Il popolo più intelligente (che fine ha fatto)

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Buongiorno, mi chiamo Leonardo e sono un determinista geografico – perlomeno nel senso che credo che la geografia determini il modo in cui stiamo al mondo. L'ho sempre pensata così, quindi all'inizio non era che un pregiudizio: ma in seguito non ho trovato che conferme. 

Ad esempio: c'era una volta, ma neanche tantissimo tempo fa, un popolo che per una lunga e complicata serie di problemi era stato costretto a spargersi per il mondo, e inevitabilmente a mescolarsi con gli altri popoli; pur conservando con una certa ostinazione i riti e le leggende di una cultura millenaria. Ebbene, è probabile che questo popolo nei secoli avesse sviluppato una caratteristica peculiare: un'intelligenza media... sopra la media. Possiamo dimostrarlo? No, ma abbiamo molti indizi: il grande numero di intellettuali di spicco, alcuni dei quali diedero letteralmente vita a intere branche della scienza e della filosofia; la quantità di personalità ascese ai livelli più alti della scena politica e finanziaria senza diritto di nascita, o anche banalmente il numero di premi Nobel conferiti. Non bastava nascere in seno a quel popolo per essere più intelligenti, ma in un qualche modo aiutava. Il perché non è chiaro, e ci dà anche un certo fastidio domandarcelo. Si ha sempre paura di fare un discorso razzista.

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Sarebbe senz'altro un discorso razzista, se considerassimo quel popolo una razza (i nazisti lo facevano); ma siccome nel frattempo abbiamo concluso che le razze non esistono, e in particolare non potrebbe esisterne una che si mescoli nei secoli con le altre che incontra sulla strada, l'ipotesi razziale è facilmente archiviata. Più difficile risulta scartare del tutto un'ipotesi genetico-evolutiva, ovvero una tendenza tipica di quella specifica cultura a premiare gli individui più intelligenti, quelli che imparavano a leggere e a calcolare con meno sforzo; magari erano considerati elementi importanti della comunità e stimolati a sposarsi tra loro e ad avere famiglie numerose; laddove in altre culture individui con le stesse predisposizioni venivano persino disincentivati a figliare, mediante l'istituzione di caste di intellettuali celibi (vedi il cattolicesimo). Un altro stimolo poteva venire dall'appartenere, ovunque nel mondo, a una minoranza quasi costantemente minacciata e angariata; il lavoro intellettuale poteva apparire ai membri di questa comunità una via di fuga dai ghetti fisici e virtuali. Probabilmente non lo sapremo mai con certezza e probabilmente è meglio così – a un dittatore distopico potrebbe venire in mente di istituire un ghetto anche solo per verificare l'ipotesi.

Va bene, direte voi, e il determinismo geografico cosa c'entra? Parliamo di uno dei popoli meno geograficamente determinati del mondo! Ecco, appunto. Erano mediamente più intelligenti, erano spesso perseguitati (forse anche per questo motivo), erano sparsi per tre e più continenti. A un certo punto qualcuno di loro ha pensato, e non sembrava una cattiva idea: ma se ce ne tornassimo tutti nello stesso posto? Non necessariamente quello da cui provenivano i nostri antenati duemila anni fa – oppure no, aspetta, tutto sommato la terra costa lì meno che altrove, andiamo proprio lì. Ecco. Che idea potente. Milioni di persone mediamente più intelligenti degli altri, concentrate nello stesso piccolo spicchio di terra. Cosa avrebbero potuto fare, cosa avrebbero potuto diventare? Una civiltà da fare impallidire l'Atene di Pericle; ebbene, dopo qualche generazione oso dire di no. 


Sarò persino più brutale. Sono andati a vivere nel deserto, sono già diventati predoni. La geografia è un destino. Lo dico senza la minima soddisfazione, perché se invece fossero riusciti a farlo fiorire davvero, quel deserto, sarebbe stata una buona notizia per tutti. Ma per farlo fiorire serve banalmente l'acqua; per avere l'acqua bisogna prenderla ai palestinesi, e il resto della storia lo sapete. Dopodiché certo, Israele continua a essere un Paese culturalmente rilevante, con università importanti e intellettuali di spicco. Sarebbe anche il minimo, coi soldi che arrivano dagli USA ogni anno. Ma se andiamo a vedere un po' più da vicino, ecco, nelle università gli studenti urlano insulti ai professori dissidenti. I grandi intellettuali hanno una certa età, i più giovani sembrano meno interessanti e più faziosi: esattamente come in Italia, ma perché avrebbe dovuto finire come in Italia?


C'erano tutte le premesse perché Israele diventasse un faro per l'occidente e il mondo; appunto, c'erano tutte le premesse tranne la geografia: si vede che la geografia è l'unica condizione necessaria. Prendi il popolo più intelligente del mondo, schiaffalo su una strisciolina di terra con poche risorse, in mezzo ad altri popoli ostili, e guarda quanto ci mette a sviluppare un nazionalismo fanatico, e a devolversi anima e corpo a un militarismo spietato. La più giovane delle nazioni occidentali a costituirsi tale è anche il più grande argomento contro il concetto di nazione. E noi che una volta ci misuravamo con scrittori e intellettuali di straordinario acume, ci ritroviamo a leggere il fondo di una tale Dina Porat, "consulente accademica del centro Vad Yashem e professoressa emerita dell'università di Tel Aviv". 

Parliamo di un temino sconfortante, che in futuro magari sarà usato come pietra di paragone per stabilire la degenerazione dell'intelligenza media nel Ventunesimo secolo, probabilmente a causa della concentrazione di polveri sottili. Attenzione, non sto dicendo che la professoressa sia stupida – mai mi permetterei, non la conosco – ma è decisamente stupido il discorso che sceglie di fare: tarato per lettori incapaci di discorsi complessi, che poi saremmo noi che lo leggiamo. La professoressa ci spiega per prima cosa che la mentalità israeliana è per sua natura occidentale. A riprova di ciò cita... niente, assolutamente niente, l'occidentalità degli israeliani è autoevidente, eventuali prove ci affaticherebbero. Il fatto che gli israeliani stiano combattendo una lotta tribale contro altre fazioni tribali, a dispetto di ogni logica strategica ed economica, non deve distrarci. Se anche si stanno facendo terra bruciata intorno, lo fanno con una mentalità occidentale che "pensa seguendo linee logiche, calcola le proprie mosse in base al profitto e mira al benessere di cittadini e nazioni", capito? Noi occidentali siamo così, il romanticismo lo avrà elaborato qualche altra cultura. "La mentalità occidentale, e quella cristiana in particolare, ritiene che gli esseri umani siano fondamentalmente onesti..." No, aspetta.

Chiedo al lettore, se è arrivato fin qui, un piccolo sforzo. Chiuda gli occhi. Pensi a Lutero. Ad Agostino di Ippona. A Paolo di Tarso. E poi rilegga.

La mentalità occidentale, e quella cristiana in particolare, ritiene che gli esseri umani siano fondamentalmente onesti.

Per scrivere qualcosa del genere (e per pubblicarlo sul quotidiano che un tempo era Repubblica), bisogna essere o molto in buona fede, o molto in malafede. Non sta a me determinarlo, ma o la professoressa Porat ignora completamente il pensiero cristiano – il che denoterebbe un tragico abbassamento degli standard qualitativi delle istituzioni accademiche che rappresenta – oppure pensa che ce la beviamo, in fondo figurati se li studiamo davvero, quei Luteri e quegli Agostini.

Ci sta blandendo, proprio come un accorto mercante beduino blandisce il cliente frescone. Ed eccoci davanti al paradosso del bugiardo: se la prof.sa Porat ci sta prendendo in giro, non è "fondamentalmente onesta", e quindi non è così occidentale come vorrebbe sembrare, anzi starebbe facendo prova di astuzia levantina... oppure no, è perfettamente occidentale, tranne che la cultura occidentale non è così logica e consequenziale come lei sostiene che sia: magari mira davvero al "benessere di cittadini e nazioni", ma nel farlo non si preoccupa di dire bugie e causare il malessere di altri cittadini, altre nazioni. Non saprei. Mi sembra tutto così avvilente. Forse la Fallaci era scesa così in basso, ma era anziana, era malata ed era il Corriere, ventidue anni fa. Da tanti errori dovremmo avere capito qualcosa e invece no, siamo ancora allo stereotipo dell'occidentale onesto che non capisce il beduino astuto e malvagio. Tranne che anche questa propaganda di basso livello intellettuale cosa ormai l'abbiamo delocalizzata, la facciamo scrivere direttamente ai beduini.  

Quando i leader e gli opinion maker israeliani e occidentali pensano all'Islam e ai musulmani lo fanno sulla base del proprio modo di pensare e delle proprie convinzioni, e non su una profonda e attenta conoscenza della mentalità e delle convinzioni dei musulmani. Credono ciò che vorrebbero fosse vero. Questo è il motivo per cui di fronte ai fatti del sette ottobre Israele si è trovata impreparata...

Ah, ecco, questo è il motivo. Pensi che ingenui, professoressa; noi credevamo che il governo israeliano si fosse trovato impreparato perché incompetente, assorbito dalle beghe interne, e non del tutto ostile all'eventualità che qualche miliziano producesse un casus belli prima delle elezioni USA del 2024. Mentre invece ora è tutto chiaro: non se l'aspettavano perché erano occidentali, cioè un po' cristiani, cioè un po' ingenui, incapaci di concepire la malvagità del nemico. Inoltre la terza guerra mondiale è in pratica già scoppiata, perché Hamas è un emissario dell'Iran, che "ha stretto un'alleanza con Russia e Cina. I tre Paesi sono ferventemente anti-americani e anti-occidentali, e quindi ostili ad Israele e agli ebrei". Quante volte ci è capitato di dircelo in questi anni: chi aspetta i barbari, molto spesso non sa di esserlo. La professoressa è convinta di fare un discorso "occidentale": razionale, cartesiano, utilitaristico. Laddove sotto una paginetta del genere l'Occidente è morto, o quantomeno riavvolto fino al secolo XI: qualcuno dal balcone ci sta chiamando alle crociate, i cristiani sono buoni e i mori sono cattivi. Certo che questi discorsi si leggevano anche vent'anni fa. Su Libero, sul Giornale. Oggi arrivano su Repubblica, e infiammano quel che resta di una borghesia che, nello spicchio che intravedo da Twitter, mi sembra completamente sconvolta dagli eventi: hanno investito molta emotività su fronti che non stanno reggendo. L'Ucraina è un baluardo dell'Occidente – salvo che il fronte cede; Israele è un baluardo dell'Occidente – peccato che stia commettendo crimini contro l'umanità. Ormai vedo professori cattedratici buttarsi su Milei, il quale per quel che ci è dato da capire ha una concezione dell'economia tanto facilona quanto facilone è l'approccio della Porat al conflitto israelopalestinese. Stiamo diventando tutti scemi? Sono le polveri sottili? O la semplificazione intellettuale e linguistica è quel che avviene quando comincia una guerra, e la guerra è appunto già cominciata?


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Tre cappuccini in Etiopia

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3 marzo: beati Liberato Weiss, Samuele Marzorati e Michele Pio Fasoli da Zerbo

Premesso che una svista può capitare a tutti, alla voce "Samuele Marzorati e Michele Pio Fasoli da Zerbo" del sito ufficiale del Dicastero delle Cause dei Santi si legge ciò:

"Lungo i secoli vi sono stati tanti tentativi dei missionari cattolici di poter penetrare nei territori a religione musulmana per poter portare il Vangelo anche lì, ma gli sforzi si sono dimostrati in buona parte inefficaci, vista la intolleranza religiosa che ha sempre distinto il sempre presente estremismo arabo".

Il... sempre presente estremismo arabo? 

È un testo tratto da una paginetta del sito Santiebeati, che a sua volta riprende la scheda di Antonio Borrelli, giornalista del Giornale. Quest'ultimo mentre la stilava doveva essersi distratto un poco: non solo perché mentre parlava di "estremismo arabo" si stava dimenticando quel millennio in cui ad esempio in Egitto gli arabi cristiani (copti) hanno convissuto coi musulmani; non solo perché "estremismo arabo" è proprio un'espressione che storicamente può avere un senso solo a partire dal secolo scorso, quando nasce appunto il nazionalismo arabo, ma soprattutto perché... né Samuele Marzorati né Michele Pio Fasoli sono stati martirizzati da arabi o da musulmani in generale

Il castello del negus Fasilides, nella fortezza di Fasil Ghebbi, a Gondar

A uccidere a pietrate i due frati cappuccini, assieme al confratello bavarese Liberat Weiss, sono stati gli etiopi, che con gli arabi non hanno etnicamente molto a che spartire (oserei dire che siamo più simili noi italiani, agli arabi, di loro) e soprattutto non sono musulmani: perlomeno quelli che hanno lapidato i tre frati erano cristiani, ancorché di confessione miafisita, come i copti egiziani e gran parte degli etiopi al tempo. Lo si legge nelle altre due schede dedicate ai frati da Santiebeati, e nell'omelia pronunciata da Papa Giovanni Paolo II e riportata sempre su Causesanti.va. 

All'inizio del Settecento la Congregazione De Propaganda Fide decide di riannodare i rapporti con i cristiani di Etiopia, completamente interrotti da qualche decennio. Forse ricevono persino un invito dall'ultimo dei grandi Negus della dinastia salomonide, Iyasu I il Grande, che stava cercando di aprire l'Etiopia al mondo, allacciando anche rapporti con la corte di Luigi XIV e la Compagnia delle Indie Occidentali. Detto questo, l'impero del Negus non è dietro l'angolo: la penetrazione coloniale europea inizierà 150 anni più tardi, la via del deserto è quasi del tutto sconosciuta ai bianchi e i cappuccini che si offrono volontari sanno benissimo che gli ultimi sei confratelli giunti in Etiopia erano stati martirizzati nel 1669. Quel che non possono sapere è che il viaggio sarà lentissimo, estenuante: i primi sei volontari (tra cui Liberat Weiss e il pavese Michele Pio) giungono nel gennaio del 1705 al Cairo dove si aggregano a una carovana che risale il corso del Nilo: direzione Gondar, capitale etiope. 

Nessun "estremista arabo" li ostacola, ma giunti all'altezza di Al Dabbah (Sudan), sono informati che Iyasu non è più imperatore: alla morte della sua concubina preferita si è ritirato a vita privata e un figlio, per essere sicuro di succedergli, lo ha fatto ammazzare. Ne deriva una guerra di successione che blocca il viaggio per tre anni. Alcuni frati, sfiduciati, cominciano a tornare indietro: il capospedizione, Giuseppe da Gerusalemme, si ammala di qualcosa (com'era frequentissimo tra gli europei prima della diffusione del chinino) e muore. Alla fine anche Michele e Liberati tornano al Cairo, dove però ricevono l'ordine di riprovare a raggiungere Gondar via mare, anche perché nel frattempo la situazione in Etiopia sembra essersi calmata. 

Ai due si aggrega il varesino Samuele Marzorati, reduce da un'esperienza missionaria non fortunata nell'isola di Socotra. I tre arrivano finalmente a Gondar nel 1711, dopo sette anni, giusto per scoprire che il nuovo re Yostos, per quanto ospitale, non intende autorizzarli a predicare una confessione religiosa diversa da quella miafisita. Probabilmente pesa ancora, nei confronti dei frati cappuccini, il ricordo delle guerre religiose del secolo precedente. Nel 1631 i gesuiti, dopo aver convertito il Negus Susenyot, avevano tentato la cattolicizzazione forzata di tutti i sudditi. Ne era seguita una guerra al termine della quale Susenyot, dopo aver massacrato in battaglia ottomila ribelli refrattari al cattolicesimo, aveva deciso di fare un passo indietro. Da lì in poi il cattolicesimo aveva perso gran parte del suo appeal in Etiopia: i frati che venivano da nord erano visti come sovvertitori di una tradizione millenaria, e in effetti lo erano. 

A Liberat, Michele e Samuele viene chiesto di trasferirsi nel Tigré, dove per qualche tempo tirano a campare esercitando la professione medica. Liberat improvvisa anche un'attività di orafo: ma la permanenza dei tre in Etiopia dipende dalla benevolenza di un re dal trono vacillante. Nel 1716 si ammala: è ancora in agonia mentre in un'altra ala del palazzo viene incoronato il nuovo Negus, Dawit III. Quest'ultimo convoca i tre frati a Gondar e offre loro la possibilità di convertirsi al miafisitismo etiope... o di morire martiri. È il momento che aspettavano da anni: per i missionari il martirio è sempre un'opzione. Forse in certi casi è persino una liberazione, quando da anni vivi in un territorio ostile e sei educato a pensare che il tuo sangue versato potrebbe, in qualche modo, cambiare le cose per chi verrà dopo di te. Così davanti a una corte di sacerdoti etiopi, Liberat Michele e Samuele testimoniano la loro fede, senza trascurare di accusare i loro accusatori di eresia. La condanna a morte viene eseguita il 3 marzo, per lapidazione. Cristiani uccidono cristiani: non è la prima volta, non sarà l'ultima. Si racconta che un monaco abbia minacciato i presenti: chi non tira almeno cinque pietre è un nemico della Vergine Maria. Gli estremisti arabi, come si vede, non c'entrano molto.

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Un'africana in Veneto

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8 febbraio: Santa Giuseppina Bakhita (1869-1947)

Il rapporto tra santità e pelle nera è uno dei più bizzarri e forse meriterebbe di essere studiato meglio: in un continente in cui la nobiltà è associata (almeno a partire dall'Alto Medioevo) a carnagione chiara e capelli biondi, la santità assume attributi opposti molto più spesso di quanto sembrerebbe. Hanno la pelle scura le icone bizantine (forse perché annerite dal fumo delle candele); le statue di vescovi risalenti all'antichità, come Zeno a Verona. Hanno il colore del bronzo certe statue del monaco siciliano San Calogero, che quando vengono portate in processione brillano al sole e sembrano sudare; e proprio in Sicilia, nel basso medioevo nasce il fenomeno dei santi neri, frati di origine africana (a volte schiavi liberati) che vengono venerati in vita e dai quali la gente sembra che si aspetti i miracoli, finché a furia di insistere i miracoli non arrivano. Il caso di Giuseppina Bakhita è molto più recente, ma non così diverso: anche Giuseppina è diventata famosa senza averlo desiderato, semplicemente perché il colore della pelle richiamava l'attenzione di fedeli e curiosi ("Tuti i vole védarme: son propio na bestia rara!") In un mondo senza immagini fotografiche a colori, Giuseppina mostrava agli abitanti di Schio che sì, i neri esistevano: se poi apriva la bocca per parlare la sorpresa era doppia, perché Giuseppina parlava in dialetto veneto. 

Giuseppina deve la sua fama a un libro della canossiana laica Ida Zanolini, Storia meravigliosa: Giuseppina Bakhita, che negli anni Trenta ebbe un buon successo e fu una specie di italica Capanna dello Zio Tom; un racconto che ha senz'altro il pregio di mettere a fuoco gli orrori dello schiavismo, ma anche di confortare il lettore sul fatto che molti uomini bianchi lo avversino, in particolare gli illuminati esponenti della borghesia coloniale italiana. Come Callisto Legnani, console italiano a Khartoum, che comprava i bambini vittime della tratta per restituirle alle famiglie. Questa ragazzina che riscatta nel 1882, però, non può essere restituita perché non si ricorda nemmeno come si chiamava: il nuovo nome ("Fortunata"), glielo hanno dato i predoni. Potrebbe avere tredici anni. Probabilmente viene da un villaggio del Darfour: ricorda di avere avuto molti fratelli che forse sono stati fatti prigionieri anche loro; ha già cambiato padrone più volte; è stata al servizio di un generale turco che l'ha fatta tatuare; il tatuaggio successivamente è stato abraso e forse trattato col sale per creare una cicatrice permanente. Tutte queste cose le sappiamo dal libro della Zanolini: Giuseppina non ne parlava volentieri e a volte sosteneva che la storia era esagerata – può darsi che la Zanolini volesse condensare nel personaggio di Bakhita le sofferenze inflitte a più bambine, e documentate da altre fonti: così come può darsi che Bakhita avesse maturato una certa insofferenza per chi continuava a chiederle particolari riguardo i traumi della sua infanzia. 

La ragazza resta per due anni al servizio del console – i biografi si affrettano a precisare che non era più considerata una schiava, ma comunque era una minore che svolgeva mansioni di servitù. La differenza che Bakhita percepisce è che non viene più picchiata e tanto basta perché sia la stessa Bakhita a chiedere a Legnani di portarla con lei, quando lascia Khartoum nel 1884 durante la rivolta del Mahdi. Ai Legnani si aggrega durante il viaggio un'altra famiglia italiana, gli albergatori Michieli. Giunti a Genova, il console cede Bakhita ai Michieli, che hanno una figlia che si trova bene con lei. Sono i Michieli a portare Bakhita in Veneto (a Mirano): tre anni dopo, quando ripartono per l'Africa, lasciano la figlia in un collegio canossiano di Venezia. Bakhita resta con lei, in qualità di catecumena, perché non è nemmeno battezzata e di cristianesimo ancora non sa quasi nulla. Quando intorno al 1889 la signora Michieli torna a prendere la figlia, Bakhita prende l'unica vera decisione della sua vita: non vuole tornare in Africa, preferisce restare nel convento delle canossiane. La Michieli ricorre ai legali, così che a un tribunale tocca sancire che la schiavitù in Italia non esiste: Bakhita è libera di restare nel convento. 

Nel 1890 viene battezzata Giuseppina Margherita Fortunata: sei anni dopo prende i primi voti. Nel 1893 è trasferita nel convento di Schio dove passerà quasi tutto il resto di una vita tutto sommato abbastanza tranquilla, scandita dalle normali mansioni di una suora canossiana: in cucina, in sagrestia, anche in infermeria quando durante la Prima Guerra Mondiale il convento diventa un ospedale delle retrovie. La situazione cambia quando nel 1902 Giuseppina viene spostata in portineria, diventando il volto che le canossiane di Schio offrono al mondo esterno: è un volto sorridente, ma davvero inusuale, che richiama perfino scolaresche in visita d'istruzione. I concittadini la chiamano Madre Moreta e se non si aspettano da lei espliciti miracoli (una portinaia nera a Schio è già un piccolo miracolo), comunque in un qualche modo reclamano che un volto così diverso dal solito si carichi di un senso, renda testimonianza su un continente lontano che forse Giuseppina non ricordava volentieri.

Le canossiane decidono di scriverci un libro, che si ristampa varie volte e che più che a raccontare la sua lagrimevole storia serve a sensibilizzare il pubblico sulla necessità di sostenere le opere missionarie: una canossiana di ritorno dalla Cina la porta con sé in un tour di conferenze in tutt'Italia, che fanno il pieno di pubblico perché sul palco c'è anche la suora nera, che non parla molto (il dialetto veneto in effetti rovina un po' l'effetto esotico), ma insomma, è nera. Non una cosa che si vede tutti i giorni – e a differenza che al circo, alle conferenze missionarie non si paga il biglietto. Il gusto per l'esotico del resto è quello che porta migliaia di giovani volontari in Abissinia, dove a sentire le canzoni è pieno di faccette nere che non vedono l'ora di sorridere ai liberatori. Nel 1936 Giuseppina accompagna a Roma una delegazione di missionarie che prima di partire per Addis Abeba vanno a salutare Mussolini. Le faccette nere però, ora che sono suddite dell'impero, fanno meno tenerezza. Anzi occorre scongiurare che i soldati contraggano matrimoni misti: si è appena scoperto che l'italianità è una razza che va difesa dalle impurità. Può essere solo una coincidenza, ma proprio nel 1837 Giuseppina viene spostata dal convento di Schio e si ritrova in Lombardia, a Vimercate. Anche lì però viene collocata in portineria: si vede che era una portinaia veramente brava, o che alle canossiane non dispiaceva quel particolare tipo di attenzione che attirava. Nel 1939, malata, ottiene di tornare a Schio dove si spegne l'otto febbraio del 1947. 

Giuseppina è stata beatificata nel 1992. Non ha fondato conventi né scritto meditazioni; stava in portineria, sorrideva e nemmeno faceva i miracoli, almeno in vita. Quello necessario alla sua canonizzazione lo ha fatto a una signora brasiliana diabetica, a cui stavano per amputare le gambe. Chissà quante sante e quante beate avrà invocato: Bakhita ha funzionato, e così al termine di un processo abbastanza rapido è stata canonizzata da Giovanni Paolo II. Di sé stessa diceva: "Mi son on povero gnoco, come i gha fato a tegnerme in convento?"

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Inginocchiarsi per chi, per cosa

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Le foto sono strumenti potenti, ma non dicono necessariamente la verità. Le foto che immortalarono il podio olimpico dei 200 metri all'Olimpiade del 1968 mostrano due atleti neri col braccio alzato e il pugno chiuso – anche se non sappiamo ancora quanto il gesto costerà a entrambi, intuiamo di trovarci davanti a un gesto forte di protesta. A rendere l'immagine così potente è soprattutto il contrasto col terzo atleta, bianco e apparentemente indifferente: è lui a creare l'asimmetria necessaria. Il bianco guarda avanti, i neri protestano. Per innalzare quelle mani guantate serve così tanta forza di volontà che a Tommie Smith e John Carlos non ne resta per alzare la testa: sanno di essere vittime sacrificali ma fanno quel che è giusto fare, e poi sia quel che sia. Dopo aver visto queste foto è facile provare un moto d'odio per Peter Norman, il velocista australiano medaglia d'argento che guarda avanti e pare inconsapevole. È inevitabile ma è anche un errore: Norman non solo simpatizzava coi due colleghi e collaborò alla loro protesta (pagando anch'egli un prezzo alto); ma fu proprio lui a suggerire a Smith e Carlos di alzare in quel modo i pugni che, se ci fate caso, sono complementari: uno alza il destro e uno il sinistro.

John Carlos, Tommie Smith, Peter Norman (pubblico dominio).
John Carlos, Tommie Smith, Peter Norman (pubblico dominio).


In effetti l'idea originaria era di alzare insieme pugni destri e sinistri, in una posa che avrebbe potuto essere scambiata per quella dell'atleta trionfante: a rendere esplicita la protesta nei confronti del segregazionismo USA sarebbero stati i guanti neri – oltre alla coccarda del movimento che promuoveva la protesta, l'Olympic Project for Human Rights. Carlos però si era scordato i guanti al villaggio olimpico. Fu Norman a suggerire a Smith di prestargli uno dei suoi: forse da australiano gli sfuggiva l'ostilità del pubblico mainstream americano nei confronti della gestualità del pugno chiuso, da decenni associata all'antagonismo di sinistra. Quello che invece Norman colse al volo è che mostrare i pugni spettava solo ai due colleghi: la loro protesta era giusta, ma era la loro protesta. Un pugno bianco e non guantato l'avrebbe soltanto annacquata. Norman si accontentò di indossare la coccarda dell'Olympic Project: tanto gli bastò per essere squalificato dalla federazione australiana. Ma perché mi sono messo a raccontare di un episodio di protesta sportiva di più mezzo secolo fa?

Molti lettori potrebbero averlo già capito (in fondo sono lettori del Post). Magari l'intento è confrontare le epiche e iconiche proteste del passato – quando alzare un pugno ti costava la carriera – con la situazione presente in cui ogni azione diventa immediatamente standardizzata e pigra, al punto che agli Europei non si capisce nemmeno più se il gesto veramente politico sia inginocchiarsi o no. Ecco, sì, forse volevo scrivere un pezzo del genere, ma come la metto con Colin Kaepernick? Come faccio a definire 'pigro' il gesto che ha inventato e che gli è costato una carriera professionistica nel football americano, non nel 1968 ma dal 2017 in poi? Quando Kaepernick smise di alzarsi durante l'inno nazionale Trump si era appena insediato alla Casa Bianca e i media stavano documentando una inquietante recrudescenza degli episodi di violenza delle forze dell'ordine nei confronti dei cittadini afroamericani (chi ricollega il gesto al più tardo assassinio di George Floyd sta già facendo della mitologia). In una prima fase Kaepernick rimaneva semplicemente seduto: un gesto di rottura molto forte nei confronti di una ritualità particolarmente consolidata negli USA, dove vige tuttora un rispetto religioso per simboli unificanti come l'Inno e la Bandiera. Ai giornalisti che glielo domandarono rispose senza mezzi termini: "Non mi alzerò per mostrare orgoglio per la bandiera di un Paese che opprime la gente nera e la gente di colore. Per me questo è più importante del football, e sarebbe egoista da parte mia guardare da un'altra parte. Ci sono morti nelle strade e gente stipendiata che uccide e la passa liscia". In seguito, dopo una serie di discussione con colleghi e veterani, Kaepernick decise di non restare seduto durante l'inno, ma di inginocchiarsi.


Il gesto nasce quindi da un compromesso: Kaepernick non intendeva offendere chi serve con orgoglio la sua nazione, ma continuava a far presente che questo orgoglio non poteva condividerlo. Così codificato, il gesto cominciò a essere imitato da alcuni colleghi, ma soprattutto divenne un'ossessione per Trump, che a più riprese chiese il licenziamento per chi lo praticava. Kaepernick probabilmente passerà alla Storia, proprio come Carlos e Smith: nel frattempo però ha smesso di giocare; nessuna squadra l'ha più cercato. Protestare è ancora un gesto rischioso, quando la causa è controversa e il pubblico non è pronto – ovvero, in tutti i casi in cui protestare ha veramente senso. Ecco, forse ora è chiaro dove sto andando a parare: quello che è nato negli USA all'interno di un movimento preciso (Black Lives Matter) con richieste precise (eliminare la violenza poliziesca soprattutto nei confronti della comunità afroamericana), forse in Europa è arrivato un po' di rimbalzo, più che per emulazione che per una reale esigenza sociale. Sto veramente arrivando lì? Perché non è molto lontano da quel che potrebbero dichiarare Orban e Salvini sull'argomento. Faccio ancora in tempo a correggere un po' la rotta?

A quanto pare i primi a inginocchiarsi in Europa sono stati i calciatori della Premier League – come sempre la Gran Bretagna è il filtro da cui ci arriva la cultura americana, un filtro tutt'altro che neutro. Inginocchiarsi su un campo di calcio inglese è un gesto irrituale, ma senza quella punta di blasfemia e vilipendio che veniva percepita sugli spalti degli stadi americani; la pratica si ispira esplicitamente al movimento Black Lives Matter, ma spostando l'obiettivo verso un più generico antirazzismo. Se è comunque abbastanza chiaro per cosa si stiano inginocchiando i calciatori inglesi, è un po' più difficile capire contro chi. Il bersaglio polemico non sembra più l'autorità costituita e le sue forze di polizia; in molti casi sembra che l'avversario sia il pubblico, le frange di tifosi che in effetti talvolta reagiscono fischiando. È uno scenario molto più vicino a quello degli spettatori italiani: la tensione tra squadre sempre più meticce e tifosi sempre più identitari o razzisti. A ogni contestazione, il sindacato dei calciatori professionisti ribadisce che i suoi iscritti continueranno a inginocchiarsi e che il pubblico questa cosa la deve accettare; insomma inginocchiarsi è un modo di chiedere al pubblico: da che parte stai? Anche in questo caso dietro al successo di un gesto di protesta c'è una negoziazione: inginocchiarsi è un gesto semplice, non rovina lo spettacolo e crea senz'altro meno tensioni e strascichi di altri (pensate ai casi in cui un calciatore o un'intera squadra reagisce ai cori razzisti ritirandosi dal campo e incorrendo in una squalifica).

Più che un gesto di protesta, in Europa l'inchino diventa un gesto identitario: appoggiare il ginocchio significa dichiarare rapidamente il proprio antirazzismo. Ed eccoci agli Europei, dove – contrariamente a quello che si sente in giro – nessun organo ufficiale ha chiesto ai calciatori di inginocchiarsi. I calciatori inglesi hanno fatto sapere che lo avrebbero fatto, gli scozzesi hanno scelto di farlo in occasione di Inghilterra-Scozia; altre nazionali sono andate in ordine sparso; la UEFA si è limitata a chiedere rispetto per chi decideva di inginocchiarsi. Nel frattempo però l'argomento ha raggiunto le prime pagine, forse perché la fase a gironi non è così eccitante (se a Cristiano Ronaldo basta spostare una bottiglietta per far discutere un paio di giorni). Con un'inversione tipica delle guerre culturali contemporanee, la scelta identitaria è diventata quella di non inginocchiarsi: persino Orban ha dedicato un po' del suo tempo a spiegare perché i calciatori ungheresi non sono tenuti a farlo. In effetti chi si inginocchia sta ancora protestando, o si sta limitando a citare in favore di videocamera un gesto ormai estrapolato dal contesto originario? La forza del movimento Black Lives Matter risiedeva anche nel modo in cui circoscriveva la sua protesta. Non un generico antirazzismo, ma le Vite dei Neri Contano: uno slogan che non a caso gli avversari hanno cercato di scimmiottare per depotenziarlo, con lo slogan All Lives Matter. La standardizzazione dell'inchino pre-partita corre forse lo stesso rischio: chi si inchina rischia di non sapere perché lo fa. Senz'altro non per chiedere il taglio dei fondi alla polizia americana, come chiedono gli attivisti BLM: e allora per cosa? Se è un gesto che si limita a definire un'identità, il rischio è che si trasformi in una ritualità vuota, l'ennesima pratica di virtue signaling un po' fine a sé stessa; col non trascurabile effetto collaterale di far emergere, per contrasto le posizioni di chi rivendica a voce alta il rifiuto dell'inchino, l'insofferenza per un antirazzismo imposto dall'alto più con la pressione mediatica che con la forza degli argomenti.

Spero di non essere frainteso (ma è inevitabile): sono contento se molti calciatori si sentono antirazzisti e vogliono testimoniarlo sul campo; ovviamente preferirei che avessero obiettivi chiari e non un generico antirazzismo d'importazione, visto che anche in Italia c'è molto da fare (pensate se qualche calciatore italiano s'inginocchiasse per le vittime delle forze dell'ordine italiane o per le vittime del razzismo italiano: pensate che scandalo vero sarebbe). Mi dispiace che tutto debba sempre essere importato acriticamente dall'America, non perché gli americani non abbiano ottimi motivi per protestare come protestano, ma perché sono motivi che non capiamo e comunque non sono i nostri. Ho la sensazione che l'inchino in Italia venga percepito come il blackface, cioè una cosa che non si è capito come funziona tranne che se ti sbagli tutto il resto del mondo ti dà del razzista e quindi anche chi non capisce prima o poi si adegua – laddove capire sarebbe sempre la cosa più importante. Trovo controproducente la pressione mediatica che sospinge giornalisti e politici a etichettare come razzisti i calciatori che rimangono in piedi e che magari semplicemente hanno le idee confuse (anche i calciatori a volte possono averle confuse). I gesti di protesta dovrebbero fare scalpore e generare emulazione, come successe a Carlos, Smith e a Kaepernick; se invece diventano divisivi, rischiamo che un sacco di gente si ritrovi sul lato dei razzisti semplicemente perché erano in piedi quando abbiamo fatto le squadre. Quando vedo un gruppo di calciatori un po' in ginocchio e un po' no, cerco di combattere l'impulso a dividerli in buoni e cattivi; lo stesso impulso che mi faceva odiare Peter Norman, quando ancora non conoscevo la sua storia e l'equilibrio con cui seppe stare dalla parte dei giusti senza togliere loro l'onore della ribalta.

 

(Quasi dimenticavo: oggi 23 giugno ricorre la festa dei 1003 Santi Martiri di Nicomedia, che si presentarono davanti all'imperatore Diocleziano per testimoniare la loro fede, e Diocleziano li fece ammazzare tutti e 1003. Giusto per ribadire che protestare è sempre stato pericoloso. Chi non rischia qualcosa non sta protestando davvero. Vale per tutti noi, in ginocchio o dritti in piedi).

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Facce nere e teste dure

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Ogni tanto mi riviene voglia di scrivere un pezzo sulla blackface – poi mi trattengo, mi dico: aspetta l'occasione all'altezza. Non farti stimolare dall'ultima scemenza. Il problema è che la blackface è una scemenza, per definizione – o la fai consapevolmente, e allora sei scemo, oppure ci caschi senza saperlo, e allora ormai sei scemo lo stesso. Poi ci sono certi choc culturali impensabili prima dei Social Network, ad esempio Diet Prada che scopre le caramelle tabù. Ma il più delle volte si tratta semplicemente di un equivoco idiota a proposito di un idiota che non capisce un equivoco, e qui non credo ci sia bisogno di spiegare a che Ministro dell'Interno sto pensando.


Dettaglio imbarazzante: quando si parla di Blackface provo sempre una punta di immotivato orgoglio. Credo di essere stato uno dei primi ad averne parlato in Italia in un dibattito mainstream, o forse non era proprio mainstream ma insomma era sul Post, e io non ero un sociologo o un antropologo ma semplicemente un blogger. È successo qualche anno fa: sembrano secoli. La cosa più buffa, o comunque interessante, è che non evocai il concetto di Blackface per spiegarlo, ma perché mi serviva un esempio di come funzionava il modello della tolleranza in Nordamerica, e perché il nostro è completamente diverso. Cioè nel 2015 se mi capitava di parlare di Blackface era per spiegare quanto diversi da noi fossero gli americani, e in che modo la loro diversità (che non capivamo) avrebbe potuto fornirci un esempio diverso per capire la situazione in cui ci eravamo cacciati con... le vignette su Maometto. Ve le ricordate le vignette su Maometto? Una volta non si parlava d'altro, giuro. Fino all'anno scorso su questo blog c'erano più pezzi sulle vignette antimaomettane che sulle canzoni dei Beatles, l'avreste detto mai.

Un'immagine di Tom e Jerry censurata dai network tv USA. 
(La prima volta che la usai per corredare un pezzo, trovavo la cosa piuttosto assurda: adesso no, non faccio più nessuna fatica a capire quanto quei labbroni e quelle treccine possano risultare offensivi). 

Faccio un breve riassunto per chi è nato nel frattempo: negli anni Zero si sviluppò un dibattito giornalistico sull'opportunità o no di disegnare il profeta dell'Islam, e in particolare in vignette satiriche. Questo in una situazione in cui la comunità islamica (sempre più importante in Europa) insisteva abbastanza compattamente sul fatto che raffigurare il volto di Maometto, anche in situazioni non satiriche, fosse blasfemo e offensivo. Il che portò alcuni difensori della libertà di parola e di stampa su posizioni islamofobe, e molti islamofobi a diventare improvvisamente difensori della libertà di parola e di stampa. Fu insomma una delle occasioni in cui prese forma, anche in Europa, quel blocco libertario di destra che negli USA è poi diventata la base del consenso di Trump. Dal canto loro gli integralisti islamici non persero l'occasione per accreditare l'immagine più oscurantista della loro religione: la rivista satirica Charlie Hebdo fu vittima di due attentati; nel secondo la redazione fu massacrata. Ovviamente la stampa europea rispose ribadendo il principio della libertà di stampa e di espressione, mentre dagli USA arrivavano reazioni molto più sfumate: non era affatto impossibile, dall'altra parte dell'Atlantico affermare che i vignettisti francesi se la fossero cercata. Un approccio del genere – cercavo di spiegare – dipendeva dal modo in cui in Nordamerica le minoranze avevano lottato per trovare un modus vivendi, anzi convivendi. E a questo punto mi veniva spontaneo fare l'esempio del Blackface, in quanto tabù arbitrario, imposto da una minoranza e accettato come tale:

Quella che spesso chiamiamo “l’ossessione del politically correct” (incoraggiati in questo dagli stessi americani, che per primi ne vedono i parossismi), è una mentalità che muove da secoli di continue rinegoziazioni tra tribù (wasp, cattolici, afroamericani, latinos). Negli USA, come noto, tingersi il volto di nero per fingersi afroamericano è considerato un gesto razzista, non necessariamente sanzionabile ma universalmente esecrato. Le ragioni per cui si è arrivati alla codifica di questa specie di tabù sono complesse a affascinanti, ma interessano fino a un certo punto: l’importante è che a un certo punto una comunità etnica definita ha isolato un simbolo (il blackface) e ha piantato un paletto: questa cosa ci offende. Magari non sarà vietata dalla legge, ma se voi ci offendete noi boicotteremo i vostri prodotti, i vostri programmi, e non voteremo per voi.

Col senno del poi forse davo troppo per scontato che qui da noi si sapesse di cosa stavo parlando; negli anni successivi ho perso il conto (giuro, ho perso il conto) degli episodi in cui qualche vip italiano è cascato nel tranello. Tre o quattro volte anche solo Dolce e Gabbana. Oggi forse ormai si è capito cos'è la blackface, ma ho il sospetto che si sia soltanto ingrandito un equivoco. Sempre più persone hanno capito che si tratta di una situazione che è percepita come offensiva da una minoranza. Quel che sfugge, e continua a sfuggire, è l'aspetto arbitrario del fenomeno. Non è che la blackface non abbia una storia (così come il divieto di raffigurare il volto del Profeta), ma il motivo per cui è diventata un tabù è che una comunità ha scelto di individuarla come tale, puntando una bandiera su un terreno semiotico e avvertendo le altre comunità: da qui non arretreremo. La tolleranza americana è la prosecuzione della guerra razziale sul campo delle immagini e dei simboli: ogni tabù è una prova di forza. Il fatto che qualche italiano si stia vergognando per i fotomontaggi di un ministro degli Esteri molto abbronzato può sembrare un equivoco, anzi lo è, ma è anche la dimostrazione che la comunità afroamericana è riuscita a esportare i suoi tabù persino in uno dei Paesi europei dove si capisce meno l'inglese. Sarei tentato di usare il vecchio termine "imperialismo culturale", non fosse per un dubbio: ma se sono così forti, gli afroamericani, com'è che non riescono a impedire di farsi sparare per strada? (Magari continua).
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Esdra e l'invenzione d'Israele

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13 luglio - Esdra (V secolo a.C.), sacerdote.

[2014]. I mormoni che nel 1846 fuggirono dall'Illinois per fondare una nuova patria sulle rive del Grande Lago Salato. I giamaicani che a partire dagli anni Sessanta si trasferiscono a Shashamane (Etiopia) per stare più vicini a Ras Tafari, l'imperatore Hailé Selassié. Gli adepti del reverendo Jim Jones, pronti a seguire il loro Messia fino in Guyana, e poi all'altro mondo. Tutta questa gente che lascia la propria terra per arrivare in un'altra, dove quasi mai scorrono il latte e il miele promessi - tutta questa gente non sta improvvisando, il canovaccio è vecchio di migliaia di anni, ma chi l'ha scritto? È abbastanza impossibile saperlo, ma probabilmente è meno antico di quanto crediamo. Mosè dovrebbe essere vissuto più o meno verso la metà del secondo millennio avanti Cristo, ma gli storici ormai propendono per considerarlo un personaggio fantastico. Lo scontro col faraone, primo esempio storico di vertenza sindacale (finita malissimo), sarebbe un'invenzione molto posteriore, che riecheggerebbe un altro esodo, questo sì realmente accaduto: la deportazione babilonese. Proprio a Babilonia verso il sesto secolo prenderebbero forma le Scritture ebraiche, rielaborate intorno a nuclei più antichi. Come se gli Ebrei nascessero già in diaspora: con la consapevolezza di essere sparsi per il mondo, disuniti e perennemente minacciati nella loro stessa esistenza.

Trent'anni di lobbying e appena arrivate qui vi accoppiate coi nativi. È sconfortante.
Trent'anni di lobbying per ottenere una provincia autonoma,
e appena arrivate qui vi accoppiate con le indigene. È sconfortante.

A Babilonia, nel VI secolo, gli Ebrei cominciano a raccontarsi storie sul loro passato; storie che valgano la pena di provvedere a un futuro. Decidono di essere stati, prima delle invasioni assire e babilonesi, una grande nazione, guidata da grandi re: David e Salomone. Alla promiscuità di quest'ultimo viene imputata la decadenza successiva; ai peccati e alla disobbedienza di popolo e regnanti la divisione in due regni e le ripetute sconfitte, culminate con la deportazione. Ma se la diaspora è la punizione che Dio ha inflitto a un popolo disobbediente, il premio per un popolo obbediente non può essere che l'inverso: una Terra Promessa.

Ciro, lo Scià di Persia, che in una fase di recessione economica globale ha rilevato i resti dell'impero Babilonese, sembra sensibile all'argomento: la Palestina è un avamposto remoto, ma importante: un passaggio obbligato per le carovane dirette verso l'Egitto. Quando una lobby che rappresenta un gruppo di fedeli di un Dio di quella regione, un certo YHWH, gli propone di tornare là e cominciare a fortificare la zona, imponendo la pace imperiale alle burrascose tribù autoctone, Ciro sottoscrive l'editto, chissà se ci avrà pensato più di tanto. Era il Re dei Re, in quella mattinata gli capitò di suggellare tante altre tavolette o papiri che credeva assai più importanti, decisioni che avrebbero dimostrato ai posteri la sua illuminata potenza. Altro che le beghe di una piccola regione periferica, di cui nessuno probabilmente si sarebbe ricordato da lì a trent'anni...

L'Esdra biblico è un personaggio appena abbozzato; compare in un paio di scene, e non se ne sa più nulla. Il suo libro è tra i più frammentari e rimaneggiati del canone biblico. Una specie di backdoor ben occultata; se riusciamo a trovarla possiamo guardare le Scritture dal lato di chi le ha scritte. La storia si capovolge; Mosè diventa una proiezione di Esdra; l'esodo dall'Egitto è il ritorno a Gerusalemme; i popoli sterminati da Giosuè alludono ai popoli con cui il nuovo Israele non doveva mescolarsi; il Primo Tempio è un sogno concepito intorno al Secondo; il Faraone che insegue i suoi manovali è l'immagine specchiata dello Scià Ciro che lascia partire volentieri una tribù stanca di vivere mescolata alle altre.

Il sacerdote Esdra non è tra i primi ebrei che tornano a casa. Non assiste ai primi tentativi di costruire il tempio; non c'è quando i nemici cominciano a tramare e a mandare messaggi allarmisti alla corte del nuovo Scià, Dario. Esdra arriva anche venti anni più tardi, verso il 500. Porta con sé i rotoli della Legge, di cui darà solenne lettura davanti a tutto il popolo: la storia di un Mosè che aveva guidato i suoi fedeli fuori dall'empio Egitto, e di un Giosuè che li aveva ricondotti nella Terra Promessa, sterminando dietro richiesta divina i suoi indegni abitanti.
Alcuni gruppi concepirono anzi ed impostarono il nuovo esodo come un'impresa basata su una sorta di organizzazione para-militare e con forte conflittualità verso i gruppi residenti. La visualizzazione del popolo in marcia attraverso il deserto deve qualcosa a questa impostazione para-militare; ma deve anche qualcosa (e forse molto) all'esperienza delle deportazioni imperiali. Già la promessa divina del tipo "io vi farò abitare in un paese in cui scorre il latte e miele" è significativamente consonante con l'assicurazione del rab-saqe assiro di dare a chi si sottomette la possibilità di andare ad abitare in un paese fertile e produttivo. Altrettanto indicativo è il timore serpeggiante nel popolo in marcia, di non trovare nella terra di destinazione condizioni di vita adeguate alle promesse e alle speranze - timore che riflette lo stato d'animo di chi nella diaspora doveva decidere se affrontare o meno i rischi del rientro. E soprattutto gli elenchi o censimenti (Num. 2; 26) del popolo diviso per gruppi familiari e per clan risentono di un tipo di registrazione amministrativa che veniva applicata ai gruppi di deportati, al fine di controllarne il numero (nonché le inevitabili perdite in corso di trasferimento) e le mete finali (Mario Liverani, Oltre La Bibbia, Laterza, 2003). 
Esdra porta con sé un'ulteriore ideuzza destinata ad avere, anch'essa, una lunga fortuna: la purezza etnica. La prima cosa che fa quando arriva è stracciarsi le vesti in segno di protesta: i capifamiglia gli hanno appena accennato il problema dei matrimoni misti.
Udito ciò, ho lacerato il mio vestito e il mio mantello, mi sono strappato i capelli e i peli della barba e mi sono seduto costernato. Quanti tremavano per i giudizi del Dio d'Israele su questa infedeltà dei rimpatriati, si radunarono presso di me.
Matrimonio Israele
È tuttora una questione spinosa.


Esdra rimane seduto e costernato diverse ore, fino al sacrificio serale. Poi cade in ginocchio e prorompe: "Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare, Dio mio, la faccia verso di te, poiché le nostre colpe si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa; la nostra colpevolezza è aumentata fino al cielo" e bla bla bla, insomma stava andando tutto bene, e che mi fanno? Cominciano a sposarsi con le donne del luogo. Ora non dico che vadano sterminate – come c'è pur scritto che avremmo fatto un millennio fa in quel rotolo che abbiamo messo assieme a Babilonia – ma sposarle, farci i figli... l'assimilazione culturale... e nel giro di due o tre secoli finisce che mangiamo maiale pure noi, e poi come faranno gli archeologi del Duemila a capire se in tale insediamento ci stavano i canaaniti o gli israeliti? [sul serio, l'unica differenza spesso sta nei resti di ossa di maiale].
Ma ora, che dire, Dio nostro, dopo questo? Poiché abbiamo abbandonato i tuoi comandi che tu avevi dato per mezzo dei tuoi servi, i profeti, dicendo: Il paese di cui voi andate a prendere il possesso è un paese immondo, per l'immondezza dei popoli indigeni, per le nefandezze di cui l'hanno colmato da un capo all'altro con le loro impurità. Per questo non dovete dare le vostre figlie ai loro figli, né prendere le loro figlie per i vostri figli; non dovrete mai contribuire alla loro prosperità e al loro benessere, così diventerete forti voi e potrete mangiare i beni del paese e lasciare un'eredità ai vostri figli per sempre...
Va avanti così per molti altri versetti, ma insomma il senso è chiaro. Mentre piange e si dispera, intorno a lui si forma un crocchio di fedeli che cerca di consolarlo. Alla fine uno di loro (Secania, figlio di Iechiel) prende la parola: dai Esdra, possiamo ancora salvarci. Che ne dici se divorziamo tutti quanti in una volta, e rimandiamo le nostre mogli infedeli ai loro genitori? E i figli? Anche i figli naturalmente. Al che Esdra, snif, si calma un po': dite che è possibile? Massì, Esdra, che ci vuole. Un bel divorzio collettivo, magari per ogni moglie offriamo anche un ariete in sacrificio. E va bene, mi avete convinto. Ma d'ora in poi guai a chi sgarra."Con Ezra", spiega ancora Liverani, "si conclude l'elaborazione della Legge, si chiude anche l'elaborazione storiografica, cessano di agire i profeti, il sacerdozio di Gerusalemme ha pieni poteri".

Lo Utah dei mormoni, l'Etiopia dei rastafariani, la Guyana di Jim Jones. Tutte queste terre promesse, senza Esdra, ci sarebbero state? Probabilmente sì; è difficile immaginare che un oscuro sacerdote ebraico-babilonese a cavallo tra sesto e quinti secolo a.C. sia la causa di tutto. Più probabilmente è solo il primo sintomo di qualcosa che ci portiamo dentro: il retaggio di millenni di nomadismo, una propensione ancestrale ad andarcene da qualche parte dove finalmente saremo soli, saremo puri, saremo noi. Poi ci arriviamo e c'è sempre qualcun altro.
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Il juke-box dell'indignazione (appunti)

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In questi giorni si parla di nuovo di statue giuste e ingiuste. Se ne parlerà ancora magari per una mezza giornata, poi ci annoieremo e non se ne parlerà più per qualche mese o un anno: finché ci accorgeremo che in qualche altro Paese le buttano giù. Allora ci rimetteremo anche noi a parlarne, senza nessun motivo che non sia che appunto, ne parlano altrove: c'è un hashtag che arriva da New York, c'è un video su Instagram che viene dalla California, e quello di cui discutiamo dipende soprattutto da questo. Per certi versi siamo più succubi del dibattito americano oggi che venti o trent'anni fa.


Lo trovo buffo perché gli USA per tanti versi mi sembrano molto più lontani oggi che venti o trent'anni fa. Il primo esempio che mi viene è la musica: chi segue le classifiche dei brani più venduti e ascoltati sa che quella italiana da qualche anno è quasi completamente autarchica. Dei divi pop americani e inglesi sentiamo ancora parlare molto sui media ma le loro canzoni le ascoltiamo sempre meno – soprattutto i più giovani. C'entra anche il fatto che le canzoni sono sempre meno originali da un punto di vista musicale e sempre più parlate, il che porta non solo gli italiani a preferire il prodotto realizzato nella lingua madre, per quanto ricalcato sui modelli americani. Il che significa anche: rispetto a vent'anni fa magari li copiamo di più ma li capiamo di meno. E anche chi l'inglese in teoria lo sa, lo legge, lo ascolta sottotitolato nelle serie in streaming – non può a volta fare a meno di domandarsi se quel che succede a noi ha un senso o è solo un calco troppo letterale di cose che non capiamo del tutto. 

Ad esempio: negli USA un crimine di polizia risveglia il movimento Black Lives Matter, e noi improvvisamente cominciamo a inginocchiarci per la minoranza afroamericana – per carità tutto giusto, ma non potremmo cominciare dalle nostre minoranze, quelle che restano più spesso vittima del nostro razzismo e dei crimini delle nostre forze di polizia? Domanda abbastanza retorica, scusate. Poi scopriamo che negli USA i manifestanti se la prendono con una statua di uno schiavista o di un esploratore e improvvisamente anche noi ci rimettiamo a discutere di una statua – col piccolo problema che statue di schiavisti non ne abbiamo. Ne abbiamo anche poche dei fascisti (del periodo c'è rimasta più architettura che statuaria, e quella è più problematica da rimuovere). E quindi?

E quindi tiriamo fuori il solito Montanelli. Sul quale non ho molto da aggiungere a quanto ho scritto un anno fa, salvo che nel frattempo Severgnini mi ha convinto: quella statua va proprio abbattuta. Non che io abbia letto tutto il pezzo di Severgnini eh? Mi dispiace, dev'esserci un paywall. Mi è bastato il boato delle reazioni, e in generale non apprezzo questa cosa di mandar fuori Severgnini a minimizzare crimini di guerra, manco fosse la Fallaci in stadio terminale: non credo che sarà ricordata come una pagina gloriosa del giornalismo italiano: facciamo che almeno sia l'ultima, buttiamo via il bronzo e non pensiamoci più. Altrimenti tra dieci mesi, un anno, saremo di nuovo lì, sapete? E la prossima volta chi immoleranno? Galli della Loggia? Panebianco? Tiratela giù, date retta. Mettiamola così: o tirate giù una statua che sta diventando un'autocelebrazione insensata del giornalismo italiano (che nessuno a parte i giornalisti italiani sentono la necessità di celebrare), o almeno tirate giù quei paywall che tra un po' nessuno vorrà darsi la pena di scavalcare legalmente.

Rimane il fastidio per una questione che si ripresenta a ondate, e le ondate partono sempre da quel posto oltreatlantico la cui musica ci interessa sempre meno, ma l'indignazione, ehi, con l'indignazione stiamo negli anni '50, è come se avessimo i juke-box coi dischi d'importazione: questa settimana vogliono tutti indignarsi per lo schiavismo, qualche tempo fa non si parlava che di abusi sessuali ecc. ecc. Ora non vorrei essere frainteso (ma so che è inevitabile): sono tutte questioni gravi di cui è sacrosanto parlare, però sarebbe bello che l'agenda ce la scrivessimo da soli, con le nostre scadenze e le nostre necessità, senza andare a rimorchio di hashtag, senza complessi di inferiorità per una civiltà che non è la nostra, e a volte semplicemente non capiamo.

Che è poi il principale guaio con gli americani: siamo così abituati a vederli sugli schermi che li troviamo familiari – molto più di cinesi, indiani, ma persino tedeschi – salvo che è una falsa familiarità. Ad esempio, quando parlano di statue, loro fanno riferimento a un paesaggio urbano e a un modello sociale molto diverso dal nostro. Loro hanno davvero migliaia di statue che rappresentano schiavisti o altre figure controverse. E le hanno perché la loro società nasce dall'incontro/scontro tra diverse comunità che in momenti diversi hanno deciso hobbesianamente di venire a patti invece di ammazzarsi. Lungi dal rappresentare una "storia condivisa", i loro monumenti sono una prosecuzione della guerra civile con altri mezzi. Così i bianchi del sud innalzano statue ai condottieri sconfitti della Confederazione, i nativi americani conservano il sogno di un Crazy Horse Memorial che superi in altezza il Monte Rushmore, e gli italoamericani si erano scelti Colombo. È una guerra fredda civile che si è estesa anche al linguaggio: il "politically correct" non è un codice imposto da una casta di altezzosi intellettuali, ma un protocollo di armistizio perpetuamente in discussione: una minoranza chiede che una parola sia considerata inaccettabile, le altre comunità decidono di accettare la cosa e il protocollo viene aggiornato. Il dibattito non passa per il dipartimento linguistica perché è una questione politica, appunto, non linguistica.

È il concetto nordamericano di tolleranza: almeno chi si riempiva la bocca di Tocqueville ai tempi dell'Esportazione della Democrazia dovrebbe averne notato le differenze rispetto a quello dell'Europa continentale – dove vige, tutto sommato, la logica giacobina per cui chi vince una rivoluzione si prende tutto lo spazio monumentale, abbatte tutto quello che non riesce a riconvertire e fa spazio per monumenti nuovi, mentre chi perde sta fermo un giro e aspetta la rivoluzione successiva. (L'ho chiamata "giacobina" ma forse è una logica più antica, se la Chiesa a un certo punto riconvertì pure il Colosseo). Questo non significa che non abbiamo monumenti discutibili, ma ne abbiamo molti meno e la loro funzione identitaria è più sfumata. Per contro, vivendo intorno a centri urbani di origine medievale, siamo forse ossessionati dalla durata, e ci basta un secchio di vernice su una statua per paventare una damnatio memoriae. Non credo che Montanelli verrà dimenticato se gli tirano giù la statua, anche se confesso di provare una certa nostalgia per quando era un essere vivente che si poteva criticare per le sue opinioni e non un feticcio da condannare per crimini di guerra di mezzo secolo prima ripescati da un dossierino. Poi ripeto: credo che sarebbe utile distinguere la pedofilia (che è un orientamento sessuale) dalla mentalità razzista e criminale dei membri dell'esercito coloniale italiano. Ma sembra sia una distinzione troppo raffinata per l'internet, pare che non sia il momento per i sottili distinguo, bisogna tutti indignarsi e abbattere statue. Potrei anche accettarlo, eh? I movimenti alla fine sono così, spontanei e sommari.

Poi dopodomani in America qualcuno libera un campo di concentramento di visoni, e alè, tutti spontaneamente e sommariamente a liberare i visoni. E se non ne abbiamo? Cessate la caccia alle nutrie! come abbiamo potuto tollerare fino a ieri questa barbara usanza?
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Still I Rise

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You may write me down in history
With your bitter, twisted lies,
You may trod me in the very dirt
But still, like dust, I'll rise.

Does my sassiness upset you?
Why are you beset with gloom?
’Cause I walk like I've got oil wells
Pumping in my living room.

Just like moons and like suns,
With the certainty of tides,
Just like hopes springing high,
Still I'll rise.

Did you want to see me broken?
Bowed head and lowered eyes?
Shoulders falling down like teardrops,
Weakened by my soulful cries?

Does my haughtiness offend you?
Don't you take it awful hard
’Cause I laugh like I've got gold mines
Diggin’ in my own backyard.

You may shoot me with your words,
You may cut me with your eyes,
You may kill me with your hatefulness,
But still, like air, I’ll rise.

Does my sexiness upset you?
Does it come as a surprise
That I dance like I've got diamonds
At the meeting of my thighs?

Out of the huts of history’s shame
I rise
Up from a past that’s rooted in pain
I rise
I'm a black ocean, leaping and wide,
Welling and swelling I bear in the tide.

Leaving behind nights of terror and fear
I rise
Into a daybreak that’s wondrously clear
I rise
Bringing the gifts that my ancestors gave,
I am the dream and the hope of the slave.
I rise
I rise
I rise.


[Ho sempre trovato buffo che il capolavoro di Ben Harper fosse una canzone in cui non suona la chitarra. Nemmeno le parole sono sue, ma di una poetessa che è un personaggio abbastanza incredibile, Maya Angelou. In altri casi quando una cosa mi piace molto provo a tradurla; qui oltre alla famosa questione dell'appropriazione culturale c'è proprio lo scoglio di quel verbo, rise, che in inglese suona spontaneo sia che si tratti di polvere scossa da uno straccio sia di un popolo che si ribella. Qualsiasi equivalente italiano mi suona falso o letterario, un bel problema: ma non il problema di cui si parla qui].
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Superuomini scandinavi sempre nostri superiori

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Non ho molto tempo per scrivere in questi giorni, e anche se l'avessi nessuno mi pubblicherebbe pezzi su uno degli argomenti che mi sta intrigando di più, ovvero la Svezia. Quel fenomeno tutto particolare per cui nel momento in cui gli svedesi stanno raggiungendo il record continentale dei contagi, c'è ancora qualche italiano sulla mia bacheca social che dice che loro hanno capito tutto, avremmo dovuto fare come loro sin dall'inizio, ecc. ecc. (Per contro nessuno propone di imitare greci e portoghesi, che pure fino a questo momento sembrano aver scampato meglio a un rischio peggiore).

Ovviamente all'inizio nessuno sapeva come sarebbe andata a finire, e tutto sommato bisogna essere grati agli svedesi per aver fatto da gruppo di controllo per l'intero continente: mentre gli altri Paesi – compresi i confinanti nordici – adottavano  misure di blocco, loro si sono assunti le loro responsabilità, sono andati per la loro strada e soltanto grazie al loro sacrificio adesso (solo adesso) possiamo confrontare i loro numeri con quelli sensibilmente più bassi di danesi e norvegesi e desumere con qualche sicurezza che la strada presa dagli svedesi non era migliore di quella presa da tutti gli altri. Il problema è che non lo facciamo (non lo fanno neanche loro, a quanto pare) e continuiamo a credere in questo mito dei Superuomini Svedesi nostri Superiori. 

Su questo mito, che riguarda non solo gli svedesi ma tutti gli scandinavi (e i finnici) avevo provato a scrivere un pezzo mesi fa, in un periodo in cui erano rispuntati contemporaneamente due o tre tormentoni intramontabili, ad es. l'eccellenza della scuola finlandese o il mercato del lavoro danese. Proprio mentre ci lavoravo uscì un numero di Internazionale coi finnici in copertina. Alla fine il pezzo fu rifiutato perché, in effetti, non era coerente con la linea della testata, ovvero: è da anni che raccontiamo la Scandinavia come il paradiso liberal-socialista-anarchico in terra, mò tu che cazzo vuoi, nonnino. Che è un punto di vista che rispetto, eh? Io al vostro posto mi sarei mandato a cagare anche prima. Comunque il pezzo è qui, non parla di epidemia perché erano i primissimi giorni del lockdown, credo, e in Scandinavia nessuno pensava che il virus sarebbe potuto arrivare, quello screanzato.  


Se anche tu passi un po' di tempo su internet cercando di farti un'idea del mondo che ti circonda, sai che è solo questione di ore. Prima o poi succederà, e non potrai farci niente. Arriverà sotto forma di video o di link a un pezzo di Internazionale. Te lo avrà inviato un amico, o un perfetto sconosciuto. Più tempo passi on line, più crescono le possibilità che qualcuno senta la necessità di ricordarti che gli scandinavi e i finlandesi esistono, e sono migliori di te.

Sei una donna? Le donne svedesi hanno sconfitto la rape culture. Sei un insegnante? I finlandesi hanno le migliori scuole del mondo  (i finlandesi non sono esattamente scandinavi, ma di solito sono inclusi nel pacchetto).  Sei un siciliano e non ne puoi più dei traghetti? Danesi e svedesi in quattro anni hanno costruito un ponte che è lungo cinque volte lo stretto di Messina! E così via. Il nostro mercato del lavoro non funziona, dovremmo fare come la Danimarca. L'ambiente, gli islandesi sì che lo rispettano. I norvegesi, loro sì che hanno uno stato sociale. E hai visto quante donne nel governo finlandese! Eccetera eccetera eccetera.


A volte cerchi di resistere. Leggi un pezzo di un vicesindaco di Helsinki che dopo aver visitato Roma ha scoperto il segreto per risolvere il problema del traffico: ingrandire i marciapiedi! Leggi commenti di romani estasiati, ah, i finlandesi, se solo ci invadessero. Pensi: mio dio, ma cosa sto leggendo? Roma fa quasi tre milioni di abitanti, su sette colli e più; Helsinki è grande come Bologna ma senza le colline. Come si fa a paragonare due città del genere, che senso ha. Quanto al ponte Øresund tra Svezia e Danimarca, per carità: è bellissimo, ma la campata più lunga non è neanche di cinquecento metri: quella del ponte di Messina dovrebbe arrivare a tremila metri, nessun altro ponte al mondo ci si è nemmeno avvicinato, fin qui. Non è merito degli ingegneri scandinavi se sui loro fondali puoi piantare piloni di cemento mentre tra Scilla e Cariddi non si può.

E quanto alle donne svedesi, continuano a denunciare più violenze degli altri popoli europei, e non è sicuro che lo facciano perché abbiano più fiducia nella legge e nei giudici (su questo almeno gli studiosi non concordano). Il fatto che sempre più incarichi di governo ricadano sulle donne è un buon segnale, ma non significa che in generale per le donne scandinave sia facile far carriera: per ora non c'è una nazione nordica dove la percentuale di imprenditrici superi l'8% (la media dell'UE si attesta intorno al 20%). Ma proprio mentre stai cercando questi dati, qualcuno ti manda un link: leggi questo pezzo! gli scandinavi hanno risolto il problema del bullismo, hanno inventato un sistema innovativo! Leggi il pezzo. Il "sistema innovativo" è molto simile a quello che usano nella scuola dei tuoi figli – il che alla fine non dovrebbe sorprendere: molte tecniche nate nei Paesi scandinavi sono state adottate già da anni in altri anche da noi. Sul bullismo, in particolare, gli scandinavi sono stati all'avanguardia perché gli studenti tendevano a suicidarsi con più frequenza, e in generale la percentuale dei suicidi continua a essere importante (anche se il "record svedese dei suicidi" è un vecchio luogo comune smentito dai numeri). Il punto è che qualsiasi cosa facciano i nordici per noi è eccezionale, e quindi se tendono a togliersi più spesso la vita, subito decidiamo che devono essere i recordmen mondiali di suicidio.

È sempre stato così, da che ti ricordi. Non c'è mai stata un'internet che non ti ricordasse periodicamente quanto i Superuomini Scandinavi Siano nostri Superiori. Dodici anni fa, nei giorni ruggenti in cui su beppegrillo.it si diffondevano leggende come la biowashball o la propulsione a olio di colza, gli islandesi erano già l'Ultima Thule del grillismo, il popolo eroico che aveva deciso di non pagare i propri debiti alle banche internazionali assetate di sangue. Ovviamente era una bufala, ma già molto indicativa. Proprio come a Nord si incrociano Oriente e Occidente, così la leggenda dell'eroico popolo nordico che resisteva al sordido potere dei bancari attirava lettori da destra e da sinistra. Già allora la maggior parte sembrava voler ignorare che gli islandesi fossero in tutto poco  più di trecentomila, meno degli italiani residenti nel comune di Firenze, e che quindi anche i loro debiti alla fine non dovessero ammontare a gran cosa. Invece no, se ci stavano riuscendo loro, anche noi saremmo riusciti a non restituire il nostro colossale debito pubblico. E però in economia le dimensioni contano. Qualcuno si sognerebbe mai di proporre la Repubblica di San Marino come modello? Ok, l'Islanda è un po' più popolata di San Marino. Dieci volte di più. L'Italia, dal suo canto, è duecento volte più popolosa dell'Islanda.

Se grillini e rossobruni guardavano all'Islanda, anche i liberaldemocratici sentivano il richiamo dei fiordi. Erano gli anni in cui brillava l'astro di Pietro Ichino, il giuslavorista del Partito Democratico che proponeva per il mercato del lavoro italiano un modello danese da lui definito "Flexsicurity". Lui stesso ammetteva che l'Italia non poteva diventare la Danimarca in un giorno, anche a causa del "difetto di risorse pubbliche destinabili ai servizi nel mercato del lavoro", insomma questa minore disponibilità dei contribuenti italiani, rispetto ai danesi, a pagare le tasse: ciononostante credeva necessario provarci. Inasprendo la pressione fiscale? Ah ah, no.

Per Ichino la priorità era rendere più facili i licenziamenti: quel che il governo Renzi ottenne con il Jobs Act. In seguito non siamo diventati la Danimarca (per ora sono aumentati quasi soltanto i lavori a termine), ma lo stesso Ichino avvertiva che ci sarebbero voluti comunque molti anni, se non "decenni" (sarebbero serviti anche ammortizzatori di cui quel parlamento non fece in tempo a occuparsi, come succede più o meno ogni volta che in Italia si riforma lo statuto dei lavoratori). Rimane curioso l'esempio di un Paese che decide, come l'Italia di Renzi, di riformare il proprio mercato del lavoro prendendo esempio da un altro Paese diversissimo per cultura e per dimensioni: i danesi sono un po' di più degli islandesi (cinque milioni), ma comunque molto meno di noi. Può darsi davvero che alla fine le dimensioni non contino, ma insomma quando cerchiamo modelli per migliorare l'Italia, anche solo in Europa c'è l'imbarazzo della scelta: sono quasi tutti migliori di noi in qualche cosa, avrebbero quasi tutti qualcosa da insegnarci. Perché ci fissati tanto sui nordici, per quanto marginali, e piccoli, e diversissimi da noi per cultura, clima, paesaggio?

Gli scandinavi non sono imperialisti come gli americani o i russi, non ci hanno deportato un bisnonno come i tedeschi, anzi i finlandesi i tedeschi li hanno respinti, dopo aver respinto i sovietici (si sono anche alleati, a turno, sia coi primi sia coi secondi, ma chi siamo noi per giudicarli). Insomma non ci fanno paura, gli scandinavi. Non sono neanche troppo vicini, come i francesi, e questo forse ci rende più semplice invidiarli. L'invidia non essendo altro che un meccanismo emotivo che ci consente di migliorare noi stessi, regolandoci sugli esempi forniti da chi ci sta intorno. Certo, se diamo troppe occhiate a chi ci sta vicino rischiamo di apparire nervosi e innestare un circolo vizioso di diffidenza. Invece nessuno se la prende se dal fondo dell'aula ogni tanto diamo un'occhiata all'alunna alta e bionda in prima fila. È lontana, inaccessibile, magari a sedercisi più vicino scopriresti che ha anche lei i suoi problemi (alcolismo in famiglia, violenze domestiche, manie suicidarie), ma perché dovresti? Per te è solo un obiettivo a cui tendere. Ok.

Mentre pensi a questa cosa, ti arriva una notifica. Un tuo collega vuole farti vedere come sono fighissime le classi finlandesi. Altro che le nostre aride lezioni frontali. È un video di due minuti, si vedono studenti fare quello che gli pare in ogni angolo dell'aula, ce n'è un paio appollaiati sugli scaffali. Pensi: speriamo che gli scaffali siano bullonati alla parete, in Italia è previsto dalla legge e non puoi metterli nei corridoi. E guarda quanti spigoli, da noi sarebbe vietato. Due ragazzi seduti su uno scaffale è un aneddoto, ma decine di ragazzi tutti i giorni in tutte le scuole è un concreto rischio per la sicurezza, da noi prima o poi qualche dirigente finirebbe a processo. Certo, magari da loro non è zona sismica, e poi hanno tutto lo spazio che vogliono, nessun problema con le vie di fuga... Ma insomma, la prova che le scuole finlandesi sono fantastiche è che i ragazzi possono sedersi sugli scaffali in barba a elementari norme di sicurezza e buon senso? Caraffe di acqua bollente vicino ad attrezzi ginnici elettrici, e spigoli, spigoli vivi dappertutto. Cioè magari hanno davvero le scuole migliori del mondo i finlandesi, ma non lo dimostra un video del genere. In effetti, cosa lo dimostra?

Ecco, qui entriamo in un terreno lacustre e accidentato. Posto che paragonare sistemi scolastici molto diversi è sempre discutibile, diciamo che l'idea dell'eccellenza finlandese nasce vent'anni fa con la prima pubblicazione delle prove Ocse-Pisa. In quel momento fu davvero una sorpresa perché nessuno se l'aspettava. Da lì in poi abbiamo deciso che i finlandesi avevano capito qualcosa che avremmo assolutamente dovuto imitare, anche se non era chiaro cosa. Non era chiaro agli stessi finlandesi, che invece di sedersi sugli allori hanno continuato a sperimentare cose nuove, senza preoccuparsi troppo di calare in classifica. Che è infatti quel che è successo di lì a poco. A quel punto il dibattito sulla scuola finlandese è diventato un caos in cui anche chi la critica parte da posizioni completamente diverse: c'è chi accusa i finlandesi di fare "teaching to the test", ovvero di ridurre la didattica a una serie di espedienti che ti consentono di andare molto bene nei test, ma che non stimolano la creatività e non consentono lo sviluppo di autentiche competenze (e tuttavia, come s'è visto, i finlandesi non vanno più così bene coi test). C'è chi invece sostiene che i risultati ottimi di vent'anni fa non erano causati dai nuovi sistemi didattici, ma dal buon livello del sistema tradizionale precedente, basato sulle lezioni frontali impartite da insegnanti che nella società finlandese godevano e godono di una indisputabile autorevolezza. L'eccellenza della scuola finlandese sarebbe un grande fraintendimento: era molto migliore quand'era tradizionale, poi ha voluto cambiare insistendo molto sulla responsabilità individuale degli studenti e i risultati dei test hanno registrato un calo non drammatico, ma sensibile e immediato.

Insomma quando diciamo che vorremmo una scuola più finlandese, cosa intendiamo? Una scuola che vince le gare internazionali di matematica, o quella dove i ragazzi sono liberi di sedersi sugli scaffali? Non è chiaro e forse non è nemmeno così importante. Anche la scuola finlandese attrae ammiratori da sinistra e da destra. I primi non possono che essere conquistati da un sistema educativo super-inclusivo ed egualitario (e quasi completamente pubblico), che è poi lo specchio di una società egualitaria che crede nell'importanza dell'istruzione e la finanzia in modo cospicuo. Che faccia lezioni frontali o teaching to the test, o assista semplicemente i ragazzi cercando di evitare che si spezzino il collo contro gli scaffali, il docente finlandese è ancora percepito come un perno della società, che lo riverisce e lo paga adeguatamente, e questo è l'essenziale.

D'altro canto chi osserva il video non può impedirsi di notare che in quell'aula sono tutti bianchi, bianchissimi. Perché il carattere egualitario della società finlandese è anche dovuto alla sua omogeneità etnica e culturale. Il 90% della popolazione è di lingua suomi; il 5% svedese: gli immigrati dal sud del mondo sono quantificabili in decine di migliaia, il che deve rendere oggettivamente meno difficile la vita quotidiana di un insegnante statale finlandese.

Venticinque secoli fa, gli antichi Greci già favoleggiavano di una terra Iperborea al di là dei ghiacci dell'Oceano, dove aveva vissuto e forse viveva ancora un popolo perfetto e felice. L'idea che la civiltà arrivasse da nord ebbe poi un certo successo soprattutto a partire dall'Ottocento: fu ripresa da Nietzsche, e in Italia dal "superfascista" Julius Evola. Per quanto sia antica, è comunque una bufala, tanto quanto la storia degli islandesi che non pagano i debiti. I nordici non sono necessariamente migliori (né peggiori) di noi. La loro cultura si è modulata per adattarsi a un ambiente piuttosto diverso dal nostro: è giusto ammirarli, ma non tutto quello che è buono per loro potrà essere mai buono per noi. Noi siamo mediterranei: siamo più numerosi, viviamo letteralmente su un ponte sottile di terra tra il Nord e il Sud del mondo. Da sempre siamo esposti alle migrazioni e a tutto quello che portano di buono, di cattivo e in generale di complicato. La coesione sociale nordica ce la possiamo sognare: semplicemente non è una cosa che si adatti all'ambiente dove viviamo. Possiamo continuare ad ammirare la ragazza alta e bionda in prima fila: possiamo anche provare a parlarle e magari scoprire che lei è curiosa della nostra cultura quanto noi siamo attratti dalla sua. Non c'è niente di male in tutto questo, anzi, è uno dei motivi per cui abbiamo fatto l'Unione Europea. Ma pensare di poter diventare come lei, semplicemente copiando qualche suo gesto o l'acconciatura, sembra il modo migliore di renderci ridicoli. Anche ai suoi occhi.
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Aisha o Silvia Romano è libera e voi no

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– type type type
– Pronto in tavola.
– Un momento (type type type)
– Stai litigando su internet, vero?
– Sì ma non è come pensi (type type type)
– Ma non ti sei rotto i coglioni del coronavirus e delle mascherine e di tutto il...
– Noooo oggi è diverso, non capisci, oggi litighiamo perché hanno liberato una cooperante in ostaggio e lei è tornata velata.
– E quindi?
– Mi fa sentire così giovane, per un attimo è come se tutto questo non fosse...
– Va' a lavarti le mani.
– ...che un brutto sogno e ci fosse ancora l'Isis che vuole conquistarci, anzi Al Qaeda, e un palazzetto pieno per vedere gli Strokes o i Libertines e...
– Va' a lavarti le mani.

La gente è libera di professare quel che vuole, il che molto spesso fa impazzire chi si professa liberale, curioso paradosso. Silvia Romano è stata liberata, siamo tutti contenti (non è vero, c'è chi mastica amaro). Silvia Romano afferma, lascia capire di essersi convertita all'Islam – ovvero alla seconda religione più professata in Italia, con più di un milione di pacifici credenti che in mezzo secolo non hanno mostrato complessivamente particolari inclinazioni alla violenza o al terrorismo: questo per alcuni è intollerabile, è un segno che il terrorismo starebbe vincendo.

E finché la scrive il nonno scemo questa cosa, possiamo anche sospettare che non abbia più la possibilità di scendere in strada e di vedere normali persone, alcune con un velo e altre no, che in questi giorni sono in fila come le altre (o forse un po' meno perché è Ramadan): ci sono in tutte le città d'Italia e soprattutto in quelle più ricche e produttive, quindi è anche un po' colpa del povero nonno scemo che non si guarda intorno, ma pazienza. Lo dicono però anche i nipotini sui social ed è una cosa triste: lo scrive quel che resta di Repubblica ed è una cosa avvilente. Questa cosa per cui in Italia quando si parla di religione la gente (a sinistra, a destra, al cesso) non sappia più letteralmente cos'è, come funziona, in che termini vada rispettata, se e quando si possa distinguere dal plagio – non so, mi sembra un nuovo tipo di analfabetismo e non abbiamo nemmeno risolto quello vecchio. D'altro canto quando Facci diceva odio l'Islam un sacco di gente aveva questa necessità fisica di spiegarti che beh, è un'opinione come un'altra, l'odio religioso. C'è questo fenomeno strano per cui l'odio razziale ormai fanno fatica a gridarlo ad alta voce pure i neonazi, mentre l'odio religioso è una cosa che si porta in società.

Ho una notizia per tutti voi liberali che ci spiegate quotidianamente che le religioni sono cose odiose, alcune magari più di altre e quindi a volte si può anche provare a farsi finanziare dai credenti dalle altre per spalare un po' di merda sulle une: non siete liberali. Sapete perché in Italia non c'è una vera cultura liberale? Chiedo eh, io non lo so. Ma appena vi ascolto ne sono sicuro. Siete casi disperati, a volte per farvi un po' notare la povertà di pensieri e spirito vi si dà dei fascisti ma è un'offesa pure per loro che uno straccio di riflessione sul fatto religioso l'avevano pur fatta. C'è una ragazza che durante una lunga prigionia si è convertita a una religione e per voi ciò è un fatto grave. Che si fa? Boh probabilmente l'ipotesi è chiuderla in una stanza finché confessa di non essere stata plagiata e non si riconverte alla religione scelta dai suoi genitori.

Non ce la potete fare, né ha molto senso cercare di spiegarvelo. Però almeno questo vi vorrei in un qualche modo comunicare: la guerra che siete convinti di dover combattere, la state perdendo: non perché il nemico sia particolarmente pericoloso, ma perché lo state aiutando voi, con tutto il vostro panico omioddio una ragazza si è messa un velo in testa siamo perduti. Persone un po' più coscienziose non esiterebbero a liquidare l'indumento per quello che in effetti è – un indumento – e depotenziarne totalmente il messaggio. Cosa che fa chiunque viva a contatto con gente normale che a scuola e nei locali pubblici si copre la testa senza che la cosa dopo un po' appaia più come uno sventolar bandiere. Cosa che succede già in tante città italiane che i giornalisti non conoscono.

Ma voi non siete coscienziosi: viceversa, avete una disperata necessità di dare a un indumento la stessa interpretazione che dà Al Shabab, perché volete esattamente diffondere lo stesso messaggio di Al Shabab: l'Islam sta vincendo aiuto aiuto. Cioè in pratica siete la quinta colonna dell'Islam integralista, bravi, battetevi pure un cinque e correte in edicola a comprare la broda pisciata del nonno scemo.

Su una cosa vorrei darvi ragione: è vero che convertirsi non è solo un fatto privato, per esempio se mi converto – son lì lì per farlo – sarà anche indubbiamente per starvi sui coglioni, il che è un fatto sociale. Mi vergogno di sentirvi parlare nella mia stessa lingua, santo dio, non potreste mugugnare e basta che tanto il senso è quello.
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Diui Vdertii apotheosis

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Di Uderzo potrei parlare per mesi e non escludo di farlo in un momento più tranquillo. Era il più grande. Ha regnato per un quarto di secolo in una regione impossibile, tra l'iperrealismo e la caricatura. Disegnava gli accampamenti romani più realistici e li riempiva di nanerottoli col nasone, nessuno riusciva a passare dal grottesco al classico con tanta disinvoltura.

È un tipo di arte che siamo sempre meno in grado di apprezzare, la caricatura soprattutto: non so quanto in patria si sia già attivato un movimento per definirlo un razzista, tutti i caricaturisti in un certo senso lo erano e Uderzo non si è mai tirato indietro fino alla fine: in particolare il suo ultimo Asterix trasudava di una xenofobia lungamente negata e repressa.

Bisognerà spiegare ai ragazzini che all'inizio della storia quei nasoni e quelle pance, quei distillati di un'arte grafica secolare, esprimevano sotto i costumi di scena le speranze di un'Europa del dopoguerra in cui i popoli cominciavano timidamente a presentarsi gli uni gli altri (ed erano popoli di mezza età, panciuti e sdentati, proprio come quelli usciti dal conflitto mondiale): ma forse non basterà, forse non riusciremo a farci capire, forse di Asterix rimarrà solo il guscio vuoto, come Mickey Mouse che degli anni della Depressione non conserva nemmeno più la coda. Mi dispiacerebbe però.
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Alla fiera dell'est, per 2 ¥

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"..."
"Resisti".
"Non ce la faccio".
"Invece sì".
"Sei un adulto".
"Ma è troppo..."
"Una persona rispettabile".
"Mi scappa".
"Hai una dignità".
"LO SAPETE PERCHÉ ZAIA HA PAURA CHE GLI MANGINO I TOPI???"
"Me ne vado addio".
"PERCHÉ POI NON SA COME INGRASSARE IL GATTO AHAHAH".
"Non ci siamo mai conosciuti".


https://www.facebook.com/zaiaufficiale/photos/a.172472189621371/1048409992027582/?type=3&theater

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Benedetto el Negher (di Sicilia)

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San Benedetto il moro, francescano nero lombardo di Sicilia (1526-1589)

[2016]. Brot negher, torna all'infer'n. Immaginate la scena: una squadra di braccianti ha circondato un pastore, un ragazzino che porta due buoi al pascolo. Lo prendono in giro perché è scuro di pelle. Molto scuro. Figlio di schiavi dell'Africa nera, forse etiopi. Lui li guarda preoccupato ma cerca di tenere basso lo sguardo, non vuole grane. Se gli prendono i buoi è rovinato. E forse è a quello che puntano. Una parola sbagliata, uno sguardo di traverso, e un coltello si fa presto a tirar fuori...

Il ritratto (anonimo) più credibile.
Per fortuna arriva il frate. Non è neanche un frate vero e proprio, è Girolamo Lanza, un giovane di San Frau che si è messo in testa di fare il francescano per i fatti suoi; ha donato la sua eredità e si è trovato un eremo poco lontano, a Santa Domenica. Insomma arriva fra Girolamo e domanda: che succede, perché tormentate questo ragazzo? Vi ho visto, sapete. Lui non vi ha fatto niente. È un tipo a posto, secondo me ne sentirete parlare. I braccianti si ritirano di buon ordine: fra Girolamo sarà anche un mezzo matto, ma il suo cognome in paese pesa ancora. L'eremita resta solo col pastore. Magari gli chiede: "Ma di chi sono questi buoi?"
"Della mia famiglia".
"Ma tuo padre non è Cristoforo, che ha preso il cognome di Manasseri dal padrone che lo ha liberato? Quando mai hanno avuto animali i vecchi schiavi dei Manasseri?"
"Li ho comprati io".
"Due buoi? Con che soldi?"
"Avevo dei risparmi".
"E che volevano quei braccianti? Che ti dicevano?"
"Non ascoltavo".

Nella mia testa ovviamente non potevano che dargli del negher-de-merda. Perché a Benedetto non era capitato di nascere soltanto in Sicilia, dove la sua carnagione era già abbastanza eccezionale da suscitare, lo vedremo, forme di psicosi di massa; ma tra tutti i castelli e i villaggi di Sicilia, una serie di circostanze non chiarite avevano portato il padrone del padre a liberarlo a San Fratello, ridente cittadina della provincia messinese di lingua longobarda. Esatto, a San Frau (cattiva traduzione del latino Sanctus Filadelphus) gli abitanti parlavano un dialetto lumbàrd, come a Nicosia, a Sperlinga, a Piazza Armerina, ad Aidone (EN): e a differenza di Acquedolci, di Montalbano Elicona, e di Novara di Sicilia (ME), lo parlano ancora. Non si sa neanche esattamente quando abbiano iniziato - l'ipotesi è che queste zone siano state ripopolate dopo l'invasione normanna (1090), trapiantando in zona contadini e allevatori che provenivano da qualche anfratto non ben localizzato della valpadana occidentale, una zona tra Asti, Cuneo e Savona. Oggi insomma non li considereremmo nemmeno lumbard in senso stretto: ma erano longobardi, o addirittura franzosi, per i siciliani del tempo, che non capivano una parola. In mille anni poi la lingua è cambiata, a volte accettando a volte combattendo le parlate circostanti (trovate qualche esempio di sanfratellese nei romanzi di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell'ignoto marinaio Lunaria). Per dire non credo proprio che oggi si dica "negher" in sanfratellese: oggi no, ma nel Cinquecento magari sì.

"Senti, perché non ti disfai di questi buoi?"
"Ma sono miei".
"Rivendili. Potrai donare il ricavato ai poveri".
"I miei sono poveri".
"A maggior ragione".
"E poi che faccio?"
"Vieni con me".
"A fare il frate?"
"Molto meglio che fare il pastore. E poi cos'hai da perdere?"
"Due buoi!"
"Non ci crederà mai nessuno che sono tuoi".
"E perché non dovrebbero..."
"Perché sei un negher!"

(Lo sguardo di traverso che Benedetto era riuscito a risparmiarsi in mezzo ai braccianti, ora fra Girolamo se lo prende in pieno).

"Ti ho offeso? Scusa ma insomma, si vede da lontano. E un pastore negro qua non s'è mai visto. Ma se vieni con me, io posso farti diventare..."
"Un frate negro?"
"Un santo".
"Un santo negro?"
"E quelli vanno forte".
"I santi negri?"
"Fidati di me. Vendi quei buoi".

Antonio l'Etiope,
il nero d'AvolaAHAHAH
CHE SPASSO
LA RUBRICA DEI
SANTI DEL POST.
Anche ad Aidone si parlava lombardo. Il santo patrono è Filippo apostolo: però la statua di Aidone è nera d'ebano "Ha occhi neri e acuti che fanno paura: e quando viene messo in movimento per il giro della città, desta un senso di sbalordimento e di raccapriccio". Il colore scuro testimonierebbe il transito del santo dal mondo dei morti. Altrove si venera un altro San Filippo, siriaco, molto efficace contro i demoni, talvolta definito "schiavo negro". Popolarissimo in tutta la Sicilia (e in particolare ad Agrigento) è San Calogero, sempre raffigurato nerissimo benché greco di Costantinopoli, al punto che in età moderna qualcuno ipotizzò un errore di traduzione: da Chalkhidonos (di Calcedonia, città sull'altra riva di Costantinopoli), a Karchidonos, cartaginese. Ma anche a Cartagine non nascono scuri così... poi ci sono le madonne nere, tipiche dell'iconografia bizantina e molto diffuse in Sicilia già prima dell'arrivo degli arabi. Finché a un certo punto non arrivano i neri veri: Benedetto non è il solo. A Noto c'è il Beato Antonio l'Etiope, detto anche Catagerò d'Avola, eremita e guaritore, poi inquadrato nei francescani, e morto verso il 1550 (ma altri etiopi, tutti chiamati Antonio, risultano a Caltagirone e a Camerano. Notiamo en passant che "etiope" poteva semplicemente significare "nero ma cristiano": il modo più semplice di rendere credibile questa curiosa compresenza di tratti somatici non europei e fede cristiana era evocare il mitico Paese cristiano al di là delle terre islamiche). Lo stesso Antonio di Lisbona, che in Valpadana tutti chiamano Antonio da Padova e raffigurano con l'incarnato roseo di un bambino, era secondo alcuni testimoni piuttosto scuro di pelle. Insomma, essere neri in Europa non è mai stato facile, ma in certe carriere poteva rivelarsi un bizzarro vantaggio.

Negli anni successivi, Girolamo e Benedetto dovranno spesso cambiare eremo per seminare i pellegrini che arrivavano da tutta la Sicilia a chiedere miracoli al frate nero. Il quale magari ci provava pure, a fare qualche miracolo – e non è escluso che qualche guarigione gli riuscisse – in ogni caso, male che andasse, i pellegrini potevano andare a casa e raccontare di aver visto un frate nero. Pensateci: voi quand’è che avete visto un nero per la prima volta? I vostri figli se li trovano all’asilo e non fanno nemmeno in tempo a farci caso. Io devo averne visti migliaia in tv per più di dieci anni, prima di incontrare un nero in carne e ossa. Cinquecento anni fa, quando la fantasia visiva si nutriva al massimo degli affreschi e delle vetrate delle chiese, che emozione poteva essere vedere un uomo nero? E dopo averlo visto, scoprire che malgrado l’incredibile ed evidentissima differenza, è proprio un uomo come noi. Mangia e beve come noi. Parla come noi – salvo quell’accento un po’ esotico, già: lombardo.

Otto anni nella valle di Nazara; poi a Mancusa. Qui Benedetto guarisce un malato di troppo e il traffico di pellegrini diventa tale che i seguaci di Girolamo decidono di trasferirsi sul Monte Pellegrino, fuori Palermo. Gli affari andavano talmente bene che a un certo punto la Chiesa ufficiale si fece sentire, e obbligò i francescani improvvisati a porre termine a ogni forma di spontaneismo. A quel punto Girolamo aveva già lasciato il mondo dei vivi, e i suoi seguaci avevano nominato superiore Benedetto. Niente male per un pastore analfabeta. Forse anche l’idea di avere una congregazione francescana guidata da un nero alle porte di Palermo potrebbe aver lasciato perplesso qualche elemento della gerarchia: fatto sta che nel 1550 Pio IV revocò i permessi. Benedetto scelse di entrare nei Frati Minori, che gli trovarono un posto nelle cucine del convento di Sant’Anna di Giuliana.

Da superiore a sguattero: però la prese bene. Fece ancora carriera: diventò capo-cuoco a Santa Maria del Gesù (Palermo), poi guardiano del convento, e, allo scadere del mandato, maestro dei novizi. Ma la cucina è l’ambiente che gli è rimasto più attaccato, come a Martin de Porres l’infermeria. Tra i suoi miracoli più famosi, oltre alle guarigioni, un paio di moltiplicazioni di pani e pesci – quel tipo di prodigio alla portata di un cuoco che sappia gestire con oculatezza materie prime e avanzi. L’ultimo suo viaggio, dal convento di Sant’Anna a quello di Santa Maria, lo aveva fatto tra due ali di folla venute a toccare il taumaturgo nero. Che magari non li avrebbe guariti, ma potevano pur sempre tornare a casa e raccontare di aver toccato un nero.

cuiaba
Qui siamo a Cuiabà, in Mato Grosso

Benedetto lascia questa terra il quatto aprile del 1589 – 427 anni fa oggi – senza nemmeno sospettare quanto sarebbe diventato importante. L’affetto di confratelli e novizi, la venerazione di palermitani e messinesi non è che una piccola frazione di quello che sta per succedere al di là dell’Atlantico. C’è un intero continente da cristianizzare, ci sono moltitudini di neri da battezzare, e di un santo con la pelle scura c’è un disperato bisogno. Il processo di beatificazione a dire il vero andrà un po’ per le lunghe (bisognerà aspettare Benedetto XIV, aka Prospero Lambertini, già in pieno Settecento: due anni prima, nel 1743, aveva pubblicato una severissima enciclica contro la schiavitù). Nel frattempo i francescani avevano già stampato e diffuso milioni di santini col cuoco nero che tiene in braccio il bambino biondo – l’iconografia più diffusa di Benedetto il moro è, in sostanza, una copia carbone di quella di Antonio di Padova. In Venezuela Benedetto diventa il protagonista di una settimana di festa che prosegue il Natale fino al sei gennaio. L’idea che dietro al santo siciliano si nasconda qualche rito non proprio omologato è qualcosa di più di un sospetto: in Brasile a un certo punto il festeggiamento prevede un matrimonio e un’incoronazione. A sposarsi e a regnare per un giorno sono il re e la regina del Congo, ma anche San Benedetto e la Madonna del Rosario.
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La scuola pubblica combatte il razzismo; a parecchi la cosa non va

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[Questo pezzo è uscito giovedì su TheVision]. Qualche giorno fa una ragazzina ha chiamato una sua compagna di prima media per spiegarle che non sarebbe venuta a scuola, né quel giorno né mai più. È così che gli insegnanti di una scuola di Nichelino (TO) hanno scoperto che la Prefettura aveva disposto il trasferimento in un altro comune della sua famiglia: quattro bambini e due genitori armeni provenienti dalla Germania, richiedenti asilo in Italia. Come ha fatto notare la preside, in altri casi del genere si era almeno attesa la fine dell’anno scolastico. Ma come dicono al Viminale, “la pacchia è finita”: il Decreto Sicurezza prevede tra le altre cose la riorganizzazione dei Centri di accoglienza, il che a quanto pare significa anche che i Centri che hanno vinto i nuovi bandi devono cominciare a ospitare i migranti da subito.


La storia si presta bene a un certo approccio lacrimevole: povera bambina, strappata una volta in più a un contesto in cui aveva appena cominciato ad ambientarsi. Povera famiglia, sballottata da un governo che non solo non ha interesse a favorire l’integrazione, ma in questi casi dà la chiara impressione di volerla sabotare. Non dico che questo approccio sia sempre sbagliato: non c’è niente di male nel farsi scendere una lacrima, ogni tanto. Vorrei comunque aggiungerne un altro, meno emotivo ma cruciale: l’approccio economico. Trasferire una famiglia con figli in età scolare, nel bel mezzo dell’anno scolastico, non è solo uno choc per bambini e genitori. Come ha fatto notare la dirigente è anche uno spreco per la scuola, che ha destinato a questi bambini risorse preziose. Da qualche parte i contribuenti hanno pagato un insegnante di italiano per stranieri che non serve più, o serve di meno; da qualche altra parte occorrerà un insegnante in più e bisognerà metterlo a contratto fino a giugno. Uno spreco di cui difficilmente sta tenendo conto l’autore dei tagli e delle riorganizzazioni dei centri di accoglienza regionale: certe spese nascoste affiorano soltanto quando i bilanci sono belli e stampati. Ma in un settore del pubblico servizio che malgrado qualche elargizione degli ultimi governi non si è mai rimesso del tutto dai tagli dell’epoca tremontiana, ogni ora di lezione di ogni insegnante è preziosa. Chi dall’oggi al domani decide di spostare una famiglia con due studenti da alfabetizzare non lo sa, o non gli interessa. Il bilancio della scuola non è la sua priorità. Anzi, tanto meglio se serve a dimostrare che la scuola pubblica spreca le sue risorse.

Niente è perfetto, e in particolare la scuola statale italiana è ben lontana da quel modello di laicità e inclusione auspicata dai padri costituenti. Ma in un’Italia quotidianamente irradiata dall’odio e dal razzismo veicolati da tv, radio e internet, la scuola statale resiste: non potrebbe fare diversamente, ne va del suo scopo e del suo futuro. Sei mattine alla settimana la scuola accoglie studenti di ogni provenienza e prova a farli studiare e vivere assieme. Non sempre ci riesce, ma ci prova ogni maledetta mattina. E qualche risultato, col tempo, lo porta a casa. Due anni fa l’Istat pubblicò i risultati di un’indagine sull’integrazione scolastica degli studenti di origine straniera. A sorpresa, i più ottimisti sull’integrazione risultavano proprio gli operatori in prima linea: i docenti. Ma nel frattempo più di uno studente di origine straniera su tre affermava di sentirsi italiano; soltanto il 20% degli studenti di origine straniera dichiarava di non frequentare nel tempo libero compagni italiani, mentre il 50% degli studenti affermava di frequentare indifferentemente compagni di origine italiana e straniera. Non sarebbero nemmeno dati eccezionali, se non si riferissero a una nazione guidata da un’alleanza di partiti xenofobi che propaganda sette giorni su sette via social e tv la cosiddetta emergenza invasione.



Senz’altro fa più rumore un hashtag del ministro degli interni che un enorme meccanismo scolastico che ogni giorno accoglie bambini di tutte le famiglie e li mette a sedere dietro agli stessi banchi. Ma l’unico motivo per cui Beppe Grillo può ostinarsi a credere che il razzismo in Italia sia un falso problema è proprio la resistenza silenziosa e quotidiana di un’istituzione che tutti i giorni continua ad applicare l’articolo 3 della Costituzione; non soltanto quel primo comma già fantascientifico (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), ma anche il secondo: quattro righe di pura follia in cui nel 1948 si affermava che il compito della Repubblica fosse “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che di fatto limitano “la libertà e l'eguaglianza dei cittadini”. Anche se rimuovere gli ostacoli economici e sociali a conti fatti sembra oggi una missione impossibile, e la scuola pubblica italiana ben lontana da avere le risorse per mirare a un risultato del genere. Ma così come i ponti continuano a permettere alle persone di passare da una sponda all’altra, anche mentre la loro struttura interna comincia a cedere; così la scuola italiana continua a fare quello per cui è stata progettata, e non smetterà che un attimo prima di crollare. Il che potrebbe anche succedere molto presto, e chi transita in quel momento non c’è dubbio che si farà male.

C’è intanto chi però quel crollo lo auspica, lo aspetta, lo prepara, e spera di guadagnarci qualcosa. Non è solo il caso della Lega di Salvini, di cui però non dobbiamo stancarci di notare il carattere paradossale: un partito che vince le elezioni promettendo sicurezza, e di fatto fa tutto quello che è in suo potere per aumentare la tensione sociale, la paura per il diverso e in definitiva proprio l’insicurezza. Questo paradosso la Lega lo persegue a tutti i livelli: a Bruxelles sabota una proposta per ridistribuire più equamente i rifugiati nei Paesi dell’Unione; a Roma promette meno sbarchi e più espulsioni (ma senza mantenere); e all’elettore terrorizzato suggerisce neanche tanto velatamente di tenere un’arma carica nel comodino. Che la Lega veda nella scuola pubblica un ostacolo, una complicazione, è abbastanza ovvio. Più complessa è la posizione dei cattolici... (continua su TheVision).



Negli ultimi giorni Papa Francesco ha ribadito che i migranti sono un dono da accogliere con gratitudine, ma il messaggio deve essere sfuggito alle scuole paritarie cattoliche, ben lontane dagli standard di accoglienza delle pubbliche. Le paritarie non hanno nessun obbligo di accoglienza, ma il problema si crea quando i genitori italiani iniziano a iscriverci in massa i loro figli nel timore che la presenza di alunni stranieri nelle pubbliche del loro quartiere possa abbassare la qualità didattica. Il che magari all’inizio non è vero, ma lo diventa quando molte famiglie italiane cominciano a evitare la scuola pubblica, e la percentuale di alunni di origine straniera per classe supera quel 30% che nel 2009 il ministro dell’Istruzione Gelmini aveva fissato come limite massimo.

La ghettizzazione delle scuole pubbliche di quartiere si potrebbe risolvere con una legge che imponga alle scuole paritarie di accettare nelle proprie classi la stessa quota di alunni di origine straniera. Nessun politico ha avanzato una proposta simile, neanche tra coloro che si professano cattolici. Invece è sempre sul tavolo la proposta di eliminare dalla Costituzione un passaggio dell’articolo 37 che non permette di conciliare le scuole paritarie con i fondi ricevuti dallo Stato: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Molti cattolici vorrebbero che l’Italia spendesse di più per sostenere le famiglie che scelgono le loro scuole. Se non lo Stato, almeno la regione, che in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna potrebbe assumere direttamente il controllo del settore istruzione nell’arco di pochi mesi, grazie alla riforma delle autonomie regionali.


È triste dover riconoscere che questo tipo di scuole, fondate e portate avanti con le migliori intenzioni, sono diventate un ostacolo all’integrazione. Ma quando in alcuni quartieri delle città italiane esistono classi di soli stranieri, i casi sono due: o l’invasione propagandata dalla Lega è reale, oppure negli stessi quartieri si trova una scuola paritaria finanziata anche con il denaro pubblico dove gli studenti di origine straniera sono una minoranza. Siamo liberi di indignarci e basta, ma vale la pena riflettere, anche in questo caso, sull’aspetto economico della questione: perché lo Stato, che spende già molto meno di quanto dovrebbe per finanziare una scuola pubblica che favorisca l’integrazione, deve destinare ulteriori risorse a un’istituzione concorrente che la ostacola? Le famiglie che vogliono mandare i figli in una scuola con pochi neri (e pochi poveri in generale) non potrebbero pagare tutta la retta di tasca loro? Forse si potrebbero risparmiare fondi per investirli dove servono davvero: nell’istruzione pubblica.
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Parlo di teologia, io?

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10 gennaio - San Gregorio di Nissa (335-395), teologo patentato

[2016].

Anche oggi c'è gente che, come quei famosi ateniesi, non trova di meglio da fare che discutere di argomenti inediti od originali. Braccia rubate al mercato o al cantiere che si improvvisano maestri di teologia: avanzi di schiavitù da prendere a mazzate, che d'un tratto ci filosofeggiano con solennità di cose incomprensibili.

Lo sapete di chi stiamo parlando: la città ne è piena. Le strade, i crocicchi, i fori, i parchi... venditori di tappeti, cambiavalute, friggitori ambulanti. Tu chiedi di scambiare una moneta, ti rispondono disquisendo sulla natura del Generato e dell'Ingenerato; vuoi sapere quanto costa una pagnotta, “Il Padre è il maggiore”, ti dicono, “e il figlio gli è soggetto”: domandi se ai bagni l'acqua è calda, e ti informano che il Figlio ha origine dal nulla...


Padri cappadoci, Nissa è (forse) quello con la barba lunga.

Certe citazioni ormai galleggiano nel vuoto, non siamo nemmeno sicuri del libro da cui sarebbero ritagliate. Hanno maturato significati diversi da quelli previsti in partenza; diventano meme, parole di un linguaggio nuovo, incomprensibile ai non iniziati. Tra i miei amici di facebook non è infrequente rimproverarsi di parlare di astrofisica. Citiamo ovviamente la battuta di un regista frustrato, protagonista di un film di Nanni Moretti - no, non l'ultimo - neanche il terzultimo - forse il terzo? Lamentandosi della mania che hanno tutti di parlare di cinema senza mai aver studiato l'argomento, gridava: parlo di astrofisica io?

Molti anni prima dell'invenzione del cinema, e della stessa astrofisica, il problema era già avvertito dagli intellettuali. Non potendo citare Moretti, ripiegavano su San Gregorio vescovo di Nissa, che nel IV secolo scrisse in mezzo a un migliaio di pagine fitte di patristica l'esilarante bozzetto che ho tradotto sopra un po' liberamente. È un brano famoso in senso molto relativo: ci ho messo anni a rintracciarlo. Poi mi sono reso conto che lo cercavo nel volume di patristica sbagliato, perché tutti questi professori che si lamentano dell'incompetenza popolare... sbagliano quasi sempre a segnalare la fonte della citazione, attribuendola a un amico di famiglia di Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo. Anche lui vescovo in Cappadocia e padre della Chiesa, per cui non è così difficile confondersi.

È un errore illustre, condiviso dallo stesso Hegel; lui del resto non aveva perso tempo a sfogliare i padri cappadoci, ma si era fidato di Gibbon che nel suo best seller Declino e caduta dell'Impero Romano aveva a sua volta citato il Gregorio sbagliato, mutuando l'errore da un teologo dei suoi tempi, tale John Jortin che nelle note del suo volume aveva fatto confusione tra i due Gregori ed era morto prima di correggere le bozze. Che storia affascinante. Morale: non si è mai abbastanza competenti.

Va bene, ma di che stava parlando Gregorio esattamente? In quel frammento dell'orazione Sulla divinità del Figlio e dello Spirito Santo, 46esimo volume della Patrologia greca, il vescovo di Nissa si distrae per un attimo dal problema trinitario, e si volta a dare un'occhiata a quel che succede nella grande città: Costantinopoli. Quando mi imbattei per la prima volta nei due Gregori, a metà anni Novanta, in società si parlava più che altro di calcio e politica. Tutti ne erano esperti, tutti ritenevano di avere pareri interessanti, giuro, non è una frenesia nata con facebook: Zuckerberg ci ha fornito soltanto un impietosissimo specchio. A volte mi mancava l'aria e così frequentavo lezioni strane, ad esempio Storia del Cristianesimo Antico.

Scoprivo che secoli prima, gli abitanti di una lontana metropoli, dovendo pur trovare qualcosa su cui litigare in attesa dell'invenzione del calcio, si scannavano intorno alla teologia. Il dibattito sulla Trinità, e sulla generazione del Figlio, era uscito dai capitoli e dai sinodi e circolava sulle bocche di tutti, pizzaioli e rigattieri. Venivano alle mani spesso, e a volte ci scappava il morto.  L'altro Gregorio - non quello di Nissa - fu quasi linciato nella sua stessa cappella privata, perché era stato ordinato vescovo niceno di Costantinopoli, in un periodo in cui in città andavano per la maggiore gli ariani. Questi ultimi credevano che il Padre avesse creato il Figlio in un secondo momento; i niceni invece credevano in un Figlio generato, non creato, della stessa sostanza del Padre. I niceni avevano già vinto un Concilio nel 325, e col tempo avrebbero prevalso, massacrato gli ariani e distrutto i loro libri. Ma in quel periodo erano un po' in crisi: gli imperatori, dopo averli favoriti, se ne erano stancati e a volte sponsorizzavano apertamente gli avversari. Il bello di studiare queste cose, quando sei giovane, è che ti chiedono la stessa sospensione dell'incredulità di una saga fantasy - pensateci, si accapigliavano per stabilire se il Figlio fosse stato "creato" o "generato" dal padre. Un dibattito che oggi non interessa più nemmeno i cristiani. Già. Oggi parliamo d'altro. Ma, ecco, di che parliamo? 

A quel tempo ero una specie di marxista, a mio modo ovviamente – in sostanza credevo che gli uomini si potessero dividere soltanto in classi sociali. Questa era l’unica classificazione che avesse un senso economico, e quindi l’unica che avesse un vero senso. Tutti gli altri insiemi – i cosiddetti “popoli”, le cosiddette “religioni” – erano fenomeni sovrastrutturali. Non è che non esistessero, ma venivano elaborati dagli uomini a mo’ di paravento, sovrastruttura, per occultare la ripartizione fondamentale, quella tra profittatori, aspiranti profittatori e lavoratori. Tutte queste cose non so se Marx le abbia mai scritte davvero, avrei più difficoltà a spulciare il Kapital che la Patrologia, però ci credevo e forse ci credo un po’ persino adesso. Dunque diffidavo della versione di San Gregorio, perché davvero, che può interessare a un cambiavalute della Generazione del Figlio? Però da altri accenni si capiva che gli ariani erano la fazione più popolare (lo stesso Ario, racconta Filostorgio, una volta cacciato dalle chiese ufficiali, si era messo a comporre i suoi sermoni sulla musica delle canzonacce dei marinai e dei mulattieri). I niceni invece avevano già quella sfumatura benpensante che li identificava come organici della borghesia – e i Costantini giocavano a metterli gli uni contro gli altri, appoggiando ora questa ora quella fazione, per strategia o per capriccio.

Due secoli più tardi sarebbe successa la stessa cosa coi tifosi delle due più importanti scuderie delle corse di bighe, gli Azzurri e i Verdi. I primi erano i popolari (ma appoggiati dall’imperatore Giustiniano), i secondi aristocratici e monofisiti. Entrambi giravano coi coltellacci legati alla gamba, e si pettinavano all’Unna, lasciandosi crescere le creste per spaventare gli avversari. Vedi come lo stesso fenomeno (una guerra tra bande di delinquenti per le strade di una metropoli) si può leggere in tre modi: (1) guerra di tifosi: è il modo più superficiale, come se qualcuno fosse davvero disposto a morire per i colori di una squadra; (2) guerra di religione, monofisiti contro ortodossi; (3) lotta di classe. A me ovviamente interessava solo il terzo piano, quello di cui nessuno vuole mai parlare. Fanno tutti una gran confusione, parlano di bighe o quadrighe o di natura divina e umana del Figlio, perché non vogliono parlare di salari e di libertà degli schiavi… Però alla fine Azzurri e Verdi si stancarono di ammazzarsi per il sollazzo del Cesare, gli assediarono il palazzo contiguo al Circolo e chiesero le dimissioni del prefetto del pretorio, ritenuto responsabile dell’iniqua tassazione. (Le ottennero, ma in seguito Giustiniano, consigliato dalla moglie Teodora, riuscì a dividerli e li sterminò).

(Milletrecento anni più tardi, in una difficile città di mare dall’altra parte dell’Europa, ci si rimise ad ammazzare tra “verdi” e “azzurri”. I primi tifavano il Celtic Glasgow, erano immigrati irlandesi e cristiani cattolici. I secondi sostenevano i Rangers, ostentavano lealtà alle maestà britanniche e fedeltà alla chiesa protestante. Risse da ubriachi, guerre di religione, indipendentismo e identità celtica: dipende anche da storia vuol leggere la gente il mattino dopo).


Seduta di autocritica maoista in Bobocandia ("O Marx O Lenin O Mao Mao").

Nello stesso periodo in cui studiavo i padri cappadoci, avevo messo le mani su certi vecchi fumetti di un francese geniale e irregolare, Gérard Lauzier. La sua prima storia era ambientata in un’ex colonia francese di fantasia tra jungla e savana. Gli abitanti della savana erano diventati il Fronte Bobocalandese di Liberazione – trotskisti – mentre la tribù della giungla si era convertita al marxismo-leninismo di marca cinese, fondando il Fronte di Liberazione Bobocalandese. Dopo il tramonto conducevano lunghe sessioni di autocoscienza politica davanti al fuoco, cantando O Lenin O Mao O Mao al suono dei tamburi. Negli anni Settanta Lauzier passava per un autore di destra, e in effetti disegnava ancora gli africani coi labbroni e i dentoni. Si rifiutava a vedere il progresso nella decolonizzazione: era tutta una farsa, una tribù resta una tribù anche se coi fucili le vendi il libretto rosso. Il libro è fuori commercio in Italia, trovarlo è stato più difficile che rintracciare la citazione giusta nella patrologia.

Mi capita spesso di ripensare alla vignetta della tribù marxista, ultimamente, e ai venditori di tappeti di Gregorio di Nazianzo, pardon, Nissa. Sono contento che è finito Natale, quest’anno più del solito. Al mercato, in piazza, in sala insegnanti, per un mese non s’è parlato che di identità cristiana, e soprattutto di presepe. Chiedevi il prezzo del pane, ti rispondevano presepe. Domandavi che fine aveva fatto la programmazione monodisciplinare, ti mettevano al corrente del grosso rischio che stavamo passando di non poter più sentire le zampogne a causa degli immigrati musulmani. L’Amaca di Michele Serra appesa dappertutto. Il punto di riferimento del ceto medio riflessivo progressista che verso la fine del 2015, fidandosi di qualche notizia distorta, si è convinto che i musulmani ci stessero togliendo il presepe. Il presepe. Tra due secoli qualcuno ritroverà un fondo di Michele Serra nel fondo di una valigia, leggerà e si domanderà nella sua lingua sconosciuta: ma sul serio? Parlavano di questo all’inizio del millennio? Di presepe? Non del riscaldamento globale, dell’instabilità economica europea o delle migrazioni nel mediterraneo; parlavano del presepe? Era così tanto importante per loro? O c’era dietro qualcos’altro che non volevano dirci. Cioè: cosa intendeva davvero questo Serra per “presepe”?

Poi i sauditi hanno ammazzato un imam – i sauditi ammazzano chi vogliono più o meno come l’Isis, e più o meno per gli stessi motivi, ma sono nostri alleati, quindi è ok – salvo che per una settimana è stato tutto un fiorire di esperti di teologia islamica. Ci hanno spiegato che tutte le tensioni del Medio Oriente – tutte – si possono spiegare con la religione, l'eterna rivalità tra sunniti e sciiti. Perché, credevate che fosse il petrolio? I sauditi che lottano per imporre una supremazia regionale, che l’Iran gli contende? La Russia che reagisce all’accerchiamento Nato? Le irrisolte questioni curde e palestinesi? No. «Braccia rubate al mercato o al cantiere», avrebbe detto il nostro Gregorio, ci hanno avvertito che tutto dipende da uno scisma di mille anni fa. E infine si è scoperto che a Colonia a capodanno c’erano un sacco di maschi molesti, e i redattori hanno subito deciso che si trattava di stranieri, anzi immigrati, probabilmente clandestini, magari islamici e Bruno Vespa ha twittato:



Le nostre donne. Forse siamo sempre stati così, forse la novità è che Internet ha moltiplicato gli specchi per guardarci. Io una volta pensavo che Bruno Vespa fosse organico a una determinata classe sociale che imponeva la sua visione dei fatti a tarda sera su Rai 1. Ultimamente lo vedo più come uno stregone che balla al ritmo del tamtam, cantando parole che non conosce, “religione”, “valori”, “cultura”. Ma quel che vuole dire è quello che i capotribù hanno sempre detto in questi casi: straniero vuole venire e rubarci le donne.

Forse i posteri saranno più indulgenti. Spulciando un enorme archivio troveranno l’amaca di Serra o i tweet di Vespa, e capiranno che “presepe”, “religione”, “valori”, “bande di immigrati”, in realtà volevano dire una sola cosa: abbiamo paura. Il mondo cambia troppo alla svelta, un sacco di gente arriva qua e mette in discussione tutto quello in cui abbiamo sempre creduto – comprese quelle cose in cui non credevamo di credere davvero (il presepe?) ma erano insomma parte di un paesaggio. Difendo il mio presepe dai musulmani, quarant’anni fa difendevo la mia famiglia dai cosacchi. La mia quarta sponda dagli inglesi. La mia Patria dallo Straniero. Il mio Dio dall’infedele. La mia bandiera, qualsiasi colore abbia, perché è proprio questo il punto: non importa il colore. Non importa il Dio, non importa la Patria, né la famiglia né il presepe. Sono valori arbitrari che fissiamo di volta in volta. L’importante è l’aggettivo: mio. Tracciamo una linea qualsiasi e guai a chi la oltrepassa. Sul serio non moriremmo per il colore di una squadra? Non è l’unica cosa per cui moriamo, alla fine dei conti?

Gregorio nacque in Cappadocia, che oggi è lo zoccolo duro della Turchia rurale e islamica, ma nel suo secolo produceva santi cristiani e padri della Chiesa a un ritmo impressionante. Gregorio può vantare in calendario una nonna, Santa Macrina l’Anziana; due fratelli (San Basilio Magno e San Pietro di Sebaste) e una sorella (Macrina la Giovane). Lui si venera il 10 gennaio.
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Buon compleanno Giuliano Ferrara

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E buon risveglio.

(Alla voce: creature antropomorfe che senza il Foglio nessuno si sarebbe filato).
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L'annosa questione del razzismo di Tolkien

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Make Middlearth Great Again
Sauron non è il Signore Oscuro di cui avete senz'altro sentito parlare, ma un sovrano illuminato che sostiene il progresso industriale. Il perfido Gandalf il Bianco, tiranno feudale (re Aragorn non è che il suo burattino) mira a impossessarsi delle ricche miniere di Mordor – certo, occorrerà sterminarne la popolazione, ma non ha nessuna importanza: la storia la fanno i vincitori, e i vincitori dipingeranno nelle saghe le vittime dello sterminio come mostri subumani, gli "Orchi". È la trama di The Last Ringbearer, la più politica delle parodie del Signore degli Anelli, scritta qualche anno fa da un biologo russo, Kiril Eskov. In Russia fu un caso editoriale, in Italia e nei Paesi anglosassoni è ancora inedito. Eskov ha immaginato che il Signore degli Anelli fosse un'opera di propaganda, e l'ha smontata in quanto tale. Ma l'operazione non avrebbe funzionato così bene se lo stesso Signore degli Anelli non fosse un'opera che si presta, proprio per la sua architettura semplice, ma maestosa, a essere smontata e ricomposta. È una delle qualità dei classici, e Il Signore degli Anelli evidentemente lo è diventato. Malgrado il suo razzismo? Perché ogni tanto l'accusa salta fuori, e c'è sempre qualcuno che si stupisce, come se fosse la prima volta. Ma per qualcuno è sempre la prima volta.

Mappa non autorizzata, anzi proibita, anzi l'ho ritrovata in un sito russo, spero non sia contagiosa.
Quando non hai niente di nuovo da dire, ma vuoi fare notizia comunque, puoi sempre dare a Tolkien del razzista. Funziona: vuoi perché il razzismo è sempre d'attualità, e Tolkien non passa mai di moda; vuoi perché trattandosi di un autore che va per la maggiore tra i giovanissimi, puoi ripescare lo stesso dibattito ogni cinque-dieci anni e troverai sempre qualche giovane lettore che ci rimane male, Tolkien razzista? Non l'aveva mai sentita. E poi c'è un'altra ragione, ovvero che Tolkien, per i nostri standard, è davvero un po' razzista. Veramente poco, per un inglese dell'ultima generazione coloniale; ma quanto basta per far scattare gli allarmi più sensibili, tarati sugli standard di multiculturalità del 2018; quanto basta per riavviare ogni tanto la polemica. Anche a causa dei suoi difensori, esperti e affezionatissimi, e non disposti a lasciar cadere l'argomento senza citare una volta in più le durissime parole di Tolkien sulle derive nazionaliste e antisemite che negli anni Trenta osservava sgomento manifestarsi sul Continente. E tuttavia Tolkien è anche lo scrittore che, dovendo procurarsi migliaia di comparse per le schiere del Male nelle scene di battaglia, decide di reclutarle tra i Popoli dell'Est e del Sud. Una classica commistione tra esotismo e pericolo che i lettori inglesi dovevano percepire come assolutamente naturale nel 1954, l'anno della pubblicazione in Gran Bretagna, e che nel 2018 facciamo molta più fatica a mandar giù.

Nel frattempo la Terra di Mezzo è diventata un universo cinematico, e i volti dei suoi protagonisti sono stati fissati nella coscienza di almeno una generazione dalle scelte di casting di Peter Jackson, filologicamente inappuntabili, ma proprio per questo un po' troppo nordiche per i gusti di uno spettatore globalizzato, assuefatto a prodotti hollywoodiani dove le percentuali di comprimari bianchi, neri e asiatici sono calcolate al millimetro. Jackson non ha neanche voluto evitare di attribuire agli Orchi e agli Orchetti una carnagione scura, ed era destino che prima o poi qualcuno decidesse che la cosa lo offendeva. L'ultimo in ordine di apparizione è Andy Duncan, scrittore fantasy che in un'intervista a Wired ha ammesso di non poter passare sopra alla concezione tolkeniana per cui "alcune razze sono semplicemente peggiori di altre, e che alcuni popoli sono semplicemente peggiori di altri". L'affermazione in sé non ha nulla di clamoroso, ma il Times l'ha ripresa e nel giro di poche ore aveva fatto il giro del mondo, o almeno quella porzione non piccola di mondo che va dal Times al Secolo d'Italia (continua su TheVision)

Ma se lo tagliano, sanguina? Apriamo il dibattito.

La polemica in sé non è affatto nuova, e in Italia in particolare non dovrebbe sorprenderci: in fondo siamo stati i primi a sospettare, già negli anni Settanta, che Tolkien fosse un fascista o peggio. Il Signore degli Anelli, che nell’area anglosassone era esploso nel 1968, anno della prima edizione “tascabile” – si fa per dire, non stava nemmeno nelle tasche degli eskimo di allora – ed era stato adottato gioiosamente dalle star della controcultura, in Italia ha avuto una storia tutta particolare. Fu pubblicato nel 1970 da Rusconi, un editore di rotocalchi a base di gossip sui Savoia e Padre Pio, con una famigerata prefazione di Elémire Zolla che non si contentava di anticipare la trama (oggi diremmo “spoilerare”), ma lo innalzava come stendardo di una letteratura anti-moderna, puramente ispirata al folklore e alla tradizione.

Tolkien a ben vedere era tutt’altro che rispettoso delle tradizioni a cui attingeva, e che spesso deliberatamente pervertiva, ma Zolla non voleva o non poteva accorgersene, e ormai il dado era tratto: liquidato dagli ambienti progressisti come autore d’evasione, negli anni Settanta Tolkien fu adottato da una sparuta ma combattiva minoranza di sedicenti intellettuali di destra a cui non sembrava vero poter disporre di un generoso serbatoio di leggende, neanche troppo difficili da leggere. Tolkien in realtà piaceva a tutti, ma i lettori di sinistra ci misero un po’ di tempo a riorganizzarsi. A fine anni Novanta la riduzione cinematografica rimescolò le acque: il Signore degli Anelli entrò a tutti gli effetti anche in Italia nel calderone della cultura pop, proprio mentre i Wu Ming tentavano di recuperarlo a sinistra, insistendo sull’aspetto multiculturale di quel melting pot che è la Compagnia dell’Anello, e sul fatto che i veri eroi del romanzo non siano i tradizionali cavalieri feudali, ma gli hobbit, antieroi provinciali. Tolkien in generale è un autore molto più raffinato e sfuggente di quanto sembri a prima vista. L’affetto che nutre per i miti che rielabora è molto più smaliziato di quanto appaia; le sue fiabe non hanno un lieto fine, Bene e Male restano intimamente connessi.

E allo stesso tempo Tolkien resta un uomo del suo tempo, e al suo tempo non risultava così offensivo immaginare schiere di nemici avanzare da un Sud arido, a cavallo di elefanti. Possiamo decidere che questa cosa non sia più accettabile, e che l’opera di Tolkien sia destinata a seguire sugli scaffali più alti quella di Kipling o di altri autori dell’era coloniale che solo gli addetti ai lavori sono ancora in grado di leggere senza avvertire un inevitabile fastidio, lo choc culturale che proviamo di fronte all’implicito razzismo che permeava la cultura europea fino a pochi decenni fa.

Ma probabilmente non andrà a finire così: Tolkien sembra ancora avere molto da dirci (più di Kipling, tutto sommato). Un’opera che può essere ancora letta da destra, da sinistra, come una saga di eroi o come materiale di propaganda, non dà l’impressione di poter tramontare ancora per almeno una generazione. Se ne riparlerà tra quattro o cinque anni, quando qualcuno magari si accorgerà che Tolkien odia i ragni proprio mentre l’aracnofobia diventa uno stigma sociale, e qualche lettore appena arrivato strabuzzerà gli occhi: ma come, Tolkien aracnofobo? Peccato, e dire che mi piaceva così tanto.

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Niente di nuovo dal fronte del Natale

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Natale è vicino, si riapre il Fronte del Presepe Nelle Scuole: l'infinita battaglia per salvare una delle tradizioni natalizie più specificamente italiane, nonché più legate all'aspetto cristiano della festa. Il Presepe Nelle Scuole, per definizione, è minacciato, è a rischio di scomparsa, ecc. Il bollettino più aggiornato lo dà il Giornale: dunque pare che un membro del consiglio regionale del Veneto (lista Zaia) abbia tentato invano di regalare un presepe tradizionale a una scuola primaria di Mestre, senza prima chiedere una delibera del Consiglio di Istituto. La sorpresa del consigliere è legittima: l'anno scorso la sua Regione aveva stanziato un fondo di 50.000 euro per non lasciare neanche una scuola veneta senza un presepe. Dove sono finiti tutti quei soldi? Vuoi vedere che li hanno spesi in gessetti e computer invece che in asinelli e in buoi?

Il Krampus
Dal Fronte per ora questo è tutto: un po' poco. Certo, a Trieste è passata una mozione del Consiglio Comunale che dovrebbe rendere il presepe "obbligatorio". Certo, Matteo Salvini non si è dimenticato di ricordarci che "chi tiene Gesù fuori dalla porta delle classi non è un educatore". Insomma l'artiglieria continua a sparare, ma non è chiaro contro chi: tutte queste scuole che smettono di fare il presepe forse non esistono più, ammesso che siano mai esistite. L'impressione è che nelle trincee sia rimasto soltanto qualche ufficiale, mentre il grosso delle truppe festeggia nelle retrovia, magari sotto un abete illuminato. Quanto al nemico, il perfido infedele deciso a distruggere le nostre tradizioni a partire dal presepe, forse nelle trincee non c'è nemmeno mai sceso. I musulmani italiani in particolare non hanno mai dato l'impressione di sentirsi offesi dal presepe, anzi. La Lega Islamica del Veneto addirittura è arrivata al punto di regalare presepi agli amministratori – e nonostante tutto il presidente continua a sentirsi bersaglio di polemiche. Forse è inevitabile, forse il Fronte del Presepe ormai è una tradizione natalizia: c'è chi addobba l'albero, c'è chi compra i regali, c'è chi scrive su facebook che le nostre sacre tradizioni sono in pericolo e se la prende con infedeli immaginari – non i musulmani, gli indù, i buddisti o gli ebrei che lavorano con lui o studiano con suo figlio: piuttosto dei folletti da fiaba malvagi che nottetempo smonterebbero i presepi nelle scuole e nelle chiese.

Il Fronte del Presepe non è che un il teatro minore di un grande conflitto immaginario, la Guerra del Natale – "War On Christmas" la chiamano in America, dove è scoppiata addirittura ai tempi del maccartismo. Ai tempi il bersaglio prescelto erano marxisti ed ebrei, sospettati di voler eliminare l'augurio "Merry Christmas" dalle cartoline, in favore di un più laico e materialista "Happy Holidays", buone feste (ironicamente, molte canzoni natalizie americane sono state scritte da compositori ebrei). Dopo decenni di tregua, la guerra si è riaperta dopo l'Undici Settembre: anche negli USA, a nulla valgono le proteste d'innocenza dei musulmani, o i loro rassicuranti video di auguri natalizi; anche laggiù il vero nemico non sono loro, ma un entità più vaga e malvagia, un complotto anti-cristiano e anti-americano che ogni anno deve minacciare l'esito felice della celebrazione; quasi una rielaborazione postmoderna del Krampus, il mostro che nel folklore dell'Europa Centrale dev'essere domato da Santa Klaus prima della notte di Natale. Quarant'anni fa il Krampus erano i marxisti e gli ebrei, oggi sono i musulmani, domani a chi toccherà.

Natale è vicino, e come ogni anno qualcuno sta per intonare un'invettiva contro la deriva consumistica di quella che era una festa cristiana (l'anno scorso memorabile fu quella di Cacciari). A nulla varrebbe obiettare che il Natale è ormai festeggiato spontaneamente anche dove i cristiani sono un esigua minoranza (in Cina è sempre più popolare); che le tradizioni natalizie universalmente più condivise non sono particolarmente cristiane, ed esistevano già prima che la festa pagana del Sole Vincitore fosse assorbita dal calendario cristiano. Tra le non molte cose che abbiamo in comune coi nostri contemporanei cinesi, c'è la capacità di riconoscere al volo un'immagine di Babbo Natale; tra le ben poche cose che abbiamo in comune coi nostri antenati pagani e barbari, c'è l'abitudine di scambiarci doni e dolci a base di frutta candita nei giorni intorno al solstizio d'inverno. Il vecchio con la barba bianca è San Nicola di Myra, oggi in Turchia, lo sanno tutti; ma forse non tutti sanno che prima di lui era lo stesso Odino a cavalcare nella notte del solstizio, portando dolcetti ai bambini che lasciavano carote sul davanzale per il suo cavallo a otto zampe. Quanto alla data del 25 dicembre, nessun vangelo ne parla (nessun vangelo precisa né il mese né l'anno della nascita di Gesù Cristo), ma coincide singolarmente con la festa del Sole Invitto, che l'imperatore Aureliano introdusse nel 274... (Continua su TheVision).


La scelta di celebrare il terzo giorno dopo il solstizio, quando dopo sei mesi le giornate ricominciano ad allungarsi, fu forse ispirata ai culti mitraici, ma quel che interessava realmente ad Aureliano era imporre un culto universale a tutti i popoli dell’impero – e cosa c’è di più unico e universale del sole? I cristiani – magari suggestionati dall’idea di una resurrezione vittoriosa dopo tre giorni di oscurità – fecero propria la festa neopagana. Nel giro di un secolo, il cristianesimo sarebbe diventato religione di Stato, e l’editto di Tessalonica avrebbe definito i non cristiani come “dementes”, pazzi. Non è difficile riconoscere nell’odierna frenesia natalizia qualche aspetto dell’antica follia dei Saturnali romani e delle feste germaniche. Forse non è una coincidenza se da millenni sentiamo il bisogno di circondarci di luci, di affetti e di zucchero nel periodo più oscuro dell’anno.

Nel 2000 il governo russo donò alla città di Demre, già Myra, una statua di San Nicola, raffigurato secondo la classica iconografia ortodossa; un’immagine che i turisti russi in visita alla tomba del Santo avrebbero apprezzato, ma che lasciava evidentemente perplessi gli automobilisti turchi: al punto che pochi anni dopo fu spostata in una posizione più vicina al santuario, e soppiantata al centro della rotonda da un Babbo Natale di plastica. Che ci piaccia o no, il San Nicola più famoso e riconoscibile dai visitatori di tutto il mondo è quest’ultimo. Non c’è dubbio che sia una banalizzazione: ma forse è il prezzo da pagare per avere una festa davvero universale. Chi chiede con insistenza che il presepe rimanga in tutte le scuole e i luoghi pubblici, si prepari a vederlo trasformato in un oggetto altrettanto banale e universale.
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Hai il diritto di fare il razzista, io di fartelo notare

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Capita un paio di sere ogni estate. Mentre cerco di parcheggiare sotto casa, trovo una camionetta della polizia. Lì per lì non ci faccio caso. Poi verso le dieci di sera, invece dei soliti echi di pianobar, comincio a udire cazzate alla finestra. Ce l'hanno coi musulmani, con l'Europa, ancora loro? Sono arrivati i tizi di Forza Nuova, più puntuali e molesti di un circo Togni. Sono sempre una ventina, probabilmente nel pulmino non ce ne stanno di più. Non fanno numeri di giocoleria, sanno solo sventolare tricolori, uno per braccio, forse nel tentativo di sembrare il doppio. Non mangiano spade, non sputano fuoco, al massimo sempre quelle tre cazzate, l'Europa è Cristiana Non Musulmana e così via. La gente transita un po' perplessa: il mio piazzale è equidistante tra un kebab e la gelateria. Ma in fondo che male c'è. Hanno diritto di dire quello che vogliono, no? In Italia c'è libertà di parola, e quindi perché non occupare un parcheggio con venti ragazzotti, quaranta bandieroni e un megafono e scandire per due ore "L'Europa è Cristiana, non Musulmana"?

E se io scendessi ad avvertire che hanno rotto i coglioni: non sarebbe libertà di parola anch'essa?
È una domanda retorica. Chi ci ha provato le ha prese un po' da loro, un po' dalla polizia: poi è stato denunciato e condannato a pagare multe da 2000 euro. Sembra insomma che la libertà di parola dei forzanovisti sia molto preziosa. Dev'essere il motivo per cui, ogni volta che me li ritrovo nel piazzale, tutto intorno è silenzio: il sindaco fa bloccare il traffico. Il sindaco in effetti non sembra mai molto entusiasta di trovarseli tra i piedi, ma in questura pare che ci tengano molto al diritto di parola dei forzanuovisti. Ci tengono talmente che di solito mandano almeno due camionette, più di una quarantina di agenti bardati di tutto punto, sicché i ragazzotti di Forza Nuova che vengono dal Veneto a sgolarsi sul concetto dell'Europa Cristiana non hanno solo due bandieroni a testa, ma anche due o tre o quattro agenti di pubblica sicurezza che vegliano sulla loro incolumità e sulla loro libertà di espressione. Così la mamma è contenta, dev'essere una tizia assai apprensiva, tesoro, dove vai? Vado in Emilia Romagna a difendere la civiltà cristiana. Tesoro, ma sei sicuro? Tranquilla mamma, ci assegnano quattro agenti a testa, e li paghi tu con le tue tasse, sei contenta?

Se vuoi protestare contro il tour estivo di Forza Nuova devi trovarti in una piazza ad almeno 500 metri di distanza, e accomodarti dietro la transenna, dove ci sono i poliziotti più simpatici che spiegano ai cittadini che non ci possono fare niente, anche loro sono antifascisti, siamo tutti antifascisti, però ehi, la libertà di parola dei forzanuovisti è tutelata dalla Costituzione e quindi dietro la transenna e muti. Ché tra un po' il siparietto finisce, i ragazzotti tornano a casa in pulmino e i poliziotti si pigliano auspicabilmente una serata di straordinario in busta, win win e buonanotte. Vien da pensare che il senso sia tutto qui: questi sbandieratori da noi non se li fila nessuno, e dire che di razzisti anche qui sarebbe pieno, ma più che razzisti sembrano la caricatura. Non ce l'hanno un po' d'orgoglio anche loro, non si vergognano di essere trattati dalle forze dell'ordine come una specie protetta? Anche a Brescia, ho letto che la polizia li scorta mentre fanno le ronde, perché da soli non si azzarderebbero ad andare in giro nei quartieri difficili. Dunque, se ho capito bene: nei quartieri difficili di Brescia si sente la mancanza delle forze dell'ordine; da questa mancanza scaturisce la necessità di una ronda di Forza Nuova, e a questo punto la polizia ci va per scortare i ragazzotti di Forza Nuova che da soli in effetti potrebbero farsi male. Qualcosa non mi torna.

D'altro canto devono pur potersi esprimere: libertà di parola! Quel che non sopportano è che gli altri si esprimano su di loro. Alla vigilia della finale della Coppa del Mondo di calcio un giornalista sportivo molto vicino a Casa Pound scrive un tweet dove saluta la nazionale croata "completamente autoctona, un popolo di 4 milioni di abitanti, identitario, fiero e sovranista", contro il melting pot della selezione francese. Nessuno lo picchia per quel tweet, nessuno lo minaccia; qualcuno ridacchia perché ha scritto "melting pop" che come refuso è abbastanza geniale; molti lo prendono in giro, ma ehi, non si può piacere a tutti, no? Specie se manifesti insofferenza con tutti quelli che non sono "autoctoni", cioè più o meno chiunque. E sicuramente un po' di polverone aveva messo in conto di sollevarlo; non è un ragazzino. Però succede che prenda le distanze la Mediaset, nientemeno: e questo forse non l'aveva calcolato Il tizio in questione infatti non scrive solo su "Il Primato Nazionale / Quotidiano Sovranista": è anche un riconoscibilissimo dipendente dell'azienda, e Mediaset tra l'altro è in una fase delicata. L'approccio allarmista adottato in campagna elettorale nei confronti dei migranti si è molto stemperato, ormai è normalissimo ascoltare opinionisti in prima serata su Rete4 che spiegano che l'Italia ha bisogno di badanti, quindi di migranti – regolari, s'intende – che Salvini dovrebbe pensare a farne entrare di più di regolari, invece di prendersela con quei poveretti sui barconi. Insomma Mediaset sta correggendo il tiro, e così le redazioni giornalistiche e sportive approfittano del tweet del suo dipendente per prendere le distanze dal "contenuto razzista" del tweet. Apriti cielo. Come puoi parlare di "razzismo" per un tweet che difende il sovranismo degli autoctoni? Pare che non sia ammissibile (continua su TheVision).

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Salvini (non guarda più nessuno in faccia)

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Salvini chiude i porti ai poveracci,
Salvini ha già aumentato i morti in mare.
Salvini dà il permesso di sparare;
Salvini ride e sfoggia gli avambracci.

Salvini ai ricchi toglie tasse e lacci,
e anche a Bruxelles non devono seccare:
che lui fa tutto quello che gli pare.
Salvini è il capo, l'hai capito? Stacci.

Ormai non guarda più nessuno in faccia:
anche allo specchio passerebbe dietro
la notte, quando deve andare a letto.

Non è che si vergogni, o si dispiaccia;
arriccia forse il naso e dice al vetro:
"Ma guarda questi stronzi, chi hanno eletto".

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Fuori dall'Italia i libri sacri anticostituzionali, dai

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Giura sul Vangelo, sfoggia un rosario: ma chi è questo nuovo integralista cattolico che avanza da destra? L’ex comunista padano, Matteo Salvini in un comizio a Milano ha giurato di “applicare davvero la Costituzione rispettando gli insegnamenti del Vangelo”. Un libro sacro e una costituzione laica possono andare d’accordo? Tutto sommato sì. È Salvini che non sembra c’entrare molto con entrambi: ce lo vedete nel Vangelo, a scacciare con la ruspa il Buon Samaritano? O tra gli apostoli a polemizzare con Gesù Cristo che rifiuta di prendere una posizione coerente contro l’Unione Europea del tempo, l’Impero Romano? Quanto alla Costituzione, basta aprirla a pagina uno: l’articolo 8 dice che tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge, ok, che problema c’è? C’è che appena una settimana fa Salvini, a “Speciale Fatti e Misfatti” (TgCom24), ha dichiarato che una volta al governo metterà “lo stop”, “il veto”, a “ogni presenza islamica organizzata, regolare o abusiva in Italia”. Insomma, se vince Salvini i musulmani non potranno né organizzarsi né nascondersi: dovranno levare le tende? Sono quasi due milioni, di cui trecentomila cittadini italiani: è difficile pensare che il leader leghista stia parlando sul serio. Il suo punto di vista merita comunque di essere discusso, se non altro perché è condiviso da una parte della popolazione ormai maggioritaria: “L’Islam è incompatibile con i nostri valori e la nostra cultura,” afferma. “L’Islam applicato alla lettera, il Corano applicato alla lettera […] sono atti di violenza”. Il che peraltro è vero.






Momenti di preghiera nelle città di Torino, Milano e Roma

Esatto, ho appena dato ragione a Matteo Salvini.
Applicare il Corano alla lettera sarebbe senz’altro un atto di violenza. Basta leggere qualche versetto, per esempio quelli sulla condizione femminile. È un libro che comincia con Allah che dice alla prima donna: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (GE 3,16). In un’altra sura si legge: “Dalla donna ha avuto inizio il peccato: per causa sua tutti moriamo” (SI 25,24); “se non cammina al cenno della tua mano, toglila dalla tua presenza” (SI 25,26). Non è certo tra queste pagine che troveremo anche la minima ispirazione all’emancipazione femminile: (“Motivo di sdegno, di rimprovero e di grande disprezzo è una donna che mantiene il proprio uomo”) (SI 25,21).



Persino nella preghiera comune le donne sono ghettizzate: “Non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in pubblico” (CO I 14,34-35). Da queste pagine nasce anche il barbaro costume del velo: “L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Allah; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli” (CO I 11,5-10). Il profeta: non concede “a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo […] Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia” (TI I 2,12-15).






Se, malgrado tanta modestia e tante barriere, un uomo riuscisse comunque a vederla e a desiderarla, il consiglio del Profeta è dei più drastici: “Vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi organi, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna” (MT 5,28-29). Che altro dire? Il Dio del Corano è un Dio della guerra (“Non sono venuto a metter la pace, ma la spada”), determinato a portare la sua jihad fin dentro all’istituzione famigliare (“Sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera”). Un libro del genere, se applicato alla lettera, non può che ispirare atti di violenza e di prevaricazione.
Quindi Salvini ha ragione. Bastano anche solo i versetti che ho citato per dimostrarlo.

Salvo che... (continua su TheVision)
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Marco Minniti ha visto un mostro

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Marco Minniti è il ministro degli Interni. Già ai tempi di Renzi (e Letta), era sottosegretario con delega ai servizi segreti. Qua fuori magari c’è gente che si spaventa per un nonnulla, ma Marco Minniti, in virtù della sua posizione e della sua esperienza, è probabilmente la persona che conosce meglio di chiunque in Italia il quadro generale. Se fossimo alla vigilia di una rivolta di popolo, Minniti dovrebbe essere il primo a rendersene conto. Se fossimo alle soglie di una guerra civile, il primo a farsene un’idea dovrebbe essere lui. Tutto questo, che a noi può sembrare improbabile, se c’è qualcuno che può vederlo è Minniti.
Marco Minniti a un certo punto ha visto qualcosa di orribile. Qualcosa che nessun altro ancora ha visto, e che lo ha terrorizzato. E non ha terrorizzato un politico qualsiasi, uno di quelli che si allarmano per una sciocchezza e per mestiere; ha talmente preoccupato proprio Marco Minniti, da spingerlo a zelanti iniziative: a concludere accordi svilenti; a fornire, secondo Amnesty International, navi ai miliziani libici a cui è stato di fatto subappaltato il respingimento dei migranti; rinnegare quello che fino a qualche anno fa era considerato un tratto irrinunciabile della nostra identità nazionale: l’umanità. Tutto questo Minniti non può averlo fatto semplicemente per l’orgoglio di annunciare che quest’anno è sbarcato qualche migliaio di disperati in meno. O per spostare un po’ la lancetta dei sondaggi verso il centrosinistra. No. Se Minniti ha fatto quel che ha fatto è perché deve aver visto Qualcosa.
Lo aveva visto già sei mesi fa, lo ha ribadito ieri. Noi magari pensavamo che cinque milioni di stranieri residenti in Italia non costituissero un’invasione; che fossero, viceversa, quasi indispensabili al bilancio demografico e alla vitalità del Paese; che al netto del fenomeno della clandestinità, non delinquessero molto di più degli italiani; che contro di loro si stesse montando su tv e organi di stampa una squallida campagna di propaganda con evidenti finalità elettorali. Stolti che siamo stati. Se abbiamo creduto in tutto questo, è perché non abbiamo visto quello che hanno visto gli occhi da oracolo di Marco Minniti.
Deve aver scorto la sagoma di un mostro, tratteggiata in qualche rapporto top secret o sondaggio confidenziale: uno di quegli esseri impossibili alla Cloverfield, che è impossibile racchiudere in un solo sguardo perché sono più grandi di qualsiasi cosa, e sfidano ogni possibilità di essere descritti e definiti. Una Bestia assetata di sangue che in qualsiasi momento potrebbe sorgere dalle viscere dell’Appennino – basterebbe la minima sollecitazione, lo sbarco in Sicilia di appena qualche centinaio di stranieri in più. A quanto pare, però, questa orripilante creatura per ora si limita a far perdere la ragione a qualcuno. Ma ecco: se un leghista un po’ impressionato da quel che ha sentito al telegiornale si mette a girare per Macerata tirando a tutti gli afro-italiani che trova, Minniti se l’aspettava e non si è fatto trovare impreparato. “Traini, l’attentatore di Macerata, l’avevo visto all’orizzonte dieci mesi fa, quando poi abbiamo cambiato la politica dell’immigrazione”. Non c’è dubbio che la politica sia cambiata – quanta gente sia annegata a causa di questo cambio di politica, per contro, non lo scopriremo mai. La politica è stata cambiata, eppure questo non ha impedito a Traini di innervosirsi davanti a un Tg e di prendere la pistola in mano: oppure dobbiamo pensare che la tentata strage di Traini sia il male minore e che senza l’intervento di Minniti sarebbe successo qualcosa di molto più grave.
Qualcosa di più grosso ribolle nelle viscere di questo Paese e potrebbe risvegliarsi con un nonnulla, ad esempio una manifestazione antifascista. Il sindaco di Macerata ha chiesto ad ANPI, ARCI e CGIL di non venire a testimoniare la propria solidarietà ai feriti – un’attestazione di umanità che potrebbe infastidire la Bestia – e Minniti ha espresso soddisfazione. Ha anche aggiunto che in ogni caso è pronto a vietarle lui, le manifestazioni. A vietare anche una manifestazione antifascista. Promossa dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Nella città dove un leghista si è esercitato per mezza giornata al tiro all’africano, e poi si è fatto trovare coperto dal tricolore davanti a un Monumento ai Caduti. Ai nostri ciechi occhi tutto questo parrebbe alquanto paradossale.
Ma diciamo pure che non è successo niente di grave, niente di cui ci si debba troppo vergognare o per cui ci si debba troppo allarmare. Salvini ha già spiegato che sono cose che succedono se in giro ci sono troppi immigrati; Renzi è disposto ad ammettere che ci sia stato un po’ di razzismo nel deprecabile gesto di Traini, ma “non sa se chiamarlo terrorismo”:  come se quella parola potesse infastidire la Bestia.


Una Bestia che a questo punto davvero ci si domanda che contorni possa avere... (continua su TheVision)
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Cosa deve fare un razzista per farsi prendere sul serio in Italia?

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Qualche giorno fa è morto un razzista, che era stato il leader di una piccola organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. 

E i giornali italiani hanno scritto che è morto un satanista.

Insomma cosa deve fare un razzista per farsi accreditare come tale in Italia? Incidersi una svastica in fronte? No, neanche così. Manson non era il diavolo: Manson era un razzista si legge su TheVision.





Qualche giorno fa è morto, dopo una vita in galera, Charles Manson, un personaggio di cui avrete probabilmente sentito parlare. Se la sua storia non vi ha mai particolarmente appassionato, se avete soltanto dato una veloce scorsa ai titoli dei quotidiani italiani, probabilmente sapete che era un serial killer satanista che tra l’altro pugnalò, in modo particolarmente efferato, la giovane attrice incinta Sharon Tate. Eppure Charles Manson non era esattamente un serial killer, non era un satanista e non ha pugnalato Sharon Tate. Siamo davanti all’ennesima fake news, penserete. Si e no. Diciamo che siete davanti a una libera interpretazione della stampa italiana.

Charles Manson è davvero nato nel 1934 a Cincinnati, Ohio, in un contesto disagiato – sua madre, sedicenne, fu subito abbandonata dal padre di Charles. È davvero entrato in riformatorio a 13 anni, per evaderne molto presto su un'auto rubata; e non era che l'inizio. Buona parte degli anni Sessanta Manson li osservò da dietro le sbarre, mentre scontava pene per furto e sfruttamento della prostituzione. Questo se da un lato gli impedì di godersi l’esplosione del flower power californiano, gli diede qualche elemento per captare meglio di tanti osservatori le tensioni più distruttive che covavano in quegli anni – in particolare la questione razziale. Verso il 1968 Manson aveva davvero messo insieme la “family”, una setta abbastanza scalcagnata, ma non esattamente satanica; in quel periodo Manson più che a Satana faceva riferimento a una sua personalissima interpretazione degli insegnamenti di Gesù Cristo, filtrati attraverso i testi delle canzoni dei Beatles. A un certo punto sostenne di essere lui stesso il Cristo: è un tratto classico di tanti predicatori che perdono la brocca, ma ha poco a che vedere col satanismo. I suoi adepti uccisero davvero Sharon Tate e altre sei persone tra il 9 e il 10 agosto del 1969, e lo fecero seguendo le sue indicazioni. Quindi insomma la storia c’è, e per quanto sia stata raccontata migliaia di volte rimane pazzesca. Non solo, ma nel 2017 la storia di Manson sembra più attuale che in passato: oggi che il razzismo è un’emergenza non solo dall’altra parte dell’Atlantico, è particolarmente interessante ricordare che Charles Manson predicava ai suoi discepoli la necessità di un’imminente guerra razziale: molto presto i neri avrebbero cominciato ad attaccare i bianchi, e dal caos che ne sarebbe derivato la “family” di Manson avrebbe governato il mondo.

Di questo scenario delirante, i più autorevoli quotidiani italiani non fanno cenno. Insistono molto di più su un presunto satanismo di Charles Manson, che in prigione si era fatto una cultura rudimentale su tante cose, dalla magia nera alle filosofie orientali: definirlo satanista o “satanico” è altrettanto impreciso che definirlo buddista. La BBC, per esempio, di Satana non parla: ricorda invece che Manson aveva convinto le sue discepole di essere il Cristo. Per Rainews invece Manson è un killersatanico; per la Repubblica i suoi adepti “credono in Scientology e in Satana(*)”; mentre Corriere e La Stampa, non riuscendo a trovare una sola dichiarazione satanista di Manson, arrivano a un compromesso: “Sosteneva di essere la reincarnazione non solo di Gesù, ma di Gesù e Satana insieme”. Manson in effetti parlava tantissimo, e da qualche parte potrebbe anche aver detto questa cosa. Sembra però che a Satana i giornalisti italiani tengano in modo particolare – “Da Satana ha preso molto,” ribadisce La Stampa, mentre Repubblica li chiama “delitti satanici”. Così come spesso accade nelle narrazioni del giornalismo italiano, le principali testate tengono molto a ricordare i dettagli più scabrosi del delitto Tate, rievocando l’aggressione con uno stile quasi cinematografico: “Il primo a morire fu Steve Parent, un ragazzo di 18 anni che era andato a trovare il custode e che passava nella via. Linda restò fuori a fare da palo. Watson spaccò un vetro per entrare in casa e la banda radunò Sharon Tate e i suoi amici in salotto. Sharon fu legata per il collo a Sebring, mentre Waston legava le mani di Frykowski. La Atkins disse all’attrice “Puttana, stai per morire”, Sebring cercò di difenderla e fu ucciso da Watson, che gli sparò e lo accoltellò più volte, usando anche un forchettone” (La Stampa).

E ancora, Il Corriere: “Armati di coltelli, revolver e corda di nylon tagliarono i fili del telefono per impedire che venisse dato l’allarme. Il primo a morire fu un amico del guardiano della villa, che stava uscendo in macchina, Stephen Earl Parent. Poi toccò a Jay Sebring, che implorò inutilmente di risparmiare la vita a Sharon Tate. Fu finito a coltellate, così come le altre tre vittime. L’ultima fu proprio Sharon, incinta all’ottavo mese”.

Di questi siparietti nel pezzo della BBC non c’è traccia. In compenso è segnalato il movente di cui nei giornali italiani non si parla: “Race war”. Del resto chi ha bisogno di un movente quando ha Satana? Satana spiega senza sforzo qualsiasi follia: i membri della Family scrivevano “Helter Skelter” e “Pigs” sulle pareti col sangue delle vittime? Sarà un qualche rituale satanista. Ma “Pigs” era anche l’appellativo con cui erano chiamati i poliziotti dai manifestanti (un po’ l’equivalente di “ACAB” sui muri di oggi). Manson intendeva probabilmente depistare le indagini sulla comunità afroamericana, scatenando una rappresaglia che avrebbe portato alla guerra razziale. Perché prima di essere satanista, scientologo, buddista e fanatico dei Beatles, Charles Manson era profondamente razzista. Pensava che i neri e i bianchi non avrebbero mai potuto vivere insieme, e aveva in orrore soprattutto le unioni interrazziali. Un mese prima il delitto Tate aveva dato l’esempio sparando a uno spacciatore afroamericano (che era sopravvissuto); venti giorni dopo, quando aveva fatto uccidere un suo seguace che gli doveva dei soldi, aveva lui stesso usato il sangue per scrivere sul muro “political piggy” e disegnare un simbolo delle Pantere Nere, l’organizzazione rivoluzionaria afroamericana.

Insomma se c’era una logica nella sua follia era una logica razzista, non satanista. La stessa logica che rende Charles Manson, a mezzo secolo dal funerale degli hippy, una figura ancora attuale. Ed è anche quello che i giornali italiani non dicono: un po’ perché devono concentrarsi sulle coltellate, il sangue, i dialoghi pulp, un po’ perché Satana vende di più.

A questo punto, forse senza un motivo, viene in mente Gianluca Casseri, uno scrittore fantasy fiorentino che qualche anno fa si mise a sparare ai neri che vedeva in giro per Firenze. Quando lo presero ne aveva già uccisi due. Qualcuno scrisse che era depresso. Può darsi: però aveva anche opinioni politiche molto definite, di cui non faceva mistero. Dopo aver negato, la sezione fiorentina di Casapound dovette ammettere che Casseri li frequentava. Insomma era uno scrittore un po’ di destra, un po’ depresso, a cui era capitato di mettersi a sparare a degli africani in giro per Firenze, tutto qui (se capitasse il contrario, un africano che va in giro per Firenze a sparare agli scrittori bianchi, non avremmo molte remore a definirlo terrorista).

Con Charles Manson mi sembra che sia successo qualcosa di simile. È appena morto il capo di un’organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. Per i giornali italiani più che un razzista questo è un satanista. Ma allora cosa deve fare un razzista per farsi riconoscere come tale dai giornalisti italiani? Incidersi una svastica in fronte? No, niente da fare, neanche quella basta.



Integrazione di lunedì 30 novembre ore 12:40

*Con riferimento all’articolo “Manson non era il diavolo: Manson era un razzista” pubblicato il 24/11/17, a seguito della richiesta di precisazione di “Chiesa di Scientology di Milano Continentale”, che riferisce essere falsa la notizia che Charles Manson fosse legato a Scientology e basasse la propria filosofia sulla stessa, precisiamo che l’articolo ha inteso dare conto del fatto che secondo la stampa sia nazionale che internazionale egli è stato un conoscitore e uno studioso delle teorie di Scientology e non che ne fosse membro. Circostanza, quest’ultima, esclusa dalla “Chiesa di Scientology” [La redazione di TheVision].
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Come costruire un ghetto (ti aiuta anche Gramellini)

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Qualche giorno fa sono entrato in un bar e mentre addentavo un cornetto ho scoperto che il mio quartiere è un ghetto. C’era scritto sul giornale. Un ghetto.

Sono uscito a dare un’occhiata. Sembrava proprio lo stesso quartiere. Il parcheggio, la palestra, la chiesa dei frati, tutto regolare. Lo stadio, il sindacato, la bocciofila nell’ex macello, la discoteca dei ragazzini e proprio di fianco la scuola dai muri giallo canarino dove gli italiani sarebbero discriminati dagli… “extracomunitari”. Così diceva il giornale.

Non era un giornale locale. Era il Corriere della Sera. In prima pagina, Gramellini stava dicendo che la Cittadella di Modena - neanche un quartiere, in realtà, un riquadro di strade appena fuori dal Centro - è un ghetto “poco frequentato dai radical chic”. Il feticcio preferito dei giornalisti italiani, i “radical chic”, esistono dunque anche a Modena? Non ne sono così sicuro; ma nel caso senz’altro cercherebbero di iscrivere i figli al liceo qui davanti. Cosa sta succedendo? Perché un affermato giornalista su un quotidiano nazionale sta parlando male del mio angolo di strada - dove evidentemente non ha messo mai piede - e in particolare di... una scuola elementare?




A settembre una signora modenese si è resa conto che sua figlia era l’unica, nella sua classe seconda, ad avere un cognome italiano. La scoperta non deve essere stata così sorprendente: in prima due compagni avevano un cognome italiano, ma si sono trasferiti. La signora invece ha chiesto alla dirigenza di cambiare classe. La dirigenza, ovviamente, ha risposto di no. Dopo aver scritto al provveditorato, che non poteva non ribadire la scelta del dirigente, la signora si è rivolta alla stampa, destando l’attenzione del quotidiano locale, che tradizionalmente lancia allarmi sui lati più controversi dell’immigrazione.



Modena, in effetti, è una delle città d’Italia in cui vivono più immigrati. In certi quartieri più che in altri. Non è che tutto sia semplice, anzi: ma la criminalità negli anni non è aumentata. Può darsi che ci siano dei quartieri-ghetto a Modena – me ne vengono in mente un paio – ma non la Cittadella, davvero, con tutta la più buona volontà. (Quanto mi piacerebbe poter dire ai miei studenti «Ho preso la maturità linguistica in da ghetto»? Ma non è successo.)

Grazie alla stampa, la madre ottiene molta attenzione: viene intervistata da TgCom24, Agorà (Rai3), altri ancora, ma il risultato non cambia. Alla fine, allora, decide di spostare la bambina in un’altra scuola “dove gli extracomunitari,” ci spiega Gramellini, “sono sempre tanti, ma non più tutti. La scuola della discordia si difende ricordando che la metà dei bambini di quella classe è nata in Italia”.

Auguro alla bambina di trovarsi bene nella sua nuova classe. Non mi sento di biasimare sua madre, sul serio. Mi vengono in mente due o tre ottimi motivi per cui il dirigente non doveva soddisfare la sua richiesta, ma posso capire anche lei: ha lottato per la sua bambina che si è ritrovata in un contesto difficile. Al suo posto non avrei fatto lo stesso? Non lo so: quando ci sono i nostri bambini di mezzo non capiamo più niente.

Forse a metà degli anni Novanta, di fronte a una lista di appello con venti cognomi stranieri, avremmo dovuto immaginare un suk di bambini incapaci di parlare in italiano. Ma appunto: sono passati vent’anni. Nel 1997 ce n’erano già parecchi di stranieri, qui da noi. È tutta gente che già dieci anni fa era in grado di ottenere la cittadinanza. Se poi hanno fatto figli (a volte anche con i modenesi), non sono né extracomunitari né stranieri: sono bambini italiani figli di naturalizzati italiani. Sta succedendo ovunque in Italia, magari a Modena un po’ prima che altrove, ma sarebbe ora di rassegnarsi: una lista di venti cognomi stranieri non è una lista di venti bambini stranieri. La stessa mamma, nell’intervista rilasciata a TgCom24 ha ammesso che di bambini che non conoscevano l’italiano ce n’era solo uno. Uno.

E gli episodi che dovrebbero evocare un ambiente intollerante sono sì incresciosi, ma anche abbastanza diffusi in qualsiasi realtà scolastica: «Una volta una bimba è stata spinta per le scale, in un’altra occasione sono stati tagliati i capelli con le forbici a una bambina. È una classe molto difficile».

Gramellini ci ricorda che “la mamma marocchina di una di queste bimbe […] avrebbe istigato la figlia a maltrattare la piccola modenese”. Il condizionale è d’obbligo perché nessun giornale che ha riportato quest’accusa sembra essersi dato la pena di fare quello che normalmente fa un insegnante in un caso del genere: sentire l’altra campana. Di che tipo di maltrattamenti parliamo? Un episodio o tanti? Molestie fisiche o verbali? Avete mai sentito sui gradini della scuola un genitore dire “Se continua a dartene, dagliene indietro”? Io l’ho sentito da gente di ogni statura, colore, estrazione sociale.

Quella che Gramellini definisce “scuola della discordia” è un bell’istituto coi muri giallo canarino, un coro che a Natale è andato a cantare in piazza Grande e degli insegnanti che preferiscono non commentare. Senz’altro la quota di bambini di origine straniera è più alta della media; l’episodio almeno sarà servito a suscitare una discussione sui criteri adottati dal Comune per assegnare gli studenti alle scuole. Perché se da una parte dobbiamo accettare che i cognomi stranieri non significano più “extracomunitario”, dall’altro è evidente che qualcosa sia andato storto: a Modena ci sono scuole dove di cognomi stranieri ce n’è giusto un paio per classe. È un fenomeno ben noto a genitori e insegnanti: per accedere a certe scuole c’è una lista d’attesa, per altre no. Di solito i genitori più esigenti hanno un cognome italiano, e una delle esigenze più sentite – lo dico per esperienza – è proprio quella di evitare le classi con troppi cognomi non italiani.

È razzismo? È un vecchio ragionamento – cognome straniero = difficoltà linguistiche = abbassamento del livello della classe – che spesso condividono anche i penultimi arrivati, e che progressivamente si sta smontando, man mano che i millenial crescono e sempre più cognomi stranieri si diplomano con 100 e lode. È anche il risultato di un circolo virtuoso/vizioso: se tutti i genitori più esigenti si convincono che una scuola sia migliore delle altre, si metteranno in fila, e probabilmente la presenza di studenti più motivati migliorerà davvero quella scuola: studenti motivati, insegnanti contenti, lezioni interessanti, liste d’attesa ancora lunghe. Se solo si potesse evitare che nel frattempo in altre scuole rimanesse spazio soltanto per gli studenti provenienti da famiglie meno integrate, con insegnanti costretti a far fronte a problemi supplementari, da cui lo stress, lezioni più faticose, richieste di trasferimento, etc… Forse è quello che prevede la “Buona Scuola” quando si propone neanche troppo velatamente di mettere anche le scuole dell’obbligo in competizione tra loro. Forse anche Modena si sta avvicinando a quel modello dei film americani, dove se nel quartiere c’è una buona scuola gli immobili costano di più. Nel frattempo, se lavori in una scuola di un quartiere difficile, la tua unica speranza di invertire il circolo è darti da fare: coinvolgere i genitori, organizzare un coro, cercare di dare risalto a tutte le cose positive che ti succedono. Poi, un giorno, magari entri in un bar e mentre addenti un cornetto scopri che Gramellini sul Corriere dice che la tua è la “scuola della discordia”, e che il tuo quartiere è un ghetto.

C’è mai stato? Ha fatto delle indagini o si è fidato di quel che ha letto in giro? La tua scuola è così brutta? Il tuo quartiere è un ghetto? Gramellini senz’altro conosce la teoria delle finestre rotte: chissà se si è reso conto di aver appena lanciato un macigno assurdo, dall’alto della prima del Corriere su una piccola scuola di un piccolo quartiere che non frequenterà mai.
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Quanti marinai cingalesi servono per portare 8 ragazzi bianchi a salvare l'Europa?

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Dopo vent'anni di lutto, finalmente la regina ha acconsentito a risposarsi. Ma proprio durante il banchetto di fidanzamento scoppia una rissa incresciosa: un mendicante trucida tutti gli invitati affermando di essere il vecchio re, tornato da un lunghissimo viaggio. Dice che ha conquistato una grande città (ma non porta con sé nessun bottino); che nel viaggio di ritorno ha sconfitto mostri, litigato con dèi, visitato il mondo dei morti, insomma era assente giustificato. Questo è più o meno quel che resta dell’Odissea se togli lo storytelling e lasci lo squallore.


Ho ripensato a Ulisse, e a quanto gli piaceva raccontarsela, quando l’altro giorno su Libero ho ritrovato Lorenzo Fiato e i suoi amici di Defend Europe. Era da un po’ che non ne sentivo parlare. Il loro profilo twitter è inattivo da un mese, c’era di che preoccuparsi. Fiato è un vero Ulisse del mediterraneo contemporaneo. Non ci credete? Sentite cosa scrive su Libero un tizio che non è Omero, ma si sta attrezzando:

“Hanno fermato gli scafisti, l'immigrazione clandestina e le Ong, e sono appena 8 ragazzi. Per questo li hanno definiti "pirati" o "fascisti" ma oggi l'equipaggio di Defend Europe può dirsi vincitore. A bordo della loro C -Star hanno svelato i lati oscuri e, forse, gli affari delle Organizzazioni non governative attive nel salvataggio dei migranti…”

Otto ragazzi, pensate. Otto giovani a bordo di una nave hanno “svelato i lati oscuri” delle ONG, e hanno vinto! (su TheVision c'è un pezzo mio, sottilmente intitolato LA NAVE ANTI-ONG DEFEND EUROPE È AFFONDATA IN UN MARE DI SFIGA).
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La discriminazione religiosa che piace al Corriere

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Come Ernesto Galli Della Loggia ha sconfitto l'Isis

A questo punto lo Ius Soli è andato. Finito. Un cadavere nel deserto. Persino iene e avvoltoi si stanno allontanando dalla carcassa, non c’è più niente da beccare. Soltanto un editorialista continua a tornare a intervalli regolari, sembra non darsi pace: Ernesto Galli della Loggia.

Sullo Ius Soli negli ultimi mesi ha scritto tantissimo, e più o meno le stesse cose: la cittadinanza è un bel diritto, ma ai bambini nati in famiglie musulmane non la possiamo dare perché... i musulmani ce l'hanno con noi. Questa cosa, che su Libero o sul Giornale si può sintetizzare in titoli semplici ed efficaci (ad es. “Bastardi islamici”), sul Corriere bisogna ancora articolarla in tortuosi ragionamenti che dovrebbero dare a GdL e al suo lettore la sensazione di essere un po’ più moderati mentre pensano, in sostanza, che questi islamici sono proprio dei gran bastardi. Ci vuole del realismo, spiega GdL. Come possiamo fingere di non vedere che “l’immigrazione islamica non proviene da uno Stato ma da una civiltà, da una cultura mondiale rappresentata da oltre una ventina di Stati, e con la quale la cultura occidentale ha avuto un aspro contenzioso millenario che ha lasciato da ambo le parti tracce profondissime”?

Eh?

No, sul serio, di cosa starà parlando? “Aspro contenzioso millenario”... avrà in mente le crociate? Forse è ancora quella roba che andava di moda ai tempi di Samuel Huntington: insomma per GdL c’è una “civiltà occidentale” e c’è una “civiltà islamica” e si fanno la guerra dalle sponde del Mediterraneo da più di mille anni. Il fatto che per la maggior parte di questi mille anni abbiano commerciato e intrattenuto rapporti diplomatici sarà irrilevante (anche il colonialismo, non rileva). A secoli di distanza, ancora oggi alcuni di questi Stati alimentano “sotterraneamente radicalismo e terrorismo… svolgendo un’insidiosa opera di penetrazione di natura finanziaria nell’ambito economico, e di natura politico-religiosa (apertura di moschee e di «centri culturali»)”.

Link?

Perché, scusate, qui abbiamo un autorevole editorialista che ci sta informando di un fatto gravissimo: ci sono nazioni con cui abbiamo un contenzioso millenario che mirano a sovvertire il nostro paese alimentando il radicalismo e il terrorismo, aprendo moschee e “centri culturali”, con le virgolette. È una cosa molto preoccupante!

Ci farebbe un esempio?

GdL scrive su un giornale importante. Avrà ben letto da qualche parte che una nazione nemica dell’Italia sta infiltrandosi aprendo moschee e “centri culturali” - io, confesso, ho cercato un po’ ma non ho trovato niente a parte le solite cose, ovvero i finanziamenti dei sauditi e del Qatar. Peccato che dall’Arabia Saudita e dal Qatar non stiano arrivando in Italia molti immigrati; peccato (si fa per dire) che in Italia di tutti questi finanziamenti, effettivamente molto rilevanti in altri Paesi come UK e in Belgio, non arrivi tutto sommato che qualche briciola. Ma fingiamo per un attimo che i sauditi stiano finanziando centri culturali islamici in tutta la penisola, luoghi dove entri normale ed esci wahhabita. Come pensa di arginare GdL questo inquietante fenomeno?

Rendendo più difficile il conseguimento della cittadinanza italiana.

Geniale, no? Cos’ha consentito ai jihadisti francesi e belgi di commettere delle stragi nei loro Paesi? La carta d’identità. Niente carta d’identità, niente esplosivi, niente furgoni. Cospiri contro il Paese che ti ospita da quando sei nato? GdL ha un rimedio per te. Ti toglie la doppia cittadinanza.

Sul serio?

Sul serio. Sul Corriere GdL propone che gli immigrati da paesi islamici (non necessariamente islamici) possano ottenere la cittadinanza italiana solo se rinunciano a quella del Paese d’origine. A chi gli ha pur fatto presente la vaga componente discriminatoria della sua proposta (perché un italo-statunitense può avere due passaporti e un italo-senegalese no?), GdL ha ribadito che gli USA sono gli USA e il Senegal è il Senegal, il che è davvero inoppugnabile - e col Senegal evidentemente c’è quel contenzioso millenario, il Senegal notoriamente vuole infiltrarci costruendo moschee e centri culturali, se uno è realista queste cose le sa. GdL è un realista e quindi ha la soluzione: la detenzione? No. L'espulsione? No. Ma se vuoi diventare italiano ti stracciamo il passaporto senegalese. A quel punto, con un passaporto solo, l'infiltrazione diventerà più difficile. Uhm.

Inoltre GdL ritiene necessario che i genitori passino un test d’italiano. Questo a dire il vero c’era già nella legge impallinata al senato, ma a GdL non basta un genitore. Sono buoni tutti ad avere un genitore che parla italiano, eh no. GdL ne vuole due, e attenzione, ne vuole due soltanto per i musulmani ("La conoscenza dell’italiano anche nella madre costituirebbe un indizio assai significativo di superamento della condizione d’inferiorità della donna tipica di molte culture diverse dalla nostra”).  E gli orfani di padre o di madre? Probabilmente costituiscono una più grave minaccia alla nostra identità. GdL poi vuole che i servizi sociali controllino queste famiglie e facciano un rapporto alla prefettura. Tutte cose un po' costose ma apparentemente non troppo incivili, che dovrebbero sancire la differenza tra i lettori di GdL e quelli che si eccitano quando Salvini urla “ruspa”.

Non fosse per quel piccolo dettaglio, ovvero...

Quello che GdL sta proponendo (una legge che preveda iter diversi a seconda se il soggetto è musulmano o no) si chiama discriminazione su base religiosa: è esplicitamente proibita dalla Costituzione e dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo.

Questo sarebbe sufficiente, in tempo di pace, per suggerire al professor GdL una pausa di riflessione: ci dispiace, ma i legislatori non possono riconoscere ad alcuni bambini un diritto e ad altri no a seconda del Dio che pregano i loro genitori. Cioè, professore, lo capisce che non può funzionare? Se sei cristiano facciamo un esame solo a papà e se sei musulmano anche alla mamma? Non si può - s’informi, studi, vedrà che proprio legalmente non si può.

D’altro canto, siamo in guerra, no? Ci sono venti nazioni che cospirano contro di noi aprendo ovunque centri culturali wahhabiti, no? (nazioni con cui intratteniamo a volte ottimi rapporti diplomatici, e a cui vendiamo tante cose, tra cui molte armi, ma sorvoliamo). In tempi di guerra servono misure eccezionali, va bene. Cosa può giustificare una misura eccezionale come la discriminazione su base religiosa? Il risultato. Quella che propone GdL è una riforma iniqua e probabilmente incostituzionale, ma se ottiene il risultato di sconfiggere il jihadismo, beh, allora...

No, scusate. Com’è che GdL vorrebbe sconfiggere il jihadismo? Con quale misura straordinaria?

Le ruspe? no, quelle sono di Salvini. E magari un milione di ruspe potrebbero anche funzionare, chi lo sa. I maiali al pascolo intorno alle moschee? Mi pare fosse Calderoli. Invece GdL propone di… rendere più difficile il conseguimento della cittadinanza da parte dei bambini di famiglia musulmana nati in Italia. Fermi tutti.

Mi sa che abbiamo sconfitto l'Isis.

No, sul serio: forse in Iraq, contro gli sforzi congiunti di truppe di terra americane, contingenti curdi e siriani e aviazione russa l'Isis può ancora opporre qualche resistenza, ma… in Italia, che speranze può avere contro il genio strategico e sociologico di Galli della Loggia? Sul tempo medio-lungo l’Isis è fottuta perché in Italia per gli immigrati di seconda generazione ci metteranno un po’ più di tempo a ottenere il passaporto.

Ecco il fondamentale tampone con cui GdL pensa di arginare l’integralismo islamico: le beghe burocratiche. Ma certo! E bisognava veramente essere dei poveri politicallycorrect per non capirlo! Un jihadista senegalese vorrebbe un passaporto: tu lo costringi a stracciare il suo documento senegalese; quello italiano però ci mette un po’ ad arrivare e così lui diventa apolide: a quel punto puoi star tranquillo, il jihadismo in lui è sconfitto.

Quando i padri di famiglia musulmani che lavorano in Italia e pagano le tasse in Italia si accorgeranno che i loro figli ci mettono più tempo a ottenere gli stessi diritti degli altri immigrati, sicuramente accantoneranno qualsiasi velleità jihadista! E i loro figli, i famosi migranti di seconda generazione? Quelli che più spesso in Francia e in Belgio hanno sentito il richiamo della jihad? Sarebbe proprio politicallycorrect pensare di dar loro la cittadinanza dopo un ciclo di studi, come ai loro coetanei figli di migranti non musulmani. Ma quando si accorgeranno che hanno meno diritti dei coetanei, e ne hanno meno proprio perché sono musulmani, ecco: sarà senz’altro quello il momento in cui gli passerà del tutto la voglia di fare la jihad - i ragazzini ragionano così, no? Quando si accorgono che sono vittima di un’ingiustizia, si calmano, ci ragionano, capiscono che è per il loro bene e non si fanno esplodere più nelle metropolitane. È così che ha sempre funzionato, no? Chi ha bisogno di una seria politica di prevenzione del jihadismo, quando sul Corriere c’è Galli della Loggia che ci risolve i problemi?
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Fa un po' male, ma poi (il razzismo)

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"Ma hai sentito la storia del mediatore culturale?"
"Come facevo a non sentirla? Sei colonne su Libero".
"Ma come si fa a scrivere una cosa del genere?"
"Nel giorno in cui un missile nordcoreano ha attraversato lo spazio aereo giapponese".
"È un atto peggio ma solo all'inizio, dio mio".
"E poi mezzo Texas sott'acqua, il vertice europeo sui migranti..."
"Ma come si fa a credere a una cosa del genere".
"Eppure Libero aveva in prima pagina soltanto la stronzata di un mediatore culturale - in pratica il dipendente di una cooperativa - definito "capo musulmano"".
"Cioè secondo te la notizia è che Libero ci faccia un titolo?"
"Non un titolo. Il titolo di apertura. A tutta pagina. Per la scemenza di un tizio su facebook. Che diventa miracolosamente la tesi di un capo musulmano".
"Non è una semplice scemenza. Era una stronzata orribile, maschilista, portatrice di una visione arcaica..."
"Più che arcaica forse consolatoria".
"Consolatoria?"
"L'idea che una donna non soffra durante lo stupro. Sembra un'autocensura. Non posso credere che qualcuno soffra per così tanto tempo, e così decido che non è vero, che non sta soffrendo. Più che da una cultura arcaica, credo che sia il risultato di uno choc culturale. Un maschilista puro perché dovrebbe preoccuparsi se la donna soffre o no?"
"Ti stai infilando in una fessura pericolosissima, te lo dico".
"Ma no, è che quando incontro una nozione falsa, mi chiedo sempre da dove salta fuori. Oggi si tende a pensare che le fake news servano a mandare avanti un'agenda politica, o semplicemente ad attirare attenzione e clic. Ma le nozioni false le abbiamo sempre avute, prima della politica e prima dei clic. La maggior parte serviva a proteggerci".
"A proteggerci?"
"Dov'è il nonno? È andato in cielo".
"Serviva a proteggerci?"
"Magari non funzionava, ma non te la raccontavano per altri motivi. Fa molto male? No, solo all'inizio, poi passa".
"Stai cercando di giustificare..."
"Sto cercando di capire".
"Non è che puoi passare la vita a cercare di capire gli ignoranti".
"Ma è proprio quello che dovremmo..."
"No. Non funziona così. Anche perché gli ignoranti sono troppi. Non ce la faremmo mai. Devono essere loro a fare un passo avanti".
"Ma che significa, non è mica un match noi contro loro. Siamo tutti ignoranti di qualcosa. Usiamo tutti qualche falsa nozione per proteggerci".
"Fammi un esempio".
"Ogni agosto, hai notato che a ogni fine di agosto esce una notizia ambientata sulla spiaggia che riassume il nostro approccio stagionale al problema dei migranti? Due anni fa, la foto di quel bambino siriano annegato sul bagnasciuga".
"Non era una falsa nozione".
"Era una foto tra tante, riassumeva un problema generale e complesso, simboleggiò una specie di svolta: la Merkel cambiò atteggiamento, tutti cambiarono atteggiamento - molti perlomeno - per un po' prevalse la linea dell'accoglienza. L'anno scorso, sempre su una spiaggia, il ladro di bambini".
"Me l'ero dimenticato".
"Anche quella volta, paginone di Libero. Tutto rapidamente sgonfiatosi, non c'era stato nessun tentato furto di nessun bambino. Ma riassumeva l'aria che stava tirando. Quest'anno il capo musulmano che insegna su facebook la meccanica dello stupro".
"Riassume la situazione?"
"Serve a difenderci".
"Ma cosa stai dicendo?"
"Vuoi la notizia vera? Quella che non ha dato Libero, e che anche i giornali rispettabili sono un po' restii a comunicare? Per risolvere la cosiddetta emergenza immigrazione, in due mesi abbiamo probabilmente lasciato annegare trentamila persone".
"Forse un po' meno..."
Dati fieramente elaborati dal Ministero degli Interni
Li aggiornano tutti i giorni!
"Non è stato difficile: abbiamo lasciato che la libera informazione criminalizzasse le ONG, e poi le abbiamo fatte sostituire da una banda di pirati che abbiamo deciso di chiamare guardia costiera libica".
"Lo so".
"Nel frattempo abbiamo preso accordi col capotribù che almeno a Tripoli ha preso il posto di Gheddafi, e che istituirà campi di concentramento disumani quanto quelli di Gheddafi. Anche se la Libia continua a essere un po' instabile e quindi, in concerto con l'Unione Europe che plaude al nostro spirito di iniziativa, stiamo pianificando di finanziare campi di concentramento più a monte, nel Sahel".
"So anche questo, ma..."
"In questo modo magari l'estate prossima i trentamila morti moriranno così tanto lontano, o lungo una una filiera talmente sviluppata e complessa, che non ce ne accorgeremo neppure, il che ci farà sentire meno assassini e forse farà vincere le elezioni contro i razzisti ignoranti, noi razzisti consapevoli e pianificatori".
"Senti, ho capito, mi rendo conto che è terribile, ma non andrà così".
"No?"
"Capisco che in questo momento tu possa sentirti..."
"Un po' assassino?"
"Diciamo che siamo tutti colpevoli... di una situazione orribile che..."
"Che si poteva evitare".
"Però non puoi esagerare. Non serve a niente esagerare".
"Sto esagerando?"
"Trentamila morti ogni estate, per esempio. Non è vero".
"È una stima".
"È solo la sottrazione tra gli sbarcati dell'anno scorso e quelli di quest'anno. E può darsi che davvero l'unica causa della differenza, quest'anno, sia che sono annegati. Non c'erano più navi disposte a soccorrerli, e li abbiamo lasciati annegare".
"Abbiamo fatto sì che fossero lasciati annegare".
"È successo. Ma l'anno prossimo non saranno di nuovo trentamila".
"Perché no?"
"Ma è una questione di buonsenso, insomma... quelli che partivano quest'anno, pensavano che sarebbe stato facile come l'anno scorso. Ma l'anno prossimo... ora che lo sanno... partiranno in meno".
"Cioè la strage sarà servita da deterrente".
"Purtroppo sì".
"Ma come fai a saperlo?"
"È buonsenso".
"O forse è un istinto autoprotettivo".
"Cosa?"
"Mi stai dicendo che dopo un po' smette di fare male".
"Non capisco".
"Il massacro. All'inizio fa male, ma dopo la gente si abitua e alla fine magari gode anche un po'".
"Facciamo che non ti sento".
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Abbiamo un problema con l'istigazione all'odio religioso (sì, è illegale)

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Quel che avevo da dire sul brutto pezzo anti-islamico di Filippo Facci l'ho scritto un anno fa. Sulla sentenza che sospende Facci dall'Ordine dei Giornalisti per due mesi non dovrei entrare nel merito: non sono un giornalista e, soprattutto, non ho letto la sentenza. Facci, furbastro, ne ha pubblicato solo quelle due o tre righe che potevano servirgli a fare un po' di ironia sulla giudice, a rilevarne il "dubbio livello culturale". Sa che c'è solo una cosa che piace ai lettori di Libero quasi quanto il livore contro gli stranieri, ed è il livore contro i giudici e i magistrati. Magari la giudice avrà buttato giù qualche sfondone, ma il fatto che invece di ricorrere in appello Facci preferisca fare la vittima à la Sallusti mi sembra significativo. (Leggo di giornalisti che, decisi a difendere Facci a prescindere, parlano addirittura di abolirlo, l'Ordine: non mi sembra una cattiva idea. Restituire la tessera potrebbe essere un modo per realizzarla).

Mi rimetto a parlare del caso perché inquadra un problema enorme che in Italia forse non abbiamo ancora messo a fuoco: l'odio religioso. È un argomento molto delicato, un po' nascosto sotto i faldoni enormi di altri argomenti non meno pressanti: la libertà di opinione, il razzismo, la xenofobia. E non riguarda Facci più di quanto riguardi chiunque in questi giorni, criticandolo, si sentiva obbligato ad aggiungere una postilla: 'però odiare le religioni non è affatto sbagliato'. Come se il problema fosse che Facci ne odia una sola, invece di odiarle in generale. Una posizione simile, in Italia, passa per progressista. Credo che qui ci sia un grosso problema.

Lo stesso Facci lo ha ribadito: lui le religioni le odia tutte (tutte? jainisti inclusi? che gli han fatto?), ha già litigato col Vaticano e coi sionisti, ci ha un odio panreligioso grosso così, che gli deriverebbe dal razionalismo anglosassone. Eppure se scrivesse le stesse cose nel Regno Unito, rischierebbe molto di più che di due mesi di stipendio: perlomeno, mi sembra che il suo pezzo rientri in pieno nella definizione di hate speech che si usa nelle corti di laggiù (vedi il Racial and Religious Hatred Act del 2006). Questo forse spiega perché un fenomeno come la tarda Oriana Fallaci è nato in Italia (sul Corriere della Sera): altrove una sbrodolata come la Rabbia e l'orgoglio non sarebbe stata né pubblicata né, forse, concepita. Prima ancora di risultare illegale, si sarebbe rivelata politicamente disastrosa, un pugno nell'occhio di tutti i lettori di estrazione musulmana. In Italia invece in qualche modo l'odio religioso è tollerato e... coccolato.

Non solo a destra, dove perlomeno ha una chiarissima funzione identitaria. Anche nel centro moderato (malgrado gli sforzi ecumenici dei pontefici: è bastato che uno solo tra loro, in 50 anni, incespicasse in una bizzarra citazione da Manuele Paleologo, perché migliaia di credenti si sentissero autorizzati a odiare il prossimo loro islamico). Anche a sinistra, dove a molti anticlericali non par vero di poter moltiplicare i cleri a cui opporsi. Poi ci sono le femministe che rimarcano la misoginia; i lgbt che rimarcano l'omo/transfobia; medici e scienziati preoccupati dal diffondersi di nuovi e vecchi credi irrazionali, eccetera.  Pensate quindi a come si deve trovare un giovane italiano e musulmano, oggi: si trova contro postfascisti, postdemocristiani, postcomunisti, femministe, lgbt, pensionati lettori di Libero e lettori del Manifesto, oltre a tanti simpatici elettori Cinquestelle che pur non essendo né di destra né di sinistra riescono lo stesso a condividere i patemi di Salvini sugli islamici alle porte. Insomma in questo momento storico così frammentato, l'unico collante che sembra poter tenere insieme la maggioranza della popolazione potrebbe essere l'odio per l'Islam. (Facci ci ha già pensato un anno fa - mica scemo).

Tutto questo malgrado la legge Mancino preveda la reclusione fino a un anno e sei mesi, o una multa fino a 6.000 euro, per chiunque istighi a commettere atti di discriminazione per motivi non solo razziali, non solo etnici, non solo nazionali, ma anche religiosi; malgrado tale legge recepisca la Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (ONU, 1965), che raccomanda di "sviluppare ed incoraggiare il rispetto universale ed effettivo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione". Per cui, effettivamente no, odiare le religioni non è un diritto, né in Italia né in nessun Paese che rispetti le convenzioni internazionali. Si può ovviamente mettere in discussione la legge Mancino, e in generale qualsiasi legge limiti il diritto del singolo di esprimere opinioni anche odiose e foriere d'odio; si può in sostanza fiancheggiare l'alt-right americana, che questa battaglia contro il "politically correct" in nome del "free speech" in America la sta combattendo con un discreto successo.

Detestare Facci è facile quanto scrivere "odio l'Islam"; cercare di spiegare perché l'odio religioso non può essere ammesso in una società tollerante e civile è un po' più complicato. La maggior parte delle volte la discussione viene deviata sull'odio razziale: lo stesso Facci ha buon gioco a sottolineare che nella sentenza si parla di "razzismo", mentre lui nelle razze non ci crede. Rispetto al razzismo, l'intolleranza religiosa sembra sempre un male minore; una cosa più moderna, à la page. È l'esatto contrario. L'odio razziale è un fenomeno relativamente recente - così come la nozione ottocentesca di "razza". Senz'altro è stato il principale ispiratore dei genocidi del Novecento, ma non è che nei secoli precedenti non ci si massacrasse, in Europa e altrove. Non lo si faceva per razzismo, perché appunto, la "razza" non era una nozione affatto chiara.

In compenso, l'odio religioso lascia una scia di sangue lungo tutti i secoli. Cosa portò i crociati a sterminare i gerosolimitani nel 1099? Che idea guidò i conquistadores alle ecatombi del Cinquecento? Le espulsioni degli ebrei dalla Spagna o dall'Inghilterra; i pogrom; la notte di San Bartolomeo; la Guerra dei Trent'Anni: non c'è pagina della Storia moderna che non ci ricordi le conseguenze dell'intolleranza religiosa. Gli stessi nazisti, quando sostituiscono all'odio religioso un odio razziale, si trovano per così dire il terreno già dissodato: il loro primo bersaglio non a caso è il popolo ebraico, che prima di patire le persecuzioni razziali aveva già sofferto per secoli di persecuzioni religiose. È ancora l'odio religioso, del resto, uno dei grandi moventi dell'odierno terrorismo di matrice islamica - e non c'è bisogno credo di spiegare quanto sarebbe ingenuo reagire all'odio con l'odio (oltre che ingenuo, perdente). Quindi, no, l'odio religioso non è meno pericoloso dell'odio razziale. Non è neanche così ben distinto.

Eppure c'è in molti di noi questa idea che odiare una persona per quel che crede sia meno grave che odiarla per le sue origini. In effetti le origini non si possono cambiare, le credenze sì: quindi se ti odio in fondo è colpa tua; rinnega il tuo Dio e tutto ti sarà perdonato. Peccato che non sia mai andata così. Se la Storia ci insegna qualcosa, ci insegna proprio che le comunità perseguitate resistono e si radicalizzano, in certi casi fino a trionfare e diventare esse stesse persecutrici (vedi i puritani in Inghilterra). Forse il problema è che in Italia non abbiamo avuto né l'editto di Nantes, né la Rivoluzione Gloriosa, e nemmeno una misera Pace di Augusta; la società non si è costituita attraverso una serie di patti tra comunità religiose in competizione tra loro. Non abbiamo mai concepito la laicità come una terra di nessuno, una franca contea tra fedi diverse; in Italia la laicità è arrivata tardi e si è concepita come alternativa al cattolicesimo. L'arrivo di altre confessioni l'ha messa in crisi.

Chi scrive - oltre ad avere pubblicamente scherzato coi santi per anni - è convinto che esistano religioni più misogine e omofobe di altre, e che in generale tutte le religioni organizzate abbiano un livello di misoginia e omofobia superiore a quello che la nostra società dovrebbe permettersi. Credo che un certo tasso di anticlericalismo sia non solo consentito, ma perfino necessario. Rispetto il testimone di Geova che preferisce la morte a una trasfusione, ma ritengo giusto strappargli il figlio a cui vorrebbe imporre una scelta del genere. In generale credo che qualsiasi forma di irrazionalismo vada combattuta, ma con armi più sottili e scaltre di quelle dei predicatori d'odio. Rimango convinto che una scuola pubblica laica, ben finanziata e aperta a tutti, sia un presidio necessario ed efficace. Credo che chiunque abbia il diritto di discutere di religione in modo anche polemico.

E tuttavia penso che da qualche parte ci sia un limite - tra la mia libertà e quella del mio prossimo di poter uscire di casa e recarsi in chiesa, o in sinagoga, o un moschea, o al parco, senza sentirsi insultato da bravi cittadini istigati da opinionisti che danno il buon esempio sputando luoghi comuni sui giornali. Non saprei nemmeno dire dove passa il limite - il buon senso mi suggerisce che la Fallaci e Facci l'hanno abbondantemente superato. Ci aspettano anni difficili, in cui ogni nostra credenza sarà messa a dura prova: le migrazioni si intensificheranno, e chi si culla nell'idea di poterle bloccare si radicalizzerà. Comunque vadano le cose, io continuerò a pensare che le persone non vadano giudicate e detestate per le loro fedi religiose. Nel momento in cui qualcuno riuscirà a cambiarmi idea, avrò perso la mia fede, e la mia vita non avrà più un gran valore. Non credo di poter spiegare questa cosa meglio di così: c'è probabilmente sotto qualcosa di irrazionale, che non vi chiedo di comprendere e nemmeno di rispettare. Soltanto di tollerare.
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L'amore illegale

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Loving (Jeff Nichols, 2016)

Hai 18 anni, e quando sei rimasta incinta, il tuo ragazzo ha solo detto: Ok. È un uomo di poche parole, un muratore, ma "ok" è una parola bellissima. Poi è andato a comprare il terreno per costruirti una casa. Per sposarti ti ha portato fuori dallo Stato perché, dice, la burocrazia è più semplice. Nella camera dove a volte dormite assieme ha appeso il certificato di matrimonio; è una cosa carina.

Una notte, mentre dormite, qualcuno vi entra in casa con le torce. C'è anche lo sceriffo. Vi ammanettano. Tuo marito indica il certificato - ecco perché l'ha appeso, allora - lo sceriffo scuote la testa e dice che quel pezzo di carta non vale niente, e che voi due dormendo assieme state commettendo un reato. Perché tu sei nera, lui è bianco, e questo è lo Stato della Virginia. Siccome dormite assieme, vi condannano a cinque anni di prigione (se vi avessero colto durante un atto sessuale, il reato e la pena sarebbero stati più gravi); vi rilasciano a condizione che non torniate più in Virginia per 25 anni. È il 1958 e il matrimonio interrazziale diventerà legale in tutti gli Stati Uniti soltanto tra nove anni. Grazie a voi. Mildred e Richard Loving.

La storia della coppia che ha cambiato la Costituzione degli Stati Uniti si meritava un film che non fosse un semplice temino edificante di educazione civica. Jeff Nichols, che fin qua aveva girato solo thriller angosciosi, psicologici o apocalittici, gioca la carta dell'iperrealismo, girando in 35 mm. e curando alla perfezione ogni dettaglio, dagli oggetti di scena alla pronuncia degli attori, affidandosi soprattutto a questi ultimi. Ruth Negga e Joel Edgerton danno vita a due protagonisti straordinariamente credibili, malgrado gli esigui margini di manovra: i Loving parlavano poco, e non amavano esibire i loro sentimenti. In particolare Edgerton riesce a nascondere sotto un ceffo da galera un personaggio mite e glorioso, uno che in due ore di film (e di prepotenze subite) avrebbe tutto il diritto di commettere una o due cazzate, e invece continua a ingoiare rospi fino a una vittoria che è così tanto più grande di lui che quasi non gli interessa (continua su +eventi!) Nel suo vocabolario di cento parole c'è spazio per frasi potentissime: quando lo arrestano, lo rilasciano e gli impediscono di pagare la cauzione per la moglie incinta: "Questo non può essere giusto". Quando l'avvocato gli spiega che lo Stato di Virginia ha intenzione di difendersi presso la Corte Suprema: "Come possono difendersi da quello che mi hanno fatto?" E quando sempre l'avvocato gli chiede se ha qualcosa da dire alla Corte Suprema: "Dica che amo mia moglie".

I tentativi di imbruttire Ruth Negga si sono rivelati
abbastanza vani.
Concentrandosi sugli attori, Nichols è riuscito a evitare che Loving diventasse uno di quei film in cui il meccanismo dell'indignazione scatta meccanicamente, perlopiù ai danni di cattivi da operetta, obiettivi fin troppo facili come i segregazionisti della Virginia di mezzo secolo fa. E però la scelta di escluderli quasi completamente dalla scena è molto particolare, e discutibile. Loving è un film antirazzista in cui i razzisti non stanno in scena. C'è in quattro scene intensissime uno sceriffo (un granitico Marton Csokas), anche lui un tizio di poche parole, che non ha bisogno di alzare la voce per annunciare che spaccherà la testa a qualcuno, e che tratta i Loving come due bambini testardi e capricciosi. C'è un giudice convinto di essere clemente, quando spiega che Dio creò bianchi e neri in continenti diversi perché non li voleva mescolati. Ma i bravi e onesti cittadini bianchi della contea - quelli che elessero il giudice e lo sceriffo - Nichols decide di non mostrarli. In questo modo l'imposizione della legge diventa un po' più assurda, e forse il film un po' più astratto. Loving voleva parlare soprattutto dei suoi due eroi per caso, e di come loro tranquilla cocciutaggine abbia reso la Virginia e il mondo intero un posto migliore. Tratta il razzismo come un male oggettivo che peggiora la vita delle sue vittime, un ostacolo da rimuovere: non ne indaga le cause, non ne studia i comportamenti. Chi andava al cinema in cerca di questo - chi ha la sensazione che nel 2017, in Italia, ci sia bisogno soprattutto di questo - potrà restare deluso, e forse continuerà a voler più bene a Mississippi Burning, o al Buio oltre la siepe.

Loving si rivede solo martedì 20 giugno, al Cinema Italia di Saluzzo (ore 17:00 e 21:15).

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Black is the New Barbablù

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Scappa (Get Out, Jordan Peele, 2017)


Indovina chi viene a cena - in una bella villa bianca sul lato deserto del lago, tutto intorno chilometri di boschi, non un'anima a parte i cervi e i bianchi ricchi e progressisti. Rose vuole presentare Chris ai suoi genitori. Li ha almeno avvisati che Chris, oltre a essere un bravo fotografo, è... nero? No, ma non importa, anzi forse è meglio perché... è gente aperta, avrebbero votato Obama anche una terza volta, e poi chi non vorrebbe avere un bel ragazzo nero da sfoggiare al rinfresco?

Indovina chi ha azzeccato un altro thriller in una casa nei boschi: la Blumhouse, esatto. Ma stavolta ha esagerato. Con un regista esordiente e non pratico del genere (veniva dalle commedie); con la sua formula antica e austera, 10% azione e 90% suspense; con la sua produzione parsimoniosa, per non dire taccagna, ha portato in sala un film che è costato quattro milioni e mezzo di dollari e ne ha fatti duecentotrenta. Per intenderci: il King Arthur della Warner non ha ancora superato i cento - ce la farà, ma è costato centosettanta, per via dei mega-elefanti in computer-grafica che evidentemente erano necessari. La Blumhouse non usa computer-grafica (o se c'è davvero non si vede). Per emozionare lo spettatore - spaventarlo, divertirlo, consolarlo - non ha altre risorse che il montaggio, la recitazione, la storia: per farla breve: la Blumhouse fa il cinema. E funziona. Forse un cinema così classico è ormai merce talmente rara che fa notizia. Non spende tanto ma spende bene: luci e musiche ti danno l'impressione che il film giochi in serie A. Get Out cattura con cose semplici - occhi sgranati, occhi piangenti, porte chiuse e all'improvviso aperte, e qualche rumore semplicissimo e fantastico. Chi proprio vuole il sangue alla fine avrà il suo sangue, ma a Get Out per catturarti basta il suono di un cucchiaino (continua su +eventi!)
L'orrore è una lacrima.

















Certo, dalla sua Jordan Peele aveva anche la tematica-di-scottante-attualità: la questione razziale in America, il movimento Black Lives Matter, la fine dell'era Obama e il modo in cui anche il razzismo sta cambiando (evolvendo, per così dire), adattandosi alla postmodernità e scavandosi nuove nicchie. In questo senso forse Get Out è meno a fuoco di quanto molti hanno voluto credere. Non per imperizia di chi lo ha scritto, diretto e recitato, ma proprio perché non vuole essere un manifesto, ma soprattutto un film: anzi un film di genere, orgogliosamente di serie B, con una storia semplice e intagliata nell'antico legno delle fiabe. È un film che attinge da immagini banali e fortissime (un bicchiere di latte, un trofeo di caccia), da un brodo di emozioni vere e presenti (l'imbarazzo di sentirsi nero alle feste: non necessariamente disprezzato; anzi a volte persino ammirato, ma sempre e comunque etichettato, categorizzato, pesato e prezzato), e non disdegna una di quelle belle catarsi sanguinolenti che solo il cinema di genere può permettersi di servire.


Get Out forse esagera a prendersela coi liberal bianchi, un avversario forse un po' troppo facile e sgonfio, proprio mentre una nuova ondata di razzismo tutt'altro che ipocrita e liberal manda un suo uomo alla Casa Bianca. Ma la storia funziona molto meglio così, e quindi tanto peggio per i liberal. Get Out non salverà l'America dal razzismo, ma intanto sta salvando il cinema: perché le cose che ha da dire, giuste o o meno giuste che siano (o persino sbagliate), le dice coi mezzi antichi e potenti del cinema. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:40); al Vittoria di Bra (20:15, 22:20); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15) e al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
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Il disco più venduto e la canzone più nascosta

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Bob Dylan's Greatest Hits Vol. II (1971)
Il disco precedente: Another Self Portrait.
Il disco successivo: Pat Garrett & Billy the Kid

Watching_the_River_Flow_Dylan
Sto notando come l'estetica dei 45 giri sia molto diversa da quella dei 33: più effimera, dozzinale (foto scadenti, font pacchiani), forse più genuina. I 33 giri vanno sui libri di storia, i 45 sono polaroid imbarazzanti che rimettono in discussione la memoria consolidata.
Cosa c'è che non va con me? È che non ho molto da dire.
Dev'essere arrivata come una progressiva illuminazione: a un certo punto del tardo 1970 Dylan si rese conto che nessuno lo costringeva più a scrivere o incidere canzoni, se proprio non ne aveva voglia. Fu l'uovo di Colombo. Così, dopo sei mesi trascorsi a registrare due dischi di canzoni insoddisfacenti, sue e di altri, Dylan finalmente accettò che non aveva molto da dire e che tutto sommato andava bene così. Una volta accettata, era un'idea talmente forte che... ci scrisse una canzone e la incise come singolo. Non è sorprendente che Watching the River Flow fosse un blues. Dylan ha questa arma segreta nel cassetto: quando non sa cos'altro fare, può sempre fare un blues ed essere abbastanza tranquillo del risultato perché anche se di solito è occupato in altre cose, a tempo perso è uno dei più grandi bluesman viventi. Watching non sarebbe niente di speciale, se non fosse il primo brano di Dylan prodotto a New York da Leon Russell, il pianista dall'Oklahoma che aveva già reso credibile in America il r'n'b inglese di Joe Cocker. Con tutto questo, rimane un pezzo fresco ma trascurabile, come la telefonata a un amico che non ha niente da dirti ma vuole farti sapere che va tutto bene: nulla di memorabile, ma fa piacere ascoltarla. Una telefonata del genere, nel '71 sembrava a ancora in qualche modo necessaria. La gente continuava a chiedersi: ma come sta BD? Perché non fa concerti? Perché non rilascia interviste?

Leon Russell (wikipedia).
Leon Russell, nel '70, capisci che poteva rubare la scena a Joe Cocker (wikipedia).
Già, perché? Perché non aveva niente da dire. A New York, dove si era ritrasferito con la famiglia sperando di passare inosservato come una rockstar tra tante, riusci a stanarlo solo Weberman, il "dylanologo", uno stalker che rovistava nei suoi rifiuti e che lo accusava a turno di antisemitismo e filosionismo; in estate una giornalista israeliana riuscì a scovarlo sulla spiaggia a Tel Aviv e a essere trattata con insolita gentilezza: ma anche con lei Dylan non poteva che restare sul vago. Prendeva il sole, badava ai figli, riorganizzava i suoi affari (le cause con Grossman si sarebbero trascinate ancora per anni), un giorno sarebbe senz'altro tornato a incidere e fare concerti, ma quando? Chissà.
Poi, un mattino d'autunno, si svegliò in lacrime: cos'era successo? "Hanno sparato a un uomo a cui volevo davvero bene. Oh, Signore, hanno fatto fuori George Jackson. Signore, Signore, lo hanno steso a terra".

Angela Davis
Angela Davis non c'entra quasi niente con questa storia. Passò qualche guaio perché le armi usate da Jonathan Jackson per il sequestro erano registrate a suo nome. Esistono foto pazzesche di Jackson che tiene il giudice per il collo, ma non sono di dominio pubblico.
George Jackson era del '41, come Dylan, come Ritchie Valens, come David Crosby e altri personaggi con i quali Dylan in Chronicles suggerisce di trovarsi in particolare sintonia. Dylan compié trent'anni in maggio; Jackson li avrebbe fatti a settembre ma una guardia carceraria gli sparò un mese prima. Nell'anno in cui Dylan era arrivato da Minneapolis a NY, George Jackson era entrato nel penitenziario di San Quentin, per una rapina a mano armata a un benzinaio (70 dollari di bottino). Ne era uscito soltanto nove anni dopo, e soltanto per essere trasferito nel carcere di Soledad, California. Nel frattempo si era radicalizzato, aveva studiato Marx, Engels, Mao, aderito alle Pantere Nere, tentato uno sciopero della fame con due compagni (i "fratelli di Soledad"), vendicato un eccidio di prigionieri partecipando all'assassinio di una guardia carceraria, e ora era in attesa di giudizio per quest'ultimo crimine, con l'alta probabilità di essere giustiziato in una camera a gas. All'inizio di agosto suo fratello diciassettenne, Jonathan (guardia del corpo di Angela Davis), aveva provato a liberarlo, a modo suo: irrompendo in un tribunale e prendendo in ostaggio tre giurati e un giudice - a quest'ultimo aveva fissato al collo una mitraglietta col nastro adesivo. Appena cercò di uscire lo freddarono, e morì anche il giudice. Due settimane più tardi, dopo un colloquio con il suo avvocato, George Jackson si sfilava una pistola da una parrucca e tentava la sua ultima fuga da Soledad. E in novembre Dylan pubblicò George Jackson. Dopo aver protestato per un anno la sua mancanza di idee, decise di confessare il suo amore, proprio così, dice "amore", per un galeotto maoista che aveva gettato il corpo di una guardia dalla finestra. "Non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, non si sarebbe mai messo in ginocchio. Le autorità lo odiavano perché era troppo vero. Oh, Signore, hanno fatto fuori George Jackson".

attica
Il carcere di Attica
Più di un biografo ha presentato George Jackson - il singolo - come una mossa istintiva, dettata dall'emozione: Dylan non voleva certo tornare alla musica di protesta, ma un mattino si è svegliato in lacrime e l'ha scritta e registrata in tutta fretta. Niente calcoli, solo sentimenti. Il calendario ci dice un'altra cosa: tra fine agosto e metà novembre Dylan ha avuto tutto il tempo per riflettere su quel che stava facendo. Sapeva che George Jackson non era il solito mitico fuorilegge delle ballate, ma un criminale morto di fresco che ancora terrorizzava i benpensanti, l'eroe dei Weathermen, i bombaroli che avevano preso il nome dal verso della sua Subterranean Homesick Blues. Sapeva che la morte di Jackson era stata una delle scintille della strage di Attica, un penitenziario sulla costa opposta degli USA dove Pantere Nere e Musulmani Neri avevano organizzato una delle rivolte carcerarie più famose della storia, soffocata nel sangue. Sapeva tutto questo e la incise lo stesso - dopo aver corteggiato il pubblico conservatore del Johnny Cash Show e aver messo in giro voci su una sua possibile conversione all'ebraismo chassidico, scrisse un'elegia per un rivoluzionario maoista che aveva ucciso una guardia e aveva usato le sue ultime parole per citare Ho Chi Minh: "Signori, il dragone è arrivato".

11. The Black Panthers: Vanguard of the Revolution
The Black Panthers: Vanguard of the Revolution
In seguito forse se ne pentì: non risultano esecuzioni live di George Jackson, e la canzone, nella sua versione "big band" (quella sul lato A del 45 giri) è una delle sue poche irreperibili su Spotify. Era stata ristampata in una raccolta degli anni Ottanta che è stata ritirata anche dal catalogo di iTunes. Su Spotify resiste invece la versione acustica - il lato B, in sostanza la prova per sola chitarra e armonica - che resta comunque una gran bella canzone. Per qualche motivo, Dylan preferirebbe che la riascoltassimo soltanto così. Senz'altro, se il valore di Jackson risiedeva nell'essere "vero", la versione acustica è la più adeguata, la più "vera", più facilmente interpretabile come lo sfogo di un momento - una cosa registrata ancora con le lacrime agli occhi - e non un'operazione condotta a tavolino, un singolo ispirato a un fatto di cronaca e registrato con fior di musicisti invitati per l'occasione. Dylan può convivere con molti suoi errori del passato, ma forse non col sospetto di avere speculato su una tragedia più grande di lui.
Le guardie lo maledicevano, osservandolo dall'alto: ma erano terrorizzati dal suo potere, spaventati dal suo amore. Oh, Signore, hanno fatto secco George Jackson...
gh2Nei fatti il singolo non uscì 'a caldo', ma a distanza di mesi, e in concomitanza con uno dei colpi commerciali più fortunati della carriera di Dylan: il secondo volume (doppio) di Greatest Hits, a sua volta pubblicato sull'onda del successo del doppio concerto per il Bangladesh organizzato da George Harrison al Madison Square Garden. Greatest Hits II uscì più o meno quando il film del concerto arrivava nelle sale: un ottimo sistema per tenere buoni i dirigenti della Columbia che senza un disco di Dylan sugli scaffali ogni dieci mesi evidentemente smaniavano. In seguito qualche biografo ha definito il biennio '71/'72 come gli "anni persi" di Dylan - mi domando quale musicista oggi non amerebbe "perdere" due anni a incidere When I Paint My Masterpiece George Brown e a comporre (nel '72) Knockin' on Heaven's DoorBilly Forever Young. Tutta roba che Dylan ha scritto in un periodo in cui era convinto di soffrire di una crisi creativa.

the concert for bangla desh
La copertina più triste di sempre?
In seguito ci capiterà di ripensare con nostalgia a una "crisi" del genere. Ne avesse avute altre due o tre, e ci ritroveremmo con quattro o cinque dischi in meno e una dozzina di capolavori in più. Nel 1971 non aveva affatto smesso di scrivere ottime canzoni: semplicemente aveva smesso di scriverne di inutili. Ed era ancora in grado di fare ottimi concerti, se solo ne avesse avuto voglia. Quello per il Bangladesh è commovente: il trionfo di due rockstar loro malgrado - Harrison e Dylan, una più introversa dell'altra. Pare fossero entrambi terrorizzati. Per una serie di circostanze indipendenti dalla loro volontà - Lennon e McCartney non si parlavano, i Rolling Stones erano fuggiti in Francia per problemi fiscali, Eric Clapton si stava disintossicando - questi due divi recalcitranti erano diventati il punto di riferimento di tutta la scena. Non fosse stato per il Bangladesh, avrebbero disertato pure loro. Ma George Harrison non poteva dire di no a Ravi Shankar che raccoglieva fondi per la sua gente travolta dall'alluvione, e Dylan non disse di no a Harrison - non disse neanche di sì, fino all'ultimo momento. Sulla scaletta che Harrison aveva attaccato con lo scotch al retro della chitarra, a un certo punto c'era scritto, semplicemente: "BOB?" Non fu sicuro finché non lo vide salire sul palco e imbracciare una chitarra. Tremava. Harrison, Ringo Starr (tamburello) e Leon Russell (a basso) gli diedero una mano in A Hard Rain's A-Gonna FallBlowin' in the WindIt Takes a Lot to LaughLove Minus Zero Just Like a Woman. La gente tornò a casa pensando: ho visto Dylan suonare con metà dei Beatles. Qualcuno senz'altro sarà rimasto deluso lo stesso, qualcuno scommetteva di vedere una reunion dei Beatles a sorpresa. La foto di copertina di Greatest Hits II è presa dal concerto.

Forse è il caso di tranquillizzare i lettori... (Continua sul Post)
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Il business degli immigrati, il business Mondadori, l'egemonia a Cologno

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A questo punto credo che sia stato appurato che c'è almeno un'organizzazione, molto potente, che lucra sul traffico di migranti. Si chiama Mondadori, vende i libri di Mario Giordano e li promuove mediante video virali su youtube - come quello famoso di Luca Donadel che ha suggestionato un po' tutti. Forse anche quel giudice di Catania che qualche settimana fa ha iniziato a parlare di un complotto di Ong per traghettare i migranti in Sicilia: non aveva prove, nemmeno le aveva chieste all'intelligence perché "non le avrebbe sapute usare", ma "gli risultava da internet", "perché in rete ci sono i dati della posizione delle ong". 

Ma perché "Quelli"?
Io nella foto ne vedo uno solo.
Ora potrei sbagliare, ma questa famosa "internet" in cui ci sarebbero "i dati della posizione delle ong" credo consista soprattutto in quel video del "ragazzo che smentisce le balle dei media", ovvero Luca Donadel. È lui, nel suo video 'autoprodotto', a mostrare i tracciati delle navi di alcune ONG; è lui a far notare che esse interpretano la loro missione di salvataggio giungendo a volte a poche miglia nautiche dalla costa libica: è lui a intonare, per primo, il tema del sospetto: a chi giova (non far annegare migliaia di profughi nel mediterraneo)? Chi ci campa con quei famosi 35€ al giorno? Eccetera eccetera. Tutto quello che afferma Donadel si può naturalmente discutere - rimando a un pezzo di Leonardo Bianchi di un mese e mezzo fa, segno che il video è virale già da parecchio. Aggiungo soltanto un dettaglio: il "chi giova" si può naturalmente riflettere su Donadel stesso, che candidamente afferma di aver speso 400€ per accedere a un'applicazione che traccia il traffico navale: sono parecchi soldi per uno youtuber che si filma ancora nella sua cameretta. Chi glieli avrà anticipati?

Il fatto che il pezzo sia accompagnato da un link al libro di Mario Giordano (Mondadori) ci può fornire un indizio.

Il fatto che nel video Donadel affermi: "Si dice che gli italiani leggano poco, meno di un libro all'anno. Fidatevi: questo è il tipo di libro che vale la pena leggere", ce ne offre un altro.

(Notate la delicatezza: ci tiene a farci capire che anche se non riusciamo a leggere un libro in un anno, questo riusciamo a leggerlo).

Poco dopo Donadel, che altrove è presentato come "ragazzo" o "studente", afferma di lavorare nella "comunicazione". Quindi qui avremmo un giovane sedicente professionista che reclamizza un libro. Domanda: lo starà reclamizzando gratis? Avrà speso 400€ del suo salario di giovane comunicatore così, per il gusto di dare un po' di visibilità a un libro di un affermato giornalista della Mondadori? Potremmo anche credere che le cose stiano così, in fondo a vent'anni di cose molto sceme ne abbiamo fatte tutti. Chi, avendone le possibilità, non avrebbe speso tempo e denaro per aiutare Mario Giordano a vendere un libro Mondadori in cui punta il dito sulle organizzazioni non governative?

In seguito il video di Donadel è stato ripreso da Striscia la Notizia, una trasmissione della Mediaset; il giovane e brillante comunicatore è stato ospite di Matrix (sempre Mediaset) e ha scritto per Panorama (Mondadori). A me non sembra così scemo in fin dei conti. Non posso non notare che continua a collaborare con lo stesso gruppo editoriale che trasmette, in fascia preserale, un programma xenofobo a cadenza quasi quotidiana su Retequattro. Poi se volete potete pure dare la colpa a internet, questo brutto posto dove nidificano le post-verità. Senza dubbio anche Donadel ha iniziato a pigolare qui, ma mi sembra che ormai abbia spiccato il volo.

Nel frattempo un giudice ha aperto un'inchiesta conoscitiva su una cosa di cui, per sua ammissione, non conosce un granché; il vicepresidente della Camera ha definito le navi delle ONG dei taxi per migranti; il governo Gentiloni ha aperto i Centri Permanenti per il Rimpatrio; inoltre il decreto Minniti-Orlando toglie ai rifugiati il diritto di fare ricorso contro la sentenza di un giudice che li rimanda in Libia. Ma cambiamo argomento - è da un po' che non si parla più di Renzi, come se non fosse l'unica vera cosa interessante al mondo, no? Il ritorno di Renzi, l'odissea di Renzi, la riscossa di Renzi.

L'altro giorno Andrea Romano, forse ancora un po' eccitato per il buon risultato delle primarie, l'ha definito il definitivo consolidamento di "quella che oggi possiamo serenamente definire una egemonia culturale del riformismo sulla sinistra italiana".

Non credo di avere le competenze per discutere col professor Romano della definizione gramsciana di egemonia culturale. Pure, sono abbastanza sicuro che non si trattasse di una medaglietta che spetta a chi si fa le primarie in casa e le vince; anzi, la questione dell'egemonia serviva a spiegare che certe volte avere una maggioranza è inutile, visto che le idee che hai in testa continua a spiegartele una minoranza.

400€ e ti porti a casa il pacchetto,
egemonia inclusa.
Per esempio: Renzi potrebbe anche tornare a palazzo Chigi, ma se le sue idee sono rottamare il centrosinistra (vecchio cavallo di battaglia berlusconiano) e tagliare i seggi in parlamento e vendere le auto blu su ebay (nuove idee grilline), direi che l'egemonia è ancora lontana. Suggerirei di guardare un po' più su, nella periferia nordorientale di Milano, dove ha ancora sede un gruppo editoriale che, se vuole, può pompare xenofobia tutta le sere alle otto e mezzo, senza che nessuno possa farci niente (legge sul conflitto d'interessi? nella cultura di Renzi non c'è mai stata). Un gruppo editoriale che può inventarsi l'emergenza profughi, scriverci dei libri, promuoverli sulle sue riviste - e su youtube, ovviamente: qualcuno se la prenderà con youtube. Vi diranno che ormai la società è liquida, e la gente è così, si fida delle peggio stronzate su internet, non c'è più niente da fare, pare che l'egemonia l'abbia un ragazzino che nella sua cameretta mostra le rotte delle navi e cambia le idee a un magistrato e a un vicepresidente della camera. Che possono fare i poveri Riformisti, a parte rincorrere gli xenofobi su questi argomenti? riaprire i centri di detenzione, i campi profughi in Libia e così via, e sperare che alle prossime elezioni votino per gli xenofobi riformisti, gli xenofobi dal volto umano?

No, sul serio, cosa potete fare?

BOMBARDARE COLOGNO MONZESE, SCIOCCHERELLI!

Cioè, andava fatto 15 anni fa, ma non esiste un tardi che sia peggio di mai.
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L'ultimo romantico (spaccia crack ad Atlanta)

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Moonlight (Barry Jenkins, 2016).

Da Miami ad Atlanta (Georgia) sono mille chilometri; da Atlanta a Miami sono nove ore di autostrada, e non c'è nessuno al mondo per cui le faresti stasera, o no? Forse per quel ragazzo che al liceo ti ha messo al tappeto, non lo vedi da allora. Probabilmente è ormai un'altra persona, come te. Ti sei impegnato, hai mollato la scuola e hai trovato qualcuno che credesse in te (l'hai trovato in galera, ma sputaci sopra). Hai messo i muscoli dove avevi i lividi, ora non scappi più dai bulletti di quartiere; hai una bella macchina e un paradenti a 24 karati, la gente ti saluta non ti mette fretta. Li hai messi tutti in fila, non devi più niente a nessuno.

Ma se ti chiamasse quel ragazzo tu non ripartiresti in dieci minuti? Il cuore in gola come una scolaretta?

Se solo fosse uscito qualche giorno prima, Moonlight sarebbe stato il film più romantico nelle sale italiane per San Valentino. Altro che le 50 sfumature, col loro sadomasochismo omeopatico per coppie etero che non sanno più che sesso fare. Persino il Panavision di La La Land sbiadisce di fronte a un film di soli maschi afroamericani (le donne in scena fanno solo le madri, con risultati molto discutibili): qui c'è gente che si tocca una volta ogni dieci anni e poi vive nel ricordo. L'omosessualità è l'ultima frontiera del romanticismo, lo si era capito con Adele: certe situazioni, certi sentimenti sullo schermo grande e piccolo ormai li tolleriamo soltanto se riferiti a una minoranza da tutelare. Le uniche storie d'amore che riusciamo a guardare sono quelle insolite, per esempio qui ci sono due bambini / ragazzi / uomini che ogni dieci anni devono trovare una scusa per toccarsi. All'inizio si può giocare alla lotta, è cosa nota; ma poi diventa sempre più difficile, e purtroppo il film è quasi tutto lì: Chiron guarda Kevin, Kevin guarda Chiron, parlano del più e del meno col lessico molto impacciato di chi ha finito gli studi in galera (se inghiotti un popcorn ogni volta che nella versione originale dicono "man" ti ammazzi), cercano scuse per non salutarsi e andare via, e tu sei lì davanti, un po' il terzo incomodo - che è quello che succede in tutti i film d'amore, no? Ma qui non finisce mai. Parlano, si guardano, si guardano, parlano - in Adele succedevano anche altre cose, per dire.

Il regista Barry Jenkins e il drammaturgo Tarell McCraney hanno avuto fortuna, o colto l'attimo: l'anno scorso, in pieno movimento Black lives matter, i giurati dell'Academy non sono riusciti a candidare un solo attore afroamericano. Ne è ovviamente seguita una polemica. Poi è arrivato Trump, l'America razzista - o come si dice adesso, alt-right - ha perso il voto popolare ma ha messo il suo ometto nella Casa Bianca. Aggiungi che per Hollywood non è stato un anno esaltante, e il risultato è che Moonlight, un film d'autore che in altre stagioni non sarebbe uscito dal circuito dei festival, ha fatto man bassa di nomination, e qualche statuetta facilmente la porterà a casa: anche perché i rivali principali sono La La Land, già accusato di speculare sulla musica nera e sbiancarla, e Mel Gibson coi suoi trascorsi indifendibili, ubriachezza molesta e antisemitismo. E va bene così, abbiamo visto film anche meno meritevoli, e se è stato un colpo di fortuna è bello pensare che ogni tanto baci pure gente come Barry Jenkins, che aveva fatto un solo film nove anni fa (apprezzato dai critici) e poi si era messo a fare il carpentiere (continua su +eventi!)


C'è anche Janelle Monàe,
di mestiere è una cantante matta,
ma qui fa una particina quasi normale.
Come il Gus Van Sant del periodo di Elephant Paranoid Park,  Jenkins sembra convinto che il cinema debba sostanzialmente puntare un faretto su dei ragazzi, senza complicazioni sociologiche e psicologiche che ci turberebbero la contemplazione di questi teneri esserini che non sanno mai cosa dire e fanno i broncetti. Sin da quando attira l'attenzione della macchina da presa fuggendo dai suoi compagni nella prima scena, Chiron non sembra vittima di una società o di un pregiudizio, ma del destino: è nato "faggot", non gli resta che scappare o nascondersi o rispondere alla violenza - unica possibilità di sopravvivere. I suoi stessi avversari non hanno motivazioni né storia, sembrano lì dall'eternità per torturare il prossimo: non è il bullismo, è la natura.
Non è che Moonlight non abbia i suoi pregi (una fotografia d'altri tempi, che tratta con rispetto anche lo sfacelo suburbano), ma è curioso che abbia messo d'accordo praticamente tutti. È un film minimale ed è forse una certa sobria economia di mezzi e di campi che ci fa temporaneamente dimenticare che la storia è quella che hai sentito in un migliaio di rap diversi: man, il mio quartiere era il più duro, mia madre si sballava, sono dovuto diventare grande in fretta (man) e adesso guarda che bei pantaloni che ho, invidioso? Non nego che tutta questa roba sia degna d'interesse antropologico, ma è davvero la stessa lagna da vent'anni, man. L'unica cosa un po' insolita, appunto, è l'omoerotismo, ma somministrato con puritana parsimonia - è un film che tratta il pene come una questione irrisolta e abbastanza astratta, irriferibile e invisibile: lo si può tranquillamente programmare in prima serata. Adele non era così - è anche una questione di gusti, mi rendo conto, ma nel 2016 se vuoi fare un film tutto su due persone che vogliono toccarsi, perché non le inquadri mentre si toccano davvero? Di cosa hai paura? Di non vincere un Oscar e tornare a fare il carpentiere? No, man, ti capisco, e poi in fondo non è la mia roba, boh, guarda, rispetto. Moonlight è al cinema Vittoria di Bra (20:00, 22:30) e al Fiamma di Cuneo (20:00).
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Hanno vinto i Muri - e se avessero ragione?

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Certo, la vittoria di Trump sulla Clinton la possiamo benissimo considerare una vittoria della Paura sulla Speranza, della Rabbia sulla Ragione, dell'America incolta e rurale sulle élites (anche se salta fuori che più laureati bianchi hanno votato Trump di quanto ci si aspettasse). E siccome ci consideriamo tra noi intelligenti, potremo continuare a darci ragione a vicenda e a infierire sulla stupidità di chi vota il candidato visibilmente meno capace.

Il confine USA/Messico, adesso.
Ma se fossimo intelligenti davvero, a questo punto un dubbio ce lo potremmo far venire. Anche dalla capacità di rimettere in discussione le proprie ipotesi si dovrebbe misurare, l'intelligenza; e non dal costruire modelli che confortano le nostre credenze, come a quanto pare hanno fatto tutti fin qui, compresi i sondaggisti convinti di maneggiare numeri e numeri soltanto: e invece ci stavano soltanto raccontando, ancora una volta, la storia che ci piaceva ascoltare.

Dunque a un certo punto forse ci siamo convinti che la Storia non potesse andare che in un senso: che frontiere e dogane fossero cose ottocentesche, superabili; che l'immigrazione - non importa quante tensioni avrebbe creato - fosse un meccanismo irreversibile e tutto sommato arricchente; che dalla delocalizzazione dell'industria verso i Paesi in via di sviluppo avremmo tratto tutti più benefici che danno e in un certo senso è così (lo sto scrivendo su una tastiera molto economica, prodotta in qualche Paese lontano che non conosco). Tutto questo avrebbe certo generato qualche malcontento, ma ehi! Sono cose che si risolvono, basta trovare politici convincenti che sappiano fare discorsi commoventi.

Qualche resistenza alla globalizzazione negli ultimi trent'anni c'è stata, ed è capitato anche a me di prendervi parte. Avevamo idee vaghe (non che qualcuno in seguito abbia dimostrato di averne di più precise), denunciavamo speculazione finanziaria e paventavamo il riscaldamento globale. Non avevamo tutti i torti, non avevamo tutte le ragioni. Ci mancava però un modello, un'alternativa strutturata (quello che nel 1814 era il liberalismo e nel 1917 era il marxismo) e quindi siamo andati alla deriva: alcuni si sono fatti l'orto bio, altri lottano per il diritto di Renzi a governare senza la maggioranza, alcuni entrambe le cose. Nello stesso periodo, a volte persino nelle stesse piazze, c'era chi la tagliava molto più semplice: se il futuro è la globalizzazione, abbasso il futuro, torniamo indietro. Alziamo gli steccati, rimettiamo le frontiere, Schengen è un errore, l'euro è un errore. È banale constatare che stiano vincendo loro: da questo punto di vista l'elezione di Trump non è così sorprendente. Prima c'è stata la Brexit, e a questo punto è lecito immaginare che seguirà la Francia con la Le Pen. Persone diverse, programmi diversi, un'idea comune: il Muro. La globalizzazione vista come un'invasione di persone e una fuga di risorse. Un'idea che ovviamente un vasto schieramento progressista, di cui cui faccio parte, ha ritenuto per tutto questo tempo sbagliata e perdente. Non si ritorna indietro.

Ma se invece ci stessimo sbagliando?

(NON-È-UN-MURO)
Perché a volte si ritorna davvero indietro. È già successo. Basta leggere la Storia... ok, la Storia ci insegna che la Storia non ci insegna niente. Tutto quello che ci sta succedendo è eccezionale, non sono mai stati otto miliardi di esseri umani su questa terra, non abbiamo precedenti, non possiamo fare paragoni. Ma allora l'idea che la globalizzazione sia irreversibile è altrettanto irrazionale dell'idea che si possa bloccare o addirittura invertire. Tanti dati che fin qui pensavamo di aver processato razionalmente, potrebbero essere soltanto proiezioni di storie che ci stiamo raccontando, come ieri ci raccontavamo che la Clinton piaceva agli afroamericani o alle donne. Parto da Israele perché fa sempre un certo effetto partire da lì (tremila anni di profeti non possono sbagliare): a un certo punto il processo di pace sembrava irreversibile. La Speranza che vince sulla Rabbia, l'amore sull'odio, ecc.. Poi gli israeliani hanno pensato che tutto sommato invece potevano alzare un muro abbastanza alto e aspettare che passasse il momento adatto per fare la pace. Qualcuno si è lamentato (anch'io). Ma alla fine è andata proprio così. Il muro ha funzionato, il processo di pace si è fermato, la guerra rimane nei limiti fisiologici che aiutano a mantenere lo status quo, lo Stato di Palestina continua a essere una chimera, e adesso i muri li alzano in Austria o Ungheria.

Anche qui, Trump non ha davvero inventato niente, visto che tutto sommato un muro tra USA e Messico c'è già (ha aggiunto solo il tratto guascone del palazzinaro: lo faccio io ma lo pagano i messicani). Tutti questi muri sono senz'altro esecrabili, ma funzionano o no? Perché alla fine la Storia va così. Non ci giudica per la nostra bontà o cattiveria, ma per quello che realizziamo. Forse riderà di Trump, se Trump si dimostrerà un inetto: se le frontiere resteranno un colabrodo, la produzione industriale non tornerà negli USA, e il riscaldamento globale presenterà il conto. A me piace pensare che andrà così, ma come faccio a esserne sicuro? Molte cose che ho letto e a cui ho creduto potrebbero essere solo storie a cui volevo credere.

Siccome tra queste cose c'è qualche materiale un po' pessimista e neomalthusiano, ho il forte sospetto che il futuro sarà molto fosco: che alcune risorse scarseggeranno - stanno già scarseggiando - e che questo porterà a guerre e carestie. Magari molti elettori di Trump pensano la stessa cosa. Alcuni saranno meno scolarizzati di me, ma la loro reazione è poi così poco intelligente? Quando arriva l'uragano, ci si tappa in casa. Non serve avere una laurea. Ha senso perder tempo a far loro la morale? Non mi pare. Perché non sto facendo la stessa cosa? Non lo so.

Cioè alla fine mi è chiarissimo perché molti americani hanno votato Trump: faccio fatica a ricordarmi il perché io non voto analoghi personaggi. Non credo nei Muri - in Italia poi li trovo proprio tecnicamente irrealizzabili. Ma è una credenza, non il risultato di ragionamenti, o calcoli, o esperimenti. È la mia bandiera, e se la Storia riderà di me io comunque non sarò lì per soffrirne.
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Cosa fare col razzismo (o schiacciarlo o svezzarlo)

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Non ci siamo svegliati razzisti una mattina: il razzismo è una possibilità che forse ci portiamo dentro da un passato rinnegato un po' in fretta. È un cucciolo che è stato svezzato e coccolato da una precisa parte politica, per scopi chiari e chiaramente ignobili. Ci sono responsabilità evidenti: testate giornalistiche, programmi televisivi, interi gruppi editoriali hanno deciso di spacciare un determinato tipo di prodotto che creava consenso, vendeva giornali (neanche tantissimi), produceva odio. Certo, c'è la libertà di parola (non quella di propaganda razzista); certo, nel mondo libero ogni messaggio trova la sua nicchia. Siamo uomini di mondo, sappiamo come vanno le cose, le orazioni indignate contro i penultimi che alzano le barricate contro gli ultimi suonano fastidiose e ipocrite. Non ci siamo svegliati razzisti una mattina e non è coi bei discorsi che si può pensare che ci sveglieremo meno razzisti domani. C'è un lavoro da fare. Avrà un costo. E chi ha fatto i suoi soldi seminando odio, ora dovrebbe restituire. È tutto qui.

In Italia abbiamo, tra gli altri, un problema. Non è forse il più grave ma a mio parere è uno dei primi nodi della matassa: una volta sciolto scopriremmo che la situazione è molto più semplice. In Italia, in luogo della tradizionale contrapposizione tra una sinistra progressista e una destra conservatrice, abbiamo avuto una strana psico-dialettica tra una destra che inseguiva il Principio del Piacere e una sinistra che periodicamente rammentava il Principio di Realtà. Berlusconi è stato il simbolo e l'alfiere di una destra irresponsabile, che abbassava le tasse e inseguiva sogni di grandezza: il centrosinistra di Amato o Prodi si faceva vivo ogni tanto, un periodico bagno di realtà che serviva a recuperare un po' di conti, e a preparare l'ennesimo viaggio nei beati mondi della fantasia e dei ponti sugli stretti. L'invenzione di un'Italia ostaggio della malavita straniera, un'Italia terrorizzata prima dagli albanesi e poi dai rumeni e in seguito dai jihadisti, nasce nei laboratori del consenso berlusconiano e leghista. Certo, trova un terreno fertile. Un paese in recessione, colpito fatalmente dalla concorrenza dei più agguerriti tra i paesi emergenti, è il terreno più adatto a un certo tipo di predicazione xenofoba. E ciò non toglie che questa predicazione ci sia stata: che qualcuno abbia deciso di investire tempo, risorse, palinsesti televisivi.

Una macchina dell'odio che ormai procede in automatico, nel senso che ormai in cabina di regia non c'è più bisogno di nessuno e infatti non c'è nessuno: i berlusconiani si contentano di cavalcare l'antirenzismo; quanto alla Lega di Salvini, ormai è un movimento più teatrale che politico, in cerca più di visibilità che di potere autentico. La destra insomma resta a bearsi della sua irresponsabilità, inventandosi nemici immaginari e producendo tossine che respiriamo tutti. E la sinistra? La sinistra governa, si barcamena, cerca di recepire le direttive comunitarie sull'accoglienza dei profughi senza offendere i buoni cittadini razzisti che alzano le comprensibili barricate; la sinistra si sobbarca, si fa criticare, ma spera in qualche modo di poter vincere il referendum, e poi le elezioni, farsi firmare un contratto a tempo determinato fino al 2023 che le consentirà di? Di continuare a barcamenarsi mentre fascisti, grillini, leghisti ed ex berlusconiani continueranno beatamente a soffiare su qualsiasi brace di rivolta. In questo Renzi è veramente l'erede dello spirito di servizio dell'Ulivo prodiano e poi veltroniano: questa idea che solo un centrosinistra responsabile possa farsi carico dei problemi, e ottenere l'investitura popolare in forza delle proprie energie positive. La gente dovrebbe votarci perché siamo quelli buoni.

Si dice che a Gorino e altrove personaggi pittoreschi come Naomo hanno potuto ritagliarsi il loro spazio a causa della sparizione dei corpi intermedi. Vero, ma dunque che si fa? Perché un Naomo non si guarisce a discorsi, e nemmeno con una notte in cella per istigazione all'odio razziale. Un'altra possibilità - molto rischiosa, me ne rendo conto - sarebbe dargli in mano la situazione: fallo tu il corpo intermedio. Prova tu a gestire l'accoglienza dei rifugiati nella provincia di Ferrara. Va' tu a spiegare ad alcuni albergatori che si devono tenere quelli che l'ostello di Gorino non vuole. Come si sta facendo coi grillini a Roma, in fin dei conti. Credo che a quel punto si volatizzerebbe. I parolai prosperano dove il conflitto è bloccato.

E quindi siamo sempre lì. Piuttosto che a governare senza avere il 50% del Paese, il centrosinistra dovrebbe cercare di smontare il centrodestra; di metterlo di fronte alle sue (non)responsabilità. Di dividerlo, come in fondo ha fatto cooptando Alfano e poi con Verdini. È una possibilità. Oppure dovrebbe schiacciarlo, ma sul serio, come non è mai stato schiacciato Berlusconi anche quando seminava odio da emittenti nazionali che occupavano illegalmente l'etere tv. Renzi non sta facendo nessuna delle due cose. Vuole governare da solo, vuole mano libera, vuole che ci fidiamo di lui e che lo giudichiamo dopo cinque anni. E magari dopo cinque anni lui sarà stanco del giocattolo: ma noi saremo ancora qui, in un Italia dove si consente a Libero, al Giornale, di stampare immondizia xenofoba tutti i giorni: a Del Debbio di raccontare l'invasione dei profughi; e ai leghisti di giocare impuniti alle barricate.
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È "difficile" giudicare trenta razzisti, Matteo Renzi?

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Al referendum voterò No e non credo neanche sia necessario spiegare il perché - lo faccio da due anni, ormai. Quel che invece sto cercando di fare è purificare le ragioni del mio No: dimostrare, almeno a me stesso, che a farmi votare No sono considerazioni serie, previsioni ponderate, e non un'epidermica insofferenza per Matteo Renzi.

Faccio fatica.

La Repubblica
Un po' senz'altro per colpa mia - ma anche Renzi da parte sua potrebbe applicarsi di più. Quello che gli si chiedeva, di fronte a un fatto banale e inquietante insieme, come la rivolta di Gorino, è una posizione netta, magari anche sbrigativa perché cosa sono dodici o venti posti letto di fronte a un'emergenza nazionale, continentale, mondiale? Non sono niente finché non diventano un simbolo.

Prima che succedesse questa cosa, Renzi avrebbe pur potuto passare davanti alle telecamere e dire: signori, raccontiamoci poche palle. Io forse posso comprendere la "stanchezza" degli italiani di fronte a un'emergenza che non finisce mai, ma nella fattispecie non quella degli abitanti di Gorino, che di profughi non ne hanno mai visti. Se non ne vogliono dodici, qualcun altro comune del ferrarese se ne dovrà sobbarcare: qualche altro onesto cittadino padano dovrà pagare per la "stanchezza" immaginaria dei pescatori di Gorino che lo Stato sovvenziona già così lautamente. Spero di essermi spiegato e che non ci sia bisogno dell'aiuto delle forze dell'ordine per smontare i gazebo e le altre cianfrusaglie che bloccano il traffico a dispetto del codice stradale. E però.

E però Matteo Renzi è in campagna referendaria; è appeso a uno stelo di consensi che ondeggia a ogni refe di vento, e quindi gli è toccato dire che è difficile giudicare la 'stanchezza' di un paesino dove non c'è mai stato un profugo-uno. Ridursi a cercare i voti di Naomo, d'accordo, a un politico può succedere anche questo: ma almeno finirà? Perché la speranza dei renziani è che tutta questa manfrina un bel giorno finirà e Renzi regnerà incontrastato. Quando?

Mettiamo che vincesse al referendum: sarebbe un bel ripulisti per il Pd (ci potrebbe anche essere una scissione) e anche a centrodestra ci sarebbero contraccolpi notevoli, magari positivi per le piccole compagini di Alfano e Verdini. Ma Renzi continuerebbe a essere il capo di un governo di coalizione che continuerebbe a dipendere da Alfano e Verdini. Fino alle elezioni, che lo stesso Renzi non credo vorrebbe disputare prima del 2018 - a questo punto non si sa bene con che sistema elettorale, ma diamo per scontato che dopo una debacle referendaria la sinistra Pd non riesca più a ottenere nulla e si vada con un sistema non troppo dissimile dall'italicum com'è oggi.

Mettiamo che scoppi un'altra Gorino - o altre dieci, cento, mille Gorino. Renzi continuerà a capire la "stanchezza" di chiunque. Non è che abbia molte alternative: o vince o va casa. E non è davvero detto che vinca. Nei tempi lunghi, peraltro, perdiamo tutti.
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La favola del ladro di bambini (e chi ve la racconta)

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Con gli anni se uno ha un po' di memoria selettiva riesce anche a imparare qualcosa: per esempio i sequestri di bambini non si improvvisano. Quando un genitore denuncia una persona per tentato sequestro - di solito è un ambulante irregolare o un mendicante che gli ha sfiorato il bambino - il caso si sgonfia regolarmente entro pochi giorni. Un sequestro di persona è un'operazione complessa che richiede una rete di complici e un'organizzazione radicata in un territorio, o come minimo un automezzo. Se non c'è un automezzo è abbastanza chiaro che nessuno sperava di portarsi via davvero un bambino - senza un automezzo neanche i genitori riescono a portarsi via i propri bambini, figurarsi uno sconosciuto.

Per cui ogni volta che in tv sento dire che un genitore ha denunciato una persona appiedata per tentato sequestro, so che qualcuno sta giocando sporco. Non il genitore, che probabilmente si è davvero spaventato e reagisce, per così dire, a uno stimolo pre-razionale, che è lo stesso che fa mostrare i denti a qualsiasi animale che stia scortando il suo cucciolo. Neanche le forze dell'ordine, che se il genitore fa una denuncia non possono che recepirla. Ma i giornalisti? Quelli che montano la notizia e l'accostano all'"invasione" dei migranti? Cronisti che queste cose le hanno già viste e conoscono la casistica meglio di me, possono invocare la buona fede dopo aver sbattuto il mostro in prima pagina?

Ieri Filippo Facci ha spiegato che "la storia dell’indiano che rapisce la bambina va completamente azzerata: le polemiche e gli articoli che sono stati scritti – compreso uno su Libero, a cura dello scrivente – erano basati su informazioni insufficienti per quanto fossero le uniche disponibili". Ora che invece le informazioni ci sono, Facci può spiegarci per filo e per segno la storia di Ram Lubhaya che, puntualizza, "è indiano (come gli zingari sinti) e questa è la sola cosa che lo avvicina al pubblico immaginario del rapitore di bambini". I sinti italiani sono "indiani" come Facci è "ostrogoto", e non rapiscono i bambini, ma questo non è nemmeno il punto.

Qualche giorno fa stavo guardando Studio Aperto, dovrei darci un'occhiata più spesso anche se non mi fa stare bene. All'improvviso tra le brevi di cronaca piomba questo scoop: su una spiaggia siciliana sembrava aver preso forma l'incubo di ogni genitore; uno straniero, un indiano aveva cercato di rapire un bambino! Subito dopo, un servizio sui migranti, ripresi dietro a qualche recinto. Subito dopo, un comunicato dell'Isis che nessun altro si è filato, preso direttamente da youtube, in cui l'Isis chiede a tutti i suoi sostenitori di attaccare l'Italia (la scritta ITALY enorme in sovraimpressione su vaghe immagini di jihad). È stato un momento incredibile per uno che da ragazzino ha letto 1984 pensando vabbe', questa almeno l'abbiamo scampata. E invece guarda che dieci minuti di odio ti organizza Studio Aperto. L'indiano che rapisce i bambini, i migranti che c'invadono, l'Isis che ci bombarda. Quanta gente guarda Studio Aperto tutti i giorni? Molto più di quelli che leggono Libero, e che magari dopo aver bevuto per tre giorni la fola del rapitore di bambini, saranno disposti anche a leggersi il pezzo in cui Facci si scusa, sapete com'è, avevamo "informazioni insufficienti" e quindi ci è scappato di inventarci un mostro.

Che poi è un'ulteriore fola, perché Facci il suo mestiere lo conosce e non c'è verso che possa essersi bevuto, nemmeno per un istante, il bibitone che ha somministrato ai suoi lettori. Se le "informazioni insufficienti" erano quelle che abbiamo sentito tutti, ovvero due genitori che denunciano un ambulante abusivo indiano per tentato sequestro di bambino, tu sai già che non c'è automezzo, non c'è organizzazione, non c'è niente. Tu lo sai ma devi lo stesso spremere un po' di odio per il bibitone. Ai lettori puoi sempre chiedere scusa tre giorni dopo. Se ti fa star meglio con te stesso.
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Ogni santa ha il suo burqini

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23 agosto - Santa Rosa da Lima, vergine (1586-1617)

Isabel da Lima, decima di tredici figli, ribattezzata "Rosa" per la tenerezza dell'incarnato che in America Latina più che altrove era indizio di origini europee e quindi di bellezza e nobiltà (anche se secondo un'agiografia fu proprio una serva india a chiamarla così) (secondo un'altra fu il vescovo che la cresimò) (chi le ha contate dice che in giro ci sono 400 agiografie diverse di Santa Rosa patrona di Lima) (e comunque il cambio di nome fu ratificato da una visione mariana) Isabel da Lima, dicevo, a vent'anni si fece costruire una casetta nel cortile di famiglia e non volle più uscirne.

Il volto di Santa Rosa, ricostruito dal grafico Cícero Moraes
 a partire dal cranio, custodito in un convento di Lima,
via Wiki.

Da bambina aveva letto di Caterina da Siena, che volendo restare sola con Dio, invece di entrare in un convento era rimasta a casa coi suoi: Isabel scelse di seguirne le orme. Caterina da Siena morì di digiuni e anche Rosa non arrivò a compiere 32 anni. È patrona di Filippine, India, Perù, Spilamberto (MO), giardinieri e fioristi: ma voi vi preoccupate del burqini.

No, avete ragione. È senz'altro un argomento più fresco. Cosa importa se da una parete vi pende ancora un calendario affollato di nomi di vergini anoressiche che spesso sfidarono l'autorità famigliare per autorecludersi a vita: ieri era ieri, oggi è oggi, e dalla Storia non s'impara mai niente. In questi giorni leggo molto discorsi che cominciano per "noi" o per "loro". Noi siamo quelli liberi di stare in ispiaggia come vogliamo. Noi il velo ce lo siamo tolto, salvo le nostre suore che però lo sono per libera scelta, mentre chi si infila un burqini no. Tra parentesi: voi l'avete mai vista davvero una bagnante in burqini? Io due o tre in Francia o in Turchia. In nessuno dei casi era accompagnata da un maschio barbuto e arcigno che la sorvegliava. Ok, tre episodi non fanno statistica. Ma insomma ho il sospetto che molti siano convinti che il meccanismo della prevaricazione funzioni sempre nel modo più banale: se qualcuno le costringe a portare un velo, noi le obblighiamo a togliersi il velo e saranno libere. Però se fossimo entrati con la forza nella casa di Isabel, se avessimo scardinato la porta della sua cella, lei non sarebbe uscita. Nessuno l'aveva rinchiusa con la forza: nessuno riusciva a farla uscire. Per Isabel la libertà era dentro la cella, la gioia era recitare maratone di rosari e strimpellare laude alla chitarra: evadere sarebbe stata una costrizione. Nel Giappone di oggi il fenomeno degli adolescenti che rifiutano di uscire di casa si chiama hikikomori.

D'accordo, Isabel-Rosa era una vittima dei tempi, del patriarcato, ecc.. Ma come la maggior parte delle vittime, aveva interiorizzato la propria condizione. Era stata condannata dalla società prima ancora che nascesse, ma il carcere se l'era fatto costruire su misura. Quando cominciò a manifestare i suoi propositi claustrali, era ormai chiaro che la famiglia versava in difficoltà finanziarie. Se sei la decima di tredici figli sai benissimo cosa significa: che i soldi per la dote non ci sono e per sposarsi ci si dovrà accontentare. Caterina da Siena aveva visto tante sorelle accasate a uomini brutali, aveva visto una sorella morire di parto. In famiglia già si chiacchierava di farle sposare il vedovo. Caterina preferiva digiunare. Fu una libera scelta? Visse poco ma divenne famosa, tutti gli alti prelati leggevano le sue lettere, un Papa avignonese si fece persino convincere a tornare a Roma. È sui libri di storia e nelle antologie di letteratura: altre avrebbero preferito scodellare figli al vedovo.


Ah vabbe' ma si era portata la chitarra.
Anch'io sono rimasto tappato in casa
qualche anno con la chitarra
(poi per fortuna hanno inventato l'internet).

A me piace che nelle spiagge ci siano persone molto diverse da me. La spiaggia è il luogo in cui ho imparato da bambino che esistono gli stranieri, esistono i mutilati e infinite altre forme di diversità. Ultimamente vedo molti tatuaggi, una forma di creatività per la quale ho una repulsione fortissima, pre-razionale, chi può mi perdoni. Se avessi passato gli ultimi vent'anni in coma, e se al risveglio mi avessero raccontato che il Pessimo Gusto è salito al potere e costringe la gente a tatuarsi contro la propria volontà, ci crederei: voglio dire, per crederci mi basta andare fare due passi in ispiaggia. Se poi qualcuno mi dicesse: no, guarda che queste frasette motivazionali o queste cornicette da diario delle medie me li sono iniettati sottopelle a mie spese, è stata una mia libera decisione che ho deciso di difendere finché campo, io scrollerei la testa: è quel che ti costringono a credere, dai. Sei solo una vittima, anche se non hai il coraggio di ammetterlo. Se una persona mi dice che si mette il velo per libera scelta, sono libero di non crederci. Ma se invece di manifestare il mio scetticismo le strappo il velo, o le ordino di non presentarsi più in ispiaggia o a scuola, cosa ottengo? Isabel, ti ordino di uscire dal convento.

Io credo che molte donne che si bagnano in burqini non sappiano cosa si perdono. Cosa posso fare per convincerle a cambiare idea e costumi? (continua sul Post!)
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L'uomo che batteva i nazisti (e i cavalli)

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Race (Stephan Hopkins, 2016).

Il trucco è che il colpo di pistola spaventava un po' il cavallo,
e intanto Owens era partito.
Qualche anno dopo aver vinto le famose quattro medaglie d’oro davanti a Hitler, Owens per campare sfidava sul rettilineo i cavalli da corsa. Avversari umani di livello non ne aveva più: era stato radiato subito dopo Berlino, per essersi rifiutato di seguire la squadra olimpica americana in un tour in Scandinavia. Aveva avuto voglia di tornare subito a casa, abbracciare la famiglia, assaporare il trionfo, quel tipo di cose. A New York in effetti diedero un grande ricevimento in suo onore al Waldorf Astoria - ma lo fecero entrare dalla porta sul retro. Il presidente Roosvelt, molto impegnato nella campagna per la sua rielezione, non lo incontrò mai. Owens del resto era un repubblicano, appoggiò ufficialmente il suo rivale. Quando gli chiedevano come mai Hitler non gli avesse stretto la mano, lui faceva presente che neppure Roosvelt gli aveva mai mandato nemmeno un telegramma. Poi per un po’ lo sport passò in secondo piano, Owens continuava a far figli e si arrabattava come poteva. Fu tra i fondatori di una lega di football americano per soli neri (le altre federazioni li escludevano), che fallì in pochi mesi. Aprì un lavasecco, dichiarò bancarotta, fu condannato per evasione fiscale. Ci sarebbero voluti diversi anni per ritrovarlo sulla panchina da allenatore degli Harlem Globetrotters. Quando a Città del Messico i vincitori americani dei 200 metri fecero scandalo alzando il pugno chiuso, Owens li criticò, per poi pentirsene pubblicamente. Prima di lasciare questo mondo, nel 1980, fece in tempo a protestare contro la decisione di Reagan di boicottare le olimpiadi di Mosca. Di tutto questo Race non parla - soltanto la scena in cui lo fanno passare dal retro del Waldorf Astoria, con la moglie, funziona da finale dolceamaro, mentre scorrono i sottotitoli: sembra tutto sommato un’offesa da poco, qualcosa da lasciarsi alle spalle.
Il ralenti sarà banale, ma con l'atletica funziona sempre.
Hopkins non lo usa, sembra che abbia fretta di mostrarti
le gare per passare ad altro.

(Quando capisci che un biopic non funziona? Per esempio, quando è meno avvincente della pagina di Wikipedia).

Come si fa a sbagliare un film su Jesse Owens? Da una parte un afroamericano che resta a ottant’anni di distanza uno dei più grandi atleti di tutti i tempi: dall’altra hai i nazisti e i razzisti dell’Ohio. Per trasformare l’atletica in tragedia e in spettacolo, puoi ripassare Chariots of Fire; per capire come parlare di razzismo e di sport, puoi rifarti ad Ali di Michael Mann. Quanto alle olimpiadi di Berlino, prendi la Riefenstahl e vai sul sicuro. Ma se tutte queste lezioni le ignori, se i dilemmi etici degli atleti li risolvi in discussioni di tre minuti, se il razzismo lo dai per scontato, se i tuoi nazisti sembrano cattivi da melodramma (sul serio, ogni volta che parla Goebbels partono i violini), se la Riefenstahl ti interessa solo come personaggio, il risultato finale si avvicinerà pericolosamente al livello di una fiction italiana, con un budget più alto, ma con meno personalità addirittura.

Il reverendo che sposò gli Owens aveva
i baffetti alla Hitler, il che mi fa impazzire.
Sbagliare un film su Jesse Owens è un’impresa incredibile, ma Stephan Hopkins ce l’ha fatta (continua su +eventi!).

Proprio lui che col suo biopic su Sellers aveva dimostrato di saper sfidare le regole del genere - quella però era un’icona che supplicava di essere profanata; con Owens, con la leggenda olimpica, non si scherza, e il risultato è anche che non se ne riesce nemmeno a discutere seriamente. Più che personaggi in scena ci sono delle figurine: hanno tutti obiettivi lineari (l’atleta nero vuole vincere, l’allenatore bianco vuole riscattare i suoi insuccessi, il dirigente olimpico vuole sconfiggere i nazi) e quando qualcuno o qualcosa si mette di traverso, s’ingrugnano, finché qualcuno non li sblocca, di solito con un bel discorso. Anche Hopkins è succube di questa moda del discorso taumaturgico, che tanti danni ha fatto negli ultimi anni (vedi il Lincoln di Spielberg). Ma nel suo caso l’ossessione rasenta il comico, perché molto spesso i discorsi non c’entrano nulla col conflitto in atto: ad esempio, quando Owens è incerto se boicottare o no i Giochi come gli ha chiesto un’associazione afroamericana, l’allenatore lo commuove spiegandogli che una volta si è schiantato con un aeroplano. Non c’entra tantissimo, ma nel frattempo è partita la base languida e pare che adesso funzioni così, ogni volta che un personaggio è frustrato e deve prendere una decisione tu inserisci un blocco di testo qualsiasi nel copione, un attore lo legge, i violini partono, voilà, la decisione è presa. Pazienza se il protagonista sembra non aver personalità, e oscillare a seconda dei discorsi che ascolta.



Luz Long è un gran personaggio, ok,
ma arriva dopo un'ora e mezza di film.

Il film tutto sommato tratta meglio Avery Brundage (un Jeremy Irons poco convinto), dirigente sportivo americano dalla carriera prestigiosa e controversa (dopo la guerra divenne segretario del CIO fino al 1972, quando si prese la responsabilità di far proseguire i giochi olimpici dopo che Settembre Nero aveva massacrato undici membri della squadra olimpica israeliana). Con una mossa che tradisce non si sa se più superficialità o provincialismo, Hopkins trasforma Brundage nell’eroe del mondo libero che persuade la compagine olimpica americana a non boicottare le olimpiadi, costringe i nazisti a non perseguitare gli ebrei (almeno durante i Giochi) e minaccia Goebbels: o Hitler stringe la mano a Owens, o non la stringe a nessuno. Poi però i due membri ebrei della staffetta americana, a malincuore, deve escluderli dalla finale, perché c’è un limite a quanto si può infiocchettare la storia. In realtà Brundage aveva opinioni moderatamente antisemite, come molti americani che prima di Pearl Harbor non guardavano a Hitler con troppa antipatia.

Lo sport è spesso ingrato coi suoi protagonisti: li piazza alla ribalta e poi cala il sipario all’improvviso. Il caso di Owens è esemplare anche perché ha sempre rappresentato quello che gli Stati Uniti vorrebbero essere - la patria multietnica che piglia Hitler a calci in culo. Se la storia finisse lì, se Owens non avesse poi dovuto interrompere subito la carriera e fare i conti col razzismo in patria, sarebbe una storia fin troppo edificante - probabilmente quella che aveva in mente Hopkins. Race torna sul grande schermo giovedì (ore 22) a Bra, frazione San Matteo, in occasione della rassegna Cinema d’estate in periferia

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Cerca di essere un uomo, Filippo Facci

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In questi giorni mi sono messo un paio di volte a scrivere un pezzo per spiegare che anch'io, come tutti, ho paura. Di tante cose, tutte in realtà collegate: del fatto che questo sia l'ennesimo mese più caldo di sempre, delle migrazioni probabilmente inevitabili, della xenofobia che ne scaturisce nei Paesi di confine come il nostro, e non solo; delle pulsioni isolazioniste e identitarie che portano a infortuni come la Brexit e creano consenso intorno a personaggi come Trump o Erdogan; insomma ho paura di tutto, come tutti.

E in questo tutto c'è anche il terrorismo di matrice islamica, com'è normale che sia - benché continui a fare meno vittime del traffico, non c'è motivo per cui non debba spaventare un qualsiasi europeo di mezza età che ha una famiglia e ogni tanto vorrebbe andare al cinema o in ispiaggia. Quindi sì, ho paura anch'io. Se in questo periodo non ne scrivo, non è per paura di ammettere di non aver paura. Più banalmente: sono un adulto, e non credo che gli adulti dovrebbero fare spettacolo delle proprie emozioni.

Lo so che è strano scriverlo su un blog; che all'inizio del gioco nella melassa delle emozioni abbiamo tutti intinto la penna e non solo; ma se c'è un errore in archivio da cui mi piacerebbe prendere le distanze, è proprio questo. Quando sei un bambino, se hai paura urli e piangi. È giusto che sia così, è giusto che gli adulti si ricordino continuamente che hai esigenze, così non ti dimenticano in macchina nel parcheggio. Quando cresci - e intorno a te i bambini cominciano a piangere - tu sei quello che deve restare calmo. Anche se hai paura. Proprio perché hai paura.

Questa è una cosa che ho capito molto presto, credo grazie allo scoutismo. A distanza di mezza vita continuo a rendermi conto che lo scoutismo ha fatto un'enorme differenza nel modo in cui sono cresciuto. Non per i discorsi che facevamo e che mi sono quasi tutti dimenticato, ma per il modo in cui lo scoutismo ci prendeva a diciott'anni e ci intestava la responsabilità di una ventina di minorenni, tuttora se ci ripenso mi spavento - così che invece di preoccuparci dei soliti nostri problemi di generazione X dovevamo passare il tempo a tirar su il morale a questi monelli, anche quando si allagavano le tende o qualcuno si fratturava il femore. Eravamo incoscienti, certo, ma se anche avessimo avuto un po' di paura, non ci era consentito esibirla. È così che sono cresciuto; forse è per questo che lavoro ancora coi minori e non vado in giro a strillare che il mondo sta finendo e l'eurabia trionferà. Non lo trovo razionale, ma soprattutto non lo trovo virile.


In questi giorni mi sono messo un paio di volte a scrivere un pezzo del genere, finché stamattina mi sono imbattuto in uno sfogo estivo di Filippo Facci su Libero, trenta righe su quanto odia l'Islam. Un pezzo ai limiti dell'autoparodia, l'Uomo Bianco Che Strippa In Estate, ormai un classico. Facci ha sempre dato l'impressione di essere più intelligente delle cose che pubblica, e anche stavolta, mentre va avanti con la bava alla bocca gli scappa un'ammissione, è come quando in un film di zombie ne vedi uno a cui sfugge una lacrima da un occhio pesto, appena un sospetto di umanità. Guarda che roba mi sto riducendo a scrivere.

Ma non ci sono più le parole, scrisse Giuliano Ferrara una quindicina d’anni fa: eppure, da allora, abbiamo fatto solo quelle [ma parla per te, al limite parla per Giuliano Ferrara], anzi, abbiamo anche preso a vendere emozioni anziché notizie. Eccone il risultato, ecco alfine le emozioni, le parole: che io odio l’Islam, blablablà, va avanti a lungo.

Ma insomma, "eccone il risultato". Invece di prendervi delle responsabilità, di esercitarvi a ragionare coi lettori scansando le reazioni più emotive, avete deciso che avreste venduto emozioni, amplificato emozioni, sdoganato le emozioni. Il risultato è che state sulla cinquantina e il vostro mestiere consiste nel vomitare odio su un giornalino di benpensanti razzisti che hanno bisogno di sentirsi dire che l'Islam è odioso, e il cui contributo alla guerra di civiltà si esaurirà nel farvi l'obolo di un euro, un euro e venti, e magari sputare sulla passante magrebina che incrociano al semaforo. Tu, Filippo Facci, che pure sembravi così intelligente: e il tuo collega Giordano, quella povera persona che chiama alle armi l'occidente con la sua vocina querula, una metafora vivente. Speculare sui bassi istinti dei vostri lettori non è soltanto spregevole e rischioso. Soprattutto, non è una cosa da veri uomini.

A Libero sì che sanno taggare

Nel senso un po' machista del termine, sì.

Siete quei poveri isterici che nei film catastrofici urlano MORIREMO TUTTI!, e nessuno spettatore in effetti ritiene necessario che debbano sopravvivere. Va bene, la congiuntura è quel che è, ormai i giornali si vendono così - ma in realtà non li vendete lo stesso. Perché dovrei avere rispetto per gente come voi? Per quindici anni avete solo detto parole, parole, parole, e intanto io ad esempio lavoravo. Con un sacco di brava gente, alcuni anche musulmani. In questi quindici anni diversi li ho diplomati, alcuni li vedo ancora: hanno un lavoro, magari pensano a farsi una famiglia. Il famoso Islam moderato, che secondo le vostre teorie quindecennali non esiste. Magari davvero no,  non saprei: posso dire che è da mezza vita che ho a che fare con bambini musulmani, genitori musulmani, ragazzi musulmani, e mediamente mi hanno dato meno problemi di quelli di origine italiana (mi hanno anche dato meno problemi di Filippo Facci). Insomma io non lo so se esiste l'Islam moderato, ma in questi 15 anni coi musulmani moderati ci ho lavorato. Voi non lo vedete perché non è il vostro target, da quel che scrivete si capisce benissimo che il vostro contatto coi musulmani si limita al kebab all'angolo e alla tizia che vi lava le scale e che secondo Gramellini dovrebbe subito andare in questura se sente discorsi strani in moschea. Ma c'è tanta gente che vive e lavora e studia: e voi non li vedete. Non studiano nelle vostre scuole, non lavorano nei vostri giornali, e nemmeno li compreranno mai, quindi perché preoccuparsi? Eh, ma io in quelle scuole invece ci lavoro. Quest'anno la mia alunna che si è diplomata col voto più alto era di origine pakistana, per dire.

Certo, ogni tanto i miei studenti mi raccontano cose che mi spaventano - anche se cerco di non mostrarlo. Per esempio raccontano di passanti che inveiscono contro di loro. Succede spesso dopo un attentato. Ragazzine di dodici anni che tornano a casa a piedi, magari una delle due porta un velo: passa un vecchio in bicicletta e sputa loro addosso. Queste cose non vanno mai in prima pagina, nemmeno in sedicesima, ma succedono un po' tutti i giorni. Quel vecchio magari non legge gli sfoghi estivi di Filippo Facci su quanto è opportuno tirare calci all'Islam che siede sui nostri marciapiedi. Però Libero, quando pubblica una strippata di Facci sull'Islam, pensa esattamente a quel tipo di lettore.

Adesso viene la parte più inquietante. Una cosa che scrive Facci - che l'Islam sarebbe avrebbe portato una "permalosità sconosciuta alla nostra cultura" - è abbastanza ridicola, soprattutto se penso all'autore. Però sì, un certo tipo di permalosità è innegabile, anche se lo trovo un tratto comune di tutte le civiltà mediterranee. Comunque può essere un problema, anche considerato che le temperature non si abbasseranno per un po'. Ora, io ho avuto diversi studenti musulmani, e il rischio della radicalizzazione so cos'è. Se mi chiedi: quale fattore può portare un ragazzino o una ragazzina a radicalizzarsi, io a freddo ti risponderei: un vecchio in bicicletta che ti sputa addosso, o sputa a tua sorella.

Dunque, caro Facci, la situazione è questa: tu per vivere fai la tua tiratina isterica su Libero: un coglione razzista la legge, esce di casa e sputa addosso a una ragazzina. Quella ragazzina magari ha un fratello che lavora con me. Se è permaloso, se si radicalizza, non verrà a farsi esplodere a casa tua, figurati. Non saranno cazzi tuoi, mi rendo conto. Saranno cazzi tutti miei, se un giorno viene a scuola con un coltello o peggio.

Ma io non posso avere paura. Nessuno mi paga per averne. Nessuno mi paga per pisciarmi addosso le mie emozioni.

Invece mi pagano per aver coraggio. Quindi io continuerò ad avere coraggio, e tu continuerai ad avere paura. Così è la vita.

Volevo dirti un'ultima cosa ad effetto, del tipo: la prossima volta che ti sale il panico, cerca di essere un uomo, Filippo Facci. So già che mi risponderesti - senza un'ombra di islamica permalosità - vaffanculo imbecille. Già. Buone vacanze anche a te.
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Caro fratello musulmano di Gramellini

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Caro musulmano non integralista che in privato hai confidato a Gramellini il tuo sgomento per l'eresia wahabita, e la tua rabbia verso la corte saudita che si atteggia a nostra alleata e invece finanzia quell’eresia dai tempi di Bin Laden, esci fuori.

Lo so che esisti, Gramellini ti ha tradito. Dai, esci, su.

Il piano degli aspiranti califfi è piuttosto chiaro: utilizzano ragazzotti viziati come gli stragisti del Bataclan, ma anche relitti umani come il camionista che ha seminato la morte sulla promenade di Nizza per alimentare la paura e l’odio verso l’Islam, così da portare i razzisti al potere in Occidente e creare le condizioni per innescare una guerra di civiltà, insomma la qualunque, va bene tutto, qualsiasi commando improvvisato noi lo attribuiamo ai Sauditi Malvagi, se non direttamente a Sauron o al Veglio della Montagna, perlomeno il tuo amico Gramellini ormai ragiona così, un Vittorio Feltri dal volto umano, e tu ancora ci parli, chissà dove poi, magari uscite a cena, e al dessert tu gli fai: sono sgomento per l'eresia wahabita.

"La che?"
"L'eresia wahabita, è la confessione della corte saudita".
"Sono i cattivi?"
"Beh, senz'altro hanno finanziato diversi terroristi".
"Ah, il terrorismo, conosco, gli anni Settanta, sapessi, le Brigate Rosse, i compagni che sbagliano..."
"Ecco, non c'entra niente".
"Ma è terrorismo, lo hai detto tu".
"Il terrorismo è un fenomeno complesso, sarebbe sbagliato leggere gli avvenimenti degli ultimi vent'anni con le lenti degli anni di piombo, che tra l'altro ormai ve li ricordate solo voi giornalisti italiani e..."
"Ma non scaldarti, su, beviti un bicchiere".
"No, grazie".
"Ah già sei musulmano".
"No è che a quest'ora non lo reggo, e forse anche tu dovresti..."
"Però sei stronzo che mi fai bere da solo. Vabbe', ho capito, i sauditi vogliono fare la rivoluzione e i musulmani di tutto il mondo li considerano compagni che sbagliano, è così?"
"Sigh".
"Negli Anni Settanta del secolo scorso il terrorismo di sinistra insanguinò le nostre strade con altri metodi (bersagli simbolici e non indiscriminati) ma identici obiettivi: scatenare la rivoluzione".
"In che senso identici obiettivi? La rivoluzione non è mica una guerra di civiltà".
"Vabbe', dettagli. Comunque tu in questa storia saresti il sindacalista Guido Rossa, che pagò con la vita la rottura dell’omertà in fabbrica!"
"Cioè devo farmi ammazzare".
"Ma no, si fa per dire, anzi ti auguro lunga vita".
"Ma mi tocco i coglioni, guarda".
"Ah, lo fate anche voi?"
"No, è che mi sto integrando".
"Bravo".
"Ma insomma cos'è che dovrei fare?"
"Da te che ci aspettiamo il gesto che può cambiare la trama di questa storia. I farabutti che sgozzano in nome dell’Islam non vengono dal deserto: sono cresciuti in Occidente e quasi sempre ci sono anche nati".
"Embè?"
"Frequentano i tuoi negozi".
"Io faccio la spesa alla coop".
"E la carne halal?"
"Ce l'hanno anche alla coop".
"Ah".
"Tu non la fai mai la spesa, vero?"
"Però frequentano anche le tue moschee".
"Cioè secondo te i jihadisti discutono di bombe davanti a tutti nel parcheggio della moschea? Che molti manco ci vanno in moschea. Si fanno le madrase in casa".
"Ecco, perché non li denunci?"
"Li denuncio per cosa?"
"Hai appena detto che si fanno della roba in casa".
"Le madrase, le scuole islamiche, si trovano in garage o nel seminterrato e pregano e insegnano l'arabo ai figli".
"E tu non li denunci?"
"Ma per cosa? Per il reato di pregare insieme a casa propria e insegnare l'arabo ai figli?"
"Lo vedi che non sei collaborativo? Eppure parlano la tua lingua!"
"Ma mica tanto".
"Come, non siete tutti arabi?"
"Guarda, io son tunisino, e i marocchini già faccio fatica a capirli. Poi ci sono i pakistani che non sono proprio arabi, proprio per niente. L'arabo giusto per le preghiere".
"Ma te pensa. Comunque hanno figli che vanno a scuola con i tuoi".
"Perché con i tuoi no?"
"Ehm, boh, non saprei. Senti, per troppo tempo hai guardato ai terroristi come a dei fratelli che sbagliavano ma che non andavano traditi".
"Eh?"
"Non condividevi i loro comportamenti, ma non te la sentivi di denunciarli".
"Ma che cazzo dici?"
"In qualche caso per paura, ma più spesso per una forma perversa di solidarietà religiosa e razziale".
"Cioè mi stai accusando di favoreggiamento ai jihadisti? Così? Mi inviti a cena e mi dici una cosa del genere?"
"No, veramente la scrivo sulla prima pagina del giornale".
"Perché sono tuo fratello".
"Certamente, di me ti puoi fidare".
"E meno male che non ero solo tuo cugino, ma vaffanculo, va'".
"Lo dite anche voi?"
"Mi sto integrando".
"Bravo. Adesso però il gioco si è fatto troppo duro e non puoi più restare sull’uscio a osservarlo".
"Ma osservare cosa, ma lo sai che c'è gente che dopo ogni attentato mi insulta per strada?"
"Adesso anche tu, come l’operaio comunista di quarant’anni fa, hai qualcosa da perdere".
"Cioè dici che prima no, che prima ero un pezzente senza niente da... senti, ma sei venuto in macchina?"
"Certo, perché".
"Forse è meglio che andiamo, mi sembra che tu abbia già bevuto un po' troppo".
"Aspetta, aspetta. Bene o male l’Occidente ti ha accolto, offrendoti la possibilità di una vita più dignitosa di quella che ti era consentita nella terra da cui sei scappato".
"Cameriere, ci porta il conto per favore?"
"No, stavo pensando a un amaro. Mi fai compagnia?"
"Io non sto bevendo, Gramellini".
"Ah già, dimenticavo. Senti. Cosa stavo dicendo?"
"Niente di particolarmente intelligente".
"Non puoi continuare a negare l’evidenza o a girarti dall’altra parte".
"Ma chi si gira, ma cosa stai..."
"Hai oltrepassato quel confine sottile che separa il menefreghismo dalla complicità".
"Cameriere, sul serio, noi adesso andiamo, pago tutto io con la carta".
"Facciamo un patto".
"Che la prossima volta offri tu? sarebbe anche ora".
"Noi cercheremo di tenere i nostri razzisti lontani dal governo e di migliorare il livello della sicurezza, anche se è impossibile proteggere ermeticamente ogni assembramento umano".
"Dammi il braccio, non lo vedi che barcolli".
"Tu però devi passare all’azione".
"Sì capo".
"Devi prendere le distanze dagli invasati che si sentono invasori e dagli imam che li fomentano".
"Dammi le chiavi della macchina, che è meglio".
"Denunciarli, sbugiardarli, controbattere punto su punto le loro idee distorte".
"Sissì, guarda, parto da domani".
"Denuncerai?"
"Denuncerò".
"Sbugiarderai?"
"Sbugiarderò".
"Controbatterai punto su punto le loro idee distorte?"
"Controbatterò... scusa, una curiosità, tu negli anni Settanta passavi il tuo tempo così?"
"Eh?"
"Passavi il tempo a controbattere punto su punto le idee distorte dei brigatisti?"
"Ma che c'entra, io mica ero un operaio".
"Ah già".
"Sei tu l'operaio, ricordatelo!"
"Sì capo".
"Bravo".
"C'è altro capo?"
"Ah, e poi nelle moschee si dovrebbe parlare in italiano".
"Eh?"
"Cioè, a seconda dei Paesi in cui uno è: sei in Francia? Francese! Sei in Italia? Italiano".
"Ma le preghiere sono in arabo".
"E non si possono tradurre?"
"No".
"E perché no? Chi lo dice che no?"
"Ma direi il Profeta".
"E chicazz'è sto profeta e profeta, tu sei in Italia adesso, hai capito? In Italia si parla italiano. Noi la Messa l'abbiamo pure tradotta".
"Dopo 1960 anni".
"Vabbe' ma che c'entra, è casa nostra, facciamo quello che ci pare".
"È anche casa mia".
"Eh?"
"Sono italiano, lavoro, pago le tasse, è anche casa mia. La mia religione è uguale alla tua davanti alla Costituzione".
"E dove sta scritto".
"Nella Costituzione".
"E quindi insomma continuerai a pregare in arabo".
"Credo proprio di sì".
"Come i tuoi fratelli wahabiti".
"Non mi stanno molto simpatici".
"Ma non li denuncerai".
"Per cosa?"
"Perché fomentano l'odio razziale".
"Ma è una considerazione generale, non conosco nessuno che in pratica... oddio, uno forse sì".
"Ecco, vedi che uno lo conosci".
"Cioè è un brav'uomo, ma certe volte fa dei discorsi che ti fomentano, ti fomentano proprio".
"Denuncialo".
"Ma è un mio amico".
"Lo stai difendendo?"
"Non credo che istigherà mai nessun terrorista, anche se".
"Anche se?"
"In effetti i suoi discorsi hanno un certo effetto, circonolano tra migliaia di persone, cioè come si può escludere a priori che tra i suoi seguaci non ci sia qualcuno disposto a..."
"Ecco, lo vedi? La connivenza! La zona grigia!"
"Però è un mio amico".
"Un amico che sbaglia".
"Già".
"Ma che amico sei per lui, se lo lasci libero di spargere odio?"
"Non so, devo pensarci".
"Pensaci, pensaci bene. Dove ho messo le chiavi?"
"Le ho io, ti porto a casa".

Caro fratello musulmano di Gramellini - lo sappiamo che esisti - esci allo scoperto. La tolleranza è una gran cosa, ma è chiaro che tu hai tollerato troppo.

(Le parti in corsivo Gram le ha scritte davvero).
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Siamo tutti figli di Cuarón

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I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuarón, 2007).

L'umanità è diventata sterile, l'Inghilterra è invecchiata e isolata. I più giovani - hanno sedici anni ormai - si radicalizzano, mettono bombe a casaccio, non si sa nemmeno cosa vogliano. I vecchi se la prendono coi migranti, nessuno ricorda più il perché. Succederà tra vent'anni - no, aspetta, nove sono già passati.


È vero che ci sono film più recenti in sala, ma se al Castello di Roddi sabato 9 luglio fanno I figli degli uomini, forse vale la pena di ridare un'occhiata per scoprire quanto poco sia invecchiato un film che dieci anni anni fa sembrava già una cosa notevole, se non proprio un capolavoro. Quel che è successo nel frattempo è che non solo le tematiche del film non hanno smesso un attimo di restare attuali - anzi, i rifugiati nei recinti e i campi profughi militarizzati somigliano sempre di più a una profezia - ma che lo stile sfoggiato da Cuarón nell'occasione è diventato tipico del migliore film d'azione. Nel 2007 esistevano già i found footage; Von Trier e Gus Van Sant ci avevano già assuefatto alla nausea da handicam; e però i piani sequenza insistiti (e truccati); la scenografia un po' Bagdad un po' videogioco sparatutto, sono cose che sono diventate moneta corrente dopo i Figli degli uomini, se non grazie ai Figli degli uomini (continua su +eventi!).



Non voglio dire che non avremmo avuto film acclamati il Figlio di Saul, o l'ultimo Mad Max, ma forse li avremmo apprezzati meno se nel 2007 Cuarón non ci avesse iniziato a un nuovo modo di girare l'azione, visionario e più immediato: anche questo film è in sostanza un solo lungo inseguimento; anche Cuarón è deciso a narrare soprattutto attraverso le immagini, riducendo al minimo gli spiegoni. Vedi l'intermezzo dell'"Arca delle Arti", un progetto che viene semplicemente menzionato e mostrato, senza che nessun personaggio o voce narrante si preoccupi di spiegarci cos'è: ce lo devono dire le immagini, e il maiale rosa sulla fabbrica e il David di Michelangelo con una gamba rotta, e ci riescono egregiamente. Del romanzo di P. D. James restano solo le suggestioni: la trama è stravolta anche da un punto di vista politico, senza troppe preoccupazioni per la logica (un'Inghilterra condannata a invecchiare sarebbe costretta a importare i lavoratori stranieri più che a scacciarli, e in effetti la James nel romanzo prevedeva dei campi di lavoro coatto). Cuarón la taglia a fette molto meno sottili: sceglie come nuova Eva (che all'inizio avrebbe dovuto essere Julianne Moore) una ragazzina d'origine africana con un pessimo gusto per i nomi: trova i sobborghi meno caratteristici di Londra e chiede ai suoi scenografi di messicanizzarli. Per lui il confine tra primo e terzo mondo ormai è un fronte mobile. Gli preme mostrarci un'Inghilterra senile e xenofoba, e dieci anni dopo è difficile dar torto alla sua intuizione.

In generale rivedere su un grande schermo I figli degli uomini potrebbe rivelarsi un'esperienza straniante per chi ha la sensazione che tutto stia precipitando all'improvviso: è un film che appartiene assolutamente al decennio scorso, all'era pre-crisi dei bond, ai tempi in cui il nemico numero uno era Bin Laden - la scena della bomba a Londra fu girata poche settimane dopo l'attentato suicida del 2005 - e ci mostra come tutti gli incubi che crediamo avere avuto negli ultimi anni ce li stiamo portando avanti ormai da più di dieci. Non è che i cinema siano già chiusi, ma non mi pare che questa settimana ci sia in giro qualcosa di più interessante e attuale dei Figli degli uomini. . Al Castello di Roddi dopo le 21, sabato 9 luglio.
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Vittorio Feltri e la caccia al bengalese

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Qualche volta mi è capitato, negli ultimi anni, di assegnare temi sui migranti e di ricevere in cambio temi sui vuccumprà da spiaggia. Una cosa che mi rigetta sempre nel 1984, quando sulla sabbia di Pinarella cercavo di usare il sedere di mio fratello per costruire una pista da biglie e incontravo per la prima volta questi Alieni, questi stranieri, e li incontravo sotto forma di Vuccumprà. Ora invece è il 2016, a scuola abbiamo ragazzi con tutti i cognomi possibili, tutti i colori, tutte le religioni, eppure se chiedo al bimbo biondo medio: disegnami un Migrante! Lui mi abbozza un Vuccumprà. Alcuni secondo me sono convinti che sbarchino direttamente a Pinarella con le catenine e i braccialetti. Poi naturalmente crescono.

Spero. Voglio dire che la fobia per il Vuccumprà, l'Uomo Nero che viene a turbare i tuoi giochi da spiaggia, è una cosa che forse l'italiano medio si porta nell'inconscio. Ho la sensazione che se si potesse smontare la xenofobia di molti adulti, aprire il baule delle paure, scopriremmo da qualche parte un fantoccio di stracci ed ebano dall'espressione astuta e ineffabile, un genio del deserto, un demone meridiano. Questo naturalmente non scusa il nostro razzismo. In particolare non scusa la banda di "giovanissimi" che, secondo il Corriere Adriatico, avrebbe pestato ieri due ambulanti bengalesi sul lungomare di Porto d'Ascoli. Prima dell'aggressione qualcuno avrebbe chiesto ai due "se conoscevano il Vangelo".

I giovanissimi non leggono i giornali, e quindi sarebbe molto difficile indicare come loro mandante morale Vittorio Feltri. Pure, non è una coincidenza così bizzarra che ieri Libero, il quotidiano di Feltri, puntasse il dito contro la Quinta Colonna della Jihad in Italia, che a quanto pare sarebbero proprio loro, i diabolici venditori di rose.

I COMPLICI DEI TAGLIAGOLE
Con le bancarelle i bengalesi finanziano la jihad
di Andrea Morigi.

"Inoffensivi ma insistenti, ti offrono le rose rosse, l'asticella per scattarsi i selfie o gli ombrellini pieghevoli quando piove, ai semafori e all'uscita deri ristoranti. In alternativa, piazzano sui marciapiedi aeroplanini, bamboline a batteria e orologi oppure fanno decollare qualche aggeggio luminoso a molla. Sono i 100mila venditori ambulanti bengalesi, discreti e silenziosi quanto basta a raccogliere circa 100 milioni di euro l'anno dal commercio abusivo".

Come abbiano fatto a Libero a calcolare 100 milioni di euro non si sa, Andrea Morigi non si premura di spiegarcelo. Azzardo: forse ha preso il numero, già abbastanza vago, di 100mila venditori ambulanti, e l'ha moltiplicato per mille. Perché alla fine vuoi che in un anno un ambulante non riesca a metter da parte almeno mille euro? Certo, una volta detratto il vitto e l'alloggio, e pagato il fornitore degli ombrellini e dei selfie-stick, e soprattutto non dimentichiamo la cresta alla camorra - la cosa è talmente evidente che anche Morigi non riesce a negarla: il racket degli ambulanti non è mica in mano all'Isis, è in mano alla camorra. Però una volta pagati i fornitori, il padrone di casa, il camorrista, vuoi che l'Isis non si prenda la sua briciolina? "Chi acquista incautamente da loro sulle spiagge o per le vie cittadine magari neanche ci pensa, ma ha altissime probabilità di finanziare e importare la guerra santa islamica". A botte di rose e ombrellini.

Il pezzo va avanti per altre tre colonne e non contiene, spoiler, nessuna prova che con le bancarelle i bengalesi finanzino la jihad. Nel frattempo altri organi di informazione ci hanno spiegato che gli stragisti di Dacca provenivano da famiglie benestanti (un dettaglio tutt'altro che nuovo a chi studia il jihadismo contemporaneo), e che quindi insomma questa storia di colpire il venditore ambulante da 1000€ per colpire il terrorista islamico non ha molto senso. D'altro canto.

D'altro canto mettetevi in Vittorio Feltri.

Lui vende emozioni, non informazioni. Se lo facesse, gli sarebbe bastato raccattare un'agenzia Ansa che ci ragguaglia sul volume di affari tra Bangladesh e Italia, intorno ai 498 milioni.

In particolare con Dacca erano in forte crescita gli scambi lombardi: +13,4% l'import e +6,7% l'export nel periodo gennaio-marzo. I dati sono stati presentati oggi dalla Camera di commercio di Monza e Brianza. La Lombardia trainava il Paese con il 17% degli scambi nazionali. Nello studio, la Camera di Commercio rileva che il Bangladesh, considerato tra i primi Paesi più rischiosi, aveva incrementato i suoi rapporti commerciali con l'Italia fino a posizionarsi tra i primi Paesi al mondo in termini di scambi. Nei primi 3 mesi del 2016, scambi per 498 milioni.

Praticamente mezzo miliardo di euro - altro che due rose e un selfie-stick. E da qui quante domande: facciamo bene a commerciare con un Paese così "rischioso"? Forse no: molti di questi scambi sono il risultato della delocalizzazione, che ha fatto chiudere tante fabbrichette in Italia e ha creato tra le altre cose l'humus adatto a leghisti, xenofobi e lettori di Libero. E però nel frattempo abbiamo aiutato il Bangladesh, l'ottavo Paese al mondo per popolazione, ad avviare uno sviluppo e uscire dalla povertà, quindi forse abbiamo fatto bene... e però tra i problemi dei Paesi che escono dalla povertà ultimamente c'è appunto il jihadismo dei figli di buone famiglie, quelle che magari dalla nostra delocalizzazione ci hanno guadagnato. Mentre il poveraccio che vende le rose nei ristoranti, dopo l'attentato di Dacca, se la vede mediamente grigia e forse questa settimana non uscirà e non venderà nulla: la Jihad non è un grande affare per lui. Insomma, è complicato. E Vittorio Feltri non vende complicazioni.

Vende emozioni facili: rabbia, paura. E soluzioni pratiche: vuoi fare qualcosa contro la Jihad? Non comprare più rose dai bengalesi. Io non l'ho mai fatto, toh, temevo di passare per uno stronzo senza compassione e invece sono un cittadino modello, in prima linea nella lotta contro la Jihad (e contro la camorra). Feltri non ha idea di chi precisamente finanzi la Jihad in Bangladesh o altrove. Non gli interessa nemmeno, non è il suo core business. Lui lavora nell'ombra del nostro subconscio, manovra i fantocci che ci hanno fatto prendere paura sulla spiaggia, un mezzogiorno di trent'anni fa.
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Non volete che votino gli imbecilli? Non votate.

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Potrà essere capitato anche a voi di intercettare, nel rumore di fondo di questi giorni, un'ondata montante di rancore verso il suffragio universale e il suo difetto strutturale - la clausola per cui il voto di un imbecille conta quanto quello di una persona istruita, onesta, rispettabile, insomma quel tipo di persona che è convinta di non essere imbecille mentre fa questo ragionamento.

Per quanto posso, vorrei rassicurare i più giovani: non è veramente niente di nuovo sotto il sole, il problema della demagogia era già ben avvertito dai Greci classici. I sofisti avevano notato l'incostanza delle folle prima che diventassero masse; Tucidide ci ha scritto qualche versioncina che almeno agli studenti del classico dovrebbe risultare familiare. Qualche tempo più tardi Montesquieu affrontò il problema della corruzione del principio della democrazia con parole che si potrebbero benissimo usare oggi per distruggere il concetto di democrazia diretta alla Beppe Grillo, ma forse varrebbe la pena scrivere tutto questo con le maiuscole: LEGGI COME QUESTO ILLUMINISTA DISTRUGGE BEPPE GRILLO! Nel frattempo in Inghilterra, con tutti i limiti del caso, stavano trovando anche una soluzione al problema, magari imperfetta ma non priva di una sua rude bellezza: la democrazia parlamentare, coi suoi meccanismi di delega, e la conseguente professionalizzazione della politica. E non siamo ancora alla rivoluzione francese. Per dire di quanto siamo ignoranti e autoreferenziali, mentre crediamo di aver inquadrato il problema del giorno, anzi del mese o del secolo: gli ignoranti votano! Sì, a cominciare da noi. Oddio, nessuno ci obbliga.

Però adesso c'è qualcosa di nuovo, dicono. L'insofferenza per i politici di professione, la "casta", l'"establishment". Ancora: la novità sta negli occhi di chi guarda, e di chi magari non ha mai dato un'occhiata ad altri momenti, altri Paesi: Giannini ce l'aveva coi partiti, Poujade ce l'aveva coi partiti, Mussolini ce l'aveva coi partiti. Hanno tutti avuto un po' di successo, chi per un quarto d'ora chi per vent'anni.

E internet? Perché qualcuno suggerisce che sia colpa di internet, che ha abolito i diaframmi - ora possiamo rispondere direttamente al politico sul suo blog, naturale che ci venga spontaneo immaginare di governare al suo posto, da casa, con un clic. Sì. A dire il vero la maggior parte della gente che frequento non usa internet per governare o anche solo fingere di farlo. Lo sport più diffuso nell'ambiente è guardare gli imbecilli. Abbiamo sempre saputo che esistevano, ma da un po' di tempo in qua non facciamo che ammirarli, linkarli, screenshottarli, e poi ammiccare coi compari: pensate che anche questi hanno il diritto di voto! Che roba, che vergogna. Dieci anni fa c'era il Grande Fratello, adesso la bacheca di FB. Non è neanche elitismo ormai, è una specie di bullismo benigno che affligge gente insospettabile. Molto spesso, lo si capisce, è gente che dai bulli le prendeva. Ora li guarda coprirsi di ridicolo sui social e ne gode, fortuna che tra i tasti c'è "Like" e non c'è "leva il diritto di voto a questo imbecille", probabilmente Zuck ci sta lavorando.

Ricapitolando: la demagogia è antica come la democrazia e l'ha già spesso stroncata sul nascere o in seguito; l'imbecillità è una costante della storia dell'uomo, ma prima di internet avevamo meno finestre per osservarla e forse era meglio così, l'imbecillità è ipnotica. La novità - perché secondo me una novità c'è - sta nella crisi. Non quella occasionale o ciclica, ma quella strutturale che sta affliggendo l'Occidente, e che ha tante concause e spiegazioni, ma io resto affezionato alla più banale di tutte: la Cina e l'India hanno tre miliardi di bocche da sfamare e ormai sono Paesi sviluppati. Serviranno ancora generazioni prima che il costo della vita in quei Paesi si alzi ai livelli dell'Occidente - a meno che l'Occidente non si inabissi, e forse questa sarà la soluzione. Nel frattempo la popolazione mondiale continua a crescere e a spostare l'equilibrio, e poi c'è il riscaldamento globale, insomma sarà molto complicato. Di fronte a questo scenario, diversi demagoghi occidentali hanno reagito in modi diversi ma non così dissimili: Trump vuole l'America "great again" e propone di risolvere costruendo un muro col Messico, come se non ci fosse già. Gli inglesi vogliono uscire dall'UE, così come gli scozzesi un anno fa erano tentati di uscire dal Regno Unito. In confronto da noi Bossi era lungimirante: chiedeva i dazi con la Cina quindici anni fa. Almeno aveva le idee chiare: invece i grillini non sanno bene cosa propongono (uscire dall'Euro?), ma sanno perché: bisogna dar fiato all'impresa italiana, crolli il mondo.

Quello che unisce Trump ai fautori del Leave e ai leghisti o ai grillini non è la polemica anti-establishment, che in fondo usano tutti, è come il giro di do a Sanremo (anche Renzi lo ha intonato). Se per un attimo smettiamo di considerarli imbecilli e ascoltiamo quel che vogliono in concreto, scopriremo che è molto chiaro e perfettamente comprensibile, vista la gravità della situazione. Vogliono alzare uno steccato che li protegga dalla competizione del Resto del Mondo. Vogliono un'America di nuovo Grande, una Britannia ancora impero, una Padania di nuovo rigogliosa di fabbrichette che si rimettano a macinare fatturati come se in Cina non sapessero ormai fare tutto quello che sappiamo fare noi a un quinto del prezzo. Siamo ovviamente liberi di considerarlo un rigurgito fascista, una nostalgia di anziani che non ha più senso cercare di convincere, o il riflesso istintivo del bambino che si rintana in un angolo mentre la casa crolla. Ma non è imbecillità. Non c'è nulla di stupido nel rintanarsi in un angolo mentre la casa crolla.
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Muhammad Ali non è andato in Vietnam perché analfabeta, dice Riotta che se ne intende (di analfabeti)

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Se per caso vi stavate chiedendo: è possibile scrivere un brutto pezzo su Muhammad Ali? Un combattente incredibile, un attore nato, uno che sembra non aver mai lasciato un microfono senza aver detto qualcosa di buffo o interessante? Uno che ha perso un titolo mondiale a tavolino per una questione di principio, uno che il suo pezzo di secolo se l'è vissuto da protagonista? Se per caso vi stavate chiedendo: può un giornalista italiano sbagliare persino un coccodrillo su Muhammad Ali?, ebbene, sono ovviamente domande retoriche. Ecco il buon Gianni Riotta.


Il Clay patriottico lascia il posto, sei anni dopo, all’Ali obiettore di coscienza contro la guerra in Vietnam (era stato esentato per aver fallito i test attitudinali, l’esercito gli assegnava un Quoziente Intelligenza di soli 73 punti, sapeva a stento leggere e scrivere e ammise di non avere mai finito un libro, neppure quelli che firmava o il Corano «ne ho solo imparato brani a memoria»).
Persuaso che l’abbiano incastrato per punirlo della conversione all’Islam, Ali detta ai giornalisti «Non ho nulla contro quei Vietcong là», viene incriminato e squalificato, finché la Corte Suprema non riconosce la sua obiezione di coscienza e lo riabilita.

Ora: secondo voi Riotta lo sa che gli obiettori di coscienza e i riformati sono due categorie diverse? Che se davvero fosse stato "esentato per aver fallito i test", Muhammad Ali non avrebbe avuto bisogno di obiettare, farsi arrestare, farsi condannare, perdere la licenza di pugile, perdere il titolo mondiale, appellarsi alla Corte Suprema? E non c'è nessuno alla Stampa che lo sappia, che possa avvertirlo, correggerlo, e magari già che c'è spostare quelle due o tre virgole, cambiare quei due o tre verbi che non si comportano in italiano come Riotta pretenderebbe (punire qualcuno di qualcosa?)

Di tutti gli aneddoti citati da Riotta, quello dei test falliti e dell'IQ basso è di gran lunga il meno noto: in un pezzo di mille parole, cinquanta servono a ricordare che Ali non era una cima. In effetti no, non ci teneva nemmeno troppo a sembrarlo (tra le sue frasi celebri: "Ho detto che sono il migliore, non che sono il più intelligente". In sociologia il fenomeno per cui le persone tendono a definirsi "migliori" ma non "più intelligenti" è chiamato Muhammad Ali Effect). Però cercare di desumere la sua intelligenza dal test della visita di leva è abbastanza ingeneroso - forse Riotta ignora quante risposte sballate davano i suoi coetanei al test dei Tre Giorni. Ali, di cui tanti hanno lodato l'intelligenza tattica sul ring e fuori, potrebbe anche aver tentato nel 1964 di falsare i test di scrittura e spelling per non andare in guerra e continuare a pugilare. Perché magari davvero non era una cima: ma nemmeno così scemo da preferire il Vietnam al titolo mondiale dei pesi massimi.

Quello che Riotta non dice, o forse non ha capito (o è stato tagliato in fase di pubblicazione), è che nel 1965 l'esercito abbassò gli standard minimi, e Muhammed Ali ridivenne arruolabile: a quel punto si rifiutò pubblicamente di obbedire agli ordini e diventò quello che tuttora chiamiamo obiettore di coscienza - il più famoso del mondo. Un esempio straordinario non solo per gli afroamericani, non solo per gli statunitensi. Se un uomo che si guadagnava da vivere pestando a sangue Sonny Liston si rifiutava di andare in guerra, l'obiezione non era più un atto di viltà. Diventava l'esatto opposto: una prova di coraggio. Va bene. Invece secondo Riotta non c'è andato perché ha fallito i test, scriveva a stento, firmava libri che non sapeva leggere e si arrangiava imparando un po' di versetti a memoria. Le cose non stanno esattamente così, ma si capisce quanto fascino deve avere questo Ali dislessico e disgrafico per Gianni Riotta: o non è vero che nei monumenti dei grandi uomini ognuno cerca di intravedere il proprio riflesso? Non sarà una coincidenza che tra le mille cose che poteva dire di Ali, gli sia venuto in mente che aveva difficoltà di scrittura, e firmava libri lo stesso?

"Ali fu The Greatest davvero, eroe imperfetto della virtù più rara nei nostri giorni del rancore: crescere, maturare, sbagliare, correggersi, cambiar idea, restando se stessi nel cuore". Sì, prof Riotta, appunto: crescere, maturare, sbagliare, ma anche correggersi. Correggersi. O al limite farsi correggere da qualcuno; ci sarà bene qualcuno nei pressi che può dare una mano. Continuo a trovare incredibile che non ci sia.
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Il principe della musica vinile

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Lo so che è troppo significativo per essere vero, ma ricordo precisamente quando fui messo al corrente dell'esistenza dell'entità musicale chiamata Prince: fu nell'aula musicale della mia scuola media, perché alla parete c'era un cartellone di quelli di terza. Uno di quelli che sono il risultato del compromesso al ribasso tra un prof di educazione musicale e una classe vivace, composti completamente di titoli e foto di riviste musicali, da Ciao 2001 a Sorrisi e Canzoni; in particolare ricordo benissimo un titolo: È "PRINCE" IL NUOVO RE DEL VINILE. Me lo ricordo perché già in prima media mi sembrava curioso che un tizio chiamato Prince fosse acclamato re, e soprattutto perché io non avevo ancora un'idea precisissima di cosa fosse il vinile. Ancora per qualche anno continuai a pensare che poteva trattarsi di un genere musicale, come il twist o il rap.

Le foto, se ricordo bene, erano repertorio del periodo di Purple Rain, moto e chitarroni. E basta, probabilmente in giro avevo già sentito qualche pezzo di Prince ma non potevo saperlo. Però quell'estate su videomusic ruotò ossessivamente Paisley Park, un pezzo di cui non mi sono più liberato, con un video che faceva venire il mal di testa. Devo aver pensato che era quella, la musica vinile, e che andava contro molte delle mie abitudini, ma tutto sommato non mi dispiaceva. Non pensiate che oggi i ragazzini imparino le cose più facilmente. A monte di tutti i vostri ricordi, di tutte le nozioni che vi fanno sentire individui con una storia personale, c'è un magico momento che avete dimenticato, la soglia tra il Non conoscere e il Venire a conoscenza, tra il Non-averne-mai-sentito-parlare e l'Ah-ecco-cos'era. È quell'onda molto particolare che cavalchi nella scuola media. Se dici: prima guerra mondiale, per qualcuno che risponde già: uff, lo sappiamo, Sarajevo e il Piave, ce ne sono due che chiedono: quante guerre mondiali ci sono state? Tu glielo dici, e loro se lo scordano. Oppure gli resta in mente, ecco: quello è un momento magico. Sono importanti i cartelloni, anche quelli fatti male che non riescono a inquadrare un concetto (peraltro Prince chi mai lo è riuscito a inquadrare). Sono importanti i fraintendimenti, le cose assurde di cui ci convinciamo e che si scioglieranno al sole dell'esperienza - e poi chissà se a metà degli anni Ottanta qualche critico musicale ubriaco non l'avesse pure codificato, il genere vinile. Una musica di plastica, appiccicosa, bianca come il Vinavil, o nera come un 33giri, con riflessi oleosi, iridescenti, in effetti Prince non poteva che essere il re del vinile. Poi quando andavo in terza uscì Parade e venne giù il mondo. Non devi essere bella per farmi andare su di giri. Nessuno lo aveva mai scritto, ma in terza media era una grandissima verità.

Ci voleva poco per ritrovarsi dalla parte di Prince - bastava odiare Michael Jackson, ai tempi ci si divideva in squadre per qualsiasi cazzata, e poi ci si picchiava davvero, nessun compromesso, nessun sincretismo. Questo non significava naturalmente capirci qualcosa, tanto più Prince, che sembrava cambiare genere musicale a ogni pezzo nuovo. Una cosa che credevo di aver capito è che dei due duellanti, Prince era quello Brutto: il santo protettore di noi brutti. Per dire che enormi fette di prosciutto avevo davanti, cioè, ora che lo rivedo in foto la cosa non mi torna assolutamente, cioè Prince non era affatto Brutto - ai tempi era prestante addirittura.

Si potrebbe dire che oltre a un deficit culturale (per cui non riuscivo a capire che in pezzi pur diversissimi come Kiss o When Doves Cry, erano pur sempre evoluzioni di un universo musicale a me sconosciuto) soffrivo di un deficit estetico. Ma non era un problema solo mio. Ancora sul crepuscolo degli anni '80, in un albo di Dylan Dog, Groucho per allontanare un mostro dalla casa appende alla porta un ritratto di Prince, l'entità pop più disgustosa che poteva venire in mente a uno sceneggiatore di fumetti italiano che, bisogna dirlo, non era Tiziano Sclavi. Per dire quanta strada avesse fatto, l'idea che Prince fosse un mostro. Se era l'89, in effetti, che album c'era nelle vetrine dei negozi? Lovesexy?

Potrebbe persino essere il mio disco di Prince preferito, ma non sarei mai riuscito a comprarlo, nel modo fisico e sociale in cui si compravano allora le cose. Sì che non ero un'educanda, e nello stesso periodo ricordo di non essermi fatto scrupolo a sfoggiare in stazione autocorriere album assai più morbosi, ad esempio un giorno un ragazzo che conoscevo mi chiese conto del fatto che avevo in mano The Madcap Laughs, con una ragazza nuda che potrebbe benissimo essere minorenne. Ma Lovesexy? Avrei potuto entrare al Discoclub, sollevare una copia di Lovesexy, mostrarla all'esercente, pagarla, uscire dal negozio e rientrare nella società con quella cosa? Non credo, no, la copertina di Lovesexy era troppo in là per me. L'androginia di Prince era molto più impegnativa di tutte le androginie che avevo recepito fino a quel momento (cioè, credo, David Bowie e poco più). Era un'androginia passiva. Bowie sembrava un viveur a cui non dispiaceva anche andare con gli uomini, ok, fin lì potevo arrivarci. Ma Prince dalla vetrina del Disco Club mi diceva: tu, anche tu potresti desiderarmi. E la reazione mia di adolescente credo sia stata: no, sei brutto. Sei un uomo. Peloso. E nero, quasi dimenticavo: nero. Ma era nero davvero? Era un uomo? Era brutto?

(Quando alzo la voce con qualcuno, mi chiedo se è il rumore dei cigni che piangono. Quando incontro una persona e le cose non vanno bene, penso: meet me in another world, space and joy. Se qualcuno mi chiedesse qual è il senso del nostro essere nel tempo, gli direi: sbrigatevi prima che sia tardi. Innamoratevi, sposatevi, fate un bambino, chiamatelo Nate (se è un maschio). Quando è lunedì mattina - c'è bisogno di ricordare che canzone uno ha in mente il lunedì mattina?)

Prince era sempre un po' più in là. Era nero, ma anche bianco; chitarrista, ma anche ballerino; era maschio, ma incideva canzoni da femmina accelerando la voce. Il falsetto a metà anni Ottanta era un relitto polveroso, i Bee Gees si erano nascosti in una crepaccio, Jimmy Sommerville era precipitato da brava meteora, anche Sting era sceso di un'ottava per cautelarsi. Nel bel mezzo di questa fase di latenza, Prince canta Kiss, e sul finale sembra volersi strappare i caratteri sessuali coi denti. E quella canzone l'ho sentita cantare negli spogliatoi da personaggi che conoscevano solo le parole di Kiss e Bella Bionda Beato Chi Ti Sfonda. Prince prendeva la nostra provinciale omofobia di adolescenti italiani, le dava un passaggio su una Corvette rossa e la faceva sparire in un parcheggio sotterraneo.

Poi per carità, non voglio far finta di aver capito Prince, non è vero. Non ho neanche fatto i compiti, certi dischi non ho avuto il coraggio di comprarli quand'era il momento, e adesso su internet è difficile. Certe cose col tempo le ho capite, ad es. le giacche con le spalline militari ho scoperto che se le mettevano tutti, sembra banale ma per me Prince - oltre al re del vinile - era quello che si vestiva come il commodoro di staminchia e non ne capivo il motivo. Ho scoperto, nell'ordine: i Beatles, Jimi Hendrix, Sly Stone, Joni Mitchell, quel tizio che cantava Superfreak, e buon ultimo ho scoperto anche Michael Jackson, un grandissimo musicista e performer che infatti adorava Prince e credo anche viceversa. Tanti pezzi li ho messi assieme e anche Paisley Park non mi fa venire più quel mal di testa dei bei tempi in cui non capivo niente. Però onestamente non posso dire di aver capito Prince. Interi dischi continuano a suonarmi misteriosi, e dopo Lovesexy c'è il buio. Tante cose che al tempo non capivo, e non me ne preoccupavo, mi dicevo che sarebbe venuto il momento - no, il momento non è venuto mai. La pioggia di porpora, per esempio, che cos'è. Cosa vuol dire che mi vuoi soltanto vedere nella pioggia di porpora. Ecco, credevo che a un certo punto mi sarebbe venuto naturale. Magari quando comincerò a far sesso, pensavo - perché un giorno comincerò, capirò. E invece no.

Tanto che a volte mi domando se ho mai cominciato davvero.
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El negher di Sicilia

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San Benedetto il moro, francescano nero lombardo di Sicilia (1526-1589)

Brut negher, torna all'infer'n. Immaginatevi la scena: una squadra di braccianti ha circondato un pastore, un ragazzino che porta due buoi al pascolo. Lo prendono in giro perché è scuro di pelle. Molto scuro. Figlio di schiavi dell'Africa nera, forse etiopi. Lui li guarda preoccupato ma cerca di tenere basso lo sguardo, non vuole grane. Se gli ammazzano i buoi è rovinato. E forse è a quello che puntano. Una parola sbagliata, uno sguardo di traverso, e un coltello si fa presto a tirar fuori...

Il ritratto (anonimo) più credibile.
Per fortuna arriva il frate. Non è neanche un frate vero e proprio, è Girolamo Lanza, un giovane di San Frau che si è messo in testa di fare il francescano per i fatti suoi; ha donato la sua eredità e si è trovato un eremo poco lontano, a Santa Domenica. E insomma arriva fra Girolamo e domanda: che succede, perché tormentate questo ragazzo? Vi ho visto, sapete. Lui non vi ha fatto niente. È un tipo a posto, secondo me ne sentirete parlare. I braccianti si ritirano di buon ordine: fra Girolamo sarà anche un mezzo matto, ma il suo cognome in paese pesa ancora abbastanza. L'eremita resta solo col pastore. Magari gli chiede: "Ma di chi sono questi buoi?"

"Della mia famiglia".

"Ma tuo padre non è Cristoforo, che ha preso il cognome di Manasseri dal padrone che lo ha liberato? Quando mai hanno avuto animali i vecchi schiavi dei Manasseri?"

"Li ho comprati io".

"Due buoi? Con che soldi?"

"Avevo dei risparmi".

"E che volevano quei braccianti? Che ti dicevano?"

"Non ascoltavo".

Nella mia testa ovviamente non potevano che dargli del negher-de-merda. Perché a Benedetto non era capitato di nascere soltanto in Sicilia, dove la sua carnagione era già abbastanza eccezionale da creare, lo vedremo, forme di psicosi di massa; ma tra tutti i castelli e i villaggi di Sicilia, una serie di circostanze non chiarite avevano portato il padrone del padre a liberarlo a San Fratello, ridente cittadina della provincia messinese di lingua longobarda. Esatto, a San Frau (cattiva traduzione del latino Sanctus Filadelphus) gli abitanti parlavano un dialetto lumbàrd, come a Nicosia, a Sperlinga, a Piazza Armerina, ad Aidone (EN): e a differenza di Acquedolci, di Montalbano Elicona, e di Novara di Sicilia (ME), lo parlano ancora. Non si sa neanche esattamente quando abbiano iniziato - l'ipotesi è che queste zone siano state ripopolate dopo l'invasione normanna (1090), trapiantando in zona contadini e allevatori che provenivano da qualche anfratto non ben localizzato della valpadana occidentale, una zona tra Asti, Cuneo e Savona. Oggi insomma non li chiameremmo nemmeno lumbard: ma erano longobardi, o addirittura franzosi, per i siciliani del tempo, che non riuscivano a capire una parola. In mille anni poi la lingua è cambiata, a volte accettando a volte combattendo le parlate circostanti (trovate qualche esempio di sanfratellese nei romanzi di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell'ignoto marinaio Lunaria: oppure qua potete trovate qualche poesia in gallo-italico siciliano, e verificare come quello di San Fratello sembri il meno siculo di tutti). Per dire non credo proprio che oggi si dica "negher" in sanfratellese: oggi no, ma nel Cinquecento magari sì.

"Senti, perché non ti disfai di questi buoi?"

"Ma sono miei".

"Rivendili. Potrai donare il ricavato ai poveri".

"I miei sono poveri".

"A maggior ragione".

"E poi che faccio?"

"Vieni con me".

"A fare il frate?"

"Molto meglio che fare il pastore. E poi cos'hai da perdere?"

"Due buoi!"

"Non ci crederà mai nessuno che sono tuoi".

"E perché non dovrebbero..."

"Perché sei un negher!"

(Lo sguardo di traverso che Benedetto era riuscito a risparmiarsi in mezzo ai braccianti, ora fra Girolamo se lo prende in pieno).

"Ti ho offeso? Scusa ma insomma, si vede da lontano. E un pastore negro qua non s'è mai visto. Ma se vieni con me, io posso farti diventare..."

"Un frate negro?"

"Un santo".

"Un santo negro?"

"E quelli vanno forte".

"I santi negri?"

"Fidati di me. Vendi quei buoi".

sao_beneditoAnche ad Aidone si parlava lombardo. Il santo patrono è Filippo apostolo: però la statua di Aidone è nera d'ebano "Ha occhi neri e acuti che fanno paura: e quando viene messo in movimento per il giro della città, desta un senso di sbalordimento e di raccapriccio". Il colore scuro testimonierebbe il transito del santo dal mondo dei morti. Altrove si venera un altro San Filippo, siriaco, molto efficace contro i demoni, talvolta definito "schiavo negro". Popolarissimo in tutta la Sicilia (e in particolare ad Agrigento) è San Calogero, sempre raffigurato nerissimo benché greco di Costantinopoli, al punto che in età moderna qualcuno ipotizzò un errore di traduzione: da Chalkhidonos (di Calcedonia, città sull'altra riva di Costantinopoli), a Karchidonos, cartaginese. Ma anche a Cartagine non nascono scuri così... poi ci sono le madonne nere, tipiche dell'iconografia bizantina e molto diffuse in Sicilia già prima dell'arrivo degli arabi. E poi a un certo punto arrivano i neri veri: Benedetto non è il solo. A Noto c'è il Beato Antonio l'Etiope, detto anche Catagerò d'Avola, eremita e guaritore, poi inquadrato nei francescani, e morto verso il 1550 (ma altri etiopi, tutti chiamati Antonio, risultano a Caltagirone e a Camerano. Notiamo en passant che "etiope" poteva semplicemente significare "nero ma cristiano": il modo più semplice di rendere credibile questa curiosa compresenza di tratti somatici non europei e fede cristiana era evocare il mitico Paese cristiano al di là delle terre islamiche). Lo stesso Antonio di Lisbona, che in Valpadana tutti chiamano Antonio da Padova e raffigurano con l'incarnato roseo di un bambino, era secondo alcuni testimoni piuttosto scuro di pelle. Insomma, essere neri in Europa non è mai stato facile, ma in certe carriere poteva rivelarsi un bizzarro vantaggio (continua sul Post, come ai vecchi tempi!)
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Anche oggi tutti teologi

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10 gennaio - San Gregorio di Nissa (335-395), teologo patentato

(Questo pezzo si legge tutto intero qui).

"Anche oggi c'è gente che, come quei famosi ateniesi, non trova di meglio da fare che discutere di argomenti inediti od originali. Braccia rubate al mercato o al cantiere che si improvvisano maestri di teologia: avanzi di schiavitù da prendere a mazzate, che d'un tratto ci filosofeggiano con solennità di cose incomprensibili.

Lo sapete di chi stiamo parlando: la città ne è piena. Le strade, i crocicchi, i fori, i parchi... venditori di tappeti, cambiavalute, friggitori ambulanti. Tu chiedi di scambiare una moneta, ti rispondono disquisendo sulla natura del Generato e dell'Ingenerato; vuoi sapere quanto costa una pagnotta, “Il Padre è il maggiore”, ti dicono, “e il figlio gli è soggetto”: domandi se ai bagni l'acqua è calda, e ti informano che il Figlio ha origine dal nulla...

padri cappadoci
Padri cappadoci. Nissa dovrebbe essere quello con la barba lunga e nera, ma è davvero facile confonderli.


Certe citazioni ormai galleggiano nel vuoto, non siamo nemmeno sicuri del libro da cui sarebbero ritagliate. Hanno maturato significati diversi da quelli previsti in partenza; diventano meme, parole di un linguaggio nuovo, incomprensibile ai non iniziati. Tra i miei amici di facebook non è infrequente rimproverarsi di parlare di astrofisica. Citiamo ovviamente la battuta di un regista frustrato, protagonista di un film di Nanni Moretti - no, non l'ultimo - neanche il terzultimo - forse il terzo? Lamentandosi della mania che hanno tutti di parlare di cinema senza mai aver studiato l'argomento, gridava: parlo di astrofisica io?

Molti anni prima dell'invenzione del cinema, e della stessa astrofisica, il problema era già avvertito dagli intellettuali. Non potendo citare Moretti, ripiegavano su San Gregorio vescovo di Nissa, che nel IV secolo scrisse in mezzo a un migliaio di pagine fitte di patristica l'esilarante bozzetto che ho tradotto sopra un po' liberamente. È un brano famoso in senso molto relativo: ci ho messo anni a rintracciarlo. Poi mi sono reso conto che lo cercavo nel volume di patristica sbagliato, perché tutti questi professori che si lamentano dell'incompetenza popolare... sbagliano quasi sempre a segnalare la fonte della citazione, attribuendola a un amico di famiglia di Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo. Anche lui vescovo in Cappadocia e padre della Chiesa, per cui non è così difficile confondersi.

È un errore illustre, condiviso dallo stesso Hegel; lui del resto non aveva perso tempo a sfogliare i padri cappadoci, ma si era fidato di Gibbon che nel suo best seller Declino e caduta dell'Impero Romano aveva a sua volta citato il Gregorio sbagliato, mutuando l'errore da un teologo dei suoi tempi, tale John Jortin che nelle note del suo volume aveva fatto confusione tra i due Gregori ed era morto prima di correggere le bozze. Che storia affascinante. Morale: non si è mai abbastanza competenti.

Va bene, ma di che stava parlando Gregorio esattamente? In quel frammento dell'orazione Sulla divinità del Figlio e dello Spirito Santo, 46esimo volume della Patrologia greca, il vescovo di Nissa si distrae per un attimo dal problema trinitario, e si volta a dare un'occhiata a quel che succede nella grande città: Costantinopoli. Quando mi imbattei per la prima volta nei due Gregori, a metà anni Novanta, in società si parlava più che altro di calcio e politica. Tutti ne erano esperti, tutti ritenevano di avere pareri interessanti, giuro, non è una frenesia nata con facebook: Zuckerberg ci ha fornito soltanto un impietosissimo specchio. A volte mi mancava l'aria e così frequentavo lezioni strane, ad esempio Storia del Cristianesimo Antico.

Scoprivo che secoli prima, gli abitanti di una lontana metropoli, dovendo pur trovare qualcosa su cui litigare in attesa dell'invenzione del calcio, si scannavano intorno alla teologia. Il dibattito sulla Trinità, e sulla generazione del Figlio, era uscito dai capitoli e dai sinodi e circolava sulle bocche di tutti, pizzaioli e rigattieri. Venivano alle mani spesso, e a volte ci scappava il morto. L'altro Gregorio - non quello di Nissa - fu quasi linciato nella sua stessa cappella privata, perché era stato ordinato vescovo niceno di Costantinopoli, in un periodo in cui in città andavano per la maggiore gli ariani. Questi ultimi credevano che il Padre avesse creato il Figlio in un secondo momento; i niceni invece credevano in un Figlio generato, non creato, della stessa sostanza del Padre. I niceni avevano già vinto un Concilio nel 325, e col tempo avrebbero prevalso, massacrato gli ariani e distrutto i loro libri. Ma in quel periodo erano un po' in crisi: gli imperatori, dopo averli favoriti, se ne erano stancati e a volte sponsorizzavano apertamente gli avversari. Il bello di studiare queste cose, quando sei giovane, è che ti chiedono la stessa sospensione dell'incredulità di una saga fantasy - pensateci, si accapigliavano per stabilire se il Figlio fosse stato "creato" o "generato" dal padre. Un dibattito che oggi non interessa più nemmeno i cristiani. Già. Oggi parliamo d'altro. Ma, ecco, di che parliamo? (continua sul Post)
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Possiamo convivere con gente così?

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(Forse li avete già visti: alcuni youtuber olandesi vanno in giro a citare versetti del Corano ai passanti; dopo averli scandalizzati, scoprono la copertina e rivelano che si tratta di una Bibbia. È divertente, ma non così originale.

Quando 11 anni fa Vittorio Feltri pubblicò il Corano in dispense su Libero - vi giuro, 11 anni fa Vittorio Feltri pubblicò il Corano in dispense su Libero - io scrissi questa recensione per Macchianera, che al tempo era uno dei blog più letti in Italia. Ci cascarono in parecchi - incredibilmente, un sacco di commenti sono ancora on line. È passato tanto tempo e siamo ancora convinti di parlare di qualcosa di attuale, di interessante).

Possiamo convivere con chi crede nel Corano? No

24 novembre 2004.

Ogni giorno è buono per imparare qualcosa, e io temo di avere imparato qualcosa da Vittorio Feltri. Sì, proprio lui, l'esegeta del Corano.
L'avevo preso sottogamba, sapete. Credevo che valesse la pena di comprarlo per dedicargli uno sfottò, una di quelle cose che piace a noi frustrati di sinistra. Ebbene.
La tesi di Feltri è scontata: il Corano è inconciliabile con l'Occidente. Si tratta di un pregiudizio? Magari. No, Feltri si è documentato, ha studiato il Corano, ed è giunto a conclusioni che sono inoppugnabili. Cioè, io ho anche provato, a oppugnarle. Ma quando uno ha ragione ha ragione, e stavolta devo dare ragione a Vittorio Feltri. Il Corano è inconciliabile coi principi della nostra Costituzione. Chi crede in quel libro non dovrebbe rimanere a lungo sul suolo italiano. Mi dispiace, ma è così. Giudicate voi:

Le donne? Per Maometto sono inferiori
di Vittorio Feltri

Il Corano che cosa pensa delle donne? C'è un versetto molto chiaro. Sura II [detto della "vacca"], 228: «Ma gli uomini sono un gradino più in alto». Usa proprio questa formula il Libro Sacro: i maschi sono superiori. Non è una frase suscettibile di interpretazioni.
[. . .]
Questa inferiorità è strutturale, ed essa è la chiave di volta su cui è costruita la società. Insomma, la donna non è vittima di qualche incidente di percorso, per cui basta un ritocco qua e là delle leggi o della mentalità. No, è minorata per volontà divina, ed anzi la vita comune si regge su questo principio. Il resto discende come conseguenza: nessun ruolo direttivo, nessuna possibilità di organizzare per sé un minimo di vita individuale. La schiavitù è sancita e benedetta. Non sono teorie religiose, ma sono diventate immediatamente leggi politiche dove l'Islam è al potere, e pratiche familiari dove sono (per ora) in minoranza. Non illudiamoci: gli ayatollah imporranno a tutti questa visione del mondo appena potranno, perché per essi non c'è distinzione tra sfera spirituale e politica, tra morale cranica e legge dello Stato. Si pone un'altra questione seria. Le comunità musulmane presenti in tra noi possono trattare così le donne in barba alle nostre norme e consuetudini?


La risposta sarebbe scontata (no), ma lo sapete, io sono il solito malfidato, mica potevo fidarmi del primo versetto che mi citavano.
Così sono andato a prendermi la mia copia del Corano, ché sapevo bene di averne una da qualche parte su una mensola alta (il Libro va sempre posato in alto). E ho iniziato a sfogliare. Ero convinto che avrei trovato subito qualche versetto che ribaltava la faccenda. Beh.
Mi sono dovuto ricredere. Più andavo avanti, più era peggio. Ragazzi, c'è poco da essere politically correct. Quel libro è veramente misogino. Tutte le volte che compare la parola "donna", da qualche parte lì intorno c'è anche la parola "sottomessa". Non ci credete?

Si parte dalla Sura "della Genesi" (3,16): è Allah che dice alla prima donna:
"Verso tuo marito sarà il tuo istinto,
ma egli ti dominerà".


Tanto per mettere subito le cose in chiaro. Ma cos'ha fatto, la donna, di male? Lo spiega a chiare parole la Sura "del Siracide" (25,24):

Dalla donna ha avuto inizio il peccato,
per causa sua tutti moriamo.


Per cui il minimo che possa fare è restare sottomessa. E infatti: Se non cammina al cenno della tua mano, toglila dalla tua presenza (Siracide 25,26)

E poi ci lamentiamo se le loro donne rimangono segregate in casa? Finché continueranno a credere in un Libro che ragiona così…

Motivo di sdegno, di rimprovero e di grande disprezzo
è una donna che mantiene il proprio uomo
(Siracide 25,21)

…non c'è da aspettarsi che escano a cercarsi un lavoro. Né che partecipino a qualsiasi tipo di attività sociale. Perfino nella preghiera sono emarginate:

Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea. (Sura "dei Corinti I", 14,34-35)

Nella stessa Sura si motiva anche l'uso femminile del velo (e del burqa, eventualmente):

L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli. [… ] Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo. Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine […] (Sura "dei Corinti I", 3,7-16)

Notate la grazia della chiusa finale: se qualcuno vuole contestare… noi non abbiamo questa consuetudine. Tante grazie. Noi sì, però. Come la mettiamo?
E ancora:

Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie […] (Sura "degli Efesini" 5,22-23;

Ugualmente voi, mogli, state sottomesse ai vostri mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati considerando la vostra condotta casta e rispettosa. (Sura "di Pietro I", 3,1)

Per finire con questa botta:

"Di più! Dobbiamo cagarci addosso di più, perdio!"
La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia. (Sura "di Timoteo I", 2,11-15)

Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo… e poi pretendiamo che abbiano rispetto per le nostre insegnanti? No, mi dispiace, io credo di essere una persona di aperte vedute e tollerante, ma ci sono dei limiti.

E che nessuno venga a dirmi che questi versetti vanno interpretati, inseriti nel loro contesto, mediati… interpretare cosa? Mediare cosa? È tutto chiaro qui, tutto nero su bianco: dalla donna ha avuto inizio il peccato, la donna stia sottomessa all'uomo, punto. E questo credo che non dovremmo tollerarlo. Mi dispiace, ma su questo sono più feltriano di Feltri: chi crede in questo Libro non ha il diritto di rimanere nel nostro Paese, dove vige una Costituzione che prevede per uomo e donna pari diritti.
Perciò, cari amici musulmani, aria.

[Continua domani]
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Islam non è la risposta

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20 novembre - San Dasio († 303), martire.

A San Dasio, un martire qualsiasi, caduto ovviamente ai tempi di Diocleziano presso Durostorum (oggi sarebbe Bulgaria), un monaco che s'annoiava associò una leggenda curiosa. Dasio non aveva ancora fatto il suo coming out di cristiano, quando fu acclamato dai suoi concittadini re dei Saturnali, il carnevale di quei tempi: al termine del quale il re sarebbe stato scannato dai suoi sudditi in festa. Era un'usanza che magari il monaco si inventò lì per lì per conferire ai legionari pagani i costumi più turpi possibili: finché James Frazer non la trovò e in un qualche modo decise che si trattava dell'unica testimonianza rimasta di un antichissimo rito comune a tutta l'antichità greca e romana, in fondo perché no? Se l'ha detto Frazer.

Solo a quel punto Dasio, vedendosi comunque condannato a morte, decise di rivelarsi per un cristiano: e così, invece che sacrificato a Crono, morì da martire. La storia sembra escogitata apposta per provocare una discussione: benché sia morto esattamente sotto le stesse armi di tanti altri colleghi di martirio, Dasio potrebbe sembrarci un po' meno eroico: mentre ad altri fu offerto di rinnegare il loro Dio, e rifiutarono, Dasio sapeva che sarebbe morto in ogni caso. L'unica scelta a sua disposizione era cambiare il senso della sua morte. Voi dite che io muoio per X, e invece io muoio per Y. Per noi, che non crediamo più né in X né in Y, la cosa sembra quasi irrilevante. Ma la stessa cosa penseranno i posteri di noi.

Un giorno scrolleranno un papiro, un microfilm, un'immagine a mezz'aria, e leggeranno dei dibattiti che facevamo nel novembre del 2015 sugli stragisti di Parigi: se fossero morti perché (x) islamici o perché (y) vittime della mancata integrazione, del degrado delle banlieues (z), del pasticcio geopolitico medio-orientale (w), della carestia che col riscaldamento globale cominciava a bussare a un bordo del Mediterraneo (v): e tutti questi concetti per loro saranno ugualmente astratti. I fatti di cronaca in sé, invece, li afferreranno benissimo: c'era una fazione che voleva seminare il terrore sparando a obiettivi precisi ma anche a casaccio; questo è comprensibile, è successo altre volte e probabilmente non smetterà mai di succedere, per cui possiamo essere ragionevolmente sicuri che finché ci saranno individui della nostra specie, la violenza terroristica non sarà loro aliena: ma avranno parole diverse per spiegarla, parole che a loro sembreranno molto più semplici. Scrolleranno la testa, invece, di fronte alle nostre astruse spiegazioni, alle nostre razionalizzazioni così poco razionali.

Quando per esempio parliamo di Islam, e ci domandiamo se possa avere o meno a che fare col terrorismo. È una domanda seria? Voglio dire, sono musulmani integralisti, brandiscono il Corano, ci definiscono infedeli e crociati, e muoiono come martiri: così a occhio direi che l'Islam un po' c'entra. È curioso anche solo il fatto che ci poniamo il problema. Perché abbiamo difficoltà ad ammettere che la religione sia un fattore determinante, se non scatenante, di un fenomeno terroristico? Probabilmente perché abbiamo paura di offendere quei musulmani che non sono integralisti, né fanatici, né terroristi (è la stragrande maggioranza) e che anzi, sono il primo obiettivo degli integralisti, dei fanatici, dei terroristi. I cosiddetti "islamici moderati". Bene.

Ma è una paura che si spalma sull'ipocrisia. Se davvero fossero "moderati", non dovrebbero offendersi, tanto è evidente il fattore religioso in un terrorismo di dichiarata matrice islamica. Allora forse siamo noi per primi a non crederci molto, a questa cosa dei "moderati". Abbiamo paura di urtare la loro suscettibilità - e se poi si radicalizzano? Se smettono di essere "moderati"? (Noto qui per inciso che in italiano il termine esiste solo per gli islamici: non ho mai sentito parlare di cristiani o di ebrei "moderati" - al massimo di cristiani integralisti, o ebrei ultraortodossi. L'islam è l'unico grande monoteismo che sentiamo di dover "moderare").

Il vero motivo per cui almeno io percepisco una certa difficoltà a individuare l'Islam come un agente patogeno del terrorismo, è molto più terra-terra: non voglio darla vinta alla Fallaci. E a tutti quelli che la citano, ovviamente, ormai senza neanche leggerla più (resterebbero sorpresi nello scoprire, per esempio, che era scettica sugli effetti della Guerra al Terrore di Bush; e del disprezzo con cui liquidava la Lega e il suo leader di allora). Per un sacco di gente, dall'11 settembre di 14 anni fa, "Islam" è diventata la risposta più comoda, e in molti casi l'unica. Perché ci vogliono ammazzare? Perché sono islamici. Ma non sarà che provengono da Paesi disastrati dalle fallimentari strategie geopolitche delle superpotenze? Naaah, è solo che sono islamici. Sicuri che non c'entri per niente il modo in cui abbiamo corrotto la loro classe dirigente, mettendo un Paese contro l'altro e vendendo armi un po' a tutti, senza riflettere su che fiori tossici sarebbero nati dalle macerie? No, no, guarda, è molto più semplice: loro leggono un solo libro e su quel libro c'è scritto che ci devono ammazzare. E la fragilità del benessere di Paesi basati sull'esportazione di idrocarburi, praticamente privi di una classe media che possa creare le premesse per una democratizzazione e laicizzazione della soc... Uff, perché la fai tanto lunga? Islam. E la questione israelo-palestinese, questa ferita aperta che non si ricuce mai? Anche lì, è semplicissimo: i palestinesi sono islamici, gli islamici sono antisemiti, quindi... E il malessere delle banlieues? Dovevano stare a casa loro. Ma le migrazioni sono inevitabili, cioè guarda qualsiasi proiezione demografica, è chiaro che un sacco di gente arriverà in Europa da sud in cerca di cibo e lavoro, parliamo di milioni di persone, mica li puoi tenere fuori... non essere buonista, loro vengono perché sono islamici e sul loro libro c'è scritto che ci devono conquistare. Ecc. ecc.


Nota per il postero: non sto riassumendo dei discorsi da bar. Ovvero, è chiaro che se ne sentono anche al bar, di discorsi così: ma sono gli stessi che fanno autorevoli leader di partito, intellettuali, opinionisti anche loro "moderati": quelli del Corriere che si nascosero dietro le urla scomposte dell'anziana Fallaci (nessun editorialista maschio ebbe il coraggio di prendersi una fatwa in quell'eroico momento: tutti dietro la vecchietta). Quelli un po' bricconcelli, un po' situazionisti del Foglio; gli sciacalli del collasso del berlusconismo, Salvini e la Meloni. Per loro ormai "Islam" significa "ci odiano", il che rende i loro ragionamenti perfettamente circolari, se non puntiformi. Perché ci odiano? Perché sono islamici. Perché sono islamici? Perché ci odiano. Quel corto circuito tautologico che attirava l'attenzione di Roland Barthes. "Islam" per noi è ormai un mito, nel senso che lui dava al concetto; una parola svuotata del suo senso originario, delle storie complesse che rappresentava, e trasformata in un dato di natura. "Ci odiano", e non c'è bisogno di altra spiegazione. Ormai lo possiamo scrivere sulla cartina, proprio dove una volta scrivevamo "Hic sunt leones". Non c'è bisogno di indagare, studiare, capire. Ci odiano. Perché? Islam (continua sul Post...)

Allora il motivo per cui faccio fatica a unirmi al coro è proprio questo. So benissimo che l'Islam è un fattore importante, ma a questo punto non posso che chiedermi: cos'è l'Islam? E perché oggi è importante e 50 anni fa molto meno? Quali sono i processi storici, sociali, economici, che hanno reso possibile un'insorgenza religiosa in Paesi come l'Egitto, la Siria, l'Iraq, che nel dopoguerra sembravano regimi laici oscillanti tra un socialismo nazionale e un nazionalismo tout-court? Soprattutto: se 50 anni fa le parole d'ordine erano "rivoluzione proletaria" e "liberazione nazionale", e oggi sono "califfato" e "Jihad", non viene a nessuno il dubbio che siano solo etichette che si cambiano ogni tanto, quando la nuova generazione si stanca dei discorsi dei vecchi? In ogni caso, è chiaro che l'Islam c'entra, ma non è la spiegazione. È solo il nome che do a un problema complesso.

Succede un po' la stessa cosa con una parola molto diversa, "Euro". Abbiamo diverse ipotesi per le difficoltà economiche in cui versa il nostro continente; abbiamo dati oggettivi (l'enorme divario tra il nostro costo di vita e quello dei lavoratori di 3 miliardi di Paesi in via di sviluppo). Possiamo metterci a studiare con attenzione il problema e proporre soluzioni difficili e mai indolori, oppure possiamo attribuire tutte le colpe all'"Euro". Non avremo nemmeno del tutto sbagliato, perché per diversi cittadini europei l'Euro è davvero un problema (così come l'Islam è davvero una minaccia). Avremo semplicemente deciso di non risolvere un problema, di nominarlo soltanto. Siamo in crisi? Euro.

Suppongo che chi verrà dopo di noi sarà meno disposto ad accontentarsi: leggeranno "Euro", leggeranno "Islam" e si domanderanno: di cosa stavano parlando in realtà? Noi, quando leggiamo delle risse in strada tra nestoriani e monofisiti, abbiamo una certa difficoltà a convincerci che si trucidassero davvero per questioni teologiche che per noi sono lana caprina. Abbiamo sempre il sospetto che dietro ci fossero altre tensioni, sociali ed economiche. I posteri faranno lo stesso con noi. Quando alla pagina del 2015 leggeranno Islam, non crederanno nemmeno per un istante di trovarsi davanti allo stesso "Islam" del volume dedicato al millennio precedente, quello coi beduini e le scimitarre. Siamo in quello coi pozzi di petrolio e Internet, tutte le parole nel frattempo hanno cambiato numerosi significati e senz'altro è successo anche a "Islam". Leggeranno dei martiri suicidi e si domanderanno: per cosa morivano davvero? Per il paradiso di Maometto, che lo immaginava verde perché aveva in mente il colore delle oasi nel deserto? Per le 72 vergini? Questi sono i motivi che appiccichi al tuo martirio quando sai che ormai morirai in ogni caso, come San Dasio. Ai posteri forse interesseranno altre cose: l'economia? che tipo di welfare, che tipo di integrazione sociale permetteva a Hasna Aitboulahcen di nascere a Clichy la Garenne, studiare a Metz, dirigere una piccola azienda e poi farsi saltare in aria nel tentativo di ammazzare più poliziotti possibile? "Islam" non sarà una risposta soddisfacente molto a lungo: riempie la bocca, ti può far vincere qualche elezione, ma alla fine non spiega niente. E soprattutto non offre nessuna soluzione a lungo termine.

Tutto lì il problema, in fondo: cioè, anche ammesso che il problema sia "Islam", che si fa? Ogni volta che rivolgerai questa domanda al fallaciano di turno, lui butterà la palla in tribuna. Se davvero il problema è l'Islam, coerenza vorrebbe che rispondessimo con una Crociata; si sa come funziona, c'è vasta letteratura sull'argomento. Bisogna scannarne molti e provare a convertire gli altri: è molto costoso e... non funziona mai (ci abbiamo provato una dozzina di volte). E quindi? Dietro a tutta la Rabbia e tutto l'Orgoglio c'è una sorda sensazione di Impotenza.

Un altro motivo per cui ho qualche difficoltà a dire "Islam" è che quando affronto un problema, io cerco subito la soluzione. È un mio grosso difetto, perché la soluzione a volte richiede molto tempo e io quel tempo non lo voglio perdere. Per cui se mi chiedi come risolvere il problema del Terrorismo, io quasi quasi ti rispondo su due piedi. Dunque. Siccome tutti i terroristi europei dell'Isis fin qui acciuffati sono cresciuti in Europa, penso sia un problema europeo. Credo che rifletta il malessere sociale degli immigrati di seconda generazione, e che si debba prevenire spendendo parecchi soldi in più in welfare e integrazione. Hai visto come ho fatto presto?

E l'Islam? E l'Islam c'è, non posso mica far finta di non vederlo. È una religione complessa - come tante altre religioni. È un'ideologia che può portare alla violenza, come quasi tutte le ideologie; più di altre, meno di altre, difficile stilare una classifica. Ammetterlo non deve costarmi fatica, ma non mi offre nemmeno una soluzione pratica. Sappiamo che le conversioni forzate non funzionano; che creare martiri è controproducente. Se vogliamo secolarizzare l'Islam, forse dobbiamo studiare il modo in cui si è secolarizzata dal XVI secolo in poi la società europea. Non è stato un processo lineare, ed è morta un sacco di gente. Oggi tutto succede molto più in fretta e gli europei sono molti, molti di più, ma non deve necessariamente essere una catastrofe. A occhio credo che servirà molto laicismo: lo direi persino se fossi un cattolico devoto; nel momento in cui il cristianesimo non è più maggioritario, solo un'autorità statale laica mi può garantire la libertà di culto. Viceversa gli atei che si fanno devoti mi sembra che stiano semplicemente perdendo la testa. È puro panico, quello che esprimeva l'anziana giornalista atea quando si rimetteva a rimpiangere i bei campanili dell'infanzia. Non è identità, è un approccio vintage, perdente, come quello dei neopagani che nel quarto secolo reagivano al cristianesimo cercando di rianimare gli esausti dei del pantheon greco-romano. Se volete che l'Islam del futuro sia diverso dall'Islam di adesso, dovete accettare che anche il cristianesimo del futuro sarà diverso. Sarà tutto diverso, e magari in un modo che non ci piacerà, ma dopotutto non dovremo conviverci a lungo.

A un certo punto ce ne dovremo andare. Alcuni avranno la possibilità di dichiarare perché se ne vanno: di morire in nome di Cristo, di Allah, della laicità, dell'Europa più o meno ariana, della pace. Ma poi verrà gente che avrà problemi a distinguere Allah, Cristo, la laicità, non troverà i confini dell'Europa né il gene dell'arianità. Per loro saranno solo valori astratti, X, Y, Z. Chissà cosa ne penseranno. Magari anche niente.
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Il bambino ben vestito e ben nutrito

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Venerdì è stato il giorno in cui abbiamo preso atto che c'è una guerra in Siria e un'emergenza umanitaria intorno al Mediterraneo. Non è che non lo sapessimo già: non è che la nostra parte razionale non avesse già recepito l'informazione - ma evidentemente non ci bastava. Per rivedere le nostre priorità, per smettere di discutere di crisi delle borse o riapertura delle scuole e del campionato ci serviva qualcosa di più: un campanello, una sveglia, un grido d'aiuto. Qualcosa che forasse l'attenzione. Immagini agghiaccianti ne avevamo già viste parecchie: la foto del bambino siriano ha qualcosa di più. Ciò che ha di veramente spaventoso - e che non si nota se non dopo qualche istante - è la sua familiarità. 'Potrebbe essere uno dei vostri figli', qualcuno ha creduto di dover aggiungere. Non ce n'era veramente bisogno.

Ognuno poi reagisce in modo diverso e devo dire che non vado orgoglioso del modo in cui reagisco io. Tra mettersi a piangere e imprecare contro le guerre e i recinti e chi li ha voluti, e alzare il sopracciglio alla mister Spock c'è tutta una gamma di sfumature che ancora mi sfuggono. Faccio persino fatica a contenere la stizza della mia parte razionale: cioè sul serio la foto di un bambino sulla spiaggia può smuovere popoli e governi che 71 morti asfissiati in un tir avevano lasciato insensibili? Fa così tanta differenza l'età? E che altro conta? L'abbigliamento, il colore della pelle, l'estrazione sociale (il direttore della Stampa si è premurato di definirne lo status "borghese"), la spiaggia sullo sfondo, l'impaginazione? Sono contento che siate in grado di provare emozioni, ma non vi viene il dubbio di provarle un po' a comando?

Mentre mi faccio queste domande, ecco irrompere sulla mia bacheca il commento di un rappresentante dell'UKIP - il partito formato, giova ricordarlo, da ex conservatori britannici fuoriusciti dai vecchi tories perché non abbastanza euroscettici.



"Il bambino siriano era ben vestito e ben nutrito. È morto perché i suoi genitori erano avidi del benessere europeo. Saltare la coda ha i suoi costi".

Questo tweet - quasi subito ritrattato - è nel suo genere un capolavoro. Siamo ben lontani dal provincialismo frustrato e rancoroso di un Salvini. Per distillare un cinismo così distaccato servono secoli di privilegi. Il primo elemento che salta agli occhi è appunto il cinismo. Da cinis, cane. Si contrappone a "umanità". Molti lo considerano una specie di barriera naturale da infrangere con la potenza delle immagini commoventi: io temo che sia una reazione istintiva che molti di noi sviluppano proprio per difendersi da questo tipo di aggressioni.

Ora basta! dissuadiamoli dall'annegare!
Me ne accorgo soprattutto quando vedo i ragazzini a scuola. Di fronte allo spettacolo della violenza umana - di fronte a film o immagini di repertorio agghiaccianti - hanno poche opzioni a disposizione. O piangono, arrendendosi alla pressione sociale di chi ha deciso di proiettare quel film, quel documentario (commuoviti stronzetto! se non piangi per questo, di che pianger suoli?)- o assumono una smorfia tutta speciale, una versione embrionale di quella che poi indosseranno per tutta la vita di fronte a ogni disastro che non li tocca personalmente. Diventano cinici. Magari da grandi leggeranno il Quotidiano Nazionale, che ha la stessa foto del bambino morto del Manifesto, ma è corredata da un editoriale che spiega che ci vogliono più barriere dissuasive. O se studiano un po' di più ci terranno a sfoggiare il Foglio, troppo snob per mostrare la foto, ma anch'esso pronto a fornire la didascalia, sempre la stessa da 15 anni: attacchiamo il medio oriente, esportiamo la democrazia, magari stavolta funzionerà. Il cinismo di questi organi di stampa è proporzionale all'umanità degli altri, al punto che mi domando se non sia la reazione che corrisponde all'azione. Più ci irradiate di foto che fanno piangere, più ci cresce la pancia là dove credevate che avessimo il cuore.

Certo, non riusciremo mai a dire le cose con l'esattezza, con la classe del signor Bucklitsch. Nota anche la sua attenzione al dettaglio, dovuta certamente al fatto di non aver gli occhi intorbidati da inutili lacrime: il bambino veste all'europea. In realtà non ci sono tutti questi argomenti per considerarlo "well clothed" - probabilmente per Bucklitsch l'umanità si divide in persone ben vestite e selvaggi a malapena coperti da stracci.

Però l'annotazione vale più di mille lamentazioni, non solo perché ci ricorda un aspetto importante e controintuitivo dei fenomeni migratori (non coinvolgono solo la fascia più povera, ma spesso la classe media), ma perché arriva al punto: quel bambino ci commuove più di 71 profughi asfissiati, o più degli annegati che in una foto ben più agghiacciante di qualche settimana fa punteggiavano un enorme rettangolo di mare, perché assomiglia ai nostri bambini. Alla fine, se scegli di parlare alla parte emotiva, devi sempre usare i soliti trucchetti, tra cui lo specchio riflesso rimane il migliore. Tutto questo sta succedendo a te. Se non a te, a una copia di te stesso. I bambini, pensa ai tuoi bambini. Sono esattamente le stesse corde che toccano i populisti, e molti di loro le toccano in buona fede proprio come il professore che per farti venire a schifo il nazismo ti mostra Schindler's list.

Io lo proietto volentieri Schindler's list. Lo trovo un gran film: ho la speranza che possa produrre più umanità che cinismo. Ma non ne sono sempre sicuro. Se una foto è davvero riuscita a modificare l'accordo di Dublino, ne sono contento. Ma continuo a domandarmi se l'approccio emotivo non sia più parte del problema che della soluzione. Questa strategia di far finta di niente finché qualcuno non trova la foto giusta, il minimo che posso dire è che mi lascia perplesso.
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Nessuno si ricorda dei Catari

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Com'è noto (ma per quanto noto, resta incredibile) i nazisti non avevano pianificato soltanto il genocidio degli ebrei, dei rom, dei sinti, ma anche il loro oblio. Non solo calcolavano di sterminare diversi milioni di individui, ma pensavano di poterli in qualche modo nasconderli sotto il tappeto - in un qualche modo se ne vergognavano. Se avessero vinto, i loro pronipoti oggi leggerebbero sui libri di Storia che gli ebrei in Europa si sono estinti nel medioevo? Una storia del genere sarebbe credibile?

Un altro laureando, stavolta in Storia medievale, di lontane origini valdesi. Nella storia della crociata anti-catara c'è tutta una serie di cose che non gli tornano. La cronologia suona posticcia, ha l'aria di essere ricostruita molto a posteriori. L'improvvisa scomparsa della lingua d'Oc nel XIII secolo lo lascia perplesso: tutti i suoi insegnanti l'hanno appresa dai libri e la trovano normalissima, lui no. Aggiungi il ricordo di certe storie strane che gli raccontava la bisnonna. Quando accennava all'infanzia francese, i parenti le davano della matta e cominciavano a cambiare discorso. Parlava con un accento tutto suo.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone).

A furia di aggirarsi per la Linguadoca facendo domande indiscrete, il laureando viene notato da qualcuno. Comincia a ricevere lettere anonime in buon occitano, che gli suggeriscono di frugare in questo o quell'archivio - niente di digitalizzato, tutta carta che sta per andare al macero. Gli indizi lo portano a concepire una ipotesi sconvolgente: i catari non sono stati massacrati nel Trecento, ma nel Novecento! Impossibile, eppure...

Prima di allora erano una minoranza importante non solo in Francia, ma in tutta Europa, negli USA e persino in Giappone - a proposito, il cristianesimo non sparì affatto dall'isola nel XVII secolo, come racconta la storia ufficiale: semplicemente diventò cataro. Nagasaki, fondata dai cristiani, era diventata la capitale catara dell'arcipelago: ecco perché fu bombardata col plutonio.

Lo sterminio dei catari in Francia è pianificato a partire dal 1935, quando le elezioni portano al potere i nazionalisti della Croix de Feu e dell'Action Française. Negli anni Venti i catari erano tornati a manifestare quelle tendenze autonomiste che periodicamente li portavano a tensioni col governo centrale (nella guerra dei Cent'anni i catari stavano con gli inglesi. La notte di San Bartolomeo fu un eccidio di catari. Enrico IV era cataro, prima di battezzarsi a Parigi. La Rochelle era una roccaforte catara, come Carcassonne. Molti giacobini erano catari: l'ordine di fare deserto in Vandea andava incontro ad alcune esigenze dei possidenti catari).

La crisi del '29 trasforma i catari nei capri espiatori perfetti: sono commercianti, artigiani altamente specializzati, industriali. Possiedono banche e assicurazioni, fanno parte di una comunità che ha basi in tutto il mondo civilizzato. La propaganda anti-catara era stata cavalcata dai movimenti di destra che approfittano dell'affare Stavisky per delegittimare i partiti al governo. Naturalmente tutto questo è stato cancellato dalla storia ufficiale. Anche la forma originale della citazione di Hitler: "Dopotutto, chi parla più oggi dello sterminio degli armeni in Turchia? E dei catari in Francia?"

Più va avanti nella sua ricostruzione, più il laureando crede di impazzire. Con un po' di sforzo può anche immaginare che un'intera nazione abbia eliminato il ricordo di due milioni di vittime. Ma i Paesi confinanti, nemici e alleati? Possibile che abbiano accettato tutto questo senza fiatare, addirittura collaborando? In effetti è abbastanza implausibile, ma se ne volete sapere di più, occorrerà votare per Nessuno si ricorda dei Catariche oggi se la gioca contro Gli assassini del basilisco. Potete cliccare sul tasto Mi Piace di Facebook, o linkare questo post su Twitter, o scrivere nei commenti che questo pezzo vi è piaciuto. Grazie per la collaborazione, e arrivederci al prossimo spunto.
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Va' in ferie Giannelli

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Oggi nei luoghi che bazzico io sono tutti scandalizzati per questa vignetta; io non ci riesco. Ci ho provato, eh, non è che voglia fare l'antisnob a tutti i costi. Credo che a emarginarmi dall'indignazione collettiva siano due argomenti.

1. È una vignetta un po' razzista che cavalca il più puro sentimento xenofobo che circola in Italia, non solo tra le piccole frange dei leghisti o dei fascisti che bruciano le case sfitte piuttosto di offrirle ai profughi. È la xenofobia benpensante dei lettori del Corriere - quelli che 14 anni fa correvano a fotocopiarsi le sbrodolate della Fallaci, quelli: lo scoprite stamattina che vivono con l'incubo di tornare dalle ferie e trovarsi neri e arabi in casa? Per scandalizzarsi serve un effetto sorpresa che non riesco a simulare. Trovo anzi utile che Giannelli faccia vignette xenofobe sul primo quotidiano italiano: penso che serva a tutti noi per capire che razza di gente siamo. Aggiungi che nei prossimi anni l'argomento "profughi" sarà uno di quelli che farà vincere o perdere le elezioni, se non una moneta di scambio che cercheremo di usare a Bruxelles per chiedere meno austerità (banalizzando: se vogliono tenere nell'UE un ponte in mezzo al mediterraneo, lo dovranno puntellare in qualche modo).

2. È una vignetta così crepuscolare che fa tenerezza. Giannelli sembra approdato allo stile che insegue da cinquant'anni, la Settimana Enigmistica. Per favore, escludete un attimo lo schermo piatto nell'angolo in basso, e guardate sull'altro lato la famiglia italiana - tipo secondo il Corriere. Pensate all'ultima volta che avete visto un padre di famiglia calvo che non si rasa sui lati. Il bambino con la maglietta a righe orizzontali. Il nonno scamiciato - rinasco, rinasco! nel Millenovecentosettanta. Non c'era lo spazio per un centrotavola e allora ha messo un vaso, le buone cose di pessimo gusto. Il profugo che prende parola potrebbe benissimo essere un manovale di Molfetta. È un mondo ideale che esiste solo nei sogni di chi lavora, stavo per dire in via Solferino, poi mi sono ricordato che non lavorano nemmeno più là. Non ci può essere violenza nell'immaginario crepuscolare, e infatti non c'è. I profughi di Giannelli avranno pure nasoni e labbroni, ma sembrano tutti abbastanza beneducati - tranne quello che la calura del tinello ha portato a spalmarsi sul pavimento, come fanno i bambini di tutti i colori al centro estivo, e a 37° li invidi soltanto. Bianchi e neri sono ugualmente stereotipati: i neri non sembrano sporchi o minacciosi e i bianchi non sembrano terrorizzati. Nella vignetta successiva si riesce a immaginarli tutti a tavola che mangiano un cuscus - ecco, Giannelli potrebbe salvarsi in corner pubblicando una cosa del genere, domattina.

Oppure potrebbe andare in ferie. Credo che ne abbia bisogno, un po' come tutti. E al ritorno, se trovasse l'ufficio già preso da un collega più giovane, ecco: anche in quel caso non riuscirei a scandalizzarmi più di tanto.
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Certi africani sono più morti di altri

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Quando 10 anni fa arrivarono i primi video di decapitazioni dall’Iraq, alcuni opinionisti iniziarono a invitarci a non distogliere lo sguardo, perché solo guardando quei video avremmo capito davvero cos'era il Terrorismo. Una singolare sintonia coi terroristi che quei video li giravano e diffondevano: curiosamente Al Zarqawi e Antonio Polito desideravano da noi la stessa reazione, più di pancia che di cervello. Perché alla fine in quelle decapitazione c’era poco da capire, e molto da soffrire.

Col tempo l’invito a non distogliere è diventato un genere a sé. Sabato Paolo Giordano ci invitava a “riguardare l’immagine della strage di Gaiassa sostituendo “alla pelle scura dei volti schiacciati una carnagione chiara”. Altrimenti rischieremmo di sentirci “solo timidamente partecipi”, come davanti alle foto dei massacri in Ruanda. Invece occorre empatizzare di più, perché le vittime sono cristiane (ma veramente anche in Ruanda...), perché “ci assomigliavano, perché cristiani e attratti dalla stessa cultura universale sulla quale si fonda ogni atto quotidiano. Il loro peccato imperdonabile era di essere come noi”.

E se invece non avessero voluto essere come noi, come le vittime musulmane dei cristiani che in Centrafrica hanno distrutto 417 moschee? O come gli abitanti musulmani di Gaiassa che furono massacrati da un governo ‘cristiano’ nel 1980? In quel caso, mi par di capire, sbiancare la pelle non servirebbe a niente: c'è nero e nero, non tutti meritano la nostra preziosa empatia.
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È lunga la strada per Selma

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Selma (Ava DuVernay, 2014)

Il tuo maestro e modello ti fa salire nella sua macchina. Mentre guida a velocità di crociera ti spiega che non ne può più; che non è sicuro di quello che sta facendo; che per colpa sua anche stavolta qualche brava persona si farà male o verrà uccisa; che malgrado questo anche stavolta probabilmente non cambierà niente; e che quindi forse bisognerebbe ripensare tutta la strategia; ma ci vorrebbe del tempo; e quel tempo lui non l'ha, è troppo stanco.


E ti chiede come la pensi. Te lo ricordi immenso, quando eri un ragazzino nella folla che stava ad ascoltarlo: adesso è lì in macchina con te, ti apre il suo cuore e ti mostra che è marcio. Cosa facciamo adesso? Ti avanza un po' della fede che distribuiva ai vecchi tempi? Selma è stato salutato come un "film necessario". Purtroppo i film necessari non sono necessariamente buoni film. D'altro canto prima o poi qualcuno doveva spezzare l'incantesimo per cui la figura più importante della comunità afroamericana, l'uomo per cui si chiudono scuole e uffici ogni terzo lunedì di gennaio, non era ancora stato celebrato nelle sale cinematografiche. Ancora negli anni Novanta era paradossalmente più facile realizzare film su personaggi controversi come Malcolm X o le Pantere nere, piuttosto che mettere a fuoco l'uomo-immagine del movimento per i diritti civili. Evitare il taglio agiografico era impossibile, e forse lo è ancora.

A quasi sessant'anni di distanza Martin Luther King, jr continua a essere un simbolo più che un uomo. Anche in sede storiografica non si nota una grande esigenza di sottoporre il mito a una revisione; il peggio che si osa dire su di lui è che gli piacevano più donne di quante un reverendo sposato avrebbe dovuto permettersi, ma il biografo che ha osato definirlo un "donnaiolo" si è poi pentito, è stato frainteso, ecc.. E siccome il pubblico non sembra pronto (né negli USA né altrove) per un leader sessualmente esuberante, anche stavolta non lo vedremo rialzarsi in mutande da un letto non suo. È vero che telefonava a tarda notte a donne sposate (l'FBI aveva accesso ai tabulati), ma solo perché aveva bisogno di sentire un gospel dal vivo. L'adulterio è ammesso, ma non esibito - d'altronde è così importante? In un certo senso sì, uno degli aspetti della grandezza di MLK è proprio il fatto che sopravvisse ai ricatti dell'FBI di Hoover che credeva di poterlo inchiodare alle sue scappatelle sessuali. Il reverendo impersonato da Daniel Oyelowo di fronte alla moglie non nega e non si difende: assume la sua smorfia contrita d'ordinanza e va avanti. Lo stato disastrato del suo matrimonio non è che una tra tante ragioni di frustrazione. È un MLK perennemente imbronciato, insicuro, disilluso, ed è probabilmente l'unico MLK umano che Ava DuVernay poteva permettersi di mettere su pellicola. Di un MLK più machiavellico, che di concerto con Lyndon Johnson manda freddamente bambini e anziane signore in prima linea contro i peggiori sceriffi dell'Alabama - e nel frattempo combina anche qualche festicciola in albergo - per ora nessuno sente l'esigenza.


È un film necessario, si diceva; una certa gravitas era indispensabile, ancorché un po' soporifera; più che al botteghino Oprah Winfrey, Brad Pitt e gli altri produttori guardavano alle scuole che lo proietteranno intensamente nella seconda settimana di gennaio. Ma è proprio qui che Selma delude, ed è un peccato... (continua su +eventi!) perché tutto sommato offre un buon ragguaglio sulle tecniche di non-violenza, e sui sacrifici che comportano (non a caso gran parte dei leader sono ministri di culto: del resto se il tuo metodo di lotta implica la possibilità di ritrovarti inerme davanti a poliziotti armati e fanatici razzisti, la fede in una trascendenza non è obbligatoria ma può aiutare). Il guaio è che Selma regge la prova ferro-da-stiro, ovvero è un film che si può tranquillamente guardare mentre si è in tutt’altro affaccendati, senza perdersi nessuno snodo fondamentale. Al massimo qualche primo piano di Oyelowo corrucciato, o di Carmen Ejogo corrucciata, o Tom Wilkinson perplesso (fa il presidente Johnson, e il film a quanto pare non gli rende onore) o Tim Roth governatore cattivo.

Il film ha il torto di dare per scontata l’attenzione del pubblico, dopo un paio di scene madri iniziali di fronte alle quali commuoversi è obbligatorio. Parlo da insegnante: un film del genere non lo proietterei in un’aula magna: se passa la prova ferro-da-stiro, passa anche la prova smartphone. Per parlare degli stessi argomenti ricorrerò a Mississippi Burning, che ormai ha trent’anni ma almeno offre una chiave per decifrare l’odio di quei razzisti che in Selma sono raffigurati più o meno come orchetti di Tolkien, senza storia né psicologia; oppure li fregherò con Alì, che col pretesto dell’epica sportiva racconta di Emmett Till e dei musulmani neri; e integrerò con qualche scena di Amistade da calcio nello stomaco – quel tipo di calci che i ragazzini sanno apprezzare. Niente di personale: ma se Selma mi ha un po’ annoiato, figuratevi i miei studenti.
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Come tenere i negretti al loro posto

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28 agosto 1955 - Emmett Till viene seviziato, ucciso, gettato come un rifiuto nelle acque limacciose del fiume Tallahatchie. I suoi assassini, subito arrestati, non saranno mai puniti.

A casa del pastore Wright arrivarono alle due del mattino, senza infilare cappucci bianchi o altre pagliacciate: che bisogno c'era di nascondersi? Erano armati e avevano le torce. C'erano Roy Bryant e il fratellastro JW Milam, e qualcun altro che lavorava con loro e forse era nero. Chiesero a Wright di vedere gli amici di famiglia, i tre ragazzi di Chicago venuti in villeggiatura. Chi dei tre era passato dalla bottega di Bryant quattro giorni prima, chi dei tre aveva rivolto la parola alla moglie di Roy? Fu Emmett a rispondere: sono stato io. Aveva quattordici anni, ma sembrava più grande. Gli dissero di vestirsi, che doveva venire con loro. Il pastore non protestò troppo, sapeva cosa stava rischiando. Solo la zia fece un po' di baccano. Senza vergogna offrì del denaro a Bryant e Milam. Finsero di non averla sentita. Infilarono il ragazzo nel pick-up e sparirono. Mose Wright attese venti minuti, poi prese la macchina e si diresse verso il centro del paese. È là che l'avrebbe ritrovato, se i due volevano soltanto dargli una lezione e poi lasciarlo libero. Ma Emmett non era pratico della zona e c'era comunque rischio che si perdesse.

Emmett fu picchiato con criterio, forse col calcio di una pistola. In un fienile, e poi di nuovo sul pick-up. In una baracca in mezzo a una piantagione, e sul pick-up di nuovo. Non riuscivano a lasciarlo andare. Ammesso che l'idea iniziale fosse davvero di risparmiarlo, il ragazzo non stava reagendo nel modo giusto.
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12 anni di solitudine

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12 anni schiavo (12 Years a Slave, Steve McQueen, 2013)

Tornò a casa, scrisse il libro,
fu invitato a molti reading,
forse aiutò diversi schiavi fuggitivi,
denunciò invano i suoi sequestratori,
e un giorno scomparve.
Nessuno sa dove.
Forse lo presero gli schiavisti.
Forse dopo dodici anni così
non riusciva più a stare in famiglia.
Chi lo sa.
Una sera hai bevuto troppo. Ti svegli in catene e scopri che non sei più un essere umano. Ora sei una massa di muscoli senza storia o diritto di parola, a cui è consentito solamente sopravvivere. Un lotto di carne evasa da rispedire in Georgia; la tua famiglia non saprà mai più nulla di te. Perché ci sono così pochi film sulla schiavitù? Wikipedia ne conta appena una trentina, inclusi titoli che hanno poco a che fare con gli schiavi d'America. La stessa fonte conta 180 film sulla Shoah, esclusi i documentari. Perché la schiavitù è nove volte meno cinematograficamente interessante? È semplicemente l'effetto di un senso di colpa ancora non rielaborato dal pubblico bianco americano? Forse c'è qualcosa di più, se anche l'afro-britannico Steve McQueen ha preferito affidarsi a una fonte eccezionale come l'autobiografia del "free negro" Solomon Northup. Nato libero nello Stato di New York, carpentiere e violinista, Northup nel 1841 è vittima di un sequestro di persona. La sua identità viene cancellata e sostituita con quella di uno schiavo fuggitivo. Northup (Chiwetel Ejiofor, che debuttò con Amistad e difficilmente sarà mai più tanto vicino all'Oscar) non è il solo ad avere perso la sua libertà in questo modo, ma è tra i pochissimi che riuscì a riconquistarla, dopo dodici anni, e l'unico che pubblicò la sua storia. C'è persino chi ha criticato McQueen per avere scelto un'angolazione tanto particolare: l'avventura di Northup è una traiettoria eccentrica rispetto alla storia del popolo afroamericano. I suoi compagni di schiavitù sono satelliti lontani con cui è entrato in contatto per un fatale errore, e che non potranno seguirlo verso la libertà. Ognuno - ce ne accorgiamo più volte nel film - ha un suo destino che non può essere diviso con altri.

E d'altro canto Northup ha il grosso pregio di assomigliare a noi, nati liberi, terrorizzati dalla sola idea di perdere il nostro status. Solo il suo punto di vista poteva fornirci quel biglietto per l'inferno (e ritorno) che McQueen voleva staccare. I film sulla schiavitù, forse, non si fanno perché è difficile riuscire a sintonizzare il pubblico sulla stessa onda delle vittime: con la Shoah è più facile? Ma anche nei migliori film sulla Shoah (Spielberg, Polanski), fate caso all'importanza di quei momenti in cui il cittadino medio-borghese scopre all'improvviso di aver perso il suo status di essere umano. McQueen aveva bisogno di qualcosa del genere: mostrarci un afroamericano educato, una bella casa, splendidi figli, una moglie intraprendente. La stragrande maggioranza dei neri nati schiavi non aveva nulla di tutto questo, ma noi non riusciremmo a empatizzare con gente nata e morta nelle baracche. Tarantino ha risolto lo stesso problema inventandosi un pistolero supercool, ma solo a Tarantino è concesso di risolvere in questo modo i problemi (continua su +eventi!)


Il punto è che se non esiste nel film un nero eccezionale, educato come Northup o esplosivo come Django, lo spettatore rischia di identificarsi più facilmente coi bianchi - dal momento che è molto spesso un bianco anche lui. Magari non vorrebbe, perché è uno spettatore civile e democratico, ma non è così difficile sentirsi addosso i panni dello schiavista buono e imbarazzato (Cumberbatch), o del carnefice frustrato (Fassbender). Quest'ultimo sembra proseguire il viaggio nella solitudine intrapreso nel precedente film di McQueen, Shame: il coito è ancora una volta un combattimento facile che ti lascia vincitore di un corpo inerte e sconosciuto. Non sorprende che McQueen abbia reso espliciti i rapporti tra lo schiavista e la schiava Patsey (Lupita Nyong'o), a cui il testo del 1853 alludeva soltanto. Più curiosa è la scena - molto intensa - in cui Patsey chiede a Northup di ucciderla per porre fine alle sue sofferenze. Neanche questa c'è nel testo originale, forse. Dico forse perché può darsi che lo sceneggiatore John Ridley abbia equivocato un passo del libro in cui era la moglie del padrone, gelosa, a chiedere a Northup di uccidere Patsey. Nel lapsus, tutta la nostra incapacità di capire l'alieno, lo schiavo: Patsey è esistita davvero, davvero fu frustata a sangue per aver cercato di procurarsi un sapone. Probabilmente era violentata con regolarità dal suo padrone e malmenata dalla padrona. Desiderava di morire? Non lo sappiamo, ma probabilmente è un desiderio che noi proveremmo al suo posto.

"Dunque, dovresti pronunciarla più o meno così..."
12 anni schiavo è un film che ti mostra cose orribili con una fotografia smagliante, dove tutti - negrieri, schiavi incolti, carpentieri - parlano un inglese stampato, di gusto ottocentesco, che il doppiaggio fatalmente tradisce. È un dettaglio iperrealista (sul set c'era anche un esperto di accenti del XIX secolo), che finisce col rivoltarsi nel suo contrario: non sembra vero che tutti parlassero così. Il libro è ovviamente scritto in un inglese del genere (fu riveduto e corretto da editori bianchi abolizionisti), ma gran parte dei dialoghi non sono riportati in forma diretta. Qualcuno storcerà il naso: quanto a me in questo caso ho preferito l'eloquenza al realismo. Non mi importa se i veri schiavi e i veri negrieri balbettavano: mi sembra giusto che McQueen e Ridley trovino le parole appropriate per ciascuno di loro. Il discorso che mi ha convinto di meno è l'unico che è fedelmente ripreso dal libro: quello di Brad Pitt, il ricco attore-produttore bianco senza il quale un film così difficile non sarebbe mai stato girato. Gliene siamo tutti grati, ma forse avrebbe potuto risparmiarsi il cattivo gusto di comparire sul finale nel ruolo dell'eroico salvatore. In un film dove Giamatti o Paul Dano si contentano di stare cinque minuti in scena e dar voce a odiosi negrieri, Brad doveva proprio riservarsi l'unico ruolo positivo?

Eppure il suo discorso ha una funzione fondamentale. A differenza di quel che può lasciare intendere la locandina, Northup non tenta mai la fuga. Un tentativo narrato nel libro viene rimosso nella sceneggiatura. L'unica strada verso la libertà ammessa nel film è quella interiore: Northup deve rimanere umano, ricordare la sua libertà, i tempi in cui sapeva leggere e scrivere: finché dopo dodici anni di solitudine finalmente il caso gli mette davanti un uomo che questa umanità la sa riconoscere. Quest'uomo è Brad Pitt, e il suo discorso dice, semplicemente, che tutti gli uomini sono stati creati uguali. Lo ha scritto Jefferson in cima alla Dichiarazione. Ma è d'accordo anche lo schiavista Fassbender, salvo ribadire che i negri non sono uomini. Chi ha criticato la mano leggera di McQueen nei confronti della religione (strumento di asservimento degli schiavi...) forse non ha fatto caso al fatto che anche il fondamento dell'uguaglianza, più volte difeso nel film da Northup e da altri, è religioso: senza nozioni di evoluzionismo o dna, l'unico garante di questa uguaglianza è quell'Ente supremo che Jefferson prudentemente aveva lasciato in controluce. Siamo tutti uguali perché Lui ci ha creato così: è davanti a lui che lo schiavista dovrà rispondere di aver frustato una povera ragazza. Forse non è lo stesso dio arcano evocato dagli schiavi negli spiritual, ma è ancora oggi un assioma che la società non discute, non se lo può permettere. Tutto il resto sono dispute nominalistiche, anche oggi, quando ci diciamo convinti che tutti i cittadini siano uguali - ma non tutti sono degli di essere chiamati nostri concittadini. Quelli che raccolgono i pomodori per pochi euro alla giornata quasi sicuramente non lo sono. Possiamo passare due ore al cinema a vedere un film di schiavi senza neanche sprecare un pensiero per loro.

12 anni schiavo è al Fiamma di Cuneo (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:45) e all'Aurora di Savigliano (21:15).
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Si scherza, maiale

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Suona il telefono, tu stai sicuramente facendo qualcosa di più interessante. Però chi lo sa, magari è una chiamata importante; così rispondi. È Calderoli.

Calderoli che balbetta e che t'informa che nelle prossime ore, su internet e sui giornali, compariranno notizie su di te, su di lui, che sono tutte una montatura, insomma lui non voleva dire quello che è stato detto da lui, un casino, un gran casino. Sarebbe probabilmente un casino anche se non provasse a spiegartelo Calderoli. Ma, insomma, per farla breve: orango tango.

A capo di cinque minuti, cinque minuti della tua vita che sarebbero preziosi anche se non fossi un ministro della repubblica, hai capito più o meno questo: Calderoli durante un comizio ti ha dato dell'orango tango. Però la cosa è arrivata ai giornali e quindi Calderoli adesso si sta scusando con te. Calderoli infatti non intendeva davvero paragonarti a un orango tango. Cioè, insomma, Calderoli a un comizio ha evocato un orango tango, ma si sa cosa succede ai comizi, no? Ai comizi leghisti, insomma. Si beve, si canta, se ne dicono tante, e insomma... orango tango. Ma non voleva veramente dire orango tango. Se non fosse stato un comizio, se non fosse stato Calderoli, non avrebbe mai detto orango tango. Purtroppo è capitato di essere a un comizio, ed essere Calderoli. Ma poteva capitare a chiunque, no? Di nascere Calderoli. Non lo si può veramente incolpare di questo, e così in un qualche modo bisogna pure perdonarlo, congedarlo, metter giù il telefono, ché i minuti sarebbero preziosi anche se non fossero i tuoi.

Solidarietà al ministro Kyenge, che ha ricevuto la telefonata che nessuno vorrebbe ricevere, e pare sia riuscita a metter giù senza mandarlo a cagare. Io non sono ministro della repubblica e quindi posso: Calderoli, da bravo, a cagare. E attenzione: quella cosa che ai maiali piace razzolare nelle loro feci... è una leggenda. Lo fanno solo se sono costretti, in cattività. Sono animali relativamente puliti. Anche tu hai ancora tanto spazio a disposizione, pulisciti almeno la bocca.
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Il Siegfried Nero

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Django Unchained (Quentin Tarantino, 2012).

Alla vigilia della guerra Civile il dottor Schultz (un Christopher Waltz di nuovo divertentissimo) si aggira per il Sud praticando questo mestiere di recente invenzione, il cacciatore di taglie. Django è lo schiavo che ha liberato perché lo aiuti a identificare una banda di criminali. Ma Django (Jamie Foxx) non è un "negro" qualunque, uno come lui ne nasce una volta su diecimila. Ogni volta che lo buttano a terra, risorge in una versione più cool. Dopo l'orgia citazionista di Kill Bill in parecchi lo avevamo dato per perso, Quentin Tarantino, nella sua cineteca di vhs sbiadite: avrebbe frullato per sempre tutto quello che gli veniva in mente per un pubblico che comunque dimostrava di mandare giù qualunque cosa. Abbiamo dovuto ricrederci con Inglourious Basterds, dove il regista ha messo a punto il congegno che ritroviamo perfettamente oliato nella lunga parte centrale di questo film: un'estenuante trappola per gli spettatori, che in Django hanno ancora meno digressioni e siparietti per tirare il fiato - per salvare la sua principessa l'eroe scende in un inferno vero, un luogo dal quale non si risale senza aver venduto un po' d'anima, dove ci attende un luciferino Leonardo Di Caprio e il suo terribile schiavo-patrigno (Samuel L. Jackson, micidiale).  Se in Basterds ci ritrovavamo per qualche minuto a vivere il dissidio e la vergogna di un padre di famiglia che per salvarsi tradisce gli ebrei che ha nascosto, in Django dobbiamo reggere la vista di fuggitivi sbranati senza tradire un sentimento. Tutto questo, per qualche strana alchimia che Tarantino ha raggiunto dopo anni in cui non sembrava nemmeno provarci, capita ai personaggi sullo schermo, ma capita anche a noi sulla poltrona. Siamo cavalieri senza paura ma con moltissime macchie, dobbiamo scegliere con chi stare e il più simpatico spara alle spalle di mestiere (continua su +eventi)Si scherza anche, si ride persino, ma sempre con la mano alla fondina e il dito sulla sicura.

Chi pensa che in questi film Tarantino stia solo scherzando con le pagine più delicate della Storia, quasi sempre non li ha visti. Spike Lee per esempio Django non lo vuole vedere perché, cinguetta, lo schiavismo è stato “un olocausto”, non “uno spaghetti western di Sergio Leone”. Il solito equivoco, così protratto che alla fine chi va al cinema aspettandosi un semplice omaggio cinefilo ai vecchi spaghetti rischia di restare deluso. Senz’altro gli ultimi due film di Tarantino si prendono nei confronti della Storia delle libertà a cui non siamo più abituati. Sarebbe interessante capire il perché.  Fino a qualche anno fa il West dei cacciatori di taglia, il Sud della Guerra Civile – ma anche la Seconda Guerra Mondiale – venivano usati tranquillamente come sfondi di canovacci per film dalla serie B alla Zeta. Poi la serie B ha chiuso bottega, sostituita dalla narrativa televisiva che non poteva che proporre contenuti meno disturbanti. Nel frattempo si imponeva il politically correct, e Spielberg (che coi nazisti cattivi da fumetto aveva giocato fino all’Arca perduta ) con Schindler’s List imponeva un approccio iperrealista documentario e didattico che purtroppo ha fatto scuola. Dico purtroppo perché non è affatto semplice essere documentari e didattici: per esempio quando ci ha provato Spike Lee, col Miracolo a Sant’Anna, ci siamo ritrovati i Buffalo Soldiers in gita in Garfagnana che si palleggiano teste di marmo come fossero basketball – Mr Lee, si fidi, era più profondo Sergio Leone. 

Per una coincidenza troppo curiosa per esserlo davvero, anche Spielberg come Tarantino, dopo aver dedicato un capolavoro alla seconda guerra mondiale e allo sterminio degli ebrei, si è immediatamente rivolto al passato schiavista americano, con Amistad. È come se un olocausto richiamasse l’altro, come se, dopo aver accusato i nazisti, due registi così astronomicamente diversi avessero sentito entrambi la stessa necessità di scavare negli orrori di casa propria. Ovviamente Tarantino non è didattico, non è documentario, ovviamente pasticcia con antichi amori e nuove infatuazioni, Corbucci, il rap e la mitologia norrena, ovviamente strizza l’occhio ai suoi ammiratori storici (c’è la scena da feticista dei piedi? C’è). Nella sua fiaba infila dettagli storicamente inaccurati o non documentati (i duelli di mandinghi all’ultimo sangue). Ma Spike Lee dovrebbe stare tranquillo, se c’è un film che può aiutare spettatori di tutto il mondo a considerare lo schiavismo un olocausto, questo è Django. Tarantino si libera da qualsiasi catena di verosimiglianza e sceglie una via tutta sua, maturata guardando senz’altro gli spaghetti western ma trovandoci cose che, per sua ammissione, forse non ci sono. “Stavo scrivendo un libro su Sergio Corbucci, quando ho trovato un modo di raccontare la storia […] Stavo scrivendo di come i suoi film avessero questo selvaggio West malvagio, orribile. Era surreale, aveva molto a che fare col fascismo. Così stavo scrivendo questa cosa sull’argomento e ho pensato: non sono sicuro che Sergio ci stesse pensando mentre lo faceva. Ma so che io ci sto pensando adesso. E io posso farlo!” Che gli spaghetti-western fossero ancora posseduti dai fantasmi del fascismo e della Resistenza, è un’osservazione non così banale da parte di uno spettatore non italiano. Il tentativo di riattivare il meccanismo a trent’anni di distanza, usando un linguaggio di genere ormai in disuso per denunciare in modo surreale gli orrori dello schiavismo americano, sulla carta poteva sembrare un’operazione impossibile. Il punto è che a Tarantino ultimamente riescono film impossibili. Speriamo che duri.

Un appunto sul doppiaggio: anche Django, come Inglourious, è un film parlato, dove ogni personaggio ha un accento particolare tranne alcuni che ne hanno due o tre, e tutto questo doppiato in italiano va ovviamente a farsi fottere. Chi lo ha visto in versione originale non fa che lamentarsi del doppiaggio, quindi il consiglio è di non guastarsi il fegato e non vederlo in versione originale, tanto più che è distribuita in pochissime sale. Secondo me è meglio vederlo un po’ rovinato la prima volta, e poi goderselo la seconda, in dvd o altrove. Dico una cosa antipatica: le versioni originali non sono per tutti. Chi non ha abbastanza dimestichezza con l’inglese rischia di passare il tempo a leggersi i sottotitoli invece di guardare il film, e a quel punto saper distinguere l’accento del Texas da quello del Mississippi forse non è la priorità. Sì, il vero timbro di Leonardo Di Caprio è tutta un’altra cosa. Ma se ci pensate bene anche la solita vocetta doppiata da ragazzino, nei suoi panni di Giovin Signore del Sud, non è così sbagliata. 

Django Unchained è al cinema Fiamma di Cuneo (ore 21:10), al Cityplex di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:00), all’Impero di Bra (21:15), al Multilanghe di Dogliani (20:45), ai Portici di Fossano (21:30), al cinema Italia di Saluzzo (21:00) e al Cinecittà di Savigliano (21:30). Dura praticamente tre ore. Buona visione.
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C'è sempre qualcuno che ti odia (sull'internet)

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La lista è la morte

C'è stato un po' di baccano, ieri, a causa di una lista comparsa su di un sito neonazista. Io sono arrivato a casa tardi e non sono riuscito a leggerla: il sito era inaccessibile a causa del traffico elevato (poi è tornato visibile, ma la lista era stata cancellata). Si trattava di un forum semisconosciuto, ma quando i quotidiani hanno scoperto il fattaccio (Repubblica è stato il primo, direi), da blog e social network tutti hanno cominciato a puntare link verso la lista, che da quel che ho capito censiva gli italiani da odiare perché amici degli immigrati.

Io naturalmente sto con gli immigrati, auspico l'estinzione dei fascisti eccetera. Però queste ondate di indignazione mi lasciano perplesso. Un gruppetto di fascisti butta giù un elenco di nominativi; nessuno per quanto ne so ha scritto “italiani da ammazzare”. È una lista di persone odiose, su internet se ne stilano parecchie. Peraltro non è mai successo fin qui che un personaggio à la Breivik o alla Casseri, nel momento in cui decide di passare alle vie di fatto, utilizzi una lista divulgata via internet: di solito c'è un notevole scarto tra chi scrive su un foglietto (o su un sito) i nomi delle persone che detesta e chi si procura le armi e scende in strada a farle fuori. Insomma le possibilità che quella lista potesse ispirare l'istinto criminale di un fanatico erano abbastanza esigue. Fino a ieri.

Poi ieri Repubblica, Twitter e via dicendo hanno iniziato a puntare sul forum semisconosciuto. Migliaia di persone hanno potuto leggere la lista o scaricarla prima che si oscurasse, e a questo punto la possibilità che qualche emulo di Casseri l'abbia letta e decida di utilizzarla è cresciuta sensibilmente. È il solito doppio taglio dell'informazione: vale la pena dare risalto nazionale a un gruppetto che stila liste di proscrizione? Io non lo avrei fatto; oltre al concreto rischio di attirare l'attenzione su gente pericolosa, mi ritroverei anche a spalare l'acqua col forcone: sicuramente da qualche parte qualcun altro sta compilando un'altra lista di persone da odiare, internet glielo consente e io non posso fare il cane da guardia di internet, mica mi pagano. C'è chi invece può.

Il giornalista che ha scoperto la lista di ieri non è nuovo a scoop del genere. Un'occhiata al suo sito (molto interessante) suggerisce l'impressione che le sue scoperte siano frutto di un'indagine sistematica: come quel prete che batte l'internet alla ricerca di siti pedofili, il giornalista in questione è costantemente alla caccia di segnali di razzismo, antisemitismo, intolleranza. Avrete notato che non lo chiamo per nome.

È uno scrupolo ridicolo, chiunque può benissimo recuperare le sue generalità. E anche lui presto o tardi troverà questo mio post, lo leggerà, e deciderà se infilarlo o no in un eventuale dossier sull'antisemitismo di sinistra. In effetti è lo stesso giornalista che la scorsa primavera commise una grossa carognata nei confronti di una mia doppia collega, blogger e insegnante, la quale professa opinioni fortemente critiche nei confronti dello Stato d'Israele. Il giornalista in questione l'accusò, sempre su Repubblica, di negazionismo: accusa falsa, peraltro. Non solo, ma nello stesso articolo suggerì, in modo piuttosto ambiguo (anche un po' maldestro, via), che questa blogger, essendo insegnante, avrebbe anche insegnato il negazionismo ai suoi studenti (e in effetti noi blogger-insegnanti siamo proprio così, la molla che ci spinge a riempire lenzuolate digitali sul sionismo o su San Giovanni Damasceno è che sono proprio gli stessi argomenti che spieghiamo a lezione ripetutamente, a tutte le classi, tutti gli anni, siamo così felici di continuare a parlare di sionismo e San Giovanni Damasceno che anche sul blog non vorremmo scrivere d'altro. Sono ironico). E arrivarono gli ispettori. Parli male d'Israele su un blog? Faccio in modo che ti arrivino gli ispettori a scuola. Ecco.

Per tagliar corto: il giornalista in questione ha già ampiamente dimostrato che se vuole sputtanare un insegnante lo fa. Però questo non è un buon motivo per non chiamarlo per nome e per cognome; magari era un buon motivo per non iniziare nemmeno a scrivere questo post, per fare finta di niente. Invece sto parlando di lui, ma il suo nome non lo metto perché si sa cosa succede ai nomi: li lasci lì e dopo un po' diventano una lista: e io una lista non la voglio fare, la lista è la morte, e anche se mi scappasse una lista, mai vorrei mettere al primo posto lui. Lui è un buon diavolo con una missione: battere la campagna, censire tutti gli insetti, tutti i parassiti che ce l'hanno con quelli come lui. O con qualche altra minoranza, tutto fa brodo. E sono convinto che nel suo far circolare insetti e parassiti è in buona fede: il suo scopo è mostrare quanta intolleranza (e quanto antisemitismo) ci siano in Italia, e a tale scopo qualsiasi infimo insetto, qualsiasi larva di bacherozzo abbia dichiarato di non sopportare il presidente della comunità ebraica di Roma fa buon brodo. Il problema è che in quel brodo i bacherozzi sguazzano, e sembrano addirittura ingrossare – ma questo effetto ottico collaterale il giornalista in questione lo ritiene sopportabile. Oppure si tratta del solito gioco win/win: i bacherozzi ottengono più visibilità, le minoranze minacciate più solidarietà. Sì. Non credo che convenga a tutte le minoranze.
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Non siete così meglio di Breivik

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Non è un pazzo.

Solo perché ha portato alle logiche, estreme conseguenze le chiacchiere che possono scapparvi a una certa ora al terzo grappino, al secondo limoncello, voi dite che è un pazzo, Breivik.

E siccome sotto la patina becera e pagana siete uomini di mondo, moderni e disincantati, non vi attraversa nemmeno per un istante il sospetto di averlo evocato voi il folle Breivik, durante i sonnellini della vostra ragione. No, il mostro lo avrà senza dubbio partorito qualcun altro - il gene dello stragismo, il welfare nordico, il disagio della società multiculturale, i videogiochi, il "sistema".

Io per me non credo che Breivik sia un pazzo, o meglio: non credo che la sua pazzia sia di un genere diverso dalla vostra. Se faccio qualche distinguo tra voi e lui, non è perché rispetti l'atteggiamento moderato con cui anche stanotte vi alzerete dal tavolino e ve ne andrete a nanna senza aver fucilato nemmeno un negro, nemmeno un comunista. Non è che vi stimi più di lui: mi fate meno paura, questo sì, ma non perché lui sia un pazzo e voi no. Il fatto è che la sua "pazzia", chiamiamola pure così, è molto più efficiente. Breivik, se ho capito bene, è stato abbastanza pazzo da trasferirsi in campagna per qualche anno, onde poter acquistare tutto il fertilizzante esplosivo che gli serviva senza destare sospetti. Quando alla fine ha colpito, non ha tirato alla cieca come i terroristi, a cui basta seminare il terrore.

Breivik aveva un obiettivo molto più preciso, accessibile soltanto in una piccola nazione: ammazzare un intero partito, interrompendone il ricambio generazionale. Così ne ha fatto esplodere la sede della capitale, attirando la polizia lontano dall'isola dove ha decimato con freddezza i futuri quadri del laburismo norvegese. Tutto alla luce del sole, perfettamente spiegato, senza quelle zone d'ombra in cui il terrorismo incuba: Breivik non è un terrorista, è il flagello di Dio. Il sorriso che mostra nelle foto dell'arresto lo leggete come il sorriso di un folle: io ci vedo la soddisfazione per un buon piano eseguito, per un lavoro ben fatto. C'è nella sua "pazzia" un metodo, una lucidità che forse noi sani di mente non possiamo permetterci. Quella che ci impedisce di irrompere con una mitraglietta nella redazione di Feltri, togliendo a lui e ai suoi pards la possibilità di mettere alla prova il proprio coraggio, la propria abnegazione, cos'è? ragionevolezza? O paura, o rassegnazione? Siamo meno pazzi o soltanto più pigri?

Di fronte a uomini lucidi come Breivik, in grado di concepire una missione e sacrificarvi tutta la loro esistenza; individualisti assoluti pronti a bruciare il proprio ego pur di rischiare l'alba di un nuovo Califfato o di un nuovo Sacro Romano Impero, forse la soluzione è: più videogiochi. Sul serio. Nel suo caso evidentemente non ne ha giocati abbastanza: alla lunga è rispuntata la voglia di irrompere nella realtà, realizzandovi le sue fantasie di sterminio e sacrificio. Forse avremo risolto il problema quando ognuno di voi, senza neanche alzarsi dal tavolino, avrà a disposizione la sua realtà simulata in cui uccidere tutti i laburisti e i negri che vuole, trionfare e regnare. Più crociate per tutti, purché virtuali; più target, più missioni, più munizioni, più ministeri in Brianza, più oppio per i popoli dell'Europa dei popoli. Il giorno in cui la fantasia sarà davvero più soddisfacente della realtà, quel giorno forse vi libererete all'estasi dei vostri sogni di purezza e gloria, e ci lascerete in pace a tentare di convivere e sopravvivere in questo mondo imperfetto. Forse a Bossi non abbiamo dato abbastanza Braveheart; forse da qualche parte qualcuno ha già scritto il gioco di ruolo che riuscirà a incatenare per sempre l'inquieto Borghezio, come Merlino nel Lago.

Nel frattempo dobbiamo sopportarvi, ma non è che ci facciate meno schifo di Breivik. Un po' meno paura, forse: e forse abbiamo torto. Perché non sarete lucidi e conseguenti quanto Breivik, ma quando volete sapete uccidere meglio di lui, con più pulizia e senza pagarne le conseguenze. A un simpatico leghista moderato come il ministro Maroni, a quel mattacchione ex-post-fascista sdoganato del ministro La Russa, basta lasciare soltanto due motovedette a pattugliare un largo braccio di mare all'apice dell'emergenza profughi in Libia, e il Canale di Sicilia si riempie in pochi giorni di quelle centinaia di cadaveri di fronte ai quali Breivik perde tutto il suo carisma folle e si rivela per quel che è: un dilettante, che ora andrà in galera. Voi invece restate al governo. Ma non è che mi facciate meno schifo di Breivik, o che dobbiate sembrarmi meno pazzi di lui.
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Il Piccolo Opinionista Nero

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La vita non è facile in Italia, quando nasci piccolo e nero. Se poi vuoi fare pure l'opinionista, beh, solidarietà.


Scherzavo. No, nessuna pietà. La leggenda del Piccolo Opinionista Nero è sull'Unita.it, e si commenta ovviamente là. Speriam bene.

C'era una volta, in un Paese di bianchi, un piccolo uomo nero, a cui la sorte non aveva davvero regalato molto. Solo un briciolo di orgoglio, qualche etto di astuzia e tanta, tantissima ambizione. Ma cosa ci fai con l'astuzia e l'ambizione, se ti ritrovi piccolo e nero in un Paese di bianchi? È una vera ingiustizia, pensava il piccolo uomo: in altri Paesi uno come me potrebbe fare perfino il Presidente. Aveva ragione, tra l'altro.

“Usa l'astuzia”, gli diceva il suo demone interiore. “Trasforma la tua debolezza in forza. Tu hai una cosa che i bianchi non hanno, ci hai mai pensato? Tu sei nero”.
“Lo so bene, ed è il motivo per cui mi sputano”.
“Ti sputano perché hanno paura dei neri come te, che sono tantissimi e arrivano da tutte le parti”.
“Ah sì? Non lo sapevo. È orribile!”
“Sì, in effetti non sono proprio tantissimi, e non arrivano proprio da tutte le parti. Però non importa, con la paura non si ragiona. A questo punto arrivi tu”.
“E che ci faccio io?”
“Tu fai il nero buono, il nero che ha studiato, il nero che parla come i bianchi, e li tranquillizzi. Gli spiegherai che i neri sono brava gente, gli racconterai i loro costumi, la loro cultura, la ricchezza dell'Islam”.
“Ma che ne so io, scusa, ho studiato dai salesiani”.
“Vuoi dire che non sei neanche musulmano?”
“Boh”.
“Vabbe', convertiti, insomma, studia, datti da fare. Devi amare un poco i neri per piacere a certi bianchi”.

E il Piccolo Nero si impegnò. Studiò un poco, si mise persino a frequentare le moschee, anche se non è che capisse sempre tutto. Scrisse pagine su pagine, che diventarono libri su libri, in cui spiegava che i neri non erano così cattivi, e quanto fosse difficile fare il nero in un Paese di bianchi, e tutto sommato era sincero. Dai e dai il suo faccino nero e il suo cognome strano cominciarono a comparire sulle pagine dei quotidiani più prestigiosi. Insomma stava filando tutto a gonfie vele, quando accadde che dei neri non proprio tolleranti dirottarono alcuni aerei e abbatterono alcuni grattacieli. Fu un disastro per tutti, e anche per il nostro Piccolo Opinionista Nero.

All'inizio si disse che non sarebbe cambiato niente, anzi, ci sarebbe sempre stato bisogno di una faccia nera sorridente che rassicurava e spiegava ai lettori che non tutti i neri erano cattivi. Però le cose stavano cambiando rapidamente. Ormai in quel Paese i neri erano tanti – non tantissimi in verità, ma si vedevano da lontano, come grani di caffè in una ciotola piena di zucchero. E tanti di questi neri ne sapevano molto più di lui sulla loro cultura e sull'Islam, insomma, non poteva più salire in cattedra impunemente come qualche anno prima. C'erano ancora lettori bianchi che lo stimavano per le cose che aveva scritto in passato, ma ormai i suoi libri li avevano comprati. Invece adesso andavano di moda libri molto diversi, per esempio furoreggiavano le favole di una vecchietta che vedeva neri dappertutto che distruggevano tutte le chiese e i monumenti cristiani. Benché avesse già scritto molti articoli per criticare la vecchietta, il Piccolo Opinionista Nero segretamente la invidiava: lei sì che poteva scrivere qualsiasi puttanata senza fare nessun tipo di ricerca, e il suo bacino di lettori aumentava geometricamente a ogni attentato.

“Non vale, cioè, è troppo facile così! Sarei capace anch'io di scrivere quella robaccia!”
“E perché non lo fai?”, gli chiese il suo demone.
“Ah, rieccoti. Era da un po' che non ti si vedeva in giro”.
“Il buonismo dei tuoi articoli mi annoiava profondamente”.
“Ecco, vedi? Adesso vanno di moda le apocalissi, le lotte di civiltà, di religione, le crociate, tutta quella roba lì”.
“E tu scrivile!”
“Ma non posso! Io sono il nero gentile che scrive di tolleranza, di pace, di multicult...”
“Bla bla bla. Tu sei il piccolo nero a cui nessuno ha mai regalato niente, ricordatelo! E nessuno mai te lo regalerà! Se vuoi il successo, devi prendertelo senza guardare in faccia a nessuno, hai capito? E adesso cos'è, hai paura di una vecchietta? Quanto pensi che durerà? E quando se ne sarà andata, a chi toccherà il suo posto?”
“Non può mica toccare a me, scusa, lei è una crociata e io sono un musulmano”.
“Ah sì, sei un musulmano adesso? Beh, e allora convertiti”.

E fu così che il Piccolo Opinionista Nero si convertì – fu un grande giorno, venne anche il grande capo degli uomini Bianchi in persona, a bagnargli il capo; e per quanto lo chinasse, il Piccolo Opinionista non poté fare a meno di notare che il gran capo non era più alto di lui, né più bello, né più sveglio; era solo nato bianco, tutto qui, che ingiustizia! Ma si poteva rimediare. Ora che era cristiano il Piccolo Opinionista non scorgeva più l'orizzonte delle sue ambizioni. È vero che qualche bianco ancora non si fidava di lui; per ingraziarseli, il Piccolo Op. cominciò a denunciare tutti i neri che aveva conosciuto quando frequentava le moschee: siccome non sempre riusciva a capire cosa dicessero, non c'era il minimo dubbio che stessero complottando contro il Cristianesimo; pianificando di minare qualche sacrestia, avvelenare un battistero, dirottare un campanile... andavano fermati! Il Piccolo Opinionista li fermò. E non si fermò lì. Scrisse libri sulla bellezza del Cristo, che conosceva più o meno come Maometto (poco), e sull'esigenza di difenderlo dai cani infedeli rabbiosi infami, senza fidarsi di chi si riempiva troppo la bocca di paroloni vuoti come Tolleranza Rispetto Multiculturalità Dialogo... 'Non vi fidate, essi mentono! Vogliono soltanto entrare nel vostro giardino, cogliere i fiori che avete coltivato con tanto amore, suggere i vostri frutti, fare quattro tuffi nella vostra piscina, prima di avvelenarla!' così diceva, più o meno, e si stupiva lui stesso di quanto riusciva a essere convincente. Si sentiva persino più sincero di prima; era come se tutta la frustrazione che aveva raccolto nella sua vita si fosse trasformata d'incanto in qualcosa di nobile, di giusto, di puro. E guadagnava un sacco. Cercò anche di entrare in un partito politico, ma gli dissero che era troppo estremista; fu quasi un complimento. Tanto più che in fondo lui non voleva essere secondo a nessuno: così si fondò un partito su misura per lui. Come simbolo prese il crocifisso, tanto non si pagava il copyright. Propose anche di metterlo sulla bandiera, come nei Paesi del Nord: nessuno era già arrivato a tanto! Perché ormai ragionava più bianco dei Bianchi.

E certamente avrebbe potuto vendere libri su libri, superando il record della vecchietta (che nel frattempo aveva lasciato questo mondo), se solo gli islamici avessero continuato a fare attentati con una certa regolarità. E invece c'era questo problema: che da un po' di tempo in qua nicchiavano, non dirottavano più aerei, nemmeno autobombe; per quanto li si bombardasse e invadesse e torturasse, non reagivano quasi più, smidollati! Il Piccolo Opinionista Nero li aveva sempre segretamente disprezzati, ma adesso decisamente li odiava: possibile che non facessero mai, mai quello che ci si aspettava da loro? “Sembra che lo facciano apposta per deludermi”, pensava.

Ma poi finalmente, una sera, da un Paese del Nord arrivò la notizia di un'autobomba e di una sparatoria, e il Piccolo Opinionista Nero si rimproverò di essere stato così ingiusto coi suoi ex-fratelli. Nel giro di mezz'ora aveva già scritto un pezzo trionfante contro la tolleranza, contro l'ideologia del multiculturalismo e il relativismo “che si fonda sulla tesi che per amare il prossimo devi sposare la sua religione e le sue idee”. Lo mandò al giornale e andò a letto presto. Sognò un'elezione, una bandiera crociata, e un popolo biancovestito che lo incoronava Presidente, proprio lui, un piccolo uomo nero! proprio come negli USA...

Al mattino il risveglio fu un po' brusco.
“Incapace”, gli disse il suo demone, “guarda cos'hai combinato!”
“Ah, sei tu! Era da un po' che non ti si vedeva in giro”.
“Il fondamentalismo dei tuoi articoli cominciava a imbarazzarmi, e i fatti non mi hanno certo dato torto. Lo sai chi ha ucciso tutti quei bianchi nordici multiculturali?”
“Non so, i soliti islamici, presumo”.
“Ma non li leggi i giornali?”
“No, li scrivo”.
“Il solito problema. Bene stamattina dicono tutti che è stato un bianco nordico che odia il multiculturalismo e la tolleranza”.
“Oddio! Sono fregato!”
“Piano, piano. Certo, certe pagine del suo memoriale assomigliano veramente molto a uno dei tuoi libri, come si chiama...”
“Quello? Ma è tutta roba copiata dalla vecchietta!”
“Avrà copiato anche lui. Poi è uscito, ha messo due bombe e fucilato un centinaio di ragazzini”.
“E aveva le mie idee! Era uno come me! Stavolta sono fregato davvero!”
“Ehi, piano, piano. Non è uno come te”.
“Come no. Era cristiano, odiava la tolleranza... lo hai detto tu...”
“Sì, però guardati. Lui era alto e biondo. Sei alto tu? Sei biondo?”
“Ma che c'entra, scusa”.
“C'entra, c'entra eccome. Tu sei piccolo. E nero. Non scordartelo mai”.
“Ma mi sono convertito...”
“Non ha nessuna importanza. A certe cose non ci si converte. Se ci fossi stato tu, ferito, su quell'isola, lui non ci avrebbe pensato due volte a darti il colpo di grazia. Anche se tu credi nel suo Dio. Anche se ti comporti come un bianco. Anzi, proprio perché ti comporti così. Capisci?”
“Credo di sì”.
“Più ti sforzi di assomigliare a loro, più ti odiano. Sono nazisti, fondamentalisti, è quel che sono. Vengono a corrompere la nostra società aperta. Bisogna combatterli”.
“Cosa devo fare?”
“Il solito. Convertiti”.
“A cosa?”
“Boh, improvvisa. Il tizio ha massacrato i giovani laburisti. Potresti convertirti al laburismo”.
“Non ho la minima idea di cosa sia”.
“Toh, una novità. E allora studia, aggiornati, su. Prima che vengano a cercarti col fucile”.
“Sì, però che stanchezza”.
“Sei stanco? Stanco di cosa?”
“Ma di dover sempre cambiare religione, cambiare idea, cambiare camicia, quando alla fine è solo la mia faccia che non va. La mia faccia piccola e nera. Non è giusto”.
“Ma sentilo un po', il calimero. Sei stanco di cambiare? Vorresti restare quel che sei adesso? Un nero che ispira gli ammazzaneri?”
“Non so. Vorrei... forse vorrei provare una volta sola a essere semplicemente me stesso”.
“Te stesso? E chi sarebbe, “te stesso”?”
“Buffo, ormai non lo so più”.
“Allora te lo ricordo io: tu non sei mai stato nessuno. Solo un piccolo uomo nero a cui la sorte non ha davvero regalato molto. Solo un briciolo di orgoglio, qualche etto di astuzia e tanta, tantissima ambizione...”
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Fido e Tiziana

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Fido e Tiziana Maiolo: due carriere a confronto


Nel 1992 Tiziana Maiolo è eletta alla Camera dei Deputati nella lista di Rifondazione Comunista, come indipendente. Nello stesso anno Fido è un cucciolo che vuole bene al suo padrone.


Nel 1994 Tiziana Maiolo è eletta alla Camera dei Deputati nella lista di Forza Italia. Nello stesso periodo Fido continua a voler bene al suo padrone.

Nel 2010 Tiziana Maiolo, eletta nella lista del PDL, passa a Futuro e Libertà. Fido, un po' malconcio, non ha smesso di voler bene al suo padrone.

Io se fossi in Berlusconi alla prossima tornata metterei in lista Fido. Senz'altro più facile da addestrare di Tiziana Maiolo.
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Ricordare stanca?

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Stavo per scordarmi. La classe ariana per un giorno è on line sull'Unita.it e si commenta qui.

(È un racconto di invenzione, non esiste nessuna terza zeta, qualsiasi riferimento alle scuole dell'obbligo dei vostri figli è assolutamente casuale).

“Collega, devo chiederti un favore. Tu insegni nel corso Z, vero?”
“Certo”.
“Senti, devi darmi una mano per la Giornata della memoria, perché non ne posso più. Tu quest'anno cos'hai fatto?”
“Il 27 gennaio? Mah, di solito cerco di proiettare un film, sai, una lettura di Primo Levi, le solite cose...
“Ecco, appunto, io dopo dieci anni di La vita è bella non ne posso più, mi esce dalle occhi”.
“Vabbe', ma scusa, è come se la prof di matematica si stancasse del teorema di Pitagora”.
“Guarda, non so come funzioni con Pitagora, ma Auschwitz dopo un po'... non hai letto De Bortoli sul Corriere? Ricordare stanca”.
“Va bene, e quindi? Cosa vorresti fare?”
“Ecco, io stavo pensando di fare qualcosa di coinvolgerli di più, i miei ragazzi... per esempio, so che in una scuola da qualche parte hanno osservato per un giorno le leggi razziali”.
“Le leggi razziali?”
“Ma sì, funziona più o meno così: la prof entra in classe e legge una circolare che impone di separare gli alunni ariani dai semiti, e poi si osserva come reagiscono. Che ne pensi?”
“Guarda, non è una brutta idea”.
“Ecco, però per realizzarla mi servi tu”.
“Io?”
“Ma sì, perché io di alunni semiti nel corso A non ne ho proprio, capisci”.
“Perché invece io?”
“Ma figurati se non ne hai, scusa... tutti i marocchini e i tunisini, sono semiti anche loro”.
“Ah sì?”
“Per la Bibbia sì. Per non parlare dei camiti, le leggi razziali parlavano anche di loro...”
“Perché i camiti chi sarebbero, scusa?”
“I neri”.
“Ah, allora sì, ho due senegalesi un ghanese e una nigeriana. Invece di semiti ho tre marocchini, un'egiziana e... gli albanesi contano?”
“Non saprei".
"Altrimenti ho due rom".
"Gli zingari sono perfetti. Vedi? Ne hai fin troppi, prestamene un po'”.
“Per la giornata della memoria?”
“No, facciamo per una settimana... così prima si ambientano in classe, e poi il ventisette arrivo, leggo la circolare e li metto nell'ultima fila... una cosa così”.
“Senti, però, scusa, io capisco il realismo e tutto quanto, ma non ce l'hai nella tua classe un altro studente di una minoranza? Anche se non è africano, voglio dire, è il pensiero che conta...”
“Ho il figlio di un dentista ungherese, è biondo con le lentiggini, dai, non è la stessa cosa. E poi se suo padre non la prende bene finisce che ci denuncia”.
“Ma scusa, e il cinese? Io l'avevo pur visto un cinese nella vostra classe...”
“Ah, sì, poverino... l'avevano messo da noi perché si era iscritto all'ultimo momento... ma non spiccicava una parola e stava sempre nell'ultimo banco...”
“E che fine ha fatto?”
“Ecco, non si sa bene. È scomparso”.
“Come scomparso”.
“Ma infatti in segreteria stanno telefonando, solo che non trovano nessuno che parli italiano... del resto si sa come sono i cinesi”.
“Ma non è vero, io ne ho due, vengono sempre, in bicicletta, con la pioggia e col sereno”.
“Ma sì, ma che c'entra... la tua è una classe multietnica, si trovano meglio... invece in A, sai com'è, tutti bianchi...”
“Ecco, ma infatti, appunto, com'è questa storia? Che io ho quindici stranieri in classe e tu solo uno? La Gelmini non aveva promesso che...”
“Ma sì, la storia della quota. Non se ne sente più molto parlare, ma avrebbe dovuto cominciare lo scorso settembre con le prime elementari... e comunque riguarderebbe soltanto i bambini non nati in Italia, invece scommetto che molti dei tuoi risultano nati qui”.
“Sì, ma che vuol dire, molti di loro fan fatica lo stesso”.
“Però dai, è un ambiente molto stimolante”.
“È faticoso, e siamo sempre indietro col programma... Ma scusa, non potevano dividerli in parti uguali quando hanno fatto le prime? Se ne potevano mettere quattro o cinque in ogni classe, avremmo lavorato tutti meglio e tu avresti i tuoi studenti semiti”.
“Ma lo sai che il corso A è quello di tedesco, no?”
“E che c'entra tedesco, scusa, è la seconda lingua, cosa cambia se fanno due ore di tedesco alla settimana?”
“Cambia tutto, perché i genitori fanno la fila per iscrivere i figli”.
“E i figli degli stranieri vengono esclusi?”
“Ma no, non capisci? Non c'è nessun bisogno di escluderli – infatti per esempio il dentista ungherese ha iscritto suo figlio a tedesco. Ma i genitori degli africani semplicemente non sono informati. Oppure pensano che sarà una classe più difficile e preferiscono iscrivere il figlio al corso Z. È una specie di selezione naturale, capisci”.
“Così nella mia classe ci sono quindici alunni semiti o camiti”.
“Sì”.
“E nella tua neanche uno. Mi ricorda qualcosa”.
“Adesso però non fare il polemico, eh. Se non facessimo così molti genitori iscriverebbero i figli altrove. E se perdessimo delle cattedre, indovina qual è la prima che cade”.
“La Z”.
“Bravo. Allora, mi aiuti o no? Potremmo fare così... tu mi presti quattro studenti semiti e io...”
“E tu mi presti cinque studenti biondi e ariani che parlano tedesco! Ci sto. Sarà una grandissima giornata della memoria. Oppure... senti, ho un'altra idea. Perché non andiamo a vedere il campo di concentramento?”
“Ma è un viaggio lungo, e poi quando arrivi non è che ci sia molto da vedere...”
“Sì, però senti questa: ci andiamo con un treno speciale, chiudiamo la mia classe in un vagone merci e i tuoi ragazzi ogni tanto li sciacquano con la pompa dell'acqua! Urlando in tedesco!Achtung Juden! O qualcosa del genere. Sanno dire Achtung Juden?”
“Sei sempre il solito”.
“Secondo me stanno imparando”.
“È impossibile lavorare con te, non sei mai serio”.
“No, ma scusa eh, passiamo il tempo a ricordare una legge che ha funzionato soltanto per una manciata di anni dopo il '38, e nel frattempo quanti anni sono che discriminiamo i ragazzi nelle nostre classi? Ho una teoria. Secondo me...”
“Uff, le tue teorie”.
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Che cavolo stai dicendo

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Diff'rent Strokes

Mi perdonerà il povero Coleman, e chi giustamente rimpiange lui e le risate che ci strappava, ma quant'era razzista quel telefilm. Quel negretto tanto simpatico, nato ad Harlem ma adottato dal Buon Padrone bianco di Manhattan, occhieggiava dai nostri enormi tv-color come un criceto nella gabbietta. Quant'era carino, quant'era buffo, e non cresceva mai. Andate in soffitta, tirate fuori i vostri stinti arretrati di Sorrisi e Canzoni o del RadiocorriereTV, e confermatemi che nel 1980 Arnold si poteva chiamare ancora “negretto”, senza paura di offendere né lui né... chi? Non c'era nessuno da offendere, e noi italiani non eravamo razzisti, assolutamente, anzi ci stavano tanto simpatici i negretti dei telefilm. Gli orfanelli e le domestiche. Beati anni Ottanta. Io comunque non li rimpiango.

Ho fatto due conti e stabilito che preferisco stare dove sto. Nell'Italia anni Dieci dove il razzismo è tutto da questa parte del vetro, e di neri ne incontri per strada quanti ne vuoi, ma non ce n'è uno che ti ricambi un sorriso. Hanno sempre quell'aria incazzata e i brufoli, i brufoli dei neri, chi se li sarebbe immaginati. Ma sul serio, meglio stare qui. Nell'Italia che urla a Balotelli “non esistono neri italiani” - Balotelli che manco sa chi è il Mio Amico Arnold, è nato quattro anni dopo la chiusura. La stessa antipatia di Balotelli, il suo scarso o nullo autocontrollo, mi intristiscono e spaventano, ma li preferisco ai sorrisi di quando i mulini erano bianchi, i tv color erano grossi, la lira era leggera, e i negretti erano buffe creaturine, parenti dei puffi, che ridevano a trentadue denti tra uno spot e l'altro. Quest'Italia analfabeta di ritorno, quest'Italia che a furia di grattarsi ha tirato fuori il fascismo sottopelle, quest'Italia che intona faccetta nera e non finge più di non sapere che il ritornello incita allo stupro etnico, quest'Italia potrà anche e giustamente farvi schifo, ma è tutto quello che abbiamo, e le favole che ci raccontavamo da bambini erano balle, si è capito? Balle. Credete a chi lo sa: abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. I mulini non sono mai stati bianchi; i negretti bisogna stare attenti ad adottarli perché crescono; e s'incazzano; e hanno brufoli brutti a vedersi.
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Arriva Elmo

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Ho una teoria (#6)
Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).

Elmo non è un razzista, secondo lui... [continua sull'Unità on line: potete commentarlo lì].

Ho una teoria. Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).

Elmo non è un razzista, secondo lui. In officina ha un apprendista moldavo che è molto bravo e si fa i fatti suoi. Però questa cosa degli stranieri in classe non l'ha mai mandata giù, da quando il suo Elmino ha cominciato a frequentare la prima media. 

All'inizio sembrava tutto normale: Qualche volta, è vero, a suo figlio capitava di infilare un nome strano nel resoconto delle sue giornate, ma del resto Elmo conosce tanti amici che hanno chiamato i figli Brandon o Sharon. Al primo colloquio le insegnanti gliel'avevano detto: “È una classe un po' difficile”. Ma quelle si lagnano sempre e comunque, si sa.

Il vero choc furono le foto della gita scolastica. Elmo scoprì che la classe di suo figlio era uno zoo. Tre neri, uno più nero dell'altro. Un marziano con un cappuccio in testa (“ma no, papà, è un indiano, ma della setta dei sikh”). Un numero imprecisato di rumeni polacchi e quant'altro. Sei o sette su ventisette. 

“È una classe multietnica. Un'occasione meravigliosa per suo figlio”, le spiegò l'insegnante: la stessa che gli aveva detto che era una classe difficile. A Elmo qualcosa non tornava. Se davvero la classe multietnica era un'occasione così meravigliosa, perché non l'avevano offerta anche alla figlia del suo vicino, l'ingegnere? Lei aveva la stessa età di Elmino, ma sembrava molto più avanti con gli studi. È normale, le diceva sua moglie, le bambine sono più diligenti. Una mattina però al bar non aveva resistito, e si era messo a discutere di scuola con l'ingegnere. Fino ad arrivare al fatidico argomento, i bambini stranieri... 
“Sono più bravi degli italiani”, era stata la pronta risposta del vicino progressista. “Per esempio in classe con mia figlia c'è un bambino ungherese che è un genio del computer, pensi...”
“Ah sì? Beh, però poi ci sono anche quelli che... sì, insomma, fanno fatica a imparare l'italiano, e allora la classe resta indietro... cioè, li avrà anche sua figlia dei compagni così”.
“No, che io sappia no”.

Così era saltato fuori che Elmo aveva otto compagni stranieri e la figlia dell'Ingegnere soltanto uno (un genio del computer). 
“Ma certo”, gli aveva detto la moglie, “l'Ingegnere ha iscritto suo figlio alla classe bilingue tedesco”.
“E gli stranieri non ci possono andare?”
“In teoria potrebbero”.
“E allora perché non ci vanno?”
“Perché il tedesco è difficile. E poi perché c'è la lista di attesa”. 
“C'è una lista?”
“Certo che non ti sfugge niente, a te”.
“No, scusa, una lista per studiare tedesco alle medie? Cos'ha di così speciale questo tedesco?”
“Forse che gli alunni sono tutti bianchi”.

Ecco svelato l'arcano. Non c'è nessuna invasione di alunni stranieri: il problema è che sono tutti concentrati in un paio di classi, e una è quella di Elmino. Nelle altre (Elmo ha controllato i tabelloni affissi a settembre) i nomi stranieri diventano rarissimi. A quel punto, dentro di lui qualcosa si è rotto. Oppure è stata la quinta volta che ha sentito dire da un'insegnante che la classe era indietro col programma. Sia come sia, Elmo appena ha potuto ha votato la Lega. 

Quando i suoi uomini in parlamento proposero di istituire le classi-ponte, ebbe un acceso diverbio al solito tavolino del bar. “Siamo alle leggi razziali!” tuonava l'ingegnere. “La verità è che avete paura degli stranieri, che tante volte sono più bravi dei nostri figli...” Qualche mese dopo si cominciò a parlare di quote, e anche lì l'ingegnere prospettava deportazioni, Buchenwald, Dachau... La verità è che quelli come l'ingegnere hanno sempre da dire su tutto. Perché sono comunisti. Invece Elmo, più ci pensa più trova che la quota sia la cosa più ragionevole. Finalmente (pensa) gli stranieri non saranno più tutti ammucchiati in una o due classi-lager, ma sparsi su tutta la superficie scolastica. E la sorella di Elmino, che comincia le medie in settembre, non finirà più in un ghetto di analfabeti. Forza Gelmini!

In agosto, leggendo il tabellone delle nuove classi, Elmo avrà un colpo al cuore. Su 29 compagni di Elmina, 15 avranno il cognome straniero. A questo punto magari andrà a chiedere al Preside: Cos'è, un'invasione? Dove sono finite le quote? Ma allora è vero che questa scuola è un covo di rossi dove si ignorano le direttive ministeriali? E il preside, che gli risponderà?

“Prima di tutto, vorrei tranquillizzarla. Una classe multietnica, come quella in sui è stato inserita sua figlia, è una meravigliosa opportunità...”
“Bla bla bla, conosco il discorso. Quello che vorrei sapere è come mai qui non si rispettano le quote di stranieri”.
“Ma noi le rispettiamo. Nella classe di suo figlia ci sono nove alunni stranieri”.
“Di più che tre anni fa! E le quote?”
“La quota è del 30%. Il problema è che con i tagli il numero di studenti per classe è aumentato. Nella classe di suo figlio sono in trenta: il 30% di trenta è un po' più di nove, un po' meno di dieci. Siamo in quota”.
“Ma scusi... io qui leggo almeno sedici cognomi che non sono italiani. Non nove. Sedici”.
“Certo, perché poi ci sono gli stranieri nati in Italia. Il Ministero ci ha detto che nella quota non vanno contati”.
“Ah, non vanno contati”.
“No”.
“Ma perché devono sempre finire tutti in classe coi miei figli... cioè, io non è che sono razzista, eh... ma non riesco a capire. Perché non ne mettete un po' anche in prima A?”
“La A è la classe di tedesco...”
“Sì, lo so, c'è una lista. E in B?”
“Il B è la sperimentazione musicale”.
“E allora? Sono tutti stonati gli stranieri?”
“No, ma c'è una lista d'attesa anche lì”.
“E la C?
“È una classe molto ambita, non ha rientri al pomeriggio. Sa, per i bambini che hanno molte attività extrascolastiche: nuoto, equitazione...”
“C'è la fila anche lì”.
“Diciamo che gli stranieri hanno meno attività extrascolastiche. È tutto chiaro, ora?”

Sì. Nella mente di Elmo ora è veramente tutto chiaro. Non è colpa della Gelmini, lei ha fatto quel che ha potuto. Il problema è che i comunisti sono veramente diabolici. Fatta la legge, trovano l'inganno. Fanno studiare ai loro figli tedesco, flauto traverso, equitazione, qualsiasi cosa per tenerli lontani dai negri... e quelli che ci rimettono sono i suoi figli. Comunisti maledetti. Ma verrà un giorno. Quando prenderemo il potere...
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Il 30% di boh

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Integratevi (è un ordine)

È andata: dall’anno prossimo nelle prime classi delle scuole italiane “di ogni ordine e grado” gli studenti stranieri non potranno essere più del 30% del totale. E già qualcuno comincia a gridare all’Apartheid - ehi, piano.
Un esempio lo fornisce il pur ottimo Gilioli, quando si chiede se il piccolo Naresh dovrà lasciare i suoi compagnucci di terza elementare. Ma no, basta leggere. I tetti verranno applicati soltanto nelle classi che devono essere ancora formate (prime elementari, prime medie, prime superiori): Naresh potrà continuare il suo percorso scolastico e gli auguro che sia di qualità.

A tutti quelli che non vogliono perdere l’occasione di scomodare le leggi razziali, ricordo che stiamo parlando di una proposta Gelmini, cioè di una cosa, per definizione, non seria. Avete presente come risolve i problemi la Gelmini? Un rapido riassunto: un anno fa gli studenti davano molti problemi disciplinari. Non rispettavano né le regole né gli insegnanti, picchiavano i loro compagni disabili e mettevano le foto su youtube (questa cosa in particolare fece scalpore, i filmini su youtube). Allora la Gelmini risolse il problema. Come? Inventando una cosa che prima non c’era: il “voto di condotta”. Prima si chiamava “valutazione del comportamento” e non funzionava: adesso invece si chiama “voto”, quindi funziona. Questo è un esempio di come risolve i problemi la Gelmini.

Un altro problema molto dibattuto era il rendimento. I nostri studenti non imparano più niente. Intervenne la Gelmini, con un’idea geniale: reintrodurre nella scuola dell'obbligo i voti numerici. Stabilendo così un discrimine insormontabile tra la scuola sessantottina che promuoveva tutti quelli che avevano una media superiore al “sufficiente” e l’inflessibile scuola gelminiana che falcia senza pietà tutti quelli che hanno una media inferiore al “6”. Un altro problema risolto.

E gli stranieri? Pare che siano troppi, e che tendano a iscriversi tutti nelle stesse classi, formando perniciosissime “classi ghetto”. Come ha risolto il problema la Gelmini? Anche qui, la sua implacabile falce non si è fatta pregare, e si è abbattuta su… su cosa? Una quota del 30% di stranieri? Perché secondo voi in Italia c’è uno studente straniero ogni due italiani? A meno che non siate affezionati lettori di Giornale e Padania, sapete benissimo che la quota di stranieri non è così alta da nessuna parte in Italia – tranne forse in qualche bassifondo metropolitano. Forse anche qualche paesino montano abbandonato dai nativi e ripopolato dagli stranieri (ce ne sono a nord come a sud). Quindi, se cambierà qualcosa, cambierà soltanto in quei casi.

Ma persino in quei casi, c’è un trucco. Molti di quei bambini stranieri in realtà sono nati in Italia, da genitori stranieri. Siccome non basta nascere su suolo italiano per ottenere la cittadinanza, costoro risultano all’anagrafe stranieri anche se sono qui da sei, undici, diciotto anni. Ed è brutto da dire, ma in tanti casi lo sono davvero. Perché non basta nascere in Italia, se cresci in una famiglia dove l’italiano non si parla o si parla male, la tv via sat manda solo film di Bollywood non sottotitolati, i tuoi amici sono tutti cinesi, eccetera eccetera eccetera.

A questo proposito, la Gelmini non ha perso l’occasione per confermarsi Gelmini, ovvero: nel giro di tre giorni ha già affermato una cosa e poi l’ha rimangiata. Prima ha detto ‘tetto del 30% per gli alunni stranieri’ (e giù titoloni in prima pagina), poi ha precisato ‘Esclusi dal tetto delle classi gli stranieri che sono nati in Italia’ (titoletto nelle brevi). Che differenza c’è? Per me, tutta la differenza del mondo. Le classi in cui insegno oggi sforano allegramente il 30% di stranieri. E non sono classi semplici, per inciso. Ma se conti soltanto quelli nati all’estero… ecco che rientra tutto nella norma. Fine del problema, anzi, quale problema? Se sono nati in un ospedale italiano sono perfettamente integrati, no? Le infermiere li avranno immediatamente attaccati al biberon della lingua italiana. I genitori avranno deciso di parlare soltanto italiano in casa per aiutarli a integrarsi meglio. Del resto gli stranieri della seconda generazione, si sa, sono quelli che si integrano più facilmente… (NB: STO SCHERZANDO. Gli stranieri della seconda generazione sono quelli che più faticano a integrarsi in generale. C’è una letteratura scientifica enorme sul problema. La generazione che la Gelmini non considera è quella che in Francia ogni tanto mette a ferro a fuoco la banlieue: forse perché li hanno integrati troppo, ragazzacci viziati).

Insomma, sul piano pratico, cosa succederà? In alcune aree metropolitane i presidi si scambieranno un po’ di iscrizioni alla prima classe, onde evitare i “ghetti”. Il che è relativamente facile, ora che sappiamo cos’è un “ghetto” per la Gelmini. Un “ghetto” è una classe con più di uno straniero su tre. Siccome si va verso una media di trenta studenti per classe, se undici sono nati all’estero, è ghetto. Se sono solo dieci su trenta, no, non è ghetto. Se dieci sono nati all’estero e altri venti sono bengalesi nati in un ospedale italiano, tutto ok! Probabilmente si sente fragranza di curry da tre isolati, ma per la Gelmini non è un ghetto.

Non so se vi rendete conto della portata di questa riforma. Da decenni in tutta Europa sociologi, pedagoghi e quant’altro si dedicano al problema dell’integrazione nelle scuole multietniche. Poi arriva il ministro Gelmini, e in poche ore risolve il problema: per legge. Da qui in poi se sei nato in Italia sei integrato. Fine. Il tuo compagno nato a Mumbai che vive qui da tredici anni e non sa parlare l’hindi potrebbe porre dei problemi d’integrazione, e quindi rientra in una quota stranieri: tu no, anche se vivi in un sotterraneo con la tua famiglia di cucitori cinesi e in otto anni di scuola dell’obbligo non hai ancora imparato a formulare una frase in italiano. Però sei dei nostri! Ce l’hai scritto sulla carta d’identità: nato in Italia! Come? No, non è valida per l’espatrio. Perché non sei cittadino. Sei dei nostri solo quando ci fa comodo. Per esempio, quando dobbiamo dimostrare all’Elettore Leghista Medio (d’ora in poi ELMO, per comodità) che gli abbiamo risolto un problema.

Quando poi Elmo si renderà conto che l’abbiamo fregato… quando suo figlio si ritroverà nella classe odorosa di curry di cui sopra… beh, probabilmente darà la colpa alla sinistra. Alla sua politica dell’accoglienza indiscriminata. Hanno rovinato questo Paese, maledetti.
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Identità è una statuetta pitturata

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Presepi viventi, presepi morti

Una cosa che non ho ancora capito, malgrado il meritevole sforzo dei giornalisti accorsi a Rosarno, è se questi immigrati clandestini, che raccolgono pomodori a venti euro la giornata, dormendo su giacigli di cartone in compagnia dei topi, e ogni tanto si prendono pure qualche pistolettata dai locali... dicevo: una cosa che non ho capito è se siano musulmani o no.

Ed è strano, perché fino a ieri mattina sembrava l’unica cosa importante, quando si parlava di stranieri in Italia. Qual è il motivo per cui non si integrano? Forse perché vengono pagati una miseria? No. Perché vivono in condizioni disumane? Macché. Il motivo per cui non si integrano – almeno a sentire i più prestigiosi corsivisti del Corriere – non ha niente a che vedere con queste banali condizioni materiali. È un motivo ben più alto, spirituale. Insomma, è Allah. Tant’è vero che, come dice Sartori, solo i musulmani rifiutano di integrarsi.

Gli altri si integrano benissimo, no? Prendi i cinesi. Chi di voi non ha un amico cinese. Son così simpatici i cinesi, e si sono integrati così bene. Quel loro modo così occidentale di comprare rustici in campagna, chiuderci dentro una ventina di cottimisti e farli lavorare giorno e notte… in fin dei conti è anche quello un modo per integrarsi, no? Perché alla fine dei conti quelli che gli danno le commesse sono imprenditori italiani, no? E i rustici, in campagna, o i garage in via Sarpi, chi glieli vende?

Ma il musulmano non fa così. Il musulmano ha delle brutte abitudini. La preghiera del venerdì. Il Ramadan. Vade retro. Sono tutte manifestazioni del suo rifiuto ad integrarsi. Ed è per quello che protesta.

Non vuole garanzie, non vuole diritti, no, lui vuole di più. Il musulmano vuole attentare alle nostre radici, punto e basta. Lo scriveva anche ieri Panebianco. I neri di Rosarno non avevano ancora smesso di prendersi le pistolettate, e Panebianco sul Corriere aveva già individuato i responsabili. Sapete di chi è colpa se c’è una rivolta a Rosarno? Non ci credereste mai, sono gli intellettali liberal, “(e cioè politicamente corretti)”. Siamo noi che li abbiamo invitati qui. O credevate che fuggissero da una carestia mondiale, seguendo inconsapevolmente, in quanto offerta di manodopera a basso costo, un principio del libero mercato?

No, probabilmente essi vivevano beati nei loro tucul africani finché noi intellettuali liberal “(e cioè politicamente corretti”) abbiamo bombardato i loro pacifici villaggi con copie gratuite di Micromega. Costringendoli a venire qui. In cerca di condizioni migliori? No. Quello che veramente li ha spinti sulle nostre belle spiagge è il desiderio di toglierci le nostre belle tradizioni, a cominciare, indovinate… dalle statuine del presepe.


Proprio così. Il giorno che ricorderemo come l’inizio della rivolta di Rosarno, Panebianco dedica un capoverso del suo atto di accusa a quelle scuole (cinque? Sei? Fossero anche una dozzina?) che per risibili questioni di integrazione non hanno fatto il presepe. Altro che topi nelle baracche: il presepe. È quello il problema, secondo Panebianco.

Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni. Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell'integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà.

Voi capite, il bimbo musulmano che non fa il presepe comincia a pensare “ehi, non lo fanno per rispetto a me, che mammolette! Non vedo l’ora di crescere e chiedere l’abolizione degli spaghetti! Oggi il presepe, domani il festival di Sanremo!” Ecco, nel cervello di Panebianco (e dei suoi lettori) il futuro probabilmente feroce scontro di civiltà scoppierà così. Non saranno neri derelitti che escono dalle loro tane puzzolenti e chiedono di essere rispettati per il lavoro che fanno: no, saranno adolescenti arroganti perché da bambini non li abbiamo esposti alla miniatura di Bue, Asinello e Bambino Gesù.


E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri.

Già, chissà cosa raccontano. No, sul serio, cosa raccontano? Che la polenta è un cibo demoniaco? Che la pizza in realtà è un’invenzione africana? Che il campionato italiano di calcio ultimamente è una palla tremenda? Sia come sia, quello che succede a Rosarno è anche colpa loro. Ovvero, nostra. Insomma, mia. Soltanto mia? Eh, no, troppo facile. Panebianco, sapete, non è uno che si nasconde: e ha il coraggio (notevole, diciamo, per un corsivista del Corriere) di prendersela con una categoria molto meno toccabile: i preti.

Questi preti che invece di pensare alle tradizionali statuette, si dedicano all’accoglienza del loro prossimo. Questi preti che sfamano chi è affamato, dissetano chi è assetato, alloggiano chi è sfitto, curano chi è malato, ma che razza di cristiani sono? Pensassero di più a collocare il Bue e l’Asinello e meno alla cura di ‘sti maledetti samaritani a venti euro la giornata, che tolgono lavoro agli schiavi italiani.

La prossima volta che vi friggono un discorso a base di paroloni come Identità o Tradizione, pensate, per favore, al presepe di Panebianco. Secondo lui i preti sono "troppo accoglienti": da un punto di vista razionale potrebbe avere anche ragione, qualsiasi spazio limitato non può accogliere tutti, e l'Italia non fa eccezione. Ma i preti non sono razionali: sono preti. Se accolgono tutti indiscriminatamente, è perché glielo ha detto Gesù, a chiare lettere, nel Vangelo. E quando a saper leggere il Vangelo erano ancora pochi, i preti hanno inventato strumenti come il Presepe, che servivano proprio a ricordare il principio: Giuseppe e Maria erano due viaggiatori senza un tetto, e Dio si è incarnato in mezzo a loro. Prima di essere una tradizione, il Presepe era una lezione sull'ospitalità. Ma Panebianco non lo sa, o se l'è dimenticato, o non gli interessa. A lui interessa il Presepe in quanto tradizione, ovvero statuetta, guscio vuoto che non spiega più niente a nessuno, rimandando solo a sé stesso. E bisogna averne di cose vuote in testa, per vedere le baracche di Rosarno e di non accorgersi di quel che sono: presepi viventi, in mezzo a noi. Che frigniamo se ci toccano le statuette dipinte.
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Di veli e mezzelune

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I segreti dell'altalena

“Papà”.
“Sì, bambina mia?”
“Senti, c'è una cosa che è da un po' che ti devo dire, però mi devi promettere che non lo dici a nessuno”.
“Cos'è successo, bambina mia”.
“Senti, sai quando andiamo nel parco a volte al pomeriggio”.
“Sì”.
“Che tu ti metti sulla panchina a leggere il Giornale e io vado sull'altalena e a volte veniva anche la Lorenza”.
“Cosa c'è, vi siete picchiate di nuovo? Adesso sua madre mi sente...”
“No, no, non mi ha fatto niente la Lorenza. Non è questo”.
“Ah. Del resto è un po' che non si vede più”.
“Sua mamma non vuole più portarla”.
“Nel parco? Cos'è, ha paura di te adesso”.
“Ma no, no, papà. È che sta andando da un dottore, però non è come il dottore che ti mette il termometro, è una specie di dottore della testa, che ti mandano da lui quando vedi le cose strane”.
“Le cose strane? Perché, cosa ha visto Lorenza?”
“Ma niente, papà”.
“Non riesco a capire”.
“Neanch'io papà. È tutto cominciato due settimane fa anzi no forse tre perché mi ricordo che non c'era ancora nell'angolo il venditore di castagne”.
“Allora è più di un mese”.
“Insomma, quando tu mi accompagni al parco e ti metti sulla panchina, io vado sull'altalena con la Lorenza, ma a volte c'è una signora che ci spinge. Tu l'hai mai vista la signora?”
“Mah, no. È la mamma di un'altra bambina?”
“Dice che è la mamma di un bambino, ma io non l'ho mai visto il suo bambino, comunque, lei non fa proprio niente di male papà, ci spinge soltanto”.
“Ma com'è fatta questa signora”.
“È tanto bella”.
“Ah”.
“Con un velo che la copre tutta”.
“Eh?”
“Ma sì, hai presente, un velo, come la mamma della mia compagna Fatima, hai presente, però il colore è diverso, è...”
“Tutta? Non si vede neanche il viso?”
“Sì papà, si vede il viso”.
“E di viso com'è?”
“Te l'ho detto papà, è molto bella”.
“Sì, va bene, è bella, ma il viso, insomma, di che colore è? Come quello della tua compagna Fatima?”
“Un po' sì”.
“E parla italiano?”
“Sì, anche se...”
“Anche se?”
“Parla strano, insomma papà, io non è che capisco tutto quello che dice, però...”
“Però”.
“Sono cose bellissime e bruttissime”.
“Spiegati meglio, tesoro”.
“Ma per esempio ci dice che ci saranno cose molto brutte, delle battaglie, i cattivi sembra che vinceranno contro i buoni ma non dobbiamo avere paura, anche se ci saranno queste cose molto brutte... a un certo punto ci saranno degli eserciti che faranno una guerra terribile, ma alla fine vincerà lei...”
“E queste cose ve le spiega sull'altalena?”
“Sì, e ci dice per adesso di non dirle a nessuno perché è ancora presto, ma ecco, è successo che la Lorenza è andata a dirle a sua madre e sua madre l'ha portata da questo dottore”.
“Ma che dottore. Qui c'è da andare dalla polizia, altroché”.
“Dalla polizia? Ma perché, papà, è successo qualcosa?”
“E' successo che nel parco c'è una integralista islamica che fa la predica a mia figlia, mi sembra abbastanza. Ma senti, questa signora te l'ha detto come si chiama?”
“No papà”.
“Tanto di sicuro è un nome assurdo. E da dove viene?”
“Non viene da nessuna parte, papà, è sempre lì”.
“Come sarebbe a dire è sempre lì, vedrai bene se arriva da una parte o dall'altra... viene dalla parte del venditore di castagne o dalla strada?”
“Papà, te l'ho detto, è sempre lì”.
“Ed è tutta velata?”
“Sì papà”.
“Dal capo ai piedi?”
“Sì... beh, no, ai piedi porta una cosa, come si chiama, una fetta di luna...”
“La mezzaluna?”
“Ecco, sì, papà”.
“Maledetti musulmani. Ti volti un attimo e si mettono a convertire tua figlia. Ma io questa la stronco. Senti. La prossima volta che andiamo al parco...”
“Sì papà?”
“Appena la vedi ti metti a urlare, va bene?”
“Ma papà, io quando la vedo non riesco a urlare”.
“Come sarebbe a dire”.
“È una cosa strana, papà, io quando la vedo mi sento tutta bloccata, però sto bene, anzi sto benissimo, però non riesco a parlare”.
“Figlia mia! Ma cosa ti hanno fatto questi bastardi... senti, nel parco non ci andiamo più, hai capito?”
“E alla signora cosa le dico?”
“Non le dici niente! Non la vedrai mai più”.
“Ma se viene in camera mia?”
“Come in camera tua? Come fa a venire in camera tua”.
“A volte di notte è venuta”.
“Eh? Scherzi? No, è un sogno. Ipnosi. Un veleno. Insomma, non lo so. Senti, facciamo così, adesso chiamo la mamma di Lorenza e le chiedo il numero di quel dottore...”
“No, papà, per favore! Papà! La signora non mi ha fatto niente. Mi ha solo...”
“Taci te. Non hai neanche idea di cosa... Fila in camera tua”.

Cara Signora,
mi dispiace che ho parlato di te con mio papà, ma non sapevo più come fare. Adesso lui è molto arrabbiato e non vuole più portarmi al parco.
Allora ho pensato che io, a me tu stai simpatica, però forse è meglio che non ci vediamo più, e al massimo quei Tre segreti che ci devi dire li dici alla Lorenza, che lo so che voi vi vedete ancora anche se lei va dal dottore.
Però la Lorenza ce la fa a tenere i segreti, invece io cara Signora mi dispiace, mi dispiace tantissimissimo, ma con mio papà proprio non ce la faccio.
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Burqa is the new black

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Attaccati alle parabole, Daniela

In Afganistan, se qualcuno era distratto, le elezioni non sono andate tanto bene. Sì, quelle consultazioni democratiche che hanno causato una recrudescenza dei combattimenti, quelle per cui alcuni coraggiosi elettori ci hanno rimesso il dito, e parecchi soldati sono morti ammazzati. Non sono andate bene. Dopo un mese di riconteggi e di indagini per brogli, non si riusciva a capire se avesse vinto Karzai (fratello di un agente Cia) o il suo concorrente, Abdullah. A quel punto la comunità internazionale, insomma, gli USA, hanno chiesto di rifare le elezioni. E già questo non era proprio costituzionale, ma almeno si salvava la sostanza. Poi a una settimana dalle elezioni Abdullah si è ritirato dalla gara, e a quel punto è andata al diavolo anche la sostanza: le elezioni è come se non ci fossero mai state, le dita si sono tinte per niente, i morti sono morti per niente; una commissione elettorale qualunque ha deciso che il fratello della Cia resterà presidente per altri 5 anni, e questa è la favolosa democrazia afgana, che non c'è dubbio, col tempo migliorerà. Noi comunque c'eravamo andati per cose più concrete, tipo trovare Bin Laden o levare il burqa alle signore. Bin Laden ormai si è dissolto nel suo alone leggendario, ogni tanto appare nei fotogrammi sfuocati delle prime pagine; in compenso l'altro giorno al tg vedevo un giornalista italiano che intervistava una signora di Kabul! Le posava il microfono ad altezza zanzariera, e lei parlava. Quindi oggi le donne di Kabul parlano alla stampa straniera, se non è una conquista questa... Oddio, sotto quell'affare avrebbe potuto persino essere un signore baffuto, ma bisogna avere fiducia nella primavera afgana, anche in novembre.

E insomma, questo burqa risulta un po' più difficile da tirar giù. Ci avevano raccontato che era un retaggio medievale; roba da retrogradi montanari, che a Kabul le donne non vedevano l'ora di toglierselo: solo dieci anni fa, le foto delle donne costrette sotto il velo integrale vincevano i premi internazionali, davano scandalo... oggi è tutto ok, vedi una signora con un lenzuolo sulla faccia che parla al giornalista e manco ci fai caso; la foto che racconta il coraggio delle donne afgane è lo stesso lenzuolo che mostra il dito viola, complimenti signora, lei sì che è una donna liberata. Il burqa sta vincendo: ormai ci sembra una cosa normale. Qualcuno inizia a vedersi anche da noi, e non abbiamo sempre una Santanchè a portata di mano.

Eppure sconfiggere il medioevo è possibile. Ce l'hanno fatta popoli su cui non avresti scommesso un soldo, per esempio... Ripesco una foto di quest'estate. È un cartellone stradale trovato in questo bel pezzo di Chamberlain. Il cartellone non vende niente: quello che pubblicizza è il diciottesimo compleanno di una ragazza. Sì, le hanno fatto una sorpresa: per il 18mo compleanno si è trovata stampata su cartelloni stradali in scala King Kong. È stata un'idea del padre. Provate a osservare la cosa un po' dall'alto: 2009, padre casertano compra enormi spazi pubblicitari sulle strade pubbliche per mostrare foto della figlia. Ventunesimo secolo. Caserta. Padre esibisce figlia 18enne in cartelloni giganti. Se avete presente un minimo quali erano i costumi campani di cinquant'anni fa, non c'è dubbio: è successo qualcosa che ha del miracoloso, che sfida tutti gli assunti della sociologia; è come se qualcuno in mezzo secolo avesse fatto sparire i meridionali chiusi e gelosi che richiudevano le figlie nelle stanze interne, sostituendoli con un popolo allegro, pescato chissà dove, che paga un servizio fotografico alla figlia illibata e poi corre a stampare gigantografie in quadricromia per farle una sorpresa. Pasolini la chiamava rivoluzione antropologica, e come dargli torto. Certo, visto da vicino l'esperimento fa un po' paura. Però, se si tratta di decidere tra burqa e gigantografia, io non mi prendo neanche venti secondi per pensarci.

Se ce l'abbiamo fatta persino noi italiani, a diventare moderni... D'accordo, sì, ci sono ancora parecchi dettagli da mettere a punto: tante esagerazioni, scollature e tacchi a spillo, nascondono situazioni ancora retrograde (ad es., in molte ridenti cittadine se ti stuprano in gruppo è tuttora colpa tua). Però sono le stesse contrade dove negli anni Cinquanta le signore giravano a occhi bassi e volto coperto: non c'è dubbio che sia successo qualcosa di radicale e definitivo. Forse è ancora presto perché succeda qualcosa di simile in Afganistan, ma si potrebbe almeno cominciare dalle nostre musulmane. È giusto chiedere che non siano più costrette a portare un velo: è soltanto assurdo imporglielo per legge. Non si farebbe che sovrapporre una costrizione a un'altra di segno opposto, mettendo ogni povera donna tra Stato e Famiglia: ovviamente vincerà la Famiglia, e dove sarà vietato portare il velo, la donna resterà reclusa in casa. Ma questa cosa la sa benissimo il più retrogrado dei leghisti: lui non intende veramente togliere il velo a nessuno, quel che vuole è soltanto una musulmana in meno per strada.

Quello che ha funzionato con noi, non dovrebbe funzionare anche con gli immigrati? Alcuni sono tra noi da più di vent'anni, eppure non si integrano così facilmente. In certi casi viceversa si radicalizzano. Cosa c'è che non va? La scuola gliela diamo. Qualche diritto – non tanti – glielo concediamo. Li curiamo. Certo, restano nella maggior parte dei casi cittadini di serie b, senza diritti politici, però non si può dire che non facciamo niente per accoglierli. Qualche signora infatti il velo se l'è tolto, qualche ragazzina non se l'è mai messo. Ma se ne vedono ancora tante. Cos'è che non funziona.

Io una risposta ce l'ho, e avverto, non è proprio politically correct. Secondo me è un problema di parabole. Sono loro che rendono difficile l'integrazione.
È un discorso che parte da un assunto banale: cosa ha reso i costumi del padre casertano 2009 così radicalmente diversi da quelli del nonno? Tanti fattori sociali ed economici, ma tra tutti uno: la televisione. La tv ha imposto uno stile di vita e ci ha insegnato una lingua comune. È entrata in tutte le case e ha mostrato una società diversa. Nei '50 l'abbiamo scoperta, nei '60 l'abbiamo imitata, nei '70 un po' messa in discussione, dagli '80 in poi e la tv che ha iniziato a copiare noi. Con risultati piuttosto preoccupanti, ma non importa. La tv ci ha reso quelli che siamo, ma la nostra tv gli immigrati non la vedono. È per quello che restano “stranieri”. Andate a vedere nelle scuole, o nelle strade. La differenza non è tra italiano e immigrato, ma tra chi parla l'italiano della tv italiana e chi non lo parla, non lo capisce, perché a casa sua c'è una finestra aperta ogni giorno su Marocco o Tunisia.

Le banlieues dove si infrange il sogno francese dell'integrazione sono foreste di parabole. Signora Santanchè, vuole fare l'integrazione con la forza? La pianti di appendersi ai burqa, salga sui tetti, cominci a segare le parabole. È una strategia ugualmente esibizionista e arrogante, ma secondo me funziona di più.

Se non fosse che nel frattempo è la stessa tv italiana che sta mettendo in discussione la sua vocazione generalista. Sono gli stessi italiani a montare parabole, a chiedere a gran voce un palinsesto personalizzato alle proprie esigenze. È un modello che ci viene dai Paesi più avanzati: tante proposte diverse per tanti settori di mercato, senza più piazze d'incontro collettive. Quando tra qualche anno tutti avremo il nostro canale personale, non ci capiremo più. Sarà come internet, ognuno svilupperà il suo idioletto nel suo circolo di amici e conoscenti. Già oggi il dialogo tra generazioni è diventato molto difficile: tra qualche anno sarà semplicemente inutile: ognuno avrà il suo notiziario, i suoi vips di riferimento, la sua comunità sparsa per il mondo e incomprensibile al vicino di casa. In un certo senso gli immigrati ci precedono. E il burqa, perché mai dovrebbe passare di moda? Viceversa, ha qualcosa di futuristico: poter passeggiare in un mondo in cui nessuno sa chi sei, completamente libera di sottrarti dal giudizio di chi non appartiene alla tua comunità... non è un'esigenza solo islamica, anzi. Chissà, tra qualche anno farà il botto anche da noi.
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seminator di scandalo e di scisma

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Il diavolo nel ripostiglio

Nella nostra civiltà occidentale, moderna, razionale, ogni persona adulta e sana è responsabile per le azioni che commette. Possiamo essere guidati da motivazioni che non controlliamo del tutto – delusioni amorose, tracolli professionali, ci hanno toccati da bambini – ma se le invochiamo come attenuanti non siamo più adulti, o non siamo più sani di mente.

Mohammed Game era sano e adulto quando si è fatto esplodere davanti a una caserma di Milano. È interamente responsabile di tutto il male che ha procurato. Per primo a sé stesso, strappandosi una mano e i bulbi oculari. Per secondo alla sua famiglia; alla compagna italiana Giovanna, ai due figliastri Davide e Alessandro, ai due figli Islam e Omar. Di cui nessuno parla più, perché Game col suo attentato fallito non è nemmeno riuscito ad attirare più di tanto l'attenzione sul degrado in cui viveva con la sua famiglia: quattro bambini e una donna in un bilocale occupato abusivamente da sette anni, in cui non funzionano i servizi. Lavavano i bambini in una bacinella, conservavano le torte di compleanno in un armadio. In una situazione del genere, mesi fa, Game si era fatto intervistare da CronacaQui Milano: aveva messo da parte la dignità e aveva chiesto aiuto alle istituzioni. Ma ogni adulto è responsabile di quello che fa, della donna con cui si mette e dei figli che decide di avere: non è colpa del comune che non ti ha trovato una casa, dei clienti che non ti pagavano le fatture (150.000 euro non riscossi?) quando gestivi un'impresa (45 dipendenti? Sembrano numeri favolosi), dell'alcol che nessuno ti ha messo in bocca per forza.


Mohammed Game si era insomma cacciato, con tutte le sue responsabilità, in una situazione in cui molti (io tra loro) avrebbero cominciato a pensare di farla finita, anche senza tirare in ballo Allah e l'Afganistan. In questi casi può darsi che il ruolo di Allah sia essenzialmente di copertura; necessità di dare un senso finale a una vita sbagliata, anche e soprattutto nei confronti di una comunità che ricorda meglio i martiri dei falliti. Game si era riavvicinato alla religione di recente, dicono. Ma insomma anche Allah, anche l'Afganistan, sono fattori che possono aiutarci a capire ma non a perdonare: ognuno è responsabile del male che fa.

Due settimane prima di farsi saltare in aria, Mohammed Game incontrava Daniela Santanchè (lei stessa lo ha riconosciuto tra i suoi oppositori più arrabbiati). Era venuta alla festa di fine Ramadam, con la scorta, e pare che cercasse di strappare il velo alle donne presenti. Dico “pare” perché ognuno ha visto una cosa un po' diversa: secondo alcuni la Santanchè ha aggredito e non è stata aggredita; secondo lei è stata picchiata da un uomo che aveva un braccio ingessato; un altro voleva usarle contro un pezzo di segnaletica stradale. “Mi hanno detto che sono una puttana, che domani sarò morta, che faccio schifo”. Al pronto soccorso le riscontrano contusioni toraciche estese con una prognosi di venti giorni.

Anche Daniela Santanchè è adulta, sana e responsabile. Benché abbia avuto un'infanzia non semplice. Il padre, dice, “le ha rovinato la vita”. La madre la riempiva di sberle, le tirava i capelli (“mi stupisco ancora di averne tanti”). C'è un dettaglio in particolare, che può spiegare (non scusare) lo zelo con cui cerca di liberare le donne come lei dalle costrizioni famigliari: uno sgabuzzino in cui ha passato, da bambina, interminabili ore:

Ci finivo se rispondevo male, se non rispettavo apposta gli orari che mi davano, se non raccoglievo le cose da terra. Io ci morivo, ma non facevo un plissè, una piega, e tanto meno urlavo “aprite”. Mai! Stavo lì, con tutti quegli scaffali pieni di scarpe, che non so più quante volte ho contato. E infatti erano sempre i miei fratelli che intervenivano per farmi uscire. Mia sorella, che è molto più buona di me, una santa, andava da mia mamma a dire: non sentiamo più Daniela, mamma falla uscire, Daniela poi non lo fa più. Alla fine mi aprivano, ma intanto io là dentro ero morta di paura, con il buio, le scarpe che diventavano fantasmi, e i rumori, per cui mi turavo le orecchie per non sentire nulla. E ancora adesso, per quelle cose, ho paura a restare chiusa negli ascensori

A scuola viene espulsa per essersi gettata a terra all'improvviso. Lo stesso gesto – coincidenza – descritto dagli islamici a cui ha rovinato la festa... Basta così. Certo è affascinante, il gioco delle cause e degli effetti. Una famiglia in bolletta perde gli occhi e la mano del padre, perché? Perché il padre si è fatto esplodere contro una caserma, perché? Aveva visto una rappresentante politica italiana trattare la sua comunità con prepotenza, perché? la politica in questione ha subito traumi infantili, i genitori la chiudevano in uno sgabuzzino, perché?... Già, chissà quali frustrazioni stavano sfogando in quel momento i genitori, chissà quali traumi a loro volta... no. Noi, in occidente, abbiamo deciso che la giustizia non funziona così. Forse l'Occidente è nato proprio in quel momento: quando abbiamo stabilito che è ognuno è responsabile del suo singolo segmento di azioni. La madre di Daniela Santanchè è responsabile di averle tirato i capelli. Mohammed Game è responsabile del male che ha fatto a sé stesso e ai suoi. E Daniela Santanchè, di cosa è responsabile?

Ci pensavo oggi, mentre guardavo il siparietto pro-crocefisso organizzato su Domenica Cinque, all'ora in cui le brave donne italiane sparecchiano, e il resto della famiglia si butta sul divano a digerire. Appena in tempo per scoprire dalla bocca della Santanchè la verità sul profeta Maometto: “per la nostra cultura era pedofilo” (evidentemente “la nostra cultura” è retroattiva). Non si sono fatti mancare niente: Sgarbi che sogghigna e tace, tanto è lì solo a mo' di bollino (se c'è Sgarbi è roba di cultura); l'enorme crocione sul maxischermo; il musulmano arrabbiato che se non lo tengono la mena, stavolta senza gesso ma con un copricapo molto caratteristico, complimenti al casting; la D'Urso che profitta del lancio pubblicitario per esprimere una profonda verità: “il crocefisso non dà segno di alcuna discriminazione, il crocefisso tace”. Ci mancherebbe anche che parlasse – a pensarci bene taceva anche il fascio littorio... e la svastica? Parlava? No, quindi neanche lei dava segni di discriminazione, riflettiamoci bene...

La storia della sposa bambina di Maometto su internet è moneta corrente. Ma piazzata su Domenica Cinque la domenica alle tre è puro tritolo – no, fertilizzante. Ne parleranno i bambini alle elementari, domani: se sanno cos'è un pedofilo lo andranno a dire al compagno musulmano: ehi, ma è vero che il tuo profeta è un pedofilo? Il compagno musulmano tornerà a casa e farà qualche domanda a mamma o papà. Ma da lì in poi si torna tra adulti, e gli adulti sono responsabili: se qualche madre o padre si farà esplodere, sarà esclusivamente colpa sua. Non possiamo dare la colpa alla Santanchè. Lei in fondo non è che l'incarnazione estrema della fregola che ci sta prendendo tutti: liberare gli altri con la forza. Porti il burqa? Te lo togliamo o ti mettiamo in galera. L'obiezione più banale (per evitare la galera le donne non usciranno più di casa) non interessa più. Evidentemente il problema è il burqa che vediamo per strada, non l'effettiva libertà della persona che ci sta sotto.

In questo modo trasferiamo all'autorità problemi che fino a qualche anno fa riguardavano la coscienza. Non ci passa più nemmeno per la testa che il problema è convincere una donna (e soprattutto un uomo) che quell'indumento è sbagliato. No, nessuna opera di convincimento: via il burqa o chiamiamo i carabinieri. E in fondo la stessa cosa dovrebbe succedere per il crocefisso: perché perdere tempo a convincere la maggioranza degli italiani che non va esposto nei luoghi pubblici? Ci pensino i giudici, noi siamo stanchi di parlare alle coscienze. Non c'interessa più convincere qualcuno, vogliamo solo la rimozione del simbolo fisico, e poi saremo contenti. Se poi l'effetto collaterale fosse un irrigidimento della comunità cattolica, e l'aumento d'iscrizioni alla scuola confessionale, tanto peggio: meno baciapile tra le scatole. Eppure una scuola laica è l'unico luogo dove uno studente di famiglia cattolica può crescere mettendo in dubbio la fede dei genitori. Eppure la strada è l'unico luogo dove una donna in burqa, davanti a una vetrina o al parco, può scegliere autonomamente di toglierselo: non perché una signora arrabbiata glielo strappa via, ma perché lo ha deciso lei, con la sua coscienza. Ma la coscienza ha tempi troppo lunghi, noi vogliamo giustizia subito, con tutta la forza necessaria.

No, Daniela Santanchè non è colpevole degli attentati che ci sono stati e di quelli che ci saranno. Non secondo la nostra cultura moderna e occidentale. Però io non sono del tutto moderno e occidentale, e in un fotogramma di questo video ho visto il diavolo. È un istante così breve che non riesco neanche a fermare l'immagine: verso il 1:12 il volto un po' bambolottesco di Daniela Santanchè ha un guizzo di felicità curioso, visto le cose gravi che sta dicendo. Potrebbe trattarsi semplicemente di un'esitazione nel copione imparato a memoria, la tentazione di buttarla in ridere, tutte spiegazioni razionali: ma io non sono del tutto razionale, io lì ci vedo il diavolo che esce un attimo dal volto di Daniela Santanchè e si compiace del suo capolavoro. Il diavolo che forse la piccola Daniela incontrò in quel ripostiglio buio, che le entrò negli occhi che non volevano piangere, e che poi ha covato per tutti questi anni. È un'idea un po' romantica, un po' medievale. Del resto, se fossimo nel medioevo io non avrei dubbi sulla responsabilità, anzi, la colpa, no, ancora meglio, il peccato di Daniela Santanchè: addirittura potrei già formulare predizioni attendibili sul suo destino nell'aldilà, consultando il manuale di Dante Alighieri: Inferno, ottavo cerchio (fraudolenti), nona bolgia (seminatori di odio): sì, esattamente lo stesso indirizzo di Maometto. A lui, e al cugino Alì, un diavolo con un enorme bisturi strazia le carni, che si ricompongono poco dopo pronte per essere di nuovo dilaniate. Suona molto sinistro e familiare, l'inferno. Come se non ci aspettasse più, come se fosse già qui tra noi.
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...e non ne rimase nessuno

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12 piccoli indiani


Ma se domani, per dire, mi portassero davanti a una collaboratrice del ministro Gelmini, e mi chiedessero come la penso delle sue proposte sulle quote-stranieri nelle classi, ce la farei a organizzare un discorso coerente? Non ne sono così sicuro. Comunque direi qualcosa del genere:

 - Il Ministro Gelmini diceva in settembre che In alcune classi la presenza degli immigrati sfiorava il 100%: “queste”, diceva, “non sono le condizioni adatte per favorire l’integrazione”. Beh, in effetti no.

- Ma qui c'è qualcosa che non torna. In Italia ci sono tanti immigrati, ma non così tanti. Esistono davvero questi piccoli comuni padani letteralmente occupati da stranieri?

- Nel caso di Luzzara, che ha fatto un po' discutere (una scuola dell'infanzia ha dovuto istituire una classe di soli bambini di origine straniera), basta avvicinarsi un po' per scoprire che lì nei pressi c'è una scuola parrocchiale dove probabilmente gli immigrati non vanno. Ecco svelato il mistero: i bambini italiani ci sono. Ma i genitori li iscrivono altrove.

- I genitori. Quasi nessun genitore è razzista, ma tutti vogliono il meglio per i loro figli. I cognomi stranieri li spaventano. Almeno il primo giorno: di solito a ottobre sono già molto più tranquilli. Ma quelli che avevano veramente paura ormai hanno già iscritto il figlio altrove: per esempio a una paritaria. Però la paritaria è finanziata con fondi degli enti locali e coi buoni scuola dello Stato, per cui dovrebbe aiutare a risolvere il problema, non crearlo.

- Anche dove non c'è la paritaria, ti capita di trovare lungo lo stesso corridoio una classe con 12 alunni di origine straniera e una classe 100% italiana. Cosa succede? Succede che ogni scuola propone ai genitori avveduti, nel suo Piano dell'Offerta Formativa, qualche espediente per non infilare il proprio figlio in una classe troppo multiculturale (insomma, un negretto ogni tanto ci sta anche bene, ma che non siano troppi). Ad esempio: i corsi di strumento musicale, i corsi bilingue con una seconda lingua un po' più difficile, come il tedesco (mentre i nordafricani, si sa, scelgono tutti il francese...) Così già alle medie abbiamo classi col numero chiuso: è chiaro che lì arriveranno più facilmente bambini che non hanno problemi di integrazione. Di solito italiani, ma anche figli di immigrati ormai integrati che magari parlano italiano anche in famiglia.

- Ora, se io accetto che si formi una classe di 28 bambini senza problemi di integrazione (in in una pubblica o un una paritaria) sto anche accettando che da qualche altra parte si formi una classe di 28 bambini che hanno problemi di ogni tipo. Non solo di integrazione: potranno provenire da famiglie disagiate, o soffrire di particolari disturbi (a proposito, ci avete tagliato gli insegnanti di sostegno). Per cui non solo gli studenti stranieri tendono ad essere ammucchiati nelle stesse classi, ma anche gli italiani in quelle stesse classi sono già in partenza più problematici. È un sistema che si morde la coda: l'ansia dei genitori di non iscrivere il figlio a una classe ghetto finisce col creare una classe ghetto, nella quale l'anno successivo un altro genitore cercherà di non iscrivere il figlio, e così via.

 - Gli stessi genitori poi si scandalizzano se qualcuno comincia a proporre classi-ponte di soli stranieri da alfabetizzare. Però se si accettano criteri di preselezione degli studenti, è chiaro che per ogni classe d'élite da qualche parte si formerà un ghetto.

 - Se si vuole andare verso un modello di scuola autonoma in concorrenza con le altre (e lo so, Onorevole, che lei ci vuole andare), si accetta un modello preciso, di marca anglosassone. Ora, tra le tante cose buone e cattive che ci sono arrivate dagli USA e dalla Gran Bretagna, mancano ancora i riots razziali. Quelle rivolte che scoppiano nei quartieri-ghetti per mano di una gioventù che non si riconosce nella nazione in cui vive più o meno dalla nascita. Se laggiù le cose vanno così, perché non dovrebbe succedere anche da noi? Vi lamentate che rischiamo il Londonistan, e poi ci proponete una riforma all'inglese. Ehm.

 - Invece la scuola che abbiamo oggi, per quanto confusionaria e maldestra, è il primo strumento d'integrazione delle famiglie straniere, e in certi casi l'unico. Non buttiamola via. Facciamo anche scuole private finanziate da fondazioni, ma obblighiamole a prendere su di sé la loro quota di studenti immigrati e disagiati. Un 30% mi sembra ragionevole.
Però in tutte le scuole, comprese le paritarie (altrimenti cosa intendete fare, caricare il surplus di studenti stranieri sui pulmini e portarli nelle scuole di altri comuni? Suona un po' sinistro). Certo, molte delle scuole paritarie sono confessionali. Vorrà dire che dovranno esserlo un po' meno, nello spirito della Costituzione. E poi comunque il crocefisso al muro c'è anche nella scuola pubblica; per l'alunno musulmano non è che cambierà molto.

 - Invece se parliamo di quota di stranieri in una classe, il 30% mi sembra in realtà un tetto molto alto: 9 su 27, domani 10 su 30! Una classe così, a occhio, mi sembra già un ghetto potenziale. Meglio spalmare. Dove ci sono venti stranieri e dieci classi, due stranieri in tutte le classi. Tutte, anche le classi un po' 'speciali' con la lista di attesa. I genitori brontoleranno, ma dobbiamo essere consapevoli che è proprio la nostra inclinazione ad assecondare il brontolìo dei genitori che alla lunga crea il ghetto.

 - Il 30% comunque è un'imposizione dall'alto: non sarebbe il caso di lasciare una maggiore autonomia di scelta a insegnanti e dirigenti scolastici? A volte per evitare una classe troppo straniera si separa una persona dall'unico compagno che parla la sua lingua e può fargli da ponte.

 - Il 30%, infine, è uno slogan, pronunciato per giunta nel momento più sbagliato: le classi si fanno in luglio, il Ministro comincia a parlarne in settembre. Ma a settembre i genitori vanno a vedere l'elenco della classe del figlio nella bacheca della scuola, trovano un sacco di cognomi stranieri, e non capiscono perché il Ministro dica una cosa e la scuola ne faccia un'altra. Il personale scolastico andrebbe trattato con maggior rispetto: prima di lanciare slogan che giornalisti e genitori recepiscono immediatamente, bisognerebbe condividerli con dirigenti e insegnanti. Altrimenti di fatto l'insegnante è messo in mezzo tra un Ministro che a volte sta solo pensando a voce alta e un genitore convinto che il pensiero sia già stato tradotto in legge.

 - Perché poi a trasformare le boutades in realtà servono risorse, e voi le risorse ce le state tagliando. Una scuola che non ha più fondi per organizzare corsi di alfabetizzazione non fa più integrazione. Il personale ci sarebbe, le strutture anche: mancano i soldi. E allora in realtà di cosa stiamo parlando? Se siete convinti che l'integrazione sia necessaria, bisogna finanziarla. È senz'altro un investimento sul futuro, sui riots che avremo o non avremo, sui geni potenziali che potrebbero inventarsi il made in Italy di domani e che oggi stanno in una classe dove nessuno riesce a insegnar loro a spiegarsi in italiano.

 - A proposito, non è vero che un bambino infilato in una classe italiana senza che conosca una parola di italiano dopo un po' parla e scherza coi compagni. Ovvero, a volte effettivamente accade, ma il più delle volte no. C'è gente che rimane in silenzio a fissare una parete per anni interi. Vi rendete conto cosa sia rimanere seduti per anni interi a sentire una lingua che non vi è chiara? Perché è quello che stiamo facendo passare a questi bambini. È difficile pensare che in seguito ameranno la loro patria di adozione. Magari se ne torneranno in Bulgaria e s'inventeranno il Made in Bulgaria.

 Sullo stesso, annoso argomento:
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Il Merlo maschio

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Ma voi sapreste dire esattamente cosa c'è di sbagliato in un burkini? Ovvero, cosa c'è di sbagliato nel recarsi in una piscina insossando un indumento che copre quasi del tutto le forme femminili?
È una questione di praticità, di igiene, di sicurezza? No, l'indumento è fatto apposta per essere adoperato in piscina.
Non si può identificare il volto di chi lo indossa? E perché mai, se l'unica cosa scoperta è il volto? (peraltro, finché lo usano tre in tutta Italia, l'identificazione ha l'aria di un falso problema).
Spaventa i bambini”? Ecco, questo invece sì che è un vero problema. Bambini italiani che si spaventano davanti a figure femminili completamente coperte... E poni che un giorno per sbaglio passino davanti a una statua della Madonna (in Veneto se ne trovano alcune), ti immagini lo choc?

Più probabilmente è una questione religiosa, e cioè: il burkini non va bene perché è roba islamica. Infatti, se se lo infila una ragazza italiana allergica al cloro, nessuno si preoccupa: il burkini ridiventa una comunissima “muta”, i bambini non si spaventano più, il bagnino non si attiva, i giornalisti non ne scrivono niente. È come ritrovarsi e inginocchiarsi in piazza: tutti lo possono fare, è garantito dalla Costituzione... ma se si scopre che stanno pregando in arabo non va più bene, scandalo (“Ma avevamo chiesto il permesso” “Non importa, è uno scandalo” “Ma c'è libertà di culto...” “Sì, ma mica in piazza”).

Se tutto questo ancora non vi basta per trovare esecrabile il burkini, se insomma siete alla ricerca di una ragione in più per odiarlo senza passare per bambini frignoni o comunissimi islamofobi, Repubblica di giovedì scorso vi dava un ulteriore motivo, forse determinante. O no? Insomma, valutate voi. Il burkini è sbagliato perché eccita Francesco Merlo.
Esatto, proprio così. L'indumento riprodotto nella foto sopra ha il potere di risvegliare gli appetiti sessuali del siculo editorialista.
Il bikini, che passa inosservato, è più casto del burkini che morbosamente, almeno nelle nostre piscine, spinge a indagare e a spiare le forme dei corpi femminili. E di sicuro il Corano invita al pudore ma non al martirio come espediente erotico. Fermo restando che in Europa ciascuno ha il diritto di coprirsi come vuole, anche quando fa il bagno in piscina o al mare, non ci pare soltanto ridicolo che una signora si immerga con una specie di aderente cappotto. Fosse un abito da sera ne subiremmo il fascino, e potremmo anche regalarlo alle nostre donne che, in certi momenti, giocano a lasciare indovinare cosa c' è sotto un vestito castigato tra luci, calici e sorrisi di sana seduzione [Non male. Se il burkini fosse un abito da sera, sarebbe un regalo da maschio latino. E se avesse le rotelle sarebbe un carrello della spesa, aggiungerei]. Al contrario, in piscina, una donna in abito da sera viene subito spogliata dagli sguardi maschili.
A questo punto sorge spontanea una domanda: Merlo, che piscine frequenti? Donne in abito da sera, sguardi maschili che spogliano... no, così, per curiosità, che orari fanno? Ci sono sconti per i dipendenti pubblici? Eh, no, niente, mi ero distratto. Torniamo al pezzo.
Mettete, per dire, una suora in una piscina
Che idea. Sul serio: perché non mettiamo una suora in piscina? Ma se la suora preferisce di no (non possiamo mica obbligarla, noi), perché non la mettiamo almeno ogni tanto in prima pagina? Insomma, la storia ci sarebbe: decine di migliaia di donne nella sola Italia che in qualsiasi stagione, in barba ai costumi correnti, vanno in giro coperte dai capelli in giù: sostengono di farlo per libera scelta, ma sarà vero? Anche le mogli islamiche dicono così, mica la beviamo. E sapete una cosa? Molte di queste signorine lavorano nelle scuole! Nelle stesse scuole dove una musulmana non può coprirsi i capelli perché... “spaventa i bambini”.

Ma tergiverso. Torniamo a Merlo, e al suo esperimento mentale: cosa succede se tuffiamo una suora in piscina? Beh, secondo il principio di Archimede, dovrebbe riaffiorare. Certo, con quei vestiti... ecco, in questo caso un burkini le farebbe persino comodo, tuttavia...
No, scusate, sono sulla cattiva strada. A Merlo non interessa la suora in quanto corpo grave immerso in un fluido, bensì come fonte di interesse lascivo. Come, pure la suora? Ebbene sì, essa pure.
Mettete, per dire, una suora in una piscina e vedrete come accenderà i più lascivi: gomitate, risatine...
Ora io non so che suore ci siano dalle vostre parti, ma l'immagine di una di quelle che ho frequentato io, siano clarisse o delll'ordine del SS. Cuore di Gesù, immersa in una piscina, non mi accende proprio. Oserei dire che mi spegne anche un po'. C'è qualcosa che non va nella mia virilità? Ma insomma in che razza di piscine vai, Merlo? Che gente frequenti? Si danno le gomitate quando si tuffano le suore? Diciamola tutta, è quel tipo di gente che va tenuta lontana dai termosifoni tubolari, è così? Gente a cui il pastore non affiderebbe il gregge nemmeno per il tempo di una pisciatina, così hanno molto tempo libero e vanno in piscina con Merlo a guardare le suore. E non ce l'hanno una doccia fredda, in quella piscina lì? Perché, insomma, potrebbe aiutare.
Insomma queste donne in burkini rimettono in vita tutto l' eros represso dei maschi caproni, li risvegliano, li provocano al gioco dell' indovina cosa c' è sotto, se mutande e reggiseno, se tanga «e chissà com' è fatta..., e chissà quanto è rotonda». È l' eros dei nostri preti con la tonaca, quello che piaceva alla frigida Lulù di Jean Paul Sartre: il burkini, quando non è ridicolo, è un vizio.
Va bene, abbiamo capito (il pezzo continua per altre tremila battute, ma abbiamo capito). Sintetizzando ulteriormente: Il burkini cosa religiosa sembra, ma in realtà esca sessuale è.
Beh, ma fosse anche?

L'idea che nell'era di youporn qualcuno riesca ancora a eccitarsi con una muta da sub, se non facesse sorridere, sarebbe commovente: non tutto è perduto, ci sono ancora margini di erotismo inesplorati. Ditelo ai cameramen di Sarabanda che per mesi hanno seguito il fondoschiena di Belem Rodriguez che andava a tuffarsi: basta così, tornate indietro (anche perché il passo successivo sarebbe la colonscopia), l'anno prossimo fasciatela di cotone dalla testa ai piedi, garantisco che a molti basterà – perlomeno ai compagni di nuoto di Merlo.

Ma fosse anche. Siamo laici, che senso ha fare del moralismo? L'islamica ha diritto di fasciarsi, il maschio siculo di eccitarsi: chi ci rimette? Mi sembra un raro e commendevole esempio di situazione win/win. E allora?

E allora forse senza volere Merlo ha centrato il problema. Quello che ci disgusta di più, dell'Islam, non è il maschilismo. Non sono le bombe (che per ora da noi non si son viste). Quello che ci rende l'Islam più indigesto di altre religioni, è che ci assomiglia da vicino. È la nostra foto in bianco e nero, di quando eravamo più giovani e passavamo pomeriggi in piscina nel tentativo d'intravedere un'ascella: e tra gomitate e risatine si passava il sabato. Il ritratto di noi stessi da poveri, questo è l'Islam. L'Internazionale Terrona(*) che ci torna in casa – speravamo di averla fatta fuori, sommersa di rifiuti postmoderni, niente da fare: eccola puntuale col suo fardello di donne fasciate e maschi perennemente allupati. I nordici queste cose non le possono capire: noi gli arabi li odiamo come si odiano i parenti poveri. Che ci piovono in casa. E il prete dice pure che non possiamo tenerli fuori, ah, sciagura.

* (c) Lia, mi pare.
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Parlare per non capirsi

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Mi me son fato 'na lengua mia

(2013. Il mondo non è finito, purtroppo, e così i leghisti sono rimasti al potere. Trieste, sede della Regione, Assessorato alla Pubblica Istruzione:)

“Ventiquattro. No! Daccapo. Per uno, sette; per due quattordici; per tre ventuno, per quattro... per quattro... Maledigne!”
Toc, Toc.
“E adesso chi è?”
“Commissario, avremmo un problema”.
“Adesso no, sono impegnato. Sto ripassando la tabellina del set...”
“Il fatto è che tra gli aspiranti insegnanti per la regione Friuli Venezia Giulia c'è un candidato che ci sta dando dei grossi problemi”.
“E alore bocciatelo, che problema c'è”.
“Ecco, il punto è proprio questo. Non possiamo bocciarlo. Ha superato tutti i test senza fare un errore”.
“Non capisco. Se è così bravo che problemi vi dà? Come si chiama?”
“Totò di Gennaro”.
“Ah, forse ho capito. Totò sta per Salvatore?”
“No”.
“Per Antonio?”
“Neanche. Totò sta per Totò e basta, ci ha fatto vedere i documenti, lui si chiama così. E pretende che lo assumiamo”.
“Eh, certo, poi quando si ritrovano in classe un maestro di nome Totò la colpa è nostra... va bene, ai casi estremi, estremi rimedi. Fategli il test sul dialetto”.
“Ma commissario...”
“Lo so, di solito non si fa, ma questo è appunto uno dei casi. Chiedetegli due frasi in triestino e mandatelo a casa. E se verranno i giornalisti, pazienza”.
“Commissario, non creda che non ci abbiamo già pensato”.
“E quindi?”
“Il punto è che il triestino non lo sa nessuno in commissione. Lei ne parla un po'?”
“Ma che razza di triestini siete?”
“O soi furlan, o ven di Udin”.
“Eh?”
“Dicevo che sono friulano, di Udine”.
“Ah! Ma che lingua parli?”
“Friulano”.
“Ma non mica una lingua quella lì”.
“Come no, certo che è una lingua”.
“Ma no, lo sanno tutti che vi capite a gesti, come i macachi... va bene, vengo io. Voglio proprio vedere come se la cava, il Totò Esposito”.
“Totò di Gennaro”.
“Esposito, di Gennaro, stessa roba. Faccia strada”.

(Entrano nell'aula. Al centro, una fila di esaminatori terrorizzati – tutti rigorosamente nativi della regione Friuli – Venezia Giulia. Davanti a loro, Totò di Gennaro si sta pulendo l'angolo di un'unghia con studiata non chalance. Ha appena finito di illustrare il teorema di Fermat, con una meravigliosa dimostrazione che per amor di sintesi qui vi risparmio).


COMMISSARIO: “Di Gennaro Totò?”
TOTO': “Songhe io”.
“Lei mi sembra molto determinato a conquistare una cattedra nella nostra bella regione”.
“E cosa vuole mai, commissario... se debbo scegliere tra il Friuli e la disoccupazione...”.
“È meglio il Friuli”.
“Della disoccupazione? Mmmsì”.
“Però, vede, per insegnare qui da noi non basta conoscere le materie, anche alla perfezione, come lei... ci vuole un certo attaccamento che forse, da parte sua, ancora non abbiamo riscontrato... insomma, è sicuro di riuscire a interagire con gli studenti?”
“Ma sì, penso di sì”.
“Per esempio, metta che le chiedano che tempo fa... in triestino”.
“Sùfia 'n'arieta cruda e piovarà diboto: se se sera el capoto, se fica le man drento”.
“Eh?”
“Le ho risposto in triestino: soffia un'arietta cruda e pioverà fra poco: ci si chiude il cappotto...”
“Ma sì, sì, ho capito... più o meno... ma i triestini di solito non parlano così”.
“Dice di no?”
“Dico di no”.
“Sulla base di quali elementi?”
“Elementi? Non c'è bisogno di elementi, sono di Trieste e lo so”.
“Mi dispiace che lei triestino sconfessi in questo modo i versi di Virgilio Giotti”.
“E chi sarebbe questo Virgilio...”
“Il massimo poeta in lingua triestina del Novecento”.
“Poeta in lingua triestina?”
“Eh, sì”.
“Ma scusi, un conto è la poesia scritta, un conto è... il dialetto”.
“In che senso?”
“Il dialetto non è mica una cosa che si può imparare a memoria sui libri... è una cosa viva, mobile...”
“Può anche darsi: però un esame è una prova oggettiva, in cui lei mi fa una domanda e io le do una risposta. E c'è un verbale scritto, dal quale deve risultare che lei mi ha fatto una domanda in triestino e io le ho risposto”.
“E lei si aspetta che noi la promuoviamo semplicemente perché ha mandato a memoria due versi di un poeta triestino che...”
“Me 'speto senpre, 'speto incora, che fassa l'alba, che fassa aurora, e che la vegna a dame un baso, a ufrime el so geranio in vaso”.
“Ancora questo Virgilio...”
“No, questo è Marin”.
“Marino chi?”
“Biagio Marin, uno dei più grandi poeti...”
“Triestini?”
“Ma no, non lo sente? Marin è di Grado, provincia di Gorizia. Non si parla solo triestino, nella vostra bella regione”.
“Ah, perché se io le chiedessi di parlarmi in friulano, lei...”
“Na greva viola viva a savarièa vuèi Vinars”.
“Stop. Non ci ho capito niente, ma non m'importa. Lei non può fare così”.
“Così come? Sapevo che durante l'orale era previsto un esame di dialetto e me lo sono preparato; che altro avrei dovuto fare?”
“Lei non può fingere di conoscere i nostri dialetti”.
“Io non fingo niente. Ho solo imparato le vostre poesie”.
“Le nostre poesie, fantastico, adesso solo perché stiamo a Trieste o a Grado queste sono le nostre poesie”.
“Non lo sono?”
“Per esempio, io non le avevo mai sentite”.
“Ma sono sui libri, sulle maggiori antologie della letteratura italiana, e insomma io per superare la prova di dialetto cosa avrei dovuto fare? Studiarmi quindici grammatiche diverse che non sono neanche in commercio?”
“No. No. No. Il dialetto non s'impara”.
“O bella, e perché?”
“Perché... è la lingua che uno si trova in casa... ci nasce dentro, non ha bisogno di nessuno che te la insegni, capisce? È una radice. Uno ce l'ha o non ce l'ha”.
“E quindi non c'è neanche bisogno di un maestro che ve l'insegni a scuola, no?”
“Giusto. Però comunque i maestri li vogliamo tutti radicati”.
“Comincio a capire. Vi serviva qualcosa che fosse il contrario della cultura. Qualcosa che non si può insegnare, non si può imparare, non si può comunicare. E avete trovato il dialetto”.
“Appunto”.
“Ma è solo una vostra idea di dialetto. Bastava guardarsi un po' in giro per rendersi conto che anche i vostri dialetti sono lingue, con le quali sono stati scritti libri, che tutti possono leggere e apprezzare... persino un neolaureato avellinese, perché no”.
“Certo che voi meridionali siete tremendi. Facciamo una legge e trovate un inganno”.
“Credete che il triestino sia solo quello delle bestemmie dei bar, e ci hanno scritto poesie d'amore. Il più famoso poeta in friulano è nato a Bologna, è morto a Roma. E poi siete arrivati voi, che non sapete un cazzo”.
“Ehi, come si permette?”
“È un'espressione dialettale. Significa che vivete in una dimensione di non comprensione di sé e dell'altro”.
“Cioè in parole povere...”
“Non capite un cazzo, a un punto tale che vorreste fare esami sul cazzo che non capite. E pretendete pure di avere delle radici, le radici, ma dico io, del concime tossico sparso tutt'intorno ne vogliamo parlare?”
“L'esame è finito, può accomodarsi, grazie”.
“Un giorno o l'altro mi tornarò, / No' vùi fra zénte strània morir, / Un giorno o l'altro mi tornarò / Nel me paese”.
“E adesso che fa... scenda da quella cattedra”.
“Dentro le pière che i gà inalzà / Su le rovine, mi cercarò, Dentro le pière che i gà inalzà, Le vecie case”.
“Dobbiamo chiamare le camicie verdi? Scenda giù”.
“Sarò pai zòveni un forestier, / Che varda dove che i altri passa, / Sarò pai zòveni un forestier, / No' lori a mi”.
“Ma in che lingua sta parlando, qualcuno ci capisce? Sembra arabo”.
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Don't you black or white me

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I due peccati capitali di Jacko

“A questo punto perché non dite alla gente che sono un alieno che viene da Marte. Dite loro che mangio polli vivi e faccio danze vudù a mezzanotte. Crederanno in tutto quello che dite, perché siete giornalisti. Ma se io, Michael Jackson, stessi dicendo “Sono un alieno che viene da Marte e mangio polli crudi e faccio danze vudù a mezzanotte”, la gente direbbe, “Ehi, quel Micheal Jackson è fuori di testa. Completamente fuso. Non puoi credere a una sola parola di quel che dice”.

“Vorrei che non ci fosse nero o bianco, vorrei che non ci fossero regole” (Prince, Controversy)

Il cinismo, per carità, piace anche a me. Non starei altrimenti così tanto tempo su internet. E ben venga il cinico Internet, soprattutto in situazioni del genere, quando tv e giornali pretendono di commuoverti con coccodrilli polverosi estratti in fretta e furia dal cassetto.

E tuttavia c'è qualcosa di inquietante nella rapidità con cui ci siamo tutti messi a scherzare sulla morte di Micheal Jackson. Certo, era un modo per reagire all'overdose di melassa dei media e dei fan, eppure finora qualsiasi altra celebrità – non importa quanto antipatica – aveva avuto il diritto a quel quarto d'ora di rispetto post mortem che per Jacko non c'è stata. Abbiamo iniziato con le battute subito e, posso dire? Alcune non valevano nemmeno la pena.

Ma non voglio fare la morale. Mi piacerebbe soltanto capire i motivi per cui il suo cadavere ancora caldo ci è sembrato più buffo, e meno sacro, di quello di chiunque altro. Io credo che MJ, figura inattaccabile dal lato artistico, si sia macchiato di due peccati mortali, che non gli abbiamo mai perdonato, e che tuttora ci impediscono di vederlo per quello che è stato: l'eroe tragico di una vita straordinariamente complicata, e un artista immenso.

Il primo, irredimibile peccato è stato mettere a letto dei bambini in camera sua. Tutto qui? Sì, perché la polizia che setacciò Neverland non è mai riuscita a trovare niente di più, e i testimoni (radunati anche attraverso un numero verde: “sei stato molestato da Jacko? Chiama il XX-xx-xx”) non sono mai sembrati credibili alle due giurie che lo assolsero. Due volte. Il suo principale accusatore era un bambino che aveva sofferto di un cancro, a cui MJ aveva pagato le sedute di chemio. Lui, il fratello e la madre si contraddissero varie volte durante il processo. Nonostante questo, siamo tutti convinti che MJ sia stato un pedofilo. Lo abbiamo sentito dire talmente tante volte che dev'essere vero per forza. Conosco adolescenti convinti che sia stato anche in prigione.
Questo non sorprende più di tanto: al giorno d'oggi, quando è sufficiente ricevere delle palpate da uno studente per venire processati per pedofilia, un cantante dissociato che invita i bambini in casa sua e lascia che si addormentino nel suo letto non può che essere un mostro morale. Sul blog di Massimiliano Frassi (quello che “nuoce gravemente alla salute dei pedofili”), la morte di MJ è festeggiata con un fotomontaggio in cui il cantante spaventa a morte Macaulay Culkin. Chissà se Frassi ignora che proprio una testimonianza di Culkin contribuì a scagionare MJ nel secondo processo: l'attore prodigio raccontò di aver dormito tranquillamente nel letto dell'ex cantante-prodigio senza subire alcun tipo di molestie. Sì, ma cosa importa? Da Frassi si giudica, si condanna, si festeggia: “Chissà se i funerali li faranno domani, proprio nella giornata dell'orgoglio pedofilo...”, “ora tutti i bimbi avranno una paura in meno” (dai commenti).
Fu esattamente questo tipo di voci incontrollate a causare un primo esaurimento di MJ durante gli anni Novanta. La stampa che oggi finge di stupirsi per il cocktail di antidepressivi che lo ha ucciso dovrebbe farsi un esame di coscienza – non che io creda che lo farà mai. Su Internet però il discorso dovrebbe essere diverso: qui, oltre al cinismo, ci dovrebbe anche essere lo spazio per un po' di senso critico.

Un altro peccato, in apparenza meno grave, risulta altrettanto imperdonabile: il colore della pelle. Forse potremmo passar sopra al suo rapporto problematico con l'infanzia; in fondo sappiamo che il padre lo picchiava e magari ne abusava (altra voce incontrollata)... ma non era fiero di essere nero, e questo no, questo non può essere perdonato.
Dietro alla voce insistente, e ormai data per certa, del cantante che “si faceva sbiancare la pelle” (ma sosteneva di curare vitiligine e lupus), c'è qualcosa di più. Per tutti gli anni Novanta MJ era rimasto fedele a un obiettivo artistico e culturale coerente con le sue premesse di ultimo virgulto dell'orto Motown: la conquista del Bianco. Dagli esordi di bambino prodigio, subito cannibalizzato da tv e merchandising, alla svolta disco-funk di metà Settanta (quando i Jacksons si stancarono di essere trattati da boy band e passarono alla CBS), ai dischi con Quincy Jones. Tutto portava lontano dai ghetti del R'n'B, verso un pop sempre più internazionale e sempre meno “nero” – ed ecco il tabù: in un mondo che a partire dagli anni Novanta rivalutava qualsiasi steccatino e qualsiasi radice rinsecchita, Michael Jackson rimaneva un grande artista degli anni Ottanta: uno che le radici le rinnegava tranquillamente, prontissimo a disseppellirle e a rivenderle al migliore offerente per un disco di platino in più. Anche in questo tanto simile al vecchio rivale Prince, pure lui insofferente verso le categorie “black” e “white”, e pure “male” e “female”, e (avrebbe aggiunto MJ) “adult” e “child”. Jacko e Prince, pilastri di un decennio camp che citiamo a man bassa con pretese perfino filologiche, senza accorgerci che lo stiamo tradendo, che in realtà non lo capiamo già più: proprio perché il nostro obiettivo è trovare qualcosa in cui identificarci, un'Identità, un'Origine, mentre loro spingevano con tutte le forze verso la direzione opposta, l'Altro da Sé, con un coraggio che non siamo nemmeno capaci di capire. Che durante questo percorso MJ cominciasse a impallidire, è il segno d'infamia che non riusciamo a perdonargli.

Chi scherza su MJ a fossa aperta dà per scontato che la musica non ci abbia perso niente: che i fasti di Thriller fossero finiti da un pezzo eccetera eccetera. Non è proprio così. Già per gli standard qualitativi degli anni Ottanta, MJ sembrava provenire da un altro pianeta, nella costellazione del Professionismo Assoluto, ultima traccia del retaggio Motown. Per favore non paragonatelo a Madonna, che canzoni ha scritto Madonna? Ha inventato un solo passo di danza? Puoi riconoscere Madonna semplicemente da un suo acuto? Poi è anche vero che rispetto a tutte le sciacquette che sono venute dopo, Madonna giganteggia: ma MJ era in un'altra categoria. Oggi sappiamo che dietro a quel sogno di perfezione c'era un padre coercitivo e manesco. Ma quello che ci ha dato è difficile da liquidare. Nemmeno dieci anni fa, con la pelle e il volto in disfacimento, Jacko componeva ed eseguiva ancora pezzi complessi e irresistibili come You rock my world, di fronte ai quali i pompatissimi ed esausti epigoni della scena pop dell'ultimo decennio devono andare a nascondersi, subito.

Questo era Michael Jackson. Io che non ho mai avuto in casa un disco suo, che ai pezzi dei bambini prodigio preferisco quelli dei trentenni stonati, ci terrei però a ribadire un punto: era un genio. Ha avuto una vita difficile; ha fatto montagne di soldi, ma è discutibile che se li sia goduti davvero. La prossima sonda da lanciare nello spazio profondo con qualche prova del valore dell'umanità dovrebbe contenere almeno il video di Beat it, un passo di moonwalk e l'mp3 di I want you back. Questo non ci impedisce di raccontarci barzellette sul pedofilo che andava in clinica a sbiancarsi, se proprio ci teniamo. Jacko è stato anche questo, cibo pronto per tutti gli avvoltoi mediatici, professionisti e improvvisati. E ci mancherà anche per questo.
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Come diventare leghisti, 2

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Ho visto verde

“Mi perdoni Padre, perché...”
“Non sono tuo padre”.
“Già, ma a me piace cominciare così”.
“Sciocchezze. Insomma, che hai combinato?”
“Ahem”.
“Hai mentito? Rubato? Pensieri impuri?”
“Nella media”.
“Hai mangiato senza fame? Bevuto senza sete?”
“Mi faccia pensare... no”.
“E allora perché sei qui, andiamo, sputa il rospo”.
“Io... credo di essere stato leghista”.
“Questa è nuova. Tu?”
“Io, sì”.
“E quando sarebbe successo, questo tuo... questo tuo leghismo”.
“Stamattina, quando ho sentito del barcone, io...”
“Stamattina tu saresti diventato leghista”.
“Per un momento sì, Padre”.
“Non sono tuo padre”.
“Ma non è questo il problema. Per un momento ho visto verde. Lo giuro”.
“Ma poi ti è passata”.
“Non ne sono sicuro”.
“Va bene, racconta”.
“Alla tv, parlavano di questo barcone che hanno respinto nelle acque internazionali. Una vergogna. Secondo me l'umanità finisce lì. Cioè, quando respingi qualcuno disarmato, tu sei fuori da qualsiasi umanità. Ci processeranno tutti per questo, un giorno”.
“Tutti?”
“Ma sì, perché siamo tutti d'accordo, non lo sa? Vada al bar, dica che Maroni spara all'orfano naufrago e alla puerpera disidratata, anzi peggio, dica che li abbandona in mare... otto su dieci le diranno Giusto! Così le diranno! Diranno che hanno votato Pdl apposta! Non ci crede, Padre? Vada...”
“Non sono tuo padre. Sono la tua Coscienza. Non posso andare al bar”.
“Ci processeranno un giorno. E non potremo neanche dire che eseguivamo gli ordini, perché non abbiamo eseguito niente noi. Noi gli ordini li davamo, noi votavamo per la legge e per l'ordine e quelli...”
“Tu però non sei d'accordo, mi pare”.
“In linea di massima no. Ma stamattina”.
“Stamattina c'eri anche tu, al bar, a dire giusto! a Maroni?”
“No, a quell'idiota no”.
“E allora non sei diventato leghista”.
“Eh, lei la fa semplice, padre. Pensi che non lo sappiano i leghisti che è un idiota? Ma è tanto utile, dicono”.
“E l'hai detto anche tu”.
“Io non ho detto niente, ma per un attimo ho pensato... ho visto una cartina geografica”.
“Non ti seguo”.
“Padre, le spiego, era in tv. Una normalissima cartina geografica con l'Italia che spenzola nel mediterraneo, e ho pensato: non è tutta colpa nostra”.
“No, probabilmente no”.
“Siamo un ponticello di terra tra il Sud e il Nord del mondo, abbiamo già il nostro daffare a sembrare europei. La crisi mondiale non l'abbiamo mica scatenata noi”.
“Neanche gli africani”.
“Sì, ma neanche noi. Abbiamo tutti gli indici a picco. Diventiamo più poveri mese dopo mese. Non possiamo continuare con la manfrina dell'ospitalità incondizionata”.
“Come fai a dirlo, hai fatto un calcolo?”
“No, ma a occhio si vede... e poi non sto ragionando con la testa, Padre, capisce? È inutile che mi dica che c'è abbastanza torta per tutti. Io continuo a vedere gente che viene su, è normale che mi venga paura”.
“Stai parlando per te o per tutti?”
“Sto facendo la media. Siamo poveri ed egoisti. Ci sono motivi storici per cui siamo diventati così. E il trovarci in mezzo a una migrazione planetaria non ci può assolutamente trasformare in persone migliori. Siamo capaci di tutto noi. Il fascismo che verrà farà impallidire quello che c'è stato”.
“A meno che?”
“L'Europa ci deve aiutare. Siamo degli irresponsabili, ma non è tutta colpa nostra. Tutti ci devono aiutare. Lasciarci in mezzo al mare a impazzire non conviene a nessuno”.
“Ed è per questo che ritieni giusto lasciare degli africani in mezzo al mare a morire?”
“No. Non lo ritengo giusto. Lo ritengo criminale”.
“Però...”
“Però forse va fatto. Bisognava soltanto trovare qualcuno così idiota da farlo”.
“E alla fine lo abbiamo trovato”.
“Proprio così, Padre, è questo che ho pensato”.

“Hai pensato a Maroni come a un utile idiota”
“Ho visto verde, e non mi perdono”.
“E magari quando vi processeranno tutti, tu ti chiamerai fuori... Io non ho mai votato per quelli...
“Avere avuto un blog mi tornerà utile”.
“Si tratta di tenerli al potere per un po', lasciare che ne ammazzino un po', e poi disfarsene”.
Con il referendum, per esempio. È per questo che bisogna sgaggiarsi. Ancora pochi mesi e poi dev'essere tutto pulito”.
“Hai pensato a questo, stamattina”.
“Padre, sì”.
“Non sono tuo padre, e tu non sei un leghista”.
“No?”
“Non lo sei mai stato”.
“Neanche stamattina?”
“Neanche stamattina. Piuttosto, sai cosa? Un liberale”.
“Un liberale, io?”
“Lo so, è una parola che vuol dire tutto e niente. Ma io pensavo proprio a quelli sui libri di Storia, Giolitti, Facta... anche a loro serviva qualche utile idiota con la camicia strana che tenesse pulite le strade. Qualcuno di cui poi disfarsi alle elezioni”.
“E non è andata così”.
“Era gente di buon senso. Talmente di buon senso che non si aspettavano di doverlo condividere con la gente nei bar. Se lo tenevano ben stretto”.
“Mi perdoni Padre, perché...”
“Non sono tuo padre. Non ti perdono”.
“E dai, su, papà”.
“Zitto. Zitto. Non voglio più sentirti. Basta”.
“Perché zitto? io...”
“Perché da oggi sei nella maggioranza silenziosa. Fine”.
“La maggioranza silenziosa? Ma no, aspetta, io...”
“Ssssht. Con chi parli? Non hai nessuna coscienza d'ora in poi, solo un silenzio enorme che alla lunga ti spaccherà i timpani. Chiuso”.
“Papà, adesso non esageriamo, su, io... papà? Papà?”
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Il Percome Delle Cose

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Per favore, non abradere tua figlia
(Questo mi è venuto un po' cinico, vi avverto).

L'edificio della mia vita assurda è fatto di tanti piccoli mattoni bizzarri, come questo: una pubblicità contro le mutilazioni genitali femminili a pranzo e a cena, da una settimana, con una voce che dice in un accento strano: “Noi padri e madri siamo responsabili, nessuno escluso”. Pagata del Ministero Pari Opportunità, cioè da me. Insomma, io sto pagando per farmi dire a pranzo e a cena che se qualcuno infibula la responsabilità è anche un po' mia di possibile padre o madre. O di mio padre, o di mia madre. Mamma, papà! E vergognatevi un po', no?

E di tutto ciò, io non rinuncio a chiedermi il perché, e soprattutto il per-come. Quest'ultimo in particolare è la mia maledizione. Mi disse l'indovina: Tu Passerai La Tua Vita A Chiederti Il Per-Come Delle Cose. (Sempre meglio di parlare con tutte le iniziali maiuscole, le risposi).

Primo Scenario:
Dopo mesi e anni di appostamenti e ricerche, il Ministero delle Pari Opportunità ha finalmente tracciato l'identikit dei genitori-tipo che praticano le mutilazioni genitali femminili in Italia. Hanno dai 20 agli 80 anni e guardano i canali nazionali, soprattutto i tg di pranzo e cena. A questo punto la geniale Ministro ha un'idea: invece di spendere soldi a pioggia in iniziative di sensibilizzazione, facciamo qualcosa di mirato: parliamo direttamente a loro, negli spazi pubblicitari in cui è più facile sorprenderli! Per dire l'altro giorno mi ero quasi risolto a infibulare la mia bambina, stavo giusto sterilizzando l'ago sul fornello del gas, quando è passata questa pubblicità che mi ha toccato il cuore e... “ho scelto: non condannerò mia figlia”. Certo che al Ministero ne sanno una più del diavolo, eh. Come hanno fatto a capire che quel Messaggio serviva proprio a me?

Secondo Scenario:
Dopo mesi e anni di indagini e ricerche, il Ministero delle Pari Opportunità ha tracciato l'identikit dei genitori-tipo che praticano le mutilazioni genitali femminili in Italia. Si tratta di famiglie giovani di origine africana, che difficilmente guardano i canali Rai in chiaro, e andrebbero dissuase attraverso un'azione capillare di assistenza sociale e medica che... costa uno sfruculione di soldi, non li abbiamo! Ci servono per gli sgravi alla Fiat e gli aiuti al digitale terrestre! Ma per un po' di spazi pubblicitari in Rai, per quelli sì, tanto è una partita di giro, e nessuno potrà dire che non facciamo niente per il problema. Per cui mi raccomando, commensali italiani, memorizzate: il Ministero e la Presidenza del Consiglio stanno facendo qualcosa di molto concreto contro: Escissione, Asportazione, Abrasione, In-fi-bu-la-zio-ne... ve ne siete persi uno? Non vi preoccupate, a ora di cena replichiamo. E se vostro figlio vi chiede di che si tratta? Ma voi glielo spiegate, tanto i rigatoni ormai li avete sputati comunque dal disgusto.

Terzo Scenario:
A un certo punto qualcuno avrà anche pensato che è senz'altro un peccato che tutti 'sti immigrati neri escidano, asportino, abradano, infubulino... ma soprattutto è un peccato che lo facciano senza che i loro vicini bianchi ne sappiano niente. Che c'è poi il rischio, tra un po', di trovarsi al prossimo linciaggio di un negro senza nemmeno sapere perché abbiamo voglia di ammazzarlo. Forse valeva la pena di investire in uno spot che facesse capire: Ehi, bianchi, ma lo sapete cosa fanno i neri alle loro bambine? Ehi, la vedete la bimbetta tanto carina che gioca col cerchio sottocasa? Beh, lo direste mai? I loro genitori sono dei mostri! Non sentite che è la loro voce che parla nello spot? “Noi padri e madri siamo responsabili, nessuno escluso”. Capito? Sono tutti uguali!
E quindi? C'è qualcosa che potete fare? No, no, niente, ci pensa il Ministero, voi dovete solo avere un po' più paura di loro, tutto qui. Fine dello spot. Digerite pure con ansia.
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A Yu

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Indovina chi va al Liceo

In questi giorni tutti hanno la loro storia sul piccolo extracomunitario che arriva in classe. All'inizio è timido timido, ma è costretto a imparare: anche solo per difendersi! E alla fine dell'anno infatti parla italiano come tutti, alleluja. Integrazione riuscita – una bella storia, sì. La conosco anch'io. Adesso però ve ne racconto un'altra.

C'era una volta un ragazzino cinese che era appena arrivato in Italia, siete pronti? In italiano zoppicava, comprensibilmente, ma era un mostro in matematica, estraeva a occhio le radici quadrate, i logaritmi, eccetera. Così il suo prof d'italiano, al primissimo incarico, pensò che poteva anche indirizzarlo allo scientifico, perché no? Col tempo l'italiano l'avrebbe imparato. Già in pochi mesi aveva capito come esprimersi – e poi aveva quella razionalità assoluta che è da liceo, non da istituto tecnico; insomma, lo fece. Scrisse “Liceo Scientifico” sul consiglio d'orientamento. Dopo qualche mese il Liceo lo andò a chiamare. Questo professorino non sapeva ancora niente del mondo, niente di niente, così ci andò.
Gli chiesero un parere su tutti i suoi alunni che si erano pre-iscritti allo scientifico, e lui glielo diede. Alcuni erano promettenti, altri nemmeno un po' ma si erano iscritti lo stesso, ecc. ecc. E alla fine gli chiesero: perché ci ha mandato questo qui, che dal nome è cinese?
E lui (che non sapeva niente del mondo) rispose: in effetti è cinese, ma è molto bravo in matematica.
E loro: sì, però lo sa l'italiano?
E lui: no, veramente non tanto. È appena arrivato. Però è in grado di imp...
E loro: ma se non sa l'italiano, come fa ad andare al Liceo?
E lui a quel punto ebbe un'idea. Disse: potreste insegnarglielo voi, l'italiano. Prof d'italiano ne avete.
E loro: ma no! Noi non facciamo queste cose. Doveva iscriversi a ragioneria.
A questo punto lui non disse più niente, ma pensava: è ben curioso che a ragioneria siano in grado d'insegnare italiano a un cinese, e al liceo no.

Qualche anno dopo, a un angolo di strada, il professorino reincontrò il ragazzo, che si era fatto grande, e gli chiese: Yu, come va? Sei sempre allo scientifico?
No, rispose lui, mi hanno bocciato e mi sono iscritto a ragioneria.
Era un mostro della matematica, però non aveva ancora capito la differenza tra “li” e “gli”, e quindi lo bocciarono. Così è la vita, e adesso il professorino si domanda: quelle mie colleghe che lo bocciarono, il trenta andranno a Roma a manifestare contro le classi ponte? Perché io nello stesso corteo con loro non ci starei, siccome mi fanno un po' schifo.

Tutti ovviamente crediamo nell'integrazione. Voi, poi, non vedete letteralmente l'ora che avvenga. Una volta che il bambino timido timido ha imparato tre parolacce italiane dal compagno, siete prontissimi a concludere che l'integrazione è avvenuta. Siete fantastici. Mentre vi riempite la bocca di integrazione, iscrivete vostro figlio al liceo. Anche se sui libri si annoia, e darebbe qualcosa di più in un bel tecnico. Ma i tecnici sono troppo pieni di brutte facce, di facce scure... no, meglio il liceo.

Per voi va benissimo la scuola così com'è: il negretto che è appena arrivato è tanto carino, cosa importa se durante le lezioni di storia e geografia s'addormenta, perché non capisce niente? Tanto non deve mica imparare la storia, lui: basta un po' di alfabeto, un dizionario minimo, e se alla fine dell'anno non sa ancora nulla, si boccia. Tanto non deve mica andare lontano, no? Mica deve fare il liceo, lui, si annoierebbe. Lui è da professionale. E' da cantiere. Mica gli serve conoscere Napoleone.

E vi credete pure progressisti. Non avete la minima idea. La verità è che siete Spencer Tracy all'inizio del film. Ecco cos'è l'italiano progressista medio: un benpensante americano anni '60. Finché vostra figlia non vi si presenterà con Sidney Poitier a braccetto non ve ne renderete conto. Le scuole a cui l'avete iscritta sono dieci volte più classiste di quelle che avete frequentato voi (che già non scherzavano). Finite le medie, gli stranieri approdano per l'80% al professionale – bella l'integrazione, bello tutto, però adesso lasciateci pascolare la classe dirigente senza i vostri pittoreschi musi da scimmia, grazie. Non abbiamo tempo per alfabetizzare i futuri geni della matematica, dobbiamo far memorizzare gli aoristi alla prossima infornata di fighetti. Però giù le mani dalla scuola multietnica! Anche se i nostri figli li iscriviamo alla classe speciale musicale. O bilingue. O qualunque cosa, qualunque cosa che tenga lontano il nostro fragile virgulto dalla teppa scura.

State tranquilli. Le classi ponte non passeranno. Per un semplice motivo: costano. Ci vorrebbero le strutture, e poi bisognerebbe formare gli insegnanti, pensateci bene: formare gli insegnanti. State tranquilli. Nessuno ci formerà, nessuno è in grado. Continueremo a fingere d'insegnare italiano lingua straniera come stiamo facendo da anni, anche se nessuno ci ha spiegato come si fa: è una truffa, ma evidentemente vi sta bene... e poi non truffiamo voi, vero? Truffiamo gli scimmioni.

State buoni. Le classi ponte sono solo uno slogan. Ogni tanto i leghisti hanno bisogno di farsi sentire dal loro elettorato. Del resto, non è lo stesso problema di Veltroni? Che bello poter difendere la scuola multietnica in tv, che bello poter accusare gli altri d'inciviltà. Nel frattempo sua figlia studia negli USA, dove le classi differenziate per chi non sa l'inglese sono una normalissima realtà. Ma questo non importa. I leghisti hanno fatto un po' di baccano, Veltroni ha fatto un po' di controbaccano. I conti si faranno alle elezioni. Già, le elezioni.

Qualche mese fa ci si lamentava che i leghisti raziassero voti tra gli operai, che il PD avesse perso il contatto con la base popolare, ecc. ecc. C'era chi diceva: “torniamo in fabbrica!” Ci siete poi tornati?
Io sono rimasto a scuola. È più che sufficiente. Ho visto i ricchi iscrivere i figli alla sezione dei ricchi. Ho sentito di presidi che iscrivono d'ufficio tutti gli stranieri a una sola sezione, o a una sola succursale.
Adesso lavoro in una prima con 11 stranieri. Due non parlano l'italiano, semplicemente: gli altri avrebbero passato qualsiasi esame d'ammissione, e quindi non avrebbero frequentato la fantomatica classe ponte. Il punto non è che siano 11: il punto è che in un'altra prima ce ne sia soltanto uno, o due.
Una classe con tanti stranieri non è necessariamente più difficile di una classe con tutti gli italiani. Anzi, è un ambiente molto stimolante. Ma si resta indietro col programma, semplicemente. C'è meno tempo, e quindi s'imparano meno cose. Gli stranieri forse non se ne rendono conto (e comunque non votano). Ma gli italiani sì. E possono avere la sensazione che il loro figlio sia stato inserito in una serie B. Che l'integrazione si faccia sulla loro pelle. Provate a spiegar loro che non è vero. Quando i bambini delle altre classi andranno in gita tre giorni, e loro soltanto un giorno solo, perché chiedere soldi a certe famiglie è impossibile o imbarazzante.

Ecco, questi sono i genitori che avevano bisogno dello slogan “classe ponte” per ricordarsi di votare Lega. Voi probabilmente no. Voi per vostra figlia avete altri progetti. Non mi resta che augurarvi che venga Yu a prendersela, vostra figlia, col suo diploma di ragioneria, e se la porti nel buco del c. della Cina. Forse allora rivedrete il vostro concetto d'integrazione. E forse, chissà, nemmeno allora.
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Come diventare leghisti, 1

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La scuola di Pippo

Benvenuto alla rubrica saltuaria: Come diventare leghisti. Un viaggio nell'abiezione umana a cura della redazione di Leonardo. Ogni riferimento a cose e persone è doloroso.

Pippo è un operaio specializzato. Vive in una villetta e ha tre vicini: Amintore, Palmiro e Bettino. Amintore è avvocato, Palmiro professore, Bettino agente di commercio.
Pippo non ha la sensazione di guadagnare moltissimo in meno di loro, eppure si sente sempre un po' tagliato fuori. Come se nessuno gli avesse spiegato le regole del gioco. Per esempio:

I figli di Amintore, Palmiro, Bettino e Pippo, hanno tutti frequentato la quinta elementare nel 2007/08.
In gennaio, presentendo la promozione, Amintore ha iscritto suo figlio all'Istituto Santissimo Cuore di Gesù, “un ambiente molto protetto”, dice lui. “Si sa, coi tempi che corrono”.
In primavera Palmiro, che non crede nelle scuole private, ha prenotato un posto per la sua Nilde nella classe a sperimentazione musicale della locale media pubblica. “È un ambiente molto stimolante, e poi... ci vanno solo quelli che... insomma, quelli che hanno proprio voglia di impegnarsi”.
Anche Bettino sentiva un'analoga vocazione musicale per il figlio, ma siccome in giugno egli fallì la prova d'ammissione, dovette ripiegare sulla classe bilingue inglese-tedesco, “perché il tedesco è la lingua degli affari!”. Bettino in effetti fa ottimi affari coi crucchi, che però al telefono insistono per parlare inglese.

E poi, alla fine di giugno, a scuola è arrivato anche Pippo, per iscrivere il suo Pipino. Si è fermato un po' smarrito nell'atrio (lo ricordava più grande) e alla fine si è deciso a chiedere ai bidelli: dov'è che ci si iscrive?
In fondo al corridoio. Pippo si è messo in fila dietro un nero di due metri, un vero armadio. Questo non lo ha turbato più di tanto, perché Pippo non ce l'ha coi neri, basta che lavorino. Nel suo reparto ha un apprendista nero che è molto bravo e si fa i fatti suoi. Per dire, se sua figlia finisse in classe con Pipino, non ci sarebbe nessun problema, pensa Pippo.

A fine luglio il preside ha invitato tutti i genitori ad assistere il sorteggio. Pippo non aveva tempo, doveva fare un po' di straordinario prima delle ferie. Il giorno dopo è passato davanti al tabellone ed è sbiancato: nella classe di Pipino c'erano quindici cognomi stranieri! Su ventisei? Proprio in quel momento ha sentito distintamente un “Casso!” alle sue spalle. Era l'armadio d'ebano già incontrato all'iscrizione.
“Ehi”, dice Pipino, “c'è qualcosa che non va?”
“Tu chiedi a me? Guarda qui, casso! Questo non va! Che classe è questa qua?”
“Ah, sì, c'è anche mio figlio. Ma...”
“Questa no è classe, è merda! Tutti stranieri! Mando mio figlio imparare italiano, e lo mettono con tutti stranieri? Ma è rasismo questo, o no? Casso!”
Per un attimo, un attimo solo, Pipino vorrebbe essere anche lui un nero scaraventato sulle spiagge di Lampedusa da una carretta del mare, solo per il gusto di esprimere con la stessa rozzezza i propri sentimenti, cazzo, mi hanno fregato di nuovo. Uno si sbatte per tutta la vita, mette al mondo un figlio, gli insegna l'educazione, e poi vlam! Te lo prendono e te lo sbattono nel ghetto con i figli dei neri. Pippo non avrebbe niente contro i neri, però non voleva crescere suo figlio esattamente ad Harlem. E guarda qui, invece, la classe del figlio di Bettino: tutti nomi italiani. E la figlia di Palmiro? Anche lì, l'unico cognome strano appartiene a una bambina russa che probabilmente suona il violino dalla culla. Intanto l'armadio d'ebano continua a bisbigliare il suo rosario di merda e casso, casso e merda.
“Senti un po'... a proposito, io mi chiamo Pippo”.
“Io Lumumba”.
“Piacere. Senti, adesso entriamo e chiediamo al preside”.
Lumumba guarda Pippo con aria incredula. Da solo non avrebbe mai osato. Del resto anche a Pippo tremano le gambe, un po'.

Nessun bisogno di chiedere al bidello, stavolta. Pippo sa dove sta la Presidenza, è un luogo che conosce bene, per antica frequentazione, e che ancora risplende in certi brutti sogni. Infatti non riesce a reprimere un brivido, quando al suo timido bussare risponde un “Avanti!”.
Il preside è un altro, naturalmente, tranne per la chierica che sembra uguale - come se lo avessero sostituito un pezzo alla volta, e la chierica fosse l'unico pezzo che apparteneva al modello di partenza - tutto questo Pippo riesce a pensarlo mentre con incerte parole descrive il suo problema, finché il preside smontabile non lo aiuta a mettere punto a una delle sue frasi involute e interminabili, interrompendolo.
“Vede, io capisco che lei e il signor Lubamba...”
“Lumumba”.
“Mi scusi. Capisco che lei e Lubumba possano trovarsi scontenti della composizione della classe, ma se mi mettessi a cambiare posto al figlio di ogni genitore che viene qui a lamentarsi, lei capisce... è proprio per questo motivo che procediamo al sorteggio”.

(In un'allucinazione, Pippo vede Lumumba sbattere il suo pugno da mezzo quintale sulla cattedra. “Che merda di sorteggio è, Casso! In una classe quindici stranieri e un'altra neanche uno?” Ma Lumumba non reagisce. Guarda a terra. Insomma, Pippo, tocca a te).

“Mi permette, signor Preside...”
“Prego”.
“Io non è che sono... che sia... io lavoro sa... anzi, al sorteggio non sono potuto venire perché dovevo fare una cosa, un lavoro... e allora...”
“Ma le garantisco che il sorteggio è stato effettuato con tutti i crismi della legalità, alla presenza di molti altri genitori”.
“Sì, però, signor Preside... sarà anche venuto con tutti i crismi, però... qualcosa deve essere andato storto, se in una classe ce n'è quindici e in un'altra, con permesso, no”.
“Quindici... lei intende gli stranieri?”
“Ecco, sì”.
“Per prima cosa, le dico di non preoccuparsi. Vedrà che una classe con una presenza di stranieri così ampia non potrà che rivelarsi una straordinaria opportunità di crescita per suo figlio. Anzi (voltandosi a Lumumba) per i vostri figli”.
“Va bene, signor Preside, però non capisco allora perché questa straordinaria opportunità l'avete data a mio figlio, e per dire, al mio vicino di casa Palmiro Basazzi, cioè a sua figlia, no”.
“Basazzi? Mi faccia vedere... Ah, ma è al musicale... Le spiego. La nostra scuola ha una sperimentazione musicale, molto apprezzata per le metodologie innovative che da anni sono state introdotte”.
“E gli extra lì non si possono iscrivere?” Pippo guarda Lumumba, che continua a guardare a terra, ma ha spalancato gli occhi.
“Tutti si possono iscrivere. Però c'è una lunga lista, capisce. Così abbiamo istituito una prova d'ammissione”.
“E l'hanno passata solo gli italiani”.
“In confidenza, non sono molti gli stranieri a iscriversi. Si tratta di un corso un po' più impegnativo degli altri, e così...”
(Impegnativo! Te lo dico io cos'è impegnativo! Difendere la merendina da cinque magrebini affamati, questo è impegnativo!)... Però, scusi eh, signor Preside, va bene che c'è la classe musicale e io nemmeno lo sapevo, però... ci sono delle altre classi con pochissimi extra, per esempio questa...
“Sì, certo, ma è una classe bilingue col tedesco”.
“E allora? Gli extra non si possono iscriversi a tedesco?”
“Certo che possono. Ma di solito non lo fanno mai, perché è una lingua più complicata, sa... e poi i nordafricani spesso parlano già francese in casa, e così...”

Il preside continua a spiegarsi, ma ormai Pippo ha capito. Perché non è mica scemo: è solo che nessuno gli spiega le cose. Le regole segrete.
E la Regola Segreta in questo caso è: iscriviti prima che puoi. Prima ti iscrivi, e meno stranieri tuo figlio si troverà in classe. Perché nessuno ce l'ha con gli extra, ufficialmente: basta che non vengano a casa tua a fare le ricerche con tuo figlio.
La gara comincia molti mesi prima. I più tempestivi iscrivono il figlio al musicale. Quelli che non passano la prova d'ammissione possono sempre ripiegare su tedesco. Quando si riempiono le classi di tedesco, è finita: cominciano ad arrivare in segreteria i neri, i marocchini, i cinesi, i filippini, tutta chinatown al completo, e tuo figlio studierà con loro. Per colpa tua, Pippo, perché tu arrivi sempre tardi.

Quando escono sul cortiletto, Lumumba ritrova la lingua che sembrava avere inghiottito. “Se lo sapevo, Casso! Lo iscrivevo a tedesco”.
“Ma è difficile, il tedesco”.
“Per noi è tutto difficile, italiano, tedesco, cosa cambia? L'importante è che mio figlio sta con italiani. In casa non parliamo italiano. Se non lo parla neanche a scuola, tu dimmi, casso: dove?”
Adesso è Pippo che guarda in basso. Pensa al dialetto che si parla ancora in casa sua. È bello spiegarsi in dialetto, ti riempie la bocca e ti sazia – finché non ti capita di dover parlare con un Preside. O con il responsabile Produzione. O con il bancario a cui stai chiedendo un prestito. O con tutti quei coglioni in cravatta che si prendono gioco di lui da quando era grande come Pipino, e che da qui in poi cominceranno con Pipino.

Adesso è ottobre. L'altro ieri la moglie di Pippo è andata all'assemblea dei genitori. I professori hanno spiegato che è una classe difficile, già molto indietro col programma, però l'integrazione con gli stranieri sta funzionando e blablabla. Pipino all'inizio era seduto con un bambino polacco che masticava l'italiano abbastanza per scambiarsi le carte di dragonball. Poi però hanno cambiato i posti nei banchi si è ritrovato una cinesina che non dice mai niente. Intanto al telegiornale hanno detto che i leghisti vogliono fare le classi di soli stranieri.

Pippo stamattina ha sentito che ne parlavano al bar. “È una vergogna”, ha detto Palmiro. “Roba da fascisti”. “Fascisti non lo so”, rispondeva Amintore, “ma razzisti sicuramente”. “Come se gli italiani fossero poi tutti bravi”, aggiungeva Bettino. “In classe con mio figlio invece ci sono certi zucconi made in italy...” “E invece nella classe di mia figlia c'è una ragazzina russa, bravissima, pare che sia già una virtuosa del violino...”
Pippo ha mandato giù l'ultimo boccone di brioche col cappuccino, è andato a pagare il conto, e ha deciso che la prossima volta vota Lega.


(Vedi anche: Stranieri e confusione)
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One people one vote

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E poi un bel giorno, all'improvviso, Veltroni batte un colpo.

Non è chiaro perché proprio adesso. È comunque tardi, ma sarebbe stato tardi anche tre anni fa. Il voto agli immigrati. Ha ragione anche Di Pietro a dire che per ora è un annuncio a vuoto. Uno slogan. Ma almeno è uno slogan. È chiaro. E riporta alla luce una verità sacrosanta. Se sono regolari, lavorano. E se lavorano, perché non possono votare?

La senti, la forza della verità che mette all’angolo gli avversari? Non c’è una sola risposta che essi possano dare a una domanda del genere. Non una che non riveli grettezza, egoismo, paura. Qui non c’è destra o sinistra, ci sono semplicemente due modi diversi di considerarsi italiani. Chi sono gli italiani? Quelli che hanno ereditato un cognome dal papà, e col cognome i diritti, i privilegi, i posti fissi e al limite i treni gratis per la partita? Oppure italiano potrebbe essere chiunque viva qui, chiunque tra Ventimiglia e Trieste si dia in qualche modo da fare per tenere in piedi questa penisola traballante. Che è più o meno quello che c’è scritto nella carta costituzionale, art. 1. Ma quella è carta, si può usare in tanti modi, ormai lo abbiamo capito. Si tratta di scegliere: che italiani vogliamo essere? Bianchi, vecchi, micragnosi attaccati ai nostri minuscoli privilegi, o un po’ più scuri e un po’ più giovani, e un po’ più aperti a un mondo che comunque ha fretta e non chiede il permesso? Ci ha messo un bel po’, Veltroni, ma ha scelto. È la prima buona notizia.

Per molti anni la Sinistra è stata accusata di favorire l'immigrazione perché voleva sostituire la classe immigrata alla vecchia classe operaia. Magari una vera sinistra avrebbe operato così, ma certo non la nostra, timida e arroccata nella difesa di privilegi di corporazione. La battaglia per il voto agli immigrati è sempre stata relegata a questione secondaria, così secondaria che a un certo punto se ne impossessò persino l'inutile Gianfranco Fini. In mala fede si dipingeva come un complotto terzomondista quello che era il primo effetto della tanto osannata (a quei tempi) globalizzazione: è stato il libero mercato del lavoro a cambiare il colore della pelle agli operai e ai braccianti, così come è stato il mito borghese dell’ascesa sociale a portare i figli bianchi degli operai sui banchi dell’università. È andata così e non c’è nulla da recriminare. Ora si tratta di ricordare che non ci sarà vera democrazia, in Italia, finché i nuovi braccianti e i nuovi operai non avranno gli stessi diritti degli altri. Questa è la vera campagna sui diritti civili.

E quando avranno il voto, magari voteranno Lega. E allora? Io me lo sogno, il giorno in cui la Lega comincerà a fare i conti con una base di elettori dalla pelle scura o dal cognome strano. Sarà il giorno in cui smetterà di essere un partito di cialtroni, in mano di pagliacci trucidi alla Borghezio. Il giorno in cui in Parlamento nessuno oserà più parlare di “reato di immigrazione clandestina” o di “reato di associazione in famiglia Rom”. Quel giorno potrei farmi leghista anch’io – perché no? Il partito che oggi candida Obama, era il partito dei segregazionisti del Sud, neanche un secolo fa. Tempo al tempo.
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lo Stato macchia

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Voi da quand'è che non date un occhio alla vostra carta d'identità? Io l'ho riaperta ieri, perché tra un po' mi scade, e mi sono accorto per l'ennesima volta di questo fatto strano: manca l'impronta.

In realtà i fatti sono due, non si sa bene quale più strano: sulla mia carta d'identità (probabilmente anche sulla vostra) c'è lo spazio per “l'impronta del dito indice sinistro”). C'è sempre stata, quella casella, sin da quando ero ragazzino. Ma la mia impronta no. Nessuno me l'ha mai chiesta – ci mancherebbe altro! Però lo spazio c'è. È un bel mistero, se ci pensate.

Ora mi chiedo, e chiedo a voi: esiste davvero una norma di legge che prevede che il documento di identità sia contrassegnato con la mia impronta? E se esiste, perché è universalmente disatteso? Sono quelle piccole stranezze italiane – come i limiti dei 50 lungo i boulevard suburbani che nessuno riesce a rispettare, nemmeno tua mamma che non sa trovare l'acceleratore, e quindi tu cresci con l'idea che l'intero codice della strada sia un cumulo di norme fuori dal mondo e inapplicabili (in Francia mettono i 70 e così i bambini imparano il rispetto). Allo stesso modo: devo aver paura di una Repvbblica italiana che mi chiede l'impronta? Ma me la chiede solo per finta, dai. Però magari domani vado in anagrafe e mi chiedono di timbrare col dito, perché la legge dice così anche se per anni si erano tutti distratti. Sarebbe, tra l'altro, un messaggio di uguaglianza: lo Stato non scheda solo gli zingari e gli extracomunitari, ma c'incasella tutti. E poi, già che c'è, potrebbe riconoscere a tutti il diritto di lavoro, di studio e di voto... a quel punto, se il prezzo da pagare fosse imbrattarsi un dito, forse premerei. Ma so che molti di voi non lo farebbero mai, anche se non mi è ben chiaro il perché. A voi è chiaro?

Il fatto è che l'impronta è una specie di tabù. Si associa immediatamente al crimine, ed è intrinsecamente sporca: quest'immagine dell'energumeno che prende il ditino della povera zingarella è davvero una specie di cartolina del Quarto Reich. Anche se a mente fredda devi ammettere che sporcare un dito non è la cosa più brutta che puoi fare a un bambino: per esempio, puoi farlo crescere come un piccolo apolide in balia della famiglia o del clan. Puoi evitare di contaggiarlo, ogni volta che provvedi alla distribuzione di scuole, case, lavoro. Puoi non invitarlo a votare per la repubblica in cui è nato e cresciuto. Puoi lasciarlo in un sottobosco culturale dove si diventa mamme a 15 anni e anziane a 35. Se fai tutte queste cose sei uno Stato Distratto, ma se poi una mattina ti presenti coi tamponi e l'inchiostro, diventi uno Stato Poliziesco, e Famiglia Cristiana s'indigna.

Potrei andare avanti ancora per molte righe a descrivere un mio istintivo fastidio per le impronte che non riesce a tradursi in una proposta alternativa, ma non serve a niente. In realtà questo non è il pezzo di oggi. Il pezzo di oggi era un racconto in cui un gruppo di ragazzini che vivono in una polinesia mediterranea del futuro devono oltrepassare l'ultima prova per diventare uomini, e la prova è tenere per pochi istanti i palmi delle mani in un calderone di acido, onde sfigurare le impronte – e il Sommo Sacerdote spiega che la cerimonia si fa in onore di Mosè, che durante il diluvio guidò il popolo di Dio lontano dalle grinfie del Re-Bobo che pretendeva le impronte di tutti i bambini, ma non sono riuscito a scriverlo perché mi è venuto il mal di testa, forse è il temporale.
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Beware de negher

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L'insicurezza percepita

“Signora, aspetti...”
“Ma che fa? Giù le mani!”
“Signora, volevo solo reggerle il portone...”
“Ah, ma è lei! Scusi, ma prima non l'avevo vista bene, mi ha fatto venire una paura...”
“Paura? Signora, paura di che? Sono le dieci del mattino”
“Ma lo sa anche lei, con tutti quei... con tutti quei negri che si vedono adesso nel quartiere...”
“Neri?”
“Ma sì... negri, neri... uguale... io non sono mica razzista, eh, però... cosa ci vuol fare, quando mi fissano mi mettono una paura...”
“Signora, ma non ci sono dei neri, qui”.
“Massì... negri, o marocchini... l'è uguale... sempre in giro dalla mattina alla sera... e mi guardano... cos'avranno da guardare una povera vecchia...”
“Di marocchini ce n'è uno al civico 12, e basta. Creda a me che faccio il postino”.
“Massì, se non sono marocchini saranno extra... albanesi, zingari... tutti uguali...”
“Rumeni. Rumeni ce ne sono tre famiglie all'angolo. Sembra gente tranquilla, eh. Però è vero che i ragazzini son sempre in giro”.
“E fanno una paura...”
“Specie adesso che la scuola è chiusa”.
“Con quelle bici, ti spuntano alle spalle, ti puntano la borsa... ne hanno preso uno un mese fa, c'era sul giornale, ma è possibile che non si possa star tranquilli a uscire per strada?”
“Signora, c'è una cosa che dovrei chiederle...”
“Speriamo adesso, col nuovo governo... mah... che poi tanto sono tutti uguali... parlano, parlano, e poi... ma sa cos'è! Che son tutti vecchi! Si truccano per sembrar dei giovanotti, ma son tutti dei vecchi cancheri come me! Mo quand'è che cominciano a dare un po' di potere ai giovani, eh...”
“Eh, signora, ci vuol pazienza”.
“Lei, per esempio, ma è possibile che un bravo ragazzo come lei stia ancora lì a fare il postino? Che si vede che è uno che ci sa fare, e poi è simpatico, aiuta anche la gente, ma almeno glielo rinnovano il contratto?”
“Vediamo, signora, è un trimestrale”.
“Ma a proposito, lei che è il postino, non è mica che ha una busta per me? Dalla banca? Sarà un mese che sto aspettando questa busta dalla banca...”
“Ecco, signora, volevo proprio parlarle di questo. È arrivata una comunicazione dall'ufficio, vede? Lo sa, che le devono spedire il bancomat”.
“Ecco, appunto, io stavo proprio aspettando il bancomat”.
“Però non le hanno fatto firmare per la praivasi”.
“Ma è una cosa grave?”
“Ma no, signora, non è niente, dovrebbe riempire questo formulario che mi hanno dato, vede? E farmi una firma qui”.
“Oddio, ma non ci ho mica gli occhiali!”
“Se vuole l'aiuto io. Serve nome, cognome, luogo di nascita...”
“Malavasi Neive, sei gennaio quaranta”.
“Codice fiscale...”
“Ma non me lo ricordo mica, povera me. Devo andare su a prenderlo?”
“Eh, signora, forse è meglio di sì. E già che c'è...”
“Sì?”
“L'è arrivato per caso il PIN del bancomat nuovo?”
“Certo, m'è arrivato la settimana scorsa, è per quello che cominciavo a stare un po' in ansia...”
“Ecco, dovrebbe darmi anche quello lì”.
“Come, le devo dare anche il pin? Ma non è una cosa segreta?”
“Signora, cosa vuole che le dica, è per la praivasi. Se vuole lo faccio scrivere a lei, e io non guardo neanche... vede? C'è scritto qui...”
“Va bene, va bene, adesso vado su e prendo il codice fiscale e il pin”.
“Vuole che l'accompagno?”
“Ma no, ma no, non si stia a disturbare... un bravo ragazzo come lei... chissà quante scale gli fanno fare in una mattina...”
“Non mi lamento, signora...”
“E invece dovrebbe! Dovrebbe! Che è una cosa che non riesco a capire, dei bravi ragazzi come voi a fare questi mestieracci, mentre in giro ci sono tutti questi negri che ti guardano, ti guardano, e a me fan tanta paura...”
“Ehm, signora...”
“Sì, sì, va bene, lo so che ha fretta, adesso salgo...”

Modena, 20 giugno 2008 - Un portalettere è stato arrestato dalla polizia postale di Modena poiché apriva le lettere contenenti la tessera bancomat che l'Unicredit aveva inviato ad alcuni clienti di Carpi.
L'uomo, un 35enne residente a Carpi, teneva per sé le tessere e modificava il contenuto del messaggio dell'istituto di credito prima di consegnare la missiva ai clienti, ai quali chiedeva di comunicargli il codice segreto 'pin' gia' in loro possesso prima che la carta magnetica venisse effettivamente recapitata.
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Lasciate che i morti

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Una via

Se dovessi dirvi che la cosa non mi preoccupa, mentirei. Si parla pur sempre di una strada, e io alle strade ci tengo.
Per esempio, non vorrei mai che fosse una di quelle contrade oscure, dove la notte a due passi dal centro il gufo echeggia che pare già jungla; e i pipistrelli sfrecciano sotto lampioni troppo alti o troppo fiochi o troppo pochi; e ogni portiera d'auto che sbatte, ogni tintinnio di chiavi ha un suono di minaccia. Strade dove ti trovi sempre per sbaglio, e non sai quale destra tenere, quale marciapiede seguire che comunque è tutto sconnesso, e a nessuno chiederesti la direzione, perché in quelle strade è una vergogna il solo perdersi, e ti è scuro in faccia anche l'ariano.

- Ma purché sia una strada verde, di rampicanti su tutti i cancelli; che gli inquilini di comune accordo abbiano smesso di chiuderli, perché l'edera ne soffriva troppo;
- e non silenziosa, ma come larvata di mille rumori sempre diversi, e mai molesti; all'alba l'allodola, il grillo al tramonto, qualche auto ma rara, col ronzio del metano e come a punta di ruota;
- allora il rumore più sgradevole sarebbe il tintinnio compunto dei ciclisti sulla ciclabile, che si sa, appena gli dai una striscia di terra per quanto sottile credono di poterci stare soltanto loro e no, no, no, nessuna metafora politica stavolta;
- e grida di bambini, quelle sì! Moleste alle orecchie dei vegliardi, che se ne migrino in centro o in provincia o altrove, vecchi di merda! Che possiate in questa sola strada d'Italia, in barba ai dati Istat, esser ridotti a minoranza;
- e purché vi sia un bar, all'angolo, pulito e caciarone, dove tutti sono benaccetti tranne i coglioni coi tatuaggi sui polpacci; ché qualsiasi fede politica e calcistica, una volta iniettata sottopelle, rimane coglionaggine e basta; ma dovevano spiegarvelo da piccoli. E purché vi sia una scuola poco distante, dove lo spieghino ai piccoli, che a voialtri grandi ormai è tempo perso; e ci vadano tutti quanti, chi a piedi chi in bici e chi in triciclo, senza tema di essere vestiti diversi o di essere diversi sotto i vestiti;
- e un forno davanti a scuola, sana alternativa alle merendine. E un negozio di frutta e verdura, ma fresche e a prezzi onesti. E un'edicola, meglio se dirimpetto al bar, piccola ma ben fornita; e anche un bel wireless non guasterebbe: e panchine lungo tutto il marciapiede, meglio se all'ombra di siepi comprensive.

Purché sia una strada così, potrei anche sopportare di vederla chiamata Via Almirante. Anche se quel nome non mi piace, devo dir la verità.
Dacché m'immagino i bambini, che imparano l'indirizzo di casa quattro o cinque anni prima di saper leggere, prigionieri di infiniti qui-pro-quo: “Tu dove abiti?” “In via al Mirante!” “Ti aspettavo al parchetto del Mirante per provare il nuovo scivolo comunale e non ti sei fatta viva!” “La mia mamma ha cercato questo Mirante sul Tuttocittà, e non l'ha trovato!” “Tua madre minaccia la nostra amicizia! Tutto il mondo sa dov'è Il Mirante, c'è il forno che fa le sfogliatine più buone del mondo”. Ecc. ecc. Insomma, non la potreste semplicemente chiamare Via Mussolini, che è meno ambiguo e più riconoscibile? Nonché più onesto, dal momento che l'arzillo vecchietto in tutta la sua vita non ha fatto di notevole se non mantenere accesa la famosa fiaccola di cui nessuno sentiva l'esigenza tranne voi, ma lasciam stare: via Mussolini, un bel lastrone di marmo e non se ne parli più. E non credo vi nasceranno più fascisti per questo, credo. Anzi lo so per certo, vivendo e lavorando tra borghesi frustrati tutti più o meno battezzati tra una via Lenin e una via Marx. Come se i nomi contassero qualcosa più dei tatuaggi. Ma sono parole vuote, i nomi. Provate a ripetere il nome che t'è più caro venti volte, se vi serve l'esperienza empirica.

Se il nome avesse una qualche importanza, vivremmo tra torme di carducciani, e garibaldini, e persino i nino-bixiani sarebbero una minoranza sensibile. C'è un quartiere, sempre dalle mie parti, tutto di poeti latini; no, dico, sarebbe bello vederli affacciarsi in toga dai balconi di via P. Virgilio Marone lanciandosi epigrammi caustici, e distici lascivi. Questo ovviamente non accade: la gente non nasce dalle targhe. E se pure vi nascesse, per crescere dovrà sempre appoggiarsi alle inferriate della propria strada, e respirarne l'aria mentre allunga le radici sotto i suoi marciapiedi; così da una strada buia, chiusa o marcia potrà sempre nascere un fascista, fosse anche via Pertini; ma se mi fate una via come l'ho chiesta io, chiamatela pure Mussolini, o Hitler, o Gengis Khan: tutti i nomi più brutti che troverete sul libro di storia non sono che nomi di gente che è morta, che noia mai potranno dare ai vivi?

Ma se, viceversa, possono dare qualche soddisfazione ai morti, che nel 2008 si sprangano per un dibattito sulle foibe... insomma, lasciate che i morti s'intitolino le strade: se è il prezzo da pagare per un po' di spazio dove vivere in pace. Anche solo una strada.
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PornoGeoPolitica

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Verso il Romistan

Se poi mi chiedete del mio amico Arci – in effetti è parecchio che non se ne sente parlare – beh, se la passa alla grande. Una qualche agenzia interinale ha mandato per sbaglio il suo curriculum di inventore pazzo e psicotico all'Ufficio del Personale di una superpotenza mondiale, una a caso, e adesso è da qualche parte in un ufficio con l'aria condizionata a cospirare contro la Pace Universale. Valà che sotto sotto lo invidiate.

“Signori, bando ai preamboli. L'oggetto di questa riunione è il solito: si tratta di scatenare un conflitto regionale che faccia perdere tempo e risorse ai nostri competitori, magari attraverso la strumentalizzazione di qualche minoranza etnica indifesa. Mi pare che tocchi al sig. Arci”.
“Signori, signore, grazie sin d'ora per l'attenzione. La mia proposta di azione prevede il coinvolgimento dei Rom, un'etnia di origine indiana che vive in molti Paesi europei, talvolta ancora in stato seminomade. Vedi slide. I Rom sono stati oggetto di vari tentativi di assimilizzazione forzata e veri e propri pogrom, dal medioevo fino alla seconda guerra mondiale, quando i nazisti ne sterminarono mezzo milione. Oggi sono un'etnia in via di integrazione in tutti i Paesi dell'Europa occidentale, tranne l'Italia”.
“L'Italia è in Europa Occidentale?”
“Ancora per qualche tempo, sì. In Italia vive una cospicua minoranza Rom, che non ha i diritti civili e vive in condizioni di miseria senza paragoni. La loro aspettativa media di vita è quasi la metà di quella degli italiani autoctoni. Gran parte dei bambini non frequenta la scuola”.
“Ma chi l'avrebbe detto... voglio dire... gli italiani sembrano brave persone”.
“L'errore storico è precisamente questo: fare affidamento su un'astratta idea di “bontà” invece che su normative concrete. Gli italiani non sono un popolo feroce, ma non si sono mai preoccupati di dare la cittadinanza a chi vive sul proprio suolo. Ci sono Rom di terza o quarta generazione che non sono ancora cittadini: non hanno diritti, e nemmeno doveri. Il sospetto è che siano più utili come capri espiatori che come cittadini”.
“Ho capito: quando c'è crisi si fa la caccia al Rom. Come da noi, giù in....”
“In effetti i tempi sembrano maturi. Man mano che l'Italia scivola in una crisi strutturale, le leggende urbane sui Rom aumentano, propalate ad arte anche dalla stampa. Qualche campo nomadi brucia già e a Bruxelles qualche eurodeputato ha proposto di creare il reato di associazione famigliare Rom – o qualcosa del genere. Le mie proiezioni danno i primi pogrom seri tra 14 mesi solari”.
“Va bene, ma noi cosa c'entriamo? Mica operiamo per salvare i derelitti, noi”.
“Ci stavo giusto arrivando. Il problema dei Rom in Italia presenta connotati molto interessanti. I Rom si definiscono una nazione, ma in pratica sono apolidi. Alcuni dei loro rappresentanti si battono per trasformare questo paradosso in uno status giuridico. La mia proposta è di lanciare sul tavolo della trattativa una proposta ben più radicale: il Focolare Nazionale Rom”.
“FNR suona malissimo”.
“La sigla la possiamo cambiare. Ma insomma, la sostanza è la seguente: dopo le prime vere stragi, previste più o meno per l'estate '09, alcuni intellettuali Rom – opportunamente istruiti da noi – dovrebbero cominciare a diffondere l'idea che i Rom abbiano il diritto a un loro Stato, come tutti gli altri popoli sovrani”.
“Comincio a capire”.
“Questa idea affascinerà molti italiani, specie se hanno ancora le mani sporche di sangue dello zingaro sottocasa. In un colpo solo si liberano sia dei superstiti che dei sensi di colpa”.
“Geniale. Bisognava pensarci prima. Però...”
“Dove la mettiamo questa nazione? Ci ho pensato già io. In Italia assolutamente no, ci mancherebbe. Più lontano è meglio è”.
“Eh, ma non è mica tanto semplice. Bisogna cercare un posto con acqua e terra per milioni di persone, ma disabitato... non credo ce ne siano”.
“Signori, a volte mi pare che dimentichiate di essere persone fondamentalmente malvagie. Chi ha detto che occorre trovare un posto fertile? Una distesa di sassi andrà bene ugualmente, basta vendergliela come terra del latte e del miele”.
“Già, giusto”.
“E non è nemmeno necessario che sia disabitata – basta spazzare via quelli che ci abitano già. Ovviamente venderemo armi sia ai Rom che ai loro ospiti, per fair play”.
“Mi piace, mi piace”.
“Insomma, l'ideale è una terra aspra, già contesa tra qualche nazione importante, e con qualche risorsa che potrebbe interessare anche a noi che possiamo pagare in armi. Una terra così, concorderete, non è così difficile da trovare. Ma non bisogna dimenticare l'aspetto culturale – dev'essere un posto in cui i Rom siano già stati, magari qualche migliaio di anni fa, di modo che possa essere venduta come “la culla dei Rom”. Anche questo non è così difficile, visto che sono stati praticamente dappertutto. La mia proposta, comunque, è il Kashmir. Per almeno quattro motivi”.
“Numero uno...”
“I Rom provengono dall'India settentrionale. Pare che Rom derivi dal sanscrito ड़ोमब, pensate. Il Kashmir è più o meno da quelle parti. Qualche ritocco alle enciclopedie on line e ai libri sacri, e vedrete che non sarà difficile ribattezzare i Rom come “Popolo dei Kashmir”. Oppure potremmo ribattezzare il Kashmir: che ne dite di Romistan? Vabbè, a questi dettagli ci pensiamo dopo”.
“Numero due...”
“Risorse naturali. La seconda riserva d'acqua dolce mondiale. Non c'è bisogno che vi dica quanto sarà importante l'acqua nei prossimi cinquant'anni. Se la nazione che rappresentiamo diventa l'avvocato dei Rom in sede internazionale, buona parte di quell'acqua sarà nostra”.
“Per tacere della lana pregiata. Numero Tre...”
“Proprio a causa dell'acqua, e per patetiche beghe di irredentismo e rivincite a cricket, il Kashmir è oggi una terra già contesa da due potenze regionali nostre concorrenti, l'India e il Pakistan. Entrambe sono potenze nucleari, quindi sarà un atto umanitario offrire alla Nazione Rom del Kashmir la bomba atomica. Et voilà, ecco che per motivi umanitari abbiamo piazzato una nostra piazzaforte atomica in mezzo all'Asia”.
“Ma insomma, davvero lei si aspetta che India e Pakistan ci diano una striscia di Kashmir per un'altra etnia?”
“Bisognerà operare con una certa prudenza, all'inizio. Per esempio: si va dai pakistani (o dagli indiani, a scelta) con la proposta di ottenere dal Consiglio di Sicurezza Onu tutto il Kashmir... se accettano di ospitare il Focolare Nazionale Rom (capite anche voi che all'inizio “focolare” suona meglio). I pakistani, che al momento ne occupano solo 1/3, accettano, sperando di ottenere dall'Onu che l'India ceda gli altri 2/3. Questo potrebbe anche non accadere mai, ma nel frattempo cominciano ad arrivare i Rom, armati da noi e dagli italiani che hanno tanti sensi di colpa e armi da vendere”.
“Ma non hanno l'aria di un popolo bellicoso”.
“Gli insegneremo. Insomma, da cosa nasce cosa, a un dato momento i Rom iniziano a sparacchiare agli autoctoni. Gli autoctoni rispondono – è guerriglia. A questo punto i Rom dichiarano unilateralmente lo Stato del Romistan, noi lo riconosciamo, gli italiani pure... il gioco è fatto”.
“Ma non è un po' temerario... voglio dire... creando una piccola nazione su base etnica in una regione schiacciata tra due potenze regionali... non rischiamo di creare uno stato di guerriglia permanente?”
“Questa era il Motivo Numero Quattro, appunto”.
“Rimane da risolvere il problema di quelli che nel Kashmir ci abitano già”.
“Ma signori, noi non siamo qui per risolvere i problemi, noi siamo qui per trasformarli in problemi nuovi, più adatti al Nuovo Millennio. Gli abitanti del Kashmir oggi si sentono un po' indiani un po' pakistani – quando il Romistan avrà firmato la pace separata con entrambe le nazioni, non saranno né paki né indù. Non saranno più nulla. Potranno essere assimilati dai Rom”.
“E sei Rom non volessero?”
“Nascerà un altro minuscolo movimento nazionalista, per la gioia dei venditori di spillette, di foulard e di armi. Continueranno a fare la loro guerricciola per 60 anni, emozionando qualche intellettuale europeo, e alla fine magari otterranno qualche striscia di terra anche loro. Oppure li trapiantiamo tutti in un'altra regione ricca di risorse interessanti – non so, la Cecenia – e il gioco continua. Che ne dite?”
“Mah. Non credo di avere mai sentito una proposta geopolitica più insensata e criminale di questa. Dico, è incredibile”.
“Troppo buono”.
“Voglio dire, com'è che nessuno ci ha mai pensato prima?”
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IV novembre

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E adesso cosa si fa?

Vogliamo espellere tutti i militari in pensione potenzialmente pericolosi?
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- bamba platonico

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Non è che abbia molte buone notizie, io.
Vittorio Feltri, lui sì che ne ha.

E in certi giorni mi piacerebbe svegliarmi ed essere Vittorio Feltri – non fraintendetemi, non sono malato, o forse sì, la mia malattia è che ho sempre adorato i titoli e i titolisti, la capacità di riassumere tutto il bello e il brutto di una giornata in un titolo e regalarlo al lettore.

E scommetto che Vittorio Feltri ha avuto ottimi titoli per tutta la settimana (non lo so – non ho controllato), scommetto che è stata una settimana felice per lui, una di quelle settimane da fregarsi le mani, da andare a letto col sorriso stampato sul cuscino e da svegliarsi col medesimo sorriso, e che dire? Beato lui.

Le buone notizie di Vittorio Feltri, in sostanza, si riducono ad una sola: l’Islam ci odia.
Ci invidia, perché da noi si sta meglio. Allora ci invade.
Noialtri Bamba, come direbbe Vittorio, cerchiamo di reagire pacificamente. Ma non c’è nulla da fare e Vittorio lo sa.

Se andiamo ad aiutarli in casa loro, ci sgozzano (e Vittorio ci fa un titolo).
Se li accettiamo in Italia, li rispettiamo, riconosciamo i loro diritti, diamo un lavoro alle loro figlie, magari poi ce ne innamoriamo, loro la sgozzano (E Vittorio ci fa un titolo).
Se da bamba facciamo finta di niente, perché un delitto estivo non può servirci a giudicare un’intera comunità di migranti; se portiamo pazienza in attesa che passi una generazione, che si crei una classe media di emigrati integrati, come in Gran Bretagna, embè? Quella classe media continuerà a covare rabbia e frustrazione e cellule di Al Quaeda che si faranno esplodere negli aeroplani. Per la gioia di Vittorio che ci farà un altro articolo. (E magari si scomoda anche Oriana, per l’occasione, con un opuscoletto in 2-3 volumi).

Quindi capite, a un certo punto uno si stanca di fare un bamba. Oggi per esempio io vorrei essere Vittorio Feltri.
E se m’impegno, magari.

Being Vittorio F.

Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri.
Io sono Vittorio Feltri Io sono Vittorio Feltri Io sono Vittorio Feltri Io sono Vittorio Feltri Io sono Vittorio Feltri.

Ce l’ho fatta. Ecco, ho il mio cravattone, camicia a quadri e la pipa. Sono Vittorio Feltri, finalmente i capelli stanno al loro posto.
E sono abbastanza soddisfatto. È solo un peccato che tutti questi delitti e attentati di matrice islamica scoppino sempre in agosto, quando giornali se ne vendono così pochi. D’altro canto, se io sono Vittorio Feltri, di giornali ne vendo pochi tutto l’anno, quindi, chi se ne frega?

Io sono Vittorio Feltri. Gli altri sono dei Bamba. Non capiscono che pericolo sia l’Islam. Io invece lo so. L’Islam ci odia.
È un bel problema. I Bamba non hanno la soluzione.
Io, invece?
Io sono Vittorio Feltri. Questa è la mia soluzione. Purtroppo è una soluzione per pochi. Voialtri bamba potete, al massimo, comprare Libero, dove leggerete Vittorio Feltri che vi dice che l’Islam vi odia, cosa che tra l’altro probabilmente è vera, specie se l’Islam è il dirimpettaio marocchino che vi vede uscire di casa con Libero sottobraccio.

Io sono Vittorio Feltri e la mia fortuna l’ho fatta. E meno male che a un certo punto ho scoperto questa cosa dell’Islam che ci odiava, perché diffamare Di Pietro o i listati Mitrokhin non rendeva altrettanto, proprio no.

Però, insomma, io sono solo Vittorio Feltri, ed è inutile che mi stiate così col fiato sul collo a chiedermi cosa si dovrebbe fare contro l’Islam, che ci odia. Se vi siete comprati Libero, avete già fatto molto. Per il resto, non lo so. Chiudere le frontiere. Che sono già abbastanza chiuse, lo so. E voi chiudetele di più. Come? Booooh, io non amo entrare nei dettagli, io sono un titolista. L’essenziale è combattere il multiculturalismo, questa religione dei Bamba. E il multiculturalismo si combatte con, con, con, con le copie del mio giornale, Libero. Io sono Vittorio Feltri.
Ce l’ho con le moschee. Chiudete le moschee. E dopo ci saranno le moschee clandestine, più difficili da monitorare, lo so benissimo, non sono un Bamba, sono Vittorio Feltri. Un Bamba platonico.

Come se ne fregasse più di tanto, a me. Io sono un giornalista, non ho mica doveri verso i posteri. L’unico postero verso il quale avevo dei doveri l’ho già sistemato in un giornale. È mio figlio, e passerà la vita a scrivere battutine contro i Bamba. Proprio come me. Questa è la nostra soluzione al problema. Mi rendo conto che è per pochi.

D’altro canto, a ognuno il suo mestiere. Io faccio il giornalista, non cambio il mondo, mi limito a sghignazzarci sopra. Se avessi il potere di risolvere i problemi, non saprei che farmene.
Una volta in Italia diedero questo tipo di potere a un giornalista. Non ci fece una buona figura. Ognuno deve stare al posto suo.

Prendete il gestore di questo blog. Io, Vittorio Feltri, sono autorizzato a rivelarvi che è un Bamba. Lui ha questa idea, che le cose potrebbero andare meglio: che gli islamici potrebbero diventare un po’ più occidentali e gli occidentali un po’ meno stronzi. Questa idea lui la chiama Speranza. Perché è un Bamba.

In realtà non è una speranza. È l’unica cosa che ha. Non potrebbe vivere pensando che il mondo continui ad andare così. Con l’Islam che spara addosso il suo odio e noi che lo perfezioniamo e glielo rimandiamo indietro in confetti esplosivi. Così no. Così no. Non si può vivere, non si può scrivere, non si può programmare un futuro. L’unica soluzione è la speranza.

Ma la speranza, quando è l’unica cosa che resta, non è più una speranza. È solo l’altra faccia della disperazione. Questo Bamba, come molti altri Bamba, non è pacifista o multiculturalista o blablabla per capriccio. È pacifista o multiculturalista o blablabla per disperazione.

Cazzi suoi. Io non ho bisogno di speranze, ho tutto quello che mi serve. Ho il cravattone, la pipa, un giornale, un mestiere. Sono Vittorio Feltri. E voi siete i Bamba. E per oggi chiudo.
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"Perché - si chiede monsignor Frisina - presentare con tanta leggerezza e facilità personaggi così negativi come Eminem, che incitano alla violenza contro i genitori, all'odio razziale, alla trasgressione? È un problema della Rai, ma anche le tv private non possono sottrarsi alla grave responsabilità di essere più attente ai contenuti dei programmi". Don Sciortino, si chiede, a sua volta, "perché Sanremo va a cercarsi grane con un personaggio simile solo per inseguire una discutibile audience? È grave.

Ma è poi così scandaloso Eminem?
Può anche darsi che inciti "alla violenza contro i genitori, all'odio razziale, alla trasgressione". In inglese. E a noi italiani cosa resta? Un vago abbaiare anglofono su basi ben confezionate, in una manciata di video simpatici. E un'immagine di orgoglio razziale, questa sì preoccupante: vedete, anche un bianco può fare il rap (Eminem non è un tipo qualunque: è il bianco qualunque).
Ma qualcuno si è veramente preoccupato di tradurre i testi di Eminem? I ragazzini vegliano la notte compulsando il booklet del CD con a fianco l'Hazon Garzanti? Ma dai.
Io da piccolo ero andato a ripescarmi The End dei Doors, dove c'è quel verso che dice "Father – yes son? – I want to kill you". Ma era un inglese molto basico, come si vede. Invece non riuscirò mai a capire chi ascolta rap inglese in Italia. Bisogna avere una conoscenza della lingua, e perfino della cultura, molto approfondite, per capirci qualcosa.
Altrimenti, si simula. Ci si affeziona a qualcosa perché ci hanno detto che è bello. Ci si scandalizza, perché ci hanno detto che è scandaloso. Ama, odia, scandalizzati, consuma, crepa. Che lo facciano i ragazzini, passi. Ma anche i vescovi. Tirando fuori anche quello che è successo a Novi Ligure. Per carità d'Iddio.
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