Affogarne 60 per educarne un miliardo

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Non ci paga nessuno per discuterne, e quindi tanto vale essere franchi: riguardo ai migranti, non c'è un governo italiano che non abbia le mani insanguinate, perlomeno da Berlusconi in poi. Alcuni hanno avuto il relativo merito di trattare la situazione come una crisi umanitaria – il che non significa che non abbiano commesso negligenze imperdonabili. Altri hanno deliberatamente lasciato annegare migliaia di persone, mentre cercavano di coprire le loro responsabilità sviluppando teorie del complotto risibili (i "taxi del mare"); quello che è successo insomma a Cutro, e tra breve succederà altrove, non è niente di nuovo: possiamo dire che il governo Meloni ha dimostrato, nel frangente, una determinazione criminale, ma non diversa da quella mantenuta ad esempio ai tempi di Minniti. Quello che sorprende, nella tragedia di Cutro, quello che ci costringe a collegare i morti annegati al voto dello scorso settembre, è la specifica assurdità dell'episodio: non il fatto che siano morti, ma che siano morti a duecento metri dalla terraferma, a poche ore da un avviso di Frontex e mentre le imbarcazioni più adatte al soccorso restavano al molo. Tutto questo può anche essere successo a causa di una terribile coincidenza di eventi – vedremo cosa ne penserà la magistratura – ma non si può escludere che c'entri la profonda insipienza di alcuni elementi della catena di comando che fino a settembre magari facevano altro, anche se è difficile immaginare che altro fossero in grado di fare. 

2/12/2022

Il fatto nuovo, insomma, non è che si lascino annegare i migranti: è da molti anni che lo facciamo. Ma non in modo così smaccato, non a così pochi metri dalle nostre spiagge: bisogna essere stupidi per ammazzarli così e a quanto pare lo siamo diventati. Siamo probabilmente passati dalla fase in cui i governanti raccontavano sciocchezze per giustificare i nostri crimini (il "pull factor"), alla fase in cui nuovi governanti, persino più ingenui dei precedenti, credono a quel tipo di sciocchezze. Vent'anni di giornaletti fascisti scritti da mestatori fatti passare per giornalisti controcorrente hanno creato quel tipo di politico che probabilmente crede davvero che gli aspiranti migranti s'informino prima di partire su che tipo di governo esiste in Italia: se c'è al governo la "sinistra immigrazionista" corrono subito a fare le valigie; se invece vince aa Meloni subito cominciano a passarsi la voce sui loro smartphone (visto che hanno tutti lo smartphone): eh no, quella è tosta, meglio restare sotto le macerie di un bombardamento o di un terremoto od ovunque ci troviamo. 

Siccome poi qualcuno recalcitra, siccome qualcuno ormai magari è già a metà strada e va dissuaso finché è in tempo, occorrono lezioni esemplari: in fondo una volta ammesso che possa esistere un pull factor, non si può che giungere alla conclusione che esso possa essere contrastato da un non-pull factor, ad esempio dalla notizia di una strage così vicina alle nostre coste. Un avviso a tutti i poveri del mondo: lasciateci perdere, siamo degli animali, potreste naufragare a cento metri dalle nostre spiagge e non faremmo nulla per salvarvi, è chiaro? Affogarne sessanta per educarne un miliardo, probabilmente ai piani alti la pensano così.

Cioè, "pensano" è una grossa parola. Non hanno la percezione della quantità, vivono in un mondo immaginario dai confini elastici. Scambiano l'Africa per un cortile, il Mediterraneo per un oceano, lo straniero è un alieno ostile che però ragiona esattamente come un lettore di Libero, se possiamo definirlo ragionare. Vogliono soluzioni semplici, il che richiede problemi semplici: la pressione demografica mondiale non lo è, e quindi smette di essere un problema, insieme alle cause che la determinano. Ci sono solo migliaia di persone che hanno voglia di venire da noi, ma se gli mostriamo che siamo degli animali spietati e incivili vedrai che la voglia gli passa.

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Storia di un finto povero

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17 luglio – Sant'Alessio (V secolo), povero di rango

Lo trovarono secco nel sottoscala, il mendicante, nella casa del patrizio che diciassette anni prima gli aveva dato riparo. "Anche mio figlio, come te, è in giro per il mondo", gli aveva detto: "ovunque sia, prego che un altro padre gli dia un tetto e un giaciglio per dormire". Quando l'ospite morì, e furono per raccogliere dal pavimento le sue ossa irrigidite, si accorsero che la mano stringeva un cartiglio, e che c'era scritto qualcosa; ma non si riusciva a leggere, il morto non mollava la pergamena.

Ci provarono i medici ad aprirgli la mano, i pompieri e i pretoriani, ormai era diventata una specie di sfida. Alla fine chiamarono gli imperatori Arcadio e Onorio, tutti e due, perché l'autore della leggenda probabilmente non era sicuro su quale imperasse a Roma e quale a Costantinopoli; e in effetti probabilmente all'inizio la storia era ambientata nella nuova Roma sul Bosforo, ma poi un copista si confuse, probabilmente un locale, sai come la pensano: di Roma ce n'è una sola, hai voglia a spiegare che ce ne sono almeno tre. In una versione successiva interviene il Papa direttamente, così è chiaro in quale Roma siamo. Dunque ecco arriva il Papa in questo palazzo sull'Aventino, ah ma quindi è in questa casa che dormiva quel sant'uomo del mendicante? Gli volevano tutti tanto bene. Cos'avete detto che ha nella mano? Un cartiglio? Ecco qui (la mano morta si apre senza fatica). C'è scritto... c'è scritto che si chiama Alessio e che ringrazia suo padre per l'ospitalità.

Al padrone di casa si ferma il cuore.

Il papa all'improvviso si rammenta. "Ma tu avevi un figlio che si chiamava Alessio, no? Quello che mollò la fidanzata davanti all'altare, quando fu? Trent'anni fa? Ma non se n'era andato per il mondo?"

"Alessio, figlio mio".

"Vuoi dire che per tutto questo tempo non l'hai riconosciuto?"

"Figlio mio!"

"Anche lui però poteva dirti qualcosa, eh".

Di tutti i santi del calendario, Alessio è forse quello che capisco meno. Tutti i suoi atti di eroica santità, ai miei occhi di abitante del 21esimo secolo, mi sembrano un mix indigeribile di ingenuità e stronzaggine. Mollare la sposa all'ultimo momento perché Dio è più importante, ok, può succedere a tutti di cambiare idea all'ultimo momento, per fortuna lei ti capisce, condivide la tua scelta di castità e si fa monaca, a questo punto perché non dovresti farti monaco anche tu? No, tu te ne scappi via, posso capire anche questo. Decidi di dare tutto quello che possiedi ai poveri, molto giusto, salvo che sei andato via senza un soldo e quindi sei povero anche tu: se fossi rimasto a casa dei tuoi almeno avresti avuto a disposizione un budget da destinare in imprese benefiche, microcredito eccetera, e invece niente: vuoi combattere la povertà con la povertà, una di quelle cose omeopatiche. Ti è mai venuto in mente che invece potevi metterti a lavorare? In fondo sei un giovane sano, puoi benissimo trovarti un mestiere e poi elargire elemosine a tutti i poveri che incontri, il Vangelo si rispetta anche così – eh, no, dopotutto sei un patrizio romano, o campi nel lusso o fai l'elemosina, ma lavorare è fuori discussione.

Anonimo, Ritrovamento del corpo di sant'Alessio,
XVIII secolo
A un angolo di strada di Edessa di Siria, dove potrebbe stazionare un povero vero, uno che ha problemi seri, un cieco, uno storpio, un lebbroso ci vai tu che per affettare la miseria non ti lavi per anni; e l'espediente funziona, la gente ti annusa e caccia i pezzi d'argento, che poi nottetempo tu dividi davvero coi poveri, e vabbe', se questo è il posto che ti sei trovato nel mondo buon per te; ma a quel punto che fai? Decidi di tornare a Roma. La nostalgia, posso capire. ma incontri tuo padre e non gli dici chi sei. Ti fai ospitare 17 anni da tuo padre, tuo padre che è in pensiero per te e si torce il cuore all'idea che tu sei in giro per il vasto mondo senza un soldo ed è sicuramente colpa sua, è stato il padre peggiore del mondo, se solo potesse avere una seconda possibilità, e tu stai lì per 17 anni e questa seconda possibilità non gliela dai.

E va bene, chi sono io per giudicare, son tre giorni che non telefono ai miei. Però alla fine prima di morire glielo scrivi sul cartiglio, così fa ancora in tempo a guastarsi la vecchiaia dal rimorso che non ti ha riconosciuto – eh no vabbe' ma allora vaffanculo, Sant'Alessio, sei la leggenda di santi più stronza che conosco. Talmente stronzo che sembri vero. Cioè qui non parliamo di draghi che rapiscono fanciulle o dormienti in una grotta o martiri che accarezzano i leoni; qui c'è un hippy di buona famiglia che sembra stato ritratto l'altro ieri. Figurati se non ce n'è stato almeno uno a Roma o Costantinopoli od ovunque, figurati se in mille anni non è mai successo che un giovinastro mollasse la famiglia per fare il barbone, in teoria in giro per il mondo ma ben presto a pochi metri dalla casa dei genitori. I quali magari a un certo punto si erano impietositi e lo ospitavano pure nella mansarda a uso foresteria, magari fingendo di non riconoscerlo perché il ragazzo ha un suo distorto senso della dignità, che non gli impedisce di chiedere scusa a mamma e papà ma non di chiedere moneta sotto il loro portico di casa. Magari ce n'è stato uno sia a Edessa che a Bisanzio che a Roma, che si svegliavano presto senza mettere a posto la cameretta e uscivano in strada a mendicare, e alla fine che gli vuoi dire? Dopo un po' sei parte del paesaggio urbano, il giorno che non ti vedono sulla panchina si preoccupano.

Nausicaa s'imbatte sulla spiaggia in un migrante economico.
La leggenda di Sant'Alessio, che io trovo tanto stronza, era una delle più popolari nell'Alto Medioevo. Serviva probabilmente a spiegare che in ogni mendicante ci potrebbe essere un principe, e quindi come tale va trattato; o anche più di un principe: un figlio nostro. Nei tempi in cui capitava a tutti di aver figli in giro per il mondo, su barchette sospesa sui flutti del Mediterraneo o intruppati in qualche legione a portare la pace dove ancora non la sapevano apprezzare; ma ovunque si fossero perduti, avrebbero potuto contare sull'ospitalità, che è la legge più antica. E che ci riguarda tutti, uomini di terra o di mare: se qualcuno è senza tetto, è figlio nostro. Anche se non fosse mai esistito un Alessio, a un certo punto la leggenda ne produsse almeno uno: il primo che mi viene in mente è San Benedetto Labre, un ragazzo francese che nel Settecento arrivò a Roma a piedi senza lavarsi mai, la sua Vita sembra un servizio di Chi l'ha visto. I romani lo presero in simpatia, decisero che era un santo e che faceva i miracoli. Si vede che sotto i pidocchi era un bel ragazzo, ma in un certo senso aveva il terreno preparato dalla storia di Sant'Alessio. Ma io lo so cosa state pensando, voi tre che siete arrivati fin qui (continua sul Post).
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La guerra di Salvini contro le ONG (e l'umanità)

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[Questo pezzo è uscito lunedì su TheVision ed era stato scritto qualche giorno e duecento morti annegati prima].


Matteo Salvini non sopporta le ONG. "Non toccheranno più un porto italiano", ha annunciato martedì scorso a un convegno di Confartigianato (che forse aveva altre priorità). Non che la cosa abbia molta importanza: in una sola settimana di giugno sono sbarcati più di duemila migranti, di cui appena duecento passati per una nave di ONG. Ecco, quei duecento per Salvini sono uno scandalo, una macchia insopportabile nel uso curriculum di Ruspa Umana. Quanto agli altri 1800, possono accomodarsi: non fanno neanche notizia. Mentre la Lifeline rimaneva bloccata al largo di Malta con 234 migranti, la Maersk ne sbarcava tranquillamente 108 a Pozzallo – ma la Lifeline è la nave di una ONG tedesca, la Maersk è un cargo mercantile: nessuno l'accuserà nemmeno velatamente di trescare con gli scafisti.

È come se gli unici migranti che preoccupano Salvini fossero quelli a cui capita di essere soccorsi dalle ONG. Ricordate l'Aquarius, coi suoi 630 migranti? Dovette affrontare una tempesta e riparare in Spagna, mentre Capitan Ruspa mostrava i muscoli in campagna elettorale twittando #ChiudiamoIPorti; nel frattempo la Guardia Costiera sbarcava 932 migranti a Catania senza che né Salvini né Toninelli trovassero nulla da ridire: insomma i porti sono "chiusi" soltanto per le ONG, e siccome le ONG soccorrono soltanto una piccola parte dei dispersi in mare, i porti sono "chiusi" solo per chi si beve gli hashtag di Salvini. Allontanare le ONG dai porti italiani gli consente di cantare #Vittoria per un'altra mezza giornata, ma non ha nessun effetto misurabile sul fenomeno migratorio: se le navi non governative non possono attraccare da noi, possono pur sempre chiedere soccorso ad altre navi. Che non glielo rifiuteranno.

Il comandante della Guardia Costiera al proposito è molto chiaro: "Abbiamo risposto sempre, sempre rispondiamo e sempre risponderemo a ogni chiamata di soccorso perché è un obbligo giuridico, ma prima ancora morale". È la legge del mare: i naufraghi si soccorrono. Che se ne faccia carico un'ONG o la Guardia Costiera, non fa differenza. O meglio, una differenza c'è, che anche l'elettore salviniano dovrebbe apprezzare: la Guardia Costiera la paghiamo noi. Con le nostre tasse. Ogni litro di carburante, ogni ora di straordinario dell'equipaggio. Le ONG invece si finanziano da sole, senza nulla pretendere dal contribuente italiano. Salvano vite senza chiederci un soldo: questa cosa Matteo Salvini non la sopporta. Piuttosto di fare attraccare l'Aquarius in Italia, preferisce buttar via i nostri soldi facendola scortare dalla Guardia Costiera fino a Valencia. Perché? Storia lunga. C'entra uno youtuber, un libro Mondadori e forse anche un po' Putin (ma non ha senso dare tutta la colpa a Putin).

Prima di raccontarla, fissiamo alcuni punti: le migrazioni nel Mediterraneo non sono un'emergenza (anzi negli ultimi mesi il numero dei migranti è bruscamente calato), ma un processo storico. Non è cominciato a causa del malvaggio Piddì, e non finirà perché Salvini fa la voce grossa con gli interlocutori più piccoli, la minuscola Malta e le minuscole ONG. Né le navi delle ONG, per quanto volonterose, possono essere ritenute responsabili del fenomeno, che non si è intensificato da quando sono in mare. Inoltre a tutt'oggi non risulta che siano colluse con gli scafisti. Probabilmente negli ultimi mesi avete sentito dire il contrario. Da Salvini, che le ha definite "vicescafisti", o da Marco Travaglio, che anche martedì su Carta Bianca parlava di una "collaborazione di fatto" tra scafisti e operatori ONG. È almeno da un anno che ne parla, ma martedì ha precisato che non sta parlando di reati, e che non si aspetta che le indagini "arrestino o colpevolizzino" le ONG. Ne ha parlato molto anche il procuratore di Catania, Zuccaro, anche se confrontando le sue dichiarazioni sembra evidente che col tempo ha corretto il tiro: all'inizio diceva di avere delle prove, ma già da un anno sta parlando di "ipotesi di lavoro". Ultimamente nelle interviste preferisce parlare di reti criminali basate in Africa: non sempre i titolisti se ne accorgono.

Nel frattempo però la procura di Palermo ha archiviato le indagini su due ONG, Sea Watch e Proactiva. La sentenza è importante perché ribadisce che secondo le convenzioni internazionali "le azioni di soccorso non si esauriscono nel mero recupero in mare ma devono completarsi e concludersi con lo sbarco in luogo sicuro": se la Libia non lo è, e Malta non sempre collabora, le navi delle ONG hanno tutto il diritto di attraccare in un porto italiano – o perlomeno non commettono un reato provandoci. Sì, c'è una sentenza di un tribunale italiano che dà ragione alle ONG e torto a Salvini e Toninelli (Continua su TheVision).



Per la Proactiva non è nemmeno il primo risultato positivo: già in marzo era caduta un’accusa di associazione per delinquere. L’equipaggio si era rifiutato di consegnare i migranti alla cosiddetta Guardia Costiera libica, e li aveva fatti sbarcare a Pozzallo. Ma il caso più interessante – e ancora aperto – rimane quello della nave Iuventa, proprietà dell’Ong tedesca Jugend Rettet, tuttora sotto sequestro e indagata dalla procura di Trapani. Non solo per la gravità delle accuse (la Iuventa si sarebbe fatta consegnare i migranti direttamente dagli scafisti, che addirittura avrebbero recuperato i gommoni), ma per la modalità con cui sono state prodotte le prove: su un’altra nave non governativa presente in quel settore, la Von Hestia, c’era un agente sotto copertura del Servizio Centrale Operativo della polizia di Stato. L’agente era stato inviato dopo una segnalazione di due addetti alla sicurezza della nave, due ex poliziotti che avevano inviato un dossier anche a Salvini e Di Battista. Secondo quanto riferito dai rappresentanti della Jugend Rettet sarebbero legati a gruppi di estrema destra italiani. Le foto che sono state esibite però non sono la prova incontrovertibile che avrebbero dovuto essere: le intercettazioni incriminanti che Travaglio citava l’estate scorsa si prestano forse a diverse interpretazioni – lo stesso Travaglio, come si è visto, è diventato molto più prudente; la Jugend Rettet nel frattempo ha pubblicato un cospicuo contro-dossier in cui si difende da tutte le accuse. Ora che le altre inchieste sono state archiviate, il caso Iuventa diventa cruciale: è forse l’ultima possibilità di dimostrare che le Ong fanno parte di un complotto criminale per sostituire la popolazione europea – un complotto assai inefficace: al ritmo attuale servirebbero 200 anni.

D’altro canto, chi racconta falsità del genere non ha così bisogno di prove. Gli hashtag funzionano meglio. “Le navi delle #ONG si scordino l’#Italia, stop a #scafisti e mafiosi,” cinguettano gli account filosalviniani. Per ora non c’è una sola condanna a carico di una Ong. Non una. L’unica cosa che hanno fatto è stata salvare vite senza chiedere soldi al contribuente italiano. Ma se Salvini ha scelto di prendersela con loro, non è soltanto per quell’istinto da bullo che fa impazzire tanti suoi elettori. Al mondo siamo sette miliardi e mezzo, e aumentiamo; l’Italia è un ponte naturale tra il Nord ricco e il Sud in via di sviluppo. Salvini sembra abbastanza furbo da rendersi conto che contrastare i fenomeni migratori è come tappare una diga col dito. Ma se le migrazioni sono inevitabili, altrettanto inevitabile risulta la reazione xenofoba che scatenano nella popolazione impoverita: un’ondata pericolosa, ma che ben cavalcata ti può far vincere le elezioni. Bisogna però avere qualche ricetta pronta, almeno una serie di parole d’ordine facili da ripetere, e Salvini se le è procurate: #FlatTax, #NoEuro, #Ruspa, #Censimento, “Via le #ONG”. Basta convincere il tuo bacino di elettori che combattendo una manciata di organizzazioni non governative si contrasta in qualche modo l’immigrazione. Non è nemmeno necessario che anneghino più poveracci: l’importante è che a ripescarli non siano le Ong.

Per quanto balordo possa sembrare, il complotto mondiale delle Ong assolve a una necessità emotiva di molti italiani, non solo elettori di Lega e M5S. Di fronte a un fenomeno migratorio non particolarmente violento, ma che nei tempi medio-lunghi metterà comunque in discussione il nostro stile di vita, chi assume un atteggiamento di rifiuto non vorrebbe sempre sentirsi accusare di razzismo. Ed ecco che qualche giovane comunicatore ti svela che i veri colpevoli di questo complotto sono europei, sono ricchi e sono bianchi: è l’uovo di Colombo. Ora puoi rifiutare le migrazioni senza passare per xenofobo. Non ce l’hai con gli africani, anzi, vorresti tanto aiutarli a casa loro; ce l’hai con gli scafisti che li rapinano, con i vicescafisti che li supportano; con le cooperative sociali che li sfruttano – e se non riesci a rinunciare a un po’ di antisemitismo vecchio stile, puoi anche incolpare di tutto il grande burattinaio, il solito George Soros. Trasformare le Ong nell’obiettivo primario della propaganda leghista e sovranista è in effetti una mossa geniale per essere venuta in mente a uno youtuber che studia scienze della comunicazione. Eppure è così, prima che Luca Donadel pubblicasse il suo primo video in cui spiegava “Tutta la verità sui migranti”, nessuno se l’era presa con le Ong. Anche il libro di Mondadori che Donadel reclamizzava nel suo video, Profugopoli di Mario Giordano, si concentrava sugli abusi delle Cooperative Sociali che gestiscono l’accoglienza ai migranti sul territorio italiano, il cosiddetto “business dell’accoglienza”, ma non dedicava una sola pagina al ruolo delle Ong nel Mediterraneo. Il ragazzo che nel suo ultimo video attacca Saviano nella sua cameretta, in shorts, prendendo a pugni un cuscino, avrebbe davvero scoperto un argomento che prima in Italia non esisteva. Ma, curiosa coincidenza, esisteva in Russia. Come ha notato Andrea Vigani su Leftwing, la prima nazione europea a dichiarare guerra alle organizzazioni non governative è stata la Federazione Russa; seguita a ruota da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia: le nazioni del gruppo di Visegrad. “In queste prime settimane non sono mancati ammiccamenti del governo italiano al gruppo di Visegrad. Si faccia attenzione perché la guerra alle Ong potrebbe essere un altro passo verso quel modello.”

Lunedì, su la Repubblica c’era un’intervista a un’attivista di una di quelle Ong che Travaglio definirebbe “buone”, quelle che rispettano il codice Minniti e che prima di salvare i naufraghi chiedono istruzioni al Centro di coordinamento. Si chiama Giulia Bertoni, ha 25 anni, studia alla Columbia University, per Salvini e seguaci un po’ filorussi è il bersaglio ideale. Il 18 giugno era di vedetta sulla Seefuchs della Sea Eye, quando ha sentito l’Sos di uno scafo con 120 persone nelle acque libiche, dove le Ong “buone” non dovrebbero entrare. La Seefuchs ha chiamato Roma, a Roma hanno detto di chiedere a Tripoli. Il giorno dopo le 120 persone erano scomparse e Giulia Bertoni non si dà pace. “Io, noi, avremmo dovuto disubbidire al capitano, al direttore della Ong che ci ha ordinato di allontanarci. Ci dovrebbero arrestare per aver ubbidito, per averli lasciati morire. Se volete arrestarci, arrestateci per questo. È come se dei pompieri si fermassero al semaforo di fronte a una casa in fiamme. Se fossimo stati dei privati, la legge del mare ci avrebbe obbligato a soccorrere.”
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Come costruire un ghetto (ti aiuta anche Gramellini)

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Qualche giorno fa sono entrato in un bar e mentre addentavo un cornetto ho scoperto che il mio quartiere è un ghetto. C’era scritto sul giornale. Un ghetto.

Sono uscito a dare un’occhiata. Sembrava proprio lo stesso quartiere. Il parcheggio, la palestra, la chiesa dei frati, tutto regolare. Lo stadio, il sindacato, la bocciofila nell’ex macello, la discoteca dei ragazzini e proprio di fianco la scuola dai muri giallo canarino dove gli italiani sarebbero discriminati dagli… “extracomunitari”. Così diceva il giornale.

Non era un giornale locale. Era il Corriere della Sera. In prima pagina, Gramellini stava dicendo che la Cittadella di Modena - neanche un quartiere, in realtà, un riquadro di strade appena fuori dal Centro - è un ghetto “poco frequentato dai radical chic”. Il feticcio preferito dei giornalisti italiani, i “radical chic”, esistono dunque anche a Modena? Non ne sono così sicuro; ma nel caso senz’altro cercherebbero di iscrivere i figli al liceo qui davanti. Cosa sta succedendo? Perché un affermato giornalista su un quotidiano nazionale sta parlando male del mio angolo di strada - dove evidentemente non ha messo mai piede - e in particolare di... una scuola elementare?




A settembre una signora modenese si è resa conto che sua figlia era l’unica, nella sua classe seconda, ad avere un cognome italiano. La scoperta non deve essere stata così sorprendente: in prima due compagni avevano un cognome italiano, ma si sono trasferiti. La signora invece ha chiesto alla dirigenza di cambiare classe. La dirigenza, ovviamente, ha risposto di no. Dopo aver scritto al provveditorato, che non poteva non ribadire la scelta del dirigente, la signora si è rivolta alla stampa, destando l’attenzione del quotidiano locale, che tradizionalmente lancia allarmi sui lati più controversi dell’immigrazione.



Modena, in effetti, è una delle città d’Italia in cui vivono più immigrati. In certi quartieri più che in altri. Non è che tutto sia semplice, anzi: ma la criminalità negli anni non è aumentata. Può darsi che ci siano dei quartieri-ghetto a Modena – me ne vengono in mente un paio – ma non la Cittadella, davvero, con tutta la più buona volontà. (Quanto mi piacerebbe poter dire ai miei studenti «Ho preso la maturità linguistica in da ghetto»? Ma non è successo.)

Grazie alla stampa, la madre ottiene molta attenzione: viene intervistata da TgCom24, Agorà (Rai3), altri ancora, ma il risultato non cambia. Alla fine, allora, decide di spostare la bambina in un’altra scuola “dove gli extracomunitari,” ci spiega Gramellini, “sono sempre tanti, ma non più tutti. La scuola della discordia si difende ricordando che la metà dei bambini di quella classe è nata in Italia”.

Auguro alla bambina di trovarsi bene nella sua nuova classe. Non mi sento di biasimare sua madre, sul serio. Mi vengono in mente due o tre ottimi motivi per cui il dirigente non doveva soddisfare la sua richiesta, ma posso capire anche lei: ha lottato per la sua bambina che si è ritrovata in un contesto difficile. Al suo posto non avrei fatto lo stesso? Non lo so: quando ci sono i nostri bambini di mezzo non capiamo più niente.

Forse a metà degli anni Novanta, di fronte a una lista di appello con venti cognomi stranieri, avremmo dovuto immaginare un suk di bambini incapaci di parlare in italiano. Ma appunto: sono passati vent’anni. Nel 1997 ce n’erano già parecchi di stranieri, qui da noi. È tutta gente che già dieci anni fa era in grado di ottenere la cittadinanza. Se poi hanno fatto figli (a volte anche con i modenesi), non sono né extracomunitari né stranieri: sono bambini italiani figli di naturalizzati italiani. Sta succedendo ovunque in Italia, magari a Modena un po’ prima che altrove, ma sarebbe ora di rassegnarsi: una lista di venti cognomi stranieri non è una lista di venti bambini stranieri. La stessa mamma, nell’intervista rilasciata a TgCom24 ha ammesso che di bambini che non conoscevano l’italiano ce n’era solo uno. Uno.

E gli episodi che dovrebbero evocare un ambiente intollerante sono sì incresciosi, ma anche abbastanza diffusi in qualsiasi realtà scolastica: «Una volta una bimba è stata spinta per le scale, in un’altra occasione sono stati tagliati i capelli con le forbici a una bambina. È una classe molto difficile».

Gramellini ci ricorda che “la mamma marocchina di una di queste bimbe […] avrebbe istigato la figlia a maltrattare la piccola modenese”. Il condizionale è d’obbligo perché nessun giornale che ha riportato quest’accusa sembra essersi dato la pena di fare quello che normalmente fa un insegnante in un caso del genere: sentire l’altra campana. Di che tipo di maltrattamenti parliamo? Un episodio o tanti? Molestie fisiche o verbali? Avete mai sentito sui gradini della scuola un genitore dire “Se continua a dartene, dagliene indietro”? Io l’ho sentito da gente di ogni statura, colore, estrazione sociale.

Quella che Gramellini definisce “scuola della discordia” è un bell’istituto coi muri giallo canarino, un coro che a Natale è andato a cantare in piazza Grande e degli insegnanti che preferiscono non commentare. Senz’altro la quota di bambini di origine straniera è più alta della media; l’episodio almeno sarà servito a suscitare una discussione sui criteri adottati dal Comune per assegnare gli studenti alle scuole. Perché se da una parte dobbiamo accettare che i cognomi stranieri non significano più “extracomunitario”, dall’altro è evidente che qualcosa sia andato storto: a Modena ci sono scuole dove di cognomi stranieri ce n’è giusto un paio per classe. È un fenomeno ben noto a genitori e insegnanti: per accedere a certe scuole c’è una lista d’attesa, per altre no. Di solito i genitori più esigenti hanno un cognome italiano, e una delle esigenze più sentite – lo dico per esperienza – è proprio quella di evitare le classi con troppi cognomi non italiani.

È razzismo? È un vecchio ragionamento – cognome straniero = difficoltà linguistiche = abbassamento del livello della classe – che spesso condividono anche i penultimi arrivati, e che progressivamente si sta smontando, man mano che i millenial crescono e sempre più cognomi stranieri si diplomano con 100 e lode. È anche il risultato di un circolo virtuoso/vizioso: se tutti i genitori più esigenti si convincono che una scuola sia migliore delle altre, si metteranno in fila, e probabilmente la presenza di studenti più motivati migliorerà davvero quella scuola: studenti motivati, insegnanti contenti, lezioni interessanti, liste d’attesa ancora lunghe. Se solo si potesse evitare che nel frattempo in altre scuole rimanesse spazio soltanto per gli studenti provenienti da famiglie meno integrate, con insegnanti costretti a far fronte a problemi supplementari, da cui lo stress, lezioni più faticose, richieste di trasferimento, etc… Forse è quello che prevede la “Buona Scuola” quando si propone neanche troppo velatamente di mettere anche le scuole dell’obbligo in competizione tra loro. Forse anche Modena si sta avvicinando a quel modello dei film americani, dove se nel quartiere c’è una buona scuola gli immobili costano di più. Nel frattempo, se lavori in una scuola di un quartiere difficile, la tua unica speranza di invertire il circolo è darti da fare: coinvolgere i genitori, organizzare un coro, cercare di dare risalto a tutte le cose positive che ti succedono. Poi, un giorno, magari entri in un bar e mentre addenti un cornetto scopri che Gramellini sul Corriere dice che la tua è la “scuola della discordia”, e che il tuo quartiere è un ghetto.

C’è mai stato? Ha fatto delle indagini o si è fidato di quel che ha letto in giro? La tua scuola è così brutta? Il tuo quartiere è un ghetto? Gramellini senz’altro conosce la teoria delle finestre rotte: chissà se si è reso conto di aver appena lanciato un macigno assurdo, dall’alto della prima del Corriere su una piccola scuola di un piccolo quartiere che non frequenterà mai.
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Quanti marinai cingalesi servono per portare 8 ragazzi bianchi a salvare l'Europa?

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Dopo vent'anni di lutto, finalmente la regina ha acconsentito a risposarsi. Ma proprio durante il banchetto di fidanzamento scoppia una rissa incresciosa: un mendicante trucida tutti gli invitati affermando di essere il vecchio re, tornato da un lunghissimo viaggio. Dice che ha conquistato una grande città (ma non porta con sé nessun bottino); che nel viaggio di ritorno ha sconfitto mostri, litigato con dèi, visitato il mondo dei morti, insomma era assente giustificato. Questo è più o meno quel che resta dell’Odissea se togli lo storytelling e lasci lo squallore.


Ho ripensato a Ulisse, e a quanto gli piaceva raccontarsela, quando l’altro giorno su Libero ho ritrovato Lorenzo Fiato e i suoi amici di Defend Europe. Era da un po’ che non ne sentivo parlare. Il loro profilo twitter è inattivo da un mese, c’era di che preoccuparsi. Fiato è un vero Ulisse del mediterraneo contemporaneo. Non ci credete? Sentite cosa scrive su Libero un tizio che non è Omero, ma si sta attrezzando:

“Hanno fermato gli scafisti, l'immigrazione clandestina e le Ong, e sono appena 8 ragazzi. Per questo li hanno definiti "pirati" o "fascisti" ma oggi l'equipaggio di Defend Europe può dirsi vincitore. A bordo della loro C -Star hanno svelato i lati oscuri e, forse, gli affari delle Organizzazioni non governative attive nel salvataggio dei migranti…”

Otto ragazzi, pensate. Otto giovani a bordo di una nave hanno “svelato i lati oscuri” delle ONG, e hanno vinto! (su TheVision c'è un pezzo mio, sottilmente intitolato LA NAVE ANTI-ONG DEFEND EUROPE È AFFONDATA IN UN MARE DI SFIGA).
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Comunicatori che ci comunicano che lo Ius Soli è comunicato male

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Ogni volta che mi capita di preparare una visita d’istruzione all’estero, so già che ci sarà almeno un mio studente che dovrò lasciare a casa perché non ha i documenti per l’espatrio. Immaginate la situazione: due ragazzi uguali, nati nella stessa città (la mia), che vanno nella stessa scuola, pisciano nello stesso gabinetto (meglio se non contemporaneamente), ma che non hanno lo stesso diritto di andare in Costa Azzurra, perché? Perché uno ha i genitori, per dire, moldavi e l’altro rumeni. Quindi il secondo ha i documenti per andare in gita e il primo no. Al primo cosa posso dire? Mi dispiace, ho visto che ti impegni e mi stai pure simpatico, ma i tuoi genitori sono nati a est del fiume Prut a quanto pare la cosa è molto importante; infatti chi viene da oltre il fiume Prut è una minaccia per la nostra identità, nel senso che può anche lavorare e pagare le nostre tasse, ma suo figlio in gita in Francia, eh no. È una pura assurdità, che almeno un partito (il PD) aveva promesso di eliminare, con una legge (il cosiddetto Ius Soli) che questa settimana con ogni probabilità si impantanerà in Senato e molto difficilmente nella prossima legislatura qualcuno avrà le palle di riproporre. E questo perché?
Forse perché negli ultimi mesi alcune testate si sono messe a pompare al massimo un certo sentimento xenofobo, inventandosi una specie di invasione africana che – dati alla mano – non esiste?

(Ciao. Su TheVision c'è un pezzo mio, si chiama Che c***o sta combinando il Pd con lo Ius Soli ma ce l'ho più col Corriere che col Pd. Non è che uno può sempre prendersela col Pd. Ok, un'altra volta me la prendo col Pd).
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Fa un po' male, ma poi (il razzismo)

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"Ma hai sentito la storia del mediatore culturale?"
"Come facevo a non sentirla? Sei colonne su Libero".
"Ma come si fa a scrivere una cosa del genere?"
"Nel giorno in cui un missile nordcoreano ha attraversato lo spazio aereo giapponese".
"È un atto peggio ma solo all'inizio, dio mio".
"E poi mezzo Texas sott'acqua, il vertice europeo sui migranti..."
"Ma come si fa a credere a una cosa del genere".
"Eppure Libero aveva in prima pagina soltanto la stronzata di un mediatore culturale - in pratica il dipendente di una cooperativa - definito "capo musulmano"".
"Cioè secondo te la notizia è che Libero ci faccia un titolo?"
"Non un titolo. Il titolo di apertura. A tutta pagina. Per la scemenza di un tizio su facebook. Che diventa miracolosamente la tesi di un capo musulmano".
"Non è una semplice scemenza. Era una stronzata orribile, maschilista, portatrice di una visione arcaica..."
"Più che arcaica forse consolatoria".
"Consolatoria?"
"L'idea che una donna non soffra durante lo stupro. Sembra un'autocensura. Non posso credere che qualcuno soffra per così tanto tempo, e così decido che non è vero, che non sta soffrendo. Più che da una cultura arcaica, credo che sia il risultato di uno choc culturale. Un maschilista puro perché dovrebbe preoccuparsi se la donna soffre o no?"
"Ti stai infilando in una fessura pericolosissima, te lo dico".
"Ma no, è che quando incontro una nozione falsa, mi chiedo sempre da dove salta fuori. Oggi si tende a pensare che le fake news servano a mandare avanti un'agenda politica, o semplicemente ad attirare attenzione e clic. Ma le nozioni false le abbiamo sempre avute, prima della politica e prima dei clic. La maggior parte serviva a proteggerci".
"A proteggerci?"
"Dov'è il nonno? È andato in cielo".
"Serviva a proteggerci?"
"Magari non funzionava, ma non te la raccontavano per altri motivi. Fa molto male? No, solo all'inizio, poi passa".
"Stai cercando di giustificare..."
"Sto cercando di capire".
"Non è che puoi passare la vita a cercare di capire gli ignoranti".
"Ma è proprio quello che dovremmo..."
"No. Non funziona così. Anche perché gli ignoranti sono troppi. Non ce la faremmo mai. Devono essere loro a fare un passo avanti".
"Ma che significa, non è mica un match noi contro loro. Siamo tutti ignoranti di qualcosa. Usiamo tutti qualche falsa nozione per proteggerci".
"Fammi un esempio".
"Ogni agosto, hai notato che a ogni fine di agosto esce una notizia ambientata sulla spiaggia che riassume il nostro approccio stagionale al problema dei migranti? Due anni fa, la foto di quel bambino siriano annegato sul bagnasciuga".
"Non era una falsa nozione".
"Era una foto tra tante, riassumeva un problema generale e complesso, simboleggiò una specie di svolta: la Merkel cambiò atteggiamento, tutti cambiarono atteggiamento - molti perlomeno - per un po' prevalse la linea dell'accoglienza. L'anno scorso, sempre su una spiaggia, il ladro di bambini".
"Me l'ero dimenticato".
"Anche quella volta, paginone di Libero. Tutto rapidamente sgonfiatosi, non c'era stato nessun tentato furto di nessun bambino. Ma riassumeva l'aria che stava tirando. Quest'anno il capo musulmano che insegna su facebook la meccanica dello stupro".
"Riassume la situazione?"
"Serve a difenderci".
"Ma cosa stai dicendo?"
"Vuoi la notizia vera? Quella che non ha dato Libero, e che anche i giornali rispettabili sono un po' restii a comunicare? Per risolvere la cosiddetta emergenza immigrazione, in due mesi abbiamo probabilmente lasciato annegare trentamila persone".
"Forse un po' meno..."
Dati fieramente elaborati dal Ministero degli Interni
Li aggiornano tutti i giorni!
"Non è stato difficile: abbiamo lasciato che la libera informazione criminalizzasse le ONG, e poi le abbiamo fatte sostituire da una banda di pirati che abbiamo deciso di chiamare guardia costiera libica".
"Lo so".
"Nel frattempo abbiamo preso accordi col capotribù che almeno a Tripoli ha preso il posto di Gheddafi, e che istituirà campi di concentramento disumani quanto quelli di Gheddafi. Anche se la Libia continua a essere un po' instabile e quindi, in concerto con l'Unione Europe che plaude al nostro spirito di iniziativa, stiamo pianificando di finanziare campi di concentramento più a monte, nel Sahel".
"So anche questo, ma..."
"In questo modo magari l'estate prossima i trentamila morti moriranno così tanto lontano, o lungo una una filiera talmente sviluppata e complessa, che non ce ne accorgeremo neppure, il che ci farà sentire meno assassini e forse farà vincere le elezioni contro i razzisti ignoranti, noi razzisti consapevoli e pianificatori".
"Senti, ho capito, mi rendo conto che è terribile, ma non andrà così".
"No?"
"Capisco che in questo momento tu possa sentirti..."
"Un po' assassino?"
"Diciamo che siamo tutti colpevoli... di una situazione orribile che..."
"Che si poteva evitare".
"Però non puoi esagerare. Non serve a niente esagerare".
"Sto esagerando?"
"Trentamila morti ogni estate, per esempio. Non è vero".
"È una stima".
"È solo la sottrazione tra gli sbarcati dell'anno scorso e quelli di quest'anno. E può darsi che davvero l'unica causa della differenza, quest'anno, sia che sono annegati. Non c'erano più navi disposte a soccorrerli, e li abbiamo lasciati annegare".
"Abbiamo fatto sì che fossero lasciati annegare".
"È successo. Ma l'anno prossimo non saranno di nuovo trentamila".
"Perché no?"
"Ma è una questione di buonsenso, insomma... quelli che partivano quest'anno, pensavano che sarebbe stato facile come l'anno scorso. Ma l'anno prossimo... ora che lo sanno... partiranno in meno".
"Cioè la strage sarà servita da deterrente".
"Purtroppo sì".
"Ma come fai a saperlo?"
"È buonsenso".
"O forse è un istinto autoprotettivo".
"Cosa?"
"Mi stai dicendo che dopo un po' smette di fare male".
"Non capisco".
"Il massacro. All'inizio fa male, ma dopo la gente si abitua e alla fine magari gode anche un po'".
"Facciamo che non ti sento".
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Il business degli immigrati, il business Mondadori, l'egemonia a Cologno

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A questo punto credo che sia stato appurato che c'è almeno un'organizzazione, molto potente, che lucra sul traffico di migranti. Si chiama Mondadori, vende i libri di Mario Giordano e li promuove mediante video virali su youtube - come quello famoso di Luca Donadel che ha suggestionato un po' tutti. Forse anche quel giudice di Catania che qualche settimana fa ha iniziato a parlare di un complotto di Ong per traghettare i migranti in Sicilia: non aveva prove, nemmeno le aveva chieste all'intelligence perché "non le avrebbe sapute usare", ma "gli risultava da internet", "perché in rete ci sono i dati della posizione delle ong". 

Ma perché "Quelli"?
Io nella foto ne vedo uno solo.
Ora potrei sbagliare, ma questa famosa "internet" in cui ci sarebbero "i dati della posizione delle ong" credo consista soprattutto in quel video del "ragazzo che smentisce le balle dei media", ovvero Luca Donadel. È lui, nel suo video 'autoprodotto', a mostrare i tracciati delle navi di alcune ONG; è lui a far notare che esse interpretano la loro missione di salvataggio giungendo a volte a poche miglia nautiche dalla costa libica: è lui a intonare, per primo, il tema del sospetto: a chi giova (non far annegare migliaia di profughi nel mediterraneo)? Chi ci campa con quei famosi 35€ al giorno? Eccetera eccetera. Tutto quello che afferma Donadel si può naturalmente discutere - rimando a un pezzo di Leonardo Bianchi di un mese e mezzo fa, segno che il video è virale già da parecchio. Aggiungo soltanto un dettaglio: il "chi giova" si può naturalmente riflettere su Donadel stesso, che candidamente afferma di aver speso 400€ per accedere a un'applicazione che traccia il traffico navale: sono parecchi soldi per uno youtuber che si filma ancora nella sua cameretta. Chi glieli avrà anticipati?

Il fatto che il pezzo sia accompagnato da un link al libro di Mario Giordano (Mondadori) ci può fornire un indizio.

Il fatto che nel video Donadel affermi: "Si dice che gli italiani leggano poco, meno di un libro all'anno. Fidatevi: questo è il tipo di libro che vale la pena leggere", ce ne offre un altro.

(Notate la delicatezza: ci tiene a farci capire che anche se non riusciamo a leggere un libro in un anno, questo riusciamo a leggerlo).

Poco dopo Donadel, che altrove è presentato come "ragazzo" o "studente", afferma di lavorare nella "comunicazione". Quindi qui avremmo un giovane sedicente professionista che reclamizza un libro. Domanda: lo starà reclamizzando gratis? Avrà speso 400€ del suo salario di giovane comunicatore così, per il gusto di dare un po' di visibilità a un libro di un affermato giornalista della Mondadori? Potremmo anche credere che le cose stiano così, in fondo a vent'anni di cose molto sceme ne abbiamo fatte tutti. Chi, avendone le possibilità, non avrebbe speso tempo e denaro per aiutare Mario Giordano a vendere un libro Mondadori in cui punta il dito sulle organizzazioni non governative?

In seguito il video di Donadel è stato ripreso da Striscia la Notizia, una trasmissione della Mediaset; il giovane e brillante comunicatore è stato ospite di Matrix (sempre Mediaset) e ha scritto per Panorama (Mondadori). A me non sembra così scemo in fin dei conti. Non posso non notare che continua a collaborare con lo stesso gruppo editoriale che trasmette, in fascia preserale, un programma xenofobo a cadenza quasi quotidiana su Retequattro. Poi se volete potete pure dare la colpa a internet, questo brutto posto dove nidificano le post-verità. Senza dubbio anche Donadel ha iniziato a pigolare qui, ma mi sembra che ormai abbia spiccato il volo.

Nel frattempo un giudice ha aperto un'inchiesta conoscitiva su una cosa di cui, per sua ammissione, non conosce un granché; il vicepresidente della Camera ha definito le navi delle ONG dei taxi per migranti; il governo Gentiloni ha aperto i Centri Permanenti per il Rimpatrio; inoltre il decreto Minniti-Orlando toglie ai rifugiati il diritto di fare ricorso contro la sentenza di un giudice che li rimanda in Libia. Ma cambiamo argomento - è da un po' che non si parla più di Renzi, come se non fosse l'unica vera cosa interessante al mondo, no? Il ritorno di Renzi, l'odissea di Renzi, la riscossa di Renzi.

L'altro giorno Andrea Romano, forse ancora un po' eccitato per il buon risultato delle primarie, l'ha definito il definitivo consolidamento di "quella che oggi possiamo serenamente definire una egemonia culturale del riformismo sulla sinistra italiana".

Non credo di avere le competenze per discutere col professor Romano della definizione gramsciana di egemonia culturale. Pure, sono abbastanza sicuro che non si trattasse di una medaglietta che spetta a chi si fa le primarie in casa e le vince; anzi, la questione dell'egemonia serviva a spiegare che certe volte avere una maggioranza è inutile, visto che le idee che hai in testa continua a spiegartele una minoranza.

400€ e ti porti a casa il pacchetto,
egemonia inclusa.
Per esempio: Renzi potrebbe anche tornare a palazzo Chigi, ma se le sue idee sono rottamare il centrosinistra (vecchio cavallo di battaglia berlusconiano) e tagliare i seggi in parlamento e vendere le auto blu su ebay (nuove idee grilline), direi che l'egemonia è ancora lontana. Suggerirei di guardare un po' più su, nella periferia nordorientale di Milano, dove ha ancora sede un gruppo editoriale che, se vuole, può pompare xenofobia tutta le sere alle otto e mezzo, senza che nessuno possa farci niente (legge sul conflitto d'interessi? nella cultura di Renzi non c'è mai stata). Un gruppo editoriale che può inventarsi l'emergenza profughi, scriverci dei libri, promuoverli sulle sue riviste - e su youtube, ovviamente: qualcuno se la prenderà con youtube. Vi diranno che ormai la società è liquida, e la gente è così, si fida delle peggio stronzate su internet, non c'è più niente da fare, pare che l'egemonia l'abbia un ragazzino che nella sua cameretta mostra le rotte delle navi e cambia le idee a un magistrato e a un vicepresidente della camera. Che possono fare i poveri Riformisti, a parte rincorrere gli xenofobi su questi argomenti? riaprire i centri di detenzione, i campi profughi in Libia e così via, e sperare che alle prossime elezioni votino per gli xenofobi riformisti, gli xenofobi dal volto umano?

No, sul serio, cosa potete fare?

BOMBARDARE COLOGNO MONZESE, SCIOCCHERELLI!

Cioè, andava fatto 15 anni fa, ma non esiste un tardi che sia peggio di mai.
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È "difficile" giudicare trenta razzisti, Matteo Renzi?

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Al referendum voterò No e non credo neanche sia necessario spiegare il perché - lo faccio da due anni, ormai. Quel che invece sto cercando di fare è purificare le ragioni del mio No: dimostrare, almeno a me stesso, che a farmi votare No sono considerazioni serie, previsioni ponderate, e non un'epidermica insofferenza per Matteo Renzi.

Faccio fatica.

La Repubblica
Un po' senz'altro per colpa mia - ma anche Renzi da parte sua potrebbe applicarsi di più. Quello che gli si chiedeva, di fronte a un fatto banale e inquietante insieme, come la rivolta di Gorino, è una posizione netta, magari anche sbrigativa perché cosa sono dodici o venti posti letto di fronte a un'emergenza nazionale, continentale, mondiale? Non sono niente finché non diventano un simbolo.

Prima che succedesse questa cosa, Renzi avrebbe pur potuto passare davanti alle telecamere e dire: signori, raccontiamoci poche palle. Io forse posso comprendere la "stanchezza" degli italiani di fronte a un'emergenza che non finisce mai, ma nella fattispecie non quella degli abitanti di Gorino, che di profughi non ne hanno mai visti. Se non ne vogliono dodici, qualcun altro comune del ferrarese se ne dovrà sobbarcare: qualche altro onesto cittadino padano dovrà pagare per la "stanchezza" immaginaria dei pescatori di Gorino che lo Stato sovvenziona già così lautamente. Spero di essermi spiegato e che non ci sia bisogno dell'aiuto delle forze dell'ordine per smontare i gazebo e le altre cianfrusaglie che bloccano il traffico a dispetto del codice stradale. E però.

E però Matteo Renzi è in campagna referendaria; è appeso a uno stelo di consensi che ondeggia a ogni refe di vento, e quindi gli è toccato dire che è difficile giudicare la 'stanchezza' di un paesino dove non c'è mai stato un profugo-uno. Ridursi a cercare i voti di Naomo, d'accordo, a un politico può succedere anche questo: ma almeno finirà? Perché la speranza dei renziani è che tutta questa manfrina un bel giorno finirà e Renzi regnerà incontrastato. Quando?

Mettiamo che vincesse al referendum: sarebbe un bel ripulisti per il Pd (ci potrebbe anche essere una scissione) e anche a centrodestra ci sarebbero contraccolpi notevoli, magari positivi per le piccole compagini di Alfano e Verdini. Ma Renzi continuerebbe a essere il capo di un governo di coalizione che continuerebbe a dipendere da Alfano e Verdini. Fino alle elezioni, che lo stesso Renzi non credo vorrebbe disputare prima del 2018 - a questo punto non si sa bene con che sistema elettorale, ma diamo per scontato che dopo una debacle referendaria la sinistra Pd non riesca più a ottenere nulla e si vada con un sistema non troppo dissimile dall'italicum com'è oggi.

Mettiamo che scoppi un'altra Gorino - o altre dieci, cento, mille Gorino. Renzi continuerà a capire la "stanchezza" di chiunque. Non è che abbia molte alternative: o vince o va casa. E non è davvero detto che vinca. Nei tempi lunghi, peraltro, perdiamo tutti.
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Caro fratello musulmano di Gramellini

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Caro musulmano non integralista che in privato hai confidato a Gramellini il tuo sgomento per l'eresia wahabita, e la tua rabbia verso la corte saudita che si atteggia a nostra alleata e invece finanzia quell’eresia dai tempi di Bin Laden, esci fuori.

Lo so che esisti, Gramellini ti ha tradito. Dai, esci, su.

Il piano degli aspiranti califfi è piuttosto chiaro: utilizzano ragazzotti viziati come gli stragisti del Bataclan, ma anche relitti umani come il camionista che ha seminato la morte sulla promenade di Nizza per alimentare la paura e l’odio verso l’Islam, così da portare i razzisti al potere in Occidente e creare le condizioni per innescare una guerra di civiltà, insomma la qualunque, va bene tutto, qualsiasi commando improvvisato noi lo attribuiamo ai Sauditi Malvagi, se non direttamente a Sauron o al Veglio della Montagna, perlomeno il tuo amico Gramellini ormai ragiona così, un Vittorio Feltri dal volto umano, e tu ancora ci parli, chissà dove poi, magari uscite a cena, e al dessert tu gli fai: sono sgomento per l'eresia wahabita.

"La che?"
"L'eresia wahabita, è la confessione della corte saudita".
"Sono i cattivi?"
"Beh, senz'altro hanno finanziato diversi terroristi".
"Ah, il terrorismo, conosco, gli anni Settanta, sapessi, le Brigate Rosse, i compagni che sbagliano..."
"Ecco, non c'entra niente".
"Ma è terrorismo, lo hai detto tu".
"Il terrorismo è un fenomeno complesso, sarebbe sbagliato leggere gli avvenimenti degli ultimi vent'anni con le lenti degli anni di piombo, che tra l'altro ormai ve li ricordate solo voi giornalisti italiani e..."
"Ma non scaldarti, su, beviti un bicchiere".
"No, grazie".
"Ah già sei musulmano".
"No è che a quest'ora non lo reggo, e forse anche tu dovresti..."
"Però sei stronzo che mi fai bere da solo. Vabbe', ho capito, i sauditi vogliono fare la rivoluzione e i musulmani di tutto il mondo li considerano compagni che sbagliano, è così?"
"Sigh".
"Negli Anni Settanta del secolo scorso il terrorismo di sinistra insanguinò le nostre strade con altri metodi (bersagli simbolici e non indiscriminati) ma identici obiettivi: scatenare la rivoluzione".
"In che senso identici obiettivi? La rivoluzione non è mica una guerra di civiltà".
"Vabbe', dettagli. Comunque tu in questa storia saresti il sindacalista Guido Rossa, che pagò con la vita la rottura dell’omertà in fabbrica!"
"Cioè devo farmi ammazzare".
"Ma no, si fa per dire, anzi ti auguro lunga vita".
"Ma mi tocco i coglioni, guarda".
"Ah, lo fate anche voi?"
"No, è che mi sto integrando".
"Bravo".
"Ma insomma cos'è che dovrei fare?"
"Da te che ci aspettiamo il gesto che può cambiare la trama di questa storia. I farabutti che sgozzano in nome dell’Islam non vengono dal deserto: sono cresciuti in Occidente e quasi sempre ci sono anche nati".
"Embè?"
"Frequentano i tuoi negozi".
"Io faccio la spesa alla coop".
"E la carne halal?"
"Ce l'hanno anche alla coop".
"Ah".
"Tu non la fai mai la spesa, vero?"
"Però frequentano anche le tue moschee".
"Cioè secondo te i jihadisti discutono di bombe davanti a tutti nel parcheggio della moschea? Che molti manco ci vanno in moschea. Si fanno le madrase in casa".
"Ecco, perché non li denunci?"
"Li denuncio per cosa?"
"Hai appena detto che si fanno della roba in casa".
"Le madrase, le scuole islamiche, si trovano in garage o nel seminterrato e pregano e insegnano l'arabo ai figli".
"E tu non li denunci?"
"Ma per cosa? Per il reato di pregare insieme a casa propria e insegnare l'arabo ai figli?"
"Lo vedi che non sei collaborativo? Eppure parlano la tua lingua!"
"Ma mica tanto".
"Come, non siete tutti arabi?"
"Guarda, io son tunisino, e i marocchini già faccio fatica a capirli. Poi ci sono i pakistani che non sono proprio arabi, proprio per niente. L'arabo giusto per le preghiere".
"Ma te pensa. Comunque hanno figli che vanno a scuola con i tuoi".
"Perché con i tuoi no?"
"Ehm, boh, non saprei. Senti, per troppo tempo hai guardato ai terroristi come a dei fratelli che sbagliavano ma che non andavano traditi".
"Eh?"
"Non condividevi i loro comportamenti, ma non te la sentivi di denunciarli".
"Ma che cazzo dici?"
"In qualche caso per paura, ma più spesso per una forma perversa di solidarietà religiosa e razziale".
"Cioè mi stai accusando di favoreggiamento ai jihadisti? Così? Mi inviti a cena e mi dici una cosa del genere?"
"No, veramente la scrivo sulla prima pagina del giornale".
"Perché sono tuo fratello".
"Certamente, di me ti puoi fidare".
"E meno male che non ero solo tuo cugino, ma vaffanculo, va'".
"Lo dite anche voi?"
"Mi sto integrando".
"Bravo. Adesso però il gioco si è fatto troppo duro e non puoi più restare sull’uscio a osservarlo".
"Ma osservare cosa, ma lo sai che c'è gente che dopo ogni attentato mi insulta per strada?"
"Adesso anche tu, come l’operaio comunista di quarant’anni fa, hai qualcosa da perdere".
"Cioè dici che prima no, che prima ero un pezzente senza niente da... senti, ma sei venuto in macchina?"
"Certo, perché".
"Forse è meglio che andiamo, mi sembra che tu abbia già bevuto un po' troppo".
"Aspetta, aspetta. Bene o male l’Occidente ti ha accolto, offrendoti la possibilità di una vita più dignitosa di quella che ti era consentita nella terra da cui sei scappato".
"Cameriere, ci porta il conto per favore?"
"No, stavo pensando a un amaro. Mi fai compagnia?"
"Io non sto bevendo, Gramellini".
"Ah già, dimenticavo. Senti. Cosa stavo dicendo?"
"Niente di particolarmente intelligente".
"Non puoi continuare a negare l’evidenza o a girarti dall’altra parte".
"Ma chi si gira, ma cosa stai..."
"Hai oltrepassato quel confine sottile che separa il menefreghismo dalla complicità".
"Cameriere, sul serio, noi adesso andiamo, pago tutto io con la carta".
"Facciamo un patto".
"Che la prossima volta offri tu? sarebbe anche ora".
"Noi cercheremo di tenere i nostri razzisti lontani dal governo e di migliorare il livello della sicurezza, anche se è impossibile proteggere ermeticamente ogni assembramento umano".
"Dammi il braccio, non lo vedi che barcolli".
"Tu però devi passare all’azione".
"Sì capo".
"Devi prendere le distanze dagli invasati che si sentono invasori e dagli imam che li fomentano".
"Dammi le chiavi della macchina, che è meglio".
"Denunciarli, sbugiardarli, controbattere punto su punto le loro idee distorte".
"Sissì, guarda, parto da domani".
"Denuncerai?"
"Denuncerò".
"Sbugiarderai?"
"Sbugiarderò".
"Controbatterai punto su punto le loro idee distorte?"
"Controbatterò... scusa, una curiosità, tu negli anni Settanta passavi il tuo tempo così?"
"Eh?"
"Passavi il tempo a controbattere punto su punto le idee distorte dei brigatisti?"
"Ma che c'entra, io mica ero un operaio".
"Ah già".
"Sei tu l'operaio, ricordatelo!"
"Sì capo".
"Bravo".
"C'è altro capo?"
"Ah, e poi nelle moschee si dovrebbe parlare in italiano".
"Eh?"
"Cioè, a seconda dei Paesi in cui uno è: sei in Francia? Francese! Sei in Italia? Italiano".
"Ma le preghiere sono in arabo".
"E non si possono tradurre?"
"No".
"E perché no? Chi lo dice che no?"
"Ma direi il Profeta".
"E chicazz'è sto profeta e profeta, tu sei in Italia adesso, hai capito? In Italia si parla italiano. Noi la Messa l'abbiamo pure tradotta".
"Dopo 1960 anni".
"Vabbe' ma che c'entra, è casa nostra, facciamo quello che ci pare".
"È anche casa mia".
"Eh?"
"Sono italiano, lavoro, pago le tasse, è anche casa mia. La mia religione è uguale alla tua davanti alla Costituzione".
"E dove sta scritto".
"Nella Costituzione".
"E quindi insomma continuerai a pregare in arabo".
"Credo proprio di sì".
"Come i tuoi fratelli wahabiti".
"Non mi stanno molto simpatici".
"Ma non li denuncerai".
"Per cosa?"
"Perché fomentano l'odio razziale".
"Ma è una considerazione generale, non conosco nessuno che in pratica... oddio, uno forse sì".
"Ecco, vedi che uno lo conosci".
"Cioè è un brav'uomo, ma certe volte fa dei discorsi che ti fomentano, ti fomentano proprio".
"Denuncialo".
"Ma è un mio amico".
"Lo stai difendendo?"
"Non credo che istigherà mai nessun terrorista, anche se".
"Anche se?"
"In effetti i suoi discorsi hanno un certo effetto, circonolano tra migliaia di persone, cioè come si può escludere a priori che tra i suoi seguaci non ci sia qualcuno disposto a..."
"Ecco, lo vedi? La connivenza! La zona grigia!"
"Però è un mio amico".
"Un amico che sbaglia".
"Già".
"Ma che amico sei per lui, se lo lasci libero di spargere odio?"
"Non so, devo pensarci".
"Pensaci, pensaci bene. Dove ho messo le chiavi?"
"Le ho io, ti porto a casa".

Caro fratello musulmano di Gramellini - lo sappiamo che esisti - esci allo scoperto. La tolleranza è una gran cosa, ma è chiaro che tu hai tollerato troppo.

(Le parti in corsivo Gram le ha scritte davvero).
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Ja, Sie werden durchkommen (Sì, passeranno)

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Cari eventuali lettori austriaci: ho scoperto in questi giorni, come tutti, che il vostro governo ha pensato di risolvere una futura emergenza migranti alzando un muretto di 250 metri al Brennero.

L'affetto che provo per la vostra bella terra e per voi non mi impedisce di domandarvi: ma voi sul serio ci credete ancora a questa cosa di essere austriaci, che a Robert Musil sembrava un anacronismo già nel 1919? È che ne conosco parecchi a cui sta stretta l'Italia o persino l'Europa: possibile che a voi calzi ancora bene un concetto come l'Austria - per carità, comodo, confortevole, heimlich, ma insomma - pensate solo alle autostrade. È da un po' che si usano. Non ce n'è neanche una diretta tra Innsbruck e Vienna. Si passa, come sapete, dalla Baviera. Lo spazio di Schengen lo avevamo inventato anche per superare questa sciocchezze - voglio dire, due frontiere per andare dal Tirolo a Salisburgo? Sul serio vorreste tornare a un'Europa così?

La seconda è: avete sentito parlare di Mouaz Al Balkhi e Shadi Kataf? In caso contrario vi rimando a Mazzetta. Per farla breve è la storia di due profughi siriani che dopo qualche mese d'attesa nel limbo di Calais, non avendo abbastanza fondi per pagare qualche scafista che li portasse in Inghilterra, si sono comprati due mute da Decathlon e hanno provato a farsela a nuoto. Da Calais a Dover. Il cadavere di uno dei due lo hanno trovato in Olanda, l'altro in Norvegia. Storia abbastanza agghiacciante.

Ora, ditemi voi.

La disperazione che porta un giovane siriano a tuffarsi nella Manica e a tentare di attraversarla a nuoto, qualcuno sul serio pensa di contrastarla con un muretto di 250 metri in fondo al valico? È vero, è gente che non ha mai visto le Alpi.

Ma hanno visto di peggio. Si conteranno i soldi in tasca, magari compreranno un paio di scarponi allo Schoelzhorn Sport, saranno a Gries prima che canti il gallo. Di lì è tutta discesa fino a Schönberg. Se ce l'ha fatta Annibale, credete di fermarli?
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Saoirse va a Brooklyn

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Brooklyn (John Crowley, 2015).

I'll dye my petticoats, I'll dye them red 
and it's round the World I will beg for bread 
until my parents would wish me dead. 
La sfida che tutti aspettavamo è realtà. Batman e Superman si affronteranno, in una lotta senza esclusione di colpi anche se poi si scoprirà senz'altro che era un equivoco e uniranno le loro forze contro una minaccia comune che -
- no dai basta.
Eh?
- Basta film di supereroi, non se ne può più. 
Dici?
- Alla tua età poi. Sei patetico.
Ma ci vanno tutti...
- Tra l'altro pare sia un brutto film.
Capirai. Batman contro Superman, cosa pretendi?
- Pretendo della qualità, dello stile. Stasera andrai a vedere un bel film. 
Ma ho già visto i fratelli Coen la settimana scorsa...
- Questa settimana è uscito Brooklyn. Con Saoirse Ronan. 
Uh, che brava Saoirse. Di che parla il film?
- Di emigrati.
È un tema molto attuale!
- No, sono emigrati irlandesi negli USA, nel dopoguerra.
Sì, ma probabilmente l'autore ne approfitterà per mostrare i caratteri universali del dramma dell'emigrazione...
- No.
Ah no?
- È un film molto legato alla sua epoca. Ricostruzione filologica. Personaggi molto anni Cinquanta. Potrebbero essere i nonni. È la classica storia che ti raccontano i nonni.
Bene, quindi immagino che Saoirse all'inizio del film viva in Irlanda, in un contesto di povertà, di abbruttimento, dal quale non ci si può riscattare se non...
- In realtà sono tutti molto dignitosi.
Ah.
- Però lei è disoccupata e allora un prete le trova un visto e un lavoro a Brooklyn.
Un prete! Che ovviamente nasconde qualche vizioso segreto... magari è a capo di un racket, la tratta delle celtiche...
- No.
No?
- È una bravissima persona, attenta e riservata. La iscrive a un corso serale di contabilità. Le paga due anni di retta.

Anche i vostri nonni, almeno una sera,
non sapevano come abbracciarsi.
Ah.
- Deluso?
Beh, in effetti non è che possono sempre fare i cattivi, i preti.
- Non sarebbe realistico. 
Voglio dire, un prete o una suora malvagio/a ogni tanto ci sta proprio bene, ma alla lunga diventa un cliché.
- Invece un bravo prete un po' ti spiazza.
Già.
- Già.
E se andassi a vedere Batman?
- Non essere ridicolo. Andrai a vedere un film giustamente candidato all'oscar. Ed è piaciuto a tutti.
Tutti quelli che l'hanno visto.
- Certo.
Cioè magari non proprio tantissimi... ma quindi Saoirse arriva a Ellis Island e la ispezionano, la schedano, quarantena, magari le cambiano nome...
- No.
Ah no?
- Ha già i documenti a posto, saluta la guardia di frontiera ed è già in città.
Dove va a vivere? Sotto il ponte?
- In affitto da una signora.
Una megera che abusa di lei!
- No, una brava signora. Lei peraltro è una ragazza molto seria e diventa presto la sua inquilina preferita.
Ah, perché ce ne sono altre!
- Certo. Un po' meno serie.
E quindi invidie, macchinazioni, beffe crudeli, bullismo...
- No, anzi, è così adorabile che l'aiutano a truccarsi.
Ma insomma che lavoro fa?
- Commessa ai grandi magazzini.
Vessata dalla caporeparto!
- No, anche lei è una brava persona che le dà ottimi consigli. 
A che punto del film saremmo?
- Più o meno quaranta minuti.
E non è ancora successo niente.
- Come fai a dire che non è ancora successo niente? (continua su +eventi!)

- Come fai a dire che non è ancora successo niente? Ha attraversato l'oceano, ha cambiato casa e lavoro, e ora si strugge di solitudine...
Tenta il suicidio?
- No.
E allora come supera questa crisi?
- Incontra un ragazzo.
Un amore impossibile!
- No, anzi, sono tutti contenti che si mettano assieme. Anche se lui, beh...
Lui ha qualcosa che non va!
- È italiano.
Finalmente! E quindi l'incomprensione, il conflitto tra le comunità!
- Manco per niente.
Manco per niente?
- A casa di lui sono tutti molto gentili, appena il fratellino piccolo prova a dire qualcosa sui poliziotti irlandesi si becca una tirata d'orecchi.
E quindi insomma si fidanzano.
- Qualcosa di più.
Sesso? C'è una scena di sesso!
 - Sì, però... americana.
Cioè lo fanno vestiti.
- Naturalmente, e inoltra considera che a quel punto è passata un'ora e questi due tizi ormai li consideri davvero i tuoi nonni, sono goffi come dovevano essere i tuoi nonni da giovani, per cui quando iniziano a baciarsi, insomma...
Ti senti come se si baciassero i tuoi nonni.
- Proprio così.
Lo sai che in quell'altro film c'è anche Wonder Woman? Io non l'ho mai visto un film con Wonder Woman.
- Perché non hanno mai avuto il coraggio di farli, è un personaggio ridicolo.
Non è vero, ha una storia femminista interessantissima.
- Tu andrai a vedere un bel film sull'emigrazione irlandese, con Saoirse Ronan.
Non dico che non mi piacerebbe, e ho una sfrenata ammirazione per Saoirse, sin da quando era praticamente illegale nutrirla, però... di solito nei film le succedevano delle cose.
- Anche in questo film succedono cose.
Cose da film, intendo. Tipo che la uccidono, o la allevano come un'assassina... ma un film in cui emigra e si fidanza, insomma, dov'è il conflitto?
- Se hai pazienza c'è anche in questo film, il conflitto.
Oh bene, quanto bisogna aspettare?
- Un'oretta e un quarto.
Ma sant'iddio.
- È un film di una delicatezza straordinaria. 
Ah, ecco, è "delicato".
Hai qualcosa contro i film delicati?
È quella cosa che dici alla tua ragazza quando t'invita la prima volta e si scorda di salare la pasta... le dici che cucina "delicato".
Il romanticismo della working class, stretto tra i senso del pudore e la paura di morire zitelle. Saoirse si sarebbe anche meritata l'oscar.
E invece ha vinto quella chiusa in una stanza per sette anni.
- Sfortuna.
Scommetto che se chiudevamo Saoirse in una stanza per sette anni era ancora più brava.
- È probabile.
Cioè che razza di spreco è avere Saoirse a disposizione e non infliggerle qualche sfiga tremenda? Senti, non dirmi tutta la trama. Dimmi soltanto qual è la cosa peggiore che le capita in questo film.
- A un certo punto deve vomitare ma il bagno del transatlantico è bloccato, così...
Così?
- La fa in un secchio.
Caspita.
- Lo stesso secchio in cui aveva fatto i suoi bisogni. 
Ritiro tutto, dev'essere un film struggente.
- Vai a vederlo?
Mi leggo ancora cinque o sei stroncature di Superman, poi decido.
- Guarda che è un bel film, davvero. Fotografia straordinaria, un senso dell'inquadratura che...
Ti cala la palpebra mentre lo dici.
- E gli accenti sono fenomenali. L'inglese irish, l'italoamericano... un contrasto fantastico.
Al cinema lo fanno doppiato.
- Già, dimenticavo. 
Quanto dura?
- Cento minuti. 
Va bene, adesso ci penso. Dove lo danno?
- Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e alle 22:35.
E poi?
- Basta.
Tutto qui?
- Quindi meglio affrettarsi, no?
Nel frattempo, Buona Pasqua a tutti.
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Volevi vedere la frontiera?

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Stasera alle 21:10 su SkyTg24 (in chiaro sul 27 del digitale terrestre) passerà la seconda puntata di Cronache di Frontiera, "una narrazione in presa diretta, senza alcuna intermediazione giornalistica o documentaristica, della vita in una periferia romana, particolare per le sue peculiarità, ma in realtà uguale per tensioni sociali e paure a quella di molte altre città italiane". Così la cartella stampa.

Per me si tratta semplicemente di un bel documentario su una periferia un po' meno disagiata e stereotipata del solito, girato la scorsa primavera e montato con una dovizia di mezzi che ormai è merce rara (con tutto il rispetto per Zoro e per i reportage che riesce a mettere assieme con una handycam). C'è la questione della immigrazione in quasi tutte le sue sfaccettature: la mancata integrazione, la concorrenza sleale, la xenofobia che ne deriva, i problemi della seconda generazione, e altre cose che ancora non si sono viste - ma fin qui promette davvero bene. La prima puntata si può vedere qui: alcuni dei personaggi dovrebbero tornare nelle prossime tre (ci spero parecchio perché alla fine non ce n'è uno che non muova a simpatia). Se i talk vi hanno un po' stancato, e vi punge la curiosità di sapere cos'è questa realtà di cui tutti parlano - Cronache di Frontiera mi sembra un buon punto di partenza. Canale 27.

(Sì, sarebbe una di quelle cose per cui si dovrebbe pagare il canone).
(Invece offre Sky).
(Il canone poi saranno 8€ al mese; è pure sceso dall'anno scorso. Facciamo che ci lamentiamo di cose più interessanti).
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Il bambino ben vestito e ben nutrito

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Venerdì è stato il giorno in cui abbiamo preso atto che c'è una guerra in Siria e un'emergenza umanitaria intorno al Mediterraneo. Non è che non lo sapessimo già: non è che la nostra parte razionale non avesse già recepito l'informazione - ma evidentemente non ci bastava. Per rivedere le nostre priorità, per smettere di discutere di crisi delle borse o riapertura delle scuole e del campionato ci serviva qualcosa di più: un campanello, una sveglia, un grido d'aiuto. Qualcosa che forasse l'attenzione. Immagini agghiaccianti ne avevamo già viste parecchie: la foto del bambino siriano ha qualcosa di più. Ciò che ha di veramente spaventoso - e che non si nota se non dopo qualche istante - è la sua familiarità. 'Potrebbe essere uno dei vostri figli', qualcuno ha creduto di dover aggiungere. Non ce n'era veramente bisogno.

Ognuno poi reagisce in modo diverso e devo dire che non vado orgoglioso del modo in cui reagisco io. Tra mettersi a piangere e imprecare contro le guerre e i recinti e chi li ha voluti, e alzare il sopracciglio alla mister Spock c'è tutta una gamma di sfumature che ancora mi sfuggono. Faccio persino fatica a contenere la stizza della mia parte razionale: cioè sul serio la foto di un bambino sulla spiaggia può smuovere popoli e governi che 71 morti asfissiati in un tir avevano lasciato insensibili? Fa così tanta differenza l'età? E che altro conta? L'abbigliamento, il colore della pelle, l'estrazione sociale (il direttore della Stampa si è premurato di definirne lo status "borghese"), la spiaggia sullo sfondo, l'impaginazione? Sono contento che siate in grado di provare emozioni, ma non vi viene il dubbio di provarle un po' a comando?

Mentre mi faccio queste domande, ecco irrompere sulla mia bacheca il commento di un rappresentante dell'UKIP - il partito formato, giova ricordarlo, da ex conservatori britannici fuoriusciti dai vecchi tories perché non abbastanza euroscettici.



"Il bambino siriano era ben vestito e ben nutrito. È morto perché i suoi genitori erano avidi del benessere europeo. Saltare la coda ha i suoi costi".

Questo tweet - quasi subito ritrattato - è nel suo genere un capolavoro. Siamo ben lontani dal provincialismo frustrato e rancoroso di un Salvini. Per distillare un cinismo così distaccato servono secoli di privilegi. Il primo elemento che salta agli occhi è appunto il cinismo. Da cinis, cane. Si contrappone a "umanità". Molti lo considerano una specie di barriera naturale da infrangere con la potenza delle immagini commoventi: io temo che sia una reazione istintiva che molti di noi sviluppano proprio per difendersi da questo tipo di aggressioni.

Ora basta! dissuadiamoli dall'annegare!
Me ne accorgo soprattutto quando vedo i ragazzini a scuola. Di fronte allo spettacolo della violenza umana - di fronte a film o immagini di repertorio agghiaccianti - hanno poche opzioni a disposizione. O piangono, arrendendosi alla pressione sociale di chi ha deciso di proiettare quel film, quel documentario (commuoviti stronzetto! se non piangi per questo, di che pianger suoli?)- o assumono una smorfia tutta speciale, una versione embrionale di quella che poi indosseranno per tutta la vita di fronte a ogni disastro che non li tocca personalmente. Diventano cinici. Magari da grandi leggeranno il Quotidiano Nazionale, che ha la stessa foto del bambino morto del Manifesto, ma è corredata da un editoriale che spiega che ci vogliono più barriere dissuasive. O se studiano un po' di più ci terranno a sfoggiare il Foglio, troppo snob per mostrare la foto, ma anch'esso pronto a fornire la didascalia, sempre la stessa da 15 anni: attacchiamo il medio oriente, esportiamo la democrazia, magari stavolta funzionerà. Il cinismo di questi organi di stampa è proporzionale all'umanità degli altri, al punto che mi domando se non sia la reazione che corrisponde all'azione. Più ci irradiate di foto che fanno piangere, più ci cresce la pancia là dove credevate che avessimo il cuore.

Certo, non riusciremo mai a dire le cose con l'esattezza, con la classe del signor Bucklitsch. Nota anche la sua attenzione al dettaglio, dovuta certamente al fatto di non aver gli occhi intorbidati da inutili lacrime: il bambino veste all'europea. In realtà non ci sono tutti questi argomenti per considerarlo "well clothed" - probabilmente per Bucklitsch l'umanità si divide in persone ben vestite e selvaggi a malapena coperti da stracci.

Però l'annotazione vale più di mille lamentazioni, non solo perché ci ricorda un aspetto importante e controintuitivo dei fenomeni migratori (non coinvolgono solo la fascia più povera, ma spesso la classe media), ma perché arriva al punto: quel bambino ci commuove più di 71 profughi asfissiati, o più degli annegati che in una foto ben più agghiacciante di qualche settimana fa punteggiavano un enorme rettangolo di mare, perché assomiglia ai nostri bambini. Alla fine, se scegli di parlare alla parte emotiva, devi sempre usare i soliti trucchetti, tra cui lo specchio riflesso rimane il migliore. Tutto questo sta succedendo a te. Se non a te, a una copia di te stesso. I bambini, pensa ai tuoi bambini. Sono esattamente le stesse corde che toccano i populisti, e molti di loro le toccano in buona fede proprio come il professore che per farti venire a schifo il nazismo ti mostra Schindler's list.

Io lo proietto volentieri Schindler's list. Lo trovo un gran film: ho la speranza che possa produrre più umanità che cinismo. Ma non ne sono sempre sicuro. Se una foto è davvero riuscita a modificare l'accordo di Dublino, ne sono contento. Ma continuo a domandarmi se l'approccio emotivo non sia più parte del problema che della soluzione. Questa strategia di far finta di niente finché qualcuno non trova la foto giusta, il minimo che posso dire è che mi lascia perplesso.
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Mentre Salvini rifà l'Impero, ti offro un caffè

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Certo, si potrebbe risolvere il problema come dice Salvini: cioè in pratica... sbarcare in Libia, Tunisia, Egitto, e occuparne tutta la regione costiera. L'ultima volta che ci siamo riusciti ci chiamavamo ancora Impero Romano, ma se vi sembra un'alternativa praticabile, perché no.

Oppure potremmo limitarci alla proposta più terra-terra della Santanchè, che in sostanza propone di monitorare la costa africana 24 ore su 24 con aeroplani pronti ad affondare qualsiasi barcone prima che lasci il porto. Toccherà immagino acquistare qualche f35 in più, ma se dite che conviene avrete senz'altro fatto i vostri conti.

http://www.ansa.it
Se invece non ne potete più di ascoltare proposte del genere dal collega, o dall'amico, o dal conoscente al bar o su facebook, c'è una cosa molto semplice e tranquilla che potete fare: lasciatelo parlare e offritegli un caffè. Va bene anche quello alla macchinetta.

Quello a un certo punto dovrà pur smettere di parlare di barconi e invasioni ed Eurabia per accostare al labbro la tazzina: ecco, profittate di quel breve momento per spiegargli quanto gli costava l'operazione Mare Nostrum (quella che ha salvato 160.000 migranti in un anno). Un caffè al mese. Quel caffè.

Che moltiplicato per 38 milioni di contribuenti italiani, per 12 mesi, ha evitato per un anno disgrazie come quella di ieri. Bastava un caffè.

Ma forse conviene mandare gli f35 in rotazione. O rifare l’impero Romano. Lo saprà bene Salvini, avrà fatto i suoi conti.
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Ne uccidiamo più dell'Isis

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È una relativa fortuna che i cristiani d’Africa non abbiano grandi possibilità di accedere alle dichiarazioni di Giorgia Meloni, o agli editoriali del Giornale. In caso contrario avrebbero avuto, almeno fino a ieri, la netta sensazione di essere al centro delle preoccupazioni dei loro correligionari italiani. E in effetti i cristiani africani interessano alla Meloni o a Salvini, ma solo quando muoiono per mano di qualche islamico. Se annegano sono meno interessanti.

Anche la Santanchè: non è che li vuole morti (anche se non le dà certo fastidio che qualcuno lo pensi). Magari è davvero convinta che intercettare i barconi coi caccia costi meno che soccorrerli.

A proposito di massacri. C’è chi sostiene che Stalin e Mao siano da giudicare sullo stesso piano di Hitler: per quanto i loro massacri fossero meno pianificati, e più spesso risultato di negligenza e scarsa organizzazione. Sono d’accordo: tendo a giudicare le persone dai risultati, più che dalle intenzioni. Credo che nel futuro sempre più persone la penseranno come me: e riguardo alle stragi di cristiani intorno al mediterraneo, non faranno tutta questa differenza tra integralismo islamico e xenofobia italiana. Ha ucciso più cristiani Al Qaeda, o la negligenza del ministro Maroni? Più l’Isis, o la decisione di sospendere Mare Nostrum (900 vittime in un solo anno)? La conta dei morti non si potrà mai fare, anche perché il battesimo non lascia segni. Dio magari i suoi li riconosce, ma per il mare sono tutti morti uguali.
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Il piccolo centravanti africano

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(I racconti del mese, settembre)

Non è che gli alunni mi salutino mai troppo volentieri, incrociandomi sul corso; ma è ai primi di settembre che cominciano a nascondersi dietro le colonne, quasi vergognandosi di abbronzature perfette. Hanno un gelato in mano e una ben più fredda consapevolezza sulle spalle: non ce la faranno mai a finire i compiti. Li hanno appena iniziati. Forse non vale neanche la pena di provare. Io faccio finta di niente, e penso che forse era più onesto Mahmadou.

Mahmadou era nero e centravanti prima che fosse cool. Non era esattamente un campione - sgambava tra l'area e il centrocampo in magliette sempre troppo larghe sulle spalle, eredità di un fratello maggiore; aveva fiato e un buon tocco, ma era ancora troppo cucciolo per mettere in soggezione terzini e portiere. Anche i suoi compagni più cari lo chiamavano Mamma, soprannome sommamente infelice a cui si era affezionato. Mamma me lo disse chiaro e tondo, quando in giugno fui per dettare i compiti delle vacanze: non se li sarebbe scritti, un po' perché aveva lasciato a casa il diario, un po' perché dai, non ne valeva la pena; quell'anno andava in vacanza anche lui, e non poteva portarsi i libri giù in Africa.

Obiettai che poteva farne comunque un po' prima di partire; mi spiegò che partiva subito, appena finita la scuola; che non ci sarebbe stato nemmeno il tempo di mandare i genitori a ritirare la pagella, l'aereo si stava già scaldando sulla rampa. Né poteva posporli al ritorno, i compiti, perché sarebbe tornato tardissimo, a settembre inoltrato, se non più in là: non dovevamo però preoccuparci, potevamo benissimo cominciare la scuola senza di lui. Portarsi i compiti giù al villaggio? Fuori discussione: anche se si fosse trovato un posticino in valigia - e non c'era - Mamma mi spiegò che la vita nel villaggio è molto diversa da quella che conduciamo qui: c'è tutta una dimensione comunitaria che purtroppo a noi sfugge, blindati come siamo nelle nostre nicchie alienanti. Una volta arrivato laggiù, Mamma si sarebbe messo immediatamente a giocare a pallone coi suoi amici, perché è così che funziona; e non avrebbe smesso finché l'aereo del ritorno non avesse iniziato le procedure di decollo. Mi spiegò, Mahmadou, che la sola idea di dire ai coetanei: "ora non posso giocare, devo fare i compiti" era da rigettare come un ingenuo cascame del mio colonialismo interiore: in una società rurale africana non ci si può isolare dal gruppo, non si possono fare i compiti. La volontà di isolarsi si trasforma immediatamente in uno stigma sociale, quando non somatizza prendendo le forme di una vera e propria malattia. Davvero volevo renderlo un paria, un lebbroso agli occhi dei suoi fratelli? Non poteva fare i compiti; non dipendeva da lui. Eccetera.

"Ora prendi un foglio e te li scrivi lo stesso".
"Ma prof..."
"Qualcuno ha una penna da prestare a Mahmadou?"

Verso i primi d'agosto ormai l'ordine alfabetico degli alunni è un ricordo lontano, che si infrange tra la lettera G e la L. Per quanto possano riempirmi di vita fino a metà giugno, i loro volti svaporano nel giro di due mesi, e così a momenti non riconobbi Mahmadou, un pomeriggio che passai per l'Africa, diretto alla coop. L'Africa in questione era il parcheggio di un centro direzionale affacciato sull'incrocio: un luogo losco a un'ora dal tramonto, ma ideale per il calcetto, a causa di un materiale gommoso, nero, con cui era stato pavimentato, più morbido del cemento - anche se assorbe il calore del primo pomeriggio come una spugna, e non lo lascia andare fino a mezzanotte. Mamma teneva un Supertele in grembo. Lui e i suoi amici indigeni erano seduti sul muretto che delimitava il continente, a prender fiato: sarebbe stato il momento giusto per un sorso d'acqua o magari un gelato, ma avrebbero dovuto lasciare l'Africa nera, attraversare la strada e aprire una linea di credito col barista cinese.

Mahmadou fu di parola: passò tre mesi interi nella sua Africa di quartiere, senza mai venir meno alle regole non scritte della tribù. A settembre tornò tra noi, senza penna né diario. Com'è andata l'Africa, Mahmadou? Bene, prof, bene. Là è tutto diverso, la vita non stinge sotto la pioggia, né imbrunisce col sole. Ogni cosa ha per sempre quel colore con cui uscì dallo stampo.
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L'amore non è mai stato così blu

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La vita di Adele (Abdellatif Kechiche, 2013; palma d'oro a Cannes).


Un giorno Zeus ed Era stavano litigando su chi traesse più piacere dall'atto sessuale, se l'uomo e la donna, quando ebbero un'idea: chiediamo a Tiresia, è l'unico che possa sapere come stanno le cose davvero, per via dei suoi trascorsi transessuali. Quando uccise una serpentella che copulava col suo partner, lo punimmo rinchiudendolo per sette anni in un corpo femminile: lui lo saprà chi dei due gode di più. E dicci quindi, Tiresia, quale orgasmo hai preferito?

Tiresia non usò mezzi termini: nove decimi dell'orgasmo spettano alla donna, punto. Maledetto Tiresia, hai svelato il nostro segreto! disse Era, e per punizione lo accecò. Così almeno non avrebbe fatto il regista. La vita di Adèle è il terzo film a tema lesbico che guardo in un mese (e non mi sto annoiando). Di tutti è il più sfacciato. Kechiche si è accomodato nell'esile storia a fumetti di Julie Maroh svuotandola dall'interno, suggendola come un'ostrica, senza fingere nessun rispetto per tematiche e personaggi. A capirlo bastano le primissime scene: siamo in un liceo, ragazzi e ragazze ripassano un romanzo di Marivaux che col fumetto non c'entra assolutamente nulla. Ma Kechiche ha già provato con la Schivata a sovrapporre la retorica fiorita del drammaturgo settecentesco francese ai silenzi impacciati dei liceali di banlieue. Marivaux ha scritto il Paesan rifatto, ha composto commedie in cui i servi fingono d'essere i padroni e viceversa; Marivaux racconta di oneste fanciulle di campagna che finiscono in città, abbandonate agli azzardi del caso e dell'amore. Kechiche è un cinquantenne etero il cui amore per la cultura francese è pari soltanto alla sua diffidenza per la spocchia degli ambienti culturali francesi. La fatica di crescere lesbiche nella Lille degli anni Novanta non è che gli interessi più di tanto, e non finge nemmeno d'interessarsene, questo è in fondo apprezzabile: Kechiche lo sa di essere un intruso in una storia che non lo riguarda, e gli piace. Per girare tre o quattro scene di sesso Kechiche reclude per settimane sul set due giovani attrici che all'inizio nemmeno si conoscono, e pretende che si masturbino a comando. La più grandicella è erede di due dinastie di produttori cinematografici francesi. Kechiche è un regista di origine tunisina che si è fatto da solo, e ora sul set ha il corpo di Léa Seydoux a sua disposizione. Se conosci tutti questi dettagli, quando vai a vedere la Vita di Adele hai paura che non riuscirai a seguire la storia, che vedrai il riflesso del rancoroso paesan rifatto Kechiche in ogni occhio lucido d'attrice. Poi si spengono le luci, e scopri che c'è ben altro.

E però se davvero si è letto tutta La vie de Marianne per te,
a prescindere dalla scelta di genere, tu un po' gliela dovresti dare.
C'è che a un certo punto della lavorazione - molto presto - Kechiche deve essersi innamorato della 19enne Adèle Exarchopoulos. Ma parecchio. Una di quelle scuffie totali, che quando vai al liceo hai paura di morire per davvero, e poi per fortuna o disgrazia cresci. Un amore platonico nei limiti in cui può essere platonico il tizio che per mestiere ti ordina di leccare la tua collega su un set. Una passione senza vergogna, questa è la vita di Adèle: un film dove un regista ci mostra due ore e mezza di primi piani di una ragazza e non se ne vergogna. E poi sì, è complicato scoprire di essere lesbiche al liceo, ma... diomio avete visto com'è bella quando sorride? Adesso ve la rimostro. E la famiglia, eh, è un vero problema fare outing in famiglia, perché... ma che mi frega della famiglia, leggetevi il fumetto se vi frega di queste cose, ma guardate quand'è bella quando fa le facce stanche, è stanca perché le faccio rifare le stesse scene per ore e ore, il sindacato degli operatori è incazzatissimo e forse il film non uscirà mai, ma chissenefrega, io amo Adèle Exarchopoulos e credo dobbiate amarla anche voi: etero, gay, uomini, donne, sedetevi in poltrona e assistete all'abbacinante spettacolo di Adèle Exarchopoulos. Ve la faccio vedere che posa nuda. Ve la faccio vedere che fa sesso gay ed etero, il suo personaggio poi sostiene che l'etero le piace meno, ma a voi piacerà. Ve la faccio vedere tirata e nervosa per la festa col terrazzino degli amici intellos della sua fidanzata, gente che fa discorsi cioè troppo colti ("Schiele è morboso preferisco Klimt" "No vaffanculo Klimt è decorativo", e questa è gente che ha fatto l'Accademia di Beaux-Arts, Adèle si sente a disagio perché sa solo Marivaux a memoria). Ve la faccio vedere quando fa la maestra d'asilo, e adesso tenetevi forte, a un certo punto passa in prima elementare e per dettare alla lavagna si mette gli o c c h i a l i , ooooooooh, Adèle, ma sei proprio sicura della tua scelta di genere? Sicura sicura? Non è che semplicemente non hai ancora trovato quello giusto, che ne so, un magrebino che ti faccia ridere?

Il film che ridefinisce il concetto di "ripetizioni di filosofia"
Le lesbiche si sono incazzate? Le lesbiche avrebbero qualche diritto di essere incazzate, questa all'inizio era una storia militante. Julie Maroh ha iniziato a disegnarla a diciannove anni, con tutta l'intensità e l'ingenuità che ci si può mettere a 19 anni. La tragica educazione sentimentale gay è stata completamente colonizzata da un franco-tunisino di successo che continua a sentirsi a disagio quando va ai cocktail. Il deragliamento è così completo che alla fine è spettacolare in quanto tale: non andate a vedere La vita di Adèle per ricavarne informazioni sulla vita o sull'amore delle lesbiche, perché probabilmente esse non vivono né si amano come nel film. Andate a vederlo se vi va di innamorarvi di nuovo della ragazzina nell'ultimo banco in fondo, quella che non avete notato per tre anni e poi improvvisamente esiste solo lei. Andateci per sentire il sale delle sue lacrime su vecchie cicatrici dimenticate. Andateci per passare l'ultima mezz'ora a dirle Adèle, non far cazzate, non sarai mica scema come la protagonista del fumetto? Tu sei in carne e ossa, Adèle, all'amore si sopravvive. Per fortuna, o per disgrazia. La vita di Adele è al Fiamma di Cuneo alle 21. Dura tre ore; è vietato ai minori di 14 anni.
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A cosa serve lasciarvi morire

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Il reato di clandestinità a qualcosa serve. Non a eliminare i clandestini (anzi li aumenta), non a risolvere la complicata situazioni delle carceri (che anzi stanno scoppiando, e che hanno attirato l'attenzione delle Corte europea dei diritti dell'uomo). Non a ridurre la microcriminalità; non a dissuadere profughi provenienti da situazioni comunque più disperate, non a evitare che i trafficanti li stivino sui barconi e li lascino alla deriva; non a salvare vite nel Mediterraneo. Il reato di clandestinità non serve a nulla di tutto questo.

Eppure a qualcosa serve: altrimenti Bossi e Fini non ci avrebbero messo la firma, e oggi Beppe Grillo non lo difenderebbe. Il reato di clandestinità serve a vincere le elezioni.  Grillo è persona abbastanza intelligente e pratica per sapere che la criminalizzazione dei profughi non ha nessun'altra utilità, e molti effetti collaterali. Ma tanto gli basta, evidentemente. Nel suo blog lo ha scritto a chiare lettere: se il M5S avesse in campagna elettorale proposto l'abolizione del reato di clandestinità, "avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico". Più in là Grillo abbozza l'idea che abolirlo equivalga a inviare un invito "a tutti gli emigranti", che come è noto prima di imbarcarsi danno sempre un'occhiata all'evoluzione della legislazione italiana in materia. È una scemenza a cui non crede lui per primo.

(continua sull'Unita.it)

L’unica vera ragione per salvare il reato di clandestinità l’ha scritta sopra: il M5S non vuole percentuali da prefisso telefonico, il M5S vuole anzi fare il pieno di voti, e non può rinunciare a quella ghiotta fetta di consenso che si ottiene cavalcando un po’ di xenofobia. Magari non è giusto, ma è quello che vuole la gente, e Grillo e Casaleggio lo sanno senza bisogno di astruse piattaforme: è il loro intuito politico l’unico “sistema operativo” del M5S, e se si butta un po’ a destra non è per capriccio né per cattiveria: è proprio che per vincere i voti si devono prendere lì. Grillo ce lo ha sempre detto, che se non ci fosse lui ci sarebbe Alba Dorata: dunque ogni tanto gli toccherà abbozzare qualche passo dell’oca; niente di personale, è solo una questione di target. Ah, nel frattempo altri profughi potrebbero annegare a pochi metri delle coste. Diciamo che la loro vita non è una priorità.
La priorità di Grillo, per esempio, è vincere le prossime elezioni, costi quel che costi. È una notizia; quando mandò a monte la trattativa col PD sembrava rassegnato a una lunga traversata nel deserto. Adesso invece ha fretta, ed è disposto a compromessi che fino a qualche tempo fa lo avrebbero fatto pubblicamente inorridire: difendere la Bossi-Fini, mantenere il sistema elettorale che ha sempre voluto modificare, ignorare la tragedia delle carceri italiane che tempo fa denunciava. Il fine giustificherà tutti questi mezzi? http://leonardo.blogspot

(Questo è il duecentesimo pezzo che scrivo per l'Unità. Niente, così, giusto per dirvelo. Il mondo non sembra molto migliorato in questi quattro anni. Magari è solo una coincidenza).
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Sartori e i suoi negri

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A quanto pare Giovanni Sartori si è molto arrabbiato col Corriere che ha pubblicato un suo editoriale, piuttosto critico sul ministro Kyenge, a destra e non a sinistra in prima pagina. Pare che la cosa faccia una certa differenza, presso il popolo dei lettori del Corriere di carta. Sartori perlomeno ci tiene ancora molto: dice che non gli hanno fatto uno sgarbo simile in cinquant'anni. Per quanto questa arrabbiatura possa sembrare assurda, io credo che un osservatore spassionato dovrebbe sforzarsi di capire le persone che provengono da una cultura diversa, anche in via d'estinzione, come quella dei lettori del Corriere di carta. Senza questo tipo di comprensione non v'è tolleranza, e senza tolleranza si sa dove andiamo tutti a finire, per cui desidero esprimere la solidarietà a Giovanni Sartori e invitare la maestranze del Corriere di carta a non pubblicargli più gli articoli nei posti sbagliati. O al limite a non pubblicarglieli proprio, specie quando sono inferiori al suo non mediocre standard.

In effetti, era così difficile rimandare il pezzo al mittente, magari con un invito cortese a licenziare il ghostwriter, o, come lo si chiamava ai suoi tempi, il "negro"? Quell'articolo è una cosa avvilente, che offende per primo l'autore che lo firma, e che andrebbe protetto da un abuso così sconsiderato del proprio cognome. Sartori ce l'ha col ministro Kyenge, va bene; la definisce "nera" tra incomprensibili virgolette, manco fosse una brutta parola o una misteriosa citazione; a parte questo, l'estensore dell'articolo chiaramente non sa molto di Cécile Kyenge; se ha letto la sua biografia si è fermato ai titoli di studio.

"Nata in Congo, si è laureata in Italia in medicina e si è specializzata in oculistica. Cosa ne sa di «integrazione», di ius soli e correlativamente di ius sanguinis? Dubito molto che abbia letto il mio libro Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei"

Il libro in questione, aggiungo io, è di tredici anni fa e su internette lo trovate a meno di otto euro, affrettatevi. Siamo evidentemente ai limiti dell'autoparodia... (continua sull'Unità, h1t#183)

Siamo evidentemente ai limiti dell’autoparodia e Sartori non se la merita: non ha bisogno di farsi le marchette da solo ed è troppo esperto di mondo per non sapere che i titoli di studio non riassumono le esperienze di vita. Una rapidissima occhiata a wikipedia avrebbe aiutato a farsi un’idea più solida su chi sia la Kyenge e su cosa abbia fatto negli ultimi dieci anni nel campo dell’integrazione: da attivista politica, non da ‘tecnica’, una differenza che Sartori o i suoi uomini di fatica sembrano non saper cogliere – così come non sembrano aver chiaro in cosa consistano le proposte della Kyenge, che non ha mai parlato di ius soli puro. Lo ha ribadito più volte: non è favore di uno ius soli puro. Chissà, forse scrivendolo molto in grosso, per chi comincia ad avere problemi di vista e non va per questo escluso dal dibattito (ci vuole tolleranza):

Cécile Kyenge non vuole applicare lo ius soli puro.


è più chiaro adesso?


Tutto il pezzo del resto sembra scritto, più che da un ghostwriter, da un nemico del professor Sartori deciso a fargli recitare la parte del vecchietto bilioso e fuori del mondo, intento a distruggere improbabili feticci (“il terzomondialismo imperante”?) con vertici di comicità che è difficile immaginare involontaria. Sul serio il prof. Sartori può abbassarsi a scrivere “se lo Stato le dà i soldi si compri un dizionarietto”? Sul serio l’autore del fondamentale saggio Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei – € 6,27 (Prezzo di copertina € 13,94 Risparmio € 7,67) può condensare tutte le sue assorte riflessioni sull’argomento nella massima popolare “mogli e buoi dei Paesi tuoi”? Caro autore dell’articolo di Sartori, sul serio: mogli e buoi? Scrivi che l’Italia non è un Paese meticcio; se ne può discutere, ma da quand’è che non entri in una scuola, una fabbrichetta, un bar? Magari per guardare una partita della nazionale? “Quanti sono gli immigrati che battono le strade e che le rendono pericolose?” Più o meno quanti sarebbero gli italiani che le batterebbero al loro posto, visto che la microcriminalità non è particolarmente aumentata. Ostenti disprezzo per “i negozietti da quattro soldi”: è evidente che non hai mai avuto bisogno di fare una spesa rapida sotto casa in certi quartieri; però la libera impresa consiste anche in questo, in migliaia di negozi da quattro soldi con i quali migliaia di famiglie mantengono i figli, provano a far girare l’economia, eccetera. L’Italia non è un Paese sottopopolato, scrivi: magari un occhio alla piramide demografica?
E poi c’è l’India. Non è neanche la prima volta. Evidentemente c’è un collaboratore del prof. Sartori che ha particolarmente a cuore l’India, e cerca di infilarla un po’ in ogni discussione. Con esiti che non sono all’altezza del lato sinistro del Corriere, ma siamo sinceri: anche sul lato destro lasciano perplessi. Sono passati tre anni da quel memorabile fondo che definiva gli indiani «indigeni» come “buddisti e quindi paciosi, pacifici”; in seguito lo studente deve essersi preso una tirata d’orecchi e si è impegnato: ma i risultati sono ancora molto al di sotto della sufficienza. Si continua a considerare il Pakistan una “creazione” britannica: un’idea un po’ eurocentrica, ai limiti della nostalgia coloniale. Alla “signora ministra” viene impartita una mini-lezione sul sultanato di Delhi e sull’impero Moghul: “All’ingrosso, circa un millennio di importante presenza e di dominio islamico”. Prendiamola come un’ammissione: tre anni fa avevamo letto su un fondo firmato da Sartori che in India “le armate di Allah si affacciarono agli inizi del 1500″. Ok, non è mai tardi per correggersi, ma il senso adesso qual è? Siccome un millennio di dominazione islamica in una società rurale e castale non ha (non sorprendentemente) portato all’integrazione, ne deduciamo che l’integrazione è impossibile in Italia ora? Tanto vale rinunciare alla democrazia, visto che nel medioevo non siamo riusciti ad averne una. Qui non è solo una questione di nozioni; nessuna persona con una media cultura in Italia potrebbe scrivere una sciocchezza del genere. Viene il sospetto che Sartori stia delocalizzando i suoi collaboratori un po’ troppo. http://leonardo.blogspot.com
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Bastardi senza Loria

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Io ho avuto tante fortune nella vita, e una è questa: a un certo punto nella mia città, che è minuscola, è spuntata una delle biblioteche più belle d’Italia. Proprio nel centro pedonale, in una ex scuola elementare, ex fabbrica del truciolo, rimessa a nuovo e rivestita di dischi, videocassette, dvd, postazioni internet, e soprattutto libri… Però se vi dico che è bella, non è tanto ai libri che penso. Ci sono senz’altro biblioteche con più libri, ma non importa: basta avere un prestito interbibliotecario che funziona, dei bibliotecari che sanno il loro mestiere, e ogni biblioteca diventa quella di Babele. Ne ho viste di più grandi in città grandi, di più fornite in città universitarie, ma il mio è un centro piccolissimo senza università – anche se ce ne sono quattro tutt’intorno. Quello che fa della nostra biblioteca una delle più belle d’Italia è il suo pubblico.

Studenti, pensionati, lavoratori, stranieri, nella nostra biblioteca vengono tutti: è il luogo più condiviso di tutta la mia città. La varietà di persone che ci trovi dentro non la vedi da nessun’altra parte: né in parrocchia, né in palestra, nemmeno al pronto soccorso. Forse a scuola, tra i bambini, ma gli adulti anche in piazza si tengono separati, ognuno nel suo capannello. La biblioteca è l’unico posto in cui tutti troviamo qualcosa che ci serve, la dimostrazione più bella di cos’è la cultura: non un castello che svetta nelle tenebre dell’ignoranza, ma il posto dove puoi entrare per guardare un film comico in lingua originale, e scoprire a pochi metri un romanzo di cui non avevi mai sentito parlare, un disco di Beyoncé, una fuga di Bach. Le persone che vengono qui anche alla domenica, dove sarebbero altrimenti? Allo stadio, al cinema, in un internet point? Probabilmente non rischierebbero mai di incontrarsi. Qui il rischio c’è, tutti i giorni, ed è fantastico.

Io ho avuto gran fortuna nella vita, ma forse non me la meritavo... (continua sull'Unita.it, H1t#114).

Io ho avuto gran fortuna nella vita, ma forse non me la meritavo. Ho avuto una biblioteca meravigliosa a pochi passi da casa, e adesso sto qui a guardare mentre va in malora. Lo stesso Comune che ha deciso di aprirla, investendoci cinque milioni appena cinque anni fa, sta per lasciare a casa i 17 dipendenti che l’hanno fatta funzionare fin qui. La cosa che fa più rabbia è che non lo si può nemmeno chiamare licenziamento, perché i 17 non erano dipendenti, bensì “soci” di una cooperativa che aveva vinto già due appalti. Erano persone capaci, selezionate in base al loro profilo professionale: per diventare “socie” avevano dovuto superare la scrematura di un esame. Hanno gestito una situazione non facile, hanno lavorato per sette euro e mezzo all’ora anche il sabato e la domenica senza straordinari, dal momento che il loro contratto non ne prevedeva. Quando nel 2010 il Comune ha iniziato a ridurre l’orario, con la chiusura del lunedì, loro hanno continuato a darci dentro e il servizio è rimasto agli stessi livelli. E dal primo aprile se ne staranno a casa. Pessimo scherzo, ma com’è potuto succedere?
L’impressione è che al Comune non si siano tutti resi conto che non rinnovare una convenzione equivale a licenziare un personale molto qualificato: in fondo il contratto multi-servizi che si fa con le cooperative è lo stesso con cui si gestiscono le pulizie. Qualcuno ai piani alti era convinto che fossero ventenni, belli giovani e (dal primo aprile) disoccupati: gente che al posto fisso non ci tiene, se non c’è più posto tra gli scaffali si può sempre trovarne in un fastfood. E invece molti sono laureati, sopra la trentina, con famiglie a carico, e mutui accesi, eccetera eccetera. Quando dico che la nostra biblioteca è la più bella d’Italia, mi riferisco anche a loro, che riuscivano a portarti sempre tutto quello che cercavi, anche se era in deposito e altrove ti avrebbero detto di ripassare tra qualche ora, o il giorno dopo. Questo era fondamentale, in una biblioteca bella ma piccola, con poco spazio per gli scaffali: erano loro i nostri scaffali viventi, e senza di loro difficilmente la biblioteca funzionerà.
Al Comune dicono che saranno sostituiti da sei dipendenti che vengono da altri settori, e che il servizio continuerà allo stesso livello. Faccio i miei auguri a chi arriverà dal primo aprile, ma posso essere scettico? Non credo che potranno affrontare la stessa mole di lavoro che oggi gestivano in diciassette. Ma il Comune da qualche parte deve stringere – il solito problema – e forse la biblioteca non è così strategica dopotutto: tanto più che forse la nostra squadra di calcio sarà promossa, e quindi bisognerà rifare lo stadio. Ma il pubblico mescolato che popolava la nostra biblioteca, uomini donne e bambini, italiani e stranieri, studenti e lavoratori… chissà se allo stadio alla domenica ci va. Probabilmente molti torneranno ai loro capannelli, o se ne staranno ognuno a casa propria, senza più il rischio d’incontrarsi e magari qualche volta di piacersi.
Ultimi dettagli, di non ultima importanza: il mio Comune si chiama Carpi (MO), la biblioteca multimediale si chiama Arturo Loria, la giunta che ha preso queste decisioni è di centrosinistra. Lo è sempre stata, ma questo alla fine non è che cambi molto la questione. La metto giù semplice: per me è di sinistra chi fa cose di sinistra, e il primo esempio che mi viene in mente è una biblioteca bellissima che forse tra un mese non funzionerà più, dove la cultura non si vergognava di essere una cosa popolare.http://leonardo.blogspot.com
(Su esuberanti.altervista.org si trovano tutte le informazioni aggiornate giorno per sul caso della Biblioteca Loria di Carpi, con una rassegna stampa curata dai bibliotecari. Si può anche firmare la petizione in loro sostegno. Della biblioteca dovrebbe parlare anche la puntata di domani di Ballarò).
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Non siete Angeli

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Lo spieghi a Mohammed.

Cardinale Bagnasco, lei senz'altro in quanto presidente della Conferenza Episcopale Italiana ha tutto il diritto di dire quel che vuole, e quel diritto nessuno glielo contesta; però ha anche il diritto di prendermi in giro? Secondo me no. E allora perché ha detto a Cazzullo che la Chiesa paga l'ICI, quando chiunque può dare un'occhiata e capire che non è vero? Non è vero; possiamo discutere all'infinito se sia giusto o no, ma non è vero: la Chiesa non paga l'ICI sui seminari; sulle scuole private; sulle sale parrocchiali; sulle residenze dei preti, che sono lavoratori italiani quanto me: ma io la pagherò, loro no. Sbagliate o giuste che siano, le cose stanno così, e lei non dovrebbe dire a Cazzullo che stanno diversamente. (E Cazzullo dovrebbe essere il primo a farglielo presente, ma lasciamo stare per adesso Cazzullo).

Lei poi cardinale può parlare finché vuole di solidarietà: può ripetere all'infinito che i soldi che non paga allo Stato li dà ai poveri direttamente, e le mense della Caritas e tutto il resto. Può riempirsi la bocca un altro po' di quella splendida parola-libera-tutti, sussidarietà: dove lo Stato non arriva (perché non ha i soldi) ci arriva la scuola dei preti (coi soldi che prende allo Stato), l'oratorio dei preti, financo la piscina dei preti. Me lo può dire perché mi chiamo Leonardo, e quindi è previsto che me la beva.

Allora facciamo che stasera non mi chiamo più Leonardo. Stasera mi chiamo Mohammed. Ecco, lo spieghi a me che mi chiamo Mohammed, che se nel quartiere non c'è una scuola pubblica decente posso mandare mio figli alla scuola dei preti, coraggio, mi dica così. Tanto è noto che la percentuale dei bambini musulmani nelle scuole paritarie è uguale a quella nelle scuole pubbliche, no? Mi dica che al pomeriggio, quando io sono al lavoro e mia moglie pure, e mio figlio rischia di entrare nella compagnia del parchetto che negli ultimi anni ha formato i più professionali spacciatori del quartiere, ecco: mi dica che invece al pomeriggio posso portarlo in Parrocchia, all'oratorio, agli scout; che sono senz'altro aconfessionali o interconfessionali, vero? Mi dica che non c'è problema, che potrà andare in gita a Roma o a Loreto con tutti i suoi amici del corso chierichetti. Mi dica che anch'io, se voglio venire la sera al circolo Acli, sono ben accetto; che c'è una stanza per non bevitori, magari c'è anche un posto per pregare, visto che sì, in teoria anche una Moschea non pagherebbe l'ICI, ma in pratica non ce la fanno costruire, e quindi... insomma, cardinale, mi dica che nell'Italia multietnica di oggi la Chiesa ha deciso di diventare sussidiaria anche nei confronti delle necessità sociali espresse da comunità religiose non cattoliche, e quindi ad essa concorrenti. Me lo dica. A me che mi chiamo Mohammed. E cerchi di restare serio, mentre me lo dice.

Allora Cardinale, comincia a capire perché è ingiusto che le sue scuole, i suoi oratori, le sue polisportive, i suoi seminari non paghino l'ICI? Che non siamo più negli anni Settanta, non possiamo più demandare a un ente confessionale servizi a cui hanno diritto anche persone non battezzate? Lei sostiene che quello che la Chiesa non paga, lo reinveste in solidarietà. Non vede, o finge di non vedere, che nelle città più grandi e nei piccoli paesi questa solidarietà sta alzando uno steccato tra chi ha un certificato di battesimo e chi non ce l'ha. Lo so anch'io che alla mensa dei poveri non guardate chi è cristiano. Già all'asilo parrocchiale però le cose vanno un po' diversamente, vero? E d'altro canto voi le suorine le dovete far lavorare; però io se mi chiamo Mohammed non ho tutta questa voglia di lasciare mio figlio alle suorine, è colpa mia? Pago le tasse, compresa l'ICI: non ho diritto a una scuola pubblica senza suorine che, francamente con quella testa coperta, possono anche farmi un po' paura? Eh sì, cardinale Bagnasco. Metta che io me ne sia andato dal Marocco proprio perché questa cosa delle donne coperte non mi andava più giù.

Cardinale, per carità, lei fa il suo mestiere: è ovvio che tiri a pagare il meno possibile. Però certe storielle per favore, non me le racconti più. Ormai qui siamo alla seconda generazione di immigrati, e lei sa benissimo cosa vuol dire. La partita vera ce la giochiamo adesso. O riusciamo a integrare i figli degli immigrati, di qualsiasi origine o fede religiosa, oppure andremo avanti a compartimenti stagni: con interi quartieri senza polisportive, senza doposcuola pomeridiani, senza nulla che non sia la piccola camorra del parchetto. Abbiamo bisogno di centri sociali veri, come in Francia: abbiamo bisogno che “centro sociale” non sia più sinonimo di casa occupata da militanti extraparlamentari, ma sia il punto di riferimento della vita giovanile di un quartiere: un centro interconfessionale dove un ragazzino di qualsiasi fede può venire al pomeriggio a fare i compiti, o palestra, o a fare musica, o a leggersi un libro. Abbiamo bisogno di un servizio come questo e no, non possiamo più far finta che l'oratorio parrocchiale vada comunque bene. Non è più sussidiarietà questa, è una truffa. Non possiamo obbligare un contribuente musulmano a mandarci i suoi figli, e non possiamo obbligare un prete cattolico ad accettarli. A scuola non possiamo più avere classi con dieci alunni stranieri nello stesso quartiere dove c'è una scuola cattolica dove sono tutti italiani (e pagano). Si strappa il tessuto sociale, così. E non è una cosa che possano ricucire le dame dell'Unitalsi.

Cardinale, molli l'osso. Dia a Cesare quello che a Cesare spetta: tocca a lui finanziare terme e ginnasi in perdita, non a voi. Si ricordi che ogni bugia smaccata che racconta ai suoi cazzulli, sono altri mille o diecimila buoni cristiani che si segnano di devolvere l'otto per mille ai Valdesi. Faccia i suoi conti, e non ci dica più bugie.
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Povera piccola infanticida

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Aborto aborto, sentimento e ipocrisia... 

In questi giorni sono successe tante cose incredibili, tra cui una che può essere passata inosservata: il direttore della rivista della diocesi di Trento, Marco Zeni, ha dichiarato di comprendere la decisione di una sedicenne che (su pressante invito dei genitori) ha interrotto una gravidanza. E non parlava a titolo personale: parlava per conto della Chiesa, con la C. “La Chiesa non può certo dichiararsi a favore dell'aborto, ma capiamo le difficoltà della famiglia”. A meno che Zeni sappia cose che noi ignoriamo, le difficoltà della famiglia consistono in un fidanzato albanese geloso e manesco.

Io la posizione dei cattolici sull'aborto la capisco. Non la condivido, ma la posso capire, se non altro perché è piuttosto chiara. Per i cattolici la vita comincia dal concepimento: questo non so se si possa considerare un dogma, ma possiamo tranquillamente definirlo un postulato, nel senso che la morale cattolica di oggi si fonda su questo assunto, non dimostrabile e non discutibile: dal concepimento in poi la madre non è sola, c'è un altro individuo con lei che ha gli stessi diritti che ha lei.

Quindi se lei decide di interrompere la gravidanza commette un infanticidio, punto. Il fidanzato manesco e geloso lo puoi lasciare, ma da che pulpito lo giudichi, se nel frattempo mediti di far fuori un bambino? È una posizione che ha almeno il pregio della chiarezza. Puoi contestarla, ma probabilmente stai semplicemente affermando che non condividi un postulato (la vita inizia dal concepimento) partendo da un altro postulato (la vita inizia qualche tempo dopo il concepimento, forse tre mesi, forse boh). Per inciso, io sono convinto che tutti i sistemi morali partano da assunti arbitrari, ma sono sicuro che non v'interessi una mia lunga dissertazione sull'argomento. Stasera a dire il vero non appassiona nemmeno me. Stasera sono solo curioso di capire come sia possibile che il portavoce di un prestigioso vescovado abbia dichiarato di poter capire le ragioni di un'interruzione volontaria di gravidanza. Capire un infanticidio? Al massimo si può perdonare, per esempio a Giuliano Ferrara gliene sono stati perdonati almeno tre; ma bisogna che prima il soggetto si penta.

Ho due ipotesi. La prima è che sotto sotto Zeni, e tutto il mondo intorno a Zeni, non ci creda per davvero, in questa storia della vita a partire dal concepimento. Non è vero che sia un postulato incrollabile; è solo la conseguenza un po' maldestra di un'ideologia che parte da altre premesse. Dalla determinazione della Chiesa a mettersi al centro della cura del corpo, soprattutto: per cui la cosa davvero importante non è che i poveri embrioni abbiano salva la vita, ma che la Chiesa sia consultata sull'argomento, che la Chiesa abbia voce in capitolo. Il vero scandalo della 194 non sta nel fatto che una ragazza possa abortire – come se non fosse mai successo – ma che possa farlo senza chiedere il permesso a un prete, che se magari è in buona, se conosce la situazione... ti può anche capire, via, lo sa anche lui come va il mondo, no? Insomma, tutta questa recentissima dottrina della sacralità della vita dell'embrione potrebbe essere semplicemente una reazione nervosa degli ecclesiastici al fatto di essersi trovati messi in un angolo dalla medicina e dalla cultura laica. Sta bene, però scegliete: o vi tenete la vostra rigida, arbitraria ma chiarissima legge morale, oppure mettete la maschera del padre comprensivo. Ma tutti e due no: non potete gridare 'infanticida!' e poi soggiungere 'povera ragazza'. O è povera o è infanticida, tertium non datur.

La seconda ipotesi mi è venuta molto più grezza: a sentire Zeni sembra che per la Chiesa di Trento nulla sia peggio dell'aborto, tranne una cosa, una sola cosa di fronte alla quale l'interruzione di gravidanza è un male minore: e che questa cosa sia dar figli a un albanese. Decidete voi.
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Vota Chtulhu

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La badante e i professori
Anch'io sono tra quelli che hanno trovato sconvolgente l'articolo del Corriere in cui Federico Fubini e Danilo Taino hanno proposto di far votare i genitori anche per i loro figli, o di “rafforzare” il voto dei giovani (“permettiamo che quella di un ventenne conti magari 1,2, e di un trentenne almeno 1,1)”. Ma non per il crimine di lesa democrazia, che i due praticano solo a livello teorico (c'è gente che infierisce sulla moribonda con coltelli molto meno metaforici). Non sono un feticista della democrazia: è un sistema, ha i suoi difetti. Da nessuna parte è scritto che una maggioranza sappia individuare i problemi prioritari e risolverli meglio di una minoranza.

Certo, in generale è lecito pensare che ognuno capisca ciò che è bene per sé, e che quindi una maggioranza sappia agire perlomeno per il bene della maggioranza: e tuttavia questa, come tante altre belle e semplici idee occidentali, ha il difetto non piccolo di funzionare soltanto postulando uno sviluppo illimitato e risorse altrettanto illimitate. Così in certe brutte giornate mi sorprendo a pensare che la democrazia sia la principale colpevole del riscaldamento globale: è solo Lei ad avere concreta necessità di massificare il benessere, e a distribuire alla maggioranza luce acqua gas e benzina: se avessero vinto i nazisti probabilmente avrebbero schiavizzato la maggioranza della popolazione mondiale, con una conseguente contrazione dei consumi, della concorrenza e della produzione: oggi saremmo magari due o tre miliardi in meno e non ci sarebbe tutto questo inquinamento (non ci sarei però nemmeno io, quindi preferisco tenermi l'inquinamento).

Così, man mano che l'umanità procede verso la catastrofe (e io spero di sbagliarmi, ma sono sempre di quella generazione che a scuola si è vista The Day After, io sin da cucciolo sono stato addestrato a puntare il naso al primo vago lezzo di catastrofe) trovo inevitabile che la democrazia venga messa in discussione, e si richiamino i “tecnici”, di cui finalmente saggeremo la tecnica. Se poi parliamo di Monti, egli è ancora molto lontano dalla mia idea di cavaliere dell'Apocalisse; però per esempio non credo che la Cina diventerà nei tempi brevi una democrazia, e forse nemmeno lo spero: forse l'unica speranza per tutti noi sette miliardi è la politica del figlio unico del governo cinese, ma credo che solo una tirannide tecnocratica possa imporla. Non credo che usciremo democratici dal ventunesimo secolo (la maggior parte di noi non ne uscirà comunque, certo): perlomeno chi avrà la dubbia fortuna di discendere da noi non manterrà questa fiducia acritica nella democrazia, che è un sistema fantastico quando devi amministrare un'economia in espansione, non quando devi razionare acqua e benzina. Queste cose avrei potuto scriverle in qualsiasi momento degli ultimi dieci anni, ma forse non avevo il coraggio.

Poi negli ultimi giorni improvvisamente la democrazia è stata messa in discussione da Gramellini sulla Stampa, e ora da due prestigiosi studiosi sul Corriere. Cosa sta succedendo? Credo sia un banale effetto ottico del crepuscolo del berlusconismo (per quanto illusorio che sia): è giunto il momento delle monetine e tutti si domandano com'è possibile che ci siamo tenuti un tipo del genere per diciassette anni – che razza di sistema politico sia quello che consente a un pagliaccio simile di governare, o meglio, di impedire a qualche altra persona seria di farlo? Si chiama democrazia? Deve avere qualche grosso difetto.

E in effetti ne ha, e sopra ho descritto quello che ritengo il peggiore: la democrazia persegue il bene dei più, fino a esaurimento delle risorse e conseguenti probabili catastrofi. Però Berlusconi non è un difetto della democrazia, così come un baro non è un difetto del poker: è uno che a poker non ci deve giocare, non dovevamo nemmeno permettergli di sedersi al tavolo. L'antiberlusconismo è tutto qui: ostinarsi a credere che Berlusconi non sia un difetto della democrazia, ma uno che la democrazia l'ha pervertita dal primo istante in cui si è candidato (illegalmente) e le sue emittenze (ammucchiate illegalmente) hanno cominciato a inviarci consigli per le elezioni. L'antiberlusconismo è credere che la maggioranza degli italiani abbia votato Berlusconi non per chissà quale tara antropologica o culturale, ma semplicemente perché è stata truffata da un tizio che non ha rispettato le regole. E se non rispetti le regole, non è più democrazia: neanche se ogni tanto vince Prodi (ma la sua agenda è completamente stravolta da emergenze criminalità create ad arte dai media berlusconiani). Prova ne è che le democrazie cosiddette 'mature' non eleggono gente come Berlusconi. Non è che eleggano sempre fior di statisti, però solo in Thailandia hanno eletto un tizio paragonabile a Berlusconi – anche se là l'alternativa sono i colonnelli, forse lo sosterrei pure io. Anche se i colonnelli non avevano tutti i torti a cercare di estrometterlo. Io almeno la penso così. Perché resto antiberlusconiano.

Ma al Corriere non possono essere antiberlusconiani. Persino qualora ritenessero in cuor loro che Berlusconi sia stato la più grande disgrazia dai tempi della peste del Seicento. Il Corriere deve stare in mezzo, all'intersezione di base e bisettrice – altrimenti non è più Corriere. Se per dire invece di Berlusconi nel '94 fosse sceso in campo Chtulhu, e nel suo programma di governo avesse preteso orge a base di sangue fresco di tot vergini al semestre, Panebianco e Battista nei 17 anni successivi si sarebbero sforzati di trovare il punto medio tra Occhetto e Chtulhu, tra Prodi e Chtulhu, tra Veltroni e Chtulhu, tipo, ok, il secondo è un fetido mostro tentacolare ed evanescente che si nutre di incubi, ma anche la Festa del Cinema di Roma non è che abbia una programmazione così esaltante, ecco, in ciò consiste la medietà del Corriere.

Dal Corriere non è che possano dirci: “Va bene, Berlusconi ci ha fregato, ha abusato di una posizione di mercato dominante assolutamente illegale, auspichiamo che il governo Monti agisca prontamente contro questo trust che è un covo di potere a delinquere”. No. Bisogna dare la colpa agli italiani, perlomeno di quella metà che in qualsiasi momento avrebbe dovuto scegliere di non dar retta a metà delle tv, a metà dei giornali (ed è ovviamente colpa anche dell'altra metà che doveva fare opposizione in un modo più elegante). Quindi, invece di porsi l'unico problema sensato, ovvero: come sgominiamo una volta per sempre il partito-azienda che persegue gli interessi dell'azienda e non quelli dell'Italia? Quali leggi variamo? Dobbiamo scriverne di nuove o è sufficiente applicare le vecchie? Si può lasciar fare alla giustizia ordinaria o saranno necessarie misure straordinarie (=bomb Cologno)? ...Invece di discutere di tutto questo, ci si pone il problema della democrazia. Forse non funziona, visto che il baro vinceva le partite. Cosa facciamo? Facciamo votare solo quelli che hanno letto un po' di Costituzione (Gramellini)? Oppure diamo i voti calibrati a seconda dell'età (Fubini/Taino)? Così in un colpo solo non ci liberiamo soltanto di Berlusconi, ma di tutte le gerontocrazie, comprese quelle di sinistra che non vogliono mandarci in pensione a settant'anni per dare due spicci di sussidio ai giovani disoccupati.

Però non è questo che trovo sconvolgente dell'articolo di Fubini e Taino. Le loro proposte sono perfino ragionevoli, considerato che stanno infrangendo un tabù. Il punto è che loro partono dal presupposto (vero) che la maggioranza anziana degli italiani continuerà ad avallare politiche anziane, senza capacità né volontà di guardare troppo avanti. Ed è vero che andrà così – se gli italiani continueranno a votare. Ma perché mai dovrebbero votare soltanto gli italiani?

Ecco, la cosa sconvolgente dell'articolo di Fubini e Taino è la rimozione totale del problema numero uno (e della soluzione al problema numero uno): il voto agli stranieri. F&T parlano di un Paese in rapido invecchiamento, e lo siamo – se non contiamo gli stranieri. Se invece li contiamo, scopriamo che tutto sommato la bilancia tiene (terrebbe persino l'Inps). I giovani non sono meno rappresentati perché sono pochi. Sono meno rappresentati perché una parte di loro non ha il diritto di voto. Lavorano, consumano, pagano tasse e contributi, combattono insieme a noi la lotta quotidiana e impari per tenere basso lo spread – ma non votano, non vengono contati. La soluzione proposta da Fubini e Taino è dare un decimo di voto in più ai loro coetanei italiani. Sono due studiosi, hanno fatto una ricerca, si sono messi ad elaborare calcoli, magari simulazioni, e durante tutto questo tempo non gli è venuto in mente che ehi, esistono anche gli stranieri, e sono abbastanza giovani, e lavorano nella stessa nazione che ha il problema dell'innalzamento dell'età media. Magari mentre preparavano il loro articolo un'inserviente etiope stava spolverando gli scaffali, e non l'hanno vista. Troppo concentrati sul loro problema. Eureka, potremmo far votare i sedicenni, purché italiani, purché bianchi. Qualsiasi tabù si può infrangere, anche il suffragio universale, anche la democrazia – ma non penserete mica di far votare la badante moldava? Perché a quel punto forse aspetta, forse facciamo ancora in tempo a richiamare Chtulhu.
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Il patrono dei barbieri è un ne*ro!

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E che nero.


Bidello, scassinatore, guaritore, Martin de Porres è il Santo da invocare quando il vostro barbiere attacca con le sue tirate anti-extracomunitarie e si stava meglio quando si stava peggio signora mia. Occhio che sa volare e moltiplicarsi, insomma se fosse un Pokemon varrebbe tantissimo. Tutto sul Post, che oggi era a terra, scusate.

3 novembre – San Martin de Porres (1579-1639)

Pittore, lascia perdere: angeli neri non ne risultano. La Bibbia non ne parla, lo PseudoDionigi nemmeno... In compenso di Santi neri cominciano a essercene parecchi, e promettono di aumentare man mano che il cattolicesimo diventa una confessione sempre più africana e sudamericana. Ma il primo santo nero cattolico qual è stato? È difficile dire. Se escludiamo i nordafricani (tra i quali pezzi da novanta come Agostino e Antonio Abate), santi diventati neri per errori di traduzione o perché le antiche statue si erano affumicate creando un equivoco,  e gli etiopi che fanno come sempre storia a sé... può darsi che il primo santo cattolico propriamente “nero” sia stato il peruviano San Martin de Porres (mi sbaglio? Bastonatemi nei commenti). Anche se è stato canonizzato solo nel 1962 – nella sua patria però era già adorato in vita. Certo, più che nero era un mulatto, ma chi non è un po' mulatto in Sudamerica? Si sa come la tendenza degli hidalgos spagnoli a partire scapoli e a seminare figli illegittimi un po' dovunque abbia contribuito a rendere il melting pot sudamericano più amalgamato di quello statunitense. Lo stesso Martin era figlio di un pezzo grosso dell'amministrazione coloniale, che lo ebbe dalla sua domestica e ci mise un po' a riconoscerlo – poi comunque partì per Panama dove lo avevano nominato governatore. Martin rimase a Lima e divenne apprendista in una bottega di barbiere-chirurgo: a quel tempo era più o meno lo stesso mestiere e si faceva più o meno con le stesse lame. Per questo Paolo VI lo ha nominato protettore di barbieri e parrucchiere, fatelo presente al vostro coiffeur cattolico la prima volta che attacca una tirata contro i negri: lo sai di che colore è il tuo Santo Protettore?

Non è invece patrono dei chirurghi; eppure Martin fu un grande guaritore, e forse la sua origine mulatta c'entra per qualcosa. In un mondo in cui la medicina si studiava ancora sui testi aristotelici, e dissezionare cadaveri ti portava davanti all'Inquisizione, Martin senza nessun titolo accademico poteva davvero saperne più dei professionisti laureati. Dalla parte materna aveva probabilmente a una tradizione erboristica e autoipnotica africana sconosciuta a latini e indios. Viceversa africani e indios potevano trovare nella sua bottega medicine di origine europea a loro altrimenti precluse. Il suo schermirsi quando i pazienti soddisfatti gridavano al miracolo è un tratto tipico di molti guaritori (anche Gesù nel Vangelo prega gli apostoli che non ne parlino troppo in giro, col bel risultato che sappiamo): può essere cattolicissima modestia, ma anche un modo per conservare certi segreti del mestiere ed evitare magari l'accusa di praticare la magia nera, la magia dei neri.

Del resto Martin aveva un solo sogno nella vita: vestire il saio bianconero dell'ordine domenicano, viaggiare per il mondo e trovare il martirio, magari in Giappone. Morì invece relativamente anziano, senza aver quasi mai lasciato la sua città natale. I domenicani lo accettarono tra loro con qualche difficoltà: è vero che aveva un papà di una certa importanza, ma insomma, come dire, era nero. Per una decina d'anni lo tennero come inserviente: da lì l'iconografia tradizionale del Santo-nero-con-la-ramazza-in-mano, per cui se andate in giro per chiese e volete stupire gli amici, mi raccomando: se ha in mano la spada è San Paolo, se ha in mano la testa mozzata è San Dionigi di Parigi, se ha la testa di cane è San Cristoforo (ne parleremo), se è nero e ha la scopa in mano, beh, andate tranquilli, è Martin de Porres, chi altri?

L'inserviente, o bidello che dir si voglia, è una figura tragica. Spesso ne sa più dei professori, e deve far finta di niente, mentre torce i pugni intorno al manico. Immaginatevi San Martin de Porres, guaritore, in un convento domenicano, durante una pestilenza, con tutti questi frati senza la minima cognizione:
“Ehm, fratello, per lenire il dolore di questo moribondo si potrebbe fargli inalare il fumo di una certa erba medicamentosa che...”
“Zitto tu, bidello negro”.
“Sì, scusa fratello, non intendevo disturbare fratello, c'è qualcosa che posso far...”
“Va' in cucina, chiedi se hanno altre sanguisughe”. (Continua...)


Alla fine i miracoli, la bontà d'animo e magari la tendenza a levitare durante le preghiere finirono per abbattere i pregiudizi razziali: Martin fu ammesso tra i frati nel 1611, dividendosi da quel momento in poi tra l'infermeria e le mense dei poveri. Durante un'epidemia si narra che abbia curato da solo sessanta confratelli: a leggere bene, si capisce che i confratelli erano in quarantena e che nessuno aveva il permesso di toccarli, ma Martin era di quel genere di santi che quando abbraccia i lebbrosi si premura di toccare ben bene le piaghe (a uno si racconta che offrì il suo letto). Altre fonti riportano contrasti con i suoi superiori che pur senza microscopi e manuali di epidemiologia avevano ormai capito (in anticipo su Don Ferrante) quanto toccare i malati fosse controproducente. Di fronte a loro Martin difende il principio della carità cristiana; tanto più che di quel convento era stato inserviente per tanti anni, per cui è plausibile che le serrature non avessero più segreti per lui, come per il dottor Foreman. Insomma, questi sessanta sostengono di essere stati tutti curati da Martin, che si materializzava nelle loro celle senza passare dalla porta. Tutti e sessanta? Ah, ma un altro attributo di San Martin è l'ubiquità – senza spostarsi da Lima fu avvistato in Cina, Algeria, Giappone, Messico...E qui l'avvocato del diavolo che c'è in me sussurra: non è che per i viaggiatori del tempo i neri si assomigliavano un po' tutti, per cui appena ne vedevano uno educato e sorridente lo prendevano per Martin de Porres? Ma persino alcuni schiavi africani dicevano di averlo già incontrato prima di arrivare a Lima.

Adorato da indios, schiavi e viceré, Martin morì a cinquantanove anni. Prima di seppellirlo, tutti gli abitanti di Lima vollero salutarlo, e siccome la santità era ormai data per scontata, molti cercarono per l'occasione di procurarsi una reliquia, strappando via un lembo di quel lurido saio che da anni Martin aveva rifiutato di cambiarsi. Prima della sepoltura il vestito sarebbe miracolosamente ricresciuto tre volte; in questo modo magari si tentava di spiegare l'improbabile quantità di reliquie circolanti a Lima dopo la morte del Santo.

Un'altra immagine ricorrente è San Martin che nutre dallo stesso piatto un cane, un gatto, un canarino e un topo. Martin è l'unione mistica tra padrone e schiavo, predatore e preda. Lui comunque era vegetariano.
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Il Piccolo Opinionista Nero

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La vita non è facile in Italia, quando nasci piccolo e nero. Se poi vuoi fare pure l'opinionista, beh, solidarietà.


Scherzavo. No, nessuna pietà. La leggenda del Piccolo Opinionista Nero è sull'Unita.it, e si commenta ovviamente là. Speriam bene.

C'era una volta, in un Paese di bianchi, un piccolo uomo nero, a cui la sorte non aveva davvero regalato molto. Solo un briciolo di orgoglio, qualche etto di astuzia e tanta, tantissima ambizione. Ma cosa ci fai con l'astuzia e l'ambizione, se ti ritrovi piccolo e nero in un Paese di bianchi? È una vera ingiustizia, pensava il piccolo uomo: in altri Paesi uno come me potrebbe fare perfino il Presidente. Aveva ragione, tra l'altro.

“Usa l'astuzia”, gli diceva il suo demone interiore. “Trasforma la tua debolezza in forza. Tu hai una cosa che i bianchi non hanno, ci hai mai pensato? Tu sei nero”.
“Lo so bene, ed è il motivo per cui mi sputano”.
“Ti sputano perché hanno paura dei neri come te, che sono tantissimi e arrivano da tutte le parti”.
“Ah sì? Non lo sapevo. È orribile!”
“Sì, in effetti non sono proprio tantissimi, e non arrivano proprio da tutte le parti. Però non importa, con la paura non si ragiona. A questo punto arrivi tu”.
“E che ci faccio io?”
“Tu fai il nero buono, il nero che ha studiato, il nero che parla come i bianchi, e li tranquillizzi. Gli spiegherai che i neri sono brava gente, gli racconterai i loro costumi, la loro cultura, la ricchezza dell'Islam”.
“Ma che ne so io, scusa, ho studiato dai salesiani”.
“Vuoi dire che non sei neanche musulmano?”
“Boh”.
“Vabbe', convertiti, insomma, studia, datti da fare. Devi amare un poco i neri per piacere a certi bianchi”.

E il Piccolo Nero si impegnò. Studiò un poco, si mise persino a frequentare le moschee, anche se non è che capisse sempre tutto. Scrisse pagine su pagine, che diventarono libri su libri, in cui spiegava che i neri non erano così cattivi, e quanto fosse difficile fare il nero in un Paese di bianchi, e tutto sommato era sincero. Dai e dai il suo faccino nero e il suo cognome strano cominciarono a comparire sulle pagine dei quotidiani più prestigiosi. Insomma stava filando tutto a gonfie vele, quando accadde che dei neri non proprio tolleranti dirottarono alcuni aerei e abbatterono alcuni grattacieli. Fu un disastro per tutti, e anche per il nostro Piccolo Opinionista Nero.

All'inizio si disse che non sarebbe cambiato niente, anzi, ci sarebbe sempre stato bisogno di una faccia nera sorridente che rassicurava e spiegava ai lettori che non tutti i neri erano cattivi. Però le cose stavano cambiando rapidamente. Ormai in quel Paese i neri erano tanti – non tantissimi in verità, ma si vedevano da lontano, come grani di caffè in una ciotola piena di zucchero. E tanti di questi neri ne sapevano molto più di lui sulla loro cultura e sull'Islam, insomma, non poteva più salire in cattedra impunemente come qualche anno prima. C'erano ancora lettori bianchi che lo stimavano per le cose che aveva scritto in passato, ma ormai i suoi libri li avevano comprati. Invece adesso andavano di moda libri molto diversi, per esempio furoreggiavano le favole di una vecchietta che vedeva neri dappertutto che distruggevano tutte le chiese e i monumenti cristiani. Benché avesse già scritto molti articoli per criticare la vecchietta, il Piccolo Opinionista Nero segretamente la invidiava: lei sì che poteva scrivere qualsiasi puttanata senza fare nessun tipo di ricerca, e il suo bacino di lettori aumentava geometricamente a ogni attentato.

“Non vale, cioè, è troppo facile così! Sarei capace anch'io di scrivere quella robaccia!”
“E perché non lo fai?”, gli chiese il suo demone.
“Ah, rieccoti. Era da un po' che non ti si vedeva in giro”.
“Il buonismo dei tuoi articoli mi annoiava profondamente”.
“Ecco, vedi? Adesso vanno di moda le apocalissi, le lotte di civiltà, di religione, le crociate, tutta quella roba lì”.
“E tu scrivile!”
“Ma non posso! Io sono il nero gentile che scrive di tolleranza, di pace, di multicult...”
“Bla bla bla. Tu sei il piccolo nero a cui nessuno ha mai regalato niente, ricordatelo! E nessuno mai te lo regalerà! Se vuoi il successo, devi prendertelo senza guardare in faccia a nessuno, hai capito? E adesso cos'è, hai paura di una vecchietta? Quanto pensi che durerà? E quando se ne sarà andata, a chi toccherà il suo posto?”
“Non può mica toccare a me, scusa, lei è una crociata e io sono un musulmano”.
“Ah sì, sei un musulmano adesso? Beh, e allora convertiti”.

E fu così che il Piccolo Opinionista Nero si convertì – fu un grande giorno, venne anche il grande capo degli uomini Bianchi in persona, a bagnargli il capo; e per quanto lo chinasse, il Piccolo Opinionista non poté fare a meno di notare che il gran capo non era più alto di lui, né più bello, né più sveglio; era solo nato bianco, tutto qui, che ingiustizia! Ma si poteva rimediare. Ora che era cristiano il Piccolo Opinionista non scorgeva più l'orizzonte delle sue ambizioni. È vero che qualche bianco ancora non si fidava di lui; per ingraziarseli, il Piccolo Op. cominciò a denunciare tutti i neri che aveva conosciuto quando frequentava le moschee: siccome non sempre riusciva a capire cosa dicessero, non c'era il minimo dubbio che stessero complottando contro il Cristianesimo; pianificando di minare qualche sacrestia, avvelenare un battistero, dirottare un campanile... andavano fermati! Il Piccolo Opinionista li fermò. E non si fermò lì. Scrisse libri sulla bellezza del Cristo, che conosceva più o meno come Maometto (poco), e sull'esigenza di difenderlo dai cani infedeli rabbiosi infami, senza fidarsi di chi si riempiva troppo la bocca di paroloni vuoti come Tolleranza Rispetto Multiculturalità Dialogo... 'Non vi fidate, essi mentono! Vogliono soltanto entrare nel vostro giardino, cogliere i fiori che avete coltivato con tanto amore, suggere i vostri frutti, fare quattro tuffi nella vostra piscina, prima di avvelenarla!' così diceva, più o meno, e si stupiva lui stesso di quanto riusciva a essere convincente. Si sentiva persino più sincero di prima; era come se tutta la frustrazione che aveva raccolto nella sua vita si fosse trasformata d'incanto in qualcosa di nobile, di giusto, di puro. E guadagnava un sacco. Cercò anche di entrare in un partito politico, ma gli dissero che era troppo estremista; fu quasi un complimento. Tanto più che in fondo lui non voleva essere secondo a nessuno: così si fondò un partito su misura per lui. Come simbolo prese il crocifisso, tanto non si pagava il copyright. Propose anche di metterlo sulla bandiera, come nei Paesi del Nord: nessuno era già arrivato a tanto! Perché ormai ragionava più bianco dei Bianchi.

E certamente avrebbe potuto vendere libri su libri, superando il record della vecchietta (che nel frattempo aveva lasciato questo mondo), se solo gli islamici avessero continuato a fare attentati con una certa regolarità. E invece c'era questo problema: che da un po' di tempo in qua nicchiavano, non dirottavano più aerei, nemmeno autobombe; per quanto li si bombardasse e invadesse e torturasse, non reagivano quasi più, smidollati! Il Piccolo Opinionista Nero li aveva sempre segretamente disprezzati, ma adesso decisamente li odiava: possibile che non facessero mai, mai quello che ci si aspettava da loro? “Sembra che lo facciano apposta per deludermi”, pensava.

Ma poi finalmente, una sera, da un Paese del Nord arrivò la notizia di un'autobomba e di una sparatoria, e il Piccolo Opinionista Nero si rimproverò di essere stato così ingiusto coi suoi ex-fratelli. Nel giro di mezz'ora aveva già scritto un pezzo trionfante contro la tolleranza, contro l'ideologia del multiculturalismo e il relativismo “che si fonda sulla tesi che per amare il prossimo devi sposare la sua religione e le sue idee”. Lo mandò al giornale e andò a letto presto. Sognò un'elezione, una bandiera crociata, e un popolo biancovestito che lo incoronava Presidente, proprio lui, un piccolo uomo nero! proprio come negli USA...

Al mattino il risveglio fu un po' brusco.
“Incapace”, gli disse il suo demone, “guarda cos'hai combinato!”
“Ah, sei tu! Era da un po' che non ti si vedeva in giro”.
“Il fondamentalismo dei tuoi articoli cominciava a imbarazzarmi, e i fatti non mi hanno certo dato torto. Lo sai chi ha ucciso tutti quei bianchi nordici multiculturali?”
“Non so, i soliti islamici, presumo”.
“Ma non li leggi i giornali?”
“No, li scrivo”.
“Il solito problema. Bene stamattina dicono tutti che è stato un bianco nordico che odia il multiculturalismo e la tolleranza”.
“Oddio! Sono fregato!”
“Piano, piano. Certo, certe pagine del suo memoriale assomigliano veramente molto a uno dei tuoi libri, come si chiama...”
“Quello? Ma è tutta roba copiata dalla vecchietta!”
“Avrà copiato anche lui. Poi è uscito, ha messo due bombe e fucilato un centinaio di ragazzini”.
“E aveva le mie idee! Era uno come me! Stavolta sono fregato davvero!”
“Ehi, piano, piano. Non è uno come te”.
“Come no. Era cristiano, odiava la tolleranza... lo hai detto tu...”
“Sì, però guardati. Lui era alto e biondo. Sei alto tu? Sei biondo?”
“Ma che c'entra, scusa”.
“C'entra, c'entra eccome. Tu sei piccolo. E nero. Non scordartelo mai”.
“Ma mi sono convertito...”
“Non ha nessuna importanza. A certe cose non ci si converte. Se ci fossi stato tu, ferito, su quell'isola, lui non ci avrebbe pensato due volte a darti il colpo di grazia. Anche se tu credi nel suo Dio. Anche se ti comporti come un bianco. Anzi, proprio perché ti comporti così. Capisci?”
“Credo di sì”.
“Più ti sforzi di assomigliare a loro, più ti odiano. Sono nazisti, fondamentalisti, è quel che sono. Vengono a corrompere la nostra società aperta. Bisogna combatterli”.
“Cosa devo fare?”
“Il solito. Convertiti”.
“A cosa?”
“Boh, improvvisa. Il tizio ha massacrato i giovani laburisti. Potresti convertirti al laburismo”.
“Non ho la minima idea di cosa sia”.
“Toh, una novità. E allora studia, aggiornati, su. Prima che vengano a cercarti col fucile”.
“Sì, però che stanchezza”.
“Sei stanco? Stanco di cosa?”
“Ma di dover sempre cambiare religione, cambiare idea, cambiare camicia, quando alla fine è solo la mia faccia che non va. La mia faccia piccola e nera. Non è giusto”.
“Ma sentilo un po', il calimero. Sei stanco di cambiare? Vorresti restare quel che sei adesso? Un nero che ispira gli ammazzaneri?”
“Non so. Vorrei... forse vorrei provare una volta sola a essere semplicemente me stesso”.
“Te stesso? E chi sarebbe, “te stesso”?”
“Buffo, ormai non lo so più”.
“Allora te lo ricordo io: tu non sei mai stato nessuno. Solo un piccolo uomo nero a cui la sorte non ha davvero regalato molto. Solo un briciolo di orgoglio, qualche etto di astuzia e tanta, tantissima ambizione...”
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Abbasso La Russa brutto

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Il brutto o il cattivo

“Ma hai sentito di La Russa?”
“No, che ha detto?”
“Che le donne di sinistra sono brutte”.
“Proprio lui?”
“Ecco, appunto, direi che sarebbe ora di controbattere”.
“Ma infatti. La Russa, ma guardati”.
“La Russa, fai schifo all'estetica comune”.
“La Russa, sei un cesso... però, aspetta... mi viene un dubbio...”
“Uff, sempre con questi dubbi”.
“...non è che in questo modo ci abbassiamo al suo livello? Un livello, tra l'altro, in cui non potrà che stracciarci con la sua maggiore esperienza?”
“Mah”.
“Non sarebbe la prima volta che la butta in caciara e vince”.
“Vabbe', ma a dei personaggi del genere cosa vuoi controbattere... vuoi trattarli seriamente? In fondo è soltanto un pagliaccio”.
“Ci sarebbe la storia di quei sessantuno morti di sete, avrai sentito”
“Vagamente”.
“Ieri il Guardian ha accusato le forze Nato di aver lasciato morire sessanta persone di sete in mezzo al mediterraneo, una storia agghiacciante”.
“Ma cosa c'entra La Russa, scusa”.
“Come cosa c'entra, è il ministro della Difesa”.
“È facile dimenticarsene”.
“Insomma questi il 25 marzo si ritrovano in avaria e chiamano un prete eritreo che vive a Roma. Il prete contatta subito la Guardia Costiera, che correggimi se sbaglio fa parte della Marina Militare, che è competenza di La Russa”.
“E la Guardia Costiera ha fatto finta di niente?”
“Anzi: hanno detto al prete che se n'erano già accorti e avevano allertato le autorità competenti, probabilmente i maltesi. I maltesi però negano”.
“Ma erano acque maltesi?”
“Non è chiaro, comunque poco tempo dopo si fa vivo un elicottero militare che lancia acqua potabile e cibo. E nessuno ammette di averlo mandato: né Malta, né Italia, né Nato, nessuno”.
“E poi?”
“E poi basta. Non si fa più vivo nessuno. Per sedici giorni. L'Italia sa che sono lì. Malta sa che sono lì”.
“Il pagliaccio sa che sono lì”.
“Mentre si trucca per andare in onda. C'è una nave militare che passa poco lontano – forse è la Garibaldi, forse la Charles de Gaulle. Fanno finta di niente. Li lasciano morire di sete, uno alla volta”.
“Intanto il pagliaccio va ai comizi”
“Ci sono due bambini piccoli che sopravvivono per due giorni ai genitori. Gli altri migranti continuavano a nutrirli. Poi muoiono anche loro. Di settantadue sopravvivono in undici, bevendo urina e mangiando dentifricio. Alla fine sbarcano dalle parti di Misurata. Uno muore toccando terra. I libici li sbattono in prigione – un altro muore là, dopo sedici giorni di naufragio. Roba da Tribunale Internazionale, secondo il mio modesto parere”.
“Sì, però se vuoi sentire anche il mio, di modesti pareri... uno come La Russa non lo combatti mica così”.
“E perché? È un criminale o no? C'è l'omissione di soccorso. C'è tutta”.
“Erano acque internazionali, o maltesi”.
“Ma che Malta e malta, è un teatro di guerra, non si muove una foglia senza che non se ne accorgano a Roma a Parigi e a Washington, e c'era una nave a tiro di schioppo, adesso dimmi che un bombardamento può servire a sloggiare un dittatore, ma una strage così a cosa serve?”
“Da esempio per altri che vogliono partire”.
“Sì, ma è disumano”.
“A questo punto bisognerebbe ridefinire l'umanità, perché sai, se attacchi La Russa da quel lato, lasci intendere che qualcun altro al suo posto sarebbe meno criminale di lui”.
“Lo spero bene”.
“E la gente lo voterebbe? Uno meno criminale di lui? Uno che va a pescare settanta disperati nelle acque internazionali? Fidati, se lo chiami criminale gli rendi un servizio. C'è un sacco di gente pronta ad rieleggerlo, un criminale così”.
“E quindi?”
“E forse è meglio che di questa storia non parliamo. È deprimente. Tra trent'anni magari ci faremo una giornata della memoria, ma adesso... concentriamoci sui pagliacci”.
“Lasciamo stare i criminali”.
“Siamo tutti un po' criminali, qualche volta esecutori e il più delle volte mandanti. Ma brutti così no, non siamo così brutti. Ministri così brutti...”
“Non li vogliamo più”.
“Esatto. Abbasso il ministro brutto”.
“Scusami, ma che partito votiamo noi?”
“Non mi ricordo più. Ha importanza?”
“No, non tanta. Avremo senz'altro candidati più giovani e carini. Abbasso La Russa brutto”.
“Abbasso”.
“La Russa puzzi!”
“La Russa lavati!”
Ecc.
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Uomini e talpe

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Gli ultimi giorni dell'umanità 

- Io credo che chiunque abbia gli occhi per vedere, e non per piagnucolare, possa valutare da solo che uomini sono questi Bossi, questi Maroni, che di fronte a un'emergenza umanitaria gridano foera di ball, fanno portare cucine da campo a Lampedusa ma non le montano, aspettano che una folla affamata distrugga tutto e poi portano spazzini e telecamere per mostrare al loro elettorato che siamo alle invasioni barbariche; lasciano una ventina di marinai a pattugliare un enorme braccio di mare e poi stringono le spalle di fronte a una tragedia evitabile; tanto in mezzo c'è sempre una Malta o una Francia su cui puntare il dito, come lo punta sul compagno il bambino sorpreso dalla maestra. Non sono criminali, questi bambini che sventolando fazzoletti verdi sono arrivati a responsabilità di governo e ora giocano con la vita dei loro simili? Fino a che punto il proprio tornaconto elettorale li giustifica di fronte all'orrore, quanto costa esattamente in vite umane vincere le elezioni in Brianza? Chiunque ha occhi per vedere e non per piagnucolare può vedere quanto siano criminali, e quanto assassina sia la loro negligenza.

Eppure odiarli è difficile. Sono un po' troppo banali, questi amministratori locali del male; non fanno che incarnare i nostri difetti, trarli alle estreme conseguenze. La paura per lo straniero non l'hanno inventata loro; loro non hanno fatto che aprirci la loro piccola impresa, la loro fabbrichetta, trent'anni fa. Col senno del poi fu un ottimo investimento: da allora il sud del mondo ha quasi raddoppiato le bocche da sfamare, mentre il nord alzava le barricate; il nodo prima o poi doveva venire al pettine. Chiunque può calcolare quanto abbiamo perso in umanità, negli ultimi vent'anni di sbarchi: quanto rapidamente si è spenta quella solidarietà genuina che mostravamo per i primi albanesi e i cossovari, appena abbiamo capito che non erano piccoli fuochi, ma le prime scintille di un incendio mondiale. I nostri governanti non fanno che interpretare al meglio quello che siamo diventati: animali tutto sommato mansueti che quando li si preme ai confini hanno ancora qualche energia per mostrare i denti.

Ma gli intellettuali? Non devono mica farsi eleggere. Nessuno pretende che si facciano interpreti dei nostri istinti più bassi. Anzi, dovrebbero mirare un po' più in alto per definizione; nell'eclissi della nostra coscienza, conservare per noi il ricordo della luce, e ricordarci sommessamente che potremmo essere migliori di così, potremmo essere uomini e non bestie. E invece guarda che bel servizio ci rende Ceronetti, col suo temino xenofobo che nessuno gli aveva chiesto, ma che molte bestie apprezzeranno. “Non ho prove provabili”, scrive, “ma ho il senso del pericolo, in comune con tutti gli animali”. Ed è tutto quello che gli serve per tenere la sua concione: l'istinto animale del pericolo. La sua “pulce nell'orecchio” non è un dato preciso, né un'informazione verificabile, nulla. Ceronetti ha il senso di ragno di Peter Parker, sente un complotto islamico dietro le spalle e ci vuole tenere informati, grazie Ceronetti, ma avrebbe potuto dircelo qualsiasi boccalone al bar. Sì, però vuoi mettere con uno che al bar ti cita Kafka e il cavallo di Troia? Ed eccolo qui, il più bell'argomento contro la cultura: se dai da leggere Kafka a una capra, ne brucherà le pagine e resterà capra; se lo dai a un scimpanzè rischi che te lo tiri in testa: lo hai dato a Ceronetti, guarda cosa ne fa.

La questione israeliana. Ma io qui credo che ci sia un refuso. Avranno tutti copiato e incollato male, andiamo, non è possibile che un pregiato scrittore lasci sulle colonne di un quotidiano questa frase, nel 2011: “Se Israele accogliesse tre o quattromila palestinesi, Gerusalemme, il supremo esito del 1967, sarebbe subito, com’è già in parte, casa loro”. Si possono dire cose molto brutte su Israele, ma ci vive già più di un milione di arabi con diritto di cittadinanza. Voglio dire che lo sanno anche le talpe. O non lo sanno? E di cosa hanno discusso, per tutti questi anni, le talpe, sul giornale?

"In qualità di profughi da guerre, lo scenario di guerra è da trovare. Le folle di veri profughi le conosciamo: prevalgono le donne e i bambini, ci sono immagini strazianti di vecchi che si trascinano… Qui l’anomalia è sbadigliante: di vecchi neanche l’ombra, e di aneliti a trovare lavoro non ce n’è spreco". 

Il Novecento è davvero la nuova Bibbia. Messo di fronte a un fatto nuovo, l'intellettuale cosa fa? Va a controllare se rientra nella casistica dei Sacri testi. C'è una folla di profughi? Andiamo a sfogliare il Libro dei Profughi del Novecento, dunque... ecco, ci sono soprattutto donne, bambini, vecchi che si trascinano. Invece nelle foto a colori del giornale, qui, sono baldi giovanotti, e allora fermi tutti: l'intellettuale ha scoperto un'impostura, un complotto. “ Il mio non è che un sospetto fondato”. Fondato sul suo senso di ragno, che gli anni hanno reso acutissimo.

Per fortuna che noi animali europei abbiamo ancora un forte istinto, lo si vede dalle bandiere ai balconi. “Un senso di inconscio risveglio dell’istinto difensivo mi pare di leggerlo in questa perdurante spontanea esposizione del tricolore. C’è come un grido silenzioso dell’anima profonda. Queste bandiere non celebrano un passato, ma sono talpa che non vuole diventare casa loro e grida aiuto. Ma a chi, se nessuno comprende?” Meno male che Ceronetti comprende. Lui è collegato con l'anima profonda, ne sa interpretare i gridi silenziosi, per esempio quell'arcano, intraducibile “Foera di ball”, finalmente trova in lui il fine esegeta, il traduttore. Abbiamo bisogno di più gente come lui, che metta in belle parole i nostri istinti, che suoni il suo tamburino istoriato con fregi Novecento mentre noi scaviamo i fossati e alziamo i recinti.

“Difficile, più che mai, capire; ma intelligere è essenziale. E una volta compreso prendere decisioni giuste è difficilissimo. Volerle giuste e umane, e insieme battere un nemico oscuro, un’armata disarmata, che ha per unica micidiale arma il numero, è una canzone di gesta.”

Parole desuete, parole buffe, il consueto bric-à-brac letterario che ha sempre il suo mercato, per dire cosa? Niente, è destino di ogni temino poco ispirato risolversi in tautologia. Ceronetti aveva rivendicato nella prima riga il suo istinto del pericolo, “comune agli animali”; nell'ultima riga si lascia sfuggire che soluzioni umane al problema non ce ne sono. Insomma l'umanità è un lusso, grazie Ceronetti, ma a quel punto perché Kafka, perché Omero, perché le canzoni di gesta, perché pagarti un vitalizio? Non sarebbero soldi meglio spesi in barricate, filo spinato, alta tensione?

Ma forse no. Anche quando saremo lupi - e il giorno non è così lontano - avremo sempre bisogno di un lupo anziano e un po' più ispirato che ululi alla luna. Com'è da millenni, e la luna resta luna. E i cani restano cani. I più bravi, i più brillanti, se gli tiri Kafka te lo riportano.
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Ok Panico

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Mors vestra

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Col volto umano

“Signore, quelli bussano”.
“E che vogliono?”
“Le solite cose, ma stavolta...”
“Stavolta?”
“C'è un'aria diversa in giro, insomma, io non vorrei che succedesse un disastro...”
“È già successo”.
“Sì, ma dal punto di vista umanitario, insomma...”
“No”.
“Come dice, signore?”
“Sto rispondendo alla domanda che non hai il coraggio di farmi”.
“Prego?”
“Tu dovresti chiedermi: Signore, li aiutiamo? Apriamo i cancelli? Stanziamo quel che c'è da stanziare? Ma non hai il coraggio, perché conosci benissimo la risposta, e sai che è una risposta criminale, e hai paura che anche solo pormi la domanda ti renda in qualche modo complice. Ma io non ho bisogno di complici e non ho vergogna a risponderti: mi prendo tutta la responsabilità e ti dico: no. Non li aiutiamo. Non stavolta”.
“Con tutto il rispetto... questo non sarà il solito naufragio di gommoni”.
“No, probabilmente no”.
“Parliamo di una carestia. Forse milioni di morti. In generale la Storia non è generosa con chi lascia morire milioni di persone”.
“Fammi pensare. Cina 1960, Grande Balzo in avanti, carestia, dai venti ai quaranta milioni. Hanno tolto i quadri di Mao alle pareti?”
“Non ancora, no”.
“Del resto non è che mi interessi più di tanto del parere dei posteri, eh. Mi biasimeranno, diranno cose terribili su di me, con la loro ciotola piena. Hai mai letto Malthus, tu?”
“No, confesso di no”.
“È passato di moda un po' troppo presto. Insomma, questi hanno fame e vorrebbero entrare. Non gli basta mandare a casa qualche governante corrotto? Eppure sono belle le rivoluzioni, no?”
“Non danno il pane”
“Al massimo i rincari ti spingono a eliminare qualche sacca di corruzione. Ma non basta, la fame è più potente. La fame ti compra il biglietto per il gommone. Comunque stavolta no. Sparino pure ai gommoni, me ne prendo la responsabilità”.
“...”
“E non guardarmi con quegli occhi, son cose che capitano. Un giorno faranno un film su gente come me e come te. Te ti faranno dimesso e lagnoso, consapevole dei crimini che commetti, ma incapace di disobbedire gli ordini. A me invece regaleranno una faccia da matto fanatico. Ti sembro un matto fanatico?”
“No, signore, assolutamente”.
“Probabilmente ti sbagli, la storia la fanno i vincitori quando cominciano a sentirsi in colpa. Io sono il matto che preferisce salvare una sola scialuppa invece di aiutarne un'altra col rischio che affondino entrambe. Mi daranno del razzista. Pensi che io sia razzista? Che se fossero biondi e pallidi magari li aiuterei?”
“Se posso permettermi...”
“Certo che puoi”.
“Se le politiche si giudicano dai risultati, quello che stiamo per fare sarà interpretato da molti come razzismo”.
“Senz'altro, ed è il motivo per cui negli ultimi quarant'anni ne abbiamo fatti entrare un po' di tutti i colori, e adesso abbiamo elettori che si chiamano Mohammed e Chen, e saranno loro, capisci, saranno loro a votare per noi quando gli diremo che non possiamo aprire i cancelli a tutti i meridionali del mondo. Perché loro lo hanno sempre saputo: Malthus ce l'hanno nel sangue, loro. Sono quelli che si sono messi in moto per primi. Selezione naturale. E nessuno potrà darci del razzista, se applichiamo un banale principio di sopravvivenza. Tutte le specie viventi, i branchi e le comunità cercano di sopravvivere difendendo il loro territorio, e noi possiamo fingere di non essere un branco, possiamo affettare una cosiddetta 'cultura', ma quando i prezzi dei cereali salgono mostriamo i denti, come qualsiasi altro mammifero stanziale. Non c'è posto per tutti qui da noi. Semplicemente non c'è. Ce n'era un po', e chi è arrivato prima se l'è preso. E ora non ce n'è più”.
“Signore, posso essere franco?”
“Spara”.
“Questo è semplicemente fascismo. Fascismo dal volto umano, ma...”
“Preferiresti il volto disumano? Perché a questo punto il problema si pone in questi termini. Non credete a noi, che vi sbarriamo le porte con gentilezza? Aspettate qualche anno, e poi al nostro posto ci sarà un matto vero, un visionario che ha letto il mein kampf o altre stronzate, uno di quelli che con la scusa del revisionismo ogni tanto va a Bergen Belsen a controllare le cubature perché, dopotutto, il Novecento ci ha mostrato che qualche sistema rapido per far spazio, con un po' di impegno e fantasia...”
“Quindi, insomma, alla delegazione che gli dico?”
“Me lo hai già chiesto. Ti ho già risposto. No. Stavolta Non ci muoveremo. Diglielo. Conoscono il latino?”
“Dovrebbero”.
“Allora digli così: Mors vestra, vita nostra. Niente di personale”.
“E se si mettono a piangere?”
“Piangere? una delegazione diplomatica?”
“Signore, lo sa... in fin dei conti sono italiani”.
“E tu lasciali piangere, ne hanno il diritto”.

Secondo Roberto Maroni è “impensabile” che, di fronte a quella che definisce “emergenza umanitaria” di Lampedusa, “le istituzioni europee stiano solo a guardare”.
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Che roba Contessa i cinesi

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Io non voglio morire antiveltroniano, non voglio essere ricordato come uno che se la prendeva contro WV sempre e comunque, perciò adesso facciamo così: vi incollo una cosa che Veltroni ha detto sulle primarie di Napoli, vi spiego perché due righe così a me fanno venire l'ulcera, e poi mi spiegate se è un problema solo mio, se sono i miei soliti pregiudizi antiveltroniani, o se lui è davvero pessimo come sembra.

«Sul sito del Corriere della Sera ho visto file di cinesi che andavano a votare - o sono cinesi democratici o c'è qualcosa che non va. Se c'è una piccola ombra si vada sino in fondo, non può esserci».

Da che parte cominciare. Mettendo per esempio le mani avanti: anch'io ho forti dubbi su come siano andate le cose a Napoli. E, devo dire, non ho neanche dovuto consultare il pregevole sito del Corriere. Napoli non pretendo di conoscerla, ma ho leggiucchiato qualcosina in questi anni (Saviano soprattutto) e mi sono fatto l'idea che non sia ignota in città la prassi del voto di scambio (infatti non capisco bene da che pero sia caduto lo stesso Saviano). Ora, le primarie PD sono, per la loro stessa natura, le elezioni più esposte a infiltrazioni e mercimoni di ogni tipo: uno entra, lascia due spicci, mostra il documento, e vota. I controllori sono volontari del partito stesso. In una situazione del genere, “piccole ombre” si riscontrerebbero anche in un ridente paesello ai confini della Svizzera, figurati a Napoli con tutti i problemi della città e del suo PD. Non ci voleva molto insomma a immaginare come sarebbero andate le cose. Non ci voleva molto, eppure Veltroni fino a lunedì non se l'era immaginato. Aveva bisogno di vedere file di cinesi sul Corriere.

Alla luce del suo sbigottimento, forse bisogna rileggere lo storico dibattito interno, tra chi vuole le primarie-sempre-e-comunque e quei noiosi che invece sollevano obiezioni. Questi ultimi sono spesso dipinti come malvagi uomini-apparato decisi a trasformare il PD in una dinastia di burocrati. E magari alcuni sono proprio così. Ma non potrebbero essercene molti altri semplicemente in grado di immaginare che succeda quello che a Napoli è successo? E davvero lui, Veltroni, non ne è in grado? Ora si stupisce che votino i cinesi, lui che seguendo i disinteressati consigli del caro zio Giuliano Ferrara ha propalato per anni la fola del Partito-leggero-senza-tessera? Va bene, la tessera è roba vecchia, ma Veltroni non ci ha mai spiegato con cosa l'avrebbe sostituita, quale sistema avremmo usato per tenere lontano dalle primarie infiltrati o venditori di voti all'incanto. L'importante era che il PD uscisse dal Novecento e si sottraesse al potere dei temibili signori delle tessere. Ma sul serio bastava stracciare il cartoncino e tutto il clientelismo sarebbe svanito come al neve al sole? Sul serio? Viene il sospetto che sì, che lo abbia pensato sul serio. Fino a lunedì.

Poi d'un tratto, oplà! - la scoperta dell'alba. Sono andati a votare dei cinesi. Ma dai. Come lo ha scoperto? Ha degli osservatori? Magari si è fatto una passeggiata per qualche quartiere di Napoli, non dico mica quelli brutti che sarebbe populismo, non so, una capatina al Vomero, boh. No, lui ha visto le file di cinesi... sul sito del Corriere. Lui così specifico, così preciso e settoriale quando si tratta di informarti su come passa il suo tempo libero, che libri legge e che film guarda, quando si tratta di politica, politica dal basso, quella che sarebbe il suo mestiere in questo preciso momento – niente, lui ha solo visto qualche immagine sul sito, proprio come me e te e chiunque altro, che a questo punto potremmo fargli da consulente, a Veltroni, e davvero non saremmo molto peggiori di quelli che lo consigliano in questo momento. Cosa dirti, onorevole: è il tuo partito, e tu sei in lizza per la leadership, non dico che tu debba avere uno staff di gente che ti tiene informata 7x24 sul territorio, ma almeno far finta di averla; ecco, magari evitare di render noto a tutti che le cose di Napoli le impari per ultimo, sull'organo d'informazione dei milanesi rintronati.

Ma non è neanche questo il peggio, vero? Il peggio lo sapete qual è. I cinesi.

Veltroni vede, diciamola come va detta, delle facce gialle, e trae una conclusione: o ci sono decine, forse addirittura dozzine di democratici cinesi, oppure... elementare Walter, se hanno gli occhi a mandorla non possono essere veri militanti del partito-leggero-leggero, che non ti fa le tessere ma una sbirciatina al colore della pelle te la dà. Ma spiegati meglio, caro aspirante leader democratico che ti riempi la bocca di Gandhi e Martin Luther King, spiega: davvero non potrebbero esserci democratici cinesi, anzi, democratici residenti in Italia di origine cinese a Napoli, terza città più popolosa d'Italia, terra d'immigrazione? Magari sono venuti a mettere una croce proprio perché tu, due anni fa, parlavi di voler dare il voto agli immigrati, il che magari sulle terrazze romane suona come una boutade buona per un titolo di giornale o un'apertura di tg, ma per un napoletano di origine cinese è una cosa importante, una cosa che gli cambia la vita, il riconoscimento di un diritto, un'apertura sul futuro: ma forse appunto tu ne parlavi come di ipotesi di scuola, chissà se hai mai discusso con un solo abitante italiano di origine cinese, uno arrivato qui in qualsiasi momento dagli anni Novanta al 2011, o magari qualcuno che in Italia ci è nato, e ce ne sono di maggiorenni già: e tu dov'eri mentre le nostre metropoli cambiavano colore, a scrivere libri sul futuro o sugli anni di piombo? E guardarsi un po' più attorno? Di tutti i motivi banalissimi per cui si potevano mettere in dubbio le primarie di Napoli, tu hai scelto la peggiore: il pregiudizio etnico nei confronti di una minoranza.

Il dramma della sinistra da salotto si misura tutto qui: nella distanza tra la retorica veltroniana (uguaglianza, solidarietà, aggiungete sostantivi astratti a caso) e la reazione stizzita del lettore del Corriere che vede facce gialle e si spaventa: hai visto che roba, Contessa, a Napoli fanno votare i cinesi. E il bello è che le hai volute tu, le primarie senza tessera, le primarie senza regole, le primarie tana-libera-tutti, le primarie portatevi gli amici da casa. Ma non avevi pensato ai cinesi. Già, ma del resto come potevi pensarci.

Ecco, adesso per favore ditemi che esagero, che ho capito male, che Veltroni è molto meglio di così. Scrivetemelo. Massacratemi. Ditemi che non ho capito niente, che il meccanismo delle primarie come lo aveva progettato lui era a prova di bomba, che sui cinesi non ho colto l'ironia, ditemi per favore che Veltroni è una risorsa, una speranza per tutta la sinistra. Ditemi che mi sbaglio. Non voglio morire antiveltroniano.
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Begm Shnez

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Quando una ragazza come Nosheen finisce all'ospedale, o si ritrova sepolta in un orto, i giornalisti scrivono sempre una cosa che mi fa imbestialire. Scrivono che “voleva vivere all'occidentale”. È una frase di rara idiozia, che schiude un immaginario rimasto bloccato ai mitici anni '80 con Sabrina Salerno – cosa accidenti vorrebbe dire “vivere all'occidentale” a Novi di Modena nel 2010? Andare in giro in pantaloni? Sedersi sulla panchina del bar? La disco il sabato sera? Nosheen e sua madre portavano il velo. Vestivano alla pakistana. Non parlavano con gli sconosciuti. Preparavano cerimonie religiose e facevano il giro dei conoscenti per invitarli. Non vivevano “all'occidentale” e non sono state prese a pietre per questo.

Viceversa troverete in giro per la bassa un sacco di ragazzi dalla lingua strana e dalla pelle scura, che vivono “all'occidentale”, o almeno ci provano. Mettono blue jeans e qualche firma sulle felpe. Il sabato nei parchi giocano con mazze e palline – cosa c'è di più occidentale. Entrano nei bar, a volte ne escono con la ceres in mano. Qualcuno magari a mezza voce dice che la ragazza se la meritava, chissà chi frequentava a insaputa del padre. Lo dice anche il giornale, che voleva vivere “all'occidentale”.

Auguro a Nosheen di vivere, da qui in poi, la vita che vorrà. Sarà occidentale, sarà orientale, sarà probabilmente complicata. Io non so se le interessassero davvero i jeans, o mostrare i capelli. Le piaceva un ragazzo italiano? I giornalisti in queste cose sguazzano, ma sono chiacchiere e non ci sono prove (ci sarebbe anche un video, ma guarda un po', non lo ha visto nessuno). Quel che si sa è che era una brava figlia e una buona musulmana, che non voleva sposare un cugino che non conosceva; che non credeva che il suo Dio la obbligasse in questo senso; che sua madre era con lei; che ha fatto tutto quello che una quarantenne pachistana a Novi poteva fare per difenderla (andò persino dai carabinieri a lamentarsi del marito: che coraggio deve avere avuto questa signora?); che alla fine, per difendere sua figlia, Begm Shnez ha perso la vita.

Dirò una cosa antipatica. Io non so se vivo in occidente o in oriente. È una battaglia quotidiana, che mi appassiona solo fino a un certo punto. So che ancora trent'anni fa mia nonna si copriva il capo con un foulard prima di andare alla novena. Viveva poco lontano da dove risiede Nosheen. So che nel mondo complicato di mia nonna, di Nosheen, e mio, c'è un valore supremo e (mi dispiace) non è il diritto di portare i jeans o scoprire i capelli o farsi i video coi ragazzini italiani. È la vita, e offrire la propria in cambio di un'altra è la cosa più grande, più nobile che si possa fare. Per ricordarcelo noi occidentali abbiamo pietre. Abbiamo lapidi e monumenti, fuori e dentro le chiese – ma evidentemente non ci bastano. Su un'altra pietra, fuori dalle chiese, ma davanti agli occhi di tutti i residenti di Novi, occidentali o no, in jeans o velati, vorrei che si scrivesse qualcosa su Begm Shnez, che ha donato due volte la vita a sua figlia, che è morta lottando, e stava lottando per tutti noi, occidentali e orientali di Novi; che è caduta ma che ha vinto, quel poco che si poteva vincere quel giorno a Novi, per tutti noi.

Ai pachistani che arriveranno, da una terra ormai distrutta e spappolata da una guerra taciuta per dieci anni e da un'alluvione di cui nessuno ha parlato, non chiederò se conoscono l'italiano, i fratelli d'Italia o il va' pensiero. Se vogliono vivere all'occidentale o all'orientale o come preferiscono. L'unico prerequisito, per quanto mi riguarda, è che passino davanti alla lapide di Begm Shnez. Che sappiano. Volete stare da noi? Se c'è posto, bene, ma da noi funziona così: i nostri eroi non sono i padri che lapidano, ma le madri che danno la vita. Avete intenzione di tormentare figlie e madri? Non è il posto che fa per voi. Dareste la vita per loro? è l'unica cosa che ci serve sapere. La lingua poi s'impara, le usanze cambiano, e oriente e occidente non sono che nomi.
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Le nostre parole, la vostra pelle

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Safiya Husaini e Amina Lawal vivono in Nigeria. Quando sono state condannate a morte, l'opinione pubblica si è indignata. I politici hanno recepito. Il governo si è mosso. La diplomazia italiana ha fatto tutto il possibile per salvarle. Se fosse servito, magari le avremmo anche offerto asilo, come prevede la nostra Costituzione. Un posto per loro lo avremmo trovato. O no?

...no, temo di no. Per Faith, per esempio, non c'è più posto (sull'Unita.it, i commenti sono qui).

Quando nel 2001 una corte islamica nigeriana condannò Safiya Husaini alla lapidazione per adulterio, la politica italiana non rimase a guardare. Una cinquantina di senatori sottoscrisse una mozione che impegnava il governo Berlusconi “a promuovere un'azione diplomatica diretta ad impedire l'orrenda esecuzione; più in generale ad adoperarsi affinché cessi ogni prevaricazione a carico delle donne, là dove ancora le stesse sono considerate schiave, incapaci di intendere e di volere, scambiate e messe all'asta come carne da macello, assoggettate e segregate in casa, senza diritti e senza dignità”. Al di là dei discorsoni è difficile ricostruire cosa abbia fatto in concreto il governo: magari un richiamo all'ambasciatore, questo tipo di cose. Alla fine comunque la Husaini fu assolta.

Un anno dopo un'altra corte nigeriana condannò Amina Lawal Kurami alla stessa pena capitale per lo stesso reato. E anche in questo caso la politica italiana non si tirò indietro. Il nostro ambasciatore andò a parlarne col Ministero degli esteri nigeriano. Come riferì poi alla Camera il Sottosegretario di Stato, Margherita Boniver, il Ministro si dimostrò “molto comprensivo dell'interesse riservato al caso da parte dell'opinione pubblica, della società civile e delle istituzioni del nostro paese”. Nel frattempo a Roma l'incaricato d'affari della Repubblica federale di Nigeria veniva convocato alla Farnesina, che gli comunicava “l'emozione enorme suscitata nel nostro paese dalla vicenda giudiziaria della signora Lawal”. Anche questo diplomatico volle rassicurarci, confermando che “che il Governo federale è ben consapevole delle reazioni suscitate in Italia e nel mondo dalla sentenza e della necessità che la Nigeria rispetti i suoi impegni internazionali in materia di diritti umani”.

Ma non significa che non siano importanti. La diplomazia si fa con le parole, la politica è fatta di chiacchiere, e la vita di Safiya Husaini e Amina Lawal è stata salvata anche dall'enorme volume di chiacchiere che l'opinione pubblica e i politici hanno prodotto sull'argomento. Se tutto quello che puoi fare per salvare la vita a una persona è parlarne, tu ne parli. In parlamento, alle ambasciate, ovunque puoi.

Nelle prossime settimane un'altra donna nigerianaFaith Aiworo, dovrebbe essere processata. Il suo caso è un po' diverso (Faith avrebbe ucciso un uomo che cercava di stuprarla), ma il rischio di una condanna a morte è comunque concreto. I giornali italiani ne hanno parlato – non tutti, per la verità. Ora si tratta di vedere cosa farà la politica, come si muoveranno le istituzioni. Il Senato produrrà un'altra mozione, com'è successo con Safiya? Convocheremo i diplomatici, come successe con Amina? Arriveremo al punto di disturbare il Ministro degli esteri nigeriano? Possiamo sperarci, ma per come si sono messe le cose è difficile che accada. E questo non perché Senato e Camera siano assorbiti dalle scissioni e compravendite degli ultimi giorni. Il problema è un po' più grave.< Per salvarsi dal boia, Faith era scappata in Italia. Un Paese storicamente molto sensibile al problema dei rifugiati, anche perché molti antifascisti sopravvissero rifugiandosi nei Paesi vicini. Quando tornarono, e il fascismo fu sconfitto, vollero iscrivere nei principi fondamentali della nostra Costituzione il diritto d'asilo, per “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” (art. 10). Ma Faith è entrata in Italia da clandestina, e con i clandestini sembra che la Costituzione non funzioni più. A un certo punto abbiamo stabilito, senza dirlo troppo in giro, che non sono esseri umani; e quindi possiamo impacchettarli e renderli al mittente senza preoccupazioni.

Per questo è difficile che stavolta la politica italiana faccia qualcosa per “promuovere un'azione diplomatica diretta ad impedire l'orrenda esecuzione”; che si adoperi sul serio “affinché cessi ogni prevaricazione a carico delle donne, là dove ancora le stesse sono considerate schiave, incapaci di intendere e di volere, scambiate e messe all'asta come carne da macello, assoggettate e segregate in casa, senza diritti e senza dignità”. Del resto cosa potrebbero fare, ormai, parlamentari e diplomatici, a parte produrre un po' di chiacchiere. Certo, ogni volta che chiacchierando potevamo contribuire a salvare una donna condannata a morte, non ci siamo risparmiati. Ma stavolta occorreva qualcosa di più: l'ospitalità. Safiya, Amina, più che donne per noi erano teorie. Si potevano tranquillamente salvare da lontano. Ma Faith viveva tra noi, occupava un posto; e un posto per salvare una donna schiava, senza diritti e senza dignità, in Italia evidentemente non c'è più.
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Rondini e altre questioni

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Mi è cosa gradita segnalarvi, all'indomani dello sciopero dei migranti, questo bel libretto pubblicato da Mangrovie edizioni, che prende spunto dal ddl 773b (il reato di clandestinità) per raccogliere un po' di testimonianze di scrittori migranti in Italia, sull'Italia di oggi. Quasi tutti sono di origine straniera; tutti (mi pare) scrivono in italiano. Basterebbe questo a farne un documento interessante su una letteratura italiana che sopravvive quasi a malincuore (e poi sì, ci sono anch'io, con un pezzo preso dal blog). I diritti d'autore saranno devoluti a progetti per l'integrazione (si può ordinare qui).

Visto che è il giorno delle segnalazioni, ve ne faccio una che aspettava da un po': ho scritto un film. E' stato semplicissimo. In effetti non ho dovuto fare assolutamente niente. Un regista, Maurizio Failla, ha ripescato un mio vecchio pezzo, a dire il vero uno dei più controversi, e ne ha tratto un cortometraggio. Tutto questo è successo qualche mese fa, ma io esitavo a dirlo, perché... in effetti non sono ancora riuscito a vederlo (ho anche un po' paura, in effetti). Comunque brutto brutto non dev'essere, dai. E' tra i candidati al premio David di Donatello per il miglior cortometraggio. Forza Failla.

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Ho una teoria #7

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Una classe tutta bianca

Nell’ottobre dell’anno scorso una scuola dell’infanzia di Luzzara (RE) finì sotto i riflettori. Un preside si era rassegnato a istituire una classe di soli bambini stranieri. A chi lo accusava di segregazione razziale, il preside fece presente che con un 75% di iscrizioni straniere non c’erano poi molte alternative... (continua sull'Unità on line; potete commentarlo lì) (è l'ennesimo pezzo in cui provo a spiegare come funzionano le quote stranieri; però magari stavolta ci riesco).


Nell’ottobre dell’anno scorso una scuola dell’infanzia di Luzzara (RE) finì sotto i riflettori. Un preside si era rassegnato a istituire una classe di soli bambini stranieri. A chi lo accusava di segregazione razziale, il preside fece presente che con un 75% di iscrizioni straniere non c’erano poi molte alternative. A quel punto sui media l’indignazione per il flagrante caso di apartheid si tinse di panico: ma ci sono davvero così tanti stranieri a Luzzara? A molti sfuggì un dettaglio: nella stessa cittadina, a pochi metri dalla scuola incriminata, ce n’era un’altra. Frequentata quasi soltanto da bambini italiani. Era la scuola parrocchiale. Paritaria, ovviamente. Finanziata anche dal comune. A differenza di quella pubblica, questa scuola non era obbligata ad accettare le iscrizioni dei bambini stranieri, ma si era comunque degnata di ammetterne… addirittura otto.

Torno sull’episodio perché illustra alla perfezione la mia teoria: per ogni “classe-ghetto” con alte percentuali di stranieri, c’è da qualche parte (magari a pochi metri) una classe tutta bianca, di cui nessuno parla mai. È la classe che non si vede in tv (dove le scolaresche sono rigorosamente multietniche), che non finisce sui giornali: in compenso è una classe molto ambita. Quasi sempre c’è una lista d’attesa per entrarci. Non è necessariamente una classe cattolica o privata: anche molte scuole pubbliche hanno le loro classi tutte bianche. Naturalmente non le chiamano così: nel Piano dell’Offerta Formativa (il dépliant che viene mostrato ai clienti, pardon, ai genitori) si parlerà di classi speciali, o sperimentali; con lingue straniere un po’ più difficili, con corsi integrativi particolari. Quel che importa è che ci sia una lista: il modo più semplice per compiere una selezione all’ingresso. I genitori che conoscono il meccanismo e iscrivono i figli a questo tipo di classi non sono necessariamente i più abbienti. Sono semplicemente persone che desiderano il meglio per i loro figli. Il più delle volte non si considerano nemmeno razzisti: non hanno niente contro gli stranieri, ma non desiderano che loro figlio finisca in una di quelle classi dove sono addirittura otto o nove… in una di quelle famigerate “classi-ghetto”.

E così il serpente si morde la coda. Sì, perché le classi ghetto esistono soltanto perché dall’altra parte della strada, o del corridoio, o a volte della parete, esistono le classi tutte bianche. Senza le une, le altre non avrebbero ragion d’essere. Non c’è nessuna invasione nelle scuole italiane: su cento studenti italiani gli stranieri sono appena sette. È vero che sono concentrati soprattutto al Nord e nelle città. A quanto pare esistono già 514 scuole primarie in cui il numero di studenti stranieri supera il 30% del totale. Cosa succederà in queste scuole, ora che il ministro Gelmini ha stabilito che la quota del 30% non è più superabile?

È difficile immaginare i bambini stranieri in esubero caricati sui pulmini e portati in qualche altro istituto (magari in un bel quartiere residenziale). Anche perché un altro pulmino dovrebbe fare il viaggio inverso, e scaricare qualche bel bambino bianco nella scuola di un quartiere problematico... pulmini del genere attirerebbero critiche sia da sinistra che da destra, ma soprattutto avrebbero un costo. Il trucco lo ha già svelato lo stesso ministro, affrettandosi a chiarire che la quota del 30% è da intendersi riferita soltanto agli stranieri non nati in Italia. Evidentemente gli stranieri di seconda generazione (un terzo del totale) sono già da ritenersi perfettamente integrati. Una bella fortuna, perché in altri Paesi come Francia o Gran Bretagna è proprio la loro crisi d’identità a creare le premesse delle rivolte razziali. Ma per la Gelmini la seconda generazione non va conteggiata, quindi il problema non sussiste.

C'è poi un altro migliaio di scuole in cui gli stranieri sono già tra il 20% e il 30% del totale. Qui la quota Gelmini, più che a evitare le classi-ghetto, servirà ad istituzionalizzarle. Da questo momento in poi presidi e consigli d’istituto sanno che possono infilare fino al 30% di studenti stranieri in una classe (9 su 27, dieci su trenta) senza il rischio di creare un “ghetto”. Perché la circolare dice, nero su bianco, che non c’è ghetto finché in classe c’è appena uno straniero su tre – attenzione, stiamo parlando di stranieri nati all’estero. Perché poi c’è sempre la possibilità di aggiungere qualche straniero nato in Italia, che come abbiamo visto non conta.

Proviamo con un esempio. Mettiamo che in una piccola scuola con cinque classi s’iscrivano trenta bambini stranieri su un totale di 150. Se l’obiettivo fosse l’integrazione, la soluzione ottimale sarebbe spargerli in quantità uguali: sei per classe. Il Ministro avrebbe potuto chiedere di dividere il numero di stranieri per il numero di classi: sarebbe stato un criterio ragionevole. Ma non lo ha fatto. Ha preferito inventare una “quota” che nel nostro caso consente di ammucchiare gli stranieri in tre classi, e lasciare che le altre due diventino Classi Tutte Bianche. Certo, qualche genitore verrà prima o poi a lamentarsi. Che genitori saranno? Quelli che non conoscono certi meccanismi, che ignoravano l’esistenza di liste di attesa, che temevano di iscrivere il figlio a una classe troppo impegnativa. E poi, naturalmente, ci saranno gli stranieri (anche loro, a Luzzara, hanno protestato). A questi genitori (tra i quali il nostro amico Elmo) i presidi potranno dire che va tutto bene, che la classe è un po’ vivace ma funziona, che è indietro col programma ma recupererà, e che comunque non è ghetto finché sono dieci su trenta: lo ha detto la Gelmini. Una che i problemi li risolve.
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Arriva Elmo

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Ho una teoria (#6)
Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).

Elmo non è un razzista, secondo lui... [continua sull'Unità on line: potete commentarlo lì].

Ho una teoria. Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).

Elmo non è un razzista, secondo lui. In officina ha un apprendista moldavo che è molto bravo e si fa i fatti suoi. Però questa cosa degli stranieri in classe non l'ha mai mandata giù, da quando il suo Elmino ha cominciato a frequentare la prima media. 

All'inizio sembrava tutto normale: Qualche volta, è vero, a suo figlio capitava di infilare un nome strano nel resoconto delle sue giornate, ma del resto Elmo conosce tanti amici che hanno chiamato i figli Brandon o Sharon. Al primo colloquio le insegnanti gliel'avevano detto: “È una classe un po' difficile”. Ma quelle si lagnano sempre e comunque, si sa.

Il vero choc furono le foto della gita scolastica. Elmo scoprì che la classe di suo figlio era uno zoo. Tre neri, uno più nero dell'altro. Un marziano con un cappuccio in testa (“ma no, papà, è un indiano, ma della setta dei sikh”). Un numero imprecisato di rumeni polacchi e quant'altro. Sei o sette su ventisette. 

“È una classe multietnica. Un'occasione meravigliosa per suo figlio”, le spiegò l'insegnante: la stessa che gli aveva detto che era una classe difficile. A Elmo qualcosa non tornava. Se davvero la classe multietnica era un'occasione così meravigliosa, perché non l'avevano offerta anche alla figlia del suo vicino, l'ingegnere? Lei aveva la stessa età di Elmino, ma sembrava molto più avanti con gli studi. È normale, le diceva sua moglie, le bambine sono più diligenti. Una mattina però al bar non aveva resistito, e si era messo a discutere di scuola con l'ingegnere. Fino ad arrivare al fatidico argomento, i bambini stranieri... 
“Sono più bravi degli italiani”, era stata la pronta risposta del vicino progressista. “Per esempio in classe con mia figlia c'è un bambino ungherese che è un genio del computer, pensi...”
“Ah sì? Beh, però poi ci sono anche quelli che... sì, insomma, fanno fatica a imparare l'italiano, e allora la classe resta indietro... cioè, li avrà anche sua figlia dei compagni così”.
“No, che io sappia no”.

Così era saltato fuori che Elmo aveva otto compagni stranieri e la figlia dell'Ingegnere soltanto uno (un genio del computer). 
“Ma certo”, gli aveva detto la moglie, “l'Ingegnere ha iscritto suo figlio alla classe bilingue tedesco”.
“E gli stranieri non ci possono andare?”
“In teoria potrebbero”.
“E allora perché non ci vanno?”
“Perché il tedesco è difficile. E poi perché c'è la lista di attesa”. 
“C'è una lista?”
“Certo che non ti sfugge niente, a te”.
“No, scusa, una lista per studiare tedesco alle medie? Cos'ha di così speciale questo tedesco?”
“Forse che gli alunni sono tutti bianchi”.

Ecco svelato l'arcano. Non c'è nessuna invasione di alunni stranieri: il problema è che sono tutti concentrati in un paio di classi, e una è quella di Elmino. Nelle altre (Elmo ha controllato i tabelloni affissi a settembre) i nomi stranieri diventano rarissimi. A quel punto, dentro di lui qualcosa si è rotto. Oppure è stata la quinta volta che ha sentito dire da un'insegnante che la classe era indietro col programma. Sia come sia, Elmo appena ha potuto ha votato la Lega. 

Quando i suoi uomini in parlamento proposero di istituire le classi-ponte, ebbe un acceso diverbio al solito tavolino del bar. “Siamo alle leggi razziali!” tuonava l'ingegnere. “La verità è che avete paura degli stranieri, che tante volte sono più bravi dei nostri figli...” Qualche mese dopo si cominciò a parlare di quote, e anche lì l'ingegnere prospettava deportazioni, Buchenwald, Dachau... La verità è che quelli come l'ingegnere hanno sempre da dire su tutto. Perché sono comunisti. Invece Elmo, più ci pensa più trova che la quota sia la cosa più ragionevole. Finalmente (pensa) gli stranieri non saranno più tutti ammucchiati in una o due classi-lager, ma sparsi su tutta la superficie scolastica. E la sorella di Elmino, che comincia le medie in settembre, non finirà più in un ghetto di analfabeti. Forza Gelmini!

In agosto, leggendo il tabellone delle nuove classi, Elmo avrà un colpo al cuore. Su 29 compagni di Elmina, 15 avranno il cognome straniero. A questo punto magari andrà a chiedere al Preside: Cos'è, un'invasione? Dove sono finite le quote? Ma allora è vero che questa scuola è un covo di rossi dove si ignorano le direttive ministeriali? E il preside, che gli risponderà?

“Prima di tutto, vorrei tranquillizzarla. Una classe multietnica, come quella in sui è stato inserita sua figlia, è una meravigliosa opportunità...”
“Bla bla bla, conosco il discorso. Quello che vorrei sapere è come mai qui non si rispettano le quote di stranieri”.
“Ma noi le rispettiamo. Nella classe di suo figlia ci sono nove alunni stranieri”.
“Di più che tre anni fa! E le quote?”
“La quota è del 30%. Il problema è che con i tagli il numero di studenti per classe è aumentato. Nella classe di suo figlio sono in trenta: il 30% di trenta è un po' più di nove, un po' meno di dieci. Siamo in quota”.
“Ma scusi... io qui leggo almeno sedici cognomi che non sono italiani. Non nove. Sedici”.
“Certo, perché poi ci sono gli stranieri nati in Italia. Il Ministero ci ha detto che nella quota non vanno contati”.
“Ah, non vanno contati”.
“No”.
“Ma perché devono sempre finire tutti in classe coi miei figli... cioè, io non è che sono razzista, eh... ma non riesco a capire. Perché non ne mettete un po' anche in prima A?”
“La A è la classe di tedesco...”
“Sì, lo so, c'è una lista. E in B?”
“Il B è la sperimentazione musicale”.
“E allora? Sono tutti stonati gli stranieri?”
“No, ma c'è una lista d'attesa anche lì”.
“E la C?
“È una classe molto ambita, non ha rientri al pomeriggio. Sa, per i bambini che hanno molte attività extrascolastiche: nuoto, equitazione...”
“C'è la fila anche lì”.
“Diciamo che gli stranieri hanno meno attività extrascolastiche. È tutto chiaro, ora?”

Sì. Nella mente di Elmo ora è veramente tutto chiaro. Non è colpa della Gelmini, lei ha fatto quel che ha potuto. Il problema è che i comunisti sono veramente diabolici. Fatta la legge, trovano l'inganno. Fanno studiare ai loro figli tedesco, flauto traverso, equitazione, qualsiasi cosa per tenerli lontani dai negri... e quelli che ci rimettono sono i suoi figli. Comunisti maledetti. Ma verrà un giorno. Quando prenderemo il potere...
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Il 30% di boh

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Integratevi (è un ordine)

È andata: dall’anno prossimo nelle prime classi delle scuole italiane “di ogni ordine e grado” gli studenti stranieri non potranno essere più del 30% del totale. E già qualcuno comincia a gridare all’Apartheid - ehi, piano.
Un esempio lo fornisce il pur ottimo Gilioli, quando si chiede se il piccolo Naresh dovrà lasciare i suoi compagnucci di terza elementare. Ma no, basta leggere. I tetti verranno applicati soltanto nelle classi che devono essere ancora formate (prime elementari, prime medie, prime superiori): Naresh potrà continuare il suo percorso scolastico e gli auguro che sia di qualità.

A tutti quelli che non vogliono perdere l’occasione di scomodare le leggi razziali, ricordo che stiamo parlando di una proposta Gelmini, cioè di una cosa, per definizione, non seria. Avete presente come risolve i problemi la Gelmini? Un rapido riassunto: un anno fa gli studenti davano molti problemi disciplinari. Non rispettavano né le regole né gli insegnanti, picchiavano i loro compagni disabili e mettevano le foto su youtube (questa cosa in particolare fece scalpore, i filmini su youtube). Allora la Gelmini risolse il problema. Come? Inventando una cosa che prima non c’era: il “voto di condotta”. Prima si chiamava “valutazione del comportamento” e non funzionava: adesso invece si chiama “voto”, quindi funziona. Questo è un esempio di come risolve i problemi la Gelmini.

Un altro problema molto dibattuto era il rendimento. I nostri studenti non imparano più niente. Intervenne la Gelmini, con un’idea geniale: reintrodurre nella scuola dell'obbligo i voti numerici. Stabilendo così un discrimine insormontabile tra la scuola sessantottina che promuoveva tutti quelli che avevano una media superiore al “sufficiente” e l’inflessibile scuola gelminiana che falcia senza pietà tutti quelli che hanno una media inferiore al “6”. Un altro problema risolto.

E gli stranieri? Pare che siano troppi, e che tendano a iscriversi tutti nelle stesse classi, formando perniciosissime “classi ghetto”. Come ha risolto il problema la Gelmini? Anche qui, la sua implacabile falce non si è fatta pregare, e si è abbattuta su… su cosa? Una quota del 30% di stranieri? Perché secondo voi in Italia c’è uno studente straniero ogni due italiani? A meno che non siate affezionati lettori di Giornale e Padania, sapete benissimo che la quota di stranieri non è così alta da nessuna parte in Italia – tranne forse in qualche bassifondo metropolitano. Forse anche qualche paesino montano abbandonato dai nativi e ripopolato dagli stranieri (ce ne sono a nord come a sud). Quindi, se cambierà qualcosa, cambierà soltanto in quei casi.

Ma persino in quei casi, c’è un trucco. Molti di quei bambini stranieri in realtà sono nati in Italia, da genitori stranieri. Siccome non basta nascere su suolo italiano per ottenere la cittadinanza, costoro risultano all’anagrafe stranieri anche se sono qui da sei, undici, diciotto anni. Ed è brutto da dire, ma in tanti casi lo sono davvero. Perché non basta nascere in Italia, se cresci in una famiglia dove l’italiano non si parla o si parla male, la tv via sat manda solo film di Bollywood non sottotitolati, i tuoi amici sono tutti cinesi, eccetera eccetera eccetera.

A questo proposito, la Gelmini non ha perso l’occasione per confermarsi Gelmini, ovvero: nel giro di tre giorni ha già affermato una cosa e poi l’ha rimangiata. Prima ha detto ‘tetto del 30% per gli alunni stranieri’ (e giù titoloni in prima pagina), poi ha precisato ‘Esclusi dal tetto delle classi gli stranieri che sono nati in Italia’ (titoletto nelle brevi). Che differenza c’è? Per me, tutta la differenza del mondo. Le classi in cui insegno oggi sforano allegramente il 30% di stranieri. E non sono classi semplici, per inciso. Ma se conti soltanto quelli nati all’estero… ecco che rientra tutto nella norma. Fine del problema, anzi, quale problema? Se sono nati in un ospedale italiano sono perfettamente integrati, no? Le infermiere li avranno immediatamente attaccati al biberon della lingua italiana. I genitori avranno deciso di parlare soltanto italiano in casa per aiutarli a integrarsi meglio. Del resto gli stranieri della seconda generazione, si sa, sono quelli che si integrano più facilmente… (NB: STO SCHERZANDO. Gli stranieri della seconda generazione sono quelli che più faticano a integrarsi in generale. C’è una letteratura scientifica enorme sul problema. La generazione che la Gelmini non considera è quella che in Francia ogni tanto mette a ferro a fuoco la banlieue: forse perché li hanno integrati troppo, ragazzacci viziati).

Insomma, sul piano pratico, cosa succederà? In alcune aree metropolitane i presidi si scambieranno un po’ di iscrizioni alla prima classe, onde evitare i “ghetti”. Il che è relativamente facile, ora che sappiamo cos’è un “ghetto” per la Gelmini. Un “ghetto” è una classe con più di uno straniero su tre. Siccome si va verso una media di trenta studenti per classe, se undici sono nati all’estero, è ghetto. Se sono solo dieci su trenta, no, non è ghetto. Se dieci sono nati all’estero e altri venti sono bengalesi nati in un ospedale italiano, tutto ok! Probabilmente si sente fragranza di curry da tre isolati, ma per la Gelmini non è un ghetto.

Non so se vi rendete conto della portata di questa riforma. Da decenni in tutta Europa sociologi, pedagoghi e quant’altro si dedicano al problema dell’integrazione nelle scuole multietniche. Poi arriva il ministro Gelmini, e in poche ore risolve il problema: per legge. Da qui in poi se sei nato in Italia sei integrato. Fine. Il tuo compagno nato a Mumbai che vive qui da tredici anni e non sa parlare l’hindi potrebbe porre dei problemi d’integrazione, e quindi rientra in una quota stranieri: tu no, anche se vivi in un sotterraneo con la tua famiglia di cucitori cinesi e in otto anni di scuola dell’obbligo non hai ancora imparato a formulare una frase in italiano. Però sei dei nostri! Ce l’hai scritto sulla carta d’identità: nato in Italia! Come? No, non è valida per l’espatrio. Perché non sei cittadino. Sei dei nostri solo quando ci fa comodo. Per esempio, quando dobbiamo dimostrare all’Elettore Leghista Medio (d’ora in poi ELMO, per comodità) che gli abbiamo risolto un problema.

Quando poi Elmo si renderà conto che l’abbiamo fregato… quando suo figlio si ritroverà nella classe odorosa di curry di cui sopra… beh, probabilmente darà la colpa alla sinistra. Alla sua politica dell’accoglienza indiscriminata. Hanno rovinato questo Paese, maledetti.
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Ho una teoria #5

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Rassegnamoci: è passata anche la Befana, e ha spazzato via le feste. Mentre mettiamo via gli addobbi e le statuine del presepe, ci resta una consolazione: anche quest'anno, abbiamo fatto quello che potevamo fare per salvare la nostra civiltà. Ma sarà bastato? (Continua sull'Unità on line). (Potete commentarlo lì).

di Leonardo Tondelli - Rassegnamoci: è passata anche la Befana, e ha spazzato via le feste. Mentre mettiamo via gli addobbi e le statuine del presepe, ci resta una consolazione: anche quest'anno, abbiamo fatto quello che potevamo fare per salvare la nostra civiltà. Ma sarà bastato?

Poche tradizioni natalizie ci sono care come il presepe
. Forse perché ci fa tornare bambini, ai tempi meravigliosi in cui tutto era nuovo, e mamma e papà ci aiutavano a collocare Bue e Asinello accanto alla mangiatoia. Ora magari tocca a noi insegnarlo ai nostri figli, ed è una cosa che scalda il cuore. In più, è anche una delle poche tradizioni che possa vantare un pedigree 100% italiano. Non importa che la scena sia ambientata in Palestina e i protagonisti siano medio-orientali: qualcuno può avere inventato gli spaghetti prima di noi, e magari innalzato una torre più pendente della nostra, ma il presepe è sicuramente nato in Italia, nel secolo XIII. Lo dicono gli storici, e guai a chi ce lo tocca.

Negli ultimi anni però – anche a causa di questa origine doc – il presepe è diventato qualcosa di più di una bella tradizione: addirittura il simbolo di una civiltà che appare più in pericolo, assediata com'è da minacciosi stranieri. Fanno sempre più rumore gli istituti scolastici in cui qualche insegnante o preside decide di lasciar perdere Bue, Asinello e mangiatoia. Queste scuole non è che siano poi tante; e forse avrebbero altri problemi di cui varrebbe la pena di parlare (organici insufficienti, aule non a norma, le solite cose)... però è un presepe mancato che rischia di mandarle in prima pagina.

A lamentarsi per i presepi mancati 
non sono più quattro leghisti al bar, ma uomini di cultura: opinionisti prestigiosi, come Angelo Panebianco. Vale la pena di segnalare il suo coraggioso atto di accusa, comparso sul Corriere della Sera giovedì. A poche ore dallo scoppio della rivolta di Rosarno, con chi se la prendeva Panebianco? Con la malavita organizzata che sfrutta i braccianti? Con gli abitanti locali che tirano ai “negri” con fucili ad aria compressa? Col racket dell'immigrazione clandestina? No: con quegli educatori (“diseducatori” preferisce chiamarli) che non fanno più il presepe a scuola. Proprio così. I “futuri, probabilmente feroci scontri di civiltà” che ci attendono, non scoppieranno a causa dello sfruttamento della manodopera immigrata, vecchia causa demodé. Non perché, per tener bassi i prezzi di arance e pomodori, abbiamo fatto dormire i braccianti in baracche infestate dai topi, pagandoli venti euro per quattordici ore di lavoro quotidiano. No: gli scontri esploderanno perché siamo stati troppo tolleranti, come dice il ministro Maroni. Non abbiamo insegnato ai loro figli a mettere Bue e Asinello ai fianchi della mangiatoia. Naturale che poi crescano sprezzanti verso la nostra civiltà.

Colpa degli educatori, dunque?
 Sì, ma non soltanto. Panebianco non si tira indietro, e nel suo atto di accusa include anche quelli che il presepe lo hanno inventato: i religiosi. E che invece di difenderlo a spada tratta si sono dati all'accoglienza. Questi preti, lamenta Panebianco, “troppo accoglienti”, contagiati dal morbo del politicamente corretto... In effetti che razza di cristiani sono questi che invece di preoccuparsi di collocare correttamente il Bue e l'Asinello si sono messi in testa di sfamare gli affamati, soccorrere i bisognosi, alloggiare gli sfitti?

Cristiani che seguono il Vangelo
, potremmo rispondergli. Un libro più citato che letto (come tutti i libri, del resto, in Italia). Anche per questo motivo, ottocento anni fa, un geniale religioso ebbe l'idea di trasformare una pagina di Vangelo in una rappresentazione vivente: affinché fosse comprensibile per quegli analfabeti che allora erano la stragrande maggioranza (e oggi dovrebbero essere un po' meno). Era una pagina che raccontava di una famiglia costretta a un viaggio difficile e a un alloggio di fortuna: ma proprio in quella famiglia, e in quelle condizioni così disagevoli, Dio sceglieva di farsi vivo. Di incarnarsi, in un bambino deposto in una mangiatoia, o praesepe. Da quella rappresentazione sacra, concepita nel 1223 da Francesco d'Assisi, deriva il nostro presepe: sì, proprio quello da cui, secondo Panebianco, dipende il futuro della nostra cultura. Prima di essere una tradizione, era una lezione sull'ospitalità: sulla possibilità di trovare Dio nelle persone più umili, nelle condizioni più difficili. Può darsi che l'ospitalità dei religiosi non sia la risposta più razionale al problema: del resto non è ai religiosi che si chiedono le risposte razionali. Da loro si pretende che mettano in pratica il Vangelo: proprio a partire da quella pagina famosa che ispirò il Presepe. O no?

Ho una teoria. A Panebianco il presepe non interessa in quanto pagina di Vangelo, lezione sull'ospitalità, eccetera. Quello che lui riesce a vedere del presepe è la stessa superficie che ci ammaliava da bambini: le statuette dipinte, il Bue, l'Asinello. Che dietro alle statuette ci fossero degli insegnamenti da mettere in pratica è cosa che probabilmente da bambino gli è sfuggita – e adesso è un po' tardi. Ottocento anni fa il presepe era un'innovazione, un modo di trasformare una pagina illeggibile in una scena reale, visibile, realizzabile. Ottocento anni dopo a Panebianco il Presepe interessa solo in quanto tradizione, statuetta dipinta, guscio vuoto che non spiega più niente a nessuno, perché rimanda solo a sé stesso. E bisogna averne di cose vuote in testa, per vedere le baracche di Rosarno e di non accorgersi di quel che sono: presepi viventi, in mezzo a noi. Che frigniamo, però, se ci toccano le statuette dipinte.
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Identità è una statuetta pitturata

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Presepi viventi, presepi morti

Una cosa che non ho ancora capito, malgrado il meritevole sforzo dei giornalisti accorsi a Rosarno, è se questi immigrati clandestini, che raccolgono pomodori a venti euro la giornata, dormendo su giacigli di cartone in compagnia dei topi, e ogni tanto si prendono pure qualche pistolettata dai locali... dicevo: una cosa che non ho capito è se siano musulmani o no.

Ed è strano, perché fino a ieri mattina sembrava l’unica cosa importante, quando si parlava di stranieri in Italia. Qual è il motivo per cui non si integrano? Forse perché vengono pagati una miseria? No. Perché vivono in condizioni disumane? Macché. Il motivo per cui non si integrano – almeno a sentire i più prestigiosi corsivisti del Corriere – non ha niente a che vedere con queste banali condizioni materiali. È un motivo ben più alto, spirituale. Insomma, è Allah. Tant’è vero che, come dice Sartori, solo i musulmani rifiutano di integrarsi.

Gli altri si integrano benissimo, no? Prendi i cinesi. Chi di voi non ha un amico cinese. Son così simpatici i cinesi, e si sono integrati così bene. Quel loro modo così occidentale di comprare rustici in campagna, chiuderci dentro una ventina di cottimisti e farli lavorare giorno e notte… in fin dei conti è anche quello un modo per integrarsi, no? Perché alla fine dei conti quelli che gli danno le commesse sono imprenditori italiani, no? E i rustici, in campagna, o i garage in via Sarpi, chi glieli vende?

Ma il musulmano non fa così. Il musulmano ha delle brutte abitudini. La preghiera del venerdì. Il Ramadan. Vade retro. Sono tutte manifestazioni del suo rifiuto ad integrarsi. Ed è per quello che protesta.

Non vuole garanzie, non vuole diritti, no, lui vuole di più. Il musulmano vuole attentare alle nostre radici, punto e basta. Lo scriveva anche ieri Panebianco. I neri di Rosarno non avevano ancora smesso di prendersi le pistolettate, e Panebianco sul Corriere aveva già individuato i responsabili. Sapete di chi è colpa se c’è una rivolta a Rosarno? Non ci credereste mai, sono gli intellettali liberal, “(e cioè politicamente corretti)”. Siamo noi che li abbiamo invitati qui. O credevate che fuggissero da una carestia mondiale, seguendo inconsapevolmente, in quanto offerta di manodopera a basso costo, un principio del libero mercato?

No, probabilmente essi vivevano beati nei loro tucul africani finché noi intellettuali liberal “(e cioè politicamente corretti”) abbiamo bombardato i loro pacifici villaggi con copie gratuite di Micromega. Costringendoli a venire qui. In cerca di condizioni migliori? No. Quello che veramente li ha spinti sulle nostre belle spiagge è il desiderio di toglierci le nostre belle tradizioni, a cominciare, indovinate… dalle statuine del presepe.


Proprio così. Il giorno che ricorderemo come l’inizio della rivolta di Rosarno, Panebianco dedica un capoverso del suo atto di accusa a quelle scuole (cinque? Sei? Fossero anche una dozzina?) che per risibili questioni di integrazione non hanno fatto il presepe. Altro che topi nelle baracche: il presepe. È quello il problema, secondo Panebianco.

Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni. Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell'integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà.

Voi capite, il bimbo musulmano che non fa il presepe comincia a pensare “ehi, non lo fanno per rispetto a me, che mammolette! Non vedo l’ora di crescere e chiedere l’abolizione degli spaghetti! Oggi il presepe, domani il festival di Sanremo!” Ecco, nel cervello di Panebianco (e dei suoi lettori) il futuro probabilmente feroce scontro di civiltà scoppierà così. Non saranno neri derelitti che escono dalle loro tane puzzolenti e chiedono di essere rispettati per il lavoro che fanno: no, saranno adolescenti arroganti perché da bambini non li abbiamo esposti alla miniatura di Bue, Asinello e Bambino Gesù.


E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri.

Già, chissà cosa raccontano. No, sul serio, cosa raccontano? Che la polenta è un cibo demoniaco? Che la pizza in realtà è un’invenzione africana? Che il campionato italiano di calcio ultimamente è una palla tremenda? Sia come sia, quello che succede a Rosarno è anche colpa loro. Ovvero, nostra. Insomma, mia. Soltanto mia? Eh, no, troppo facile. Panebianco, sapete, non è uno che si nasconde: e ha il coraggio (notevole, diciamo, per un corsivista del Corriere) di prendersela con una categoria molto meno toccabile: i preti.

Questi preti che invece di pensare alle tradizionali statuette, si dedicano all’accoglienza del loro prossimo. Questi preti che sfamano chi è affamato, dissetano chi è assetato, alloggiano chi è sfitto, curano chi è malato, ma che razza di cristiani sono? Pensassero di più a collocare il Bue e l’Asinello e meno alla cura di ‘sti maledetti samaritani a venti euro la giornata, che tolgono lavoro agli schiavi italiani.

La prossima volta che vi friggono un discorso a base di paroloni come Identità o Tradizione, pensate, per favore, al presepe di Panebianco. Secondo lui i preti sono "troppo accoglienti": da un punto di vista razionale potrebbe avere anche ragione, qualsiasi spazio limitato non può accogliere tutti, e l'Italia non fa eccezione. Ma i preti non sono razionali: sono preti. Se accolgono tutti indiscriminatamente, è perché glielo ha detto Gesù, a chiare lettere, nel Vangelo. E quando a saper leggere il Vangelo erano ancora pochi, i preti hanno inventato strumenti come il Presepe, che servivano proprio a ricordare il principio: Giuseppe e Maria erano due viaggiatori senza un tetto, e Dio si è incarnato in mezzo a loro. Prima di essere una tradizione, il Presepe era una lezione sull'ospitalità. Ma Panebianco non lo sa, o se l'è dimenticato, o non gli interessa. A lui interessa il Presepe in quanto tradizione, ovvero statuetta, guscio vuoto che non spiega più niente a nessuno, rimandando solo a sé stesso. E bisogna averne di cose vuote in testa, per vedere le baracche di Rosarno e di non accorgersi di quel che sono: presepi viventi, in mezzo a noi. Che frigniamo se ci toccano le statuette dipinte.
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Burqa is the new black

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Attaccati alle parabole, Daniela

In Afganistan, se qualcuno era distratto, le elezioni non sono andate tanto bene. Sì, quelle consultazioni democratiche che hanno causato una recrudescenza dei combattimenti, quelle per cui alcuni coraggiosi elettori ci hanno rimesso il dito, e parecchi soldati sono morti ammazzati. Non sono andate bene. Dopo un mese di riconteggi e di indagini per brogli, non si riusciva a capire se avesse vinto Karzai (fratello di un agente Cia) o il suo concorrente, Abdullah. A quel punto la comunità internazionale, insomma, gli USA, hanno chiesto di rifare le elezioni. E già questo non era proprio costituzionale, ma almeno si salvava la sostanza. Poi a una settimana dalle elezioni Abdullah si è ritirato dalla gara, e a quel punto è andata al diavolo anche la sostanza: le elezioni è come se non ci fossero mai state, le dita si sono tinte per niente, i morti sono morti per niente; una commissione elettorale qualunque ha deciso che il fratello della Cia resterà presidente per altri 5 anni, e questa è la favolosa democrazia afgana, che non c'è dubbio, col tempo migliorerà. Noi comunque c'eravamo andati per cose più concrete, tipo trovare Bin Laden o levare il burqa alle signore. Bin Laden ormai si è dissolto nel suo alone leggendario, ogni tanto appare nei fotogrammi sfuocati delle prime pagine; in compenso l'altro giorno al tg vedevo un giornalista italiano che intervistava una signora di Kabul! Le posava il microfono ad altezza zanzariera, e lei parlava. Quindi oggi le donne di Kabul parlano alla stampa straniera, se non è una conquista questa... Oddio, sotto quell'affare avrebbe potuto persino essere un signore baffuto, ma bisogna avere fiducia nella primavera afgana, anche in novembre.

E insomma, questo burqa risulta un po' più difficile da tirar giù. Ci avevano raccontato che era un retaggio medievale; roba da retrogradi montanari, che a Kabul le donne non vedevano l'ora di toglierselo: solo dieci anni fa, le foto delle donne costrette sotto il velo integrale vincevano i premi internazionali, davano scandalo... oggi è tutto ok, vedi una signora con un lenzuolo sulla faccia che parla al giornalista e manco ci fai caso; la foto che racconta il coraggio delle donne afgane è lo stesso lenzuolo che mostra il dito viola, complimenti signora, lei sì che è una donna liberata. Il burqa sta vincendo: ormai ci sembra una cosa normale. Qualcuno inizia a vedersi anche da noi, e non abbiamo sempre una Santanchè a portata di mano.

Eppure sconfiggere il medioevo è possibile. Ce l'hanno fatta popoli su cui non avresti scommesso un soldo, per esempio... Ripesco una foto di quest'estate. È un cartellone stradale trovato in questo bel pezzo di Chamberlain. Il cartellone non vende niente: quello che pubblicizza è il diciottesimo compleanno di una ragazza. Sì, le hanno fatto una sorpresa: per il 18mo compleanno si è trovata stampata su cartelloni stradali in scala King Kong. È stata un'idea del padre. Provate a osservare la cosa un po' dall'alto: 2009, padre casertano compra enormi spazi pubblicitari sulle strade pubbliche per mostrare foto della figlia. Ventunesimo secolo. Caserta. Padre esibisce figlia 18enne in cartelloni giganti. Se avete presente un minimo quali erano i costumi campani di cinquant'anni fa, non c'è dubbio: è successo qualcosa che ha del miracoloso, che sfida tutti gli assunti della sociologia; è come se qualcuno in mezzo secolo avesse fatto sparire i meridionali chiusi e gelosi che richiudevano le figlie nelle stanze interne, sostituendoli con un popolo allegro, pescato chissà dove, che paga un servizio fotografico alla figlia illibata e poi corre a stampare gigantografie in quadricromia per farle una sorpresa. Pasolini la chiamava rivoluzione antropologica, e come dargli torto. Certo, visto da vicino l'esperimento fa un po' paura. Però, se si tratta di decidere tra burqa e gigantografia, io non mi prendo neanche venti secondi per pensarci.

Se ce l'abbiamo fatta persino noi italiani, a diventare moderni... D'accordo, sì, ci sono ancora parecchi dettagli da mettere a punto: tante esagerazioni, scollature e tacchi a spillo, nascondono situazioni ancora retrograde (ad es., in molte ridenti cittadine se ti stuprano in gruppo è tuttora colpa tua). Però sono le stesse contrade dove negli anni Cinquanta le signore giravano a occhi bassi e volto coperto: non c'è dubbio che sia successo qualcosa di radicale e definitivo. Forse è ancora presto perché succeda qualcosa di simile in Afganistan, ma si potrebbe almeno cominciare dalle nostre musulmane. È giusto chiedere che non siano più costrette a portare un velo: è soltanto assurdo imporglielo per legge. Non si farebbe che sovrapporre una costrizione a un'altra di segno opposto, mettendo ogni povera donna tra Stato e Famiglia: ovviamente vincerà la Famiglia, e dove sarà vietato portare il velo, la donna resterà reclusa in casa. Ma questa cosa la sa benissimo il più retrogrado dei leghisti: lui non intende veramente togliere il velo a nessuno, quel che vuole è soltanto una musulmana in meno per strada.

Quello che ha funzionato con noi, non dovrebbe funzionare anche con gli immigrati? Alcuni sono tra noi da più di vent'anni, eppure non si integrano così facilmente. In certi casi viceversa si radicalizzano. Cosa c'è che non va? La scuola gliela diamo. Qualche diritto – non tanti – glielo concediamo. Li curiamo. Certo, restano nella maggior parte dei casi cittadini di serie b, senza diritti politici, però non si può dire che non facciamo niente per accoglierli. Qualche signora infatti il velo se l'è tolto, qualche ragazzina non se l'è mai messo. Ma se ne vedono ancora tante. Cos'è che non funziona.

Io una risposta ce l'ho, e avverto, non è proprio politically correct. Secondo me è un problema di parabole. Sono loro che rendono difficile l'integrazione.
È un discorso che parte da un assunto banale: cosa ha reso i costumi del padre casertano 2009 così radicalmente diversi da quelli del nonno? Tanti fattori sociali ed economici, ma tra tutti uno: la televisione. La tv ha imposto uno stile di vita e ci ha insegnato una lingua comune. È entrata in tutte le case e ha mostrato una società diversa. Nei '50 l'abbiamo scoperta, nei '60 l'abbiamo imitata, nei '70 un po' messa in discussione, dagli '80 in poi e la tv che ha iniziato a copiare noi. Con risultati piuttosto preoccupanti, ma non importa. La tv ci ha reso quelli che siamo, ma la nostra tv gli immigrati non la vedono. È per quello che restano “stranieri”. Andate a vedere nelle scuole, o nelle strade. La differenza non è tra italiano e immigrato, ma tra chi parla l'italiano della tv italiana e chi non lo parla, non lo capisce, perché a casa sua c'è una finestra aperta ogni giorno su Marocco o Tunisia.

Le banlieues dove si infrange il sogno francese dell'integrazione sono foreste di parabole. Signora Santanchè, vuole fare l'integrazione con la forza? La pianti di appendersi ai burqa, salga sui tetti, cominci a segare le parabole. È una strategia ugualmente esibizionista e arrogante, ma secondo me funziona di più.

Se non fosse che nel frattempo è la stessa tv italiana che sta mettendo in discussione la sua vocazione generalista. Sono gli stessi italiani a montare parabole, a chiedere a gran voce un palinsesto personalizzato alle proprie esigenze. È un modello che ci viene dai Paesi più avanzati: tante proposte diverse per tanti settori di mercato, senza più piazze d'incontro collettive. Quando tra qualche anno tutti avremo il nostro canale personale, non ci capiremo più. Sarà come internet, ognuno svilupperà il suo idioletto nel suo circolo di amici e conoscenti. Già oggi il dialogo tra generazioni è diventato molto difficile: tra qualche anno sarà semplicemente inutile: ognuno avrà il suo notiziario, i suoi vips di riferimento, la sua comunità sparsa per il mondo e incomprensibile al vicino di casa. In un certo senso gli immigrati ci precedono. E il burqa, perché mai dovrebbe passare di moda? Viceversa, ha qualcosa di futuristico: poter passeggiare in un mondo in cui nessuno sa chi sei, completamente libera di sottrarti dal giudizio di chi non appartiene alla tua comunità... non è un'esigenza solo islamica, anzi. Chissà, tra qualche anno farà il botto anche da noi.
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Il Merlo maschio

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Ma voi sapreste dire esattamente cosa c'è di sbagliato in un burkini? Ovvero, cosa c'è di sbagliato nel recarsi in una piscina insossando un indumento che copre quasi del tutto le forme femminili?
È una questione di praticità, di igiene, di sicurezza? No, l'indumento è fatto apposta per essere adoperato in piscina.
Non si può identificare il volto di chi lo indossa? E perché mai, se l'unica cosa scoperta è il volto? (peraltro, finché lo usano tre in tutta Italia, l'identificazione ha l'aria di un falso problema).
Spaventa i bambini”? Ecco, questo invece sì che è un vero problema. Bambini italiani che si spaventano davanti a figure femminili completamente coperte... E poni che un giorno per sbaglio passino davanti a una statua della Madonna (in Veneto se ne trovano alcune), ti immagini lo choc?

Più probabilmente è una questione religiosa, e cioè: il burkini non va bene perché è roba islamica. Infatti, se se lo infila una ragazza italiana allergica al cloro, nessuno si preoccupa: il burkini ridiventa una comunissima “muta”, i bambini non si spaventano più, il bagnino non si attiva, i giornalisti non ne scrivono niente. È come ritrovarsi e inginocchiarsi in piazza: tutti lo possono fare, è garantito dalla Costituzione... ma se si scopre che stanno pregando in arabo non va più bene, scandalo (“Ma avevamo chiesto il permesso” “Non importa, è uno scandalo” “Ma c'è libertà di culto...” “Sì, ma mica in piazza”).

Se tutto questo ancora non vi basta per trovare esecrabile il burkini, se insomma siete alla ricerca di una ragione in più per odiarlo senza passare per bambini frignoni o comunissimi islamofobi, Repubblica di giovedì scorso vi dava un ulteriore motivo, forse determinante. O no? Insomma, valutate voi. Il burkini è sbagliato perché eccita Francesco Merlo.
Esatto, proprio così. L'indumento riprodotto nella foto sopra ha il potere di risvegliare gli appetiti sessuali del siculo editorialista.
Il bikini, che passa inosservato, è più casto del burkini che morbosamente, almeno nelle nostre piscine, spinge a indagare e a spiare le forme dei corpi femminili. E di sicuro il Corano invita al pudore ma non al martirio come espediente erotico. Fermo restando che in Europa ciascuno ha il diritto di coprirsi come vuole, anche quando fa il bagno in piscina o al mare, non ci pare soltanto ridicolo che una signora si immerga con una specie di aderente cappotto. Fosse un abito da sera ne subiremmo il fascino, e potremmo anche regalarlo alle nostre donne che, in certi momenti, giocano a lasciare indovinare cosa c' è sotto un vestito castigato tra luci, calici e sorrisi di sana seduzione [Non male. Se il burkini fosse un abito da sera, sarebbe un regalo da maschio latino. E se avesse le rotelle sarebbe un carrello della spesa, aggiungerei]. Al contrario, in piscina, una donna in abito da sera viene subito spogliata dagli sguardi maschili.
A questo punto sorge spontanea una domanda: Merlo, che piscine frequenti? Donne in abito da sera, sguardi maschili che spogliano... no, così, per curiosità, che orari fanno? Ci sono sconti per i dipendenti pubblici? Eh, no, niente, mi ero distratto. Torniamo al pezzo.
Mettete, per dire, una suora in una piscina
Che idea. Sul serio: perché non mettiamo una suora in piscina? Ma se la suora preferisce di no (non possiamo mica obbligarla, noi), perché non la mettiamo almeno ogni tanto in prima pagina? Insomma, la storia ci sarebbe: decine di migliaia di donne nella sola Italia che in qualsiasi stagione, in barba ai costumi correnti, vanno in giro coperte dai capelli in giù: sostengono di farlo per libera scelta, ma sarà vero? Anche le mogli islamiche dicono così, mica la beviamo. E sapete una cosa? Molte di queste signorine lavorano nelle scuole! Nelle stesse scuole dove una musulmana non può coprirsi i capelli perché... “spaventa i bambini”.

Ma tergiverso. Torniamo a Merlo, e al suo esperimento mentale: cosa succede se tuffiamo una suora in piscina? Beh, secondo il principio di Archimede, dovrebbe riaffiorare. Certo, con quei vestiti... ecco, in questo caso un burkini le farebbe persino comodo, tuttavia...
No, scusate, sono sulla cattiva strada. A Merlo non interessa la suora in quanto corpo grave immerso in un fluido, bensì come fonte di interesse lascivo. Come, pure la suora? Ebbene sì, essa pure.
Mettete, per dire, una suora in una piscina e vedrete come accenderà i più lascivi: gomitate, risatine...
Ora io non so che suore ci siano dalle vostre parti, ma l'immagine di una di quelle che ho frequentato io, siano clarisse o delll'ordine del SS. Cuore di Gesù, immersa in una piscina, non mi accende proprio. Oserei dire che mi spegne anche un po'. C'è qualcosa che non va nella mia virilità? Ma insomma in che razza di piscine vai, Merlo? Che gente frequenti? Si danno le gomitate quando si tuffano le suore? Diciamola tutta, è quel tipo di gente che va tenuta lontana dai termosifoni tubolari, è così? Gente a cui il pastore non affiderebbe il gregge nemmeno per il tempo di una pisciatina, così hanno molto tempo libero e vanno in piscina con Merlo a guardare le suore. E non ce l'hanno una doccia fredda, in quella piscina lì? Perché, insomma, potrebbe aiutare.
Insomma queste donne in burkini rimettono in vita tutto l' eros represso dei maschi caproni, li risvegliano, li provocano al gioco dell' indovina cosa c' è sotto, se mutande e reggiseno, se tanga «e chissà com' è fatta..., e chissà quanto è rotonda». È l' eros dei nostri preti con la tonaca, quello che piaceva alla frigida Lulù di Jean Paul Sartre: il burkini, quando non è ridicolo, è un vizio.
Va bene, abbiamo capito (il pezzo continua per altre tremila battute, ma abbiamo capito). Sintetizzando ulteriormente: Il burkini cosa religiosa sembra, ma in realtà esca sessuale è.
Beh, ma fosse anche?

L'idea che nell'era di youporn qualcuno riesca ancora a eccitarsi con una muta da sub, se non facesse sorridere, sarebbe commovente: non tutto è perduto, ci sono ancora margini di erotismo inesplorati. Ditelo ai cameramen di Sarabanda che per mesi hanno seguito il fondoschiena di Belem Rodriguez che andava a tuffarsi: basta così, tornate indietro (anche perché il passo successivo sarebbe la colonscopia), l'anno prossimo fasciatela di cotone dalla testa ai piedi, garantisco che a molti basterà – perlomeno ai compagni di nuoto di Merlo.

Ma fosse anche. Siamo laici, che senso ha fare del moralismo? L'islamica ha diritto di fasciarsi, il maschio siculo di eccitarsi: chi ci rimette? Mi sembra un raro e commendevole esempio di situazione win/win. E allora?

E allora forse senza volere Merlo ha centrato il problema. Quello che ci disgusta di più, dell'Islam, non è il maschilismo. Non sono le bombe (che per ora da noi non si son viste). Quello che ci rende l'Islam più indigesto di altre religioni, è che ci assomiglia da vicino. È la nostra foto in bianco e nero, di quando eravamo più giovani e passavamo pomeriggi in piscina nel tentativo d'intravedere un'ascella: e tra gomitate e risatine si passava il sabato. Il ritratto di noi stessi da poveri, questo è l'Islam. L'Internazionale Terrona(*) che ci torna in casa – speravamo di averla fatta fuori, sommersa di rifiuti postmoderni, niente da fare: eccola puntuale col suo fardello di donne fasciate e maschi perennemente allupati. I nordici queste cose non le possono capire: noi gli arabi li odiamo come si odiano i parenti poveri. Che ci piovono in casa. E il prete dice pure che non possiamo tenerli fuori, ah, sciagura.

* (c) Lia, mi pare.
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Chi denuncia Ki

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(Riveduto e appena appena corretto).

L'anno della Tigre di Carta

“Buongiorno, desidera?”
“Buongiorno, volevo fare una denuncia”.
“Sì, un attimo che accendo il terminale… è un furto?”
“No, veramente no”.
“Atto vandalico?”
“Io veramente ero venuto a denunciare… come si dice… scusi, sono poco pratico, sa? Un’in…”
“Un’intimidazione mafiosa!”
“No, no, un’immigrazione”.
“Ah”.
“Clandestina”.
“Sì, sì, ho capito”.
“Insomma, c’è questa persona qui che è un immigrato clandestino”.
“Sì”.
“E sono venuto a denunciarlo. Perché adesso è reato, no?”
Certo. Ma questa persona, sa come si chiama?”
“Altroché”.
“Conosce il luogo dove abita, o dove lavora?”
“So tutto”.
“E ha ragionevoli argomenti per sostenere che si tratta di un immigrato clandestino?”
“Ne ho le prove”.
“Bene, lei ora mi dirà tutto, io verbalizzerò…”
“E andrete ad arrestarlo!”
“Se lo riterremo necessario”.
“Come necessario! Dovete farlo e basta! In Italia c’è… come si chiama… l’obbligatoria azione”.
“L’obbligatorietà dell’azione penale. Certo che lei è un esperto”.
“Grazie. Ho studiato un po' legge, al mio Paese”.
“Anche a me sarebbe piaciuto, ma sa… famiglia numerosa”.
“Non me lo dica”.
“Veniamo al dunque. Lei si chiama?”
“Ki Demei. K, I, spazio, Demei scritto come si pronuncia”.
“Ah, perfetto. E di cognome?”
“Ki”.
“Ki Ki Demei?”
“No, solo Ki-spazio-Demei”.
“Aaaaaah, ho capito. Scusi, eh, ma certi cognomi stranieri veramente sono una cosa...”
“Ha tutta la mia comprensione”.
“Bene. Allora, Ki Demei, nato il”
“Tredici luglio 1974”.
“Anno della tigre!”
“Complimenti. Non mi dica che...”
“Beh, sì, sono anch’io del 1974. Dunque, Ki Demei, nato il 13/7/1974 e residente a…”
“Ahem… scriva così: residente a Canton, Cina”.
“Quindi lei non risiede in Italia”.
“No”.
“Strano, il suo italiano è molto buono. Ha un documento della Repubblica Popolare Cinese? Passaporto, carta d'identità...”
“No. Però una denuncia la posso fare lo stesso, no? Voglio dire… Mettiamo che io sia un turista e mi abbiano rubato il portafogli…”
“Giusto. Allora: Ki Demei, nato il 13/7/74 e residente a Canton, Cina, in data 23/9 presente anno si recava nella caserma dei carabinieri di Campogalletti (MU) e segnalava alle autorità competenti, ivi rappresentate dall’appuntato Panunzio Gabriele, la presenza su suolo italiano di un immigrato clandestino, rispondente al nome di...
“Sì?”
“Lo chiedo a lei: rispondente al nome di?”
“Eh?”
“Questo immigrato clandestino, insomma, come si chiama?”
“Ah, lui! Si chiama Ki Demei”.
“Cognome?”
“Ki”.
“Kikidemei?”
“No, Ki-spazio-Demei”.
“Aaaaah. Tra l’altro è un nome che ho già sentito… sta a vedere che ha dei precedenti”.
“Ma veramente…”
“Aspetti. Anche lei si chiama Ki Demei”.
“Non posso negarlo”.
“Un caso di omonimia, capisco”.
“No, forse non ha capito. Sono sempre io. Sono venuto a denunciare me stesso. Sono un immigrato clandestino. Arrestatemi”.
“Beh… beh… non corriamo”
“C’è la cosa, l’obbligatorietà dell’azione penale”.
“Ma scusi, perché ci tiene così tanto a farsi arrestare?”
“Si metta nei miei panni. Io lavoro ai mercati, faccio il giro della provincia. Tutte le mattine la sveglia alle cinque. Con la pioggia e con la neve. Cinque anni così. Non sono abituato, in Cina studiavo legge. Sono stanco”.
“Poteva anche denunciarsi prima”.
“Prima mi avreste rimpatriato come clandestino. Ma adesso non potete”.
“Come sarebbe a dire che non possiamo?”
“Non potete, perché l’immigrazione clandestina è diventato un reato, e quindi mi dovrete processare”.
“E che sarà mai un processo”.
“Ma io ricorrerò in appello”.
“Non mi faccia ridere … voglio dire, se tutti gli immigrati clandestini ricorressero all’appello…”
“Sì? Vada avanti”.
Si bloccherebbero tutti i tribunali!
“Questo non è un problema mio. Io sono un indiziato di reato, e come tale ho diritto a un giusto processo”.
“Guardi che rischia una bella multa”.
“Non posso pagarla, sono nullatenente e nullafacente”.
“Ma se mi ha appena detto che fa il giro dei merc... ah. Comincio a capire”.
“L'unica è mettermi in una prigione, o centro di detenzione come li chiamate adesso. Confrontate al sottoscala dove dormo non mi sembrano male”.
“Ma scoppiano”.
“Già. Probabilmente sarete costretti a mettermi fuori, magari a trovarmi un lavoro in attesa del giudizio. Ora, si dà il caso che io abbia studiato i tempi della giustizia italiana. Direi che tre quattro anni non me li toglie nessuno”.
“Ma poi la manderanno a casa”.
“Chi lo sa? Nel frattempo sarà cambiato il governo, e faranno una sanatoria. A dire il vero tutto lascia pensare che la sanatoria arriverà molto prima. È un peccato, perché poi mi toccherà tornare ai mercati. Io li odio, i mercati”.
“Doveva fare l’avvocato”.
“è vero. Andiamo avanti, le va?”
“Dunque: Ki Demei... segnalava alle autorità competenti, ivi rappresentate dall’appuntato Panunzio Gabriele, la presenza su suolo italiano di un immigrato clandestino, rispondente al nome di...
“Ki Demei. Faccia copia incolla”.
…nato il 13/7 eccetera… residente a?”
“Via Garibaldi tre, è il campanello con gli ideogrammi nel citofono. Se vuole lascio anche il cellulare”.
“Lei comunque la fa troppo facile”.
“Le cose stanno così! Adesso che sapete dove trovarmi siete costretti ad arrestarmi”.
“Ma lei potrebbe anche non essere un vero clandestino”.
“Certo che sono un vero clandestino”.
“Eh, facile a dirsi. Ma può provarlo?”
“Altroché. Non ho nemmeno un documento”.
“Questa non è una prova, al massimo è una mancanza di prove”.
“Sta scherzando?”
“Chi mi assicura, per esempio, che lei non abbia distrutto il suo permesso di soggiorno? Cioè, si metta nei nostri panni. Dobbiamo metterci ad arrestare il primo venuto soltanto perché dice di non avere documenti?”
“Prima lo facevate”.
“Ma prima era facile, con un foglio di via, al limite un bel charter e via al paese natale. Ma se adesso dobbiamo arrestarvi e giudicarvi tutti, eh, hai voglia”.
“Quindi non verrete ad arrestarmi”.
“No, credo di no”.
“La solita Italia. Fatta una legge, trovato l’inganno”.
“Piano con le parole, eh? Altrimenti...”
“Altrimenti?”
“Ti arresto per vilipendio”.
“Perfetto! Cos’è il vilipendio?”
“Sono le offese”.
“Ah, bene. L’Italia è una distesa di giunchi appassiti che oscilla al vento osceno della stupidità”.
“Eh?”
“Era un’offesa alla tua nazione. Arrestami”.
“Era solo una licenza poetica. Al massimo una libera espressione di giudizio. Non ti arresto”.
“Italia merda. Arrestami”.
“Ti piacerebbe, eh? Non ti arresto”.
“Mi devi arrestare! È vilipendio! C’è l’obbligatorietà!”
“No, invece, non ti arresto, è solo satira”.
“Il presidente è un invertito nazista”.
“Satira, satira politica”.
“Ma va’!”
“Come no? Guarda, rido anche, ah ah ah”.
“Donne italiane tutte puttane”.
“Ih Ih Ih, che spasso”.
...
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Gelateria bipolare

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L'eurosagra del Partitino

(In tv, tripudi di analisi sulle elezioni. Scendo in strada: una famiglia di cinesi, due pachi, un magrebino. Qual è il Paese reale, quello in cui vivo io? Gran parte di chi passeggia qua fuori non ha votato. Buona parte non risulta nemmeno nelle statistiche sull'astensione. Ma vi sembra normale che essere italiani sia una caratteristica innata, come essere anemici, o Scorpione? A me no, e forse questo dovrebbe chiudere il discorso. Voto agli immigrati, subito. E non m'interessa se voteranno a destra. A questo punto forse preferirei una Lega Nord con candidati nordafricani a un Pd ariano).

C'è una gelateria di provincia che ha un problema di gestione: non riesce letteralmente a fornire un servizio (=gelato) decente ai suoi clienti. La nocciola è troppo dura, non si spalma sul cono. La fragola per contro si squaglia immediatamente sulle scarpette delle bambine che piangono. Chi chiede il pistacchio rischia l'intossicazione. I guadagni al netto delle spese sono scarsi.
Il gelataio si pone interrogativi seri sulla sua vocazione, finché una sera, durante una vacanza all'estero, ha un'intuizione: bisogna ridurre i gusti, come in Inghilterra. “Ma certo, come ho fatto a non pensarciprima. Il problema non ero io, ma il mio retaggio culturale che mi obbligava a tenere dieci vaschette per soddisfare i variegati gusti di un pubblico che poi, se vai bene a vedere, alla fine non sa cosa vuole e sceglie sempre cioccolato o limone. Col risultato che, appunto, la temperatura di congelamento della nocciola non andava bene per la fragola, e il pistacchio andava a male perché era un gusto di nicchia e restava nella vaschetta per mesi”.
Una volta tornato a casa, si affretta a lanciare la sua nuova gelateria bipolare: al posto di tutte le vaschette colorate, due vasche enormi: limone e cacao. Sulle prime la gente mugugna: non siamo mica in Inghilterra qui, se vogliamo nocciola non ci puoi dire che tanto il cacao è la stessa cosa. Alla fine però quasi tutti si adeguano, anche perché alternativa non ce n'è.
A dire il vero una c'è: la grande fiera europea, un carrozzone che passa ogni cinque anni, e comprende una gelateria itinerante a 12 gusti. Ora, nel paesino è vero che sono di poche pretese, ma quella volta che passa il carrozzone è normale che si sbizzariscano: come puoi biasimarli? Anche i patiti del cioccolato, li vedi passeggiare con certi mostri, mango+stracciatella con spruzzatina di curry. Poi la fiera se ne riparte, e riapre la gelateria bipolare, col suo limone e il suo cacao.

V'è piaciuta la parabola? Altre da servirvi oggi non ne ho, mi dispiace. Mi sto specializzando in storielle cretine? È possibile; voi da parte vostra non cedete all'ovvio di chi scopre in queste ore che gli italiani non sono bipolari, pensate un po', perché alle europee votano per i partitini. Non è niente di nuovo, davvero: le europee servono a questo. Sono la nostra riserva di proporzionalità, la sagra del partitino che ogni cinque anni per un pomeriggio ci fa sentire speciali. Ma passa subito, e il giorno dopo torniamo bipolari: berlusconiani o anti, comunisti o anti, antianti o anti.

Il punto è che gli italiani non sono necessariamente bipolari o frazionati: sono un insieme enorme di persone che reagiscono a domande. Se le domande pongono un'alternativa secca (“Amate il Berlusconi Way of Life o no?” “Più Stato o più individuo?” “Ragione o religione?”) si polarizzeranno; se la domanda è vaga “Chi sei tu?”; “Che futuro vorresti per i tuoi figli?” si disperderanno in una pletora di risposte vaghe. Le Elezioni Europee sono una domanda vaga. Ecco forse spiegato il paradosso delle elezioni supernazionali che in assoluto diventano le più locali: quelle dove possiamo toglierci lo sfizio di votare chi ci assomiglia di più. E questo magari potrebbe anche servire da risposta a chi si lamenta, puntualmente “che non si parla mai dell'Europa”: di che Europa dovremmo parlare? A dire il vero un'idea di Europa ce l'abbiamo tutti, ed è meno nebulosa di quanto si creda: per i leghisti è quella cosa in cui i turchi non devono entrare; per Di Pietro è una serie di leggi a cui anche gli intrallazzoni italiani devono sottostare. Tutto qui, ma c'è veramente molto da aggiungere?

Aspettate, mi è venuta un'altra metafora, magari è quella buona: se le elezioni legislative sono il momento di massima polarizzazione, quello in cui tutto il nostro coefficiente di sovranità si concentra in due schieramenti, le europee sono al punto opposto del ciclo: nel momento in cui sentiamo meno la necessità di compattezza e ci liberiamo alle nostre esigenze identitarie, estetiche, culturali, ecceccecc. Da questo punto di vista non ha nemmeno tantissima importanza dove rifluisce il nostro voto tra una legislativa all'altra: ai leghisti di lotta e di governo o a Casini, o a nessuno; non importa: tra quattro anni tornerà da Papi – se Papi tiene. Variabile indipendente.

Stesso discorso a sinistra: se persino i più onesti tra gli uomini del Pd non stanno stracciandosi le vesti per quel vergognoso 26% è perché sanno che il risultato è più che sufficiente a tenere la posizione di maggior partito di centrosinistra intorno al quale, nel momento di massima contrazione (tra quattro anni, o anche prima) si coalizzeranno volenti e nolenti i radicali, i dipietristi, i vendoliani, i non votanti, tutti quelli che non si rassegnano a mandar già l'amaro cacao governativo. Andrà così? Andrà così.

Sarà necessariamente una nuova battaglia pro o contro Berlusconi? Non è detto: B potrebbe anche non esserci più. Oppure da qualche parte potrebbe saltare fuori un leader, un obama capace di sintetizzare la linea di un centrosinistra italiano che a ben vedere non ha più contraddizioni di quello inglese o tedesco (ha semplicemente una storia più complessa di faide interne). Anzi, in linea teorica non sarebbe nemmeno necessario un grande leader: potrebbe esserci una svolta generazionale, una presa di coscienza collettiva... sì, sarebbe fenomenale, ma si fa molta meno fatica a puntare tutto su un leader. La Serracchiani? Perché no. Io non vado matto per il concetto di leadership, e il culto della personalità non mi è mai riuscito bene, ma l'esempio americano mi sembra l'unico che abbia funzionato negli ultimi anni, mi piaccia o no. Farò il possibile per farmelo piacere – ma ogni cinque anni fatemi prendere un cono meringa-papaya. Uno solo. Poi dicono che non serve, l'Europa.
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ἔνθα δ' ἀνὴρ ἐνίαυε πελώριος, ὅς ῥα τὰ μῆλα

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La terra dei ciclopi

Adesso forse possiamo dircelo senza scandalo: non sarebbe un Paese migliore, l'Italia, se portasse agli stranieri in attesa di giudizio lo stesso rispetto che offre ai cani rognosi che uccidono donne e bambini?

Ora, è normale che un uomo che stupra e uccide sia più odioso ai suoi simili di un animale selvaggio. Ma com'è che il signore che applaude il linciaggio del primo rumeno intravisto nel luogo di uno stupro è spesso lo stesso pronto a ribadire che l'animale assassino non va abbattuto ma capito, che è vittima di una politica dissennata che provoca il randagismo, e che quindi la colpa alla lunga tocca sempre all'uomo? Il che non è nemmeno sbagliato, in una prospettiva razionale; ma com'è che siete razionali solo quando vi toccano gli animali?

Perché bisogna sempre fare uno sforzo di capire l'animale, anche quando è rabbioso e ringhia? Perché uno sforzo simile non se lo meriterebbe anche lo straniero povero e non integrato? Forse che anche lui non è un po' vittima di un sistema che non funziona, di circostanze sfavorevoli? No, lui no, lui è una bestia feroce. Va interrogato finché non lo ammette.

Ricordiamoci che nessuna delle due emergenze (randagismo e stupri) è un'emergenza vera: gli stupri non sono in aumento, e i cani italiani mordono meno di quelli svizzeri. Sono entrambe fenomeni mediatici, che procedono da fatti orribili e poi, telegiornale dopo telegiornale, diventano qualcosa di più: messaggi in codice, facilmente decifrabili, che ci annunciano che nessuno è al sicuro. Va bene. Ma poi dovreste spiegarci perché l'emergenza rumeni funziona meglio di quella dei cani. Perché nel secondo caso ci sarà sempre un esperto che fa da contraltare, e che ci spiega che in fondo in fondo il cane non è cattivo e non va abbattuto indiscriminatamente; mentre quando è l'ora di linciare il rumeno un esperto del genere non c'è, non si trova, e anche se si trovasse probabilmente non riusciremmo ad ascoltarlo, ci farebbe troppa rabbia.
Invece l'avvocato dei cani riesce sempre a toccare qualche corda giusta, anche nel cuore di chi ai cani è allergico, come me. Se chiudo gli occhi me lo immagino in camicia di fustagno e cappello di paglia, mentre sentenzia: più conosco gli omini, più voglio bene alle bestie. Questa non è la solita lagna animalista o politically correct, la gente così divora tegami di mezze maniche al sugo di cinghiale. È la saggezza contadina, forse, o forse qualcosa di più antico, di quando eravamo poco più di bestie anche noi: pastori.

Viene in mente Omero, che della nostra terra aveva vaghe nozioni, e dei suoi abitanti forti pregiudizi: mostri deformi e pelosi, in grado di badare agli animali e poco più, incapaci della più elementare forma di civiltà: il rispetto per gli ospiti. Quando l'uomo greco, civile e curioso, arriva sulle nostre spiagge e s'infila nella nostra grotta per scambiare un dono, noi lo facciamo a pezzi e lo mangiamo crudo. Le uniche creature che trattiamo con pietà, persino con tenerezza, sono le nostre greggi, e perfino l'astuto Ulisse deve ricoprirsi di un montone per rimediare da noi una carezza. Forse davvero i ciclopi siamo noi.
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Il Percome Delle Cose

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Per favore, non abradere tua figlia
(Questo mi è venuto un po' cinico, vi avverto).

L'edificio della mia vita assurda è fatto di tanti piccoli mattoni bizzarri, come questo: una pubblicità contro le mutilazioni genitali femminili a pranzo e a cena, da una settimana, con una voce che dice in un accento strano: “Noi padri e madri siamo responsabili, nessuno escluso”. Pagata del Ministero Pari Opportunità, cioè da me. Insomma, io sto pagando per farmi dire a pranzo e a cena che se qualcuno infibula la responsabilità è anche un po' mia di possibile padre o madre. O di mio padre, o di mia madre. Mamma, papà! E vergognatevi un po', no?

E di tutto ciò, io non rinuncio a chiedermi il perché, e soprattutto il per-come. Quest'ultimo in particolare è la mia maledizione. Mi disse l'indovina: Tu Passerai La Tua Vita A Chiederti Il Per-Come Delle Cose. (Sempre meglio di parlare con tutte le iniziali maiuscole, le risposi).

Primo Scenario:
Dopo mesi e anni di appostamenti e ricerche, il Ministero delle Pari Opportunità ha finalmente tracciato l'identikit dei genitori-tipo che praticano le mutilazioni genitali femminili in Italia. Hanno dai 20 agli 80 anni e guardano i canali nazionali, soprattutto i tg di pranzo e cena. A questo punto la geniale Ministro ha un'idea: invece di spendere soldi a pioggia in iniziative di sensibilizzazione, facciamo qualcosa di mirato: parliamo direttamente a loro, negli spazi pubblicitari in cui è più facile sorprenderli! Per dire l'altro giorno mi ero quasi risolto a infibulare la mia bambina, stavo giusto sterilizzando l'ago sul fornello del gas, quando è passata questa pubblicità che mi ha toccato il cuore e... “ho scelto: non condannerò mia figlia”. Certo che al Ministero ne sanno una più del diavolo, eh. Come hanno fatto a capire che quel Messaggio serviva proprio a me?

Secondo Scenario:
Dopo mesi e anni di indagini e ricerche, il Ministero delle Pari Opportunità ha tracciato l'identikit dei genitori-tipo che praticano le mutilazioni genitali femminili in Italia. Si tratta di famiglie giovani di origine africana, che difficilmente guardano i canali Rai in chiaro, e andrebbero dissuase attraverso un'azione capillare di assistenza sociale e medica che... costa uno sfruculione di soldi, non li abbiamo! Ci servono per gli sgravi alla Fiat e gli aiuti al digitale terrestre! Ma per un po' di spazi pubblicitari in Rai, per quelli sì, tanto è una partita di giro, e nessuno potrà dire che non facciamo niente per il problema. Per cui mi raccomando, commensali italiani, memorizzate: il Ministero e la Presidenza del Consiglio stanno facendo qualcosa di molto concreto contro: Escissione, Asportazione, Abrasione, In-fi-bu-la-zio-ne... ve ne siete persi uno? Non vi preoccupate, a ora di cena replichiamo. E se vostro figlio vi chiede di che si tratta? Ma voi glielo spiegate, tanto i rigatoni ormai li avete sputati comunque dal disgusto.

Terzo Scenario:
A un certo punto qualcuno avrà anche pensato che è senz'altro un peccato che tutti 'sti immigrati neri escidano, asportino, abradano, infubulino... ma soprattutto è un peccato che lo facciano senza che i loro vicini bianchi ne sappiano niente. Che c'è poi il rischio, tra un po', di trovarsi al prossimo linciaggio di un negro senza nemmeno sapere perché abbiamo voglia di ammazzarlo. Forse valeva la pena di investire in uno spot che facesse capire: Ehi, bianchi, ma lo sapete cosa fanno i neri alle loro bambine? Ehi, la vedete la bimbetta tanto carina che gioca col cerchio sottocasa? Beh, lo direste mai? I loro genitori sono dei mostri! Non sentite che è la loro voce che parla nello spot? “Noi padri e madri siamo responsabili, nessuno escluso”. Capito? Sono tutti uguali!
E quindi? C'è qualcosa che potete fare? No, no, niente, ci pensa il Ministero, voi dovete solo avere un po' più paura di loro, tutto qui. Fine dello spot. Digerite pure con ansia.
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Tutto il mondo è sagrato

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"Ho imparato a non predicar in piazza..."

Le immagini dei musulmani che durante manifestazioni pro-Gaza pregavano in piazza del Duomo a Milano e in piazza Maggiore a Bologna hanno fatto molto scalpore, benché la cosa fosse assolutamente legale (pregare in pubblico non è un reato), e addirittura condotta alla presenza delle forze dell'ordine. Sono stati accusati di avere fatto un gesto provocatorio, il che è senz'altro vero: pregare in pubblico contiene sempre una dose di provocazione, soprattutto durante una manifestazione, che è un evento che dev'essere provocatorio, altrimenti tanto vale stare a casa.

Ma diciamo la verità: quello che ha reso provocatorie quelle preghiere non è tanto l'immagine di centinaia di musulmani inginocchiati, quanto lo sfondo su cui si stagliavano: il Duomo di Milano, la Basilica di San Petronio. Al punto che qualcuno si è spinto ad affermare che quanto successo sia conseguenza diretta della mancanza di moschee in Italia: come se si fossero ridotti a pregare nella piazza più centrale della città perché mancava loro una struttura adatta in periferia. Ma quello è un altro problema. In realtà i musulmani volevano manifestare davanti a tutti, e hanno chiesto e ottenuto dalle autorità competenti della Repubblica Italiana di poterlo fare nelle piazze centrali di Milano e di Bologna: e le autorità non potevano non concederlo, perché manifestare è un diritto, e pregare durante una manifestazione (ripeto) non è un reato. Fino a oggi, almeno. Ma domani?

Nei giorni successivi diversi organi di stampa hanno parlato di preghiera musulmana “sul sagrato del Duomo”, mostrando un'ignoranza architettonica abbastanza sospetta, come ha ben rilevato Malvino. Il sagrato è lo spazio immediatamente prospiciente una chiesa, di solito delimitato da gradini, che per i cattolici è già luogo consacrato: in effetti alcune cerimonie (battesimo, veglia pasquale) si celebrano in parte sul sagrato. Ma le stesse foto dello scandalo dimostrano che i musulmani, meno digiuni di architettura e più attenti alla sensibilità cattolica di parecchi giornalisti, non hanno affatto pregato sul sagrato.

È vero che si sono inginocchiati in direzione della Mecca. È vero che lo hanno fatto in piazze italiane segnate dalla presenza di monumenti appartenenti alla Storia della religione cattolica. Ma siamo in Italia, e in Italia c'è una chiesa importante più o meno in ogni piazza importante: cosa facciamo, vogliamo proibire le manifestazioni in tutte le piazze importanti? Pare di sì. Da quello che ha annunciato il ministro Maroni sembra di capire che da qui in poi nei centri storici le manifestazioni saranno off limits. Si faranno in periferia, così eviteranno di provocare qualcosa o qualcuno.

Ah, e siccome non par bello proibire i cortei soltanto ai musulmani, che in teoria hanno gli stessi diritti degli altri, i cortei nei pressi di luoghi di culto (cioè più o meno dovunque sorga un centro cittadino) d'ora in poi saranno proibiti a tutti. Anzi, no: probabilmente qualche manifestazione cattolica si potrà fare, sarà sufficiente mascherarla da veglia di preghiera: non c'è infatti nulla di provocatorio infatti nel pregare all'interno del Sagrato, e ormai (lo abbiamo capito) tutti i centri storici sono sagrati. In attesa di allargare il concetto di sagrato all'Italia tutta.

La cosa curiosa, che i telegiornali si sono affrettati a spiegare, è che “i musulmani sono d'accordo”, e che addirittura “hanno già chiesto scusa” (alla Chiesa o allo Stato? C'è differenza?) per la provocazione di venti giorni fa. Si vede che alla fine sono persone pragmatiche. Fino a venti giorni fa magari erano convinti di vivere in uno Stato laico, dove il permesso di manifestare si richiede in prefettura o in questura. Poi leggendo i giornali avranno capito che le cose non vanno così: che se in una piazza italiana c'è una chiesa, quella piazza non è più italiana, è della Chiesa, e d'ora in poi probabilmente i permessi li chiederanno direttamente al prete (e coi preti neri, quelli piccoli, molto spesso funzionerà: sono sempre quelli rossi, i graduati, che danno problemi).

Questo succede tra ieri e oggi, senza che quasi nessuno abbia da eccepire: compresi quelli che in piazza a manifestare ci andrebbero due volte al mese. Magari mi sto sbagliando, eh? Magari nell'ultima mezz'ora, mentre scrivevo, sono uscite duecento dichiarazioni scandalizzate per un decreto che lede la libertà di associazione e la libertà di parola, oltre a tonanti dichiarazioni di tutti i principali dirigenti di PD, IdV e sinistra extraparlamentare; nonché un bel post di Beppe Grillo, che di fedeli in Piazza Maggiore ne portò ben più di Maometto. Magari è così, ma lasciatemi dire che fino a una mezz'ora fa sembrava che Maroni potesse proibirci di manifestare nei centri storici senza che nessuno avesse da dire niente. Come se le nostre libertà diventassero meno fondamentali quando ci tocca condividerle coi musulmani.

(In controluce, la situazione mi sembra dimostri abbastanza bene la miopia di questo nuovo movimento ateista, che invece di far fronte comune con altre religioni minoritarie per difendere la laicità dello Stato, si barrica nella sua piccola trincea del Dio-non-c'è e si lascia accerchiare. Ma è un discorso lungo, per oggi ne ho dette anche abbastanza).
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Per solutori miserabili

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Che cosa apparirà?

Ma se mi metto a riflettere seriamente su chi potrebbe essere l'Obama italiano, se metto insieme tutte le macchie che fanno il leopardo:
  • una faccia nuova e un po' diversa
  • di minoranza ma anche da establishment, 
  • abbastanza giovane, 
  • con qualche peccato di gioventù, ma scontato da una conversione irreprensibile,
  • una fede profonda
  • disposizione a Cambiare l'Italia
  • ambizione ferocissima
  • fundraiser implacabile e disinvolto
  • uso aggressivo dei nuovi media
  • quel patriottismo che non stucca mai
  • e non dimentichiamo il bel sorriso
se poi coloro i puntini, se unisco i tratti... quello che alla fine salta fuori (se già non lo avete capito) è fin troppo simile a lui.
Allora copro tutto con un bel nero, proprio come quando da bambino sbagliavo il gioco coi puntini. Luce al minimo, massimo contrasto – ma quel ghigno non se ne vuole andare via.

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My Own Private Obama

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Obama è uno specchio

Noi, in realtà, di Obama
sappiamo poco.

Ne sappiamo poco perché finora ha fatto poco; e anche quel poco che ha fatto ci interessava meno del mito che gli abbiamo costruito intorno.
A questo punto non ha nemmeno senso chiedersi chi Obama sia: ancora un po' di tempo e lo vedremo. Forse è più interessante domandarsi cosa abbiamo voluto che fosse fin qui.

Ora è facile osservare che in Obama ciascuno di noi ha visto più o meno quel che voleva vedere, con l'entusiasmo acritico del tifoso che cerca riscatto dopo anni di sconfitte della sua squadra. Come se Obama dovesse per forza giocare per noi. Ma sì: dava l'impressione di essere sempre dalla nostra. Qualunque cosa dicesse (ma poi cosa diceva in realtà? Boh).

Non c'è neanche bisogno di fare esempi, ma facciamoli: i trentenni di belle speranze esclusi dalla stanza dei bottoni lo hanno seguito come il Mosè della loro generazione attraverso il Mar Rosso del vecchiume; i baby-boomers già rincoglioniti ci hanno rivisto Kennedy pari-pari (esattamente come col giovane Clinton, 16 anni fa); i nerd hanno visto in lui il trionfo dell'aggregazione via internet; gli afroamericani lo hanno visto afroamericano; i liberal hanno voluto vederlo liberal; gli evangelici lo hanno visto evangelico; persino qualche musulmano sarà riuscito a vederlo musulmano; e così via.

Non spetta a me stabilire quale di queste proiezioni sia più o meno sballata dalle altre, né pronosticare chi taglierà per primo il traguardo della gara tra i delusi-da-Obama; mi limito a notare che finora ognuno di noi ha usato Obama più o meno come uno specchio – ma gli specchi presto o tardi deludono, per costituzione.

Voglio dire che Obama ci deluderà, perché non può corrispondere a ciascun nostro ideale – e se anche lo facesse, ogni nostro segreto ideale ha un lato oscuro, di cui ci accorgiamo soltanto le rare volte che lo vediamo realizzato.

Anch'io naturalmente mi sono fatto il mio Obama su misura. Non l'ho voluto troppo di sinistra, perché so che non reggerebbe la prova della realtà; non l'ho preteso filopalestinese, era troppo chiedere: se per una volta rifiutasse di usare il veto all'Onu sarebbe già un miracolo al di sopra delle mie aspettative. Si vede che invecchio, da quanto poco sono disposto a farmi illudere.
Non è un trentenne brillante, il mio Obama; non è un MLK più sexy, non giocherella con l'iphone, ma ha anche lui un suo dettaglio personalizzato. Il mio Obama è fondamentalmente un figlio d'immigrato.

Non è nemmeno il colore in questione, qui: è lo stesso colore di milioni di statunitensi da generazioni. Ma il padre di Obama era un keniota – e, pare, neanche il massimo dei padri.
L'Obama che mi porto a scuola oggi è un figlio di extracomunitari che viene accolto da una società multietnica senza una piega, e nel giro di una generazione porta un cognome buffissimo sulla targhetta dell'ufficio più famoso del mondo. Questo è quanto basta per creare una leggenda, e quel che conta ancor di più della leggenda: un precedente.

Potrà gasarvi un Presidente cool, vi elettrizzerà un presidente telematico, ma quello che cambia veramente per me sta semplicemente in quel cognome assurdo. Diversissimo e simile a tutti i cognomi assurdi che mi trovo intorno a scuola: cinesi, magrebini, rumeni. Nessuno di loro, per quanto sgobbone, diventerà Presidente. Ma oggi sanno che non è giusto. Questo è quello che Obama ha già insegnato a loro e a me. Ed è parecchio.
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Ma io non c'è metodo

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Tema: descrivi la tua famiglia
Nel mia famiglia ci sono: la mia mamma, il mio papà, la mia sorella e io.
Mia mamma lavora in uno lotano negozio, ogni mese viene a casa guarda io, mia mamma sebbene un po' violenza, ma qualche volta verso io e benissimo, mia mamma è una benevola madre. 
Il mio padre è molto magro, indossare un occhiali, lui ogni giorno di mattina è telefona io dice: devi vesti bene. Mio Padre è molto interessarsi io, se io dove fa male, lui è subito bollire natrimento da me. 
Sebbene qualche volta lui
Da mia sorella nascere, io molto felice perché io dopo c'è una compagna, ma mia mamma detta dopo 3 o 4 mese mia sorella deve andare a Cina con mia zia, perché loro devono lavorano, non c'e tempo guidare lei. Io essere molto attaccati a lei. Ma io non c'è metodo.
In seguito, mia mamma porta a mia sorella andare a Cina, nonno e nonna è molto felice, dice io e mia sorella è molto rittrato, io ogni settimana fa telefona mia nonna, mia sorella mi chiama Sorella, sorella....., qualche volta io nel computer guarda foto di mia sorella, lei è molto grasso, coscia come piedi di maiale, è molto carina.
Io, mi chiamo ***, addesso in prima media, io italiano non è molto bene, io non molto piace Italia, perché è troppo noia, ***** è una città piccola, non c'è cosa da gioco, io ogni giorno in casa gioca computer, addesso occhi è un po' miopa.
Ma ogni Italiano sono gentile.


Questo tema non è stato scritto da una ragazza seduta in un angolo china sul dizionario bilingue per due ore incluso intervallo: è il puro frutto della mia fantasia.
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One people one vote

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E poi un bel giorno, all'improvviso, Veltroni batte un colpo.

Non è chiaro perché proprio adesso. È comunque tardi, ma sarebbe stato tardi anche tre anni fa. Il voto agli immigrati. Ha ragione anche Di Pietro a dire che per ora è un annuncio a vuoto. Uno slogan. Ma almeno è uno slogan. È chiaro. E riporta alla luce una verità sacrosanta. Se sono regolari, lavorano. E se lavorano, perché non possono votare?

La senti, la forza della verità che mette all’angolo gli avversari? Non c’è una sola risposta che essi possano dare a una domanda del genere. Non una che non riveli grettezza, egoismo, paura. Qui non c’è destra o sinistra, ci sono semplicemente due modi diversi di considerarsi italiani. Chi sono gli italiani? Quelli che hanno ereditato un cognome dal papà, e col cognome i diritti, i privilegi, i posti fissi e al limite i treni gratis per la partita? Oppure italiano potrebbe essere chiunque viva qui, chiunque tra Ventimiglia e Trieste si dia in qualche modo da fare per tenere in piedi questa penisola traballante. Che è più o meno quello che c’è scritto nella carta costituzionale, art. 1. Ma quella è carta, si può usare in tanti modi, ormai lo abbiamo capito. Si tratta di scegliere: che italiani vogliamo essere? Bianchi, vecchi, micragnosi attaccati ai nostri minuscoli privilegi, o un po’ più scuri e un po’ più giovani, e un po’ più aperti a un mondo che comunque ha fretta e non chiede il permesso? Ci ha messo un bel po’, Veltroni, ma ha scelto. È la prima buona notizia.

Per molti anni la Sinistra è stata accusata di favorire l'immigrazione perché voleva sostituire la classe immigrata alla vecchia classe operaia. Magari una vera sinistra avrebbe operato così, ma certo non la nostra, timida e arroccata nella difesa di privilegi di corporazione. La battaglia per il voto agli immigrati è sempre stata relegata a questione secondaria, così secondaria che a un certo punto se ne impossessò persino l'inutile Gianfranco Fini. In mala fede si dipingeva come un complotto terzomondista quello che era il primo effetto della tanto osannata (a quei tempi) globalizzazione: è stato il libero mercato del lavoro a cambiare il colore della pelle agli operai e ai braccianti, così come è stato il mito borghese dell’ascesa sociale a portare i figli bianchi degli operai sui banchi dell’università. È andata così e non c’è nulla da recriminare. Ora si tratta di ricordare che non ci sarà vera democrazia, in Italia, finché i nuovi braccianti e i nuovi operai non avranno gli stessi diritti degli altri. Questa è la vera campagna sui diritti civili.

E quando avranno il voto, magari voteranno Lega. E allora? Io me lo sogno, il giorno in cui la Lega comincerà a fare i conti con una base di elettori dalla pelle scura o dal cognome strano. Sarà il giorno in cui smetterà di essere un partito di cialtroni, in mano di pagliacci trucidi alla Borghezio. Il giorno in cui in Parlamento nessuno oserà più parlare di “reato di immigrazione clandestina” o di “reato di associazione in famiglia Rom”. Quel giorno potrei farmi leghista anch’io – perché no? Il partito che oggi candida Obama, era il partito dei segregazionisti del Sud, neanche un secolo fa. Tempo al tempo.
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Po Po Po Po Po

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Gelosia

“Sarai contento, eh, che abbiamo fatto una figura di merda”.

Ma tu come fai a saperlo, scusa.

“Perché credi che io non li capisco, i tipi come te? Credi che non ti vedo?”

In effetti cosa vuoi vedere, con quella montatura da deficiente? Davanti agli occhi hai più tartaruga che lenti.

“Credi che non lo so, che tu tifi per i Rifiuti, tifi per il Crack in Borsa, per il Caropetrolio, per il malore di Silvio, hai tifato per l'Olanda e domani persino Romania?”

Beh, sono simpatici, con quei nomi da vampiri.

“Credi che non lo so, che ti sto sul cazzo?”

Ma non farmi una scenata qui per questo, dai.

“Credi che non ci arrivo?”

Va bene, sì, hai visto giusto, mi stai sul cazzo.

“Aha!”

Ma scusa, non dovrei? Solo tu hai il diritto di odiare gli zingari e i lavavetri? Perché non dovrei odiare te per come ti vesti, per quello che sei? Sei meno qualificato di me e guadagni il doppio, la mia macchina potrebbe stare nel baule della tua, non l'hai comprata così grande apposta per starmi sul cazzo? E non dovrei godere, adesso, a ogni rincaro? Tu mi credi in possesso di chissà quale sensibilità raffinata ma non è così, io odio esattamente come odi tu, e se tu ne hai il diritto perché io no?

“È proprio qui, è proprio qui che ti volevo! Tu sei come me!”

In un certo senso sì, in un altro no, e adesso ti saluto.

“Aspetta, non ho finito. E poi sei un razzista, esattamente come me”.

Un razzista?

“Sì! Perché non importano gli occhiali, non importa la macchina, non importa niente. Io ti sto sul cazzo perché mi chiamo Mario e sono italiano. Dillo che è così”.

Ma no, non è così.

“Ah, non è così?”

No.

“E allora immaginami soltanto un po' più scuro, stessi occhiali e macchina, però mi chiamo Omar. Di colpo ti sto simpatico. Di' di no”.

...

“Aaaah, non riesci a dir di no! Lo vedi? Il contrario di un razzista è un razzista tale e quale!”

Dunque. Vediamo. Intanto, io sono una persona razionale, e non c'è nessun motivo per cui un Omar che lavora quanto te debba vivere peggio di te.

“Ma non c'è neanche nessun motivo per cui tu debba volergli bene, mentre io ti sto sul cazzo a priori! Ammetti che è così!”

Forse ho capito. Questa è una scenata di gelosia. L'Italiano Medio si è incarnato, è sceso al bar e mi sta facendo una crisi di gelosia. Perché voglio bene a Omar, e a lui no.

“E a Mariescu, e a Mariovich, e a Ma-Ru che l'anno scorso ancora stava sugli alberi, ma a me no! A me no! Scusa, eh, se ti ho ospitato e riverito per tutti questi anni...”

Mi hai trattato da coglione, per tutti questi anni. Quelli ancora no. Probabilmente lo faranno, appena annuseranno di che pasta sono, ma per ora gli do una possibilità.

“E questa sarebbe la tua spiegazione?”

Spiegazione razionale.

“No, non è razionale un bel niente. Io ti dico che c'è del morboso, nel tuo trescare col terzo mondo. Come quello scrittore, quello là come si chiama, che si faceva le vacanze in Africa”.

Sai benissimo come si chiama, lo vedi come sei? Ti riduci ad affettare un'ignoranza che non hai. E comunque quello che smignotta nei Caraibi sei tu. Io non me lo trombo, il Terzo Mondo, io ci lavoro.

“Tu dai voti migliori agli stranieri”.

Li incoraggio. Ne hanno bisogno.

“Anche mio figlio ne ha bisogno”.

Tuo figlio ha bisogno di ceffoni.

“Lo vedi! Due pesi due misure”.

Impacchetta tuo figlio e spediscilo nel Punjab, vediamo quanto ci mette a imparare l'Urdu.

“Ma c'è un motivo, lo vuoi capire che c'è un motivo storico per cui io non devo impacchettare mio figlio e Omar sì? Se siamo tutti uguali, perché Omar è dovuto venire a rompere me? Si vede che lui di me aveva bisogno. E allora deve comportarsi bene!”

Anche tu hai bisogno di lui, e lo sai.

“Ma ce ne sono tanti come lui, e io posso scegliere! Ne ho il diritto! Perché la mia nazione è più ricca e se Omar non si comporta bene, a casa! C'è la fila! E questa non è arroganza, queste sono le cose come stanno, va bene? E ti dirò di più”.

Sentiamo.

“Che io posso essere uno stronzo, può darsi, un arrogante, è possibile, e può darsi che non abbia gusto in fatto di occhiali o di magliette, ma Omar non è meglio di me. In nulla è meglio di me. Sotto quella crosticina di terzo mondo è uno stronzo tale e quale me. Se l'Urdu fosse una grande nazione e l'Italia una piccola, lui tratterebbe me come io tratto lui. Tale e quale”.

E in quel caso io vorrei più bene a te.

“Ma tu queste cose devi capirle. Perché altrimenti, con tutti i libri che ti leggi, non riuscirai a capirla mai la gente”.

La gente. È una vita che mi dite che non capisco la gente. Tutti a farmi lezioni sulla gente. Inchiodano all'incrocio, mi fanno la lezione, ripartono sgommando. Gente che due anni fa si è presa il macchinone a benzina con gli incentivi, oggettivamente dei pazzi. Bastavano tre righe di giornale per sapere che il petrolio sarebbe andato su su su, però non è che puoi chiamarli tutti minchioni, perché anche se non sono esperti del prezzo degli idrocarburi, sono tutti esperti di gente, massimo rispetto. Ma vi volete anche mettere un po' nei panni miei? È una mezza vita che prendo lezioni di gente, e ancora non basta. Ancora non vi capisco, ancora non vi amo. Poi un bel giorno arriva Omar, anzi suo figlio. Magari ha appena finito di prendere a sberle il vostro. Però poi si fa avanti quatto con un foglio in mano e chiede: professore, per favore, che c'è scritto. È una lettera che gli è arrivata a casa. Lui capisce solo che vogliono dei soldi. Stai tranquillo, gli dico, è un rimborso del ticket. Hai fatto un esame, tre anni fa, ma hai pagato più del dovuto, devi andare in posta e te ne danno indietro. E lui mi dice grazie. E io per la prima volta in molti anni mi sento utile, ci voleva molto? Utile. Mi sento come doveva sentirsi un maestro nel suo paesino a metà Ottocento, una persona che si rispetta perché sa leggere e scrivere, e quindi è utile. Non ce la fate proprio a capire che il problema è tutto qui? Con tutte le vostre lezioni di vita non lo avete mai capito, che io volevo solo sentirmi utile.

“E io volevo solo sentirmi amato”.

Io non ti amo. Sei uno stronzo. Forza Romania.

“E tu sei un povero professorino inutile. Po po po po”.
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Qi denuncia chi

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L'anno della Tigre di Carta

“Buongiorno, desidera?”
“Buongiorno, volevo fare una denuncia”.
“Sì, un attimo che accendo il terminale… è un furto?”
“No, veramente no”.
“Atto vandalico?”
“Io veramente ero venuto a denunciare… come si dice… scusi, sono poco pratico, sa? Un’in…”
“Un’intimidazione mafiosa!”
“No, no, un’immigrazione”.
“Ah”.
“Clandestina”.
“Sì, sì, ho capito”.
“Insomma, c’è questa persona qui che è un immigrato clandestino”.
“Sì”.
“E sono venuto a denunciarlo. Perché adesso è reato, no?”
“Ma questa persona, sa come si chiama?”
“Altroché”.
“Conosce il luogo dove abita, o dove lavora?”
“So tutto”.
“E ha ragionevoli argomenti per sostenere che si tratta di un immigrato clandestino?”
“Ne ho le prove”.
“Bene, lei ora mi dirà tutto, io verbalizzerò…”
“E andrete ad arrestarlo!”
“Se lo riterremo necessario”.
“Come necessario! Dovete farlo e basta! In Italia c’è… come si chiama… l’obbligatoria età”.
“L’obbligatorietà dell’azione penale. Certo che lei è un esperto”.
“Grazie. Ho studiato legge, al mio Paese”.
“Anche a me sarebbe piaciuto, ma sa… famiglia numerosa”.
“Non me lo dica”.
“Veniamo al dunque. Lei si chiama?”
“Qi Demei. Q, i, staccato Demei scritto come si pronuncia”.
“Ah, perfetto. E di cognome?”
“Qi”.
“Qi Qi Demei?”
“No, solo Qi staccato Demei”.
“Aaaaaah, ho capito. Scusi, eh, ma con tutti questi cognomi stranieri uno non ci capisce più…”
“Ha tutta la mia comprensione”.
“Bene. Allora, Qi Demei, nato il”
“Tredici luglio 1974”.
“Anno della tigre!”
“Complimenti. Non mi dica che...”
“Sì, confesso, sono anch’io del 1974. Dunque, Qi Demei, nato il tredici luglio 1974 e residente a…”
“Ahem… scriva così: residente a Canton, Cina”.
“Quindi lei non risiede in Italia”.
“No. Però una denuncia la posso fare lo stesso, no? Voglio dire… Se fossi un turista e mi rubassero il portafogli…”
“Giusto. Allora: Qi Demei, nato il 13/7/74 e residente a Canton, Cina, in data 23/9 presente anno si recava nella caserma dei carabinieri di Campogalletti (MU) e segnalava alle autorità competenti, ivi rappresentate dall’appuntato Panunzio Gabriele, la presenza su suolo italiano di un immigrato clandestino, rispondente al nome di-”.
“Sì?”
“Lo chiedo a lei: rispondente al nome di?”
“Eh?”
“Questo immigrato clandestino, insomma, come si chiama?”
“Ah, lui! Si chiama Qi Demei”.
“Cognome?”
“Qi”.
“Kikidemei?”
“No, Qi staccato Demei”.
“Aaaaah. Tra l’altro è un nome che ho già sentito… sta a vedere che ha dei precedenti”.
“Ma veramente…”
“Aspetti. Anche lei si chiama Qi Demei”.
“Non lo nego”.
“Un caso di omonimia, capisco”.
“No, forse non ha capito. Sono sempre io. Sono venuto a denunciare me stesso. Sono un immigrato clandestino. Arrestatemi”.
“Beh… beh… non corriamo”
“C’è la cosa, l’obbligatorietà dell’azione penale”.
“Ma scusi, perché ci tiene così tanto a farsi arrestare?”
“Si metta nei miei panni. Io lavoro ai mercati, faccio il giro della provincia. Tutte le mattine la sveglia alle cinque. Con la pioggia e con la neve. Cinque anni così. Non sono abituato, in Cina studiavo legge. Sono stanco”.
“Poteva anche venire prima”.
“Prima mi avreste rimpatriato come clandestino. Ma adesso non potete”.
“Come sarebbe a dire che non possiamo?”
“Non potete, perché l’immigrazione clandestina è diventato un reato, e quindi mi dovrete processare”.
“E che sarà mai un processo”.
“Ma io ricorrerò in appello”.
“Non mi faccia ridere … voglio dire, se tutti gli immigrati clandestini ricorressero all’appello…”
“Sì? Vada avanti”.
“Si bloccherebbero tutti i tribunali italiani!”
“Questo non è un problema mio. Io sono un indiziato di reato, e come tale ho diritto a un giusto processo – ah, e siccome lavorando io reitero il mio reato, perché rubo il lavoro ai commercianti italiani, credo che mi dovrete mantenere voi, in una prigione o altrove. Le vostre prigioni le ho viste, e confrontate al sottoscala dove dormo non sono male”.
“Ma scoppiano”.
“Già. Probabilmente sarete costretti a mettermi fuori, e a trovarmi un lavoro in attesa del giudizio. Ora, si dà il caso che io abbia studiato i tempi della giustizia italiana. Direi che cinque, sei anni di vitto e lavoro assicurati non me li toglie nessuno”.
“Ma poi la manderanno a casa”.
“Chi lo sa? Nel frattempo sarà cambiato il governo, e faranno una sanatoria. A dire il vero tutto lascia pensare che la sanatoria arriverà molto prima. È un peccato, perché poi mi toccherà tornare ai mercati. Io li odio, i mercati”.
“Doveva fare l’avvocato”.
“è vero. Andiamo avanti, le va?”
“Dunque: Qi Demei... segnalava alle autorità competenti, ivi rappresentate dall’appuntato Panunzio Gabriele, la presenza su suolo italiano di un immigrato clandestino, rispondente al nome di...
“Qi Demei. Faccia copia incolla”.
…nato il 13/7 eccetera… residente a?”
“Via Garibaldi tre, è il campanello con gli ideogrammi nel citofono. Se vuole lascio anche il cellulare”.
“Lei comunque la fa troppo facile”.
“Le cose stanno così! Adesso che sapete dove trovarmi siete costretti ad arrestarmi”.
“Ma lei potrebbe anche non essere un vero clandestino”.
“Certo che sono un vero clandestino”.
“Eh, facile a dirsi. Ma può provarlo?”
“Altroché. Non ho nemmeno un documento”.
“Questa non è una prova, al massimo è una mancanza di prove”.
“Sta scherzando?”
“Chi mi assicura, per esempio, che lei non abbia distrutto il suo permesso di soggiorno? Cioè, si metta nei nostri panni. Dobbiamo metterci ad arrestare il primo venuto soltanto perché dice di non avere documenti?”
“Prima lo facevate”.
“Ma prima era facile, con un foglio di via, al limite un bel charter e via al paese natale. Ma se adesso dobbiamo arrestarvi e giudicarvi tutti, eh, hai voglia”.
“Quindi non verrete ad arrestarmi”.
“No, credo di no”.
“La solita Italia. Fatta una legge, trovato l’inganno”.
“Piano con le parole, eh? Altrimenti...”
“Altrimenti?”
“Ti arresto per vilipendio”.
“Perfetto! Cos’è il vilipendio?”
“Sono le offese”.
“Ah, bene. L’Italia è una distesa di giunchi appassiti che oscilla al vento osceno della stupidità”.
“Eh?”
“Era un’offesa alla tua nazione. Arrestami”.
“Era solo una licenza poetica. Al massimo una libera espressione di giudizio. Non ti arresto”.
“Italia merda. Arrestami”.
“Ti piacerebbe, eh? Non ti arresto”.
“Mi devi arrestare! È vilipendio! C’è l’obbligatorietà!”
“No, invece, è satira, non ti arresto”.
“Il presidente è un invertito nazista”.
“Satira, satira politica”.
“Ma va’!”
“Come no? Guarda, rido anche, ah ah ah”.
“Donne italiane tutte puttane”.
“Ih Ih Ih, che spasso”.
...
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Beneath the blue suburbian skies

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Dopo di noi, la jungla

Allora, mettiamo che io stia cercando una casa in una cittadina che stavolta non vi dico, tanto l'ho già chiamata per nome altre volte.
Devo dire che andar per case è divertente. Di solito capisci che non le comprerai già dal portone; ugualmente ti fai un giro in una zona che magari conoscevi poco, getti uno sguardo da una finestra insolita, le stanze sono tutte vuote e ti metti lì a pensare a dove si accuccerebbe un bambino e dove si rintanerebbe un adolescente. Vivi un sacco di vite possibili; alla fine ti dicono il prezzo, tu fai il possibile per non ridergli in faccia, tanti saluti, la faremo sapere.

Ieri per esempio un tale ci aveva promesso “un pezzo di villetta praticamente in centro”. Alééééé! E un superattico no? Andiamo a vedere. Per essere in centro, non è in centro. È in uno di quei quadranti residenziali degli anni Settanta che hanno un certo effetto su di me, perché in luoghi simili vivevano quasi tutti i miei compagni delle elementari : casetta, cortile, un'aiuola, due ciliegi, un garage, e da qualche parte quell'uccello che fa sempre cuu-cuuu (io vivevo sopra un'officina sulla statale, vroooom! Vrooom!) Tutto questo percuote il mio cuore come la promessa di un'estate infinita, il calcetto per strada, le ragazze che saltano su piste di gesso...
“E poi, ci tengo a dirlo, è una zona italiana al cento per cento”.
“Eh, già”.
“Perché sa, adesso c'è tanta gente che scappa dal centro... senza voler discriminare nessuno, però... sta diventando una jungla”.

Fanno tutti così. Forse è colpa mia, che se mi chiedono “lei è di qui”, rispondo di no. In realtà sono nato a 15 km di distanza, in centro ci abito e ci lavoro, però non glielo dico: e il risultato è che cercano di vendermi una via di brutte casette anni Settanta come il quartiere fortificato sudafricano, sospeso tra le bidonville.
“Una jungla, una jungla”.

La principale emergenza criminalità in centro sono gli scippi in bicicletta. Giusto ieri però leggevo che è stata debellata: si trattava di un 15enne albanese che siccome in quattro mesi ha scippato 25 donne, è stato battezzato dal Resto Del Carlino “scippatore seriale”. Qui c'è tutto lo stile dei giornali locali: se in zona non c'è un assassino seriale, e nemmeno uno straccio di stupratore seriale, ci arrangiamo con lo scippatore; sarà seriale pure lui. Così non si rischia di confonderlo con gli scippatori episodici, quelli occasionali: voglio dire, se mi scappa di acciuffare una borsetta in piazza mica sono uno scippatore seriale, no? Il RdC descrive anche il suo “modus operandi”:

dopo aver individuato le proprie vittime, generalmente donne anziane a bordo di biciclette, le avvicinava da tergo, anch’egli a bordo di una bicicletta, e, con mossa repentina, asportava le borse riposte incautamente nei cestini, per poi fuggire.

Una strategia diabolica, anche se per scippare una vecchina in bicicletta non me ne verrebbero in mente altre. (Il frontale? Farsi investire e fingere un malore?)
Nel frattempo il venditore ci ha fatto vedere il piano terra. L'unica vera finestra è a affacciata a nord, e sbarrata da inferriate. “Però è molto luminoso e tranquillo... siamo tutti tranquilli, qui...”
Il figlio del vicino di casa sta suonando la batteria. Non è neanche male, dai.
“Perché senza essere razzisti, è inutile nasconderlo, quando poi arriva il rumeno, o il cinese... anche se è uno tranquillo anche lui, eh? Però il valore cambia”.

Dalla strada vedo passare una Ritmo rossa – non avesse la vecchia targa nera, penserei che è stata reimmatricolata da un fanatico del vintage. Invece no: è una Ritmo del 1981, e non stona nell'insieme. E a quel punto mi viene veramente da ridere, però non posso! E non posso neanche rifarmi gli zigomi e presentarmi alla porta con una valigetta piena di Yuan, ma Dio sa quanto mi piacerebbe.
“Buongiolno signole, ho visto sua blutta casa in qualtiele di vecchie case in cemento, abitato da anziani signoli italiani, sì? Io so che essele in vendita”.
“Ma veramente noi... non per essere razzisti, ma abbiamo deciso di fare del nostro quartiere cadente il baluardo della razza ariana, e quindi...”
“Io ho qui tlecento subito”.
“Affare fatto. Lunga vita al Presidente Mao”.
“Plesidente Mao molto”.
“Sì, piace molto anche a noi”.

C'era una via così nel paese dove abitavo. Avevo un paio di amici lì. In realtà era la via più sicura del mondo, siccome contava ben due residenti agli arresti domiciliari. Un bel risparmio per i carabinieri di ronda: due firme al prezzo di una. Però, ripensandoci, col senno della maggiore età, una via di 500 m. con due arresti domiciliari ha da essere un record. Cioè, che infanzia ho vissuto? Uno spacciava droga, l'altro droga più armi. Tutti italiani, eh, ci mancherebbe. Gente tranquilla. Solo i cani, un po' mordaci.

Invece adesso sto in centro, in affitto. Anche qui, ci avevano spiegato, “siamo tutti italiani”. Tranne un interno che restava sempre sfitto. Un bel giorno è arrivata la famiglia magrebina, col passeggino: la jungla che avanza! Io ci speravo da sempre, che arrivasse quel momento in cui si insediano gli stranieri e i prezzi crollano. Ma l'affitto non me l'hanno mica abbassato, anzi. E, scommetto, neanche ai magrebini.

Non per fare il razzista: io lavoro a scuola e quando lavoro per me le razze non esistono. Lo dico anche ai ragazzi. Gli dico che hanno fatto un esperimento molto complicato (hanno mappato il genoma, vabbè)... e hanno scoperto che le razze veramente non esistono. Ma se compro casa è chiaro che penso a tutto. M'interessa l'orientamento, il verde, il posto macchina, e m'interessa pure il colore della pelle dei vicini. Non andrei mai a vivere sopra una friggitoria cinese. Non andrei mai a vivere in un condominio con altre cinque famiglie tutte curde o cingalesi. Quindi in generale sì, preferirei vicini italiani. Non per essere razzista, anche se forse un po' lo sono.

Ma per lo stesso motivo preferirei non avere vicini poveri, e non c'è un motivo al mondo per cui la povertà debba rimanere a lungo fuori da un quartiere così dimesso. Cioè, guardatevi, girate ancora in Ritmo. Oppure vi prendete un SUV della Kia, ma a chi la raccontate? Queste vecchie case non troppo grandi e non troppo luminose, che vi verranno libere quando vi muore il nonno o la zia, non le rivenderete agli italiani – almeno finché la povertà non li avrà ripresi, questi fighetti illetterati nipoti di contadini, quindi chissà, quel giorno forse non è così lontano. Ma a quel punto il posto dello scippatore seriale albanese se lo sarà preso uno scippatore seriale di Quartirolo, e a me che differenza fa? Seriamente, che differenza fa? Le razze non esistono. Esistono ricchezza e povertà, e c'è capitato di vivere un decennio in cui la pelle scura è un indicatore di pezze al culo. Tutto qui.

E a proposito di culo, o proprietari: lo volete capire che state appoggiando con troppa sicumera il vostro su un'enorme bolla immobiliare? Parlo almeno del paese mio, dove per un quartiere del genere ti propongono prezzi assurdi, buffoneschi, catartici, dirompenti, esagerati, folli, gargantueschi, hollywoodiani, insensati, jenniferlopeziani, kafkiani, luculliani, massicci, notevoli, oppressivi, pazzeschi, quasariani, roboanti, strabilianti, temerari, unici, viziati, watussiani, xenofobi y zarri.

Un po' vi compatisco: vi hanno raccontato sin dalla culla che tutto era vanità, fuorché il mattone. Le maglierie potevano chiudere, la lira sprofondare, l'oro arrugginire, ma il mattone sarebbe cresciuto sempre. Sempre. Bastava mettere su quattro pareti e un tetto, e tutti avrebbero fatto la fila per comprartelo.
Adesso sospendono i cantieri. Ne ho visti: metton su le impalcature, poi si fermano. Nessuno ha più voglia di comprare: e voi fate pure i difficili. Valà che ve lo sognate pure voi, il cinese con la valigetta. Però anche i cinesi hanno i loro problemi, adesso.
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Sono come noi - ma si sentono meglio

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Quelli che Malpensano

Avete sentito dire anche voi che Alitalia perde un milione di euro al giorno? Bene, ora un piccolo quiz: indovinate chi paga.
E per favore, non rispondete “gli italiani”: troppo facile. Ma li sapreste isolare a colpo sicuro la razza di italiani che pagherà i debiti Alitalia? Per esempio, in una fila alle Poste, sapreste riconoscere quelli che pagheranno i debiti Alitalia da quelli che invece no?
Un piccolo test. Vi presento due persone e dovete dirmi chi dei due è della razza di quelli che pagano. Vedrete che non sarà così difficile.

Arnolfo Brembani, classe '63, nato e cresciuto a Varese, è il titolare di una piccola industria. Non vola parecchio, perché l'unico Paese estero che frequenta è il Canton Ticino, dove ogni tanto porta qualche dane' che nelle banche italiane ammuffirebbe, e ce li porta in Maserati (un regalo di Tremonti Bis).

Waseem Ahmad, classe '74, nato a Lahore (Punjab) è cresciuto anche lui a Varese, dove fa il benzinaio. Regolare. Anche lui non vola parecchio: una volta ogni due anni va a trovare i nonni in Pakistan. Se può, evita Alitalia, perché è un po' cara.

Già così è abbastanza facile, ma vi do un aiutino:

Waseem Ahmad, benzinaio, paga le tasse. Tutte. In quanto benzinaio regolare, non potrebbe fare altrimenti.
Arnolfo Brembani, imprenditore, quando può evitare di pagarle lo fa. Ultimamente questa storia del Liechtenstin, come si chiama, Liechtenstein, gli sta un po' turbando la digestione, ma lui stringe i denti (e non solo) e non vede l'ora che torni Tremonti Tris col Grande Condono.

Non si è capito? Ok, un altro aiutino.

Arnolfo Brembani, imprenditore varesotto, vota Lega Nord.
Waseem Ahmad, benzinaio regolare di nazionalità pakistana, in Italia da 9 anni, non vota. Non ne ha il diritto.

Direi che adesso è chiaro: quando Alitalia sarà salvata, a chi è che chiederanno una mano per pagare il conto? A chi è che alleggeriranno il portafoglio? Daaai, che è facile.

Un ultimo dettaglio, che forse non c'entra nulla:
Il giorno dopo aver votato per salvare Alitalia, Brembani si fermerà a fare il pieno alla stazione dove lavora Ahmad.
Quest'ultimo, un po' emozionato dall'idea di dover servire un pilota Maserati, si sbaglierà a dare il resto.
Quando Brembani, mica nato ieri, glielo farà notare, Ahmad si correggerà immediatamente, ripetendo più volte l'espressione “mi-dispiace-signore”. Brembani replicherà con un sobrio Tornatene a ca' tua, negher di merda, e poi via, verso Lugano Bella.
Che forza, il Nord. Come si fa a nascere altrove?
Bisogna essere dei gran pirla.
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dal tuo amichevole superego di quartiere

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Sradicati

A volte mi capita di chiedermi se questa città non sia un po' troppo piccola.
Perché forse mantenere un po' le distanze mi gioverebbe; e anche se qui in realtà conosco poca gente, e ho un paio di amici sì e no, ormai lo spazio libero mi si è ristretto intorno; incrocio i miei alunni al parco e i loro genitori al supermarket, e tutti hanno capito dove abito; e non è lontano il momento in cui mi troverò magari in questo stesso locale con la musica che suona, i ragazzi che ballano e qualcuno mi dirà

“Buon anno prof”

Ecco, ci siamo.

“Si ricorda di me?”

No. Troppo grande per essere stato mai alunno. Troppo giovane per fare il genitore. E in generale troppo scuro per frequentare questo posto con profitto. L'indiepop è roba da ariani, non lo sai?

“Tre anni fa”.

2008-3 = L'anno delle serali. Aaaaah, ecco, adesso ti riconosco, come stai? Bene. I tuoi colleghi? Bene. I miei colleghi? Non c'è male. Ecc.

La conversazione si sta già avviando serenamente al termine, quando mi sorprende la terribile illuminazione.
Avete presente quel brutto momento in cui, dopo aver parlato per cinque minuti con una vostra amica, vi ricordate improvvisamente che suo padre/fratello/marito è stato ricoverato tre mesi fa con una grave malattia, e vi rendete conto che in ogni caso dopo cinque minuti è troppo tardi per entrare nell'argomento, e che ormai lei ha concluso che siete dei maledetti insensibili, e stanno proseguendo la conversazione solo per educazione, dopodiché vi eliminerà dalla rubrica e scorderà ogni storiella divertente su di voi? Ecco, a questo punto mi viene in mente che il ragazzo viene da una nazione che è stata sulle prime pagine dei giornali con notizie tragiche per quindici giorni, e sicuramente laggiù ha amici e mezza famiglia, e che sono veramente un mostro a non essere entrato in argomento, e probabilmente lui sta pensando esattamente la stessa cosa, e...

“Senti, e... in Pakistan? Tutto... tutto bene?”
“Mah, niente”.
“Ma avrai qualcuno della famiglia?”
“Non so niente, prof”.
“Perché hanno oscurato le parabole, vero?”
“Non so niente, non mi frega niente, cazzi loro”.
“Ah, ok”.

(Musica. Io penso al Vangelo, chi è mia madre, chi è mio fratello, ecc.)

“Io ormai sono qui, e mi vivo la mia vita. Faccio male?”
“Sei qui da parecchio?”
“Dieci anni che sono andato via da là. Prima in Inghilterra, poi qui”.
“Prima in Inghilterra? E poi qui?”
“Sì”.
“Ma scusa, non stavi meglio in Inghilterra?”
“Troppi asiatici”.
“Ah”.

(Musica. Penso all'odore di un miliardo di cinesi che cucinano nello stesso fuso orario).

“Ma senti, no, scusa, sei asiatico anche tu, no? Come fai a dire...”
“Dove ci sono gli asiatici c'è casino, io non ne voglio sapere niente, si sta meglio qui”.

(Musica. Penso alla fuga dei cervelli).

“Gli asiatici stanno sempre tra loro, non mi piace. Io sto bene qui, ho due o tre amici, li vedo e sono a posto. Faccio male?”
“No, no”.

(Musica. Le ragazze ballano, le frangette oscillanti a tempo. I ragazzi guardano le ragazze. Qualcuno beve, qualcun altro intrallazza, nessuno si fa tentare da un dibattito sul Pakistan. Sono cose che possono accadere solo a me. Te l'immagini qualcuno al mio posto? No, appunto. Solo a me. Cosa c'è che non va in me?)

“Non è che posso sempre preoccuparmi degli altri. Qui ho la mia vita, lavoro, esco, sto bene. Così. Faccio male?”
“No, no. Allora ci vediamo”.
“Ci vediamo eh, prof? Ma lei come si chiama?”

Mi chiamo Leonardo, e faccio il supplente. Non è un mestiere, è un destino.
Giro per questa piccola città, e ogni volta che avverto una mancanza di qualcosa o qualcuno, io supplisco. Stasera per esempio supplisco alla tua coscienza.
Mentre vado via posso sentirti, che continui a chiedere al muro: “Faccio male?”
E poi allo specchietto retrovisore, nella nebbia, fino a Medolla (guida piano!): “Faccio male?”
E più tardi ancora, al tuo soffitto: “Faccio male?”
Ma non posso stare tutta notte a dirti: No, No, No. Sono solo un supplente. Nessun dio – né il tuo né il mio – mi pagherà mai abbastanza.
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un italiano vero?

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Mohamed

Il ragazzo che vedete qui a fianco è un italiano?
Chiedo a voi, io non lo so.

Nei termini di legge, direi di no. Anche se i suoi famigliari vivono e lavorano nel napoletano da vent'anni, e quindi lui potrebbe benissimo essere nato già qui. Per la legge, però, nascere in Italia non basta. Ci vuole un gotto di sangue italiano, che come è noto abbonda in Canada e in Argentina, ma in Mohamed e in suo fratello Karim, no. Questa è la legge.

E chi se ne frega della legge, d'accordo. Ci sono ben altri parametri. La lingua, per esempio. Mohamed parla l'italiano – eppure c'è qualcosa che non va. Niente di straordinario, ma neanche una sbavatura. Si muove nella lingua italiana con un'agilità che gli italiani della sua età di solito non hanno. Si vede che parla a braccio, eppure non dice sciocchezze e non si perde nella sua sintassi, come fanno ormai anche i vip in tv. Non sbaglia i congiuntivi – anche perché, saggiamente, non va a cercarseli. Insomma, parla bene l'italiano. Un po' troppo bene per sembrare un italiano.

Ma la vera nota stonata è un'altra. Mohamed è davanti a una telecamera. Qualcuno ha sparato a suo fratello per nessun motivo al mondo, per la necessità selvaggia di festeggiare coi botti, di far annusare al mondo il proprio fucile. Mohamed ha a disposizione il quarto d'ora della vita, e invece di fare una sceneggiata... parla. Non piange in camera, non maledice nessuno, non tira in ballo neanche la pena di morte che affratellò tanti telespettatori col marocchino Azouz. Un italiano, colpito negli affetti ed esposto a un microfono, ci tiene a mostrarsi il più possibile irrazionale. Mohamed invece ha soltanto un piccolo discorso da fare. Ha viaggiato un po' e si è accorto che l'Italia non è necessariamente così. Ammette di non aver dato troppa importanza all'“inciviltà”, finché non hanno sparato al fratello: adesso le cose cambieranno. E poi, con semplicità, chiede giustizia: secondo lui identificare il colpevole non dovrebbe essere difficile.

Chiedo a voi: tutto questo vi sembra italiano? A me no.
Ripenso a quando scesero i genitori di Meredith Kercher, la ragazza inglese uccisa a Perugia. Ci fu una conferenza stampa e i cronisti italiani scoprirono, allibiti, che i genitori sorridevano. Erano distrutti dal dolore, ma di fronte a una telecamera si sentivano forzati a un sorriso di cortesia. In Italia è esattamente l'opposto: se quando ti ammazzano un familiare non piangi verso l'obiettivo, sei freddo, insensibile, lucido, e nemmeno Taormina riuscirà a salvarti. Mohamed, seduto, chiede giustizia, quando un suddito italiano striscerebbe e invocherebbe la Vendetta.

Mi costa ammetterlo, ma quella stupida legge del sangue funziona. Mohamed è nato in Italia. Ha viaggiato in lungo in largo, ha imparato la lingua meglio di molti di noi. Ma non è italiano. Tutte queste cose non bastano per fare un italiano.
Mohamed è già qualcosa di più – un cittadino del mondo. Suo padre è nato in Tunisia, suo fratello a Napoli, suo figlio chissà. A Barcellona o Helsinki, o Tokyo, ovunque il mondo avrà bisogno di gente dignitosa e onesta. Gli italiani non sono così. Noi siamo i figli di quelli che non sono voluti andare via. Siamo quelli che non schiodano, anche quando la monnezza arriva al secondo piano. Ogni tanto qualcuno arriva, ci conquista e passa oltre. Passerà anche Mohamed, senza guardarsi troppo indietro.
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nessuno è prefetto

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Caronte in Capo

Sapete quanto mi piacciono i lapsus, e ieri su di un TG RAI, durante un servizio sulla rivolta del CPT di Modena, mi è capitato di vedere questo faccione abbinato al seguente sottotitolo: Daniele Giovanardi - Prefetto di Modena.

Ora, io so benissimo che l'ex ministro Carlo Giovanardi ha un fratello gemello (anche se non mi sembra di averli mai visti nello stesso posto insieme: buffo). Ma so anche che non fa il prefetto a Modena. È un medico, molto stimato. È anche il presidente di un'associazione, una cooperativa, una cosa che si chiama Misericordia di Modena.

Quello che mi piace dei lapsus, è la quantità di cose che suggeriscono. Posso farmi tutto un romanzo sul povero giornalista che arriva a Modena e cerca informazioni su questo CPT dove ieri un tunisino si è strangolato con le sue stesse mani. A un certo punto arriva questo Giovanardi, che oltre a sembrare un esperto ha anche la faccia giusta: praticamente i telespettatori la conoscono già, lineamenti rudi, ma rassicuranti. Questo signore comincia a lamentarsi di come vanno le cose nel CPT: è tutto un disastro, non hanno i mezzi per domare la rivolta, ecc. ecc. Il giornalista che può fare? Riprende, registra, ringrazia, manda a Roma.

A Roma si ritrovano l'intervista a questo Giovanardi, e magari cominciano a porsi il problema: ma chi è? Un fratello di un ex ministro, benissimo, ma in che modo c'entra col CPT? Perché per c'entrarci, c'entra: ne parla come fosse roba sua. E allora... mah... Sindaco di certo non è... sarà il Prefetto. Ecco. Ci scriviamo "Prefetto", e se è un errore... rettificheremo. Mica è un'offesa, dare a qualcuno del Prefetto.

Infatti non è un'offesa. Ma è un lapsus che spiega meglio di mille parole il problema dei CPT.
Giovanardi non è il Prefetto (infatti chiede più poteri al Prefetto). Non è neanche il Questore (ma chiede più poteri anche al Questore). Con quel cognome è abbastanza inverosimile che faccia il Sindaco: ma se il Sindaco volesse dargli qualche potere in più, non lo rifiuterebbe. Insomma questo Giovanardi esattamente che titolo ha? Beh, basta l'intervista per farsi un'idea. Giovanardi è quello che, quando gli inquilini del CPT di Modena si rivoltano, vorrebbe il permesso di tenerli fermi. Non perché sia cattivo, ma perché quelli fanno sul serio. Menano anche.

Capite il dramma dei giornalisti RAI? Giovanardi non è prefetto, non è questore; non esiste in Italia una parola che definisca quello che fa. Potremmo chiamarlo capo delle guardie, ma sarebbe come dire che il CPT è una prigione, e non si può. Non si può perché quelli che stanno lì dentro non hanno commesso nessun reato. Il tunisino che si è strangolato con le sue stesse mani è entrato e uscito da un CPT almeno tre volte, ma finora non risulta che avesse commesso nulla di illegale. Neanche una multa per schiamazzi, niente.

Quindi: capo delle guardie, no. E allora? Siccome gli inquilini del CPT sono persone oneste fino a prova contraria, potremmo chiamarlo “capo dei portieri”: ma sarebbe prenderlo in giro, perché queste persone oneste hanno una gran voglia di uscire da lì dentro, e per farlo sono disposti a dar fuoco a tutto quanto, a fare lo sciopero della fame, magari anche a picchiare gli uomini di Giovanardi, altro che portieri. In effetti, se gli stranieri non delinquevano prima di entrare nel CPT, è facile che comincino lì. "La situazione sta diventando insostenibile", dice Giovanardi, e io gli credo.
Non resta che inventarsi una parola, magari pescandola dai miti o dalle leggende. Perché non "Decurione"? O meglio ancora, "Caronte"! Lui stesso ammette che "chi si trova lì dentro ha visto fallire il suo progetto di vita e la prospettiva è quella di essere rimpatriato". Più ci penso e più mi suona bene. Diciamo allora che Daniele Giovanardi è il caronte in capo del CPT di Modena. Ora che finalmente abbiamo un nome per chiamarlo, possiamo porci altre domande: come si diventa caronti? I prefetti li nomina il Presidente della Repubblica su designazione del Ministro dell’Interno – i caronti, chi ce li manda? E chi li paga? Perché nessuno farebbe il Caronte gratis, vero?

Non sono informazioni semplici da raccogliere. Se mi ricordo bene la cosa funziona così: il Ministro degli Interni fa una gara d’appalto, e chi vince la gara fa il Caronte. Insomma, trattasi di servizio esternalizzato. Ma siccome in Italia (o perlomeno a Modena) siamo brava gente, questo tipo di gare le facciamo fare solo ad associazioni, cooperative senza scopo di lucro, come si chiamano? ONLUS. Giovanardi è per l'appunto presidente di una ONLUS, che gestisce il CPT di Modena. Sì, appunto. Suo fratello va in tv a parlar male del collateralismo tra politica e coop rosse in Emilia, e lui intanto vince gare d’appalto. E' un mondo così.

Ora capite bene che per la faccia, il cognome, il mestiere che fa, Daniele Giovanardi non ha molte chance di essermi simpatico. Anzi, vederlo lamentarsi in tv a mezzogiorno perché gli inquilini del condominio menano e lui non può dargliele indietro, mi procura perfino un sottile e anticivico piacere. Hai voluto la bicicletta? Pedala…
Poi mi ritorna in mente che Giovanardi non è un caronte qualsiasi, ma il caronte in capo, e che la scena in cui una giunone nigeriana infierisce su di lui gandhianamente impassibile è destinata a restare nella mia fantasia. A pagare sono sempre i sottoposti. E comunque quello che lui solleva è un problema autentico. Il CPT non è né una galera né è un albergo (anche se a conti fatti costa alla collettività più di un hotel a 3 stelle). Qualche anno fa negli ambienti molto a sinistra lo si chiamava lager – ma è un’esagerazione che non risolve nessun problema. I CPT non sono concepiti come campi di sterminio: e se ogni tanto qualcuno ci si ammazza, questo non accade in misura molto maggiore che in altri istituti di detenzione.
Invece posso concordare con chi li paragona a Guantanamo: non saranno recinti per polli, ma come Guantanamo sono terre di nessuno, dove non vige la Costituzione, né per i carcerati né per i carcerieri. E questo è un grosso problema per i carcerati. Ma ogni tanto bisogna pensare anche ai carcerieri. Sono pagati come operatori socio-assistenziali, ma devono domare le rivolte. È evidente che c’è qualcosa che non va, se solo avessimo il coraggio e la pazienza di guardare.

Non posso che essere contento se finalmente i carcerieri, volevo dire i caronti di tutti i CPT d’Italia, trovano il coraggio di esprimere il loro disagio. Anche se a metterci la faccia per ora è proprio il gemello bello di Giovanardi, non esattamente un mostro di simpatia. Ma d’altro canto c’è poco di simpatico in quel che fa. Non è un questore, non è un prefetto. Anche "caronte" mi ha già stancato. Come si chiamava in latino il custode del recinto degli schiavi? Ecco, vedi che alla fine il latino a qualcosa serviva?

***

Ps: Ho letto di molti che non sono andati a votare le Primarie perché insoddisfatti dei candidati e dei loro programmi. Se per questo, anch’io.
Quando sento qualcuno che si lamenta per la scarsa qualità dei candidati PD, spero sempre che tirino in ballo la questione CPT, che è enorme sotto tutti i punti di vista. No, quasi sempre si tratta del matrimonio gay.
È una prospettiva che posso anche capire: molti di voi sono gay, nessuno di voi è clandestino. I problemi che vediamo da vicino ci sembrano sempre più grandi dei problemi degli altri. Comunque uno può sempre emigrare, no?
No: appunto, i clandestini non possono.
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the spaghetti incident

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Perché non dovremmo chiamarci cristiani

Gita scolastica a Roma, capitale – tra l’altro – della Cristianità. Ara Pacis, Santa Maria del Popolo, Trinità dei Monti, eccetera; e la sera si mangia dalla Nina. Al momento di scegliere il menù, la figlia della Nina previdente ci chiede se abbiamo alunni musulmani.
Non molti, in verità: i turchi sono rimasti a casa per questioni di budget; i pakistani non si sa (dei pakistani non si capisce mai niente). Il magrebino superstite lascia intendere con una smorfia che se nessuno gli avesse chiesto niente non avrebbe disdegnato l’amatriciana, ma se proprio la Nina lo vuol sapere, ebbene sì: è musulmano praticante, e quindi Niente Porco.

Il menù viene dunque passato al setaccio, alla rigorosa ricerca di ingredienti non halal: nel giro di pochi minuti viene riproposto al ragazzo un menù alternativo rigorosamente de-suinizzato e de-alcolizzato, in ottemperanza alla normativa del Corano e del Levitico. E quindi soddisfatti cominciamo a sforchettare: buon appetito multiculturale!

A questo punto una ragazzina arriva e dice: Prof, ma non c’è un menù senza carne?
No, senza carne non c’è, perché? Non dirmi che hai un problema con la carne, adesso.
È che prof, oggi sarebbe Venerdì. Di Quaresima.

E poi uno dovrebbe preoccuparsi per Bagnasco. Bagnasco. Ma si provi piuttosto un paio di pantaloni, Bagnasco: vedrà quanto son comodi. E si posson portare dappertutto: al Tempio come nelle catacombe.
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edizione straordinaria

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Qui da noi è morto un cinese.
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- viens ma petite fille dans mon comic strip

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Chiama Carlotta, disperata: “l’iscrizione! Ti sei ricordato l’iscrizione?”
A che, a cosa? “L’iscrizione all’anno accademico”. No. Nessuno mi ha… ma quando scade? “Domani! Prendi il treno! Il taxi! Il flipper! Ricordati il libretto! Il tesserino! La ricevuta della rata! La marca da bollo! Hai pagato la rata? Hai fatto firmare il libretto? Domani! Scade domani!”
Io cosa posso fare? Prendo il treno, col mio tesserino e libretto, pago la rata, la marca da bollo, e poi passo in facoltà a farmi stampare la domanda d’iscrizione.

In Comic Sans.
Il Comic Sans è un font relativamente giovane, al centro di una feroce controversia tra i grafici e il resto del mondo. I grafici, infatti, lo odiano. Al punto di avere attivato una campagna internazionale di denigrazione, attraverso un sito internet (Ban Comic Sans: eliminiamo il Comic Sans). In un primo momento i grafici se l’erano presa direttamente con l’inventore del Font, Vincent Connare (forse lo stipendiato più odiato della Microsoft dopo Bill Gates). Connare si è difeso, spiegando che lui aveva semplicemente disegnato un font ‘simpatico’ da usare per fumetti e cartoni animati, e non si aspettava di trovarlo sui Menu dei ristoranti, come in seguito è accaduto.

In classe è un casino, perché, perché. Ci sono tanti perché, ma sostanzialmente la classe è un casino perché il cinesino non capisce niente. Di niente. In matematica ragiona, in italiano schizza dalla sedia, e prendilo. È una trottola, un cartone, non capisce niente e la colpa sarebbe mia. Ho chiamato il padre, è venuto col traduttore. Ho iniziato a spiegare, al traduttore è squillato il telefono. Io cosa posso fare? Dico: bisogna alfabetizzarlo da capo, non sa l’italiano. Strano, alle elementari è uscito con Buono. Con Buono? Alle elementari? Vado a controllare la pagella. È la sua. C’è scritto: Italiano Buono.

In Comic Sans.
Il problema è proprio questo: che mentre i grafici di tutto il mondo lo odiano, il resto del mondo lo ama alla follia, e lo usa in qualsiasi situazione, il più delle volte a sproposito. Perché? Perché… è troppo ‘simpatico’, troppo ‘carino’. Disgustosamente carino.

Ti hanno fregato il portafoglio? Ti hanno fatto un verbale? Era un verbale in comic sans? Non è nulla. Una volta ho sentito dire di uno stupro verbalizzato dai carabinieri in comic sans – ma su google non c’è, e poi comunque in google chi ci crede (credete a Facci).

E all’inizio può essere divertente, vivere in un mondo di cartone. Dove i pezzi di carta più importanti sono scritti con le scritte dei fumetti. Ti aspetti da un momento all’altro uno she-bam, un blop, un pow, un whizz.

Ma alla lunga stanca. E' un mondo in cui niente viene preso veramente sul serio. I documenti, i verbali, i voti delle maestre. Tutto carino, tutto buffo, voglio morire. Sul serio, lo farei. Ho solo un dubbio che mi trattiene, ovvero:

Il mio nome. Sulla lapide.
In che font...
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- rice and fall

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Gli americani del futuro

Nel frattempo tutti non fanno che chiedermi: e nel futuro? Come saranno gli americani del futuro? Ebbene, io mi sono posto il problema, ho anche fatto delle proiezioni. E dunque. Dal mio punto di osservazione mi sembra indiscutibile che:

1. Gli americani del futuro avranno gli occhi a mandorla
2. E parleranno spagnolo.

1 + 2 = In pratica, un altro mezzo miliardo di filippini.

E segnatevi questo: voi forse no, ma i vostri figli prima o poi assisteranno alla trasmissione di un discorso di un presidente di cognome Mendoza o Cortes, faccia da Vietkong, che proclama la necessità di difendere lo stile di vita occidentale dalle minacce asiatiche, e quel che è peggio è che ci crederà davvero, e i vostri figli pure.

Poi ci sarà anche il drammatico summit, col presidente usa che guarda negli occhi il presidente comunista cinese, e a un certo punto gli dice: ma tu non è che vieni dalla manciuria, per caso? Sai, perché io ho ancora dei parenti laggiù. Ma no! Ma sì! Paisà! Spaghetti di riso! Melodie pentatoniche! Cani spariti in circostanze misteriose nei dintorni di friggitorie! Pacche sulle spalle, e poi si andrà con le delegazioni in un posticino all'angolo del Palazzo di Vetro a mangiare il pollo alle mandorle del Kentucky.

Ridete, ridete.
Il riso abbonda.
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- sulla via per Lampedusa

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Servo di Dio

L'angelo apparve a Abdullah il primo aprile 2006, nel cielo terso di Pantelleria: il mondo non sarebbe stato più lo stesso.

A detta di alcuni non sarebbe stata Pantelleria, ma Lampedusa: e non il primo aprile, bensì il 28 marzo: data in cui secondo gli annali si verificò effettivamente un eclissi totale di sole nel Nordafrica. Ed ecco spiegato perché Abdullah stesse impalato a guardare il cielo quel giorno. Del resto le eclissi nel Cristianesimo sono importanti: alla morte di Gesù Cristo in croce si fece buio in tutta la terra, ecc. ecc. (Ma anche il primo Aprile ha il suo bel simbolismo: il Pesce era il rebus usato dai primi cristiani clandestini nelle catacombe…)

Gli avevano detto di non fissare il sole, che senza occhiali era pericoloso, ma gliel'avevano detto nella lingua sbagliata, e comunque ad Abdullah non fregava più niente di niente. Perdere la vista, dopo aver perso tutti quei soldi. I risparmi della vita. Più un bel prestito dal cugino. Più nulla. Tutto bruciato. Gli italiani avevano intercettato il peschereccio venti minuti dopo la partenza. Una soffiata dei libici, evidentemente, ma chi se ne frega? Libici, italiani, tutti ladri, tutti bastardi. I risparmi di una vita per finire in una galera italiana all'aria aperta. Senza aver fatto niente di male. I risparmi di una vita. Ladri e bastardi.

Nel racconto che ci è stato tramandato c'è un'evidente imprecisione. Abdullah sostiene di avere visto l'angelo in una "galera italiana all'aria aperta", il che è impossibile. In quell'epoca non c'erano prigioni del genere, sulle isole italiane del mediterraneo. A Lampedusa c'era però un centro di raccolta dei clandestini, ed è possibile che Abdullah l'abbia scambiato per una galera, per via dei muri, delle sbarre di ferro alle finestre, della polizia, delle manette, del filo spinato. Ma noi sappiamo che in realtà non si trattava di una galera, bensì di un centro di raccolta. Giusto per ristabilire la verità storica.

Cosa gli sarebbe accaduto, ora, Abdullah non poteva saperlo. Fu l'angelo stesso che glielo spiegò, sussurrandogli all'orecchio: "Abdullah, servo di Dio, sei nella merda. Ora gli italiani ti riconsegneranno ai libici, che dopo averti succhiato i soldi di una vita con la promessa di sbarcarti in Italia, ti ficcheranno in un campo di concentramento a Kufra, nel bel mezzo del Sahara, a pane e acqua sotto il sole. Questo è il tuo destino, Abdullah. A meno che…"

"Chi sei?", disse Abdullah "Perché mi chiami servo di Dio?"
"Perché è il tuo nome, no? Abdullah, servo di Dio. Non cercare di fissarmi, ti fai male".
"Sei un angelo?"
"Lascia perdere chi sono. Troppo bello per te, comunque. Ascoltami attentamente. Ci tieni ancora ad arrivare in Italia?"
"L'Italia è una merda".
"Sì, e Kufra è merda secca. Ascolta me. Hai ancora una possibilità. Sai leggere? Hai dato un'occhiata ai giornali di recente?"
"Sono stato un po' impegnato".
"Ti pareva. Quindi non sai cos'è successo in Afganistan".
"Hanno trovato Osama?"
"Ma che Osama e Osama, ascoltami. Devi sapere che…"

***

L'operatore era un panzone stronzo, per nulla consapevole di trovarsi di fronte a un servo di Dio. Con l'aria più seria del mondo snocciolava sillabe dal suono vagamente arabo, e se non lo capivi al volo s'incazzava pure.
"Sostieni di chiamarti Abdullah".
"È il mio nome, sì".
"Originale. E verresti dalla..."
"Mauritania".
"Abdullah, forse ti piacerebbe sapere dove ti manderemo".
"Credo di saperlo già".
"Per ora torni in Libia, dove ci sono dei campi per i clandestini come te. Avrai da mangiare e da dormire. Poi…"
"No".
"Come sarebbe a dire, no?"
"Non succederà nulla di tutto questo. Io andrò in Italia, oggi stesso. Stasera atterrerò a Roma".
"Ah sì?"
"Verrà un Ministro a prendermi all'aeroporto. Non so bene quale ministro. L'angelo non me l'ha detto".
"Non riesco a capire".
"Non riesci a capire perché la tua conoscenza della lingua araba è spaventosamente approssimativa, panzone di merda! A Roma avrò a lamentarmi di questo trattamento".
"Fammi capire, tu pensi che andrai a Roma?"
"Io non penso, io so. Io sarò a Roma, stasera".
"E chi te lo fa pensare?"
"L'angelo che ho visto qua fuori, un'ora fa. Me l'ha detto lui".
"Ti ha detto cosa?"
"Mi ha detto: Abdullah, servo di Dio, c'è un solo modo per salvarti. Convertiti. E io gli ho detto: ".
"Convertiti?"
"Ma tu sei scemo, o non lo sei? Lo capisci quello che sto dicendo? È importante. Mi sono convertito. Adesso sono cristiano. Non potete rimpatriarmi in Mauritania. Là c'è il reato di apostasia. È punibile con la morte. A p o s t a s i a. Sai cosa significa? In francese, forse?"
"Apostasia…"
"È quando qualcuno rinnega la sua religione per convertirsi a un'altra. Come quell'afgano in tv, l'hai visto l'afgano? Ha chiesto asilo religioso e in mezza giornata gliel'hanno dato. E adesso lo devono dare anche a me. O ci sono apostati di serie A e di serie B?"
"Piano, piano, non capisco".
"Hai capito benissimo. Ho visto un angelo che mi ha detto convertiti. Mi ha anche detto di… di… cos'è che fanno i cristiani, si lavano i capelli, come si chiama…"
"Il battesimo".
"Perfetto, il battesimo, chiama il tuo mullah, devo battezzarmi. È urgente".

In seguito il Ministro degli Esteri ebbe a esprimere in privato l'opinione che, se ci si fosse limitati a battezzare Abdullah a mazzate, rispedendolo subito dopo al mittente, si sarebbe senz'altro violato qualche principio internazionale, ma anche evitati tutti i casini che ne seguirono. Perché non appena Abdullah fu battezzato Teodulo (che in greco significa "Servo di Dio") e la voce si sparse, nell'isola, che bastava una lavata di capo per ottenere il permesso di soggiorno, l'ondata di conversioni spontanee che ne scaturì fu tale da far impallidire le gesta dei Santi Pietro e Paolo e gli Atti degli Apostoli tutti. Di lì a pochi giorni le ambasciate italiane in tutto il Medio Oriente venivano circondate da migliaia di persone che non venivano più ad appiccare il fuoco per qualche vignetta irriverente, macché! Tutta gente che aveva visto un segno in cielo, tutti folgorati sulla via di Damasco, o meglio di Lampedusa...

In capo a sei mesi, il Parlamento italiano – con un emendamento bi-partisan – stabiliva il reato di apostasia, con effetto retroattivo. I musulmani che avessero tentato di battezzarsi e abbarbicarsi alle radici cristiane sarebbero stati puniti non già con la morte (ché siamo gente civile, noi), ma con l'espulsione in qualche Paese dove gli apostati li lapidano.

(A proposito, gli angeli ci sono sia nel Cristianesimo che nell'Islam - e si chiamano più o meno con gli stessi nomi. Ma non sono tutti per forza buoni consiglieri. Si sa per certo che il più bello si ribellò a Dio, e tuttora tra i due c'è una certa ruggine. Insomma, non dovete per forza fidarvi del primo che vi appare, anche se ha una buona idea da proporvi).
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- indecisi d'Italia, 2.

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Vota (per) Natascia

Caro astensionista di sinistra
Come ben sai, ti scrivo tutti gli anni (2001, 2002, 2003, 2004, 2025)– questo è il sesto, e spero che sia l'ultimo.
Direi che ormai ci conosciamo. Tu sei un uomo/donna che non cede ai compromessi, in cabina elettorale. Magari neanche altrove.
Probabilmente sei quel tipo di persona che se il boss ti chiede di restare un'altra mezz'ora al lavoro (che poi diventa un'ora), ti licenzi seduta stante. Io non sono come te. Io vivo nel compromesso.
Probabilmente sei quel tipo di persona che se il compagno/a vuole vedere il grande fratello invece di un film o qualsiasi altra cosa, fai le valigie. Io non sono come te. Un po' t'invidio, va detta.

In ogni caso ti rispetto. Se dopo cinque anni di Berlusconi al governo – se dopo Genova, la Cirami, l'articolo 18, le speculazioni sul caso Biagi, gli insulti al parlamento europeo, la Bossi-Fini, la depenalizzazione di falso in bilancio, i condoni, i cantieri finti, gli assegni per chi manda i figli a scuola dai preti, le chiacchiere su Mussolini che mandava gli antifascisti a prendere il sole, la legge Gasparri, il ministro Martino che rassicura le mamme non andremo mai in Iraq e poi ci siamo andati, la speculazione sui morti di Nassiryia, la gente che è morta per opzionare un po' di petrolio, i CPT appaltati ai privati, la legge sulla fecondazione assistita, e poi basta, non ce la faccio a fare il conto, in cinque anni ho perso di vista tante cose, il cielo a volte mi è sembrato grigio anche d'estate – se dopo cinque anni di tutto questo, tu non hai ancora trovato abbastanza argomenti per votare contro Berlusconi, potrò convincerti adesso io? Non credo. Quindi non ci provo nemmeno.

Hai capito? Non intendo convincerti.
Voglio solo che tu vada a votare.
Non per te. Ma per qualcun altro che vorrebbe votare, che meriterebbe di votare, e non può farlo. Perché in Italia c'è un apartheid, e se ne parla meno di quanto si dovrebbe.
Perché nel mondo ci sono centinaia di migliaia di persone che non vivono in Italia, non lavorano in Italia, non pagano le tasse, ma hanno il diritto di decidere se ci governerà Berlusconi o Prodi – e al contrario, ci sono milioni di persone che si danno da fare in Italia per il PIL italiano, che mandano i figli nelle scuole italiane a imparare l'italiano, che pagano le tasse (quando possono) all'erario italiano, ma non hanno il diritto di decidere proprio niente.
Per me questa è una grande vergogna. Io forse sotto sotto sono un liberale, orfano della Rivoluzione Americana, che nacque sotto un principio pragmatico e tuttora validissimo: No taxation without representation: gli inglesi non possono tassarci senza darci il diritto alla rappresentanza.

Ma per te, astensionista di sinistra? Tu che insegui, senza compromessi, il sogno di un mondo dove tutti abbiano immediatamente pari diritti – davvero puoi resistere ancora un minuto in un Paese che fa votare i cosiddetti "italiani all'estero" e non fa votare le persone che da tutto il mondo sono venute a vivere qui, proprio qui, in mezzo a noi, che lavorano con noi e per noi, pagano le tasse che paghiamo noi e usano i servizi che usiamo noi? E allora basta, scusa. O te ne vai immediatamente, oppure ci aiuti a cambiare le cose subito, senza compromessi. Se il nove aprile non hai intenzione di votare per te, vota per un qualunque straniero che non ne ha il diritto – e che dovrebbe averlo. Aderisci alla campagna Adotta il voto di un immigrato, lanciata da Salamelik.

Non ti sto dicendo per chi votare, attento. Non devi votare per il mio candidato, ma per il suo. Non lo sai? Chiediglielo. Esci in strada e domanda. Secondo me non devi andare molto lontano per trovare uno straniero al lavoro. Guarda, senza neanche uscire dal portone – sul pianerottolo c'è Natascia che dà lo straccio. Ha due figli che contribuiscono a riportare in attivo il bilancio demografico del Paese. Non vuoi votare per te? E vota per Natascia, che dovrebbe averne il diritto, e forse ne ha anche più bisogno.
Che c'è, ti vergogni a chiedere? E allora torna su internet e studiati i programmi dei due schieramenti. Entrambi fanno schifo? Forse, ma ce n'è uno che rispetta Natascia in quanto forza lavoro. E ce n'è uno che considera Natascia potenzialmente pericolosa per la salute pubblica del Paese. Una terza possibilità non c'è.

"Ma lo vedi, si tratta sempre di un compromesso".
Sì, certo, come al solito. Ma posso assicurarti che questo compromesso non intaccherà la tua integrità morale, che è e rimane inviolabile. Non è il tuo compromesso. È quello di Natascia.
Se lei potesse votare per evitarsi altre umilianti ronde notturne intorno alle poste, non lo farebbe? Se lei potesse votare per mettersi in regola, non lo farebbe? Se lei potesse votare per essere riconosciuta come una cittadina nel Paese in cui lavora, non lo farebbe?
E allora fallo tu. E poi basta. Io sono un po' stanco di queste orazioni. Fuori è ancora grigio, ma quando arriva questa primavera? Facciamo che arriva per tutti il dieci aprile? Dipendesse da Natascia. Ma dipende da noi. Solo da noi. Ciao.
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- via, via, finché siete in tempo

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Gente inesistente

Secondo SB, se ho capito bene, non è vero che ci sono file alle poste.
Ovvero: le file sono solo a Roma e a Milano; nel resto d'Italia ci sono trenta stranieri in media per ufficio postale.
Inoltre, le file (che comunque non ci sono, a parte Roma e Milano), sono la prova che la Bossi-Fini è una buona legge, che funziona.
E i risultati si vedono: l'Italia è il Paese europeo con meno immigrati. Sì, mi pare che abbia detto così.
Grazie alla nostra legge sull'immigrazione. Grazie ai nostri CPT.
Malgrado la nostra situazione geografica di ponte nel bel mezzo del Mediterraneo. Siamo quelli con meno stranieri.
Siamo forti.

Io sono una persona timida, ho già il mio daffare con le persone che esistono. Figurati che voglia mi viene, domattina, di andare a vedere una di queste file di gente che non esiste, e che per la stragrande maggioranza continuerà a non esistere.
Figurati che voglia ho di andare là e di chiedere, in tutte le lingue del mondo che non so: ma siete matti? Ma allora ci tenete davvero a stare qui? ma perché? Cosa c'è di così speciale? D'inverno si gela, d'estate si soffoca: non ditemi che è il tempo. La primavera puzza di benzene e d'autunno non si vede da qui a là. Non mi dite che si mangia bene, suvvia: maiale e vino, vino e maiale, non è questo che vi tiene qui.
Già, ma allora cosa? Cos'è che vi tiene ancorati qui, nei centri storici coi metri quadri più cari al mondo? Quale istinto irrefrenabile vi stimola a pagare il canone RAI anche se in tv guardate soltanto teletunisi con la parabolica? E i rincari del metano? Siamo quasi ad aprile e i termosifoni vanno ancora. E la benzina? Ma vi sembra una cosa regolare? E allora cos'è tutta questa ansia di regolarizzarsi?

Ma io dico. Ce n'è di bei posti al mondo. Dove almeno l'inverno è meno freddo, o l'estate meno calda. O la benzina meno cara. O il fruttivendolo meno stronzo. Ce n'è. Prendi l'Olanda. Dico, com'è possibile che voi siate qui invece che in Olanda? Là c'è più lavoro e meno maiale. E non dovrebbero esserci queste inesistenti file alla posta – al massimo ti fanno vedere un filmino con i gay che si baciano, che per quanto possa essere fastidioso secondo me non equivale a una notte d'inverno davanti a un ufficio postale. O no? Non lo so. Ognuno ha la sua cultura. Ma multiculturalismo a parte, secondo me siete matti. Con tutto l'Occidente a disposizione, ostinarsi a restare qui.

Io lo so perché sto qui: ci sono nato. Tengo famiglia, gli amici, i contatti, bla bla. Nascere qui non è una colpa e non è un merito. Ma scegliere di vivere qui, è una follia. Sarà perché non leggete i giornali. Sveglia! Non siamo più la quinta potenza mondiale. Va bene che siete i naufraghi del Terzo Mondo, ma avete scelto la scialuppa fallata. Fate ancora in tempo a salvarvi, ma via di qui, via! Ormai avete capito come si fa. E dovreste avere un bagaglio leggero. Via! Non avete certo bisogno di noi. Al limite è il contrario.

Se fosse per acclimatarvi… qualche anno di compensazione, prima di salire in Francia o in Germania... questo lo potrei capire.
Ma voi avete le facce di chi viene per stare. Fate persino i mutui per le case. Portate su famiglia e figli. Voi avete deciso davvero di vivere qui. Con tutti i bei posti che ci sono al mondo. Siete matti.
Per fortuna che non esistete.
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- l'era dell'ottimismo

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Sorridi, sei in Italia

Diciamo che esiste Xavière (nome inventato): è una ragazza di 28 anni che proviene da un Paese dell'Africa occidentale. Ma sta in Italia. In un Centro di Permanenza Temporanea.
Xavière non dice niente, ma ci sorride dal giornale.

La cosa fa scalpore e induce anche un po' al sospetto, perché a prima vista il CPT non è appare come un luogo divertente dove vivere. Per dire, tutto intorno c'è una recinzione alta alta, e non si può uscire. Insomma, quando in prima pagina sul giornale locale compare il titolo "Storia di Xavière che grazie al CPT torna a sorridere", uno lì per lì non ci crede. Fortuna che nelle pagine interne è tutto spiegato.

E infatti lì si apprende che Xavière
– ha smesso di sorridere anni fa, quando uno zio ha commesso su di lei violenze e soprusi che "l'avevano portata a rischio di vita".
– ma per fortuna un ente missionario italiano si è interessato al suo caso, e l'ha fatta venire in Italia.

E volendo la storia sarebbe già finita qui, e noi sul giornale leggeremmo: "Storia di Xavière che grazie alla missione italiana torna a sorridere"…

– e invece no! perché la missione riesce solo a procurarle un permesso di soggiorno turistico (e ci mancherebbe altro, lo zio ti molesta e vuoi che ti neghiamo una gita turistica nel Bel Paese?) Diciamo che Xavière si sistema da turista presso il fratello, immigrato regolare in una dolciastra cittadina lombarda. Per tre anni rimane lì, "facendo per conto della parrocchia locale dei piccoli lavoretti".

E in fondo la storia potrebbe essere finita anche qui, e su un altro bel giornale locale leggeremmo: "Storia di Xavière che grazie alla parrocchia torna a sorridere"…

– ma per fortuna non è così! Perché la "comunità che la assiste" nel frattempo si è dimenticata di iniziare la trafila per regolarizzare la sua posizione. Così un giorno – magari in seguito a una telefonata – le forze dell'ordine passano in parrocchia per un controllo e ci trovano la turista Xavière, nel bel mezzo del suo Grand Tour europeo, magari mentre dà lo straccio in oratorio. E la arrestano, anzi no, non si può dire che l'arrestino, non è la parola giusta; limitiamoci a dire, con Vasco, che la prendono e la portano via. La portano nel CPT di un'altra città.
– In questo CPT gli operatori ricostruiscono la storia, ne controllano la veridicità, mettono in ordine i dati e ottengono la regolarizzazione. Così in effetti adesso Xavière sorride. Grazie al CPT.

Però io non mi limiterei a ringraziare il CPT, che in questo caso ha effettivamente fatto un buon lavoro. Tutti hanno la loro parte di merito per aver fatto sorridere Xavière. E quindi mi sembra il caso di ringraziare anche:
– La parrocchia che le ha dato un lavoro, anzi, tanti "lavoretti", senza mai intraprendere la regolarizzazione; se fosse stata regolarizzata subito, Xavière non avrebbe mai incontrato il personale del CPT, e quindi sorridere.
– La missione che l'ha portata in Italia ma non aveva niente di meglio da promettere che un visto turistico; se non fosse mai arrivata in Italia, Xavière non avrebbe mai potuto essere arrestata presa e portata da via nel CPT, dove finalmente ha potuto sorridere.
– E sì, forse anche lo zio, perché a ben vedere senza le sue molestie, come avrebbe fatto Xavière ad arrivare in Italia, anzi nel CPT che le ha ridato il sorriso?

Ma in fondo noi esageriamo l'importanza degli enti, delle parrocchie, delle persone. Se l'accoglienza degli stranieri in Italia è una macchina così bene oliata, il merito è delle leggi. In un altro Paese, in un altro mondo Xavière sarebbe arrivata e si sarebbe semplicemente messa a lavorare con un contratto regolare. Non avrebbe dovuto ringraziare nessun generoso salvatore. Pensate che ingiustizia.
In Italia, invece, guardate quanta gente Xavière deve ringraziare; quanti eroi a cui deve il suo sorriso. Dai datori di lavoro della parrocchia agli operatori del CPT, è tutto un piccolo grande mondo che si adopera affinché dopo mille traversie Xavière finalmente sorrida. E non è fantastico questo?
Voglio dire, trent'anni fa partivamo ancora con le valige di cartone. E adesso in tante città abbiamo centri murati e recintati dove gli operatori si adoperano a far sorridere la gente. Non è un mondo perfetto. Però ci stiamo lavorando.

E cosa sono questi brontolii – li sento, sapete. Che razza di mondo avete in mente, voi? Un mondo dove chiunque arriva può mettersi a lavorare regolarmente, subito, senza ringraziare nessuno? O addirittura un mondo senza paesi poveri, dove non esistono zii molesti, e quindi nessuno deve scappare con permessi di fortuna?
Davvero è questo il vostro sogno? Un mondo grigio, senza sorrisi? Un mondo dove tutti si danno da fare e nessuno ti ringrazia?
Tenetevelo, il vostro mondo. Noi preferiamo stare qui. È pieno di creaturine sorridenti. Di sicuro vorrebbero dirci "grazie".
Se solo potessero parlare…
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- radicalchoc

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Dal balcone


Cosa fai lì. Vieni dentro

Vuole parlare Signora?
Ho visto che è qui in giro e fa domande. Io ho visto tutto.
Sì, il marocchino pestato, sì.
No, no, non siamo stati noi a chiamare il centotredici. La vicina. Ha fatto bene.
Adesso, certo, tutti a dire povero marocchino, e cos'hanno fatto al marocchino. Signora, vuole sapere cosa dico io? Io spero che muoia, quel marocchino. Che è una vergogna. Ubriaco tutto il giorno.

Cosa dici, smettila.

Smettila tu. No, Signora, non dicevo a lei. È mia moglie qui nascosta.
Sta sempre in casa nascosta, ma cosa crede. È solo che ha paura. Le donne hanno paura, qui. C'è tutta questa gente che ruba che spaccia che beve. Ubriachi la domenica mattina, è una vergogna. Io ho vergogna, del posto dove vivo.
Dov'ero io? Signora, io cercavo di dormire. È festa, no, la domenica? Una volta era festa, qui.

Vieni via, vieni via, che vergogna.

Idris ho sentito che lo chiamano, come quel negro in tv, ma è diverso questo, è marocchino. Beve e non fa un cazzo. Già l'altro giorno è venuta l'ambulanza a prenderlo – e lui ha fatto il matto, dicono che ha rotto una bottiglia contro l'ambulanza. Io stavo in fornace. Questa settimana ho il turno di notte.
Ma lui è sempre qua. Dorme qua, sulla scala. E mia moglie non esce più.
Se stava nel Palazzo Verde, prima? Non so, non credo. Ci stava anche brava gente lì. Regolari, col mutuo. Lui non credo che è regolare. È una boccia persa, dicono qui. Lo sa cosa vuole dire Boccia Persa, Signora?

Vieni via, ci sono le telecamere

Io sono a letto che cerco di dormire – quando arriva mia moglie e mi dice C'è la polizia. Allora vengo qui, proprio qui sul balcone. E da qui vedo i poliziotti, due vestiti uno in borghese, e per terra quel marocchino, nudo, quasi nudo, una vergogna. E intorno i curiosi. Sì, anche come-si-chiama, il marmista. Quello che ha preso il video.
L'ubriaco resta sdraiato per tre minuti e non si vuole alzare. Poi i poliziotti giustamente si sono stancati. Le ha prese, sì, le ha prese, io spero che muoia. È una boccia persa, ubriaco tutto il giorno.

Il pugno? No, io da qui non l'ho visto il pugno a un poliziotto. Ma è naturale, voglio dire, gli ubriachi fanno queste cose. Un marocchino che beve e tira pugni ai poliziotti, non ha più interesse a vivere. È peggio di un terrorista, Signora. Almeno un terrorista sa ancora cosa fare della sua vita.

Ma cosa stai dicendo, vieni via

Io sono di qui, Signora. Vent'anni che lavoro in fornace e i miei figli e mia moglie devono vivere in un quartiere di marocchini ubriachi che pisciano sulle nostre macchine. Scriva questo sul giornale. Io non ho mai fatto male a nessuno in vita mia, ma perché un ubriacone marocchino deve pisciare sulla mia macchina ogni giorno? Faccio male a dire che lo voglio morto? Signora aspetti che un marocchino ubriaco venga a dormire sulle sue scale, poi mi dirà. Promette che verrà a dirmelo.

Ahmed, per amor del Cielo

Mi chiamo Ahmed. Di dove sono? Signora, sono di Sassuolo. Di S a s s u o l o. Vent'anni di fornace e le mi chiede di dove sono. Ma cosa cazzo crede lei.

Ahmed!

Che siamo tutti cugini, noi marocchini. Che devo parlare bene di un ubriaco che mi piscia la macchina tutte le mattine. Io spero che muoia, signora. È una vergogna per tutti. Lo scriva sul giornale. Guardi che io lo leggo il giornale, lo sa. A volte lo compro anche.

Signora, mi dispiace. Ha bevuto. Non lo regge tanto bene.

Zitta. Sta zitta. Sto parlando alla Signora.
Io voglio leggere sul giornale che i marocchini di questa via vogliono più polizia. Cosa devo fare per farmi sentire? Mi faccio saltare in aria? Un marocchino che salta in aria ci va sul giornale, sì?

Non siamo cugini. Non siamo cugini. Dello stesso paese, sì. Ma noi siamo regolari. Dica questo. Che vergogna.

Zitta. Sta Zitta.
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-2025

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Lo Scenario Rutelli (2)

Caro Leonardo,

Se ci penso, aveva ragione Arci: non c'è niente di meglio di un gioco di simulazione per trasmettere un'ideologia. Connesso a Civilization VII io giocavo, giocavo, e intanto tutta la mia fede nell'autodeterminazione individuale veniva espulsa dai pori, come una tossina dal sudore. Sudavo molto, in effetti.

"Tempo di finanziaria, bene. Mo' mi vedono. Supertassa patrimoniale, tie'! E lotta senza quartiere all'evasione. E all'abuso edilizio. E poi…"
"Mi sembra che esageri. Rutelli avrebbe fatto tutto questo? Con Bertinotti all'opposizione?"
"Rutelli no, io sì. E voglio proprio vedere chi lo rivota, Bertinotti… beh? Cos'è quella freccia in caduta libera?"
"Una freccia indaco?".
"Blu?"
"Sì. È il PIL trimestrale".
"E perché è crollato?"
"Non lo so, posso fare delle supposizioni. Forse le tue dichiarazioni hanno spaventato gli industriali, che hanno spostato i capitali nei paradisi fiscali. E già che c'erano, hanno spostato anche la produzione. Ricordi quando hai voluto la Cina nel WTO? Adesso possono trasferire intere fabbriche dal Po al Fiume Azzurro quasi a costo zero".
"Ma anche questi industriali, che due coglioni… attacco San Marino, va".
"Cos'è che fai?"
"Lo sanno tutti che è un paradiso fiscale. Ora voglio proprio vedere cosa succede se lo circondo con la fanteria meccanizzata".
"Mac, in questo scenario meno usi la forza meglio è. Hai già visto che è successo a Genova".
"Sciocchezze. Stavolta non ammazzo nessuno. E se Napoleone mi dà il permesso, dopo prendo Montecarlo… E adesso che cazzo vuoi, Veltroni…"

Il Parlamento Europeo condanna la tua politica espansionista.
Forti sanzioni economiche imposte dagli Stati Membri.


"Branco di rammolliti! Per tre colline in Romagna? E se invadevo l'Etiopia cosa succedeva?"
"Mac, stai giocando contro un computer che si intende di storia molto più di te. Il suo comportamento è assolutamente verosimile. Sei tu che stai facendo pazzie. Nessun vero uomo di Stato europeo assedierebbe un paradiso fiscale".
"Ma perché?"
"Perché no".
"Va bene, va bene: control Zeta. Ricapitoliamo: devo fare una finanziaria equa ma senza spaventare gli industriali, e inoltre… e adesso cos'è tutto questo casino?"
"Indovina un po'".
"O cazzo, giusto, l'11 settembre… ma io che c'entro? "
"Il mondo è piccolo, Mac".
"Ho mezza Italia in rivolta… qsto non è molto verisimile".
"Il Ministro degli Interni che dice?"
"Fassino? Un paio di stronzate sulla caccia all'arabo. A Milano e Verona danno la caccia agli arabi e li linciano per strada. Mi sembra un po' esagerato".
"Devi pensare che la destra è in stato confusionale. Berlusconi Bossi e Fini hanno perso le elezioni e non contano più nulla. Gli attivisti sono smarriti e confusi, e tu stai facendo ponti d'oro agli immigranti".
"Ho solo snellito le procedure".
"Hai anche abbreviato i tempi per la cittadinanza, mi pare".
"Altroché se l'ho fatto, è forza lavoro a buon mercato e voglio tenermela stretta! Altrimenti poi lo sai che i cinesi…"
"Sai cosa si dice di te? Che tra quattro anni e mezzo vuoi farti rieleggere coi voti dei musulmani. Forattini ti disegna già in prima pagina come Al-Rutel".
"No! Forattini no!"
"Niente panico. Niente panico".
"E questa cos'è? Un'autobomba contro una sinagoga? Ma siamo impazziti?"
"Gli arabi si sentono perseguitati e se la prendono con un'altra minoranza. È un classico. Niente panico. Lo statista si vede nelle emergenze".
"Va bene. Non è tempo di mezze misure. Tutti i fascisti in galera".
"Costituzionalmente impeccabile. Ma le galere sono piene".
"Già, dimenticavo. Va bene, prima un bell'indulto, facciamo uscire un po' di gente che può fare lavori socialmente utili e ficchiamo dentro i fascisti. In alternativa mettiamo su dei Centri di Detenzione per fascisti e li appaltiamo a delle cooperative, così creiamo anche dei posti di lavoro".
"Cominci a imparare".
"Sto improvvisando".
"E la minoranza araba, come la tranquillizzi?"
"Dunque. Faccio una bella dichiarazione in cui spiego che l'Islam non è il terrorismo, e che l'Italia è un luogo d'incontro, non di scontro, tra due grandi civiltà. Buono, no?"
"Ottimo".
"E allora perché George W. s'è rabbuiato?"
"Forse s'aspettava una parola di condanna sull'estremismo religioso. Ground Zero è ancora calda, i postini muoiono per le lettere al carbonchio".
"Beh, adesso non può pretendere. Io ho una grossa minoranza musulmana in casa. No. Ho detto No. Non ci vengo in Afganistan, George! Te lo puoi scordare. Eh? Che cosa?"
"Qualcosa non va?"
"Non ti immagini. Gli americani si sono incazzati perché ho condannato la guerra afgana… hanno tolto dai menu dei ristoranti tutte le parole italiane! Le lasagne alla bolognese sono diventate le Boston lasagns!"
"Non te la prenderai per così poco…"
"E poi il petrolio è alle stelle. Gli industriali piangono".
"Facci il callo".
"E adesso cosa c'è… questo no. Non potevo immaginarlo".
"Cosa?"
"Un gruppo di ex brigatisti, usciti di galera con l'indulto, con un sacco di esperienza nel mondo del lavoro socialmente utile, ha fondato una cooperativa non profit e si è fatto appaltare un Centro di Detenzione per fascisti".
"Lodevole iniziativa".
"C'erano delle vecchie ruggini… insomma, sono saltate fuori delle foto di abusi sui carcerati e Amnesty International mi ha condannato. È da Genova che non me ne perdonano una. Gli americani mi disprezzano e gli europei mi snobbano. Cosa faccio?"
"Io resetterei".

Resettai una dozzina di volte, quella notte, in seguito ai più svariati motivi: uno sciopero generale, una carestia in Basilicata, una polemica col Papa che mi valse la sfiducia del partito cattolico (il mio), eccetera. Di catastrofe in catastrofe, improvvisando, cominciai a ingranare. A parte alcune sciagure veram inevitabili (crisi della fiat, crack parmalat...), riuscivo a cavarmela in modo dignitoso. Mettevo i ministri gli uni contro gli altri. Truccavo i bilanci. Raccontavo palle ai telespettatori. Verso il mattino riuscii finalmente ad arrivare al quinto anno del mandato.
"Pss, Arci, sveglia!"
"Che c'è? Ora di colazione?"
"Sono arrivato al 2006! Ce l'ho fatta!"
"Complimenti. I conti come sono?"
"Bruttini, ma considerata la congiuntura… sai, dopo l'11 settembre, l'Euro… il caro-petrolio… meno male che ho aperto un pozzo a Nassiryia".
"Ah, stai a Nassiryia".
"Sì, ho dovuto prendere parte alla spedizione, non avevo molta scelta… ho avuto parecchie perdite, sai? È stato terribile".
"E all'interno come va?"
"Non malaccio. Ho cambiato alcuni ministri ".
"C'è ancora Fassino agli Interni?"
"No, ehm. C'è Fini".
"Fini?"
"Un grande acquisto. Sai, dovevo fare qualcosa per mettere ordine a destra, c'era un rischio di deriva eversiva fortissimo… così tre anni fa l'ho ripescato dalla fondazione dove s'era rintanato, e l'ho messo a capo di una lista civetta per le Europee. L'ho ripulito, l'ho convinto ad andare a Gerusalemme a riconoscere il nazismo male assoluto. Gran mossa. Ha pescato voti a man bassa: ex forzisti, cattolici… Quando i diessini si sono ritirati dal governo, lui mi è rimasto vicino".
"I diessini si sono ritirati".
"Sì, ufficialmente per via della guerra, sai, le solite petizioni di principio per gli allocchi, i cortei arcobaleno eccetera. In realtà D'Alema voleva fottermi il posto andando a elezioni anticipate. Ma l'ho fottuto io! Tiè!"
"Toglimi una curiosità. La Lega?"
"Stiamo giungendo a un accordo, dovremmo cambiare qualche articolo della Costituzione. Per ora è solo un appoggio esterno, ma poi… coi voti di Bossi in maggio stravinco, capisci".
"Capisco. Stai al governo con Bossi e Fini. Riscrivi la Costituzione. Controlli Nassiryia. Sei sicuro di essere ancora Rutelli?"

[continua]
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- 2025

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Caro Leonardo, anzi no, non a te oggi.
Scriverò piuttosto al

Caro astensionista di sinistra,
È da un po' di tempo che non ci sentiamo, vero?

E tu senz'altro non ti ricordi di me. Non ti ricordi neanche di te. Di essere stato, anche un giorno solo, astensionista. Di sinistra.
Quel giorno è stato esattam 24 anni fa, figurati. Con tutto qllo che è successo dopo – Genova, le Due Torri, l'Iraq, la Cina, le grandi alluvioni, il Teopop, le piramidi in Antartide, eccetera. In mezzo a tante catastrofi, com'è possibile che io possa portare rancore per te? In fondo cosa hai fatto di così grave? Niente. Un giorno c'era da salvare l'Italia da cinque anni di merda e non l'hai fatto. Tutto qui.
Il giorno dopo eri già pronto a riparare. Hai organizzato comitati, hai promosso referendum, girotondi intorno ai tribunali, forum internazionalisti, eccetera. Ma era troppo tardi, per l'Italia, forse: di sicuro era troppo tardi per me. Tu mi hai spezzato il cuore il 13 maggio 2001, astensionista: e nessun girotondo, nessun forum, nessun referendum me l'ha più rimesso insieme. Finché ho avuto un blog, ti ho scritto, Astensionista. Ti ho scritto nel 2001, nel '2, nel '3, nel '4, finché ho avuto speranza di convincerti dell'enormità del tuo errore. Quando ho perso quella speranza, ho smesso di scrivere.

Perché vedi, caro Astensionista, sono anch'io un po' come Taddei. Lui ha il pallino delle elezioni americane di vent'anni fa: io mi sono bloccato in quel piovoso giorno di maggio del 2001. Niente e nessuno riuscirà a convincermi che le cose dovevano andare per forza così. No. Quel giorno avevamo il destino tra le mani, e ce lo siamo fatti soffiare. Da allora ogni catastrofe, ogni carestia, ogni frana, mi sembra in qualche modo meritata.

Quando dico che niente e nessuno riuscirà a convincermi, parlo con cognizione di causa, visto che una volta ci provò Arci stesso. Fu a Bisanzio, nel… nel… (ho delle difficoltà a orientarmi negli anni Dieci), durante gli accordi di pace trilaterali. Facevamo parte tutti e due parte della delegazione del Teopop: lui era l'eminenza grigia, io qllo che prenotava ai ristoranti. In verità, non ne prenotai nessuno.

Bisanzio ha da esser splendida, con tutte qlle moschee ultramoderne, ma l'ho giusto ammirata da un balcone. La nostra delegazione non usciva quasi mai dall'albergo, ufficialm per motivi di sicurezza, in realtà per un senso di vergogna che ci pesava addosso fino a schiacciarci al suolo. I bizantini consideravano gli accordi di pace un'occasione per processarci davanti alla loro opinione pubblica. L'accusa ci era stata formalizzata il primo giorno: genocidio.
"Ma non siamo stati noi!"
"Avete però contro tutte le evidenze".
"Eravamo giovani! I nostri padri…"
"Signori, noi da giovani fummo giudicati per un genocidio compiuto dai nostri bisnonni. In politica le colpe dei padri ricadono sui figli, benché nel vostro libro sacro sia scritto diversamente".
"Lasciate perdere i libri sacri! Noi non potevamo sapere…"
"Non sapevate, non immaginavate, avete ubbidito agli ordini. Coi genocidi è sempre così. Siamo spiacenti".

Era successo che gli storici bizantini avevano pensato bene di fare il calcolo di tutti i morti sulla frontiera del mare, durante le grandi migrazioni degli anni '90-'10. Compresi qlli rimpatriati a forza in Libia, e poi morti in qualche campo di lavoro nel Sahara. E i morti suicidi nei CPT. Trent'anni di gommoni e pescherecci colabrodo. La cifra era spaventosa, la vergogna ancora da spartire.
"Sarà dura spiegare ai nostri compatrioti che sono responsabili di tutto qsto", disse Arci, l'ultima sera. Era disteso sul letto nella nostra camera d'albergo, e pensava a voce alta. Io stavo facendo la valigia. "Non siamo tutti responsabili", dissi.
"Sì, dai trent'anni in su, sì. Sapevano benissimo cosa stava succedendo. Sapevano del Canale d'Otranto e degli scafisti libici e tunisini. Dei CPT. E della schiavitù e della prostituzione. Sapevano tutto e non hanno fatto niente. Peccato d'omissione, c'è nel nostro libro sacro".
"Lascia perdere quel libro lì. Ci sono persone più colpevoli di altre".
"E sarebbero?"
"Bossi e Fini, sarebbero".
"Ma la gente annegava anche prima. E dopo".
"La maggior parte è annegata durante".
"Mac, dove vuoi arrivare? Secondo te dovremmo scaricare tutto su un paio di vecchi politici?"
"No, non dico qsto. È colpa di chi ha permesso che Bossi e Fini scrivessero qlla legge. Se solo il 13 maggio del 2001…"
"Ci risiamo col 13 maggio".
"Per me è importante. È lo spartiacque. Quel giorno potevamo decidere del nostro destino. Essere complici di un genocidio o no. Scusa se è poco".
"No, Mac, no, te l'avrò detto mille volte. Il futuro non si determina in un giorno. Tieni. Mettiti qsta".
"Un altro casco? Cos'è?"
"Un gingillino, tecnologia usastra. Le interfacce utenti di adesso le fanno così. Bella, no?"
"È più elegante di qlle che ti facevi nel garage, ma… mi sta punturando il cervello, o sbaglio?"
"Rilassati, non ti farà più male di un'aspirina".
"Le aspirine fanno male. E cosa dovrebbe succedermi? Finirò in una specie di realtà virtuale?"
"No, il concetto è diverso. Una periferia del tuo cervello carica un software, e interagisce con te con stimoli discreti. Vedrai scritte e disegni in sovrimpressione, ma continuerai a vivere e operare nel mondo reale. È difficile da rendere a parole, ma… anche i rumori e gli odori e le sensazioni tattili le percepirai in sovrimpressione".
"Da impazzire"
"No, anzi, pare che distragga meno di un comune monitor. E della marijuana. Sai, ogni volta che arriva una tecnologia nuova c'è qualche flippato a Londra o Boston che riesce a dimostrare che fa più male della ganja, ih ih".
"Arci, siamo due diplomatici del Teopop, se i nostri compagni sapessero… Oddio".
"Hai caricato?"
"Che roba mi hai messo qui dentro? Sento delle voci".
"Seh, capirai le voci, ti bastava un walkman. Rilassati, piuttosto, e inizierai a pensare dei pensieri".
"Tredici maggio del 2001. Sono nel tredici maggio del 2001! Cosa significa? Sto viaggiando nel tempo? E allora perché non piove? Quel giorno pioveva".
"Mac…"
"Ci sono: è un universo parallelo. È così. Mi sta mostrando un universo parallelo in cui il 13 maggio c'è il sole, Rutelli vince le elezioni e…"
"Mac, non è un universo. È solo un giochino".
"Un giochino?"
"Un gioco di simulazione di civiltà, l'ho comprato al duty-free dell'aeroporto. Roba usastra, illegale da noi. Si chiama Civilization VII".
"Stai scherzando".
"Ho sentito dire che a furia di evolversi qsto software ormai è diventato più determinista della Storia vera, nel senso che ormai tiene conto di variabili di cui la Storia s'infischia. Per esempio, se il cavallo bianco di Napoleone diventa grigio, cambia l'esito di una certa battaglia, e altre cose così. Ieri ci ho giocato un po' e poi ho preparato uno scenario per te. Ti piace?"
"Ssst. Aspetta. Sono al Quirinale che presto giuramento. Sono Rutelli, è così?"
"Proprio così. Come ti senti?"
"Non tanto bene".

(Continua)
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I colloqui di via Cracovia, 2

Le mezze stagioni della vita

Caro Leonardo,
faccio fatica a spiegarti cos'è Taddei per me. È come una semipiovosa giornata d'aprile, di quelle non proprio indimenticabili, anzi dimenticabilissime (la memoria è in bianco e nero, seleziona estati afose e inverni rigidi, e non ha pietà per le mezze stagioni). È la vecchia foto che salta fuori all'improvviso e non ti ricorda nulla, ma è una tua foto, e sei più bello e giovane, e sorridi. È un vecchio nastrone fatto in un pomeriggio e mai ascoltato, perché precipitato nella fessura di un mobile: canzoni che volevi prenderti il tempo di amare, e quel tempo non c'è stato mai. È quel tipo di ragazza con cui hai solo preso un tè un pomeriggio, non avrebbe mai funzionato, eppure. E tante altre bolle di felicità che non sono mai scoppiate, frammenti che non sono diventati ricordi, materiale inutilizzato, e ormai inservibile. Segni di un passato ancora più struggente, perché mai realm vissuto. Non so cosa pagherei per un tesoro del genere (non so neanche qnto mi pagheranno per Taddei, ma sono ottimista).
Se ho mai conosciuto Taddei – prima del suo congelamento, intendo – dev'essere stato in una di quelle mezze stagioni della vita in cui prendi tè con sconosciute e passi lunghi giorni inconcludenti a combinare progetti che poi si infilano in fessure tra i mobili. Quegli anni che il film della memoria scorre rapidam, come tempi morti tra una scena madre e l'altra. O come le interruzioni pubblicitarie nelle vecchie VHS, che a distanza di anni erano la cosa più interessante.

Prendi qsta cosa degli stranieri. L'avevo persa. Eppure c'è stato un tempo in cui i portici della mia città rimbombavano di pettegolezzi slavi e barzellette arabe. Tanto che ci avevo fatto l'orecchio, sapevo distinguere una rumena da una moldava dall'accento. E dove sono tutte quelle moldave, e le ucraine della vecchia scuola serale? Le bambine saranno madri, e le madri saranno nonne. Ricordo (ora ricordo) che avevano un debole per i verbi riflessivi, non si stancavano mai di farseli spiegare. E i pachistani che giocavano a cricket nei parcheggi, e i sikh della bassa modenese, con le loro cuffie strane: dove saranno adesso? In quali pascoli condurranno i loro armenti, o quelli altrui? In USA, a Bisanzio, in Antartide?

"Gli stranieri, già. Ti mancano?"
"Vuoi sapere cosa mi manca davvero? A me manca il posto che c'era qui. Ti ricordi?"
"Il MacRonald sulla Via Emilia".
"Sempre aperto. Una certezza".
"Me l'ero dimenticato. Poi un giorno sono venuto qui al mare con mia figlia, e ho visto quel che hai fatto con la croce. A proposito, sei stato tu?"
"Non ne sono sicuro".
"Ma la statua del Patrono l'hai buttata giù tu".
"Sì, quella sì. Ero molto incazzato. Faccio un'indigestione di peperoni, mi sveglio dopo vent'anni, e la mia città è in mano a una fottuta dittatura cattocomunista. Non ci ho visto più".
"Cattocomunista! Hai detto cattocomunista!"
"Ti eri dimenticata anche questa?"
"Ce la siamo dimenticati tutti".
"Strano, la trovo molto appropriata".
"E poi sei venuto a nasconderti qui. Dovevo capirlo subito".
"E da cosa l'avresti dovuto capire?"
"Dovevo mettermi nei tuoi panni. Tu sei un supereroe patriottico americano, in una città del futuro dominata dai cattocomunisti. Non puoi andare in giro per sempre a spaventare la gente e buttar giù le statue dei santi. Dovevi cercarti un rifugio, una base per le operazioni".
"Anche questa storia del supereroe ha stancato, io…"
"Alcuni hanno una caverna. Altri un rifugio nei ghiacci. Tutte cose difficilm reperibili a San Petronio. Poi ci sono qlli che si nascondono nei cimiteri. Quando sono venuto qui con mia figlia l'ho capito. Ti sei sistemato al cimitero di guerra. È così?"
Il cappuccio di Taddei si china in un timido cenno di assenso. "Avevo paura che fosse stato abbandonato. Così sono venuto qui…"
"E strada facendo ti è venuta fame. Ma quando sei arrivato ti sei reso conto che l'insegna del vecchio MacRonald di fronte al cimitero di guerra è stata trasformata in un monum al vecchio Papa polacco, e non l'hai presa bene. A proposito, perché tanta rabbia per Wojtyla? Tu sei un anticomunista, no? E lui non è qllo che ha liberato l'Europa dal comunismo?"
"Ma no, ma no, ma è mai possibile. Non è stato Wojtyla".
"Ma mi sembrava…"
"Ti ricordi male. È stato Reagan. Lui ha spinto l'industria bellica americana al massimo, i russi non hanno retto il colpo, e il comunismo è crollato. E poi se n'è uscito qsto polacco a prendersi tutto il merito. Ma cosa avrebbe fatto senza gli americani, lui? Senza l'industria, l'esercito…"
"Senza nemmeno una divisione corazzata".
"Già. Ma è sempre così. Gli americani sgobbano e i polacchi si prendono il merito. Del resto, guarda qsti due cimiteri di guerra. Guarda la modestia e la semplicità di qllo angloamericano. Confrontalo con la magniloquenza di qllo polacco, ancora in stile fascista. Uno che passasse di qui senza saperne niente, penserebbe che Bologna l'abbiano liberata i polacchi".
"E non sono stati i polacchi".
"Ma certo che no! Sono stati gli inglesi e gli americani!"
"Ah, già, certo".
"Mi prendi in giro?"
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I colloqui di Via Cracovia, 1
25 aprile, porchetta

Caro Leonardo, indovina un po'.
Trovato Taddei. Nel luogo e nel momento appropriato, debbo dire.

Mi piace questa stagione, è la stagione delle feste nazionali ed è divertente, anche quando fuori piove. La pioggia del resto mi ha fornito un'ottima scusa per uscire senza Letizia. Nell'aria odore di pioggia e porchetta, sempre più intenso man mano che mi avvicinavo all'appuntamento.
L'odore non aiutava certo a calmarlo. Sedeva sulla panchina del capolinea di via Cracovia, nascosto nella barba di un mese e in una felpa con cappuccio di quelle che si sono cristallizzate definitivam con gli anni Novanta – ma a vederla bene sdrucita e lisa, sottratta certo al bucato steso di qualche massaia. Tempi duri per i supereroi.
"Ed eccoci qua".
"Ma che odore che c'è, oggi".
"Vero?"

Alla seconda occhiata, mi sono reso conto che Taddei aveva una sola priorità: lo stomaco. E io, naturalm, un panino solo.
(Non te l'immagini così, la vita degli agenti segreti).
"Tieni, è per te", ho mentito. "Ti piace la porchetta, spero".
La sua prima risposta è un grugnito di soddisfazione, mentre già mastica mezza michetta. Ma ci vogliono solo pochi secondi perché le proteine raggiungano i globuli rossi e questi il cuore, e dal cuore al cervello, e più precisam la rotella più oliata del cervello di Taddei: quella preposta al Sospetto. E non appena la rotellina del Sospetto inizia a fare clic, il supereroe in felpa e cappuccio interrompe immediatam la masticazione, trangugiando in fretta e furia e iniziando l'interrogatorio.
"Perché me l'hai chiesto?"
"Perché te l'ho chiesto?"
"È uno dei vostri trucchetti nazisti? Un test? Vuoi vedere se ero in grado di mangiare carne di maiale? È così?"
"Ma no, è che oggi è il venticinque…"
"So che giorno è oggi, e mi chiedo cos'abbiate da festeggiarlo, porci nazisti di m…"
"Aspetta. Forse ho capito. Tu credi che noi siamo nazisti".
"Io non credo. Io lo so. Avete mandato via tutti quanti".
"Tutti quanti? Tutti chi?"
"Non fare il furbo. Non siamo più all'ospedale adesso. Se vuoi parlare con me prometti di non fare il furbo".
"Prometto. Ma…"
"E in ogni caso non mi fido di te, signor Bianco. Mi sai spiegare perché siete tutti così bianchi nel vostro fottutissimo Teopop?"
"Ah, ecco, ho capito. Tu pensi che…"
"E non credere di avere a che fare con uno di quei multiculturalisti culattoni, sai? Non era proprio la mia parrocchia. Ma che fottuto accidenti è successo, buon Dio. Dovunque vado vedo solo facce pallide come la mia. Dove li avete mandati quei fottuti extracomunitari?"
"Extracomunitari!"
"E non ripetere le mie parole come un idiota".
"Scusa, ma non posso farne a meno. Era una parola che non sentivo da vent'anni. Non l'avevo cristallizzata".
"Sì, come no".
"Extracomunitari! Erano gli stranieri che non provenivano dalla… dalla… da una qualche comunità, vero?"
"La comunità europea. Dove li avete portati?"
"Ecco, vedi, non ci avevo pensato. Credevo di averle pensate tutte, e questa mi era sfuggita. Mi ero detto: cosa può sconvolgerlo di più? Il mare in Val Padana? Berlusconi pontefice? Le piramidi in Antartide? No! Mi era sfuggita una cosa talm banale! Non ci sono più extracomunitari in giro! E io me n'ero dimenticato".
"Ti hanno fatto un lavaggio del cervello?"
"No. Me ne sono proprio dimenticato".
"Spiegati meglio, fottimadre! Come puoi essertene dimenticato? Dove li avete portati?"
"Da nessuna parte".
"Da nessuna parte?"
"Noi non li abbiamo portati da nessuna parte. Se ne sono andati loro. Pian piano, alla spicciolata. Per qsto me ne sono dimenticato. Uno tende a ricordare gli eventi traumatici, l'11 settembre o la Grande Pioggia. Ma in qsto caso non c'è stato nessun evento traumatico".
"Li avete costretti ad andare via, m'immagino. Leggi razziali e cose così".
"Leggi razziali in effetti ne abbiamo fatte".
"Ecco, vedi?"
"Ma per convincerli a restare. Benefici fiscali, cittadinanza facile, cose così. Fu anche nominata una commissione per semplificare la lingua italiana".
"È per qllo che nessuno è più in grado di azzeccare un condizionale?"
"Il condizionale, in teoria, è stato abolito. Ma loro se ne sono andati ugualm".
"E perché?"
"Guarda, non lo so. Si tratta di un macro-evento economico, sai, di qlli indecifrabili per chi ci vive in mezzo, senza contare che di recente la macro-economia è stata declassata da scienza a dottrina religiosa. Credo che in sostanza la forza lavoro sia andata in cerca di lavoro".
"Ah sì?"
"In effetti se ne sono andati anche molti bianchi come me e te. E chi resta di solito non si chiede perché gli altri se ne siano andati. Piuttosto si chiede perché è rimasto lui".
"E tu perché sei rimasto?"
"Responsabilità. Ho due mogli e due figli".
"Hai due mogli?"
"Sì, scusa, poi ti spiego anche questa cosa. Finisci il panino, intanto".
"…"
"Ti piace?"
"È da un bel po' che non ne mangio, sai".
"Sì. Oggi mangiamo meno carne, in generale, ma il 25 aprile è una tradizione".
"È incredibile che festeggiate ancora il 25 aprile".
"E perché? È sempre San Marco Evangelista, no? Si mangia il porco per ricordare l'espediente con cui i veneziani portarono dall'Oriente le reliquie del Santo: coperte di braciole di maiale che gli infedeli avevano pudore a toccare".
"Ah, già".
(continua)
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