Un quinto degli italiani ha il diritto di cambiare la Costituzione di tutti?

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20) Ok, domani si vota. So che non vedete l'ora. E mettiamo che il Sì vinca, ma di misura. Sarà tutto regolare?

No, non sto parlando di brogli. C'è un problema un po' più grosso, ovvero: quanto sarà credibile una vittoria del Sì, se al referendum non votassero in tanti?

Immaginatevi la situazione. Mettiamo che vada a votare meno del 50% degli aventi diritto - una stima anche ottimista, considerando gli ultimi referendum: diciamo venti milioni di italiani. Mettiamo che il Sì prevalga di poco, come suggeriscono alcuni sondaggi (che sbagliano sempre). Diciamo 11 milioni, in linea con le europee del 2014 (due anni dopo Renzi non sembra altrettanto popolare, ma ultimamente s'è speso molto, anche in tv - anche se forse la tv non serve, e tuttavia). Cosa succederà?

Tecnicamente sarà tutto regolare: undici milioni di italiani avranno ratificato la riforma Renzi-Boschi. Fine della storia.

Politicamente, sarà lo strappo definitivo. Milioni di italiani non accetteranno il risultato. Vuoi per tigna, vuoi per livore antipolitico. Ma anche per una questione di buonsenso.

Vi ricordo che la consultazione referendaria è necessaria perché la riforma, in Parlamento, non è passata con la maggioranza qualificata richiesta (2/3 dei votanti). Aggiungiamo che l'attuale parlamento è stato eletto con una legge elettorale incostituzionale. Questo non significa che sia illegittimo: nella stessa sentenza la Corte lo ha escluso, in virtù del "principio fondamentale della continuità dello Stato": nell'attesa di una legge elettorale finalmente costituzionale (attesa che si sta rivelando un po' faticosa), un parlamento deve pur esistere, e quindi ci teniamo quello eletto incostituzionalmente. Forse non era il parlamento più adatto per modificare così profondamente la Costituzione, ma Napolitano ci teneva tanto, Renzi pensava di potercela fare, e così eccoci qui.

Ricordiamo en passant che lo stesso Renzi governa con una maggioranza che al momento delle elezioni non esisteva, dato che non esistevano i partiti che la compongono; quello di Alfano, quello di Verdini (che adesso non so più come si chiamino) e il PD di Renzi - quest'ultimo, sì, esisteva, ed aveva pure vinto il super-premio di maggioranza alla Camera, ma presenandosi alle elezioni del '13 con un programma diverso, e un altro leader (Bersani): Renzi era stato sconfitto alle primarie e non s'era nemmeno candidato alle politiche.

Ricapitolando: c'è un parlamento eletto con una legge incostituzionale, che può legiferare soltanto perché finché non scrive una legge costituzionale non ci può essere un altro parlamento più legittimo. C'è un governo che è espressione di una maggioranza composta da partiti che alle elezioni non si sono nemmeno presentati. Il suo leader può contare su una maggioranza, alla Camera, grazie a un premio elettorale (incostituzionale) conquistato dal suo predecessore, che non ne condivideva le idee e i progetti di riforma costituzionale. Questo nuovo giovane leader, invece di limitarsi a far riscrivere una legge il più costituzionale possibile e rassegnare le dimissioni, auspicando lo scioglimento del parlamento... decide di presentare allo stesso parlamento la riforma costituzionale più radicale dal 1946. Servono però i due terzi dei parlamentari: ce li ha? No. Malgrado il super-premio (incostituzionale), malgrado le alleanze (strette dopo le elezioni con partiti che non si erano nemmeno presentati), Renzi quei due terzi non ce li ha. E allora chiede di indire un referendum propositivo.

Il referendum lava più bianco: non importa quanto sia raffazzonata e trasformista la compagine che sostiene Renzi: non importa che provenga da un parlamento eletto incostituzionalmente, perché a questo punto la palla passa ai cittadini. Se più della maggioranza degli elettori troverà buona la riforma Renzi-Boschi, il fatto che sia stata scritta da gente arrivata al governo un po' per caso non avrà più importanza. Più che la Renzi-Boschi, sarà la riforma del popolo italiano. Tutto bene? Insomma.

C'è un piccolo intoppo. Il referendum propositivo non ha il quorum. 11 milioni di italiani potrebbero reclamare il diritto di cambiare la Costituzione per gli altri 50 (per altri 40 di aventi diritto). Vi sembra giusto? A milioni di italiani non sembrerà giusto. Non lo accetteranno. Potrete sempre inveire contro di loro sui social: trattarli da ignoranti che non capiscono la democrazia.

Dove la democrazia è quella cosa che secondo voi funzionerebbe così: un parlamento eletto con una legge incostituzionale, invece di scriverne un'altra costituzionale e sciogliersi, vota la fiducia al governo diretto da un tizio che non ha vinto le elezioni - era opposizione interna nel partito che le ha pareggiate, non si è neanche candidato - e approva (ma senza maggioranza qualificata) una riforma costituzionale voluta da costui: la stessa riforma viene poi confermata mediante referendum da... un cittadino su quattro. Ma siete proprio sicuri che la democrazia sia ancora questa cosa qui? Siete sicuri che i grillini, oltre a essere beceri, ignoranti, livorosi, non abbiano semplicemente ragione?

Nel dubbio, fossi in voi, voterei No. Magari la prossima volta si fa una riforma più condivisa.

(Gli altri motivi:

1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?
15. Chi abolisce le Province non capisce il territorio.
16. Se passa la riforma, per un po' ce la dovremo tenere; se non passa, possiamo subito proporne una migliore
17. Perché non vorresti mai darmi ragione.
18. Perché "NO" almeno sai come si scrive
19. Se vuoi risparmiare taglia le poltrone; costringere sindaci e consiglieri a sedere su più poltrone contemporaneamente è una cattiva gestione delle risorse.
20. Perché anche se vincesse il Sì, la riforma non sarà stata approvata dalla maggioranza dei cittadini).
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Referendum propositivi? Cosa potrà mai andare storto?

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Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali (dall'articolo 71 della Costituzione riformata).

A proposito di leggi di iniziativa popolare: sono passati quasi due anni da quando Beppe Grillo presentò trionfante le 50.000 firme (raccolte in un week-end) che chiedevano l'istituzione del referendum propositivo. Il piano di Grillo, un po' tortuoso, prevedeva poi di raccogliere altre firme per indire un referendum che avrebbe proposto al governo di uscire dall'Euro (ripeto perché secondo me è bellissima: Grillo non ha mai direttamente chiesto di uscire dall'Euro; Grillo ha raccolto firme per proporre una legge che istituisse un referendum per proporre agli italiani di uscire dall'euro).

L'iniziativa di legge popolare m5s si è arenata, com'era ovvio: in compenso Renzi ha fatto inserire il referendum propositivo in Costituzione. Non è l'unico caso in cui i due sembrano in sintonia: Grillo tuona contro le auto blu, Renzi le mette su ebay. Grillo vuole tagliare gli stipendi ai politici, Renzi propone un senato di dopolavoristi. Grillo vuole chiudere Equitalia, Renzi la chiude. Grillo voleva il referendum propositivo. Renzi lo introduce. Cosa potrà mai andare storto? Si tratta solo di chiedere ogni tanto un parere al popolo. Ragionevole, no?

No, niente. 

Vi è piaciuta questa campagna elettorale? A me non è sembrata così violenta come dicono in giro, ma è anche vero che non guardo i talk show. Comunque pensate: tra un anno potremmo avere un bel referendum propositivo sull'Euro. Perché no? E chissà come andrà a finire, eh? Negli ultimi due anni abbiamo avuto due meravigliosi esempi: la Grecia e la Gran Bretagna. Parliamoci chiaro: Grillo è un populista, è il suo mestiere, lo fa con una certa grazia istintiva. No, non gli farei gestire il mio condominio (ma neanche lui si proporrebbe). Renzi per contro è un politico con ambizioni di statista. Cosa gli sta dicendo il cervello? Se dopo la calda estate greca del '15 e la Brexit del '16 ha ancora voglia di subire o indire referendum propositivi, qualcosa veramente non va. Non abbiamo già abbastanza problemi? Lo chiedo a tutti quelli convinti che se vincesse tra dieci giorni poi Renzi avrebbe campo libero per cinque o dieci anni: ma avete capito che campo minato ci aspetta se passano i referendum propositivi?

Il caso greco è particolarmente istruttivo. A inizio di luglio il governo greco chiede ai propri cittadini un parere sul pacchetto di misure proposte (imposte) da Bruxelles. Il popolo greco risponde di no - e d'altro canto sarebbe stato molto curioso il contrario. Ti chiedono un parere su aumenti di tasse e licenziamenti, cosa dovresti rispondere? No. Festa di piazza, il popolo ha parlato, Varoufakis si dimette, ufficialmente per non ostacolare le trattative. Tre settimane dopo il governo greco accetta un pacchetto di misure sostanzialmente più aspre di quelle che erano state sottoposte a referendum. Perché questo è il bello dei quesiti propositivi: fanno populista e non impegnano. In fondo Tsipras non aveva mica scritto sulla scheda "rifiuti qualsiasi tipo di pacchetto". Se ne rifiuti uno pesante, non è detto che quindici giorni non ti vada di mandarne giù uno più pesante. Però ti ho chiesto un parere, non è bello chiedere i pareri?

Ma perché Tsipras e Varoufakis chiesero un parere? Non erano già i legittimi rappresentanti del popolo greco, autorizzati dal voto popolare? In teoria sì. In pratica:


Come cercò di spiegare Varoufakis in uno dei tweet più belli di sempre: noi abbiamo preso solo il 36% dei voti, non ci si può mica aspettare che prendiamo una decisione tanto grave! Per una decisione del genere abbiamo bisogno almeno del 50%+1. Una dimostrazione più evidente di quanto sia sbagliato il maxipremio di maggioranza non si potrebbe avere - ci torno su perché a quanto pare il "modello greco" continua a interessare ai nostri riformatori: un bel premio di seggi al partito che arriva primo e amen. Ecco: in Grecia non solo non ha assicurato la governabilità (due elezioni in tre mesi), ma ha creato una specie di crisi di legittimità: quando rappresenti soltanto un terzo dei tuoi elettori, fai oggettivamente fatica a imporre agli altri due terzi delle misure impopolari. Sai benissimo che è la tua fine politica. E allora chiedi un parere: referendum consultivo. Ma funziona?

Il referendum di indirizzo è una strana creatura che sorge spontanea nella putrefazione dei corpi intermedi, e si nutre della mancanza di visione dei leader. Cameron è contrario a uscire dall'Unione Europea, ma non riesce a imporre la sua linea a parte dei Tories: indice un referendum (a cinque mesi dal voto sulla Brexit, i britannici non hanno ancora capito come usciranno dall'UE. Pensavano che non servisse un voto del Parlamento - l'Alta Corte ha detto che serve. Forse serve anche il parere di quello scozzese, di quello gallese, forse, non si sa). Grillo non osa dirsi contrario all'Euro: Grillo propone un referendum. Se poi crolleranno le borse non sarà mica stata colpa sua, lui mica voleva uscire, lui voleva solo chiedere un parere. Tsipras e Varoufakis vincono col 35% il gran premio delle elezioni greche, ma non hanno poi tutta questa voglia di recitare la parte dell'antipatico che impone le tasse anche al restante 65% - sicura garanzia di perdere il gran premio successivo. E allora indicono un referendum. Non sai quel che vuoi? Lo chiedi ai tuoi elettori, lo sapranno loro. I tuoi elettori hanno idee più confuse delle tue? Eh, sarà colpa del suffragio universale, dell'era postfattuale, delle notizie finte su facebook. E andiamo avanti così. Il referendum consultivo è il lato oscuro della governabilità: in teoria vai spedito, non accetti compromessi, e ci vediamo tra 5 anni. In pratica, appena ti tocca imporre una tassa in più, una norma in più, sei fregato. Sai che gli elettori se la prenderanno solo con te. Fai una mossa laterale: chiedi un parere al popolo. Provi a responsabilizzarlo. Cosa potrà mai andare storto? Non so, chiedete a Cameron: il popolo non vuole responsabilizzarsi e trascina il Paese in un guaio enorme. Chiedete a Tsipras: il popolo non vuole un pacchetto ma alla fine gliene fai mandare giù uno più pesante.

Io credo nella democrazia rappresentativa, che cerca di rimediare alla non specializzazione degli elettori offrendo loro delle figure intermedie, che sappiano dimostrare la propria competenza e autorevolezza. Non disprezzo chi raccoglie firme - è una degna forma di lotta - ma non credo nei plebisciti, non credo nelle scorciatoie populistiche. Si capisce che chi vuole governare senza avere il 50% del voto popolare sarà spesso tentato di indirne uno per rafforzare la propria posizione (in fondo è quello che Renzi sta facendo in questi giorni, salvo che adesso usa la Costituzione come pretesto). Mi sembra tutto sbagliato: credo che l'esecutivo deve essere espressione di una maggioranza solida, rappresentante una netta maggioranza del Paese, magari messa assieme mediante coalizioni, patti, alleanze e inevitabili compromessi. Credo nel meccanismo di delega, temo che trasformare i partiti in comitati elettorali li renda fragili e incapaci di articolare qualcosa che non sia funzionale alla carriera del leader di turno. I referendum propositivi rappresentano tutto quello che secondo me non va nella politica di oggi: ovviamente di fronte a questa brutta e miope riforma che cerca di introdurli voto No. (E non prendetevela con me se Grillo fa la stessa cosa: è lui l'incoerente).

(Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi).
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Il referendum tiepido di Matteo Renzi

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Io conosco le tue opere: tu non sei né freddo né fervente. Oh, fossi tu pur freddo o fervente! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo né fervente io ti vomiterò dalla mia bocca. (Apocalisse, 3,15-16)

È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente forza di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali (dall'art. 75 della Costituzione).

In Italia si fanno troppi referendum abrogativi. Sono consultazioni costose, che il più delle volte non portano a nessun risultato apparente (il quorum non viene raggiunto). Servono a movimenti minoritari e iper-minoritari per dimostrare a sé stessi e agli altri la propria vitalità; diffondono l'idea che l'attività legislativa del parlamento possa essere superata da periodiche consultazioni popolari - col piccolo problema che il popolo a queste consultazioni non si fa più vivo, o quasi. Però almeno gli scolari stanno a casa il lunedì (io odio i referendum abrogativi).

I critici del referendum abrogativo di solito si dividono in due frange: li chiameremo per comodità referendumari e antireferendumari. I primi ne vorrebbero di più (o almeno vorrebbero che funzionassero, abrogando leggi a tutto spiano); i secondi ne vorrebbero di meno, come probabilmente avevano previsto i padri costituenti, ai tempi in cui raccogliere 500mila firme doveva sembrare molto difficile. I referendumari spesso propongono l'abolizione del quorum: idea dissennata e irrealizzabile che annuncerebbe la fine della democrazia parlamentare, e che infatti Grillo, grande referendumaro, ha rilanciato più volte. I secondi, più timidi, hanno spesso suggerito di alzare l'asticella del numero di firme da raccogliere. Evidentemente 500mila sono poche; oggi c'è tutta un'industria della raccolta che è destinata ad affinarsi con le nuove tecnologie.

E Renzi? È un referendumaro o un antireferendumaro? Eh. Ne vuole di più o ne vuole pochi, ma veramente importanti? Eh, eh.

Decidete voi:

La proposta soggetta a referendum [abrogativo] è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto o, se avanzata da ottocentomila elettori, la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi (dall'art. 75 della Costituzione riformata).

Renzi cerca di tenere il piede in entrambe le staffe - non importa che appartengano a cavalli che tirano in direzioni divergenti. Renzi doveva decidersi: se voleva meno referendum, avrebbero dovuto portare il numero di firme a 800mila o un milione; se ne voleva di più, avrebbe dovuto abbassare il quorum. Incredibilmente - ma non inaspettatamente - ha provato a fare entrambe le cose. Un po' grillino e un po' casta. Il tetto delle firme resta a 500mila: indire referendum dunque continua a essere facile come adesso. E i referendum continueranno a essere inutili come adesso, a meno che le firme raccolte non siano 800mila.

In questo caso il quorum si ridurrà un poco: non si fermerà al 50%+1 degli aventi diritto, ma al 50%+1 di chi ha votato alle elezioni precedenti. Mi piacerebbe tanto conoscere il costituzionalista che ha suggerito questa cosa un po' folle - ma è quel tipo di follia in cui si intravvede un metodo, insomma, bisognava trovare un numero più basso di 50%, ma almeno non si è fissato un numero a caso come 40% - no, il numero lo estrarranno a sorte gli elettori, ogni volta che andranno a votare per la Camera: se ci vanno in 35 milioni, il quorum sarà 17,4 milioni; se ci vanno in 30, sarà 15, e così via. Ha un senso, no?

Sì, un pazzo senso ce l'ha (ho qualche sospetto su Calderoli, è quel tipo di cosa contorta che a lui piace). Siccome le leggi le scrive il parlamento, possono essere abrogate soltanto da una volontà popolare che sorpassi quella che ha eletto la maggioranza parlamentare. Metti che il parlamento voti a maggioranza una legge che introduce, boh, il casco ai ciclisti; il popolo la può abrogare. Ma se il parlamento è stato eletto da 35 milioni di italiani, ci si aspetta che al referendum vadano a votare altrettanti; sennò nisba. Ribadisco, un senso ce l'ha. Magari a quel punto non si capisce perché questa logica scatti solo oltre le 800mila firme: come mai si istituiscono dei referendum di serie A e dei referendum di serie B? (tra questi ultimi vanno inclusi i referendum richiesti da almeno cinque consigli regionali, come quello che c'è stato in primavera sulle trivellazioni: per quelli il quorum resta fisso al 50%+1 degli aventi diritto).

L'affluenza ai referendum abrogativi, dal '74 a oggi.
Io sono un convinto antireferendumaro: credo che i padri costituenti considerassero il referendum abrogativo come un evento eccezionale, di quelli che capitano una volta al massimo per generazione, come le guerre o le epidemie. Non immaginavano che i cattolici avrebbero cercato di usarlo per chiamare la maggioranza silenziosa alla conta dopo che il divorzio era passato alle camere (fallendo); non immaginavano la nascita di micro-movimenti parassitari dediti alla raccolta di firme, alla pubblicizzazione di sé stessi e all'incasso di contributi (però grazie ai radicali non abbiamo più il ministero dell'agricoltura, è un risultato importante). Non potevano pensare che i referendum sarebbero stati usati per dare una spallata impropria alla partitocrazia (legge elettorale nel 1991) o al berlusconismo (abrogazione del legittimo impedimento nel 2011). Non potevano pensare che a un certo punto il referendum sarebbe diventato un momento rituale, un gioco delle parti che il più delle volte rafforza lo status quo. Non potevano immaginare tutto questo e un po' li invidio.

L'illusione che il popolo si possa sostituire al parlamento e farsi legislatore diretto, scolpendosi le leggi a piacimento col martello pneumatico del referendum, non mi sembra soltanto pericolosa, ma anche ridicola. Nei fatti non funziona: se abolisci un ministero, lo riaprono con un nome diverso; se abolisci i finanziamenti ai partiti, in seguito dovrai abolire i rimborsi. Il fatto che questa riforma non faccia nulla per combattere questa illusione - anzi la lusinghi con l'idea di un super-referendum a quorum abbassato - mi sembra un buon motivo per votare No.

Grillo e gli altri referendumari invece voteranno No perché Renzi non ha fatto abbastanza per rendere i referendum più efficienti - anzi non ha proprio fatto nulla: ha solo introdotto una clausola che probabilmente non scatterà mai. E dunque vedete come funziona la cosiddetta accozzaglia antirenziana? Se Renzi non piace né agli uni né agli altri, è perché ha cercato in tante cose una via di mezzo. Non è né caldo né freddo, e come mandò a dire l'Angelo alla chiesa di Laodicea: se non sei né caldo né freddo, fai vomitare. Io voterò No, Grillo voterà No. Ma se il No vincerà non ci metteremo d'accordo. È più probabile che i renziani - che stanno in mezzo - vengano a patti: o coi referendumari, o con gli anti. Io credo nella seconda eventualità, e quindi voto No.

(Gli altri motivi:
1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta).
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Il referendum è un martello pneumatico

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Tra un mese si vota per cambiare la Costituzione, e a questo punto credo valga la pena di parlarne sul serio - con l'ambizione di aggiungere qualcosa non dico di originale, ma che non sia già stato ripetuto fino alla noia; e che magari possa risultare interessante anche a chi ha deciso di votare Sì (io voterò No).

Premessa: non sono un costituzionalista, così come non lo siete voi che leggerete. Il fatto che ci venga chiesta un'opinione su questioni così delicate era, fino a qualche tempo fa, piuttosto inusuale. Non c'è bisogno di un referendum confermativo per emendare la Costituzione: bastano i due terzi del parlamento. Renzi non li aveva e questo, a mio parere, avrebbe dovuto ridurlo a più miti consigli: d'altro canto prendersela con lui perché non è prudente è un po' come prendersela con la cicala che frinisce al solleone, non potrebbe fare silenzio? No, è una cicala, è fatta così. Renzi è fatto così, Renzi va veloce, si è ritrovato a capo di una maggioranza risicata di un parlamento eletto con una legge dichiarata anticostituzionale e invece di limitarsi a cambiarla alla svelta e ripassare la palla agli italiani, ha pensato di usare questa risicata maggioranza per riscrivere qualche articolo legge fondamentale dello Stato. Renzi quando se la vede brutta rilancia e alla fine va anche solo contro tutti - magari gli dice bene.

A questo punto però c'è una cosa che i suoi sostenitori dovrebbero concedere, e cioè che è di fatto impossibile separare Matteo Renzi dalla riforma che ha voluto mandare avanti a dispetto dei numeri in parlamento, dell'opportunità politica e, beh, anche un po' del buon senso. Chi ieri gli rimproverava di aver personalizzato la questione, stava appunto lamentandosi del canto della cicala: Renzi personalizza, è il suo stile, se non vuoi la personalizzazione non ti prendi Renzi. Chi oggi addirittura gli propone di dimettersi per dare un segno, a mio modesto parere, manifesta lievi segni di ubriachezza: anche se Renzi domani decidesse di aprire un chiringuito ai Caraibi, la legge che ha voluto rimarrebbe renziana al 100%; vi si trovano ancora dettagli che sono stati messi per iscritto per la prima volta durante qualche vecchia Leopolda che ho la sensazione di ricordare meglio io di molti renziani di recente conversione. Chi accusa gli alfieri del No di "avercela con Renzi" sembra aver perso un passaggio: certo che ce l'abbiamo con Renzi, se non ci piace la sua riforma. Certo, molti suoi fieri oppositori danno la sensazione di guardare più all'Italicum, o al Jobs Act, o alla Buona Scuola, che al testo della riforma. In coscienza non credo sia il mio caso: io voterò No perché questa riforma proprio non mi piace.

Ma è così strano che i cittadini, nel momento in cui si chiede loro un parere con quella cosa gigantesca che è il referendum, non riescano a separare il Renzi riformatore della Costituzione dal Renzi rottamatore dell'articolo 18 o da quello che prima mette la fiducia sull'Italicum perché è la legge elettorale più bella del mondo, e poi cambia idea? Non solo i cittadini non sono tutti algidi costituzionalisti, ma non è previsto che lo siano. Non è previsto che non siano faziosi, non è contemplato che siano tutti ben informati: non sono una corte di saggi, sono un'enorme massa di persone che processa le informazioni nel modo caotico e impreciso che ormai ben sappiamo. E appunto: siccome lo sappiamo da tempo che con le masse va così, e non è obbligatorio consultarle, se proprio decidiamo di farlo, avrà senso lamentarsi del fatto che il dibattito diventi rozzo? Il referendum è uno strumento rozzo per costituzione. Sì, no, bim bum, fine. Vale per il confermativo quello che qualche anno fa annotavo per l'abrogativo: non è un bisturi - non dai a una massa un bisturi, non lo sa maneggiare - al limite è una ruspa, un martello pneumatico.

Il referendum abrogativo è un diabolico arnese. Da una parte entra la volontà popolare. Ma può entrare solo con una pressione fortissima: il 50% degli aventi diritto più uno. È abbastanza chiaro che se scomodi la metà degli italiani, quello che salta fuori dovrebbe essere Legge: una di quelle scolpite nel marmo. 

In realtà però questo getto fortissimo di Volontà Popolare non può scrivere un testo di legge. Può solo esprimersi in due modi: Sì, o No. Ultimamente è anche peggio di così: il getto di Sì o No non viene usato per abbattere una legge intera, ma soltanto qualche frase qua e là; per modificare un tecnicismo, limare una asperità, cambiare senso a un paragrafo. Riparare un testo di legge con un referendum abrogativo è un po' come rimuovere una carie con un martello pneumatico: per funzionare funziona, ma ha qualche controindicazione.

Ecco se vi va il primo motivo per cui voto No: prima ancora di entrare nel merito, non mi va di cambiare la Costituzione col martello pneumatico. Non credo sia la più bella del mondo, ma nemmeno che sia possibile migliorarla in questo modo. Tutt'al più fai qualche sbrago creativo che renderà necessario un successivo e più mirato intervento. Tanto vale saltare il passaggio.
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Grillo sragiona, ma Napolitano

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Sabato, per una curiosa coincidenza, sui due principali quotidiani italiani due anziani leader hanno presentato per l'ennesima volta la loro versione dei fatti. Uno non ha fatto che ripetere le solite cose, ha fatto spallucce davanti a errori anche gravi (d'altronde nessuno è perfetto), e ha promesso che da qui in poi sarà diverso, bisogna fidarsi. L'altro era Beppe Grillo.

Beppe Grillo è buffo, e lo sappiamo. La sua letterina al Corriere è così deliziosamente delirante che ti fa quasi sospettare un eccesso di malizia: vuoi vedere che l'ha scritta così apposta, vuoi vedere che dietro la punteggiatura da pensionato che iperventila c'è tutta una scienza, una retorica. Vuoi vedere che... ma va'. Beppe Grillo è stanco, sono anni che ce lo dice; quelli che ha chiamato a sostituirlo, nel migliore dei casi, apprendisti cialtroni. È già stata anche localizzata, da mesi, l'arena in cui li vedremo misurarsi con la realtà e mordere la polvere: il comune di Roma. Tutto già scritto, in parte prevedibile, ma poi è lo svolgimento che è interessante. È una specie di reality, una di quelle cose che in cambio del tempo che perdi a guardarle ti restituiscono un'appagante sensazione di superiorità. Era poi destino che Grillo, che di internet ha fatto una grancassa, su internet finisse spernacchiato. D'altro canto.

D'altro canto tutta questa gente che lo spernacchia tra qualche mese andrà a votare per un referendum, e magari seguirà i consigli di Giorgio Napolitano. Il quale, disturbato una volta in più da Mario Calabresi, non ha fatto che ribadire quella che sta diventando la linea: la Riforma ha dei difettucci ma dobbiamo prendercela così com'è, sennò sarà una specie di Brexit; quanto all'Italicum... beh, ma figuratevi, che problema vuoi che ci sia a cambiare l'Italicum? È almeno la seconda volta che Napolitano lo afferma, e ieri sera a quanto pare è diventata anche la linea di Renzi. Ma certo che si può cambiare l'Italicum - dal momento che è cambiata la situazione politica.

Momento.
Quand'è che sarebbe cambiata la situazione?

Ora, Beppe Grillo è tanto buffo, e il suo movimento si merita le pernacchie ormai inevitabili, e tuttavia qui ci troviamo di fronte a una cosa un po' più grave. Un presidente emerito che afferma: (a) che le leggi elettorali (comprese quelle da lui controfirmate) si possono un po' cambiare a seconda della situazione: cambiano le situazioni, cambiamo le leggi. E il presidente del consiglio è d'accordo. Ammettiamo anche che una figura istituzionale super partes possa riconoscere libertà alla maggioranza di fare e disfare leggi elettorali a seconda di come soffia il vento, resta il problema che (b) due anni fa il vento era già bello che soffiato. Cioè, ci state informando che l'italicum, col suo premio di maggioranza che non ha eguali al mondo, in un sistema tripolare diventa una specie di roulette? E due anni fa la cosa non era già evidente? Il M5S non era già quasi il primo partito d'Italia, intorno al 25%? Renzi, che ora è disponibile a ridiscuterne, non se n'era accorto, ché ci mise la fiducia? Giorgio Napolitano, che adesso dice che va cambiato, era distratto, ché ci mise la sua bella firma in calce? Però Beppe Grillo è buffo, certo. Magari, se continua a fare scenate sul blog o sul Corriere, ci svolta l'autunno. Come ai tempi di Berlusconi: finché si parlava di olgettine sembrava quasi che la crisi non ci fosse.
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Il vero motivo per cui odio i referendum

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Sono concepiti come una specie di piano B della democrazia rappresentativa, e quindi sempre più spesso maneggiati da chi vorrebbe che tale democrazia s'inceppasse; sono la droga dei movimenti, che quando non sanno che obiettivo darsi si mettono a raccogliere firme e se alla fine non succede niente sarà colpa degli elettori distratti; sono una colossale perdita di tempo per chi li promuove, per chi raccoglie le firme, per la corte costituzionale, per chi li va a votare e per chi non ci va e deve anche mettersi a spiegare le proprie ragioni; non ci hanno dato il divorzio (c'era già) né l'aborto (c'era già) ma ci hanno regalato perle straordinarie, come l'abolizione del ministero dell'agricoltura e del turismo, e hanno spianato la strada a eroi della politica e dell'antipolitica che meritavano probabilmente di trovarsela ben sbarrata (Pannella, Segni). Tutti motivi per cui io li odio, i referendum abrogativi.

E poi c'è quello vero.

Ci sono tanti modi per valutare una classe di scuola: il più sommario e sbrigativo, quello che si può usare anche quando la classe non c'è, sono i cartelloni. Un'aula con tanti cartelloni dimostra che la classe sta lavorando. A casa o in gruppo. In realtà non è sempre vero; ho conosciuto colleghi validissimi che non facevano mai cartelloni, e senz'altro certi cartelloni a guardarli bene sono uno spreco di tempo, di spazio e di pennarelli; e però vuoi mettere l'effetto che fa entrare tra quattro pareti nude, e invece penetrare in una selva di disegni e schemi e titoli e concetti. Così io cerco di far produrre tanti cartelloni. Mi faccio violenza, perché in realtà non vado matto per i cartelloni, quando ero uno studente non sapevo farli e non ho imparato in seguito. Soprattutto non sono mai stato molto bravo ad attaccarli. E invece adesso mi tocca - a chi altri se non me? Non è mica nel mansionario dei bidelli, e quanto agli alunni, non credo che abbiano il permesso nemmeno di salire su una scala.

Neanch'io uso la scala perché ce n'è una sola nel plesso e non la trovo mai, e comunque spostarla in un'aula con una trentina di banchi addossati alle pareti sarebbe troppo complicato. Quindi per salire in alto uso altri accorgimenti che non credo di poter divulgare adesso qui. Salgo con le puntine da disegno dei cinesi, coi rotoli di scotch dei cinesi (i cinesi hanno aperto uno spaccio di fronte alla scuola), a volte coi chiodi e il martello, mettendo a repentaglio la mia incolumità. Respiro cristalli di pura polvere scolastica, che rimane impregnata nei soffitti fonoassorbenti. Torno a casa che vorrei lavarmi via tutta la prima pelle. Non è una cosa che posso fare quando voglio, anzi è abbastanza difficile trovare il pomeriggio in cui quell'aula non serve a qualche altra riunione. Però quando finalmente ci riesco, la mattina dopo i ragazzi entrano nell'aula e vedono il loro lavoro, e sono contenti. "Avete visto", gli dico, "finalmente ce l'ho fatta, ho attaccato i cartelloni".
"Grazie prof, anche se".
"Lo so, la Finlandia è già caduta, questo maledetto scotch dei cinesi..."
"No prof, è che tra due settimane ci ha detto il bidello che bisogna togliere tutto".
"Come tutto?"
"Dice che fanno un referendum".
"Mapporc... siamo sede di seggio".
"A proposito, che cos'è un referendum?"
"È un momento di grande democrazia e partecipazione... aspetta, ci dev'essere da qualche parte un cartellone che ne parla".
"È qua sotto la Finlandia".
"Ma infatti".
"Lo riattacco?"
"Lascia perdere".
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Io voto sì (ma stare a casa è lecito)

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Oggi andrò a votare. Voterò sì (con l'accento) perché, se proprio interessa il mio parere, credo che le compagnie petrolifere si possono permettere di pagare qualche soldo in più di royalty, e che dovrebbe spettare a loro smantellare le piattaforme. Se questo penalizzerà l'estrazione di idrocarburi in Italia, ebbene, non mi pare che si tratti di un settore così strategico: anzi, ogni occasione è buona per cominciare a pensare ad altre fonti, ad altre soluzioni. Questo è il mio modesto parere, e confesso che non mi sarei preoccupato troppo di formarmelo, se il governo Renzi - che poteva benissimo snobbare la questione - non si fosse messo nelle ultime settimane a far propaganda per l'astensione, con uno zelo un po' sospetto. Non è che mi scandalizzi un presidente del consiglio che chiede ai cittadini di stare a casa: ne ho già visti. Però negare l'election day e poi lamentarsi che i referendum costano, ecco, mi sembra un po' grossa.

Questo mi ha fatto pensare che dietro la questione ambientale se ne nasconda un'altra più pratica, l'ennesima battaglia tra Stato e regioni. Il primo nell'ultima legge di stabilità ha avocato a sé la facoltà di concedere nuove licenze e di incassare le royalty che ne deriveranno; le seconde non ci stanno e promuovono o appoggiano il referendum. Non sono certo un fanatico dell'istituzione regionale (che in Italia è statisticamente la più corrotta), anzi: secondo me andrebbe trasformata in un ente di secondo livello, potenziando invece la provincia. Renzi ha deciso di fare esattamente il contrario, rafforzando la posizione dei presidenti e dei consigli regionali: trovo giusto che adesso se la veda con loro. Insomma io la penso così e per carità, non sono un esperto: sono una persona qualsiasi che s'informa un po' e crede di aver capito per sommi capi la natura della questione.

Per andare a votare, devo ritrovare in un qualche cassetto il mio certificato elettorale, e vincere la lieve ripugnanza che covo nei confronti dei referendum abrogativi. Stavolta ci vado, ma altre volte ho trovato giusto non andarci e non ci sono andato. La manfrina del dovere di votare, o del dovere di non fare propaganda per il non-voto, onestamente non la capisco. Se un indomani passasse una legge, poniamo, sulla stepchild adoption o sulla gravidanza assistita, e un comitato di cattolici integralisti e/o femministe integraliste riuscisse a raccogliere le firme necessarie per indire un referendum, io mi asterrei molto volentieri, e farei campagna per l'astensione. Se vogliono abrogare una legge dello Stato, si facciano il loro partito e se lo votino. Il potere legislativo lo esercitano le camere: i referendum abrogativi nascono da un compromesso (i cattolici volevano avere l'ultima parola sul divorzio) e hanno creato, per lo più, pasticci e frustrazioni: nonché dato il la a quel mito della democrazia diretta che prima superiamo meglio è. L'astensione è sempre stata parte del gioco, specie se il gioco consiste nel dare occasionalmente una specie di potere legislativo a un comitato che riesce a mettere assieme mezzo milione di firme. Le regole, poi, mi sembrano chiare da parecchio tempo. Posso capire i ventenni che hanno il diritto di vedere le cose come se apparissero al mondo per la prima volta: ma i coetanei che ancora discutono sul senso dell'astensione e del quorum mi sgomentano. Sul serio ne stiamo ancora a parlare? No, non ne stiamo parlando sul serio.
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Sul referendum, una posizione netta.

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Questi referendum non saranno utilissimi, ma almeno ci danno l'occasione di riparlare di quella che per noi del mestiere è una ferita sempre aperta. La vediamo sui giornali, in tv, su tutti i muri, e ci domandiamo: è giusto prendersela così tanto, è giusto soffrire per qualcosa che tra una generazione forse non interesserà più a nessuno?



Lo so che non ci si dovrebbe sempre atteggiare a esperti; che l'inerzia trionfa sempre nel medio-lungo termine; che è giusto che la maggioranza decida, anche quando non ha ancora gli strumenti - è un ottimo modo per forzarla a farseli, questi benedetti strumenti - e tuttavia alla fine dei dibattiti, c'è un'opinione a cui non mi sento di rinunciare: un paletto che devo piantare. Passi tutto il resto, ma questo no. Trivellate, smantellate, astenetevi o votate, ma c'è una cosa che voglio che sappiate.

"Sì" si scrive con l'accento.



(Anche maiuscolo, SÌ).
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Chi vota al referendum TOGLIE GLI ASILI AI BAMBINI!!!

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  • È successo anche a Renzi, e non sorprende, di essere stato giovane, di esser stato all'opposizione, di aver promosso un referendum e di essersi lamentato perché il governo non lo accorpava con una tornata elettorale. Non c'è nulla di veramente originale, si può dire che capita ogni volta: non c'è stratega referendario che non prometta ai suoi che questa volta sarà diverso, questa volta il Quorum sarà raggiunto, perché... perché i promotori chiederanno al governo l'Election Day, l'accorpamento del referendum con un altro voto amministrativo, o europeo. Se si tratta di risparmiare tanti milioni di euro (trecento!) come farà il governo a tirarsi indietro? 

Così.
Del resto lo fa sempre.
È vero, qualche soldo si potrebbe pure risparmiare (non trecento, è un calcolo esagerato che terrebbe conto persino del costo del babysitting per chi non può arrivare al seggio col passeggino): d'altro canto, nessuna legge obbliga il governo di turno ad accorpare elezioni e referendum, e così nessuno lo fa, se non gli conviene.

  • È successo anche a Renzi, e cosa c'è poi di strano, di crescere e andare al governo, e di trovarsi di fronte a ex amici che promuovevano un referendum, e gli chiedevano di accorparlo con una tornata elettorale. Per risparmiare trecento milioni di euro! Quante scuole, quanti asili nido ci potresti costruire con trecento milioni di euro? 

E Renzi, ovviamente, ciccia.
In fondo qual è la sorpresa? Quando promuovi i referendum cerchi di tirare l'acqua al tuo mulino; quando governi, idem. Se si parla di referendum abrogativi il governo è il banco: vince quasi sempre anche perché, se non succedesse, nessuno governerebbe più; in gioco c'è la stessa democrazia parlamentare. Insomma se c'è un voltafaccia è il più normale del mondo, fa notizia se proprio non abbiamo niente di meglio. Non abbiamo niente di meglio?

  • Se poi Renzi invita agli italiani all'astensione, e usa come argomento il risparmio, ecco: questo è il punto in cui il limite della decenza viene saltato, hop! come la ragazzina salta la corda, con quel brio sgarzolino che riesce sempre a strappare anche ai più sgamati tra noi un istintivo vaffanq. Lo stesso Renzi che una volta chiedeva di risparmiare accorpando i referendum; lo stesso Renzi che una volta al governo ha rifiutato di risparmiare accorpando i referendum, adesso chiede agli italiani di non andare a votare al referendum: così risparmiamo.  

Roma, 20 mar. (LaPresse) - "Questo referendum è 'no-spreco', non 'no-Triv'. Pensate a quanti posti asilo si potrebbero fare con quei 300 milioni che costa il referendum. 
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Senza Pannella (avremmo fatto schifo lo stesso?)

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Quando si tratta di parlare di Pannella - e di tenersi possibilmente il peggio per sé - sarei tentato di buttarla sul generazionale, ovvero: sarà anche stato un grande, ma io purtroppo sono arrivato tardi e mi sono beccato gli avanzi. Dite che è stato un grande attivista, un maestro per tutti, e volentieri ci credo (anche se tutti questi grandi discepoli in giro non li vedo, anzi, vedo personaggi spesso orribili e tipicamente trasformisti); io però ho solo fatto in tempo a vedere il vecchio Crono che ingoia il vecchio Partito Radicale con la supercazzola del "partito transnazionale" e lo sostituisce con un comitato intestato a sé stesso. Dite che è stato il protagonista delle grandi lotte civili degli anni Settanta; che senza di lui non ci sarebbe il divorzio, non ci sarebbe l'aborto - io però sono arrivato nel periodo in cui faceva raccogliere firme a macchinetta col risultato di far inceppare lo strumento, il referendum abrogativo.

(Non voglio dire che Pannella sia responsabile dei referendum inutili e dannosi: non ci fosse stato lui, avrebbe cominciato qualcun altro. Il numero di firme richieste dalla legge è evidentemente basso e così ci provano tutti; lui è stato semplicemente uno dei primi a pensare che con qualche centinaia di migliaia di firme avrebbe potuto mettere il cappello su questioni enormi. Funziona tuttora così, anzi, non funziona: prendi quest'ultimo referendum sulle licenze petrolifere. Una questione tecnica, di importanza relativa, spacciata come l'arma finale democratica contro la nostra dipendenza dagli idrocarburi. Il referendum non raggiungerà il quorum, le cose non cambieranno, ma i promotori avranno dimostrato il loro impegno. Il referendum abrogativo è la droga dei movimenti: dà a migliaia di attivisti la sensazione di fare qualcosa, di ottenere qualcosa).

Ma dicevamo di Pannella, insomma: sarà stato un grande ma io sono arrivato tardi e mi sono preso la parte peggiore: i discepoli impresentabili, il trasformismo tattico condotto con cinismo e spregio del ridicolo, i bofonchii incomprensibili, eccetera. Potrei risolverla così e sarebbe un modo per litigare con meno persone. Perché io non è che abbia voglia di litigare sempre con tutti, vero?

Vero?

Però non posso neanche prendervi in giro - e i discorsi generazionali quasi sempre questo sono: immaginose prese in giro, talvolta gradevoli ma sempre un po' offensive. È scontato che negli ultimi trent'anni Pannella abbia dato il peggio di sé. Temo sia un destino, per chi è alla ribalta da tanto tempo. Ma era pur sempre il peggio di Marco Pannella: non qualcosa di radicalmente nuovo. Diciamo una riproposta stanca di vecchi numeri che i nostri genitori forse trovavano geniali, ma avevano la tv in bianco e nero e appena due canali.

L'Espresso
Il solo fatto che ci siano in Italia migliaia di persone convinte che Pannella abbia promosso gli storici referendum sul divorzio e sull'aborto, che cos'è se non la prova della straordinaria capacità del personaggio di imporre la sua visione dei fatti? Ogni volta pazientemente bisognerebbe ricordare che no, il divorzio era già legge e quel referendum, il primo referendum, lo promossero i cattolici per abrogarlo: che Pannella col suo piccolo partito fece campagna per il NO, e la fece certamente con più coraggio dei comunisti di Berlinguer che avevano paura di perdere contatto con parte del loro bacino elettorale.

Pannella non aveva nulla da perdere perché già al tempo non lo votava nessuno; questo gli consentiva più libertà di movimento, ma il solo pensiero che quasi venti milioni di italiani abbiano votato NO perché glielo chiedeva un partito che due anni dopo prese l'1% alle elezioni, ecco: questa è una presa in giro e non è così gradevole. Quanto al referendum del 1981, i radicali lo promossero per abrogare parte della legge 194 (estendendo ad esempio il diritto di abortire anche alle minorenni) - e lo persero. A cosa servì? A dimostrare che i radicali all'aborto ci tenevano davvero, più di tutte le altre forze che avevano lottato in parlamento per ottenere una legge quasi decente. Da questo punto di vista ha funzionato.

Dal punto di vista di Pannella, quasi tutto ha funzionato. Regalare hashish in piazza, in retrospettiva, non ci ha fatto fare molti passi verso la depenalizzazione: in compenso ci ricordiamo tutti di Pannella conciato come Babbo Natale. Di tanti digiuni, che cosa ci è rimasto se non il corpo di Marco Pannella. Nessuno nega la sua importanza. Forse la sua lotta più sincera è stata quella per la personalizzazione della politica: in fondo è stato il primo a mettere il proprio cognome su uno stemmino elettorale, il primo a creare un partito azienda, seppure di dimensioni artigianali. Il primo a dimostrare che si può fare politica anche senza elettori: che ovunque c'è una battaglia per un diritto, lì arrivano le telecamere e c'è la possibilità di attirare l'attenzione, imbavagliandosi se serve; certo, la politica non è solo questo. Qualche risultato bisogna anche portarlo a casa e Pannella è sempre stato molto accorto nell'intestarsi i risultati altrui. Senza di lui avremmo divorziato e abortito lo stesso, più o meno con le stesse difficoltà; forse non avremmo banchetti referendari tutti i sabati in centro, partiti ridotti a liste elettorali stilate da personaggi più o meno carismatici che hanno registrato il marchio e cacciano chi vogliono. Vorrei poter dire che Pannella non è stato soltanto questo, ma onestamente non posso. Diciamo che sono arrivato tardi, e anche voi, se non volete litigare, fate finta di crederci.
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Civati e la battaglia sbagliata, o forse no

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Il Fatto
In questi giorni mi è capitato di scoprire che un po' nei banchetti di Possibile ci speravo. Non ho collaborato e nemmeno firmato; sono contrario ai referendum abrogativi, sia per principio che per strategia - e però mi sarebbe piaciuto, a questo punto dell'anno, congratularmi con Civati per il risultato insperato, in un bel post in cui comunque avrei rimarcato e misurato la mia distanza. Invece la raccolta è fallita, e a me stranamente dispiace.

Adesso potrei prendermela con un aspirante leader che sbaglia tattica e tempi, si aliena le simpatie di quelli con cui dovrà giocoforza allearsi, consumando le energie preziose dei suoi attivisti. Ma non ci riesco. Un po' perché ho la sensazione di averne già lette diverse, in giro, di analisi di questo tipo - mescolate a sfottò da ultras, del resto la formazione culturale del commentatore politico medio è quella. E un po' perché davvero, che altro poteva fare Civati, se non provarci? Tutto quello che ha fatto fin qui ha una sua logica, che purtroppo non è la logica che ti fa vincere le elezioni, ma pur sempre logica è. Dopo il disastro elettorale del '13 si è ritrovato all'estremità del PD - sullo squarcio vivo del bastimento che affondava. Aveva un senso improvvisarsi pontiere con i grillini, ed era inevitabile che questo lo rendesse inviso ai sacerdoti dell'ortodossia del M5S. Nel frattempo il relitto trovava un nuovo assetto intorno a Renzi, e il suo ex compagno di strada si ritrovava all'estrema sinistra: una posizione inedita per lui, forse mai cercata, ma mantenuta con una certa dignità. Era inevitabile che Civati cercasse di tenere alta la bandiera del dissenso interno, anche se le primarie andarono abbastanza male; era inevitabile che la fuoriuscita del partito, minacciata innumerevoli volte, diventasse una scelta obbligata.

Una volta precipitato nella scena un po' ridicola dei partitini di sinistra - una scena che varrebbe anche il 10%, se finalmente trovasse un progetto serio - che altro poteva fare se non tentare il colpaccio? Le speranze di raccogliere le firme durante l'estate erano senz'altro troppo ottimistiche (tarate probabilmente sulle città, e non sui piccoli centri di cui è fatta l'Italia): l'idea che poi un exploit del genere avrebbe obbligato il governo ad accorpare referendum ed elezioni amministrative era nel caso migliore una pia illusione (nel peggiore, si è abusato della credulità dei volontari). Però davvero, che altro poteva fare? Almeno ha messo fuori i banchetti. Era forse il periodo peggiore dell'anno; i quesiti potevano essere migliori; e il tanto sbandierato entusiasmo di chi ha aderito meritava di cimentarsi con un obiettivo più realistico.

I referendum abrogativi, mediamente, sono un pacco - è come giocare contro il banco, tu ti danni a raccoglier firme e ad autenticarle, poi ti sbatti a far campagna per il Sì, e anche quando vinci, quasi sempre la maggior parte degli italiani non è venuta a votare e quindi in realtà vince il tuo avversario - quello che per tutto il tempo magari è stato lì seduto a non far niente (al limite a controllare che tv e giornali non parlassero troppo di te). In sostanza ci si spezza la schiena per portare legna al proprio avversario. Non è raro sentir citare le Termopili.

Mi dispiace che gli attivisti di Possibile abbiano buttato via tanto tempo ed energia, ma ricordo che se invece fossero riusciti nel loro intento, avrebbero prevedibilmente regalato a Renzi una splendida opportunità per dichiararsi vincitore di una sfida nemmeno combattuta: come fece Berlusconi all'indomani del referendum sull'art. 18 (2003) o i vescovi dopo quello sulla fecondazione assistita (2005). D'altro canto.

D'altro canto prima o poi si andrà a votare - con l'Italicum, ormai - e se Renzi non passa al primo turno, i tanto bistrattati e litigiosi personaggi a sinistra del PD si troveranno in una situazione curiosa. Renzi avrà bisogno dei loro elettori. In quel momento forse scopriremo che non esiste un algoritmo elettorale in grado di eliminare il trasformismo, e che avere mantenuto una posizione, una presenza coerente, un nocciolino duro di adesioni, può renderti un interlocutore privilegiato. In quel momento forse Civati sarà una figura più nitida di altre, e questi due mesi di banchetti gli saranno serviti a qualcosa. Non proprio a combattere Renzi, no, ma comunque a qualcosa. Gli sfottò con cui lo subissano oggi sono pur sempre un attestato di esistenza. Magari un giorno qualcuno se li dovrà rimangiare, in nome di un fronte comune contro il grillismo o il fascio-salvinismo o chissà cos'altro.

Confido che in quel giorno eventuale, Civati non si dimenticherà dei volontari che mandò a combattere la battaglia sbagliata (non parlo di me, io ero al mare).
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Il referendum che Renzi può perdere

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Cosa fare con(tro) Renzi. 

Non prenderei nemmeno la parola, se non avessi maturato l'opinione che la politica sia un'arte molto meno raffinata di quel che vorrebbe essere. Viviamo in un complesso labirinto, vero: ma alla fine le scelte che ci arrivano davanti si presentano sempre in forma di bivi o trivi. Tutta la complessità che ci portiamo dentro alla fine la dobbiamo sacrificare di fronte a scelte secche: di qua o di là? Sinistra o destra? Restiamo fermi, proseguiamo, torniamo indietro? Chi tira una monetina può avere più successo di chi si carica sulle spalle vissuti o ideologie. E quindi anch'io dico la mia: prendetela come la monetina lanciata da un deficiente di passaggio.

Come ho scritto sopra, la prospettiva di un referendum abrogativo non mi esalta. Non ho mai creduto molto nel mezzo referendario - il più delle volte è un boomerang - e non mi piace andare alla carica contro l'artiglieria, mi pare che l'eroismo non riscatti la stupidità. Anche a me piacerebbe abrogare il Jobs Act - e la legge elettorale - e le riforme istituzionali - la buona scuola - insomma, anche a me piacerebbe deporre Renzi e i suoi manipoli, ma non disponendo di un numero di coorti sufficiente anche solo a impensierirlo, non mi resta che la ritirata e la guerriglia. Devo assicurarmi la complicità con le altre tribù che controllano il territorio, anche se non mi piacciono per niente. Devo tendere al nemico un'imboscata nel punto più difficile del percorso. Ci penso da parecchio e un punto del genere mi sembra d'averlo trovato.

Ci vorranno ancora mesi e forse più di un anno, ma prima o poi le riforme costituzionali Renzi-Boschi saranno sottoposte al vaglio dei cittadini, mediante un referendum (a meno che Renzi non si stufi e decida di tornare al voto senza la nuova legge elettorale, ma sarebbe una figuraccia). Attenzione però: non un referendum abrogativo. Confermativo. Che differenza c'è?

Tutta la differenza del mondo. Il referendum confermativo non prevede il quorum del 50%+1. Il referendum confermativo non è una giocata del Sì contro il Banco che vince sempre. Nel referendum confermativo, il Sì e il No se la giocano alla pari. Chi porta più elettori alle urne vince. E che ci vuole, direte voi, Renzi ha la maggioranza...

No. I sondaggi (che sbagliano sempre) lo danno sempre sotto il 40%. Parliamo sempre di dieci milioni di elettori, ma non andranno tutti a votare a un referendum in cui non serve nemmeno il quorum. Da questi inoltre vanno sottratti i suffragi di chi ha votato Renzi alle europee, e forse lo rivoterebbe anche a un ballottaggio contro Salvini o Di Battista, ma non ha nessuna intenzione di votare per le sue riforme. Quelli come me, insomma. Quanti siamo? Impossibile dirlo, ma potremmo essere decisivi.

E poi c'è tutto il composito arco costituzionale antirenziano. C'è Grillo, c'è Berlusconi che quelle riforme le ha scritte ma a questo punto non ha molta convenienza a farle passare. C'è anche Salvini, a cui in realtà un superballottaggio farebbe comodo, ma se il referendum confermativo diventa un referendum su Renzi, non potrà tirarsi indietro. C'è la sinistra-sinistra, c'è Sel, ci sono tutti. Tutti tranne lui e chi crede in lui. Sarà un referendum su di lui, e lui non ha dalla sua il 50% degli italiani: non lo ha mai avuto. Non ha neanche quell'appoggio televisivo che crede di avere: perlomeno se crede di poter litigare sia con Berlusconi sia con l'Usigrai, forse avrà la sorpresa di scoprire che certe ospitate domenicali non sono un atto dovuto. Per non parlare dell'enorme serbatoio dell'astensione, che per qualche irrazionale motivo mi pare più facile recuperare al No che al Sì.

Un referendum abrogativo non lo vinceremo mai, ma un referendum confermativo del genere è alla nostra portata. Non si tratta di andare a letto con Salvini o Grillo o Berlusconi, o perlomeno non si tratta di andarci per sempre: solo per qualche mese, e poi ognuno per la propria strada. Umiliare Renzi sulle riforme non significa cassare il Job Act, né i decreti sulla scuola eccetera eccetera. Ma a quel punto Renzi si troverebbe da solo, e senza quella legge elettorale che avrebbe premiato la sua solitudine. Dovrà venire a patti con qualcuno - qualcuno che esiste davvero, non il Ncd. Berlusconi? Difficile immaginarlo. Ma anche se fosse, a quel punto a sinistra si aprirebbe una prateria. Più plausibilmente, Renzi dovrà cercare alleati a sinistra. Non li troverà gratis. Dovrà concedere cose.

Certo, ci vorranno mesi, forse più di un anno, e intanto il Jobs Act cosa farà? Farà strame dei diritti cosiddetti acquisiti dei lavoratori, se quello era il suo obiettivo. E' da vent'anni che Ichino e co. ce ne cantano le magnifiche sorti e progressive: ora finalmente vedremo se è possibile diventare la Danimarca in tempi brevi. Se non succederà, sarà molto più facile smantellarlo. Se invece avrà creato occupazione, beh, dovremmo essere i primi a rallegrarcene: sarà segno che la crisi è finita. Un sacco di giovani troverà lavoro e rapidamente scoprirà che ha bisogno di più diritti, dopotutto: credo che il demansionamento non piacerà anche a loro. Insomma: ci stracciano lo Statuto dei lavoratori? Ne scriveremo un altro. E' chiaro che nel frattempo avremo perso qualcosa. Ma l'abbiamo già persa, non è che possiamo intestardirci sul promontorio del referendum abrogativo. Una buona ritirata strategica è meglio di mille nobili battaglie perse e Bakalave.

Io perlomeno la penso così.

Ma a questo punto sento fischiarmi le orecchie - sto per essere investito dall'onda d'urto di un'enorme obiezione. Lo so, lo so (continua...)
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Il referendum che Landini non può vincere

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Scava una buca / organizza un referendum. 

Il giorno che in Italia la sinistra conterà di nuovo qualcosa sarà il giorno in cui avrà fatto un po' la pace con sé stessa e il suo passato, anche il più recente e avvilente. Se ci sarà bisogno di un leader - e ce ne sarà bisogno - non verrà dalla Grecia, né dalla magistratura, né dalle colonne di Repubblica. Landini ha le carte in regola più di tanti altri. Dipenderà soprattutto da lui; quel che lascia perplessi è la sua strategia, che - se ho capito bene - passa per un referendum abrogativo contro il Jobs Act.

Può darsi che una campagna referendaria di questo tipo possa risultare utile per compattare quel settore della sinistra che raccoglierà le firme, e magari riconoscerà nell'occasione in Landini il suo punto di riferimento. Se questo è l'obiettivo, perché no. Purché sia chiaro un dettaglio: un referendum del genere lo perdiamo.

Nessuno ha dei dubbi su questo, vero?

Cioè il referendum si organizza per ritrovarsi, riprovare il gusto di stare assieme, magari conoscere qualche faccia nuova e fresca: si fanno i banchetti per raccogliere le firme, ci si prende una giornata per portarle a Montecitorio, poi dopo qualche mese si fa il referendum e si perde. Se il piano è questo, e se nessuno ne ha uno migliore, si può anche procedere. Se invece qualcuno è davvero convinto che un referendum abrogativo sul Jobs Act si possa vincere, ecco, scusate ma io scendo subito, anzi non sono nemmeno salito. Un conducente che vuole farmi fare un giro lungo e tortuoso in mancanza di meglio posso anche accettarlo; ma un conducente ubriaco, grazie, no.

Raccogliere firme è un modo come un altro di riorganizzarsi a livello di base. Grillo per esempio in questo stesso momento sta lavorando a un referendum consultivo sull'Euro - quello potrebbe persino vincerlo, visto che non serve il quorum del 50%+1. Peccato che non sia previsto dalla Costituzione e non serva a niente. Evidentemente l'obiettivo di Grillo non è uscire dall'Euro, ma tenere occupata la base e additare un obiettivo a lungo-medio termine, qualcosa che dia la soddisfazione di un lavoro compiuto: ce l'abbiamo fatta! abbiamo raccolto totmila firme inutili, vittoria! Ai soldati, nei periodi di inerzia, si fanno scavare delle buche che poi si fanno riempire. Le campagne referendarie funzionano un po' nello stesso modo.

Il problema è che un referendum sul Jobs Act non equivale a una fumosa consultazione sull'Euro. Ormai lo sappiamo come funziona, no? Il giorno dopo, quando i giornali riporteranno un quorum sotto il 40%, non potrai uscire e dire ai tuoi attivisti "Vabbe', ci abbiamo provato". O meglio, potrai anche provarci. Ma è facile che nello stesso momento Renzi starà esultando a reti unificate per la grande vittoria del non-voto, secondo una tradizione che data dai primi anni duemila.

Ora vorrei chiedere ai gentili lettori se qualcuno si ricorda del referendum del 2003 sull'articolo 18. Alcuni non votavano ancora, lo so. Altri c'erano, magari hanno pure raccolto firme e si ricordano. La cosa più interessante sarebbe contare quelli che c'erano e non se lo ricordano assolutamente: perché io almeno ho questa sensazione, che tra tanti dimenticabili referendum quello del 2003 sia in assoluto il meglio rimosso dalla memoria collettiva. Lo aveva promosso Rifondazione sull'onda della grande manifestazione CGIL del 23/3/02, anche se il sindacato si era tenuto a prudente distanza (come anche vent'anni prima con il referendum promosso dal PCI sulla scala mobile, perso anche quello). Andarono a votare soltanto il 27,5% degli aventi diritto, non il valore più basso in assoluto (due anni dopo per la fecondazione assistita votò il 25%). Comunque pochi, veramente troppo pochi: dodici milioni. (Qualcuno onestamente ritiene che oggi il Jobs Act chiamerebbe alle urne più gente di quante ne richiamava l'articolo 18 nel 2003? Tra le elezioni del 2001 e del 2013 l'astensione è aumentata del 10%).

D'altro canto Fausto Bertinotti in quell'occasione poteva persino dirsi soddisfatto che su dodici milioni di elettori, dieci avessero votato per abrogare le "norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l'applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori". Dieci milioni di elettori Rifondazione se li sognava: l'anno dopo ci furono le europee e ne raccolse due milioni scarsi, un soddisfacente 6%. Ora non voglio dire che coinvolgere gli attivisti in raccolte di firme sia la cosa più onesta da fare, visto che alla fine i referendum sono quasi sempre inutili; però magari se il tuo obiettivo è ricontarti e piantare bandierine su una base un po' più ampia, la cosa può anche funzionare. Va da sé che il Jobs Act resterà dov'è, più saldo che mai (Renzi racconterà che la maggioranza degli italiani lo vuole! Ecco perché non è andata a votare!), ma questo evidentemente non è l'obiettivo primario. Insomma come piano è quel che è, in mancanza di meglio...

Ehi, aspetta.

Forse c'è qualcosa di meglio. (Continua).
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Beppe Grillo cosa pensa di te?

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ABBIAMO RACCOLTO LE FIRME
PER MODIFICARE LA COSTITUZIONE
PER INDIRE UN REFERENDUM
CHE SE LO VINCESSIMO
FORSE CI LASCEREBBERO USCIRE
DALL'EURO!
#VITTORIA! 
Vabbe', riproviamoci. Caro elettore o attivista Cinque Stelle, come va?
Io e te non siamo andati molto d'accordo, anche in quest'anno 2014.
Abbiamo senz'altro idee molto diverse; e ci fidiamo di gente molto diversa. Decisamente. Però vorrei che ti fosse chiara una cosa. Io non credo che tu sia un coglione. Io.

Beppe Grillo, invece.
- Non fraintendere, lo so che ne pensi ancora un gran bene, è solo che -
Ti chiedi mai cosa pensa, di te, Beppe Grillo?

Beppe Grillo che convoca una conferenza stampa e accusa Napolitano di non aver permesso ai m5s di formare un governo, l'anno scorso, visto che avevate vinto le elezioni.
Ora, caro elettore Cinque Stelle, so che l'argomento è spinoso. Io te lo devo dire: non credo che voi l'anno scorso abbiate vinto le elezioni, tecnicamente. Ma lasciamo perdere quel che ne penso io.

Tu credi davvero alla storia che Beppe racconta? Napolitano avrebbe dovuto dare un mandato esplorativo a Crimi, o a Di Maio, o a qualche altro sconosciuto, per cosa? C'era una qualche maggioranza nel parlamento del 2013 per un governo Cinque Stelle?
Sai benissimo che non c'era.
Che un mandato esplorativo sarebbe stato soltanto una perdita di tempo.
Che tempo ne perse già abbastanza Bersani, nel tentativo di portare qualcuno di voi dalla sua parte - mentre Grillo e Casaleggio erano contrari già il mattino dopo le elezioni. Dunque di che parla Beppe adesso? Cosa si sta raccontando? A chi pensa di farla bere questa storia? A te?
Cosa pensa di te?

Ha convocato una conferenza tutto allegro perché avete raccolto firme contro l'euro. Cinquantamila in un fine settimana, wow. No, non è una grande impresa raccogliere cinquantamila firme. Per un movimento che due anni fa vinceva le elezioni è quasi il minimo. È anche vero che il tempo passa e questo dicembre è così umido, per cui wow. Le firme contro l'euro.
Servono a uscire dall'euro?

No, non esattamente. Servono a presentare una legge di iniziativa popolare in parlamento.

È un sistema - previsto dalla Costituzione - grazie al quale tutti i cittadini possono presentare proposte di legge in parlamento. Anche quelli che non hanno rappresentanti in parlamento.

Anche quelli che non hanno rappresentanti in parlamento.

Ma il Movimento Cinque Stelle ha un sacco di rappresentanti in parlamento. Eletti dal popolo italiano. La legge potevano ben presentarla loro! Probabilmente hanno pensato che con cinquantamila firme (pochine a dire il vero) la proposta di legge abbia più speranze di essere presa sul serio, e quindi ben venga la raccolta di firme.

Ora la proposta verrà calendarizzata, e quando il parlamento riterrà giusto discuterne, ne discuterà. È sempre il parlamento del 2013, quello dove i Cinque Stelle non hanno la maggioranza, e mai l'hanno avuta, anche se Beppe racconta di aver vinto le elezioni. Insomma le speranze di trasformare quella proposta di legge in una vera legge sono abbastanza poche. Ma ipotizziamo pure che anche gli altri euroscettici del parlamento vi appoggino (anche se non hanno nessun interesse a farlo, dal momento che vogliono soffiarvi gli elettori). Immaginiamo che la proposta di legge di iniziativa popolare sia discussa, approvata e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Vittoria! No, aspetta.

È una legge che ci fa uscire dall'euro?
Non esattamente.

È una legge che modifica la Costituzione e introduce i referendum consultivi. C'è persino un precedente: nel 1989 una simile legge costituzionale fu emanata per consentire ai cittadini italiani di esprimersi in un referendum che chiedeva di trasformare la Comunità Europea in Unione Europea, e all'europarlamento di redigere una proposta di eurocostituzione. Il sì stravinse (88%), ma forse non sapevamo quello che stavamo facendo. Mettiamola così.

Invece adesso lo sappiamo, e se la legge di iniziativa popolare diventasse mai una legge costituzionale, noi non usciremmo dall'euro - non ancora - ma avremo finalmente la possibilità di votare per decidere se restare o uscire dall'euro. Mediante un referendum consultivo.

Cioè?

Cioè un referendum che chiede un parere ai cittadini.
Un parere vincolante?
No.

Quindi, in sostanza, Grillo ha convocato una conferenza stampa per annunciare di aver raccolto le firme necessarie a presentare in parlamento una legge per modificare la costituzione affinché si possano raccogliere altre firme per indire un referendum consultivo grazie al quale i cittadini potranno esprimersi sull'euro.

Non suona molto bene, vero? Quindi forse su qualche blog o quotidiano in giro avrai letto che Grillo ha convocato una conferenza stampa per annunciare di aver raccolto le firme necessarie a presentare in parlamento una legge per modificare la costituzione affinché si possano raccogliere altre firme per indire un referendum consultivo grazie al quale i cittadini potranno esprimersi sull'euro per uscire dall'euro.

Così funziona meglio.
D'altro canto, chi te la racconta così, cosa pensa davvero di te?

Tu probabilmente dall'euro vuoi uscirci davvero. Io no, io credo che l'Italia abbia problemi un po' più complessi, e che prendersela con l'euro sia un po' come prendersela con il sistema metrico decimale - non è colpa del metro se sei basso, non è colpa del chilo se sei pesante, non è colpa dell'euro se la tua economia ha difetti strutturali.

Non sei d'accordo? Va benissimo, anch'io non sono affatto sicuro che le cose stiano così, soprattutto finché i tedeschi continuano questa politica del rigore davvero molto ottusa, e finché gli altri governanti europei non riescono a opporsi.

Mettiamo che io abbia torto e tu ragione, e la cosa migliore sia davvero uscire dall'euro. Cioè svalutare. Anche se tu ritieni che sia necessario, sai benissimo che non sarà indolore. Perdere il venti o il trenta per cento del potere d'acquisto in pochi mesi non è una cosa da ridere. Certo, sei convinto che l'economia ripartirebbe, e presto tutto sarebbe un ricordo lontano. Però le prime settimane sarebbero uno choc, questo lo sai benissimo anche tu.

Uscire dall'euro è qualcosa di mai tentato prima. Anche ammesso che sia possibile, richiede una certa destrezza onde evitare crisi di panico e derive speculative che non credo neanche tu ti auguri. L'ideale  - lo dicono gli economisti, anche quelli anti-euro - sarebbe uscirne all'improvviso, un venerdì, evitando il più possibile una fuga di notizie.

Prendi Tsipras, per esempio.

Non so se ci hai mai fatto caso, ma ogni volta che glielo chiedono davvero - in caso di vittoria di Syriza, la Grecia uscirà dall'Euro? Lui risponde: no. Ecco, a me eurista spaventa molto più Tsipras, perché è il classico cane che non abbaia.

Grillo invece abbaia tanto. Perché?
È un coglione? No che non lo è.
Certo, si è preso un paio di tegole in testa negli ultimi due anni. Ma non è un coglione.
Allo stesso tempo, non si sta comportando come uno statista che vuole uscire dall'euro. Abbaia troppo. Vuole che tutti ne discutano.
Raccoglie le firme. Per uscire subito? No, per modificare la costituzione.
Per uscire subito? No, per raccogliere altre firme per indire un referendum.
Per uscire subito? No, un referendum consultivo.

E allora, davvero, Grillo vuole uscire dall'euro? o vuole soltanto parlarne?

Caro elettore m5s, caro attivista m5s:
anche quest'anno abbiamo litigato molto, però vorrei che ci abbracciassimo, almeno a Natale. La pensiamo in modo diverso su quasi tutto. Tu credi che il M5S abbia vinto le elezioni del '13, io no. Tu credi che l'euro sia una maledizione, io penso che sia un'unità di misura come un'altra. Magari hai ragione tu, è possibile. Non sono un esperto, non riesco a vedere bene tutti i lati delle cose. So che tu ne vedi uno molto diverso dal mio, e ne trai conclusioni diverse. Ma le tue conclusioni sono probabilmente logiche quanto le mie - è che tu hai dati diversi dai miei, e chissà chi ha quelli veri. Io non credo di essere più intelligente di te; e non credo che tu sia un coglione.

Beppe Grillo, invece.
Cosa pensa di te?

Buon Natale, felice anno eccetera.
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Contro la Ka$ta delle placche tettoniche

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Su un sito di petizioni on line è possibile da poche ore combattere una delle piaghe che affligge il nostro pianeta da miliardi di anni, la deriva dei continenti: "Ogni giorno, i continenti si allontanano tra loro. Questo rende più difficoltosa la comunicazione tra le popolazioni, e più dispendiosa l'importazione di tecnologia da Cina e Corea verso l'Italia. Dobbiamo fermare questa degenerazione che appare inarrestabile. Se firmiamo tutti questa petizione, può darsi che Dio ce la mandi buona" Ok, è solo uno scherzo. Da dilettanti. Ma mi è venuta voglia lo stesso di firmare, dopo aver letto l'annuncio del prossimo V-Day, una specie di adunata del Movimento 5 Stelle - salvo che chi lo convoca non è ovviamente il M5S, ma lo staff di Beppe Grillo.

Beppe Grillo non è un dilettante. Nel post in cui invita i suoi lettori incazzati a Genova, ci ricorda le tappe che lo hanno portato convocare la terza vaffa-convention. Ricorda per esempio come "Il secondo [VDay] si tenne a Torino il 25 aprile del 2008 per un'informazione libera senza finanziamenti pubblici e senza l'ingerenza dei partiti. Raccogliemmo 1.400.000 firme. Nessuno ritenne di ascoltare i cittadini". Si dimentica di accennare al fatto che più della metà di quelle firme furono ritenute non valide dalla Corte di Cassazione; un classico quando si pretende di raccoglierle in fretta e furia lontano dalla residenza dei firmatari (ogni firma va verificata presso l'ufficio comunale di residenza). E soprattutto tace sul dettaglio più penoso: le firme richieste da Grillo nel 2008 non avrebbe portato comunque a nessun referendum perché, per legge, non è possibile raccoglierle  nell'anno delle elezioni legislative, e il V2-Day si celebrò proprio dieci giorni dopo le elezioni. Grillo conosceva la legge (continua sull'Unita.it, H1t#202).

Grillo, facciamo qualcosa per la deriva dei continenti?


Grillo conosceva la legge: sapeva benissimo che il lavoro di centinaia di volontari nelle piazze di tutt’Italia non avrebbe portato a nessun esito concreto; sapeva benissimo che stava chiedendo agli italiani una firma inutile. Non erano le firme che gli interessavano, non era il referendum di cui adesso ha smesso di parlare. Grillo voleva soltanto fare incazzare il suo popolo un po’ di più, promettendo qualcosa che l’ordinamento repubblicano non gli poteva consentire; sapendo che tutta la responsabilità per il fallimento della raccolta firme si sarebbe potuta attribuire alle ka$te dei politici cattivi e dei giornalisti faziosi. Una mossa spregiudicata che ci avrebbe dovuto far riflettere sulla sua abilità di demagogo e politico. E invece anche in quell’occasione molti lo liquidarono come un dilettante.
Ma Grillo non è un dilettante. Per questo vorrei rivolgergli una sommessa proposta: al prossimo V-Day, oltre alla lotta contro la finanza o l’euro o gli stipendi di tutti i presentatori Rai che portano ricavi all’azienda, non si potrebbe fare davvero qualcosa di serio contro la deriva dei continenti? Non si può lasciare questa emergenza a quattro gatti on line, ci vuole il know-how di Casaleggio. “Con un unico continente tutto sarà a portata di mano, non ci vorranno né barche né aerei né ponti ma potremmo andare tutti in autostrada da un punto all’altro del mondo senza molta fatica.” Qualcosa per cui vale la pena lottare, io trovo. E che Dio ce la mandi buona… http://leonardo.blogspot.com
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In alto il Quorum

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Sì, sì, sì, sì, abbiamo vinto! Io non me l'aspettavo. Festeggiate, se vi va, perdonando l'ennesimo gioco di parole cuore-quorum, e leggendo perché non si può abolire il quorum (H1t#78) sull'Unita.it (si commenta laggiù).

Alcuni numeri per capire meglio il risultato eccezionale di oggi, 13 giugno 2011: tra il 1996 e il 2010 – quindici anni – in Italia sono stati indetti ventiquattro referendum abrogativi, in sei tornate (1997, 1999, 2000, 2003, 2005, 2009). Per quindici anni il quorum non è mai stato raggiunto: l'affluenza più alta è stato il 49,6% del 1999, la più bassa il 23,3% di due anni fa. Questo spiega meglio di mille parole perché il superamento della soglia del 50% sia un avvenimento storico, con un significato politico evidentissimo. E forse può anche riconciliarci con un istituto referendario che molti davano ormai per spacciato (me compreso).

Ora che l'ansia della vigilia è un ricordo lontano, forse è il momento per ragionare con più serenità proprio su questo famigerato quorum, che molti vorrebbero abolire (o almeno così dicevano fino a ieri). La forza dei quattro “sì” pronunciati oggi dagli italiani sta proprio nell'enorme numero di persone che li ha pronunciati. Si potranno fare mille speculazioni (e presentare al Parlamento mille testi di legge simili a quelle abrogate), ma l'esito di oggi non consente dubbi su quale sia l'opinione del popolo sovrano riguardo a centrali nucleari, servizi idrici privati e legittimo impedimento.
 
Agli 'antiquorumisti', un fronte trasversale che ingrossava a ogni referendum fallito, vorrei proporre alcuni esercizi di fantasia. Immaginiamo un'Italia dove i referendum abrogativi non prevedano il quorum (come accade per esempio in una nazione di antica tradizione consultiva come la Svizzera). Prendiamo una categoria a caso – gli impiegati statali. Mettiamo che a un certo punto il parlamento emani una legge che essi ritengono vessatoria (ad esempio il decreto Brunetta). Non ci metterebbero molto tempo a raccogliere il numero di firme necessarie per chiedere e ottenere un referendum. Ma la loro campagna referendaria finirebbe lì. Infatti, che interesse avrebbero a informare maggiormente i cittadini sulla consultazione? Più gente si informa, più c'è il rischio che venga voglia di votare anche a chi la pensa come Brunetta, e non sono poi così pochi. Accadrebbe lo stesso con la riforma Gelmini – in realtà, accadrebbe con qualsiasi riforma della scuola, e in generale con qualsiasi legge invisa a una categoria abbastanza cospicua e organizzata di cittadini. Ognuno potrebbe indire il suo proprio referendum e abrogare il suo piccolo pezzetto di legge, nel disinteresse generale.

Insomma, senza quorum la soglia di attenzione e la percentuale di votanti si abbasserebbero ancora di più. Certo, negli esempi in questione forse a fare informazione ci penserebbe il governo (si invertirebbe insomma il giochino per cui, negli ultimi vent'anni, i governanti in carica hanno quasi sempre invitato gli elettori all'astensione, arruolando i distratti e gli indifferenti nella loro maggioranza). Ma mettiamo il caso in cui una categoria potesse contare sull'appoggio indiretto dell'esecutivo: il primo esempio che mi viene in mente sono le multe comunitarie sulle quote latte. Siete d'accordo sul fatto che a pagare dovrebbero essere soprattutto gli allevatori che hanno sforato le quote sapendo di sforarle (e contando sulla protezione dei loro rappresentanti in parlamento?) Probabilmente sì, se ve lo chiedono siete d'accordo. Ma questo è il punto: bisogna che ve lo chiedano, attirando la vostra attenzione sull'argomento. Se un giorno questo comune sentire fosse formalizzato in una legge, gli allevatori non ci metterebbero molto a organizzare un referendum per abrogarla. E a quel punto nessuno vi chiederebbe più nulla: una domenica d'estate, senza fare troppa confusione, gli allevatori andrebbero ad abrogarsi la loro legge.

Il referendum-senza-quorum non solo paralizzerebbe l'azione di governo (di qualsiasi governo), ma gli consentirebbe anche di cavalcare gli interessi di questa o quella categoria, trasferendo sostanzialmente la sovranità alle minoranze organizzate – un ritorno al Comune medievale gestito dalle Corporazioni, che è fortunatamente solo un'ipotesi di scuola. Non risulta che nessun esperto abbia mai preso sul serio l'anti-quorumismo, che pure ha i suoi rappresentanti anche in Parlamento (il radicale Beltrandi, eletto tra le file del PD, in marzo votò con la maggioranza per scorporare il voto referendario da quello amministrativo, proprioper scongiurare il raggiungimento del quorum). Più sensate sono le proposte di chi, invece di eliminarlo, propone di abbassarlo, in modo che non convenga più ai sostenitori del “no” fare campagna per l'astensione. Può darsi che l'esempio tedesco (quorum al 25%) funzioni in generale meglio del nostro, che ha invalidato ventiquattro consultazioni in quindici anni.

E tuttavia c'è qualcosa di buono anche nel nostro quorum altissimo, che come ogni obiettivo veramente difficile ripaga enormemente chi lo ha perseguito. A tutti gli anti-quorumisti chiedo: se a votare contro le centrali nucleari fosse stato oggi soltanto il 23% degli aventi diritto, come due anni fa, il loro responso sarebbe altrettanto pesante, tale da impedire la riapertura della pratica nucleare tra cinque, dieci anni? Se soltanto il 23% degli aventi diritto si fosse pronunciato sul legittimo impedimento, quanto tempo avrebbe impiegato il premier ad affermare che l'argomento non interessava la maggioranza degli italiani, ma semplicemente quella ringhiosa minoranza che da sempre ce l'ha con lui? Ma queste sono soltanto teorie. Per una volta, gli italiani hanno parlato, senza delegare a politici o partiti. Non succede molto spesso – è la prima volta in quindici anni. Traiamone le conseguenze (e festeggiamo, naturalmente). http://leonardo.blogspot.com
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Finché un giorno, un'Onda Anomala

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(Postilla al discorso di ieri)

Il giorno che B. cadrà, dunque, è abbastanza facile immaginare un certo traffico intorno ai resti, tra chi viene a reclamare una fetta di merito e chi a scaricare un briciolo di colpa. Il triste è che avranno quasi tutti ragione: il giorno che cadrà, cadrà per milioni di motivi, e sarà merito di tutti, colpa di nessuno. L'eterogenesi dei fini ispirerà centinaia di tesi di laurea in Storia contemporanea; noi però ai nostri bambini vorremo raccontare qualcosa di più semplice, e quindi cosa? Chi ha sconfitto Berlusconi? Bersani, Pisapia, Ruby, Santoro, Beppe Grillo, chi metteremo in groppa al cavallo, chi equipaggeremo di lancia ammazzadrago?

Mettiamo per esempio che SB si prenda una batosta fatale al referendum – animale di cui molti in questi giorni ti vendono la pelle, come se fosse una bazzecola superare il quorum; invece è quindici anni che nessuno ci riesce. Ma mettiamo che. La prospettiva che si spalanca è pittoresca. L'uomo che per trent'anni ci ha rubato le frequenze, corrotto chi scriveva le sentenze, che ha portato leghisti e postfascisti al governo, le veline ai ministeri, eccetera eccetera, non cadrebbe per mano d'uomo o di donna, ma per uno tsunami. Tante ce ne ha fatte, tante ancora avrebbe potuto farcene, ma un giorno ha avuto l'idea nemmeno così empia di riaprire la pratica sulle centrali nucleari – in fondo, perché no? Se usiamo quelle dei francesi, dei tedeschi... e con una maggioranza meno slabbrata, governatori più disciplinati, avrebbe anche potuto farcela. Ma poi dall'altra parte del mondo la proverbiale farfalla ha battuto un colpo d'ali, due faglie si sono strofinate appena un poco, e un'enorme ondata ha mandato in tilt una centrale nucleare che avrebbe dovuto essere dismessa anni fa. E tutti ci siamo ricordati di Chernobyl. E i tedeschi hanno cambiato idea. E la Cassazione ha approvato il quesito. E SB si ritrova a mollo, ma con uno tsunami è il minimo.

La prima volta che ci ho pensato, la cosa mi ha tolto quasi la voglia di andare a votare. Dopo tutta la fatica che ci è costata sopportarlo, dopo tutti i tentativi che abbiamo messo in scena per tirarlo giù, ecco che arriva la Natura Matrigna – con la sua damigella di compagnia preferita, Lady Sfiga – e lo schiaccia così, come un moschino sul davanzale. E ai bambini racconteremo che era brutto, che era cattivo, che ogni giorno voleva una vergine diversa, ma che comunque ce lo saremmo tenuto, finché non arrivò l'ondata. Un po' come i nostri nonni si sarebbero tenuti il duce se non si fosse messo a imitare Hitler dichiarando guerre a casaccio (Scusate. Avevo promesso: niente anni Quaranta per almeno un mese. Quarantena).

Però, riflettendoci bene, la cosa ha una sua poesia. Sì, forse senza Fukushima ce lo saremmo tenuti un altro po'. Sì, hanno dovuto pensarci gli elementi. Sì, era una forza della natura, istintiva e primordiale, contro cui nulla avrebbero potuto le sparuti e divise brigate della Ragione – così a un certo punto la Natura è venuta a riprenderselo. E nessuno, soprattutto, potrà reclamare il merito. La stessa forza che ha disegnato i continenti, che ha sommerso Atlantide e sotterrato Pompei, un bel giorno ha aperto il libro della Storia d'Italia e ha scritto di suo pugno: exit Silvio Berlusconi. Non è un brutto finale, a questo punto forse è l'unico all'altezza.

Per quel che serve io domenica a votare ci vado, quattro sì (non tutti convintissimi, ma vi risparmio i dubbi su chi ripara le tubature).
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Estrazioni del Presidente

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La democrazia a premi

ROMA – dal nostro inviato

Confesso, la prima riga di questo pezzo l'avevo in mente quando ero ancora in fila per il check-in, diceva: ROMA – file interminabili davanti alle ricevitorie, una cosa cosi'. Poi arrivo a Roma, mi infilo in un taxi, « Mi porti davanti a una ricevitoria affollata » dico al tassista, lui mi scorrazza per tutta la città eterna senza trovare una sola coda. Insomma, la maledizione dei luoghi comuni ha colpito ancora. La gente gioca, non dico di no, ma ho visto molta più furia davanti a certe slot di Las Vegas.

«La storia degli assalti alle ricevitorie è in gran parte un mito», ammette Giacinto Mariotti, dirigente del movimento Lottomatica Per La Democrazia davanti a un caffè con la schiuma. «Era un sistema per reclamizzare il gioco, nell'epoca pre-istituzionale, quando i cittadini avevano la facoltà di giocare tutte le schedine che volevano. Già allora il Superenalotto era un affare d'oro per le casse dello Stato, e quindi la tv di Stato faceva tutto il possibile per pompare il fenomeno: si inventava le code, intervistava i turisti che giocavano e titolava Vengono in Italia apposta per giocare, roba del genere... che c'è, il suo caffè è troppo caldo? »
«No, mi è andato di traverso»
« Si', ma perché, forse ho detto qualcosa che non... ah, già, dimenticavo. Lo choc culturale».

Sfido io a non farsi andare di traverso anche il migliore espresso di Via Veneto, mentre vi fate raccontare la storia di uno Stato che incita i suoi cittadini al gioco d'azzardo, attraverso la televisione pagata dai cittadini stessi. «L'Italia è cosi'», si stringe le spalle Mariotti, «Io sono tra quelli che credono che si possa migliorare, ma solo a patto di ammettere che è cosi', che il punto di partenza è questo... dopo la fine del Berlusconismo si trattava di trovare una via alla democrazia, alla partecipazione, senza pero' fingere che non fosse successo niente. Non si poteva tornare alla Democrazia Cristiana e al Partito Comunista, semplicemente perché i militanti di quei grandi partiti erano ormai tutti morti o quasi. Bisognava ripartire dalla tabula rasa... che poi cosi' rasa non era: la strutture, a cercarle, c'erano...»
«Il Superenalotto, per esempio».
«Puo' suonare eretico, ma è proprio cosi'. Lo si poteva vedere come un sistema per fare cassa, lucrando sulle illusioni della gente... ma anche come un grande momento di comunione popolare, gente di ogni ceto e razza unite dall'abitudine di giocarsi dei numeri. Per molti anni noi abbiamo cercato un minimo comune denominatore per tutti gli italiani, e non riuscivamo a trovarlo, finché...»
«...non siete entrati in ricevitoria».
«Già. E pensare che era appena dall'altra parte della strada».
Prima di fondare LottomaticaXLD, Giacinto militava in un piccolo partito di cui si vergogna persino a fare il nome. «Eravamo quattro gatti », scherza, «senza grosse possibilità di entrare in parlamento. Ma credevamo di possedere l'Arma segreta». L'arma segreta era il Referendum abrogativo, uno strumento previsto dalla Costituzione italiana, che teoricamente consentiva anche ai piccoli partiti di influire sulla vita politica. Bastava (si fa per dire) raccogliere 150mila firme per indire un referendum che permettesse di cambiare un testo di legge. Il primo storico referendum abrogativo fu indetto nel 1974, promosso dai cattolici che volevano revocare la legge sul divorzio appena emanata: la maggioranza degli italiani, contro ogni pronostico, voto' per mantenere il divorzio. Da allora il referendum divenne una delle forme di partecipazione democratica più apprezzate dagli italiani, che nei vent'anni successivi votarono per decine di quesiti referendari: in quegli anni i raccoglitori di firme esercitavano un vero e proprio contropotere rispetto al Parlamento. Ancora a metà degli anni Novanta un referendum poteva troncare la carriera di un politico, o viceversa farla decollare. Col tempo, tuttavia, subentro' una certa stanchezza, aggravata dal fatto che i referendum abrogativi italiani (a differenza di quelli svizzeri) per essere validi dovevano portare almeno la maggioranza degli italiani nelle urne. Un risultato sempre più difficile da ottenere, nei lunghi anni dell'ipnosi berlusconiana (non è un caso che uno degli ultimi referndum validi fosse quello che consentiva ai canali di Berlusconi di interrompere i programmi con gli spot).

Nel frattempo, « dall'altra parte della strada », il Superenalotto diventava un fenomeno di costume. Un concorso a premi gestito dallo Stato, basato sui concorsi locali pre-esistenti (le ruote del Lotto), a cui si aggiungeva un'intuizione venuta da lontano: il jackpot. Nel giro di un decennio il superenalotto era diventato il concorso più lucroso del mondo. Oppure, per dirla con Mariotti, un grande momento di comunione popolare. «Senza dubbio il fatto che il concorso fosse gestito dallo Stato fu determinante, quando nel 2014 avanzammo la prima proposta di abbinare un quesito referendario alla schedina. Ci prendevano per matti, ma nessuno riusciva a spiegare esattamente cosa ci fosse di sbagliato nell'idea».

Già, cosa c'è di male? La Costituzione certo non proibisce espressamente di abbinare la scheda elettorale alla schedina del superenalotto. Chi non avrebbe voluto spendere una manciata di euro per esercitare un sacrosanto diritto avrebbe potuto giocare, pardon, usare la scheda semplice, non abbinata al concorso: ma sin dall'inizio fu chiaro che sarebbero stati una minoranza. La prima Estrazione Referendaria ebbe luogo nel 2017: l'argomento era il Nucleare (un vecchio cavallo di battaglia dei referendari). Fu un successo clamoroso. L'argomento non era molto popolare, e il dibattito era stato snobbato dai media: eppure il quorum (che in quegli anni oscillava intorno al 20%) schizzo' all'80. «Molta gente scopri' che c'era un referendum direttamente in ricevitoria: mentre giocava voltava la scheda e trovava il quesito: volete i reattori nucleari nelle zone a rischio sismico si' o no? Naturalmente fummo sommersi dalle critiche, si diceva che in questo modo banalizzavamo l'istituto referendario, lo trasformavamo in una specie di sondaggio... in parte avevano ragione. Pero' banalizzando lo avevamo rimesso in funzione: la gente si poneva i problemi, anche solo per qualche secondo in tabaccheria, pero' se li poneva... imparava a valutare i pro e i contro delle sue scelte, ne discuteva...»
«E qualcuno ci vinceva anche qualcosa».
«Non c'è niente di male in questo».
«Ma è sicuro che l'abbinamento al referendum non abbia in qualche modo incentivato il gioco d'azzardo?»
«Credo il contrario».
«Addirittura».
«Il gioco d'azzardo esisteva già, non lo abbiamo certo inventato noi. Prima dell'abbinamento referendario esisteva la possibilità per il singolo di giocare più schede. Capitava ogni tanto che un vecchietto si giocasse la pensione. Questa possibilità è teoricamente svanita da quando il superenalotto è diventato un voto (prima solo referendario, poi anche legislativo e amministrativo). Oggi per giocare occorre fornire il proprio codice fiscale, e nessuno puo' giocare più di una schedina. Certo, ci si puo' ancora indebitare coi 'sistemoni' [schedine speciali che consentono di giocare piu' combinazioni], ma è una possibilità che esisteva già prima».
«E il traffico di voti? C'è chi dice...»
L'ennesima scrollata di spalle. «Certo, c'è gente che vende i propri dati, il proprio codice fiscale. Gli stessi che prima vendevano il loro voto. Questi sono difetti della democrazia in generale, non dell'Estrazione democratica in particolare. Esisteranno sempre, forse. O forse troveremo un modo per risolverli, un giorno. Nel frattempo abbiamo risolto altri problemi: abbiamo riportato un popolo nelle urne, non mi sembra un risultato da poco».

La Democrazia a Premi. Un'idea cosi' semplice: eppure non era venuta in mente a nessuno, da Solone in poi. Forse ci potevano arrivare solo gli italiani, e solo dopo vent'anni di mediacrazia berlusconiana.
A Roma sono le sei del pomeriggio: l'estrazione è precvista tra un'ora. Giacinto mi saluta, si scusa ma deve tornare alla sede del suo partito, dove fervono i preparativi per i festeggiamenti. Oggi si vota per legalizzare l'etaunasia, sancire il diritto all'autodeterminazione dei feti e l'impiccagione per i clandestini in possesso di schedine del superenalotto. «Ho votato rispettivamente si', no e no», confessa Giacinto, «seguiro' l'Estrazione sul maxischermo coi miei compagni di partito».
«Ma... siete sicuri che festeggerete?»
«Festeggeremo comunque. Per un sincero democratico ogni voto è una festa».
«Ma mettiamo che vincesse».
«Be', meglio ancora».
«No, intendo dire: mettiamo che vincesse il Jackpot, col Premio speciale: la Presidenza...»
«...della Repubblica. Mah, so che le leggi della probabilità non sono dalla mia parte. Pero' non è elettrizzante sapere che stanotte uno qualsiasi di noi, uno su sessanta milioni, potrebbe diventare Presidente? Potrebbe essere una donna di mezz'età, uno spazzino di vent' anni, una colf regolarizzata...»
«Ma statisticamente sarà un pensionato bianco».
«La statistica non è che ci azzecchi sempre. E comunque, se i pensionati gioc... votano di piu', è giusto che abbiano piu' possibilità».
«E pensa che sarà un bravo presidente?»
«Non sarà difficile comportarsi meglio di altri che non sono stati estratti a sorte».
«Ehm, era una frecciata?»
«Ma no, è che non è cosi' difficile fare il Presidente della nostra Repubblica, dopotutto. Si tratta di farsi bendare, pescare cinque palline, aprirle... un bambino sarebbe capace».
«In effetti, perché non fate giocare anche i bambini?»
«E' un'ingiustizia, lo so. Ci stiamo lavorando».
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Quella vecchia 131 Mirafiori

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Abrogare Stanca

Ma così, per curiosità, sapete quanti referendum abrogativi ci sono stati in Italia dal 1997 a oggi? Negli ultimi 12 anni? Ho provato a contarli: ventuno.
O forse venti. In cinque tornate: 1997 (radicali), 1999 (radicali+Segni+Di Pietro), 2000 (radicali), 2003 (comunisti e verdi), 2005 (radicali). E sapete quanti di questi hanno raggiunto il quorum? Secondo me lo sapete.
Esatto, neanche uno.

È da quindici anni che i referendum abrogativi non esprimono nessuna volontà popolare. Da quindici anni si promuovono (con estenuanti raccolte di firme), vengono vagliati dalla Corte Costituzionale, che li boccia o li approva; se li approva il Viminale stampa le schede, apre i seggi (qualche volta deve chiudere anche le scuole) e quando i seggi chiudono finisce tutto lì. Tante schede, seggi, manifesti, spazi pubblicitari, tutti soldi buttati, sì, ma a parlar di soldi sembra di essere venali; parliamo allora un po' della fatica: la fatica di chi raccoglie le firme, le autentica, le vidima, chi apre e richiude i banchetti, gli scrutatori, i bidelli, i poliziotti, i giornalisti, tutte queste piccole energie sprecate, compresa quella che sto usando io per spiegarvi se andrò o no a votare al referendum – cosa importa? Andate, non andateci, non cambierà nulla. Tanto il quorum è fuori discussione.

Il primo referendum abrogativo è stato indetto nel 1974. Da allora, per più di vent'anni, l'istituto ha funzionato, coi suoi alti e bassi. Gli ultimi referendum abrogativi che registrarono chiaramente una qualche volontà popolare furono quelli del 1995. Da lì in poi non sono più serviti a niente. Tecnicamente, perché da un punto di vista mediatico a qualcosa sono serviti: a toglierci la voglia di esercitare la volontà popolare. Sai, dopo dieci anni può capitare che ci si stanchi, di votare a vuoto.

Ciononostante c'è sempre qualcuno che ci prova – sempre gli stessi, per lo più. Pannella, Segni: anche il fronte referendario, come tutti gli altri soggetti politici, è invecchiato. Li vedi ormai pensionati, armeggiare intorno al motore d'accensione della Poderosa Macchina Referendaria (una Fiat del 1974) che non parte più; ma loro continuano a girare la chiavetta, imperterriti. Hai voglia a spiegargli che così il motore si ingolfa: la chiavetta è roba loro, evidentemente è roba loro anche la macchina, se solo partisse. E se non riparte più, peggio per tutti: il loro dovere era quello di girare la chiavetta fino alla fine.

Il referendum abrogativo è un diabolico arnese. Da una parte entra la volontà popolare. Ma può entrare solo con una pressione fortissima: il 50% degli aventi diritto più uno. È abbastanza chiaro che se scomodi la metà degli italiani, quello che salta fuori dovrebbe essere Legge: una di quelle scolpite nel marmo.

In realtà però questo getto fortissimo di Volontà Popolare non può scrivere un testo di legge. Può solo esprimersi in due modi: Sì, o No. Ultimamente è anche peggio di così: il getto di Sì o No non viene usato per abbattere una legge intera, ma soltanto qualche frase qua e là; per modificare un tecnicismo, limare una asperità, cambiare senso a un paragrafo. Riparare un testo di legge con un referendum abrogativo è un po' come rimuovere una carie con un martello pneumatico: per funzionare funziona, ma ha qualche controindicazione.

Una di queste controindicazioni, la più perversa, è l'istituzionalizzazione del Quorum Negativo. Mi riferisco alla rivoluzione copernicana per cui, dal 2000 in poi, il referendum non serve più ad abrogare una legge, ma a consacrarla: secondo il principio per cui, siccome il 50%+1 degli aventi diritto non è andato a votare, evidentemente il testo di legge alla maggioranza va bene così com'è. Uno stravolgimento che ha reso particolarmente spiacevole la consultazione sulla fecondazione assistita del 2005. Se i principali artefici dello stravolgimento furono i vescovi della CEI, che trasformarono il non pronunciamento del popolo in un successo mediatico, non bisogna dimenticare che la volata di Ruini la tirarono i promotori del referendum, che decisero di sfidare Chiesa e maggioranza parlamentare con uno strumento che non funzionava già da dieci anni. Una cosa che a ripensarci non ci si crede: ma chi erano quei promotori? Cosa volevano ottenere? Uno era Capezzone.

Probabilmente anche il prossimo flop referendario verrà utilizzato nello stesso modo; ovvero l'artiglieria televisiva ne approfitterà per suggerire: Vedete? Alla Gente il sistema elettorale piace così com'è, è per questo che non sono andati a votare. E c'è qualcosa di perversamente geniale in questo Non-Voto che diventa ratifica: il trionfo della maggioranza silenziosa. La vecchia Fiat del 1974, semi-abbandonata nel parcheggio dei radicali e dei pattisti di Segni, a ogni tentativo di accensione disperde benzeni nocivi nell'aria. Consoliamoci, cadrà a pezzi prima o poi.

Io, se interessa, non voterò per i primi due quesiti (scheda viola e beige). Trovo demenziale che mi si chieda di scegliere se voglio dare un premio di maggioranza a un partito o a uno schieramento; il risultato sarebbe semplicemente condensare i loghi di PdL e Lega nello stesso bollino una volta ogni cinque anni (vedi su NoiseFromAmerika la spiegazione di uno che comunque voterà sì). Valeva sul serio la pena di raccogliere firme per una cosa del genere? Beh, dipende, Capezzone ha cominciato così e guarda quanta strada ha fatto.

Se avrò voglia e tempo, voterò Sì sulla scheda verde, per abrogare la possibilità di Berlusconi (e Di Pietro, e Vendola) di candidarsi in più circoscrizioni. Ma non mi faccio illusioni: non raggiungeremo il quorum e Berl. ne trarrà la conclusione che la Gente lo vuole candidato dappertutto. Scusate se non riesco a camuffare un certo disilluso risentimento, ma ho veramente perso troppi referendum per crederci ancora. Troppe energie, davvero. Mi chiedo Pannella come faccia. Hascisc, probabilmente.

Dall'archivio:
* Cassandra Connection (referendum '03).
* Democrazia abrogativa (referendum '05).
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- 2025

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Democrazia abrogativa

Caro Leonardo,
un altro giorno, un altro duro colpo per Taddei.
Sembra quasi che faccio apposta, a demolire tutte le sue certezze. Lui, in fondo, vorrebbe solo essere sicuro di vivere in un film, una specie di 1984 cattocomunista con Papa Silvio al posto del grande fratello. Un incubo, certo, ma un incubo rassicurante, con i cattivi da una parte e i buoni dall'altra, e lui supereroe in felpa e cappuccio. Ma poi si guarda intorno – dov'è la repressione? I carabinieri hanno le stesse panze di vent'anni fa. E i passanti, guardali in faccia: ti sembra abbiano paura? Guarda la vecchietta in fila per la soia: sgrana un rosario, spende il tempo in avemarie: il miglior investimento, alla sua età. E il signore alla fermata filobus, il colletto ingiallito dal sudore: ha paura? Sì, di fare tardi, proprio come ai tempi tuoi. E i due bambini a un angolo della piazza: vendono floppy disc in una cassetta di frutta. Ti sembra una scena da regime?
"Ma li usate ancora, i floppy?"
"Tornano di moda".
"Ma va".
"Di necessità virtù. C'è gente che passa i giorni nelle discariche a disseppellire schede di vecchi 486".
"Good grief. Ma perché sei in ritardo".
"Scusa, mi ero scordato di avvertirti. Sono andato a votare".
"Eh?"
"Pensavo di fare in dieci minuti, ma avevano preparato una cabina sola, così c'era una fila che…"
"Ma voi votate?"
"Certo, perché? Non dovremmo?".
"Per la salute di Cristo, no! Pensavo che qsto fosse un fottuto regime!"
"Ancora con qsta storia, Taddei, dai…"
"Aspetta. Sarà la solita montatura. Chi ha il diritto di voto?"
"Tutti".
"Tutti gli uomini, ma le donne…"
"Tutti e tutte, dai quindici anni in su. Fai la cresima e vai a votare".
"Ah vedi, serve il consenso del prete".
"Tanto il voto è segreto".
"Seh, segreto…"
"Matita copiativa, seggio, scheda in quattro parti. Come ai tempi tuoi".
"Sarà tutto ripreso, m'immagino".
"Senti, guardati intorno. Hai mai visto una telecamera a circuito chiuso in giro?"
"Sì, quella lì sopra, per esempio".
"È un giocattolo. Non ci sono i soldi per riprendere il corpo elettorale. È assurdo".
"E ogni quanto votate? Un plebiscito ogni dieci anni?"
"Una volta al mese".
"Una volta al mese? E che c'è da votare una volta al mese?"
"Un sacco di cose, c'è. Noi abbiamo un parlamento, sai. È eletto dal concistoro dei cardinali, ma è pur sempre un parlamento".
"E voi eleggete il concistoro?"
"No, i cardinali li nomina il Papa".
"E il Papa lo nomina lo Spirito Santo".
"Naturalm".
"E allora che c'è da votare una volta al mese, me lo spieghi?"
"Ah, scusa, vedo che non hai ancora chiaro un principio basilare del Teopop. Vedi, lo Spirito Santo, che è Dio, non spira solo sui Vescovi e sui Cardinali. Esso è libero di ispirare ogni cittadino bisbattezzato. Perciò, quando andiamo alle urne, noi eleggiamo Papa, Concistoro e Parlamento".
"Una volta al mese".
"Certo".
"E se da un mese all'altro smettete di votare Silvio…"
"Lui si dimette da Papa".
"Lo può fare?"
"Se glielo dice lo Spirito Santo, lo deve fare".
"E allora scusa, perché non lo avete ancora buttato giù? È il candidato unico, o sbaglio?"
"Non funziona così. Il voto è un referendum. Vuoi sollevare il Papa attuale dall'incarico, sì o no? Se vince sì, il Papa si dimette. Vuoi votare la sfiducia al Concistoro, sì o no? Se vince il sì, i Cardinali si dimettono. Vuoi sciogliere le camere, sì o no? Eccetera".
"E questo tutti i mesi".
"Ah, ma non è mica finita qua. Noi votiamo anche per abrogare le leggi del parlamento".
"Quali leggi?"
"Tutte, tutte le leggi votate dal parlamento durante il mese. Oggi ho votato, nell'ordine: NO all'abrogazione del divieto di fumo nelle classi scolastiche, SI' all'abrogazione di all'enciclica De anima illa quam spermata quoque habent che sancisce che gli spermatozoi hanno un'anima, SI' alla rimozione di un condono edilizio per le case costruite sulla spiaggia di Torino; SCHEDA BIANCA al bilancio agricolo del mese scorso; NO…"
"La mente vacilla".
"Non te l'aspettavi, eh? Ma è uno dei vanti del Teopop: la partecipazione abrogativa. Se una legge ti fa cagare, il 15 del mese vai nel seggio e la stralci. È una gran soddisfazione. Riduce i tumulti di piazza del 25%. Anch'io, guarda, oggi mi sento tanto più leggero".
"Non lo so. Io… io, guarda, ero un convinto assertore dei referendum".
"Ah sì?"
"Però questo mi sembra, come dire, un po' esagerato… e la percentuale ai seggi in media quant'è?"
"Mah, intorno al novanta, novantacinque…"
"Novantacinque per cento?"
"Ma no, sciocchino, per mille. Non si usa più, il per cento. Siamo moderni, noi".
"E il quorum? Non ditemi che non avete il quorum!"
"All'inizio, in effetti, non c'era. Si puntava molto sullo spirito di partecipazione. Poi però il sistema è diventato ingestibile, c'erano pericolosi capipopolo che riuscivano ad abrogare qualsiasi cosa… a un certo punto li hanno perseguiti e imprigionati con scuse qualunq, calunnie estorte ai loro collaboratori dietro minacce di torture… sono vecchie storie, preferirei parlare d'altro".
"Ed è stato introdotto il quorum".
"Sì".
"Cinquanta per cento più uno".
"Non proprio. Cinquecento per mille più uno".
"Ed è mai stato raggiunto?"
"Una volta… tre quattro anni fa, mi ricordo, era febbraio…"
"E cosa è stato abrogato?"
"Il vincitore di Sanremo".
"Fottuto Teopop".
"Sssst. Non dire così. Il Teopop sei tu. Chi può darti…"
"Lo so io cosa darti, altroché".
"Taddei!"
A volte il ragazzo m'impressiona. Un attimo prima c'era, e poi – puf! Giù il cappuccio, e via nella notte. Evaporato. Ma tornerà. Torna sempre.
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L’avete chiesto, l’avete richiesto, e mo’ beccatevi il

Basic Culture Simulator 1.9

Mai più nozioni superflue!


Proust, Marcel
Gay della prima metà del Novecento. Viveva in una stanza foderata di sughero per attutire i rumori. Grandissimo scrittore, mica come certi blog prolissi ed egocentrici.
Intingendo un giorno un pasticcino nel the, Proust trova l’ispirazione per scrivere un’autobiografia in otto volumi, dopodiché muore.
Preferiva le canzonette alla musica classica, come chiunque, ma aveva la faccia tosta di dirlo, per cui quando in società tutti parlano di Brahms e a voi scappa un commento sugli Strokes, potete sempre difendervi tirando fuori Marcel Proust. Forse è per questo che è lo scrittore più amato dai deejay di un certo spessore.


Musil, Robert
Scrittore austriaco della prima metà del Novecento. Nel primo libro parla delle sue esperienze gay in un collegio. In seguito decide di scrivere un colossale romanzo sulla decadenza dell’Impero Asburgico, ma arrivato a metà (più o meno a pagina mille, cioè) si blocca. Nel frattempo (nel 1919) l’Impero Asburgico crolla davvero, di colpo, lasciando esterrefatti centinaia di scrittori che contavano di sfornare romanzi sulla decadenza asburgica ancora per qualche secolo.
Anche Musil si fa prendere dallo sconforto, pubblica i suoi articoli come “scritti postumi di un autore in vita”, è tentato di archiviare il poderoso romanzo, ma i suoi lettori non lo lasciano in pace: si sono sciroppati un migliaio di pagine intense e hanno il diritto di sapere come va a finire. Musil cincischia, tenta la carta del morboso inventandosi una sorella gemella del protagonista, ma anche dopo l’incesto il romanzo non vuole saperne di finire. Almeno credo, perché a pagina duemila mi sono fermato pure io.

In realtà ho tirato fuori Musil soltanto perché non riesco a dimenticarmi la sua definizione di snobismo, letta su un’antologia della quinta liceo che non riesco più a trovare: lo snobismo consiste nell’infilare in una lista di pittori famosi il nome di un pittore sconosciuto ai più. (Funziona benissimo anche con gli scrittori e coi cantanti).

Mi è venuta in mente qualche giorno fa, leggendo il canone occidentale di Scarpa: Catullo, Agostino, Montaigne, Proust, Céline, Henry Miller, Anais Nin, Paul Léautaud… mi chiedevo, per l’appunto: ma chi diavolo è Paul Léautaud? Beh, ecco qui. Bastava un link…

E per oggi con la letteratura abbiamo finito. Che ne dite di un po’ di Storia?

Termopili, Battaglia delle
Strage greca del quinto secolo avanti Cristo: per rallentare le armate persiane, trecento spartani guidati da Leonida (più altri 700 tespiesi di cui nessuno parla mai) si fecero massacrare eroicamente. Se avessero lasciato passare i persiani, probabilmente il re Serse si sarebbe fatto un giro, avrebbe sottomesso formalmente una ventina di villaggi costieri e se ne sarebbe tornato soddisfatto dall’altra parte del mondo.
Invece, mandando al macello sé e mille compagni, Leonida (luogotenente di uno stato fascista basato sulla schiavitù e sulla segregazione razziale) ha ottenuto l’indubbio onore di figurare in tutti i libri di scuola della quarta ginnasio come il salvatore della cultura occidentale. Che nel cinquecento avanti Cristo consisteva già in questo: considerarsi radicalmente superiori agli stranieri, tenere democraticamente gli schiavi lontano dall’acropoli e mandare i cittadini a morire in battaglie sanguinose e inutili.
(Sulle Termopili c’è un bel libro a fumetti, scritto dal più geniale e fascistoide fumettista americano: Frank Miller).

Le battaglie famose sono sempre quelle che finiscono male, ci avete fatto caso? Di solito le Termopili vengono citate dai leader politici che s’imbarcano in imprese disastrose. Per esempio:

Ma lo rifaresti? Bertinotti risponde citando la poesia di Costantino Kavafkis “in onore di coloro che hanno difeso le loro Termopili ben sapendo che i Medi sarebbero comunque passati”. «Se non avessimo fatto il referendum avremmo lasciato libero il campo al rullo compressore di Berlusconi e non si sarebbero accesi i riflettori sull’invisibilità del lavoro dipendente...».

Invece, grazie all’eroica figuraccia del referendum, il rullo compressore di Berlusconi è passato sopra lavoratori e sindacato, e i riflettori sul lavoro dipendente si sono spenti subito. Che dire: Bertinotti è ancora vivo e orgoglioso, pronto a imbarcarci in una nuova gloriosa battaglia.
Almeno Leonida alle Termopili ci lasciò le penne, e la smise, una buona volta, di mandare allo sbaraglio la sua gente.
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Chiedo un piccolo sforzo agli uomini di buona volonta e con cinque minuti da perdere: leggete (pardon, rileggete) questo articolo, on line ieri su la Repubblica.
Fatto?

E ora la domanda: di cosa sta parlando Massimo Giannini?
Del referendum del 15 giugno, ovvio.
O no?

La consultazione permanente

Il 15 giugno gli italiani potranno votare per estendere le tutele previste dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori alle aziende con meno di 15 dipendenti. Questo Giannini lo dice chiaramente (e succintamente) nelle prime tre righe dell’articolo, dandoci subito anche il suo parere sulla questione:

Il referendum sull'articolo 18 è una miccia innescata nel motore dell'economia italiana. Se al voto del 15 giugno vincessero i "sì", la miccia esploderebbe: le tutele contro i licenziamenti senza giusta causa previste dallo Statuto dei lavoratori del 1970 verrebbero estese alle aziende con meno di 15 dipendenti, la macchina della micro-industria nazionale si ingolferebbe e il mercato del lavoro finirebbe paralizzato.

Si tratta di un’affermazione discutibile, ma io non ho intenzione di discuterla adesso qui. Volevo solo far notare una cosa: l’articolo è piuttosto lungo (e interessante). Eppure, da qui in poi, non parlerà più di statuto dei lavoratori e piccole aziende. Su 9000 battute, la discussione sul merito del referendum ne occupa 300, pari al 3 per cento dell’articolo. E il restante 97% di cosa parla?
Di politica, naturalmente. Politica italiana. Giannini ci informa così che il referendum sull’articolo 18 in realtà è “una contesa per l'egemonia culturale, una battaglia per la leadership politica”, un referendum sulle carriere politiche di Bertinotti, Rutelli, Cofferati e Fassino. Ha il merito di ricostruire il garbuglio di motivazioni che porteranno la sinistra italiani a lacerarsi per l’ennesima volta: un garbuglio nel quale noi lettori, distratti negli ultimi mesi da guerre ed epidemie, ci orientavamo a fatica e con scarsa convinzione.
Dunque il 15 giugno si va a votare sì per rafforzare Bertinotti (e Berlusconi festeggerà). O per eleggere Cofferati segretario dei DS (e Berlusconi non saprà se festeggiare o no). Si va a votare no per riconfermare Rutelli leader dell’Ulivo.
E poi, certo, si andrà a votare anche per rendere più difficile il licenziamento nelle piccole aziende. Ma questo, alla fine, sembra essere soltanto un effetto collaterale. Quello che interessa davvero al cronista (e al lettore, e al politico) è la lotta per il potere, nuda e cruda. Giannini descrive le forze in campo, i generali, le tattiche e la logistica. Ma non ci spiega perché si combatte. È un dato scontato, o poco interessante, o interessante al 3%. Quello che interessa veramente è, per citare il sottotitolo di un celebrato giornalista italiano “chi vincerà lo scontro finale”.

Questa è la politica italiana, a leggerla sui giornali (piccoli e grandi). Ma non si può dare la colpa ai giornalisti, o perlomeno, non tutta. È colpa anche dei lettori, che analisi come questa se le bevono senza nulla eccepire, e si appassionano più alle facce dei leader che ai disegni di legge. È colpa soprattutto dei politici, che non fanno mistero di utilizzare anche i referendum come sondaggi di popolarità. È colpa di tutti noi italiani, orfani del proporzionale e delle elezioni anticipate, che non riusciamo a rassegnarci all’idea che un governo o una legislatura possano durare cinque anni. Perciò abbiamo trasformato qualsiasi consultazione (referendum, elezioni europee, regionali, financo comunali) in un test permanente sulla popolarità dei nostri leader politici.

La cosa, entro certi limiti, è comprensibile, e succede in tutte le democrazie moderne. Ma in Italia, dal 1994 in poi, l’ansia da prestazione dei nostri leader è diventata parossistica. Il punto di non ritorno fu probabilmente raggiunto quando nel 2000 D’Alema si dimise da Presidente del Consiglio perché aveva perso… le elezioni amministrative. Gli italiani credevano di dover votare per rinnovare i consigli comunali: in realtà stavano esprimendo il loro parere sul governo di centrosinistra.
Allo stesso modo, il 15 giugno del 2003, noi ci illudiamo di dover votare su una questione di diritto del lavoro (forse nemmeno così cruciale, se mi passate l’opinione). E invece stiamo partecipando all’ennesimo sondaggio sulla popolarità del governo e dell’opposizione.

Colpevoli di questa degenerazione della democrazia in un regime di sondaggio permanente, i politici ne sono anche le vittime principali. Soprattutto a sinistra, dove l’ansia di conquistare consenso è più forte, e ottunde la capacità di progettare strategie a lungo termine. Segno eclatante di questa miopia sono le disperate parole di Fassino, al termine dell’articolo. “Se c'è il quorum e vince il sì, io perdo tutto", dice. Non sono parole da leader politico, sono parole da giocatore d’azzardo, e anche da giocatore dei meno brillanti, di quelli scoppiati che non tengono più dietro all’emorragia di fiches. Verrebbe voglia di replicargli che non è vero, che non sta scritto da nessuna parte “Votate sì contro Fassino”, che io non penserò a Fassino nel segreto dell’urna, bensì ai dipendenti delle piccole aziende. Ma ho il sospetto che sarebbe inutile.

Di più. Ho il sospetto che quei 14 dipendenti, in questa storia, c’entrino veramente poco. Che siano un terreno di scontro come un altro, il casus belli che veniva più comodo al momento, il corridoio di Danzica della situazione. E che da questa guerriglia permanente, che il 15 giugno passerà per caso dalle loro parti, nemmeno loro abbiano molto da guadagnare.
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