Alla ricerca dei relitti delle navi negriere per non dimenticare le proprie radici: la sfida di 500 sub afroamericani

Un'associazione di subacquei afro americani si immerge per trovare i relitti dei velieri che trasportarono i loro antenati nelle Americhe

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“Quando sei un afroamericano e ti immergi sul relitto di una nave di negrieri lo fai con uno spirito completamente diverso dagli altri subacquei. Non puoi non renderti conto pienamente di due cose: la prima è che forse qualche tuo antenato è stato imprigionato su quella nave, la seconda è che hai una storia diversa da quella degli altri americani. Una storia che non è cominciata nei mercati degli schiavi sulla costa degli Stati Uniti ma molto, molto prima, nel continente africano”. Così racconta i suoi sentimenti l’archeosub ed istruttore Albert José Jones, uno dei fondatori della National Association of Black Scuba Divers, un’associazione americana di subacquei di origine africana.
Jones è anche membro del consiglio di amministrazione della Dwa, acronimo di Diving With a Purpose, traducibile con “immergersi con uno scopo”, un’organizzazione internazionale che si occupa di fornire ai subacquei la formazione necessaria a supportare progetti di ricerca e di conservazione del nostro patrimonio sommerso.
Proprio su proposta dei subacquei afroamericani, la Dwa ha recentemente varato un programma di ricerca dei relitti delle navi negriere che per più di tre secoli hanno fatto la spola tra le coste africane e quelle americane per trasportare una “merce speciale”: gli schiavi. La prima nave negriera batteva bandiera spagnola e salpò nei primi anni del 1500 per portare in Centro America quella forza lavoro che nel Nuovo Continente, tra un massacro e l’altro, cominciava a scarseggiare. L’ultima nave schiavista lasciò la costa africana nel 1866 diretta a Cuba. Continua

Il subacqueo che consegna le pizze in fondo al mare

A Key Largo, in Florida, un istruttore disoccupato si è inventato il servizio di consegna più incredibile del mondo

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Thane Milhoan prepara le pizze da consegnare ai clienti del Julius Lodge, in Florida
Facciamo che ve ne stiate in fondo al mare e che vi venga improvvisamente voglia di una “Quattro stagioni”. Due sono le opzioni che avete a disposizione: tornare in superficie, liberarvi della muta e di tutto l’equipaggiamento per correre alla pizzeria più vicina, oppure potete chiamare lui, Thane Milhoan, che in men che non si dica, vi raggiungerà con pinne e boccaglio, per consegnarvi la vostra pizza ancora calda e fumante.
No, no. Non stiamo scherzando. Quanto abbiamo scritto è tutto vero ed accade giornalmente nella splendida cittadina di Key Largo, bagnata dall’azzurro mare della Florida. I clienti di Thane sono gli ospiti di un famoso hotel subacqueo: il Jules Undersea Lodge. “Jules” sta per Giulio Verne, quello delle “Ventimila leghe sotto i mari”.
L’hotel che si onora del suo nome non scende così in profondità e si ferma ai primi 10 metri sotto il livello del mare. Ma il Julius rimane comunque un vero hotel subacqueo. Unico negli Stati Uniti e, per quanto ne sappiamo, nel mondo. Per accedere alle stanze, gli ospiti non hanno altra scelta che infilare maschera e pinne e tuffarsi nel blu, perché la reception è sul fondale e non ci sono, come in altre strutture simili, tunnel che lo colleghino alla superficie. Continua

Ritrovato il relitto dell’Endurance, la nave polare di Sir Shackleton

La spedizione è costata 10 milioni di dollari messi a disposizione da un ignoto filantropo
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Il timone ancora intatto dell'Endurance nei fondali del gelido mare di Weddell
E’ una autentica leggenda dei mari quella ritrovata nelle profondità del mare di Weddell dalla spedizione guidata dall’archeologo marino Mensun Bound e dal geografo John Shears.
Il Maritime Heritage Trust, il giornale on line delle isole Falkland che per primo ha dato la notizia al mondo, ha definito il ritrovamento “la ricerca di relitti più impegnativa del mondo”. E l’obiettivo non poteva che essere una delle navi più famose del mondo. Una nave che ha scritto la storia delle esplorazioni polari: il veliero Endurance di Sir Ernest Shackleton.
Il grande esploratore salpò a bordo del suo tre alberi dalla Georgia Australe, ad est delle Falkland, nel dicembre 1914, con 27 compagni di viaggio. Lo scopo della spedizione era quello di attraversare l’immensa calotta glaciale antartica e doppiare il polo sud.
L’Endurance aveva fatto rotta verso la baia di Vahsel, sul lato orientale del Mare di Weddell, la parte meridionale dell’Oceano Atlantico che bagna il continente antartico. Una volta raggiunto il polo sud, la nave avrebbe dovuto i proseguire verso il mare di Ross, dall’altra parte del continente e fare ritorno in patria. Una sorta di giro del mondo ma da nord a sud, invece che da est a ovest.
Un’impresa epica ma destinata a naufragare. Dopo due giorni di navigazione nel mare di Weddell, che lo stesso Shackleton definì “la parte peggiore del peggior mare del mondo”, il veliero fu imprigionato nella morsa dei ghiacci polari. Presto fu chiaro che la nave non avrebbe retto all’urto del ghiaccio che si stringeva sempre più e l’equipaggio dovette trasferirsi sulla banchisa polare con le scorte di cibo e tre scialuppe di salvataggio. Continua

Il mare riporta ad una dottoressa scozzese una bottiglia con una lettera di quando era bambina

Venticinque anni dopo è stata ritrovata sulle coste della Norvegia una bottiglia con un messaggio che ha viaggiato per 800 miglia

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Venticinque anni dopo il messaggio è ritornato nelle mani della donna che l’aveva lanciato. Un messaggio di se stessa bambina, arrivato nella maniera più romantica possibile: all’interno di una bottiglia trasportata dalle onde del mare. Tutto cominciò nel 1996, quando una bambina scozzese di nome Joanna Buchan lanciò in mare una bottiglia al cui interno aveva inserito una lettera che aveva scritto per un progetto scolastico.
Le correnti oceaniche hanno trasportato la bottiglia per oltre 800 miglia e, 25 anni dopo, è stata raccolta sulla costa norvegese da una signora, Elena Andreassen Haga, che ha cercato immediatamente di mettersi in contatto con l’allora bambina scozzese cercandola nel grande oceano in cui tutti oggi abbiamo imparato a navigare: quello di internet.


Joanna, che oggi è una dottoressa e si è trasferita in Australia, è rimasta sorpresa quando questa sconosciuta signora norvegese l’ha contattata su Facebook per raccontarle che aveva trovato la sua bottiglia, riportandole alla mente un episodio che oramai aveva relegato ai confini della memoria. Immaginiamo l’emozione della dottoressa Buchan nel leggere quella lettera scritta da lei stessa bambina in cui confidava a se stessa adulta l’amore per i dolci e per gli orsacchiotti di peluche. Al contrario, i ragazzi delle sua età le stavano piuttosto antipatici!

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Costa Rica, un paradiso tropicale per gli amanti della subacquea e del surf

Alla scoperta del Paese con due oceani, ma senza Esercito, dove è possibile praticare qualsiasi tipo di sport acquatico

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Ai confini settentrionali di Panama, nel bel mezzo del Centro America, troviamo la Costa Rica, uno dei pochi Paesi al mondo che può vantarsi di affacciarsi su due oceani: l’Atlantico ed il mar dei Caraibi ad est, il grande oceano Pacifico ad ovest.
La Costa Rica , così perlomeno raccontano orgogliosamente i suoi abitanti, i ticos in dialetto locale, è una sorta di Svizzera del Centro America. Ed, in effetti, qualcosa di vero c’è in questo paragone, rapportando i livelli di vita dei ticos a quello degli abitanti degli altri Paesi del Centro America. Un balzo in avanti che, ti aspiegano tutti i ticos che trovi per strada, ha un nome, un cognome e pure un soprannome: José Figueres, detto don Pepe.
Fui lui che, dopo che l’ennesimo golpe militare che aveva insanguinato il Paese, scese dalle montagne con un gruppo di amici e fece la rivoluzione. Proclamato presidente, decise che l’esercito è una di quelle cose come il morbillo: meglio non averlo anche se gli altri attorno a te ce l’hanno. Il 1 dicembre del 1948 riuscì ad inserire nella Costituzione un articolo che aboliva definitivamente le forze armate. Continua

La strana isola dove le donne parlano una lingua e gli uomini un’altra

In un atollo della Micronesia, maschi e femmine hanno idiomi diversi a causa di un massacro causato dai gusci di tartaruga

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Sapwuahfik è un piccolo atollo perso nel ben mezzo del grande oceano Pacifico. Geograficamente appartiene all’arcipelago delle isole Caroline e batte la bandiera della Stato di Pohnpei che fa parte delle Federazione di Micronesia. Se non l’avete mai sentito nominare prima, non datevene pensiero che non siete i soli. L’atollo è composto da una decina di minuscole isolette la cui superficie complessiva arriva a malapena a superare 160 ettari.
L’isolotto più grande, Ngatik, è il solo ad essere abitato da una popolazione, secondo la stima più recente, di 682 persone. Sapwuahfik ha anche una pista d’atterraggio per piccoli aerei che sino a qualche anno fa si trovava a Ngatik, ma recentemente l’erosione marina e le mareggiate legate ai cambiamenti climatici, l’hanno trasformata in un’isola a se stante, per buona parte semi sommersa. Oggi gli aerei atterrano praticamente in mezzo al mare e se qualche buona anima non ti viene a traghettare in barca, tocca tuffarsi in mare per raggiungere il villaggio. Continua

Perché i serpenti di mare australiani cercano di “accoppiarsi” con i subacquei

Una ricerca scientifica pubblicata dall’autorevole rivista Nature ha fatto luce sull’imbarazzante comportamento dei rettili della barriera corallina

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Un serpente marino sulla barriera corallina
Immergersi nell’incontaminata barriera corallina australiana è il sogno di tutti i subacquei ma possono capitare avventure quantomeno sconcertanti quando hai a che fare con le 32 specie di serpenti marini velenosi che vivono in quei mari azzurri. Abbiamo scritto “sconcertanti” e non “pericolose” perché queste specie di rettili anfibi sono tutt’altro che aggressive e non presentano veri propri pericoli per i subacquei che adottino comportamenti consapevoli, tipo quello di evitare di afferrarli per la coda!
L’ultima vittima di un serpente marino australiano si è registrata nel 2018 e non era un subacqueo ma un giovane pescatore appena 23enne che aveva infilato inavvertitamente la mano in una reta da pesca che aveva catturato uno di questi rettili.
I serpenti marini australiani rimangono comunque tra gli animali più velenosi del pianeta, il loro morso non lascia scampo, ed comprensibile il terrore che molti subacquei hanno provato quando si sono imbattuti in questi rettili, non di rado lunghi sino ad un paio di metri, che gli si sono avvolti alle gambe e hanno cominciato a leccarli come un bambino con il suo Chupa Chups!
Un comportamento strano, segnalato da molti subacquei australiani che, se pure non ha mai causato vittime, è rimasto inspiegabile sino a che tre biologi australiani, Tim Lynch, Ross Alford e Richard Shine, hanno pubblicato sulla celebre rivista Nature uno studio scientifico dal titolo “Mistaken identity may explain why male sea snakes ‘attack’ scuba divers”. Traduzione per i non anglofoni: un errore di identità spiega perché i serpenti marini maschi ‘attaccano’ i subacquei. Continua

Col progetto “MedFever” i subacquei misurano la febbre del Mediterraneo

L’associazione MedSharks ha sistemato una rete di termometri nei fondali marini per misurare e combattere i cambiamenti climatici

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La rete di termometri marini del progetto MedFever
Il Mediterraneo ha la “febbre” e saranno i subacquei a misurargliela. Secondo le più recenti statistiche, infatti, negli ultimi vent’anni la temperatura del nostro mare, continuamente monitorata in superficie dai satelliti, è costantemente aumentata rispetto al trentennio precedente.
Nel luglio del 2019, per esempio, è stata registrata una temperatura di 1,9 gradi Celsius superiore alla media dello mese misurata nel triennio 1961-1990. Nell’agosto dello stesso anno, invece, la temperatura era superiore di 1,4 gradi. Dati preoccupanti e dalle imprevedibili conseguenze che ci dicono come stiamo perdendo la battaglia contro i cambianti climatici.
I nostri mari, con la loro capacità di fare da “camera di compensazione“, assorbendo all’incirca il 90% del calore in eccesso che si sviluppa sul pianeta, rappresentano infatti l’ultimo baluardo per contenere quell’aumento delle temperature mondiali che è già in atto.


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