E i modenesi si dissero: costruiamo una Banca che salga fino in cielo

Permalink


Il direzionale Manfredini (Alcatraz per gli amici) è la vera eredità che i modenesi lasciano al mondo. C'è tutto: la hubris dei banchieri, la visionarietà dei geometri, e poi la rivincita del territorio, che rammenta a tutti i bravi e onesti cittadini padani che palude eravamo, palude siamo, palude ritorneremo. Il tutto combinato assieme prende le forme di un castello imprendibile (e invendibile), la piramide dei nostri risparmi, il Mont Saint Michel delle nostre zanzare. Bisogna avvertire l'Unesco di questa cosa, bisogna portarci le classi in gita (in motoscafo ormai), bambini vedete qualcosa ci sopravvivrà: qualcosa di molto grosso, goffo e inutile.

(Qualcuno è entrato e le foto sono magnifiche).
Comments

Nascondici o Geminiano

Permalink
31 gennaio – San Geminiano (312-397), patrono e difensore di Modena, Attila non passerà!

Sono Geminiano, e ogni 31 gennaio
mi scoperchiano la tomba
per traumatizzare i bambini
[2013]. È il 31 gennaio e dovrei parlare di Modena e del suo biancobarbuto patrono, ma non ci ho voglia. Se proprio devo dirla tutta, io ho sempre tifato Attila. Quante volte a un semaforo, o errando alla vana ricerca di un parcheggio, o nel fetore piccionesco del centro l’ho invocato: vieni Distruttore, fin troppo hai errato nella valle, salta fuori dalla nebbia e ràdici al suolo...

E invece no, Attila non s’è mai fatto vivo. Era atteso per il 452, aveva già devastato Aquileia – cos’è Aquileia? Niente, appunto, da quando ci passò Attila. Ma prima era la quarta città italiana per grandezza. E poi aveva saccheggiato Padova, Bergamo, e un sacco di altre città che terrorizzate gli aprivano le porte senza neanche provare a resistere. Ma Mutina (Modena) no, Mutina attivò lo schermo protettivo, ovvero invocò il patrono e questi benigno dall’aldilà fece scendere la nebbia.

La leggenda tradisce il pregiudizio che Attila fosse un coglione, un subumano, uno che attraversa la Valpadana come una steppa senza fare neanche caso alle strade romane, che pure son lì, sono comode, tu prendi la Aemilia (oggi SS9) a Mediolanum (Milano) in direzione Ariminum (Rimini), e nebbia o non nebbia ci arrivi a Mutina, semmai il grosso rischio è passare oltre e non farci caso perché non è questo granché di città, diciamo, con tutta quella rete fognaria che resterà a cielo aperto fino al Novecento. Ma Attila non era quel buzzurro che si pensa in giro. Sì, era Unno, aveva imparato a cavalcare prima di camminare eccetera. Ma era cresciuto a Ravenna, ostaggio degli imperatori di occidente; parlava correntemente latino; è difficile pensare che non riuscisse a orientarsi su un piano padano che è quasi cartesiano.

I tratti forse mongolici di Attila
lo rendevano agli occhi degli occidentali
una specie di mostro, con tanto di orecchie
a punta.
La triste verità è che Attila, Modena, l’ha snobbata: non gli interessava. Incredibile a dirsi, ma è così. Tra Aquileia e Milano aveva già saccheggiato il saccheggiabile e no, non era affatto un coglione. Gli era già successo ai Campi Catalunici di spingersi troppo in là seguendo il miraggio di un bottino infinito, e di restare insaccato in mezzo alle legioni nemiche. Cominciava ad avere un’età, magari pensava a ritirarsi invitto. Mise le tende da qualche parte sul Mincio e attese l’ambasciata di papa Leone. Per uno come lui, che aveva devastato Belgrado e Strasburgo e Treviri, che differenza vuoi che facesse una Modena in più o in meno.

A me piace comunque pensarlo da qualche parte nella nebbia che gira e si rigira e non si raccapezza, magari è a un passo dalla città, per dire magari è a Cognento, o a Vaciglio, ogni tanto chiede indicazioni ai passanti e non vuole far vedere di essere il Flagello di Dio, cerca di essere educato – ma l’accento uralo-altaico lo tradisce, il passante scappa, al Flagello non resta che trafiggerlo con una lancia prima che possa dare l’allarme, ogni tanto effettivamente al Resto del Carlino arrivano foto di coltivatori diretti trafitti da lance, ma tutto viene messo a tacere per non seminare il panico. È una banda di immigrati dell’Est, dicono. Si fanno chiamare “orda”.

Ritratto ufficiale (leziosissimo).
La nebbia della leggenda non è un semplice fenomeno atmosferico, assomiglia a quella cosa che si vedeva sui televisori analogici quando l’antenna era guasta, il segnale interrotto; è la mancata sintonia tra Modena e il mondo. La sola idea che Modena sia nello stesso mondo in cui ci sono le altre città, l’idea che sia raggiungibile mediante strade romane o ferrovie ad Alta Velocità, è una cosa che disturba il modenese. Il quale conserva una specie di mentalità isolana al centro di una pianura popolata, in un luogo dove ogni tanto la Storia ha pur da passare, a cavallo o sui carri armati (della Wehrmacht). Ecco, la Storia quando passa da Modena trova molto spesso gli scuri sprangati, non se la fila nessuno. È roba da forestieri, una cosa che dovrebbe succedere altrove, da noi no perché noi abbiamo cose più importanti da fare, l’apcaria, la torta Barozzi, l’aceto balsamico, un nuovo piano del traffico.

E anche la Natura, ma cosa vuole da noialtri, si può sapere? La reazione standard del modenese al terremoto è l’incazzatura, be’ ma oh! un terremoto da noi? Sol che non scherzi. I terremoti devono stare a casa sua. San Geminiano, nascondici.

Comunque una città unica.
Oggi è San Geminiano e a Modena non si va a scuola, chissà se i ragazzini vanno ancora in piazza a schiumarsi con le bombolette. Io non ci ho voglia di fare il bozzetto sugli usi e i costumi, Modena per me è come quelle ex che ti fanno vergognare sia se le chiami sia se non le chiami, eppure siete stati felici assieme ma il tempo ha dissolto ogni bel ricordo, come il vento, come il vento ha portato polvere, la polvere si è addensata agli angoli, ha fatto i gatti solo intorno alle antiche figure di merda. Preferirei parlare di città misteriose che non ho mai conosciuto, per esempio di Timbuctù, sono molto preoccupato per la biblioteca di Timbuctù e in generale per quella lontana città che è un posto straordinario.

Pensate che due secoli fa gli europei avevano colonizzato gli antipodi, ma non avevano ancora trovato Timbuctù. Sapevano che era da qualche parte al centro del Sahara, su un’ansa del misterioso fiume Niger, lastricata ovviamente d’oro e d’ebano e d’ogni ben di Dio, ma nessun cristiano poteva arrivarvi, era off limits. Mungo Park, lo scopritore scozzese della sorgente del fiume, era morto nel 1806 mentre cercava di arrivarci su una zattera nel fiume, costantemente esposto agli attacchi degli indigeni.

Caillié l'africano
Fu però un francese figlio di nessuno, René Caillié, a capire vent’anni dopo che bisognava cambiare strategia: se si voleva penetrare nella capitale dei beduini, bisognava essere beduini. Si trasferì da qualche parte sul fiume Senegal, mimetizzandosi con un turbante; lasciò che il sole gli arrostisse la pelle, perse otto mesi a perfezionare la lingua del posto, e poi si aggregò a una carovana di mercanti raccontando di essere un egiziano rapito dai francesi che voleva tornare a casa. Ci credettero e lo portarono a Timbuctù, dove tutta la poesia ebbe fine. La favolosa capitale del deserto, scoprì Caillié, era una città di fango. Oggi la troviamo mirabile anche in questo, in effetti ci vuole abilità a costruire col fango, e la biblioteca ospita(va) manoscritti inestrimabili; ma a inizio Ottocento questo tipo di condiscendenza verso le altre culture era ancora in embrione: ci rimise male, e lo scrisse. Senza scorta armata, senza portatori, Caillié era riuscito dove gli emissari di due potenze coloniali avevano fallito: si intascò persino i diecimila franchi messi in palio dalla Société de géographie per il primo uomo bianco che fosse stato in grado di entrare a Timbuctù e soprattutto a uscirne vivo. Era il prezzo da pagare per farla finita coi miraggi del mondo antico, e accettare che non c’è nessun Eldorado al di fuori dei nostri.

Caillié l'europeo.
Oggi è San Geminiano che ha la barba bianca. Potrebbe in effetti nevicare, state attenti modenesi. Quel signore tutto bianco, di neve o schiuma da barba, magari è Attila in incognito, che ha studiato il dialetto gli usi e i costumi e finalmente è riuscito a entrare, e ora si sta chiedendo: tutto qui? No ma sul serio mi avete tenuto milleseicento anni nella nebbia per non farmi entrare in un posto così?

Ma soprattutto: se entro con l’orda, dove la parcheggio?

Comments (6)

Come costruire un ghetto (ti aiuta anche Gramellini)

Permalink
Qualche giorno fa sono entrato in un bar e mentre addentavo un cornetto ho scoperto che il mio quartiere è un ghetto. C’era scritto sul giornale. Un ghetto.

Sono uscito a dare un’occhiata. Sembrava proprio lo stesso quartiere. Il parcheggio, la palestra, la chiesa dei frati, tutto regolare. Lo stadio, il sindacato, la bocciofila nell’ex macello, la discoteca dei ragazzini e proprio di fianco la scuola dai muri giallo canarino dove gli italiani sarebbero discriminati dagli… “extracomunitari”. Così diceva il giornale.

Non era un giornale locale. Era il Corriere della Sera. In prima pagina, Gramellini stava dicendo che la Cittadella di Modena - neanche un quartiere, in realtà, un riquadro di strade appena fuori dal Centro - è un ghetto “poco frequentato dai radical chic”. Il feticcio preferito dei giornalisti italiani, i “radical chic”, esistono dunque anche a Modena? Non ne sono così sicuro; ma nel caso senz’altro cercherebbero di iscrivere i figli al liceo qui davanti. Cosa sta succedendo? Perché un affermato giornalista su un quotidiano nazionale sta parlando male del mio angolo di strada - dove evidentemente non ha messo mai piede - e in particolare di... una scuola elementare?




A settembre una signora modenese si è resa conto che sua figlia era l’unica, nella sua classe seconda, ad avere un cognome italiano. La scoperta non deve essere stata così sorprendente: in prima due compagni avevano un cognome italiano, ma si sono trasferiti. La signora invece ha chiesto alla dirigenza di cambiare classe. La dirigenza, ovviamente, ha risposto di no. Dopo aver scritto al provveditorato, che non poteva non ribadire la scelta del dirigente, la signora si è rivolta alla stampa, destando l’attenzione del quotidiano locale, che tradizionalmente lancia allarmi sui lati più controversi dell’immigrazione.



Modena, in effetti, è una delle città d’Italia in cui vivono più immigrati. In certi quartieri più che in altri. Non è che tutto sia semplice, anzi: ma la criminalità negli anni non è aumentata. Può darsi che ci siano dei quartieri-ghetto a Modena – me ne vengono in mente un paio – ma non la Cittadella, davvero, con tutta la più buona volontà. (Quanto mi piacerebbe poter dire ai miei studenti «Ho preso la maturità linguistica in da ghetto»? Ma non è successo.)

Grazie alla stampa, la madre ottiene molta attenzione: viene intervistata da TgCom24, Agorà (Rai3), altri ancora, ma il risultato non cambia. Alla fine, allora, decide di spostare la bambina in un’altra scuola “dove gli extracomunitari,” ci spiega Gramellini, “sono sempre tanti, ma non più tutti. La scuola della discordia si difende ricordando che la metà dei bambini di quella classe è nata in Italia”.

Auguro alla bambina di trovarsi bene nella sua nuova classe. Non mi sento di biasimare sua madre, sul serio. Mi vengono in mente due o tre ottimi motivi per cui il dirigente non doveva soddisfare la sua richiesta, ma posso capire anche lei: ha lottato per la sua bambina che si è ritrovata in un contesto difficile. Al suo posto non avrei fatto lo stesso? Non lo so: quando ci sono i nostri bambini di mezzo non capiamo più niente.

Forse a metà degli anni Novanta, di fronte a una lista di appello con venti cognomi stranieri, avremmo dovuto immaginare un suk di bambini incapaci di parlare in italiano. Ma appunto: sono passati vent’anni. Nel 1997 ce n’erano già parecchi di stranieri, qui da noi. È tutta gente che già dieci anni fa era in grado di ottenere la cittadinanza. Se poi hanno fatto figli (a volte anche con i modenesi), non sono né extracomunitari né stranieri: sono bambini italiani figli di naturalizzati italiani. Sta succedendo ovunque in Italia, magari a Modena un po’ prima che altrove, ma sarebbe ora di rassegnarsi: una lista di venti cognomi stranieri non è una lista di venti bambini stranieri. La stessa mamma, nell’intervista rilasciata a TgCom24 ha ammesso che di bambini che non conoscevano l’italiano ce n’era solo uno. Uno.

E gli episodi che dovrebbero evocare un ambiente intollerante sono sì incresciosi, ma anche abbastanza diffusi in qualsiasi realtà scolastica: «Una volta una bimba è stata spinta per le scale, in un’altra occasione sono stati tagliati i capelli con le forbici a una bambina. È una classe molto difficile».

Gramellini ci ricorda che “la mamma marocchina di una di queste bimbe […] avrebbe istigato la figlia a maltrattare la piccola modenese”. Il condizionale è d’obbligo perché nessun giornale che ha riportato quest’accusa sembra essersi dato la pena di fare quello che normalmente fa un insegnante in un caso del genere: sentire l’altra campana. Di che tipo di maltrattamenti parliamo? Un episodio o tanti? Molestie fisiche o verbali? Avete mai sentito sui gradini della scuola un genitore dire “Se continua a dartene, dagliene indietro”? Io l’ho sentito da gente di ogni statura, colore, estrazione sociale.

Quella che Gramellini definisce “scuola della discordia” è un bell’istituto coi muri giallo canarino, un coro che a Natale è andato a cantare in piazza Grande e degli insegnanti che preferiscono non commentare. Senz’altro la quota di bambini di origine straniera è più alta della media; l’episodio almeno sarà servito a suscitare una discussione sui criteri adottati dal Comune per assegnare gli studenti alle scuole. Perché se da una parte dobbiamo accettare che i cognomi stranieri non significano più “extracomunitario”, dall’altro è evidente che qualcosa sia andato storto: a Modena ci sono scuole dove di cognomi stranieri ce n’è giusto un paio per classe. È un fenomeno ben noto a genitori e insegnanti: per accedere a certe scuole c’è una lista d’attesa, per altre no. Di solito i genitori più esigenti hanno un cognome italiano, e una delle esigenze più sentite – lo dico per esperienza – è proprio quella di evitare le classi con troppi cognomi non italiani.

È razzismo? È un vecchio ragionamento – cognome straniero = difficoltà linguistiche = abbassamento del livello della classe – che spesso condividono anche i penultimi arrivati, e che progressivamente si sta smontando, man mano che i millenial crescono e sempre più cognomi stranieri si diplomano con 100 e lode. È anche il risultato di un circolo virtuoso/vizioso: se tutti i genitori più esigenti si convincono che una scuola sia migliore delle altre, si metteranno in fila, e probabilmente la presenza di studenti più motivati migliorerà davvero quella scuola: studenti motivati, insegnanti contenti, lezioni interessanti, liste d’attesa ancora lunghe. Se solo si potesse evitare che nel frattempo in altre scuole rimanesse spazio soltanto per gli studenti provenienti da famiglie meno integrate, con insegnanti costretti a far fronte a problemi supplementari, da cui lo stress, lezioni più faticose, richieste di trasferimento, etc… Forse è quello che prevede la “Buona Scuola” quando si propone neanche troppo velatamente di mettere anche le scuole dell’obbligo in competizione tra loro. Forse anche Modena si sta avvicinando a quel modello dei film americani, dove se nel quartiere c’è una buona scuola gli immobili costano di più. Nel frattempo, se lavori in una scuola di un quartiere difficile, la tua unica speranza di invertire il circolo è darti da fare: coinvolgere i genitori, organizzare un coro, cercare di dare risalto a tutte le cose positive che ti succedono. Poi, un giorno, magari entri in un bar e mentre addenti un cornetto scopri che Gramellini sul Corriere dice che la tua è la “scuola della discordia”, e che il tuo quartiere è un ghetto.

C’è mai stato? Ha fatto delle indagini o si è fidato di quel che ha letto in giro? La tua scuola è così brutta? Il tuo quartiere è un ghetto? Gramellini senz’altro conosce la teoria delle finestre rotte: chissà se si è reso conto di aver appena lanciato un macigno assurdo, dall’alto della prima del Corriere su una piccola scuola di un piccolo quartiere che non frequenterà mai.
Comments (1)

Un paese normale (dove sfondano le scuole con gli autobus)

Permalink
Questo forse ve lo siete perso, perché è successo nella mia piccola città, dove di solito non succede molto. Invece in questo mese, nei venti giorni tra la visita di un papa e quella di un presidente della repubblica, e nell'era in cui i camion sono diventati l'arma preferita dei terroristi, è avvenuto che:

- tre minorenni di origine africana si siano introdotti nottetempo in un deposito degli autobus,
- abbiano trovato le chiavi, ne abbiano dirottati cinque,
- ci abbiano giocato ad autoscontro in un parcheggio, e poi
- ne abbiano usato uno per sfondare l'ingresso della scuola che due di loro frequentavano:
- il tutto, ovviamente, filmandosi (esiste persino la soggettiva dello sfondamento scolastico).

Proprio i video hanno consentito ai carabinieri di acciuffarli nel giro di 48 ore (sabato pomeriggio, al McDonald, con i cellulari nelle tasche e i video nei cellulari), ma non è solo di questo che voglio ringraziarli. Soprattutto di come hanno gestito mediaticamente la vicenda: di come non abbiano perso né tempo né occasione per ribadire che si trattava di ragazzi "del posto", provenienti da famiglie "di lavoratori, ben integrate, che risiedono a Carpi da decine di anni", il che forse non è preciso, ma è prezioso; il fatto che il comandante abbia speso anche solo cinque secondi della conferenza stampa a comunicare che le famiglie dei ragazzi sono disperate. "Che non si venga a dare un taglio xenofobo a ciò che è successo". 

Non credo mi sia successo spesso di ringraziare le forze dell'ordine: ma se di questa storia non avevate sentito parlare fin qui; se nessun'emittente nazionale ha fatto in tempo a mandare una delegazione di cronisti allucinati a montare a neve un allarme terrorismo, credo sia stato soprattutto grazie a loro. E magari qualcosa comincia a crescere anche nelle redazioni locali, che hanno mostrato nell'occasione un'umanità di cui non le credevo più capaci.

Questo non rende la storia meno tragica (per quanto buffa): non significa che noi educatori non dobbiamo porci un problema (e chi custodisce le chiavi degli autobus non debba trovare un ripostiglio meno in vista). Però quella che ho visto in questi giorni mi è sembrata una città più normale di altre: un posto dove tre ragazzi fanno una cazzata e vengono giudicati per la cazzata, e non per il colore o per il cognome. Se vi sembra una cosa da poco, una cosa normale, beati voi.
Comments (4)

Se vuoi ci amiamo adesso (canzoni ascoltabili a Sanremo, 4)

Permalink
(Le puntate precedenti: 1, 2, 3)

Laura non c'è (Nek, 1997).

- È andata via. Sto mentendo. Laura non è una canzone ascoltabile. Non la ascolto da anni e non ho intenzione di farlo adesso. Agnosco veteris vestigia flammae.

- Per quanto io provi a scappare. Nel 1997 io non guardo Sanremo. Nessuno dei miei amici ormai ne parla, non c'è bisogno di fingere interesse né superiorità, anzi Elio l'anno prima ce lo siamo pure gustato, ma in generale abbiamo davvero di meglio da fare. Siamo ex compagni di liceo in piena diaspora universitaria, qualcuno è in Erasmus, qualcun altro militare. Io farò il servizio civile l'anno successivo tra un ashram di Spilamberto e la bottega del commercio equo di Rua Muro dove tratterrò le lacrime ascoltando Laura non c'è, ma nel '97 Nek per me è solo una barzelletta. Resiste nel baule delle nozioni inutili in virtù di due o tre dettagli: ha un nome d'arte molto breve, è di Sassuolo (MO) come alcuni amici e conoscenti, e a Sanremo qualche anno prima si è fatto compatire con una canzone antiabortista che conteneva il verso "la moto venderò". Si sa come funziona la memoria con certe meteore sanremesi: fiumi di parole, trottolino amoroso, in tutti i luoghi e tutti i laghi. Tutto mi lascia presumere che non se ne parlerà più per vent'anni, quando il Fabio Fazio del 2017 andrà a scoperchiare il baule degli orrori (sì, Fabio Fazio era già in attività, e qualche mese dopo avrebbe fatto Anima mia con Baglioni e i Cugini di Campagna).

- C'è ancora il suo riflesso. A quasi vent'anni di distanza, il mio file personale su Nek non è molto più cospicuo. Ho scoperto che è il sosia sassolese di Sting, che nasce artisticamente in una cover band - a Radio DJ un mattino gli allestiscono una sarabanda con le canzoni dei Police, lui riconosce ogni pezzo dall'attacco di batteria di Copeland (ma io sono più veloce). È notevole come tutto passi e i Police restino. L'heavy rotation della cover di Se telefonando non ha scacciato il ricordo per me più vivido, che è il modo in cui faceva suo il jingle pubblicitario di Golden Lady. Quando Nek cantava "I'm losst without you", ecco, quel "losst" contiene una sibilante più sassolese che modenese o reggiana.

- Te che sei qua e mi chiedi perché. Sassuolo meriterebbe in realtà un pezzo a parte. Non è l'America, ma definirla provincia di Modena, a metà '90, è abbastanza riduttivo. Sui quotidiani locali oggi non c'è più la pagina "Sassuolo", c'è "Distretto Ceramiche", un hinterland senza un vero centro che va verso i centomila abitanti. Antenna Uno Rock Station ha in heavy rotation Beck e i Portishead, l'Oasis al venerdì attira i suoi clienti alternativi da un bacino di tre regioni. Molti dischi li ascoltiamo in anteprima anche se non c'è internet - ma c'è sempre qualcuno che fa un ponte a Londra e si porta a Fiorano i cd. Mentre a Modena buttano giù le fonderie senza farsi venire in mente qualcos'altro da costruirci, dalle fornaci della pedemontana arriva un'aria diversa, per un buon percentile cancerogena, ma con quella distinta fragranza di ricchezza nuova, ricchezza giovane, ricchezza ancora quasi proletaria. È il risultato di un boom economico un po' ritardato - però poi guardando spezzoni in bianco e nero della Caselli che suona la batteria mi domando se invece non sia proprio un dato peculiare dei sassolesi, il fottersene della marginalità. Hanno saltato dal medioevo al postmoderno ignorando tutta una serie di complicazioni, sono uno di quei nodi del rizoma padano che non presumono la necessità di un centro.

- Che capitasse proprio a noi. Io nel '97 non vado all'Oasis, ogni volta che passo da Sassuolo mi perdo, in compenso mentre collaboro a una rivistina modenese ho l'occasione di conoscere un futuro acclamato giornalista musicale che mi spiega che vivo nella zona più importante d'Italia per offerta musicale. Triangolando tra Bologna, Correggio e Sassuolo, scopro come la provincia sia un fatto della mente, ovvero: se proprio vuoi essere un provinciale accomodati, ma nel '97 non è una scusa. Hai le biblioteche migliori, hai i concerti più vicini, hai tutto quello che ti serve. Se ti senti lo stesso perduto in mezzo al niente, è un problema tuo e te lo porterai con te anche quando andrai a lavare i piatti a Londra. Nek viene da Sassuolo ma a parte la "s" di "Losst", e quel vocativo "te" in "te che sei qua che mi chiedi perché", non ha niente di vernacolare. A Sanremo è arrivato appena settimo, ma tanto non l'ho visto - so solo che ha vinto quella che fa fiumi di parole tra noi. Il pezzo in radio è piaciuto subito - ha quel tipo di testo ridicolo a cui non si resiste, "se vuoi ci amiamo adesso" è persino meglio di "la moto venderò". Ufficialmente l'album venderà più di un milione di copie tra l'Italia e l'estero. L'anno dopo ci faranno un film che nessuno che conosco ha visto. L'anno dopo le radio non si saranno ancora stancate di programmarlo, salvo che io non ci trovo più niente da ridere. Lei si muove dentro un altro abbraccio.

- Da solo non mi basto, stai con me. La musica di Laura è un pezzo di Massimo Varini, un autodidatta reggiano che nel '97 non ha ancora trent'anni e - mi fa ridere dirlo - si è fatto le ossa con Cristina d'Avena (recitando anche in una stagione di Love me Licia, Wikipedia non perdona). Spero non me ne vorrà se attribuisco gran parte del merito a uno dei grandi parolieri della canzone italiana della generazione precedente, Antonello De Sanctis, che ci ha lasciato nel novembre scorso. De Sanctis ha scritto tra l'altro Anima mia per i Cugini di Campagna. De Sanctis come ogni buon paroliere anni Settanta non teme il ridicolo, anzi lo corteggia, lo lusinga, lo ubriaca e poi ne abusa sul sedile reclinabile di una 131 Mirafiori. Il suo maestro inevitabile è Mogol, il padre segreto di tutta la musica demenziale italiana, sono serio. Ci sarebbero stati gli Skiantos senza "Tu non sei molto bella e neanche intelligente ma non te ne importa niente"? Gli Squallor senza "Anche tu ami tanto le banane"? Le Storie Tese senza "Maledettissimo zio taccagno ingrato ed ipocrita"? Magari sì, ma fatemi andare avanti.
Comments (5)

Le nutrie contro il riscaldamento globale

Permalink
Gazzetta di Modena
Ammucchiati su questa riva

Mi capita per la seconda volta in pochi anni di trovarmi ai margini di un disastro, il che oltre a farmi sentire impotente dovrebbe suggerirmi una grande cautela e magari il silenzio [seguono cinquemila battute]. Anche stavolta la vicinanza non mi consente di capire qualcosa in più, anzi il contrario: come ci capitò di sperimentare ai tempi del terremoto, più si è vicini più si è esposti a un flusso di informazioni che poi risulteranno false; è come se le bufale scaturissero proprio dalle stesse fenditure del terreno o degli argini. Io poi non sono più esperto di Secchia di chiunque lo attraversi uno o due volte a settimana: se mi dicono che il fiume andrebbe dragato posso crederci; se mi dicono che si rischia di eliminare le piante che invece servono a compattare gli argini posso crederci; se qualcuno accusa l'Aipo (l'agenzia interregionale del Po) di non aver manutenuto un tratto d'argine, subito gli do retta; se l'Aipo ribatte che l'ultima manutenzione era avvenuta in dicembre non ho argomenti per smentirlo, eccetera.

Sulpanaro.net
Una cosa mi sento di dire, ed è che non si tratta di una tragedia dell'incuria. Il Secchia può senz'altro essere gestito meglio di così, ma non è un fiume abbandonato a sé stesso, non è "Natura" con la N maiuscola che si ribella ed eccetera eccetera. La zona in cui ha rotto l'argine potete facilmente localizzarla, su una cartina, identificando quei due affluenti meridionali del Po che convergono fin quasi a incontrarsi, per poi divaricarsi subito: Bastiglia e Bomporto sono esattamente lì, tra Secchia e Panaro in un pantano; l'incuria non se la possono permettere. Senza argini sarebbero palude: quella è la "natura" del luogo, e potrebbe esserne il destino, se non ci inventiamo qualcosa alla svelta. La manutenzione si fa, anche se a detta di molti abitanti non se ne faceva abbastanza. Leggere questo vecchio articolo di un giornalino locale fa una certa impressione. È il resoconto di un'assemblea di cittadini di Sozzigalli, una piccola frazione ai bordi del Secchia, che davanti ai responsabili dell'Aipo inquadrano il problema con una lucidità impressionante: l'Aipo, dicevano, ha finalmente ottenuto un finanziamento e adesso deve ripristinare gli argini; il fiume avrà esondato già otto o nove volte negli ultimi quattro anni, prima o poi ci scapperà il morto. È andata così? Sembra proprio andata così.

Bastiglia, non mi ero mai accorto pendesse così tanto
(Gazzetta di Modena)
E allo stesso tempo non si può dire che l'Aipo non monitorasse il fiume. Ma dopo dicembre non aveva più potuto controllare quel tratto, perché era in piena. Da più di un mese. Eppure le casse di espansione ci sono, anche se a questo punto forse è il caso di cominciare ad ammettere che non bastano. La rottura improvvisa di qualche metro d'argine può essere causata da una negligenza criminale, che magari la magistratura accerterà; potrebbe anche però trattarsi di un incidente, dove "incidente" è qualsiasi cosa che non riusciamo a prevenire, perché magari c'è qualcosa che ancora non abbiamo capito. Purtroppo gli incidenti capitano: non ci è possibile prevedere tutto. È una posizione molto scomoda da mantenere all'indomani di un disastro, quando prevale la necessità di trovare un colpevole. Più tardi magari ci sarà il tempo per scoprire che le cose sarebbero potute andare persino molto peggio, se intorno a quel singolo tratto d'argine rotto non ci fosse un sistema di vie d'acqua che complessivamente ha tenuto; ma che non è detto che tenga per sempre. Soprattutto finché non capiamo cosa è successo.

Su facebook intanto è scoppiata una specie di guerra tra le nutrie e il riscaldamento globale. Il secondo sapete tutti cos'è: è quello che ci rende sospetto qualsiasi fenomeno climatico, comprese le nevicate abbondanti in inverno o l'afa in estate - persino le mezze stagioni, ora che le abbiamo ritrovate, non riusciamo più a godercele; e se fossero preavvisi di catastrofe? Senz'altro negli ultimi anni sta piovendo tantissimo, e il livello del Secchia è tornato a essere un argomento di discussione: è alto, è veramente molto alto, ha tracimato nel saldino, l'anno scorso è arrivato quasi a pelo, no quest'anno è più alto ancora, eccetera. Che sia o no colpa del riscaldamento globale, a questo punto si tratta di una tendenza che dovrebbe portarci a delle conclusioni: allarghiamo le casse? Alziamo gli argini? Aggiungiamo canali? Qualunque cosa decidiamo di fare, ci costerà di meno dei danni che dovremo pagare se non facciamo niente. Purtroppo - è un vecchio discorso - la prevenzione non ti fa vincere le elezioni; il piangere sul latte versato a volte sì.

Quanto alle nutrie, si tratta di grossi roditori semiacquatici importati dal Sudamerica già da prima della guerra, con la sconsiderata idea di abbattere i prezzi delle pellicce. Quando il mercato espresse globalmente la sua contrarietà agli indumenti a base di pelo di ratto gigante, qualche sciagurato allevatore liberò le nutrie in un habitat dove si scavarono rapidamente una nicchia alle spese di altri animali autoctoni. Le nutrie sono grosse e scavano tane molto grandi; secondo l'Aipo il tratto d'argine potrebbe aver ceduto a causa di tane di nutrie, tassi o volpi. Le reazioni delle associazioni animalistiche non si sono fatte attendere: giù le mani dalle nutrie, non fanno niente di male, i responsabili sono ben altri, ecc. ecc.

Non essendo né un esperto di clima, né di habitat, né di nulla che non siano le storie che si raccontano tra di loro le persone, vorrei cercare di proporre una terza posizione: quello che è successo è semplicemente la prima rottura di un complesso sistema circolatorio che ha funzionato per mezzo secolo, ma che negli ultimi anni era visibilmente sotto stress. Chiedersi se sia stato il riscaldamento globale o se siano state le nutrie a spaccare venti metri d'argine, è come chiedersi se l'infarto di un tuo caro sia dovuto all'ipertensione o alle tre sigarette che si è fumato ieri. No, non sono state semplicemente le ultime tre; e allo stesso tempo no, non avrebbe dovuto fumarle. Per quanto sia complesso un sistema, il primo anello a spezzarsi sarà sempre il più debole: questo è il modo in cui finiscono le cose.

Questo è il modo in cui finiscono le cose. Non con un bang, ma con un lamento sottile. Non con le catastrofi pirotecniche dei film, ma un po' alla volta, col fango che sale e non si asciuga, e le polemiche sulle nutrie e la cementificazione, e gli aiuti che tardano. Ieri la Gazzetta di Modena apriva con un gigantesco MAI PIU' che riassumeva con precisione il nostro umore dominante, e allo stesso tempo ci alza un'ultimo argine d'illusione: forse dovremmo cominciare ad ammettere che invece queste cose succederanno ancora, e saranno la piccola parte di una complicata catastrofe che attraverserà giorno per giorno la nostra vita, e quella dei nostri figli. Abbiamo proiezioni (e non sono buone): sappiamo di quanto potrebbe alzarsi la temperatura, di quanto potrebbe alzarsi il livello del mare. Eravamo palude, potremmo tornare palude. Dipende tutto da noi? No, magari. Ci saranno incidenti, ci saranno altre cose che non riusciamo a capire finché non succedono. Ma dobbiamo organizzarci, è tutto quello che possiamo fare.
Comments (3)

Atlante dei luoghi comuni

Permalink
A Modena, lo avrete sentito, è successo un fatto orribile. Una sedicenne è stata stuprata da un gruppo di ragazzi poco più grandi di lei, in una festa in casa. Se servisse qualcosa vorrei ringraziare la ragazza che ha avuto il coraggio di denunciare i cinque pezzi di merda, e augurarle di superare al più presto quel che è successo. Ma onestamente spero non stia leggendo blog o giornali in questi giorni. Soprattutto le testate nazionali, perché alla fine i locali in questo caso non mi sembra si siano comportati troppo male: hanno raccontato la storia senza tradire generalità, ambientandola in una non meglio precisata "Modena bene" a cui poi ognuno dà il senso che preferisce. La stampa nazionale, invece.

La stampa nazionale si è comportata come si comporta in milioni di casi come questo; non avendo nulla da aggiungere ai fatti raccolti dalle redazioni locali, si è limitata copiare e incollare le informazioni e slegare gli opinionisti. Costoro si sono messi immediatamente ad abbaiare alla luna, con una tecnica affinata nei secoli, che forse non mi darebbe il voltastomaco se stavolta qualcuno non avesse davvero fatto male una ragazza a pochi km da casa mia. Provo a spiegarmi meglio con un esempio: quante volte vi sarà capitato, dai Novanta in poi, di leggere o ascoltare qualche accigliata tirata contro le stragi del sabato sera, i ragazzi che pensano solo a bere e poi s'ammazzano, la cultura dello sballo, bla bla, tutta roba in linea di massima persino condivisibile (passare le notti a bere e a guidare non è effettivamente il massimo della vita e della razionalità) e mortalmente noiosa?

Poi magari una notte muore un vostro amico, e non era un coglione: non beveva più di tanto, non stava guidando, aveva un sacco di progetti e impegni, e una sera ha avuto un colpo di sonno o di sfortuna. Un momento era una persona. Il momento dopo, sui giornali, una statistica. A quel punto il primo giornalista che vi passa vicino e osa dire "cultura dello sballo", o "gioventù senza valori", voi lo prendete per il collo. Ma alla fine sta solo lavorando. Il suo mestiere è ululare ovvietà alla luna. C'è chi li legge, quei pezzi lì, c'è chi compra il giornale apposta. Non l'ha mica ammazzato lui il vostro amico. In effetti non gliene frega nulla, non lo conosce, il fatto di cronaca non gli interessa in sé, ha soltanto bisogno di uno spinto per generalizzare, e parlare del vuoto di valori eccetera eccetera.

Siamo tutti stupratori

In agosto a Modena hanno chiuso una ragazza in bagno e l'hanno stuprata a turno. Dietro ci sono delle responsabilità oggettive, probabilmente anche errori pregressi di genitori ed educatori; ma l'opinionista non è nella posizione di identificarli e di prendersela con loro. Lui fa un altro mestiere: generalizza. Non gli interessano minimamente i colpevoli, perché siamo tutti colpevoli, la società è colpevole, siamo tutti educatori falliti, siamo tutti stupratori, e le nostre ragazze sono tutte incaute ad andare a certe feste e accettare certi drinks. E questo non è Giovanardi. Magari lo fosse. Un discorso reazionario da Giovanardi me lo aspetto, se non lo facesse probabilmente glielo solleciterei. Il punto è che certe cose me le ritrovo scritte da un'opinionista intelligente, seria, progressista, come la De Gregorio.

"Ce l'avete, ce l'avete avuta una figlia di sedici anni? Che si veste e si trucca come la sua cantante preferita, che sta chiusa in camera ore e a tavola risponde a monosillabi, che quando la vedete uscire con il nero tutto attorno agli occhi pensate mamma mia com'è diventata, ma lo sapete, voi lo sapete che è solo una bambina mascherata da donna e vi si stringe il cuore a vederla uscire fintamente spavalda. Dove va, a fare cosa, con chi".

Va avanti così per un altro paragrafo, ma fermiamoci un momento. Stiamo parlando di una persona che non conosciamo. Magari era esattamente come se la immagina la De Gregorio, magari un tipo del tutto diverso; allo stesso modo come tra le vittime delle Stragi del Sabato Sera c'erano ragazzi pieni di idee e di progetti ecc., ma sono morti lo stesso perché un coglione nell'altra corsia ha sbagliato un sorpasso. Io so che la De Gregorio non vuole colpevolizzare la ragazza. Ma lo so unicamente perché ho una certa idea di come la pensa la De Gregorio sull'argomento. Se invece fossi una ragazza di 16 anni, e questo fosse il primo pezzo che leggo di lei, mi domanderei: perché continua a parlare di me - e senza conoscermi? Perché ha cominciato il pezzo parlando di me, e va avanti a parlare di me, invece di sottolineare che ci sono cinque pezzi di merda che mi hanno chiuso in bagno? In seguito arrivano anche i cinque pezzi di merda, ma perché non sono in primo piano? Perché ci sono io che mi metto il nero attorno agli occhi, è un problema se a 16 anni mi metto il nero attorno agli occhi? È un invito ad abusare di me? Vuole veramente suggerire questo? No, non lo vuole suggerire.

Allora, proprio perché non c'è nessun atteggiamento di una ragazza - nessun mascheramento, nessun nero intorno agli occhi, nessuna agghiacciante preferenza musicale - che possa in un qualche modo giustificare quello che è successo, perché indugiare in queste cose? Per solleticare il senso di colpa del lettore-genitore, punto. Hanno stuprato una ragazza da qualche parte. La prossima potrebbe essere la tua. Non sai più con chi esce. Non sai perché si veste in un certo modo. Povero genitore apprensivo, cosa farai? Boh, non so. Di solito questi discorsi finivano con un caldo invito a votare un partito che ripristinasse l'Ordine e la Legalità. Ma qui siamo su un quotidiano progressista. O no?
Siamo ancora su un quotidiano progressista?


Geolocalizzazione dei luoghi comuni. La stampa nazionale si scrive a Roma o Milano, e quando capita che si ragioni di un fatto non accaduto in queste due popolose città, l'opinionista volenteroso tira fuori dallo scaffale una specie di Atlante DeAgostini Dei Luoghi Comuni, un'edizione limitata che hanno solo nelle redazioni, che serve a spiegare al giornalista com'è fatta quella città in poche semplici parole: Cremona? Torrone. Varese? Leghisti? Genova? Tirchi. Modena?

Modena, sempre secondo la De Gregorio, sarebbe "la più rassicurante delle città emiliane, la Modena delle scuole modello degli imprenditori che non si arrendono al terremoto, delle donne imprenditrici che vendono figurine nel mondo, dei ristoranti celebrati oltreoceano". Forse per la prima volta nel DeAgostini mancano Don Camillo e Peppone, anche se se ne intuisce il profilo tra un asilo e un'osteria. No, sul serio, sembra l'atlante di quando andavo all'asilo, al polo nord c'era un pinguino e in mezzo alla Pianura Padana una Ferrari. Modena è per prima cosa una città di duecentomila abitanti: se state a Roma o a Milano vi possono sembrare pochi, però, fidatevi, non è un paesello con un paio di scuole fatte bene e un bel ristorante. C'è pure la miseria a Modena; c'è una criminalità che ha sempre dato prova di una notevole vitalità: negli anni Ottanta era una piazza così importante per l'eroina che alla mattina i tossici delle altre città emiliane (meno rassicuranti?) arrivavano in treno. In seguito fu forse la capitale europea della tratta delle nere, durante il conflitto jugoslavo se dicevi "Modena" a un camionista bosniaco lui ti faceva i complimenti, la Bruciata era famosa nel mondo. Modena è tutto questo e tantissime altre cose, comprese quelle famiglie tranquille che lasciano i figli a casa soli al sabato e loro invitano gli amici e si fanno di ogni; e a volte ci scappa il sesso di gruppo anche con chi non vuole o non riesce a sottrarsi. Come in centinaia di altre città in Italia, più grandi, più piccole, più povere, più ricche e non c'entra niente il terremoto (che a Modena ha fatto cadere un vaso e due calcinacci), o le scuole modello di Reggio nell'Emilia, che per inciso non è Modena, neanche provincia. Modena, se non la conosci appena un po', non vuol dire niente; non è che se stuprano una ragazza a Roma io mi metto a scrivere "nella città eterna, all'ombra dei fori imperiali e delle basiliche della cristianità che furono set dei più acclamati film neorealisti"; non sarei ridicolo se lo facessi? Ma possibile che stuprino una ragazza nella città dove Bottura ha il ristorante?

(E continua pure)
Comments (25)

Pagato o meno

Permalink
Sono stato intervistato da Note Modenesi ed ecco qua, il risultato è più divertente del solito. Devo rettificare solo un punto: quando dico che "preferisco scrivere per un sito sconosciuto che mi paga regolarmente – anche una miseria – piuttosto che per un sito importante a costo zero" soggiungevo subito: "ma in realtà faccio entrambe le cose" (finché mi divertono entrambe le cose; e l'obiettivo è guadagnare prima o poi da qualunque cosa: ca$h come se piovesse, ma vanno bene anche buoni mensa, qualsiasi cosa, vengo via con poco, chiedete in giro).
Comments (3)

Il ritratto di Agata

Permalink
Agata è stata la santa che più ha fatto per sdoganare
il nudo femminile, ma per molto tempo i pittori
non hanno potuto fare a meno di corredarla
di tenaglie. Questo è Sebastiano del Piombo.
5 febbraio - Sant'Agata (230-251), martire ignifuga.

[Si legge intero qui].

Agata ha solo 15 anni, quando il proconsole di Sicilia Quinziano le mette gli occhi addosso: giovane, ricca, consacrata a Cristo. Poiché non cede né alle proposte né alle minacce, la consegna a una cortigiana, tale Afrodisia, acciocché la rieduchi ai costumi pagani: banchetti, orge, prostituzione sacra… niente da fare. "Ha la testa più dura della lava dell'Etna", dice Afrodisia, rispedendola al mittente.

Si passa così alla tortura. Le stirano le membra, la lacerano con pettini di ferro, la scottano con lamine infuocate. Lei resiste; allora le strappano i seni con le tenaglie. Verrà nottetempo Pietro apostolo nella sua cella a fargliele ricrescere. Infine l'empio Quinziano decide di farla alla brace, ma il suo velo rosso (simbolo di verginità) resiste al fuoco. È il primo tessuto ignifugo della storia. I catanesi lo usano ancora per fermare le eruzioni di lava. Agata se la cava bene anche con le pestilenze e i terremoti, in generale con tutte le sfighe che possono capitare in una città mediterranea tra una faglia sismica e un vulcano.


Mille chilometri più a nord, Sant'Agata era l'unico dipinto a olio di un certo valore nella Pieve di Sorbara (MO), oggi è sagra anche lì. Per molti anni non ho neppure fatto caso al seno che portava sul vassoio; poi a un certo punto ho imparato la storia, e da quel momento non c'è stato più verso di passarci davanti senza pensare ad Agata, al seno, alle tenaglie, al seno, alle tenaglie, al seno, tutti pensieri che non si dovrebbero portare in chiesa, ma una volta fatti entrare non c'è modo di buttarle fuori, le tenaglie, e il seno, e un seno preso a tenaglie. Agata ma quanto doveva esser brutto quel Quinzano per voler più bene alle tenaglie, Agata; ci fossi stato io al tuo posto, quanto presto avrei tradito il mio padre e i miei compagni.

"Scambiamoci ora un segno della pace".
"La pace sia con te".

Agata scusa posso chiedertelo: quanti seni hai? Due sul vassoio ok, ma sul serio ne hai altre due al loro posto? Dalla posa non sono in grado di farmi un'idea, e tuttavia sarebbe molto più sano per me pensare che ce le hai, e tuttavia non posso fare a meno di domandarmi: che senso ha fartele ricrescere la notte prima che t'ammazzino?

"La messa è finita andate in pace".
Come, è già finita? Vuoi dire che è da mezz'ora che sto solo pensando a tette e a tenaglie?

Quando ero piccolo era diverso (continua sul Post...)
Comments (2)

Nascondici o Geminiano

Permalink

31 gennaio - San Geminiano (312-397), patrono e difensore di Modena, Attila non passerà!

È il 31 gennaio e dovrei parlare di Modena e del suo biancobarbuto patrono, ma non ci ho voglia. Se proprio devo dirla tutta, io ho sempre tifato Attila. Quante volte a un semaforo, o errando alla vana ricerca di un parcheggio, o nel fetore piccionesco del centro l'ho invocato: vieni Distruttore, fin troppo hai errato nella valle, salta fuori dalla nebbia e ràdici al suolo. E invece no, Attila non s'è mai fatto vivo. Era atteso per il 452, aveva già devastato Aquileia - cos'è Aquileia? Niente, appunto, da quando ci passò Attila. Ma prima era la quarta città italiana per grandezza. E poi aveva saccheggiato Padova, Bergamo, e un sacco di altre città che terrorizzate gli aprivano le porte senza neanche provare a resistere. Ma Mutina (Modena) no, Mutina attivò lo schermo protettivo, ovvero invocò il patrono e questi benigno dall'aldilà fece scendere la nebbia. La leggenda tradisce il pregiudizio che Attila fosse un coglione, un subumano, uno che attraversa la Valpadana come una steppa senza fare neanche caso alle strade romane, che pure son lì, sono comode, tu prendi la Aemilia (oggi SS9) a Mediolanum (Milano) in direzione Ariminum (Rimini), e nebbia o non nebbia ci arrivi a Mutina, semmai il grosso rischio è passare oltre e non farci caso perché non è questo granché di città, diciamo, con tutta quella rete fognaria che resterà a cielo aperto fino al Novecento. Ma Attila non era quel buzzurro che si pensa in giro. Sì, era unno, aveva imparato a cavalcare prima di camminare eccetera. Ma era cresciuto a Ravenna, ostaggio degli imperatori di occidente; parlava correntemente latino; è difficile pensare che non riuscisse a orientarsi su un piano padano che è quasi cartesiano. La triste verità è che Attila, Modena, l’ha snobbata: non gli interessava. (continua qui).
Comments (4)

Il soviet in provincia di Grosseto

Permalink
15 gennaio – Don Zeno Saltini, (1900-1981), sovversivo, sacerdote, nomadelfo. 

Lo so, lo so, ma Castellitto aveva già fatto
sia don Milani che padre Pio.
Zeno Saltini non è per ora un santo, nemmeno un beato – sua sorella Marianna, lei sì; ma nel suo caso ci sono miracoli documentati. Zeno in compenso ha già avuto la sua fiction, e il processo di beatificazione comunque dovrebbe essere iniziato nel ’09, campa cavallo. In questi casi servono miracoli, e non dovrebbe nemmeno essere così difficile trovarli; ma non è probabilmente quel genere di miracoli che interessa al giorno d’oggi. Prendi Nomadelfia. Per come si sono messe le cose dagli anni Cinquanta in poi, il solo fatto che in Italia esista ancora un luogo come Nomadelfia, in cui “tutti i beni sono in comune, non esiste proprietà privata, non circola denaro, si lavora solo all’interno e non si è pagati” è un discreto miracolo. Siamo nel 2013, i kolchoz sono stati tutti privatizzati, la comunione dei beni è un’eresia persino in Cina, e Cuba fa tristezza; ma Nomadelfia resiste, quattro km quadrati per 270 abitanti in provincia di Grosseto, se siete curiosi andateci, è gente ospitale. Io non sono stato in molti posti in vita mia, ma a Nomadelfia ci sono stato. È stato tantissimo tempo fa, l’Unione Sovietica era ancora al suo posto nelle cartine. Ma ho la presunzione che non sia quasi cambiato niente, che i villaggi di prefabbricati siano ancora al loro posto, sulla collina sormontata da un’antenna. Se penso a Nomadelfia la prima cosa che mi viene in mente è un’antenna. C’è un motivo.

La chiesa di San Giacomo Roncole, dopo le scosse  del 29 maggio
scorso. Anche Fossoli è stata duramente colpita dal terremoto.
Un’altra cosa che ricordo è il vento battente, una cosa poco familiare qui da noi, che ti spazzava appena mettevi il naso fuori dai prefabbricati. Un vento che “ti mette appetito”, dicevano i locali. Era vero, avevo sempre una fame nervosa, per la verità non insolita nelle settimane a cavallo tra dicembre e gennaio. Di solito la combattevo frugando nella mia dispensa, concedendomi generose merende a base di avanzi di pandoro, ma a Nomadelfia si cenava sempre in lunghe tavolate, nei gruppi familiari, e mi vergognavo a chiedere che mi si riempisse di nuovo il piatto. Alla fine circolava questo panforte in fettine sottilissime; fino a quel momento ero stato piuttosto diffidente verso i dolci a base di frutta secca, ma quel panforte mi faceva impazzire. Avrei voluto mangiare tutte le fette dei miei commensali, avrei voluto scappare in cucina e mangiare tutta la scorta di panforte. Fino a quel momento il comunismo era stato per me un orizzonte teorico, non l’avevo mai immaginato in modo concreto, un posto dove anche se hai fame devi aspettare che mangino gli altri. Concettualmente ci arrivavo, ci ero sempre arrivato; ma il mio stomaco, scoprii allora, era un maledetto capitalista.

Danilo, “Barile”.
Don Zeno non parlava di capitalismo, né di comunismo. Un po’ forse nel tentativo (vano) di risparmiarsi qualche guaio con le varie autorità che gli complicarono la vita, un po’ perché erano paroloni, lui quando faceva le prediche a metà film amava tenere un registro più basso. Ai tempi in cui mio nonno lo sentiva comiziare a San Giacomo Roncole, lo slogan del suo Movimento per la Fraternità Umana era Fev do mòcc’, “fate due mucchi”: i poveri da una parte e i ricchi dall’altra, chiaro? Altro che capitalismo: i rècc’, i ricchi. Altro che classi sociali: i mucchi.

A differenza di altri preti rivoluzionari, che sotto la tonaca nascondevano una formazione classica persin troppo raffinata, Zeno non diede mai nella sua vita l’impressione di semplificare le sue idee per il volgo incolto: le idee di Zeno erano già semplici, e il volgo incolto era quello da cui proveniva lui, che aveva abbandonato la scuola a 14 anni, per poi vergognarsene. Quattro anni più tardi, arruolato alla Grande Guerra, sperimenta lo choc che gli cambia per sempre la vita. Niente bombardamenti: una semplice discussione di politica nelle retrovie con un compagno di branda, un amico anarchico. L’eloquenza di quest’ultimo lo annienta, lo umilia di fronte ai camerati. “Come in una bolgia infernale quasi tutti i soldati presenti cominciarono ad esaltarsi in favore del mio avversario: fischi, sgarberie, urla mi costrinsero al silenzio“. Perché non è riuscito a difendere le sue idee di bravo cattolico? Perché non è istruito, l’anarchico sì.

Al ritorno dal fronte Zeno informa il suo prete che ha intenzione di studiare teologia e diritto, da privatista. Le prime pagelle saranno agghiaccianti, ma Zeno è determinato: vuole diventare l’avvocato dei poveri. Riesce effettivamente a laurearsi alla Cattolica, ma poi preferisce farsi prete, convinto che i poveri si difendano meglio così. Nel ’31, durante la stessa cerimonia prende i voti e adotta il suo primo figlio, “Barile”, un giovane molto promettente ladro di polli che era andato a prelevare direttamente alla caserma dei Regi Carabinieri. Il primo di quattromila, dice la biografia ufficiale. Per tenere occupati i suoi piccoli apostoli, Zeno si affida alle sue passioni: il circo e il cinema. Trasforma gli orfani in saltimbanchi e affida loro la spericolata gestione delle sale parrocchiali. Gli porta fortuna la passione per i film americani, boicottati dal circuito delle sale ufficiali fasciste: noleggiarli costa poco, e le sale alla domenica sono sempre piene. A metà spettacolo i ragazzi accendono le luci e don Zeno fa la predica per quelli che a messa al mattino non c’erano, la maggior parte. Però chi a messa ci è venuto entra gratis: fuori dalla chiesa i Piccoli Apostoli ti timbrano il polso, come in disco.

A metà anni Trenta, nella Bassa modenese, i double feature dei Piccoli Apostoli, film+predica, sono lo show più trasgressivo consentito dal regime. Zeno riuscirebbe anche a guadagnarci, se non avesse una famiglia sempre più numerosa e se non reinvestisse parte del ricavato in una tipografia e in una bicicletta di corsa, poi in una moto, poi in una Balilla Torpedo, nel tentativo di simulare l’ubiquità in quello che ormai è un circuito alternativo, cinque sale diverse nel giro di 70 chilometri, in cui si proietta film americani introvabili altrove.

Un’altra cosa che ricordo di Nomadelfia è il religioso silenzio con cui il gruppo familiare assisteva alla trasmissione del telegiornale. “Religioso silenzio ” non è un modo di dire, era il medesimo che si sentiva durante le preghiere. Noi visitatori eravamo sorpresi dal fatto che i nostri coetanei guardassero i notiziari con tanta attenzione, e in breve scoprimmo che era una delle poche cose che si potevano guardare senza, come dire, censure. Perché a Nomadelfia quando ci sono stato c’era una sola antenna, in cima alla collina, che captava i programmi e alcuni (i notiziari) li ri-trasmetteva direttamente; tutti gli altri li filtrava, lasciando passare soltanto le cose, come dire, adatte. Era il secolo scorso, non esisteva ancora non dico il wi-fi ma nemmeno il protocollo http, magari adesso è tutto diverso. Anche se il sito di Nomadelfia dice che
L’uso della televisione è libero per quanto riguarda l’informazione, mentre si opera una scelta dei programmi visibili che sono trasmessi via cavo dalla emittente interna.

Siori e siore, i piccoli apostoli.
Per esempio, scoprimmo, niente cartoni animati. Era l’anno di qualche capolavoro Disney che non ricordo, la Sirenetta o simili. Alcune mie compagne scoprirono discutendo coi coetanei che nel villaggio quelle cose lì non si vedevano, e i pochi spezzoni che filtravano dal notiziario venivano trattati con ostile diffidenza, in quanto cose “non vere”, e quindi non utili, non interessanti. Io nel frattempo pensavo ad altro, per esempio oltre che a combattere con l’imperialismo del mio stomaco ero molto preoccupato dal catalogo della biblioteca. La mia consapevolezza politica di liceale mi diceva che se censuravano le onde radio probabilmente avevano anche censurato la biblioteca, il che mi preoccupava assai di più dell’eventuale messa al bando di Mike Bongiorno o Pippo Baudo. Fui molto rassicurato, nella mia dabbenaggine, quando vidi che esponevano una copia dei Fiori del Male. La cosa più decadente e satanica che mi veniva in mente. Se c’è Baudelaire va tutto bene, mi dissi, non c’è totalitarismo (tutte le volte che ripenso a questa cosa, misuro una distanza sempre più estesa tra me e quel coglione che pensava che un libro di Baudelaire sullo scaffale contasse di più, in termini di apertura culturale, della possibilità di mostrare un film animato a un bambino. Come se noi fossimo diventati quel che siamo perché al liceo abbiamo letto cinque o sei poesie di Baudelaire, e non perché abbiamo visto La Carica dei 101 e il Libro della Giungla).


Irene?
Nel 1941 a San Giacomo arriva la prima “mamma di vocazione”, in realtà una ragazza, Irene, che aveva visto Zeno e la sorella Marianna adottare decine di monelli e intendeva seguire l’esempio. Orfani non ne mancavano, e negli anni successivi il fenomeno sarebbe esploso. Zeno, che in un qualche modo era riuscito a evitare grossi guai con le autorità per tutto il ventennio, si ritrova arrestato dai carabinieri di Badoglio per un volantino. Dopo l’otto settembre capisce che è meglio cambiare aria: nel frattempo molti dei suoi Piccoli apostoli aderiscono alla Resistenza, facendosi anche ammazzare. L’amico Odoardo Focherini si prodigherà a mettere in salvo gli ebrei, lui l’hanno fatto beato l’anno scorso. Intanto Zeno a Roma frequenta gli esponenti della nuova Democrazia Cristiana, quel tanto che gli basta a capire che non vuole averci a che fare. “Se il Cristianesimo fosse quello predicato dalla Democrazia Cristiana, io sarei, o ebreo o ateo”, scrive nel ’47 all’amico monsignor Crovella. “Noi Piccoli Apostoli siamo a sinistra molto più dei comunisti, quindi condannabili anche da questi, che sono malati al fegato di politica settaria ed ideologica come gli stessi Democratici Cristiani”. In seguito ritratterà, dirà che Nomadelfia non è né di destra né di sinistra, una cosa che a un certo punto della vita dicono tutti.

"Fev dò mòcc!"
Il fatto è che alla fine della guerra la situazione nella Bassa modenese è così esplosiva che anche un prete collettivista che predica il superamento dell’istituzione familiare può sembrare un moderato, se non altro perché non ha neanche un’arma nascosta in cantina, e poi la sua intransigenza mette quasi in imbarazzo i comunisti. Per cui davvero può darsi che Pio XII a un certo punto abbia dato una specie di via libera a don Zeno e ai suoi Piccoli, che nel ’48 rompono gli indugi e occupano pacificamente l’ex campo di concentramento di Fossoli – nessuno in quel momento avrebbe potuto concepire l’idea di farci un museo, la guerra era ancora un buco nero da riempire immediatamente con un futuro il più possibile luminoso, e il futuro di don Zeno si chiamava Nomadelfia. “Avremo una popolazione di soli Piccoli Apostoli con leggi e costumi del tutto secondo le nostre mire cristiane e sociali”…
Essendo nelle nostre mani anche la parrocchia di Fossoli, ci sarà facile aggregare alla erigenda parrocchia di Piccoli Apostoli soli; quel territorio che man mano ci occorrerà per crearvi le nostre borgate. Così avremo nella S. Madre Chiesa una prima parrocchia dove la legge di vita dei parrocchiani è la fraternità cristiana in tutti i settori della vita personale, famigliare, sociale: Nomadelfia (dove la fraternità è legge).
Sorgeranno le borgate, ognuna di esse sarà parrocchia alle dipendenze dell’Opera e finalmente una diocesi. In pochi anni, se le vie di Dio continuano di questo passo, saremo una diocesi dove non esistono né servi né padroni, ma soli fratelli in Cristo, tutti dediti all’apostolato nel mondo.
Tagliano il filo spinato per entrare.

Le vie di Dio, non occorre sottolinearlo, presero alla svelta un’altra direzione: l’idea di una Diocesi-Kolchoz nella bassa modenese tramontò rapida quanto rapido aumentava il debito dell’Opera Piccoli Apostoli, perché gli emiliani erano ben lieti di prestare al buon Zeno quanto gli serviva, ma mica a fondo perduto, anzi con gli interessi. I debiti furono il modo in cui il sistema bocciò il progetto di don Zeno, ma per farlo sloggiare ci volle la Celere di Scelba. I minori furono dispersi negli orfanotrofi. Nel frattempo, grazie a una pia e generosissima donazione di Maria Giovanna Albertoni Pirelli, Nomadelfia aveva aperto una filiale in Maremma, un luogo dimenticato da Dio e dai lupi, nel quale i Piccoli Apostoli arrivarono come padri pellegrini in un nuovo continente: per due anni, mentre dissodavano e disboscavano, vissero nelle tende. Nasce in quel periodo l’equivoco tra “nomadi” e “nomadelfia”, che in realtà è l’accrocchio di due parole greche, “fraternità” e “legge”. Ma appunto, negli anni Cinquanta accettare la legge della fraternità poteva significare ritrovarsi a vivere come un beduino nella Toscana profonda. Per poter seguire i suoi don Zeno si era temporaneamente spretato, chiedendo e ottenendo la riduzione allo stato laicale.

Se ci ripenso mi vien fame.
A un certo punto durante il nostro soggiorno ci accorgemmo che ci stavamo annoiando. Non eravamo un gruppo di turisti, ci ispiravamo a una forte idea di servizio, e eravamo abituati a spostarci solo per aiutare qualcuno o qualcosa. I nomadelfi però non avevano bisogno del nostro aiuto: ci tenevano particolarmente a mostrare la loro autosufficienza, e si limitavano a mostrarci tutto quello che facevano e producevano. Insomma andavamo in giro a ispezionare il caseificio, la tipografia, l’officina, eccetera. Sembravamo un gruppo di ispettori sovietici, ma eravamo dei ragazzini, volevamo divertirci. Avevamo notato che c’era un campo di calcio e così sfidammo i nomadelfi a pallone. Noi di solito giocavamo misti, con le ragazze in attacco a creare confusione nell’area avversaria (niente fuorigioco). Le ragazze di Nomadelfia invece non giocavano.
Ci spiegarono che in realtà non avevano mai giocato, “non era costume” che una ragazza giocasse. L’espressione sembrava arrivata diretta dagli anni Cinquanta come una cartolina bloccata in una fessura dell’ufficio postale per quarant’anni; ma del resto a Nomadelfia in provincia di Grosseto resistevano voci del dialetto modenese che in Emilia ormai si stavano perdendo, come “razdora”, ovvero reggitrice, colei che governa la casa, più mater familias che casalinga: il perno del gruppo familiare.

Lo sgombero di Fossoli fu la grande batosta della vita di don Zeno. Fino a quel momento lui e i suoi non avevano forse avuto percezione dell’ostilità del mondo esterno: in fondo non volevano fare nulla di male, soltanto abolire il denaro e le classi sociali. Anche quando la tensione col Vaticano si sarà allentata, e Giovanni XXIII consentirà a Zeno di ri-consacrarsi sacerdote, i nomadelfi esiteranno a mettere radici. Quando ci andai gran parte delle abitazioni erano ancora prefabbricati smontabili: è un popolo pronto a partire, gli è già successo. I sogni rivoluzionari di Zeno finiscono lì, nella difesa appassionata di quattro chilometri quadrati in provincia di Grosseto. Un popolo, dice lui, ma anche una proposta al mondo. I ragazzini studiano ancora da saltinbanchi, e durante l’estate Nomadelfia diventa un teatro tenda itinerante: a metà dello spettacolo c’è ancora il momento fisso della predica.
Gli apostoli a Fossoli
Nomadelfia non è più un orfanotrofio, l’offerta di orfani negli ultimi trent’anni è crollata. Oggi le mamme di vocazione lavorano soprattutto con gli affidi: per quelli c’è sempre richiesta. Me ne ricordo uno che mi mostrò un piccolo crocefisso di legno trafitto nel costato da una freccetta da tirassegno; disse che l’aveva centrato da cinque metri, un colpo incredibile, anche perché non lo aveva mirato, non intendeva colpirlo. L’ultima rivoluzione compiuta da don Zeno, la meno nota, fu forse la più radicale: dopo aver abolito proprietà privata e classi sociali, Zeno tentò di eliminare le famiglie, o almeno di farle funzionare in un modo diverso. Al riguardo le fonti sono vaghe ed evasive, comunque a un certo punto Zeno si rese conto che anche in assenza di denaro, tra le famiglie nascevano dinamiche negative. E allora si inventò il gruppo familiare, un agglomerato di prefabbricati in cui le famiglie avrebbero pranzato assieme, di giorno, per poi ritirarsi in casette separate, la notte. Per evitare che i gruppi col tempo si trasformassero in clan, ogni tre anni si sarebbero dissolti, e rimescolati con gli altri. Non tutti erano d’accordo con l’idea: chi non era d’accordo se ne andò.

Questa più o meno era la situazione quando ci andai, ed è passato davvero molto tempo; ma a leggere i documenti ufficiali in rete non noto nessuna novità. Mi riesce facile immaginare che Nomadelfia sia ancora lì, prefabbricata e sbattuta dal vento; che l’antenna trasmetta ancora quello che ritiene giusto trasmettere, che le madri più eminenti siano chiamate razdore. Può darsi che il comunismo non abbia niente che non vada, ma tende all’equilibrio, e se le cose vanno abbastanza bene le lascia come stanno: Nomadelfia quando ci andai mi sembrava un posto tutto sommato in pace con sé stesso, la foto di don Zeno (scomparso nel 1981) era appesa un po’ dappertutto insieme a quella di Giovanni Paolo II che l’anno prima aveva voluto visitare quel villaggetto pacificamente opposto a tutto il mondo. Il comunismo forse non ha niente che non va, il problema è quando ne esiste solo una piccola bolla in un universo capitalista che per sua natura non può star fermo, deve stravolgere tutto in continuazione. Occorre scoprire necessità diverse, esaudirle, rimanere insoddisfatti, cercare di diventare persone diverse, riuscirci, rimpiangere quelli che eravamo prima eccetera. L’idea che in questo vortice Nomadelfia resista tranquilla ha del miracoloso, ma non credo che sia quel tipo di miracolo che ti svolta una causa di beatificazione.

Io non sono stato in tantissimi posti in vita mia, ma a Nomadelfia ci sono stato, e devo essere sincero: mi aspettavo qualcos’altro, chissà cosa. Un posto più aperto all’esterno, la versione stabile di quella bella compagnia in cui stavo crescendo in quel momento, in cui ragazzi e ragazze si davano del tu e giocavano a pallone. Il gruppo si è sciolto qualche anno più tardi quando i più grandi hanno cominciato a metter su famiglia: in questo Zeno aveva ragione, famiglie e comunità non vanno così d’accordo. Ogni tanto trovo i volantini degli spettacoli itineranti di Nomadelfia e mi viene tenerezza, mi domando se una cosa così fuori dal tempo non dovrebbe essere protetta, non so, dai beni culturali. Ma il più della volte non ci penso a Nomadelfia. Solo qualche volta tra dicembre e gennaio mi vedete alla coop che cerco il panforte in offerta speciale. È una cosa particolare quella tra il panforte e me, se ne apro uno posso mangiarlo intero, i miei familiari lo sanno e mi tollerano, ma ignorano lo choc che ci sta dietro, il momento cruciale della mia vita in cui il mio stomaco ha capito cos’era il comunismo e non gli è piaciuto, veramente, mi piacerebbe poter raccontare di sì ma la verità è che no, non mi piace il comunismo, preferisco le mandorle.
Comments (14)

Non imboschiamoci

Permalink
Ciao, sono un campanile in controtendenza
Oggi avrei qualcosa da dire, purtroppo non tanto a voi che leggete, quanto ai miei compaesani tra Modena e Carpi che dormono ancora in auto o in tenda. Difficilmente verranno qui a guardare - però due cose comunque io devo scriverle, e sono queste.

Prima cosa: chiunque vi dica che c'è un altro grosso terremoto in arrivo - e so che ce ne sono, so che la voce gira - vi sta mentendo. Nel migliore dei casi è un mitomane, nel peggiore un infame, uno sciacallo: e così dovete trattarlo. Non vi chiedo di prenderlo a ceffoni, anche se li meriterebbe, ma ridetegli in faccia: ridicolizzatelo, umiliatelo, fate sì che si vergogni di andare in giro a dire certe cose, e che chi lo ascolta si vergogni di avergli dato retta per più di un istante. I terremoti non si prevedono: i terremoti si sconfiggono con la prevenzione, la prudenza e il coraggio.

L'altra cosa che vorrei dirvi è appunto questa: ci vuole coraggio. Un po' di più di quello che abbiamo avuto fin qui. Vorrei dirvi che il terremoto è un evento catastrofico, che scatena sotto le case l'energia di un bombardamento misurabile in megatoni; però anche il terremoto non è che sia più forte di noi. Di noi tutti assieme, intendo, se ci facciamo coraggio. Chi ha una casa distrutta ha tutto il diritto di piangerla, ma guardiamoci negli occhi: la stragrande maggioranza delle nostre case non è distrutta. La stragrande maggioranza delle nostre case ha ballato su una scossa superiore ai cinque magnitudo, ed è ancora lì. Lo sapevate di avere case così robuste? Ora lo sapete. E quindi adesso si tratta di tornarci, di riprendere a vivere e a lavorare. So anch'io che non è facile.

Ci vuole coraggio. Quel coraggio che hanno avuto per esempio i nostri nonni, molto più poveri di noi, che si sono presi una medaglia d'oro. C'era il nazismo e loro hanno avuto un po' di coraggio. Non credo che oggi ce ne serva più di quello che hanno avuto loro. Noi poi andiamo molto fieri del loro coraggio, lo festeggiamo tutti gli anni e non facciamo che parlarne: ecco, è l'ora di mostrare che lo ricordiamo per un motivo. Fingete solo per un attimo che il terremoto sia il nazismo: che si fa, si scappa? È' un nemico insensato che rade al suolo paesi inermi, e lo fa per spaventarci: ci imboschiamo?

Io non posso dirvi quando finirà - e chiunque sostiene di potervelo dire è un bugiardo, un traditore, una spia. Potrà metterci anni, e forse ci saranno altre crepe e altri caduti. Può benissimo succedere, e allora? L'unica cosa che so è che alla fine se ne andrà, perché alla fine i terremoti se ne vanno tutti: e avremo vinto noi. Se non saremo scappati, se avremo tenuto in vita i centri piccoli e grandi, se non l'avremo data vinta al declino e alla paura del declino, che sono la stessa cosa. Quel giorno avremo vinto: e ricorderemo chi è caduto perché cercava di rimettere in funzione una linea di produzione; ricorderemo chi ha tenuto i negozi aperti anche oggi 2 giugno; chi ha aiutato negli ospedali da campo e nelle tendopoli; chiunque abbia lottato ogni giorno per tornare a una vita normale; e gli imboscati non li ricorderemo. Avete paura per la vostra famiglia? Mettetela al sicuro, ma poi tornate qui. Abbiamo bisogno di voi, anche solo per festeggiare quando sarà tutto finito. Le vostre case, in nove casi su dieci, non vi hanno tradito: non lasciatele sole.

(C'è anche un'altra cosa. L'altra sera, al presidio contro gli sciacalli, c'erano volontari venuti da Reggio ad aiutare. Molto nobile da parte loro: ma davvero vogliamo farci salvare le case, col rispetto parlando, dai reggiani?)
Comments (13)

Come i funghi

Permalink
(2002-2012)

Comments (5)

Il Centro di Modena ha un problema

Permalink
Portici affumicati e strade strette
storte, piene di buche e di letame,
un'aria sempre torbida ed infame,
un continuo votar di canalette...

(Anonimo ex modenese)

Cari commercianti del Centro di Modena,
vi scrive un ex modenese, un po' preoccupato. Da quel che si leggeva in questi giorni sui vostri giornali, sembra che in città ci sia stato un vero e proprio assedio. Sei ore di combattimenti, anarchici dappertutto, cioè insomma, dappertutto, diciamo in via Emilia. Hanno rotto una videocamera a circuito chiuso. Hanno “preso di mira” le vetrine (scrivono tutti così: preso di mira. Neanche fosse un bersaglio mobile, una vetrina). Hanno lordato i muri con le bombolette spray. Hanno trasformato la città “in un teatro da guerriglia urbana”, ha detto l'onorevole Bertolini, che colgo l'occasione di salutare: buongiorno onorevole Bertolini, è da tanto che non sentivo più parlare di lei, cominciavo a preoccuparmi. Ma soprattutto, cari commercianti, tutti quegli anarchici vi hanno rovinato il sabato pomeriggio: quella mezza giornata che “le famiglie tradizionalmente dedicano allo shopping”. Un bel guaio, in tempo di crisi.

Cari commercianti, miei ex concittadini: credetemi se vi dico che mentre leggevo trepidante le testimonianze della battaglia, il mio cuore è tornato a dieci anni fa, quando anch'io passavo a Modena i miei sabati pomeriggio. Insomma la nostalgia si è impadronita di me, e ho ripensato ai miei sabati in via Emilia. Quanti ricordi, che folle, che calche... no, aspetta. Di solito nel ricordo tutto s'ingrandisce un po'. Nel mio caso questo non succede. Ovvero, io tutta questa gente al sabato pomeriggio non riesco a ricordarmela. Qualche crocchio sì, ma nulla di paragonabile a... a... qualsiasi altra città in cui io abbia passato un sabato pomeriggio. In Italia, in Europa, ovunque, ormai sono uno che ha viaggiato. Vivo da qualche anno in una città più piccola, non vi dirò quale perché non mi prendereste più sul serio, e rammento che i primi sabati che mi capitava di mettere il naso fuori mi chiedevo sempre cosa stesse succedendo: concerti gratis? Bancomat impazziti erogavano banconote? Orge in piazza? No, niente, era solo la normale folla del sabato pomeriggio. Normale? Non c'ero abituato. Eppure venivo da una città più grande, da Modena. Cari commercianti, da uomo che un po' ha viaggiato io prima o poi vorrei dirvelo: Modena ha un problema. Il centro di Modena ha un grosso problema. E non sono gli anarchici.

Quelli sappiamo benissimo cosa fanno: arrivano, girano tre isolati, sporcano un po', e poi levano le tende. Considerato che erano in seicento, il corteo non doveva superare i sessanta metri. Un corteo così avrebbe dovuto spaventare le famiglie? Rifletteteci bene. Una famiglia che sta prendendo il gelato al K2 non lo sente nemmeno, il corteo alla Ghirlandina. Magari s'incrociano al portico del Collegio, e se la famiglia si spaventa un po' prende per via Farini (dove ci sono comunque tanti esercizi interessanti), fine del disagio. Ma il vero problema è che la famiglia quel sabato non ci va nemmeno in centro, e perché? Coraggio, ditemelo, perché? Chi è che ha detto alla Famiglia Modenese: State lontani dal centro, arrivano migliaia di anarchici cattivissimi? Sono stati i vostri giornali. Quelli che continuano a pomparsi e pomparvi con questa storia della guerriglia urbana. Ma voi avete presente cos'è una guerriglia urbana?

Ho letto un'intervista al questore. Ha difeso la scelta di fare il corteo in Via Emilia: dice che in questo modo si sono limitati i danni. Dice che non è stata infranta una sola vetrina. Ecco perché i giornali scrivono che le vetrine sono state 'prese di mira': non possono scrivere che sono state rotte... Insomma 'sti anarchici devono avere una mira scadentissima: prendono di mira, prendono di mira, ma niente da fare. Oppure hanno capito, e non da oggi, che una vetrina rotta non serve a niente. Purtroppo continuano a usare bombolette e uova marce, ma anche qui, ha senso prendersela col Comune? Ha ripulito tutto in 24 ore, come al solito. Secondo voi avrebbero dovuto fare il corteo da un'altra parte. È il solito discorso. Perché la gente non manifesta a casa sua, magari con le tapparelle giù, e a basso volume? Ahimè no, il senso di una manifestazione è proprio l'azione di disturbo: la possibilità di fare arrivare il messaggio anche alla famosa famiglia che va a prendersi il gelato in centro. È una cosa che non si può impedire, neanche il questore ci prova. Cosa vorreste fare esattamente, transennare il centro storico? Far entrare soltanto quelli che hanno la faccia da shopping?

Ma non capite che il problema è l'opposto, e cioè che in centro a Modena non entra comunque nessuno? Praticamente nessuno. Una cittadina di cinquantamila abitanti ha dei sabati pomeriggio mediamente più interessanti dei vostri. E voi ve la prendete con gli anarchici. Dovreste festeggiarli, gli anarchici: sono gli unici che nel Centro di Modena ci credono ancora. Quando capiranno di quanto poco sia importante il Centro per gli stessi modenesi, non verranno più. Andranno a manifestare nel parcheggio del Grandemilia, o del nuovo multisala. E voi finalmente sarete liberi di esporre i vostri diamanti per i quattro turchi e i tre filippini che passano, perplessi. Il centro di Modena ha effettivamente un problema.

Può darsi che siano gli spazi. Strade troppo strette, e i portici non sono accoglienti come in altre città. Poi è vero che i centri storici sono luoghi schizofrenici. Negozi di lusso ed extracomunitari in subaffitto, non ha senso. Ma anche qui: è colpa del Comune?
Non sarà anche un po' colpa vostra? Se fosse per voi, la Pomposa sarebbe ancora la piazza dei cinesi. Invece hanno fatto aprire un po' di locali e adesso è piena di giovani. Non ce li avete mica portati voi, lì, diciamolo. Comunque adesso ci sono, e potreste profittarne per vender loro qualcosa. No, niente. È già tanto se non aderite a qualche raccolta di firme per far chiudere i locali. Sarà che ai giovani non si riesce a vender niente, hanno orari balordi, e poi non si sa cosa gli piace, sarà. Voi vorreste vendere alle famiglie. Ma le famiglie cosa dovrebbero venire a fare in centro, esattamente?

A proposito, voi dov'eravate quando hanno chiuso cinque cinema? Il Cavour. Il Metropol. Lo Splendor. L'Embassy. L'Olimpia, vabbè, diciamo che non era proprio in centro. E poi l'Arena che è diventato un porno. Tutto bene, secondo voi? D'altro canto, si sa, il cinema è un'invenzione senza futuro. Le famiglie non ci vanno più. Tranne per Avatar in 3d, eh, sì. Quante famiglie sono andate a vederlo, quest'inverno. Di sicuro non sono passate per il Centro.
A meno che non l'abbiano dato all'Astra. L'Astra resiste! È uno dei pochi motivi per cui mi capita ancora di trovarmi a Modena, di sabato, diciamo verso le diciannove. E magari mentre aspetto che cominci un film entro anche in un negozio. Ci trovo un'esercente scocciata che mi fa fretta perché non vede l'ora di chiudere. Il sabato alle diciannove. Io credo che Modena abbia un grosso problema.

Vogliamo raccontarci che siano gli anarchici? A proposito, ma con chi ce l'avevano? Con quel centro di Identificazione e di Espulsione che invece di identificare ed espellere gli immigrati li rinchiude per mesi e mesi. Quello gestito dalla Misericordia di Giovanardi, che prende soldi dallo Stato e non fa nemmeno funzionare le docce. Pensate che in un mondo appena appena un po' passabile quella gente non marcirebbe là dentro. Sarebbero in giro a darsi da fare. Qualcuno magari anche a Modena. E magari al sabato pomeriggio gli avanzerebbe un po' di tempo per farsi un gelato al K2. Ma poi lo fareste entrare nei vostri negozi?

No, eh?

Cari commercianti, io credo che il centro di Modena abbia un grossissimo problema.
Guardate, ve lo dico senza alcun pregiudizio, da vecchio appassionato di Centri storici. Anche adesso vivo in un Centro, oddio, diciamo in un Centrino. Sapete cosa c'è di fantastico? Che posso andare a lavorare in bicicletta. E compro il pane e la verdura sotto casa. E qualsiasi cosa. In effetti, sono sempre in bicicletta. A Modena la bicicletta mi è marcita in cantina. E dire che vivevo dietro il teatro. Perché non la usavo mai?

Forse perché in tutto il centro non c'era nemmeno un supermercato decente? Neanche uno. Pelliccerie, gioiellerie, e più scarpe che stelle nel cielo. Ma per fare una semplice spesa dovevo prender la macchina e andare all'iper. Avete capito qual è il problema?

Siete voi.
Perché non mollate l'osso? Vendete tutto e via. Coi soldi ricavati comprate un lotto di terreno, sloggiate l'anarchico che ci coltivava le patate bio e ci costruite un enorme centro commerciale pressurizzato. Lo fate a forma di Centro di Modena, però con l'aria condizionata e Pavarotti in filodiffusione. E soprattutto un immenso parcheggio davanti. Non verrà più pacchiano di un qualsiasi outlet, ma del resto ci siete mai stati in un outlet? Se avete visto il Fidenza Village, o Mantova Sud, dovete ammetterlo: quelli sì che sono centri storici come dio comanda. Si potrebbe fare anche un'autopista tutt'intorno, chiedete in giro, c'è richiesta per questo tipo di cose.

E il centro vero lasciatelo a chi lo abita. Ai giovinastri, agli extra, ai vecchietti, ai bambini, agli anarchici, a tutta questa gente inadeguata alle vostre vetrine. Vediamo come se lo gestiscono. Mal che vada diventerà un ghetto putrescente – quel che è stato per centinaia d'anni. Sopravvivrà.
Comments (19)

...e il nostro vescovo, Santo

Permalink
Venerdì è morto monsignor Santo Quadri, vescovo emerito di Modena. È stato un padre conciliare e un buon vescovo, che non ha mai dato l'impressione (come Biffi a Bologna, per dire) di guidare il vascello della Verità sul gran mare delle blatte comuniste.
È stato anche il vescovo della mia giovinezza, perciò se penso a lui mi vengono in mente soltanto storielle buffe. Per esempio, sin da bambino ho sperato che ci facesse un miracolo (e ancora ci conto). Non perché avessi bisogno di un segno, come questa generazione empia e malvagia (Matteo 12:38), ma semplicemente perché quando fai un miracolo il Papa deve proclamarti Santo, e ve lo immaginate sul calendario, un San Santo da Modena? Santo Quadri, il Santo al Quadrato.

Di quasi-miracoloso aveva le prediche, che raramente sforavano il quarto d'ora. Le sue visite pastorali erano molto attese, specie nella mia parrocchia dove l'arciprete era luuungo: ma la domenica che arrivava il Vescovo si riusciva sempre a mettersi a tavola una mezz'ora prima, sempre sia lodato.
Una volta il mio gruppo scout, uno dei più trasandati della provincia, gli rese la visita, e un paio di noi furono sorteggiati per servir Messa in duomo. A Giovannino toccò di reggergli il pastorale. Giovannino non sembrava particolarmente emozionato, tranne che durante l'omelia svenne, crollando in un solo colpo, tunc! Mentre qualcuno accorreva a soccorrerlo, Monsignor Santo Quadri si voltò di scatto, in un istante si rese conto del problema, e tagliò corto: “Sia lodato Gesù Cristo”. Probabilmente interpretò l'incidente come un segno che aveva parlato abbastanza. Altri vescovi, lo so, avrebbero continuato a concionare per mezz'ora. Mi era simpatico, il monsignore.

Un'altra volta gli capitò di prendere un passaggio in macchina da un mio capo scout (una di quelle persone fantastiche che hanno arricchito la mia vita e che, per inciso, ho incontrato per l'80% in parrocchie di provincia). Non mi ricordo in che occasione, e non ricordo nemmeno che macchina fosse – facciamo una Tipo bianca, va. Il vostro vescovo li prende i passaggi dai fedeli in Tipo bianca? Il mio lo faceva. Bisogna dire però che stava diventando un poco sordo.

Erano gli anni surreali dell'assedio a Sarajevo. Tutto quel carnaio a pochi chilometri da qui, e nessuno che ne capisse niente. Noi facevamo il possibile per essere buoni, guidavamo nella notte furgoni verso i campi profughi in Croazia, ma era come se ci mancasse il quadro generale. In mezzo a tutto questo, il mio capo scout si trovò a dare un passaggio al vescovo, e decise di pungolarlo.
“Monsignore, ma con la Bosnia cosa facciamo?”
“Eh?”
“Con la Bosnia, Monsignore, cosa facciamo?”
“Beh, con l'aborto, adesso, qualcosa stiamo cercando di fare, stiamo...”
“Non l'aborto, Monsignore, la BOSNIA! La BOSNIA!”

Ora magari è nel luogo dove si sente tutto benissimo. E magari si legge bene anche internet laggiù, per cui adesso smetto. Comunque, se mi servisse un miracolo, il primo a cui mi rivolgo è lui.
Comments (5)

Beware de negher

Permalink
L'insicurezza percepita

“Signora, aspetti...”
“Ma che fa? Giù le mani!”
“Signora, volevo solo reggerle il portone...”
“Ah, ma è lei! Scusi, ma prima non l'avevo vista bene, mi ha fatto venire una paura...”
“Paura? Signora, paura di che? Sono le dieci del mattino”
“Ma lo sa anche lei, con tutti quei... con tutti quei negri che si vedono adesso nel quartiere...”
“Neri?”
“Ma sì... negri, neri... uguale... io non sono mica razzista, eh, però... cosa ci vuol fare, quando mi fissano mi mettono una paura...”
“Signora, ma non ci sono dei neri, qui”.
“Massì... negri, o marocchini... l'è uguale... sempre in giro dalla mattina alla sera... e mi guardano... cos'avranno da guardare una povera vecchia...”
“Di marocchini ce n'è uno al civico 12, e basta. Creda a me che faccio il postino”.
“Massì, se non sono marocchini saranno extra... albanesi, zingari... tutti uguali...”
“Rumeni. Rumeni ce ne sono tre famiglie all'angolo. Sembra gente tranquilla, eh. Però è vero che i ragazzini son sempre in giro”.
“E fanno una paura...”
“Specie adesso che la scuola è chiusa”.
“Con quelle bici, ti spuntano alle spalle, ti puntano la borsa... ne hanno preso uno un mese fa, c'era sul giornale, ma è possibile che non si possa star tranquilli a uscire per strada?”
“Signora, c'è una cosa che dovrei chiederle...”
“Speriamo adesso, col nuovo governo... mah... che poi tanto sono tutti uguali... parlano, parlano, e poi... ma sa cos'è! Che son tutti vecchi! Si truccano per sembrar dei giovanotti, ma son tutti dei vecchi cancheri come me! Mo quand'è che cominciano a dare un po' di potere ai giovani, eh...”
“Eh, signora, ci vuol pazienza”.
“Lei, per esempio, ma è possibile che un bravo ragazzo come lei stia ancora lì a fare il postino? Che si vede che è uno che ci sa fare, e poi è simpatico, aiuta anche la gente, ma almeno glielo rinnovano il contratto?”
“Vediamo, signora, è un trimestrale”.
“Ma a proposito, lei che è il postino, non è mica che ha una busta per me? Dalla banca? Sarà un mese che sto aspettando questa busta dalla banca...”
“Ecco, signora, volevo proprio parlarle di questo. È arrivata una comunicazione dall'ufficio, vede? Lo sa, che le devono spedire il bancomat”.
“Ecco, appunto, io stavo proprio aspettando il bancomat”.
“Però non le hanno fatto firmare per la praivasi”.
“Ma è una cosa grave?”
“Ma no, signora, non è niente, dovrebbe riempire questo formulario che mi hanno dato, vede? E farmi una firma qui”.
“Oddio, ma non ci ho mica gli occhiali!”
“Se vuole l'aiuto io. Serve nome, cognome, luogo di nascita...”
“Malavasi Neive, sei gennaio quaranta”.
“Codice fiscale...”
“Ma non me lo ricordo mica, povera me. Devo andare su a prenderlo?”
“Eh, signora, forse è meglio di sì. E già che c'è...”
“Sì?”
“L'è arrivato per caso il PIN del bancomat nuovo?”
“Certo, m'è arrivato la settimana scorsa, è per quello che cominciavo a stare un po' in ansia...”
“Ecco, dovrebbe darmi anche quello lì”.
“Come, le devo dare anche il pin? Ma non è una cosa segreta?”
“Signora, cosa vuole che le dica, è per la praivasi. Se vuole lo faccio scrivere a lei, e io non guardo neanche... vede? C'è scritto qui...”
“Va bene, va bene, adesso vado su e prendo il codice fiscale e il pin”.
“Vuole che l'accompagno?”
“Ma no, ma no, non si stia a disturbare... un bravo ragazzo come lei... chissà quante scale gli fanno fare in una mattina...”
“Non mi lamento, signora...”
“E invece dovrebbe! Dovrebbe! Che è una cosa che non riesco a capire, dei bravi ragazzi come voi a fare questi mestieracci, mentre in giro ci sono tutti questi negri che ti guardano, ti guardano, e a me fan tanta paura...”
“Ehm, signora...”
“Sì, sì, va bene, lo so che ha fretta, adesso salgo...”

Modena, 20 giugno 2008 - Un portalettere è stato arrestato dalla polizia postale di Modena poiché apriva le lettere contenenti la tessera bancomat che l'Unicredit aveva inviato ad alcuni clienti di Carpi.
L'uomo, un 35enne residente a Carpi, teneva per sé le tessere e modificava il contenuto del messaggio dell'istituto di credito prima di consegnare la missiva ai clienti, ai quali chiedeva di comunicargli il codice segreto 'pin' gia' in loro possesso prima che la carta magnetica venisse effettivamente recapitata.
Comments (10)

nessuno è prefetto

Permalink
Caronte in Capo

Sapete quanto mi piacciono i lapsus, e ieri su di un TG RAI, durante un servizio sulla rivolta del CPT di Modena, mi è capitato di vedere questo faccione abbinato al seguente sottotitolo: Daniele Giovanardi - Prefetto di Modena.

Ora, io so benissimo che l'ex ministro Carlo Giovanardi ha un fratello gemello (anche se non mi sembra di averli mai visti nello stesso posto insieme: buffo). Ma so anche che non fa il prefetto a Modena. È un medico, molto stimato. È anche il presidente di un'associazione, una cooperativa, una cosa che si chiama Misericordia di Modena.

Quello che mi piace dei lapsus, è la quantità di cose che suggeriscono. Posso farmi tutto un romanzo sul povero giornalista che arriva a Modena e cerca informazioni su questo CPT dove ieri un tunisino si è strangolato con le sue stesse mani. A un certo punto arriva questo Giovanardi, che oltre a sembrare un esperto ha anche la faccia giusta: praticamente i telespettatori la conoscono già, lineamenti rudi, ma rassicuranti. Questo signore comincia a lamentarsi di come vanno le cose nel CPT: è tutto un disastro, non hanno i mezzi per domare la rivolta, ecc. ecc. Il giornalista che può fare? Riprende, registra, ringrazia, manda a Roma.

A Roma si ritrovano l'intervista a questo Giovanardi, e magari cominciano a porsi il problema: ma chi è? Un fratello di un ex ministro, benissimo, ma in che modo c'entra col CPT? Perché per c'entrarci, c'entra: ne parla come fosse roba sua. E allora... mah... Sindaco di certo non è... sarà il Prefetto. Ecco. Ci scriviamo "Prefetto", e se è un errore... rettificheremo. Mica è un'offesa, dare a qualcuno del Prefetto.

Infatti non è un'offesa. Ma è un lapsus che spiega meglio di mille parole il problema dei CPT.
Giovanardi non è il Prefetto (infatti chiede più poteri al Prefetto). Non è neanche il Questore (ma chiede più poteri anche al Questore). Con quel cognome è abbastanza inverosimile che faccia il Sindaco: ma se il Sindaco volesse dargli qualche potere in più, non lo rifiuterebbe. Insomma questo Giovanardi esattamente che titolo ha? Beh, basta l'intervista per farsi un'idea. Giovanardi è quello che, quando gli inquilini del CPT di Modena si rivoltano, vorrebbe il permesso di tenerli fermi. Non perché sia cattivo, ma perché quelli fanno sul serio. Menano anche.

Capite il dramma dei giornalisti RAI? Giovanardi non è prefetto, non è questore; non esiste in Italia una parola che definisca quello che fa. Potremmo chiamarlo capo delle guardie, ma sarebbe come dire che il CPT è una prigione, e non si può. Non si può perché quelli che stanno lì dentro non hanno commesso nessun reato. Il tunisino che si è strangolato con le sue stesse mani è entrato e uscito da un CPT almeno tre volte, ma finora non risulta che avesse commesso nulla di illegale. Neanche una multa per schiamazzi, niente.

Quindi: capo delle guardie, no. E allora? Siccome gli inquilini del CPT sono persone oneste fino a prova contraria, potremmo chiamarlo “capo dei portieri”: ma sarebbe prenderlo in giro, perché queste persone oneste hanno una gran voglia di uscire da lì dentro, e per farlo sono disposti a dar fuoco a tutto quanto, a fare lo sciopero della fame, magari anche a picchiare gli uomini di Giovanardi, altro che portieri. In effetti, se gli stranieri non delinquevano prima di entrare nel CPT, è facile che comincino lì. "La situazione sta diventando insostenibile", dice Giovanardi, e io gli credo.
Non resta che inventarsi una parola, magari pescandola dai miti o dalle leggende. Perché non "Decurione"? O meglio ancora, "Caronte"! Lui stesso ammette che "chi si trova lì dentro ha visto fallire il suo progetto di vita e la prospettiva è quella di essere rimpatriato". Più ci penso e più mi suona bene. Diciamo allora che Daniele Giovanardi è il caronte in capo del CPT di Modena. Ora che finalmente abbiamo un nome per chiamarlo, possiamo porci altre domande: come si diventa caronti? I prefetti li nomina il Presidente della Repubblica su designazione del Ministro dell’Interno – i caronti, chi ce li manda? E chi li paga? Perché nessuno farebbe il Caronte gratis, vero?

Non sono informazioni semplici da raccogliere. Se mi ricordo bene la cosa funziona così: il Ministro degli Interni fa una gara d’appalto, e chi vince la gara fa il Caronte. Insomma, trattasi di servizio esternalizzato. Ma siccome in Italia (o perlomeno a Modena) siamo brava gente, questo tipo di gare le facciamo fare solo ad associazioni, cooperative senza scopo di lucro, come si chiamano? ONLUS. Giovanardi è per l'appunto presidente di una ONLUS, che gestisce il CPT di Modena. Sì, appunto. Suo fratello va in tv a parlar male del collateralismo tra politica e coop rosse in Emilia, e lui intanto vince gare d’appalto. E' un mondo così.

Ora capite bene che per la faccia, il cognome, il mestiere che fa, Daniele Giovanardi non ha molte chance di essermi simpatico. Anzi, vederlo lamentarsi in tv a mezzogiorno perché gli inquilini del condominio menano e lui non può dargliele indietro, mi procura perfino un sottile e anticivico piacere. Hai voluto la bicicletta? Pedala…
Poi mi ritorna in mente che Giovanardi non è un caronte qualsiasi, ma il caronte in capo, e che la scena in cui una giunone nigeriana infierisce su di lui gandhianamente impassibile è destinata a restare nella mia fantasia. A pagare sono sempre i sottoposti. E comunque quello che lui solleva è un problema autentico. Il CPT non è né una galera né è un albergo (anche se a conti fatti costa alla collettività più di un hotel a 3 stelle). Qualche anno fa negli ambienti molto a sinistra lo si chiamava lager – ma è un’esagerazione che non risolve nessun problema. I CPT non sono concepiti come campi di sterminio: e se ogni tanto qualcuno ci si ammazza, questo non accade in misura molto maggiore che in altri istituti di detenzione.
Invece posso concordare con chi li paragona a Guantanamo: non saranno recinti per polli, ma come Guantanamo sono terre di nessuno, dove non vige la Costituzione, né per i carcerati né per i carcerieri. E questo è un grosso problema per i carcerati. Ma ogni tanto bisogna pensare anche ai carcerieri. Sono pagati come operatori socio-assistenziali, ma devono domare le rivolte. È evidente che c’è qualcosa che non va, se solo avessimo il coraggio e la pazienza di guardare.

Non posso che essere contento se finalmente i carcerieri, volevo dire i caronti di tutti i CPT d’Italia, trovano il coraggio di esprimere il loro disagio. Anche se a metterci la faccia per ora è proprio il gemello bello di Giovanardi, non esattamente un mostro di simpatia. Ma d’altro canto c’è poco di simpatico in quel che fa. Non è un questore, non è un prefetto. Anche "caronte" mi ha già stancato. Come si chiamava in latino il custode del recinto degli schiavi? Ecco, vedi che alla fine il latino a qualcosa serviva?

***

Ps: Ho letto di molti che non sono andati a votare le Primarie perché insoddisfatti dei candidati e dei loro programmi. Se per questo, anch’io.
Quando sento qualcuno che si lamenta per la scarsa qualità dei candidati PD, spero sempre che tirino in ballo la questione CPT, che è enorme sotto tutti i punti di vista. No, quasi sempre si tratta del matrimonio gay.
È una prospettiva che posso anche capire: molti di voi sono gay, nessuno di voi è clandestino. I problemi che vediamo da vicino ci sembrano sempre più grandi dei problemi degli altri. Comunque uno può sempre emigrare, no?
No: appunto, i clandestini non possono.
Comments (12)

Oimè, e non danzerò mai più

Permalink
Con o senza P

Quando di anni non ne avevo ancora venti, e di lirica non capivo assolutamente nulla, uscivo tuttavia con un soprano: così un giorno varcai la soglia mai prima osata di un negozio di classica, perché volevo regalarle una versione in CD dell’opera che stava studiando (che dolce) e speravo anche di cavarmela con poco (che fesso). Il nome dell’opera non me lo ricordo; ricordo invece la risposta del negoziante.

“Con Pavarotti o senza?”
“Eh?”
“La vuole con Pavarotti o senza?”
“Mah, non so, faccia un po’ lei”.

L’ignoranza mia plateale dovette muovere a pietà l’esercente, che mi spiegò l’arcano: in quel negozio, forse in tutti i negozi di Modena, i cd di classica si vendevano così: con-Pavarotti o senza-Pavarotti. Fu così che nella mia fantasia il più illustre concittadino venne per sempre assimilato a quello che nelle gelaterie è il dispenser di panna montata: “mi fa una Turandot?” “Ci vuole sopra un Pavarotti?” “Se è fresco sì, grazie!”, oppure “No, mi scusi, non lo digerisco”. Evidentemente P o si amava o si odiava, con un sentimento di pari intensità. Pavarotti come il Mac? No, piuttosto come Windows: popolare, un po’ troppo costoso, ed estremamente compatibile, anche se troppo spesso con esiti catastrofici. Pavarotti lo puoi montare anche su Zucchero o sugli U2, ma per quale motivo al mondo dovresti poi ascoltare una schifezza del genere? Mah, forse per l’amore dei bambini poveri. E va bene. Io però non ci sono mai andato, al Pavarotti&Friends, anche se una volta la Feffe aveva misteriosamente trovato dei biglietti e ci eravamo messi d’accordo per portare davanti alle telecamere uno striscione contro… contro… mah, l’Afganistan, forse… poi qualcuno tirò un pacco, non mi ricordo.

Non ricordo neanche se quel giorno, nel negozio, alla fine scelsi l’opera con- o senza-Luciano. Non che abbia importanza, il soprano mi lasciò di lì a poco per un poeta di neo-neoavanguardia. Senza dubbio anche a causa del trauma che ne conseguì, di lirica a trent’anni suonati continuo a non saperne nulla, e non crediate non me ne vergogni. Il mio orecchio, per altri aspetti così sensibile, di fronte a quella roba si pianta, non scevera un baritono da un basso, per lui Mozart o Verdi pari sono. Una sola cosa riesce a fare: distinguere il gusto Pavarotti dal no-Pavarotti. Quale dei due gusti sia poi preferibile non saprei dire, ma so che la mia sordità selettiva è condivisa da milioni di persone del mondo. Per quelli come noi, che dell’ignoranza ancora non van fieri, poter identificare almeno una voce è occasione di orgoglio e gratitudine: senti, senti, questo è senz’altro lui. Non che sia granché, appunto, è panna montata: ma è dolce, buona, democratica. Senti, senti il do di petto, senti.

Però adesso basta, per favore. Se in tv attaccano un altro Nessun dorma, ci viene il diabete.

Pavarotti ha riportato l’opera lirica tra la gente. Chissà poi se la gente se la meritava, in tutti i sensi. Secondo me a un certo punto si era semplicemente stancato di far la scimmia ammaestrata per un pubblico di cariatidi in visone. Proprio come me, come te, come chiunque, lui aveva un solo sogno: fare la rockstar. Ragazze nei camerini, poker, corse al trotto, il piazzale di Novi Sad come la sua Las Vegas personale. Mi viene sempre in mente di una vecchia intervista da New York, in un periodo in cui teneva le prime pagine del mondo semplicemente steccando ogni tanto (le registrazioni delle sue stecche devono valere parecchio, come i francobolli sbagliati):

“Ha letto il Critico-tale? L’ha stroncata, dice che a questo punto preferisce andare a un concerto di Tina Turner”.
“Beh, in effetti anch’io”.

Prima o poi i melomani dovevano uscirci, dal loro Ottocento paludato. Bisogna ringraziare Pavarotti perché ha ricordato a tutti che il melodramma, prima di ogni cosa, è una baracconata kitsch, il padre nobile e ubriacone del musical di Broadway, una cosa tutto sommato divertente: che se non diverte, probabilmente non è nemmeno buono. Come i quadri di Covili da cui sembra uscito, che prima di piacere ai critici piacciono ai bambini. Come il gelato, che prima di ogni cosa è dolce: hanno provato a farli salati, ma il popolo lo vuole dolce. E poi sì, a volte ha gusti assurdi il popolo: c’è chi chiede la panna sopra l’ananas, ma in fondo è un suo diritto.

Una delle cose meno comprese che ho fatto con questo blog è il gioco a inventare edizioni immaginarie di Pavarotti & Friends: 2001 e 2003. Si fa così: si prende una qualsiasi canzone pop, si traduce in italiano ottocentesco, e poi si immagina Pavarotti che la canta. Se siete nella doccia, potete anche interpretarlo. Forse sono l’unico al mondo a cui queste cose fanno a ridere, in ogni caso ecco a voi il duetto con George Michael

George: And I never gonna dance again
Guilty feet they've got no rhytm
Though it's easy to pretend
I know you're not a fool
I should have known better than to cheat a friend
And waste a chance that I've been given
So I never gonna dance again
The way I dance with you


Luciano: Oimé, e non danzerò mai più
Nell'orma dei passi colposi
Finger già facile fu
Ma con te giammai!
Con te persi l’amico che il fato mi dié
E nel pensier io mi torturo
So I never gonna dance again
Com’io danzai con te

E con Bono (non escludo l’abbiano fatto davvero):

Luciano: Non posso credere alle nuove
Né chiuder gli occhi miei e fingermi altrove
Ahi, quanto / dureremo in questo pianto?
Ahi quanto/ ahi qua… a … a… a… nto…
Bono: Tonight we can be as one,
tonight, tonight
Insieme: Domenica trista, domenica trista.

Con i Depeche Mode:

Luciano: Ognor ti penso, e cresce in me il desio
Dave: And I just can’t get enough, I just can’t get enough
Luciano: Soltanto in te trova conforto il pensier mio
Dave: And I just can’t get enough, I just can’t get enough

Con i tre Doors superstiti (e Morrison, all’inferno, stride i denti):

Sai ch’io non sarei sincero
Sai ch’io sarei ben bugiardo
Se or io ti dicessi, invero
Che non possiam salir più in alto

Orsù amor appicca il foco
Orsù amor appicca il foco
Di quella pira orrendo… foco!.

Adesso provate a indovinare voi:

Diletta mia, mi devi dir
Debbo partirmene o restar?
S’io vado, vi saranno guai?
S’io resto, un doppio amante avrai?
Deh dimmi, mia diletta, inver:
debb’io partirmene o restar?

Ok, era facile. E questa?

Ogni tuo sospir
Ogni tuo pensier
Ogni tuo piacer, ogni tuo voler
Io ti scruterò.

Che, non lo sai?
Ti posseggo, ormai,
e reclamo inver
ogni tuo pensier.

Finale col botto: Luciano e Serge Gainsburg si guardano negli occhi, l’orchestra parte, ed è un trionfo:

Pavarotti: Deh! Ché t'amo, io t'amo, oh se t'amo!
Gainsbourg: Moi non plus
Pavarotti: O mio divino!
Gainsbourg: L'amour physique est sans issue
Pavarotti: Tu vai, tu vai e tu vieni
Tra le mie reni
Tu vieni e tu vai
Tra le mie reni
E poi… ti ritrai
Gainsbourg: Je vais, je vais et je viens
Entre tes reins
Je vais et je viens
Et je me retiens…
Pavarotti: No… adesso… vien! (Acuto)

Nel paradiso dei musicisti oggi c'è una nuvola transennata, a forma di Modena, dove i morti illustri fan la fila per duettare col maestro: Tupac, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Syd Barrett, Natalino Otto... Lui stringe le mani e canta qualsiasi cosa, che oggi è la sua festa. Intorno è tutto uno sbandare di angeli che si tappan le orecchie con le ali. Ma tu vai così, Maestro, fregatene. Rock and roll.
Comments (23)

I am a dream, 2

Permalink
Meeting Dj W.
Ieri sera viene Veltroni ai giardini di Modena, a presentare un suo libro+dvd, e noi ci andiamo.
Arriviamo con un certo anticipo, perché è Veltroni; in realtà posti a sedere ce n’è parecchi. La media del pubblico si assesta sui 45-50 anni. L’età Veltroni. C’è anche qualche ragazzino, che in seguito si addormenterà sulle spalle della mamma.

L’Uomo sale sul palco alle 21.30, appena c’è abbastanza buio per il proiettore. Si prende il leggio, resta in piedi, e avverte che parlerà solo del libro, di nient’altro al di fuori del libro. In settimana l’eroina locale di Forza Italia, la Bertolini, ha accusato il comune di finanziare con questa iniziativa la campagna veltroniana per le primarie. Il comune ha un ottimo alibi: l’incontro era calendarizzato da mesi. Anche il libro era pronto da mesi, già. Ed è uscito proprio adesso. E di che parla? Un altro romanzo? No. Parla della bella politica. Quindi Veltroni non parlerà del Partito Democratico, della sua candidatura, no. Parlerà della bella politica. C’è una bancarella con pile e pile del suo libro+dvd.

Ugualmente qualcosa non va. Io ho una certa esperienza di presentazioni di libri: c’è un tale che presenta l’autore e c’è l’autore che parla del suo libro. E magari legge qualche pagina e se ne discute col pubblico. Veltroni invece monta sul pulpito e inizia a recitare una specie di lezione. È molto bravo a leggere alzando continuamente gli occhi sul pubblico; ma per quanto possa essere bravo, un lettore resta un lettore. È una scelta che non capisco: secondo me l’uomo è capacissimo di parlare a braccio. Anche di sostenere un contraddittorio (peraltro in terreno amico). Ma non lo fa.

A distanza di dodici ore è molto difficile per me ricordare cos’abbia detto in 120 minuti: direi grosso modo che la bella politica è quella che si fa pensando alla collettività e non alla propria individuale sopravvivenza. Tutto giusto e condivisibile, e detto senza banalità, ma nessuno avrebbe resistito a due ore così. Infatti il fulcro del suo discorso – ciò che ci ha tenuti saldati alle sedie – sono i video. Ogni tanto si ferma di parlare e manda un video. Inizia praticamente da subito: non ha ancora finito di salutare e già ha mandato il primo, che è il discorso di Chaplin barbiere ebreo nei panni del Grande Dittatore. Uno dei momenti più commoventi, ma in fondo anche rischiosi e imbarazzanti della storia del cinema – il regista che fora la quarta parete e spiega al mondo come fare a vivere bene. Più tardi ci farà vedere M.L.King che esegue I have a dream a Washington. E poi Berlinguer, Mandela. È come se non potendo fare un comizio, Veltroni fosse arrivato con la sua personale compilation: i Grandi Comizi del Novecento. Un comizio al quadrato. Il pubblico dapprincipio si emoziona, e applaude – come fai a non applaudire Berlinguer che non vuole morire prima di finire il suo discorso? Poi però comincia a riflettere: beati i neri dell’Alabama, che potevano ascoltarsi MLK e vedere la libertà brillare dagli Appalachi al Gran Canyon; mentre a noi tocca Veltroni che continua a leggere la sua relazione e non infiamma, non infiamma neanche un po’. Mentre parla mi sorprendo ad alzare gli occhi alle stelle, a tracciar costellazioni, a pensare al mal di denti. “Uffa. Quand’è che manda un altro video?”

Intanto l’oratore continua a insistere sulla sua idea di bella politica, e non parla di pensioni. Non parla di tasse. Di riforma della giustizia. Di referendum elettorale. Di Cus o Dico. Le pagine di cronaca politica sono pieni di argomenti interessanti e controversi, e lui non ne parla. Mette su Berlinguer. Peraltro quel famigerato comizio padovano non aveva nulla di speciale: parole accorate, come ne dicono i politici, ma senza ictus nessuno oggi lo ricorderebbe. Veltroni lo ha scelto come esempio di politico che vuole fare fino in fondo il suo mestiere. Berlinguer che manda giù il bicchiere, fa una smorfia e va avanti, è come lo spartano che si lascia rodere dal lupo.

Ho un’intuizione: per Veltroni la bella Politica è soprattutto ars oratoria, Fare Bei Discorsi. Appassionare la gente. Affascinarla. A Torino usò proprio questo verbo: il partito democratico si propone di affascinare gli italiani. E come li affascini? A parole? Non solo, siamo moderni, possiamo usare anche le clip. Di Berlinguer non gli interessano tanto i contenuti (quel giorno stava parlando di Scala Mobile, cos’è la Scala Mobile?), ma il suo fascino discreto. Inoltre Berlinguer è un esempio di caduto sul lavoro, uno dei pochi che la politica possa vantare.

Io sono un piccolo uomo che prende in giro i potenti, è il mio modo di sentirmi vivo. Eppure stavolta mi sento a disagio. Sembra che Veltroni sia venuto a Modena col preciso intento di farmi piacere, incarnando tutte le caricature del veltronismo. Eppure persino io sono convinto che l'uomo sia molto migliore di come si sta presentando in queste settimane. Lui è molto di più di un deejay di Grandi Successi del Novecento che legge testi scritti tra un filmato e l’altro. Lui la politica la fa realmente. È un amministratore, una persona che esercita il potere sulla gente. Volentieri leggerei un suo trattatello sulla politica sporchina: cosa succede concretamente quando il sindaco onesto di una grande città mette il naso nella gestione degli appalti? Come si fronteggia l’emergenza nomadi? Pagherei, pagheremmo tutti per leggere un libro così.

Invece, dopo due ore di belle parole e filmati toccanti, dopo gli applausi e la standing ovation, la gente sfuma verso il bar, e le pile del suo libro+dvd restano lì, dov’erano all’inizio. Si aspettavano diecimila persone, dice Cragno.
“Ma neanche un po’”.
“Parlar bene parla bene, ma se non leggesse sempre…”
“Sì, ma cos’ha detto alla fine?”
“Il fatto è che si mette in una posizione in cui non lo puoi criticare perché… è come se fosse il Presentatore”.
Lo speaker. Forse Veltroni non ha veramente tutta questa voglia di governare. Forse preferirebbe regnare, lasciando agli altri le dispute quotidiane sulle leggi elettorali e le riforme della giustizia. Il Sarkozy italiano, pronto come Sarkozy a costruirsi un partito-squadra a suo modello e poi, una volta all’Eliseo, comprare i migliori giocatori dell’altra squadra. Va bene. Rimane una fondamentale obiezione. È davvero così bravo, Veltroni, a fare i discorsi? Ce lo vedreste Veltroni nell’olimpo veltroniano, dopo Chaplin, Luther King e Rigoberta Menchù? Qualcuno ce lo vede, indubbiamente. Io sono un po' scettico.

Lui e Cacciari sono gli ultimi veri filosofi. Gli altri si mangian la torta.
(Anonimo plaudente, alla fine del discorso)

Un appunto per i Mille. Questa idea che sta passando – che Veltroni col suo fenomenale carisma sia in grado di scatenare una deriva plebiscitaria nel Pd, anzi in tutto il Centrosinistra, se non in tutto l’elettorato italiano, mi sembra alla prima prova dei fatti un po’ esagerata. Forse vivendo tra internet e i giornali si ha la tendenza a dare un po’ troppo risalto a eventi che in realtà coinvolgono solo gli appassionati e gli addetti ai lavori. La situazione che vedo io (e posso sbagliarmi) è che Veltroni sia piaciuto molto solo a quegli italiani che hanno già votato Prodi. Forse Veltroni gli è piaciuto di più, forse lo voteranno molto più volentieri, forse non voteranno Mussi, ma per ora questo è tutto. Gli altri non se ne sono neanche accorti, che Veltroni s’è candidato. Non solo gli italiani a centrodestra, ma anche quelli a centrosinistra che non leggono tanti giornali e non hanno visto la diretta del discorso di Torino dalle 17 alle 19 su La 7 – e fidatevi che son parecchi. La candidatura di Veltroni non è troppo forte, anzi. Se Bersani decide di non candidarsi, non credo che lo faccia perché ha paura di perdere. Il problema è che qui, dopo aver tanto parlato, abbiamo finalmente comprato il Fenomeno da cui tutti si aspettano sfracelli; e tutto quello che finora ha fatto il Fenomeno è segnare un paio di gol in qualche partitella estiva senza troppa importanza; e il pubblico non è affatto affascinato, anzi, lo stadio è mezzo vuoto. Magari a settembre tutto andrà bene. Magari. Se Veltroni fosse più forte, lo prenderei in giro anche più volentieri. Adesso francamente no. Tocca tifar per lui.
Comments (12)

a's'v'dam

Permalink
Sui modenesi, appunto

Appunto sui modenesi: ai modenesi piace ridere di sé stessi.
Questo in genere è un bene: meglio ridere di sé che prendersi sul serio, in assoluto. E tuttavia.

Io non so, nessuno sa, di cos’è fatto esattamente Infinite Jest, il cortometraggio di James O. Incandenza che nell’omonimo romanzo trasforma gli spettatori in amebe desiderose unicamente di vedere Infinite Jest all’infinito (sicché nessuno può tornare vivo a raccontarne il contenuto); e tuttavia, se fossi James e lo dovessi girare a Modena, mi basterebbe riprendere un modenese che, nell’atto di recitare in un film, fatica a stare serio, pregustando il momento in cui rivedendosi riderà. Di sé stesso, che sorride a denti stretti, pregustando il momento in cui rivedendosi riderà di sé stesso, e la cosa può ben andare avanti all’infinito, e sarà comunque divertente. Per un modenese, certo.

Ma perché poi essere m. dovrebbe essere intrinsecamente divertente, vediamo.
Primo, non invidiamo nessuno. A una certa età è una selezione naturale: chi avrebbe voluto vivere in un altro posto ormai c’è andato.
Secondo: siamo noi stessi sinceramente divertiti di trovarci qui. Cresciuti a tv e internet, è sempre stato buffo mettere il naso fuori di casa e trovarci una piccola città con tutti che parlano strano, e ancora più buffo sentire che anche noi parliamo così. Con nessuno sforzo. Ma insomma sembra tutto messo lì per finta, in attesa di montare una città vera, una vita vera. È un posto dove crescere (con calma) o nascondersi proprio.

Cerco di spiegarmi meglio. Quando autoindulgiamo in quella cadenza, simile a certe che sentite negli spot di generi alimentari, è molto difficile capire dove finisce l’eredità o l’ambiente, e dove comincia la posa. Taglio corto: modenesi non si nasce. Apparentemente. Sei tu che scegli di parlar così, ma non sarà mai una scelta seria. Avrai sempre l’impressione che puoi metterti a parlar normale, da un momento all’altro, se solo lo volessi. Certo, basterebbe prendere un treno per scoprire che non è vero, che l’accento è un destino ancestrale che ti trascini dietro.
Allora fa’ così: quel treno lì, non prenderlo. Problema risolto.

Non so se sono stato chiaro: ogni volta che un modenese parla, è come se prendesse in giro il modenese che è in lui. Siamo la caricatura di noi stessi, e ci divertiamo.
(Il parlare bolognese è inadatto alle lettere d’amore, diceva uno scrittore di quelle parti. Il nostro è inadatto, ormai, a qualunque cosa non sia una barzelletta).
E tutto questo non è colpa della provincia. In provincia ci si prenderebbe anche sul serio, è sempre stata una cosa seria la vita. Ma la provincia più la tv ottiene uno strano effetto. A furia di vedere NY e LA sullo schermo, cominci a pensare che quel che si vede fuori dalla finestra non sia tanto serio.
Quando non avevano ancora i mezzi per ascoltarsi e guardarsi e farsi il verso, i modenesi erano probabilmente gente più seria. Lo sappiamo dagli annali. Tra le altre cose, Medaglia d’oro della Resistenza. Ecco, immaginati i modenesi d’oggi che riparano in montagna con fucili e bombe a mano per resistere all’invasor. Non ce la fai, sembra subito la trama di un cortometraggio ridicolo.

Fortunatamente la Storia non passa più di qui in tank e bombardieri. Ma – la solita prevedibile domanda – se ricapitasse? Che figura ci facciamo?
Comments (11)

- 2025

Permalink
Il disgelo

Caro Leonardo,
siccome tu sei me, non c'è bisogno che te lo spieghi: sono depresso.

Sono sempre depresso quando se ne va un'influenza. I dolori se ne vanno e resta tutto questo spazio per l'angoscia.
Di solito succede a febbraio, e quasi sempre è un giorno limpido. Io odio i giorni limpidi di febbraio, per diversi motivi. Se c'è ancora uno sprazzo di neve fuori, la luce è come moltiplicata, filtra dal mio abbaino e mi trapassa il cuore. E dire che sono vecchio, ormai. Ho fatto il callo a tutte le malinconie d'inverno e a tutti gli affanni della primavera: ma il disgelo è un'altra cosa. È una tristezza sorda e lucida.
Questa è la stagione in cui i ghiacci eterni si sciolgono, i canali tracimano, e le paludi padane si sciacquano nel fetido bidé adriatico. Significa che è passato un altro anno, e io non ho portato Letizia a vedere San-Gem.
Non ricordo neanche più quando abbiamo smesso di andarci. Una volta passavamo ogni Natale: un giro in gondola in Canal Chiaro, la messa nel Duomo sommerso. Bisogna dire che ogni anno era meno pittoresco e più fangoso. Poi ci fu il famoso assedio, perché i Padani delle Paludi avevano escogitato di sequestrare i monumenti dell'Umanità e chiedere un riscatto all'Unesco: ma essendo Padani fecero solo un gran casino, uno dei loro Incursori tirò la leva sbagliata, e la cupola pressurizzata intorno al Duomo s'incrinò. Questo almeno secondo l'inchiesta ufficiale. Qualche fallaciano suggerì che si trattava di un sigillo dell'Apocalisse, il quarto o il quinto, non so. Ma da allora in poi bisognava proprio volerle bene, a San-Gem, per tornarci. E io forse non le voglio così bene. Non più.
Vorrei anche vedere, dopo quel che ho fatto a Defarge.

Tempo fa, quando ci fu il ripulisti, e m'iscrissero d'ufficio a un corso di Rieducazione, facendomi firmare una liberatoria in cui affermavo di trovarmi molto bene in quel Campo lì, che il vitto era ottimo e che nessuno mi torturava contro la mia volontà, io ero un po' inquieto.
Sapevo benissimo cosa volevano da me: il rifugio di Defarge. Io, però, questo non glielo potevo dire, per mille ragioni di lealtà e decoro, e anche perché non lo sapevo. Se lo avrei saputo, magari avrei fatto l'eroe: ma non lo sapevo, punto. Farti torturare per una qualcosa che non sai è quanto di più assurdo possa succederti a questo mondo: e pensare che accade a molte persone, molte più di quanto non si creda.
Così gli dissi (le mani legate ai piedi posteriori della sedia, uno stivale chiodato sulla testa), all'Inquisitore io gli dissi: sentite, dove sia non lo so, ma se lo conosco un minimo è a San-Gem. Insomma, dove volete che sia. Dove volete che vada. Ma ve lo devo dire proprio io?

In seguito, dentro di me, si sono sviluppate due scuole di pensiero. La prima va molto forte nella stagione autunno-inverno, e sostiene che tecnicam non è stato tradimento. Tradimento è quando tu abusi della fiducia di qualcuno. Ma Defarge in questo caso non aveva avuto fiducia di me: era partito senza dir niente. (Troppo giusto, col senno di poi). Ma siccome non m'ha detto niente, io non posso averlo tradito. Mi sono limitato a esprimere un parere a un Inquisitore che me l'aveva chiesto. Un parere? Un'ovvietà. Come dire: d'inverno nevica. D'estate c'è il sole. A febbraio, il disgelo. Non ci sono più le mezze stagioni. E se Defarge non è qui, è a San-Gem. E una volta qui era tutta campagna. Questa è la prima scuola di pensiero.

La seconda scuola, che s'impone nella primavera-estate, muove da una differente considerazione: chi l'ha poi detto che Defarge fosse a San-Gem davvero, il primo posto in cui tutti l'avrebbero cercato? E allora chi lo sa, può darsi che sotto sotto, senza dirlo a nessuno, io davanti a quell'Inquisitore abbia dimostrato mostrato nervi saldi, scaltrezza e tempra d'eroe. Senza i compiacimenti sadomaso di chi per essere eroe deve per forza farsi un po' torturare. No. Prendere tempo, snocciolare ovvietà, confondere le acque, depistare, e nel frattempo recitare la parte dell'uomo nudo, legato a una sedia, che trema come una foglia e implora di non essere ucciso ché ha famiglia: riuscite a immaginarvi qualcosa di più eroico? Io no. Almeno per sei mesi l'anno, no.

Così lo vedi, Leonardo, il problema non è l'autunno-inverno. E neanche la primavera-estate. Io ho alibi comodi, confortevoli, per tutte le stagioni. Ma il disgelo. Il disgelo mi frega sempre.
Sono solo in casa, convalescente sul divano. Letizia è a scuola, Concetta a far la spesa. Mi hanno lasciato solo con la luce, quella impietosa luce azzurra. L'abbaino è una specie di specchio, e se stringo gli occhi riesco a specchiarmi. Ci sono io dall'altra parte. Come nel sogno. Ci sono io…

Rumore di chiavi. Un mazzo piccolo. Io riconosco le mie due mogli dal rumore che fanno con le chiavi.
Concetta per esempio ha un mazzo enorme, come la vecchia di Raskolnikov, un mucchio di ferraglia che si annuncia dalla tromba delle scale.
"Svelto, non abbiamo molto tempo".

Difatti questa è Assunta, e indovina un po', non è sola.
"Assunta, sei matta?"
"Anzi, mi sembra di essere rimasta l'unica persona un po' sensata in questo Trimonio".
"Se vi scopre… "
"Se ci scopre vedremo, ma tu sei a letto da una settimana con la febbre alta, e quando una persona sensata ha la febbre, chiama un dottore".

Già, un dottore. "Buonasera Immacolato".
"Buonasera dottor Damaso, posso essere onesto? Lei è l'ultima persona che vorrei vedere in questo momento".
"Che cattivo carattere oggi, eh? Buon segno. Molte persone vanno in depressione al termine della convalescenza".
"Ma và, non lo sapevo".
"Si scopra la schiena, andiamo. La ausculto un po' – e intanto facciamo il punto sul nostro comune amico. Dica trentatré".

Mi sembra di stare in una barzelletta. A un suo cenno, Assunta fila in cucina. Le fa rigare dritte le donne, lui.

"E andiamo Immacolato, un po' di collaborazione!"
"Trentatré, trentatré".
"Bene. Ma lei è un groviglio di nervi, sa? Si metta un attimo prono".
"È anche un fisioterapista, dottore?".
"Glielo detto, al Maggiore c'ingegniamo. Ora, come andiamo con Taddei? Lui comincia a spazientirsi. Ha preparato le risposte?"
"No".
"Troppo malato?"
"No, no. È più grave di così".
"Più grave?"
"Senta dottore, come avrà capito io sono un po' col culo a terra, attualm. Ma solo un po'. Metà acconto glielo posso rendere tra una settimana. Il resto tra un mese. Agli interessi che vuole lei, se vuole degli interessi. Mi dispiace, ma non posso più lavorare per lei. Ouch! Che cosa mi ha fatto?"
"Che brutti nervi che ha, Immacolato. Che brutti nervi".
Assunta bussa alla porta, neanche fosse in casa d'altri. "Qualcosa che non va?"
"Tutto bene cara, prego, lasciaci soli".

[continua]
Comments (4)

Permalink
Aggregatore della domenica

Oggi, 29 febbraio (San Precario), nevicava. Ma io sulla neve non ho altro da aggiungere.

Ma non temete, finirà anche questo inverno, come tutti gli altri, si squaglierà come neve al sole, e sotto la neve Modena vi offrirà una primavera carica di stupende iniziative culturali. Venerdì prossimo alla Tenda comincia un ciclo sulle Narrazioni in Movimento: verranno quasi tutti gli scrittori che hanno parlato del G8 di Genova nei loro romanzi: Bosonetto, Bugaro, Dazieri, Lestini, Tassinari, Carlotto. Camilleri aveva un impegno. Qui c’è il programma.

Martedì 30, poi, nel trendissimo locale Juta di Via del Taglio, presenteremo Blogout a chi non se lo fosse ancora procurato, in compagnia dei polaroidi e di altri blog di scuola modenese. Rispetto all’ultima presentazione, posso garantire che il bar resterà aperto, e qualsiasi dibattito sui Commenti verrà punito in modo esemplare (notate che qui non metto nessuna faccina ironica).

Codesto blog darà a tali iniziative tutto il risalto che meritano. Invece non darà risalto a Sanremo, né in generale a nessuna trasmissione tv d’intrattenimento. Per i motivi già spiegati l’anno scorso, ma anche per uno molto più banale: io di tv ne guardo poca, perdo troppo tempo coi blog.
Da quel poco che ho capito, comunque, “Bisturi” segna lo sputtanamento finale della body art, e non me ne posso che rallegrare. (Grazie, Spocchia):

Nelle oziose performance delle due operatrici dell'estetico albergava uno spirito piccolo-borghese e narcisista, tipico d'altra parte di tutta quella body art e arte concettuale che fa del proprio ombelico il centro dell'universo. Uno non lo dice per non essere accusato di zdanovismo e maschilismo. Ma poi l'idea che sta alla base di tutte le esibizioni di Orlan (operazioni di chirurgia estetica in diretta) viene ripresa senza sostanziali modifiche da un programma di Irene Pivetti e Platinette. E quindi è inutile nasconderlo, stavolta sono contento, time is on our side.

In realtà parlare di tv non è facile come può sembrare. Bisogna essere ironici, e io ultimamente non ci riesco. Mi cascano le braccia subito e non so come raccoglierle. Prendete – non so – gli spot della Tim. Io vorrei tanto riuscire a fare ironia sugli spot della Tim, ma non ci riesco. Quando le cose sembrano troppo facili, in realtà si fanno davvero difficili. E infatti ci riesce solo Personalità Confusa. Sulla scala della mia invidia, se volete saperlo, X§ sopravanza Sergio Romano di parecchi gradini.

Qualche gradino lo ha salito anche Secondavisione con questa esilarante letterina a Laura (non la Laura dei cocktail, un’altra meno giovane che fa l’attrice).

Poi, uno ha un bel da dire che la differenza culturale è un feticcio: ci sono cose che ti lasciano sgomento. Per dirlo con Cronaca Vera: Per mettere a suo agio l’ospite occidentale del figlio, coppia di coniugi egiziani gli regala una cassetta porno… D’altronde, come dice Lia, l’importante è venirsi incontro…

Chi è arrivato fin qui si merita letture impegnative. Bene. Avete ancora 5 giorni di tempo per leggere questo bel pezzo di Pierpaolo Ascari su Casanova, Stendhal, Paul et Virginie e Mme Bovary, prima che il Manifesto lo cancelli come genialmente fa con tutto quello che pubblica. Segue dibattito.

E anche febbraio ce lo siamo tolti di mezzo. Secondo me è andato un po’ meglio di gennaio, ma secondo voi no.
Comments

Permalink
a volte rischio di dimenticarmeneChiedo scusa a quelli che questo pezzo l'hanno letto ieri su Polaroid, ma ho pensato che non succede niente se lo metto anche qui.

Sai che c’è? C’è che non va

Sabato sera i Lomas hanno suonato al TPO di Bologna. Non lo sapevate e non vi siete persi un granché.
Io l’ho saputo e ci sono andato, perché amo i Lomas e i loro pezzi. Cioè, “amo” è un po’ forte da dire a persone che hanno la barba (e i basettoni). Dirò allora che gli “voglio bene”. Sì: “voglio bene” va benissimo. Io voglio un gran bene ai Lomas e ai loro pezzi. A volte mi chiedo come sia possibile, da un punto di vista meramente statistico, che l’unico gruppo italiano degli anni ’90 a cui non abbia smesso di voler bene sia proprio nato a pochi km da casa mia (e non sia mai andato molto più in là).

Bisogna ricordarsi che nei ’90 la via Emilia era… “trendy” non mi sembra la parola adatta, eh? Assolutamente. Direi piuttosto che la Via Emilia era molto pompata… esclusivamente sulla Via Emilia. Sulla via Emilia c’erano scrittori, musicisti, filmaker, artisti, giornalisti, che non facevano che parlare di scrittori, musicisti, filmaker, artisti, giornalisti sulla Via Emilia. La cosa poteva andare avanti all’infinito e mi dava una certa nausea. Sulle Feltrinelli della Via Emilia, io trovavo libri di scrittori della Via Emilia: li aprivo, mi mettevo a leggere e… rimettevo il libro al suo posto, perché si parlava di una ragazza che anch'io avevo incontrato, mentre passeggiava per la Via Emilia, e allora, insomma, mi suonava tutto così incestuoso.

Che poi, d’accordo, in teoria saremmo la regione più europea d’Italia “per offerta culturale”, ma in pratica finiamo per andare sempre negli stessi posti a fare le stesse cose: in dieci anni di consumo culturale ci siamo praticamente conosciuti tutti, ma proprio tutti, e non sto parlando di sei gradi di separazione. Per tacere del groviglio di relazioni sentimentali e sessuali che, ecco, appunto, taciamone.

I Lomas, in tutto questo? Apparentemente c’erano dentro fino al collo. Basta leggere i titoli delle loro tre raccolte: “Modena, stazione di Modena per Carpi Suzzara Mantova si cambia”; “Porci Ceramiche”; “Mutina Punkae Lomas”; “0.5.9. 1.9.9.8”. Bisogna aggiungere che 059 è il prefisso di Modena, che i suini e le ceramiche sono il principale contributo modenese al Prodotto Interno Lordo, che Carpi-Suzzara-Mantova sono le uniche coincidenze su cui l’altoparlante della Stazione FS tenga informati, da epoche immemori, i viaggiatori? Tutto questo però può suonare incomprensibile se abiti appena a… a… Casumaro.

E se i titoli degli album non ti hanno convinto, prendiamo quelli delle canzoni: “Elena Morselli”, “Claudio Bellei”: sembra l’appello di una scuola media di Bomporto. (Non sto scherzando, io ho fatto e faccio le medie di Bomporto e avevo un compagno che si chiamava così). Però tutto questo localismo secondo me era riscattato da una cosa: i Lomas erano bravi. Di un tipo di bravura che non c’entra tantissimo col saper usare gli strumenti, quanto nel saper cogliere problemi universali con un linguaggio semplicissimo e divertente. Questo è il dono dei classici. E i Lomas, per me, sono dei classici.

Credo che non lo siano soltanto per me, ma per almeno una mezza dozzina di persone, con le quali a volte mi trovo e ci mettiamo a cantare che “dietro un banco c’è un mutuo che il cliente non sa”, oppure “non dire niente, non tacer nemmeno”, oppure “Oh Peggy Peggy uonderbra / non va più lontano di tanto il primo appuntamento”; o anche “lui suona male / ma sei peggio te che non conosci le scale”; oppure “lui verrebbe a prenderti stasera / ma tu trovi sempre un'altra scusa / bussi ma la porta è sempre chiusa / bussi ma nessuno ti aprirà" o anche "e sei tu sei come me non hai mai concluso un cazzo nella vita di concreto / e sei uscito dalle Medie con discreto"; e più spesso “Carpi, che è un posto come tutti gli altri /e sei tu che hai problemi, e non loro”.
E potrei continuare per parecchio, ma temo che mi stia divertendo solo io.

Infatti quelle che ho scritto, che a voi alieni potranno sembrare casualità sconnesse, per noi modenesi sono invece grandi verità della vita, che nessuno ha saputo raccontarci e cantarci meglio dei Lomas. Nessuno, in Italia e forse nel mondo. A me piacciono i Beatles, i Clash, i Lomas. Il resto viene da sé, è una naturale conseguenza: se mi piacciono quelli, mi devono piacere anche gli altri (un sacco di altri).

Poi, naturalmente, mi dispiace che al contrario degli altri due gruppi citati i Lomas non possano essere classici se non per una ristrettissima comunità di persone.
- A volte mi dico che non importa, anzi: i Lomas sono il simbolo di qualcosa di nuovo e importante: la Piccola Proprietà Intellettuale (un po’ come i blog, ogni tanto bisogna parlare un po' di blog). Non importa che tutte le orecchie del mondo ascoltino i Lomas. Ma sarebbe bello che in tutte le piccole città del mondo nascesse un gruppo autoctono e geniale come i Lomas. Prendete le loro canzoni e cambiate i nomi, cambiate i testi, fate quello che vi pare, non credo che s’incazzeranno, e se anche s’incazzano, poi gli passa. Sono anarchici e, se tutti gli anarchici fossero persone ammodo come loro, saremmo anarchici anche noi.

- Altre volte però mi domando se questa ossessione toponomastica non sia stato un po’ un modo per non crescere mai (anche se come uomini sono diventati grandi e lavorano fuori di casa). Varrebbe per loro quello che vale per molti scrittori, musicisti, filmaker, giornalisti sulla Via Emilia: che a furia di parlare di Via Emilia si sono persi sulla Via Emilia, come Pier Vittorio Tondelli quella volta che continuava ad andare avanti e indietro sullo stesso tratto per non perdere il segnale di MondoRadio (cfr. Un Weekend postmoderno). E insomma, quando vi decidete, tutti quanti, a crescere e ad andare per il mondo? (Detta da me, questa frase, è come spiccare un salto per infilare con la testa un cappio al volo. Canestro!).

I Lomas a Bologna sembravano i marziani su Saturno. Fox tra un pezzo e l’altro continuava a dire: “Cioè, ragazzi… noi non vi vediamo, non vi sentiamo, non capiamo chi siete…” Probabilmente aveva ragione lui: non ci si vedeva e non ci si sentiva un cazzo. Ma questo sarebbe stato un problema come tanti sul palco del Left di Tre Olmi, o nella stalla di Libera a Marzaglia, o nel mitico mattatoio X, dove nel 1996 saltò la valvola quand’era pieno di fumo e persone.
A Bologna, invece, i Lomas non credevano semplicemente nella possibilità di comunicare con gli indigeni. E sarò anche stato anche il bere e il mangiare, siam d'accordo, che "dopo duecento birre siamo tutti fratelli, dopo trecento birre abbiamo tutti ragione", però... “Elena Morselli” è diventato un catalogo dei nomi degli istituti superiori modenesi; “Racconti di Modena Est”, senza l’omonimo cortometraggio, un flusso di in-coscienza di Fox. “Tortellino nero” ha funzionato anche, ma in coda nessuno si è accorto che Mucci da dietro i piatti stava cantando il pezzo inedito su Forza Nuova: acustica di merda, siamo d’accordo. Però.
Però non credo che nessun bolognese, davanti al palco, abbia avuto l’impressione che i Lomas cantassero per loro. E invece i Lomas ai bolognesi avrebbero tante cose da dire, secondo me. Non è questione di campanile, di gara a chi ce l’ha più lungo (comunque la Ghirlandina è più lunga): ma l’understatement dei Lomas a Bologna è merce rara, bisognerebbe aprire uno spaccio da qualche parte, e darne via a chili, quintali di understatement sotto i portici bolognesi. Che Bologna è poi un posto come gli altri (e sei tu che hai problemi, e non loro).

L’ho fatta molto lunga, e mi scuso, ma ci tenevo. Il titolo del post è preso da una canzone di Porci Ceramiche, dedicata a un amico che non viene più nel vecchio bar a bere con gli amici perché è diventato una promessa in qualche squadra di calcio locale: “Sai che tutti sanno ormai / che in Serie A tu giocherai / e se la tua squadra perde? / E se perde tornerai”.
I Lomas sono quel tipo di amici lì, per i quali una serata al bar con gli amici vale più di ogni cosa, compresa una folgorante carriera in Serie A. E serata dopo serata, briscola dopo briscola, i loro discorsi cominci a saperli a memoria. E pensi: ma si rendono conto che anche loro, con un po’ di sforzo, se non in Serie A almeno in C1 avrebbero potuto giocarci?
Poi forse hanno ragione loro: l’importante non è quel po’ di gloria che ti trovi per strada: l’importante è bere e mangiare tra amici in un posto ospitale, un banco del bar dove "a volte tiri fuori i tuoi gioielli". Io non lo so. Mi resta il dubbio.

(Se siete curiosi scaricate qui)
Comments (6)

Permalink
Un altro ragazzo si è tolto la vita all’accademia militare di Modena. Si chiama Ermir Haxhiaj, era albanese, aveva 19 anni. È il secondo suicidio in due mesi, il quarto in sei anni. I graduati insistono che si tratta di pura fatalità. Il padre del ragazzo invece accusa gli insegnanti di discriminazione.
Sull’accademia di Modena ho già scritto un pezzo , un mese fa, e non saprei cosa aggiungere.


Coccodrilli di guerra
Invece vorrei far presente una cosa che in questi giorni mi sta spaventando: mi sono reso conto che questo sito è un interminabile officio funebre, una galleria di coccodrilli.
Sono sceso in fondo alla pagina, e ho iniziato a contare i morti del mese, da Alberto Sordi fino al povero Ermir. Sono troppi.
D’altro canto, quando muore un attore importante, un cantante celebre, una ragazza schiacciata da un bulldozer, sembra impossibile non parlarne. I morti reclamano spazio, proprio loro che ormai non possono più essere aiutati: muovono i ricordi, scuotono le coscienze, fanno arrabbiare e commuovono. I morti – mi sto rendendo conto – sono un argomento molto comodo. Se vuoi fare indignare un lettore, o fargli spendere una lacrima, non c’è nulla di meglio di una prece in prima pagina.

E c’è di più – c’è di peggio: nelle nostre quotidiane battaglie di idee, i morti sono armi. Armi improprie, non convenzionali, micidiali. Rachel Corrie è morta, non esiste più. Perché ho messo la sua foto sul mio sito? Per commuovermi, per sentirmi buono. E perché il sorriso di Rachel Corrie è un colpo basso a chi non è d’accordo con me, a chi difende i carri armati israeliani.
Forse non avrei dovuto mettere quella foto. Forse non è giusto sventolare i morti come bandiere, gettarli addosso al nemico come armi.
C’è qualcosa di molto sbagliato in me, se la prima reazione al lutto del mattino è “Vedete che avevo ragione”. All’accademia si uccide un altro cadetto: “Vedete che avevo ragione? Lì dentro c’è del marcio”. Accoltellano un giovane disobbediente: “Vedete che avevo ragione? I neofascisti sono pericolosi”.
Potrò avere tutte le ragioni del mondo, ma ho perso la mia battaglia se ho trasformato i morti in argomenti, se non riconosco più in loro degli esseri umani, come me, che ieri respiravano e stamattina non esistono più.

Ho pensato a tutto questo dopo aver visto, su icapperi, un banner spaventoso, dedicato ai pacifisti, che mostra foto di vittime del regime iracheno, in gran parte bambini. “In Iraq in migliaia non possono camminare: Saddam ha dato loro “la pace”… Voi marciate per la vostra pace, voi marciate per la pace di Saddam. Ecco il prezzo della vostra pace. Io non posso permetterlo. Io non voglio pagare. È tutto vostro”.

Ora, qui c’è qualcosa di più del pessimo gusto. Innanzitutto c’è l’idea che i milioni di pacifisti del 15 febbraio siano poveri ingenui, che non abbiano mai sentito parlare dei crimini di Saddam Hussein: altrimenti non potrebbero non invocare l’invasione immediata dell’Iraq.
L’autore del banner non ha nessuna intenzione di ‘educare’ i pacifisti: essendo loro ingenui e ignoranti, l’unica cosa da fare è stordirli con una caterva impressionante di foto di bambini morti e feriti, possibilmente con il viso in primo piano e gli occhi sbarrati. Non è citata nessuna fonte per le immagini (sono curdi? Sciiti? A che anno risalgono le foto?).
Quei bambini morti non hanno una storia da raccontare. Sono soltanto un’arma di persuasione, una bandiera di civiltà (civiltà?).

Naturalmente si potrebbe obiettare in milioni di modi: che i pacifisti non sono filo-Hussein, perché Hussein non è pacifista; che i crimini del regime iracheno sono noti da sempre, e che è molto sospetta quest’improvvisa fregola di vendicare gli eccidi al gas nervino commessi più di dieci anni fa. Ma tutto questo non ha la forza del volto di un bambino che non esiste più.
E allora cosa facciamo? Alla fine qualcuno si metterà a cercare foto di bambini uccisi dai missili americani o israeliani, in Iraq, in Afganistan o in Palestina: e ci farà anche lui il suo bello, commovente, scioccante banner animato. E la battaglia per le idee continuerà così, a colpi di foto di bambini morti.

Andrà davvero così? Dipende da noi. Siamo così affezionati alle nostre idee, da rinunciare alla nostra umanità per difenderle?
Domani inizia la guerra, e i morti – come succede in questi casi – smetteranno di avere un volto: diventeranno numeri. Io prometto che ci andrò piano, coi coccodrilli, e non innalzerò più nessuna foto di morto come bandiera, e non userò nessun corpo di morto come arma. Voi fate pure quello che vi pare, siamo su internet. Buona fortuna.
Comments

Permalink
Il palazzo dei corvi

Nel cuore della mia città c’è un grande Palazzo, dove noi civili non possiamo entrare: e questo, vi giuro, non è Kafka.
È la realtà.

La colpa, se vogliamo, è di un duca, che aveva perso il suo vero ducato in battaglia.
A quel tempo Modena era un tipico comune padano, portici stretti e fogne a cielo aperto, molto legato al suo locale medioevo. Arrivò dunque questo duca, con un po’ di corte al seguito e una collezioni di quadri da far girar la testa, e decise in mancanza di meglio di farne la nuova capitale. Fuori Modena era già il Seicento, e andavano di moda i palazzi grandi come città: anche i nostri duchi ne ordinarono uno, ma pareva che non avessero molta fretta, e nemmeno molti soldi. A ogni architetto di passaggio (Bernini incluso) facevano ridisegnare il progetto. Poi il marmo finì, più o meno a metà dei lavori, e si continuò col mattone: una cosa un po’ ridicola, ma il risultato non è male.
Il risultato è un palazzo smisurato, assolutamente fuori scala rispetto alla città, che sbarra il Centro Storico su tutto il lato nord, senza essere né fuori né dentro. La facciata dà su una piazza che sarebbe bella, se la gente venisse a passeggio o si desse appuntamento. Ma i modenesi non hanno mai pensato a quello spazio come a una piazza: per loro è solo il parcheggio più vicino al Centro. E il palazzo è solo una enorme transenna da aggirare. Non lo notano neanche, e sì che è grande. Ma siccome nessuno può entrare, è come se non ci fosse.
Il palazzo, infatti, non appartiene al comune. È una piccola città nella città, come a Roma il Vaticano. Ed è la città dei Corvi.

I Corvi vengono da tutt’Italia, ma soprattutto “da giù”. Arrivano a diciotto anni e hanno già le idee chiare, anche se ancora non sanno cosa sia la nebbia. Vengono a studiare e ad addestrarsi per la patria. Faranno esami e marce, marce ed esami, finché non diventeranno ufficiali del nostro esercito: quell’esercito che in caso di guerra è spesso d’intralcio alle operazioni. Non tutti però arrivano alla fine: alcuni si fermano prima. Dev’essere una scuola molto dura, ma in realtà non ne sappiamo niente.
Non ci sono simpatici, è vero, ma non è del tutto colpa nostra. Il fatto è che noi dobbiamo ancora digerire il vecchio duca, con le sue smanie di grandezza. Poi arrivano questi, e si prendono il posto più bello della città, con degli interni che stanno sui manuali di Storia dell’Arte. Se pensate a quanto può costare un posto letto in Centro…
Il fatto è che viviamo davvero in due città diverse, noi e loro. Dalle nostre finestre noi guardiamo il Palazzo, e pensiamo all’ampio parcheggio. Ma dalle loro finestre, loro, cosa vedono? Senz’altro non guardano noi, che siamo lì solo per caso, uno sfondo piuttosto incongruo ai loro studi e alle loro battaglie. Guardano al loro futuro, che è appena un po’ meno grigio della nebbia; alla loro carriera nell’esercito, a quando finalmente potranno levarsi quel ridicolo mantello dalle spalle e combattere come uomini: fare quello a cui si stanno preparando da anni, da una vita.
Ma sanno che probabilmente non combatteranno mai, perché non ci sono più città da difendere: e Modena men che meno. C’è solo un deserto, grigio, e i Tartari non arrivano.

E poi c’è la questione del mantello.
Il mantello è l’uniforme da passeggio dei corvi. È un ampio tabarro nero, che forse tiene caldo, ma che in combattimento risulterebbe un bell’impiccio. Fa molto Ottocento. Sotto il tabarro, appeso a un fianco, il corvo tiene l’altro segno di distinzione: un sottile tagliacarte d’ottone, il cosiddetto “spadino”. Un arma di difesa un po’ improbabile, per non dire ridicola. (Al maiale il codino / al corvo lo spadino, si leggeva su un muro alla Pomposa).
Per un lungo inverno, che va da ottobre a maggio, questo ragazzo di vent’anni è costretto ad andare in giro per le nostre strade conciato così, come la comparsa di un film di Zeffirelli. Nel fine settimana è seguito dai famigliari o dalla fidanzata, venuti a trovarlo “da giù”; e da un facchino, perché un ferreo regolamento gli impedisce di portare bagagli quando indossa l’uniforme.
È chiaro che chi ha voluto un costume così mirava a una sola cosa: che il corvo si sentisse odiato dalla città, e che la ricambiasse. Cosa c’è di più penoso, per un ragazzo di vent’anni, di girare per una piaccola città straniera e sentire una sfumatura di presa in giro in ogni sguardo? Il mantello e lo spadino lo proteggono da ogni contatto amichevole con gli indigeni. Senza di loro non gli è consentito di uscire. Il mantello è un pezzo del palazzo che il corvo si porta ovunque con sé. E questo non è Kafka, badate: è la loro vita, per cinque e più anni.

Poi, ogni tanto, qualcuno di loro se ne va. Si uccide, lasciandosi cadere da quelle finestre così grandi.
Allora i suoi compagni, e i superiori, si affrettano a ricordare che era un bravo ragazzo, appassionato studente e molto ligio al dovere, ma, come dire, un po’ debole. Immaturo, disse una volta un generale importante – poi gli hanno spiegato che quella parola non la deve dire più, che non sta bene davanti ai genitori, ma comunque ci siamo capiti. E che non si tratta di nonnismo, per carità, non esiste il nonnismo all’Accademia Militare di Modena. Esistono solo ragazzi motivati e preparati al loro futuro, ma non tutti reggono allo stress. Punto.

E noi, a sentire queste cose, scuotiamo la testa e alziamo le spalle. Stress da esami, figuriamoci. Tre suicidi in sei anni…
E poi voltiamo pagina. Che cambiare le cose non tocca certo a noi.

Al centro dell’ampio parcheggio sta la statua di un patriota, che guarda il Palazzo con aria di sfida.
Era un vicino di casa del duca, che col suo tacito consenso stava organizzando una mezza rivoluzione. Finché quest’ultimo non aveva preso paura – in fin dei conti era solo un piccolo duca, schiacciato tra Regni ed Imperi – e lo aveva condannato a morte, un atto inaudito in uno Stato da operetta come il nostro. La statua guarda proprio alla stanza in cui il Duca firmò la sentenza.
Forse non è una gran statua, ma per me è un bel simbolo del nostro atteggiamento nei confronti del Palazzo: Ciro Menotti lo guarda a testa alta, per nulla impressionato. Sembra che stia dicendo: “E alòra?” Tutta questa facciata di finto marmo, cos’è? A parte ostruire il traffico, a cosa serve? Non ci si poteva fare un giardino, o ancora meglio, ampliare il parcheggio?

È così strano che la scuola dei militari l’abbiano voluta mettere da noi. Noi abbiamo così poca fiducia nell’esercito, e in chiunque voglia metterci i piedi in testa.
Però, in fondo, questo nostro fregarcene è comodo a tutti. Noi ci facciamo i fatti nostri e non diamo nessun fastidio. Non è la nostra città, quella. Che se la sbrighino loro.
Eppure quei ragazzi, nel fine settimana, camminano tra noi, nelle nostre strade, nella nostra nebbia. Per quanto il mantello li possa nascondere al prossimo, si vede bene che sono ragazzi. Che meriterebbero una giovinezza migliore.
Ma noi abbiamo sempre troppe cose da fare: li guardiamo passare, abbozziamo un sorriso e tiriamo per la nostra strada.
Che cambiare il mondo non tocca a noi.
Ma a chi tocca, allora?
Comments (2)

Permalink
Il bello era sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. "Ho imparato", diceva, "a non mettermi ne' tumulti: ho imparato a non predicare in piazza..."

Il Sabato seguente
A questo punto è passata ormai una settimana, e qualcuno magari è curioso di sapere come va in città con una sede di Forza Nuova aperta. Ci sono varie novità, ma purtroppo non ho sottomano tutte le fonti.
Per esempio: pare che Forza Nuova sia già stata sfrattata. Ma per ora è solo una voce che gira. Invece è sicuro che gli esercenti della zona stiano raccogliendo firme per mandarla via. E così, dove non è riuscita la Costituzione, potrebbero farcela i negozianti del Centro. Il Consiglio comunale ha votato un'unanime risoluzione di condanna: solo i consiglieri di AN hanno lasciato l'aula. A questo punto mi sento di fare una profezia: tra due anni i soliti personaggi faranno un nuovo comunicato stampa in cui avvertiranno dell'imminente apertura di una sede di Forza Nuova a Modena.

(Io, comunque, ho la sensazione che se davvero i Marziani atterrassero in via Gallucci con un disco volante, affittassero regolarmente una sede, e dichiarassero di voler stabilire rapporti pacifici con l’umanità, probabilmente finirebbero anche loro per scatenare una veemente raccolta di firme da parte dei commercianti del Centro Storico).

Dal canto loro, i forzanuovisti fanno il possibile per rendersi simpatici agli indigeni, distribuendo un volantino in cui promettono di trattare bene il quartiere e difenderne l’identità nazionale. Promettono anche (ho sentito dire) di allontanare "personaggi socialmente indesiderabili" tra cui pare ci siano “comunisti” e i “no global”.

E qui bisogna aprire una parentesi su cosa significa, a Modena, essere “no global”.
In voi forse la parola evoca immagini di tute bianche insanguinate, scudi in plexiglas, vetrine infrante, spalline in gommapiuma. Beh, da noi le cose sono un po’ diverse.
A Modena una volta ho sentito una ragazza dire (seriamente): “No, io preferisco andare al Forum Sociale di Bologna, quello di Modena non mi va, tanto i sacramenti li ho già presi tutti”.
“Come hai detto, scusa?”
“Li ho presi tutti: Battesimo, Comunione, Cresima… per ora sono a posto”.
“Vuoi dire che per te il Modena Social Forum è la continuazione dell’oratorio?”
“Ma insomma, sì”.

Non bisogna dedurne che siano tutti chierichetti, i noglobal modenesi (e sabato s’è visto), ma l’idea che un tabaccaio del centro possa sentirsi minacciato da un noglobal e difeso da un forzanuovista è qualcosa che sfida ogni senso della realtà e del ridicolo.

Pare anche che la polizia stia “visionando i filmati prima di far partire le denuncie”. Così leggevo sul giornale lunedì. Strano, pensavo, io telecamere proprio non ne ho viste. Mah, le avranno nascoste, quelle volpi (ne sanno sempre una più del diavolo).
Stasera mi telefona Cragno, “O, sei a casa? C’ho qui una perla, sapessi”.
“Sentiamo”.
“Sai che io c’ho un mio amico che ha un balcone su largo Garibaldi, no?”
“No”.
“Beh, lui ha girato tutto! La scena che tu insulti il poliziotto…”
“Non l’ho insultato”.
“E poi quando io vado a fotografarli e tu mi stai dietro e la polizia ci carica…”
“Non ci ha caricato”.
“Insomma, si vede tutto!”
“Bello”.
“No, il bello deve ancora venire”.
“Ah sì?”
“Sì, perché la Digos è arrivata in casa del mio amico con una foto ingrandita dove c’è lui sul balcone con la telecamera in mano, e gli hanno detto: vogliamo la videocassetta”.
“Ma lui gli avrà detto che l’aveva cancellata, no?”
“No, sai in quei momenti…”
“Gliel’hanno sequestrata?”
“No, figurati”.
“Ah, meno male”.
“Gliel’hanno chiesta in prestito”.
“Ma lui non gliel’ha data”.
“Eh no”.
“Ah, bene”.
“Gli ha dato solo una copia, l’originale se l’è tenuto”.
“Stai scherzando”.
“No no. Dai, vengo lì e te la mostro. È troppo forte! La tua faccia si vede benissimo!”

La mia faccia si vede fin troppo bene. Vado in giro per la piazza rannicchiato in un cappotto nero (mi stavo prendendo un raffreddore, ma questo nel video non si vede) a fomentar disordini. A parte me, la giacca arancione di ragno, e qualche testa rasata, non si vede nient’altro. Troppo forte.

Una cosa che forse non si è ancora capita, è che sabato in Piazza Torre eravamo pochini. Molti non sono venuti. Altri sono arrivati, hanno visto chi c’era e sono venuti via. Altri hanno mandato giusto il portabandiera. E forse è giusto così, perché Forza Nuova è un fatto grave, ma non basta a unirci un mattino, se per trecentosessanta giorni all’anno siamo divisi su tutto. Il Centro di Permanenza Temporanea, gli acquedotti in vendita, la Coop Estense che assume interinali il giorno dello sciopero dei dipendenti: tutte queste cose non sono meno gravi di Forza Nuova, e le viviamo tutti i giorni.

Infine, segnalo che l’antifascismo, a Modena, si sveglia sempre più presto: sabato il corteo della Sinistra Giovanile partirà alle 8:30. Ci sarà anche il Sindaco, pare. Io probabilmente arriverò più tardi. E alle dieci e mezza – se sono ancora a piede libero – andrò a stampare le pagelle. A (spero) presto.
Comments

Permalink
Fascisti su Modena
(rosso Comune bolscevico e traditor)

Forza Nuova, ah, sì, la vecchia merda… (Mio papà)

Parlando di Forza Nuova, un aspetto che tende a essere sottovalutato è quanto scassino i coglioni.
Voi magari credete che uno, avendo la fortuna di non lavorare al sabato mattina, si diverta, ad andare ai presìdi antifascisti. Beh, sì, ogni tanto ci si diverte. Però alla lunga stanca. E ci sarebbero tante altre cose da fare. La spesa (magari equo-solidale). Leggersi quel libro sul WTO. Un po’ di rassegna stampa sul Forum Sociale Mondiale. Il mondo è così vasto, e la settimana è così breve…
E invece no. E invece tocca venire all’ennesimo presidio antifascista. Tutto perché qualcuno – non so se il gerarchetto locale o uno dei pezzi grossi – ha deciso che una volta l’anno i camerati devono fare la comparsata a Modena.
Già, perché c’è del metodo, in questo scassamento. Non so se c’entri qualche leggenda celtica o la fase lunare, fatto sta che da tre anni in qua, a intervalli regolari, Forza Nuova si materializza a Modena, in tutto il suo splendore (in verità non si vede niente, perché è tutto coperto dagli scudi della Celere).

Due anni ci fu il grande annuncio: “apriamo una sede a Modena”. Nientemeno. A quel tempo (2 aprile) scrissi una cosa un po’ stronza, che confermo parola per parola: in quanto inquilino del Centro Storico non capisco come si possa dare a Roberto Fiore il permesso di girare in gippone dove neanch’io posso parcheggiare. La Costituzione sancisce la libertà di manifestare, non di andare in giro in gippone (scortato dalla polizia) in un Centro chiuso al traffico. Se vuole aprire una sede di Forza Nuova a Modena, può benissimo farlo a piedi, come tutti i poveri attivisti di questo mondo. Ha paura? Provi a fare dei respiri forti, magari dopo un po’ gli passa.

L’anno scorso la fecero più sporca: spacciandosi per un’associazione ambientalista noleggiarono Piazza Torre. un paio di sabati. Vennero da tutt’Italia, a farsi due foto davanti al memoriale dei partigiani: grandi pacche sulle spalle, un’“Eja Eja Alalà” davanti ai cittadini in shopping, e poi via di corsa al treno, hai visto mai che passasse qualche antifascista per caso.

Ma quest’anno le cose sembrano mature per il grande passo. La miracolosa apparizione è stata anticipata da alcuni segni premonitori, come gli sfregi sui monumenti della Resistenza (già ripuliti, però che palle): e il primo febbraio Forza Nuova ha annunciato che aprirà una sede a Modena! Nientemeno!
“Un’altra? E quella di due anni fa?”
Mah, quella fu richiusa immediatamente, non si sa bene perché. Forse il quartiere Pomposa non era proprio l’ideale, con tutti quei cinesi e quei turchi che non amano essere disturbati… Rua Pioppa è più confortevole, a portata di pub, questo incentiverà le adesioni…
Ma se si trovano male anche lì (il centro è pieno di malintenzionati), dove andranno? Non so. Magari in questura hanno un sottoscala libero. A chiedere gentilmente, chissà.
Il bello è che nessuno li ha mai minacciati (che si sappia), però loro sono fatti così. Chi ha avuto la fortuna di vederli (attraverso i plexiglas degli scudi della polizia) garantisce che sono proprio grandi e grossi, e tanti, oh, tantissimi.
Ma non si può dire che cerchino lo scontro, questo no. Loro colpiscono e fuggono. No, per la verità non colpiscono nemmeno. Hanno perfezionato la Guerra Lampo: loro fuggono e basta. Coperti dalla polizia.

E uno che lavora tutta la settimana deve anche puntar la sveglia e prendere il freddo per stanare ‘sti pagliacci. Col rischio di prenderle (dalla polizia). Mi capite quando dico che, oltre a essere un pericolo per la civile convivenza, Forza Nuova è soprattutto un grandissimo scassamento di coglioni?

Forse tra un po’ anche loro si faranno furbi, come gli americani: costruiranno un modellino del Centro Storico, con la Ghirlandina in scala, e ai giornali manderanno i fotomontaggi. Ma nel frattempo non ci resta che aderire al presidio antifascista, sabato primo febbraio 2003 in Piazza Torre alle ore dieci (del mattino). Ci saranno i partigiani dell'Alpi, dell'Anpi, della Fiap e dell'Anppia, il Forum Sociale di Modena, gli anarchici e tanti altri. Ci sarà anche Attac Modena, e, se l’ironia ha ancora permesso di soggiorno, cercheremo di intonare Fascisti su Marte. Vi ha fatto ridere, il fascista su Marte? Provate a pensare un fascista a Modena.

Cosa c'è dietro Forza Nuova?
Comments (2)

Permalink
La strategia del pomodoro (2) (Continua da ieri).

Riassunto della puntata precedente: per una serie di complicate circostanze il nostro eroe si è ritrovato in giacca e cravatta a una manifestazione di facinorosi, davanti a un insolito dispiego di Forze dell'Ordine, con un vistoso secchio di conserva di pomodoro in mano. Riuscirà anche stavolta a cavarsela senza macchiarsi la fedina di pomodoro, o di ridicolo?

In cima al corteo i percussionisti sono già partiti – facendosi strada tra due ali di agenti in giacca blu. Hanno il manganello e il basco. È difficile spiegarlo, ma quelli col basco mi fanno più paura. Col casco almeno non puoi guardarli negli occhi.
Io ho una giacca verde, una camicia bianca e una cravatta rossa – un pugno nell'occhio, una bandiera – e un secchio di conserva di pomodoro in mano. Mi vien voglia di fischiettare, già che ci sono. Perché mi caccio sempre in queste stronzate?
Dietro di me c'è Defarge con grembiule e spazzettone, e l'abituale espressione estatica.
"Bella manifestazione, eh?"
"Eh, sì".
Io ho già in mente i titoli della gazzetta del giorno dopo con le nostre foto segnaletiche in prima pagina: Noglobal assaltano le banche in Centro. Vedo già la conferenza stampa, con il questore che mostra a tutti lo spazzettone. No, stavolta mamma e papà non saranno per niente contenti. E… oh, cielo, i ragazzi!

"Ahem… ragazzi, il prof non c'è oggi e… neanche domani".
"Wow! Ma perché, signor Preside?"
"Beh, vandalismo e resistenza a pubblico ufficiale, dovrebbe cavarsela in sei mesi… nel frattempo vi ho trovato un altro supplente".
NUOVO SUPPLENTE: "Salve ragazzi, ora studieremo un grande statista del secolo scorso: Benito Mussolini".
"Ma l'altro prof ci aveva detto che era anzi un malvagio tiranno".
"L'altro prof non conta. L'altro prof si è fatto beccare in una manifestazione con il pomodoro in mano. Date retta a me. Vi parlerò dell'Agro Pontino…"

Sarebbe anche un bel corteo. I ragazzi del teatro dell'oppresso bloccano il traffico vestiti da militari israeliani, sono di un realismo straniante. È scesa gente fin da Bologna, compreso Cesare, una signore di settant'anni che in Palestina mi spiegava come dispormi davanti a un carrarmato (che la polizia sia venuta per lui?)
"Vedi Defarge? Questo signore è una Tuta Bianca".
Lui scuote la testa. "Le tute bianche non ci sono più, abbiamo smesso di indossarle a Genova. Sapevamo che le avevano anche in questura e che se le sarebbero messe per combinare qualche casino, allora all'ultimo momento siamo usciti senza".
"Li avete lasciati in braghe di tela".
"Allora si sono vestiti di nero".
Ci sono i palestinesi davanti, che gridano "Sasso qui / Sasso là / Sasso per la libertà".
"Sesso qui, sesso là, sesso per la…"
"Dai, è una cosa seria".

E poi c'è tutta questa polizia, che non finisce mai (scompare solo nel momento in cui il corteo passa di fianco al banchetto dei giovani di Alleanza Nazionale). Si sente nell'aria un odore di pizza? È il pomodoro che mi scotta nelle mani.
Quando arriviamo finalmente davanti alla prima Banca Armata, il Credito Italiano, il corteo si ferma e ci lascia passare.
Finiamo nell'occhio del ciclone, tra palestinesi e polizia. Io addocchio un tombino – perfetto, butto qui davanti, così non do noia a nessuno. Ma i miei cari compagni mi spostano proprio davanti alla banca, in bell'evidenza, col mio secchio in mano.
Sto per tirarlo, quando vedo il capo della digos correre verso di me con un'espressione allarmata. Mi fermo.
"Non sulla banca, eh? Per terra!"
Ma perbacco. Siamo nati per intenderci, la digos e me. Gli assicuro che non ne cadrà una sola goccia sull'edificio. Ed è così. La parabola del pomodoro si conclude sul porfido della via Emilia, rapidi Enrico e Defarge accorrono a spazzar via tutto quanto.
Dopotutto io sono un maestro nell'arte di rovesciare le cose. Davanti al Banco Commerciale mando solo qualche goccia su una BMW in flagrante divieto di sosta. Uno spricco di pomodoro riesce invece a oltrepassare il cancello blindato della BNL, ci dovranno pensare gli inservienti al lunedì mattina. Nel frattempo abbiamo tempo per fare amicizia con l'uomo della digos, che ci ha preso in simpatia. Dev'essere Defarge, con la sua aria da cucciolotto. È impossibile non prenderlo in simpatia.
"Mi raccomando, i cartelloni dopo dovete staccarli".
"Sissì, appena finita la manifestazione ci andiamo".
"Voi, dopo tutto, siete dei bravi ragazzi. Ma sono quelli che vengono da fuori, sono loro che fanno i casini, e poi a noi ci toccano i guai".
"Beh, ma qui…"
"Come noi, del resto. Tutti questi ragazzi che mi hanno mandato, loro non sanno niente, vengono, menano, e poi ci lasciano in mezzo noi. Vi par giusto?"
"Beh, sa..."
"Comunque voi siete dei bravi ragazzi, ci si può ragionare. Se ci foste stati voi, anche a Genova, sarebbe stato diverso".
"Eh, già..."

In definitiva, la strategia del pomodoro sembra esser piaciuta a tutti, per cui non posso escludere che la ripeteremo. Nel caso, vi manderò una mail, raccomandando secchi e spazzettone e soprattutto la giacca e la cravatta. La mia? No, la mia è in lavanderia. Sarà pronta tra qualche mese, sì… forse l'anno prossimo. Il sangue, sapete, è una brutta bestia da tirar via. Anche quando è pomodoro.
Comments

Permalink
La strategia del pomodoro (1)

Il movimento come sta? Il movimento è un po' in affanno. Mesi di marce, presìdi, banchetti di raccolta, cominciano a farsi sentire. Tenete anche conto che il Movimento non fa mica il movimento di mestiere, al massimo è un part-time, ma più spesso tempo libero. Cosicché, per fare un esempio, se Berlusconi ci fotte in orario di lavoro, al Movimento tocca di rispondere in serata o al massimo nei week-end. È chiaro che sulla distanza Berlusconi accumuli un distacco (per di più è noto che il Presidente si porta il lavoro a casa nel fine settimana).

E poi si annoia un po', il Movimento. (I francesi dicono "s'immerda"). Sì, d'accordo, la lotta al razzismo, la Palestina, la globalizzazzione dei mercati, però i soliti banchetti, i soliti striscioni, le solite marce… prima di condannare questo atteggiamento blasé tenete conto del fatto che il Movimento è pur sempre un investimento di tempo libero, e come tale viene vissuto da tante persone, alle quali è stato inculcato sin dalla più tenera età il Diritto Fondamentale dell'Uomo: divertirsi un po', almeno il week end.

A Modena la parabola è più corta che altrove, come del resto tutto, qui (torre ghirlandina a parte) è più corto che altrove. Alle manifestazioni vedi sempre le solite facce, e siccome sono modenesi, non è neanche detto che ti stiano simpatiche. Si fa la marcia, si arriva in piazza, si legge qualcosa al microfono. A quel punto persino i comunisti insurrezionalisti tagliano la corda e vanno a prendersi un gelato (li ho visti io), che tanto più o meno le cose girano già su internet. Insomma, si sente la mancanza di un po' di creatività. (A parte il Teatro dell'Oppresso, che sta facendo un bellissimo lavoro).

Tutto questo emergeva dieci giorni fa, a una riunione anche più grigia del solito, in cui la maggior parte dei nostri compagni brillava per l'assenza. Sì, bisognerebbe rompere un po' la monotonia, fare qualcosa di diverso. Per esempio, Enrico aveva proposto quell'iniziativa sulle banche armate…
"E cioè?"
"Durante la manifestazione passiamo davanti a tre banche che fanno affari con il traffico di armi. Noi ci fermiamo lì, distribuiamo i volantini coi dati del Ministero, attacchiamo dei cartelloni…"
"Ma ci vogliono le autorizzazioni…"
"Ce ne freghiamo. E poi rovesciamo del sangue sulle banche".
"Eh?"
"Sì, del sangue finto, naturalmente, del pomodoro".
"Ma è roba da mangiare. Io non butto via la roba da mangiare".
"Costa meno della tempera. E poi due persone vestite da netturbini lavano via, così evitiamo accuse di vandalismo".
"Non so… mi sembra una cosa un po'… estremista. Da noglobbal, ecco".
"Infatti"
"Ah, già. Beh, voi che ne pensate?"
Sono tutti d'accordo. Si decide che il rovesciatore di pomodoro vesta una giacca e una cravatta, per attirare l'attenzione.
"Va bene, allora stasera mando una mail a tutti gli assenti".
"Attento a non entrare nei dettagli".
"In che senso?"
"Ma sai, l'e-mail, chissà a chi arrivano, chi le controlla…"
"Ma dai, per favore".

Da: Leonardo
Oggetto: IMPORTANTE

Ciao a tutti,
vi informo che sabato pomeriggio saremo presenti (oltre al consueto banchetto) alla manifestazione pro Palestina del Forum.
Durante la manifestazione, faremo un'azione di protesta davanti a 3 sedi di "banche armate" nel Centro. Per questa azione (non entro nei dettagli qui) servono:
4-5 inservienti con spazzettoni (i grembiuli li abbiamo: spazzettoni e secchi meglio portarli)
1-2 persone in giacca, cravatta e guanti di gomma
conserva di pomodoro (la porta Emilio)


Il pomeriggio di sabato i manifestanti arrivano alla spicciolata: solo da mezz'ora il temporale ha lasciato il posto al sole. In Piazza Grande, oltre ai pensionati soliti e agli sposi novelli che scendono le scalinate del comune, c'è uno spettacolo insolito: nove camionette della polizia.
"Cos'è? Una visita del Papa?"
"No, temo che siamo noi".
"Noi? Ma sei matto. Sono più loro di noi. No, sarà la scorta di Giovanardi che sta bevendo un drink al Caffèconcerto".
"Cos'hai scritto nella mail?"
"Eh?"
"La mail che hai mandato a tutti. Hai parlato di pomodoro, per caso?"
"Non penserai mica che…"

Io sono già scazzato per un paio di motivi: ho appena rotto il cellulare e ho la seconda ruota a terra in due giorni. Arrivo in ritardo, come tutti, e mi rendo conto che sono l'unico in giacca e cravatta. Goretta ha portato dei grembiuli da infermiera (niente a che vedere coi netturbini, ma pazienza). Gli spazzettoni ci sono. Il secchio c'è. Il pomodoro? Eccolo. Giorgia ha fatto i cartelloni. C'è tutto.
"Allora, gli spazzettoni li tenete voi, le ragazze danno i volantini, i cartelloni… i cartelloni… dobbiamo proprio attaccarli?"
"Sì".
"Va bene. Il pomodoro… ehi, chi mi dà una mano col pomodoro?"
Silenzio.
Oh, beh.
(Continua domani)
Comments

Permalink
Sì, credo di essere l’ultimo a parlare della manifestazione di Roma, e di non avere veramente niente di originale da aggiungere. Del resto sono arrivato a cose fatte, quando in stazione Termini tutti ripiegavano già gli striscioni. Tutto dev’esser stato molto bello, rapido e indolore.

Ne ho approfittato per vedere un po’ di romani, la Pizia ovviamente, Ludik, che tutto il tempo mi ha guardato strano, hai presente quell’aria da “su internet sembrava più alto”. E poi la Jena, e Wile, che ahimè, è un ragazzo simpatico. Proprio quello che ho sempre temuto. Ora che l’ho visto negli occhi, il mio target del ceto medio brontolone, non potrò più insultarlo tutto tempo, certi post insolenti scritti giusto per vedere come reagiva non mi usciranno più, mi dispiace.

Ho visto anche un po’ di Roma che, come tutte le capitali, mi è sembrata piccola.
MONTECITORIO
“Ehi, a Modena abbiamo un palazzo uguale, solo un po’ più grande”.
SAN PIETRO
“Ci si arriva in macchina? Sul serio? La domenica pomeriggio?”
“Ma il baldacchino di Bernini è sempre quello? L’ultima volta era più alto!”.(L’ultima volta è stata nel 1983).
“Certo che a misure di sicurezza stiamo indietro, il Muro del Pianto è tutt’un’altra cosa”.

Difficile trovare giornali (decenti).
“La Repubblica c’è?”
“Tutto finito. La repubblica, il manifesto, l’unità. Son tutti comunisti stamattina”.

Sulla repubblica, il manifesto, l’unità, si parlerà della “più grande manifestazione italiana del dopoguerra”. Ora, io è da una settimana che mi chiedo: ma prima della guerra c’erano manifestazioni più grandi? Onestamente non lo so, ma dubito. Le adunate in Piazza Venezia? Mah, ci sono stato in piazza Venezia, niente di che (a Modena sicuramente c’è uno spiazzo più grande). Perciò penso che si potrebbe concludere che è stata la manifestazione più grande della storia d’Italia – ma siccome in Italia si manifesta notoriamente più che in ogni altro Paese d’Europa, potremmo concludere senza troppo esagerare che è stata la più grande manifestazione europea della Storia. E l’ha fatta la CGIL: beh, complimenti. Per l’articolo 18? Sicuri?

Sulla repubblica (che mi poi mi presterà Ludik) Scalfari scrive di un’“immensa forza tranquilla”. È una definizione che mi piace molto, mi piace l’idea di essere anch’io nel mio piccolo immenso, forte e (soprattutto) tranquillo. Quella tranquillità che manca ai vari leader della sinistra istituzionale, che da anni giocano di rimessa e replicano istericamente a qualsiasi cazzata venga in mente di dichiarare a Berlusconi. Quelli che magari in buona fede hanno accettato che bruno vespa diventasse il maestro di cerimonia della politica italiana. La stessa tranquillità che manca anche ai presunti rappresentanti del presunto Movimento dei movimenti, magari per una questione caratteriale, magari perché dopo tutti questi mesi di Movimento gli servirebbe una buona dormita. Ma com’è possibile essere tranquilli in un movimento che vive di emergenze?

Cofferati ha uno stile diverso, e si sente, e si è sempre sentito. Forse è vero che ormai fa politica, ma almeno la sa fare. Sa aspettare (e dio sa quanto l’hanno tirata in lungo, governo e sindacato, questa storia dell’articolo 18). Sa ancora pesare una dichiarazione, sa mantenere la calma, sa che non ci si può indignare ogni cinque minuti, sa quando e come dire basta, e sa rischiare – un’arte, quest’ultima che si era persa. Cofferati ha fatto perdere la calma a Berlusconi. Cofferati, a dire il vero, e altri due, tre milioni di persone. Più io, che, ci tengo a dirlo, Presidente, ho prenotato due pendolini coi soldi miei. E non sono colluso con nessuno, un po’ estremista magari, ma tranquillo. Ogni tanto fa bene una bella gita, vedere amici diversi, farsi una buona dormita. La tranquillità, sapete, può essere un'arma. Probabilmente è l’unica che abbiamo.
Comments

Permalink
Gli estremisti in gita

Stasera ho messo da parte un po' di tempo e sono andato a vedere le corriere partire, in Cittadella. Da qui dieci anni fa partivo per le gite scolastiche… direi che per ora il clima è quello.

C'è un bel vento, che a Modena è raro, porta i germogli dei ciliegi e spazza via i cattivi pensieri e i blocchi del traffico nel week end. Pensionati non ne vedo, l'orario è proibitivo. Lavoratori e studenti. C'è un solo ragazzo coi rasta ed è il primo a essere intervistato.
Li spio dai finestrini. Prima o poi il capocorriera tirerà fuori un modulo per la raccolta delle firme, darà un'occhiata distratta al foglio che spiega che i dati vanno scritti in stampatello e che valgono solo le firme dei residenti… e per quanto distratto capirà, perché l'ho scritto io, e io so essere chiaro e cortese quando voglio.
Madame, che è la referente Attac, ha visto bene di lasciare a casa il cellulare, così non c'è proprio dubbio che riusciremo a beccarci. "Dai", mi fa, "i posti ci sono, vieni stasera, domani fai filotto".
"Non posso". Devo consegnare i compiti di geografia. Anzi, stanotte devo valutare quello di Nizzoli che ha scritto che…

…IN CINA C'È UN GRANDE SVILUPPO DEMOGRAFICO, CHE PERÒ NON SI SVILUPPA EQUAMENTE, OVVERO: IN ALCUNE CITTÀ C'È PIÙ GENTE, MENTRE IN ALTRE MENO. (Questo, ho scritto io, in rosso, perfido, succede ovunque…) IN QUESTO PAESE SECONDO ME VIENE USATO UN BUON METODO, E CONSISTE NEL NON POSSEDERE PIÙ DI UNA MACCHINA. QUESTA REGOLA DOVREBBE ESSERE PRESA COME ESEMPIO ANCHE DA GRANDI POTENZE COME GLI STATI UNITI, I QUALI ANNO (la acca, Nizzoli!) DUE, TRE O A VOLTE QUATTRO MACCHINE PER FAMIGLIA.

Sì, Buono Più, direi -– anche se dovrò spiegargli che i cinesi non hanno una macchina per famiglia, e soprattutto che i carpigiani possiedono in media più macchine degli americani.
Saluto i miei compagni, che hanno la bandiera più bella e più pesante. Fate i bravi e state lontano dagli estremisti, a'm'arcmand.
"Gli estremisti siamo noi".

Ah già, è vero. È successo anche a me di dirlo a un signore, un diessino che era venuto a una riunione una sera, quando già stavamo sbaraccando. Il mio numero, mi spiegò, gliel'aveva dato la Referente Diesse per l'Area No Global. Le ginocchia mi cedevano un po', ma mi misi ugualmente a spiegare quand'era nata l'associazione, prima in Francia, poi altrove, poi in Italia, i giorni di Genova, la campagna di raccolta firme, ecc.

"Va bene", disse lui, "ma le frange estremiste?"
Mi sono guardato intorno. Seduto davanti al PC Defarge controllava febbrile il suo sito. In un angolo Ramon parlava di organizzare una serata danzante al Florida per discutere del caso Argentina. Le ragazze raccoglievano i vuoti (il nostro comitato è il maggior consumatore di birre della Casa della Pace). Fuori probabilmente qualcuno parlava di territori occupati, dell'ultima sbornia di Agnoletto o di quella volta che Ignazio Silone, al Comintern…
"Siamo noi, le frange estremiste", gli ho detto.
Ma sì, siamo noi, non cercate altrove. Siamo noi i criminali che Maroni non vorrebbe vedere al corteo di domani, quelli che generano il noto Clima di Odio. Ci troviamo tutti i giovedì sera in via Ganaceto 45, l'ho detto anche al tipo di Forza Nuova, non ho difficoltà a ripeterlo qui. Domani se mostreranno il corteo e diranno "un mezzo milione", cercate una bandiera rossa con una percentuale bianca: lì sotto (molto sotto) c'è Defarge.

Anche Nizzoli, così giovane, è già un estremista. Non ha ancora imparato a mettere l'acca nel verbo avere e già vuole dar lezioni agli americani. Bisognerebbe dargli una lezione. Domani vado e gliela do. Magari gli do anche un Distinto. Sì, è ingiusto -- la vita è ingiusta. Poi prendo il treno, perché non ne posso più di questo Clima di Odio, ho bisogno anch'io di un po' di respiro, una bella gita. A Roma, magari.
Comments

Permalink
Freude schöner Gotterfunken, Tochter als Elysium
Wir betreten feuertrunken


Licenza sperimentale
Un saluto alla Pizia e ai suoi convitati: mi sarebbe veramente piaciuto esserci, ma non sto ancora molto bene. Mi è dispiaciuto molto. Anche perché è tempo di sfatare alcune storie sul fatto che non esisto, che sono un'intelligenza artificiale, ecc.… Non solo esisto, ma sono anche uno sfigato qualunque, tranquillizzatevi. Nei primi tempi avevo anche una foto: l'ho tolta quando le cose sono iniziate a farsi un po' più serie (ma soprattutto perché ero stanco di ricevere mail da lettrici assatanate).

Ora, proprio quando ormai avevo rinunciato a mettere i fatti miei su questo sito, un pezzo di Madame Defarge mi costringe a tornare sull'argomento, per precisare un paio di cose. Madame è sempre molto cara, sed magis amica est veritas. E quindi: non è vero che io sono uscito con 60/60 alla maturità. Il voto esatto non me lo ricordo, ricordo che cinque miei compagni lo presero, ma io no, e che me ne sarebbe anche interessato poco, se non che in un'altra classe lo prese anche la mia ragazza di quel tempo, maledetta secchiona.
Ma la cosa veramente importante, l'unica che tengo a sottolineare, è che quella scuola non è, non fu mai un liceo classico. Noi, quei fighetti dei liceali classici, ce li mangiavamo nell'intervallo tra la terza e la quarta ora. E per vari motivi, tutti buoni:

I liceali classici (quegli sfaticati), fanno 25-28 ore alla settimana: noi ne facevamo dieci di più.

I liceali classici (quegli ignoranti), dopo aver inutilmente cercato di imparare un po' di lingua straniera nel biennio, rinunciano, e si rassegnano a diventare quella classe dirigente cialtrona e incapace di comunicare con le altre classi dirigenti che conosciamo bene. Noi abbiamo studiato, per tre anni, tre lingue straniere, per quindici ore alla settimana. Tanto che, se non avessi avuto i miei cali di pressione tra la quinta e la sesta ora, io a quest'ora potrei anche leggere Goethe in lingua originale, alcuni miei compagni lo fanno. Io mi limito a canticchiare l'Inno alla Gioia in lingua originale, in certe occasioni. È il mio inno. Sarà l'inno dei vostri figli. Voialtri arrangiatevi con Mameli.

I liceali classici (quegli idioti) sono fortunati se quando escono dal loro liceo idiota sanno contare fino a cento, senza servirsi delle dita delle mani e dei piedi. Noi (complice anche un prof convinto di trovarsi in uno scientifico) uscimmo con nozioni ben assestate di calcolo integrale. E io so di aver sostenuto un'interrogazione alla lavagna sulla teoria della relatività. Non mi ricordo più nulla, ma so che per un momento della mia vita (lo stesso momento in cui studiavo Schiller a memoria, scrivevo tesine su Gozzano e recitavo Beckett) ho svolto un'equazione alla lavagna fino ad arrivare alla formula E=(mc)2, e ne sarò fiero fin che campo. Il nostro prof invece no, ce l'aveva con noi perché eravamo testoni e non aveva fatto in tempo a spiegarci i quanti.

Del resto la mia (notevole) cultura si definisce così: la differenza tra quello che ho imparato lì e quello che ho disimparato successivamente all'università.
Se mai posso perciò fregiarmi di qualcosa nella vita, insomma, e di avere studiato al L. A. Muratori sperimentale di Modena a cavallo tra Ottanta e i Novanta, in una classe di ignorantoni provinciali che al momento buono stracciò tutti i record e portò a casa cinque sessanta – tra i quali io non c'ero. Del resto tra quelli che portarono a casa il voto più basso ce n'è uno che adesso lavora per Rai3. Ha anche intervistato Borrelli, una sera. Un altro è stato per un po' al marketing della nota ditta di scarpe globalizzate. Poi chi altro c'è… una promessa della lusofonia… e tanta altra gente che al momento buono spunterà.
Sì, sono orgoglioso della mia Licenza Sperimentale – che è anche una licenza di guardare le vostre maturità classiche dall'alto in basso, stupidi ignoranti polli di batteria che non siete altro. Avete incontrato molti latini nella vostra vita adulta? Li avete intrattenuti con qualche sapido epigramma in esametri? Bravi. Ora scusate, vado a guardarmi un po' di tv francese, perché l'italiana non la reggo.

Ma se insisto sul LAM sperimentale non è per nostalgia, è per un motivo più serio. Quella scuola, decisamente sopra gli standard era ed è pubblica. Non era il solito parcheggio per figli di avvocati a base di Cesare e Cicerone. Non era un votificio. Era la scuola migliore di Modena e potevano andarci tutti (il problema magari era restarci). Mi sono sempre chiesto se Letizia Moratti, la piccola giovane broker, sarebbe sopravvissuta a un'interrogazione sul calcolo integrale. O su Schiller. Non lo sapremo mai. Di sicuro nella nostra classe se non si lasciava fotocopiare le versioni di latino non se la sarebbe filata nessuno. Avrebbe imparato a calare un po' le arie, la Letizia. E sarebbe stata magari una Ministra migliore.
Ma è troppo tardi. Dopo una certa età le cellule del cervello non si rinnovano più. (le cellule dei cervelli, intendo, che hanno subito 5 anni di Classico…)
Comments

Permalink
ancora dieci minuti e poi passiamo al punto successivoTutti i poteri all’ordine del giorno...
Lettera aperta al Forum Sociale di Modena

Premessa: io non ce l’ho con nessuno. In particolare non ce l’ho con nessuno del Forum di Modena. Credo anzi nella buona fede di tutti quelli che finora si sono impegnati per la riuscita delle iniziative e delle riunioni del Forum. Invece non credo (per motivi di età) alla buona fede di qualsiasi persona in qualsiasi momento. Questa tendenza a credere che tutti siano buoni, intelligenti e ben disposti nei nostri confronti ha un nome: si chiama "dabbenaggine". Noi gente dabbene che ci siamo messi in testa di costruire il Forum ci siamo anche assunti una certa responsabilità: tra qualche tempo magari ci stancheremo di venire al Forum, ma il Forum continuerà a esistere, con le regole, scritte o meno, che noi gli avremo dato. Chi verrà nel Forum dopo di noi avrà la nostra stessa buona fede? Non lo sappiamo. Possiamo lasciare che siano la buona fede e il buon senso le uniche regole (non scritte) del Forum? Secondo me no.

È da un po’ che volevo chiedere scusa a quel Gruppo Organizzazione che, dopo essersi trovato per un mese per studiare il problema della struttura del Forum, non ha avuto neanche la soddisfazione di poterne parlare all’ultima assemblea. Il Guardiano delle Chiavi non gli ha dato la parola.
Il Guardiano delle chiavi è, a tutt'oggi, l’unica figura istituzionale del Forum: non rappresenta nessuno, si nomina da solo, tiene le chiavi, distribuisce il microfono, regola il volume e il tempo degli interventi. All’ultima assemblea il Guardiano delle Chiavi ero io. L’Ordine del Giorno era nelle mie mani. Volendo, avrei potuto far parlare soltanto il Gruppo Organizzazione. Volendo, avrei potuto far proiettare diapositive di Porto Alegre per tre ore. Magari qualcuno avrebbe protestato, ma a che titolo? Chi avrebbe osato mettere in dubbio la mia buona fede?

Io ci ho anche provato, a dare al gruppo organizzazione lo spazio che meritava, ma mi è andata male. Mi sono preso anche delle brutte parole, tipo “verticista” (a titolo personale, naturalmente). Mi è stato rimproverato di voler imporre una mia linea. Più volte ho avuto la tentazione di ribattere che, essendo il Guardiano delle Chiavi, io non ero verticista, ma il Vertice, e allo stesso tempo ero anche la Linea: ero tutto, non rappresentavo nulla, non avevo doveri verso nessuno, ero l’Ordine del Giorno fatto carne e sangue, il Forum ero io, per cui se mai era il caso di ringraziarmi se mi abbassavo a passare il microfono a qualcun altro.

Ma siccome sono un bravo ragazzo (come tutti al Forum) con poca voglia di litigare, ho ceduto volentieri il microfono a tutti quelli che lo chiedevano, e che non perdevano l’occasione per ricordare che l’organizzazione è un’inezia, una “sciocchezza”, che sarebbe quindi da sciocchi parlarne, con tutte le emergenze che ci sono: i Centri di Permanenza Temporanea, la Palestina, ecc.. Così abbiamo parlato dei CPT. Verso la fine eravamo un po’ in affanno, perché non sapevamo come prendere una decisione. Questa non deve sorprendere: non potevamo votare né per alzata di mano né (dio ci scampi) per delega, non potevamo nominare nessuna commissione che si occupasse del problema perché sarebbe verticismo; non potevamo nemmeno trovarci la settimana successiva, perché tutto sommato i CPT non sono un’emergenza tanto grave; insomma, non sapevamo come organizzarci.

Alla fine qualcuno si è ricordato che sabato 23 era stata indetta una mobilitazione in tutta Italia, e che quindi ci saremmo mobilitati anche noi. Così è stato, e tutto sommato è andata bene. Faccio però notare la singolarità di questo movimento “nato dal basso”, che se alla fine riesce a prendere delle decisioni è solo per adeguarsi alle scadenze imposte a livello nazionale. Allora il movimento dei Forum è verticista? No, credo che più semplicemente sia il Forum di Modena a scontare un certo ritardo organizzativo. Bologna, Firenze, Milano, il Nord-est, certe “sciocchezze” le hanno risolte già da diversi mesi, e non devono porsi ogni volta il problema di chi fa l’ordine del giorno e chi indice l’assemblea: problema sacrosanto, ma che va risolto una volta per tutte, altrimenti queste “sciocchezze” ce le trasciniamo in tutte le assemblee, che diventano così tutte un po’ più sciocche. E anche noi, io per primo, diventiamo ogni assemblea un po’ più sciocchi, o (per dirla come va detta) un po’ più coglioni.

Come si fa a considerare “secondarie” le regole? Perché protestiamo contro i CPT? Perché sono brutti e sporchi? No, perché sono anticostituzionali. La nostra protesta sarebbe vana se, nel 1948, un’assemblea di rappresentanti del popolo italiano non si fosse presa un po’ di tempo per ragionare intorno alle regole del vivere civile e non avesse prodotto una Costituzione. Anche nel ’48, credo, c’erano tante emergenze. Ma la più ‘emergente’ di tutte era fare la Costituzione. Darsi delle regole. E con le regole, un po’ di contegno. Altrimenti si resta un gruppo di persone che non rappresentano nessuno e che prendono la parola per far sapere agli altri il proprio parere. Senza nessuna responsabilità nei confronti di nessuno.
Davvero noi vogliamo essere questo?
Davvero noi, quando veniamo al Forum, rappresentiamo soltanto noi stessi? No. Alla manifestazione di dicembre non eravamo una quarantina, ma molti di più. Molti di quelli che hanno sfilato in Centro a 0° sotto gli addobbi natalizi, nella sala Marie Curie non hanno mai messo piede. Altri che vengono nella sala Marie Curie non conoscono nessuno: sanno soltanto che “questo” è il Forum Sociale di Modena, facente parte del circuito dei forum sociali italiani. Noi abbiamo delle responsabilità nei confronti degli uni e degli altri. Abbiamo delle responsabilità anche nei confronti degli altri Forum Sociali. Insomma, abbiamo un sacco di responsabilità a cui evidentemente non avevamo pensato, altrimenti magari saremmo rimasti a casa. Ma adesso è tardi. Il Forum è fatto, e non si ritira. Spetta ancora a noi renderlo uno strumento democratico e limpido, dove l’ordine del giorno non è un’imposizione né di un Guardiano delle Chiavi né del primo che alza la mano e dice la sua.

Del resto cosa c’interessa di più: protestare contro i CPT o far sì che non aprano? Siamo consapevoli di doverci misurare con un amministrazione che non è nata ieri (a differenza di noi), e che sa ancora gestire il consenso? Lo dico come membro di Attac, associazione che a livello nazionale ha sforato i 2000 iscritti. Una bella cifra, per carità, ma inferiore a quella della sezione DS di Casalecchio di Reno, com’è stato fatto notare. A Modena la protesta di un migliaio di persone sui CPT si scontra con le quasi ventimila firme raccolte dai DS per l’apertura di quei Centri. Facciamo un po’ il conto: siamo sicuri che ‘tenere la piazza’ sia la strategia più adatta? Perché in piazza potrebbero decidere di scendere anche loro, ed eclissarci.
A me la piazza piace, ma non credo che quella di Modena sia il campo di battaglia decisivo per il forum. Il forum vince se impone una superiorità non numerica, ma culturale. Se si dimostra meglio informato della stessa Amministrazione sulle reali 'condizioni di vita' nei CPT. Se riesce a stimolare un dibattito sugli organi di informazione e nelle sedi istituzionali. Se riesce a coinvolgere associazioni e volontari che sull'"emergenza stranieri" magari lavorano da anni. Solo allora il migliaio di dimostranti in piazza Mazzini avrà un peso diverso. E forse sarà anche più di un migliaio. Ma è un sogno lontano. Per ora non siamo nemmeno in grado di votare un ordine del giorno. Abbiamo impiegato più di un mese per stilare un documento programmatico. E poi diciamo che bisogna superare la politica tradizionale. Per ora è più facile che sia la politica tradizionale a doppiare noi, lenti come siamo.

Un’ultima cosa. C’è chi di organizzazione non vuole sentire parlare perché ha paura del “portavoce”, che poi sarebbe il “capo”.
A questi voglio far presente che il portavoce, nei fatti, c’è già. È portavoce del Forum chiunque (in un comunicato, su uno striscione, in una cena tra amici, in sede di consiglio comunale, su Internet) parli a nome del Forum.
Se il portavoce è una persona responsabile (se quindi si pone il problema di rappresentare le persone in nome delle quali ha preso la parola), non ci sono problemi, e io, ripeto, mi fido di chiunque ha lavorato finora, e quindi anche di chi volta per volta si è trovato a fare il portavoce. Ma so anche che, se andiamo avanti così prima o poi (per la legge delle probabilità) ci sarà anche un imbecille o un malintenzionato che cercherà parlare a nome del forum. Bene, qualora questo accadesse, voglio avere uno strumento per potergli dire: “ehi, un momento: tu non mi rappresenti”. Senza questo strumento non c’è democrazia e non c’è neanche motivo di trovarsi in un Forum, per cui non credo che parteciperò a molte altre assemblee che non prevedano come primo punto all’ordine del giorno l’individuazione di questo strumento.
L’alternativa è autonominarmi Guardiano delle Chiavi a vita e dare il microfono soltanto a chi mi è simpatico.
Che a pensarci non è neanche una brutta idea.
Mi domando se non ci abbia già pensato qualcuno.
Comments

Permalink
Scrivo alla "Gazzetta di Modena": Gentile direttore,

La ringrazio per aver pubblicato la mia mail sul caso Forza Nuova. Tuttavia, leggendo l'edizione on line del giornale, sono rimasto un poco perplesso. Sembra quasi che io scriva per la Gazzetta! giudichi lei:

«Vi infilzeranno coi kebab»
Forza Nuova, una lettera ironica e una favorevole

Il caso Forza Nuova continua a suscitare reazioni forti in città. Ecco di seguito due lettere: una favorevole al nuovo gruppo di estrema destra e una contraria.

Gentile redazione.
..

... e poi parte una mail... che non è la mia, ma di un tale Santoro che simpatizza con Forza Nuova. Per capirlo, però, bisogna leggere il suo comunicato fino in fondo (e ci vuole pazienza), dove sta la sua firma. Dopodiché, senza soluzione di continuità, comincia la mia lettera non firmata.

Il risultato è che io e questo Santoro sembriamo esserci scambiati le parti: io, che volevo criticare Forza Nuova, mi ritrovo a difenderla, e questo Santoro, che ha un debole per Fiore, si trova a minacciarlo col girarrosto del kebab. Penso che la cosa ripugni a entrambi.

Spero che nella versione a stampa l'equivoco si sia risolto, ma non si potrebbe comunque pubblicare una rettifica? Non ci tengo proprio a farmi passare per simpatizzante di Forza Nuova - questo penso sia già chiaro.

Distinti saluti
Comments

Permalink
L'inaugurazione della sede di "Forza Nuova" c'è stata, preceduta da una pacifica manifestazione della sinistra giovanile. Forze di polizia impegnate in massa, ma del loro intervento non c'è stato bisogno. Nemmeno quando in via Ramazzini, fino a ieri agli onori delle cronache per la presenza di uno degli stabili di "Palazzopoli", ora per quella di una sede dell'estrema destra - ma il segretario provinciale dell'Uni, Unione nazionalisti italiani, Paolo Andreoli, che ha messo a disposizione l'immobile, si è all'ultimo dissociato - è arrivato l'ispiratore ed idelogo del movimento, Roberto Fiore.
[…] Alle 10,30 la scorta Digos precede il Freelander di Roberto Fiore che imbocca la via dalla parte del Foro Boario. [Gazzetta di Modena di oggi]

Manifestazioni
Io abito in centro, ma siccome non ho la residenza devo parcheggiare fuori, e non è sempre facile.
Però, se fossi l'ideologo di Forza Nuova, potrei circolare liberamente per le rue e per i calli, con un bel fuoristrada, e con la scorta dalla Digos che mi trova il parcheggio e mi custodisce la macchina. Mah. Devo pensarci.

Forza Nuova ha un immaginario territoriale. Per i suoi aderenti l'Emilia Romagna è un "territorio rosso" (come una casella di Risiko con carri armati e bandierine rosse) e riuscire a metterci piede, anche solo per una mattina, una sventolata di bandiere e una mano alzata, è già una vittoria. Incursione riuscita, torniamo alla base. (La stessa cosa, in grande, è successa a Bologna un anno fa).
L'effetto è aggravato dalle forze di polizia, che danno tutta l'impressione di proteggere gli aderenti di forza nuova. Pare che ci fossero sette camionette. Non stiamo un po' esagerando? Se quattro gatti fascisti sono una provocazione, cinquanta poliziotti cosa rappresentano?
A volte mi dispiace di non conservare ritagli, perché sulla Gazzetta (o sul Carlino?) di sabato mattina c'era un'intervista esilarante a questo Andreoli, presentato più o meno come il responsabile modenese di Forza Nuova, che nell'intervista negava persino di essere iscritto. Scopriamo infatti che lui è il segretario dell'"Unione nazionalisti", un'associazione pacifica e democratica (perché, forza nuova invece è violenta e antidemocratica? Ma va'?), che ha prestato gli ambienti, dissociandosi immediatamente. Spiegherà più tardi che si trattava soltanto di un'"inaugurazione simbolica", e che Forza Nuova dovrà trovarsi un'altra sede. Tanto i soldi non le mancano, ma era proprio il caso di farsela addosso, camerata? Un minimo di responsabilità per le proprie azioni…

Qualcuno ha visto Bomper Stomper?
È un film sui naziskin australiani, molto cattivi, molto ideologizzati, che però a furia di stuzzicare i cinesi si fanno menare a sangue, in virtù del numero. Ecco, pensando che via Ramazzini è a due passi dalla Pomposa, mi è venuto in mente anche questo.
Potevano almeno farlo parcheggiare in Foro Boario, Fiore, no? Così entrava in centro a piedi, come ogni buon cittadino, si faceva una bella passeggiata, dava un'occhiata all'Aedes Muratoriana, che in fondo è un luogo sacro dell'identità nazionale. E sì, è proprio lì dalla Pomposa. Camerata! Un po' di coraggio! Sempre all'ombra di zia polizia. Hai paura che ti mangiano, i modenesi? Che t'infilzino nel kebab?

Un altro caso interessante è quello della manifestazione organizzata contro i magistrati anti-pedofili. Anche qui non ho ritagli, ma ricordo che il Carlino riportava con una certa indignazione il fatto che la Digos schedasse i pacifici dimostranti.
In realtà schedare dimostranti di qualsiasi specie è prassi comune della Digos. Forse la novità è che il Carlino simpatizzi con una manifestazione. O che i manifestanti possano essere rispettabili cittadini, padri di famiglia e dignitosi rappresentanti del Ceto Medio.
Comments

Permalink
Annuncio

L'associazione Going to Europe di Modena ricerca no.1 "operatori europei", per impiego apparentemente part-time di tutor di volontari europei e progettista di progetti di volontariato europeo, a partire dal settembre 2001.

Requisiti richiesti:
– Buona conoscenza del programma SVE (Servizio Volontario Europeo).
– Spiccata predisposizione ai rapporti impersonali.
– Conoscenza di alcune Lingue europee (Inglese almeno scritto)
– Essere automuniti è praticamente necessario. Essere internetmuniti è fortemente consigliato.
– Esperienze in realtà di volontariato.

Going to Europe è l'associazione dei ex volontari europei di Modena. Dall'anno scorso cura i progetti SVE in città, sia per quanto riguarda l'invio (giovani modenesi che soggiornano 6-12 mesi in uno dei Paesi dell'Unione) che nel settore accoglienza (giovani provenienti da Paesi dell'Unione che soggiornano 6 mesi nella nostra ridente città).
L'operatore richiesto dovrebbe lavorare nel settore accoglienza. Le sue due principali aree d'intervento sono:
1. Creazione di progetti di accoglienza a Modena. (Prendere dunque contatti con associazioni o enti locali interessati al programma SVE, e assolvere per loro a tutti gli aspetti burocratici e organizzativi, compreso il 'reclutamento' del volontario.
2. Tutoraggio dei volontari europei accolti a Modena.

Lavoro, come si vede, ce n'è, forse anche da tempo pieno. Ma il compenso è piuttosto da part-time. Gli interessati mi contattino pure – l'indirizzo è sempre qui di fianco.
Comments