Petronio, un patrono insoddisfacente

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4 ottobre: San Petronio (V secolo), deludente patrono di Bologna

Oh ma vi sembra una roba da mostrare ai turisti,
ma ripigliatevi.

Si sa che alle ossa di un santo possono capitare le cose più strane, ad esempio quelle di San Petronio furono testate come parafulmine: siccome la Torre degli Asinelli sembrava particolarmente bersagliata  dalle scariche elettriche del cielo – il che poteva riflettere una certa insofferenza di Nostro Signore per la città universitaria – i bolognesi provarono a mettere un po' di resti di Petronio in cima alla torre, sperando che Domineddio avrebbe usato da quel momento in poi un po' più di riguardo. Sì, se uno ci riflette non ha senso neanche dal punto di vista di un credente, cioè se Domineddio è arrabbiato con una città, mica gliela fate passare con le reliquie – però oh, ci hanno provato, i bolognesi con l'elettricità non lasciano nulla di intentato, le rane di Galvani ne sanno qualcosa. 

Funzionò? Ovviamente no. Del resto Petronio, come santo patrono, ha sempre lasciato a desiderare: questa cosa i bolognesi non ve la diranno mai, non ne parlano volentieri, hanno tutta una reputazione razionalista da difendere. Tuttavia è un'evidenza che trasuda dai fatti: Petronio è il santo che si sono scelti, rintracciandone i resti e plasmandone la storia, nella speranza che intorno alla sua augusta figura la città potesse trovare una sua autonomia, magari addirittura un'indipendenza. Ha funzionato? Decisamente no. Dal medioevo, Bologna è la più grande città italiana che non è mai stata capitale di nessuno Stato o signoria, nemmeno di sé stessa. Di Petronio, ottavo vescovo della città, si conosceva quasi soltanto il nome quando i suoi resti furono rinvenuti dai monaci benedettini nel complesso di Santo Stefano. Ma il ritrovamento avvenne in un periodo cruciale, a metà del Millecento: ogni città italiana si stava costituendo in Libero Comune e il ritrovamento di Petronio offriva ai bolognesi l'opportunità di stringersi intorno a un santo autoctono, ancorché probabilmente originario delle Gallie. 

Questo è un "videomapping" e forse ci fornisce una chiave:
se i bolognesi la finissero, dovrebbero poi ammettere che non è la più bella,
che in giro ce n'è di migliori.

Qualche volenteroso scrittore senza troppe preoccupazioni per le fonti, a Bologna non ne mancano, ne scrive un'agiografia che lo rende il rifondatore della città: cognato dell'imperatore Teodosio, nominato vescovo di Bologna da papa Celestino, Petronio avrebbe trovato la città distrutta dalle invasioni barbariche e si sarebbe dedicato alla sua ricostruzione; non solo edificando Santo Stefano come "Santa Gerusalemme", sul modello del Santo Sepolcro, ma ampliando le mura e ottenendo dal cognato imperatore una larga autonomia amministrativa e addirittura il permesso per costituire uno Studium, cioè l'università – insomma non era ancora il Milleduecento e già i bolognesi smaniavano di sostenere che la loro università fosse la più antica del mondo.

Petronio sta già iniziando a incarnare un certo orgoglio cittadino, quando a metà del Duecento il Comune di Bologna lo nomina patrono ufficiale. Potrebbe sembrare una mossa scontata – insomma è il vescovo più antico di cui si sono trovate le ossa, nientemeno che a Santo Stefano – e tuttavia fino a quel momento il patrono di Bologna era San Pietro, a ricordare perpetuamente ai bolognesi che la città non era che una dipendenza di Roma. Benché al tempo fosse più grande, più ricca, più dinamica, ma niente da fare: Bologna è sotto Roma, fine delle discussioni. Ai bolognesi viceversa piace discutere, così proprio quando la stagione dei comuni è agli sgoccioli decidono di erigere in onore di Petronio la più grande basilica del mondo, qualcosa che faccia impallidire non soltanto la cattedrale di San Pietro a Bologna – che resterà la chiesa vescovile – ma la stessa San Pietro di Roma, del resto al tempo parecchio malandata. Una mossa sfrontata: funzionò? 

Il modellino di Arriguzzi, ovvero come se l'immaginavano nel Cinquecento
(quando comunque non avevano i soldi per finire il pezzo già costruito).

Assolutamente no: del resto è molto difficile costruire la più grande cattedrale del mondo in una città dove comandano i legati papali, che ogni tanto ti sequestrano marmo e legname e lo rivendono; oppure fanno costruire l'Archiginnasio dove il progetto iniziale faceva passare il transetto. San Petronio non è l'unica cattedrale che ha richiesto secoli per essere terminata, ma a differenza mettiamo di Milano, che sfoggia  una facciata gotica fatta nell'Ottocento, e sul retro certe guglie tagliate col laser, San Petronio è rimasta bloccata, vittima della sua stessa arroganza: doveva essere la più grande chiesa del mondo, non c'è riuscita manco per sogno, e si è irrigidita nel suo ruolo di più grande incompiuta, con quella facciata che tira un pugno nell'occhio di qualsiasi turista abbastanza sincero con sé stesso per ammetterlo, una roba che ti fa pensare beh facciamo una colletta: quanto costerà finirla? Ma no, i bolognesi dicono di preferirla così, fotografata nel momento esatto in cui finì il marmo. San Petronio non sarebbe stato d'accordo, a leggere le agiografie era uno che le costruzioni preferiva finirle... Ma già, le agiografie sono tutte inventate.
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Distruggere street-art è cosa buona se

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Ieri ho perso il polso della mia generazione. A Bologna due comitati cittadini avevano deciso di distruggere tutti i graffiti di Blu: vent'anni di opere di uno degli street artist più apprezzati in Italia, ma credo anche al mondo. Mentre assistevo da lontano allo scempio, mi aggiravo sui social network e invece dello scroscio di indignazione che mi aspettavo, non trovavo che applausi: ben fatto, bravi. Persino chi quei graffiti li apprezzava, chi ci era affezionato, chi li identificava con la Bologna in cui si svegliava e cercava di parcheggiare ogni mattino, persino loro cercavano di levarsi la lacrima in fretta: ok, è un gesto doloroso, ma necessario, vai col grigio. Ma cosa siamo diventati.

Il Resto del Carlino.
(Notare il dilemma nel volto ansioso dei vigili:
difendere l'arte o l'artista?)
Sì, sto barando. I due "comitati cittadini" in realtà sono due centri sociali di Bologna, e soprattutto la decisione di distruggere i graffiti è stata presa dall'autore stesso, che in quest'occasione almeno svela un'idea della proprietà intellettuale abbastanza radicale: se magari passando davanti a una sua opera per vent'anni qualche abitante si era illuso che la tal parete colorata appartenesse alla città, ne facesse parte, ebbene, non proprio: era più un affitto, o quel tipo di licenza che compri quando credi di comprare certi libri in formato digitale: un bel giorno ti svegli e non c'è più, e non puoi farci niente.

Ecco, più della scelta dell'artista - discutibile e discussa, del resto è un artista - m'interessa la nostra reazione. Se a passare rullate di grigio sui personaggi di Blu fosse stato un comitato di benpensanti, allora sì, avremmo protestato contro l'arretratezza culturale ecc. ecc.. Ma l'ha deciso Blu. Se l'ha deciso Blu diventa una straordinaria e coraggiosa prova di integrità artistica, che è forse la cosa che apprezziamo di lui - molto più dei suoi disegni, dal momento che abbiamo preferito tenerci l'integrità e rinunciare a questi ultimi.

Forse non ho il polso dei miei coetanei perché, davvero, io tendo a ragionare come sopra: non giudico i fatti dalle premesse, ma dalle conseguenze. mi sveglio, vedo muri grigi dove prima c'erano opere straordinarie (e angosciose, va detto), e mi sembra una prepotenza nei confronti dei cittadini che fruivano di quelle opere ogni giorno. Per i più invece è sempre una questione di intenzioni: non importa cosa combini, ma per quale motivo. Ad esempio un eventuale comitato per il decoro e la tristezza urbana avrebbe distrutto le medesime opere ottenendo il medesimo risultato, ma con le intenzioni sbagliate. Invece se è Blu stesso, l'autore! che deve protestare perché Roversi Monaco ha rubacchiato qualche opera - a lui o a un collega, non è chiaro - allora ok, il motivo è coerente con le premesse, e il fatto che centinaia di migliaia di bolognesi si sveglino con qualche parete grigia in più è ininfluente.

Davvero ininfluente, non sono ironico: per molti di quei bolognesi avere un muro grigio è preferibile ad avere uno street-artist incoerente o compromesso col potere. È un'opinione trasversale, che unisce Wu Ming e Philippe Daverio sul Resto del Carlino. I muri grigi stanno per diventare il capolavoro di Blu, il che mi riporta a una domanda precedente: ma le opere di Blu vi piacevano davvero così tanto? Non è che preferite il personaggio, lo street-artist come moderno Robin-Hood che sfida il potere regalando ai poveri un'arte contemporanea che i ricchi se la sognano - e quando i ricchi se ne accorgono e cercano di ritagliarne dei pezzi per metterli nel Museo Borghese, lui, ehm, lui si arrabbia e ritira tutti i regali che aveva fatto ai poveri, ecco, mi è esplosa la metafora in mano.

Scusate, ma la situazione è persino più paradossale del solito. Qualcuno forse ha già denunciato Blu e i suoi fiancheggiatori per vandalismo, il che ci sta, e in alcuni casi sarà anche la prima ammissione che quello che è stato distrutto era arte. Che uno street artist non sia tenuto a rispettare le regole della civile convivenza è una banalità - ma come fare da qui in poi a distinguerli: metti che uno street artist si metta a distruggere le opere di un altro street artist, ne avrà il diritto? - o metti che qualche diabolico comitato di borghesi benpensanti si infiltri in un centro sociale e con due cazzate di Adorno lette al liceo (non c'è niente di più borghese della polemica contro i musei) sobilli i giovani idealisti e li armi di rulli e vernice grigia: chi è che noterà la differenza?

Nel frattempo Blu sarà diventato ancora più importante e quotato di quanto non sia ora: le non rare foto dei suoi graffiti consentiranno magari ai bolognesi della prossima generazione di ridipingerli tali e quali negli stessi luoghi, il che fornirà madeleines incredibili ai trentenni del 2030: "Ci passavo davanti tutti i giorni, che paura mi faceva! Ma quando l'hanno cancellato ho pianto". Questa cosa potrebbe fare arrabbiare ancora di più lo street-artist, che immagino reclami per sé e sé solo ogni diritto su ogni sua opera... per quanto tempo? Facciamo 70 anni, come il diritto d'autore? Se muori prima passa agli eredi? Come funziona? Forse sarebbe meglio parlarne. Sul serio, non discuto il diritto di Blu a impossessarsi di un muro della collettività e a trattarlo come suo anche dopo quindici, vent'anni: proprio perché preferisco, quando posso, giudicare dai risultati, e i risultati mi sembravano buoni. Fino a che si trattava di una trasgressione variamente tollerata da cittadinanza e amministratori, non creava grossi problemi: ma a questo punto si passa alla fase più delicata, quella in cui l'antipotere si trasforma in potere e si arroga non solo il diritto di creare, ma anche quello di distruggere, secondo leggi che almeno io non ho capito bene.
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Giù le mani dal trombone

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Cari studenti del Collettivo Studentesco Autonomo (CUA), che siete finiti sul giornale negli ultimi giorni contestando ripetutamente il professor Panebianco durante le sue lezioni:

Sono stato giovane anch'io blablabla ho fatto le manifestazioni pacifista blablabla vi risparmio la tiritera. Anche perché non è che abbia cambiato molte idee da allora. Continuo a pensare che le guerre siano in linea di massima fregature da cui chi ha un po' di senno dovrebbe sottrarsi, e a esecrare ogni forma di violenza. E tuttavia debbo prevenirvi: se davvero riuscirete a fare di Angelo Panebianco un martire della libertà di opinione, io non risponderò più di me. Verrò a cercarvi, non sarò solo. Si possono commettere tante scemenze e per i migliori motivi: ma dare a un noioso propagatore di luoghi comuni l'occasione di mostrare un po' di coraggio è tra le più grosse.

Per quanto io possa ricordare, Panebianco ha sempre scritto sul Corriere. Stava in prima pagina quand'ero ragazzino e ci sta tuttora: e non mi è mai capitato di leggere nulla di suo non dico originale, almeno interessante. Sempre e solo i due o tre frusti concetti che il lettore-tipo del Corriere della Sera vuole sentirsi dire. Negli anni, la sua figura pubblica è finita per diventare l'illustrazione della voce "trombone" della mia enciclopedia interiore. Deve aver ricordato alla sinistra italiana i suoi errori e le sue compromissioni almeno una volta al mese per un migliaio di mesi. Poi ci fu la fase della guerra contro il Terrore, e anche lì, Panebianco ci spiegò che Saddam Hussein stava sviluppando armi di distruzione di massa; che esportare la democrazia era necessario, e chi a sinistra non capiva queste semplici verità era un imbelle, un pavido. A distanza di più di dieci anni da quella cantonata solenne, Panebianco continua a pontificare sugli stessi argomenti, a metterci in guardia sui presepi che scompaiono, e continua a saperne quanto me o quanto te, che il giornale in teoria lo compreremmo per imparare qualcosa di nuovo (e siccome ci scrive gente come Panebianco, non lo compriamo più).

In questi giorni ad esempio ha insistito sul fatto che Regeni non deve averlo ammazzato il regime di Al Sisi, ma gli oppositori islamici. Perché? Da cosa lo deduce? Ha accesso a fonti confidenziali? Ma no, ma che bisogno c'è, Panebianco è meglio di Poirot: da Bologna può risolvere un caso al Cairo. Lo devono avere ammazzato gli islamici, spiega, perché il corpo è stato ritrovato: se l'avessero ammazzato i governativi infatti lo avrebbero fatto sparire. Non fa una grinza, no? Se vi è capitato di sentire la stessa storia al bar sotto casa, da gente che in Egitto non c'è mai stata e avrebbe difficoltà a indicarlo su una cartina, ebbene, Panebianco è sulla stessa frequenza: Panebianco sa le cose prima che accadano, visto che le uniche cose che davvero gli serve conoscere sono gli umori di una classe media benpensante che se cambia idea, la cambia molto più lentamente di quanto ci mettono le loro chiome a incanutire.

Questa alla fine è anche la sua utilità - molto relativa, d'accordo. Panebianco probabilmente non ha mai spostato un voto, né convinto un solo lettore a invadere l'Iraq o votare moderato. Panebianco è un elegante barometro che ci mostra sinteticamente quello che un sacco di italiani pensano già. Cercare di metterlo a tacere sarebbe come fermare gli orologi per evitare che il tempo passi, truccare le bilance per riuscire in una dieta, censurare il meteo, aggiungete metafore a piacere. Dannoso, oltre che inutile: di Panebianco ne crescono in continuazione in tutte le redazioni. Se ne tagliate uno ne crescono altri sette, per tacere dei bot che già adesso probabilmente sarebbero in grado di scrivere fondi di Panebianco molto meglio di Panebianco.

E poi, sul serio, non fa comodo anche a voi dare un'occhiata al barometro ogni tanto? Quel che rivela al termine di quel suo fondo che vi ha fatto arrabbiare - quella voglia fino a questo momento inconfessabile di fare della guerra "la prima preoccupazione dell’Unione" - pensate che sia un'idea solo sua? (Come se P. potesse davvero maturare idee in autonomia). Non notate che è la conclusione naturale di un ragionamento collettivo? Date un'occhiata ai dati in giro. Siamo la quarta economia d'Europa, e stiamo sprofondando. Per trent'anni abbiamo fatto debiti e investito in tutto fuorché in ricerca e innovazione. Ora abbiamo la più alta percentuale di illetterati, un debito pubblico enorme, e una voragine di violenza dall'altra parte del mare. È il momento esatto in cui gli intellettuali, anche quelli un po' ribelli in gioventù, cominciano a sentire il prurito, a vedere Grandi Proletarie, a cianciare di Sola Igiene del Mondo. Sono criminali? Alcuni sì. Ma il prurito che sentono è una cosa collettiva.

Chi vi scrive è stato anche lui giovane blablabla. Ultimamente insegno in una scuola media, e di ragazzini iperattivi con una gran voglia di partire per la guerra ne ho avuti sempre, in una percentuale grosso modo costante. Da un po' di tempo a questa parte, però, mi accorgo di un fenomeno diverso. Arrivo con alcune nozioni, niente di speciale: debito pubblico, tasso di disoccupazione, piramide delle età, eccetera. E ogni tanto sul fondo un ragazzino - di solito un maschio - mi interrompe: "ma allora bisogna fare una guerra". Così. Non perché ne abbia voglia - molti ne hanno voglia, ma c'è anche un altra cosa: c'è la limpidezza del ragionamento, che poi con gli anni si annebbierà, intorbidandosi con la nostra voglia individuale di sopravvivere, avere eredi, ecc. ecc. Ma se fossimo razionali e irresponsabili come può essere un bambino di dodici anni, ci basterebbero un paio di grafici per giungere a una conclusione del genere. Abbiamo tanti disoccupati poco qualificati, abbiamo industrie che scalpitano, abbiamo un fronte pronto a poche miglia nautiche. Angelo Panebianco dà voce a quel ragazzino di ogni età. Volerlo mettere a tacere - non avete idea, fidatevi, di quanto sia patetico provarci.
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Una cosa, una roba senza senso o forma

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2 agosto 1980 - Esplode una bomba alla stazione dei treni di Bologna. 85 morti, 218 feriti.

Andrea Pazienza via Paz-tastic



...La storia della caldaia resse sino a sera, ma già intorno a mezzogiorno le cose erano chiare. Nella squadretta di Scialoja c'era un sottufficiale che da soldato era stato artificiere. Gli era bastata un'occhiata alla voragine per scuotere la testa e sentenziare:
"Gas un cazzo. Questa è una bomba".
La stazione era sventrata. Le sirene ululavano. Militari e volontari, fianco a fianco con le mascherine sul naso, scavavano le macerie in cerca di un segno di vita. Qualcuno piangeva, i più moltiplicavano gli sforzi per rimandare l'appuntamento con la rabbia e lo sgomento. Arrivarono le troupe televisive. Una folla di parenti angosciati assiepava i binari. Circolava una parola maledetta e rivelatrice: strage. Le lancette del grande orologio del piazzale Ovest erano ferme sulle 10 e 25. [...] Scialoja s'era concesso una sigaretta. Una giornalista impicciona gli fu subito addosso. La mandò a quel paese e si rimise la mascherina. Dal profondo di due travi squarciate che si erano miracolosamente incastrate a formare una sorta di cavità naturale proveniva un flebile lamento. Scialoja si avventò. Vide una piccola mano coperta di graffi, la strinse, tirò. Le travi ressero. La bambina era sotto choc. Ma respirava. Lo guardava con i suoi enormi occhi stupiti e respirava. La prese in bracciò e la consegnò a un'infermiera. La bambina era biondissima e non capiva l'italiano. Un ufficiale dei carabinieri in alta uniforme lo bloccò al volo.
"Lei! Vada immediatamente al binario uno. Bisogna organizzare un servizio di scorta per le autorità!"
Scialoja mandò anche lui a quel paese e tornò al lavoro. Era lacero, era sudato, puzzava. Ma non sentiva la fatica, non sentiva il disagio. Aveva dormito troppo a lungo. Il letargo era finito... (Giancarlo De Cataldo, Romanzo Criminale, 2002).


...Definiamo quindi "neosensibilismo" il nostro modo di essere sensibili. Che in tutto si distacca dalle ambiguità di Francesca Mambro; da cui ci dissociamo anche per l'uso sconsiderato e irresponsabile del vocabolario. (Offlaga Disco Pax, Sensibile)
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Porci alle perle

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Roberto "Freak" Antoni (1954-2014)

Temo che sarà inevitabile, a questo punto: qualche giornalista in cerca di carne da coccodrillo sfoglierà l'archivio fino a trovare un'intervista vecchia o nuova in cui Freak Antoni si proponeva nel triste numero del rancoroso di talento. Scopriremo per l'ennesima volta cosa pensava dei colleghi ed ex amici che avevano fatto molti più soldi di lui: di Vasco che non faceva più niente di buono dall'ottanta-e-qualcosa, di Elio mestierante senza nulla da dire, Ferretti ipocrita criptofascista... Sto andando a braccio, non ho voglia di controllare. Purtroppo le cose funzionavano così: giornalista andava a trovare Freak Antoni, giornalista non sapeva cosa domandare a Freak Antoni, e magari dopo qualche deprimente scambio sullo stato di salute, si rassegnava ad alzare un pallonetto, sicuro che Freak Antoni l'avrebbe schiacciato quel che basta per farci un titolo: l'ex cantante svuota il sacco su Vasco, su Elio, su Lindo, le solite miserie.

Un po' era anche colpa sua, la franchezza può essere salutare come un balsamo, ma alla lunga stanca come qualsiasi altro balsamo. E non basta aver ragione: non c'è alcun dubbio che Vasco non canti più nulla di interessante dal 1986; che Elio sia soprattutto un mestierante (e avercene), Ferretti un guru opportunista, eccetera. Tutte opinioni sostanzialmente ragionevoli, ma avremmo preferito non sentirle da un collega che semplicemente non ce l'aveva fatta. Al netto di tutto il romanticismo dei poeti maledetti, questa posa che ti prendi a sedici anni e poi quando cerchi di staccartela di dosso ti accorgi che fa male, che ti si è radicata sottopelle... al netto di tutte queste menate la carriera musicale è simile a tante altre carriere in cui sopravvivi soltanto se trasformi le tue vaghe intuizioni iniziali (che passano sotto il tronfio nome di talento) in una prassi professionale. L'accostamento a Vasco (di due anni più vecchio) è il più brutale ed eloquente: l'arrivismo del provinciale contro il nichilismo del cittadino; il realismo urbano contro l'avanguardia; la provocazione come espediente per conquistare la scena contro la provocazione per il gusto di distruggere qualsiasi scena; gli anni Ottanta contro il '77; più tardi, il rock da birreria contro il punk da teatro. Sin dall'inizio non era possibile avere dubbi su chi avrebbe conquistato la critica e chi avrebbe fatto i soldi veri: e allora perché prendersela? D'altro canto aver visto questo sfattone scendere dalla montagna e finire nel giro di pochi mesi a Discoring può essere stato uno choc difficile da mandar giù: ma se sei l'avanguardia queste cose le devi mettere in conto. Purtroppo non siamo tutti molto bravi a mettere in conto le cose; gli artisti soprattutto, e Freak Antoni un artista è rimasto, più di quanto forse lui non volesse.

Gli altri no, sono riusciti a diventare qualcosa di meno interessante e più redditizio. Vasco almeno ce l'ha fatta alla grande; Elio e compagnia diciamo che l'hanno sfangata, Ferretti ci ha provato ma attualmente alleva cavalli. Antoni? Non ha mai dato la sensazione di volerci nemmeno provare. Possiamo chiamare questo atteggiamento integrità, ma a quel punto è inutile lamentarsi del pubblico di merda. Avreste preferito un Freak Antoni di successo, un Freak Antoni invitato come disturbatore a Sanremo? L'avanguardia alternativa non fa sconti comitiva. Gli Skiantos sono quel classico esperimento che funziona soltanto in laboratorio: Mi piacciono le sbarbine avrebbe potuto diventare anche una hit; le potenzialità c'erano, ma a quel punto saremmo stati i primi a dissociarci disgustati.

In realtà in tanti momenti della sua vita un po' complicata dalle sostanze, a Freak Antoni un po' di sano successo commerciale avrebbe fatto comodo. Faceva sempre un po' strano ascoltare prediche sull'integrità artistica dall'autore e interprete di Ti spalmo la crema. Qualche singolo in radio, qualche ritornello un po' più paraculo, provò a piazzarli anche lui. Salvo che non funzionarono mai, chissà perché - sfiga, incostanza, cattivo management, va' a sapere. A me dispiace: lo avrei preferito meno integro e ancora vivo. Sono sicuro che tra tanti pezzi inutili, qualche gioiellino come Sono ribelle mamma ce lo avrebbe infilato: e tanto ci sarebbe bastato.

Se questo pezzo vi dà fastidio avete assolutamente ragione: FA si meritava parole più commosse. Accanto a qualche stronzata ha fatto cose importanti e necessarie, senza di lui la musica italiana sarebbe persino più triste eccetera. Non so cosa mi stia capitando ultimamente: la crisi, i quarant'anni, la triste scoperta che davvero i medici non ti curano finché non li paghi davvero, il film dei Coen che scioglie ogni residuo zuccheroso di bohème e ti fa sentire la morte con il ghiaccio nei piedi. Se si trattava di imparare a fallire, direi che ho imparato. Adesso bisogna imparare a invecchiare, e devo ringraziare Freak Antoni anche per quelle tristi interviste in cui incauto sparava merda a bersagli troppo vicini e troppo in alto. Se non le avessi lette, forse non avrei mai fatto il voto solenne di non stroncare mai, per nessun motivo, un collega coetaneo di successo. Piuttosto farò finta di non averlo mai letto. Sarà molto facile fare questo tipo di finta.
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5 cose che nessuno sa di Dalla, forse

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Su Lucio Dalla in questi giorni è stato detto tutto di tutto, vero? No, sbagliato. Ci sono cose che persino nel coccodrillo più accurato non avete letto, per il semplice motivo che nessuno le sa - o chi le sa ha la consegna di tacere. Ve ne allungo qualcuna, senza la pretesa di far luce su nessun mistero: mi limito a far notare che di misteri ce n'è: ed è abbastanza intrigante, se si pensa all'uomo. Se si eccettua qualche strofa di Com'è profondo il mare, Dalla non ha mai coltivato l'ermetismo chic di molti suoi colleghi (vien subito in mente De Gregori, che con gli anni comunque si è molto aperto): era uno che potevi incontrare davanti alla vetrina di un negozio di strumenti musicali o in piscina e nei limiti del possibile se lo salutavi ti salutava; dava l'impressione di sentirsi a suo agio in mezzo alla gente, e la coda che vedete in Piazza Maggiore lo testimonia. In questi giorni si sono rilette diverse interviste e sembra proprio che Dalla avesse sempre da offrire all'interlocutore qualcosa di nuovo, qualcosa di suo: non era il tizio che ribadisce sempre i tre concetti e i due aneddoti e fa il muro su tutto il resto. E però a un certo punto un muro evidentemente c'è, perché noi tante cose di Dalla non le sappiamo e forse non le sapremo mai, per esempio:

1. Come ha fatto a diventare il più grande cantautore italiano nel giro di pochi mesi?
I termini della vicenda sono noti. Fino ai tardi anni Settanta Lucio Dalla ha scritto diverse musiche e almeno il testo, molto curioso, di una canzone (La capra Elisabetta), sepolta in un vecchio LP che non si è comprato nessuno (Terra di Gaibola). Ai più è noto come musicista e interprete; un ruolo simile a quello del diversissimo Lucio Battisti, salvo che quest'ultimo ha un sodalizio ormai stabile con il demenziale Mogol, mentre Dalla le sta provando tutte per rendere cantabili le strofe del poeta Roberto Roversi, in tre dischi che sono forse l'ultimo posto in cui la Musica italiana e la Poesia italiana sono state viste assieme. A un certo punto il sodalizio con Roversi si interrompe e Dalla si improvvisa cantautore, una cosa che praticamente non aveva mai fatto. Il problema, che credo abbia turbato molti suoi colleghi e persino me, è che il modo in cui si improvvisa cantautore è Com'è profondo il mare, cioè l'eccellenza assoluta nella categoria, sin dalla prima strofa che descrive l'insonnia e tante altre cose ma è anche come se dicesse: cari amici cantautori, fin qui abbiamo scherzato, ma se volete venire a prender lezioni io ne ho qui per tutti quanti, prendi questa Francesco, prendi questa Fabrizio, porta a casa Antonello eccetera.

Siamo noi
Siamo in tanti
Ci nascondiamo di notte
Per paura degli automobilisti
Dei linotipisti
Siamo i gatti neri
Siamo i pessimisti
Siamo i cattivi pensieri
E non abbiamo da mangiare
Com'è profondo il mare
Com'è profondo il mare


Non so se avete presente quella scena nei film americani in cui una ragazzina che fino a quel momento non aveva mai provato i pattini / la ginnastica acrobatica / la danza moderna / il softball fa un tentativo e bum! diventa campionessa assoluta del mondo mondiale, queste cose capitano appunto soltanto nei film americani per teenager e nella vita di Lucio Dalla, che ha cominciato a scrivere testi, immaginate, a 35 anni, e ha cominciato direttamente dai capolavori (tutto quel disco sembra scritto da un signore che abbia la lingua italiana a sua immediata e completa disposizione). Non lo so, avete delle ipotesi? Vuoi dire che se le scrivesse già da prima intestandole a dei prestanome perché era timido? O che sono davvero tutti buoni a fare i parolieri, che ci vuole? Non lo sapremo mai. Qualcuno di voi ha 35 anni e non ha mai scritto una canzone in vita sua? Controlli se per caso non è il più grande paroliere degli anni Dieci, magari ci fa un favore a tutti.

2. Chi amava Lucio Dalla?
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Intermezzo

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Il calcinculo dell'85

Ma chi l'ha poi detto che questo è un sito politico, che io debba scrivere le cose politiche, chi l'ha deciso. Musica. Adesso scrivo di musica.

Ho sentito l'ultimo pezzo dei Baustelle, l'album non ancora. Il pezzo mi entrerà in testa come tutti gli altri, persino Irene Grandi c'è riuscita, ma quella sensazione claustrofobica che mi fanno provare da qualche anno in qua le canzoni di Bianconi merita un'analisi. Mi sembra che stia giocando con la mia educazione musicale. Mi sveglio nella mia cameretta del 1996, con qualche oggetto fuori posto. C'è sempre qualche elemento diverso, questa volta il trombone, che è appena arrivato e sembra che sia sempre stato lì, con un po' di sforzo posso anche risalire alla fonte originale, ma il punto è, perché debbo fare questo sforzo? Sono prigioniero nella testa del compositore Bianconi? Bianconi è prigioniero nella mia? Non potremmo entrambi aprire le finestre, farci un giro, ascoltare musica diversa, i dervisci, la dodecafonia... quando ascolti Bianconi ti tornano in mente gli incubi degli ingegneri, quelli che dicono che essendo le note solo sette (una più una meno) tutte le canzoni saranno prima o poi scritte, e questo infallibilmente succederà, anzi è già successo, probabilmente nel 1966 (per questo le avanguardie erano ochei). Poi sarebbe ingiusto non notare come lo stesso Bianconi provi ogni volta a metterci qualcosa di diverso; però la sensazione, è quella degli stilisti che sfogliano vecchie riviste alla ricerca affannosa di qualcosa di 'nuovo', nel senso di qualcosa che nessuno si è ricordato di copiare da almeno dieci anni. Il video ribadisce l'idea: stavolta ci mette barattoli Campbell e telefoni rossi, l'altra volta erano poltrone di plastica, la prossima (tiro a indovinare) avremo fiat Centoventisette e tinelli marron. Il catalogo però ha i fogli sempre più sgualciti.

Detto questo non voglio cimentarmi nel tiro al Bianconi, sport fin troppo popolare. In fondo è uno dei pochi a cui il mestiere sta andando bene. Tira un disco ogni due anni, media notevole per i tempi, e alla gente piace; piace senza bisogno di andare in tv a fare la rivoluzione culturale o vantare le proprietà antidepressive di qualche droga pesante; è anche riuscito a trovare un'interprete popolare, ha già scritto un paio di canzoni degne entrambe di figurare a Sanremo senza essere brutte canzoni. Si deve chiedere qualcosa di più a un compositore di musica leggera? Perché Bianconi questo è, anche se forse a noi piace ricordarcelo giovane virgulto indie, ma è stato una vita fa. La musica, almeno questo tipo di musica, è una disciplina intuitiva, in cui le tue cartucce migliori le spari da giovane. In seguito, la fine va da sé (è inevitabilè). Se hai fatto abbastanza soldi campi di rendita; sennò amen, ti trovi un altro mestiere. Questo pone un grosso problema agli artisti italiani, che per arrivare al mainstream devono farsi gavette decennali. Come i Baustelle: sono in giro già da sedici anni. Tanto per il gusto del paragone assurdo: i Beatles sono durati la metà. I Rolling Stones il doppio, ma dopo sedici anni erano già all'autoparodia. Persino Bacharach ha scritto tutto quel che doveva scrivere in dieci anni. È un fuoco accecante ed effimero, la musica leggera. D'altro canto, con un po' d'impegno e molta fortuna, si può rimanere aggrappati a quei due o tre bei dischi che hai fatto quando non ti conoscevano in molti, e trasformare le tue intuizioni giovanili in mestiere. Si tratta di ricombinare le idee che hai già avuto, magari rendendole più dirette, più appetibili, ora che hai capito più i gusti del grande pubblico e hai bisogno di soldi per il mutuo. Io non ce l'ho coi mestieranti. Mi fanno una grandissima malinconia gli artisti che dopo dieci, quindici anni di tentativi (spesso ottimi) appendono gli strumenti al chiodo e si rassegnano alla vita. Per esempio, ho sentito che si sarebbero sciolti i Settlefish: mi dispiace. Me li ricordo mentre salgono sulla torre degli asinelli cantando, e quando arrivano in cima i turisti non applaudono: ecco, l'arte è questa qui, regalar canzoni senza avere in cambio nemmeno un grazie. Ma quanto si può vivere così? Dieci anni, quindici probabilmente sono il massimo. Poi, se decidi di restare in circolazione, la tua arte devi trasformarla in mestiere. E non c'è niente di male, sul serio, è inevitabile rifriggere la stessa canzone ogni due anni; le note sono sette, fuori c'è un pubblico che paga esattamente per quel tipo di cose, aggiungi il mutuo, la famiglia... sentite come sto invecchiando mentre faccio queste considerazioni? Mi cadono i capelli, tutti, tra le fessure della tastiera.

Perché in tutto questo rischio di dimenticarmi che comunque stiamo parlando di musica leggera, roba da ragazzini, e quindi al massimo il problema sono io, che tutte le melodie di Bianconi le ho già sentite ricombinate in un modo lievemente diverso per il semplice motivo che ho passato troppa vita a orecchiare melodie; per il solito motivo che alla mia età ormai dovrei dedicarmi a cose più serie, la dodecafonia appunto, o risolvere l'enigma finale dell'Arte della Fuga; ma là fuori ci sono i ragazzini, che il trombone suonato in quel certo modo non l'hanno mai sentito e d'ora in poi lo considereranno una cosa da Baustelle, mentre invece le parole tristi al pianoforte sono cosa da Morgan. E ne hanno il diritto. Di trovare originale Lady Gaga, che, discorso immagine a parte, non tira fuori niente che non si potesse già sentire su un calcinculo nel 1985, ma vuoi negare a qualcuno il diritto di salire sul turbinante calcinculo del 1985? O di farsi stantuffare dallo stallone negro Jimi Hendrix? No, aspettate, spiego.

È successo la scorsa settimana che mi sono arrabbiato molto, probabilmente troppo, per una copertina di Rolling Stone che prendeva uno dei chitarristi più innovativi e geniali del secolo scorso, James Marshall Hendrix detto Jimi, e lo sbatteva in faccia al lettore così: altro che chitarra, la sua vera arma l'aveva tra le gambe. Un'immagine che, analizzata, rivela un 43% di sessismo, un 29% di razzismo, un 26% di trasgrescio cazzara, tracce sparse di necrofilia, passione per la musica non pervenuta. Qualche anno fa sarei divampato direttamente qui, fortuna che adesso ci sono i social network per sbollire. E allora i seguaci su friendfeed mi hanno detto tante cose, per esempio che non devo giudicare una rivista dalla copertina (la rivista no, ma la copertina da cosa dovrei giudicarla se non dalla copertina?) Oppure: cosa vuoi, in fondo è Rolling Stone, mica una rivista di musica... e parlando di lifestyle, in fondo Jimi Hendrix era anche quello: un pisello nero in libertà in un mondo ancora in mano ai bianchi. Può darsi, ma questa storia del lifestyle non mi convince.

Continuiamo a sfogliare il passato come una rivista da cui rubare idee, di solito immagini – in effetti ce ne sono di fantastiche, ma poi le mettiamo indosso ai nostri fantasmi. Il sesso interrazziale è un argomento attuale, adesso, qui, che giustamente fa vendere copie: (il numero contiene servizi sul turismo sessuale al femminile, esperienze interraziali ecc.), però bisogna per forza nobilitarle schiaffandoci sopra un nume tutelare del passato, un pisello della Storia del rock. Non facciamo che deformare la Storia, adeguandola alle nostre ansie 2010 (prestazioni, dimensioni, mercato, tutte cose che quarant'anni fa erano per forza diverse). A quel punto il passato ti si sgualcisce in mano, la famosa Storia del famoso Rock diventa una galleria di vip strafatti o sessuomani, più o meno il canone di metà anni Settanta che in teoria il punk avrebbe spazzato via. Ma probabilmente a RS sono convinti che il punk sia soltanto un'altra generazione di vip strafatti; che il “Rock” in genere consista in una genealogia di vip strafatti per l'invidia dei discepoli, e a quel punto, davvero, si arriva a Berlusconi rockstar: chi più vip strafatto e puttaniere di lui? Se ci alleniamo a invidiare Bowie o Jagger, come facciamo a non invidiare anche lui? Ma a pensarci bene anche Leonida Breznev, quando faceva chiudere al traffico la Prospettiva di Leningrado per cercare di ammazzarsi guidando auto occidentali ad altissima velocità, era molto rock'n'roll, fateci una copertina. Detto questo, insomma, perché prendersela tanto, hanno ragione, non è mica musica, è Rolling Stone. Ma infatti. Non sapevo neanch'io perché me la stavo prendendo tanto. Poi domenica c'era il sole, ho fatto un giro a Bologna, e ho capito.

Ecco, è molto semplice: in un pacco costipato nei jeans voi ci vedete la leggenda del rock, io ci vedo Beppe Maniglia. Questo chiude ogni discussione.
(Si paga a duro prezzo, l'educazione bolognese, è un mutuo a vita).
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Il Sindaco Malvagio

Ah, ho ricominciato il corso in Facoltà. È il Trimestre caldo. Qllo che odio di più.
Una volta qndo faceva caldo non si lavorava. Noi italiani eravamo fatti così. Poi l'Italia è colata a picco (un bel pezzo), e ora si studia d'estate, in collina, quando non c'è altro da fare. D'inverno il livello del mare s'abbassa e gli studenti vanno in palude ad anguille. O nelle risaie. Beata gioventù.
Il problema è che San Petronio non è collina. In teoria non avrebbe dovuto salvarsi. È tutto merito di un Sindaco malvagio di cui s'è perso il nome (damnatio memoriae). Qsto Sindaco, ai tempi dei disastri, si sentì dire da una commissione che l'unico modo per salvarsi dall'alta marea era scavare dei polder, come in Olanda: ma a Castelbolognese. Ma si trattava di scavare buchi di melma nella melma, un lavoro schifoso, e non c'era più quella bella manodopera di una volta: arabi e albanesi ai primi diluvi se l'erano squagliata in Germania, ingrati.
"Nessun problema", disse allora il Sindaco malvagio, "ho io la soluzione".
Qualche giorno dopo iniziarono le retate dei pancabbestia, ordinate per i più futili motivi, tipo che non facevano l'antirabbica al cane, non si lavavano, non facevano un cazzo, stavano sempre a rompere i coglioni, disturbavano coi bonghi le lezioni della più antica facoltà del mondo, rubacchiavano, e spacciavano, anzi no, non erano neanche bravi a rubare senza dar nell'occhio e a spacciare seriamente per cui creavano solo indotto per gli spaccini stranieri, eccetera. Tutte qste frescacce da Sindaco stronzo. Ma lui era più che stronzo. Era proprio malvagio.
Invece di metterli dentro, li assunse tutti ai lavori forzati comunali. A tempo indeterminato. A Castelbolognese c'è un monumento che ricorda i pionieri della melma, gli uomini valorosi che hanno salvato qsta città dove ora, a fine maggio, fa un caldo bestiale, e la sera i cani ululano alla luna per i loro padroni pulciosi che non torneranno mai.
(I cani, quando sono stati abbandonati dai pancabbestia, si sono organizzati e adesso gestiscono il loro quartiere. Si vede che erano traviati dalle cattive compagnie).

L'altro motivo per cui odio qsto trimestre è il corso istituzionale. Mi hanno promesso che in inverno mi sarei sbizzarrito con film e quant'altro, purché in estate presentassi il Sacro Testo degli usastri. Era sul contratto.
"Dai, dai, che vuoi che sia".
"Ma a me quel libro fa sch…"
"Piano a dirlo, l'hai letto almeno?"
"Sì!"
"Ah, complimenti. Beh, come sai, gli usastri ora sono nostri amici. Così in consiglio abbiamo pensato che fosse giusto introdurre gli studenti allo stile di vita usastro, spiegare i libri che leggono, le cose che mangiano, ecc.. Sa, non è mica come ai nostri tempi, che c'era la tv e s'imparava di tutto… Adesso gli usastri sembrano dei marziani".
"Un po' lo sono".

"Va bene, se ci siamo tutti possiamo cominciare.
Come abbiamo già osservato, la narrativa Ucronica è un genere molto particolare, assai indicato per veicolare proposizioni ideologiche in modo convincente. Tanto che diversi libri sacri sono, in effetti, opere di narrativa ucronica. L'esempio più celebre è l'Apocalisse di San Giovanni.
Il testo che leggeremo in qsto trimestre è l'opera più importante della letteratura usastra del secolo scorso, che pure al tempo della sua pubblicazione fu snobbato da tutti i critici. È il destino dei, ehm, dei grandi libri.
Ma più per il suo valore letterario, l'opera in questione è importante per l'influsso che ha esercitato sulle comunità religiose di qsto grande Paese e, di riflesso, sul mondo intero. Tanto che possiamo dire che qsto libro ha effettivam fatto la Storia.
"Molto bene. Per la prossima volta leggetevi le prime 50 pagine. Anzi. Le prime 100, così vi fate davvero una cultura usastra, su. Ne riparleremo lunedì".
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I colloqui di via Cracovia, 2

Le mezze stagioni della vita

Caro Leonardo,
faccio fatica a spiegarti cos'è Taddei per me. È come una semipiovosa giornata d'aprile, di quelle non proprio indimenticabili, anzi dimenticabilissime (la memoria è in bianco e nero, seleziona estati afose e inverni rigidi, e non ha pietà per le mezze stagioni). È la vecchia foto che salta fuori all'improvviso e non ti ricorda nulla, ma è una tua foto, e sei più bello e giovane, e sorridi. È un vecchio nastrone fatto in un pomeriggio e mai ascoltato, perché precipitato nella fessura di un mobile: canzoni che volevi prenderti il tempo di amare, e quel tempo non c'è stato mai. È quel tipo di ragazza con cui hai solo preso un tè un pomeriggio, non avrebbe mai funzionato, eppure. E tante altre bolle di felicità che non sono mai scoppiate, frammenti che non sono diventati ricordi, materiale inutilizzato, e ormai inservibile. Segni di un passato ancora più struggente, perché mai realm vissuto. Non so cosa pagherei per un tesoro del genere (non so neanche qnto mi pagheranno per Taddei, ma sono ottimista).
Se ho mai conosciuto Taddei – prima del suo congelamento, intendo – dev'essere stato in una di quelle mezze stagioni della vita in cui prendi tè con sconosciute e passi lunghi giorni inconcludenti a combinare progetti che poi si infilano in fessure tra i mobili. Quegli anni che il film della memoria scorre rapidam, come tempi morti tra una scena madre e l'altra. O come le interruzioni pubblicitarie nelle vecchie VHS, che a distanza di anni erano la cosa più interessante.

Prendi qsta cosa degli stranieri. L'avevo persa. Eppure c'è stato un tempo in cui i portici della mia città rimbombavano di pettegolezzi slavi e barzellette arabe. Tanto che ci avevo fatto l'orecchio, sapevo distinguere una rumena da una moldava dall'accento. E dove sono tutte quelle moldave, e le ucraine della vecchia scuola serale? Le bambine saranno madri, e le madri saranno nonne. Ricordo (ora ricordo) che avevano un debole per i verbi riflessivi, non si stancavano mai di farseli spiegare. E i pachistani che giocavano a cricket nei parcheggi, e i sikh della bassa modenese, con le loro cuffie strane: dove saranno adesso? In quali pascoli condurranno i loro armenti, o quelli altrui? In USA, a Bisanzio, in Antartide?

"Gli stranieri, già. Ti mancano?"
"Vuoi sapere cosa mi manca davvero? A me manca il posto che c'era qui. Ti ricordi?"
"Il MacRonald sulla Via Emilia".
"Sempre aperto. Una certezza".
"Me l'ero dimenticato. Poi un giorno sono venuto qui al mare con mia figlia, e ho visto quel che hai fatto con la croce. A proposito, sei stato tu?"
"Non ne sono sicuro".
"Ma la statua del Patrono l'hai buttata giù tu".
"Sì, quella sì. Ero molto incazzato. Faccio un'indigestione di peperoni, mi sveglio dopo vent'anni, e la mia città è in mano a una fottuta dittatura cattocomunista. Non ci ho visto più".
"Cattocomunista! Hai detto cattocomunista!"
"Ti eri dimenticata anche questa?"
"Ce la siamo dimenticati tutti".
"Strano, la trovo molto appropriata".
"E poi sei venuto a nasconderti qui. Dovevo capirlo subito".
"E da cosa l'avresti dovuto capire?"
"Dovevo mettermi nei tuoi panni. Tu sei un supereroe patriottico americano, in una città del futuro dominata dai cattocomunisti. Non puoi andare in giro per sempre a spaventare la gente e buttar giù le statue dei santi. Dovevi cercarti un rifugio, una base per le operazioni".
"Anche questa storia del supereroe ha stancato, io…"
"Alcuni hanno una caverna. Altri un rifugio nei ghiacci. Tutte cose difficilm reperibili a San Petronio. Poi ci sono qlli che si nascondono nei cimiteri. Quando sono venuto qui con mia figlia l'ho capito. Ti sei sistemato al cimitero di guerra. È così?"
Il cappuccio di Taddei si china in un timido cenno di assenso. "Avevo paura che fosse stato abbandonato. Così sono venuto qui…"
"E strada facendo ti è venuta fame. Ma quando sei arrivato ti sei reso conto che l'insegna del vecchio MacRonald di fronte al cimitero di guerra è stata trasformata in un monum al vecchio Papa polacco, e non l'hai presa bene. A proposito, perché tanta rabbia per Wojtyla? Tu sei un anticomunista, no? E lui non è qllo che ha liberato l'Europa dal comunismo?"
"Ma no, ma no, ma è mai possibile. Non è stato Wojtyla".
"Ma mi sembrava…"
"Ti ricordi male. È stato Reagan. Lui ha spinto l'industria bellica americana al massimo, i russi non hanno retto il colpo, e il comunismo è crollato. E poi se n'è uscito qsto polacco a prendersi tutto il merito. Ma cosa avrebbe fatto senza gli americani, lui? Senza l'industria, l'esercito…"
"Senza nemmeno una divisione corazzata".
"Già. Ma è sempre così. Gli americani sgobbano e i polacchi si prendono il merito. Del resto, guarda qsti due cimiteri di guerra. Guarda la modestia e la semplicità di qllo angloamericano. Confrontalo con la magniloquenza di qllo polacco, ancora in stile fascista. Uno che passasse di qui senza saperne niente, penserebbe che Bologna l'abbiano liberata i polacchi".
"E non sono stati i polacchi".
"Ma certo che no! Sono stati gli inglesi e gli americani!"
"Ah, già, certo".
"Mi prendi in giro?"
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Savena Beach

Caro Leonardo,
qst'epoca di merda ha purtuttavia i suoi vantaggi, per esempio: da aprile in poi, se a San Petronio ti girono le palle, puoi prendere un filobus e andare al mare, e il tempo è quasi sempre bello.
Una volta non era così, e lo sai. Una volta qui aprile era grigio e uggioso, ogni giorno un barile, e il mare a centinaia di chilometri di distanza. Adesso la spiaggetta più vicina è a San Lazzaro, e aprile è il più dolce dei mesi, così se Antonio-Abate ha proprio deciso di sospendermi per come mi sono comportato in presenza del cardinale, che posso dire: f'nql e grazie. Vorrà dire che porterò mia figlia al mare.
"Ma qsto è il bus sbagliato, papà".
"Non andiamo a scuola, oggi".
"Papà!"
"D'aprile la scuola fa male".
Letizia è allergica ai pollini, proprio come me. Da quando siamo tornati ai combustibili fossili la sua rinite è peggiorata. Una coincidenza, naturalm. Gli antistaminici costano tanto, e non abbiamo più un dottore disponibile a passarci campioni omaggio. Per ora, almeno. (Devo trovare Taddei).

"Ma qui non c'era la grande croce?"
"Sì, l'hanno tirata giù".
Via Cracovia si chiamava così anche prima che morisse Wojtyla, per via di certi polacchi che sono venuti a combattere una guerra e sono sepolti in un cimitero a pochi passi: a un certo punto poi sembrò impossibile che all'incrocio con la via Emilia non ci fosse un monumento al grande Papa: ma siccome eravamo già in un'epoca di austerity, si decise di riconvertire quel pilastro di cemento che già sorgeva in loco. È buffo pensare a quel che era prima di diventare un braccio della grande croce. Ma nessuno se ne ricorda, in verità. E in ogni caso il problema non pone più: abbattuto.
"Ma chi è stato?"
"Non lo so. I terroristi".
Dopo la fase di attacchi suicidi alle infrastrutture, i famigerati libici hanno attraversato in primavera una fase iconoclasta. Poca roba, in realtà: la statua del Patrono abbattuta sotto le torri, e la croce di Polonia proprio nel ventennale della morte. Più qlche altro danno qua e là a varie madonnine e presepi, che probabilm sono solo opere di mitomani o emulatori. Ma so che a San Lazzaro parlano già di una terza fase, in cui i terroristi si starebbero dedicando a razziare il pollame ruspante sulle rive del Savena: insomma, l'invasione è cominciata…
"Ma tu ci credi, nei terroristi, papà?"
"Certo, certo che ci credo".
"Uh, non ho neanche il costume".
"L'ho preso io, è in valigia".
"Le mamme non se ne sono accorte?"
"No, pare di no".

Ogni volta che vengo qui, dopo un po' mi viene in mente una cosa: che a me la spiaggia annoia. M'ha sempre annoiato.
Una volta almeno potevo portarmi da leggere. Che follia. Preziosi tascabili squadernati al sole. Le pagine ingiallivano a vista d'occhio, s'imbibivano d'olio solare e sabbia, mentre l'incollatura si scioglieva. Pensare quanto sarebbero costati, anni dopo, al telemercato nero. Pensare che di molti classici ci sono rimaste solo le versioni tascabili, perché i rilegati, a parte i bestseller, non li comprava più nessuno, non li stampavano nemmeno più. Pensare che ora in facoltà di lingue hanno l'opera omnia di Michael Crichton e Dan Brown, e niente De Lillo. Una volta me lo portai, un De Lillo in spiaggia. In tre giorni lo feci a pezzi. Che anni cretini.
No, non cretini, dai. Ma improvvidi, qsto sì. Terribilm improvvidi. Consumavamo un sacco di cose senza nemmeno rendercene conto. Ci riempivamo di parole contro il consumismo, e intanto consumavamo. Protestavamo contro le biblioteche a pagamento, e intanto ci riempivamo le case di libri incollati, che nel giro di vent'anni si sarebbero scollati regolarm. E lo sapevamo. Dovevamo saperlo. Io li ho ben visti scollarsi, i sonzogno pocket di mia madre, gli Oscar Mondadori a 350 lire. E intanto compravo Miti Mondadori a tre euro e mezzo, e me li portavo in spiaggia. Così. Tutto dato per scontato. La cultura costava meno dell'olio solare e io manco mi ponevo il problema.
"A cosa pensi, papà?"
"A niente. Facciamo una corsa".

Fin da quando mi riesce di ricordare, ho sempre passeggiato sulla spiaggia rimuginando finché non esaurivo i pensieri. E ho sempre pensato alle storie che avrei scritto. Storie lunghe e complicate, che prima o poi mi sarebbero venute in mente. Ma non è mai successo. Ho cinquantun anni ed è almeno da quarantuno che vado su e giù per le spiagge adriatiche, senza mai trovare una trama decente. E dire che ai tempi dei tempi ero considerato uno di talento, uno che se solo si fosse applicato un po'… se solo avessero saputo quanto mi applicavo, ogni estate, su e giù, su e giù, senza costrutto. Giusto qlche infiammazione inguinale ogni tanto.
"Dove arriviamo?"
"Alla croce abbattuta, dai".

In definitiva credo che il mio sia stato un semplice caso di diagnosi errata: l'applicazione c'era, mancava piuttosto il talento. Tutto qui. Averlo saputo prima.
Avrei imparato un altro mestiere. Non sarei diventato il precario a vita che sono. Avrei avuto un'esistenza più tranquilla. Meno ansia. Cioè, non esiste che a cinquantun anni uno ancora si fa sospendere dal lavoro. Ma quando cresco. Davvero, quand'è che finalm –
"Perché ti sei fermata?"
"Hai il fiatone, papà".
"Ma no, non è niente".
"Hai preso le tue medicine stamattina? Qlle per il cuore"
"Eh? Tanto non mi servono".
"Papà".
"Non mi fanno niente, dai. Finiamo la corsa".
"No, non ho più voglia".
"Come vuoi".

La croce è ancora lì, per terra, dove un tempo c'era un parcheggio e ora la banchina di un porticciolo sul fiume. Nessuno ha interesse a spostarlo. Sembra quel che resta di un immenso aquilone, il giocattolo rotto di un bambino gigante. A volte qualche bagnante viene a vederla e si fa il segno della croce: ma adesso non c'è nessuno.
Quasi quasi.
"E adesso?"
"E adesso torniamo indietro. Ti do un minuto di vantaggio".
"Cosa fai con quel sasso, papà?"
"Non ti preoccupare".

Se me lo sarei immaginato, avrei portato del gesso. Con un sasso è difficile lasciare qlcosa di leggibile. D'altro canto, se è davvero nei pressi è meglio non attirare l'attenzione, no? Nessuno fa caso a due segni sul cemento.

BAR-TADDEI
DEVO-PARLARTI.
ORA-POSSO-RISPONDERTI.
IMMACOLATO.


Già. E perché dovrebbe fidarsi, poi?

2004:-HA-VINTO-BUSH

Qsto dovrebbe fargli tornare la curiosità.
"Papà!"
"Arrivo".
Adesso sì, adesso il cuore batte troppo forte.
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Cadono statue

Caro Leonardo,
Cosa vuoi mai, routine.

Sul Supernet di San Petronio dicono che i terroristi hanno alzato il tiro in città. Niente più kamikaze negli stabilimenti, bensì un paio di colpi in banca e un gesto simbolico e spettacolare: l'abbattimento della statua del Patrono sotto le torri.
Le banche sono sicuram una stronzata. Ormai uno tende a prendersela coi terroristi anche se il micio gli sale sull'albero. La statua è un altro discorso. Non è esplosa: l'hanno tirata giù. Se è stato un vandalo, doveva avere con sé un piccolo bulldozer. Un bulldozer silenzioso e invisibile, o perlomeno con lo ZTL, che attraversa la città di notte senza dar nell'occhio né a Sirio né a un nottambulo né a nessuno.
La notizia ha comunq rimesso la guerra all'ordine de giorno, e meno male: ormai le centrali energetiche in tilt e i blackout non se li filava più nessuno. Ora pattuglie di volontari montano la guardia al Santo Padre Pio del Cassero, e li capisco. Mentre il Patrono ha sempre avuto l'aspetto bonario di uno santificato secoli fa che non deve più dimostrare niente a nessuno, qll'altro, oltre a essere relativamente fresco di nomina, è uno che s'incazza. E se s'incazza, ha senza dubbio i mezzi per portare sfiga.

Quanto a me, sono preoccupato: nessuna traccia di Taddei. Neanche di Damaso, se è per questo: all'ospedale non me lo fanno più vedere (Assunta è molto preoccupata). Io mi sono rimesso a venire in Facoltà quasi tutti i pomeriggi (Concetta è preoccupata). Certo, lei ha questo chiodo fisso che io una di queste primavere inciampi in qualche fanciulla in fiore. In realtà non è come lei pensa: bensì, dopo attenta valutazione, ho concluso che per trovare Taddei o farmi trovare da lui un posto vale l'altro; e siccome mica posso andare in giro con la lanternina, mi conviene stare fermo da qualche parte e aspettare che la legge dei grandi numeri me lo conduca tra le braccia.

Naturalm in base alla vera legge dei grandi numeri, questo può accadere in un momento qualsiasi da qui ai prossimi diecimila anni; ma per ora non si sta male, qui. Sotto Pasqua non c'è mai molta gente, studenti professori drogati cani e barboni si prendono tutti un meritato ponte lungo. La brezza in Piazza Verdi sa di mare. Solo qlche giovinetta ogni tanto percorre i portici ad ampie falcate con una tesina ritardataria stretta in seno, ma non è come Concetta pensa. Del resto la biondina, come si chiama, Aureliana, non si fa vedere, sarà in Liguria o Versilia, chissà.

C'è un'altra cosa. Mettiti nei panni di una persona scongelata vent'anni prima che si sveglia in un ospedale della sua città e scappa in un pigiama a righe: dove vai? Cosa fai? Per prima cosa, hai voglia di rivedere casa tua, controllare se c'è ancora qualche amico o familiare. Ma amici e familiari, per quanto ci è dato di sapere, non ne ha più (tutti morti o emigrati): la sua casa natale era a San Lazzaro, in uno di quei caseggiati buttati giù per far posto agli stabilimenti balneari. A Pasqua porterò Letizia a farsi un bagno e darò un'occhiata in giro, ma secondo me non è rimasto lì. (E in ogni caso non mi posso permettere di andarlo a cercare sul bagnasciuga tutti i santi giorni. Per quel che mi pagano. Non sono mica un informatore a tempo indeterminato, io, ecchecazzo. Sono un collaboratore part-time e finora i rimborsi spese li ho letti nei romanzi. Se volevano un lavoro fatto bene mi pagavano di conseguenza. E F'nql).
Dicevo, secondo me non è rimasto lì. Bella spiaggia, bella gente, magari un pigiama a righe si può mimetizzare, ma non c'è niente che possa ricordargli davvero l'infanzia o quant'altro. Inoltre è maledettam curioso, qll'uomo. Avrà voglia di sapere cos'è successo negli ultimi vent'anni. Le mie risposte imbarazzate devono avergli creato solo confusione. Che farà?
Cercherà giornali. Non ce ne sono. Librerie. Molto rare, e i libri sono gli stessi tascabili di vent'anni fa, ingialliti e scollati. A meno che non decida di far pace con l'interfaccia utente del Supernet, non avrà nessun modo di informarsi. E a quel punto, dove arriverà, guidato dalla disperazione?
Al tempio del sapere. L'ateneo più vecchio del mondo. Là ci saran bene testi di Storia sugli ultimi quattro lustri, penserà. Naturalm non li troverà. Ma troverà me.

Dopodiché…
Non lo so. Speriamo bene.
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Il nemico

Caro Leonardo,
pensavo che non avrei mai più avuto tempo per scrivere qui – dopo la dichiarazione di guerra sono stato co-optato nel Servizio Segreto di Quartiere. Ed è solo colpa mia, stavolta. Perché non so mai dire di no a nessuno?
Questi ragazzini del SSQ sono tanto teneri, ma pazzi, fallaciani marci. Credono di essere in diretta dall'apocalisse, al quinto o al sesto sigillo come minimo. Volevano organizzare i turni di notte che manco i padani dei vecchi tempi. Ci voleva un vecchietto coi capelli bianchi come me a persuaderli che nessuno ha intenzione di invadere il nostro isolato, per ora, e che si trattava semplicem di mettere un picchetto di fronte al supermercato per scoraggiare gli incettatori.
"Tenetevela in bene in mente, questa parola, 'scoraggiare', se volete fare strada nel Teopop. Perché il Teopop, sapete, non reprime: il Teopop scoraggia".
"Ha detto Scoreggia?"
"Ahahah".
Quindici anni che la sento, questa battuta. Un giorno di questi finisce che uccido qualcuno.

***

L'altra sera, la storica sera della dichiarazione, avevo lasciato Assunta sull'ultimo posto a sedere del filobus, con la scusa che volevo fare due passi da solo e fermarmi a bere qualcosa. Avevo in tasca il numero dell'amante di mia moglie e volevo provare a capire il perché. Magari sedermi da Marino mi avrebbe fatto bene, anche se la sua birra ormai sa esplicitam di reagenti chimici e sciacquatura di fusto.
"Non è neanche più birra, la tua, sai? È il ricordo della birra che ho bevuto già, e tutte le volte che vengo infatti è più sbiadita".
"Mica solo la birra è sbiadita, eh, prof?"

Nel quartiere io sono il prof, per antica convenzione.
A quest'ora da Marino ci sono sei clienti, quattro intorno a una briscola, uno alla playstation abusiva e uno ai giornali. Riconosco quattro facce: tre inoffensive e il quarto è Carmelo, un informatore di quartiere che abita proprio sotto casa mia. Ma ha più voglia di briscola che d'informarsi, se lo conosco bene.
"E alora, prof, siamo in guerra?"
"Pare di sì".
"Che poi per la verità c'eravamo anche prima, o no?"
"Sì, in pratica sì".
"Però questa cosa del Papa, mah… ma non era in fin di vita? Coma vigile, avevan detto".

Questo che ha parlato per ultimo è Carmelo, più per far sapere che c'è che per altro. Tiene gli occhi sulle carte e fuma. Tutti fumano. In futuro gli storici che studieranno le ere geologiche dei bar troveranno uno strato d'intonaco bituminoso e diranno: qui la gente fumava parecchio e male, un'era geologica di merda.
Io mando giù l'ultimo sorso di ricordo e poi rispondo ad alta voce, che mi senta: "sono solo voci dei disfattisti. Il nostro Santo Padre ha ancora una lunga vita davanti a sé".
"Mah", fa Marino dal bancone. "Purché sia la volta buona. Che non se ne può più di 'sti gialli".
"E chi t'ha detto che sian i gialli, a te?"
"E chi vuoi che sia, scusa"
"Ma, i Padani per esempio".
"Seh, secondo te svegliano il Santo Padre dal coma vigile per fargli annunciare la crociata contro tre Padani delle Paludi. Giusto per farsi ridere dietro in mondovisione. No, no, io dico i gialli".
"Ma i gialli sono nostri amici adesso".
"E alora gli usastri".
"Ma siamo amici anche degli usastri".
"Ma senti questi qua. Prof, glielo dica anche lei, che è da trent'anni che siamo amici di tutti e facciamo una guerra l'anno quando va bene. E se non sono gli usastri saranno i bizantini, e se non sono i bizantini sarà la Califfa…"
"Ma, no, la Bin Laden no".
"E perché no?"
"Ma è una signora tanto ammodo…".
"Ma sentilo. O! La guerra non si fa mica a simpatia! Si fa per l'energia. Glielo dica anche lei, prof".
Io sono al bancone, e guardo l'unico giocatore che continua a fissare le carte.
È chiaro che non vuole saperne mezza di me. È chiaro che stasera non ha la minima intenzione di fare tardi a stendere un rapporto. È chiaro che appena si è accorto che ero dentro, mi ha identificato come una grana: un rieducato che va a bersi una bicchiere, e magari parla, straparla, e poi tocca al povero spione di quartiere riferire. Che palle. Che stanchezza. Che scoraggiamento. Il teopop, ai suoi minimi termini.
"Eh, prof? Glielo dica".
"No, Marino, la guerra non si fa per l'energia".
"Ah no?"
"No, di regola si fa per la democrazia".
"Ma l'energia…"
"L'energia vien dopo. Prima la democrazia. E poi l'energia non è così importante. Noi abbiamo tutta l'energia che ci serve".
"Ma i blecaut…".
"I blecaut sono per via degli sprechi. C'è gente che tiene attaccato il frigo tutta notte, d'inverno, lo sapete? Anche qui da noi, a San Petronio, c'è gente che lo fa. Il frigo tutta notte e l'acqua calda tutto il giorno, e poi ci si lamenta dei blecaut. Per forza".
Adesso ho dieci occhi addosso, sbigottiti, e due soli che continuano a fissare le carte, come se stessero giocando la briscola della sua vita. Toh Carmelo, ti ho salvato la serata, contento? Ma mi sa che qua dentro non ci rimetterò piede per un bel po', dalla vergogna.

Giù dal ponte di Mascarella neanche un cane, neanche un drogato. Tutti in casa a guardare il Papa resuscitato che ci chiama alle armi contro questi o contro quelli. Ho freddo, puzzo di nicotina passiva, mi brucia lo stomaco e ho appena deciso di smettere di bere. Non sopporto che Leti mi trovi in questo stato.
"Ciao papà Mac".
"Ciao tesoro, che ci fai sul pianerottolo?"
"Sono molto arrabbiata".
"Con chi?"
"C'è un signore in supernet, che ha interrotto i cartoni".
"Tesoro, quel signore è il Papa"
"Ma io stavo guardando i cartoni".
"Si vede che doveva dirci una cosa importante ".
"Ma non è vero! Sta raccontando delle barzellette".

Ahi. Peggio di quel che pensassi.

"A me non piace. Uno che interrompe i cartoni, per me, è cattivo".
"Hai ragione, Leti. Interrompere i programmi dei bambini è pura cattiveria".
"Ma perché lo fa?"
"Lo fa perché lo ha sempre fatto. Pensa, lo faceva anche quando ero bambino io".
"Ma papà, tu sei più vecchio di lui".

Sapevo che sarebbe successo prima o poi, ma speravo più poi.
Oh, beh.

"No, Leti. Lui è più vecchio di me, anche se non sembra".
"Ma se ha i capelli neri".
"Tesoro, non sono suoi, un'altra volta ti racconto. Entriamo, adesso. Cosa c'è per cena?"
"Fagioli".
"Mmmmm! Buoni i fagioli!"
"A me non piacciono".
"Ma con la conserva?"
"Sì, con la conserva sì".
"E allora noi chiediamo a mamma Conci se ci mette un po' di conserva, solo per la Letizia, e…"

Spalanco la porta, e trovo le mie due mogli immobili sul divano. E solo allora mi rendo conto. Siamo in guerra, siamo nella disgrazia. Solo una disgrazia può unire quelle due donne sullo stesso divano. Assunta ha le lacrime agli occhi, Concetta fissa ancora il monitor spento.
"La conserva è finita", fa.
"E vabbè, ho ancora il cappotto indosso, vado a comprarne".
Mi guarda come se avessi detto la più grande sciocchezza in terra. "Dov'è che vai. Non si trova più da nessuna parte, da due giorni!"
"Gli incettatori, già?"
"Oi".
"Va bene, vado giù a chiederne alla moglie di Carmelo, mi deve un favore. Be', mi dite almeno contro chi stiamo, stavolta? Cinesi o usastri?"
"Gheddafi".
"Tutto qui? Tutta questa scena per l'ex riserva del Perugia?"
"Ma che cazzo dici" (questa è Assunta, adesso ha i pugni negli occhi).
"Tu non ti ricordi, io sì. Lo comprò Gaucci nel… nel…"
"Piantala. Non è Gheddafi il guaio. Il guaio è Lui. Ha preso il controllo".
"Ma come fai a dirlo, andiamo".
"Ha raccontato una barzelletta"
"Che tipo di barzelletta, magari è una simulaz…"
"Giudizio universale. Il Papa va da San Pietro e gli dice: permetti che ci penso io, che sono più aggiornato? E allora San…"
"Stop. Ho capito".
"È lui. Altro che coma vigile. Altro che morte clinica".

"Ha ripreso il controllo".
Che disperazione. Ma soprattutto, che palle.
Il Teopop è al suo apice.
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Senza fare alcuno sforzo

Niente post, soltanto spot: questo è il film che dovreste andare a vedere nel weekend (seguirà dibattito). Se siete un po' nostalgici del '77 a Bologna senza mai esserci stati; se invece c'eravate e manco per sogno ci tornereste; se amate la radio (e i blog), se avete un programma (o un blog); se anche odiate la radio (e i blog); se lavorate tanto (e guadagnate poco); se lavorate poco (e guadagnate uguale); se siete studenti e non apprezzate i carabinieri; se siete i carabinieri e non apprezzate gli studenti; se siete figli d'operai e non apprezzate un bel niente; non so com'è che sia andata, ma Chiesa e i Wu Ming hanno fatto un film che può piacere a tutti. A me sembra proprio a tutti. Questo è il generalismo che mi piace. (Al limite, se il vostro amico nicchia, ditegli che ci sono le donne nude e il kung fu). In che cinema lo fanno? Qui.
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A questo punto qualcuno si sarà anche chiesto:
Ma perché Leonardo non ha i commenti?

# 30: I sanitari dell’Alma Mater

(PARENTAL ADVISORY, explicit lyrics)

Io, se ci ripenso, ho fatto l’università in un contesto alquanto sudicio.
Le sale studio in particolare. I cessi delle sale studio per la precisione. Scritte zozze, fango, peli, acqua marrone, si stava come suini sul camion. A volte non c’era il bidet: qualcuno per protesta usava il lavabo.
Tuttora, quando il bisogno impellente mi porta in autogrill di seconda categoria, o nell’orinatoio di una stazione o di un centro sociale, sento che qualcosa nel mio profondo si smuove, come letame appena rivoltato (una scatologica madeleine), e mi trovo a esclamare, senza vergogna: “oh, che è, l’Università degli studi di Bologna?”

Ai miei tempi il laureando in lettere occupava un piano molto basso della piramide sociale. Non così basso che non ci fosse qualcuno messo peggio: i laureandi in Filosofia. Più già ancora quelli del Dams. Poi i pancabbestia. Poi i cani dei pancabbestia, quelli che in realtà se la passano meglio di tutti. Tutte queste categorie dividevano la stessa isola pedonale, studiavano, mangiavano, spacciavano fumo e biciclette negli stessi ambienti. E pisciavano negli stessi servizi.
L’idea che l’umanista sia un parassita della società di solito è un retropensiero, una cosa che si ha pudore a manifestare. Ma Bologna, sotto questo punto di vista, non aveva pietà. Vuoi fare l’umanista? Impara a vivere come una piattola. L’alternativa è la progressiva nazificazione: transitare in via Zamboni a testa bassa, portarsi l’acqua minerale da casa, imprecare sottovoce ai bonghisti delle tre del pomeriggio.
(Una cosa che mi fa sentire vecchio è il sottotitolo di Inkiostro, “uno studente bolognese”. Si sente che è passato del tempo. Io ai miei tempi non mi sarei mai definito uno studente bolognese. Non dico che ci fosse nulla da vergognarsi, ma era qualcosa da esibire il meno possibile, come una panda bianca arrugginita, un cesso sporco, il lavello quando non sciacqui i piatti da tre giorni. Questa era Bologna).

Dopo aver studiato laggiù, il resto del mondo sembrava un posto più pulito, diciamo pure più fighetto: lavoro non te ne danno, ma le pareti sono marmorizzate o color pastello, e i sanitari odorano di timo e di lavanda. E un po’ ti manca, la città delle piattole. Quegli odori, quei colori (il giallino, soprattutto).
Poi un bel giorno torni sotto quel portico e ti rendi conto dell’amara verità: non era la città a essere sudicia, era la tua generazione. Là dove c’era l’assemblea permanente dei bonghisti adesso ci sono tre, quattro camionette della polizia. Qualcuno ha strappato i manifesti e ritinteggiato tutti i muri. Il vecchio bar dello studente, un postaccio dove il caffè costava 600 lire e i camerieri ti chiedevano di buttare le cicche per terra, ora è un mediacenter strafighetto. E tu non puoi più pisciare, all’Università. Ovunque vai, c’è bisogno di un’esclusiva tessera magnetica, e tu non ce l’hai, sei escluso. Questo sì che è uno choc.

In questi casi tocca fare così: ci si appoggia al muro di fianco, col fare noncialante di un Joe Falchetto, e si aspetta che qualcuno munito di tessera arrivi, sospinto dal medesimo bisogno che vi ha portato lì. Quel che rende piccante la cosa è che all’Università i bagni tendono a essere bisex (perché?).
Quando alla fine arriva la ragazza – statisticamente è sempre una ragazza – ed estrae la preziosa tessera, occorre farle notare, con un’occhiata gentile, che si avrebbe tanta voglia di entrare con lei, tanto là dentro c’è posto per tutti.

La società del controllo è anche questo: doversi munire di una carta magnetica per pisciare.
“Ma almeno adesso l’ambiente si è ripulito, no?”
Sì e no. Prendi le scritte sui muri. I piccoli annunci di prestazioni sessuali. Finché l’Università era aperta al popolo, uno poteva anche ipotizzare una genìa di maniaci che venissero lì apposta. Ma ora non ci possono essere dubbi: sono i laureandi in lettere a offrire i loro corpi ad altri laureandi. Magari è quello stangone biondo al tavolo di fronte, che sta compulsando Cino da Pistoia: tra un po’ si alzerà, andrà in bagno, estrarrà una bic dai pantaloni e scriverà: offro pompini con ingoio, chiamate xxxxxxyyyx. Beh, fatti suoi, dopotutto.
Ma è possibile che tra le scritte sui cessi dell’Università e su quelle di una qualsiasi stazione non ci siano sostanziali differenze di stile? Nessuno che scrive endecasillabi a rima baciata, parolacce tratte dall’Inferno dantesco, distici elegiaci? No, il solito umorismo da cesso standard. E quel modo di dialogare a finestrelle, per esempio:

W i Korn!

I
I

SFIGATO, PASSA A STEVE VAI

I
I

PROBABILMENTE SEI UN FROCIO DI MERDA CHE SI ECCITA ASCOLTANDO I QUEEN CON UN CETRIOLO NEL CULO FOTTITI



Questo tipo di interfaccia grafica non vi ricorda niente? Molto prima dell’introduzione delle finestre di commento nei blog, molto prima della nascita dei blog, molto prima della stessa invenzione del World Wide Web, gli esseri umani usavano una tecnica simile per comunicare informalmente nei cessi pubblici.

Ma perché qualcuno sente la necessità di comunicare nei cessi pubblici? Perché non vuole essere visto, (a) e perché vuole comunicare con gente che non conosce (b); e che forse non ha nessuna intenzione di conoscere. Una ben strana modalità di comunicazione. Ma perché no? Dopotutto che c’è di male?
C’è che dopo un po’ le scritte stancano. Sono brutte. Sono volgari. Per una cosa divertente, ci sono dieci stronzate che ti fanno pensare al tramonto dell’occidente. Sembra che al riparo di quattro muretti piastrellati, ognuno di noi riesca a dare soltanto il peggio di sé.

E non si può trovare un modo per ripulire i quattro muretti, trasformarli in un elegante tazebao, limitare gli accessi soltanto a gente distinta, o agli addetti ai lavori? No. L’esperienza dei cessi dell’Università di Bologna ci mostra che è inutile.
Una volta potevamo dare la colpa ai pancabbestia, brutti, sporchi e cattivi. Ma oggi le tessere magnetiche ci inchiodano alle nostre responsabilità. Il troll che perde tempo a sporcare i muri con le sue stronzate, è uno di noi. Se non è proprio dentro di noi. È inutile che diamo la colpa agli altri. Siamo noi umanisti a scrivere quelle cose, nell’intimità dei nostri cessi pubblici. Ci piace. Del resto, siamo umani (forse troppo).

Ma umani o no, ve ne andate da un’altra parte a pisciare. Non a casa mia.

(Il biondone che compulsa Cino da Pistoia è un parto della mia immaginazione, che è malata).
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Maestri di vita (11) - Andrea Pazienza

Gli italiani, lo sapete, si dividono in 57 milioni d’individui.
Ma fingiamo qui per comodità che si dividano soltanto in due categorie: (1) quelli che conoscono Andrea Pazienza, lo considerano un genio e credono che i suoi fumetti saranno una delle poche cose che resteranno degli anni Ottanta se non del Novecento, e (2) quelli che manco sanno chi è.
Ora, è a questi ultimi (la maggioranza, tralaltro) che io vorrei parlare adesso, pregando semmai i primi di ripassare un’altra volta. No, perché francamente di pezzi che spieghino quant’era bravo Andrea Pazienza a chi ama Pazienza, il mondo non ha più bisogno. Anzi.
Negli ultimi dieci anni è nato un vero e proprio genere letterario, la lode sperticata al genio e all’opera di Andrea Pazienza, molto praticata soprattutto nelle introduzioni. E va bene. Il fatto è che a 16 (16!) anni dalla morte sembra ancora impossibile riuscire a ‘criticare’ quello che ha fatto. Siamo ancora nella fase “o lo ami o lo odi”. Ma io non ho mai conosciuto nessuno in grado di odiare Pazienza. E allora le cose stanno proprio così: o lo ami o non lo conosci.

È per questo che mi volevo rivolgere a chi non lo conosce (non vergognatevi, c’è di peggio, per esempio io non ho mai letto prùst), e fare un po’ di pubblicità: in edicola, fino a venerdì, c’è un volume dei classici del fumetto di repubblica con alcune storie sue, un po’ a colori e un po’ no. Costa euro 4 e 90 più il quotidiano, ma forse, se non vi piace repubblica e conoscete il giornalaio, riuscite a procurarvelo sfuso. In ogni caso il rapporto qualità-prezzo non è mai stato così buono, per delle tavole di Pazienza. Alcune sono state un po’ rimpicciolite, ma ne vale ancora la pena: procuratevelo. Io, che conosco i fumetti di Pazienza (e quindi lo amo), ci terrei.
Sul serio, m’interessa il vostro parere. Vorrei che lo sfogliaste, che vi sforzaste di mettere a fuoco i disegni e le storie, anche se non è sempre facile. E poi che mi faceste sapere se piace anche voi o se no, non vi piace per niente, e perché. Credo che sia ora di fare uscire Pazienza dalla nicchia dei suoi estimatori, e di discuterne come si discute di un classico vero: parlandone anche male, se è il caso. Criticandolo.

Le prime 140 pagine contengono una cosa che si chiama “Le straordinarie avventure di Pentothal”, e che è molto difficile definire. Grosso modo è l’autobiografia in diretta dello studente Andrea Pazienza (si chiama proprio così), che si ritrova al DAMS di Bologna nel 1977. La prima puntata è del febbraio di quell’anno, e racconta di un’occupazione universitaria che sembra già essere naufragata tra pastoie assembleari e scontri con la polizia. Il 21enne Pazienza registra tutto e trasfigura tutto con un occhio impietoso. Impietoso soprattutto verso sé stesso: il 21enne Pazienza, prigioniero dei suoi sogni e del più banale dei problemi personali: la ragazza lo ha lasciato, è colpa sua.
Scrivere autobiografie in diretta comporta però un grave difetto: che le cose accadono in continuazione. Pochi giorni dopo aver spedito le tavole a Linus, la polizia uccide uno studente, Francesco Lorusso, e la rivolta che sembrava partita così male diventa il leggendario “77 bolognese”. Detto anche “dei carri armati”, perché il già stravagante Ministro degli Interni d’allora, Francesco Cossiga penserà di reprimerlo proprio coi carri armati. A questo punto Pazienza si precipita nella redazione di Linus con una tavola nuova, da sostituire all’ultima, per rimpiazzare un “allora è una fine” con “era invece un inizio. Evviva!” Ma in realtà la tavola è tutt’altro che gioiosa. Si vede un carro armato, appunto, lo striscione in cui “Francesco è vivo” e, naturalmente, “lotta insieme a noi”, e un Pazienza disperato che ascolta Radio Alice e conclude: “tagliato fuori… sono completamente tagliato fuori”. Autocritica un po’ ingiusta, perché in quei giorni Pazienza partecipò attivamente alle manifestazioni: ma questo è Pentothal: un delirio spietato in primo luogo con sé stesso. Poche pagine più in là comincerà ad autodenunciarsi: “Questo Andrea Pazienza è sinonimo di una strategia nuova. Lo muoveremo tra le file del nemico… ben programmato egli diffonderà presto quelle che sono le caratteristiche psichiche elette a fondamento del nostro ordine democratico: pigrizia, egoismo, paura, ignoranza, situazionismo, arrivismo, falsità, pressappochismo, prevedibilità, nevrosi”. La tenera faccia baffuta, che abbiamo imparato a riconoscere nelle prime tavole, si deforma, si distorce, invecchia, per poi ringiovanire all’improvviso: a un certo punto Andrea si fa catapultare nella savana per farsi picchiare a morte da uno scimpanzé. Nel frattempo passano le puntate (ma è difficile capire quando è come, perché da anni sono state raccolte in un volume solo senza nessuna spiegazione), e con le puntate i mesi del ’78, del ’79, dell’’80, dell’81. Ma il brio delle prime tavole (le prime pubblicate su una rivista) non tornerà più. L’“inizio” non era l’inizio, la quotidianità dello studente fuorisede Pazienza si fa sempre più sconfortante: tra i deliri, le file in mensa, le telefonate ai genitori, si fa strada l’altro leitmotiv di Pentothal: l’eroina. A un certo punto da una vignetta spunta un fumetto senza padrone, una specie di voce dal coro che fa: “uff. abbiamo capito che ti fai. Droga, droga, non pensi ad altro”. Pazienza, in realtà, continua a pensare e a mostrarci anche molte altre cose. Ma pochi sono riusciti a spiegare il fascino della droga, o meglio, della dipendenza, come ha fatto lui nelle ultime pagine più intense di Pentothal, quelle tra pag. 133 e 138.

A pagina 134 fa capolino una faccia che non c’entra niente: è un personaggio di altre storie, a cui Pazienza stava lavorando in quegli anni. In partenza anche lui era una caricatura di sé stesso: una copia più giovane e ghignante, col naso e il mento enormi a disegnare in profilo una grande Z. Si chiama Zanardi, come una strada di Bologna, e anche lui vive a Bologna, ma è più giovane. Mentre Pazienza ha ormai finito il DAMS ed è un fumettista e illustratore noto e onnipresente (quasi tutti i cantanti italiani del periodo hanno almeno un LP disegnato da lui), Zanardi è ancora al Liceo, che frequenta con scarso impegno. Mentre “Andrea Pazienza” è un personaggio discutibile, che non ne combina una buona, suscettibile di qualunque ironia e caricatura, Zanardi è un personaggio scolpito nella roccia a colpi netti, come è netto il suo profilo: capisce al volo qualsiasi situazione e sa rivolgerla in suo favore, e del suo mondo interiore non riusciamo a capire niente. E mentre “Andrea Pazienza”, malgrado tutte le sue autodenunce, era un bonaccione incapace di far male a una mosca, Zanardi è il Male personificato. Io vi consiglierei di partire da “Verde matematico” che comincia senza dir nulla a pag. 146, ed è un capolavoro. Nelle prime pagine fate la conoscenza di un altro personaggio memorabile: Petrilli, detto Pietra. Un altro nasone. È un compagno di classe di Zanardi, un suo “amico”, in realtà uno zimbello di cui Zanardi si prende gioco in continuazione. Per altro non è uno stupido, e se ne rende conto. Ma è un debole, e ha bisogno di Zanardi tanto quanto forse anche Zanardi ha bisogno di lui.
Anche Pazienza probabilmente non amava Petrilli, e per ben due volte gli fa fare delle morti orribili. Salvo poi resuscitarlo, perché evidentemente anche lui ne aveva bisogno. Quando leggiamo le storie di Zanardi, è facile mettersi al suo posto. Siamo in un mondo violento e spietato: un liceo bolognese dei primi anni 80. Di personaggi buoni non ce ne sono, e l’unico che sembri dare qualche appiglio è lui.
Credo che “Verde Matematico” dopo “Pentothal" debba fare uno strano effetto. Pentothal è un’improvvisazione totale, con tante tavole senza capo ne coda che han l’aria di essere state messe assieme giusto per far numero. Si può leggere tranquillamente saltellando qua e là, e forse è meglio. (Per farvi un esempio, pagina 114 e pag. 115 sono state pubblicate invertite vent’anni fa, e da allora nessuno sembra essersene accorto, visto che continuano a ristamparle così in tutte le edizioni). Al contrario, “Verde Matematico” è un’opera di alta ingegneria. Non c’è una vignetta che non serva a qualcosa: non c’è un solo tratto di penna che non sia funzionale al racconto. Anche il naso di Zanardi si allarga o si restringe in funzione della trama. E la trama, complicatissima, racconta di un giorno qualunque a Bologna in cui nessuno riuscirebbe a immaginarsi una storia, e invece, che storia. Ma anche solo il cielo nuvolo di Bologna, con gli aeroplani sullo sfondo, i muretti imbrattati, i motorini e i telefoni che suonano a ora di pranzo, danno a quel giorno un tale senso di realtà che ci sembra di esserci stati.
In quel giorno, Zanardi gioca d’azzardo con le vite di un paio di persone. Non gli va sempre bene, ma alla fine tutto si mette come voleva lui. C’è anche una festa pomeridiana nell’appartamento dell’“ing. Cinti”, quelle con la tapparella abbassata come nel coevo Tempo delle Mele: ma al posto della spuma c’è un “tirello” di coca pronto in cucina. I compagni di Zanardi vanno all’ospedale con l’epatite, si prostituiscono, si giocano le ragazze ai dadi, organizzano furti e ricettazione, e intanto a scuola devono sorbirsi le prediche dei prof che credono di avere qualcosa da insegnare. Non mi pare che ci sia stato niente di più cattivo di Zanardi, dopo Pazienza. Altri ci hanno provato, ma erano troppo autoindulgenti per riuscire a essere davvero cattivi. Pazienza – questa è la sua lezione – si era ucciso un milione di volte prima di cominciare a mordere gli altri.

Il finale del libro è un’altra sorpresa: Pazienza, sapete, era un grande fumettista, ma si guadagnava da vivere facendo la satira. Le vignette, sì, come Forattini. Le sue però facevano ridere.
Uno dei suoi personaggi preferiti era Pertini, a cui dedicò un volume intero. Ma anche quando lo ridicolizzava, Pazienza tradiva una gran simpatia per il presidente. Come tanti italiani, Pazienza aveva capito che il vecchietto arrivava direttamente da un altro mondo: la Resistenza. E la Resistenza era un altro sogno di Pazienza. Una delle sue storie più strambe e spietate si chiama proprio: “Il partigiano”. Comincia così: i sovietici invadono San Severo di Puglia e la ribattezzano Cafograd. Pazienza decide di fuggire nella foresta umbra e di cominciare la resistenza. Ma, tutto solo, si sente triste, e comincia a rollarsi una, due, tre canne… finché i sovietici non lo sgamano. E la storia continua così, sempre più deludente: il “partigiano” di Pazienza è soltanto un altro eterno studente incapace di combinare qualcosa che non sia, come dice alla fine “soltanto un’altra puttanata”. Non è più tempo per la Resistenza.
Quando però Pertini precipita sul Quirinale, Pazienza ha un’intuizione folle: trasforma il nanetto con la pipa nel protagonista di assurdi sketch sulla resistenza, con lo stesso Paz nel ruolo di spalla comica. Io non so se tutti li troveranno divertenti, ma alcuni non riesco a rileggerli senza scoppiare.
Il volume “Pertini”, però, non finiva qui. Repubblica ha tagliato una lunga tirata finale, in cui Pertini tornava bambino, e una creatura misteriosa lo prendeva per mano e gli mostrava gli orrori della prima repubblica. Alla fine la creatura spiegava al bambino di chi era la colpa, e puntava il dito fuori del foglio: la colpa è tutta sua, di uno dei tanti che vedono e lasciano fare. Non del lettore, no. La colpa era proprio di chi stava disegnando quella tavola in quel momento: la colpa era di Andrea Pazienza. Che infatti si precipitava a cancellare, inutilmente. Proprio come in quella vecchia puntata di Pentotahl: ancora una volta il colpevole di tutto era lui, con nome e cognome.

Pochi anni dopo, nel 1988, Andrea Pazienza è morto, credo che si possa dire di overdose: aveva trentadue anni. Fino a quel momento era stato una giovane promessa del fumetto, destinato a diventare un Grande, se solo si fosse impegnato di più e avesse rispettato le consegne e avesse scritto storie con un capo e una coda. Poi, una volta morto, la gente che lo conosceva cominciò a mettere insieme le cose che aveva dipinto (sin da giovanissimo), disegnato, scritto, illustrato: e ci si cominciò a rendere conto che Pazienza aveva lavorato come un matto, facendo mille cose, senza nessuno forse in grado di consigliargli veramente cosa continuare e cosa smettere. Nel frattempo, non aveva smesso di drogarsi e disperarsi quando una ragazza lo lasciava. Non aveva mai smesso, probabilmente, di odiarsi e autodistruggersi, com’era implicito sin dai tempi di Pentothal. Di solito ogni “lode sperticata di Andrea Pazienza” finisce con la contemplazione di quante belle cose avrebbe potuto fare e dire Pazienza se fosse ancora tra noi. Sperando che non si sarebbe rassegnato a disegnare culetti come Manara, o commercializzare i suoi incubi un tanto al chilo e un tanto al mese come Sclavi. C’è mancata, per tutto questo tempo, la lucida cattiveria di Zanardi: qualcuno in grado di spiegarci quanto siamo stronzi e di farcela pagare. Ma non era così facile, essere Zanardi, essere Pentothal, essere Pompeo, essere il Partigiano. Tanto che c’è riuscito solo lui. Ma non c’è riuscito a lungo.
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Titicaca Lake

Ero seduto lì, la radio mandava una canzone, mi sono ricordato di una cosa, mi è sembrato d’un tratto di capire qualcosa di fondamentale, di aver risolto un problema importante per me, per tutti, poi una gran luce, poi –

Let’s take break on the Titicaca Lake
Got some more in Ecuador
Stole a car in the streets of Panama
Went too far in Bogota


Devo stare calmo.
Devo stare calmo.
Devo stare calmo. Che non è successo niente.
Devo stare calmo. Che andrà tutto bene.

Io non mi sono perso. Io so chi sono. Io mi chiamo… tra un attimo mi verrà in mente. Ma so chi sono.
E so dove sono. Questo è un bar. È un bar che conosco. Sono già stato qui.
Questo è un bar fuori Porta Santo Stefano.
Quindi so cos’è un bar, e so dov’è Porta Santo Stefano. E so che non è la mia città, e che di solito non dovrei essere qui. Almeno credo. Io abito in un’altra città. Io abito… tra un attimo mi verrà in mente.

Però so altre cose. Per esempio conosco la canzone che danno per radio. È una canzone di qualche anno fa.
(Come faccio a saperlo?)
Dice A little weak
a little pale today
looks like it's time
for that certain holiday
.

È una canzone stupida che parla del Lago Titicaca. E' un lago sulle Ande. Ecco, non so come mi chiamo e so dov'è il Lago Titicaca.
E' una canzone che si ascoltava per radio nel… nel… io ero in un mercatone, e cercavo dei mobili. Cercavo dei mobili perché avevo preso una stanza a Modena. Ecco, vedi? Si chiama Modena. So anche l’anno. Ci sono andato all’inizio del Duemila. Ma oggi non è il Duemila, vero?

C’è il Carlino, appoggiato qui. Dice: gennaio 2004. È così.
Beh, cosa mi aspettavo? Le astronavi? L’uomo su Marte? La terza guerra mondiale? Quattro anni sono niente, per l’arredo di un bar. E se ora andassi fuori scommetto che troverei Bologna tale e quale, con tutte le sette chiese e le due torri al loro posto. (Ma è meglio se per adesso resto qui) È un mattino di gennaio limpido. Ha il colore di mille altri mattini di gennaio limpidi. Il clima più di tanto non dev’essere cambiato. There is no global warming.
Stamattina, perlomeno.

Sul giornale c’è Berlusconi. Da come ne parlano probabilmente al governo c’è lui. Questo è quasi consolante. Non mi devo essere perso un granché. E poi… Palestina… solite cose. No, aspetta. Autobomba in Iraq? Cosa c’è in Iraq? Gli americani? Beh, prima o poi sarebbe successo, no? Niente d’imprevedibile, direi.

E anch’io. Non devo essere molto cambiato. Quanti anni ho? Vediamo. Lo so. So quando sono nato. Perciò se oggi è il 2001 io ho… trent’anni. È così. Ho trent’anni.
E mi mangio ancora le unghie, pare. Che vergogna.
Altro? Non direi. Un po’ di pancia, è comprensibile. Mi sono appena tagliato i capelli e… forse qui sulle tempie ce n’erano di più ma… stessi occhiali. Ovviamente. È un periodo che tengo la barba. I vestiti… perché tanto nero? Non mi piaceva il nero.
Forse nel frattempo è passato di moda.
Le scarpe?
Non dico… no. Non sono brutte, ma… le ho prese io? Davvero?

Ora farò una cosa. Mi alzerò da questo tavolino, come se niente fosse, andrò al bancone e chiederò di pagare il… il caffè. Qui c’è una tazzina di caffè: ne ho appena bevuto uno, evidentemente. E probabilmente ne bevo troppi.
Mentre vado verso la cassa, mi guarderò attraverso i liquori nello specchio a muro. E so già cosa vedrò: capelli bianchi e rughe sotto gli occhi. Ho trent’anni, no?

Temevo peggio, dai…
“Ottantacinque”.
“Come?”
“Ottantacinque!”
“Ah, sì, scusi”.
Dovevo pensarci prima. Sono cambiate tutte le monete. Qui dentro probabilmente ne ho abbastanza. Ma non si sa mai, tiro fuori una banconota.
Sono strane. Sembrano nuove anche se sono spiegazzate. Dieci euro. Un caffè ce lo compro di sicuro. E mi dà anche un sacco di resto. Bene.
Ora, già che ci sono, senza dare nell’occhio tiro fuori la carta d’identità.

Cognome: OGNIBENE
Nome: DAVIDE
Cittadinanza: ITALIANA
Stato civile: ==========
Professione: ==========
Statura: 1,65


Beh, di crescere di statura non mi aspettavo, ma quei segni cosa vogliono dire? Non ho un lavoro? A trent’anni? E cosa ci faccio qui?
C’è una borsa qui sotto il tavolino. Non so, magari è mia. Ci do un’occhiata?
(E se non è mia?)
Di sicuro è mia. Era qui. Sono solo in questo bar.
(E se trovo qualcosa che non mi piace?)
Sembra leggera, allora… fogli. Manoscritti. Ma non è la mia callig… aspetta.

L’allevamento dei bovini in Europa non offre alti redditi. Vero. Falso.
Gran parte dei bovini europei vengono allevati allo stato brado. Vero. Falso
.

Sono compiti. Compiti di scuola. Quindi io insegno. Ho passato il concorso e insegno nella scuola… direi media. Ecco cosa faccio.
E siccome sono qui, e ho questi compiti nella borsa, io insegno in una scuola media di Bologna. Ma perché? Devo essermi trasferito.
Forse ho trovato una ragazza qua, e viviamo assieme. Può essere. Magari è una che conosco. Non mi viene in mente nessuno.
(Speriamo sia carina).
Del resto, di sicuro in tasca ho un mazzo di chiavi. Ecco. Mi sembrano le solite chiavi. Le solite squallide chiavi, se posso aggiungere. Ho trent’anni, vesto in nero, insegno a Bologna, e non mi posso ancora permettere una porta blindata. Ma non importa. La chiave della macchina è la stessa. Questo è importante.
Significa che non ho fatto incidenti gravi. Qui fuori da qualche parte c’è la mia vecchia macchina (magari con una multa).
Ma per ora non esco. Non è prudente. Devo aver avuto una cosa che non mi era mai successa prima. Non posso mettermi in macchina, ora, e poi per andare dove. (Dai miei. No. Si spaventano).

E poi cosa c’è qui… ma guarda! Un cellulare. Per forza non lo sentivo, è troppo piccolo. Prima avevo un affare più pesante.
(Prima quando?).
Con lo sportellino. Ho sempre odiato i cellulari con lo sportellino. Me l’avrà regalato qualcuno.
Adesso, appena capisco come funziona, posso chiamare qualcuno. Trovo la rubrica, e poi… i nomi me li ricordo, più o meno fino al Duemila.
Sì, ma magari chiamo qualcuno con cui nel frattempo ho litigato, e non ci parliamo da quattro anni, e poi un mattino sta lavorando e all’improvviso lo chiama Ognibene Davide: “ciao, ti ricordi di me? Ho un problema. Sono bloccato in un bar fuori porta Santo Stefano e non so come uscire”. Patetico. No.
Posso chiamare i miei genitori. Con loro non posso aver litigato più di tanto. E sono pur sempre i miei genitori.
Ma aspetta. No. Loro si preoccupano. E poi magari li chiamo e loro… quattro anni… non può essere successo niente di grave… non può… però.
Però succedono cose gravi in continuazione. Succede che io sono qui e da un momento all’altro non mi ricordo chi sono, e ricordo solo una canzone che avevo già sentito quattro anni fa. Per ora i miei non li chiamo. Chiamo mio fratello. Certo.
Doveva venirmi in mente prima. Se siamo nel 2004 lui fa l’università, ha la macchina, può venire a prendermi. Se c’è qualcosa che non va vedrai che lui trova il modo di dirmelo con le buone. Sa come prendermi. È una fortuna che c’è lui. Adesso lo chiamo.
No, aspetta. Qualcosa non va.
Non c’è il suo numero.

- poi buio.
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Noi non ci meritiamo

Goodbye Paris I'm leaving you nothing they say 'bout you was true
And it drives me crazy


Tre anni fa (Il 20 marzo del 1998) mi sono laureato.
È da tanto tempo che non torno all'università. Non abbiamo niente da dirci. In fondo, non ci siamo mai piaciuti. È stata una delusione a prima vista.
La stanchezza pendolare. Le dormite alle lezioni. Le dormite nelle sale studio. Bologna è un comodo divano dove puoi sonnecchiare in mille posizioni.
Tutta la boheme che ci è toccata è stata il bar degli studenti, dove si ciccava per terra. Ah, ho anche occupato una volta. Sono finito in una commissione anarchica, con una fazione socialdemocratica (che poi era Glauco, ciao Glauco).
Ma poi il riflusso è stato inarrestabile. Ogni volta che passi in Piazza Verdi, tum-tum-tum, diventavo un po' più di destra. In un afoso pomeriggio il prof. Traina, seccato dal tum-tum-tum che saliva nella mansarda di latino, tagliò corto e m'inflisse un ventisette. Tornai sei mesi dopo, ma era afoso uguale. Incrociai le dita, mi buttai sulle georgiche, ma proprio in quel momento attaccò il tum, tum, tum. Avrei detonato una mina sul selciato.
A furia di trenta contumaci i docenti mi impartirono la lezione più importante: lo studente migliore è lo studente non frequentante, che si fa i cazzi suoi e si presenta solo per verbalizzare.
Ma il dialogo fruttificante, il confronto, verticale e orizzontale, gli oziosi pomeriggi a dibattere di filosofia e letteratura a un tavolino, dico, li ha mai visti qualcuno? Mi vergogno anche soltanto al pensiero di aver mai immaginato qualcosa del genere.
Con la tesi, poi, ognuno si chiude definitivamente nel suo guscio monomaniaco. Metti il naso fuori solo per andare a trovare il professore, ma di solito quello notte non hai dormito, perciò sei carne morta che cammina, le ragazze ti guardano male e non si sbottonano con te. Stiamo tutti scrivendo una monografia irripetibile. Senz'altro degna di pubblicazione, anche se si sa come vanno le cose, è tutto uno schifo, tutta una mafia, naturalmente.
Poi la lunga sequela di colloqui e di concorsi. Immagino che vinca chi riesce a conservare uno straccio di motivazione. Io comunque ho perso. Tra l'altro, non sono diventato un esperto di letteratura italiana. Ho quasi smesso di leggere. Messo alle corde, tiro fuori sempre e solo Leopardi e Manzoni, perché per me alla fine la partita s'è chiusa al liceo. Devo aver sbagliato qualcosa di grosso. Forse dovevo andare a letto più presto. O più tardi. Crederci un po' di più. O non crederci affatto. Far la corte ai professori. O lasciarli proprio perdere. Sono rimasto fregato nel mezzo. Tanto peggio. Tanto non mi meriti, università. E io non merito te.
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