Seppellire Yahya Sinwar

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Non vengo a onorare Yahya Sinwar. Prima del 7/10/2023 credevo che Hamas fosse stata una sciagura per il popolo palestinese, e quello che è successo dopo non mi ha dato motivi per cambiare idea. Hamas è stato il nemico che Israele si è coltivato con pazienza per molti anni, recintandolo a Gaza, separandolo dal resto della Palestina, rifiutandosi di dialogare con i palestinesi che ad Hamas non cedevano, eliminando o imprigionando i leader palestinesi che avrebbero potuto costituire un'alternativa credibile ad Hamas. Quelli Israele li temeva veramente: Sinwar no, Sinwar era la dimostrazione che i palestinesi erano barbari tagliagole; e se qualche gola israeliana veniva effettivamente tagliata nel processo, si trattava di un danno collaterale che i governi israeliani (non solo Netanyahu) erano convinti di aver calcolato. Fino al sette ottobre, un grandissimo errore di calcolo: dopodiché, tutto quello che Israele ha fatto si può interpretare anche come una crisi di panico. Un nemico ormai di cartone, un nemico che veniva tirato fuori per lo più nelle notti di estate come lo spauracchio per mandare a letto i bambini (e piatire fondi agli americani), si è rivelato un nemico vero che faceva ostaggi veri. Questo era intollerabile al punto che gli ostaggi sono stati sostanzialmente dati per persi: se descrivi il tuo nemico come un barbaro con cui è impossibile venire ai patti, scambiare prigionieri non è un'opzione. Inoltre sarebbe stata la fine politica di Netanyahu, e tra dimettersi e scatenare un conflitto su larga scala con annesso genocidio, N. non sembra avere esitato molto. Se Sinwar è corresponsabile della catastrofe che si è abbattuta su Gaza, Netanyahu è altrettanto corresponsabile della strage degli ostaggi; perlomeno la logica ci direbbe questo, ma chi è che ascolta la logica oggigiorno.

Non vengo a onorare Yahya Sinwar, ma non posso dire di trovare incomprensibile la sua traiettoria: nato profugo, cresciuto in una prigione, ha combattuto contro lo stesso nemico per tutta la sua vita, ed è morto sul fronte con un'arma in mano. La distanza da cui lo giudico una sciagura per la sua stessa causa è quella tra la mia comoda tastiera e Gaza. Se fossi nato là, sarei diventato molto diverso da Yahya Sinwar? Sospetto che mi sarebbe mancato il suo coraggio, ma a parte questo: avrei odiato i miei oppressori con meno intensità, li avrei combattuti con meno crudeltà? Non ne ho idea, e nemmeno l'avete voi. Siete soltanto nati in un posto diverso, e ringraziate. Qualcuno, proprio per essere sicuro di far nascere i propri figli in un posto diverso, ritiene giusto recintare intere popolazioni, bombardarle, e insomma permettere che dentro un recinto crescano altri milioni di persone come Yahya Sinwar. Al di là di ogni considerazione morale, mi sembra proprio che la cosa non stia funzionando: se era un esperimento possiamo interromperlo. In un certo senso è quello che Israele sta facendo: radere al suolo il recinto, fine dell'esperimento. Scopriremo che è colpa dell'Islam, come sempre, o dell'inemendabile tribalismo arabo. 

Non vengo a condannare Yahya Sinwar – una cosa che non sopporto più sono quelli che siccome stai scrivendo due idee su internet, ti chiedono di "condannare" persone o eventi, come se fossimo giudici o boh, filosofi morali. Giudicare è operazione delicata, c'è gente che studia molti anni prima di esserne in grado: dopodiché merita il nostro rispetto (compresa una certa corte all'Aja che chiede con insistenza e dovizia di motivazioni che Israele cessi un genocidio). Noi non siamo giudici, siamo osservatori: non siamo qui per spiegare cos'è bene e cos'è male, ma per cercare di capire come mai certe cose si risolvono in bene e altri eventi scatenano il male. Se Sinwar è stato una sciagura, si tratta di cercare di capire cos'ha portato la società palestinese a esprimerlo. Durante questa ricerca, possiamo anche commettere errori, cedere alla nostra soggettività, a un punto di vista che è sempre in parte ideologico; succede. Ma saranno errori in buona fede, inevitabili da parte di chi sta semplicemente cercando di capire un problema enorme e forse non più solubile. Viceversa, chi ha deciso immediatamente che Sinwar era il Male, e che sradicandolo si sarebbe sconfitto almeno una porzione di Male, ecco, quello non sta cercando e non sta nemmeno giudicando: si sta raccontando una favoletta per bambini e non sarebbe un grosso problema, se la favoletta non servisse a giustificare un'operazione di pulizia etnica su larga scala. Ma così come devo cercare di capire Sinwar, mi tocca cercare di capire pure quelli e quelle che si raccontano la storia di sua moglie con la borsa di Hermès. (Continua)


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Nessuno vi ascolta, nessuno vi tocchi

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Scusate.

Ma dopo tutto questo, credete che vi daremo mai più retta?

Perché un giorno sarà finita; e probabilmente siete tra quelli che sperano che finisca presto: muoia chi deve morire, e finalmente potremo parlare d'altro. Ecco.

Lo credete davvero?

Che potrete mai più parlare d'altro, e che qualcuno vi starà a sentire?

Che leggeremo i giornali in cui avete scritto che no, non era proprio un genocidio; finché non avete dovuto scriverci che sì, era un genocidio ma perfettamente giustificabile, anzi completamente imputabile alle vittime, alla loro disumanità irreducibile, alla loro pretesa di difendersi o nascondersi e addirittura – oscena bestemmia – fare prigionieri?

Sul serio pensate che vi ascolteremo un'altra volta, anche solo un'altra volta mentre spiegate quali popoli hanno il diritto di difendersi e quali no; quali uomini e donne vanno aiutati a resistere e quali no; quali possono lottare per i loro diritti e quali devono bruciare perché a quanto pare gli è capitato di nascere sui diritti degli altri; sul serio credete che ci serva ancora il vostro ragguaglio su quali esseri umani sono da considerarsi autenticamente umani, e quali tutto sommato no? 


E che da questo punto in poi ci interesserà mai qualcos'altro di voi; i vostri libri, i vostri film, i vostri concerti? Da un punto di vista abbastanza distante probabilmente sì, avrebbe senso separare gli artisti dalle volonterose trombette di Netanyahu; e quindi quando tutto questo finirà (presto!) noi potremmo raggiungere quella giusta distanza e non pensarci sostanzialmente più, come vorreste non pensarci più anche voi.

E a quel punto non avreste paura a girare per strada, che qualcuno vi veda e vi chiami coi nomi che meritate.

Ma forse a questo punto in quei begli insediamenti vista mare, che i coloni stanno già lottizzando, vi conviene opzionare un attico. E procurarvi tutta la servitù e la security che vi sarà necessaria, perché, mi rincresce, ma il giorno in cui potrete uscire per strada senza paura, senza vergogna, potrebbe non arrivare mai. 

C'è stato un massacro, e lo sapevate sin dall'inizio; e sin dall'inizio avete scelto da che parte stare. Questo vi definirà, da qui in poi. Non una parola, non un discorso, non una canzone, niente potrà cambiare quello che è successo. C'è stato un genocidio, e lo avete invocato, giustificato, difeso, festeggiato. Se credete di poter convincere qualcuno del contrario, non succederà. Non avete convinto nemmeno voi stessi. 

Perdonate se il tono vi sembra minaccioso, ma la vostra paura non dipende da me. Non dipende realmente da nessuno, se non da voi. Nel momento in cui potevate scegliere tra vittime e assassini, avete scelto gli assassini; d'ora in poi rivolgetevi a loro. Spiegate a loro cosa è bello, cosa è giusto: magari vi troveranno interessanti.

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Il papa che fece chiasso in sinagoga

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Catacombe di San Callisto, sull'Appia Antica

14 ottobre: San Callisto papa e martire (III secolo), che una volta piantò un casino in sinagoga per farsi arrestare

Come recita il titolo, oggi è la festa di San Callisto papa, che un giorno entrò in una sinagoga e in mezzo agli ebrei che pregavano si mise a schiamazzare. Secondo i Philosophumena di Ippolito lo fece proprio per farsi portare via dalle guardie, il che ci pone un problema: possiamo dar retta a Ippolito? Probabilmente non quando parla dei suoi rivali, e Callisto era esattamente questo.

La sfortuna di Callisto è che molto di quello che sappiamo di lui ci è tramandato da persone che lo disprezzavano: Tertulliano, Ippolito. Non è affatto escluso che fosse un buon papa, il secondo a essere venerato come martire dopo Pietro, lasciando alla città un cimitero che porta il suo nome e la basilica di Santa Maria a Trastevere. Ma diventò papa ai tempi di Ippolito, e questo Ippolito non glielo poteva perdonare; lui si sentiva molto più degno del ruolo, al punto che fondò davvero una Chiesa personale, se ne nominò pontefice scrivendo nei Philosophumena che il vero papa era lui, e che i seguaci di Callisto avrebbero dovuto essere chiamati callistiani. La biografia del papa che Ippolito traccia nel nono volume del suo trattato è insomma da prendere con le molle; Ippolito aveva tutto l'interesse a farlo passare come un maneggione intrigante, "dedito al male e pieno di risorse per l'errore". E però è difficile trovare un senso alle peripezie che descrive; si intuisce che molte informazioni importanti Ippolito le ha taciute, o addirittura non le ha capite. 

Per Ippolito, Callisto nasce schiavo (e siccome non menziona nessuna conversione, deduciamo che era cristiano di famiglia). Cristiano era anche il suo padrone, tal Carpoforo, che a Callisto aveva assegnato un capitale da amministrare. Callisto lo aveva usato per creare un istituto di credito in una "piscina publica", Ippolito la chiama così. Lo considerava però un pessimo banchiere che a un certo punto aveva perso tutto, o almeno messo in giro questa voce, prima di imbarcarsi per cercare di sfuggire ai creditori, Carpoforo in primis. Quest'ultimo però si era precipitato al porto ed era riuscito ad arrivare prima che la nave partisse; ne era seguita una scena piuttosto patetica in cui Callisto si era buttato in acqua, ma era stato prontamente ripescato – perlomeno, quella che descrive Ippolito è una scena imbarazzante, ma va' a sapere se le cose andarono davvero così. 

Invece di punire il suo schiavo in quanto fuggitivo, come avrebbe avuto l'incontestabile diritto di fare, Carpoforo si sarebbe lasciato facilmente convincere dagli altri creditori a liberare Callisto, affinché recuperasse i capitali che magari aveva occultato. Ippolito però disprezza troppo Callisto per ritenerlo un banchiere fraudolento: secondo lui Callisto era semplicemente un incapace, che aveva perso tutti i soldi e cercava solo un modo per farsi ammazzare. Così un giorno lasciò detto che andava da qualche cliente insolvente e invece entrò nella sinagoga di Roma disturbando gli ebrei che stavano pregando, un reato grave. Questo lascia davvero perplessi, ma dal punto di vista storico ci dice una cosa interessante: nel Duecento, un secolo prima l'Editto di Milano, la convivenza tra diverse fedi religiose a Roma era già codificata al punto che uno dei sistemi più celeri per farsi condannare da un magistrato romano era andare a infastidire gli ebrei nel loro luogo di culto. 

Ippolito non spiega che tipo di offese Callisto avesse lanciato agli ebrei; quel che ci fa capire è che la sua condotta era indifendibile, così che quando Callisto davanti al giudice si definì cristiano, Carpoforo, che era ancora il suo padrone, negò recisamente la circostanza. 

Qualche storico non ha perso tempo a ipotizzare che Callisto avesse fatto affari con la comunità ebraica, e che la sua furia fosse quella di un finanziatore convinto di essersi fatto fregare; Ippolito, uomo di cultura e digiuno di economia, queste cose non le capiva o non voleva che si capissero. In ogni caso, interrompere una cerimonia in un luogo di culto nel terzo secolo era un crimine punibile coi lavori forzati, se Callisto si ritrovò in una miniera in Sardegna. Qui sarebbe rimasto qualche anno, fino al provvidenziale intervento di Marcia, concubina cristiana dell'imperatore Commodo, che volendo approfittare della sua posizione per fare qualcosa di buono aveva compilato una lista di prigionieri cristiani da riscattare. Ippolito ci tiene a farci sapere che Callisto non era nella lista – un usuraio fallito, a chi poteva mai mancare in città? – ma che riuscì lo stesso a entrarci facendo una gran piazzata all'emissario di Marcia. Tornato a Roma, Callisto in breve sarebbe riuscito a riguadagnare una posizione importante, come capita a certi manigoldi che non importa quante ne facciano, dopo un po' te li ritrovi in tv a spiegarti la vita e il successo. 

In particolare papa Zefirino lo avrebbe nominato amministratore della catacomba dove venivano sepolti i cristiani di Roma, e che proprio qui viene nominata, per la prima volta, cemiterium. Callisto avrebbe anche approfittato della sua posizione per istillare nel papa quelle idee eretiche, modaliste e ispirate alla predicazione dell'eresiarca Sabellio, che in seguito avrebbero convinto Ippolito della necessità di staccarsi dalla Chiesa di Roma. Si capisce leggendo che Ippolito deve assolutamente convincerci di questo, e allontanarci il più possibile dal sospetto che tanta rabbia contro Callisto derivi dal fatto che alla morte di Zefirino, a prenderne il posto fu Callisto e non lui. Persino Ippolito però deve ammettere che, una volta divenuto papa, Callisto non scomunicò lui, ma Sabellio: e allora cosa scrive? Scrive che lo fece "perché aveva paura di me", "nella speranza di placare le accuse delle Chiese nei suoi confronti". E però noi sappiamo che le "Chiese" accettarono di buon grado la nomina di Callisto, e che solo un pugno di fedeli seguì Ippolito. Per cui ci è facile immaginare che la biografia sconcertante scritta dal suo avversario nasconda un percorso più dignitoso. 

Anche il fatto che Callisto avesse fatto carriera prestando denaro non significava necessariamente che fosse un maneggione. Sappiamo che la Chiesa, come altre comunità religiose, svolgeva una funzione di previdenza sociale sempre più importante, e quindi accanto a ministri e predicatori il ruolo degli amministratori era tutt'altro che occasionale o periferico. Questa cosa un teologo come Ippolito forse davvero non la capiva, o comunque aveva deciso di non farcela capire. Un altro motivo di scandalo era la sua determinazione a riaccogliere nella comunità i peccatori pentiti, compresi gli apostati – forse, da bancarottiere, comprendeva l'importanza di dare a tutti una seconda possibilità. Ippolito non ci racconta della morte di Callisto, il che ci fa sospettare che sia morto davvero martire durante le persecuzioni dei Severi (secondo una leggenda, gettato in un pozzo); perché se invece fosse morto in qualche meno eroico, sicuramente ce l'avrebbe raccontato.

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Nessuno si aspettava Giovanni XXIII

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11 ottobre: Sant'Angelo Giuseppe Roncalli, che per soli cinque anni fu Giovanni XXIII e la Chiesa non è più stata la stessa


Forse stasera non ho così voglia di scrivere una vita di Giovanni XXIII, abbiate pazienza. Invece qualche settimana fa passavo da Brescia, il che c'entra assai poco perché Giovanni XXIII è nato in provincia di Bergamo. Ma io invece passavo da Brescia e dopo un po' mi sono accorto che c'era il gay pride, che a BS a quanto pare cade in settembre. Così, non avendo niente di speciale da fare, ci siamo fatti un pezzo di gay pride, che forse non ne avevo mai fatto uno (per pigrizia più che per omofobia, ma soprattutto perché di solito cadono in giugno e puzzo di sudore solo a pensarci). Mi è sembrata una festa tranquillissima, salvo che ogni tanto c'era della gente in tenuta sadomaso, i quali poi erano i più tranquilli di tutti. C'erano tutte le classiche cose del corteo generalista, compresi i radicali che non riescono a stare al loro posto, prendono le scorciatoie, cercano la rissa, ecc., tutto veramente regolare. Più in là c'era il classico soundsystem techno con le drag queen che sarebbe stata l'unica cosa che i giornalisti avrebbero ritenuto necessario fotografare, ma noi stavamo verso la coda, dietro un furgoncino che metteva musica più allegra e a un certo punto le ragazze che ballavano sul furgone si sono fermate e una ha detto: "questa la dobbiamo cantare tutteeeeeee!", e ha fatto partire, ha fatto partire

Ti ringrazio mio Signore e non ho più paura, perché

con la tua mano nella mano degli amici miei,

cammino con la gente della mia città

e non mi sento più solo.

E si sono messi a cantare tutte, tutti, tranne effettivamente me che non ci riuscivo per via di un rospo in gola e alcune lacrime.

Immagino di dover spiegare. Ti ringrazio mio Signore è un canto di chiesa, di quelli che si fanno con la chitarra. Io a dire il vero l'ho suonato anche con l'organo, a messa. Ma più spesso con la chitarra: l'ho fatta lenta e in Do alle messe dei vecchi, l'ho fatta veloce e in Re alle messe dei giovani. L'ho fatta ai matrimoni e (spero di non averla fatta ai) funerali, l'ho suonata e l'ho cantata e poi un giorno me la sono dimenticata e per ricordarmela dovevo capitare, di tutti i posti al mondo, al gay pride di Brescia. Cantavano tutti. Può darsi che si tratti del peculiare ecosistema di una città che ormai è tra le più progressiste in Italia (senza aver smesso un attimo di essere democristiana: è il resto d'Italia che ha fatto diversi passi indietro). Ma alla fine questo è il tipo di canzone che cantavo quando crescevo in una parrocchia, negli anni Ottanta. Magari mentre questionavo col parroco o polemizzavo con il nuovo catechismo di Wojtyla. Nel frattempo cantavamo

Amatevi l'un l'altro come Lui ho amato noi,

e siate per sempre suoi amici.

E quello che farete al più piccolo tra voi,

credete, l'avete fatto a Lui.

Ed era l'unica cosa su cui fosse necessario essere d'accordo. La Chiesa in cui credevo era questa cosa qui, e non era nuovissima, ma neanche tanto vecchia: aveva l'età delle Seicento che ancora si vedevano in giro. Le preghiere erano tutte nuove, belle traduzioni dal latino degli anni Sessanta, in un italiano semplice ed elegante. I discorsi erano ancora relativamente contemporanei. Era una Chiesa moderna e non si vergognava di esserlo. A farla uscire dal guscio, a dare perlomeno la prima martellata, era stato un certo Angelo Giuseppe Roncalli, che tutto sembrava tranne un rivoluzionario. Ma sono i migliori, col tempo l'ho capito. 

Tra tanti aneddoti si racconta che Monsignor Roncalli, quand'era ancora patriarca di Venezia, visitò il palazzo vescovile di Lodi e vide un quadro che ritraeva un papa. Quando chiese che papa fosse, si sentì rispondere: Giovanni XXIII; al che obiettò, forse scherzosamente, che non si trattava di un papa ufficiale, bensì di un antipapa. Che però aveva avuto l'indubbio merito di indire il concilio di Costanza, un passo decisivo nella riconciliazione dello scisma avignonese: e però pur sempre un antipapa. O no? Forse la questione non era chiara, del resto tra tutti i nomi dei papi, "Giovanni" è il più utilizzato e anche il più problematico, tanto che tuttora non risulta un Giovanni XX omologato. Forse proprio per evitare l'imbarazzo di decidere se il XXIII era stato un papa o no, dal quindicesimo secolo in poi i papi avevano smesso di chiamarsi Giovanni. Fino al 1959, quando Pio XII morì e Roncalli arrivò per il conclave a Roma, in un'atmosfera di basso impero (un prelato aveva venduto ai giornali le foto del papa morto en déshabillé). Sapeva di avere qualche chance, per vari motivi, non ultimo la sua anzianità: già da qualche anno i cardinali mormoravano che dopo il lungo papato di Pio XII ne serviva uno più breve, di transizione. Però a ben vedere tra i cardinali ce n'erano tanti persino più anziani di lui.


Roncalli aveva il vantaggio di essere italiano (il suo principale competitor fu un patriarca armeno), e tra gli italiani, il più cosmopolita: è un dettaglio può sfuggire, ma prima di arrivare a Venezia Roncalli aveva avuto una carriera più diplomatica che pastorale, da nunzio apostolico in Bulgaria (dove era riuscito a impedire molte deportazioni verso i lager), in Turchia e in Francia (dov'era riuscito a salvare la cattedra a molti vescovi che avevano collaborato coi nazisti). Una virtù dei diplomatici è proprio quella di saper nascondere la propria personalità, così che nel conclave del 1959 Roncalli risultava uno dei candidati più interessanti proprio perché nessuno lo conosceva veramente: sembrava affidabile, e rassegnato a durare poco. Assumendo il nome di Giovanni e il numerale XXIII risolse un problema, irrisorio ma indicativo: proprio perché aveva poco tempo a disposizione, forse Giovanni voleva utilizzarlo per risolvere problemi, pendenze. E a proposito di pendenze, c'era un Concilio che aspettava di essere concluso ormai da novant'anni, quando gli italiani avevano conquistato Roma interrompendone definitivamente le sessioni

Pio XII, che aveva avuto molto tempo per affrontare la pratica, aveva convocato una commissione che aveva lavorato per tre anni prima di giungere alla conclusione che Santità, il concilio era meglio non convocarlo, non chiuderlo, lasciare tutto così, aspettare, non si sapeva neanche più esattamente cosa, chi. Lo scoprimmo nel 1959: il mondo stava aspettando papa Giovanni, che invece di concludere il Concilio Vaticano I decise di indirne un secondo. La Chiesa che conosciamo oggi, quella in cui qualcuno di noi è cresciuto litigando e schitarrando, deve probabilmente a questa decisione la sua sopravvivenza nella società. Roncalli aveva poco tempo e lo usò, oltre che per stravolgere la Chiesa, per creare l'icona del papa contemporaneo, quello che si frappone tra i potenti della terra chiedendo pace, che scrive le encicliche rivolgendosi non ai cristiani ma a tutti gli uomini "di buona volontà" (anzi, le fa scrivere ai suoi collaboratori: Giovanni XXIII non credeva giusto nascondere il gioco di squadra e a volte lo rivendicava). Il papa buono che abbraccia i bambini, che fa un'improvvisata all'ospedale e lo scambiano per Babbo Natale, per via dell'ermellino rosso. Quello che tutti dopo di lui hanno cercato di reinterpretare, tranne Ratzinger, Ratzinger no, ermellino rosso a parte.

Giovanni XXIII è il patrono di tutte le persone che passano la vita a sopportare diplomaticamente il prossimo, ingoiando magoni e andando avanti, perché sognano di arrivare un giorno sul trono più alto e quel giorno faranno quello che vogliono, tirando giù il mondo se è necessario: questo non succede ovviamente quasi mai, ma quando succede è fantastico, gloria a Giovanni XXIII.

L'amore non ha prezzo, non misura ciò che dà

l'amore, confini non ne ha.

Rit.: Ti ringrazio mio Signore, e non ho più paura, perché...
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Cosa ricordare il sette ottobre

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Israele ammette un'"immensa quantità di fuoco amico" il 7 ottobre 
(Electronic Intifada)


Il sette ottobre credo sia importante ricordare soprattutto quello che è successo – perdonate l'ovvietà, ma vedo che per molti non è così, e quindi ora io qui scriverò quello che penso sia successo, per ricordarlo meglio a me e agli altri. Potrei ovviamente sbagliarmi; nel qual caso non avete che da correggermi, possibilmente segnalandomi prove documentarie che smentiscano quel che scrivo adesso qui. Non c'è nulla di male ad avere delle forti opinioni, quel che un tempo si poteva ancora chiamare un'ideologia: non c'è nulla di male finché le opinioni restano fondate su dati reali: non li nascondono, non li deformano, non li inventano. A quel punto l'ideologia si mette tra noi e la realtà, il che è pericoloso perché a volte la realtà è un muro e l'ideologia può mandarci a sbattere. Anche questa era un'ovvietà – per alcuni, fino allo scorso sette ottobre. 

Il sette ottobre alcuni commando di Hamas hanno violato i confini della Striscia di Gaza (dove milioni di palestinesi erano tenuti sostanzialmente prigionieri da più di un decennio), eludendo la vigilanza dell'esercito israeliano con una facilità che ha sorpreso anche loro. È in effetti difficile immaginare che la stessa intelligence israeliana che in queste settimane è riuscita ad azzerare la gerarchia di Hezbollah (con un'opera di infiltrazione che deve essere durata anni) non si sia resa conto di quello che sobbolliva un anno fa nella Striscia; ma restiamo su quello che sappiamo. Sappiamo che i miliziani hanno fatto irruzione in alcuni kibbutz, e in un festival musicale organizzato sciaguratamente troppo vicino alla Striscia. Sappiamo che la priorità dei miliziani era fare prigionieri, da scambiare con quelli che Israele detiene nelle sue prigioni. Soprattutto al festival, però, i potenziali ostaggi erano troppi: i miliziani non potevano gestirli tutti, e nel frattempo l'esercito israeliano si stava riorganizzando. Quando è intervenuto, lo ha fatto con la mano pesante: elicotteri e carri armati. A quel punto gli ostaggi sono diventati carne di cannone; sia i miliziani sia gli effettivi israeliani probabilmente preferivano eliminarli che lasciare che il nemico li prendesse vivi. Ne sono morti più di un migliaio; di alcune decine si sa per certo che sono stati uccisi dal fuoco amico; le foto dei parcheggi e dei kibbutz bombardati ci fanno sospettare che siano parecchi di più. I miliziani sono comunque riusciti a riportare nella Striscia più di duecento ostaggi. Che in una situazione così concitata qualcuno possa avere perso tempo a torturare o stuprare i prigionieri che doveva custodire è controintuitivo ma non improbabile: durante una battaglia la gente perde la testa e perde i freni. Fin qui però nessuno ha prodotto testimonianze attendibili di questi stupri e di queste torture; e questo malgrado qualcuno sostenga ancora che sarebbero state "sistematiche". 

Per l'apparato difensivo, e in generale il governo israeliano, il sette ottobre è stato un disastro senza precedenti, che ne ha evidenziato debolezze insospettabili; per la società israeliana, uno choc da cui forse non si è ancora ripresa. Invece di ammettere un fallimento storico, e rassegnare le proprie dimissioni, il primo ministro Netanyahu (puntellato da una maggioranza che include formazioni esplicitamente razziste) ha scelto di avallare e propagandare le più oscene fake news: i quaranta bambini decapitati o cotti al forno, gli stupri sistematici, le mutilazioni eccetera. Queste storie, messe in giro per lo più dall'organizzazione privata che si occupava (male) di raccogliere i corpi, sin dall'inizio sembravano poco credibili a chi cercasse di conservare un minimo di oggettività; eppure Netanyahu le ha ripetute a Biden e Biden le ha ripetute al mondo. Presto o tardi sono rigettate come false anche dalla stampa israeliana; e ciononostante a un anno di distanza ammorbano ancora il dibattito, al punto che ho la sensazione che molti filoisraeliani, quando chiedono di ricordare il sette ottobre, ti stiano chiedendo ancora di ricordare i quaranta bambini decapitati. Non il fallimento dell'intelligence, non il disastro militare, non il fuoco amico che fa centinaia di vittime; meglio ricordarsi di bambini mai esistiti. Netanyahu li cita ancora.

Il resto lo sappiamo. Sostenuto acriticamente dall'amministrazione USA e dai solerti alleati occidentali – che non gli hanno fatto mancare armi e munizioni – Netanyahu ha trovato nel sette ottobre il pretesto per radere al suolo Gaza e decimarne gli abitanti. Come durante il sette ottobre, anche in seguito non ha mostrato di considerare la liberazione degli ostaggi una priorità. Il tizio è anziano e forse non sopporta l'idea di andarsene prima di vedere l'Armageddon che più di molti altri ha contribuito a provocare; il che forse spiega la sua necessità di estendere il conflitto. Invece di chiuderla una volta per tutte con Gaza (il che significherebbe ammettere che gli ultimi ostaggi non torneranno più) negli ultimi mesi ha aperto un fronte di terra in Libano, bombardando anche postazioni yemenite, siriane e... russe. L'Iran è il prossimo, e anche la Francia pare debba stare molto attenta. Una simile escalation, un anno fa, non la prevedeva nemmeno il più pessimista degli osservatori. E invece sta succedendo, davanti ai nostri occhi. Più della deriva senile di Netanyahu, che continua a coprire i propri pasticci combinandone di più grandi, a spaventare è la catastrofe morale del Paese che tutto sommato ancora lo sostiene (malgrado non manchino preziose voci di dissenso). Alla società israeliana può essere riconosciuta perlomeno l'attenuante del panico; credevano di essere una democrazia occidentale, si sono svegliati secondini di un ribollente carcere all'aperto. Più difficile perdonare i filoisraeliani nostrani, completamente succubi di una propaganda che anche in Israele è considerata di basso livello. Per anni ci siamo domandati com'è possibile che in certi momenti storici un genocidio possa verificarsi senza che i testimoni muovano un dito, senza che smettano di trovarlo necessario e meritorio; dal sette ottobre del 2024 non ce lo domandiamo più. 
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Bernardini si diventa

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28 settembre: Beato Bernardino da Feltre (1439-1494), predicatore antisemita

Eusebio da San Giorgio?

Verso la fine della sua esistenza terrena, Martino Tomitano da Feltre poteva ben pensare di avercela fatta: non era semplicemente diventato famoso e celebrato come il suo mito giovanile, Bernardino da Siena. Qualcosa di più: Martino era diventato Bernardino. Da lui non aveva mutuato solo il nome (assunto quando era entrato nell'ordine francescano) e la professione (frate predicatore), ma col tempo aveva cominciato a somigliargli – aiutato in questo dalla statura modesta, l'alimentazione frugale, e la vita frenetica, 17000 chilometri a piedi o a dorso di mulo in vent'anni, schizzando da una città all'altra, attirando folle che in lui evidentemente riconoscevano un archetipo: un fraticello rinsecchito e linguacciuto tutto solo contro il male del mondo. L'attività dei due bernardini copre quasi tutto il Quattrocento. Il tempo però non torna mai davvero su sé stesso: che i frati lo volessero o no, il Medioevo stava finendo, e il pauperismo francescano non era più quello radicale e utopistico di due secoli prima: alcuni predicatori come il primo Bernardino ne avevano fatto un'acuta critica degli eccessi del capitalismo mercantile, ma ai tempi del secondo Bernardino ormai anche questa critica era diventato una retorica codificata con degli obiettivi stereotipati: le Banche che dissanguano il popolo (e i perfidi ebrei che le gestiscono). 

Finisce sempre così, no? Si nasce incendiari, si muore pompieri, salvo che la cosa è un po' più complessa e a volte coinvolge più generazioni di persone che pure vorrebbero somigliare il più possibile a quelli prima di loro, copiandone i nomi e i discorsi. Un gruppo di intransigenti vuole cambiare il mondo, il mondo tuttavia è vasto e complesso e se il gruppo non scompare, a sopravvivere sono i più moderati, che magari conservano un limpido ricordo dell'intransigenza dei fondatori, ma dal canto loro preferiscono campare, e così dopo tutta una serie di lotte si impossessano del gruppo e lo trasformano in un qualcosa che alla fine somiglia sempre a un centro di servizi per la collettività. Prendi il comunismo, che in Italia dopo un secolo di scontri anche armati si è trasformato nella Coop, un posto dove vai a fare la spesa e ti fanno anche i libretti di risparmio. Invece i francescani, che nel Duecento dovevano vivere scalzi e di carità, nel Quattrocento fondarono i Monti di Pietà e prestavano con interessi variabili tra il 5 e il 15%. Non fu un'idea originale di Bernardino da Feltre (anche se lo stesso Martirologio Romano ce lo suggerisce: "istituì contro l’usura i cosiddetti Monti di Pietà"), ma era uno dei cardini della sua attività di predicatore: dopo aver additato al suo pubblico il Male (gli usurai, spesso ebrei), Bernardino esibiva il Rimedio: il Monte. Parte della sua arte oratoria era votata appunto a spiegare come mai, benché prestare a interesse fosse cosa diabolica ed esecranda, un interesse oscillante tra il 5% e il 15% era invece ancora gradito a Dio, in quanto era l'unico mezzo con cui il Monte di Pietà riusciva a sostentarsi.  

Non è che la cosa non abbia un senso: ancora oggi l'unica vera differenza tra l'usura (che è un reato) e il prestito a interesse (perfettamente legale) è la percentuale, credo fissa al 20%, un valore che per Bernardino ci avrebbe mandato tutti all'inferno. Che il Medioevo sia finito lo si capisce anche da questo, che per distinguere da peccato e cosa buona comincia a servirci il pallottoliere; si ammette che talvolta la questione sia più quantitativa che qualitativa. E anche l'antisemitismo delle prediche del nuovo Bernardino aveva una finalità commerciale, perché sì, d'accordo, erano il popolo deicida, ma soprattutto ormai erano la concorrenza: la gente doveva smettere di farsi prestare i soldi da loro (a volte a interessi inferiori) e chiederli invece al Monte. Non ci avrebbero guadagnato altrettanto, ma non sarebbero finiti all'inferno, bisognava calcolare anche questo. 

Bernardino non ha la sinistra fama di un Torquemada, e del resto non faceva l'inquisitore. Non portava gli ebrei alla sbarra, non li esortava a convertirsi mediante torture. Lui si limitava ad arrivare in città e a snocciolare il suo repertorio, cambiando dialetto a seconda della regione. Aveva tante storie da raccontare a un pubblico a cui fungeva da notiziario, carosello e varietà: conosceva i fatti che avrebbero più impressionato i suoi uditori, e che fossero fatti veri non era importante quanto che fossero interessanti; quando qualcuno cominciava ad accusare gli ebrei di infanticidi o altri immaginosi delitti, Bernardino era già altrove. Bernardino non torse credo mai direttamente un capello a un ebreo, ma nei suoi vent'anni di attività predicatoria gli storici hanno contato almeno 53 episodi in cui dopo il suo passaggio in un centro urbano gli ebrei venivano malmenati, o le loro case saccheggiate, o i loro diritti civici rimessi in discussione. Il caso più famoso è anche il primo: l'invenzione del martirio di San Simonino a Trento (1475), quando la comunità askenazita fu accusata di aver rapito un bambino per immolarlo in occasione della Pasqua. Anche allora, quando scoppiò il caso Bernardino non era in città, ma vi aveva predicato poco prima, e del resto Trento era la sua sede conventuale. Il caso di Simonino fornirà da lì in poi un precedente importante in tutti i dibattimenti successivi perché, a differenza che in altri pogrom, il vescovo Iohannes Hinderbach (che con Bernardino ebbe una solida amicizia) era riuscito a ottenere dagli ebrei che aveva fatto arrestare una confessione scritta: sì, avevano scannato un bambino cristiano per impastarne col sangue il pane azzimo nella Pasqua. Per quanto evidentemente ottenuti con la tortura, per secoli i verbali del processo di Trento furono considerati attendibili: e c'è da immaginare quanto Bernardino tornasse sull'argomento nelle sue prediche perché suvvia, il Monte non vi darà gli interessi dei banchieri ebrei, ma almeno noi francescani non sgozziamo i bambini. A Venezia, dopo il suo soggiorno, gli ebrei diventano così poco popolari che le autorità decidono di confinarli in un quartiere, forse chiamato Borghetto, da cui il termine Ghetto, che avrà un successo secolare; è probabilmente la parola veneziana più usata nel mondo dopo "Ciao". 

Bernardino da Feltre si spense nella sua cella a Pavia, 530 anni fa oggi. Dopo di lui ovviamente ci sono stati altri bernardini, piccoli e grandi, antisemiti o meno. Per quanto ognuno somigli al precedente, i tempi cambiano, e ognuno aggiunge qualcosa e toglie qualcos'altro. Per cui non aspettatevi che dopo tante generazioni si chiami ancora Bernardino, o che vesta un saio. Ma le piazze continua a riempirle, e i fatti che racconta sono sempre più interessanti che veri, i nemici sono sempre perfidi e assetati di sangue, e alla fine c'è sempre un rimedio da comprare, un abbonamento, una sottoscrizione. (Se ne volete sapere di più comprate il mio libro, è in tutte le migliori librerie).

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La tentazione di San Vincenzo

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27 settembre: San Vincenzo de' Paoli (1551-1660), ministro della Carità 

A un certo punto gli storici si sono accorti che l'uomo più buono del secolo XVII – proprio lui, Vincent de Paul, il fondatore delle Dame di San Vincenzo, delle Figlie della Carità coi loro copricapi così buffi e cinematografici (purtroppo aboliti nel Novecento), che non erano proprio suore, ma infermiere libere di uscire dall'ordine e sposarsi; Vincenzo il fondatore dei missionari lazzaristi; di ospizi e ospedali e seminari e orfanotrofi, al punto che si diceva che di notte vagasse per Parigi in cerca di trovatelli da salvare; Vincenzo che da guardiano di animali era diventato così importante a corte che un giorno suggerì alla reggente Anna d'Austria di licenziare il cardinale Mazzarino; Vincenzo che in quel frangente effettivamente cadde in disgrazia ma poi si rifece e fu nominato, dalla stessa Anna, Ministro della Carità; Vincenzo che in quanto tale a un certo punto amministrava un budget superiore a quello delle Corona e nessuno trovava niente da obiettare perché a metà Seicento, sostanzialmente, Vincenzo de' Paoli era il Welfare State francese, un uomo di così specchiata e indiscutibile virtù; ebbene a un certo punto gli storici si resero conto che anche Vincenzo aveva un segreto nascosto nel suo passato; due anni di gioventù in cui non si sapeva bene dove fosse finito. 

Lui stesso non ne parlava volentieri, il che è curioso se si considera che parlare era una parte importante del suo mestiere. Non solo, ma la ricostruzione ufficiale che aveva fornito era materiale per un romanzo picaresco: partito per Tolosa, dove era previsto che conseguisse un dottorato in Teologia, era stato rapito da pirati berberi che lo avevano venduto schiavo a Tunisi. Qui in due anni avrebbe cambiato padrone quattro volte, fino a trovarne uno di origine francese, un frate apostata che per non indossare il saio era scappato in Africa. Con l'eloquenza di cui era senz'altro fornito, Vincenzo lo avrebbe convinto a pentirsi dei propri misfatti e tornare in Europa con lui. In questo modo Vincenzo sarebbe ricomparso in Francia nell'estate del 1607; nessuna sorpresa che non fosse riuscito né a conseguire il dottorato, né a pagare i debiti che già da prima pesavano sul bilancio della sua non ricca famiglia. 

Questa era la storia che Vincent Depaul aveva raccontato ai superiori, ma non gli piaceva tornarci sopra. Qualsiasi altro predicatore avrebbe fatto di un'esperienza del genere una miniera di aneddoti per il suo repertorio, e c'è da dire che tra le altre cose Vincenzo dirigeva un ordine missionario che aveva basi nell'Africa del Nord e l'obiettivo primario di riscattare gli schiavi cristiani; ma a quanto pare non gli venne mai in mente di condividere o rivendicare la sua esperienza in quei due anni passati proprio come schiavo laggiù. Questo comportamento ci appare sospetto e ci fa dubitare di un resoconto che, bisogna dire, non presenta contraddizioni o dettagli assolutamente inverosimili; a un viaggiatore per mare dei primi del Seicento poteva capitare davvero nel Mediterraneo di essere fatto prigioniero e venduto a Tunisi come schiavo; era un caso molto sfortunato, ma avveniva. 

Il punto più debole di tutta la storia è il rocambolesco viaggio di ritorno: due religiosi su una barchetta a vela che dalla costa tunisina approdano in Camargue senza scalo. Da cui il sospetto: forse quel frate apostata è uno specchio dello stesso Vincenzo? In Tunisia ci era davvero finito come schiavo, o volontariamente, per scappare dai debiti famigliari e da una vita sacerdotale che non lo convinceva del tutto? In fondo fino a quel momento per lui il sacerdozio era stata una scelta obbligata: l'unica che apriva le porte dell'università a un ragazzo dotato per gli studi, ma di modestissima condizione. La vera vocazione religiosa sarebbe arrivata più tardi, insieme con l'intuizione di dedicarsi ai poveri (un settore che non va mai in crisi, come notava già Gesù) e l'incontro con le ricche famiglie che gli avrebbero messo a disposizione i primi ingenti capitali. Ma prima di tutto questo Vincenzo era stato un giovane neolaureato come tanti di noi: anche lui poteva avere sperimentato la vertigine di quel momento in cui sai che la strada che stai per imboccare è quella senza ritorno che porta alla vita adulta. In quei frangenti a chi non capita di vagheggiare vie di fuga: e metti che quel mattino un vascello di pirati tunisini stesse cercando personale anche senza esperienze.

Forse, prima di diventare l'apostolo dei poveri, Vincenzo aveva ceduto alla tentazione di vedere com'era fatto l'altro mondo, quello non cristiano; lui stesso ammette che uno dei suoi quattro padroni gli insegnò un po' di alchimia, qualcosa che in Europa non aveva potuto studiare e che magari sperava fosse più interessante che gestire parrocchie e insegnare latino ai figli di qualche conte o marchese. Forse Vincenzo diventò quel pilastro di carità e rettitudine cristiana proprio perché per un paio di anni aveva voluto provare com'era il mondo senza Cristo; e si vede che alla fine non gli era così piaciuto.

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Vediamoci a Emmaus

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25 settembre: Cleofa, il discepolo di Emmaus 

Caravaggio. 

Comincia tutto probabilmente con un paio di versetti del vangelo di Marco (16,12-13) in cui si riporta che Gesù Risorto, dopo essersi rivelato a Maria di Magdala, sarebbe apparso a due discepoli che andavano "verso la campagna". Tutto qui, Marco è notoriamente il più asciutto degli evangelisti. Qualche anno dopo Luca sembra in possesso di qualche informazione in più – sempre che non se le sia inventate; e il sospetto viene perché l'episodio che riporta è una delle pagine più belle di tutti i vangeli. I due discepoli, racconta, erano diretti verso Emmaus, una cittadina nei dintorni di Gerusalemme. Erano profondamente delusi per la morte di Gesù, "un profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo", che era stato condannato a morte dal Sinedrio e ucciso dai Romani. Lungo la strada incontrano un viandante che domanda di cosa stiano discutendo; è Gesù stesso, ma i due non lo riconoscono e si stupiscono che non abbia afferrato al volo l'argomento. Quello che dei due si chiama Cleofa, o Cleopa, gli dice: "Tu solo, tra i forestieri, stando in Gerusalemme, non hai saputo le cose che vi sono accadute in questi giorni?", e gli riassume in breve la vicenda di Gesù. È un Vangelo nel vangelo, un resoconto brevissimo di cose che Luca ha già raccontato, ma viste da un occhio diverso: un occhio opaco, senza redenzione. I seguaci di Gesù avevano creduto in un profeta, pensavano che avrebbe "salvato Israele", ma lo avevano visto morire come morivano i peggiori malviventi, e anche le voci di una sparizione del corpo, che cominciavano a circolare tra le donne, non erano sufficienti a impedire ai due di tornare a casa. "O insensati e lenti di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette!", li apostrofa allora il Gesù in incognito; "non doveva il Cristo soffrire tutto ciò ed entrare nella sua gloria?" E procede a spiegare tutto alla luce delle Scritture. I due non restano indifferenti, tanto che una volta arrivati a Emmaus invitano il viandante a cena, "ché si fa sera e il giorno sta per finire". Durante la cena, il Cristo finalmente si svela, nell'atto con cui aveva istituito il sacramento dell'Eucarestia: "lo riconobbero allo spezzare del pane". Nell'esatto istante in cui viene riconosciuto, Gesù scompare. "Ed essi si dissero l'un l'altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?»". I due tornano quindi immediatamente a Gerusalemme per raccontare la loro esperienza agli Apostoli, uno dei quali (Simon Pietro) ha nel frattempo assistito a un'analoga apparizione.

Gli esegeti hanno identificato Cleofa col marito o il padre di Maria di Cleofa, una delle tre (o quattro) Marie presenti alla morte di Gesù, prime testimoni della tomba vuota; e siccome Cleofa/Cleopa potrebbe essere la versione greca dell'aramaico Alfeo, è considerato il possibile padre di almeno due apostoli: Matteo di Alfeo, l'esattore delle tasse ed evangelista, e Giacomo di Alfeo, detto anche il Minore. Siccome poi quest'ultimo viene tradizionalmente considerato lo stesso Giacomo detto "fratello del Signore" che dopo la partenza di Pietro per Antiochia sembra assumere il ruolo del leader dei cristiani di Gerusalemme, Cleofa sin dai primi secoli è stato proposto come zio di Gesù, magari fratello di Giuseppe; se non addirittura secondo marito di Maria di Nazareth e patrigno di Gesù – questa cosa i cattolici la escludono, ma spiegherebbe il fatto che Giacomo fosse considerato suo fratello. Di tutti questi gradi di parentela qualche lettore ha discusso per secoli, senza notare che la storia raccontata da Luca non ne trae nessun giovamento, anzi; funziona molto meglio se il Cleofa della storia rimane un discepolo secondario, un seguace che aveva seguito la traiettoria di Gesù da una certa distanza, e non un parente stretto membro di un circolo interno che a Luca non interessava così tanto. Quel che gli premeva era documentare quel senso di smarrimento che i discepoli di Gesù avevano sperimentato nelle ore immediatamente successive alla crocifissione. Uno smarrimento che a un certo punto doveva essere svanito di schianto, con un atto di fede che è la vera nascita del cristianesimo. 

Quanto al nome dell'altro discepolo, anche qui la tradizione ne ha proposti tanti, ma ultimamente si tende a pensare che Luca volesse lasciarlo anonimo per aiutarci a immedesimarci: l'altro discepolo siamo noi lettori, che giunti a questo punto del Vangelo non abbiamo ancora capito cos'è successo; è necessario che scenda Gesù stesso a spiegarci una volta ancora. 

Un'altra cosa che non sapremo mai è dove si trovasse esattamente Emmaus. Secondo Luca era a undici stadi da Gerusalemme: un'informazione preziosissima, se avessimo mai capito quant'era lungo uno stadio in quel periodo e in quella regione. Senz'altro da Gerusalemme si poteva raggiungere a piedi in un giorno: ma in che direzione aveva marciato Cleofa, col suo compagno anonimo? Di Emmaus, in Palestina, ce n'era più di una: la più importante, variamente citata da Giuseppe Flavio nelle sue Antiquitates, era a più di cento stadi dalla capitale. Peraltro i romani l'avevano distrutta dopo la morte di Erode il Grande, ovvero poco più di trent'anni prima della crocifissione di Gesù. Del resto le città da quelle parti cadono e risorgono relativamente in fretta, e nel terzo secolo Emmaus, ribattezzata Nicopolis, avrebbe ottenuto dall'imperatore Eliogabalo lo status di città. In qualche manoscritto, invece di Emmaus, si legge Oulammaous: un luogo in cui, nella Genesi, Dio appare in sogno a Giacobbe. Potrebbe trattarsi di un tentativo di un copista di legare l'apparizione evangelica al tradizionale modello biblico, laddove quella del Vangelo di Luca è una sensibile rottura con la tradizione: il Gesù di Luca non appare a un importante patriarca, ma a due discepoli qualsiasi; e non in sogno, ma in carne e ossa, come un compagno di strada che siede a tavola e spezza il pane. Tutto è semplice e immediato, come nei sogni più vividi che facciamo prima del risveglio, dove le persone che abbiamo perso per strada sembrano così vere che riusciamo a toccarle. 

Così la Emmaus di Luca continua a sfuggirci, e noi continuiamo a cercarla. Dev'essere un posto qualsiasi – ecco perché non riusciamo a trovarlo: magari ci passiamo davanti tutti i giorni, è quel bar con un paio di tavolini che non ci sembra mai valga la pena di una consumazione. Un giorno al banco Dio ci attaccherà bottone, ci spiegherà serenamente cosa ci è successo fin qui, componendo tutti i misteri e i pasticci della nostra vita in una breve storia con un solo senso. E poi si leverà di torno: tanto a quel punto sapremo esattamente cosa fare, da chi tornare, per cosa lottare.

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Il legionario nero

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22 settembre: San Maurizio e la Legione Tebea, per un totale di 6600 martiri (III secolo) 

Statua di San Maurizio nel duomo di Magdeburgo (1250 ca.)

I santi soldati, nei dipinti, non sono così difficili da distinguere: potete diventare anche voi esperti in cinque minuti. Se porta soltanto la spada non è un vero soldato, ma più probabilmente un martire morto per ferite inflitte da una spada: San Paolo è il più frequente, è calvo e ha la barba. Se è armato di tutto punto e affronta un drago, potrebbe essere San Michele o San Giorgio, e per distinguerli bisogna guardare le ali: Michele le porta perché è un angelo, Giorgio no. Se poi il drago tiene prigioniera una principessa, è senz'altro Giorgio; gli angeli hanno ben altro da fare che liberare le principesse, il drago che San Michele affronta è Satana stesso. Se è vestito più o meno come Giorgio, ma è vicino a Giorgio, ovviamente non può essere lui; più probabile che sia San Demetrio. Se invece ha la pelle nera, beh... no, un momento. Ci sono santi con la pelle nera, nei dipinti? Sì, qualcuno a volte c'è, non è un caso così raro. E chi è? Molto probabilmente San Maurizio. 

San Maurizio sarebbe il comandante della legione Tebea, originalmente di stanza presso Tebe d'Egitto, ma che Diocleziano avrebbe dislocato dalle parti di Agauno (oggi Saint Maurice, nel Cantone Vallese), affinché sostenessero il suo collega imperatore Massimiano in un'operazione di respingimento dei barbari Quadi e Marcomanni. E già qui qualcosa non va, perché Diocleziano è conosciuto – oltre per la persecuzione più sanguinosa della storia della Chiesa – per aver perseguito una politica di rigida compartimentazione delle quattro macroregioni dell'impero, affidate a due Augusti e due Cesari (la famosa Tetrarchia), il che rende abbastanza improbabile il trasferimento di una legione dall'Egitto alle Alpi; e però magari era un'emergenza, chi lo sa. Secondo una versione della leggenda (probabilmente la più antica) i legionari erano tutti cristiani e si erano rifiutati di partecipare a un rito pagano propiziatorio prima di una battaglia. Un'altra versione, che appare come un tentativo di razionalizzare la precedente, suggerisce che alle legione fosse stato ordinato di perseguitare i cristiani della zona: si rifiutarono e furono decimati due volte, quindi definitivamente massacrati. 

Chi ha inventato questa storia (forse un vescovo del posto, a cui premeva il prestigio dell'abbazia di Agauno) era abbastanza esperto di Storia romana da conoscere la pratica della decimazione con cui venivano punite le legioni che avendo deluso il comandante o eluso i suoi ordini, si macchiavano di infamia: un legionario su dieci, estratto a sorte, veniva messo a morte. Ma ignorava che le decimazioni al tempo di Diocleziano e Massimiano non si praticavano più da secoli, e che due dittatori militari in una fase così irrequieta non avrebbero rinunciato così facilmente ai servizi di un'intera legione – il che richiedeva tra l'altro l'intervento di un'ulteriore legione. Un punto credo acquisito da chiunque abbia studiato un po' di storia di quella turbolenta dittatura militare che era diventato l'Impero nel III secolo, è che le legioni, sempre in teoria fedelissime all'imperatore, potevano talvolta ribellarsi giurando fedeltà a qualche altro aspirante imperatore; gli stessi Diocleziano e Massimiano presero il potere così. Una legione che puntava sul cavallo sbagliato finiva poi facilmente massacrata in battaglia, e questo potrebbe essere stato il vero destino dela Legione Tebea. Ma l'eventuale presenza dei resti di una legione sterminata in una guerra civile non avrebbe portato nessuna particolare gloria all'abbazia di Agauno, cosa a cui re Sigismondo dei burgundi teneva molto: era il primo re del suo popolo a venir battezzato con rito niceno e aveva bisogno di un luogo di culto che riflettesse la sua prominenza. Molto meglio raccontare in giro che i legionari erano morti per difendere la loro fede. Non è escluso che la leggenda sia nata per spiegare la persistenza di ossa e armi in qualche valle alpina, anche se a distanza di secoli non riusciamo più a trovar molto: ci avranno preceduto i cacciatori di reliquie medievali. 

Più che le ossa, a diventare famosa fu la lancia di San Maurizio (Saint Moritz per gli sportivi invernali), che nel X secolo fu acquisita da Enrico l'Uccellatore, capostipite della dinastia degli Ottoni. Sarà stata una coincidenza, ma il figlio di Enrico è il primo della sua famiglia a cingere la corona di imperatore del Sacro Romano Impero (ormai Germanico). La lancia sembra portar fortuna, ma ha un problema: non è abbastanza prestigiosa, un imperatore dovrebbe circondarsi di reliquie di prima scelta, mentre fuori dall'arco alpino, questo San Maurizio, chi lo conosce? Gli Ottoni insomma avevano tutto l'interesse a confondere la lancia di San Maurizio con quella più prestigiosa di San Longino, il legionario che aveva trafitto il costato di Gesù. Così Maurizio, che a un certo punto era diventato patrono dell'Impero, passò gradualmente in secondo piano. Verso il Milleduecento gli artisti cominciarono a scolpirlo e pitturarlo con la pelle molto scura degli abitanti dell'Africa subsahariana, forse riflettendo sull'etimo del nome "Maurizio", che significa appunto moro, mauritano, e/o per distinguerlo da altri santi guerrieri come Giorgio e Michele. Perciò può capitare, in certe chiese tra Piemonte, Svizzera, Borgogna e Germania meridionale, di trovare su una pala d'altare tra i santi un legionario o un cavaliere dalla pelle nera. Poi la gente dice che nel Medioevo erano indietro, mica come adesso che mettono attori africani nelle fiction in costume... quante cose dice la gente.

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Una santa in Palestina (in un monastero maschile)

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20 settembre: Santa Susanna di Eleuteropoli, monacә e martire palestinese (IV secolo?)


Susanna potrebbe essere la patrona di Eleuteropoli, se Eleuteropoli ci fosse ancora; ma è stata distrutta come capita presto o tardi a tutte le città. In epoca romana era un vero capoluogo, più grande di Colonia Aelia Capitolina, ovvero Gerusalemme, dopo che i Romani avevano distrutta pure quest'ultima, cose che succedono. Eleuteropoli sorgeva più a sud, nei pressi di Hebron, dove tanti anni dopo fu tracciata la linea dell'armistizio tra Israele ed Egitto.

La leggenda di Susanna, tramandata da due fonti greche, è un pasticcio; anche nel senso di una cosa messa assieme con gli avanzi. La prima parte segue la ricetta di Santa Marina di Bitinia, ovvero la storia di una donna che si traveste da uomo per entrare in un monastero maschile. Ma se Marina lo fa per seguire il padre, Susanna mostra di provenire da un crocevia di culture: il padre è pagano, la madre ebrea; entrambi muoiono troppo presto e Susanna, convertita da un sacerdote cristiano, decide di rifugiarsi nel luogo in cui nessuno si accorgerà del suo sesso. Di storie del genere nei sinossari bizantini ce n'è più d'una e non sono tutte favolette; lasciano sospettare che in alcuni casi una persona che non si trovasse a suo agio con il genere assegnato alla nascita potesse trovare un rifugio adeguato tra i cenobiti delle prime generazioni – prima che si diffondessero cenobi riservati alle donne. C'è un'ambiguità morale, in questi resoconti, che fatichiamo a chiarire, anche perché ogni generazione probabilmente tende a vederla in un modo diverso, come ben sanno le femministe che di solito parlano di ondate. Chi inventava queste storie probabilmente considerava la donna che rinunciava al proprio sesso per farsi monaco un'eroina della fede, anzi un eroe; poi arriva un'altra ondata con un'altra sensibilità, e questa cosa di travestirsi per entrare in un luogo di soli maschi risulta un po' troppo piccante, da cui la necessità di aggiungere alla storia uno svelamento drammatico. 

Nel caso di Susanna questo svelamento somiglia superficialmente a quello di Marina: una donna accusa il monaco Susanna di averla violentata. C'è però questa fondamentale differenza: per difendersi da un'accusa così infamante, Susanna decide di rivelare il proprio sesso. Al contrario, Marina preferisce confermare la bugia della sua accusatrice, e addirittura adotta come padre il figlio che la donna sostiene di avere avuto da lei/lui. Questo potrebbe riflettere i tempi diversi in cui queste due leggende sono state costruite; magari Marina rischiava più a rivelarsi donna in un monastero di uomini che a confessare una violenza sessuale (ricordiamo che per tutto il Medioevo vestirsi con abiti maschili poteva procurare a una donna una condanna per stregoneria). Invece Susanna sembra vivere in un tempo (III-IV secolo?) o in un luogo in cui cose del genere non sono ritenute altrettanto gravi; certo, deve lasciare il monastero, ma pare che sia l'unica punizione che le viene inflitta. 

A questo punto – e veniamo alla seconda parte della leggenda – Susanna si reca ad Eleuteropoli, dove viene ordinata diaconessa da un vescovo, il che le permette di morire da martire durante una persecuzione. Questo è abbastanza curioso, visto che il monachesimo si sviluppa anche in oriente in un periodo in cui il cristianesimo non è più oggetto di persecuzioni; ci fa sospettare che di Susanne ce ne fossero almeno due e che qualche copista le abbia messe assieme, magari per risparmiare spazio su una pergamena. 

Eleuteropoli significa "città dei liberi". Settimio Severo l'aveva ribattezzata così, quando nel 200 d.C. aveva concesso agli abitanti la cittadinanza romana. Prima d'allora aveva un nome aramaico, Beth Gabra, che non è poi molto diverso da come duemila anni dopo la chiamavano gli ultimi abitanti, Bayt Jibrin. Beth Gabra significava "casa del potente", ed era forse riferita a un antico re edomita. Gli edomiti erano antichi rivali meridionali degli israeliani; secondo la Bibbia discendono da Esaù, fratello di Giacobbe. A volte sono confusi con gli amaleciti, quelli che gli antichi ebrei dovevano ricordare di dimenticarsi. Il nome aramaico non deve essere mai veramente scomparso, se persino in una carta stradale romana (l'unica che ci è arrivata, la Tavola Peutingeriana) veniva chiamata Beitogabri. L'Islam arriva verso il 630, in modo piuttosto violento: gli arabi uccidono cinquanta soldati bizantini che rifiutano di convertirsi. Quattrocento anni più tardi i crociati espugnano la città e ci costruiscono una roccaforte, Bethgibelin, che il re di Gerusalemme affida all'ordine degli Ospitalieri. La rocca sarà distrutta dall'esercito di Saladino dopo la battaglia di Hittin. Bayt Gibrin resterà ancora un po' in mano ai crociati e poi passerà ai Mamelucchi e agli Ottomani. Ai tempi del Mandato britannico era un villaggio di 2500 abitanti, tutti arabi. Nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 1948 Bayt Jibrin fu bombardata dall'aviazione israeliana: la maggior parte degli abitanti lasciò il villaggio e non c'è più tornata. Il 27 ottobre, tre giorni dopo il cessate il fuoco, gli israeliani la occupano. Oggi Bayt Jibrin non esiste più, o se preferite ne esistono due: in Cisgiordania c'è il campo profughi di Bayt Jibrin in Cisgiordania, dove vivono migliaia di discendenti degli abitanti sfollati nel 1948; e in Israele c'è il kibbutz Beit Guvrin, fondato nel 1949 nei pressi della rocca di Bethgibelin, con annesso un parco storico che l'Unesco ha dichiarato patrimonio dell'umanità. Ci sono tracce del passato ebraico, romano, bizantino, crociato; ma quasi niente dei secoli arabi e turchi, cose che succedono.

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