato un bel gesto nei confronti di una collaboratrice leale come la Boschi.

Renzi ha deciso diversamente, senza preoccuparsi di legittimare il suo avversario. Era sicuro di poterlo battere in qualsiasi salotto televisivo, a qualsiasi orario, con le sole armi della sua eloquenza. Chissà se alla Casaleggio Associati hanno pensato, anche solo per cinque minuti, di mandare davvero Di Maio da Floris. Non che abbia molta importanza. È bastato aspettare il risultato delle elezioni siciliane – nemmeno troppo positivo per il M5S – per trovare la migliore delle scuse: il M5S ha già un candidato premier, il PD forse no. Renzi era disposto a legittimare l’avversario, pur di dividere con lui una tribuna: la Casaleggio Associati ha avuto buon gioco a delegittimarlo all’ultimo momento. Magari, vista da una giusta angolatura, è davvero una situazione win-win. Non dalla mia, certo.
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Come alienare i propri elettori e regalare le elezioni al vecchietto

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Quindi Berlusconi nel 2018 potrebbe vincere le elezioni. Negli ultimi giorni chi ha letto i sondaggi – pubblici o riservati, veri o farlocchi (tanto sbagliano tutti) – sembra essersi rassegnato alla cosa. Che Berlusconi decida o no di avvalersi della faccia relativamente nuova di Salvini come candidato premier, la sostanza non cambia; l’ottuagenario già condannato per frode fiscale, già fuggito da Palazzo Chigi in piena la crisi dello spread e la stampa mondiale rideva delle sue “cene eleganti”, parteciperà alle sue settime elezioni legislative e potrebbe pure vincerle. Sarebbe la quarta volta in ventiquattro anni. Questo risultato senza precedenti nella storia d’Italia, Berlusconi sembra averlo ottenuto con un minimo sforzo: gli è bastato rimanere vivo, posare ogni tanto per una foto con una fidanzata giovane e un cagnolino, sopportare Salvini e in generale i suoi alleati. Il grosso della fatica sembra averlo fatto il suo apparente antagonista, Matteo Renzi; gli stessi sondaggi danno il suo Pd al terzo posto dietro il centrodestra e il Movimento Cinque Stelle. 



Al contrario di B, Renzi in questi quattro anni si è dato molto da fare:
nel 2012 ha perso le primarie del centrosinistra, nel 2013 ha vinto quelle del PD; ha vinto le elezioni europee, poi ne ha perse altre; ha sostenuto il governo Letta, poi lo ha impallinato; ha sostituito Letta a Palazzo Chigi, ma poi si è giocato la sedia con un referendum perdente; ha sostenuto il sindaco PD di Roma, poi ha impallinato pure lui; ha messo la fiducia sull’Italicum, la Corte Costituzionale gliel’ha bocciato e ha dovuto mettere la fiducia su un’altra legge elettorale che pure lo penalizzerà. Anche il suo probabile piano B (un governo di coalizione col centrodestra) sembra un’opzione disperata, se non un modo di prolungare l’agonia di una carriera politica rapidissima e già in fase calante. Matteo Renzi fino a un certo punto sembrava surfare sulla cresta di una straordinaria onda riformatrice; finché non è successo qualcosa e da lì in poi ha dato la sensazione di annaspare in una piscinetta gonfiabile. Quel che è peggio è che non sembra nemmeno aver capito cosa non abbia funzionato...(continua su TheVision).



Proviamo a riavvolgere il nastro. Cerchiamo di ricordare l’entusiasmo che circondava Matteo Renzi nelle settimane successive alle primarie del dicembre 2013, vinte con il 68% dei voti. Ma la sua popolarità in quel momento andava ben oltre i confini del PD: tracimava in un bacino più vasto in cui confluivano i delusi di Berlusconi e gli orfani della sinistra di governo che non avevano creduto né in Monti né in Bersani – tra loro alcuni erano stati momentaneamente attratti dalle 5 stelle, per poi allontanarsene dopo averli sentiti blaterare di chip sottopelle e scie chimiche. Di fronte a loro, Renzi sembrava uno statista. Persino l’anziano Berlusconi, ormai rassegnato al tramonto (e interdetto per due anni dai pubblici uffici), dopo aver divorato negli anni tutti i suoi eredi, sembrava curioso del suo nuovo giovane rivale, e pronto a concedere qualche riforma importante in cambio dell'onore delle armi. Tantopiù che Renzi non sembrava minimamente interessato a varare una legge sul conflitto di interessi, ovvero a togliergli qualche emittenza in chiaro. Tanto non è mica con le televisioni che vinci o perdi le elezioni – nel 2013? Chi è che crede ancora in questa sciocchezza?


I suoi predecessori alla guida del PD avevano sempre cercato di mettere all’ordine del giorno il problema (alcuni, bisogna dire, con scarsissima convinzione). Renzi no, a Renzi le tv non interessavano Lui era giovane, usava i social network, twitter, quelle cose lì. I giornalisti per un po' lo trattarono con benevolenza, lo ascoltavano volentieri senza fargli domande difficili. Andò pure ospite da Barbara D’Urso la domenica su Canale 5. Le elezioni europee andarono benissimo – oltre la soglia del 40%. Quando Berlusconi volle proporgli una legge elettorale, dovette bussare direttamente alla porta del nemico, il Nazareno. A questo punto ormai Renzi si sentiva padrone della situazione e si lasciò convincere a sostituire Enrico Letta a Palazzo Chigi. L’asse informale con Berlusconi durò fino alla fine del 2014, l’anno che probabilmente Renzi ricorda con più nostalgia. Si spezzò all’improvviso quando fu il momento di votare il successore di Napolitano al Quirinale. La cosa curiosa è che Berlusconi – se è vero quel che suggerisce lo stesso Renzi – sembrava disposto ad accontentarsi di un vecchio esponente del centrosinistra come Giuliano Amato. Ma era un nome gradito alla minoranza interna del PD, e Renzi preferì Mattarella: alienandosi in un colpo solo sia la minoranza del PD che Berlusconi. Quest’ultimo ormai era un vecchietto inoffensivo; quanto alla minoranza, dopo il varo del Jobs Act, sembrava un’appendice irrecuperabile. (Nel frattempo, in un canale di secondaria importanza, Rete4, debuttava una striscia giornaliera, Dalla vostra parte: ambientata ogni giorno in una diversa piazza d’Italia, mostrava gruppi spontanei di cittadini spaventati dalla microcriminalità e dall’immigrazione, sdegnati dalle ruberie dei politici al potere. Non fece molto parlare di sé, del resto la tv non è più così importante). 


Rimasto senza l’appoggio di Berlusconi, guardato con freddezza da una parte non piccola del suo stesso partito, Renzi poteva comunque contare sul sostegno trasversale di tanti elettori che lo consideravano più affidabile di Grillo e Salvini – a questi elettori, che però cominciavano a preoccuparsi per sicurezza nei quartieri periferici, Renzi doveva far digerire riforme concordate con la stessa base progressista che si stava alienando: le unioni civili, lo ius soli. Nel frattempo al bar sentivi dire che in piazza era pieno di scippatori immigrati che portavano le malattie, ma Renzi pensava solo a far sposare i gay. Sembra invece che la microcriminalità sia in calo, ma vallo a spiegare bar per bar. 


Una volta varata la legge Cirinnà, nell’autunno scorso il dibattito politico si concentrò sulla riforma costituzionale e l’annesso referendum: Renzi disse che ci si giocava la faccia, poi si pentì e disse che si era sbagliato a personalizzarlo, ma la faccia ormai era sul piatto e la perse. Tornò anche dalla D’Urso, ma solo dopo Berlusconi – giocava in casa, dopotutto, giusto così. Per due mesi si discusse di competenze del Senato, di sindaci dopolavoristi e dell’abolizione del CNEL. Nel frattempo per strada la gente ti fermava per dirti che non era più possibile fermarsi per strada, dovunque stranieri potenziali terroristi criminali, un’invasione! C’era anche scritto in un libro Mondadori. Il nuovo ministro degli Interni, Minniti, fiutando l’aria, decise che avrebbe fermato i barconi a qualsiasi costo. I barconi – quando si rividero, in primavera – in realtà non erano molti più del solito, ma li fermò comunque e gli costò probabilmente parecchio. Questo risultato lo rese molto popolare tra gli elettori di M5S e Centrodestra – cioè quelli che lo avevano mai votato e probabilmente non lo voteranno mai. L’opinione pubblica comunque non ha smesso di pensare che in Italia ci sia un’invasione in atto, ghetti invisibili ai radical chic dove i bambini italiani devono chiedere il permesso a orde di stranieri ecc. ecc. 


Matteo Renzi nel frattempo non è che sia stato a guardare: mentre la stampa e qualche telegiornale approfittavano di alcuni scandali finanziari e bancari per attaccare suo padre e una delle sue più vicine collaboratrici, Maria Elena Boschi, lui spiegava le sue ragioni in un libro. Dalla D’Urso non lo ha ancora presentato. La settimana scorsa ha imposto la fiducia su una legge elettorale che probabilmente premierà i partiti più radicati nel territorio: a nord la Lega farà incetta di seggi, mentre il PD potrebbe andare in bianco. Così probabilmente le elezioni le vincerà Berlusconi, e nessuno sa esattamente il motivo. Di sicuro non perché possiede ancora qualche canale in chiaro – tanto non è mica con le televisioni che si vincono le elezioni, dai. Chi è che crede ancora a questa sciocchezza? Quattro elezioni in ventiquattro anni? È senz’altro una coincidenza.

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Come costruire un ghetto (ti aiuta anche Gramellini)

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Qualche giorno fa sono entrato in un bar e mentre addentavo un cornetto ho scoperto che il mio quartiere è un ghetto. C’era scritto sul giornale. Un ghetto.

Sono uscito a dare un’occhiata. Sembrava proprio lo stesso quartiere. Il parcheggio, la palestra, la chiesa dei frati, tutto regolare. Lo stadio, il sindacato, la bocciofila nell’ex macello, la discoteca dei ragazzini e proprio di fianco la scuola dai muri giallo canarino dove gli italiani sarebbero discriminati dagli… “extracomunitari”. Così diceva il giornale.

Non era un giornale locale. Era il Corriere della Sera. In prima pagina, Gramellini stava dicendo che la Cittadella di Modena - neanche un quartiere, in realtà, un riquadro di strade appena fuori dal Centro - è un ghetto “poco frequentato dai radical chic”. Il feticcio preferito dei giornalisti italiani, i “radical chic”, esistono dunque anche a Modena? Non ne sono così sicuro; ma nel caso senz’altro cercherebbero di iscrivere i figli al liceo qui davanti. Cosa sta succedendo? Perché un affermato giornalista su un quotidiano nazionale sta parlando male del mio angolo di strada - dove evidentemente non ha messo mai piede - e in particolare di... una scuola elementare?




A settembre una signora modenese si è resa conto che sua figlia era l’unica, nella sua classe seconda, ad avere un cognome italiano. La scoperta non deve essere stata così sorprendente: in prima due compagni avevano un cognome italiano, ma si sono trasferiti. La signora invece ha chiesto alla dirigenza di cambiare classe. La dirigenza, ovviamente, ha risposto di no. Dopo aver scritto al provveditorato, che non poteva non ribadire la scelta del dirigente, la signora si è rivolta alla stampa, destando l’attenzione del quotidiano locale, che tradizionalmente lancia allarmi sui lati più controversi dell’immigrazione.



Modena, in effetti, è una delle città d’Italia in cui vivono più immigrati. In certi quartieri più che in altri. Non è che tutto sia semplice, anzi: ma la criminalità negli anni non è aumentata. Può darsi che ci siano dei quartieri-ghetto a Modena – me ne vengono in mente un paio – ma non la Cittadella, davvero, con tutta la più buona volontà. (Quanto mi piacerebbe poter dire ai miei studenti «Ho preso la maturità linguistica in da ghetto»? Ma non è successo.)

Grazie alla stampa, la madre ottiene molta attenzione: viene intervistata da TgCom24, Agorà (Rai3), altri ancora, ma il risultato non cambia. Alla fine, allora, decide di spostare la bambina in un’altra scuola “dove gli extracomunitari,” ci spiega Gramellini, “sono sempre tanti, ma non più tutti. La scuola della discordia si difende ricordando che la metà dei bambini di quella classe è nata in Italia”.

Auguro alla bambina di trovarsi bene nella sua nuova classe. Non mi sento di biasimare sua madre, sul serio. Mi vengono in mente due o tre ottimi motivi per cui il dirigente non doveva soddisfare la sua richiesta, ma posso capire anche lei: ha lottato per la sua bambina che si è ritrovata in un contesto difficile. Al suo posto non avrei fatto lo stesso? Non lo so: quando ci sono i nostri bambini di mezzo non capiamo più niente.

Forse a metà degli anni Novanta, di fronte a una lista di appello con venti cognomi stranieri, avremmo dovuto immaginare un suk di bambini incapaci di parlare in italiano. Ma appunto: sono passati vent’anni. Nel 1997 ce n’erano già parecchi di stranieri, qui da noi. È tutta gente che già dieci anni fa era in grado di ottenere la cittadinanza. Se poi hanno fatto figli (a volte anche con i modenesi), non sono né extracomunitari né stranieri: sono bambini italiani figli di naturalizzati italiani. Sta succedendo ovunque in Italia, magari a Modena un po’ prima che altrove, ma sarebbe ora di rassegnarsi: una lista di venti cognomi stranieri non è una lista di venti bambini stranieri. La stessa mamma, nell’intervista rilasciata a TgCom24 ha ammesso che di bambini che non conoscevano l’italiano ce n’era solo uno. Uno.

E gli episodi che dovrebbero evocare un ambiente intollerante sono sì incresciosi, ma anche abbastanza diffusi in qualsiasi realtà scolastica: «Una volta una bimba è stata spinta per le scale, in un’altra occasione sono stati tagliati i capelli con le forbici a una bambina. È una classe molto difficile».

Gramellini ci ricorda che “la mamma marocchina di una di queste bimbe […] avrebbe istigato la figlia a maltrattare la piccola modenese”. Il condizionale è d’obbligo perché nessun giornale che ha riportato quest’accusa sembra essersi dato la pena di fare quello che normalmente fa un insegnante in un caso del genere: sentire l’altra campana. Di che tipo di maltrattamenti parliamo? Un episodio o tanti? Molestie fisiche o verbali? Avete mai sentito sui gradini della scuola un genitore dire “Se continua a dartene, dagliene indietro”? Io l’ho sentito da gente di ogni statura, colore, estrazione sociale.

Quella che Gramellini definisce “scuola della discordia” è un bell’istituto coi muri giallo canarino, un coro che a Natale è andato a cantare in piazza Grande e degli insegnanti che preferiscono non commentare. Senz’altro la quota di bambini di origine straniera è più alta della media; l’episodio almeno sarà servito a suscitare una discussione sui criteri adottati dal Comune per assegnare gli studenti alle scuole. Perché se da una parte dobbiamo accettare che i cognomi stranieri non significano più “extracomunitario”, dall’altro è evidente che qualcosa sia andato storto: a Modena ci sono scuole dove di cognomi stranieri ce n’è giusto un paio per classe. È un fenomeno ben noto a genitori e insegnanti: per accedere a certe scuole c’è una lista d’attesa, per altre no. Di solito i genitori più esigenti hanno un cognome italiano, e una delle esigenze più sentite – lo dico per esperienza – è proprio quella di evitare le classi con troppi cognomi non italiani.

È razzismo? È un vecchio ragionamento – cognome straniero = difficoltà linguistiche = abbassamento del livello della classe – che spesso condividono anche i penultimi arrivati, e che progressivamente si sta smontando, man mano che i millenial crescono e sempre più cognomi stranieri si diplomano con 100 e lode. È anche il risultato di un circolo virtuoso/vizioso: se tutti i genitori più esigenti si convincono che una scuola sia migliore delle altre, si metteranno in fila, e probabilmente la presenza di studenti più motivati migliorerà davvero quella scuola: studenti motivati, insegnanti contenti, lezioni interessanti, liste d’attesa ancora lunghe. Se solo si potesse evitare che nel frattempo in altre scuole rimanesse spazio soltanto per gli studenti provenienti da famiglie meno integrate, con insegnanti costretti a far fronte a problemi supplementari, da cui lo stress, lezioni più faticose, richieste di trasferimento, etc… Forse è quello che prevede la “Buona Scuola” quando si propone neanche troppo velatamente di mettere anche le scuole dell’obbligo in competizione tra loro. Forse anche Modena si sta avvicinando a quel modello dei film americani, dove se nel quartiere c’è una buona scuola gli immobili costano di più. Nel frattempo, se lavori in una scuola di un quartiere difficile, la tua unica speranza di invertire il circolo è darti da fare: coinvolgere i genitori, organizzare un coro, cercare di dare risalto a tutte le cose positive che ti succedono. Poi, un giorno, magari entri in un bar e mentre addenti un cornetto scopri che Gramellini sul Corriere dice che la tua è la “scuola della discordia”, e che il tuo quartiere è un ghetto.

C’è mai stato? Ha fatto delle indagini o si è fidato di quel che ha letto in giro? La tua scuola è così brutta? Il tuo quartiere è un ghetto? Gramellini senz’altro conosce la teoria delle finestre rotte: chissà se si è reso conto di aver appena lanciato un macigno assurdo, dall’alto della prima del Corriere su una piccola scuola di un piccolo quartiere che non frequenterà mai.
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Cesare Battisti (odiarlo è così facile)

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Ancora una settimana di tregua, e poi torneremo a odiare Cesare Battisti. Il 24 ottobre la Corte Suprema brasiliana esaminerà la sua situazione, e a quel punto forse capiremo se ci sono i margini per un’estradizione in Italia di quello che ormai è diventato – suo malgrado – il più famoso terrorista italiano. Al punto che il candidato premier del M5S, Luigi Di Maio, di recente l’ha tirato in ballo mentre chiedeva giustizia per “gli anni dello stragismo”. Ci sarebbe quel piccolo particolare che Battisti non è uno stragista, ma l’errore è comprensibile. A Di Maio serviva un esempio famoso, un tizio di cui negli ultimi anni si è sentito parlare, una faccia vista in tv: e negli ultimi dieci anni l'onere di interpretare il ruolo d irriducibile degli anni di piombo è toccato a lui.

Ha anche la faccia giusta, diciamolo, perfetta per i titoli di un tg: troppo spesso ai fotografi ha mostrato quel tipico di ghigno da criminale impunito. Mentre i volti di tanti altri reduci dello stesso periodo sbiadiscono negli archivi cartacei, lui continua a trovarsi davanti ai flash delle macchine digitali, e a volte la cosa sembra piacergli: dopo l’ultima scarcerazione, all’aeroporto saluta i giornalisti alzando il boccale di birra che ha in mano – ovviamente scriveranno che stava brindando. Nel frattempo in giro per il mondo c’è almeno una trentina di terroristi latitanti, ma Battisti è l’unico che fora il video. Alessio Casimirri, uno dei brigatisti rossi che falciarono la scorta di Aldo Moro, ha sei ergastoli da scontare: gestisce un ristorante a Managua. Un po’ più vicino si è fermato un suo complice, Alvaro Lojacono, che ha acquisito la cittadinanza svizzera. Casimirri e Lojacono rientrano nella definizione tecnica di stragisti, ma è possibile che Di Maio non ne abbia mai sentito parlare: non hanno più bisogno di scappare e non fanno più parlare di sé.

(Ho scritto un pezzo per TheVision, sul solito caso Battisti).
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Finisce la legislatura, svelto! vota una legge elettorale a caso

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Come forse sapete, si sta votando alla Camera l’ennesima legge elettorale – la terza in questa sola legislatura. Per evitare che venga impallinata come la penultima, il governo Gentiloni ha deciso di porre la fiducia, come fece il governo Renzi con l’Italicum tre anni fa. Come forse immaginate, la legge elettorale che verrà approvata è brutta – come del resto era brutto l’Italicum, anche se lì la filosofia era diversa. Quest’ultimo era concepito per regalare il Parlamento al leader che fosse riuscito a conquistare il 40% dei voti. Dopo le europee Renzi era convintissimo di riuscirci; pochi mesi dopo, i suoi uomini stavano già bisbigliando che forse la legge andava cambiata. La nuova legge, invece, scaturisce da un’amara constatazione: al 40% non ci arriverà né Renzi né nessun altro. A questo punto è abbastanza normale, se i partiti sono tre, che almeno due si accordino in Parlamento per rendere più complicata la vita al terzo. Specie se il terzo in questione è il M5S, che potrebbe perfino vincere la conta dei voti, ma che tra tutti è il meno disponibile alle alleanze post-elettorali.


Avremo dunque due partiti (il PD e Berlusconi +Salvini) che lotteranno come leoni fino alla mattina delle elezioni, per accordarsi come agnelli la sera dello spoglio dei voti. Questo meccanismo, che nel lessico degli osservatori politici viene chiamato “inciucio”, è universalmente esecrato, ma al momento appare abbastanza inevitabile. Nel caso i numeri lo permettessero, potrebbero esserci delle scissioni. Ad esempio, un pezzo di centrodestra potrebbe staccarsi (ricordate Alfano, tre anni fa?) e andare al governo col centrosinistra, oppure il contrario: è un fenomeno che sul finire dell’Ottocento fu battezzato “trasformismo” e che ha resistito a cinque o sei sistemi elettorali diversi. Al centro del Parlamento, nel loro dorato isolamento, i grillini continueranno a recitare il ruolo dei duri-ma-puri.


Salvo meteoriti o altre catastrofi, dovrebbe finire così... (ho scritto un altro pezzo per TheVision, si chiama: Sorpresa, la nuova legge elettorale farà schifo come le altre).
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Quanti marinai cingalesi servono per portare 8 ragazzi bianchi a salvare l'Europa?

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Dopo vent'anni di lutto, finalmente la regina ha acconsentito a risposarsi. Ma proprio durante il banchetto di fidanzamento scoppia una rissa incresciosa: un mendicante trucida tutti gli invitati affermando di essere il vecchio re, tornato da un lunghissimo viaggio. Dice che ha conquistato una grande città (ma non porta con sé nessun bottino); che nel viaggio di ritorno ha sconfitto mostri, litigato con dèi, visitato il mondo dei morti, insomma era assente giustificato. Questo è più o meno quel che resta dell’Odissea se togli lo storytelling e lasci lo squallore.


Ho ripensato a Ulisse, e a quanto gli piaceva raccontarsela, quando l’altro giorno su Libero ho ritrovato Lorenzo Fiato e i suoi amici di Defend Europe. Era da un po’ che non ne sentivo parlare. Il loro profilo twitter è inattivo da un mese, c’era di che preoccuparsi. Fiato è un vero Ulisse del mediterraneo contemporaneo. Non ci credete? Sentite cosa scrive su Libero un tizio che non è Omero, ma si sta attrezzando:

“Hanno fermato gli scafisti, l'immigrazione clandestina e le Ong, e sono appena 8 ragazzi. Per questo li hanno definiti "pirati" o "fascisti" ma oggi l'equipaggio di Defend Europe può dirsi vincitore. A bordo della loro C -Star hanno svelato i lati oscuri e, forse, gli affari delle Organizzazioni non governative attive nel salvataggio dei migranti…”

Otto ragazzi, pensate. Otto giovani a bordo di una nave hanno “svelato i lati oscuri” delle ONG, e hanno vinto! (su TheVision c'è un pezzo mio, sottilmente intitolato LA NAVE ANTI-ONG DEFEND EUROPE È AFFONDATA IN UN MARE DI SFIGA).
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Grillo non è Hitler, che gran consolazione

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A questo punto se fossi Grillo e sentissi Gianluigi Paragone chiamare il Movimento Cinque Stelle un “movimento bambino” (“non ha ancora capito le regole del mondo degli adulti… ma le capirà”) mi sentirei un po’ a disagio. Sono ormai dieci anni che si parla del Movimento col VaffaDay. E dieci anni fa non c’era il PD, Forza Italia si chiamava il Popolo delle Libertà, il leader del centrosinistra era Romano Prodi, Silvio Berlusconi era felicemente sposato. Insomma, ne abbiamo avuto di tempo per combinare qualcosa. Perché continuano a trattarci come bambini? Forse perché strilliamo tanto e non è mai chiaro cosa vogliamo? Perché poi tutti (anche i nostri elettori) sono convinti che siamo antivaccinisti, quando invece abbiamo una posizione molto più matura e articolata? Perché tutti ci credono anti-euro, quando invece vogliamo soltanto indire un referendum consultivo?



C’è anche da dire che se fossi in Grillo, e se fossi dotato della stessa franchezza di Grillo, a questo punto avrei qualche difficoltà a passare davanti a uno specchio la mattina... (su Thevision c'è un altro pezzo mio, s'intitola: Il M5S ha fermato l'estrema destra perché l'ha resa superflua).

Ormai sono dieci anni che sostengo la Rivoluzione, che propino il Movimento, e ok, non è che la gente abbia smesso di comprarsi il pacco: ma cosa ho concluso? Dopo dieci anni passati a parlare di democrazia della Rete, democrazia dal basso, indico le primarie e partecipano in trentamila. Il sito è un colabrodo, il “sistema operativo” non è un sistema e non è operativo. In teoria siamo il popolo della Rete, in pratica qualsiasi pischello può bucarci il firewall ed eleggere Valentina Nappi, che poi in effetti non sarebbe neanche l’opzione peggiore. Nel frattempo a Roma le zanzare diffondono la Chikungunya, perché la giunta di sconosciuti signori del M5S trova queste esotiche malattie preferibili a una disinfestazione coi pesticidi. Quanto a me, se fossi in Grillo, sarei esausto di tutto il carrozzone, ma ormai scendere è impossibile, mi verrebbero a prendere a casa con le torce. Per cui ok, retrospettivamente l’idea di far pubblicità ai miei spettacoli creando una parodia di movimento politico è stata un buon affare per me, sebbene un disastro per il mio Paese. D’altro canto…

(D’altro canto che?)

…d’altro canto c’è chi ha fatto di peggio.

(Ma chi?)

Ma non saprei, per esempio… Adolf Hitler!

Funziona sempre. Provateci un domani, quando parcheggerete il vostro SUV sulle strisce dei disabili ricordate ai passanti scandalizzati che alla vostra età, Hitler, i disabili li faceva ammazzare! Non vi fa sentire meglio? No, vero? Quanto dev’essere bassa l’autostima di una persona che per sentirsi meglio di qualcuno deve scomodare Hitler? Ed è un paragone che Grillo fa abitualmente. È il sistema che usa per trarsi d’impaccio, forse anche con la sua coscienza: è vero, ho fatto una cazzata, però… non l’avessi fatta io, sarebbero arrivati i nazisti! Siamo il famoso Argine all’Estrema Destra!





Ma cos’è un argine? Una barriera solida, di terra o cemento, che impedisce a un corso d’acqua di dilagare. Il Movimento Cinque Stelle, col suo NonStatuto e il suo NonSistemaOperativo, può essere in qualche modo paragonato a una barriera solida? Non ha piuttosto una consistenza porosa e malleabile? In altre parole: chi ci assicura che il Movimento Cinque Stelle, ormai un grande partito gestito da una piccola azienda a conduzione familiare, non sia in qualsiasi momento scalabile?

Grillo, sì, non sei Adolf Hitler, se questo ti fa sentire un po’ più in pace con te stesso continua pure a ripetertelo. Ma neanche il Partito Nazionalsocialista era Adolf Hitler: lui è arrivato in un secondo momento, all’inizio probabilmente era un infiltrato. Il punto è che non ci mise poi così tanto a fare di quel partito di reduci una pallina di pongo nelle sue mani: chi ci assicura che il tuo giocattolo, il giorno che te ne sarai stancato – e te ne sei già stancato – non possa finire nelle mani di un personaggio altrettanto psicopatico?

Impossibile, dirai tu: queste sono cose che succedono solo nei film, nella storia del Novecento, e nei film sulla storia del Novecento. Ok, un esempio un po’ più attuale: hai visto cos’è successo ad Alternative für Deutschland? Magari ne hai sentito parlare, visto che a Bruxelles siete partner. Sì: l’unica europarlamentare superstite alla scissione del 2014, Sua Altezza Beatrix Von Storch, fa parte del gruppo EFDD con voi del M5S e quei buontemponi brexiters dell’UKIP.

No, sul serio, la storia del partito di destra il cui successo sta terrorizzando tutti gli osservatori – ma che alla fine prende più o meno gli stessi voti che dovrebbe prendere un Salvini in Italia – è veramente suggestiva. È come Fare per Fermare il Declino. Ve lo ricordate Fare per Fermare il Declino? È come se un partito di economisti superliberali, invece di esplodere in una bolla dell’inconsistenza dei titoli accademici di Oscar Giannino, fosse stato colonizzato da avanzi di Lega e neofascisti o postfascisti, tutti uniti da un sacro furore antislamico e anti-migranti. Che è successo? Niente di nuovo. Non è la prima volta infatti che gli xenofobi tedeschi si agglutinano intorno a un partito che non è dichiaratamente di estrema destra, ma che dà la sensazione di poter superare lo sbarramento a destra dei Cristiano Democratici. Negli anni ‘80/’90, per un po’, andarono forte i Republikaner, adesso tocca a questo AfD che all’inizio era un partito di economisti nemmeno contrari all’Unione Europea, ma desiderosi di sbatter fuori i PIGS dell’Europa meridionale. Un partito che insomma serviva da sponda alla Merkel quando dovette mostrare fermezza coi greci in bancarotta. Mentre ora, dopo due scissioni – l’ultima avvenuta all’indomani delle elezioni – AfD è un partito di islamofobi terrorizzati dalle moschee, che servirà da sponda alla Merkel quando chiederà un giro di vite alle frontiere. Magari anche i fondatori dell’AfD, all’inizio, credevano di arginare qualcosa. Magari anche loro, oggi, contemplando il pasticcio, possono sempre guardarsi allo specchio e dire: però Hitler alla mia età ha fatto aprire Auschwitz.

Dopodiché siamo d’accordo, Grillo non è Hitler: ma l’avrebbe saputo riconoscere, in una birreria di Monaco, nel 1919? Avrebbe capito quanto erano pericolosi i suoi sproloqui contro il complotto giudaico-massonico dei banchieri? O non lo avrebbe trovato promettente, genuino, irresistibile, con quella rabbia che funziona così bene davanti ai microfoni e su internet? Con quei discorsi un po’ paranoici da ignorante ma perfetti da linkare sulla vecchia colonnina di destra di beppegrillo.it? “Un bambino”, avrebbe detto Paragone: lasciategli dire fregnacce, vedrete che imparerà. Sì. L’ultima volta fu un disastro mondiale, speriamo che sia una di quelle volte che la storia si ripete solo in farsa.
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Comunicatori che ci comunicano che lo Ius Soli è comunicato male

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Ogni volta che mi capita di preparare una visita d’istruzione all’estero, so già che ci sarà almeno un mio studente che dovrò lasciare a casa perché non ha i documenti per l’espatrio. Immaginate la situazione: due ragazzi uguali, nati nella stessa città (la mia), che vanno nella stessa scuola, pisciano nello stesso gabinetto (meglio se non contemporaneamente), ma che non hanno lo stesso diritto di andare in Costa Azzurra, perché? Perché uno ha i genitori, per dire, moldavi e l’altro rumeni. Quindi il secondo ha i documenti per andare in gita e il primo no. Al primo cosa posso dire? Mi dispiace, ho visto che ti impegni e mi stai pure simpatico, ma i tuoi genitori sono nati a est del fiume Prut a quanto pare la cosa è molto importante; infatti chi viene da oltre il fiume Prut è una minaccia per la nostra identità, nel senso che può anche lavorare e pagare le nostre tasse, ma suo figlio in gita in Francia, eh no. È una pura assurdità, che almeno un partito (il PD) aveva promesso di eliminare, con una legge (il cosiddetto Ius Soli) che questa settimana con ogni probabilità si impantanerà in Senato e molto difficilmente nella prossima legislatura qualcuno avrà le palle di riproporre. E questo perché?
Forse perché negli ultimi mesi alcune testate si sono messe a pompare al massimo un certo sentimento xenofobo, inventandosi una specie di invasione africana che – dati alla mano – non esiste?

(Ciao. Su TheVision c'è un pezzo mio, si chiama Che c***o sta combinando il Pd con lo Ius Soli ma ce l'ho più col Corriere che col Pd. Non è che uno può sempre prendersela col Pd. Ok, un'altra volta me la prendo col Pd).
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