Un martire in Melanesia

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Francobollo commemorativo
per il centenario della nascita
7 luglio: Beato Peter To Rot (1912-1945), martire in Melanesia. 

Tra i tanti nomi che gli occidentali hanno messo sul mappamondo, per lo più a caso e senza troppo preoccuparsi se avessero un senso, "Melanesia" sembra avere maggior possibilità di sopravvivere. È un nome che viene dal greco, il che gli dà un sapore più scientifico che coloniale; lo coniò l'esploratore francese Jules Dumont d'Urville, che verso il 1830 sentiva la necessità di differenziare l'area delle "tante isole" (già conosciuta come Polinesia) da quella abitata da persone di pelle molto più scura: le isole dei neri (mélas in greco). E benché in seguito il concetto sia stato messo in forte discussione dagli antropologi, a livello popolare resiste: i melanesiani sono i neri d'Oceania. Vivono in isole relativamente lontane tra loro, parlano lingue molto diverse, e il loro DNA racconta di rapporti piuttosto complicati con altre popolazioni asiatiche e polinesiane. Pure, il fatto che il colore della pelle li identifichi non dispiace; tanto che quando la maggior parte delle piccole nazioni hanno deciso di associarsi in un'organizzazione intergovernativa, l'aggettivo "Melanesian" è comparso per la prima volta nei documenti ufficiali: da quarant'anni l'associazione si chiama Melanesian Sperhead Group. 

Anche prima che arrivassero gli europei a spartirsi ogni isola e atollo, con la loro ossessione per le bandierine di colori diversi e i confini territoriali (anche quando il territorio è il mare), i melanesiani non costituivano un insieme definito dal punto di vista culturale. Tra i pochi elementi distintivi, c'era la poligamia, che è tipica delle società tradizionali melanesiane come di quelle mediorientali e africane. In altre parti del mondo la poligamia non è tradizionalmente consentita, e del resto oggi non è riconosciuta legalmente da nessuna legislazione melanesiana. Fino a un secolo fa però era liberamente praticata, come dimostra la vicenda di Peter To Rot, nella Nuova Britannia. 

La Nuova Britannia fa parte dell'Arcipelago Bismarck, a est della Papua Nuova Guinea, di cui oggi fa parte dal punto di vista amministrativo. Come il nome lascia facilmente indovinare, l'arcipelago fu colonizzato nel tardo Ottocento dalla marina dell'Impero Tedesco, che essendo arrivato buon ultimo alla spartizione coloniale, raramente metteva le mani su qualcosa di interessante: in questo caso, qualche lotto adatto alla coltivazione intensiva della noce di cocco e un avamposto per un'eventuale incursione in Australia. Durante la Prima Guerra Mondiale accadde l'esatto contrario: furono gli australiani a sbarcare nelle Bismarck, ottenendo nel 1920 un mandato dalla Società delle Nazioni che legalizzava l'occupazione militare. L'isola chimamata Nuovo Meclemburgo fu ribattezzato Nuova Irlanda; la Nuova Pomerania divenne Nuova Britannia. Per qualche perverso motivo mi sembrano nomi meno assurdi.  

Nel 1942 i giapponesi invasero l'arcipelago, scacciando rapidamente gli australiani. Una delle prime misura intraprese dalle forze di occupazione fu l'internamento dei missionari cristiani. Peter To Rot è un catechista della Nuova Britannia, figlio di un capotribù che si era convertito più di quarant'anni prima; non è un sacerdote, anzi è sposato con figli, così i giapponesi in un primo momento chiudono un occhio sul fatto che abbia costruito una capanna e la usi a mò di chiesa. Lo scandalo nasce quando un abitante del villaggio, Metepa, che lavora come guardia per i giapponesi, tenta di sequestrare una donna, per sposarsela. Questo è sbagliato in un più di un modo: non solo la signora Mentil è già sposata con un protestante, ma anche Metepa è già sposato con rito religioso. Il piano giapponese di decristianizzazione dell'arcipelago prevede però la reintroduzione della poligamia: una consuetudine, notate, del tutto aliena dai costumi giapponesi, ma con la quale evidentemente i nuovi occupanti speravano di conquistare il consenso degli autoctoni. Non sappiamo quanto funzionò: sicuramente conquistarono il consenso di almeno un predatore sessuale come Metepa. Dopo che Peter manda a monte il suo primo tentativo di sequestrare Mentil, Metepa inizia a lamentarsi di lui coi superiori, che nel Natale del 1944 lo perquisiscono e lo trovano in possesso di materiale religioso. Messo agli arresti, decide di non rinnegare la propria fede anche se è consapevole del rischio: il 6 luglio del '45 avvisa sua madre che il giorno dopo verrà un dottore a dargli una medicina. "Molto strano, dal momento che non sono malato. Temo che sia un trucco". Il sette luglio in effetti muore, per l'effetto di una iniezione letale o strangolato durante le convulsioni causate dall'iniezione. Cinquant'anni dopo è stato beatificato da Giovanni Paolo II durante il suo viaggio in Papua Nuova Guinea. 

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L'ayatollah Cirillo

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27 giugno: San Cirillo di Alessandria (376-444), vescovo, teologo, e forse ha fatto uccidere Ipazia


A un certo punto, ma erano già passati più di mille anni, Cirillo diventò un simbolo di tutto quello che non piaceva più del cristianesimo. Volendo dimostrare che la Chiesa aveva roso l'Impero Romano dall'interno, Edward Gibbons non poteva trovare un caso migliore di quello di Ipazia, la filosofa lapidata dai cristiani ad Alessandria d'Egitto nel 415 con l'accusa di stregoneria. Un linciaggio che il patriarca Cirillo forse non aveva ordinato, ma dal quale nemmeno aveva preso le distanze. Tra la folla che aveva circondato la lettiga di Ipazia, si diceva, vi erano dei parabalani: un gruppo di portantini cristiani che si erano federati per fornire servizi di pubblica assistenza, ma ai tempi di Cirillo erano ormai diventati una milizia agli ordini del patriarca. Cirillo non avrebbe fatto nulla per identificare i veri assassini, o anche solo per scagionare i parabalani; l'effetto di questa ambiguità non doveva essere stato molto diverso da quello ottenuto da Mussolini dopo il ritrovamento del cadavere di Matteotti. Senza assumersi responsabilità penali, Cirillo aveva fatto intendere ai suoi oppositori che in città comandava lui. Teocrazia contro Stato di Diritto; una donna colta contro una folla di fanatici: per Gibbons il caso era chiuso e a nulla sarebbe valsa l'obiezione che, se a distanza di secoli c'era ancora un caso, lo si doveva proprio ai cronisti cristiani che avevano continuato a riportare l'episodio, in molti casi criticando aspramente Cirillo. L'assassinio di Ipazia, scrive ad esempio Socrate Scolastico, "comportò una non piccola ignominia sia a Cirillo sia alla Chiesa alessandrina. Infatti dalle istituzioni dei cristiani sono totalmente estranee le stragi e le lotte e tutte le cose di tal fatta". Questa nobile affermazione di un contemporaneo di Cirillo, dopo secoli di inquisizione vi può strappare un sorriso, ma tutto sommato nel 415 le cose stavano così: i cristiani erano usciti dalle persecuzioni da appena un secolo; l'idea che fossero loro, adesso, i persecutori dei pagani, non aveva ancora preso piede. Cirillo, con la sua milizia privata, la sua teologia arcigna e la sua politica spregiudicata, lasciava perplessi molti tra i suoi stessi correligionari: Gibbons non fece che inserirsi nel solco di una controversia millenaria tra chi lo considerava un eroico difensore della vera fede, e chi ne notava i limiti, sia teologici sia pastorali. 

A me ha sempre dato l'aria di un ayatollah, ma è una suggestione che lascia il tempo che trova. I parabalani mi ricordano i pasdaran, anche loro un po' assistenti sociali, un po' buoncostume, un po' squadristi. Le icone suggeriscono che i patriarchi del tempo amassero già lasciarsi crescere lunghe barbe, e probabilmente il suo abbigliamento pubblico non era molto diverso da quello di Khamenei: tuniche austere e magari un turbante. Più in generale, il cristianesimo alessandrino conteneva già un certo gusto per l'astrazione che sarebbe esploso con l'Islam – Dio è assoluto, è unico, immenso e misericordioso, Maometto due secoli dopo partì da una concezione molto simile, un'idea che trovò nel delta del Nilo un terreno immediatamente fertile, molto più di quanto poteva essere il deserto arabo. È un'idea che a sua volta procedeva dal platonismo, anche se ormai questa origine doveva essere stata rinnegata e resa irriconoscibile. Non sappiamo se Ipazia fu assassinata in quanto neoplatonica; di certo non in quanto pagana perché tecnicamente non lo era, trovandosi a essere un'autorevole figura pubblica in una grande città imperiale dopo l'Editto di Tessalonica che aveva messo fuori legge il paganesimo. La sua morte violenta non fu la fine della filosofia neoplatonica, che continuò a essere pubblicamente praticata ad Alessandria. L'ipotesi più ragionevole, già formulata dai cronisti antichi è che Ipazia fosse un obiettivo in quanto consulente di Oreste, prefetto imperiale che maltollerava le ingerenze di Cirillo e dei suoi sgherri nella gestione della città. Lo stesso Oreste approfittò dell'episodio per mettere Cirillo agli arresti e prendere il controllo dei parabalani; ma queste misure durarono poco: o Cirillo riuscì a dimostrare la sua innocenza, oppure aveva amici davvero molto in alto. Forse la stessa Pulcheria, madre e tutrice del giovane imperatore Teodosio II, che per temperamento poteva ammirare la severa ortodossia di Cirillo. 

Questo asse tra corte bizantina e il patriarcato di Alessandria probabilmente serviva a mantenere in una posizione subalterna l'altro patriarcato: quello di Costantinopoli. Per evitare che nella capitale il potere religioso eclissasse quello politico, a Pulcheria e cortigiani non dispiaceva che questo succedesse ad Alessandria. Cirillo aveva fatto in tempo ad assistere alla caduta in disgrazia dell'arcivescovo di Costantinopoli Giovanni Crisostomo, auspicata e pilotata dal suo predecessore (che era poi suo zio, Teofilo). A lui toccò fare più o meno la stessa cosa con Nestorio, il nuovo patriarca costantinopolitano di solida scuola antiochiana, che accettava la consustanzialità di Dio e uomo in Gesù Cristo, ma negava l'unione ipostatica: ovvero secondo Nestorio le due sostanze (divinità e umanità) rimanevano separate. Per Cirillo invece no: affermare che in una persona di Dio consistessero due sostanze era già una bestemmia. Sono questioni che possono sembrarci di lana caprina, ma ai tempi il neoplatonismo era il linguaggio comune e la forma mentis di tutti gli intellettuali: non solo di Ipazia ma anche del suo presunto assassino. A quel punto però spettava a Cirillo spiegare in che modo Cristo fosse sia Dio sia uomo, entrando, con la sua dialettica tutt'altro che sottile, in un terreno minatissimo; a ogni sostantivo astratto poteva scatenare un'accusa di eresia. Per Cirillo è un errore parlare di unione "secondo sussistenza", o "secondo natura"; ugualmente non è possibile parlare di "coabitazione", né di "congiunzione" o "relazione", nonché di "avvicinamento" e di "contatto". Possiamo chiamarla "unione", come gli antiocheni? Manco per sogno, Cirillo non li stimava e continuò a considerare Giovanni Crisostomo un Giuda tra gli apostoli. Il termine "unione" potrebbe infatti sottendere che Cristo sia un uomo che porta Dio, il che è già eretico, e quindi? E quindi, benché Cirillo recuperi la definizione di "un'unica natura del Dio Logos incarnata", deve ammettere che in Cristo si trovino due nature distinte, divina e umana. 

La distanza tra la formulazione di Nestorio può sembrarci sottilissima, e persino a quei tempi, montare casi politici sui sostantivi astratti non avrebbe funzionato. Bisogna quindi ammettere che Cirillo (o chi per lui) fu molto astuto a trovare una pietra di scandalo molto più solida. Nel 429 venne a sapere che Nestorio aveva scelto di definire Maria non più "Madre di Dio" (Theotokos), ma "Madre di Cristo" (Christotokos), ovvero madre della sola sostanza umana. Il che se ci pensate è abbastanza logico – come può Maria essere madre del Dio che l'ha creata, insomma, è evidentemente un loop. E fu proprio il loop che Cirillo utilizzò per strangolare l'avversario: infatti, se tutto ciò che si può dire del Cristo-uomo, può essere detto anche del Cristo-Dio, Maria di Nazareth era assolutamente degna di essere chiamata Madre di Dio, come del resto i costantinopolitani facevano da sempre senza aspettare i pronunciamenti dei teologi – già, e perché lo facevano? Possiamo sospettare che Nestorio stesse sfidando certe tradizioni mantenute dagli abitanti della capitale (e tollerate dalla corte), sulle quali pesava un sospetto di paganesimo: i costantinopolitani erano molto devoti alla Madre di Dio, proprio come i loro antenati provenienti per lo più da Tracia e Asia Minore adoravano la Dea Madre. Uno dei centri del culto matriarcale era Efeso, e fu proprio a Efeso che l'imperatore Teodosio II convocò un concilio. 

Cirillo ebbe la fortuna o l'astuzia di arrivare a Efeso prima di Nestorio, e il cinismo di cominciare la discussione senza aspettarlo: tanto che quando questi arrivò, scoprì di essere stato scomunicato. A sua volta convocò un altro sinodo per scomunicare Cirillo; nel frattempo l'imperatore era diventato maggiorenne e forse oscillava tra i due, ma secondo i cronisti più ostili all'egiziano, Cirillo risolse la questione offrendo bustarelle a tutti, al punto di indebitare il patriarcato. Non andò così liscia; a un certo punto Giovanni d'Antiochia riuscì a ottenere una maggioranza di quarantatré vescovi che lo fece arrestare. Ma ormai la missione era compiuta, Nestorio era screditato e avrebbe finito i suoi giorni in un'oasi araba; Cirillo, una volta scarcerato trovò una formula di compromesso con gli antiocheni e tornò nella sua Alessandria. Si spense serenamente prima di compiere settant'anni, senza sapere che la sua formulazione dell'unione ipostatica avrebbe gettato i semi dell'eresia monofisita. 

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La vergine del ciarpame

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23 giugno: Santa Eteldrude di Ely (636-679), regina, badessa, ma soprattutto vergine


In italiano come le chiamiamo? Cianfrusaglie? No, le cianfrusaglie sono meno decorative, di solito giacciono in scatoloni nel garage. Ninnoli? No, un ninnolo è già bigiotteria, chi ha coraggio e autoironia lo può persino sfoggiare. Paccottiglia? Forse "paccottiglia" si avvicina: però dà una sensazione di nascondimento, è roba chiusa in pacchi che nessuno ha più intenzione di aprire. Carabattola: non so, "carabattola" mi dà l'idea di vecchie suppellettili un tempo utili, e assolutamente non decorative. Ciarpame? Ma no, "ciarpame" mi suona già pattume. In certe zone, almeno in Alta Italia, si usa Tirapolvere, che mi sembra abbastanza eloquente: parliamo di quegli oggetti che ci vengono regalati e che non abbiamo il coraggio di buttar via, per cui in un modo o nell'altro finiscono sopra i comodini, i cassetti, a prender polvere per l'appunto. Per dirla con Gozzano: "Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone / i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto)". Ecco, questo genere di cose gli inglesi lo chiamano "tawdry", anche se spesso non sanno il perché. Voi invece avete già indovinato, miei scelti lettori, che ha a che vedere con una santa: bravi, ma in effetti questa è la rubrica dei santi, per cui forse il mistero non era così impenetrabile. Si tratta di una santa dimenticata, come in fondo quasi tutte in quell'isola che a un certo punto ha deciso di farne a meno. Santa Eteldrude di Ely, due volte regina, in quanto sposa di due re: e ciononostante vergine, non per miracolo ma per tetragona ostinazione. 

Ne abbiamo già visti, di casi del genere. Per quanto sia facile, e non del tutto sbagliato, accusare la Chiesa di aver fornito alle società patriarcali uno strumento di controllo delle nascite basato sulla segregazione: il chiostro, dove generazioni di ragazze sono entrati per volere dei genitori, e per non uscirne più, abbiamo già più volte registrato la situazione opposta: ragazze che i genitori avrebbero voluto sposate e sistemate, tranne che loro non ci pensavano minimamente e anzi facevano di tutto per entrarci, in quei chiostri. Da Eteldrude (o Eteldreda), figlia di un re degli Angli orientali, ci si aspettava che facesse il suo dovere di principessa, contraendo un matrimonio che fornisse alla casata un vantaggio diplomatico, e sfornando eredi all'altezza. A 18 anni infatti viene infatti data in sposa a Tonberto, principe di una tribù di Angli. Ma Eteldrude (se ne trascrivo il nome in inglese medievale, Æthelthryth, sembrerò di colpo più esperto anche se ho soltanto fatto ctrl+v) riuscì a convincere il marito non solo a vivere in perfetta castità, ma anche a regalarle l'isola di Ely, che a quel tempo spuntava tra le paludi dette Fens, dove fece costruire un chiostro in cui andò a rinchiudersi appena il marito morì, tre anni dopo. Etel era ancora nel fiore degli anni, e vergine, e quindi la famiglia le trovò un nuovo partito: niente meno che il re di Northumbria (l'Inghilterra settentrionale), Ecgfrith o Egfrido. Anche stavolta Eteldrude, (Æðelþryð in antico sassone), accettò il matrimonio soltanto a patto che il fidanzato rispettasse il voto di castità. Egfrido accettò, ma bisogna dire che aveva quattordici anni e forse sottovalutò il problema: solo da lei, infatti, avrebbe potuto avere eredi legittimi. Sappiamo che dodici anni dopo Egfrido chiese a Wilfrido (o Wilfried), vescovo di York, la più alta autorità in zona, di sciogliere Eteldrude dal suo voto. E Wilfried probabilmente avrebbe acconsentito: non fosse che Eteldrude proprio non ne voleva sapere e alla fine riuscì a convincere il marito al ripudio, entrando nel monastero di Goldingham, dove comandava la zia di Egrido, Sant'Ebba l'anziana. Egfrido colse l'occasione per rompere con il vescovo Wilfrido, ma anche per risposarsi.

In seguito sarebbe tornata nella sua isola in mezzo alla palude e lì sarebbe diventata badessa, come le sue tre sorelle Sesburga, Etelburga e Withburga. Sarebbe morta a 45 anni, probabilmente di un tumore al collo la cui escrescenza aveva interpretato come una punizione divina per le collane pesanti che aveva indossato nella sua giovinezza vanitosa. Nel medioevo fu una delle sante inglesi più rinomate, anche grazie all'inno scritto in suo onore da Beda il Venerabile: veniva invocata contro il mal di gola e tutti i problemi relativi al collo; e siccome il nome Æþelðryþe cominciava a risultare ostico anche agli inglesi, divenne più nota come Saint Audrey. Dallo stesso nome deriverebbe il termine "tawdry", che all'inizio designava un girocollo di tessuto che i fedeli portavano a far benedire nel giorno della festa di Santa Audrey, affinché acquisisse poteri curativi; finché non arrivarono i puritani, la tradizione andò persa, e "tawdry" divenne sinonimo di... cianfrusaglia? no. Paccottiglia? no. Ciarpame? no. Chincaglierie, ecco, ci si avvicina. Che forse è il destino dei santi in Inghilterra: non distrutti e raschiati via dalle chiese, come nell'Europa protestante. Gli anglicani non hanno avuto il coraggio di buttarli via, e li tengono ancora lì, su qualche altare secondario, a prendere polvere.  

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"Anziani alla guida"

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Ce ne sarebbe da dire, con tutto quello che è successo; ma faceva troppo caldo e così ho messo la famiglia in macchina puntando verso il mare. Dopo la Cisa stanno rifacendo dei viadotti ed era ora, perciò a un chilometro qualsiasi ci siamo trovati davanti a un bivio imprevisto, sarà successo anche a voi. Le due corsie dell'autostrada si separano, nel giro di pochi secondi bisogna decidere da che parte stare anche se quasi sicuramente le due piste si riuniranno alla fine del cantiere. E sia detto, a onore dei responsabili, che due cartelli identici erano stati messi, a fugare ogni sospetto e dubbio: quello che puntava a sinistra diceva LA SPEZIA, mentre quello che puntava a destra ugualmente recava LA SPEZIA, per cui capite bene che ogni precauzione per tranquillizzare i viaggiatori era stata presa. 

Ciononostante. 

Ciononostante io, che in un soprassalto di prudenza avevo scelto la corsia destra (la più sicura in questi casi; la meno esposta a non implausibili frontali con i veicoli incanalati nella direzione opposta) ecco che mi ritrovo dopo qualche centinaio di metri a inchiodare bestemmiando (a voce alta) e pregando (a voce muta), perché?

Perché un idiota in una Punto, che aveva preso la mia stessa corsia, aveva deciso di punto in bianco che non era quella giusta: non solo che lui non desiderava recarsi alla Spezia, destinazione in effetti un poco deludente, bensì alla Spezia! Quello sì un traguardo degno di cotanto spavaldo pilota! ma che un simile cambiamento di idea fosse ammissibile trecento metri dopo il bivio, quando le due vie delle spezie erano ormai separate da coni segnaletici, o jersey o triangoli o chennesò, non è che io abbia avuto il tempo per osservarli mentre cercavo di salvare la vita alla famiglia su un viadotto a mobilità limitata, ma insomma l'idiota si era fermato in mezzo all'unica corsia a disposizione e stava aspettando il momento propizio per farsi strada tra i coni, i triangoli, per farsi ammazzare dalle vetture che procedevano spedite verso la sinistra, visto che io che avevo scelto la destra non provvedevo. 

È tutto durato una manciata di secondi ー la frenata, lo sguardo febbrile allo specchietto alla ricerca dell'Audi che mi avrebbe prontamente tamponato se frenavo troppo, la bestemmia, la preghiera, il sollievo e persino un'ultima osservazione con la coda dell'occhio: sul lunotto posteriore della Punto un parente apprensivo aveva stampato un A4: ANZIANO ALLA GUIDA. E io, che avevo appena ascoltato una rassegna stampa, ho pensato che in fondo dovevo smetterla di incazzarmi, e in generale anche solo di ascoltare le rassegne di una stampa generalmente scritta da anziani che se gli dai una Punto in mano guarda che ti combinano: e se gli dai l'editoriale in prima pagina, cosa ti aspetti?

E se gli dai la Casa Bianca?

Così insomma ce ne sarebbe da scrivere, in questi giorni: ma fa troppo caldo e inoltre sono al mare. 

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Antonio, l'antifrancesco

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Tanzio da Varallo. 
13 giugno: Sant’Antonio di Padova (1195-1231), frate prodigio. 

Nell’ottava della Pentecoste del 1221, i frati minori dell’ordine di Francesco si ritrovarono alle pendici di Assisi. A quel punto erano circa tremila, una piccola Woodstock intorno alla Porziuncola. Però medievale, quindi senza amplificatori, senza promiscuità, senza rifiuti di plastica, e droghe sintetiche; cosa restava? Il fango, la polvere, le tende, anzi le stuoie. Capitolo delle Stuoie, così lo avrebbero chiamato. Francesco era ancora vivo, ma già in qualche modo santo, una celebrità da esibire con parsimonia mentre una cerchia di confratelli cercava di traghettare il movimento dalla rivoluzione pauperista alla normalità di un ordine mendicante. L’alternativa era finire presto o tardi bruciati o massacrati, come più in là nel secolo sarebbe capitato ai catari della Linguadoca. Francesco tutto sommato si era mosso bene, aveva saputo inginocchiarsi a Papa Innocenzo al momento giusto: ma il pauperismo radicale che predicava e ancora dettava nelle regole era potenzialmente esplosivo. Intorno a lui il movimento aveva raccolto tutto quello che la società duecentesca non riusciva a omologare: figli di papà indisposti a lasciarsi inquadrare nella borghesia comunale, come era stato Francesco stesso; avventurieri senza arte né parte che non mancano mai; mendicanti che, da quando vestivano il saio, avevano raddoppiato le entrate; predicatori dell’Apocalisse che continuavano a ripetere le profezie di Gioachino del Fiore, rischiando la scomunica; fanatici delle crociate, semplici imbroglioni e così via. Il campeggio doveva durare una settimana, ma molti rimasero altri due giorni a consumare le provviste in sovrappiù. Alla fine comunque se ne andarono tutti, i mendicanti a mendicare, i predicatori a predicare, i missionari alle missioni, finché in mezzo alle stuoie consumate e ai rifiuti degli avanzi non rimase che un ragazzo, corpulento e taciturno. E tu chi sei?, gli chiese fra Graziano, responsabile di zona in Romagna. Non ce l’hai un posto dove andare?

Il ragazzo rispose… non ho la minima idea di come rispose, mica c’ero. Ma lo immagino chinare il capo e scuotere appena la testa.

“Beh? Non hai niente da dire? T’han mangiato la lingua, fratello? Come ti chiami?”

"A’m ciam Antòni, fradel".

"Ma sei romagnolo?"

Ovviamente no. Antonio veniva da Lisbona e per arrivare ad Assisi era passato, assurdamente, dall'Africa; ma sappiamo che aveva il dono delle lingue: le imparava subito e le riproduceva a piacere. Gente così esiste, ne ho conosciuta: così come esiste chi riesce a cavare un bel suono da uno strumento che prende in mano la prima volta. È un dono di Dio, se in Dio ci credi; ma anche se non ci credi, quando senti uno come Antonio rivolgerti la parola, il dubbio un po' ti viene. 

***

Nel 1980, su Linus, Altan pubblica Franz, ovvero la vita di Francesco d'Assisi a puntate. Molto prima di diventare il vignettista da prima pagina di Repubblica, Altan è stato un fumettista geniale e idiosincratico, e con Franz ha realizzato qualcosa che, per quel che ne so, nessun autore ha mai osato né prima né dopo: la demistificazione di Francesco d'Assisi. Il Franz di Altan è un ragazzino viziato e mitomane, che si lascia manovrare da poteri molto più grandi di lui, ma assolutamente umani. Verso la fine della storia, quando il lettore è ormai rassegnato a un mondo senza redenzione, dove i santi sono fantocci e i cardinali maneggioni, Altan fa entrare in scena Antonio, come un regista astuto che si tiene la guest star per le ultime sequenze. Il suo Antonio è spiazzante quanto Francesco: Altan ha fatto i compiti e sa che prima che gli artisti rinascimentali lo trasformassero in un ragazzino imberbe, nelle raffigurazioni medievali Antonio era distinguibile da Francesco perché molto meno magro, se non proprio sovrappeso. Altan aggiunge due inquietanti orecchie a punta, e i capelli crespi che avrà trovato in qualche santino brasiliano – Antonio è un santo popolarissimo in Sudamerica, dove assume i tratti somatici dei mulatti. È seduto a fianco a papa Innocenzo ed è astuto come un demonio – forse è il demonio. Con abili manovre convince il papa ad autorizzare l'ordine francescano, e Francesco a promettere di partire per la Terrasanta. Così un ordine nasce, ma Francesco deve subito allontanarsi, e Antonio gli subentra, dimostrandosi da subito molto più adatto al ruolo. Non è che le cose siano davvero andate così. Ma la sintesi di Altan ha un senso: il carisma di Antonio si fa spazio proprio nell'eclissi di Francesco, in quel periodo turbolento in cui il fondatore diventa un personaggio troppo ingombrante. Le centinaia di miracoli che gli sono state attribuite, a Francesco non si potevano attribuire perché la sua vita era un terreno di battaglia tra fazioni che raccontavano storie molto diverse, e a un certo punto fu letteralmente commissariata: le vecchie biografie distrutte e sostituite con l'unica biografia ufficiale, redatta dal capitano dell'Ordine. Per contro, l'esistenza di Antonio era molto meno controversa: dal Capitolo delle Stuoie in poi, era sempre stato dalla parte dei moderati, e i moderati lo ricompensarono alzandolo su un piedistallo che a un certo punto superò quello del fondatore.

In un certo senso Antonio è l'antiFrancesco, oppure può darsi che così come il cristianesimo non fu più lo stesso dopo la predicazione di Paolo, così il francescanesimo che c'è arrivato deve ad Antonio da Padova molto di più di quanto gli stessi francescani possano ammettere. Anche la venerazione per i due santi ha un che di complementare: Francesco è uno dei santi più ammirati e popolari tra i non cristiani, presso i quali Antonio è un illustre sconosciuto; quest'ultimo è uno dei santi più venerati dai cristiani praticanti, almeno in Italia e in Sudamerica. Oggi Francesco continua a ispirare film e fiction, mentre Antonio sembra una figura più opaca; ma per secoli il modello di frate predicatore è stato quello interpretato da Antonio. Da italianista, trovo irresistibile il paragone coi due grandi fondatori della poesia volgare; oggi tutti amiamo Dante, ma per secoli i poeti si sono riferiti soprattutto alla poesia di Petrarca. Il primo ha stupito il mondo con qualcosa di difficile da imitare; il secondo si è preoccupato soprattutto di normalizzare, di offrire a chi veniva dopo di lui un modello più praticabile; per cui di solito ammiriamo il primo e copiamo il secondo. 

Lo stesso Antonio, da ragazzo, era stato uno dei più accaniti ammiratori di Francesco: malgrado ne sentisse parlare a migliaia di chilometri di distanza, nel monastero di Coimbra in cui si era autoconfinato, Antonio aveva perfettamente recepito il messaggio radicale della sua predicazione. Francesco voleva tornare alla povertà evangelica, e convertire gli eretici e perfino i Saraceni con la pura forza della fede. Non servivano più gli studi e Antonio, studioso brillante, li interruppe. Indossò un sacco e partì appena possibile per l'Africa, come avevano fatto i primi quattro martiri francescani che prima di salpare per il Marocco erano passati proprio da Coimbra. Forse Antonio era riuscito a conoscerli; di sicuro era stato informato della loro tragica sorte, perché testimoniando la loro fede alla maniera francescana, senza difendersi con le armi dei crociati ma sostenendo con fermezza che l'Islam era un'eresia nel bel mezzo di Marrakesh, i quattro erano stati rapidamente arrestati e decapitati. Antonio decise che avrebbe seguito il loro esempio e s'imbarcò per il l'Africa. Giunto nelle terre degli infedeli, non sarebbe però riuscito a guadagnarsi il martirio con la predicazione a causa di una malattia contratta in loco. Ripresa la via del mare, arriva in tempo proprio per il Capitolo delle Stuoie, l'unico episodio in cui incontra di persona Francesco – ma da lontano, senza potergli dire niente. 

Antonio assiste al Capitolo: malgrado abbia smesso di studiare, continua a essere una mente brillante e probabilmente si rende conto che la battaglia tra oltranzisti e moderati si è già combattuta, e Francesco l'ha persa; se rimane deluso dalla rassegnazione del fondatore, se lo tiene per sé. Ma capisce che i francescani ormai stanno diventando qualcosa d'altro, e presto o tardi si adegua. Ritrovatosi quasi per caso in una piccola cellula francescana nei pressi di Forlì, Antonio in un primo momento dissimula le sue doti intellettuali, ma quando lo costringono a predicare si rivela un talento naturale. Nel giro di pochi anni diventa la nuova star dell'Ordine, sguinzagliata dai superiori in Italia settentrionale e in Provenza a misurarsi retoricamente contro i Catari che dilagavano nelle città e nelle campagne. È il primo predicatore a rendere necessario un servizio d'ordine, perché intorno ai suoi pulpiti improvvisati la gente si accalcava rischiando di farsi e fargli male. Anche Francesco era stato un trascinatore carismatico, e può darsi che il successo di Antonio abbia in un qualche modo colmato un vuoto; Francesco ormai non andava più in tour, viveva segregato dal mondo alla Verna; chi avrebbe voluto vederlo e ascoltarlo doveva accontentarsi di Antonio, ma se Antonio all'inizio non era altrettanto famoso, sapeva spiegarsi molto meglio e attirava l'attenzione con miracoli veramente ben congegnati. Viene il sospetto che alcuni miracoli poi attribuiti a Francesco (la predicazione agli uccelli) siano la rielaborazione di prodigi compiuti da Antonio (che invece predicò ai pesci); quest'ultimo aveva già un senso teatrale del miracolo, come i predicatori dei secoli successivi; i suoi prodigi avvenivano sempre in pubblico, davanti a un popolo incantato che poi per settimane e mesi non avrebbe parlato d'altro, contribuendo a far circolare la fama del santo. 

Antonio diverrà presto così popolare che alla sua morte  (intervenuta troppo presto a 36 anni), scoppierà una contesa tra il borgo di Capodiponte, dove era morto mentre cercava di rientrare alla sua sede di Padova, e Padova stessa, su chi aveva il diritto a conservare il corpo. Oggi la maggior parte riposa nella basilica a lui dedicata; in particolare la lingua, che sembrava in grado di riprodurre ogni lingua vivente senza sforzo.  
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Dodici milioni di voti, lo chiamano un disastro

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Lo sconfittismo, suicidio del progressismo. 

C'è una pagina di Fenoglio a cui mi capita ogni tanto di pensare. In questa pagina c'è un partigiano, che come capita spesso in Fenoglio è poco più di un ragazzino; si dà arie di ribelle, sfoggia le armi, ha una grande voglia di usarle anche solo per sentirne il rumore. È chiaro che non è pronto al combattimento, ma anche noi lettori non siamo pronti alla sua reazione quando il nemico si manifesta all'improvviso. Invece di perdere la testa, di sparare all'impazzata – tattica disperata, ma giustificabile – il ragazzo si mette a camminare verso i tedeschi con l'arma nella mano protesa, come a volerla restituire: ha sentito un ordine urlato con una voce stentorea, e deve obbedire. Invece di dar retta all'orgoglio di cui sembrava intriso, al buon senso, persino all'istinto di conservazione, il ragazzo si rivela in balia di un istinto ancora più forte: l'istinto gregario di consegnarsi al più forte, con le proprie armi, il proprio cuore, la propria anima. Questo istinto gregario esiste in molti di noi – forse in ciascuno di noi, che discendiamo da migliaia generazioni di raccoglitori e cacciatori, ma anche di servitori e schiavi. Nella maggior parte di noi questo istinto è talmente sopito che quando affiora, a volte non riconosciamo nemmeno noi stessi; altri ne sono completamente manovrati; altri devono combatterci per tutta la vita. Altri, infine, riescono a puntellarci sopra una carriera di successo: in fondo di servi c'è ancora bisogno, in tutti i settori.

Nel settore della politica continua evidentemente a essere molto richiesta una specifica figura professionale: il soggetto che sostiene (A) di essere di sinistra e (B) che la sinistra stavolta abbia perso, e che sia necessario, indispensabile, inderogabile ammetterlo, come in effetti lo sta ammettendo lui. Ne avete tutti presente qualcuno: i feticisti dell'analisi-della-sconfitta, gli artisti dei Concession Speech. Ne sanno scrivere di bellissimi, al punto che ti domandi se non siano stati selezionati apposta per questo; per interpretare il ruolo del bel perdente che accetta nobilmente la sconfitta, affinché noi teppa possiamo capire dal suo esempio che perdere è utile e necessario, ed è molto meglio ammettere subito di aver perso, ancora prima che escano i numeri ufficiali. In un'epoca in cui la politica è un dibattito, ammettere la sconfitta è un atto performativo che si può realizzare anche quando ancora non è sicuro che stai perdendo o no, come capitò ad Al Gore nelle elezioni del 2000 (ma viene il sospetto che questa vocazione suicida sia la ragion d'essere del partito democratico, perlomeno quello USA).

Se gli sconfittisti sono giornalisti, hanno il loro pezzo già pronto una settimana prima della consultazione: i risultati non essendo in effetti che dettagli. Se vogliamo per esempio parlare di questi ultimi referendum, promossi da sindacati e partitini che lottano per la visibilità, quasi ignorati dai media (che comunque stanno perdendo la loro centralità) i numeri crudi ci direbbero che il 30% degli aventi diritto sono andati a votare, malgrado il quorum fosse un obiettivo praticamente impossibile, insomma sono andati a votare soltanto per contarsi e se li contiamo non sono poi così pochi. In particolare in questo 30% ci sono tra dodici e tredici milioni di persone che hanno votato per abrogare leggi difese non solo da questo governo, ma anche da quei centristi liberali che senza riuscire a mandare in parlamento nessun partito continuano a infestare quelli di centrosinistra e centrodestra. È una "vittoria"? No, non lo è: una vittoria era impossibile. Resta un dato molto interessante che spiega come mai a molti rappresentanti del governo siano saltati i nervi: dodici milioni sono più o meno lo stesso numero di voti che nel settembre del 2022 consentirono aa Meloni di formare un governo di maggioranza. Per i due principali partiti che hanno scelto di appoggiare la consultazione referendaria, PD e M5S, è un risultato incoraggiante in linea con quello delle ultime consultazioni amministrative. I numeri dicono più o meno questo, ma se il padrone ha deciso che invece Shlein e Conte hanno perso, i servi non possono che formulare lo stesso originale e coraggioso pensiero, con variazioni sul tema, ma neanche tante. Ha un senso discuterci? Probabilmente no, nella maggior parte dei casi: c'è chi recita a soggetto, e continuerà a recitare finché ci sarà un copione e uno straccio d'ingaggio. La mission è dare addosso all'unica possibile coalizione che abbia chances elettorali contro la destra; la speranza è che da qualche parte tra le macerie sorga finalmente il soggetto centrista e moderato che un sacco di editori evidentemente non smettono di desiderare, e pazienza se agli elettori continua a non interessare. Poi ci sono quelli in buona fede, i mistici della sconfitta, che vedono dodici milioni di voti, e lo chiamano un disastro. E sono loro, soprattutto, che mi fanno pensare a quella pagina di Fenoglio, a quel ragazzo ipnotizzato dalla voce stentorea del nemico. 

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La Santa Oliva, che forse è a Tunisi

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10 giugno: Sant'Oliva di Palermo, vergine e martire (V secolo). 

La moschea dell'ulivo, a Tunisi

Che i siciliani venerino una Santa Oliva non è così bizzarro, così come non risulta bizzarro che si tratti di una martire dalla vicenda particolarmente evanescente: non si capisce nemmeno chi l'abbia martirizzata, se i Vandali o, molto dopo, i Saraceni. A questo punto il mio buon lettore sta già sviluppando una congettura: il martirio sarebbe una leggenda posticcia, celante un'origine pagana: altro che martire, i siciliani veneravano l'Oliva in Quanto Tale! La sua preziosità organolettica, la sua centralità economica, la sua duttilità gastronomica: tutte qualità decisamente venerabili. E come l'Oliva per dare olio deve essere spremuta, in modo analogo Sant'Oliva doveva essere stata flagellata, scarnificata sull'eculeo, e immersa in una caldaia di olio bollente: così perlomeno nella Vita più antica, che antica non è affatto (è già del Quattrocento)  Congettura interessante, mio buon lettore (ti parlo al singolare, tanto ormai); e tuttavia fa a pugni col semplice fatto che Sant'Oliva si è sempre festeggiata in giugno, ovvero decisamente fuori dalla stagione della raccolta e della spremitura.

Oliva è una santa che non piace agli agiografi. Non si fidano, è come se fiutassero aria di paganesimo, o anche solo puzza di fritto. Il Martirologio romano la snobba; il nome compare per la prima volta in un breviario gallo-siculo di epoca normanna; la Vita come abbiamo visto è molto più tarda; Agostino Amore, che ne curò la scheda per la Bibliotheca Sanctorum, la definisce senza molta diplomazia un racconto "evanescente e fantasioso", "degno di essere annoverato tra le passiones della peggiore specie". Sembra in effetti scritta col pilota automatico: secoli prima che le Intelligenze Artificiali cominciassero a colonizzare la parola scritta, molti agiografi apparivano già tormentati dal rischio di apparire anche solo vagamente originali, e dovendosi inventare una storia di martirio sembravano decisi di non aggiungere un solo dettaglio che non fosse uguale a decine di altre Vitae: dunque ecco la fanciulla di buona famiglia che a tredici anni subisce la vocazione; ecco il miracolo (restituisce la vista a due ciechi; non sfuggirà la connessione tra occhi e olive, il cui olio veniva usato anche nella cosmesi e nell'oftalmologia popolare), l'esilio nel deserto, l'arresto e la sequela di torture, come al solito culminante nella decapitazione. L'unico dettaglio che non suoni copia di mille riassunti è l'ambientazione: benché siciliana, Oliva sarebbe stata martirizzata a Tunisi. Il che forse serviva a spiegare l'assenza di reliquie importanti per una santa che comunque godeva di una certa popolarità: celebrata tra l'altro ad Alcamo, a Termini Imerese, e invocata a Palermo anche prima che il culto per Rosalia prendesse piede. E per quanto questi e altri comuni se ne disputassero i natali, nessuno reclamava di custodirne i resti. Come mai? Esiste più di una leggenda: forse sono nascoste nella vecchia chiesa che un tempo portava il suo nome (ma adesso è dedicata a Francesco di Paola). Forse sono in fondo a un pozzo. Forse quando verranno trovate scateneranno un'età dell'oro; e forse sono al di là del mare. Quest'ultima idea era così convincente che nel 1402 il re Martino I di Aragona (detto l'Umano) chiese ufficialmente la restituzione dei resti al califfo Abu Faris Abd al-Aziz II; il quale avrebbe ben potuto nell'occasione mettere in un cofanetto qualche osso sbeccato e far contento Martino; non sarebbe nemmeno stato il primo califfo a ingraziarsi un re cristiano con qualche patacca, ma a quanto pare non lo fece. Forse era troppo onesto, o forse non voleva darsi la pena di ingraziarsi il re di Aragona. 

Duomo di Palermo. Foto di
© José Luiz Bernardes Ribeiro,

Sia come sia, in quel periodo nasce la diceria che il corpo di Oliva sia davvero custodito in una piccola moschea a Tunisi, vicino alla Grande Moschea che è chiamata, appunto, "dell'ulivo" (Gami-az-zaytum). Se si chiama così, è probabilmente perché lì accanto sorgeva un vecchio ulivo; ma nulla impedisce ai cristiani di fantasticare che prima della Moschea lì sorgesse una chiesa dedicata a Sant'Oliva; e che il califfo non volesse restituirne il corpo perché ne era geloso. In una scheda di Santiebeati attribuita a un tale Ugo Russo si legge che "ancora oggi i tunisini, presso i quali è ancora oggi venerata, credono che la loro religione e la loro dominazione tramonterà quando scomparirà il Corpo della Vergine Oliva". Questa nozione, che se fosse vera sarebbe sconvolgente (musulmani sunniti che venerano il Corpo di una Vergine che è anche una santa cristiana?) non risulta altrove; il che non impedisce Gemini di ricamarci sopra, da brava AI di Google che non vuole contraddire nessuno.

La frase "la loro religione e la loro dominazione tramonterà quando scomparirà il Corpo della Vergine Oliva" è una credenza popolare in Tunisia, dove è venerata Sant'Oliva di Palermo, e in particolare tra i sunnitiSecondo questa credenza, la scomparsa del corpo di Sant'Oliva segnerà la fine della loro fede e del loro potere. Questa credenza si basa sulla venerazione che i tunisini nutrono per Sant'Oliva, la quale è considerata un'importante figura religiosa e un simbolo di protezione.                                                                                                             
Maccosa Gemini vai a casa sei ubriaco
In sostanza, la frase esprime la convinzione che la presenza del corpo di Sant'Oliva è fondamentale per il mantenimento della loro fede e del loro potere. La scomparsa di questo corpo, quindi, segnerebbe un evento catastrofico, con la fine della loro religione e del loro dominio. 
Ma di che dominio stai parlando, Gemini.
Questa credenza è un esempio di come le tradizioni religiose possono influenzare la visione del mondo e la comprensione della storia. La figura di Sant'Oliva, in particolare, è un simbolo di resistenza e di speranza per i tunisini, e la sua presenza è vista come un fattore cruciale per la loro sopravvivenza come comunità. 

Cioè davvero ora tocca togliere internet agli studenti.   

Grazie a questa diceria, Oliva è diventata anche la patrona della (piccola) comunità cristiana di Tunisi; questo malgrado la storia non abbia molto senso, in qualsiasi periodo si voglia collocare la vicenda; in teoria sarebbe avvenuta nel quinto secolo, durante le scorrerie dei Vandali che si erano stabiliti intorno a Tunisi e per quanto potessero essere ostili, in quanto ariani, ai cristiani ortodossi, non si capisce perché avrebbero dovuto punire Oliva con l'esilio nelle loro terre. L'autore della Vita dà piuttosto la sensazione di immaginare i carnefici di Oliva come Saraceni musulmani; i quali in effetti avevano controllato la Sicilia per un secolo, ma anche loro non risulta che deportassero in Africa i cristiani – o che li venerassero dopo averli ammazzati. 

Confesso che un po' mi dispiace: qualsiasi storia che ci facesse sentire Tunisi un po' più vicina alla Sicilia (e all'Italia), credo che varrebbe la pena continuare a raccontarla. In fondo siamo più o meno gli stessi esseri umani – e raccogliamo più o meno le stesse olive. Oliva meritava agiografi migliori. Ma forse c'è ancora tempo.

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E allora ho detto sì, sì, sì, sì, sì

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Tra l'8 e il 9 giugno sarà possibile votare per abrogare/modificare cinque leggi ingiuste, e io voterò Sì. Tutto qui. In altri momenti, quando scrivere qui sopra significava discutere davanti a un pubblico, forse mi sarei dato un po' più da fare per attirare l'attenzione su una campagna che tra l'altro è promossa dalla Cgil, una delle poche organizzazioni a cui sono iscritto.

Oggi come oggi non credo sia utile, non credo sposti un voto, e se lo spostasse sarebbe comunque un voto buttato via. Non mi faccio molte illusioni sul raggiungimento del quorum: credo in generale che questa campagna referendaria sia stata azzoppata dalla Corte costituzionale che (legittimamente) ha bocciato il quesito sull'autonomia differenziata. Quest'ultimo avrebbe portato molti voti e contribuito più di altri a creare una saldatura tra l'elettorato del Pd e quello più meridionalista del Movimento di Giuseppe Conte. Così alla fine questa è una di quelle situazioni in cui un esercito si mette in marcia anche se il comandante sa che gli alleati non manderanno i rinforzi promessi; la vittoria è molto improbabile, ma la guerra è stata dichiarata e quindi comunque combattere bisogna, sperando di limitare i danni.

Ho un problema coi referendum. In molti casi sono scorciatoie populiste; non ci hanno dato il divorzio o l'aborto (c'erano già), in compenso non possiamo più chiamare un ufficio "Ministero dell'agricoltura" e abbiamo dimezzato i parlamentari, forse il momento più basso nella Storia delle istituzioni di questa repubblica, capolavoro che trovo difficile perdonare a chi l'ha promosso e poi votato. Poche persone ritengo politicamente incompetenti come quelli che, di fronte alla dura evidenza del quorum (al crudo fatto che la tua sacrosanta battaglia abrogativa non interessa alla maggior parte degli aventi diritto), periodicamente propongono di abbassarne l'asticella sotto al 50%: ovvero di abolire il parlamento e sostituirlo con iniziative basate sulla raccolta di firme. La trovo una sciocchezza, ma non sarebbe la prima sciocchezza a cui prima o poi si riesce ad arrivare. D'altro canto. 

D'altro canto posso capire come il referendum resti l'unica arma alla portata di sindacati, e in generale di parti sociali che altri strumenti per farsi sentire non ne hanno. I lavoratori non hanno più un partito di riferimento, non hanno un giornale, un canale televisivo, nulla; e anche se l'avessero, mi domando seriamente se farebbe qualche differenza. Dalla pandemia in poi l'opinione pubblica si è sfarinata completamente: i principali social network, dopo essere diventati i principali organi di smistamento delle notizie, hanno completamente sminchiato i loro algoritmi, e ora se anche cercassi una discussione interessante sui referendum dovrei aggirare balletti di cani, cuochi e batman. I giovani semplicemente non passano più, ma nemmeno riescono a leggere i giornali on line (non ci riesco nemmeno io), e nel caso di questi referendum non faranno nemmeno caso all'interruzione scolastica perché, tu guarda la coincidenza, sono stati indetti nel primo weekend dalla fine delle lezioni. 

In questa situazione è molto difficile che una notizia riesca ad attirare un'attenzione collettiva. È successo alla crisi di Gaza, forse semplicemente per le dimensioni della tragedia. Gaza è qualcosa che mi ha tolto la voglia di scrivere e ha reso ogni altro problema (anche personale) troppo piccolo perché ne valesse la pena. Detto questo, tra l'8 e il 9 giugno sarà possibile votare per abrogare/modificare cinque leggi ingiuste, e io voterò Sì. 
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La pisana volante

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Questo quadro, dono del pittore
Giovanni Lorenzetti alla diocesi
di Pisa, sta diventando il volto più 
noto di Santa Bona sull'internet,
dove talvolta viene attribuito a
un pittore seicentesco,
Giovanni Battista Lorenzetti
(ecco, se fosse davvero un quadro
seicentesco, sarebbe un quadro
molto più interessante). 
29 maggio: Santa Bona di Pisa (1156-1207), patrona delle assistenti di volo 

A metà del Millecento Pisa ottiene la completa autonomia dall'impero e si appresta a diventare uno dei più importanti porti del Mediterraneo. Non sarà un caso che i due santi più famosi della Repubblica Pisana (Ranieri e Bona) condividano lo stesso secolo, e un'irrequietezza esistenziale che li porta a far tappa nella città che degli irrequieti è capitale: Gerusalemme.  

La vicenda di Bona ha i tipici profumi dei quartieri portuali: sua madre (Berta) viene dalla Corsica, suo padre (Bernardo) è di Pisa ma se ne va subito, quando Bona ha appena tre anni, lasciando i famigliari in ristrettezze. A sette anni Bona comincia a vedere Gesù e alcuni santi e a mortificare la carne: è ammessa in un convento di Oblate, ma verso i 12-13 anni Gesù e San Giacomo, agghindati da pellegrini, appaiono alla madre superiora e la convincono della necessità che Bona si metta in viaggio per la Terrasanta, non tanto per visitare il Santo Sepolcro ma perché lì troverà Bernardo, suo padre. Ora, questo potrebbe anche essere successo: sei secoli prima che De Amicis scrivesse Dagli Appennini alle Ande, non è escluso che qualche ragazzo, cresciuto in una città di mare, riuscisse a imbarcarsi alla ricerca di un genitore. L'indizio più convincente è l'esito amaro di questo primo pellegrinaggio: Bernardo vive davvero a Gerusalemme, Gesù e San Giacomo su questo non mentivano: ma ci viveva perché laggiù aveva messo su una famiglia ancor prima che a Pisa, con figli molto bene inseriti tra cui uno che è molto amico del Patriarca di Gerusalemme (secondo una variante della leggenda è il Patriarca addirittura). A Bona viene fortemente sconsigliato di scendere dalla nave: qualche agiografo lascia intendere che Bernardo la volesse far ammazzare.

È veramente una leggenda amara questa, non ne avete lette spesso di leggende così. Quando un'orfana si mette in giro per il mondo alla ricerca del genitore, di solito non scopre che il genitore non vuole saperne di lei. Invece di ripartire immediatamente, su suggerimento di Gesù, Bona rimane nascosta in una spelonca, ospite di un eremita al di sopra di ogni sospetto, tale Ubaldo, per nove anni, che in un'altra versione vengono ridotti a nove mesi. Come se si trattasse di una gestazione al contrario: quando Bona esce dalla spelonca, non è più figlia di suo padre, non lo rimpiange più, è libera di girare per il mondo. Il mondo però era molto pericoloso anche nel secolo XII, tanto che Bona (come gli aveva prospettato il solito Gesù in una visione) viene subito catturata da pirati saraceni che le procurano una piaga al costato da cui sanguinerà a lungo. Liberata da mercanti pisani che con una colletta le pagano il riscatto, Bona torna a casa e a quindici anni ha già alle spalle più avventure di tanti concittadini maturi; e però forse l'unica eredità che le ha lasciato il padre è l'irrequietezza dei marinai. Le visioni la spingono a nuovi viaggi, non più per mare ma per terra (con occasionali fenomeni di levitazione): in particolare al santuario di San Giacomo Maggiore presso Santiago di Compostela, che nella mappa del pellegrino medievale era agli antipodi di Gerusalemme, nel luogo più lontano in cui si potesse arrivare coi propri piedi. Il viaggio da Pisa a Santiago e ritorno, Bona l'avrebbe intrapreso almeno nove volte, inframezzandolo con tour in altri santuari famosi a Roma e in Gargano. Viaggiare evidentemente le piaceva, forse la distoglieva da pratiche masochistiche troppo estreme e col tempo divenne un mestiere, perché la strada la conosceva meglio di tutti e i pellegrini si fidavano di lei. Ritiratasi a 48 anni, Bona muore poco dopo, come succede ai vecchi marinai che non ce la fanno più a imbarcarsi ma che invecchiano di colpo sulla terraferma. Una leggenda abbastanza tarda suggerisce che nei suoi ultimi giorni San Giacomo l'abbia portata un'ultima volta a vedere Santiago, sospingendola in volo dal letto di morte; dove sarebbe riapparsa con qualche conchiglia in mano, un souvenir del viaggio. L'episodio ha probabilmente ispirato papa Giovanni XXIII, che nel 1962 ha la bella idea di nominarla patrona delle hostess.

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Il fifone di Canterbury

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Quel che resta a Canterbury
dell'Abbazia originale
27 maggio: Sant'Agostino di Canterbury (534-604), evangelizzatore degli Angli, anche se all'inizio non era molto convinto.

Come abbiamo avuto modo di notare, una leggenda di santi per funzionare davvero ha sempre bisogno di trovare nel suo soggetto qualche difetto. Del monaco Agostino, grande evangelizzatore degli Angli, si ama ad esempio raccontare che in un primo momento non avesse tutta questa voglia di evangelizzarli. Anzi, giunto all'altezza di Aix-en-Provence (cioè nemmeno a metà strada), dopo aver sentito qualche notizia un po' allarmista sui costumi di questi recenti invasori della Gran Bretagna, se ne sarebbe tornato dritto a Roma con tutta la sua delegazione di quaranta monaci, che erano parecchi anche per la fine del sesto secolo. Lì avrebbe ritrovato il suo superiore, papa Gregorio Primo, che nessuno avrebbe soprannominato Magno se non avesse dimostrato, in questo e altri frangenti, una notevole testardaggine: per cui invece di rassegnarsi al fallimento della missione, o almeno nominare a capo di essa un monaco più risoluto, decise che la delegazione andava bene così e che Agostino l'avrebbe guidata fino alla Britannia (che qualcuno cominciava a chiamare Angle-Terra). Anzi nell'occasione decise di nominare Agostino abate, il che può lasciarci perplessi: cioè alla prima vaga difficoltà scappi a casa, e il boss invece di prenderti a pedate ti promuove? Magari Gregorio sperava che il rango superiore lo responsabilizzasse (e lo rendesse più autorevole agli occhi degli Angli che lo avrebbero accolto). 

La situazione in effetti era favorevole: il re anglo-sassone del Kent, Etelberto, aveva sposato Martha, una principessa merovingia: ovvero franca, ma soprattutto cristiana; e sembrava interessato ad approfondire la conoscenza di questa nuova religione che avrebbe accresciuto la sua sfera di influenza sia nell'Isola che nel continente. E per quante chiacchiere Agostino avesse potuto sentire ad Aix, gli Angli non erano affatto quei barbari crudeli e incivili di cui si favoleggiava: perlomeno gli schiavi angli che Gregorio aveva conosciuto a Roma lo avevano colpito per la gentilezza e la bellezza: veri angeli. E insomma non sappiamo che dose di blandizie e minacce Gregorio abbia applicato nell'occasione: fatto sta che funzionò, Agostino ripartì per il Kent, fu sistemato da Etelberto a Canterbury, e nel giro di un anno aveva già battezzato diecimila anglo-sassoni: un successo probabilmente causato dalla tolleranza con cui Agostino accettava gli usi e i costumi del popolo che lo ospitava. Agostino non fu il primo evangelizzatore dell'Isola – i Britanni erano già stati convertiti secoli prima, secondo le leggende addirittura da San Paolo – ma le invasioni anglo-sassone avevano spazzato via la cultura britanna al punto che anche in parte delle zone occidentali come il Galles, dove i britanni di cultura celtica si erano rifugiati, il cristianesimo era stato parzialmente dimenticato. Ecco perché tuttora quella di Canterbury è la prima sede vescovile di Inghilterra: anche dopo lo scisma di Enrico VIII, è al successore di Agostino sulla cattedra di Canterbury che spetta incoronare il re. Agostino avrebbe anche fondato le diocesi di Londra, York e Rochester, prima di morire nel 604. La sua biografia in effetti sarebbe fin troppo lineare – il papa lo incarica di evangelizzare gli Angli, lui ci riesce e poi muore –  non fosse per l'episodio di Aix, quella romanzesca esitazione che ricorda un po' la vicenda di Giona

(È curioso che dovendo scegliere un'ambientazione per l'episodio, una nuova Tarsis, l'agiografo abbia scelto, di tutti i luoghi in Europa, proprio Aix. Ci siete mai stati? È una bella città, ma se ci arrivate in macchina, vi sembra di non essere più da nessuna parte. È al centro della Francia meridionale, ovvero equidistante da qualsiasi cosa. Non si sente più l'Italia – anche se è ancora Provenza – e per quanto sia vicina la Camargue, non si sente ancora nemmeno la Spagna. Dovunque vogliate arrivare, quando passate da Aix sapete che siete ancora troppo lontani. A meno che non vogliate andare a Marsiglia. In quel caso siete praticamente arrivati. Ma se siete diretti a Marsiglia, ad Aix nemmeno vi fermate. Le cose stanno così oggi, quando Aix si trova al centro di un complicato groviglio autostradale. Immaginate come doveva sentirsi il viandante del sesto secolo, che arrivando ad Aix doveva avere la sensazione di essere arrivato agli estremi confini del mondo conosciuto. E invece no, era arrivato appena ad Aix. Neanche a metà strada, di solito). 

Se non si dà eroe senza battaglia, l'anonimo agiografo deve essersi posto il problema: che battaglia avrebbe vinto Agostino? Quella contro sé stesso, contro le sue paure: è perfino possibile la coscienza in letteratura nasca così, un espediente per trovare un conflitto anche in vicende dove non risulta nessun avversario esterno; non resta che dichiarare guerra a sé stessi, inventandosi uno spazio interiore. Sarebbe interessante capire quando gli eroi comincino a trionfare non contro nemici esterni (o Dei che li sviano) ma contro i propri dubbi e le proprie paure; in via provvisoria vale la pena di annotare quanti antieroi si annidino tra le pagine delle agiografie. A partire dallo stesso Gesù Cristo, che almeno in un paio di occasioni sembra a disagio col suo destino di martire; per seguire con gli apostoli, primo tra tutti quel Pietro che quando capisce che è giunta la sua ora prova persino a scappare. Lo stesso Agostino prendeva il nome di un illustre padre della Chiesa, che al suo destino di santità aveva cercato a lungo di sottrarsi.

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