Karol W., santo e subito

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[2013]. Quiz: Ha scritto poesie, commedie e millecinquecento pagine di filosofia, è stato fattorino, attore e minatore; a calcio giocava in porta ed è membro onorario del Barcellona FC. Chi è? Un aiutino: negli ultimi trent’anni di vita ha fatto anche il papa. Ah, vabbe’, ma così è troppo facile.

Si fa la barba verso il 1960.


22 ottobre – San Giovanni Paolo II, superpapa (1920-2005)

A un certo punto della mia, della sua vita, io devo aver pensato che Karol Wojtyla, in arte Giovanni Paolo II, non sarebbe morto mai. Forse per mancanza di fantasia, dopo vent’anni la prospettiva di un altro papa, con un nome diverso, un diverso numero, mi sfumava nell’inverosimile. Un altro dopo di lui, ma chi? E perché? Del resto, bastava notare i progressi della scienza medica per farmi intravedere la singolarità: la vita media si allungava sempre più, sempre più organi e tessuti diventavano rigenerabili, certo sarebbe servito denaro ma per uno come GPII il denaro non era un problema. Per un papa come lui il problema era piuttosto dire di no all’accanimento terapeutico: avrebbe potuto mai permettersi di dire una cosa semplice e terribile come “lasciatemi morire?” Non poteva, era GPII, le sue più profonde convinzioni lo condannavano a vivere per sempre. Sublime ironia: mentre la gente lo acclamava santo in vita, lui si sarebbe autoinflitto un esilio in terra; si sarebbe lasciato alimentare coi sondini finché tutto l’apparato nervoso non sarebbe diventato replicabile in laboratorio (ovviamente senza fare male a nessun embrione). Se poi col tempo fosse scivolato in una condizione di coma vigile, nessuno avrebbe potuto arrogarsi di scegliere per lui a ogni bivio tra la morte e una nuova terapia per conquistare qualche mese di vita: e così sarebbe sopravvissuto per millenni, ieratico e immortale vicario di Cristo, pronto a riaprire gli occhi e staccare le flebo nell’alba del giorno del giudizio. Alla Chiesa cattolica, raccolta in preghiera intorno al suo capezzale in terapia intensiva permanente, non sarebbe rimasto che nominare un vicario del vicario. A un certo punto io pensavo che sarebbe realmente finita così. Lo scrissi anche da qualche parte, per fortuna non mi lesse nessuno.

Chiunque altro renderebbe la foto ridicola.


Dato che ovviamente mi sbagliavo. Un giorno qualsiasi, GPII sussurrò davvero l’inimmaginabile frase “lasciatemi tornare alla casa del Padre”, e ci lasciò. La sua missione, abbracciata 35 anni prima – accompagnare la Chiesa nel terzo millennio – era abbondantemente compiuta. Ora magari verrà qualcuno esperto a spiegare, con dovizia di argomenti, perché quella sommessamente domandata da GPII e più recentemente dal cardinale Martini non sia da considerarsi un’eutanasia, mentre quella di Piergiorgio Welby sì. Mi si perdoni se qui la taglio un po’ più corta: un sovrano non è soggetto alle stesse leggi dei sudditi, e GPII è stato la cosa più vicina a un sovrano che abbiamo avuto in Italia dal Quarantasei in poi – ma forse anche da prima. La sensazione che sopra ogni confusione e disastro, ci fosse comunque Lui, il sole indifferente che anche quando è nuvolo c’è: basta aspettare e prima o poi farà capolino da qualche parte nel cielo, ci farà sapere cosa pensa, pubblicherà un’enciclica, beatificherà un reggimento, stringerà le mani a qualche leader politico discutibile, dirà due paroline dal balcone contro la guerra o la fame… Anche chi malsopportava la Chiesa, Wojtyla non riusciva a odiarlo. Senza mai diventare quel tipo di papa piacione collaudato da Giovanni XXIII, ritentato da Giovanni Paolo Primo e ora rispolverato da Papa Francesco, GPII da un certo punto in poi divenne semplicemente troppo grande perché ci si potessero appendere le nostre polemiche quotidiane. Quel punto fu probabilmente il 13 maggio 1981, l’attentato a Roma, festa della Madonna di Fatima.

Fino a quel momento Wojtyla era stato un papa simpatico, coi suoi errori di pronuncia, persino un po’ mondano, coi suoi voli transatlantici e la sua fissa per il nuoto in piscina. Un intellettuale, comunque, uno che ha studiato sul serio, e che si era ritrovato nel partito di Dio in uno dei pochi Paesi al mondo in cui era un partito d’opposizione, osteggiato dal regime. La più famosa vignetta di Andrea Pazienza fotografa quel momento particolare: un giovane papa a bordo piscina sorseggia un drink e si domanda: e se esistesse veramente? Ih! Mavvedi cosa vado a pensare. Qualche anno dopo una vignetta così sarebbe stata inimmaginabile. Il Wojtyla che avrebbe stretto la mano a Pinochet sarebbe stato vittima di scherzi anche più feroci, ma nessuno l’avrebbe più immaginato nell’atto di dubitare. 
Gli hanno appena sparato. Questa e le altre straordinarie foto provengono da https://www.ilpost.it/2011/05/02/foto-wojtyla/

Ali Ağca cambiò le cose per sempre, anche se non nel mondo che aveva voluto lui (ma non sapremo mai cosa voleva davvero Ali Ağca). Se il Novecento è la nuova Bibbia, e gli attentati suggellano la grandezza dei nuovi Martiri (i Kennedy, Gandhi, Martin Luther King), scampare a un attentato è la cosa più simile alla resurrezione che la postmodernità possa offrirci; e nel 1981 nel giro di tre mesi risorsero due dei protagonisti assoluti del decennio a venire: Ronald Reagan e Karol Wojtyla. Entrambi mediocri attori in gioventù e politici di razza; entrambi intimamente persuasi dell’esistenza del Male e della propria militanza nelle file del Bene; entrambi ormai convinti di essere stati scelti e salvati per qualcosa di grande, fosse anche la fine del mondo. È abbastanza buffo dire, come dicono molti, che Reagan e/o Wojtyla sconfissero il comunismo. Ma non c’è dubbio che si sentissero chiamati a farlo, e che nel 1981 non potevano immaginare quanto sarebbe stato relativamente semplice, quasi indolore. Nei suoi discorsi elettorali Reagan parlava di apocalisse nucleare e Impero del Male. Nell’anno dell’attentato, un papa Wojtyla ancora umano lasciava che da un’intervista con una rivista tedesca trapelassero dettagli inquietanti su quel famoso terzo segreto di Fatima:

Se c’è un messaggio in cui si dice che gli oceani annegheranno intere sezioni della terra, e che da un momento all’altro milioni di persone periranno… non c’è veramente nessun motivo di voler pubblicare questo messaggio. Molti vogliono conoscerlo per pura curiosità, o per il gusto del sensazionalismo, ma dimenticano che “sapere” implica anche per loro una responsabilità. È pericoloso soddisfare una curiosità se sei convinto che non possiamo fare nulla per una catastrofe che è stata predetta.



Il quinto da destra nella terza fila dietro l’obelisco è distratto, sta pensando al totocalcio.


In seguito GPII non si sarebbe più lasciato scappare rivelazioni del genere. Per molti anni i fotografi non avrebbero inquadrato che sorrisi, sempre più raggrinziti e ieratici, finché il parkinson glieli avrebbe consentiti; nel mentre che metteva a punto quella strategia comunicativa che sta tutta in una parola: speranza. Non Abbiate Paura. Varcate la Soglia della Speranza. Nel frattempo anche la retorica di Reagan si raddolciva, malgrado i vertici USA-URSS non stessero andando poi così bene. La storia gli avrebbe dato ragione. 

Rimane il dubbio: dietro tanti inviti alla speranza, perfettamente calibrati per una società globale che voleva lasciarsi dietro gli incubi della guerra fredda, GPII ci credeva alla fine del mondo, o no? Pensava davvero di essere il papa martirizzato su una montagna di martiri, descritto dalla veggente suor Lucia dos Santos? Preso atto che ogni cristiano dovrebbe vivere nell’attesa della fine dei tempi, quanto tempo pensava di avere davvero a disposizione il Papa-Venuto-da-Lontano? Perché tanti sue scelte – dalle conseguenze incalcolabili – tradiscono una fretta che l’attesa apocalittica spiegherebbe. Oltre ad aver pubblicato 14 encicliche e un nuovo Catechismo, Wojtyla ha nominato più santi di tutti i papi prima di lui messi assieme (482); ha fatto più chilometri di tutti i papi precedenti messi in fila: centoquattro viaggi apostolici, 146 visite pastorali, più di un milione di km di aereo (si può andare sulla luna tre volte). Un’urgenza insopprimibile di portare il vangelo dappertutto, a costo di farsi fotografare sul balcone di qualche dittatore. La necessità di aprire ai giovani senza guardar troppo per il sottile: se a loro piace l’ammucchiata con le tende diamogli l’ammucchiata, (le GMG sono un’invenzione sua, di fronte alla quale le varie Woodstock impallidiscono, se non per rilevanza culturale, almeno per dimensioni). Nessuna vera preoccupazione per la sovrappopolazione e le emergenze ambientali: tanto la fine è vicina. E la convinzione di doverci arrivare vivo, anche quando il fisico cominciava a tradirlo.



Dicono che ci ha una mossa segreta che dopo 30 giorni muori.


Wojtyla non aveva ancora vent’anni quando i tedeschi avevano invaso la Polonia. Col padre era fuggito da Cracovia verso est – soltanto per scoprire che da est arrivavano i sovietici. Tornato dalla parte tedesca, aveva trovato lavoro in una miniera: fu l’impiego che lo salvò dalla deportazione. Un giorno, aveva 24 anni, mentre tornava dalla miniera un camion tedesco lo investì. Trauma cranico acuto. Un minatore polacco, nelle province esterne del Reich, nel 1944, quante possibilità aveva di salvarsi?

Wojtyla la scampò. Maturò forse in quel momento l’idea di essere al mondo per qualcosa di grande. Una convinzione profonda, pre-logica, immune a tutta la filosofia e la cultura che stava immagazzinando. Quando sopravvivi al nazismo, e appena ti fai prete arrivano i sovietici, e invece di finire male diventi cardinale, e vai a un conclave e non ti fanno papa, ma il papa muore subito e tu diventi Giovanni Paolo II: qualche dubbio di essere l’uomo del destino ti viene. Se poi ti sparano al cuore, e sopravvivi, ed è proprio il giorno in cui si festeggia quella Madonna che aveva previsto tutto, beh, forse davvero la fine dei tempi è vicina. Forse negli ultimi anni Wojtyla stava aspettando qualcosa di più della sua semplice fine individuale. La sua contrarietà a un pensionamento che il braccio destro Ratzinger trovava già logico potrebbe avere avuto questo senso.

Finché un mattino non deve essersi arreso. Era primavera inoltrata, ormai, la ventisettesima che passava a Roma, e il mondo che pulsava alle finestre tutto dava l’impressione fuorché di voler finire. Vabbe’ mi sarò sbagliato, mò lasciatemi andare. Rip.
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Il profeta che andò a putt

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Duccio di Buoninsegna
17 ottobre – Sant’Osea, profeta becco (VIII secolo avanti Cristo)

[2012]. Essere profeta del Dio di Israele non è proprio il massimo della vita – esistono datori di lavoro più ragionevoli, diciamo. Giona quando prova a mollare si ritrova per tre giorni nelle profondità dell’oceano all’interno del ventre di una balena; Ezechiele a un certo punto deve sdraiarsi su un fianco per un numero di giorni (390+40) corrispondenti agli anni dell’esilio babilonese, e nutrirsi di cibo cotto sopra feci umane. Al che persino Ez, uno che per il suo Dio avrebbe fatto qualsiasi cosa, esprime una perplessità: Signore, la cacca umana è impura, io non ho mai mangiato niente di impuro. Va bene, risponde Dio, puoi usare feci bovine. Allora lo vedi che non è così duro come raccontano, lo vedi che ci sono margini di trattativa? Ma forse il caso più interessante è Osea, profeta minore ingiustamente negletto, col quale il Signore va subito al dunque:

Quando il Signore cominciò a parlare a Osea, gli disse:
«Va’, prenditi in moglie una prostituta
e abbi figli di prostituzione,
poiché il paese non fa che prostituirsi
allontanandosi dal Signore».


Il libro del profeta Osea comincia così – e potrebbe cominciare meglio? Siamo più o meno a metà Bibbia e ormai dovremmo avere imparato che da questa entità ci si può aspettare qualsiasi cosa: magari ti chiede di sgozzare tuo figlio su un altare, magari poi cambia idea all’ultimo momento, è fatto così. Ciononostante, bisogna riconoscerlo, riesce sempre a mantenere l’attenzione del lettore, riesce sempre a stupirlo con qualche espediente nuovo. Ciao Osea! Sono il tuo d-i-o, ora sposa una puttana, perché mi serve una metafora. Ah, e facci almeno tre figli, ma preparati a dar loro dei nomi ridicoli:

La donna concepì di nuovo e partorì una figlia e il Signore disse a Osea:
«Chiamala Non-amata,
perché non amerò più la casa d’Israele,
non ne avrò più compassione […]

Dopo aver divezzato Non-amata, Gomer concepì e partorì un figlio. E il Signore disse a Osea:
«Chiamalo Non-mio-popolo,
perché voi non siete mio popolo
e io non esisto per voi».

Insomma l’Entità è arrabbiata, molto, per via del solito problema, che il popolo di Israele non la ama. L’Entità lo ha chiamato dall’Egitto, ha fatto scaturire miele dalle rocce, quaglie dal cielo, per non parlare della manna e di tutti quei popoli che ha eliminato per far spazio, ma niente da fare: è un popolo poco serio, che tresca con gli altri dei, costruisce altarini e non si perita nemmeno più di nasconderli, ormai sono tresche dichiarate, all’aria aperta (sulle cime dei monti!), e l’Entità non ne può più. L’Entità è orribilmente gelosa, di una gelosia forse senza precedenti in letteratura. Un sentimento che prima della Bibbia non aveva nemmeno un nome, e che a partire dall’Esodo diventa attributo divino, ma che nel rotolo di Osea suona umano, terribilmente umano.



http://www.jaypinkerton.com/hosea.html

Chi lo ha scritto non necessariamente era ispirato da Dio, ma sicuramente era ispirato da una passione frustrata. Passa continuamente dalle maledizioni alle promesse, a volte fa come per accarezzarti, ma capisci che gli prudono le mani. Il Dio di Osea si esprime insomma come quel tipo di ex marito che sta per violare un’ordinanza restrittiva per portare un pacco infiocchettato al compleanno del figlio, ma in tasca comunque tiene il necessario qualora gli venisse l’ispirazione di tagliare la gola alla madre del bimbo. Come tanti libri profetici, non sappiamo se ci sia giunto in uno stato un po’ caotico o se il caos non sia caratteristico del modo di esprimersi dell’Oracolo del Signore. In ogni caso ovunque lo apri puoi imbatterti, alternativamente, in minacce di morte cruentissime e dichiarazioni d’amore appassionate, struggenti: c’è gente che si sposa, con letture del libro di Osea; se solo conoscessero la premessa…


Ad Efraim (una delle dodici tribù, ma anche tutto Israele per sineddoche)
io insegnavo a camminare tenendolo per mano,
ma essi non compresero che avevo cura di loro.
Io li traevo con legami di bontà,
con vincoli d’amore;
ero per loro come chi solleva
un bimbo alla sua guancia;
mi chinavo su di lui per dargli da mangiare.


Hai letto quanto è tenero qui? Attenzione, ora salto un versetto:

La spada farà strage nelle loro città,
sterminerà i loro figli,
demolirà le loro fortezze.

Ne salto un altro:

Come potrei abbandonarti, Efraim,
come consegnarti ad altri, Israele?
Come potrei trattarti al pari di Admà,
ridurti allo stato di Zeboìm?
Il mio cuore si commuove dentro di me,
il mio intimo freme di compassione.
Non darò sfogo all’ardore della mia ira,
non tornerò a distruggere Efraim,
perché sono Dio e non uomo;

Perdona, ma a me pare proprio il contrario. Mi sembri veramente, decisamente un uomo, un uomo che a un certo punto della vita forse si è messo con la donna sbagliata, o forse tutte le donne sono sbagliate per certi uomini, in certi momenti della vita, in ogni caso mi sembri un uomo che su questa cosa che tua moglie ha altri interessi ci deve ancora lavorare. E andare in giro dicendo che tua moglie è una puttana, e che l’hai sposata solo perché te l’ha ordinato il tuo dio, no, non ha l’aria di un progresso nella giusta direzione.

Samaria espierà,
perché si è ribellata al suo Dio.
Periranno di spada,
saranno sfracellati i bambini;
le donne incinte sventrate.
Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,
poiché hai inciampato nella tua iniquità.

Ma perché si copre la tes

D’altro canto chi sono io per giudicare. Se Osea fosse stato semplicemente un marito becco in cerca di sfogo, i suoi rotoli si sarebbero persi da un pezzo. Per sopravvivere all’oblio, per consegnare al lettore del XXI secolo un documento vibrante sulla gelosia umana, Osea doveva fare il profeta, trasformare la sua frustrazione in metafora. Come lo pseudoSalomone a cui piacevano le more, e per mille anni abbiamo fatto finta che la moretta ben tornita del Cantico dei Cantici fosse un’allegoria della Chiesa; magari Osea voleva solo raccontarci come ci si sente quando si è furiosi per un tradimento. Di sicuro la furia sa esprimerla bene.

Samaria espierà,
perché si è ribellata al suo Dio.
Periranno di spada,
saranno sfracellati i bambini;
le donne incinte sventrate.
Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,
poiché hai inciampato nella tua iniquità.

Magari è come certi che questa furia insanabile provano a trasferirla nella politica, o nella religione, nella prima rivendicazione identitaria che trovano sul loro cammino. In ogni caso è un uomo, di quasi tremila anni fa, ma già un uomo con sentimenti che riesco quasi a riconoscere, e a me gli umani interessano (Dio molto meno, cioè su Dio non saprei veramente che dire. Ma se è davvero lo stalker adombrato nel libro di Osea, siamo fottuti).

Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nella benevolenza e nell’amore,
ti fidanzerò con me nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore.
E avverrà in quel giorno
– oracolo del Signore –
io risponderò al cielo
ed esso risponderà alla terra;
la terra risponderà con il grano,
il vino nuovo e l’olio
e questi risponderanno a Izreèl.
Io li seminerò di nuovo per me nel paese
e amerò Non-amata;
e a Non-mio-popolo dirò: Popolo mio,
ed egli mi dirà: Mio Dio.
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Il giorno degli arcangeli

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29 settembre – SS. Michele, Gabriele e Raffaele, angeli o arcangeli

[2013]. Neanche troppo tempo fa, il 29 settembre si festeggiava soltanto Michele Arcangelo, il primo vero supereroe, con le sue ali bianche e la sua lancia sempre conficcata in qualche drago: è l’anniversario della dedicazione del suo più famoso santuario, nel 493 (anche se più probabilmente è di epoca longobarda), a Monte Sant’Angelo in provincia di Foggia. I due colleghi, Gabriele e Raffaele, che nessun passo della Bibbia qualifica come “arcangeli”, avevano entrambi il loro giorno dedicato, rispettivamente 24 marzo e 24 ottobre. A riunire i festeggiamenti in un giorno solo ha provveduto il Concilio Vaticano II. Cordova, città particolarmente devota a Raffaele (dopo essere stata la capitale europea dell’Islam), continua a festeggiarlo in ottobre. Un accorpamento del genere, in mancanza di altre ragioni pratiche o economiche, tradisce un certo fastidio dei teologi. Chi sono questi angeli? Da dove vengono? Cosa pretendono? Le scritture ne parlano pochissimo. Meglio diffidare. Non è un atteggiamento particolarmente moderno: l’insofferenza dei cristiani per l’angelologia è antica quanto il cristianesimo, visto che già il suo fondatore, Paolo di Tarso, metteva in guardia i colossesi dal “compiacersi in pratiche di poco conto e nella venerazione di angeli”.

Le generazioni seguenti dovettero probabilmente scegliere tra due categorie di personaggi venerabili: i martiri o gli angeli. Scegliere gli angeli significava immancabilmente offrirsi alle derive gnostiche che circolavano liberamente in quei secolo, un tripudio sincretico e new age di personaggi alati associati ovviamente al giorno della settimana, al segno zodiacale, al punto cardinale, al tuo umore, e domani incontrerai qualcuno e dovrai fare una scelta importante. Venerare i martiri significava la guerra a tutti i paganesimi: c’è un solo Dio e vale la pena di morire per testimoniarlo. Vinsero evidentemente i più estremisti, ma gli angeli non scomparirono del tutto. Ogni tanto ritornano, sembra che i fedeli non ne possano fare a meno. Certo, nei quadri le ali fanno la differenza. I santi non ce le hanno, anche quando volano sembrano semplicemente sospesi in aria: vuoi mettere con un Michele che svolazza?

Ma chi è poi questo Michele? Il suo nome è a sua volta una domanda, dato che in ebraico suona più o meno “Chi come Dio?” La sua prima apparizione è in un testo biblico abbastanza tardo (II sec. aC), il Libro di Daniele, che gli ebrei non hanno nemmeno incluso nel canone della loro Bibbia – i cattolici sì, ma son di bocca buona. Qui è presentato come il luogotenente del Dio degli eserciti, il suo condottiero più fidato. Nello stesso testo esordisce anche Gabriele, “Dio è potente”. A lui la voce del Signore ordina di spiegare una visione al profeta. Sembra il classico intermediario tra la divinità e l’uomo, e la redazione in greco usa per definirlo il termine classico, ánghelos. Con la stessa funzione lo ritroviamo nel vangelo di Luca, nell’apparizione angelica più celebre: è lui a informare Maria della sua gravidanza. Michele torna invece in un passo dell’Apocalisse (un testo che ha molti debiti col libro di Daniele), sempre con funzioni di alto ufficiale dell’esercito divino: i quadri che lo raffigurano nell’atto di sconfiggere un drago-serpente traggono spunto da lì. E Raffaele? Di lui parla soltanto il libro di Tobia, un altro testo dell’Antico Testamento rigettato dal canone ebraico e recuperato in quello cristiano. Nel libro Raffaele (“Dio Guarisce”) fa da mezzano tra il giovane Tobia e la tenera Sara, una brava ebrea deportata con un piccolo problema: è posseduta da un demone, Asmodeo, che ammazza tutti i suoi mariti la prima notte di nozze. Raffaele sconfigge Asmodeo e cura la cecità del padre di Tobia, un novello Giobbe, tanto pio quanto sventurato. Di storie a lieto fine nella Bibbia non è che ce ne siano tantissime, d’amore poi; sicché la favoletta di Tobia e Raffaele diventa piuttosto popolare nel medioevo: ai giovani sposi viene proposto di praticare l’astinenza per le prime tre notti di nozze, dette le “notti di Tobia”. Raffaele viene invocato come guaritore, anche se in questo campo la concorrenza è presto agguerritissima. Questo è più o meno tutto quello che la Bibbia ci dice su Michele, Gabriele e Raffaele.

E la guerra con gli angeli ribelli? Lo scontro con Lucifero? I testi canonici non ne parlano: a far luce sulla vicenda è un libro apocrifo, attribuito al patriarca Enoch, considerato da quasi la totalità di ebrei e cristiani una patacca già nel primo secolo dC. Gli unici ad averlo incluso nella loro Bibbia sono gli etiopi, ed è nella lingua etiope che il testo ci è arrivato nella sua interezza. Se l’avesse veramente scritto Enoch, settimo discendente di Adamo, bisnonno di Noè, sarebbe il libro più antico della storia: invece è probabilmente stato redatto nel primo secolo avanti Cristo. Il libro contiene i nomi di ben sette arcangeli (Uriele, Raffaele, Raguele, Michele, Sarcaele, Gabriele, Remiele); e del resto Raffaele a Tobia si era presentato come “uno dei sette angeli ammessi alla presenza della maestà del Signore”. A questo punto ogni giorno della settimana e ogni pianeta conosciuto poteva avere il suo arcangelo di riferimento – e tuttavia i vescovi diffidano. Non è che mettano in dubbio l’idea di uno scontro preistorico tra demoni e angeli, ma rigettano il racconto di Enoch e decidono di omologare soltanto i tre nomi attestati nella tradizione biblica. Nel 380 il concilio di Laodicea censura l’invocazione degli angeli come “segreta idolatria”. I barbari però vanno matti per Michele (i longobardi specialmente), un angelo guerriero nel quale è forse più facile per loro riconoscersi. Nel 745 papa Zaccaria scopre che a Magdeburgo un vescovo invoca nomi angelici non consentiti: getta l’anatema e mette per iscritto il divieto di invocare angeli o arcangeli che non siano Michele, Gabriele e Raffaele. Ma poi passano i secoli e nel 1516, alla vigilia della riforma protestante, avviene un ritrovamento straordinario. Due canonici della cattedrale di Palermo, Antonio Lo Duca e Tommaso Belloroso, notano nella piccola chiesetta di Sant’Angelo le tracce di un affresco antichissimo. Tra gli episodi biblici, c’è anche una foto di gruppo del pool angelico:

"Al centro Michele, il Vittorioso, in atto di calpestare il dragone. Da un lato, in ordine: Gabriele, Nunzio, con specchio di diaspro e fiaccola, Barachiele, che viene in aiuto, con rose da distribuire; Uriele , forte Compagno, con spada e fiamma. Dall’altro lato: Raffaele, Medico che guida Tobia e porta un vaso di medicinali; Geudiele, Rimuneratore, con una corona e una flagello; Sealtiele, Orante, raccolto in preghiera".

È un vecchio affresco di epoca bizantina, segno che la venerazione dei Sette Arcangeli aveva resistito a qualche divieto. A sette secoli di distanza, invece, Lo Duca non sa nemmeno che nominarli è proibito. Anzi, il ritrovamento di questi nomi misteriosi getta i semi di una renaissance angelologica, proprio nel momento storico meno adatto: Lutero sta per mettere in questione la venerazione dei santi, figurarsi quella degli angeli. A Palermo però nasce una “confraternita dei sette angeli” a cui si affretta a iscriversi pure Carlo V imperatore; Lo Duca si mette a girare in lungo e in largo per diffondere i nomi angelici e raccogliere i fondi necessari all’erezione di una cattedrale angelica. A Roma, dove è passato a servizio di un cardinale, scartabella finché non trova in qualche antico libro una conferma: i quattro arcangeli misteriosi si chiamano Uriele (“Dio infiamma”), Barachiele (“benedizione di Dio”), Geudiele (“lode di Dio”), Sealtiele o Salatiele (“Dio comunica”). In effetti ne parlava anche lo Pseudodionigi, non esattamente un manoscritto perduto. E tuttavia i soldi per la cattedrale non si trovano; i papi hanno già il loro daffare a finire quella enorme in Vaticano. Vendere indulgenze non è bastato, anzi ha fatto protestare i tedeschi e ha lacerato per sempre la cristianità. A un certo punto Lo Duca (che a Roma chiamano Del Duca) ha un’illuminazione, non in senso figurato: una visione luminosa che gli ordina di dedicare agli arcangeli i ruderi delle terme di Diocleziano, dove i Sette avrebbero assistito sette martiri. È un’ottima idea, anche abbastanza economica, perché le Terme sono ancora in piedi e prima o poi si sarebbe dovuto decidere cosa farne, restaurarle o buttarle giù. Farne una chiesa è il modo migliore per conservarle, vedi quel che successe al Colosseo che finché non fu dedicato ai martiri rimase una rovina. Del Duca però dovrà aspettare parecchio prima di trovare un papa interessato al progetto: Paolo III era scettico, Giulio III addirittura adibì le vecchie terme a maneggio per i cavalli dei nipoti. Alla fine Pio IV diede il beneplacito, e Paolo IV assegnò il restauro all’archistar per eccellenza, Michelangelo Buonarroti.

La basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri sta in piazza della Repubblica, se siete mai venuti a Roma per un corteo ci siete passati davanti di sicuro. Si era ormai in piena Controriforma: riscoprire i nomi degli angeli e degli arcangeli e di altre misteriose entità intermediarie era un modo di reagire alle teologie protestanti che negavano la necessità di qualsiasi intermediario tra Dio e il fedele, sacerdoti compresi. Eppure i sette arcangeli, malgrado gli sforzi di Del Duca e degli altri devoti, non diventeranno mai mainstream. Uriele, il portatore di fuoco, avrà una certa fortuna letteraria: Milton lo adopererà nel Paradiso Perduto. Gli altri tre ricadranno immediatamente nel dimenticatoio, anche per via di quei nomi così brutti. Dal Seicento in poi la venerazione per gli arcangeli sarà progressivamente assorbita da quella, più ortodossa, per l’angelo custode: i tre più famosi continueranno a essere venerati nelle città a loro dedicate, e a conservare un giorno tutto loro sul calendario, fino alla stretta del Vaticano II. In seguito Giovanni Paolo II ha gelato ulteriormente gli angelologi, facendo sapere via decreto che “è illecito insegnare e utilizzare nozioni sugli angeli e sugli arcangeli, sui loro nomi personali e sulle loro funzioni particolari, al di fuori di ciò che trova diretto riscontro nella Sacra Scrittura; conseguentemente è proibita ogni forma di consacrazione agli angeli ed ogni altra pratica diversa dalle consuetudini del culto ufficiale”. Erano già gli anni Novanta, l’esigenza di smarcarsi dallo stucchevole immaginario new age era molto sentita. L’avverto io stesso, nel giorno in cui mi decido a scrivere un pezzo sugli angeli e mi rendo conto che proprio non è cosa, cioè ci sono santi simpatici e santi antipatici, ma gli angeli io proprio non li soffro. Quel che è affascinante del cristianesimo è l’essere una religione di uomini e donne, vergini e martiri, peccatori che inciampano e a volte per miracolo sembra s’alzino in volo. Invece questi tizi, questi primi della classe creati senza peccato originale e con le ali di serie, sembrano usciti da un romanzo fantasy, nel quale peraltro recitavano la parte dei bacchettoni: nel libro di Enoch gli angeli ribelli intendevano fornicare con le femmine umane, in ciò consisteva la ribellione. Gli angeli invece non fornicano, perché dovrebbero? Non ne hanno bisogno, sono eterni. Ma simpatici, no. A me almeno.
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Pio, l'uomo che sanguina

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Cattelan, non sei nessuno
23 settembre - San Pio da Pietrelcina, 1887-1968, taumaturgo.

[2012]. Giovanni XXIII non aveva mai potuto soffrire Padre Pio. Già da monsignore era riuscito a evitarlo, anche quando batteva la campagna pugliese come responsabile della Propaganda Fide. Una volta divenuto Papa doveva considerare quel cappuccino sanguinante e odoroso di acido fenico, con la sua corte di faccendieri e isteriche, un esempio di ciò che la Chiesa conciliare doveva lasciarsi alle spalle. Tutto questo anche prima di ricevere da qualche volenteroso spione una bobina di intercettazioni ambientali in cui la voce del frate e delle sue più zelanti devote era frammista al rumore di sbaciucchiamenti. Senza essere stata particolarmente sollecitata, la bobina sembrava concepita appositamente per turbare un pontefice refrattario alla sola idea del contatto fisico con individui dell'altro sesso. "L'accaduto", scrive, "...fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente..."
"Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirmi personalmente puro da questa contaminazione che da ben 40 anni circa ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili".
Quella bobina fu una nuova fonte di guai per padre Pio di Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, che aveva già passato i suoi brutti momenti durante i pontificati di Benedetto XV e Pio XI - quest'ultimo, in particolare, era stato a un passo dal sospenderlo dal sacerdozio e deportarlo in qualche convento lontano dalla sua claque. Ma questo avveniva nel Ventennio, quando l'umile servo di Dio si limitava ad amministrare i sacramenti e guarire qualche pellegrino (o gerarca) di passaggio, e non possedeva ancora la totalità delle azioni dell'ospedale più grande del meridione, una deroga generosamente concessa da Pio XII al suo voto di povertà. Il Padre Pio su cui indagherà nel 1960 il Sant'Uffizio è già un fenomeno mediatico, tenuto vivo dall'attenzione costante dei rotocalchi, che il Vaticano non riesce più a manovrare.

L'ispezione sollecitata da Giovanni XXIII farà luce su molti aspetti discutibili dell'organizzazione che si era stretta intorno al frate, ma non svelerà nessun "immenso inganno", come pure il Papa si era augurato. Del resto a quel punto il cappuccino andava per i 75, sanguinava ininterrottamente da quaranta, e per immaginarlo mentre si intratteneva carnalmente con le sue beghine preferite ci voleva la fantasia morbosa ma un po' astratta di un alto prelato. Qualche mese dopo, un colloquio con l'arcivescovo di Manfredonia (la diocesi di cui fa parte San Giovanni Rotondo) avrebbe rasserenato l'animo del pontefice:
“Don Andrea, sono i suoi fratelli che l’accusano. E poi… quelle donne, quelle registrazioni… Hanno perfino inciso i baci”. Poi il Santo Padre tacque per l’angustia e il turbamento. Monsignor Cesarano, con un fremito che gli attraversava l’anima e il corpo, tentò di spiegare: “Per carità, non si tratta di baci peccaminosi. Posso spiegarti cosa succede quando accompagno mia sorella da Padre Pio?” “Dimmi”. E monsignor Cesarano raccontò al Santo Padre che quando sua sorella incontrava Padre Pio e riusciva a prendergli la mano, gliela baciava e ribaciava, tenendola ben stretta, malgrado le vive rimostranze nel timore di sentire un ulteriore male per via delle stigmate. Il buon Papa Giovanni alzò lo sguardo al cielo ed esclamò: “Sia lodato Dio! Che conforto che mi hai dato. Che sollievo!
Questo episodio, raccontato da un confratello di Padre Pio, ha il profumo e la consistenza di una storiella nata tra la canonica e la sacrestia, gli unici ambienti dove suona ancora un po' credibile scambiare il rumore di un baciamano per quello di un rapporto sessuale completo. D'altro canto qualcuno doveva pure raccontarla: qualcuno prima o poi doveva trovare un lieto fine per quella storia inquietante che metteva il Papa Buono contro il più venerato santo italiano del Novecento. Più probabilmente Roncalli si portò i suoi dubbi nella tomba monumentale che lo aspettava di lì a tre anni; il suo successore, Paolo VI, aveva di Padre Pio un ben diverso concetto. Non solo lo aveva conosciuto, ma era stato uno degli artefici della fortuna di San Giovanni Rotondo, quando al termine della guerra era riuscito a dirottare sull'erigenda Casa sollievo della sofferenza una somma ingente stanziata dagli USA per le emergenze sanitarie del dopoguerra. Con lui in Vaticano, Pio da Petrelcina poté vivere i suoi ultimi anni sulla terra in relativa serenità. Verso la fine le stimmate sembrarono progressivamente sparire, tanto che in punto di morte non se ne vedevano nemmeno le cicatrici. Cionondimeno il cadavere fu esposto coi guanti, per evitare malintesi o speculazioni.

Forse Padre Pio ha sofferto per tutta la vita. Le sue incredibili ipertermie (fino ai 48°), che facevano impazzire i termometri degli ospedali, dovevano plausibilmente causargli deliri e allucinazioni, che la fantasia di un ragazzo cresciuto tra la campagna e il convento non poteva che popolare con gli elementi del suo scarno paesaggio simbolico: madonne e chiodi, ferite e angeli. Forse davvero nell’agosto del 1918 il fraticello un po’ renitente alla leva vide un angelo che lo trafisse e lo trasverberò, colmandolo di vergogna. Le piaghe a mani, piedi e costato avrebbe potuto benissimo procurarsele in un delirio, questo lo ammettono anche i suoi più accaniti detrattori. In seguito il carrozzone miracolistico che gli era cresciuto spontaneo intorno, senza che lui avesse i mezzi intellettuali per ostacolarlo, lo avrebbe in un qualche modo costretto a mantenere aperte quelle ferite di cui lui stesso fraintendeva l’origine: da cui la necessità di approvvigionarsi di acido fenico o di veratrina, mediante biglietti clandestini che comunque il Vaticano aveva intercettato già nei primi anni Venti. E anche di questo inganno, ormai necessario per evitare non solo la propria rovina, ma uno scandalo mondiale per la Chiesa, forse Padre Pio ha intimamente sofferto per quarant’anni, mentre pellegrini da due continenti facevano la coda per baciare le sue piaghe.


Forse Padre Pio era un po’ ottuso. È la conclusione implicita di molti osservatori scesi apposta a San Giovanni per conoscerlo. Nessuno, nemmeno il più scettico, avanza dubbi seri sulla condotta irreprensibile del frate (ci sarebbero volute le cimici del 1960, un tentativo abbastanza patetico, vista l’età ormai avanzata). Ma quasi tutti lasciano intendere che egli si ritrovasse succube di qualcosa molto più grande di lui. Per padre Agostino Gemelli, il poliedrico intellettuale di lì a poco fondatore e rettore della Cattolica, si trattava di “un uomo a ristretto campo della coscienza, abbassamento della tensione psichica, ideazione monotona, abulia”, insomma un isterico da manuale (e Gemelli aveva appena scritto un manuale sui soldati che cercavano di evitare il fronte della Grande Guerra mediante fenomeni di autolesionismo). Anche i meglio disposti non possono non notare il ruvido accento, il latino zoppicante con cui continuò a dir messa anche dopo il Concilio (un’altra deroga, di Paolo VI), la sua incurante ignoranza delle cose del mondo. Forse davvero Padre Pio non era bene in grado di capire cosa gli stava succedendo intorno.

Ma c’è anche l’ipotesi inversa: che questo fraticello ignorante fosse molto più astuto di tutti i suoi ispettori. Abbastanza furbo da sopravvivere a due guerre mondiali e a cinque papi, tre dei quali indagarono su di lui decisi a spostarlo da San Giovanni (e non ci riuscirono); in grado di resistere per tutta la vita all’attenzione asfissiante di un entourage di maneggioni che lo trascinò in qualche affare sballato e fallimentare, senza scalfirne la reputazione; capace di uscire candido come una rosa dal disastro del fascismo, a cui benedì i gagliardetti finché gli convenne. In mezzo a tutto questo, Padre Pio riuscì a intestarsi uno degli ospedali più grandi del mezzogiorno, parecchi anni prima che anche la sua nemesi, Padre Gemelli, avesse il suo. Una bella rivincita sul vecchio positivista che era sceso nella sua tana pretendendo di misurarne il “campo della coscienza”. Se mai nei primi anni gli fosse sfuggita (come assicura il suo biografo più zelante e maneggione, Emanuele Brunatto) qualche parola critica nei confronti della Chiesa, Pio fu abbastanza astuto da nasconderla, anche prima che il Vaticano si comprasse l’intera tiratura del volume di Brunatto; di modo che non esiste oggi, in un infinito corpus di agiografie, più che un accenno al pensiero del Santo. Così che sembra quasi che Pio non avesse un pensiero, che non parlasse. Senz’altro non era per ascoltarlo che milioni di persone arrivavano lì. Pio, più che parlare, ascoltava. Il suo mestiere quotidiano era sedersi nel confessionale e ascoltare le suppliche di centinaia di persone al giorno. Il miracolo non sarebbe consistito tanto nel riuscire a esaudirne qualcuno, ma nel capirli tutti.



Non so perché, ma ci vedrei bene un monomarca Cavalli.

Padre Pio viene spesso accostato a Teresa di Calcutta, non solo in quanto esponente di una santità postmoderna che ha avuto il suo instancabile propagatore in Giovanni Paolo II; più spesso si tratta di un accostamento di icone, sulla stessa parete o mensola della cucina. In comune i due santi hanno il paesaggio di origine, lo scabro retroterra mediterraneo; una povertà praticata per tutta la vita, e poco altro. Teresa carambolò per il mondo su aerei a reazione, propagandando il suo francescanesimo radicale, abbracciando lebbrosi senza mai tentare di guarirne uno. Pio non propagò nessun particolare messaggio; non si spostò mai dal suo piccolo convento, ma lentamente riuscì a costruirci di fianco un enorme ospedale a regola d’arte. Ma la sua cella rimase la stessa: non gli si può imputare la deriva speculativa di San Giovanni, il flop degli alberghi (ce ne sono troppi, per un’utenza di pellegrini che preferisce il mordi-e-fuggi e raramente si ferma la notte), la chiesa gigante di Renzo Piano, con la sua cripta placcata d’oro per la quale gli storici dell’arte del futuro dovranno forse coniare una nuova categoria, l’Arte Tamarra. I cattolici, anche quelli più progressisti di Pio da Petrelcina, credono nella resurrezione dei corpi. Devono dunque presupporre che Pio si sveglierà intravedendo, oltre la maschera in silicone che ne protegge il corpo in momentanea putrefazione, il più farlocco dei cieli dorati. Avrà nuove mani per alzarle al cielo, nuovi piedi per inseguire i suoi confratelli e prenderli a calci nei secoli dei secoli, nuove orecchie per non ascoltare le loro ragioni: in fondo è solo una leggerissima foglia d’oro, ottenuta dalla fusione di tutti gli ex voto che non si sapeva più dove appendere e tutti assieme erano veramente brutti e inquietanti da guardare. E tuttavia era oro, aveva un prezzo, si poteva vendere e reinvestire in flebo, cateteri, siringhe monouso, in sollievo dalla sofferenza. Teresa nei suoi lazzaretti non accettava ascensori e frigoriferi. Francesco “Pio” Forgione mi riesce, malgrado tutto l’arredo barocco, più umano e simpatico. Ma forse è un problema mio.

Fàmola postmoderna.

Io credo nella corruzione dei corpi, li vedo ogni giorno disfarsi e soffrire, e ogni giorno passa nella fatica di distogliere lo sguardo. Una vita come la visse padre Pio, tutta trascorsa seduta davanti allo spettacolo del dolore e alla sofferenza, mi sembra l’inferno in terra. Non escludo che possa essere stato un imbroglione, un guitto di provincia. Non è affatto inverosimile che le tecniche simulatorie adottate durante la Grande Guerra per evitare il fronte lo abbiano aiutato a costruirsi l’immagine di santo stigmatizzato che poi è riuscito a rivendere per quarant’anni a un pubblico sempre più moderno e sempre più arcaico. Questo dovrebbe spingermi a un giudizio morale molto netto, ma non sono un giudice che giudica, e men che meno un prete che assolve. Sono una persona mediamente onesta, che senza aver fatto nulla di straordinariamente cattivo nella vita, non ha nemmeno fatto nulla di particolarmente buono. Non posso non riconoscere che coi suoi trucchi da fureria e da baraccone, coi suoi maneggi non necessariamente puliti, padre Pio ha fatto infinitamente di più per l’umanità – se l’umanità consiste nella sofferenza, nella comprensione della sofferenza, nel tentativo disperato e caparbio di ridurla, anche solo un malato alla volta, una stilla di sangue alla volta, un posto letto alla volta, in questa impresa padre Pio ci ha messo la vita e non si è fermato di fronte a nulla. Senza moralismi il più delle volte utili solo a distogliere lo sguardo; senza troppi discorsi in generale. A un santo non saprei veramente che altro chiedere.

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Roberto, inquisitore e gentiluomo

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17 settembre – San Roberto Bellarmino (1542-1621), inquisitore gentiluomo di Bruno e Gailleo

[2013] Gli anglicani, lo abbiamo visto, festeggiano San Thomas More, che fu decapitato per non aver accettato lo scisma anglicano. È un po’ come se i cattolici il 17 febbraio festeggiassero Giordano Bruno. Non lo fanno, non sono altrettanto sportivi. Invece il 17 settembre festeggiano San Roberto Bellarmino, il suo più celebre inquisitore. E tuttavia.

E tuttavia le cose non sono così semplici – le cose non sono mai semplici. Quando viene coinvolto dal lungo processo a Bruno, Bellarmino ha 55 anni e non ha decisamente il profilo del tetro cacciatore di streghe che ci piacerebbe assegnargli. È uno dei pochi che ha la formazione culturale necessaria per leggere davvero gli astrusi libri di Bruno e capire se in tanta torrenziale produzione di parole ci sia qualcosa di eretico o no. In fondo il filosofo e il suo inquisitore si somigliano. Sono nati entrambi negli anni Quaranta, mentre il concilio di Trento muoveva i primi passi. Sono entrambi studenti brillanti e precoci: Bruno presso gli odiati domenicani (di cui si metterà e si toglierà l’abito a seconda della situazione), Roberto coi gesuiti. Sono due viaggiatori in un secolo sedentario: Bruno schizza per l’Europa alla ricerca di una cattedra sicura, riuscendo a farsi interdire dai pastori di tutte le confessioni religiose possibili. Roberto comincia la sua carriera di predicatore anti-protestante, “martello degli eretici”, a Gand (oggi Belgio), terra di frontiera. Sono due grafomani, proprio nel momento in cui scrivere libri in Italia diventa davvero pericoloso; e prima che finisse nei guai, anche Roberto aveva rischiato.

Era successo nel 1590. Roberto si trovava in missione nella Francia sconvolta dalla guerra di religione. Lo avvertono di non sbrigarsi a tornare a Roma: l’amato Papa Sisto V sta valutando la possibilità di mettere all’Indice dei Libri Proibiti il suo best seller, avrete indovinato, le Disputationes de controversiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos. Ma come? Lo stesso Sisto non aveva tanto gradito la dedica dell’opera monumentale, una sorta di enciclopedia ragionata di tutte le eresie possibili, classificate senza troppo furore polemico? Sì, ma si vede che in seguito oltre ad apprezzare si era pure messo a leggere; trovando riferimenti al potere temporale del pontefice che non gli erano piaciuti. Bellarmino si era arrischiato a definire questo potere come “indiretto”, e tanto gli bastava per finire in disgrazia. A salvarlo fu una vera e propria moria di papi, che tra il 1590 e il 1592 falciò Sisto V e i suoi tre immediati successori (Urbano VII, dopo soli 13 giorni; Gregorio XIV, Innocenzo IX). Al termine di questo conclave permanente forse nessuno si ricordava più del caso Bellarmino, e all’orizzonte c’erano ben altre gatte da pelare. Prima di morire Sisto V – uno dei pontefici più risoluti e decisionisti della Storia – aveva voluto licenziare le bozze della nuova versione della Vulgata, la Bibbia in latino. Peccato che fossero piene di errori. In seguito una commissione aveva provveduto a correggere, ma ormai la versione vecchia era stata stampata, e ritirarla sarebbe stato imbarazzante: significava ammettere che un Papa si era sbagliato. Fu il gesuita Roberto Bellarmino a trovare una soluzione abbastanza elegante: anche la nuova versione sarebbe stata attribuita a Sisto. Una prefazione avrebbe spiegato che la decisione di pubblicare una nuova versione riveduta e corretta era stata presa dallo stesso papa che aveva fatto pubblicare la versione piena di errori. Questa era quasi una bugia: chi avrebbe avuto la faccia tosta e l’autorevolezza per firmare una prefazione del genere? Roberto Bellarmino, ovviamente, intellettuale di respiro europeo, stimato anche dagli avversari protestanti. Con Clemente VII, Bellarmino divenne rettore del Collegio romano. Lo zuccotto da cardinale stava per arrivare. In mezzo però ci fu il penoso caso di Bruno.


Quando lo incontrò, il filosofo aveva cinquant’anni ed era recluso da sei. L’opinione più condivisa è che Bellarmino avrebbe preferito salvarlo: questo fa un po’ a pugni con lo sviluppo del processo, in cui Bruno fino a un certo punto sembra orientato a salvarsi la pelle abiurando a qualsiasi cosa, salvo impuntarsi in un secondo momento, e ritrattare ogni abiura. In realtà non è affatto chiaro come andarono le cose (degli atti non restano che i sommari); non sappiamo nemmeno se fu torturato o no. Ciò che è sicuro è l’esito del processo, che andò ancora per le lunghe e si concluse nel 1600 con un rogo in Campo de’ Fiori. In seguito Giovanni Paolo II se ne è rammaricato: quattrocento anni dopo, meglio tardi che ancora più tardi. 

Sappiamo molto di più sull’altro famoso processo che riguardò San Roberto, il Galileo Uno, conclusosi con un sostanziale proscioglimento. Sono passati molti anni: siamo nel 1616, Bellarmino veste ormai lo zuccotto da tempo – avendo vinto il fastidio per un copricapo poco consono all’austerità dei gesuiti. È stato anche arcivescovo a Capua, amatissimo dal popolo, ma forse Clemente lo aveva spostato laggiù perché non si fidava più di lui: nel divampare di una polemica tra molinisti e tomisti non si era schierato dalla parte vincente. I molinisti erano seguaci del teologo Luis de Molina, teorico del libero arbitrio; i tomisti si rifacevano al solito san Tommaso d’Aquino, che riprendendo la concezione agostiniana di grazia riduceva di molto lo spazio concesso alla scelta individuale: una posizione non molto lontana da quella di Lutero, eppure tra molinisti e tomisti Clemente aveva scelto i secondi, mentre Bellarmino molto prudentemente preferiva considerare accettabili entrambe le posizioni. Ma durante la Controriforma succedeva anche questo, che bisognava essere prudenti, ma non troppo prudenti, ovvero anche la prudenza andava presa con prudenza, insomma un periodaccio. C’era anche in controluce una rivalità tra i due ordini religiosi più intellettuali: de Molina era un gesuita, Tommaso un domenicano. Alla morte di Clemente l’equilibrio si ristabilì, e il prudente Bellarmino era ancora abbastanza popolare da finire nell’elenco dei papabili: sarebbe stato il primo gesuita a varcare il sacro soglio, quattrocento anni prima di Bergoglio. Lui ovviamente non ci teneva, figurarsi, era già pronto a dimettersi da cardinale per scongiurare l’elezione, e quando invece fu eletto Paolo V, tirò un sospiro di sollievo, certo. Paolo comunque se lo riprese a Roma, al Sant’Uffizio, proprio mentre scoppiava il caso Galileo.

In quel primo processo bisogna ammettere che la Chiesa non ci fa una figura così pessima, anche grazie a Bellarmino: è vero, la teoria eliocentrica viene per la prima volta definita come eresia, in quanto esplicitamente negata dalle Scritture; tuttavia è ancora ammissibile parlarne come di un’ipotesi matematica: il vecchio trucco che aveva permesso a Copernico di pubblicare la sua teoria senza incorrere in nessuna condanna. Mentre Galileo pretendeva di fornire delle dimostrazioni, delle prove, di un presunto moto della terra intorno al sole: Copernico si era limitato a far notare che, in teoria, se la terra girasse intorno al sole, i calcoli verrebbero meglio.
“Perché il dire, che supposto che la Terra si muova e il Sole sia fermo si salvano tutte le apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il Sole stia nel centro del mondo e solo si rivolti in sé stesso senza correre dall’oriente all’occidente, e che la Terra stia nel terzo cielo e giri con somma velocità intorno al Sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare i filosofi e theologici scolastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante”.
Così Bellarmino a un fiancheggiatore di Galilei, Paolo Antonio Foscarini. E se si trovassero le prove che la terra si muove? In quel caso, sostiene il gesuita, “bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo”. Ma questo appunto era quello che Galileo pretendeva di fare, e che lo avrebbe messo davvero nei guai: spiegare la Bibbia ai preti. Bellarmino prova la manovra opposta: impartisce agli scienziati copernicani una lezione di metodo. Dite che la terra gira? Ipotesi interessante, ma… avete le prove? Dov’è la vostra “dimostratione”?
“Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata: né è l’istesso dimostrare che supposto ch’il sole stia nel centro e la terra nel cielo, si salvino le apparenze, e dimostrare che in verità il sole stia nel centro e la terra nel cielo; perché la prima dimostratione credo che ci possa essere, ma della seconda ho grandissimo dubbio, et in caso di dubbio non si dee lasciare la Scrittura Santa esposta da’ Santi Padri”.
Galilei si arrende (non che abbia già molte alternative): insegnerà l’eliocentrismo solo come una teoria. È abbastanza avveduto da farsi firmare dallo stesso Bellarmino una dichiarazione, dove è messo nero su bianco che non ha pronunciato nessuna abiura e non gli è stata impartita nessuna penitenza. Si è trattato di un semplice richiamo, un cartellino giallo: ricordati che ai tuoi allievi stai raccontando una teoria, non la verità. È più o meno quello che i bellarmini di oggi vorrebbero ricordare agli insegnanti: mi raccomando, quella di Darwin è pur sempre una teoria, finché non trovare una prova… già, ma cos’è una prova? Quanti anelli mancanti servono a dimostrare che i nostri progenitori vivevano sugli alberi? E che tipo di prove sarebbero servite a Galilei? Lui nel ’16 era convinto di averle già: osservazioni sulle maree; oggi sappiamo che almeno su quello si sbagliava, le maree non sono causate dalla rivoluzione intorno al sole. E quindi? Aveva ragione Bellarmino?

Più prudente di Bruno, Galilei era comunque incapace di darla vinta al relativismo. Presto o tardi si sarebbe rimesso nei guai. Ci mise altri quindici anni, e nel mezzo ci mise il Saggiatore e il Dialogo sopra i massimi sistemi. Quando alla fine si consegnò all’Inquisizione, gli misero sotto il naso un foglio firmato dal cardinale Bellarmino, in cui allo scienziato veniva formalmente intimato di non insegnare più l’eliocentrismo: era un falso, la lettera originale diceva ben altro – ma Bellarmino non era più vivo per smentire. Se n’era andato nel 1621.

Per farlo santo ci vollero tre secoli. I suoi devoti, soprattutto a Capua, ci tenevano molto: aveva lasciato un buon ricordo. Ma anche tantissime dispute per iscritto, e in fondo è statistico: più scrivi più alte sono le possibilità di pestare i piedi a qualcuno che ti sopravvive. La sua concezione del potere temporale della Chiesa, che già a Sisto V non piaceva, in seguito fu considerata troppo filo-papale. Alla fine diventò beato nel 1923, santo nel 1930, dottore della Chiesa nel 1931. Ma Galileo nel frattempo era stato proclamato l’iniziatore della scienza moderna, e Bruno il martire della libertà di pensiero. Bellarmino rimarrà alla storia come l’inquisitore che invece di torturarli preferiva farli ragionare. Il poliziotto buono, che a un certo punto entra in cella, ti offre una sigaretta e la sua solidarietà: eddai, Giordano, che te ne frega della pluralità dei mondi, ce ne sarà pure uno in cui bruci come uno stregone, ma perché dev’essere proprio questo? Sputa sui tuoi libri, puoi sempre scriverne altri. Eddai Galileo, questa storia della terra e del sole… ma sei sicuro? Come fai a sapere di essere sicuro? Come posso crederti? Mettiti nei miei panni: come faccio? Cosa puoi aver visto con un tubo e due lenti? È solo una teoria, ce ne sono tante, magari la tua è più elegante, te lo concedo, ma perché ci vuoi impedire di credere nelle nostre? Vuoi farlo tu il padreterno? Vuoi condannarci tu? San Roberto Bellarmino è patrono di Capua, di Cincinnati (Ohio), e di tutti gli inquisitori che ti lasciano intendere che in fondo ci credono meno di te.
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Uno sguardo ardito e fiero che rincorre l'Aldilà

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Ma sul serio ti prendevamo sul serio?
9 settembre: Giovanni Lindo Ferretti, eremita punk, nato 70 anni fa – non è ancora un santo ma cominciamo a metterci avanti.

[2013] Giovanni Lindo Ferretti prende forse il nome da San Giovanni, che come lui perse la testa, o dall'Evangelista, che invecchiando appartato scrisse di rivelazioni e apocalissi con l'aria di chi la sa lunga e invece magari bastava variare il dosaggio; da Lindo, ovvero "pulito", perché seppe ripulirsi di tanta rumorosa malvagità diffusa negli anni della perdizione; e dai Ferri di cavallo, che lo sostennero nei terreni impervi quando più facile era ricadere nelle paludosi valli della concupiscenza.

GLF nacque, se Wikipedia non tira i pacchi, a Cerreto, in culo ai lupi, nel decennale del primo giorno della Resistenza antifascista; e fu buon figliolo e chierichetto e spesso deliziava i parrocchiani cantando gli inni a maggior gloria di Dio eccetera. Crescendo nell'appennino reggiano fu avviato sin dalla più tenera età alla professione maggiormente richiesta in quelle terre benedette da Dio, ovvero l'operatore psichiatrico, cioè psico-socio-assistenziale, cioè assisteva i matti in manicomio anche se non si può più chiamare manicomio e non è giusto chiamarli matti e però andateci voi sul Crinale, andateci, poi ditemi. Fu forse operando in quel settore strategico dell'economia reggiana che incrociò per la prima volta il demonio, che stese la sua ala sopra di lui e gli disse, Lindo, dam rèta, i matti che cerchi non sono qui, va' in stazione e prendi il primo treno per Berlino, amarcmand, Ovest. Lui obbedì ma in cuor suo temeva che una volta arrivato nell'avamposto della civiltà occidentale non si sarebbe trovato a suo agio per la mancanza di cavalli e l'inveterata tendenza dei nativi a parlare in tedesco. Ma non temere Lindo, gli disse il demonio, ti manderò un tizio che conosce il reggiano come te, puoi chiamarlo Zamboni, insieme passerete il Muro e scoprirete il fascino vintage dei colbacchi e della cartellonistica del socialismo reale con quindici anni di anticipo su tutti i potenziali competitors. Poi tornerete in Italia e trasferirete lo stesso tipo di ironia sull'Emilia oppressa dal giogo del Partito Comunista Più Grande d'Occidente. E così fu, e per anni GLF divenne il punto di riferimento di una generazione di sconquassati che non sempre andando a furiosa caccia di gomitate in mezzo alla pista percepivano l'ironia demoniaca di chi cantava Voglio rifugiarmi sotto il patto di Varsavia.

Fu forse lo stesso demonio a rendersene conto, nel mentre che l'Unione Sovietica liquidava il Comecon, e gli disse: Lindo, qui cominciano a mancare i punti di riferimento, basta pankeggiare contro tutti, qui tra un po' ci sarà fame di guru e tu hai la fisionomia giusta. Cosa devo quindi fare? Chiese GLF. Boh, rispose il demonio, prova a a prendere le cose più sul serio, riscopri i valori veri in cui crede la gente, che ne so, la Resistenza, la pace nel mondo, la natura incontaminata. "Posso metterci i cavalli?" chiese GLF. Va bene, perché no, se ci tieni, infilaci pure i cavalli, e il tramonto dell'Occidente. E mi raccomando, ieratico. "Cioè?"
"Eh, come faccio a spiegarti, hai presente Battiato quando ha cominciato a sedersi sul tappetino in mezzo al concerto?"
"Forte Battiato, posso metterci anche Battiato?"
"Certo, mi fa piacere se ti piace, è un altro mio cliente".

E fu così che GLF sempre più ieratico e assorbito da mistiche comunioni equine nelle luci crepuscolari dell’occidente in guerra sopravvisse al crollo del Muro, e un mattino d’agosto si svegliò e il suo disco era primo in classifica e Jovanotti voleva fare un tour con lui, perché lo sentiva profondamente affine e inoltre Madre Teresa gli aveva dato buca. Il suo gruppo poi si sbandò, ma ormai il marchio GLF poteva camminare sulle sue gambe: tutto andava per il meglio, dal punto di vista del demonio, quando finalmente il Signore si tolse i tappi dalle orecchie, percepì l’abominio e gli inviò un orribile male, che per qualche tempo lo tolse dalle scene. Ma quando i dottori lo guarirono, grande fu la sua riconoscenza nei confronti del Signore.

“No, aspetta”, dissero i medici. “Cosa c’entra il Signore? Ti abbiamo guarito noi”.
“Voi non siete che strumenti nelle Sue mani”.
“Ma vaffanculo, mai che succeda il contrario, fosse mai venuto uno oggettivamente guarito da Padre Pio a ringraziare noi dottori, no, sempre il contrario, noi salviamo la gente e Cristo passa all’incasso, ma che senso ha?”
“È un senso più grande di voi”.

Guarito così nel corpo e nell’anima, si fece eremita nei luoghi della sua infanzia, circondato dall’affetto dei suoi cavalli (il loro scalpitìo è l’unica musica che so apprezzare, confessava) e ogni tanto inviava a valle lettere accorate sullo sterminio degli embrioni e sul tramonto dei valori veri: motivo di scandalo e turbamento per tutti i vecchi panchettoni che avevano creduto in lui ai tempi in cui nemmeno lui credeva in sé stesso.

Di lui si ricordano diversi miracoli: i Marlene Kuntz in classifica, Mara Redeghieri che non stona per un disco intero e da Villa Minozzo diventa la voce di una generazione per quasi un quarto d’ora; e quella volta che invocando Benedetto XVI fece schiantare nella boscaglia una pala eolica che gli turbava la concentrazione: e agli ingegneri e ai “managers” sbigottiti che si domandavano: com’è possibile, dev’esser stato un inverno particolarmente rigido, diceva: ma che particolarmente e particolarmente, questo è l’Appennino, convertitevi e leggete Ratzinger:

l’inverno per sua natura può essere rigido e il vento furioso, saperlo è obbligatorio, invocarlo a propria discolpa equivale a reclamare doverosa punizione. Per la manifesta incapacità, l’incuria nel costruire, il risparmio sui materiali fino alla frode, posso solo rallegrarmi, avessero fatte le cose per bene sarebbe ancora lì e chissà per quanto. Più si incupisce il mondo tra crisi economica e inconsistenza politica, più risulta evidente che abbiamo costruito sulla sabbia e si persevera. L’ostentazione di buoni sentimenti e rettitudine morale non basta a penetrare un mistero che contempla il male, il dolore, la caducità dell’umano operare. D’altra parte chi lenisce la propria disillusione con cinismo ed arroganza non può cogliere quanto di bene, quanto di bellezza e meraviglia la vita offre, comunque, e per quanto possa considerarsi libero ed autosufficiente non fa che offrire il proprio legame al nulla, al senza senso; la religione del nichilismo.

E andava avanti così per cartelle e cartelle, fino a stancarsi lui per primo. GLF è patrono dei cavalli, dei punk, dei cavalli punk e dei cavalli islamici punk. Lo invocano gli atei devoti e i musicisti che non sanno suonare, insomma tutti quelli a cui serve faccia tosta e follia. Buon compleanno.
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La più saggia lava i piatti

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10 maggio – Santa Isidora la stolta, vergine in Egitto (quarto secolo)


[2013]. Capita a tutti i supplenti l’esperienza di una classe antipatica – entri e sono già lì che litigano, è tutto un alzare le mani per dimostrare di saperne di più, o un puntarla sul compagno perché È Stato Lui. In queste classi, tipicamente, c’è sempre una tizia in un angolino che si nasconde: non partecipa al chiasso, mostra di sentirsi a disagio quanto te, magari è molto brava, oppure non capisce nemmeno l’italiano, è quasi impossibile capirlo. Il più delle volte, se fai una domanda, non risponde; se lo fa è un miracolo, al supplente vien voglia di darle dieci sulla fiducia, non vedete che ha capito più cose lei di tutti quanti qui dentro? Siamo tutti un po’ individualisti noi supplenti, tra il branco e la pecora nera tifiamo sempre un po’ per la seconda; finché non ci affidano una classe vera e ci accorgiamo di quanto sia meno faticoso e più conveniente gestire un branco ordinato. Ma veniamo alla santa del giorno, Isidora o Isadora detta la Stolta; e a Pitrim, il suo scopritore.

Pitrim è il solito eremita nel solito deserto egiziano, che un giorno ha una visione: Pitrim, vuoi vedere una Santa? Una Santa seria? recati al monastero di Tabenna, là c’è una monaca che è un vero modello di perfezione: la riconoscerai perché ha uno straccio in testa. Pitrim si reca dunque a Tabenna, dove le monache lo ricevono con tutti gli onori, evidentemente era un asceta sopra ogni sospetto. Nessuna però sembra corrispondere al modello di perfezione previsto, al punto che Pitrim comincia a chiedersi se non gli stiano nascondendo qualcosa. Siete sicuri che non mi state nascondendo nessuna monaca? Ne sto cercando una che – mi ha detto la visione – si sta avvicinando con le sue azioni e soprattutto la sua pazienza alla Passione di Gesù. Me le avete mostrate proprio tutte? Fratello, sì, praticamente tutte. Come sarebbe a dire “praticamente”? Mah, ci sarebbero le minorate, o (come si dice in questo secolo) le indemoniate, adesso non ci dirai che ti vuoi mettere a ispezionare la virtù delle indemoniate… per esempio ce n’è una impiegata in cucina, Isidora si chiama, pensa, che non vuole nemmeno mettersi il velo, si copre i capelli con lo straccio per asciugare le pentole… Bingo! È lei! Portatemela subito! Ma fratello, abbi pazienza, è una matta… la chiamiamo Isidora la scema… Portatemela ho detto! Ma è magrissima, scoppierà uno scandalo, penseranno tutti che le trattiamo male e invece no, è lei che non vuol mangiare, l’unica cosa che ingerisce è la risciacquatura dei piatti, ci abbiamo provato in tutti i modi a nutrirla con la forza, ma niente da fare… Portatemela! È lei la più santa di tutti qua dentro! Non vedete sopra il suo straccio un’aureola? No, non vediamo niente, ma se lo dici tu…

Scoppia subito l’Isidoramania – il deserto egiziano è una polveriera di misticismo, basta una scintilla perché tutti si mettano in viaggio a vedere la nuova santa di riferimento. Isidora ha passato tutta la vita a nascondersi, e tutta questa popolarità la regge malissimo: dopo qualche tempo scompare. Nel deserto, dicono. Come dire: potrebbe essere dappertutto. La leggenda di Isidora è tutta qui, una specie di fiaba di Cenerentola formato collegio di monachelle. Magari è nata effettivamente così, un modo di riadattare la fiaba a un pubblico di bambine come la Gertrude dei promessi sposi – quelle già segnate dalla nascita, che giocavano con bambole vestite da suorine, le Barbie modello Badessa. Un asceta al posto del Principe, un’aureola d’oro al posto della scarpina di cristallo, perché no.

La leggenda mette a fuoco l’annosa polemica tra cenobitismo e ascetismo, vita comunitaria e vita solitaria; visti dal monastero, gli asceti sono tutti mezzi matti dediti a pratiche folli e devianti. Per l’asceta è l’esatto contrario: i monasteri sono luoghi di mediocrità e squallore dove la sguattera è più vicina a Cristo della madre badessa. La lotta tra asceti e cenobiti proseguirà sotterranea lungo tutta la storia della Chiesa: anche se in occidente sembra che i secondi si siano imposti da subito, gli asceti non sono mai veramente spariti. Si sono infiltrati: ma è facile riconoscerli, sono quelli che persino in un istituto concentrazionario come un monastero del Cinquecento si lamentano perché la cucina è troppo buona e le consorelle ricevono troppe visite: Teresa d’Avila che lotta per scalzare le carmelitane, Matteo da Bascio che si lamenta perché il saio dei frati minori non è abbastanza ruvido, eccetera.

Gente così è sempre esistita, il che ci porta a ipotizzare che anche un Pitrim possa essere esistito – magari non in Egitto, magari non nel quarto secolo – ma da qualche parte nascosta nelle pieghe del tempo. A immaginarsi la scena non ci vuole tantissima fantasia. Un ospite che arriva in un monastero: si aspetta di trovarci tanta ospitale santità nonché una certa pia deferenza, e invece sono tutte fredde e antipatiche, si credono tutte di essere chissachì, adesso ve lo faccio vedere io. Fatemi vedere la più malmessa di tutte – è lei? La sguattera? È una deficiente? Lo dite voi che è una deficiente, io ho le visioni e vi dico che è la più vicina a Gesù Cristo di tutte quante. E adesso me ne vado, ciao, è suonata la campanella.

E la povera Isidora resta lì, a gestirsi una santità appioppata all’improvviso. Magari soffriva di anoressia o di qualche altro disturbo alimentare più insolito (picacismo?) Le monache che prima la respingevano perché indemoniata ora la invidiano – non è necessariamente un progresso. Non sorprende che abbia fatto perdere le tracce, nel deserto o in un altro monastero. Ma potrebbero semplicemente averle cambiato nome e cella per difenderla dai curiosi. Nel frattempo qualche consorella si sarà messa a bere la risciacquatura dei piatti per mostrare di non essere da meno, e così via. Nel frattempo Pitrim è ancora in giro a scambiar matti per poeti, scemi per santi, anoressiche per modelle. Ogni tanto suona una campanella, magari la prossima è per voi.
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Brigida e il barile senza fine

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1° febbraio – Santa Brigida, badessa-vescovo, copatrona d’Irlanda


(2013) Appena dico “Santa Brigida”, vi sento già sbuffare: “Massì, lo sappiamo, patrona di Svezia e d’Europa: ebbe otto figli, fondò una settantina di monasteri e riempì otto volumi di visioni estatiche”. Tutto questo è vero e anche di più, ma si tratta di Brigitta di Uppland, 23 luglio. Il primo febbraio ricorre un’altra Santa Brigida, quella di Kildare (Irlanda). Perché l’Irlanda non è solo San Patrizio, sapete.

E sai cosa bevi

Brigida forse era figlia di un capotribù e di una schiava convertita da Patrizio, forse no; forse esisteva già sotto forma di Brighid, importante divinità celtica, a cui erano dedicate alcune fontane sacre che poi passarono in blocco al cristianesimo quando questo espugnò anche l’Irlanda e Brighid si rassegnò a vestire i panni da badessa, riuscendo però nella trattativa a spuntare qualcosina di più: un pallio. Siccome non siete dei lettori qualunque, ma siete i lettori della rubrica dei Santi sul Post, non c’è bisogno di spiegarvi cosa sia il pallio e quanto sia straordinario che Brigitta ne vestisse uno. Solo i vescovi portano il pallio, e i vescovi, di solito, anzi sempre, sono maschi. Invece Brigitta lo portava, e lo portarono tutte le badesse che si succedettero a lei nella guida del monastero di Kildare (che forse all’inizio ospitava monaci di ambo i sessi, ancorché segregati; ma il boss era una donna). La cosa andò avanti per 500 anni, al punto che qualcuno cominciò a chiedersi il perché, e nacquero divertenti spiegazioni: si narra ad esempio che Brigitta fosse stata ordinata badessa da un vescovo molto anziano, che forse aveva sbagliato formula e invece di chiamarla “badessa” l’aveva chiamata “vescovo”: ma un ordine sacerdotale è una cosa seria, indissolubile, come il matrimonio; se per dire un prete molto anziano e presbite ti sposa per errore con un’acquasantiera, tu e l’acquasantiera restate marito e moglie per l’eternità – oppure vi appellate alla Sacra Rota, che in un caso del genere non avrebbe molte difficoltà ad annullare il sacramento – ma nel caso di Brigida nessuno si era appellato e così la badessa avrebbe ottenuto la dignità di vescovo, unica donna al mondo, per lei e per le sue success… le sue successoress… buffo, in italiano non c’è una parola per le donne che succedono ad altre donne in un ruolo di responsabilità. Curiosa lacuna.

Brigida è simpatica. Faceva miracoli molto semplici e di sicura presa: ottenne lo spazio per un convento stendendo il suo velo su un campo. Il proprietario le aveva detto che le avrebbe dato solo la terra coperta dal suo velo ma Brigida riuscì ovviamente a dilatarlo fino ad ottenere un bel lotto fabbricabile. Non ebbe particolari visioni estatiche, e di monasteri ne fondò assai meno dell’omonima principessa di Svezia – ma nell’isola ancora si parla di quella volta che nel Meath “spillò birra da un solo barile per diciotto chiese, in quantità tale che bastò dal Giovedì Santo alla fine del tempo pasquale” (Breviario di Aberdeen). Perciò gli irlandesi la ricordano con una preghiera che dice:

I would like a great lake of beer
for the King of Kings.
I would like to be watching Heaven’s family
drinking it through all eternity.

(Vorrei un lago di birra
per il Re dei Re.
Vorrei guardare la famiglia celeste
che ne beve per l’eternità)

Questa visione del paradiso come un pub dove la famiglia degli angeli e dei santi trinca per l’eternità, la dobbiamo a Santa Brigida di Kildare, che Dio l’abbia in gloria. E quando il giorno verrà, che si apriranno le saracinesche del cielo, fa che sia Santa Brigida ad attenderci al bancone celeste. E se la Madonna vorrà offrirci il vino di Cana, noi le diremo: “Tuo figlio ci ha messo l’acqua”, ma solo per scherzo, e Brigida spinerà una scura anche per lei, e i protestanti sciacqueranno i bicchieri in cucina, dove sarà pianto e stridore di piatti in eterno nei secoli dei secoli, amen.
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Marina e l'invidia del saio

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18 giugno – Santa Marina di Bitinia, travestita

Non so di chi sia,
è convenzionale ma
è la rappresentazione più
 androgina che ho trovato.
[2013] Santa Marina vergine visse in Bitinia o da qualche altra parte, tra il terzo e l’ottavo secolo, una vita pia e abbastanza noiosa come capita alle monache, con un’importante eccezione: Marina la visse in un monastero maschile, col nome di “Marino”. Orfana di madre, Marina si nascose nel saio per restare vicina al padre che aveva deciso di entrare in un monastero. Come eccezione non è nemmeno così eccezionale: di sante travestite, soprattutto in area bizantina, ne fiorirono diverse. Santa Eufrosina, Santa Matrona, Sant’Anna, Santa Eugenia, Sant’Anastasia (che aveva fatto perdere la testa a un imperatore e si nascondeva dalle ire della di lui moglie), Santa Teodora, e chissà quante altre, l’invidia del saio era insomma una patologia diffusa e non c’era probabilmente monastero senza la sua mascotte. Un sistema per scansare i sospetti era dichiarare di essere eunuco; questo poteva spiegare la voce acuta e la difficoltà a far crescere una barba monacale. Sempre che ce ne fosse il bisogno. Nel caso di Marina, il travestimento fu così efficace che la santa fu accusata di aver messo incinta una cameriera. 

L'episodio un po’ boccaccesco fece il giro del mediterraneo e ci è arrivato in dozzine di versioni diverse. In sostanza, il giovane Marino/Marina, già stimato da tutti i confratelli per la rettitudine e le virtù eccetera, viene inviato da qualche parte insieme con una delegazione di monaci. Nella locanda dove pernottano, un soldato giunto nottetempo stupra la figlia dell’oste. Quando i genitori se ne accorgono è troppo tardi, il soldato è già tornato alla tenebra donde è venuto, e la fanciulla è disonorata per sempre. L’unica è incolpare qualcun altro; in questo sono fortunati, perché Marino, l’irreprensibile Marino, denunciato davanti al suo superiore, non osa difendersi. Anzi, a un certo punto confessa la sua impossibile colpa. In questo possiamo ravvedere il masochismo tipico del folle di Dio, che decide di caricarsi delle colpe degli altri, ma anche un atteggiamento più prosaico: Marino aveva ben altro da temere che un’accusa di violenza sessuale, robetta. Al risarcimento ci avrebbe pensato il monastero. Quello che rischiava veramente, Marino/a, era il rogo per travestitismo: indossare indumenti non confacenti al proprio sesso era peccato mortale, e mille anni dopo sarebbe stato ancora il cardine di tutto il processo-farsa a Giovanna d’Arco. Marina insomma è una peccatrice, che diventa santa proprio in quanto peccatrice: una contraddizione che si spiega soltanto se immaginiamo la sua storia all’incrocio tra due civiltà diverse.

Il Vangelo di Tommaso prometteva il Regno dei Cieli a “ogni donna che si farà uomo” – ma fu escluso abbastanza presto dai testi canonici. Quando la storia di Marina comincia a diffondersi nel Mediterraneo, il cristianesimo è già una cultura egemone che aspira prima d’ogni cosa all’ordine: donne e uomini se ne stiano al loro posto. Ma il nocciolo della storia contiene ancora l’anima del cristianesimo degli inizi, una setta di folli che in attesa di una fine imminente avevano abolito la proprietà e le differenze di ceto e di genere. Marina nel frattempo deve abbandonare il monastero, ma pazienza: basta trasferirsi lì nei pressi, vivere rettamente e aver pazienza, prima o poi l'avrebbero riaccolto/a – figurati se lo bandiscono a vita per uno stupro, uno stupro solo? figurati.

Nove mesi dopo, la sorpresa.

Marino/a si trova un fagotto davanti alla porta di casa. Non le resta che improvvisarsi padre. Con che latte? Qui le versioni divergono: chi s’immagina una miracolosa montata lattea nella vergine-monaco, chi suggerisce che il latte glielo portassero i pastori. Preferisco quest’ultima: mi lascia il sospetto che una storia del genere possa essere capitata davvero. Marina cresce il figlio non suo come un padre, avviandolo ovviamente alla carriera monacale; e ovviamente se lo porta con sé quando i confratelli decidono di riammetterlo, a tre anni dal fattaccio. Continuerà a mostrarsi un esempio di rettitudine e virtù per il resto della sua esistenza; il suo segreto sarà scoperto soltanto quando i monaci ne spoglieranno il cadavere per pulirlo. Questo aspetto della storia a un certo punto divenne un po’ scabroso (monaci scoprono vagina in un cadavere), sicché nacque la variante del biglietto: prima di morire Marina avrebbe lasciato scritto: “sono una donna, ciao, non fate troppi pettegolezzi”, o qualcosa del genere. Noi ovviamente preferiamo la scena in cui i monaci si trovano davanti alla vagina di un cadavere:

“Ehi, aspetta, ma l'affare dov'è?”

“Non capisco. Forse è molto piccolo”.

“Pure pare lo sapesse usare”.

“Zitto! Cerca bene, dev’esserci”.

“Ma succede così quando muori? Ti si ritira?”

“Miracolo!”

“Ma sta’ zitto! Questa è una vagina”.

“Che cosa?”

“È una vagina, ti dico”.

“Fratello, non può essere!”

“Invece è così”.

“Come fai poi a esserne così sicuro?”

“Ne... ne vista una, da ragazzino a Tessalonica”.

“A Tessalonica?”

“Da ragazzino. Quella. È. Una. Vagina”.

“Io non sarei così sicuro, fratello, di quel che hai visto da ragazzino in un bordello a Tessalonica”.

“Ehi, ritira quello che hai detto”.

Segue rissa. Per cercare di disbrigare il bandolo, i monaci tornano alla locanda fatale. L’oste cade dalle nuvole; la figlia invece confessa durante una crisi isterica, o come si diceva allora, esorcismo. San Marina è patrona delle gravidanze difficili, dei genitori non standard, e si invoca per far sgorgare l’acqua o il latte. Il nome l’ha resa molto popolare tra i marinai, i monaci del mare, anche loro spesso inclini a favoleggiare di fanciulle travestite, compresse in abiti da mozzo. Dopo il crollo dell’Impero Bizantino, Venezia ne volle a tutti i costi le spoglie e le trovò, ma non fu sempre un’ospite all’altezza.
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Il terzo (o il quarto?) segreto di Fatima

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13 maggio - Madonna di Fatima.

[2012]. 31 anni fa oggi, a Piazza San Pietro Mehmet Ali Ağca sta per sparare il terzo colpo (o il quarto), quando una suora e un addetto alla sicurezza del Vaticano lo atterrano. Stacco. Dieci giorni prima, un monaco trappista dirotta un Boeing 737 in Normandia e minaccia di dar fuoco all'aeroplano se non gli viene rivelato il Terzo Segreto di Fatima. Stacco. Il Papa Buono dietro una scrivania tiene in mano una busta. C'è scritto, in portoghese: per ordine di Nostra Signora aprire nel 1960. La mano trema. Stacco. Una folla radunata in un villaggio: siamo nell'ottobre 1917, quindi le immagini sono in bianco e nero, tranne che all'improvviso il sole esplode in una supernova arcobaleno. Stacco. Karol Wojtyla parla dal balcone, la sua voce fuori campo annuncia: "gli oceani annegheranno intere sezioni della terra... da un momento all'altro milioni di persone periranno... però non abbiate paura". Dissolvenza incrociata: la statua della Madonna di Fatima, zoom sulla corona, una voce fuori campo: "Perché il Papa non ci volle consegnare la terza pallottola? Oggi magari sapremmo che Ağca non era il solo killer". Zoom sulla corona dorata, ehi, ma quella... sembra proprio una pallottola! Dissolvenza incrociata. Un uomo in bianco sale su una montagna cosparsa di cadaveri, dispensando benedizioni con fare allucinato. Una voce simile a quella di Joseph Ratzinger, fuori campo, dice: "Chi leggerà con attenzione... resterà presumibilmente deluso o meravigliato". Titolo: IL QUARTO SEGRETO DI FATIMA. PERCHÉ LA CHIESA NON VUOLE RIVELARLO? Ecco. Io una puntata di Voyager sulla Madonna di Fatima la lancerei così. E voi probabilmente avreste già cambiato canale da un pezzo. Va bene, ricominciamo.

Il terzo segreto di Fatima è stata l'apocalisse Maya della mia generazione - il solo nominarlo causava a preadolescenti di educazione cattolica autentici brividi di terrore. Considerate le coincidenze: Ali Ağca (in seguito preferì accreditarsi come "Gesù Cristo il Messia") sceglie per sparare a Papa Wojtyla, di tutti i giorni possibili, il 13 maggio, anniversario della prima apparizione della Madonna ai bambini di Fatima. Un anno dopo (12/5/1982) il Papa, salvo per miracolo, si trova appunto a Fatima, quando il sacerdote spagnolo don Juan María Fernández y Krohn tenta di trafiggerlo con una baionetta. Per don Juan, Wojtyla era un agente di Mosca. Per molti ancora oggi l'uomo di Mosca era Ali Ağca - con o senza intermediazione bulgara. I russi, ma anche la CIA, i Lupi Grigi, i cardinali invidiosi, qualsiasi ente tirato in ballo da Cristo-Ağca nelle settecento versioni che ha fornito. Tutte dotate di qualche grammo di verosimiglianza: i Lupi Grigi erano terroristi laici, senza pregiudiziali, che per soldi potevano far lavoretti per chiunque. Per conto loro avevano messo su un fiorente traffico di stupefacenti che li aveva messi in contatto con tutte le criminalità organizzate d'Europa.


Suor Letizia, quella che ha buttato giù il Lupo Grigio. Alla grande, sorella.

La guerra fredda, nella sua fase finale: il rush della corsa agli armamenti, gli euromissili sepolti sotto le nostre biolche di onesti coltivatori padani, puntati anche verso la Bulgaria. Per chi cresceva negli anni Ottanta, l'apocalisse nucleare era un'opzione. Non dico che ci pensavi tutti i giorni, ma ci pensavi. A scuola ti mostravano The Day After. A catechismo ti parlavano della Madonna di Fatima. Dei meravigliosi doni che aveva fatto ai tre pastorelli portoghesi: per esempio, aveva mostrato loro l'inferno. E consegnato informazioni riservate sulla fine del mondo, con una speciale attenzione per l'Unione Sovietica. Poi li aveva richiamati a sé, due su tre, facendoli morire ancora bambini durante un'epidemia, in modo piuttosto doloroso. La terza viveva semisepolta in qualche convento iberico, e conservava l'immagine specchiata di cose di là da venire.


 Lucia dos Santos (dieci anni) tra Jacinta Marto (7) e Francisco Marto (10), al tempo delle apparizioni (1917). Francisco sarebbe morto di spagnola nel 1918, Jacinta due anni dopo.

Però la cosa che davvero mi agghiacciava era il matto che aveva dirottato il Boeing 737. Si era cosparso di benzina ed era andato a trovare i piloti con un accendino in mano. All'inizio aveva chiesto di farsi scaricare in Iran - era un volo Dublino-Londra, figuratevi, il posto più vicino all'Iran a disposizione era il primo aeroporto di qua dalla Manica. Quando atterra, ai negoziatori chiede che gli sia rivelato il Terzo Segreto, quello che solo pochi alti prelati conoscono. Dieci ore dopo i francesi mandano le teste di cuoio. È facile immaginare che nel frattempo fosse stata consultata la Santa Sede, la quale doveva aver risposto: meglio di no. Cosa c'era di così orribile in quelle quattro paginette scritte a mano, da rischiare piuttosto l'esplosione di un Boeing 737 pieno di passeggeri? È chiaro che un ragazzino di quell'età si fa subito venire in mente cose tremende. Poi crescendo uno all'apocalisse smette di pensarci tutto il tempo - si diventa razionali, direte voi - in realtà no, il contrario, a un certo punto gli ormoni cominciano a pompare e dei dieci anni successivi ho vaghi ricordi, mi sembra di aver pensato al sesso tutto il tempo. Quando hai 16, 17 anni, anche se ti dicono "fine del mondo", tu non pensi più agli euromissili e al segreto di Fatima, tu pensi Dai, è la volta che si scopa. Cioè, se non stavolta vuol proprio dire che mai.

Questa fase diciamo endocrinosofica della mia esistenza era già in gran parte terminata quando nel 2000 fu finalmente svelato il segreto che mi aveva terrorizzato da bimbo. Come aveva previsto Joseph Ratzinger (allora prefetto della Congregazione per la Difesa della Fede) rimasi deluso. Ma neanche tanto, in fondo è come vedere Belfagor da adulti, o ritrovare lo scivolo altissimo che ti terrorizzava all'asilo, in tutti i suoi due metri di orrido splendore. Tutti i brividi che hai provato ti lasciano giusto una punta di malinconia, come sentire il freddo sotto un'antica otturazione. Ormai sei grande, se ti dicono "fine del mondo" pensi Dai, allora stasera non correggo i compiti... Il terzo segreto di Fatima è il seguente.

Dopo le due parti che già ho esposto, abbiamo visto al lato sinistro di Nostra Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui: l'Angelo indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: Penitenza, Penitenza, Penitenza! E vedemmo in una luce immensa che è Dio: “qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti” un Vescovo vestito di Bianco, “abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre”. Vari altri Vescovi, Sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c'era una grande Croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo, con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i Vescovi Sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni. Sotto i due bracci della Croce c'erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio.

Chissà poi perché tanta paura.

Tutto qui? Tutto qui. Per carità, c'è di che stare in ansia: massacri, martiri, un Papa assassinato, innaffiatoi di sangue. E allora perché non fa più paura? Perché, dopo anni di speculazioni, appena lo abbiamo letto ce lo siamo dimenticato? Forse perché nel frattempo siamo cresciuti. O forse non fa più paura proprio perché adesso lo conosciamo; la cosa veramente terrorizzante era quella busta chiusa, quell'avvertimento: non aprire prima del 1960. Un segreto ben custodito fa paura, una profezia divulgata dopo pochi minuti suona già falsa come l'oroscopo di ieri. Fu Umberto Eco il primo a far notare che il "segreto" era un collage di immagini dall'Apocalisse di San Giovanni: e in fondo, notava lo stesso Eco, Ratzinger con molto tatto aveva scritto la stessa cosa. Sopra Ratzinger però c'era Wojtyla, e Wojtyla aveva fatto incastonare la terza pallottola di Ağca nella corona della Madonna di Fatima. Un modo per sottrarla alle attenzioni degli inquirenti? Forse, però se davvero avesse voluto occultarla, non avrebbe scelto una posizione così in vista. Prima o poi qualcuno andrà lì con qualche strumento di ultima generazione e riuscirà a capire se la pallottola è uscita o no dalla pistola di Ağca. E se avesse avuto un complice? Cambia qualcosa? C'è un mafioso che a Borsellino ha detto di aver seppellito la sera stessa un terrorista turco in un orto fuori Milano, che due compagni avevano prelevato a Roma per ordine di un mafioso bulgaro per fargli poi fare "la fine dell'asino", che "si usa fino a che serve, dopo, quando non serve più, si uccide!" Salvo che il cadavere non si è mai trovato. C'è che in cella ci si annoia e allora si leggono i classici, ognuno il suo: San Giovanni per suor Lucia, Mario Puzo per il mafioso, e fuori c'è sempre qualcuno vuole sapere se hai studiato e ogni tanto ti fa interrogare.

La pallottola è nella corona, dicono.

I tre segreti di Fatima sono in realtà un'unica rivelazione che suor Lucia ebbe il 13 luglio 1917, a dieci anni, durante il terzo degli incontri con la Signora di bianco vestita. Quando su invito dei superiori decise di metterli per iscritto ne aveva quasi quaranta. Il sole rotante e tutti i prodigi di quegli anni dovevano essere ormai un ricordo al di là della nostalgia, come lo scivolo dell'asilo o Belfagor, o la paura degli euromissili. È impossibile per me parlare di queste cose senza mescolare i labili ricordi originali con tutto quello che ho letto e ascoltato e visto negli anni successivi - tutta la cultura che ho ammucchiato sopra i miei choc d'infanzia. Belfagor, per dire, non sono nemmeno sicuro di averlo visto. Qualsiasi cosa suor Lucia vide veramente, non è rimasta indenne dal contatto dei libri che ha letto negli anni del convento - del resto era stata la stessa Signora a ordinarle di studiare. Suor Lucia infatti ha studiato, e si vede. Il primo segreto - la visione dell'inferno - è Teresa d'Avila. Il secondo segreto, col quale la Madonna di Fatima si dà alla politica internazionale prevedendo con tre mesi d'anticipo la rivoluzione d'Ottobre e chiedendo la consacrazione della Russia al suo Sacro Cuore - è Santa Margherita Maria Alacoque, roba da intenditori. La veggente francese nel Seicento aveva disperatamente tentato di raggiungere il Re Sole per chiedergli la consacrazione della Francia intera a una cosa che a quel tempo non si capiva ancora bene cosa fosse, una pompa cardiaca raffigurata in modo ormai anatomicamente corretto, sormontata da una croce e aggrovigliata da una corona di spine: il Sacro Cuore di Gesù che sanguina per i peccati dei francesi. Il Re Sole non aveva mai dato udienza e così Gesù dopo un secolo aveva mandato la Rivoluzione Francese. Sostituisci alla Francia la Russia zarista, il cuore di Maria al cuore di Gesù, e il Secondo Segreto si scrive da solo. Comunque:

Avete visto l'inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarle, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato. Se faranno quel che vi dirò, molte anime si salveranno e avranno pace. La guerra sta per finire; ma se non smetteranno di offendere Dio, durante il Pontificato di Pio XI ne comincerà un'altra ancora peggiore. Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che è il grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre. Per impedirla, verrò a chiedere la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati. Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, promovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa.

Immaginare una guerra "ancora peggiore" della prima mondiale non doveva essere così difficile, nel 1941. La "notte illuminata da una luce sconosciuta", lo affermava Lucia stessa, era un riferimento all'eccezionale aurora boreale nella notte tra il 25 e il 26 gennaio 1938. Tuttavia la veggente, con tutto che s'impegna, non è un'esperta di geopolitica e commette un errore imbarazzante, che in seguito cercherà di emendare. Dal suo convento del profondo Portogallo salazarista probabilmente la guerra in corso le sembra davvero un'iniziativa della Russia demoniaca contro il mondo: la Storia però la scrivono i vincitori, e noi oggi abbiamo di quella guerra un'opinione ben diversa, che vorremmo condivisa anche dalla Madonna di Fatima. E infatti più tardi, molto più tardi, suor Lucia scriverà che il secondo segreto riguardava

lo scoppio di una guerra atea, contro la fede, contro Dio, contro il popolo di Dio. Una guerra che voleva sterminare il giudaismo da dove provenivano Gesù Cristo, la Madonna e gli Apostoli che ci hanno trasmesso la parola di Dio ed il dono della fede, della speranza e della carità, popolo eletto da Dio, scelto fin dal principio: "la salvezza viene dai giudei".

Sono parole commoventi, soprattutto nei confronti dei giudei, salutati come il popolo eletto. Magari se le avesse messe per iscritto nel 1941 - e non in un documento pubblicato postumo nel 2005 - Pio XII avrebbe avuto qualche motivazione in più per contrastare il genocidio in atto. Invece, purtroppo, il secondo segreto di Fatima racconta di una seconda guerra mondiale scatenata dalla Russia e non fa nessun cenno al genocidio degli ebrei. Il fatto è che con le profezie bisogna andarci piano, anche quando sono divulgate post eventum, e la Congregazione della Fede lo sa. Suor Lucia aveva già toppato col secondo segreto, quante possibilità c'erano che ci azzeccasse col terzo? Probabilmente la busta chiusa "da aprire solo dopo il 1960" se ne sarebbe rimasta in un archivio per sempre, e a parte qualche ufologo flippato tutti ce ne saremmo dimenticati presto - se Ali Ağca, di tutti i giorni del calendario, non avesse scelto proprio quel 13 maggio. Wojtyla era già devotissimo alla Madonna prima, dal 14 in poi fu Tutto Suo. Nel corso di pochi anni i due veggenti morti bambini furono canonizzati, la Russia fu consacrata al Sacro Cuore di Maria secondo le indicazioni di Suor Lucia; la corona della Madonna di Fatima si adornò di una pallottola; e Wojtyla divenne il papa più famoso di tutti i tempi, con uno slogan ("non abbiate paura") che a me a dire la verità ha sempre fatto un po' paura.

Non metto in discussione la trovata geniale: quando Wojtyla si mise a dire che bisognava Varcare la Soglia della Speranza, molta gente in giro per il mondo non si ricordava neanche più cosa fosse quel peso sullo stomaco, quella morsa alle tempie: ecco cos'era, finalmente qualcuno non aveva paura di ricordarcelo: avevamo paura. Vivevamo nella paura, e ci era così familiare che ormai la davamo per scontata come una tabe ereditaria, io da bambino guardavo il cielo e ogni scia chimica per me era un potenziale SS20 con testata innescata. Wojtyla non mi ha mai veramente convinto, però posso capire quanta forza potesse avere un messaggio del genere: non abbiate paura. Ma perché non dovevamo averne? Su questo il Santo Padre non era mica tanto chiaro, al punto da farmi pensare al genere di persone che gridano "niente panico" alla folla. Per esempio, il personale di volo durante un disastro. Forse il "non abbiate paura" di Wojtyla era esattamente questo, un professionale "niente panico" rivolto ai passeggeri di un mondo che stava precipitando nelle fiamme della terza guerra mondiale: non abbiate paura, tanto andrà così e non c'è nulla che possiate fare.

Il quadro raffigurante il Terzo Segreto approvato da suor Lucia.

C'è un'intervista tedesca, pubblicata nell'ottobre del 1981 (dopo l'attentato) ma che sarebbe stata rilasciata nel 1980 (prima dell'attentato): il perché ci sia voluto un anno a pubblicarla non lo so. Comunque in quest'intervista un Giovanni Paolo di fresca nomina commette un'imprudenza che in seguito non ripeterà più: richiesto di parlare del Terzo Segreto, spiega:  "Se c'è un messaggio in cui si dice che gli oceani annegheranno intere sezioni della terra, e che da un momento all'altro milioni di persone periranno... non c'è veramente nessun motivo di voler pubblicare questo messaggio. Molti vogliono conoscerlo per pura curiosità, o per il gusto del sensazionalismo, ma dimenticano che "sapere" implica anche per loro una responsabilità. È pericoloso soddisfare una curiosità se sei convinto che non possiamo fare nulla per una catastrofe che è stata predetta". La traduzione dall'inglese è mia, miei i corsivi: sono veramente contento di non aver mai letto a 12 anni questa intervista in cui il mio Papa, miracolosamente sopravvissuto a un attentato, diceva papale papale che se sei convinto che l'aereo è spacciato e non puoi farci nulla, è inutile mettersi a soddisfare le morbose curiosità dei passeggeri. Negli anni successivi anche il più prudente Ratzinger confermò il carattere apocalittico della rivelazione. Però quando nel 2000 Wojtyla decise di divulgarlo, Ratzinger lo scrisse: molti si sentiranno delusi. "Nessun grande mistero viene svelato; il velo del futuro non viene squarciato".

Alla fine è la stessa delusione che ti assale alla fine di un film horror: la locandina ti terrorizzava, pensavi che non avresti retto la visione... poi a un certo punto le luci si accendono, ti guardi intorno, hai perso un'ora e mezza per vedere cinque fotogrammi imbrattati di sangue finto e qualche maschera di gomma, e in tasca hai diecimila lire in meno. La delusione di vedere Belfagor da grandi: ma come faceva a far paura? E lo scivolo dell'asilo, eccetera. Molti non ci stanno. Non è vero. Questo non è il vero scivolo, è stato sostituito. Questo non è il vero film di paura che mi avevano detto gli amici, l'avrà censurato qualcuno, maledetta censura. Questo non è il vero Belfagor, andate a cercare negli archivi Rai perché quello vero mi faceva venire gli incubi. C'è un complotto, un'organizzazione segreta che modifica l'arredamento degli asili e censura i film e sostituisce gli sceneggiati francesi nelle teche Rai. E il terzo segreto di Fatima non è il vero terzo segreto. È stato censurato, sostituito. Quello vero fa ancora paura. Quello vero è davvero indicibile. Questo tipo di voci comincia a girare già nel 2000, facendo sdegnare un giornalista di provata fede come Antonio Socci. Però col tempo il dubbio di insinua in lui come un tarlo. Possibile che sia tutto qui, il terrore della mia infanzia? E come si spiega quella vecchia intervista a Wojtyla? E quella frase al termine del Secondo Segreto, "In Portogallo si conserverà sempre il dogma della fede, ecc.", che non è ripresa all'inizio del Terzo? E il foglietto originale, non era in quattro facciate? Perché quello pubblicato sembra un foglio solo. Eccetera. Tutto sembra portare verso una sola conclusione: Ratzinger e Wojtyla hanno truccato le carte. Esasperati dal dover sempre rispondere alle stesse domande sul Terzo Segreto, a un certo punto ne hanno "divulgato" una parte, ma non quella fondamentale. Così, insomma, il segreto della nostra infanzia è salvo! E possiamo anche cominciare a terrorizzare i nostri figli, se ne abbiamo.

Peraltro io sono abbastanza d'accordo - non su terrorizzare i nostri figli, no, ma sul fatto che il testo del terzo segreto abbia subito un robusto lavoro di editing. La frase con cui probabilmente iniziava, "in Portogallo si conserverà sempre il dogma della fede", è lessicalmente infelice: la fede non è propriamente "un" dogma, e di "dogmi di fede" ne esistono tanti. Insomma, suor Lucia faceva quel che poteva, ma era una veggente, non una teologa omologata. Che gusto c'è a dirigere la Chiesa cattolica se non puoi rieditare le profezie dei tuoi fedeli? E c'è un'altra possibilità, alla quale Socci e i gli altri fatimiti complottardi non hanno pensato - probabilmente perché non sono programmati per farlo. Forse il terzo segreto autentico rimane indicibile per il semplice motivo che non si è realizzato - così come non si era realizzato il secondo. Mettiamo che fosse una profezia di fine di mondo, come ai veggenti piace fare. Mettiamo che Wojtyla, dopo tre pallottole e un attacco alla baionetta, fosse incline a crederci, mentre invece Ratzinger no. A me viene già in mente la data perfetta: il 13 maggio dell'anno che più di tutti da bambino mi terrorizzava: il 2000. Quei due a un certo punto si saran detti: se il mondo deve proprio finire nei termini verbalizzati da suor Lucia, non diciamolo a nessuno, tanto è inutile. Ma se quel giorno non succede niente, prepariamoci un piano B. Il 13/5/2000 il mondo non è effettivamente finito: lo stesso giorno però Wojtyla ha beatificato Francisco e Jacinta Marto, e ha divulgato il terzo segreto cattolicamente corretto.

Nella sua versione del 2000, il Segreto è inattaccabile: parla di una futura persecuzione del clero cattolico, forse in parte già iniziata. Nessuno pensa più alla terza guerra mondiale, ormai, tutti hanno in mente l'offensiva laica mondiale contro il diritto alla vita, la sana famiglia eterosessuale eccetera. Ratzinger stesso lascia intendere che la Chiesa potrebbe essere punita per i propri peccati, per la "sporcizia" che il pontefice ha esplicitamente stigmatizzato, alla terza o quarantesima accusa di coprire i preti pedofili. In sostanza il terzo segreto può significare qualsiasi cosa, come una quartina ben tornita di Nostradamus, o l'oroscopo di domani. E anche questa idea che non tutto sia stato detto, che da qualche parte ci sia un quarto segreto... a suo modo torna utile. Pensate quando saremo a gennaio 2013, e nessuno potrà più rivendersi la profezia Maya: l'industria della fine del mondo avrà bisogno di qualche nuovo spunto. Magari Giacobbo ci sta già lavorando. Ecco, magari tra sei mesi fateci caso, se su Voyager o Mistero non passa un filmato simile a quello che vi ho raccontato io all'inizio. E se lo vedete - se la mia profezia si avvera - voi non cambiate canale, ma ditelo subito ai vostri bambini, che il terzo o il quarto segreto di Fatima non vogliono dire nulla, che è solo una favola riciclata in mancanza di meglio da gente che vuole venderti un libro o un altro film sulla fine del mondo. Diteglielo subito, non aspettate che siano i bambini a chiedervelo, perché i bambini a volte si vergognano, non vi dicono niente, hanno degli incubi per anni, se li tengono per sé. Lo scivolo dell'asilo ci mette decenni a rimpicciolire, Belfagor è ancora da qualche parte nell'ombra dietro un comodino, e sotto le nostre case di onesti coltivatori, dormono pazienti gli euromissili, per svegliarli basterebbe premere un pulsante. Ma va tutto bene, non c'è nulla di cui aver paura. Accendete la luce, diteglielo, dategli un bacio.

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Hai mai visto il mio ippopotamo?

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Ci conosciamo?
10 maggio - San Giobbe, personaggio letterario (600 a.C:?) 

[2012]. Nelle seconde file del calendario cattolico, accucciati dietro le spalle di santi più ordinari per non dare troppo nell'occhio, ci sono personaggi incredibili. Per esempio c'è Edipo - in realtà non proprio Edipo, un Edipo tarocco made in Ungheria, lo abbiamo visto, e c'è Buddha, un'altra volta spiegheremo magari cosa ci fa Buddha. Ma il più incredibile secondo me è Giobbe. Come abbia potuto ritrovarsi il protagonista del libro di Giobbe nel martirologio della Chiesa cattolica nello stesso giorno di Sant'Alfio, San Filadelfio e San Cirino, onestamente non lo so. Giobbe non è un profeta e non è un patriarca in senso stretto, non è nemmeno chiaro se sia un ebreo (il suo Dio però è chiamato proprio JHWH). Il suo libro omonimo è uno dei capolavori letterari dell'Antico Testamento - anche se non si armonizza molto bene con quella collezione di leggende ancestrali e antiche cronache redatte alla benemeglio. Anche Giobbe forse all'inizio poteva essere un mito, una fiaba, ma si capisce che a un certo punto uno o più scrittori ci hanno rimesso le mani. E almeno uno di loro doveva essere bravo davvero, perché la Genesi parla di Abramo, l'Esodo di Mosè, ma Giobbe parla ancora di noi, dopo tremila anni. E contiene anche la risposta di Dio all'Unica Domanda Che Valga Veramente La Pena, scusate se è poco.

La trama la sapete, no? No? Cioè l'Odissea sì, i promessi sposi sì, e Giobbe no? C'è qualcosa che non va nella nostra educazione. Poi per carità, Omero è ok, ma non è che ti capiti così spesso di organizzare massacri di Proci, né di volerti sposare contro la volontà di un signore feudale; mentre un'imprecazione alla Giobbe prima o poi sfugge a tutti, e l'Unica Domanda ce la poniamo più o meno tutti i giorni. Per dire, negli ultimi tre anni gli americani lo hanno riciclato in un paio di film, entrambi molto apprezzati (A Serious Man e The Tree of Life). Certo, se la mettiamo su questo piano i fumetti della Marvel battono Giobbe 5 a 2, ma per un prodotto di nicchia non è comunque un risultato da buttar via. La trama, dicevamo.

Nel paese di Uz (deserto del Negev?) Giobbe è un uomo giusto che fa tutto quello che deve fare un buon ebreo. (Il fatto che non sia identificato come un ebreo secondo alcuni è un modo per evitare la censura, visto che tra lui e Dio accadranno eventi spiacevoli: un'altra ipotesi è che dietro a Giobbe ci sia un mito più antico, di origine mesopotamica). Nel frattempo, alla corte di Dio... ecco, già questo è incredibile. Non si è mai vista la corte di Dio fin qui nella Bibbia: si sono visti roveti ardenti, carri rotanti, ma un Dio che tranquillo riceve i suoi cosiddetti "figli" (angeli?) è un unicum, solo in Giobbe assistiamo a scene così. Non solo, ma tra questi "figli" c'è Satana, nella sua prima apparizione pubblica. Non è ovviamente il Satana cristiano con le corna o la coda, non è visto come un nemico di Dio (anzi prende ordini da lui). Al limite è l'unico in grado di reggere una conversazione con l'Ente supremo. Da dove vieni, gli chiede infatti l'Ente, e Satana: Me ne sono andato a spasso per la terra. "Hai visto Giobbe? Lui sì che mi vuol bene, eh?" "Per forza ti vuol bene, gli hai dato tutto: una casa, una famiglia, gli affari vanno bene... prova a togliergli qualcosa, e vedrai se non ti maledice". L'Ente accetta la scommessa: "Vai pure, levagli quel che vuoi". Satana insomma è una specie di pubblica accusa che punta il dito sull'umanità (la parola forse in origine significava avversario, accusatore); più che il diavolo, l'avvocato del diavolo, con la missione di mostrare a Dio quanto gli uomini facciano schifo. Per questo bazzica la terra, mentre gli altri angeli se ne vanno per i cieli. Dunque Satana prende il migliore degli uomini, e in pochi minuti gli toglie la famiglia, il raccolto, la casa, tutto... tranne la moglie. La moglie gliela lascia (qui io ci sento un'ironia fortissima, ma forse sovrainterpreto).


"Allora il Signore rispose a Giobbe dal seno della tempesta..." (A Serious Man)

Giobbe reagisce come un vero santo: quel che il Signore mi ha dato, il Signore me lo può togliere, sia benedetto il Signore. Nell'alto dei cieli Dio gongola: visto che avevo ragione io? Non è male questa umanità, dopotutto. Satana non fa una piega, anzi rilancia: in realtà, dice, non lo abbiamo ancora toccato. Sì, gli abbiamo tolto tutto, ma gli abbiamo lasciata salva la pelle, l'unica cosa che agli umani interessi realmente. Dammi il permesso di rovinargli la salute, e vedrai se non ti maledice. Dio accetta, e Satana si affetta a coprire il sant'uomo di piaghe dalla testa alla punta dei piedi. Da uomo ricco e potente, Giobbe si ritrova nudo nella polvere a grattarsi le pustole con un coccio di terracotta, e in più la moglie che gli dice: Ma che aspetti a morire bestemmiando? Taci cretina, dice più o meno Giobbe; e non bestemmia.

Questo è l'antefatto in prosa, e sta in due paginette. Secondo alcuni è il nucleo iniziale della storia, a cui si ispirò il poeta (o i poeti) del poema successivo. Secondo altri è un'aggiunta posteriore, il che cambierebbe tutto, perché, per esempio, Satana nel resto del libro non compare più, e della scommessa nessuno fa più menzione. Se togli il prologo, il libro inizia con questo Giobbe, uomo giusto che non ha fatto nulla di male, che giace nella polvere cosparso dalle piaghe,  domandandosi il perché. Il perché lo sa il lettore - c'è una scommessa in ballo - ma forse la scommessa è un'aggiunta posteriore, il tentativo abbastanza romanzesco di un copista di razionalizzare lo scandalo di un libro che comincia con un uomo che non maledice Dio, no, ma maledice il giorno in cui è nato. Oggi possiamo leggere Giobbe come il libro in cui Dio scommette sull'uomo, ma forse c'è stato un periodo in cui Giobbe era semplicemente il libro che si chiedeva: perché esiste il male? Perché comportarsi bene, visto che Dio non ti premia, anzi? Un problema molto attuale, come si vede. 

Tante coccole

Si sa come lo risolsero i cristiani: inventarono la vita eterna, come ricompensa per tutta le sofferenze che ci capita di espiare nel mondo. In un certo senso Dio scommette davvero su di noi (e Satana tiene banco): ci manda delle prove, e noi dobbiamo tener duro. Per la verità ai tempi di Gesù l'idea circolava già da qualche secolo, la difendevano per esempio anche i farisei. Pare che non ci credessero invece i sadducei, la fazione legata alla casta sacerdotale, più tradizionalista (e infatti in Luca 20 cercano di prendere in castagna Gesù domandando cosa succede nel Regno dei Cieli alle vedove risposate: la risposta del messia, devo dire, non è troppo convincente). Ma nei libri più antichi dell'Antico Testamento, di vita eterna non si parla se non per vaghissimi accenti. Lo stesso Giobbe sembra dare per scontato che la vita sia una sola, al punto che si ritrova a invidiare una pianta, che "se viene tagliata ributta, e continua a gettare polloni... L'uomo, invece, quando muore, giace inerte: quando un essere umano spira, non esiste più". Ma se non c'è una ricompensa in un altro mondo, ed evidentemente non ce n'è una neanche in questo, che senso ha comportarsi bene? Il dibattito era acceso. Il grosso del libro di Giobbe è esattamente questo: un dibattito. Inconcludente, come è giusto che sia. I capolavori, fateci caso, sono tutti inconcludenti: i grandi scrittori non hanno nessuna pretesa di ficcarti in testa le loro idee, mica sono dei distributori automatici di idee. Al massimo costruiscono un congegno, te lo fanno provare, e tu magari con quel congegno alla verità ci arrivi da solo.

(William Blake) Silenzio, non si sente la Saggezza.


Il nucleo centrale del libro ha un ritmo molto meno concitato: niente più angeli o demoni o scommesse divine, ma una lunghissima contesa dialettica tra Giobbe e tre saggi, Elifaz, Bildad e Zofar, che uno si aspetta all'inizio siano venuti a consolarlo, e invece no: vengono a fargli la morale, perché Giobbe, ehi, se ti è andato tutto così male, un motivo sotto sotto ci sarà. Ognuno di loro pronuncia tre discorsi, per un totale di nove (alcuni forse andati persi), magnificando Dio e la sua onnisciente giustizia, e Giobbe replica ogni volta, mandandoli a quel paese mentre si gratta le pustole. Il libro di Giobbe è anche l'antenato dei flame su internet: i saggi blandiscono, insultano, rigirano frittate, continuano a ribadire gli stessi argomenti fino alla noia, e tutto il repertorio che potreste immaginarvi se a una certa ora della notte su facebook un vostro amico scrivesse: "aiutoooooo o xso la kasa la famiglia la salute ma xkEEEEEEEEEE'? DOVE' DIO ALL'ORA????"

Entità onnipotenti che fanno una scommessa sulla natura dell'uomo, mi ricordano qualcosa.

Secondo alcuni i tre saggi rappresenterebbero tre diverse scuole di pensiero dell'epoca, ma per un orecchio moderno la differenza è impercettibile, sembra che ripetano tutti la stessa cosa: soffri? Devi aver offeso Dio in qualche modo. Magari non te ne sei accorto. Magari stavi per farlo e Dio ti ha fermato in tempo. Magari sono stati i tuoi figli, ecco perché Dio li ha fatti fuori. Magari sono stati i tuoi antenati, sì, c'è chi pensa che Dio punisca i figli per le colpe degli antenati, anche se al riguardo i profeti non sono d'accordo. Tu comunque sei fortunato, poteva andarti peggio, raccomandati a Dio e vedrai che tutto si sistema. Giobbe è famoso per la pazienza, ma questi tre lo fanno uscire di testa. "Perché non tacete?", dice a un certo punto, "quella sì che vi sarebbe contata come sapienza". Rendetevi conto. Giobbe fa parte di una famiglia di libri dell'Antico Testamento definiti "sapienziali", che contengono tutti i suggerimenti per vivere una vita pia e benedetta dal Signore. Il prototipo dei libri sapienziali è il noiosissimo Libro dei Proverbi, una sequela di saggi consigli del tipo, non dire il falso, guardati dalle donne malvagie... che forse tremila anni fa non suonavano così banali, ma a differenza di Giobbe sono invecchiati malissimo. I Proverbi avevano avuto svariati tentativi di imitazione nei secoli successivi, ma Giobbe è un'altra categoria: è un libro antisapienziale, un testo che ospita le tirate sapienziali dei tre dotti personaggi solo per il gusto di replicare a tutti e tre: non avete capito niente, la vita non va come vorreste voi, l'unica cosa veramente saggia nei vostri sproloqui è il silenzio tra una parola e l'altra.

Comunque vanno avanti per trenta capitoli, con Giobbe che ribadisce la sua innocenza. A un certo punto c'è una specie di intervallo, un elogio della sapienza un po' spiazzante, forse inserito in un secondo momento. Poi, mentre Giobbe continua a professarsi innocente, ecco che appare dal nulla un quarto sapiente, di cui nessuno fin lì aveva parlato. È un giovane, si chiama Elihu, e sostiene di esserci stato sin dall'inizio, ma di non aver parlato fino a quel momento per rispetto nei confronti della maggiore età dei tre insopportabili. Ma dopo aver visto che né Elifaz, né Bildad, né Zofar, sono in grado di smontare la sicumera del pustoloso Giobbe, Elihu prende la parola e se la tiene per altri cinque capitoli che, ve lo dico, non sono il migliore argomento in favore del ricambio generazionale: Elihu è ottuso quanto gli altri tre, ma in più ha pure l'arroganza del maestrino con tanta teoria in testa e poco rispetto per la pratica. Giobbe non capisce, Dio è misericordioso, chiunque glielo può dire, lo sanno tutti, eccetera eccetera. Giobbe tace. Immagino che continui a grattarsi, ma non c'è modo di saperlo, il libro non contiene repliche a Elihu. In effetti nessuno risponde a Elihu in tutto il testo: nemmeno Dio che nel finale rimprovererà gli altri tre, ma di Elihu non dirà niente. Il sospetto, insomma, è che l'intervento del quarto saggio sia un'aggiunta posteriore, di un giovane scriba che ricopiando il testo deve aver pensato: questi tre vecchi sbabbioni avrebbero anche ragione, ma non riescono a difenderla! Ci penso io. Benedetta gioventù.

William Blake - Giobbe, l'ippopotamo e il coccodrillo

Quando Elihu cessa di parlare - nell'indifferenza totale - la parola passa a... Dio. Sul serio. Di punto in bianco, senza complimenti, il Signore esce dalla tempesta e parla a Giobbe. A questo punto uno si aspetta una specie di premiazione per aver fatto vincere una scommessa contro Satana: sbagliato, di scommessa non si parla più, forse Dio un po' si vergogna, ma più probabilmente la scommessa non c'è mai stata, è un'aggiunta posteriore, un pretesto. Va bene, pensa allora il lettore, comunque visto che siamo nella Bibbia, e che qui parla Dio direttamente, forse finalmente avremo una risposta alla Unica Domanda Che Valga Veramente La Pena: perché l'uomo giusto soffre? Col cavolo. Dio non perde tempo a rispondere. È passato soltanto a ribadire la sua incommensurabile superiorità: cos'è che chiedi, Giobbe, cosa pretendi di voler capire? Vuoi interrogarmi, sei forse il mio maestro? Vai, cingiti i fianchi, fammi le domande, dai. Tu senz'altro conosci le misure della terra, sai come si fanno girare le stelle durante la notte, e dov'è il deposito estivo della neve... Giobbe capisce che l'ha fatta grossa e chiede scusa, ma ormai Dio è un fiume in piena: Giobbe, ma tu hai un'idea di quante cose ci sono in cielo e in terra, tutte fatte da me? Sei tu che cacci la preda per la leonessa, che sazi i leoncini? Hai mai visto, che so, il coccodrillo? Hai mai visto l'ippopotamo? All'inizio per la verità si traduceva col misterioso termine "Behemoth", ma nelle versioni più recenti Behemoth è sempre più chiamato semplicemente "ippopotamo". Ecco, questo è il punto in cui secondo me poteva anche finire il libro di Giobbe. Ogni volta che ci chiediamo perché esiste il male, perché Dio lo consente, sapete come vi risponde Dio nella Bibbia? Con un'altra domanda: hai mai visto l'ippopotamo? 

Giobbe viveva nel Negev, è ovvio che non ne ha mai visto uno. E allora cosa vuole, cosa pretende? Uno che non ha mai visto un ippopotamo, né un tranvai o un'equazione di Maxwell, pensa di poter interrogare Dio sul segreto della Creazione? L'universo è complesso ed evidentemente non gira intorno all'uomo: perché poi chi l'ha detto che l'universo sia fatto su misura per l'uomo, che l'uomo sia il figlio prediletto di Dio? Ah, la Genesi? Il Dio di Giobbe sembra vederla in un modo diverso. Invita a considerare gli ippopotami. Sono effettivamente bestie meravigliose. Quando sono sott'acqua sono morbide e aggraziate: quando ne escono sono terribili, leoni ed elefanti si guardano bene dal disturbarli. I cuccioli sono adorabili, gli anziani sono maestosi; vivono nella Rift Valley più o meno da quando nella stessa zona una sottospecie di scimmie è scesa dagli alberi, e se non si sono molto evoluti nel frattempo, forse è perché erano già perfetti così. E anche Dio, perché dovrebbe creare a sua immagine e somiglianza questi scimpanzè mal addestrati? Se uno ci pensa, la terra sembra più fatta per gli ippopotami che per gli uomini. Magari è l'ippopotamo che Dio ha creato a sua immagine e sua somiglianza, forse insomma Dio somiglia un po' più all'ippopotamo che all'uomo, e per farti un'idea di Dio un documentario sugli ippopotami in Kenya è più utile di tutta quanta la Bibbia. Forse Dio ha creato la terra per gli ippopotami, affinché l'ippopotamo ne godesse ogni giorno della sua santa vita. E l'uomo?

Esatto, sono l'essere perfetto, il fine ultimo della creazione. Altre domande?

Magari è solo un effetto collaterale. Una sottospecie di scimpanzé con una straordinaria manualità. Dio potrebbe averlo creato affinché producesse splendidi documentari sugli ippopotami: ma bisognava prima inventare il cinema, fare la rivoluzione industriale, le manifatture, l'artigianato, la fusione del ferro e prima del bronzo, e l'agricoltura: nella mezzaluna fertile servivano buoni agricoltori come Giobbe, disposti a sopportare i rovesci della fortuna, affinché millenni dopo Dio potesse guardarsi un documentario sugli ippopotami ben montato e illuminato. Però questa cosa a un contadino come Giobbe non gliela puoi spiegare, è un possidente dell'età del bronzo, i suoi bisnonni avevano ancora parenti sugli alberi. Come spiegare a una formica perché stiamo dando il veleno sul battiscopa del terrazzo, senti, niente di personale, ma tu sei meno di nulla per me, non vali neanche la pena di schiacciarti con un dito. Giobbe questa cosa la capisce, e china la testa. Anche se sul significato del suo ultimo versetto (42,6) non c'è consenso tra i critici: forse si cosparge di polvere in segno di umiltà, sta chiedendo scusa, forse sta rinnegando JHWH. Ognuno traduce a modo suo.

Ma il Libro non finisce qui. C'è un'aggiunta in prosa, in cui Dio riabilita totalmente Giobbe, sbugiardando i tre insopportabili barbogi, e raddoppiando le sue ricchezze: nuove terre, nuovi figli e figlie (bellissime), nuova fiducia in un mondo migliore. L'ex pustoloso campa 140 anni e conosce i suoi bis-nipotini. Dovrebbe essere un finalino rassicurante, ma per il lettore moderno l'effetto è strano, sembra tutto un capriccio di Dio, un mettersi a giocherellare con una formica sul terrazzo. Perché Dio si comporta così? Forse perché Giobbe, nella sua totale e riconosciuta inadeguatezza, è comunque riuscito a sostenere una conversazione con Dio? Più probabilmente perché il Giobbe degli ultimi versetti non è più il Giobbe inquietante di 42,6. È invece lo stesso Giobbe del prologo, quello che ha fatto vincere a Dio una scommessa un po' puerile, rivoltandosi nella polvere per giorni e giorni senza mai bestemmiare Dio. Così alla fine prologo e finale si rivelano per quel che sono: una cornice rassicurante, che pretende di spiegare quello che Dio si guarda bene da dettagliare agli umani: il giusto soffre perché Satana lo tenta, ma basta tener duro. Il vero Giobbe, il Giobbe del poema centrale, su una cornicetta così ci avrebbe sputato. Ma probabilmente senza la cornicetta rassicurante Giobbe nella Bibbia non ci sarebbe mai arrivato, tantomeno nel calendario cattolico, e io non vi avrei mai raccontato la sua storia, che contiene la risposta di Dio all'Unica Vera Domanda Che Valga La Pena (perché il giusto soffre?) E la risposta è (ricordatevene quando vi capiterà di subire qualche malanno palesemente ingiusto): Hai mai visto l'Ippopotamo?

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Col mio cuore vincerai

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La bandiera offerta al colonnello
de Charette non era probabilmente
un tricolore, ma uno stendardo bianco.

16 ottobre - Santa Marguerite-Marie Alacoque, veneratrice del Sacro Cuore di Gesù.

[2012]. Nell'autunno del 1870 Parigi è assediata, la Francia è fottuta. Appena nominato comandante di una delle legioni di volontari formate nel tentativo, ormai disperato, di spezzare l'assedio prussiano, il colonnello Athanase de Charette riceve la visita di un Monsieur Dupont qualsiasi, che viene da Tours a portargli il dono più prezioso: uno stendardo con il Sacro Cuore di Gesù, recante il motto Cuore di Gesù, salvate la Francia. Era stato l'abate di Musy a concepirlo, e a farlo cucire dalle suore di Paray-le-Monial. In origine era previsto che Dupont lo portasse al comandante della piazza di Parigi, ma la città era ormai irraggiungibile. Mentre cercava un sistema per passare, Dupont incocciò nei volontari di de Charette, e l'incontro gli parve provvidenziale. Tra loro vi erano 300 zuavi che avevano appena difeso (male) Roma dall'attacco sabaudo: fuggiti dopo la breccia a Porta Pia, nel giro di un mese erano già sul fronte francoprussiano, pronti per una nuova sconfitta. Prima però accettarono di farsi consacrare al Sacro Cuore di Gesù, "l'unico vero re di Francia". La Francia per la verità era appena ridiventata una Repubblica (la terza), dopo la fuga di Napoleone III e l'ingloriosa fine dell'Impero (il secondo). Ma la situazione era un caos, a Parigi incubava lo spettro della prima rivoluzione comunista, che sarebbe scoppiata di lì a pochi mesi, tutt'intorno i prussiani dilagavano, e più indietro ancora i legionari accanto al tricolore sventolavano il Sacro Cuore. Di Gesù. Un muscolo cardiaco raffigurato solitamente con un certo realismo, avvolto in un rovo spinoso, e sormontato da una croce. Che razza di brand. Chi lo aveva inventato?

Pompeo Batoni, 1760 (chiesa
del Gesù, Roma). Una vita a
far ritratti, e l'unico di cui tutti
si ricordano è un santino.

È una storia lunga. Monaci e suore devoti al Sacro Cuore ce n'è stati per tutto il medioevo. Il cuore in questione però non era ancora esattamente il nostro: oltre a rappresentare l'affettività, era considerato la sede delle facoltà intellettive. Ma era ancora un cuore perlopiù astratto, nelle miniature rassomigliante più a una fiamma che a una pompa cardiaca. Che ne sapevano, in fondo, nel medioevo, del cuore? quel che potevano dedurre macellando altri animali: autopsie e dissezioni del corpo umano erano atti sacrileghi. Il vero e proprio culto del Sacro Cuore nasce in epoca moderna, quando ormai il cuore si è capito cos'è, quanti atri ha, quanti ventricoli. È una specie di sfida cattolica alla scienza medica: tu dici che il cuore è solo una pompa? Ebbene, dal Seicento in poi i mistici si metteranno a sognare pompe cardiache, i pittori a raffigurarle nei quadri, i combattenti a esporle nei loro stendardi. Il realismo - nei limiti dell'abilità degli artisti - è causato dalla necessità di negare qualsiasi stilizzazione simbolica: il Sacro Cuore non è un simbolo, è semplicemente e trionfalmente il muscolo cardiaco di Nostro Signore Gesù Cristo, sanguinante per i nostri peccati. Come nel quadro di Batoni, che abbiamo tutti visto almeno una volta nella vita senza saperlo (è uno dei quadri semisconosciuti più famosi del mondo), molto spesso è Nostro Signore stesso a mostrarlo, esattamente come lo vide nel maggio del 1675 una suora del convento di Paray-le-Monial, Marguerite-Marie Alacoque.

Antonio Ciseri (1888) lo fa
sembrare un tatuaggio,
per me è un no.
Mi disse: "Il mio Cuore divino è così appassionato d'amore per gli uomini e per te in particolare che, non potendo più contenere le fiamme della sua ardente carità, occorre che le diffonda attraverso il tuo tramite, e che si manifesti a loro per arricchirli dei suoi preziosi tesori che ti ho rivelato, e che contengono le grazie santificanti necessarie e salutari necessarie a rimuoverli dal baratro della perdizione; (tirate fiato) e ti ho scelto in quanto abisso d'indegnità e ignoranza per la realizzazione di questo grande scopo, in modo che tutto sia compiuto da me.

Dopodiché domandò il mio cuore, che io lo pregai di prendere, ciò che fece, e lo mise nel suo, adorabile, all'interno del quale me lo fece vedere come un piccolo atomo che si consumava in questa fornace ardente..." basta, tanto non sta più leggendo nessuno. Un simile scambio di cuori era stato descritto da una monaca tre secoli prima: ma la novità di un cuore-atomo che si vaporizza in una fornace ci suggerisce che persino l'immaginario delle suore di clausura, il luogo che immagineremmo più refrattario all'innovazione, lentamente si rinnovi.

Così come dietro ogni grande uomo c'è (quasi sempre) una grande donna, dietro a una mistica di successo c'è sempre un prelato che ne ha capito le potenzialità. Nel caso di Marguerite-Marie, fu Padre Claude La Colombière, anche lui più tardi proclamato santo (da Giovanni Paolo II). Padre Claude era un gesuita, e gesuitico fin da subito fu il tentativo di trasformare il Sacro Cuore nel brand più fortunato della Controriforma francese. Come ogni bandiera, il Sacro Cuore per trionfare aveva bisogno di sconfiggere qualche nemico in battaglia: nei primi cent'anni il nemico furono i giansenisti, una corrente teologica che rifacendosi ad Agostino aveva elaborato una dottrina della Grazia pericolosamente vicina a quella protestante. I giansenisti portavano avanti un cristianesimo austero e intellettuale, che due secoli dopo avrebbe attirato Manzoni, se vi ricordate negli appunti della maturità sotto Manzoni c'era una freccina che puntava verso "giansenismo". I giansenisti, di fronte a questo nuovo culto del Sacro Cuore, reagirono prevedibilmente storcendo il naso: sapeva di idolatria, di paganesimo, e poi insomma siamo nel diciassettesimo secolo, sappiamo tutti che il cuore è una pompa, via. Vien quasi da pensare che i gesuiti lo facessero apposta, a sventolare quel simbolo simil-pagano, continuando gesuitescamente a insistere che non era affatto un simbolo, ma il vero Cuore di Gesù, da adorare in tutti suoi atri e ventricoli e reticoli venosi. Con il cuore però si difendeva l'idea di un Gesù buono, misericordioso, disposto a perdonare i peccati a chiunque si fosse arruolato nelle sue schiere: il Gesù gesuita, insomma. I giansenisti furono più volte condannati per eresia, il Sacro Cuore si conquistò la sua festa (mobile) sul calendario (19 giorni dopo la Pentecoste). 

Questa invece è una bandiera quebecchese (dei canadesi di lingua francese)

Riprese a battere con vigore nell'Ottocento, ancora una volta impugnato come stendardo contro un nemico: non più il giansenismo, ma la rivoluzione (anche se ai ribelli della Vandea, i primi a metterlo sulla bandiera, non aveva portato troppa fortuna). L'idea che il cuore di Gesù sanguini per i peccati della Francia rivoluzionaria si fa strada soprattutto durante il disastro del 1870: rileggendo le lettere di Marie-Marguerite (beatificata quattro anni prima da Pio IX) ci si accorge che nella visione del 1675 il Sacro Cuore aveva espressamente richiesto di essere dipinto "su tutti gli stendardi" del nuovo re di Francia: il giovanissimo Luigi XIV. L'entourage di Marie-Marguerite aveva effettivamente mandato una petizione a Versailles, ma probabilmente la richiesta non era mai arrivata all'attenzione del Re Sole. Evidentemente il Sacro Cuore se l'era presa male e, 150 anni più tardi, aveva inviato la tempesta rivoluzionaria sulla casa Borbone. Poi, siccome l'empietà dei francesi perdurava, aveva insistito mandando, un secolo dopo, i prussiani. Per salvarsi non restava che pentirsi e consacrare la Francia intera al Sacro Cuore di Gesù, magari costruendo un'enorme basilica in un luogo che sovrastasse la capitale, e magari sostituendo al tricolore lo stendardo del muscolo cardiaco. Questo tentativo antico e postmoderno di riscrivere tutta la storia delle rivoluzioni francesi come una serie di punizioni divine culmina con la battaglia di Loigny, dove i volontari di de Charette si battono come martiri, indossando scapolari del Sacro Cuore e massacrando effettivi prussiani al grido di "Sacro Cuore Salvaci!", "Viva la Francia", "Viva Pio Nono". Vincono? No.

RESTA! quella parte di me, quella più quella più vicina al nulla (scusate).

Tanto ormai la guerra è persa. Tre anni dopo viene posata la prima pietra della basilica del Sacro Cuore a Montmartre, in espiazione per i sacrilegi commessi durante la Comune. Sarà consacrata soltanto nel 1919. Il Cuore avvolto nelle spine e sormontato da una croce continua a essere uno degli stendardi della Francia reazionaria e cattolica, quella che oltre confine si conosce meno. Ciò che è da noi il crocefisso. Quando in Italia qualche teocon, con l'arroganza dei neofiti, propone di cucire il crocefisso sulla bandiera, in Francia qualcuno, come una corda che vibra per simpatia, butta lì una foto col Sacro Cuore sul tricolore blu-bianco-rosso. Segue dibattito, perché per molti il tricolore è ancora una creatura massonica e satanica, e l'idea di cucirci sopra la pompa cardiaca di Nostro Signore può risultare un sacrilegio. E così via. Nel frattempo il Sacro Cuore ha riscosso successi in tutto il mondo: dopo la Francia (consacrata al S. C. nel 1873 in seguito a un pellegrinaggio di una cinquantina di parlamentari a Paray-le-Monial), anche l'Ecuador si consacrò qualche mese dopo, per decisione del suo Presidente. Alla fine, su insistenza di un'altra religiosa, Leone XIII consacrò al Sacro Cuore tutti i cristiani in una volta sola. Nel Novecento l'iniziativa passò all'altro Cuore, quello Immacolato di Maria, che attraverso i pastorelli di Fatima chiese per sé la consacrazione della Russia, proprio nel momento più complicato, il 1917. Oggi cuori se ne vedono un po' dappertutto, sono parte del paesaggio. Insomma il brand ha funzionato, padre Claude aveva visto giusto. E tuttavia è sempre più un cuore di plastica, un simbolo astratto: non quel muscolo palpitante che Marguerite-Marie aveva visto atomizzare il suo. Il quadro di Batoni, a vederlo con occhi vergini, ha un che di surrealista: non era un'idea, non era un simbolo, era davvero un uomo di carne, con un cuore di carne in mano. Questa idea della carne, la afferriamo sempre meno. Non è solo l'agnosticismo moderno, è che stiamo diventando sempre meno palpabili, sempre più virtuali, simboli di noi stessi: e davanti a un cuore di carne non sappiamo veramente cosa dire. Ci aspettiamo che rappresenti qualcosa, un'idea, uno stile, un brand, qualsiasi cosa: è impossibile che sia tutto lì, due atri e due ventricoli, una pompa. Forse siamo troppo astratti per il cristianesimo.

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L'esercito delle 150 rose

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7 ottobre - Madonna del Rosario

[2011]. Quante Avemarie ci sono in un rosario? Ok, "questa la so": cinquanta. No, non proprio. Certo, nella collanina del rosario ci sono cinquanta chicchi piccoli, e a ogni chicco piccolo corrisponde un'Avemaria. Ma il rosario completo, quello da beghina seria, prevedeva tre giri di collana, per un totale di centocinquanta Ave, quindici Pater e quindici Gloria (ne parlo al passato perché con Wojtyla, sempre abbondante, siamo passati rispettivamente a 200 Ave, 20 Pater, 20 Gloria). E perché proprio 150? Siccome è l'esatto numero di Salmi della Bibbia, l'ipotesi è che il rosario sia nato nel Medioevo come rito sostitutivo, per devoti analfabeti che non avrebbero potuto leggere il salterio. E questo ci dice qualcosa sul cattolicesimo.

Prendiamo un musulmano, un protestante e un cattolico. Il primo ha un libro sacro, ma spesso non sa leggerlo: quindi lo impara a memoria. In arabo. Altrimenti non sarebbe un buon musulmano. Il secondo ha un libro sacro, ma non riesce a impararlo a memoria, in una lingua che oltretutto non parla più da secoli: quindi impara a leggere. Così può essere un buon protestante. E il cattolico? Anche lui ha un libro. Ma studiarlo a memoria è troppa fatica. Imparare a leggere? Non se ne parla. E quindi? E quindi invece di leggere guardi le figure - le chiese ne sono piene - e al posto di ogni salmo che non hai imparato a memoria, reciti la stessa preghierina. Breve. Semplice. Pratico.

Santa Vergine,
dacci l'Eurobond!
Resta da capire perché a ogni salmo si debba sostituire una preghiera proprio alla Madonna. Non è detto che sia stato sempre così. Nel medioevo la collana del rosario era conosciuta come “paternoster”, il che lascia pensare che a ogni chicco corrispondesse piuttosto la recitazione del Padre Nostro, preghiera fissata già nei Vangeli. L'Ave Maria, nella sua versione definitiva, è parecchio più tarda: così come la devozione alla Madonna, personaggio abbastanza in ombra nei primi secoli della Chiesa. Di recitazioni di Avemaria in batteria da 50 o 150 si comincia a parlare nel tredicesimo secolo, quando San Domenico, (terrore degli eretici, flagello degli albigesi) lo riceve in sogno dalle sante mani della Vergine, come arma finale contro la mala pianta delle eresie. Sin dall'inizio dunque il Rosario alla Madonna assume una valenza battagliera che oggi può sembrare curiosa: che c'entrano le vecchiette salmodianti con le guerre, ancorché sante? Ma all'indomani della storica vittoria di Lepanto – 7 ottobre 1571 – mentre genovesi e veneziani litigano su chi ne sia stato l'artefice, e se l'ammiraglio Gianandrea Doria ritirandosi dal centro dello schieramento abbia praticato una geniale strategia diversiva o più semplicemente cercato di tagliare la corda, Papa Pio V taglia la testa al toro decretando che a vincere era stata la Madonna del Rosario, con l'implicito ausilio dei milioni di vecchine recitanti avemaria a raffica.

In pratica il Papa aveva introdotto il televoto: un mantra che annulla la tua identità ma ti rende protagonista delle grandi svolte storiche. Altro che Gianandrea Doria! A sconfiggere i feroci turchi sei stata proprio tu, vecchietta analfabeta, li hai battuti tu gli infedeli saraceni, al ritmo impareggiabile di 6 avemarie al minuto (fanno 5 rosari all'ora, al netto di misteri e litanie) che nessun muezzin di Istanbul evidentemente poteva reggere. Da lì a poco la Madonna del Rosario si insedia a Pompei, diventando meta di pellegrinaggi di massa che continuano tuttora, specie in ottobre e in maggio.

Sempre a Pompei un allievo di Luca Giordano la ritrae coronata di dodici stelle, come la misteriosa donna che nell'Apocalisse compare "vestita di sole" in piedi sulla luna. Quelle dodici stelle in cerchio richiamano effettivamente un po' il rosario, ma in realtà nessuno sa esattamente cosa rappresentino: le dodici tribù di Israele? I dodici apostoli? Insomma, la donna misteriosa sarebbe la Chiesa che si espande nel mondo? Potrebbe darsi. La cosa curiosa è che quelle dodici stelle, dipinte a Pompei su uno sfondo blu, assomigliano terribilmente a...

...esatto. Vedi cosa succede ad andar per rosari. Siamo inciampati nelle famigerate radici cristiane dell'Unione europea!

Non è possibile, direte voi. Sarà solo una coincidenza. Tanto più che le dodici stelle della bandiera europea hanno una storia diversa, no? Già, a proposito, perché ci sono dodici stelle nella bandiera europea? Ecco, non è affatto chiaro.

Va detto che né il Consiglio d'Europa, che issò per primo il vessillo a dodici stelle, né l'Unione che lo copiò, erano composti da dodici membri quando lo adottarono come simbolo. All'inizio il Consiglio di membri ne aveva quindici, salvo che uno era il Saarland, una piccola regione della Germania che nell'immediato dopoguerra era amministrata dai francesi e di cui non era ancora chiaro il destino: raffigurarla con una stella su una bandiera internazionale poteva apparire come un passo ulteriore verso la definitiva separazione dalla Repubblica Federale Tedesca. Quindici no, insomma. Ma non è comunque chiaro perché non quattordici. Tredici men che meno (oltre alla sfortuna, è veramente difficile da disegnare, un circolo di tredici stelle), e quindi, insomma, dodici. Proprio come la Madonna, che coincidenza. Ma un cattolico non metterebbe mai "Madonna" e "coincidenza" nella stessa frase. Ed ecco l'autore del bozzetto della bandiera, Arsène Heitz, rivelare ai giornalisti cattolici di essere un devoto mariano, e di essersi ispirato a una medaglietta mariana che portava sul petto; ecco fiorire leggende intorno a Paul Lévy, politico belga di origine ebraiche, sopravvissuto a Dachau, convertitosi al cattolicesimo, che davanti a un'immagine della Vergine ha un'illuminazione: ma come stanno bene dodici stelle gialle in campo blu. E appena vede il bozzetto di Heitz fa di tutto affinché i colleghi lo approvino. Ma c'è di più: per la gioia di tutti i Teocon presenti e futuri il Consiglio decise ufficialmente di approvare il suo vessillo l'otto dicembre 1955, festa dell'Immacolata Concezione. Insomma, sarà anche una coincidenza, ma la donna misteriosa vestita di sole e in piedi sulla luna che sconfisse i turchi a Lepanto sembra aver posato la testolina anche a Bruxelles. A pensarci bene è un po' inquietante. 

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Siamo tutti Francesco? (No, ma ci piacerebbe)

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 4 ottobre - San Francesco d'Assisi (1182-1226)

Il culo era proprio un selling point.
[Anche questo è un pezzo molto antico 2011!, che ho sempre trovato insoddisfacente, ma per farlo meglio dovrei buttarmi sul serio sulle Fonti Francescane e non ho il tempo, probabilmente non l'avrò mai. Aggiungo solo che il ritratto di Cimabue non è esattamente il più antico, ce n'è credo un altro a Bologna].

Che dire di San Francesco, patrono degli italiani e (coincidenza inquietante) degli animali? Primo grandissimo poeta della letteratura italiana, con quel Cantico delle creature pieno di k che piacciono ai giovani? Ce ne sarebbe da scriverci un libro. Ma lo hanno già fatto in tanti. E anche a proposito dei libri su San Francesco si potrebbe scrivere un libro. Ma hanno già fatto anche questo. Quindi a questo punto che si fa?

In San Francesco al massimo ci si può specchiare. Nel senso che è uno di quei personaggi così popolari che ormai mille narrazioni diverse ne hanno levigato l'immagine fino a farla diventare una superficie specchiante. Per esempio io, se penso al mio San Francesco, lo vedo ormai un po' datato; ma non datato al dodicesimo secolo; piuttosto agli anni Settanta, che sono quelli in cui sono cresciuto leggendo anche la bio a fumetti di San Francesco sul Piccolo Missionario; guardando il film di Zeffirelli (la cosa più gay che si poteva proiettare in un cinema parrocchiale); cantando le canzoni di Forza Venite Gente, il più fortunato musical da oratorio della storia (brevissima) dei musical da oratorio.

Insomma che Francesco era il mio Francesco'70? Un fricchettone. Però di buona famiglia. Zeffirelli lo aveva capito benissimo, e la parte più interessante del suo film probabilmente è quella in cui la famiglia lo tratta un po' come si trattavano i figli da disintossicare, che fanno il gioco del silenzio e ti abbracciano, poi un mattino te li trovi sul tetto, “guarda mamma adesso volo”

E prima o poi – come tutti gli eroi medievali di Zeffirelli – ti mostra angelico il culo. Erano tempi così. La colonna sonora, tutti lo sanno, la canta Baglioni. Invece non tutti sanno che in originale era di Donovan, esatto, sì, Dolce Sentire è Baglioni che canta su Donovan, e finì nei canzonieri liturgici, avete presente, quelli posati sui banchi di chiesa, con Noi vogliam Dio e Symbolum '77 (Tu sei la mia vita / altro io non ho). Si cantava di regola durante la comunione. Non che nessuna autorità ecclesiastica l'abbia mai omologata, ma i preti facevano finta di niente, erano anni così. Pur di avere giovani in chiesa avrebbero aperto le porte anche ai Black Sabbath.

Questo insomma era il mio Francesco '70-80: l'unico Santo che ci fosse vicino in quel periodo in cui volevamo stare in parrocchia ma anche farci crescere la barba, azzuffarci nei fienili e magari farci le canne. E i soldi di papà ci pesavano un po' in tasca. Fossi nato giusto qualche anno prima probabilmente sarebbe stato un tizio più tosto, come quello che fa la morale a Totò e Ninetto in Uccellacci: un estremista intransigente che rifiuta il concetto di proprietà privata (perché in fondo il pauperismo medievale consisteva in questo), occupa chiese diroccate e insieme ad altri giovani disadattati fonda comuni maoiste sul filo dell'eresia. Ma ormai gli anni Ottanta incalzavano. I tempi erano maturi per un Francesco diverso, un Francesco rockstar. In realtà in questo blog io vorrei trattarli un po' tutti da popstar, i Santi; ma nel caso di Francesco l'approccio è perfino banale, voglio dire, la Cavani per il suo film francescano a colori scelse Mickey Rourke. Mickey Rourke! Che abbraccia un crocefisso di Cimabue buttato lì per caso e ci si struscia sensuale! Mickey Rourke nudo coi tatuaggi che si masturba nella neve! Ma vediamo il filmato.

Cioè, capite, Mickey Rourke. Agli altri santi, quando va bene, affibbiano Castellitto (quando va male Beppe Fiorello).

Però è finita anche quella fase – e pensando a Mickey, oserei dire che non è finita bene. A questo punto mi domando con che Francesco stiano crescendo i ragazzini di oggi. Esce ancora il Piccolo Missionario? Ok, il Francesco ambientalista funzionerà sempre, ma è plausibile, mi chiedo, un Francesco teocon? Perché no, dopotutto aveva la fissa per le crociate (a proposito, una delle molle per la conversione potrebbe essere stato un attacco di panico: partiva per la guerra, ma c'era già stato e non gli era piaciuta affatto, soprattutto l'esperienza della prigionia: mettersi addosso un sacco e fare il mendicante poteva essere un'exit strategy, ma il senso di colpa per essersi ritirato dalla lotta alla fine potrebbe avere prevalso e averlo portato in Terrasanta; è un'ipotesi come un'altra, ma Francesco ormai uno specchio, per cui l'ipotesi probabilmente somiglia meno a Francesco che a me).

Che altro potrebbe essere tornato di moda in questo momento? Di sicuro non il pauperismo, uno stile di vita che in fin dei conti consiste nell'elemosina: è un fenomeno tipico dei periodi di boom economico, ma quando il ciclo finisce la gente sbarra le case e comincia ad aver paura dei lebbrosi e degli zingari. Invece dovrebbero andare forte le stimmate: per molti secoli ne è stato l'unico portatore ufficiale. E in generale la sua sensibilità nazionalpopolare (ha inventato il Presepe vivente).

Sotto la superficie dello specchio, Francesco resta lì, aspetta le generazioni che verranno e lo vedranno in un modo diverso. Inutile ormai domandarsi chi fosse veramente - nel suo ritratto più antico e verosimile (quello di Cimabue nella Basilica inferiore di Assisi) è semplicemente un uomo che conosce il dolore e la povertà, e che da otto secoli, senza abbassare lo sguardo, sembra fissare proprio noi.

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Teresina, pallina di Gesù

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1 ottobre - Santa Teresa di Lisieux, AKA Teresa del Bambin Gesù AKA Teresa del Sacro volto, vergine e dottore della Chiesa (1873-1897)

[Questo è in assoluto il primo pezzo sui Santi comparso sul post, il primo ottobre del 2011]. Può anche darsi che a un certo punto, dopo cinquant'anni di roselline, bacini, bambini Gesù e altri bamboleggiamenti, anche gli uomini di Chiesa non ne potessero più, di Santa Teresa del Sacro Volto e del suo cattolicesimo così irrimediabilmente pucci che nella prima metà del Novecento aveva scatenato una vera e propria Thérèse-mania nella profonda provincia francese. Però a quel punto forse si è un po' esagerato sull'altro versante, volendo per forza vedere in lei uno spessore intellettuale che l'ha esposta alla furia di esegeti intransigenti come Simone Weil e fior di analisti lacaniani. Al punto che vien da dire: lasciatela stare! in fondo era solo una ragazzina.

Certo, nei suoi nove anni di reclusione volontaria in convento le era capitato anche di desiderare un futuro da Dottore della Chiesa (ma anche da Guerriero, da Apostolo, da Martire: tante strade tutte troncate dalla tbc). Sono quelle cose che si dicono da ragazzini, appunto. E invece ce l'ha fatta: nel 1997 Wojtyla l'ha nominata Dottore, proprio lei! terza donna a entrare nel club dopo Teresa d'Avila e Caterina di Siena. Per intenderci, Agostino da Ippona per ottenere lo stesso titolo ha scritto le Confessioni e la Città di Dio. Tommaso d'Aquino ha messo giù la Summa Theologica, dimostrando l'esistenza di Dio tipo in cinque modi diversi. Teresina, dal canto suo, non lascia visioni particolarmente mistiche né edifici teologici o meditazioni metafisiche. Cosa v'aspettavate, del resto, da una ragazza morta a 24 anni? Poco più di un best seller del primo Novecento, Histoire d'une âme, l'autobiografia sgarzolina di una ragazza sveglia che perde giovanissima la mamma, vede le sorelle maggiori entrare in convento, vorrebbe seguirle subito ma il prete severo le dice di no, allora fa un viaggio lungo lungo fino a Roma per chiedere al Papa se la fa entrare subito in convento e il Papa le dice: vediamo. Suo più grande desiderio, spiega al lettore, era diventare una pallina, un giochino nelle mani del Bambin Gesù. Tutti ci vedono subito il desiderio di umiltà, ma la pallina ha pur sempre qualcosa di sfuggente e capriccioso, che ti colpisce nei fotoritratti (fu una delle prime sante di cui circolassero immagini fotografiche, e questo può spiegare parte del suo successo).

Le consorelle fotografate da Thérèse.

È davvero ingiusto ridurla a Shirley Temple del cattolicesimo: Teresa studiò e scrisse molto, conobbe la sofferenza e il dubbio, che la tormentò negli anni della malattia. Però a noi piace ricordarla un po' così, più ragazzina che intellettuale, in posa da Giovanna d'Arco mentre prova il suo nuovo dramma con la filodrammatica del convento (i testi li scriveva lei); fanciullina vezzosa tutta contenta perché il suo ragazzo Gesù è il più figo del Creato mentre il fidanzato della sorella Giovanna, per quanto sia “una creatura molto perfetta”, è “pur sempre una creatura”. Quando le arriva la partecipazione delle nozze, lei risponde scrivendone una tutta per sé, traboccante come si vede di cristianissima umiltà:

“Iddio Onnipotente, Creatore del cielo e della terra, Sovrano Dominatore del mondo, e la gloriosissima Vergine Maria, Regina della Corte celeste, partecipano il Matrimonio del loro Augusto Figlio, Gesù, Re dei re e Signore dei signori, con la Signorina Teresa Martin, attualmente Dama e Principessa dei regni portati in dote dal suo Sposo Divino, cioè: l'Infanzia di Gesù e la sua Passione [...] Non avendo potuto invitarvi alla benedizione nuziale che è stata data loro sulla montagna del Carmelo, l'8 settembre 1890 (essendo stata ammessa soltanto la Corte Celeste), la S. V. è comunque pregata al Ritorno dalle Nozze che avrà luogo Domani, Giorno della Eternità, nel quale giorno Gesù, Figlio di Dio, verrà sulle nubi del Cielo nello splendore della sua Maestà, per giudicare i Vivi e i Morti. L'ora essendo ancora incerta, siete invitati a tenervi pronti, e a vegliare”.

Non è in castigo, è in posa da Giovanna d'Arco

Una cosa che mi fa impazzire dell'Ottocento è che tutto è già pronto per Freud, ma Freud non è ancora arrivato. Così nei diari e nelle lettere nessuno ha ancora alzato nessun schermo protettivo, e insomma tutti ti squadernano i loro complessi senza accorgersene, fanno una gran tenerezza. Una lettera del genere finisce dritta nell'autobiografia di un Dottore della Chiesa senza che nessuno abbia trovato niente da obiettare. Il libro è tutto pieno di perle così: per esempio, quando l'altra sorella prediletta che ancora vive nel mondo, Celine, riesce a farsi invitare a un ballo, Teresa non si vergogna a supplicare il Signore “d'impedirle di ballare”, con tanto di lacrimoni, finché “Gesù si degnò di esaudirmi”.

Tra le braccia del suo primo cavaliere, Celine si blocca, umiliando il povero ragazzo e costringendolo a una fuga ingloriosa. Quando lo viene a sapere, Teresina esulta senza vergogna e ringrazia Gesù di aver rovinato la serata alla sorella prediletta, che non a caso entrerà in convento poco dopo e l'aiuterà a scrivere quell'autobiografia che le porterà tanta gloria. Teresa è vicepatrona di Francia, patrona delle Missioni, dell'Australia e della Russia, tutti posti dove la pallina di Dio avrebbe rimbalzato volentieri. Se avesse avuto il tempo.

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Un ciceroniano a Betlemme

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Lionello Spada, passi la penna d'oca
 e il tappeto ikea, ma GLI OCCHIALI?
30 settembre - San Girolamo (347-420), padre della Chiesa.

[2012]. Oggi quando una ragazza muore di digiuno la gente dice: è colpa delle riviste di moda, e le riviste di moda dicono: è colpa della famiglia - ma nell'antichità? A chi si attribuiva la colpa, in mancanza di foto patinate? 

Ai padri della Chiesa. A Girolamo, perlomeno, che su certe fanciulle della Roma-bene pare che facesse questo effetto: si appassionavano al suo eloquio, si lasciavano catturare dal suo personaggio un po' hobo  - quel tipo di snob figlio di patrizi che passa qualche anno in una comunità in Siria e poi torna con una certa aria di saggezza e i pidocchi nella barba - ne adottavano i costumi vegetariani, e dopo un po' rischiavano di lasciarci le penne. La giovane Blesilla  ci restò secca davvero, dopo qualche mese di dieta, e Girolamo cadde in disgrazia: dovette abbandonare la città. Non aveva ancora quarant'anni ed era già stato segretario particolare di un Papa, il padre Georg di Damaso I; alla morte di Damaso alcuni lo davano già per papabile, ma appunto: i romani possono sopportare molte cose, ma un papa convinto che nell'attesa del Regno dei Cieli imminente non sia più concesso mangiar carne, eh, grazie, anche no. Girolamo se ne tornò nei deserti della sua giovinezza tormentata, la cristianità ci perse un papa vegetariano e ci guadagnò la miglior Bibbia che poteva permettersi. Perché Girolamo, riparato a Betlemme, non ebbe più niente di meglio che riprendere le sue traduzioni del testo sacro in latino, rimaneggiarle ed espanderle. Ci mise altri quindici anni, ma alla fine la latinità aveva un testo leggibile, organico, comprensibile, alla portata di tutti (Vulgata, lo chiamarono), e a suo modo elegante, come doveva essere stato elegante quel patrizio romano sotto gli stracci da asceta che ostentava nei circoli romani.

L'influenza di Girolamo sulla lingua che parliamo milleseicento anni dopo è incalcolabile. Nel senso che davvero è impossibile calcolare quante parole gli dobbiamo. Un esempio qualsiasi, su milioni che si potrebbero fare: l'aggettivo "geloso". Deriva da "zelotes", un termine che compare due volte nell'Esodo tradotto da Girolamo; in entrambi i casi è riferito a Dio, e in entrambi i casi Dio sta chiedendo al suo popolo di non avere altro Dio. Insomma la prima gelosia della storia è la gelosia divina, di un Dio che si considera Unico ma evidentemente non ne è troppo sicuro - sennò tanta gelosia non avrebbe un senso. Prima della vulgata i latini non avevano una parola per "gelosia": ne avevano il concetto? A leggere Catullo pare proprio di sì, ma così come non marcavano una netta distinzione tra l'azzurro e il verde, gli autori classici non danno la sensazione di distinguere nettamente invidia e gelosia. Forse i concetti sono dei grumi di senso che prendono forma intorno alle parole: finché non esiste una parola, non c'è nemmeno il concetto. Forse non avremmo il concetto di gelosia, se Girolamo non avesse deciso di tradurre un certo termine ebraico in un certo modo.

È da un po' che scrivo storie di santi sul Post. All'inizio non sapevo bene dove sarei andato a parare, ho proceduto per tentativi. A distanza di qualche tempo mi sembra che il metodo sviluppato consista nella simpatia: si prende un uomo o una donna vissuti secoli o millenni fa, in contesti radicalmente diversi, e si tenta di trovarli simpatici. A volte la cosa è fattibile, altre volte è così disperata che diventa divertente. Come metodo, è il meno serio e il più anti-storico che si possa adottare. Le persone nate secoli fa, in contesti alieni, sono alieni. Non parlano come noi, non pensano come noi, non mangiano le cose che mangiamo noi (Girolamo era vegetariano in un mondo senza pomodoro e senza pastasciutta). Trasformarli in figurine simpatiche (o antipatiche) non serve probabilmente a nulla. E in certi casi è veramente impossibile. Come si fa a provare simpatia per Girolamo, un fanatico ossessionato dall'inferno, che si fece mantenere per tutta la vita dalla nobildonna (Santa Paola) a cui aveva fatto perdere la figlia (Santa Blesilla)? C'è che contrariamente a tutte le aspettative, questo fanatico ossessionato è un grande intellettuale, un bravo scrittore, un incredibile traduttore. E la sua Bibbia in latino è un dono, prezioso anche per quelli che a milleseicento anni di distanza non si considerano cristiani.

Ai tempi del suo primo disperato pellegrinaggio nel deserto - durante il quale altri suoi amici erano morti di stenti - Girolamo aveva fatto un incubo, dopo una di quelle sere in cui prima di andare a letto si era messo a leggiucchiare un po' di Plauto, così, per prender sonno. Il sogno lo aveva catapultato alla corte di Cristo Re, che lo aveva interrogato: "sei forse tu cristiano?" "Mi sembra di sì", aveva risposto Girolamo, tremebondo. "Mi sembri piuttosto ciceroniano", aveva risposto il dio-magistrato, e ne aveva disposto l'immediata flagellazione. Girolamo, sanguinante, aveva promesso che non avrebbe toccato un autore pagano mai più, mai più: da lì in poi solo libri sacri. In pochi sogni come in questo vediamo un uomo tradirsi.

Perché il dio flagellatore aveva ragione: Girolamo era più di ogni altra cosa ciceroniano, e nessun digiuno, nessuna penitenza lo riuscirono a cambiare davvero. Sotto quella pelliccia puzzolente, il monaco traduttore era rimasto Eusebius Sophronius Hieronymus, una spia del classicismo greco-romano, infiltrata nel cuore più profondo del cristianesimo trionfante: la piccola cella di Betlemme dove stava prendendo forma la Vulgata. Nel giro di due secoli il testo avrebbe sbaragliato la concorrenza, diventando per un buon millennio l'unica Bibbia leggibile in Europa. Il libro di Dio, ma anche un po' di Cicerone. No, mettiamola così: il ciceronianesimo di Girolamo è un virus, rimasto in sonno per secoli prima di attivarsi. Finché il supporto rimase la pergamena, e i lettori poche migliaia in tutto il continente, quasi nessuno ci fece troppo caso. Ma quando arrivò Gutenberg, e la stampa a caratteri mobili, il virus dilagò. Era il virus del pensiero critico.

Come animale da compagnia, un leone vegetariano. Il problema coi leoni vegetariani è che mangiano chili di cespugli al giorno, e hanno continuamente una spina da farsi cavare, e tu intanto stai cercando di capire le unità di misura del Levitico

Ci sono stati nella Storia dell'uomo altri traduttori di libri sacri. Siccome i libri di questo tipo durano molto, e nel frattempo non cambia solo la lingua, ma anche la cultura, il modo di pensare... di solito tradurli è l'occasione per riammodernarli un po', magari per riscrivere intere parti da capo. Girolamo sapeva bene, per esempio, che quando i greci avevano tradotto la Bibbia ebraica, l'avevano un po' aggiornata, togliendo magari qualche riferimento messianico che loro non capivano e che invece a lui premeva molto. Girolamo crede, indiscutibilmente crede, che l'autore della Bibbia ebraica sia Dio, e che quindi sia necessario ripartire da là: ma l'ebraico è difficile, e Girolamo non si fida veramente di nessuna delle sue fonti: non degli ebrei suoi contemporanei, non dei Greci, non del saggio Origene che aveva fatto uno splendido lavoro accostando tutte le traduzioni conosciute, ma era anche lui in odore di eresia... Diffidando di tutti, Girolamo è costretto a metterli a confronto, e a inventare un metodo filologico che poi ci servirà a restaurare tutti i classici, Cicerone incluso.

Ma quel che forse è più importante, e che lo rende il Santo dei traduttori, è che Girolamo diffida anche di sé stesso. Altri, prima di lui, avevano risolto i dilemmi di interpretazione lasciandosi semplicemente ispirare dalla Divinità. Lui no, lui traduce a senso, anche quando il senso magari non gli piace. Non è un profeta, non cerca Dio nella sua testa: Dio sta fuori, Dio ha scritto un libro, Girolamo deve capire cosa c'è scritto senza lasciarsi tentare dal demone dell'interpretazione. Nelle sue mani, la Bibbia diventa latina, ma non si evolve. Non si adatta alla cultura della civiltà tardoantica. Rimane un ingombrante centone di miti ebraici totalmente sganciati dalla quotidianità dei cristiani: qualcosa di oggettivamente difficile da manovrare, che rimarrà per secoli incastonato nella liturgia come un meteorite piovuto dal cielo. Nella maggior parte del testo, il Dio di cui si parla non è quello dei cristiani: a volte è buono e misericordioso, altre volte è mandante di genocidi; il più delle volte non si capisce cosa pretenda e con chi ce l'abbia, tutti i popoli di cui si parla sono lontani nella Storia e nella geografia. Dopo un migliaio di pagine così (intervallate da qualche salmo commovente, qualche onesta riflessione sulla condizione umana, qualche poesiola d'amore, qualche proverbio abbastanza banale), arriva Gesù - ma persino le storie di Gesù non sono affatto raccontate in modo univoco e coerente. C'è un sacco di contraddizioni, e Girolamo le avrebbe potute risolvere: chi meglio di lui?

Un piccolo esempio, di cui abbiamo parlato altre volte: i fratelli di Gesù. Tutti quelli che nei secoli hanno difeso la verginità della Madonna, si sono scontrati contro quei versetti in cui si dice, chiaramente, che Gesù aveva dei fratelli. Non c'è niente da fare, il testo dice così: hai voglia a dire che magari gli evangelisti intendevano "cugini", "amici", "discepoli", no: c'è scritto fratelli, punto. Ma chi l'ha scritto? Girolamo era nella stanza dei bottoni (o meglio nella cella dei papiri), Girolamo avrebbe potuto cambiare. Certo, ci sarebbe stata qualche polemica, Agostino avrebbe storto il naso... ma nel giro di qualche secolo tutto sarebbe stato risolto, un testo meno contraddittorio avrebbe fatto comodo a tutti. Bastava convincersi che quel "fratelli" era un evidente sinonimo di cugini, le religioni sono piene di gente che si convince di cose così, ma Girolamo non era quel tipo di fanatico. Tradusse "fratelli", e "fratelli" rimase. Sotto quella pellaccia livida di tutte le frustate che si autoinfliggeva per aver esagerato a condire la lattughina, sotto tutto il suo cristianesimo furioso e militante, Girolamo Eusebio Sofronio era rimasto un filologo. Classico. Ciceroniano. Se oggi leggiamo la Bibbia, e ci troviamo i migliori argomenti per non dare retta ai preti, lo dobbiamo a lui, che poteva sostituirla con un bel catechismo edificante, ma non ne era in grado. Tra l'amore per la Chiesa e quello per la lettera del testo, Girolamo scelse il secondo, e lo sapeva: almeno nei sogni.

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Hai visto Giuseppe volare?

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La sua gabbia a Osimo. Neanche un trespolo.
La sua gabbia a Osimo. Neanche un trespolo.
San Giuseppe da Copertino (1603-1663), frate e mistico, patrono degli astronauti, amico degli studenti e protettore degli esaminandi

[2014]. Comporre le classi, in particolare le prime medie, è più un'arte che una scienza. Non ci sono parametri oggettivi, non c'è modo di sapere se quello che stai facendo funzionerà o no. Rimane una regola empirica, valida in questo e in tanti altri campi: se alla fine tutti si lamentano, è un buon segno. In effetti quando si lamentano in pochi è palese che è stata commessa un'ingiustizia: qualcuno è stato favorito rispetto a qualcun altro, ecco perché non si lamenta. Se si lamentano tutti almeno sei sicuro di non aver favorito nessuno, il che è già qualcosa.

Una delle difficoltà fondamentali, quando componi le classi, è far vuotare il sacco alle maestre elementari. Esse sanno molto degli elementi che tu devi mescolare in un pastone il più possibile uniforme. Sanno senz'altro distinguere i ragazzi talentuosi e i criminali in erba, e tuttavia neanche sotto tortura ti diranno "Omar Pascià è un ragazzo talentuoso!" o "Livio Barazzutti è un criminale in erba". Li hanno avuti in custodia per cinque e più anni, e quindi non glieli tocchi, sono i loro bambini. Sono tutti bravissimi. Sono tutti meravigliosi. Al limite, a volte, aggiungeranno espressioni sibilline come "...è da capire". Per intenderci: se la sua maestra dice che Livio "è da capire", Livio non è semplicemente da capire. È da guardare a vista per evitare che mangi gli altri bambini, o i loro astucci, o li faccia mangiare agli altri bambini (i loro astucci).

"E Giuseppe?"
"Eh, Giuseppe, Giuseppe... è meraviglioso".
"Naturale. Ma a parte questo? Morde?"
"No... no... tendenzialmente no".
"Tendenzialmente".
"È un ragazzo straordinario, con una sensibilità, una fantasia..."
"Quindi non lo mettiamo in prima X".
"Ma no, perché?"
"Perché sarebbe il ventesimo straordinario, sensibile e dotato di fantasia. Anzi facciamo così: da qui in poi, mi dici soltanto quando non sono straordinari e sensibili. Se non dici niente do per scontato che sono straordinari e sensibili. C'è il completamento automatico, vedi?"
"Però Giusi non è come gli altri, lui è un po' di più... come dire..."
"Più sensibile?"
"Insomma va capito".
"O mio dio. Un altro?"
"Ma no, non in quel senso..."
"Non è un maniaco oppositivo violento, mi vuoi dire".
"No, tendenzialmente..."
"Tendenzialmente".
"Anche la neuropsichiatra ci ha confermato che è tutto a posto, non ha niente che..."
"Ehi ehi ehi, ferma, è uno da neuropsichiatria?"
"No, no, assolutamente".
"Ma qualcuno ce l'ha portato".
"La famiglia forse, noi non c'entriamo, per noi era solo un ragazzo che..."
"Senti, ne ho altri settanta da piazzare entro sabato, e non è che io voglia sapere vita morte miracoli. Soltanto se graffia o no".
"Non graffia".
"Oh, grazie".
"Però... vola un po', ecco".
"Ricevuto, lo mettiamo al piano terra".

GIU'! PORTATELO GIU'!
Portatelo giù.

Giuseppe da Copertino volava. Per un santo è quasi una cosa banale. Un po' meno banale è il modo in cui confratelli e gerarchie reagivano al miracolo: con fastidio. Il francescano volante passò parecchio tempo in gabbia. Dopo aver tanto penato sui libri per riuscire a diventare sacerdote, alla fine gli toccò officiare nella sua cella, da solo. Questa cosa di levitare a ogni menzione della Madonna o di Gesù, o anche solo per aver fissato un'immaginetta santa, dopo un po' riusciva snervante. Ok, lo abbiamo capito, sei santo, ma adesso vieni giù, comportati come una persona normale. No, niente da fare. Giuseppe non ce la faceva. Guarda che chiamiamo l'Inquisizione!

Per fortuna quella spagnola era impegnata. Si scomodò l'Inquisizione napoletana, forse meno intransigente. Ma chi è questo tizio? Perché non riesce a star fermo? Siamo nel Seicento, è un po' prestino per diagnosticare un deficit dell'attenzione.

"Non riesce a farci niente. Anche mentre gli parli: un momento è qui che ti ascolta, l'attimo dopo è in orbita".
"Ha sempre fatto così?"
"Difficile dirlo, ha già cambiato molte classi... volevo dire, molti conventi".
"Ahi".
"Copertino (Lecce), Martina Franca, Roma, Assisi, Pietrarubbia, Fossombrone, Osimo..."
"Non riesce a tenerlo nessuno. Nel faldone cosa c'è scritto?"
"Bambino meraviglioso"
"Naturale. E poi?"

La modesta sede della Apple a Cupertino (il nome della località deriva da un fiume che un cartografo spagnolo dedicò a "San José de Cupertino".
La modesta sede della Apple a Cupertino (il nome della località deriva da un fiume che un cartografo spagnolo dedicò a "San José de Cupertino").


"Un po' distratto. I compagni di banco lo chiamavano "Boccaperta", forse perché a volte si scordava di chiuderla".
"Sintomatico. E com'è che è diventato sacerdote?"
"Eh, vossignoria lo saprà meglio di me: Dio ci chiama e noi..."
"E noi dobbiamo studiare e passare esami di latino e teologia. Spiegatemi come ha fatto a passarli questo bifolco che non riesce a star fermo sul banco neanche a legarlo".
"Pare che sia stato un miracolo".
"Ma guarda".
"Lui racconta di aver penato molto sui libri, invano".
"Sì ma non siamo nell'Ottocento romantico, tutte queste menate sul buon selvaggio che riesce a diventare un buon curato di campagna anche se non gli entra in testa il periodo ipotetico del terzo tipo non le capiamo. Com'è andata davvero questa cosa, spiegate per filo e per segno".
"Dunque... lui era già stato espulso dal convento di Martina Franca perché rompeva i piatti".
"I piatti?"
"Non riusciva a lavarli senza romperli. Pare che andasse in estasi anche mentre li sfregava".
"Ma potrebbe persino essere epilessia. E lo abbiamo fatto prete?"
"No, anzi, i confratelli lo rimandarono a casa coi cocci ancora impigliati al saio. Ma lui a casa non ci poteva stare".
"E perché no?"
"Orfano di padre debitore. C'è una sentenza del tribunale supremo di Napoli che in pratica lo obbliga a lavorare finché non avrà saldato il debito del padre. L'unico modo di scamparla..."
"Era farsi frate".
"Quelli della Grottella si impietosiscono e lo riprendono. Ma siccome in cucina rompe tutto, pensano bene di farlo studiare".
"Meglio che rompa i libri che le scodelle".
"Dopo tre anni passa a fare l'esame per il diaconato il vescovo in persona".
"Com'è andata?"
"Un miracolo! Il vescovo apre il messale a caso e chiede a Giuseppe di spiegare il vangelo. Esce Luca 1,42".
"La Visitazione".
"Era l'unica pagina che Giuseppe era riuscito a memorizzare".
"Magari sullo stesso messale".
"In che senso?"
"Che se era l'unica, magari aveva dovuto aprirla spesso, e i messali si aprono più facilmente nella pagina che è rimasta aperta più tempo".
"Beh, in effetti questo potrebbe spiegare l'esame per il diaconato, ma poi... è diventato presbitero".
"Ecco. Ci piacerebbe capire come ha fatto. Un altro miracolo?"
"Di nuovo in presenza del vescovo. Sono tutti preparatissimi tranne Giuseppe. Il vescovo interroga i primi tre. Sanno tutto. Va bene, dice, si vede che siete una classe che studia. E se ne va".
"Questo è il miracolo?"
"Così lo raccontano".
"Le scuole migliori del mondo, abbiamo".
"E infatti produciamo santi che il mondo ci invidia. Ma adesso che si fa?"
"Che si fa. Che si fa. È una parola".
"Vossignoria, non è un modo di dire, siete l'Inquisizione. Se lo volete bruciare, dite solo una parola e appena viene giù lo mettiamo sulla pira".
"Ma come si fa... cioè, a parte volare e sfangare gli esami, ha mai fatto qualcosa di male? Morde?"
"Lui? No, macché... è buono come il pane".
"Predica al volgo? Non vorrei che mettesse in giro qualche fesseria sediziosa o rivoluzionaria, non sarebbe nemmeno il primo".
"No, no, è tranquillo. Parla agli animali".
"Ah, meno male. Ci piacciono quelli che parlano con gli animali".
"In effetti danno molti meno problemi".
"È proprio una pratica da incoraggiare, l'animaloterapia. Stiamo riscrivendo anche la storia del vostro fondatore in tal senso".
"Francesco?"
"Gli facciamo parlare un sacco con gli animali, così dà l'esempio".
"Tornando a Giuseppe..."
"Massì, che ci volete fare, è solo un poveretto che non riesce a star fermo in un posto. Mettetelo in una cella col soffitto non troppo basso e abbiate cura che non dica o faccia troppe scempiaggini. Al limite quando muore lo facciamo santo".
"Lui i soffitti proprio non li sopporta. Ci picchia contro, si fa male".
"E che vi devo dire. Siamo nel Seicento, non ci sarà ritalin in circolazione per quasi tre secoli, che altro dovremmo fare? Lo incateniamo?"
"E se lo lasciassimo libero?"
"Libero di fare che?"
"Di volare dove vuole".
"Ma non dite fesserie, siamo l'Inquisizione noi. La gente non vola".
"Infatti è un miracolo".
"Proprio per questo deve restare una cosa rara. Un poveretto che vola è un miracolo. Un popolo di poveretti che volano è l'anarchia".
"Uff".
"Non è contento".
"In coscienza, mica tanto".
"Meglio così, se vi lamentate in tanti è segno che facciamo un buon lavoro".
"Questa cosa di scontentare più gente possibile, se devo essere sincero..."
"Deve"
"...io non l'ho capita tanto".
"Capirà, capirà, se resta a terra prima o poi capisce tutto".

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Cos'è una croce?

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14 settembre - Esaltazione della Croce

Velazquez
[2012]. C'è la mamma di Daniele Luttazzi che si fa il segno della croce con un dito. Il papà la vede e le dice: "sei fortunata che non l'hanno impalato, sennò..." Di questa battuta, che ovviamente deve essere completata da un gesto preciso della mano destra, Luttazzi andava (va?) particolarmente fiero. "Mi piace", diceva, "il fatto che da questo momento in poi non riuscirete più a guardare un crocefisso senza pensarci". Qualche anno fa ci fu un caso un po' penoso di cui forse avete sentito parlare: Luttazzi dovette riconoscere che molte battute di cui si arrogava la paternità non erano farina del suo sacco. Il Cristo impalato però continuò a rivendicarlo, ignorando forse che qualche anno prima Paolo Poli era stato molto più sintetico e brutale: "Se Gesù fosse stato impalato, i Santi dove le avrebbero le stimmate?" Che Luttazzi possa non aver conosciuto la battuta di Poli è quasi probabile; difficile che ignorasse quella (già parecchio diversa) di uno dei suoi numi tutelari, Lenny Bruce: "Se Gesù fosse stato ucciso venti anni fa, i bambini delle scuole cattoliche porterebbero intorno al collo delle piccole sedie elettriche". Dove non è chiaro se Bruce ce l'avesse più coi cattolici o più con la pena di morte, ma questo era forse il bello di Bruce. Il quale a sua volta magari pescava da Heinrich Böll: "È una fortuna per gli esteti che la croce fosse lo strumento di morte abituale in Palestina, altrimenti dovrebbero appendere in camera da letto una ghigliottina o una forca". Böll a sua volta non poteva veramente ignorare quel famoso frammento del Discorso veritiero dove il filosofo Celso (II secolo dopo Cristo) scrive:
E dovunque da loro troverai l’albero della vita, e la resurrezione della carne dall’albero: questo, credo, perché il loro maestro fu inchiodato alla croce ed era di professione carpentiere. Così, se per caso egli fosse stato buttato giù da un dirupo, o spinto in un burrone, o strangolato con un capestro, o fosse stato ciabattino oppure scalpellino o fabbro, al di sopra dei cieli vi sarebbe un... dirupo di vita? O un burrone di resurrezione? O una corda di immortalità, o una pietra beata, o un ferro d’amore, o un cuoio santo? Ma quale vecchia intenta a canticchiare una fiaba per ninnare un bambino non si vergognerebbe di sussurrare cose del genere?
Il salto bimillenario tra Celso e Böll è dovuto - oltre alla mia ignoranza - dal fatto che in mezzo c'è stato un periodo in cui in Europa davvero, scherzare sul crocefisso non era molto consigliabile - meno di quanto lo sia oggi satirizzare su Maometto e la sua barba. Lo stesso Celso non ha avuto molta fortuna: la sua opera ha circolato liberamente finché i cristiani non hanno preso il possesso delle biblioteche, poi è rapidamente scomparsa. I frammenti che ci sono rimasti li ha salvati il suo miglior nemico, Origene, che per confutarlo scrisse un intero trattato, in cui non poteva evitare di citarlo. Se solo la Chiesa avesse avuto più apologeti alla Origene, e meno censori e raschiatori di codici antichi... ma raschiare è un risparmio, confutare è faticoso, insomma, è andata così. 

Un politico italiano in un'apparizione pubblica, ai tempi della prima sentenza.

Che il crocefisso, l'effigie di un cadavere esposta alla venerazione, sia qualcosa di scandaloso non è dunque una scoperta di Luttazzi. Lo era ai tempi di Paolo di Tarso, (1 Corinzi 22-24) lo era tre anni fa quando una signora italo-finlandese rivolse alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo più o meno il seguente quesito: mio figlio in Italia è costretto a studiare in una stanza dove è appeso il similacro di un uomo torturato e sanguinante, è legale questa cosa? La Corte in un primo momento disse no, sollevando un polverone che si era già abbondantemente posato quando nel marzo 2011 cambiò idea (il che è sempre sbagliato, parlo per me: il crocefisso appeso non mi dà fastidio, me ne danno di più i giudici che cambiano idea). Nel frattempo in molte aule e luoghi pubblici il simulacro continua a essere esposto con i chiodi e le ferite e tutto quanto. A causa di un bizzarro fenomeno di assuefazione culturale, la maggior parte degli italiani (e dei cattolici in generale, forse) non ci fa caso. Ovvero: facciamo tutti caso a un crocefisso, quando c'è, e magari litighiamo sul suo significato politico-storico-religioso-identitario, ma non lo guardiamo mai veramente per quel che è. Il fatto che descriva, con orripilante realismo, l'aspetto di un uomo torturato a morte, non colpisce quasi mai la nostra attenzione. Bisogna che arrivi Daniele Luttazzi con una battuta (o Paolo Poli, o Lenny Bruce, o chi volete).

In ogni caso io ho una risposta per Luttazzi e per Poli: se in luogo di essere crocifisso - la punizione capitale che veniva inflitta più frequentemente agli schiavi ribelli nelle province romane - Gesù fosse stato impalato, ebbene, i cristiani di oggi farebbero lo stesso identico segno della croce: e i santi continuerebbero a mostrare stimmate alle mani, ai piedi, al costato. Come faccio a saperlo? La domanda è malposta. Chiediamoci piuttosto: come facciamo a sapere che Gesù è stato davvero crocefisso? Siamo sicuri che non sia stato piuttosto impalato, o strangolato, o precipitato in un burrone? In realtà no, non siamo sicuri di nulla. Persino se decidiamo di prendere per buoni i vangeli, ci rimangono ancora ampi margini di dubbio. Ma come, direte, nei vangeli la croce c'è (anzi, ce ne sono tre). Sì, ma qui sta appunto il problema: cosa significa "croce" nei vangeli? Oggi il primo significato a cui associo la parola non è nemmeno religioso, ma geometrico: la croce è l'incrocio di due segmenti, c'è quella latina col braccio basso più lungo, mentre quella greca è un equilatero, eccetera. La Croce Rossa, la Croce del Sud, non ci sono dubbi su cosa sia una croce. Oggi. Ma per i contemporanei di Gesù la parola latina "crux", la parola greca σταυρός, indicavano per prima cosa il più orribile e umiliante dei supplizi capitali. La forma dello strumento di tortura era secondaria: una "crux" poteva avere diverse forme. I pali non avevano necessariamente la forma che vediamo nei dipinti, e non erano necessariamente due: un uomo inchiodato o legato a un solo palo era ugualmente "crocefisso". E i vangeli, anche se parlano di croci, non le descrivono mai. Dunque perché noi ci immaginiamo la croce fatta proprio in un certo modo? Perché ci facciamo il segno della croce proprio in un certo modo? 

Ma li inchiodavano davvero? In Giudea sì: il reperto a destra (I sec. dC) è stato ritrovato in Israele (a sinistra una ricostruzione).



Chiunque abbia discusso un po' con un testimone di Geova conosce l'argomento: Gesù potrebbe benissimo essere stato fissato a un semplice palo di tortura. La croce dei cristiani sarebbe un simbolo pagano preesistente, un idolo riciclato, un mandala.Ipotesi affascinante, ma probabilmente errata. Nel primo secolo dopo Cristo la crocifissione era ormai una procedura standard, che i Romani praticavano più o meno nello stesso modo ovunque gli schiavi dessero problemi. In un primo momento (1) si fustigava il condannato (senza esagerare, altrimenti moriva lì: quando ci si mettevano i Romani ti tiravano fuori le ossa a nerbate); si procedeva quindi (2) a fissare le braccia a un travicello (patibulum), con corde e/o inchiodando i polsi; così conciato (3) lo si conduceva nel luogo dell'esecuzione, spesso su un'altura - e il percorso in salita, col patibulum già attaccato alla schiena, era un'ulteriore tortura - ivi giunti (4) si innalzava il condannato su un palo verticale conficcato al suolo, fino a un'altezza di tre metri, dove il patibulum veniva assicurato al palo medesimo. Infine (5) si legavano (o inchiodavano) i piedi, e si aspettava. Ancor più che una forma di tortura, la croce era un'umiliazione: l'esposizione del moribondo, che poteva durare giorni interi, e spesso proseguiva ben oltre il decesso - le spoglie di solito non venivano sepolte, finivano in discarica. Tuttora non siamo sicuri sul modo in cui i condannati spirassero (dissanguamento? asfissia?); sappiamo che potevano rimanere appesi per giorni e notti. Qualcuno riusciva anche a staccarsi e farla franca. In qualsiasi momento comunque l'autorità poteva decidere di tagliar corto e ordinare agli aguzzini di praticare il crucifragium, ovvero la rottura delle ossa delle gambe. A quel punto i condannati, non potendo più reggersi, morivano soffocati. Fu la sorte dei due ladroni crocifissi con Gesù, il quale invece era già morto quando il legionario incaricato  andò a controllare. I racconti evangelici (piuttosto realistici, eclissi a parte) sono sostanzialmente compatibili con questa procedura standard, il che ci porta a concludere che la forma più probabile della croce sia proprio quella che troviamo appesa nelle aule scolastiche. 

Sullo stendardo di Costantino c'era il Chi-Ro (X+P), non la croce. In epoca precristiana rappresentava ChRonos, il Tempo. Quando l'imperatore apostata, Giuliano, lo fa rimuovere da un monumento allo zio Costantino (360 ca.), il Chi-Ro è già un simbolo cristiano.


Però non possiamo esserne sicuri. Gesù potrebbe essere stato inchiodato (o legato) a una croce di Sant'Andrea, o a una forca, e persino a un palo solo: e anche se è abbastanza improbabile che sia stato impalato nella maniera suggerita da Luttazzi e Poli (un supplizio non attestato presso Romani né Ebrei) immaginiamo per assurdo che un orrore del genere fosse successo: i cristiani hanno avuto più di mille anni per cancellare le evidenze e rimodellare la scena nel modo più scenografico possibile. Alla croce - come la intendiamo oggi - dovevano arrivarci per forza. È la forma più fotogenica, la più adatta ad attirare l'attenzione di chi rimira la pala d'altare: è simmetrica, rigogliosa di simbologie (i quattro punti cardinali) e, come già notava Origene, dietro la maschera di dolore ci mostra un abbraccio. Se non esistesse il crocefisso, insomma, lo avrebbero inventato. E non è da escludere che lo abbiano fatto, magari in un secondo momento. Non siamo nemmeno sicuri che i cristiani riconoscessero nella croce un simbolo cristiano, almeno fino al quarto secolo. Fino a quel momento il segno più spesso associato alla religione di Gesù era l'ichthýs (un pesce stilizzato); anche sotto Costantino viene spesso utilizzato il monogramma Chi-Ro, che sovrappone le prime due lettere della parola Christos. A dire il vero un crocefisso databile nel primo o secondo secolo c'è, ma pone un problema: non è un esattamente un simbolo religioso, anzi: è uno sgorbio osceno. 

"Prega il tuo Dio, Alessameno!"




Siamo sempre a scuola (il Paedagogium, un collegio sul colle Palatino). Pensate, il primo crocefisso a scuola non l'ha messo un prof di religione, ma lo ha inciso con un temperino un ragazzo che voleva sfottere un compagno, Alessameno, dal nome greco e dalla religione esotica. L'intento parodico è evidente nella scelta di raffigurare Gesù con una testa d'asino. I cristiani venivano chiamati confidenzialmente "asini che portano misteri", e venivano spesso accusati di adorare un Dio mezzo uomo mezzo mulo. Il disegnino scolastico più studiato della storia dell'uomo descrive sommariamente una croce proprio come ce la immaginiamo e come la disegnerebbe un ragazzino con un punteruolo, con il dettaglio realistico del predellino per i piedi (che veniva tolto quando si voleva accelerare il decesso). La sgraziata didascalia ("Alessameno venera il suo DIO") suona ai nostri orecchi postmoderni decisamente bullistica. Però anche questa in fin dei conti è una ricostruzione a posteriori: vediamo un crocefisso e lo riconduciamo immediatamente a Gesù, ma a quei tempi si crocifiggeva un po' chiunque; il Dio di Alessameno potrebbe anche essere qualche altra entità asinocefala.  Per vedere un Cristo in croce in una raffigurazione ufficiale dobbiamo aspettare il quinto secolo, quando compare tra i ladroni in una formella della porta lignea della basilica di Santa Sabina a Roma. Ma anche in questo caso - esempio interessante di autocensura - le croci non si vedono: sono del tutto coperte dai corpi dei suppliziati. Come se  piuttosto che un simbolo venerabile fossero ancora un tabù, qualcosa che indubbiamente c'è ma che è meglio non mostrare.

 

 Ancora negli anni di impero di Costantino, il sovrano che promulgò la libertà di culto (313) e forse si convertì e forse no, che forse vide una croce in cielo e forse no, gli schiavi ribelli continuavano a essere appesi a delle croci. La cose andò avanti fino a Teodosio, l'imperatore che nel 380 proclamò il cristianesimo religione di Stato. Fino a quel momento la croce richiamava l'umiliazione, la tortura e la morte. Certo, Costantino aveva raccontato al suo amico e biografo cristiano, Eusebio di Cesarea, di aver visto la croce iscritta nel sole alla vigilia della battaglia decisiva di Ponte Milvio. Il racconto non doveva essere molto convincente, se ne dubitava perfino Eusebio, che avrebbe avuto invece tutto l'interesse a propagarlo con entusiasmo. C'è da dire che di visioni di Costantino ne circolavano tante: in un tempio di Apollo a Treviri avrebbe visto tre X sormontate di alloro, per un totale di 30 (XXX) anni di vittorie; molti suoi legionari adoravano il Dio Mitra e portavano sugli scudi una croce simile al Chi-Ro. Magari Costantino amava modellare la storiella sulla fede del suo interlocutore: ai cristiani raccontava di una croce, ai pagani di Apollo e dell'alloro, se avesse avuto legionari indù gli avrebbe raccontato di quella volta che strinse le mani alla Dea Kalì. Era un dittatore militare che si barcamenava come poteva in un momento di forti tensioni religiose. Non si battezzò che in punto di morte, e chissà quanti altri sacerdoti e santoni ricevette sul medesimo letto. La sua immagine di imperatore cristiano dipende semplicemente dal fatto che mezzo secolo dopo i cristiani avevano vinto, ed erano liberi di raccontare la storia come meglio credevano, coi simboli che credevano.Ancor più che a Costantino, la croce fu associata a sua madre, l'imperatrice Elena, che rispetto al figlio aveva l'indubbio vantaggio di essere riconosciuta come santa. È a lei che viene attribuito il ritrovamento della Vera Croce a Gerusalemme, durante la demolizione del tempio pagano che occupava il luogo del Santo sepolcro. All'inizio il 14 settembre era semplicemente l'anniversario dell'inaugurazione della basilica, nel 335; i primi resoconti in cui compare la croce risalgono a una decina d'anni dopo. La reliquia diviene ovviamente il fulcro dei pellegrinaggi a Gerusalemme, anche se molto presto perde i suoi attributi più preziosi, i chiodi. Già prima di Cristo i chiodi dei crocefissi erano considerati potenti talismani. Quelli della vera croce, trasportati a Costantinopoli, finiscono un po' dappertutto: fusi negli elmi imperiali, nei morsi dei cavalli, sulla Sacra Lancia, nella corona ferrea, nel duomo di Milano, ovunque. 

La croce schiodata rimane a Gerusalemme per tutto l'Alto Medioevo - con un breve intermezzo tra il 614 - quando lo Scià Cosroe II saccheggia la città - e il 628, quando Eraclio lo sconfigge e recupera la reliquia. I conquistatori arabi, sopraggiunti poco dopo, non sembrano porre problemi. Le cose cambiano con l'arrivo dei più intransigenti turchi, ma siamo già verso l'anno Mille. È in quel momento che della Vera Croce si perdono le tracce. Ne ricompare un grosso frammento, incastonato in una croce d'oro, nel 1099, durante l'assedio crociato di Gerusalemme (quello che terminerà con un massacro indiscriminato). Come al solito in questi casi l'unico certificato di autenticità è l'entusiasmo dei fedeli, e la loro vittoria finale. La reliquia era tuttavia destinata a venire nuovamente smarrita nel giro di un secolo, a causa dell'abitudine crociata di portarla in processione durante le battaglie, battaglie che sempre più spesso i crociati perdevano. La Croce scompare durante la catastrofe tattico-logistica di Hattin, l'assurda battaglia del 1187 magistralmente descritta da Ridley Scott in Kingdom of Heaven, un titolo che non vi dice niente, vero? In italiano si chiama Le crociate con Orlando Bloom, io perlomeno quando lo proietto a scuola lo chiamo sempre così e tutti lo apprezzano, forse perché sperano che da un momento all'altro saltabecchi fuori Jack Sparrow - e invece si ritrovano davanti Edward Norton nei panni del re lebbroso, una magistrale interpretazione, ma non divaghiamo. 

Ridley Scott, Kingdom of Heaven, AKA "Le crociate con Orlando Bloom", 2005.

Dopo Hattin i cristiani sono costretti a evacuare Gerusalemme: il prode sultano Saladino decide di non vendicare il massacro del 1099 (lode ad Allah il Misericordioso). Di pezzi di croce a Gerusalemme non se ne troveranno più, ma non importa. I pellegrini avevano avuto quasi un secolo a disposizione per andarla a vedere, e si sa cosa succede in questi casi, no? Ognuno fa quel che può per portarsene a casa un pezzetto. La proliferazione di Veri Frammenti della Vera Croce in tutte le chiese della cristianità occidentale diventa nel giro di qualche secolo un fenomeno imbarazzante per i cristiani stessi, al punto che qualcuno comincia a ipotizzare una virtù miracolosa del legno originale, che gli consentiva di riduplicarsi all'infinito. Una toppa del genere era peggio del buco, visto che prefigurava una vera e propria inflazione di Veri Frammenti: la riproducibilità ne avrebbe fatto crollare il prezzo. Al contrario ogni monastero o diocesi o pieve ci teneva a ribadire l'originalità e la rarità del suo Frammento, e la cosa andò talmente avanti che nel Cinquecento in Europa si sarebbe potuto riempire un'intera nave soltanto di Veri Frammenti. Così almeno scriveva Calvino nel suo Trattato delle reliquie. Solo nel 1870 uno studioso francese (Rohault de Fleury) si prese la briga di inventariare davvero tutti i Frammenti ritrovati e sommarne la cubatura, ottenendo una stima insospettabilmente bassa, 0,004 metri cubi: perfettamente compatibile con il volume di una croce che doveva aggirarsi intorno agli 0,178 metri cubi. Certo, in mezzo c'erano tre secoli di guerre religiose, dinastiche e napoleoniche: magari molta legna si era persa per strada. Il minuscolo pezzettino della mia chiesa di Sorbara è ancora lì, immagino. Mal che vada ne grattugeremo un'altra briciola dal pezzo che sta all'abbazia di Nonantola, sei chilometri più in là. Rigettato dai protestanti, il crocefisso si è legato sempre di più all'iconografia cattolica, che dalla Controriforma in poi, tra Sacri Cuori coronati di spine, e amputazioni di martiri, e miracolose emorragie, ha scoperto una certa tendenza al Grand Guignol spirituale. È curioso che dopo esser cresciuti in mezzo a immagini del genere, tanti di noi se la prendano coi film e i videogiochi che banalizzano la violenza. Il crocefisso funziona allo stesso modo: ti mette sotto il naso un uomo agonizzante o cadavere, finché non ci fai più caso, finché non diventa un semplice simbolo religioso o identitario o politico a cui associ qualsiasi significato tranne quello della carne e del sangue. Bisogna che arrivi qualcuno da lontano, ogni tanto, a ricordarcelo. Forse basterebbe davvero toglierlo dalle pareti, e aspettare che torni il bullo archetipico, il compagno di Alessameno, che ce lo incida sul banco per spremerci una fitta al cuore.
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Il sole si è fermato?

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1° settembre - San Giosuè, sterminatore di popoli immaginari (molti secoli prima di Cristo)

John Martin
[2012]. Ecco un personaggio biblico che ormai nessuno pretende di considerare come realmente esistito. Giosuè è il generalissimo ebraico che dopo la morte di Mosè porta il popolo di Dio attraverso il Giordano nella Terra di Canaan. Ivi, in luogo del latte e del miele promesso, gli Israeliti trovano altri popoli stanziali, con città fortificate e fiorenti. La cosa non scompone per nulla Giosuè, che nei primi anni si dedica con metodo e dedizione al genocidio, attaccando e sterminando una città alla volta, un popolo alla volta: prima Gerico, poi Ai, poi gli Amorrei... Lui del resto non fa che obbedire agli ordini: è Dio che vota quei popoli allo sterminio, e a differenza di Mosè e di altri patriarchi Giosuè non tentenna, non ha ripensamenti, né psicologia: è l'uomo giusto per fare il deserto e chiamarlo pace. Non si può nemmeno dire che ci provi gusto a passare a fil di spada, per esempio, ogni essere che trova nella città di Gerico, "dall'uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino il bue, l'ariete e l'asino" (si salva solo la prostituta che ha fatto la spia). Sta solo eseguendo gli ordini. Più un grigio burocrate che un valente condottiero: d'altro canto i suoi biografi mettono in chiaro più volte che Giosuè, senza l'intervento di Dio, non avrebbe vinto nemmeno una scaramuccia. È il Signore degli Eserciti a far cadere le mura di Gerico, previo prolungato squillo di trombe, ed è sempre Lui a bombardare gli Amorrei a Gabaon con una grandinata di pietre che ammazza più nemici "di quanti ne uccidessero gli Israeliti con la spada". In linea di massima, queste guerre le vince il Signore: alle truppe di Giosuè viene chiesto di fare un atto di presenza, ma soprattutto le pulizie dopo che la battaglia è vinta. Questo tuttavia può richiedere molte ore, in un'epoca arcaica in cui tutto si doveva comunque interrompere al calare del sole; al punto che almeno nel caso della battaglia di Gabaon, Giosuè chiede e ottiene una proroga straordinaria, uno stop del sole per almeno una giornata - il tempo necessario per inseguire gli Amorrei e terminare un'operazione di massacro che sennò chissà quanto si sarebbe trascinata nel tempo.
Allora, quando il Signore mise gli Amorrei nelle mani degli Israeliti, Giosuè disse al Signore sotto gli occhi di Israele:
«Sole, fèrmati in Gàbaon
e tu, luna, sulla valle di Aialon».
Si fermò il sole
e la luna rimase immobile
finché il popolo non si vendicò dei nemici.
Questo famigerato passo è probabilmente l'unico della Bibbia dove si parla un po' di astronomia. Mi chiedo a volte se sia esistito un antico popolo, con una mitologia complessa e stratificata, altrettanto disinteressato ai moti degli astri e dei pianeti, alle costellazioni eccetera. Giusto una piccola cosmogonia nelle prime pagine, e poi più nulla. Forse era un modo da differenziarsi dai dominatori babilonesi, loro sì fissati con le stelle. Questa sostanziale indifferenza nei confronti del cielo fu paradossalmente un vantaggio nel momento in cui la Bibbia entrò nel mainstream dell'Impero Romano, gareggiando coi testi scritti di altre religioni: i testi manichei, quelli gnostici, mitraici, eccetera. Rispetto agli altri libri sacri, la Bibbia si conciliava meglio con la scienza ufficiale aristotelica, per il semplice motivo che di astronomia non si parlava: Agostino mollò i manichei perché il cosmo che descrivevano era ridicolo rispetto a quello progettato da Aristotele. I cristiani non avevano questo problema: purché il sole girasse intorno alla terra, tutto il resto si poteva organizzare come dicevano i filosofi greci.

Ma insomma nella Bibbia di solito si parla d'altro. E anche nel passo del libro di Giosuè, in fondo, di che si parla? Di massimi sistemi? Non è che Giosuè dica semplicemente "fermati o sole" come noi diciamo tutti i giorni "il sole è sorto", o "è tramontato", senza per questo voler negare il sistema copernicano? Siamo sicuri che Giosuè, guerriero e uomo di fede, ci tenga a farci sapere che il sole gira intorno alla terra?

Nicolò Malinconico

Galileo, per esempio, era sicuro del contrario. Fu proprio questa sua sicumera a cacciarlo definitivamente nei guai. Di questi guai noi di solito conosciamo una versione molto semplificata, che abbiamo preso per buona a scuola. Riassumendo: Galileo riteneva che la terra girasse intorno al sole (sistema copernicano); i preti però pensavano che questo contraddicesse la Bibbia, almeno in quel versetto dove Giosuè ferma il sole, e così si arrivò al processo e all'abiura. Le cose sono un po' più complicate. In un gioco di specchi piuttosto barocco, scopriamo che i preti in questione, tutt'altro che oscurantisti inchiodati alla Verità rivelata in un versetto, giocarono la modernissima carta del relativismo: avrebbero voluto che Galileo considerasse la teoria copernicana una teoria, non la realtà dimostrata delle cose. Mentre a Galileo, il famoso Galileo-inventore-del-metodo-scientifico, tutto questo relativismo infastidiva: lui riteneva di aver dimostrato che la terra gira e il sole è fermo e punto. Quel che è peggio, è che la prova definitiva esibita da Galileo (il moto delle maree) era una solenne cantonata. Non solo, ma così come gli avversari clericali di Galileo erano tutt'altro che digiuni di scienza, lo stesso Galileo ci teneva a mostrarsi uomo di religione. Non aveva nessuna intenzione di contraddire la Bibbia: viceversa, scrivendo al suo amico benedettino Benedetto Castelli, nel 1613, prova a dimostrare che è proprio la Bibbia a dargli ragione; che il miracolo di Gabeon è incompatibile col sistema tolomaico-aristotelico. Secondo Tolomeo infatti il moto del sole da levante a ponente è solo apparente: a muoversi davvero è il cielo più lontano, il Primo Mobile; se fosse stato esperto di queste cose, Giosuè avrebbe dovuto chiedere di fermare il Primo Mobile, non il sole; anzi, se avesse fermato il sole all'interno del sistema tolomaico, il giorno si sarebbe accorciato un po'. Al contrario, nel sistema copernicano il sole, pur essendo al centro dell'universo, continua a girare su sé stesso (Galileo lo aveva notato osservando le macchie solari), e quindi può essere fermato da Dio, se Giosuè glielo chiede: in che modo poi fermando la rotazione del sole il giorno di luce si allunghi sulla terra, io non l'ho capito, ma Galileo mentre lo spiega sembra molto sicuro di sé, come sempre. Non dico che questo sia un buon motivo per processarlo, minacciarlo di torture, forzarlo all'abiura e mandarlo agli arresti domiciliari; però le cose sono più complicate di come a scuola, per forza di cose, le impariamo.
Galileo al Sant'Uffizio
Che Galileo non fosse un campione di diplomazia, è cosa che riconoscevano anche i suoi sostenitori. Chiamare "Simplicio" il difensore ottuso della dottrina aristotelica, nel Dialogo sopra i massimi sistemi, e mettergli in bocca nel finale le opinioni del Papa Urbano VIII, fu un capolavoro di imprudenza che ancora oggi lascia sbalorditi. "S'infuoca nelle sue openioni, ci ha estrema passione dentro, et poca fortezza et prudenza a saperla vincere", riferiva Guicciardini a Cosimo II Medici. Quando Galileo scriveva a Castelli che "se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de' suoi interpreti ed espositori", non si accorgeva che nella foga di scagionare la Bibbia finiva per scaricare la responsabilità proprio sugli "interpreti ed espositori", ovvero i preti. I quali preti poi, avevano ben più che un versetto biblico da difendere: in ballo c'era quell'edificio aristotelico che aveva retto per tutto il medioevo, e restava il sistema ufficiale insegnato nelle università.

C'è un'altra abiura di cui conserviamo una storia eccessivamente semplice: quelle famose scuse che Giovanni Paolo II avrebbe fatto a Galileo, per conto della Chiesa. Anche qui, la storia è ben più complessa. Basti pensare che la Commissione pontificia per esaminare la questione ci lavorò per 13 anni, un periodo di tempo più che sufficiente per trovare un sistema per salvare i cavoli copernicani e la capra ecclesiastica. E infatti le conclusioni del 1992 individuarono un concorso di colpa: da una parte gli inquisitori non erano stati nell'occasione molto "lungimiranti". Ma la sua parte di colpa ce l'aveva anche quel Galileo, che invece di attendere "prove irrefutabili" aveva preteso di imporre la sua verità. Alla fine sono i vecchi argomenti di Feyerabend. Questi però voleva far notare come il presunto metodo sperimentale di Galileo sia una ricostruzione a posteriori: anche Galileo aveva i suoi pregiudizi, le sue osservazioni e i suoi esperimenti non gli impedivano di intestardirsi su ipotesi errate, come quella sulle maree, o sulle comete. Questo discorso, nelle mani di Ratzinger, diventa una specie di jolly relativista che la Chiesa si riserva di giocare quando le è comodo: di sicuro non quando si parla di Trinità o di Immacolata Concezione o di vita che comincia dal concepimento. Siccome la scienza è fondata sul dubbio, della scienza si può dubitare; dei dogmi di fede no, quelli sono valori non negoziabili e punto. A uno scienziato, Galileo, che si era permesso di spiegare ai preti come si legge la Bibbia, fa da contrappunto un collegio ecclesiastico che pretende di spiegare a Galileo e ai suoi seguaci il metodo scientifico. Chi dei due ci fa la figura meno peggiore? Beh, Galileo aveva i suoi difetti. Ma ai suoi avversari mica faceva i processi; non li condannava, non li teneva agli arresti domiciliari. Il dettaglio, almeno per quanto mi riguarda, è decisivo.
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Il santo che perse la testa (a causa di una ragazzina!)

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29 agosto - San Giovanni decollato (1-30 ca.)

Infanzie devastate da materiale audiovisivo discutibile.
[2013]. Giovanni Battista è l'unico santo di cui festeggiamo sia il compleanno (24 giugno) che il martirio (oggi). Io per la verità da bambino pensavo che il Giovanni Decollato fosse un santo omonimo che avevano ammazzato buttandolo dalla finestra.

Invece Giovanni, come tutti sanno, fu decollato nel senso che gli staccarono la testa dal collo: un supplizio violento ma che esprimeva una considerazione per lo status della vittima; la crocifissione invece era una cosa da schiavi. A metterlo a morte fu Erode Antipa, tetrarca della Galilea satellite di Roma. Su questo le fonti concordano. Purtroppo le "fonti" sono i vangeli e l'ebreo romanizzato Giuseppe Flavio. Quest'ultimo dovrebbe essere un po' più affidabile, ma le sue Antiquitates Judaicae sono state interpolate per secoli, da copisti cristiani anche in buona fede, a cui sembrava impossibile che un cronista ebreo del primo secolo si facesse sfuggire notizie su Giovanni Battista e Gesù Cristo - così le aggiungevano loro, toh, ecco, adesso sì che è un testo completo. Quindi non è sicuro che Flavio abbia mai veramente scritto qualcosa su Gesù o Giovanni. Senz'altro non erano al centro del suo interesse: lui parla di politica, guerre, dinastie, e poi ogni tanto ci sono questi predicatori che fanno un po' casino, ma niente su cui valga la pena di imbastire un capitolo. Nelle Antiquitates si accenna a Giovanni come "un uomo buono che esortava i Giudei a una vita corretta, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, e così facendo si disponessero al battesimo". Questo sarebbe bastato al sospettoso re per incarcerarlo e, in un secondo momento, farlo ammazzare.
Un'eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché pareva che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa facessero. Erode, perciò, decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione, piuttosto che aspettare uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile da pentirsene.
Condannato a morte perché parlava bene. Non che non sia plausibile, da quelle parti, almeno in quel periodo, però è veramente troppo vago. Cosa avrebbe detto il battista di così pericoloso per l'ordine costituito? I vangeli di Marco e Matteo ci forniscono un'ipotesi ragionevole: Giovanni avrebbe protestato contro il matrimonio di Erode con Erodiade. "Non ti è lecito tenerla". E in effetti prima di stare con Erode, Erodiade era stata sposata col di lui fratello, che aveva litigato col padre Erode il grande e si era trasferito a Roma. Inoltre era figlia di un altro fratello di Erode, il maggiore, Aristobulo; anche lui caduto in disgrazia presso Erode il grande e fatto ammazzare. E se tutto questo vi pare un po' incestuoso, considerate che la mamma di Erodiade era una cugina di Aristobulo. L'endogamia della famiglia erodiana era tipica di altre dinastie regali del Medio Oriente, dai faraoni in poi, ma non degli ebrei. E in effetti gli Erodi erano ebrei sui generis: venivano da una regione di confine (l'Idumea), e malgrado Erode il grande avesse sposato una principessa di stirpe maccabea, molti sudditi li consideravano ebrei posticci, pedine dell'imperialismo romano. Criticare un tetrarca per i suoi costumi incestuosi poteva, insomma, avere un significato politico.

Miley Cirus scostati, questo è un lavoro per Brigid Mary Bazlen.
Infanzie che volevano vedere un film su Gesù al cinema parrocchiale, messe davanti alle anche di Brigid Mary Bazlen.
Un altro motivo per diffidare dei resoconti evangelici è che quando si voltano indietro a ricordare il martirio di Giovanni, la buttano in fiaba. Marco e Matteo sono due scrittori asciutti, ma entrambi all'improvviso sembrano voler abbassare le luci e atteggiarsi a Shahrzad, tutta un'atmosfera da corte orientale che non c'entra niente con quel che viene prima e dopo, miracoli e prediche per strade polverose. I dettagli sono universalmente noti: Erode che imprigiona Giovanni ma lo teme, Erodiade che invece lo vuole morto e per ottenerne la testa manda avanti la figlia Salomè, la danza dei sette veli, chiedimi tutto quel che vuoi, eccetera. Tutto sembra modellato sulla storia biblica di Ester, la moglie ebrea di Assuero scià di Persia. Durante un banchetto, accecato dalla sua bellezza, Assuero (Serse?) le promette che le regalerà qualunque cosa lei chieda, qualunque: anche metà del suo impero. Ester si accontenta di far ammazzare il nemico del suo popolo, l'antisemita ministro Aman, che aveva già preparato un pogrom per il mattino seguente. (Anche Erodoto attribuisce un aneddoto del genere a Serse il grande, ma la moglie nel suo caso si limita a chiedere la testa dell'amante).

Maud Allan, la prima Salomè in scena.
Maud Allan, la prima Salomè in scena
Ester però è un personaggio assolutamente positivo, l'eroica patriota che mentre si trucca e si tira da urlo per lobbizzare il marito non cessa di pregare per le sorti del suo popolo minacciato nella sua stessa esistenza. L'Erodiade dei vangeli viceversa è una malvagia principessa orientale, disposta a usare la figlia come un'esca per manovrare gli impulsi incestuosi del marito. La danza dei sette veli, che Oscar Wilde voleva far ballare a Sarah Bernhardt, ma poi il testo fu accusato di blasfemia e lei strappò il contratto, nei vangeli non c'è. Non è chiaro da che punto in poi qualcuno decise che Salomè dovesse togliersi sette veli. Potrebbe essere un'antica reminiscenza di Ishtar, la dea babilonese dell'amore e della fertilità che quando va sottoterra a trovare la dea avversaria Ereshkigal deve passare sette cancelli e togliersi sette vestiti - finché non resta nuda. Ma del mito è rimasto soltanto un motivo narrativo, riutilizzato in chiave romanzesca. Quello che Erode Antipa promette a Salomè, che Serse prometteva alle sue mogli, è il cosiddetto "don contraignant": una promessa in bianco che impegna un sovrano a fare qualunque cosa, compresa ovviamente qualcosa di cui il sovrano si pentirà immediatamente. Diventerà un motivo tipico della letteratura cavalleresca, soprattutto nel ciclo bretone, dove spesso i cavalieri sono costretti a fare cose molto stupide perché l'hanno promesso senza saperlo. Salomè, lo sappiamo tutti, chiede la testa di Giovanni su un piatto d'argento, e su tutto è questo dettaglio di decadente cinismo a farci sentire a miglia di distanza dal resto dei vangeli. Erode è sconvolto: anche in catene il profeta gli fa paura, da martire poi sarà sicuramente foriero di sciagure, ma ha promesso: e ogni promessa è un debito. Verrà sconfitto in guerra, morirà in esilio. Anche di Salomè si raccontano morti orribili, in cui di solito le capita di perdere la testa, ad esempio incastrandosi in un lago ghiacciato. Quanto a Giovanni, darà vita a una importante produzione di teschi reliquia: ce n'è una a Roma (ma la mascella è a Viterbo), una a Istanbul, a Monaco di Baviera, a Damasco, ce n'era anche una poco lontano, ad Antiochia, un'altra ad Amiens bottino della quarta crociata, una a Kent. Di ossa e frammenti d'ossa ce n'è praticamente dappertutto.

HO BACIATO LA TUA BOCCA, IOKANAAN. HO BACIATO LA TUA BOCCA.
HO BACIATO LA TUA
BOCCA, JOKAHAN.
Si parlava di Oscar Wilde. La sua Salomè, la fanciulla assetata di sangue di martire, è uno dei suoi personaggi più memorabili. Per darle forma scelse il francese, che amava ma non maneggiava alla perfezione. Quanto alla traduzione in inglese, si affidò all'amico del cuore, Lord Alfred Douglas, che ne aveva recensito con tanto entusiasmo l'originale nel 1891, ai tempi del loro primo incontro. C'era solo il piccolo problema che Douglas non era un bravo traduttore, la sua versione era disastrosa. Wilde non sapeva come dirglielo senza offenderlo, l'altro del resto decise di offendersi comunque, è colpa tua che in francese non ti spieghi bene ecc. ecc.. Beardsley, l'illustratore (a cui si deve gran parte del successo), racconta di un traffico incessante di fattorini e telegrammi, non c'erano ancora gli sms per litigare ma nella scena letteraria decadentista ne esisteva già la necessità. Alla fine la traduzione fu rifatta, forse da Wilde forse no; il nome di Douglas fu tolto dalla copertina, ma all'interno una dedica di Wilde lo accreditava come traduttore. Douglas apprezzò, in fondo è volgare il nome in copertina, la dedica invece fa fine. L'anno dopo il padre di Douglas riuscì a far sbattere Wilde in carcere: era ancora rinchiuso quando finalmente Salomè debuttava a Parigi, senza la Bernhardt. Wilde a Douglas voleva bene, questo non si discute: ma così bene da affidargli il suo libro, il suo nome? Chiedimi qualunque cosa, qualunque cosa, la testa del mio superego su un piatto d'argento, eccola: ma non di tradurmi un libro, per favore, no, quello no; è mio, c'è il mio nome sopra, potrebbe sopravvivermi, e tu scusami sei tanto carino ma tradurre è roba da professionisti. Io gli avrei risposto così. Ma io non ho mai amato Lord Douglas, evidentemente.
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Monica (non molla mai)

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27 agosto - Santa Monica (331-387), madre e maestra di Sant'Agostino

Quell'ubriacona di tua madre. Di tutti i colpi bassi, quello che l'eretico Giuliano tentò con Agostino rimane memorabile. In mezzo a una lunga polemica sul peccato e la grazia, buttò lì quel dettaglio: tua madre beveva. L'hai scritto tu, no? In effetti era stato lo stesso Agostino ad aver raccontato l'aneddoto nelle Confessioni, con quel suo tipico gusto per le inezie e i peccatucci infantili che però rivelano la personalità più dei grandi gesti, che lo mette nel solco di Freud con quel millennio e mezzo d'anticipo: da bambina, quando i genitori la mandavano in cantina a prendere un'anfora di quello buono, Monica suggeva il vino di nascosto. Aveva iniziato per curiosità, vincendo la repulsione, per poi prenderci gusto - finché la tata non l'aveva presa di petto: uno choc. Il vino è dolce, ma non compensa la vergogna di una schiava che ti dà dell'ubriacona. Da lì in poi aveva smesso, quasi smesso di bere, e soprattutto di provare curiosità per i vizi di questo mondo. Per compiere una rinuncia simile suo figlio, il grande dottore della Chiesa, avrebbe dovuto aspettare i trentatré anni. Rispondendo a Giuliano, Agostino abbozzò qualcosa del tipo 'lascia stare mia madre, non ti ha fatto niente di male', quasi una finta, e poi il gancio sinistro: "Io al contrario tengo in onore i tuoi genitori come Cristiani cattolici e mi rallegro con essi che siano morti prima di vederti eretico".

Il figlio lo fa Alessandro Preziosi (poi invecchia e diventa Franco Nero).
Il figlio lo fa Alessandro Preziosi (poi invecchia e diventa Franco Nero).
Monica non avrebbe potuto morire prima di vedere Agostino santo. E però fu proprio Monica a scegliere di non battezzarlo da bambino; decisione di cui il santo la rimprovera anche da morta. Dietro a questa scelta c'era probabilmente una consapevolezza: Agostino non era pronto. Il battesimo dei primi secoli non era una semplice formalità: poteva trasformare un peccatore in un santo. Ma cosa succedeva se poi il santo si rimetteva a peccare? C'erano varie opinioni, ma Monica non se la sentiva di rischiare. Conosceva troppo bene suo figlio. Io succhiai il cristianesimo con il latte materno, racconta Agostino (e anche qui il freudiano va in estasi). Ma forse succhiò anche quella curiosità per il proibito che Monica aveva sentito nelle vene sin da bambina. La famosa battuta di Agostino - Dio dammi la santità, ma non subito - in fondo è farina sua. Figlio mio, sarai dottore, sarai santo, ma tra un po': adesso studia, bevi, divertiti. Basta che non mi porti in casa quella lì.

L'estasi di Ostia. Conversando riuscirono ad avere un'idea di Dio, poi lei si mise a letto e decise che poteva morire.
L'estasi di Ostia. Conversando riuscirono ad avere un'idea di Dio, poi lei si mise a letto e decise che poteva morire.
Monica, si è soliti dire, seguì Agostino dappertutto, anche quando lui fuggiva in Italia e la piantava in asso al porto di Cartagine con una scusa. Monica è l'unico vero amore della sua vita... Ecco, forse no. Monica è solo quella che ha vinto, e ha ottenuto che delle altre si cancellasse il nome. Ma non è sempre stata quella presenza silenziosa e sollecita che ci immaginiamo in un angolo del suo studio, a rosicchiare paternostri, o in cucina a preparare gli snack per i compagni di meditazione. Quando il giovane Agostino era tornato da Cartagine con una laurea, non l'aveva voluto ricevere. È perché si era convertito al manicheismo, dicono. Sì, certo, un figlio manicheo era senz'altro una sciagura (erano i grillini del tempo, avevano un'opinione su tutto ed era quasi sempre una sciocchezza). Ma c'è anche quel piccolo dettaglio che nel frattempo Agostino si era preso una concubina e ci aveva fatto un figlio.

Mah, vecchia così probabilmente non lo fu mai. Morì a 56 anni.
Mah, vecchia così probabilmente
non lo fu mai. Morì a 56 anni.
Quella concubina, di cui nelle Confessioni non si fa il nome, fu la vera avversaria di Santa Monica, per quindici lunghissimi anni. C'era anche lei quella sera che al porto Agostino disse: beh, mamma, devo aspettare un amico, partiamo domattina, tu nel frattempo va pure a rilassarti e pregare in quella chiesa laggiù. E mentre Monica venerava il suo San Cipriano, Agostino salpava in fretta e furia con figlio e concubina. Ce l'aveva fatta. Aveva troncato il cordone, a 29 anni. In Italia lo aspettava senz'altro una brillante carriera accademica.  Si sarebbe sposato, chissà, magari proprio con la madre di suo figlio.

In effetti non è chiaro il perché non si sia mai voluto sposare, anche quando la madre era ormai lontana. Questioni di status, dicono. Ma anche Agostino non era di estrazione nobile; il fatto che abbia succhiato fede e latte dal seno materno suggerisce che la famiglia non si potesse permettere di metterlo a balia (oppure è solo una bella frase da scrivere nella propria autobiografia). Forse i due si erano uniti, ma con un rito manicheo che in seguito Agostino preferì disconoscere. Forse, anche al di là del Mediterraneo, la minaccia di essere diseredato lo bloccava. Certo, Monica sognava per lui un matrimonio in salita. Lo pretendeva. Lui e il padre, l'irruente Patrizio, gli avevano garantito un'educazione di primo livello, un po' al di sopra delle proprie possibilità. Anche da vedova Monica non aveva smesso di svenarsi e credere nelle potenzialità del figlio. E lui finiva per intrupparsi con quei cialtroni dei manichei, si faceva incastrare da una di quelli, e scappava. Era intollerabile. Tempo un anno, e Monica lo aveva raggiunto al di qua del mare. A quel punto fu la concubina a far bagagli e tornare in Africa.

Nel frattempo Agostino aveva definitivamente troncato coi manichei, e forse aveva già conosciuto il suo padre spirituale, Ambrogio. Era pronto per convertirsi, quasi pronto, doveva soltanto... peccare un altro po'. Monica intanto si dava da fare a trovargli un buon partito, una ragazzina fresca che "piaceva a tutti", scrive (a tutti chi? alla madre, evidentemente). Era tuttavia un po' troppo giovane, e così in attesa che arrivasse all'età giusta, Agostino si prese una concubina di transizione. E la madre non gli disse niente. Pecca pure un altro po', tanto poi ti battezzi. Il problema dunque non era il peccato in sé. Pecca pure, ma non con quella. Cosa aveva quella di intollerabile? La fede manichea? Forse.

Un po' troppo pallida, però l'espressione secondo me è quella giusta.
 Un po' troppo pallida, però l'espressione
secondo me è quella giusta.
O forse Agostino la amava davvero. Forse era lei, non Mani, non Cicerone, l'unica vera contendente seria al cuore del ragazzo. Monica poteva chiudere gli occhi su qualsiasi bravata ed eresia passeggera, ma lei andava eliminata. "Quando mi fu strappata dal fianco", scrive, "il mio cuore ne fu profondamente lacerato e sanguinò a lungo".

"Essa partì per l'Africa, facendoti voto di non conoscere nessun altro uomo  e lasciando con me il figlio naturale avuto da lei".

E Monica, la vincitrice. Del resto "il figlio di tante lacrime non può andar perso" le aveva detto un maestro a Cartagine, esasperato dalle sue confidenze: vincerai tu, piangendo. Monica che piange, Monica che prega, Monica che combina matrimoni, Monica che durante le meditazioni serve gli aperitivi, poi il figlio le dice resta con noi, parlaci della sapienza, e lei snocciola due o tre banalità che però, osserva il figlio, sono esattamente il nucleo dell'insegnamento ciceroniano... Qualcun altro avrebbe dedotto che Cicerone è un filosofo superficiale, per Agostino era naturalmente il contrario. Tanti anni passati a studiare, per scoprire che sua madre in cucina ne sapeva di più.

Monica che non si dà per vinta mai. Monica che al figlio perdona tutto, quasi tutto, ma al termine di ogni avventura e infatuazione si fa sempre trovare a casa. Monica la berbera, a cui è facile assegnare le fattezze di una di quelle signore olivastre e minute che escono velate al pomeriggio, col figlio maschio in braccio anche a quattro anni. Monica non è un dottore della Chiesa, ma il sospetto è che più che suo figlio o Ambrogio il cristianesimo lo abbia rifondato lei. Una religione di mamme sollecite e soffocanti, che non ti mollano mai, finché rimbalzi di qua e di là nel mediterraneo. La mamma italiana, ma anche tunisina, che differenza fa. Puoi studiare, far carriera, e tutte le storie che vuoi: ma loro sono lì che ti aspettano al varco, al primo cedimento, col biberon pronto che non hanno mai smesso di riempire, di scaldare, dove scappi? dove credi di scappare? non c'è Roma, non c'è Milano, ovunque è Tagaste.
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Il santo a quattro zampe

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26 agosto - San Guinefort, cane, vittima del suo padrone (XIII secolo).

guinefort cartolina[2013] "Oggi è san bastardino", diceva l'anno scorso Luca Laurenti in uno spot contro l'abbandono dei cani in autostrada. È un gioco di parole abbastanza insulso; eppure per una bizzarra coincidenza il cosiddetto "esodo estivo" coincide più o meno con la Canicola latina, grosso modo il periodo tra il 24 luglio e il 26 agosto in cui Sirio, la stella più brillante del Cane Maggiore (e del firmamento) sorge nel cielo boreale appena prima dell'alba. L'associazione tra Sirio e il migliore amico dell'uomo è antichissima, o perlomeno si è diffusa in popoli e culture assai distanti: pellerossa nordamericani, cinesi, inuit. Anche per i latini "Canicula", cucciolotto, era un sinonimo di Sirio. In seguito divenne sinonimo di afa, siccità, vacanze al mare, abbandono degli animali domestici. Il cane è probabilmente il primo animale che abbiamo addomesticato, più o meno trentamila anni fa, dopo che per qualche tempo branchi di canidi avevano cominciato a vivere nei pressi degli insediamenti umani, offrendo un servizio di allarme contro le incursioni dei grossi predatori in cambio di qualche buon osso da rosicchiare: e magari davano una mano anche a scacciare topi e bisce. Nella grotta di Chauvet, dipartimento dell'Ardèche, Francia meridionale, ci sono tracce di un cane e di un bambino che camminano assieme 28.000 anni fa. Così è abbastanza appropriato che l'unico animale a essere stato venerato (abusivamente) come santo sia un cane: San Guinefort, un levriero vissuto plausibilmente nel XIII secolo a Villars-les-Dombes. Siamo ancora nella valle del Rodano, a non troppi chilometri dalla grotta di Chauvet; e anche stavolta accanto al cane c'è un bambino.

GuinefortLa storia, anzi leggenda, c'è stata tramandata da Stefano di Borbone, l'inquisitore domenicano che decise di stroncarne il culto. Un giorno il castellano tornando a casa non trova il figliolino nella culla, ma tracce di sangue dappertutto e soprattutto addosso al cane. Folle d'ira, lo trafigge con la spada: il levriero non offre resistenza al suo padrone, ma proprio mentre esala l'ultimo guaito il castellano ode il pianto flebile del neonato: è sotto il letto, illeso! E in mano ha... che schifo... una vipera morsicata. Dunque è andata così: una vipera voleva mordere il bambino, il prode levriero Guinefort aveva ingaggiato contro di lui una lotta sanguinosa, vincendola: ma poi era arrivato il padrone e non aveva capito niente, povero Guinefort. Il castellano lo seppellì con tutti gli onori, sotto un cespuglio al quale vennero presto attribuite guarigioni miracolose. Ai tempi dare una sepoltura di un certo rilievo a un animale domestico era più discutibile di oggi, e forse questo contribuì alla diffusione della storia. Che ha tutta l'aria di una leggenda, perché diciamolo: quanto sangue puoi perdere mentre ti azzuffi con una vipera? Mica ti stacca la carne a morsi. Magari fu tutta un'invenzione del castellano che voleva coprire la sua infamia: chissà, magari lo aveva trafitto perché voleva andare in villeggiatura in Borgogna e non sapeva a chi affidarlo. San Guinefort guariva le patologie infantili: chi aveva un bambino malato deponeva un ex voto presso l'antico cespuglio. L'inquisitore non ci mise molto a fiutare l'idolatria: fece sradicare il cespuglio, riesumare e bruciare i resti del levriero, chiudere il sito al pubblico. A chi vi si recava venivano requisite tutte le proprietà.

Ma in zona non smisero mai di invocare San Guinefort. Per evitare guai con l'inquisizione lo rivestirono di panni umani, approfittando dell'omonimia con altri santi Guineforti, tra i quali uno originario della Scozia e sepolto a Pavia. La Chiesa romana ribadì la sua condanna negli anni trenta del secolo scorso, il che significa che nel 1930 qualcuno ancora invocava il santo cane. La cui storia magari vi ricorda qualcosa, ma cosa? Pensateci bene...

Esatto, Beverly Hills Chihuahua 2! Bravi!
bhc2No, scherzo, e spero che vi sia venuto in mente prima Lilly e il Vagabondo: la sequenza del ratto. È una scena piuttosto violenta ed esplicita - come del resto tutto il film, il primo capolavoro disneyano del dopoguerra. Già al tempo la Disney si stava ponendo il problema di offrire a un pubblico spaccato in due (bambini e genitori) un prodotto leggibile su due livelli, e Lady and the Tramp rappresenta uno dei risultati più estremi. Il Ratto nella versione finale è veramente orrendo, lontano anni luce dall'immagine paffuta dei topi di cartoon dei tempi. Il Vagabondo, senza tanti complimenti, lo uccide.

Non è il primo personaggio disneyano che uccide un animale - chiedete a Bambi - ma il Vagabondo è un personaggio positivo. Ed è un maledetto sciupafemmine. Tutti si ricordano la scena iconica dello spaghetto, ma ce n'è un'altra formidabile in cui si svegliano insieme il mattino dopo nella tana di lui, ed è chiaro a ogni spettatore adulto (e anche a qualche bambino) che hanno passato la notte a fare sesso. Due personaggi dinsneyani! Sesso! Senza prima sposarsi! Anzi al primo appuntamento! Sesso con un vagabondo sciupafemmine e assassino! E Walt Disney diede il via libera a tutto ciò. Erano tempi diversi.

Lady and the Tramp

Ieri non sapevo come finire il pezzo e così me ne sono andato a letto. Mi ha svegliato un cane con un uggiolìo così triste e umano che l'ho subito riconosciuto. Qualche cagnetta dev'essere andata in calore, proprio nella notte della levata eliaca di Sirio - la festa di San Guinefort Cane, e dell'altro santo mezzo cane, Cristoforo. Io non è che me ne intenda molto di canidi, ho dato un'occhiata su internet e so che vanno in estro due volte all'anno (il lupo una volta sola), ma non so se ci vadano tutti proprio adesso. Però le classiche cagnare estive me le ricordo. Curiosamente mi davano noia anche da bambino, quando in fondo svegliarsi nel bel mezzo della notte non doveva essere un così grosso problema. Ma una volta c'era un bastardino disperato che continuava a uggiolare tutta notte, l'avrei ammazzato. Decisi di ammazzarlo davvero.

Era un botolo tranquillo, e siccome pensava solo al sesso, era facile avvicinarlo. Io e mio cugino gli allacciammo una corda al collo e lo portammo verso il fiume. Stavamo andando a buttare un cane nel fiume. Lo stavamo facendo davvero. Non avevamo mai ucciso qualcosa di più grosso di una mosca, e adesso avremmo ucciso un cane bastardo. Camminavamo a ritroso su una strada che avevano percorso i nostri progenitori trentamila anni fa, non lo sapevamo. Non sapevamo neanche che cosa tremenda fosse essere sessualmente eccitati tutto il tempo, non avere nient'altro in testa. Non potevamo provare nessuna solidarietà, era una settimana che guaiva tutte le notti, lo volevamo morto. Lui per la verità era abbastanza contento del diversivo, ci seguiva docilmente. Passammo l'argine, arrivammo in riva al fiume, lo slegammo e afferrammo per le zampe, lo buttammo giù.

Lui da principio ci rimase un po' male - mi ricordo la sua smorfia di canina sorpresa - ma poi zampettò nell'acqua stagna e arrivò dall'altra parte, scrollandosi e godendosi l'improvviso refrigerio. A fine luglio il Secchia era un rigagnolo, non lo avevamo calcolato. Non ci avresti annegato una biscia. "Guardalo, sta meglio di noi", disse mio cugino. Io mi misi a ridere, o forse no.

Forse ci misi qualche anno a riderci su. Stavo per ammazzare un cane, lo stavo facendo davvero. San Guinefort, se puoi perdonami. Proteggi i miei piccolini dalle bisce e dai topi e dalle cazzate che combina papà. Nelle lunghe notti di desiderio, che nessuno mai mi metta un cappio al collo e mi porti più in là di dove voglio andare. Non dico che non lo meriterei. Dico solo: pietà.
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Bart, il più nudo di tutti

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24 agosto - San Bartolomeo Apostolo (primo secolo).

"Figlio del guerriero vittorioso, figlio di colui che ascolta, dall'anima semplice e pura".
[2012]. Avete mai conosciuto un Bart Simpson? Credo di sì. Ne conosciamo tutti uno. È un ragazzino a tratti svogliato, a tratti iperattivo, dal quale possiamo aspettarci azioni di efferata crudeltà e insospettabile eroismo. Se poi ha pure i capelli a spazzola e gira in skate, magari c'è capitato di chiamarlo Bartsimpson. C'è una possibilità non remota che un giorno, quando il cartone animato oggi più famoso al mondo sarà solo una curiosità per archivisti, bartsimpson resista come sostantivo - se ce l'hanno fatta mecenate e donchisciotte, perché no? Persino gianburrasca ha avuto una chance. Chi dice "casanova" quasi mai ha letto l'Histoire de ma vie; chi userà in una lingua del futuro "bartsimpson" per dire "bimbo iperattivo" non saprà nulla del vero Bart, della sua infanzia difficile, del tormentato rapporto col padre, il bullismo subito a scuola, le umiliazioni... bartsmpson non sarà più un discorso, ma solo una parola. E non ha nessuna importanza che questa parola conservi la traccia di secoli di discorsi.

"Bartolomeo" è un ibrido curioso. "Bar" è una particella aramaica che si usa per costruire il patronimico (vuole dire "figlio di"), mentre "Tolomeo", è un nome greco con una lunga storia che riassume tutta l'era ellenistica: è il nome del generale macedone che segue Alessandro il Grande in capo al mondo, per ritrovarsi alla fine in Egitto e fondare l'ultima dinastia dei faraoni. In realtà esiste anche il nome "Talmai" in ebraico e in aramaico, però non è da escludere la possibilità che il nome sia diventato popolare nell'area medio-orientale con la diffusione dell'ellenismo, quella forma antica di globalizzazione a cui gli ebrei avevano opposto il loro senso di appartenenza a una tradizione e a un unico Dio. Ai tempi di Gesù comunque ormai la lingua dei colonizzatori, il greco, era penetrata fino ai patronimici, fino a saldarsi con le particelle aramaiche. Quando compaiono nomi come "Bartolomeo", tu capisci che il melting pot ha funzionato. Quindi Bar-T è il "figlio di un guerriero" (quanti secoli di significato in quella misera T). Ed è "Simpson", ovvero figlio dei semplici - ma questa è l'etimologia più superficiale. In realtà "Simp-" è una corruzione dell'anglo "Simme", che può essere sia la versione nordica dell'ebraico "Simon" (colui che ascolta), sia una corruzione di Sigmund. In questo caso "Sig" starebbe per vittoria, "mund" per uomo, e Simpson significherebbe: figlio dell'uomo vittorioso. In una lingua impossibile, che mantenesse il ricordo di tutti significati transitati da ogni sillaba, "Bart" e "Simpson" sarebbero quasi sinonimi: figlio del guerriero, figlio del vincitore. Come due fratelli che ignorano di esserlo, pur vivendo a fianco da una vita. Solo dimenticandosi della loro origine possono funzionare assieme. E in effetti Matt Groening quel giorno non aveva la minima idea degli ingredienti che stava mescolando: scelse Bart forse perché anagramma di "brat", e "Simpson" era il cognome perfetto per una famiglia di sempliciotti. Inventare una parola significa strapparla a viva forza da un contesto, e darle un senso nuovo.

Insisto sul nome perché del San Bartolomeo evangelico non conosciamo molto di più. La sua popolarità passa dalla tradizione figurativa, grazie alla tradizione che lo vuole martirizzato in un modo che più spettacolare non si può: scuoiato vivo. Dove come e quando non si sa, o meglio, lo sanno tutti, ma nessuno va d'accordo: chi dice Armenia, chi India, ma il supplizio era tipico dei persiani, o dei Medi, insomma boh. Quel che importa agli artisti è che gli abbiano levato la pelle, perché un martire nudo, ancorché mutilato o abbrustolito, sono capaci di buttarlo giù tutti, ma uno scorticato, con la muscolatura in evidenza... come scriveva Alberto Savinio è "per gli scultori ciò che il Trillo del diavolo è per i violinisti": il pezzo di bravura, il puro virtuosismo. Anche se oggi il primo Bartolomeo che viene in mente a tutti è quello del Giudizio di Michelangelo, che mostra la roncola al Gesù trionfante con aria un po' recriminatoria, e non mostra tendini all'aria né budella a penzoloni, perché nel giorno del giudizio ci si presenta con tutte le membra a posto; d'altronde è noto che ai martiri gli organi mutilati rispuntano immediatamente, ad Agata i seni, a Giovanni Damasceno la mano e così via. Così il Bart in questione ha due pelli: quella scorticata nel martirio la tiene in mano, e tutti sappiamo che dovrebbe raffigurare Michelangelo scorticato dai suoi critici (oppure Pietro Aretino, oppure in realtà non ne sappiamo niente, salvo che prima e dopo il martirio Bart sembra aver cambiato di fisionomia: il che mi spinge ad avanzare una timida candidatura per il patrono dei sottoposti a interventi estetici).

Made by Marco d'A, bitches
Se però di Storia dell'arte vi intendete almeno un po' sapete che il vero San Bartolomeo per eccellenza, il pezzo di bravura, il tour de force, è quello scolpito da Marco d'Agrate, che sta all'interno del Duomo di Milano. Un bel martire tutto muscoli, che si passa la pellaccia scuoiata sulle pudenda e dietro il collo a mo' di asciugamano, un pugile che contempla la vittoria. Marco d'Agrate è vissuto nel Cinquecento, e non ha fatto tantissimo altro. Però ai suoi tempi la statua dello scorticato era considerata uno dei massimi capolavori della scultura mondiale. Lui stesso ne era consapevole, al punto da mettere nel piedistallo una firma che è un capolavoro di ambrosiana spacconeria (in un secolo, poi, in cui tanti Maestri assoluti non si firmavano nemmeno): NON PRAXITELES, SED MARC(VS) FINXIT AGRAT(ENSIS). Non so se ci siamo spiegati. No, non è Prassitele (lo scultore classico più celebre, il non plus ultra, oggi diremmo Michelangelo), non lo ha scolpito lui... ma Marco d'Agrate. Ed era così. Lo scorticato era la frontiera ultima della rappresentazione, in un periodo in cui sezionare i corpi continuava a essere una pratica a forte rischio di scomunica. Siamo tra Rinascimento e Maniera, e c'è ancora nell'aria l'idea che l'arte debba soprattutto raffigurare. Tutto. Il più fedelmente possibile. Nel Giudizio Michelangelo aveva denudato il cielo e la terra: cosa restava da fare? Levare la pelle. Marco doveva avere la sensazione di aver toccato il vertice  ultimo della sua arte: da una parte c'era Prassitele, dall'altra lui.

Oggi la gente che entra in Duomo gli passa davanti senza fermarsi. Non è cambiato semplicemente il gusto, ma la stessa idea di arte. La tendenza era già chiara quando passò Stendhal: al cicerone che gli faceva notare il capolavoro, lo scrittore arricciò il naso: ma che ci fa questa volgarità? Non starebbe meglio in un anfiteatro di anatomia? Sono passati tre secoli, e scienza e arte hanno preso due strade diverse. Raffigurare scrupolosamente il corpo umano non è più l'obiettivo degli artisti, i modellini anatomici vengono prodotti in serie, San Bartolomeo rimane lì per inerzia, ma i turisti preferiscono la madonnina placcata oro.
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Rosa l'autoreclusa

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23 agosto - Santa Rosa da Lima, vergine (1586-1617)

Il volto di Santa Rosa, ricostruito dal grafico Cícero Moraes
a partire dal cranio, custodito in un convento di Lima., via Wiki.

[2016]. Isabel da Lima, decima di tredici figli, ribattezzata "Rosa" per la tenerezza dell'incarnato che in America Latina più che altrove era indizio di origini europee e quindi di bellezza e nobiltà (anche se secondo un'agiografia fu proprio una serva india a chiamarla così) (secondo un'altra fu il vescovo che la cresimò) (chi le ha contate dice che in giro ci sono 400 agiografie diverse di Santa Rosa patrona di Lima) (e comunque il cambio di nome fu ratificato da una visione mariana) Isabel da Lima, dicevo, a vent'anni si fece costruire una casetta nel cortile di famiglia e non volle più uscirne.

Da bambina aveva letto di Caterina da Siena, che volendo restare sola con Dio, invece di entrare in un convento era rimasta a casa coi suoi: Isabel scelse di seguirne le orme. Caterina da Siena morì di digiuni e anche Rosa non arrivò a compiere 32 anni. È patrona di Filippine, India, Perù, Spilamberto (MO), giardinieri e fioristi: ma voi vi preoccupate del burqini.

(No a voi del burqini non frega più niente, forse non sapete neanche di cosa si tratta) (è in sostanza una muta per nuotare, come quelle che indossano molti surfisti nei mari più freddi, ma siccome è pensata per un pubblico musulmano che vuole andare in spiaggia senza spogliarsi, ha preso questo nome che francamente ripensandoci è agghiacciante: burqa+bikini=burqini) (nel 2016, quando mi misi a scrivere questo pezzo, da più di due settimane non si parlava d'altro, che nostalgia) (vi ricordate di quando negli aeroporti avevamo paura dei bagagli e non della gente).

No, avete ragione. Il burqini è senz'altro un argomento più fresco. Cosa importa se da una parete vi pende ancora un calendario affollato di nomi di vergini anoressiche che spesso sfidarono l'autorità famigliare per autorecludersi a vita: ieri era ieri, oggi è oggi, e dalla Storia non s'impara mai niente. In questi giorni leggo molto discorsi che cominciano per "noi" o per "loro". Noi siamo quelli liberi di stare in ispiaggia come vogliamo. Noi il velo ce lo siamo tolto, salvo le nostre suore che però lo sono per libera scelta, mentre chi si infila un burqini no. Tra parentesi: voi l'avete mai vista davvero una bagnante in burqini? Io due o tre in Francia o in Turchia. In nessuno dei casi era accompagnata da un maschio barbuto e arcigno che la sorvegliava. Ok, tre episodi non fanno statistica. Ma insomma ho il sospetto che molti siano convinti che il meccanismo della prevaricazione funzioni sempre nel modo più banale: se qualcuno le costringe a portare un velo, noi le obblighiamo a togliersi il velo e saranno libere. Però se fossimo entrati con la forza nella casa di Isabel, se avessimo scardinato la porta della sua cella, lei non sarebbe uscita. Nessuno l'aveva rinchiusa con la forza: nessuno riusciva a farla uscire. Per Isabel la libertà era dentro la cella, la gioia era recitare maratone di rosari e strimpellare laude alla chitarra: evadere sarebbe stata una costrizione. Nel Giappone di oggi il fenomeno degli adolescenti che rifiutano di uscire di casa si chiama hikikomori.

chitarra
Ah vabbe' ma si era portata la chitarra. Anch'io probabilmente sono rimasto tappato in casa qualche anno con la chitarra (poi per fortuna hanno inventato l'internet).
D'accordo, Isabel-Rosa era una vittima dei tempi, del patriarcato, ecc.. Ma come la maggior parte delle vittime, aveva interiorizzato la propria condizione. Era stata condannata dalla società prima ancora che nascesse, ma il carcere se l'era fatto costruire su misura.

A me piace che nelle spiagge ci siano persone molto diverse da me. La spiaggia è il luogo in cui ho imparato da bambino che esistono gli stranieri, esistono i mutilati e infinite altre forme di diversità. Ultimamente vedo molti tatuaggi, una forma di creatività per la quale ho una repulsione fortissima, pre-razionale, chi può mi perdoni. Se avessi passato gli ultimi vent'anni in coma, e se al risveglio mi avessero raccontato che il Pessimo Gusto è salito al potere e costringe la gente a tatuarsi contro la propria volontà, ci crederei: voglio dire, per crederci mi basta andare fare due passi in ispiaggia. Se poi qualcuno mi dicesse: no, guarda che queste frasette motivazionali o queste cornicette da diario delle medie me li sono iniettati sottopelle a mie spese, è stata una mia libera decisione che ho deciso di difendere finché campo, io scrollerei la testa: è quel che ti costringono a credere, dai. Sei solo una vittima, anche se non hai il coraggio di ammetterlo. Se una persona mi dice che si mette il velo per libera scelta, sono libero di non crederci. Ma se invece di manifestare il mio scetticismo le strappo il velo, o le ordino di non presentarsi più in ispiaggia o a scuola, cosa ottengo? Isabel, ti ordino di uscire dal convento.

Io credo che molte donne che si bagnano in burqini non sappiano cosa si perdono. Cosa posso fare per convincerle a cambiare idea e costumi? Se le vieto di bagnarsi, in un colpo solo avrò ammesso che il loro abbigliamento mi fa paura, e che la *nostra* spiaggia non le vuole. Se ne staranno in casa, magari si radicalizzeranno, non un gran risultato. Se invece la tollero, le do la possibilità di passare un po' di tempo con tanta altra gente che ha costumi diversi dai suoi. Questo non le cambierà necessariamente idea, però io non sottovaluterei l'effetto che ti può fare una spiaggia libera e aperta a tutti, che ti accoglie e non ti giudica. Certo, sappiamo che in altri Paesi (quelli sulla frontiera della radicalizzazione) l'introduzione del burqini ottiene l'effetto opposto. Tre anni fa ce n'era un paio, poi quindici, e ora chi non si copre da capo a piedi preferisce stare a casa. È il rischio che corri se credi nella tolleranza.

Universitarie a Kabul negli anni Ottanta - quando in città c'erano, uhm, i filosovietici e Reagan, ehm, sosteneva i mujahidin di Bin Laden.
Universitarie a Kabul negli anni Ottanta - quando in città governavano, uhm, i filosovietici, e Reagan, ehm, sosteneva i mujahidin di Bin Laden.
Avete mai discusso con una donna che porta il velo – esclusa vostra nonna? (La mia lo metteva sempre per uscire di casa, salvo che lo chiamava "foulard") (non lo metteva per una questione religiosa, o per tranquillizzare suo marito che, per quel che mi ricordo, era l'uomo più tranquillo e buono del mondo) (lo metteva perché era una signora sposata e quello era il costume. Era la Bassa, era il 1980) (quando pubblicate le foto delle studentesse di Kabul a capo scoperto negli stessi anni, che sono in effetti molto interessanti, ricordate che l'Afganistan è molto grande e che la condizione delle donne sposate nelle regioni montuose era probabilmente molto diversa). A causa della mia professione io ho un approccio piuttosto particolare all'Islam femminile, insomma, ne discuto soltanto con studentesse minorenni, un campione abbastanza bizzarro. Intorno al velo c'è un equivoco strano: siccome a noi occidentali evoca il monacato, diamo per scontato che le ragazze si velino per una questione di umiltà (in certi casi è davvero così).

Poi in seconda le vediamo contemporaneamente imparare a sistemarsi un nijab elegante e fare i primi esperimenti col rossetto, e rimaniamo interdetti (giuro, io ho visto preadolescenti in pantaloni di pelle e nijab). Non ci viene in mente che l'indumento, prima ancora dell'Islam e del patriarcato, rappresenti il passaggio all'età adulta – e che quindi una tredicenne lo possa sbandierare con orgoglio. Tengo alle mie radici! Credo nel mio Dio! Ma soprattutto, raga, ho avuto il ciclo. Io a tredici anni ho fatto cose più cretine. Per farmi notare? Anche. Per sentirmi diverso? Mi sono sempre sentito diverso. Mi sembrava che qualcosa o qualcuno mi spingesse fuori dal mucchio, mi obbligasse a trovare una mia identità. Leggevo libri, bevevo cose, giravo di notte, scrivevo cose orrende sui muri, pregavo e adoravo il mio Dio. Se mi ritrovassi davanti, mi prenderei certo a schiaffoni. Prenderei tutti a schiaffoni: chi si copre il capo e chi vuole abolire i copricapi; scorticherei i tatuatori nelle pubbliche piazze. Ma siccome non posso prendermela con me stesso, siccome con quel tredicenne cretino devo convivere, non posso nemmeno prendersela con gli altri. Per me la tolleranza è questo. Non è detto che funzioni. Le crociate, per contro, si è visto molto bene che non funzionano.

Rosa da Lima era considerata la prima santa sudamericana, finché non attecchì la leggenda di Juan Diego Cuauhtlatoatzin, l'atzeco che avrebbe fotografato la Madonna della Guadalupe.
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Il dottor Miele e il prof Golia

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20 agosto - San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), mistico antipatico

[2013]. L'estate sta finendo, l'autostima è sotto i livelli di guardia? Il mistico Bernardo di Chiaravalle ci può aiutare. Nel suo trattato De diligendo Deo, Bernardo ci spiega come raggiungere il più puro amore per noi stessi, attraverso un lungo percorso che può prendere la vita intera. Dunque: in un primo momento noi ci amiamo, perché il nostro amore non può avere altri obiettivi, visto che conosciamo soltanto noi stessi; o meglio, crediamo di conoscerci. Ma presto ci rendiamo conto di non essere autosufficienti, e allora cominciamo a rivolgere il nostro amore a chi ci ha creato e ci sostenta, ovvero Dio. È il Secondo Stadio: amiamo Dio perché ne abbiamo bisogno, allo stesso modo in cui amiamo la mamma perché è un'estensione della tetta che ci nutre, egoismo puro. Ma è comunque amore, un punto di partenza. E nel frattempo cominciamo a ridimensionare il nostro ego, a renderci conto di quanto siamo piccoli, e così arriviamo al Terzo Stadio - quello a cui ragionevolmente possiamo puntare noi miseri peccatori: l'amore di Dio per Dio. Cioè non amiamo più Dio per i doni che ci fa, ma amiamo Dio perché è bellissimo in quanto Dio. E qui si fermano praticamente tutti, ammette Bernardo di Chiaravalle: il quarto stadio forse non è per i viventi. Comunque, se volete provarci, lo stadio finale prevede l'amore per sé stessi attraverso Dio. Sì, nel quarto stadio Bernardo ama Bernardo, perché è una creatura di Dio, e ciò che fa Dio non può essere che meraviglioso, sublime, cioè guarda Bernardo: non è bellissimo?

Ah, è così che ripassi la metafisica, eh?
Ah, è così che ripassi la metafisica?
In realtà è difficile da dire. Di lui ci rimane solo un po' di testa, gelosamente custodita nella cattedrale di Troyes. Il resto del corpo è stato spazzato via durante la Rivoluzione, succede. Era più facile che succedesse a Bernardo che ad altri, perché Bernardo, tanto venerato già in vita, tra tanti carismi non aveva quello della simpatia. Il tempo, in altri casi tanto equanime, non gli ha reso un buon servizio. Oggi lo si ricorda soprattutto per la famosa disputa con Pietro Abelardo, il filosofo più in voga dei suoi tempi (lui modestamente si definiva l'unico filosofo dei suoi tempi, e forse aveva ragione). Una contesa che ha un enorme valore simbolico: filosofia contro fede, scolastica contro misticismo... ma che in realtà verteva su argomenti teologici piuttosto tecnici: la solita Trinità, che Abelardo pretendeva di poter spiegare con qualche strumento filosofico, mentre Bernardo si contentava di ammirarla come un mistero della fede. Una vera e propria disputa, come ci piace immaginarla, non ci fu: Abelardo e Bernardo non si trovarono mai uno di fronte all'altro davanti a un pubblico. Come andò veramente al concilio di Sens non è ben chiaro - ognuna delle due fazioni cerca di tirare l'acqua al suo mulino - ma pare che prima dell'arrivo dell'avversario Bernardo si fosse già lavorato la giuria ecclesiastica, falsificando alcune tesi di Abelardo per accentuare l'odore di eresia. Un caso di straw man argument direttamente dal dodicesimo secolo. Il filosofo, avvertito della trappola in cui stava per ficcarsi, decise di marcar visita e annunciò che intendeva fare appello a Roma, dove sperava di avere ancora degli amici. Non doveva averne abbastanza, perché fu condannato quando era ancora in viaggio.

Abelardo trovò rifugio presso il monastero di Cluny, dove l'abate Pietro il Venerabile intercedette per lui: passò l'ultimo anno della sua vita agli arresti domiciliari, ma poteva ancora insegnare. Aveva una sessantina d'anni, vissuti intensamente. Con Eloisa non si vedeva da più di venti. Però si scrivevano ancora. Anche lui, malgrado tanto filosofare e disputare, è più famoso per aver sedotto una studentessa diciassettenne, da cui ebbe un figlio, e che poi sposò, ma che alla fine decise di spedire in convento; e soprattutto perché a quel punto lo zio di Eloisa assoldò una gang che nottetempo entrò nel suo alloggio e lo evirò. Sembra incredibile che tutto questo sia successo nello stesso secolo in cui Bernardo passa il tempo a invocare crociate, identificare eretici e ammirare Dio, o sé stesso per mezzo di Dio. Ma ad Abelardo erano successe tante altre disgraziate avventure; persino la condanna per eresia non era una novità, ne aveva già subita una con conseguente rito di abiura. Forse a Sens non andò perché era stanco di perdere sempre, contro gente che per di più non se lo meritava. Forse perché era indiscutibilmente il più bravo coi concetti, Abelardo non aveva mai accettato che le dispute si vincono soprattutto con la politica.
No, lui non ammise mai una cosa così imbarazzante.

Bernardo, per contro, negli anni Quaranta era sulla cresta dell'onda; leader dei cistercensi (benedettini integralisti), pope-maker, boccuccia melliflua e mani ancora pulite dal sangue delle crociate di cui si sarebbero sporcate in seguito. Ci fu chi lo accusò, senza mezzi termini, di aver voluto vincere facile. Benché in una lettera al Papa chiami il suo avversario "Golia", nel senso di gigante gonfio di sé, è difficile immaginarlo nel ruolo di giovane Davide armato solo di un'umile fionda. "Hai trovato Abelardo come bersaglio della tua freccia, per vomitare contro di lui tutta la tua acidità, per spazzarlo via dalla terra dei vivi... eri infiammato contro Abelardo non dallo zelo della correzione, ma dal desiderio di vendetta" (Berengario di Poitiers). Forse più che al vecchio Abelardo, troppo orgoglioso per non farsi mazzolare periodicamente da qualche inquisitore, Bernardo temeva i suoi studenti (che dal termine "Golia", forse iniziarono a essere definiti "goliardi"). Loro sì erano ancora in grado di seminare guai per mezza Europa: come quell'Arnaldo di Brescia che qualche anno dopo avrebbe teorizzato un papato privo di potere temporale, senza fermarsi alla teoria, ma profittando di una vacanza papale per fondare un libero comune a Roma. Erano tempi duri per la cristianità, come sempre d'altronde: scismi in ogni dove, papi e antipapi, che costringevano l'umile Bernardo a uscire periodicamente dal monastero che aveva fondato, a riconquistare il cuore e l'anima dei fedeli, con prediche ben calibrate ed effetti speciali (=miracoli). La gente lo amava, metteva in giro voci ancora più grosse di quanto fosse autorizzato: le api han fatto il nido nella sua bocca, la Madonna stessa lo ha allattato a distanza, ecc. ecc. Ma non andava sempre così bene. In vari centri della Linguadoca i catari, ormai maggioritari, lo buggeravano sistematicamente. Altri santi, come Domenico o Antonio, li affronteranno con più pazienza, mostrando anche una certa ammirazione per la coerenza e la serietà degli avversari. Bernardo no, a un certo punto lasciò scritto che andavano tutti sterminati, tanto non ascoltavano: erano in cattiva fede. Bernardo era già nella tomba da una decina d'anni quando il massacro dei catari cominciò. Più dirette sono le sue responsabilità nel grande flop della seconda crociata in Palestina

Fu papa Eugenio III a metterlo nei guai. All'indomani della sua consacrazione, l'umilissimo Bernardo gli scriveva ricordandogli che prima di essere papa era stato un cistercense ordinato a Chiaravalle, insomma una sua creazione: e sapete cosa si dice in giro Santità? "Che non siete voi a essere papa, ma io e ovunque, chi ha qualche problema si rivolge a me". Benissimo, ma anche Eugenio aveva un problema: Edessa (bastione crociato in Assiria) era caduta, Gerusalemme rischiava di tornare ai Saraceni in tempi brevi. Sarebbe stato uno smacco per tutta la cristianità occidentale; viceversa, una seconda crociata (a mezzo secolo dalla prima) avrebbe fortificato il prestigio della Chiesa romana e dato sfogo a un sacco di nobili riottosi. Bernardo era sensibile all'argomento: aveva già indirizzato i fondatori dell'ordine dei templari con un libretto in cui ammetteva che ammazzare i saraceni poteva essere seccante, erano anche loro creature del buon Dio. Tuttavia, non essendo desiderosi di convertirsi, ma viceversa propensi a minacciare i pellegrini nella loro stessa esistenza, non restava che farli fuori, con qualche attacco preventivo mirato. Era la teoria del "malicidio": uccidere è male, ma uccidere il male non è così male, con la quale si poteva anche giustificare a posteriori il massacro di Gerusalemme del 1099, più un'altra dozzina di spedizioni crociate nei secoli a venire. Da bravo intellettuale neocon dei suoi tempi, Bernardo si mise al servizio della propaganda crociata con la consueta dedizione: dopo le prediche gli ascoltatori gli strappavano lembi del saio, non potevano aspettare che morisse per averne una reliquia.


I'll never look into your eyes, again.
I'll never look into your eyes, again.
Per la Seconda Crociata si smossero anche le teste coronate, che non si erano fatte vedere durante la Prima: un imperatore e un Luigi di Francia, il settimo. Non servì a niente, anzi, il flop fu ancora più eclatante e Bernardo (rimasto in Francia) ne subì il contraccolpo. Scrisse che i crociati erano stati puniti per i loro peccati, e si disse disponibile a partire in testa a una terza spedizione: un bluff che nessuno gli vide mai. Cominciava ad avere un'età, anche lui. Morì a 64 anni nella sua abbazia; fu santificato vent'anni dopo; nel 1830 proclamato dottore della Chiesa. Pio XII gli dedicò una delle sue numerose encicliche, Doctor mellifluus, il dottore al gusto miele. Nella sua bocca melliflua Dante infila la preghiera a Maria, "figlia del tuo figlio", all'inizio dell'ultimo canto della Commedia. In cielo insomma il suo astro non tramonta.

Su questa terra, mah. C'è rimasta solo un po' di testa a Troyes, snobbata dai turisti. Abelardo ed Eloisa invece sono seppelliti assieme al Père-Lachaise, sì, quello di Jim Morrison. La gloria del mondo gira così.
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Rocco e il suo fardello

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16 agosto - San Rocco (XIV secolo) taumaturgo o untore?

[2012]. Intorno al 1370, nel carcere di Voghera viene tradotto un ambiguo personaggio sulla trentina, vestito alla foggia dei pellegrini, che ha rifiutato di rivelare le sue generalità, ma che l'accento denuncia come straniero. Accusato di spionaggio, non fa nessuno sforzo per difendersi, anzi afferma di essere "peggio di una spia". Trascorre le notti in cella flagellandosi, finché non muore, tre o anche cinque anni dopo. Accanto al suo corpo, le guardie trovano una tavoletta su cui è inciso il suo nome: "Rocco"; e una dedica, "Chiunque mi invocherà contro la peste sarà liberato". Quando sul petto del cadavere viene trovato un angioma rosso a forma di croce, il giudice che lo ha condannato riconosce finalmente un suo lontano parente di Montpellier - sì, nel XIV secolo a Voghera c'era un giudice imparentato con una famiglia nobile di Montpellier, c'è chi ha provato a sostenerlo.

È un modo per tenere insieme almeno qualche pezzo di due leggende diverse: quella che vuole il più celebre protettore contro la peste nato e morto a Montpellier, e quella che lo pretende ingiustamente recluso a Voghera. Ma ce ne sono tante altre, così come probabilmente c'era più di un Rocco in giro per le terre funestate dalle epidemie, tentando di soccorrere, di dare una mano, con qualche trucco da taumaturgo che a volte funzionava a volte no. Può darsi che il più famoso o fortunato si chiamasse Rocco, e che da un certo punto in poi tutti i sedicenti guaritori che arrivavano in città pretendessero di chiamarsi così, come tutti i circhi si chiamano Orfei. E dire che siamo nel Trecento, ormai dovremmo avere a che fare con personaggi storici, non leggende. Ma Rocco è un fantasma trascinato dalla peste, un flagello che surclassa ogni apocalisse scritta o immaginata, arrivando in certe città a dimezzare la popolazione. Muoiono anche i cronisti - a Firenze Giovanni Villani cade con la penna in mano - e la civiltà comunale risprofonda nel medioevo dei miti. C'è un Rocco ad Acquapendente, Viterbo, che guarisce gli appestati con un segno di croce e l'imposizione della mano. Ce n'è uno a Roma che guarisce un vescovo e si fa presentare al Papa, così con l'ortodossia siamo a posto. Ce n'è uno francescano, perché a un certo punto del culto s'impossessano i francescani. C'è quello di Piacenza, che contrae la peste e si ritira in una grotta a Sarmato, dove un cane ogni giorno viene a portargli un pezzo di pane. Ma tanti altri Rocchi ci sono in Francia, e in Germania, e forse nessuno è il Rocco vero. Secondo Pierre Bolle sono tutte rivisitazioni di un San Racho di Autun vissuto nell'alto Medioevo: anche lui imprigionato ingiustamente, ma in una isoletta; perciò a lui ci si raccomandava contro le tempeste. Col passar dei secoli Racho sarebbe diventato Rocco, e le "tempeste" - magari per la disattenzione di un copista - sarebbero divenute la "peste". Bella storia.

Ma la più curiosa resta quella della prigionia di Voghera. Perché quel Rocco - che magari non è il Rocco di Acquapendente o di Piacenza, ma è comunque un taumaturgo - si lascia morire in cella, senza cercare di spiegarsi, senza far valere le sue conoscenze altolocate? "Sono peggio di una spia", dice ai suoi accusatori. Cosa c'è di peggio di una spia? Un untore, per esempio.

Mettiamo che ci sia stato davvero almeno un Rocco in giro per la penisola, durante una delle tante epidemie del secondo Trecento (il morbo era rimasto endemico dopo la spaventosa Peste Nera del 1348). Magari 'curava' con l'imposizione delle mani, magari aveva capito qualche trucco in anticipo (ad esempio, incidere i bubboni). Magari semplicemente assisteva i malati  con un'umanità sconosciuta ai terrorizzati dottori del tempo, e questo bastava in tante città per far gridare al miracolo. Però, malgrado i miracoli veri o presunti, la peste continua a falciare intere generazioni. Forse a un certo punto questo Rocco, dalla sua postazione in prima linea, potrebbe aver formulato un'ipotesi sul morbo che ancora per secoli non verrà in mente a nessuno: e se la stessi portando un giro io? Se fossi io il portatore sano? A Piacenza, per esempio, la gente non cadeva come mosche finché non sono arrivato io. A quel punto farsi rinchiudere in un carcere, con un qualsiasi pretesto, diventa un comportamento perfettamente spiegabile. Forse Rocco si riteneva davvero peggiore di una spia, e si è lasciato morire così, in quarantena.
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Il dibattito secolare su Sua Madre

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15 agosto - Assunzione della Beata Vergine Maria, dogma di fede

Il fatto che dopo Tiziano
ci siano stati altri pittori
mi lascia, talvolta,
stupefatto.
[2012]. Buon Ferragosto, la più snobbata tra le feste nazionali. Alcuni ignorano persino che sia un giorno rosso sul calendario: è gente che la pagina di agosto non la degna di uno sguardo, beati loro. Persino tra chi la osserva non c'è accordo su cosa si stia festeggiando: ancora le feriae Augusti, istituite dal primo imperatore romano il 18 avanti Cristo? Sarebbe l'ultima traccia dell'antico impero nel nostro calendario (nel Ventennio si festeggiava anche la fondazione di Roma, il 21 aprile). Molti però sono convinti che Augusto non c'entri nulla, e che si festeggi l'Assunta. Si tratterebbe quindi di una festività nazionale a carattere religioso: una delle due dedicate alla Madonna (l'altra è l'Immacolata, 8 dicembre); ci sarebbe anche il 1° gennaio, Maria Madre di Dio, ma in quel caso il carattere laico ha decisamente preso il sopravvento. Ferragosto è in bilico: a partire dal dopoguerra la transumanza turistica ha svuotato le città dell'entroterra e reso semivuote e malinconiche le processioni con in testa la Madonna in trono. L'Assunta è un po' in crisi, paradossalmente, proprio da quando è diventata un dogma di fede, l'ultimo, nel 1950. Sì, perché prima non c'era molta chiarezza sul fatto che la Madonna fosse stata assunta o no. Ma forse vale la pena spiegare cosa significa "assunta", in cosa consista l'Assunzione.

In sostanza, Maria di Nazareth in questo momento è una delle poche creature (l'unica?) a essere in Paradiso non soltanto con l'anima, ma anche col corpo, come Gesù - però Gesù è Dio; Maria no, è una donna, ma non come tutte le altre: come ufficializzò Pio IX nel 1854, è nata senza peccato originale (da cui la festa dell'Immacolata, appunto), e per questo motivo, seguendo un filo logico, non si vede perché il suo corpo debba essere morto. Se uno guarda le prime pagine della Genesi, nota che la morte è la punizione che Dio commina a Eva, Adamo e tutta la loro stirpe, per avergli disobbedito (il peccato originale). Ma una volta stabilito per dogma di fede che Maria è nata senza, che non avrebbe potuto concepire Gesù altrimenti, non c'è motivo per cui essa debba essere morta, nemmeno nel corpo.

Se non metto un Carracci stavolta,
non lo metto più.
Così la pensavano molti teologi nell'Alto Medioevo (l'Assunzione in Occidente si festeggiava almeno dal VII secolo); così si pronunciò definitivamente Pio XII nel 1950. C'è solo un piccolo, minuscolo problema, che i più sgamati avranno già individuato, ovvero: la Bibbia non ne parla. Mai. Nessuna traccia dell'Assunzione di Maria.

Ma d'altro canto di Maria la Bibbia parla poco in generale. Il Vangelo di Marco, che come abbiamo visto potrebbe essere il più antico, Maria non la nomina nemmeno. Il Gesù di Marco è un messia piuttosto altero che disconosce madre e fratelli. Con Matteo la madre di Gesù prende almeno un nome, ma è Giuseppe a sognare l'angelo e a portarla prima a Betlemme e poi in Egitto. La Maria che conosciamo davvero è quella di Luca, la vera protagonista della prima parte del suo vangelo: è una donna coraggiosa, illuminata, è persino una poetessa (lì per lì ti improvvisa il Magnificat)... però scompare del tutto appena il figlio comincia a predicare. L'ultimo evangelista, Giovanni, cambia ancora le carte in tavola: non racconta il Natale o altri episodi dell'infanzia di Gesù, ma segnala una "madre" (non la nomina mai per nome) che sembra seguirlo e assisterlo fino alla morte e alla resurrezione. Non che il Gesù di Giovanni sia diventato un mammone, tutt'altro: alle nozze di Cana, quando mamma fa presente che è finito il vino, le risponde "che ho da fare con te, donna?" È la prima cosa che Gesù dice a Maria, in quattro vangeli. Poi, sul finale, quando è già inchiodato alla croce, gli affida Giovanni apostolo ("madre, questo è tuo figlio"), e secondo alcuni l'umanità tutta. Maria è segnalata un'ultima volta da Luca negli Atti, tra le donne che fanno parte dell'entourage degli Apostoli prima della Pentecoste. Ma dalla Pentecoste in poi, quando gli apostoli diventano missionari nel mondo, di Maria si perde ogni traccia. Tutto quello che ci raccontano gli apocrifi (è morta l'anno dopo; ha seguito Giovanni a Efeso; non è mai morta; è morta ed è immediatamente salita in cielo davanti a tutti gli apostoli) non è attestato che un abbondante secolo dopo, insomma, non c'è niente di affidabile e lo sapevano benissimo anche i Padri della Chiesa. Di Maria non si sa più niente.

Il Correggio aveva afferrato ciò che ai teologi
ancora sfuggiva, ovvero: se potessimo rimirare
la Gloria di Dio, vedremmo un sacco
di gambe per aria
Eppure i credenti continuavano a chiedere notizie della mamma. La cosa è comprensibile. Per quanto la Chiesa degli inizi debba essere stata una gerarchia rigidamente maschile (le donne dei vangeli, come le tre Marie, scompaiono immediatamente dagli Atti), senza figure femminili di riferimento non avrebbe fatto molta strada. Non avrebbe penetrato in molte famiglie, e soprattutto non si sarebbe insinuata nel cuore delle ricche matrone romane in cerca di novità orientali. Accanto a Gesù e ai coraggiosi apostoli e martiri ci voleva qualche donna, e la mamma era senz'altro la scelta migliore: anche per scacciare le altre Marie un po' equivoche, che ungono i piedi di Gesù o li tergono coi capelli, tutti gesti dal dubbio significato. Queste signorine dal passato ambiguo negli apocrifi e nei testi gnostici rimanevano pericolosamente popolari, mettendo in ombra gli stessi apostoli maschi. La mamma no, sulla mamma non si può dire niente di male, tanto più se è la mamma di Dio.

Il dibattito infatti sarà tra chi ne parla bene e chi ne parla benissimo, e noi non siamo in grado di seguirlo in tutta la sua completezza, perché chi non ne parlava benissimo rischiava spesso di essere bruciato con le sue opere. Questo è magari il motivo per cui a distanza di secoli non si capisce perché il Papa abbia aspettato tanto a omologare l'Assunzione, quando l'opinione prevalente dei Padri della Chiesa e degli altri teologi che ci sono arrivati oscilla tra il "sicuramente sì" e il "quasi sicuramente sì". Il dibattito si concentrava su altri punti secondari, per esempio: prima di essere assunta in cielo anima e corpo, Maria è morta o no? i committenti di Caravaggio, come vedete sotto, pensavano di sì, e questa era la tesi più diffusa, soprattutto tra gli ortodossi, che il 15 agosto festeggiano la Dormizione (in attesa di risorgere, Maria non muore: dorme). In Occidente però si stava facendo strada l'idea che Maria fosse stata assunta senza passare dalla morte. Pio XII nel 1950 con l'enciclica Munificentissimus Deus lascia aperta la questione, limitandosi a stabilire che "l'immacolata Madre di Dio, la sempre vergine Maria, una volta terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo".

Quindi il capolavoro del Caravaggio è ancora cattolico doc. Meno male. La prudenza di Pio XII è anche dovuta al fatto che in questo documento, per la prima volta, un Papa impugna esplicitamente la sua Arma Teologica di Fine di Mondo, messa a punto soltanto nel 1870: l'infallibilità ex cathedra, sulla materia di fede. Anche su questo per la verità il dibattito è ampio; c'è chi sostiene che il Papa in cathedra ci stia ogni volta che dà alle stampe un'enciclica o anche solo un discorsetto dalla finestra; ma solo nel Munificentissimus Deus un Papa ha scritto nero su bianco che chi non la pensa come lui è fuori:
Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica.
Quindi ora siamo tutti d'accordo, no? Sì, c'è solo quel piccolo, minuscolo problema di cui parlavamo sopra: che di questo dogma di fede, discusso per diciannove secoli e definito nel ventesimo, il Nuovo Testamento non parla. Così come non parla di Maria se non per accenni brevissimi. Qualcuno timidamente ha anche sostenuto che un mistero così profondo possa avere una causa divina. Insomma, immacolata o no, assunta o no, forse Gesù preferirebbe che noi non discutessimo troppo di sua madre. Ma è più forte di noi, evidentemente.
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Le due corone di Massimiliano

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14 agosto - San Maksymilian Kolbe (1894-1941), missionario, radioamatore, vergine e martire.

[2013]. Da bambino ti raccontano tante storie, però tu sei sempre libero di capirle a modo tuo. Ieri sera ho scoperto che la leggenda delle due corone di San Massimiliano l'avevo sempre fraintesa. Nella versione che rammentavo, il giovane non ancora Massimiliano (al secolo si chiamava Raimondo) riceveva nottetempo la visita di una misteriosa signora che gli mostrava due corone, una bianca e una rossa. I colori della Polonia, e i miei.

Nel 1939.
La signora gli diceva "Scegline una", e Raimondo, come fanno i bambini, rifiuta la contrattazione: "Perché? Mi piacciono tutte e due". Va bene, fa la signora: allora avrai tutte e due. Raimondino non lo sapeva, ma aveva appena scelto la VERGINITÀ e il MARTIRIO. Avevo sempre trovato un po' scorretto questo modo della Madonna di strappare contratti di santità a bambini inconsapevoli. In effetti ho scoperto che la versione ufficiale è ben diversa: è la donna stessa presentarsi come Maria Immacolata e a spiegare a Raimondo cosa implichi scegliere una delle due corone, o entrambe. D'altro canto è pur sempre un bambino, quante volte da bambini abbiamo sognato di morire morti eroiche, generose e piene di significati, ma questo non autorizza la Madonna a comparire proprio in quel momento e dire firma qui - e trent'anni dopo ci ritroviamo ad Auschwitz in una camera della morte ingombra di cadaveri. Insomma, io da bambino l'unica morale che riuscivo a trarre dalla leggenda è: non accettare i regali dagli sconosciuti in sogno, neanche dalla Madonna. Soprattutto dalla Madonna. Massimiliano Maria Kolbe però ha pensato diversamente, ha avuto una vita intensa e breve, piena di soddisfazioni e malattia, ed è morto da eroe. Da martire?

Non è stato subito così chiaro. Paolo VI, che lo beatificò, si contentò di definirlo "confessore" e "martire della carità", che non è proprio un martire al 100%, un martire in nome della fede. Massimiliano non era morto per difendere la fede cristiana, ma più prosaicamente per salvare la vita di un uomo: il soldato Franciszek Gajowniczek, compagno di prigionia e padre di famiglia. Scambiare la propria vita con quella di qualcun altro, morire al suo posto in uno dei modi più penosi possibile è cosa molto nobile, ma ancora negli anni Settanta non rientrava nella definizione compiuta di martirio. Per cambiare questa impostazione ci volle l'interessamento molto attivo di un papa compatriota, Giovanni Paolo II, che nel 1982 lo promosse non solo santo, ma martire a tutti gli effetti. Scegliendo di morire al posto del soldato Gajowniczek, Massimiliano avrebbe infatti combattuto il nazismo, ideologia anti-umana e... anti-cristiana. In un colpo solo Wojtyla procurava alla Polonia un santo recente e lo metteva in prima fila nella lotta contro il nazismo, che già negli anni Ottanta stava perdendo i suoi contorni storici per trasformarsi nel cosiddetto Male Assoluto. Trovare cattolici che invece di collaborare vi si fossero opposti apertamente diventava una priorità.

Padre Kolbe è anche il santo meglio onorato dai fumettisti italiani. Questo è Dino Battaglia nel 1962.
Dino Battaglia nel 1962
Kolbe era quasi perfetto nel ruolo: occorreva tuttavia minimizzare la propaganda antisemita che aveva contribuito a diffondere sulle sue riviste nella Polonia anteguerra. Far notare viceversa l'abnegazione con cui aveva soccorso vittime di ogni religione ed etnia, ebrei compresi, durante l'occupazione tedesca. Deportato ad Auschwitz a fine maggio 1944, Kolbe, con un polmone già devastato dalla tbc, vi sarebbe sopravvissuto poco più di due mesi. A fine luglio la fuga di tre prigionieri del suo blocco, durante una trasferta per la mietitura, dà l'occasione al comandante tedesco di procedere a una decimazione sommaria: mette gli uomini in fila e comincia a scegliere: tu, tu, tu. Tra i dieci, il soldato Franciszek è l'unico che si ribella. Implora pietà, strepita che ha moglie e figli. Come se fregasse più qualcosa a qualcuno.

Quando Massimiliano fa un passo oltre la fila e propone al comandante lo scambio, ha scarsissime possibilità che una richiesta del genere sia recepita. Il comandante avrebbe potuto benissimo farli fuori entrambi, probabilmente era il suo "dovere", nella cella della morte il posto c'era. Quando Massimiliano propone di scambiare la sua vita di instancabile propagatore del messaggio cristiano e mariano, di pubblicista e radioamatore all'avanguardia, fondatore di conventi in Polonia e Giappone, con la vita di un soldato semplice, forse è più stanco di sopravvivere di quanto gli agiografi non vogliano ammettere. Agiografi in cui Massimiliano del resto difficilmente sperava. In una tragedia così spaventosa, un sacrificio così minimo - una vita per un'altra - davanti a un pubblico di nazisti indifferenti e vittime destinate comunque al macello da lì a poco - quante possibilità aveva di essere ricordato?

Questo è Tacconi nel 1982, con testi di Nizzi, il Kolbe della mia infanzia.
Nizzi-Tacconi, 1982 ("Il Giornalino").
Ma Franciszek sopravvisse. Fatto prigioniero nel '39, internato ad Auschwitz nel '41, ci passò tre anni prima di essere trasferito in un altro campo. In tutto passò cinque anni e mezzo nelle strutture concentrazionarie naziste, e riportò la pelle a casa. Nel frattempo non era più padre di famiglia: i figli erano morti in un bombardamento sovietico nel '45. Lui tirò avanti fino al 1995, quando morì alla ragguardevole età di 94 anni, metà dei quali passati a ricordare il sacrificio di don Maksymilian. Sopravvisse anche qualche carceriere nazista, che poté testimoniare dei quindici giorni trascorsi dal prete e dai compagni nella cella della morte senza acqua né cibo, e dei canti che Massimiliano intonava per infondere coraggio - i tipici canti della devozione mariana, Dall'aurora tu sorgi più bella e consimili, magari anche Noi vogliam Dio Mira il tuo popolo, certamente Madonna nera, tutta roba che oggi stroncherebbe un papaboy al secondo ascolto, e invece ebbe l'effetto di prolungare l'agonia a dismisura. Non sono mai riuscito a capire se in quella cella ci fossero anche ebrei: voglio sperare di no (di certo Franciszek era cattolico), morire ad Auschwitz è già orribile senza bisogno dell'accompagnamento musicale di un prete mariano. Sopravvisse anche il tenente nazista che dopo due settimane entrò nella cella per iniettare l'acido fenico a chi si ostinava a non morire. In seguito raccontò che mentre lo finiva, Kolbe gli aveva detto: "Lei non ha capito nulla della vita". "L'odio non serve a niente. Solo l'amore crea. Ave Maria".

Qualche mese dopo un B29 americano sganciò una bomba atomica su un sobborgo industriale di Nagasaki, uccidendo quarantamila persone sul colpo. Il convento fondato da Kolbe nel 1930, il giardino dell'Immacolata (Mugenzai no Sono) si trovava dal lato giusto di una collina: resistette all'esplosione e ospitò i feriti durante i primi soccorsi.

***

Questo pezzo ha una buffa appendice; due anni dopo (2015) fu segnalato all'Ordine dei Giornalisti in quanto "disgustoso". L'Ordine tuttavia non poteva però aprire un procedimento disciplinare su di me, siccome non sono iscritto.
Così aprì un procedimento a carico di Luca Sofri (il pezzo era stato pubblicato sul Post), per "violazione della deontologia professionale e vilipendio della religione cattolica".
Per fortuna è finito tutto bene (ho cancellato i nomi).




Ultima postilla: San Massimiliano Kolbe fu canonizzato il 10 ottobre 1982, il giorno in cui nel mio paese nacque un gruppo scout cattolico, che lo elesse immediatamente suo patrono. Anche per questo motivo è un santo che mi è caro in un modo particolare. Il pezzo più o meno disgustoso che scrissi su di lui doveva avere un finalino in cui la Madonna in sogno mi compativa per non aver mai scelto nessuna corona, né bianca né rossa né a pois: vedi cosa ti è successo? Avevi paura a scegliere e non sei diventato niente. L'ho cancellato - mi sembrava un po' troppo personale - e adesso non riuscirei a riscriverlo. Lo segno qui per ricordarmene, non ho molti altri spazi a disposizione.
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Più francescana di Francesco

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11 agosto - Santa Chiara (1193-1253), fondatrice delle Clarisse, amica di Francesco, patrona della TV.

Il velo lungo è una forma di censura,
lei andava a piedi nudi e non li nascondeva.
[2014]. C'è questa proposta di legge di cui avrete sentito parlare, che vorrebbe introdurre il "reato di istigazione a pratiche alimentari idonee a provocare l’anoressia, la bulimia o altri disturbi del comportamento alimentare". Nel mirino ci sarebbero soprattutto i siti pro-ana, di cui da qualche tempo non sentivo più parlare; e invece nella bozza della legge c'è scritto che in Italia ce ne sarebbero almeno trecentomila. Una legge del genere avrebbe falciato anche un sacco di trattati di mistiche e sante medievali, per le cronache dei digiuni che compivano o che raccomandavano (e che le mandavano in paradiso molto presto). Ma in un certo senso è sempre stato così, non è che procurarsi i loro libri fosse molto semplice nel medioevo e durante la controriforma. I digiunatori – e ancor più le digiunatrici – hanno sempre creato qualche preoccupazione nell'autorità costituita.

Il caso di Chiara Scifi è particolare. Non che non digiunasse - era anzi una campionessa della categoria – ma le sue lettere non ci lasciano nessun compiacimento morboso. Nessun delirio mistico. È anche vero che ne scrisse poche, ma ci danno la sensazione di una persona poco incline alle esperienze estreme. Ad Agnese di Boemia lascia intendere che dovrebbe anzi sforzarsi di mangiare qualcosa di più:
Siccome però, non abbiamo un corpo di bronzo, né la nostra è la robustezza del granito, anzi siamo piuttosto fragili e inclini ad ogni debolezza corporale, ti prego e ti supplico nel Signore, o carissima, di moderarti con saggia discrezione nell'austerità, quasi esagerata e impossibile, nella quale ho saputo che ti sei avviata.
Giotto: Pianto di Santa Chiara su Francesco morto.
Non so la storia del tipo che monta sull'albero, ma un po' mi
ci riconosco: un impiccione che vorrebbe saperne di più
senza averne il diritto.
Santa Chiara è un caso forse unico di mistica non visionaria: l'unica esperienza che si può paragonare a un'allucinazione fu quella famosa messa di Natale a cui avrebbe voluto tanto partecipare - partecipava il suo amico Francesco – ma siccome era malata a letto, se la vide scorrere davanti come, come... come una diretta televisiva! (Pare che fu Ugo Gregoretti a suggerire l'episodio a Pio XII che stava cercando un patrono del nuovo media audiovisivo). A dire il vero fu una tv un po' più interattiva di quella che abbiamo in casa, visto che in Chiara riuscì persino a fare la comunione. Forse a monte dell'aneddoto c'è soltanto una metafora colloquiale, qualcosa come "mi sembrava che tu fossi qui davanti a me", che gli agiografi hanno sviluppato nel modo più miracolistico possibile. In ogni caso è molto significativo che l'unica visione miracolosa di Chiara non riguardi né il Santissimo, né Maria, né Madonna Povertà: Chiara vide il suo amico Francesco.

Credo che per capirla dovremmo partire da qui. Chiara amò e seguì Francesco per tutta la sua vita, anche quando Francesco non ci fu più. Fu la prima ragazza a seguirlo – forse non aveva 18 anni – entrando in rotta con la famiglia nobile che l'avrebbe preferita accasata con qualche cavaliere, o persino monaca, se proprio ci teneva: ma in un monastero come si deve, servita e riverita da monachelle di rango inferiore. Chiara invece voleva vivere del sudore della sua fronte e se ne scappò in quella comune della Porziuncola che forse non aveva ancora ottenuto l'approvazione papale: in sostanza, quando Chiara si fece tagliare i capelli, Francesco era ancora il capo carismatico di una piccola comunità di giovinastri di buona famiglia scalzi e vestiti di sacco che andavano in giro cantando e restaurando chiesette diroccate. Prima o poi si sarebbero stancati, come si erano già stancati di altre cose, degli amorazzi e della guerra. Oppure si sarebbero montati la testa come i patarini o i valdesi, e sarebbe stato necessario bruciarne un po'. La situazione era talmente rischiosa che lo stesso Francesco cercò di allontanare la ragazza, indirizzandola presso un monastero benedettino. Chiara non ci restò a lungo. Tornò ad Assisi, riuscì a trovarsi un posto a San Damiano, e nel giro di pochi anni dirigeva un convento. Tra le prime seguaci (che poi sarebbero state chiamate 'clarisse'), una sorella e la madre.
Francesco è figlio di un mercante, anche se molto ricco, mentre Chiara è figlia di una famiglia nobile, una delle più importanti di Assisi. Chiara quindi è più colta, conosce bene il latino, e ha una mentalità diversa da Francesco perché, per esempio, non ha, come lui, orrore del denaro. Per Francesco il fatto di essere figlio di un mercante è sentito come un marchio. Dice ai frati che non devono mai toccare il denaro. Per lui anche chiedere la carità era rubare ai poveri. Noi siamo abituati a parlare di ordini mendicanti, ma al tempo di Francesco era assolutamente proibito chiedere l’elemosina. Tutti dovevano vivere con il lavoro delle proprie mani e Francesco puniva anche in modo molto crudele i frati che avevano toccato del denaro, sia pure per usarlo poi per i malati. Non andava bene lo stesso. Invece Chiara, anche nella regola che scriverà, dice che, se qualche parente dà dei soldi a una monaca, la Superiora glieli deve lasciare, sarà la monaca stessa a decidere cosa farne, se tenerli per sé o darli a un’altra consorella oppure ai poveri (Chiara Frugoni quando parla di Santa Chiara è meravigliosa).
Nel 1209 Francesco prese la decisione più ragionevole e controversa della sua vita di giullare di Dio: decise di affidarsi al Papa. Si recò addirittura a Roma per convincerlo. Non era una mossa così scontata: Innocenzo III, Lotario dei Conti di Segni, non rientrava certamente nell'idea francescana di povertà. Aveva appena incoronato un imperatore e lo avrebbe scomunicato di lì a poco. Prostrarsi a lui, venirci a patti, era magari l'unico modo per non essere presto o tardi spazzati via da un'inquisizione: ma comportava inevitabilmente qualche compromesso. Francesco stesso finì per sottoscrivere nel 1223 una nuova Regola meno estrema, stilata in collaborazione con un cardinale. Ma era ormai un Francesco stanco, sfinito dalle penitenze e dai lunghi viaggi, dimissionario dal suo stesso movimento, che sarebbe morto di lì a quattro anni. Chiara ne aveva una trentina, e si ritrovava senza più guide a capo del ramo femminile di un movimento religioso in piena espansione. Altre al suo posto si sarebbero lasciate andare - in fondo bastava digiunare con più assiduità, chi avrebbe impedito a una ragazza già acclamata come santa di raggiungere un po' più presto il proprio posto nel calendario?

Get thee to a nunnery, go.
Chiara invece resistette su questa terra altri per altri 27 anni, e non cedette mai. Restò fedele a Francesco e a tutto quello che aveva rappresentato. Non mise mai i sandali, né il velo da badessa: continuò ad andare scalza e vestita di stracci finché riuscì a uscire dal convento. Quando fu il momento di far riscrivere al cardinale anche la regola delle clarisse, Chiara tenne duro. Il progetto era creare un grande movimento di monache di clausura che nel segreto dei loro chiostri l'avrebbero venerata come fondatrice. Chiara non strepitò, non si lamentò, non sognò madonne o cuori di Cristo sanguinanti, ma non firmò. Qualche anno dopo fu quello stesso cardinale, eletto Papa, a cedere: Chiara ottenne il "privilegio della povertà", in sostanza il diritto di seguire la sua regola originale (modellata sugli insegnamenti di Francesco) e andar scalza.

A quel punto Chiara probabilmente non scendeva più da letto. Lavorava ancora al filatoio; ogni tanto magari si riguardava quella vecchia messa di Natale in videocassetta. Ma quel che importa è che nella regola ci fosse scritto che le clarisse potevano uscire, dal convento, e lavorare: anche ben calzate, se il lavoro lo avesse richiesto. Con Chiara le suore escono dai conventi ed entrano nel mondo. Ci sarebbero rimaste poco, ma fu un precedente importante.
Bisogna arrivare fin quasi al 1500 per incontrare donne religiose che lavorano negli ospedali o che insegnano. Prima per le donne c’era solo la clausura. Chiara, invece, voleva portare avanti la proposta di Francesco, naturalmente con alcune limitazioni e cautele perché anche lei, donna di quel tempo, non è che pensasse di andare in piazza. Però, come si desume da tante cose che lei dice, prevedeva non solo un continuo rapporto con Assisi, ma anche delle sue monache con la gente. Il suo è un monastero aperto, vanno e vengono una quantità di persone: mamme con bambini che si sono fatti male, donne che soffrono, ma anche uomini che hanno problemi con la moglie… E Chiara predica, fa proprio delle prediche. Uno dei miracoli di Chiara ci racconta che un giorno l’uscio del monastero si sgancia e cade su Chiara ma lei rimane illesa. Si può desumere che un monastero il cui uscio era così traballante fosse assai poco custodito e quindi molto aperto. Poi Chiara non definisce mai in maniera molto precisa il rapporto con le monache che servono fuori del monastero, lei le tratta esattamente allo stesso modo delle monache che rimangono dentro il monastero. Dagli indizi che si possono ricavare sono monache che vanno a curare dei malati, soprattutto le lebbrose. E lei dice loro: “Quando siete per la strada e incontrate la gente, dite quanto è bello il creato, quanto sono belli i fiori, cercate di dire, appunto, la gratitudine che bisogna avere per questo mondo così bello”
Di Chiara i cronisti parlano poco. Soffre senz'altro la vicinanza con Francesco, la cui vita fu senz'altro più interessante e avventurosa. Francesco digiunava, ma andava anche alle crociate, e aveva visioni mistiche, e dettava i cantici, e se ne andò presto lasciò un movimento nel caos. Chiara scriveva poco, alle crociate non poteva andarci, di visione ne ebbe una sola. Me la immagino raggrinzire nella sua cella come una tartaruga, saggia e tetragona. Francesco aveva tante idee per la testa: qualcuna la realizzò, altre si persero per strada. Chiara aveva un'idea sola: ci appoggiò la casa sopra ed è ancora lì. La più francescana dei due, in un certo senso.
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L'arcidiacono alla griglia

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10 agosto - San Lorenzo (225-258), martire ai ferri.

[2013] La santità, come la fama, dipende da variabili imponderabili. C'è chi passa la vita a inseguirla invano, e chi diventa immortale senza averci mai provato, per cose che non ha mai fatto, o parole che non ha mai detto. È un po' quel che è successo a San Lorenzo, uno dei meno evanescenti tra i martiri del terzo secolo, nel senso che, a differenza di molti altri personaggi leggendari, potrebbe essere esistito realmente: in questo caso sarebbe nato alle pendici dei Pirenei, e da studente a Saragozza potrebbe aver conosciuto il futuro papa Sisto II, di cui sarebbe diventato stretto collaboratore, seguendolo a Roma e morendo pochi giorni dopo di lui, durante la persecuzione di Valeriano imperatore. Mentre però San Sisto II Papa non è mai stato un santo particolarmente popolare - tranne a Manerbio (BS), Joppolo (VV) e pochi altri centri - il suo arcidiacono Lorenzo è stato per molti secoli un'indiscussa superstar della cristianità, patrono di Rotterdam e dei cuochi, dei pasticcieri, dei rosticceri, dei librai e dei vetrai, di un rione di Roma e di Grosseto. E tutto questo perché? Per un supplizio originale, che probabilmente non ha subito (la graticola ardente) e per una frase celebre che sicuramente non ha detto: Assum est: versa et manduca. "È cotto: gira e mangia".

Bernini a 16 anni scolpiva così, vi rendete conto.
Bernini a 16 anni scolpiva così, vi rendete conto.

Sono le parole che avrebbe rivolto ai suoi aguzzini, secondo Sant'Ambrogio, mentre lo arrostivano. Anche la graticola compare per la prima volta nel resoconto di Ambrogio, a cui non mancava la fantasia. Dal suo racconto poi derivano tutte le leggende seguenti, sempre più adorne di particolari improbabili: anche perché da un certo punto in poi nel medioevo smisero di capire l'ironia e la battutina del martire fu presa mortalmente sul serio; dunque i pagani furono accusati di grigliare i cristiani per mangiarseli. Nel frattempo comunque l'originale supplizio e il brillante motto di spirito avevano conquistato a Lorenzo un culto di primo livello: tanto che quando arrivarono a Roma le reliquie di un altro santo prestigiosissimo, Stefano primo martire, esse furono collocate accanto a quelle di Lorenzo, così anche se erano false i miracoli comunque li garantiva il martire precedente (in realtà all'inizio Roma aveva proposto uno scambio con Costantinopoli: noi vi diamo Lorenzo, voi Stefano, ma tutti i componenti dell'ambasciata costantinopolitana, dopo aver consegnato Stefano, muoiono, un vero segno della volontà di Dio a sentire Iacopo di Varazze).

Ho inoltre saputo da fonte degna di fede che di giorno si suda.
Ho inoltre saputo da fonte degna di fede
che di giorno si suda.
Lorenzo deve dunque tutta la sua fama a un motto di spirito che non ha nemmeno detto. Non è un caso tanto infrequente. Prendete Voltaire. I più lo conoscono per un aforisma che non ha mai detto (non sono d'accordo con te ma morirei perché tu possa eccetera) e che gli viene testardamente attribuito. Il suo caso è anche più grave perché, a differenza di un oscuro arcidiacono dell'oscuro terzo secolo, di cui non ci è arrivato nessun documento, di Voltaire abbiamo scaffalate di libri ricolmi di detti ben più arguti, ma non c'è niente da fare: se uscite per strada e chiedete di Voltaire, la possibilità che il passante vi citi Candido o il secolo di Luigi XIV è minima: vi diranno tutti che era quello disposto a morire purché voi abbiate il diritto di dire le vostre cazzate, povero Voltaire. Tra l'altro non ce lo vedo affatto a morire per dar voce a Rousseau, ma neanche per sogno. Come Neruda, quante poesie ha scritto Neruda, alcune anche belle: poi un giorno su internet qualcuno gli ha attribuito una mezza scemenza rifiutata dal team dei cioccolatini perugina, e da allora non c'è più stato niente da fare, oggi se digito Neruda su google lui automaticamente mi completa "Neruda lentamente muore", il che probabilmente è vero: ogni volta che qualcuno gliela attribuisce, Neruda muore un altro po'.

Quindi, insomma, non ha nessuna importanza quante cose belle abbiate detto o scritto nella vostra vita. La cosa a volte mi tormenta nella notte insonni. Io, sapete, sono uno che scrive parecchio, e da anni pubblico tutto. Ho un blog che è più grosso della bibbia ormai, non è un'iperbole: è davvero più grosso della bibbia, e l'ho scritto tutto io. Però i posteri non hanno bisogno di tutto questo materiale. Va da sé che se ho anche una possibilità, risicatissima, di sopravvivere, sarà per una frase o poco più. Ora, le possibilità che quella frase sia una stronzata sono altissime. Non è solo il fatto che io ne abbia scritte tante – veramente tante – è più forte di me – anche adesso, vedete? – ma c'è anche da calcolare una certa appiccicosità della stronzata; le stronzate resistono meglio, se ne calpesti una non te ne liberi più. E anche se non ne avessi mai detta una, anche in quella remotissima eventualità, non ha importanza: basta che qualcuno te l'attribuisca, e non te ne liberi più. Come Neruda, come Voltaire, come Lorenzo. Anche se il caso più famoso credo sia quello di Cambronne.

cambronne
Pierre Cambronne (1770-1842) ha combattuto per la Francia su quasi tutti i fronti aperti dai rivoluzionari e poi da Napoleone: Italia, Svizzera, Spagna, Russia, persino Irlanda. Già prima di farsi ripetutamente infilzare da spade e baionette a Waterloo, si era preso tre o quattro pallottole in altre battaglie. I suoi soldati lo adoravano. Ha il profilo scolpito da qualche parte sull'Arco di Trionfo. Ma non è per questo che lo ricordiamo. E non è nemmeno per la frase "la guardia muore ma non si arrende", semplice ma di una certa efficacia, che comunque probabilmente non ha pronunciato (forse la disse un collega che a Waterloo ci lasciò le penne, i suoi eredi portarono Cambronne in tribunale per attribuzione indebita di detto celebre, ma non la spuntarono). No. "Cambronne", da metà Ottocento in poi, divenne un garbato eufemismo per "merda", e tale è rimasto. La wikipedia francese ricorda persino il verbo, "cambronniser". Il tutto a causa di una rispostaccia che potrebbe essergli capitato di dare in un momento di fortissimo stress – gli inglesi avevano circondato la Guardia Imperiale e si trattava di scegliere, appunto, se arrendersi o morire imprecando. Quel che buffo è che non solo Cambronne non morì, ma una volta fatto prigioniero, finì per sistemarsi con la nobildonna scozzese che incontrò in infermeria. Quest'ultima, come condizione necessaria per sposarlo e assumere il suo cognome, gli fece giurare di non avere assolutamente mai detto "merde", perlomeno non a Waterloo nelle circostanze a tutti note. Fece di più: lo corruppe. Una cosa molto triste: gli regalò un prezioso orologio, in cambio dell'ammissione di non avere assolutamente mai risposto a un generale britannico "merda". Fu tutto inutile, perché dell'episodio si impossessò Victor Hugo, sempre a suo agio quando si tratta di impastare prosa aulica e liquami. Secondo Hugo, con questa parola Cambronne aveva semplicemente vinto Waterloo:
...fulminare con una tale parola il nemico che vi annienta, vuol dire vincere.
Dare questa risposta alla catastrofe, dire questo al destino, dare questa base al futuro leone, gettar questa ultima battuta in faccia alla pioggia della notte, al muro traditore d'Hougomont, alla strada incassata d'Ohain, al ritardo di Grouchy e all'arrivo di Blücher.
Portare l'ironia nel sepolcro, fare in modo di restar levato sulle punte dopo che si sarà caduti, annegare in due sillabe la coalizione europea, offrire ai re le già note latrine dei cesari, fare dell'ultima delle parole la prima, mescolandovi lo splendore della Francia, chiudere insolentemente Waterloo col martedì grasso, completare Leonida con Rabelais, riassumere questa vittoria in una parola impossibile da ripetere, perdere il campo e conquistare la leggenda, aver dalla sua, dopo quel macello, la maggioranza, è una cosa che raggiunge la grandezza di Eschilo.
La parola di Cambronne fa l'effetto d'una frattura: la frattura di un petto per lo sdegno, l'irruzione dell'agonia che esplode!
Merda d'artista a Nantes.
Merda d'artista a Nantes
E bla bla bla, tutto un capitolo dei Miserabili così. Cambronne era già morto da vent'anni e non poteva più schermirsi. Lui stesso del resto doveva talvolta dolersi del suo giuramento; e almeno una volta, a una cena in suo onore, tradì la moglie con una mezza ammissione: «No, non ho detto 'La guardia muore, ma non si arrende', ma, intimatomi di deporre le armi, ho risposto con alcune parole meno brillanti, certo, ma di una naturale energia». Insomma, hai detto merda. E merda sia. Non si può nemmeno dar la colpa a internet, nel suo caso. Fecero tutto gli scrittori, da Hugo a Proust. Persino oltreoceano qualcuno cambronizzò su Cambronne. Tra le epigrafi di Spoon River, Edgard Lee Masters riporta questa (Kinsey Keene):
Bene, quello che Cambronne disse a Maitland
prima che il fuoco inglese spianasse il ciglio della collina
contro la luce morente del giorno
io dico a voi, a tutti voi,
e a te, mondo.
E vi impongo di scolpirlo
sulla mia pietra.
Tutto un giro di parole per dire, in effetti, merda. E può capitare anche a voi. Non importa chi siate, o cosa abbiate fatto o pensato per tutta la vita. Un giorno pesterete una cambronne in pubblico, qualcuno riderà, e si ricorderà di aver riso anche quando tutte le vostre foto saranno sbiadite e nipotini non si rammenteranno più chi siete stati. Succede. Succede anche oggi che le foto non sbiadiscono più. Chiedete a Voltaire. Chiedete a Neruda, cosa significa morire lentamente.
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A volte nevica in agosto

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5 agosto - Madonna delle nevi

santamariamaggiore[2014] La notte tra il 4 e il 5 agosto del 352, il ricco patrizio Giovanni riceve una visita in sogno della vergine Maria, che si congratula con lui per il proposito recentemente espresso di finanziare una chiesa in suo onore, e gli suggerisce di erigerla nel luogo che il mattino dopo sarà ritrovato ricoperto di neve. La mattina dopo la moglie gli riferisce di aver fatto un sogno molto simile. Vanno immediatamente a raccontarlo a Papa Liberio (siamo tra l'Editto di Milano e quello di Tessalonica, la Chiesa non è più clandestina ma non è ancora Chiesa di Stato, e anche i papi sono ancora tizi alla buona che ti ricevono in giornata, specie se sei patrizio). Il quale papa Liberio risponde: ma sapete che credo di aver fatto lo stesso sogno anch'io? Proprio in quel momento irrompe in scena un figurante: Santità, sull'Esquilino è successa una cosa molto singolare. È nevicato. Non dappertutto, no. Solo in uno spiazzo. Uno spiazzo a forma di basilica. Chissà cosa vuol dire.

La basilica liberina, o "Ad nives", è il primo nucleo di Santa Maria Maggiore, la più antica delle quattro basiliche papali di Roma. In realtà la parte più antica della costruzione dovrebbe risalire al papato di Sisto III, nel secolo successivo - poi rimaneggiata e ingrandita più volte nel corso dei secoli. Prima di questa doveva esserci una chiesa ancora più antica, consacrata però al Credo niceano. Quella di Sisto è invece dedicata alla Madonna, che era stata da poco proclamata "madre di Dio" durante il concilio di Efeso (i nestoriani, che la ritenevano soltanto madre della parte umana di Cristo, furono contestualmente dichiarati eretici). Il nome di Madonna delle Nevi fu progressivamente accantonato, specie a partire dalla controriforma, quando l'antico miracolo delle nevi fu accantonato in quanto privo di fonti serie. La festa del 5 agosto divenne, ufficialmente, la "dedica della basilica di Santa Maria Maggiore". Ma ancora viene ricordata con un lancio di petali di rosa dalla cupola.

Madonna giapponese (con tanto di drago sotto i piedi).
Madonna giapponese (con tanto di drago sotto i piedi).
Per molti secoli comunque la Madonna delle Nevi fu una delle più popolari - scacciata dal cuore di molti fedeli soltanto con l'arrivo delle Madonne moderne, dal Sette-Ottocento in poi: quelle che appaiono ai pastori minacciando inferni o guarendo infermi. Tra gli indizi di questa popolarità tramontata ce n'è uno disseminato dall'altra parte del mondo, in un'isoletta dell'arcipelago Goto, nell'estremità sudoccidentale del Giappone. Lì fuggirono molti cristiani giapponesi della fiorente colonia gesuita di Nagasaki, quando a fine Cinquecento lo Shogun proibì la pericolosa religione importata da portoghesi e spagnoli. Per più di due secoli gli isolani avrebbero continuato a nascondere i loro Cristi nascosti dietro a statuette di Budda, e venerare Madonne sempre più simili a Budda anch'esse. Senza missionari, senza contatti con l'esterno, senza nemmeno poterne parlare troppo tra loro. Col tempo persero i libri sacri o la capacità di leggerli; continuarono a ripetere paternoster a memoria. Quando a metà Ottocento si riaprirono le frontiere, alcuni non potevano più riconoscere nel cattolicesimo occidentale il culto che avevano ereditato dagli antenati. Era diventato un altra cosa, alla quale non avrebbero comunque rinunciato. Quando la documentarista Christal Whelan arrivò nelle isole Goto, a metà anni Novanta, sopravvivevano soltanto due sacerdoti di novant'anni – i quali peraltro non andavano d'accordo, non si rivolgevano la parola. Tra i loro riti vi era una cerimonia a base di riso e saké vagamente simile alla comunione, impartita a collaboratori che si prestavano per non far morire del tutto una tradizione ormai inspiegabile. Christal notò che i due sacerdoti festeggiavano la vigilia di Natale e altri riti buddisti e scintoisti; la crocifissione ma non la Pasqua; la fede nella resurrezione era ormai stata sostituita da una venerazione per le anime degli antenati. Però entrambi i sacerdoti – gli ultimi rappresentanti della loro religione – a inizio agosto veneravano ancora Nostra Signora delle Nevi.
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Tu sei il Male, io sono il Curato

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4 agosto - San Jean-Marie Vianney (1786-1859), patrono dei parroci (ma non dei sacerdoti).

La cosa fantastica è che un po' a Voltaire ci somiglia.
La cosa fantastica è che
un po' a Voltaire ci somiglia.
[2013] La notizia girava da quasi un anno. Lo sapevano tutti, lo davano per scontato. Venerdì 11 giugno 2010 San Giovanni Maria Vianney, già patrono dei parroci di tutto il mondo, sarebbe stato promosso a patrono dei sacerdoti di tutto il mondo (i parroci sono sacerdoti titolari di una parrocchia, perciò non tutti i sacerdoti sono anche parroci). Lo avevano scritto su Avvenire e sull'Osservatore Romano. Di più. Avevano già steso il suo arazzo da una balaustra della facciata della basilica di San Pietro, un onore che ti fanno soltanto quando ti beatificano, ti canonizzano o ti concedono un nuovo patronato, come appunto in questo caso. Insomma, era ufficiale.

E invece no. Due giorni prima la prevista proclamazione, un sobrio comunicato informò che non se ne faceva niente. L'arazzo restò lì a sventolare, la beffa unita al danno, e i vaticanisti ad arrovellarsi: perché? Cosa aveva fatto di male il povero Jean-Marie, per subire uno smacco del genere? Nulla di nuovo, avendo lasciato il mondo un secolo e mezzo prima. Forse qualcosa, un particolare fino a quel momento inosservato era diventato importante all'ultimo minuto? Buon Dio, e cosa? Non era "abbastanza abbastanza rappresentativo del sacerdozio del XXI secolo, né abbastanza universale", scrissero. Non rifletteva "completamente la figura del prete di oggi, all'epoca della comunicazione". Se ne erano accorti solo 48 ore prima?

In effetti Jean-Marie non è proprio quel tipo di parroco che oggi mettono nelle pubblicità dell'otto per mille. Da laici poi è molto difficile accostarsi alla sua storia senza fare quella tipica smorfia, avete presente - il sorrisetto à la Voltaire che Voltaire magari poteva permettersi, noi no. Gli agiografi ufficiali ci mettono del loro, sembrano che ci tengano particolarmente a tratteggiare una figura di prete ignorante e oscurantista, e perché no, fanatico e allucinato. Tutta questa insistenza sulla carriera scolastica, per esempio. Non c'è una biografia di Jean-Marie che non sottolinei e dettagli la sua inettitudine agli studi, la sua profonda incompatibilità col latino, che potrebbe non essere molto inferiore a quello di un classico liceale classico diplomatosi per il rotto della cuffia. A catechizzare i fanciulli viceversa pare fosse molto bravo, ed era un buon predicatore, uso a mandare a mente le omelie; col tempo si sarebbe dimostrato un fundraiser astutissimo, insomma qualche virtù intellettuale doveva pure averla; però i suoi veneratori ci tengono a dipingerlo come la capra più capra che ci fosse in circolazione. Dietro c'è tutta una polemica con l'illuminismo e con la Rivoluzione: Jean-Marie era cresciuto negli anni in cui i preti francesi che rifiutavano di giurare fedeltà alla République rischiavano la ghigliottina celebrando la messa nascosti nei fienili.

Dopo un lungo, lunghissimo percorso scolastico, in cui gli capitò di avere insegnanti più giovani di lui, finalmente Jean-Marie ottenne una minuscola parrocchia (200 anime), e la trasformò. Fece chiudere le taverne e proibire i balli. Messa giù così, suona veramente male. Se fossi io il PR di Jean-Marie, l'articolerei in questi termini: "lottò vittoriosamente, con le uniche armi della parola e dell'esempio, contro la piaga dell'alcolismo che dilagava in quella piccola comunità agraria". E con le taverne siamo a posto.

Coi balli, davvero, coi balli non saprei che dire. Jean-Marie ma che male ti facevano questi contadini ottocenteschi, se per la mietitura gli veniva voglia di divertirsi e sgambare un po'? Vediamo cosa ne dicono su wikipedia...
 Il fatto era che, all'epoca, il ballo non era certo un divertimento innocuo e innocente ma una vera e propria piaga...
Eh?
...una specie di ebbrezza e furore"[84] la definirono alcuni, che spesso conduceva a disordini descritti come "vergognosi" dai contemporanei. Anche qui la sua azione pastorale non fu riservata soltanto al pulpito ma si tradusse in azioni concrete. Il più delle volte fu costretto a pagare il doppio di quanto stabilito ai suonatori itineranti perché smettessero di incitare la gente a questa frenetica usanza[85].
Vabbe', ma che tattica è, come pagare gli spacciatori il doppio perché cambino il quartiere, peggio che nascondere la polvere sotto il tappeto...
Per educare le giovani e le fanciulle, spesso vittime d'abusi durante le frenesie del ballo, il curato mise un'estrema cura nella formazione dei genitori[86], non solo delle ragazze che spesso, venute a confessarsi, non ricevevano l'assoluzione finché non avessero deciso di abbandonare quel pericoloso divertimento[87].
Io lo giuro non lo sapevo che i balli ottocenteschi fossero così frenetici; dai romanzi perlomeno non risulta. Gli è che i romanzieri parlano sempre e solo delle città, maledetto Flaubert, quattrocento pagine di I Love Shopping Con La Moglie Del Dottore e nel frattempo in campagna facevano le orge musicali e non te ne sei accorto, non ci hai scritto niente.
Si giunse perfino a una lotta giudiziaria: nel 1830 un decreto del sindaco, Antonio Mandy, aboliva i balli pubblici scatenando così la riprovazioni degli organizzatori delle feste locali e di alcuni ragazzi che chiesero al sottoprefetto di Trevoux di abrogare la decisione del sindaco. Cosa che ottennero, ma senza risultato[88]: le giovani avevano infatti preferito recarsi in parrocchia per la messa domenicale, non lasciando così altra scelta ai festaioli che di disperdersi. Senza più ragazze con cui ballare la gioventù maschile di Ars fu costretta a dividersi: chi accolse le parole del curato e chi invece preferì trasferirsi nei paesi vicini.
La cucina dove digiunava.Ok, ci rinuncio, sei indifendibile Jean-Marie. Anche se un mostro sacro della sinistra italiana, don Milani, sul ballo aveva più o meno le tue stesse idee. Comunque è difficile immaginare Ratzinger che a 48 ore dalla proclamazione si fa prendere dallo scrupolo, ehi, un prete che odia le feste danzanti forse non è il massimo come esempio per il XXI sec.

Jean-Marie Vianney era un simbolo già in vita: il suo villaggio per i cattolici francesi un anti-Parigi, da contrapporre polemicamente alla modernità peccatrice. Con lui prende forma l'archetipo del Curato di Campagna che lotta contro le tentazioni di un demonio annidato nell'ignoranza e nella povertà della provincia: il protagonista dei romanzi di Georges Bernaros. Un modello che ha esercitato un fascino incontestabile per un secolo e mezzo, ma che forse oggi segna un po' il passo.

Sul blog di un famoso vaticanista infuriava il dibattito. "Un altro colpo da maestro assestato al Papa dai soliti modernisti postconciliari che non accennano ad estinguersi. Si spegneranno, per contrappasso, all’inferno". In che modo i modernisti fossero riusciti a scongiurare la proclamazione all'ultimo minuto non era chiaro. Altri, pur professando una "venerazione di prim'ordine", ammettevano che "il sacerdozio è una figura piu’ ampia, e vi sono figure sacerdotali molto diverse dai parroci".
Senza scomodare i soliti missionari, facciamo l’esempio dei cappellani militari. Il curato d’Ars è famoso per aver passato tutta la sua vita nel confessionale: e un buon parroco si vede da questo, dal poterlo sempre trovare in Chiesa a qualunque ora del giorno. Accostamento perfetto.
Ma un buon missionario o un buon cappellano militare hanno bisogno di altri esempi, non immediatamente riconducibili al curato d’Ars.
Come vede, non ho menzionato la questione modernista nemmeno di striscio. Saluti.
Non ha neanche menzionato il fatto che Jean-Marie fu disertore, imboscato per tre anni, e se la cavò con un'amnistia, insomma decisamente non il miglior patrono che i cappellani militari potrebbero augurarsi. Tra tanti pareri un tanto al chilo (però interessanti) posso anche dare il mio. Secondo me a Ratzinger il curato d'Ars non era simpatico.

Non mi vengono in mente due preti più diversi: un teologo e una capra. Uno ha passato la vita in campagna, lottando per portare in paradiso le sue duecento anime, incurante di quello che succedeva poco più in là, dove sarebbero andati i suonatori e i ballerini che allontanava. L'altro ha vissuto quasi tutta la sua carriera al centro delle cose, a Roma, abituato a pensare alla Chiesa come a una comunità planetaria. Jean-Marie stava così tanto tempo nel confessionale che puzzava. Ratzinger sapeva d'acqua di colonia persino dalle fotografie, e aveva una certa passione per scarpine e cappelli. Vianney digiunava e sentiva le voci, il demonio che lo voleva morto. Ratzinger da prefetto per la congregazione della dottrina deve aver passato anni a esaminare storie di infelici allucinati. Vianney è un santo ovviamente caro ai lefebvriani. Ratzinger ai lefebvriani ha concesso molto, ma forse cominciava a stancarsi dell'arroganza con cui rispondevano alle sue aperture. Ma alla fine dev'essersi trattato di un moto improvviso, qualcosa che non sapremo mai e che ha reso all'improvviso insostenibile il fastidio naturale che Ratzinger doveva nutrire per una figura come quella di Jean-Marie Vianney.

Che così alla fine non è diventato patrono dei sacerdoti. I suoi fan possono consolarsi ricordando come Jean-Marie non apprezzasse le onorificenze: quando Napoleone III volle concedergli la Legion d'Onore, lui prima volle informarsi se la medaglietta in sé avesse qualche valore; nel qual caso ci avrebbe fatto su qualche soldo per i poveri d'Ars (o per ingrandire la sua collezione di reliquie). Gli dissero di no, non valeva niente: e allora la rifiutò.

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Lazzaro che morì due volte

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29 luglio - San Lazzaro, amico di Gesù

(Juan De Flandes) Ce n'hai messo di tempo, eh, amico.
(Juan De Flandes) Ce n'hai messo di tempo, eh, amico.
[2014] Tutti dobbiamo morire, e secondo la dottrina cristiana Gesù a tempo debito ci resusciterà. Tranne Lazzaro: lui è stato risorto prima. Così presto che è probabilmente già rimorto. Ma perché con lui Gesù si è comportato così? A prima vista sembrerebbe una debolezza: Lazzaro ha un trattamento di favore perché... è suo amico.

Gesù ha un solo amico: gli altri li chiama fratelli, o discepoli. Quando muore, ci rimane male. È il messia, è il Cristo, giudicherà i vivi e i morti, ma ci rimane male lo stesso. Davanti alla tomba scoppia a piangere. Non era successo per tre vangeli sinottici, ed ecco che succede nell'ultimo, quello di Giovanni. Anzi, un argomento per considerare il vangelo di Giovanni il più tardo è proprio questa virata nel patetico: all'estremo opposto sta il Gesù di Marco, probabilmente il più antico, un tizio sempre corrucciato e sdegnato perché i comuni mortali non hanno orecchie per intendere le sue parabole. Il Gesù di Giovanni invece sembra ridisegnato per un ceto medio che vuole bei discorsi ma anche una certa dose di sentimento.

Insomma, frigna come un pupo. Tanto che la gente comincia a darsi di gomito; però! Gli voleva bene davvero, al suo amico. Boh, ma se è davvero Chi dice di essere, non poteva arrivare un po' prima? Gesù non fa segno di ascoltare, ma chiede che sia aperta la tomba, malgrado le obiezioni della sorella più pratica, Marta ("Sono passati tre giorni, puzzerà"). E invece Lazzaro ne esce fuori fresco come appena deposto, e soprattutto esce vivo. Gesù l'ha risorto. Non è un miracolo come gli altri.

Gesù non aveva mai risorto nessuno prima. Certo, ci sarebbe l'episodio della figlia di Giairo, "capo di una sinagoga", riportato dai tre vangeli sinottici: ma non è chiaro se la bambina sia davvero morta. Lo stesso Gesù minimizza; afferma che la bambina sta solo dormendo, e la risveglia. Il caso di Lazzaro è molto diverso. Addirittura Gesù prende tempo; anche se le sorelle Maria e Marta gli avevano fatto sapere della malattia dell'amico, Gesù decide di aspettare che muoia. E agli apostoli prima di partire dice proprio così: Lazzaro è morto.
...e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!
(Giotto) E gli amici li tratti così, figurati gli altri.
(Giotto) E gli amici li tratti così, figurati gli altri.
La decisione di risorgere Lazzaro non è una semplice debolezza, ma parte di un piano. I tre giorni di attesa sono fondamentali, non solo perché preannunciano la morte di Gesù, ma perché legalmente sono necessari affinché la resurrezione non possa essere derubricata a risveglio da un coma (quel che era successo nel caso della figlia di Giairo). Anche il dettaglio della puzza non è un semplice tocco di realismo: il testo vuole eliminare qualsiasi dubbio sul fatto che quella di Lazzaro sia stata una resurrezione, non una guarigione. Gesù ha scelto il suo amico per farne il cardine di tutto il Vangelo.

Non a caso nel testo di Giovanni occupa proprio il capitolo centrale: tra la prima parte, il cosiddetto "vangelo dei segni", e la seconda parte, il lungo racconto della passione. Nella prima parte Gesù ha esibito agli scettici tutti i "segni" necessari affinché credano che lui è il Messia - e che riprendono una profezia di Isaia: gli storpi camminano, i sordi odono, i ciechi vedono... i morti devono resuscitare. Lazzaro è appunto l'ultimo segno, la prova definitiva che Gesù è Colui che afferma di essere. Ma proprio la sua resurrezione è l'inizio della passione di Gesù: appena farisei e sommi sacerdoti si accorgono di che è successo, decidono di ammazzare sia Gesù che Lazzaro, il colpevole e la prova. L'idea di uccidere un tizio in grado di resuscitare dai morti può lasciare perplessi, ma il ragionamento dei sacerdoti non è poi così peregrino:
"Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione".
Col suo nuovo culto, potenzialmente rivoluzionario, Gesù rischia di attirare l'attenzione della potenza occupante. Chi scrive il Vangelo probabilmente sa già di cosa sono capaci i Romani – che raderanno davvero al suolo Gerusalemme nel 70. "Meglio che muoia lui, piuttosto che un popolo intero", dice il sommo sacerdote. Una frase troppo bella e pregna di significato per essere stata pronunciata davvero. Tutto l'episodio sembra, in effetti, una costruzione a posteriori, di un autore che conosce per sommi capi il racconto evangelico, ma vuole dargli un senso nuovo, un respiro diverso (oltre a spruzzare un po' di sentimenti qua e là).

Wake up dead man ((Caravaggio)
Wake up dead man (Caravaggio)
Giovanni è l'evangelista più filosofico, lo sanno tutti; mastica un po' di gnosi, e scrive molto bene; ma da un punto di vista meramente narrativo, sembra un autore di fanfiction - un lettore dei vangeli precedenti che si mette a ricamarci sopra perché molti episodi lo hanno lasciato insoddisfatto - inoltre crede di aver trovato dei buchi di sceneggiatura e non li sopporta. Perché Gesù non scoppia mai in lacrime? Non sarebbe bello se avesse un amico? Tra le domande che il fan-Giovanni si pone ce n'è una fondamentale: perché Gesù non ha mai resuscitato un morto? Ok, ha resuscitato sé stesso, ma solo alla fine. E però, molto prima della fine, ai discepoli di Giovanni Battista che gli chiedevano se fosse veramente il Messia aveva detto:
Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano.
Questo è Matteo 11, ma i morti che risuscitano chi sono? In Matteo non ci sono! Ok, la figlia di Giairo, ma possiamo veramente contarla? Con lo stesso Gesù che afferma "non è morta ma dorme"? Insomma qui c'è un buco, bisogna riempirlo. Ma con cosa?

Un altro tratto tipico degli autori di fanfiction è il riutilizzo di nomi e personaggi minori. È un modo per sentirsi più 'canonici', vicini all'originale che stanno rielaborando. Giovanni evangelista riprende così le due sorelle Marta e Maria, già protagoniste di un breve e famoso diverbio nel vangelo di Luca; e le provvede di un fratello di cui nessuno fin qui ha sentito parlare, ma a cui Gesù voleva un bene dell'anima. Se il personaggio-Lazzaro è un'assoluta novità, il suo nome non è tuttavia nuovo: Eleazar ("Dio è il mio aiuto") era già il nome di un lebbroso in una parabola dei sinottici, costretto a mendicare davanti alla casa del ricco Epulone: da lui viene il termine "lazzaro" come sinonimo di "lebbroso" (da cui "lazzaretto"), nonché l'accrescitivo "lazzarone" . Poi Epulone finisce all'inferno e non può nemmeno supplicare che Lazzaro dal paradiso gli allunghi un po' d'acqua, tra i due oltremondi non vi è nessuna convenzione. Battezzando "Lazzaro" l'amico di Gesù, il Fan-Giovanni può anche alludere al luogo dove Lazzaro sarebbe stato nei tre giorni tra la morte e la prima resurrezione: il paradiso. Una questione che lasciava perplessi alcuni teologi, secondo i quali l'amico di Gesù non poteva che essere stato all'inferno: il paradiso era ancora chiuso. D'altro canto, il Lazzaro del vangelo di Giovanni non è un lebbroso, non è un mendicante; forse il fan-Giovanni stava soltanto cercando un nome di origine ebraica, per evitare di inventarsene uno che rischiasse di suonare falso a un orecchio più allenato del suo.

Stavo a fare il muschio, ormai (Spagnoletto).
Stavo a fare il muschio, ormai (Spagnoletto).
Lazzaro dunque dovrebbe morire e resuscitare una prima volta per risolvere un'incongruenza narrativa dei vangeli sinottici, e dimostrare incontrovertibilmente che Gesù è il messia. Giovanni dà particolare importanza dei "segni", i miracoli rivelatori; laddove gli altri evangelisti li snobbano un po', ammettendo in alcuni casi che Gesù li facesse controvoglia e li considerasse con sufficienza. La gente lo avrebbe dovuto seguire per quel che diceva, e non per i pani o i pesci, o un lebbroso guarito o un paralitico rialzatosi dalla sedia. Per Giovanni invece i "segni" sono fondamentali, e Lazzaro è il più importante.

Un altro indizio del carattere fittizio dell'amico di Gesù è la sua improvvisa scomparsa: così com'era apparso, fa sparire subito le sue tracce. Che fece durante la passione dell'amico? E dopo la resurrezione? Non si sa. Di sicuro non era coi Dodici, ma gli Atti degli Apostoli di lui non dicono niente (per forza, li aveva scritti Luca prima che Giovanni partorisse il personaggio). È lo stesso Fan-Giovanni a suggerirci una spiegazione: i sacerdoti del sommo sinedrio volevano far accoppare anche lui, magari ci sono riusciti. Un'altra teoria, ma molto più tarda, è che Lazzaro sia stato occultato dai proto-cristiani proprio perché il sinedrio gli dava la caccia. Paolo di Tarso lo avrebbe portato a Larnaca, nell'isola di Cipro, di cui Lazzaro sarebbe diventato il vescovo fino alla sua seconda morte, trent'anni dopo. La leggenda orientale dice che non sorrise mai, per tutto il tempo, a causa di quello che aveva visto nei suoi tre giorni da morto. Dunque era stato all'inferno. Solo una volta gli sarebbe scappato un sorriso - davanti a un ladro di vasellame - dopo aver sentenziato: "L'argilla ruba l'argilla".

L'ipotesi occidentale, che i lettori di Dan Brown magari conoscono, è che Lazzaro sia miracolosamente approdato con le due sorelle nel Midi della Francia, diventando il primo vescovo di Marsiglia. La devozione dei marsigliesi fu tale che nel 1204, durante la Quarta Crociata, (detta anche saccheggio di Bisanzio) si portarono a casa le reliquie. Poi le persero, forse anche in seguito a una riflessione: se davvero le sue ossa erano custodite a Bisanzio, Lazzaro non avrebbe mai potuto evangelizzare Marsiglia. In ogni caso i suoi resti si possono venerare ad Autun e a Vézelay in Borgogna - oltre che naturalmente a Larnaca. A Vendome invece c'è un'ampolla con le lacrime che Gesù avrebbe pianto davanti al suo amico. Forse perché sapeva di averlo lasciato scendere all'inferno, anche solo per tre giorni. Oppure perché davvero gli voleva bene.
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La santa prostituta che non lo era (prostituta)

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22 luglio - Santa Maria Maddalena, non più peccatrice (I secolo).

"(Non sarò mai) Maria Maddalena".
[2012]. A Maddalena, che lo vede per prima risorto, Gesù dice una cosa curiosa, che nella versione latina suona Noli me tangere, "non mi toccare". Perché Maddalena non lo può toccare? Eppure più tardi Gesù acconsentirà a farsi tastare le piaghe da Tommaso, l'apostolo incredulo. Forse perché Maddalena è donna? perché ha un passato discutibile? Ma in realtà nell'originale greco si capisce che Maddalena è già riuscito a toccarlo: più che "non mi toccare" è un "lasciami andare", "mollami". Toccarsi insomma era consentito, ma forse Maddalena insisteva troppo, non lo lasciava andare più, mentre Gesù aveva altre cose da fare, un impegno a Emmaus di lì a poche ore, eccetera. Eppure per secoli in occidente i pittori la scena l'hanno dipinta come se tra Gesù risorto e la donna a lui più vicina ci fosse un abisso. È che Maddalena è proprio difficile da maneggiare.

Di solito scrivere un'agiografia consiste nel trasformare un peccatore in un santo. Si tratta insomma di prendere la vita di un uomo / una donna, enfatizzare le buone azioni e levare le magagne più grosse. Con Santa Maria Maddalena, che pure è un personaggio di primo piano, la cosa è andata in un modo diverso: è da duemila anni che la consideriamo una ex prostituta, e semplicemente non è vero. Cioè, basta tornare ai vangeli: in nessun punto vi è scritto che Maria di Magdala facesse quel mestiere. C'è poi qualche 'peccatrice', nei vangeli, con le quali Gesù si mostra piuttosto tollerante, ma non è chiaro se siano prostitute o semplicemente adultere. C'è quella che lava i piedi a Gesù con le sue lacrime, glieli asciuga coi capelli (portare i capelli sciolti nella Giudea del tempo era già un segno eloquente di vita non irreprensibile), e forse è la stessa che lo unge davanti a tutti, in quella che un fariseo del tempo avrebbe potuto prendere per una caricatura di un'unzione regale. Il vangelo di Giovanni, che è il più tardo, ma come vedremo ha un rapporto particolare con la figura di Maddalena, chiama questa peccatrice "Maria", e soggiunge che era la sorella di Lazzaro e Marta, che si venerano tra sette giorni. Vale la pena di ricordare che il nome "Maria" ("Miriam", la sorella di Mosè) era già al tempo il più diffuso nella zona: basandosi sulle incisioni funerarie, gli archeologi hanno calcolato che il 25% della popolazione femminile portasse quel nome.

Nei vangeli di Marie ce ne sono parecchie, al punto che risulta impossibile contarle perché è chiaro che gli stessi evangelisti – già piuttosto elusivi sui nomi e i ruoli degli apostoli – semplicemente non ci si raccapezzano. Questo è un dettaglio verosimile: chi si metteva a scrivere dopo decenni di narrazioni orali poteva facilmente confondere le figure femminili che dalla morte di Gesù non avevano più avuto molto peso nel movimento dei cristiani, e stavano invecchiando da qualche parte in Palestina o altrove. Per prima c'è la madre di Gesù (che non in tutti i vangeli è chiamata "Maria"); poi la Maddalena, che non necessariamente si prostituisce ma sicuramente viene esorcizzata da Gesù, che le toglie dal corpo "sette demoni", fa parte del suo entourage più ristretto ed è testimone oculare della resurrezione (il nome forse deriva da un paese sul lago di Tiberiade, Magdala appunto, forse dall'ebraico migdal, "torre", "fortezza"); c'è poi la sorella di Marta e di Lazzaro, detta anche Maria di Betania; e ancora un'altra figura dell'entourage apostolico, Maria madre di Giacomo (il quale a sua volta potrebbe anche essere il fratello di Gesù...) A un certo punto a papa Gregorio le tre Marie sodali degli apostoli devono essere sembrate troppe, visto che si permise in un'omelia di ridurle a una sola; poi, siccome almeno una delle tre, in almeno un Vangelo, era chiamata "peccatrice", se ne dedusse che oltre a una e trina la Maddalena dovesse pure essere prostituta.

Maddalena penitente,
Georges de La Tour, 1640.
Se è stata una calunnia, pure non è mancata qualche conseguenza positiva. Pur restando ai margini della società, le prostitute hanno potuto contare su una protettrice di primo rango, una che a Gesù dava del tu. E il fatto che Cristo risorto preferisse apparire per primo a un'ex puttana, piuttosto che agli undici patriarchi della Chiesa Apostolica, ha dato a qualcuno la possibilità di intendere il cristianesimo come una religione un pelo meno maschilista ed elitaria di altre (anche se l'immagine di un Gesù gioviale frequentatore di meretrici è un'altra proiezione; non le lapida, ma le perdona, purché "non pecchino più"). Nel frattempo i pittori hanno potuto raffigurare, nelle crocefissioni e deposizioni e apparizioni, almeno una donna coi capelli sciolti. Molto presto hanno deciso che doveva averli rossi. La riduzione di una seguace di Gesù a prostituta potrebbe avere avuto semplicemente questo senso: più basso era il peccato, più orribile il mestiere, più gloriosa appariva la redenzione. Un Dio che perdona le puttane è uno che davvero può salvare chiunque, non fa una grinza.

Mary, mmm, that is good.
Però forse c'è dell'altro. C'è che se le togli quella patina di peccatrice, Maddalena diventa un personaggio un po' più difficile da gestire, per una Chiesa governata dai maschi. Alcuni dettagli sono imbarazzanti: per esempio: da Luca e Marco sappiamo che prima di incontrare Gesù era un'ossessa. Non sappiamo che tipo di disturbi avesse: deliri? Allucinazioni? Però lo stesso Marco - e Giovanni è d'accordo - affermano che fu lei la prima a vedere Gesù risorto. A quel punto non sorprende che gli apostoli non ci abbiano creduto; altrimenti saremmo portati a pensare che si siano lasciati suggestionare da una persona che in passato aveva manifestato segni di squilibrio mentale. Peraltro ai tempi di Gesù la testimonianza delle donne, ossesse o no, non era accettata in sede legale. Non stupisce che Paolo qualche anno dopo non ne faccia menzione ai Corinti: per lui Gesù risorto era riapparso, prima a Pietro "e poi ai Dodici" (Giuda Iscariota era già stato rimpiazzato). Maddalena è come se non ci fosse mai stata. Probabilmente Paolo non si pone nemmeno il problema se la sua apparizione sia reale o no; in ogni caso è stata un'apparizione a una donna, e le donne, per Paolo, non contano. Però, per sgombrare proprio ogni dubbio, a un certo punto si fa strada almeno nella Chiesa d'occidente l'idea che i "sette demoni" scacciati da Gesù non siano i sintomi di una possessione demoniaca, ma i peccati associati alla professione del meretricio. Meglio puttana che isterica - se mi è consentito condensare in poche parole il risultato di un dibattito secolare tra padri della Chiesa, teologi e agiografi e pontefici. Non puoi costruire seri dogmi di fede sulle testimonianze di un'indemoniata: puttana è meglio, dà più affidamento.

Poi c'è la questione del rapporto con Gesù. Per quanto scarsi, i riferimenti dei vangeli alla Maddalena sono sufficienti a farne la seconda donna più importante, dopo la Madonna – però Gesù non le risponde mai male, come si permette di fare qualche volta con la mamma. A quel punto la chiacchiera era inevitabile: insomma, Gesù è un trentenne, c'è questa tizia che lo segue per tutti i vangeli, vuoi vedere che...? Non è una deviazione moderna, se ne parlava già nei primi secoli, lontano dai centri di irradiazione maschile del credo ortodosso, nei circoli (spesso femminili) dove ribolliva quel brodo di credenze che per comodità chiamiamo Gnosi.

La Gnosi è un fenomeno un po' troppo complesso per spiegarlo qui. Grosso modo si trattava della new age del primo secolo: una serie di credenze misteriche che a volte pre-esistevano al cristianesimo, ma non tardarono ad agganciarsi alla figura di Gesù. C'è ancora da precisare che quelle che oggi chiamiamo "sette gnostiche" non avevano la percezione di esserlo: si consideravano cristiani pure loro. Ci volle qualche secolo, qualche concilio, qualche processo per eresia, perché si chiarisse il discrimine tra cristianesimo e gnosi. E siccome la storia la scrivono i vincitori, e spesso i libri dei perdenti vanno distrutti, noi non abbiamo un'idea nitida di quella che poi si è deciso di chiamare Gnosi. Però qualche paletto interessante possiamo piantarlo. Per esempio: gli gnostici si rifanno a rivelazioni che Gesù non avrebbe fatto a tutti, ma solo a un gruppo ristretto di "iniziati". Per contro, il cristianesimo è orgogliosamente essoterico, con due S: dogmi e insegnamenti sono accessibili a tutti, e anche i misteri sono misteri per tutti, non è che il Papa li comprenda meglio di noi.

Un'altra differenza notevole è che mentre il cristianesimo, già dalla generazione di Paolo, sembra affidato a una gerarchia maschile, nella gnosi le figure femminili mantengono ruoli di primo piano: e Maddalena assume un ruolo ancora più importante. Di questa cosa resta un'eco nei vangeli apocrifi più gnosizzanti, come quello secondo Filippo, dove addirittura Gesù "la bacia spesso" (gli esegeti si precipitano a precisare che il bacio gnostico non è quel che pensiamo noi, ma una trasmissione di saperi e di energie eccetera), al punto che gli altri apostoli fanno una scenata di gelosia perché ritengono che Gesù non li baci abbastanza. Nel vangelo di Tommaso c'è addirittura una promessa di transessualità: a Pietro che si lamenta che una femmina sia ammessa tra gli iniziati, Gesù replica che la trasformerà in un maschio, "perché ogni donna che farà di sé un uomo entrerà nel Regno dei Cieli". Il testo mantiene ancora un maschilismo di fondo: altrove l'eterno femminino è reclamato come portatore di saggezza, verità, energia, tutto quell'insieme di cose. Nel Pistis Sophia, il testo gnostico più completo che ci è rimasto, Cristo risponde a 64 quesiti dei discepoli iniziati. Di questi, 39 li pone Maddalena, e Cristo non cessa di lodarla. Da lì a considerarla sua sposa il passo era breve. C'è pure chi la voleva autrice del Vangelo di Giovanni, visto che l'autore si presenta come "il discepolo che Gesù amava": meglio lei del ragazzino, in fondo.

Un'altra possibilità è che fosse la moglie di Giovanni, oppure la sua fidanzata, poi votatasi alla verginità: ipotesi liquidata come fantasia da Iacopo di Varazze, il che è molto buffo perché Iacopo è l'agiografo di bocca buona per eccellenza, non c'è drago o mostro o supplizio che non valga la pena riportare: però una liaison tra Maddalena e Giovanni no, quella era meno verosimile del drago di San Giorgio. In ogni caso per la Chiesa ufficiale era meglio prostituta. Le prostitute sono simpatiche e non pretendono d'insegnare niente ai maggiorenni. Se poi si pentono tutti sono contenti, ma nessuno si aspetta di trovarsele in cima alla scala gerarchica, sopra gli apostoli o addirittura sullo stesso piano di Cristo.

Ecco, in effetti se vai in giro acconciata così
nella Palestina del I secolo poi per forza la gente
si fa certe idee.
Nel Pendolo di Foucault (1988), tre avventurieri da casa editrice si fanno stampare dal computer una sequenza randomizzata di frasi enigmatiche, e poi provano a utilizzarle per costruire una teoria del complotto. Il risultato finale è: Gesù non è morto, ha sposato Maddalena e ha fondato la dinastia merovingia. Quello è il senso del mistero del Graal: non un semplice calice che contiene il sangue di Cristo, ma l'utero pregno di Maria. Uno dei tre nota che la storia non gli è nuova, l'ha appena letta su un manoscritto che gli è stato proposto. In realtà il manoscritto era già stato pubblicato nel 1982 col titolo The Holy Blood and The Holy Grail, e aveva avuto un certo successo, tanto che nel 1987 i suoi autori  (Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln) ne avevano pubblicato un seguito. Questa nozione è fondamentale per evitare di considerare Umberto Eco un profeta, che pubblica stringhe randomizzate in un libro del 1988 che diventano nel 2003 la trama di un best seller mondiale, Il codice da Vinci. In realtà sia Eco che Dan Brown si rifacevano a The Holy Blood, quest'ultimo così apertamente che il nome del protagonista, Leigh Teabing, è un anagramma di Michael Baigent. Il testo del 1982 è considerato un incunabulo della letteratura pseudostorica, e in particolare di un filone così fortunato da essere diventato un genere a sé, all'incrocio tra la ricerca del Graal, le derive sui templari e il fantomatico priorato di Sion: il mistero di Rennes-le-Château (di solito evito di lincare wikipedia, ma meglio guardare lì che in altri siti, potreste imbattervi in troll antropomorfi e no).

Tra pseudostoria e fantarcheologia sta anche il documentario di Discovery Channel prodotto da James Cameron qualche anno fa, The Lost Tomb of Jesus, in cui veniva esibita una possibile tomba di Cristo, a Gerusalemme. Non solo la tomba custodiva delle ossa, il che ovviamente metterebbe in crisi duemila anni di fede nella resurrezione dei corpi; ma si tratterebbe di una tomba di famiglia, Gesù figlio di Giuseppe ("Yeshua bar Yehoseph" in un'iscrizione) sarebbe sepolto vicino a sua madre ("Miriam"), al padre o a un fratello ("Yose", diminutivo di Yehoseph), e a una donna con la quale non ha DNA in comune, di nome "Mariamene", variante di Miriam. Ci sarebbe anche un figlio, col nome meno intuitivo che Gesù avrebbe potuto dare a un figlio suo, Yehuda (Giuda). D'altro canto se Gesù ha avuto un figlio, forse non è nemmeno morto in croce e quindi Giuda non l'ha tradito e, insomma, il cristianesimo sarebbe tutto da rifare. Ma la storia fa acqua da tutte le parti: l'unico argomento a favore è la possibilità statistica di ritrovare, in Palestina, una famiglia con tante coincidenze con quella descritta dai vangeli: un Gesù che sia figlio di un Giuseppe e di una Maria, e sposato a un'altra Maria. In realtà come si è visto erano tutti nomi comunissimi, e poi perché mai dei galilei avrebbero dovuto comprarsi una tomba di famiglia nei pressi di Gerusalemme? E poi il non avere un DNA in comune non è un argomento molto probante per considerare Mariamene la moglie di Yeshua; e poi chi l'ha detto che Mariamene sta per Maddalena? Eccetera eccetera.

Nel frattempo la Chiesa cattolica ha chiesto scusa, con la sua proverbiale tempestività, nel 1969, ammettendo che Maddalena non è la buona donna nel senso eufemistico dell'epiteto. È stata persino cambiato un verso del Dies Irae: Qui Mariam absolvisti è diventato Peccatricem qui solvisti. Ma conta poco. Ormai il vangelo non è più proprietà della Chiesa, Vallo a spiegare a chi si è inflitto L'ultima tentazione di Scorsese, vallo a spiegare a chi guarda Jesus Christ Superstar e si commuove quando Yvonne Elliman canta Everything's alright o Could we start again, please? Rischi che ti diano del revisionista, uno che vuole purgare i vangeli dalle prostitute, mentre lo sanno tutti che nei vangeli c'è un sacco di prostitute, e Maddalena è la rappresentante di categoria...

A lei poi probabilmente la cosa neanche scoccia, voglio dire, quando sei a quei livelli possono dire di te quel che vogliono: indemoniata, isterica, puttana, regina merovingia, sposa di Cristo, eterno femminino, che differenza fa. Non ti tocca più niente.
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Esdra e l'invenzione d'Israele

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13 luglio - Esdra (V secolo a.C.), sacerdote.

[2014]. I mormoni che nel 1846 fuggirono dall'Illinois per fondare una nuova patria sulle rive del Grande Lago Salato. I giamaicani che a partire dagli anni Sessanta si trasferiscono a Shashamane (Etiopia) per stare più vicini a Ras Tafari, l'imperatore Hailé Selassié. Gli adepti del reverendo Jim Jones, pronti a seguire il loro Messia fino in Guyana, e poi all'altro mondo. Tutta questa gente che lascia la propria terra per arrivare in un'altra, dove quasi mai scorrono il latte e il miele promessi - tutta questa gente non sta improvvisando, il canovaccio è vecchio di migliaia di anni, ma chi l'ha scritto? È abbastanza impossibile saperlo, ma probabilmente è meno antico di quanto crediamo. Mosè dovrebbe essere vissuto più o meno verso la metà del secondo millennio avanti Cristo, ma gli storici ormai propendono per considerarlo un personaggio fantastico. Lo scontro col faraone, primo esempio storico di vertenza sindacale (finita malissimo), sarebbe un'invenzione molto posteriore, che riecheggerebbe un altro esodo, questo sì realmente accaduto: la deportazione babilonese. Proprio a Babilonia verso il sesto secolo prenderebbero forma le Scritture ebraiche, rielaborate intorno a nuclei più antichi. Come se gli Ebrei nascessero già in diaspora: con la consapevolezza di essere sparsi per il mondo, disuniti e perennemente minacciati nella loro stessa esistenza.

Trent'anni di lobbying e appena arrivate qui vi accoppiate coi nativi. È sconfortante.
Trent'anni di lobbying per ottenere una provincia autonoma,
e appena arrivate qui vi accoppiate con le indigene. È sconfortante.

A Babilonia, nel VI secolo, gli Ebrei cominciano a raccontarsi storie sul loro passato; storie che valgano la pena di provvedere a un futuro. Decidono di essere stati, prima delle invasioni assire e babilonesi, una grande nazione, guidata da grandi re: David e Salomone. Alla promiscuità di quest'ultimo viene imputata la decadenza successiva; ai peccati e alla disobbedienza di popolo e regnanti la divisione in due regni e le ripetute sconfitte, culminate con la deportazione. Ma se la diaspora è la punizione che Dio ha inflitto a un popolo disobbediente, il premio per un popolo obbediente non può essere che l'inverso: una Terra Promessa.

Ciro, lo Scià di Persia, che in una fase di recessione economica globale ha rilevato i resti dell'impero Babilonese, sembra sensibile all'argomento: la Palestina è un avamposto remoto, ma importante: un passaggio obbligato per le carovane dirette verso l'Egitto. Quando una lobby che rappresenta un gruppo di fedeli di un Dio di quella regione, un certo YHWH, gli propone di tornare là e cominciare a fortificare la zona, imponendo la pace imperiale alle burrascose tribù autoctone, Ciro sottoscrive l'editto, chissà se ci avrà pensato più di tanto. Era il Re dei Re, in quella mattinata gli capitò di suggellare tante altre tavolette o papiri che credeva assai più importanti, decisioni che avrebbero dimostrato ai posteri la sua illuminata potenza. Altro che le beghe di una piccola regione periferica, di cui nessuno probabilmente si sarebbe ricordato da lì a trent'anni...

L'Esdra biblico è un personaggio appena abbozzato; compare in un paio di scene, e non se ne sa più nulla. Il suo libro è tra i più frammentari e rimaneggiati del canone biblico. Una specie di backdoor ben occultata; se riusciamo a trovarla possiamo guardare le Scritture dal lato di chi le ha scritte. La storia si capovolge; Mosè diventa una proiezione di Esdra; l'esodo dall'Egitto è il ritorno a Gerusalemme; i popoli sterminati da Giosuè alludono ai popoli con cui il nuovo Israele non doveva mescolarsi; il Primo Tempio è un sogno concepito intorno al Secondo; il Faraone che insegue i suoi manovali è l'immagine specchiata dello Scià Ciro che lascia partire volentieri una tribù stanca di vivere mescolata alle altre.

Il sacerdote Esdra non è tra i primi ebrei che tornano a casa. Non assiste ai primi tentativi di costruire il tempio; non c'è quando i nemici cominciano a tramare e a mandare messaggi allarmisti alla corte del nuovo Scià, Dario. Esdra arriva anche venti anni più tardi, verso il 500. Porta con sé i rotoli della Legge, di cui darà solenne lettura davanti a tutto il popolo: la storia di un Mosè che aveva guidato i suoi fedeli fuori dall'empio Egitto, e di un Giosuè che li aveva ricondotti nella Terra Promessa, sterminando dietro richiesta divina i suoi indegni abitanti.
Alcuni gruppi concepirono anzi ed impostarono il nuovo esodo come un'impresa basata su una sorta di organizzazione para-militare e con forte conflittualità verso i gruppi residenti. La visualizzazione del popolo in marcia attraverso il deserto deve qualcosa a questa impostazione para-militare; ma deve anche qualcosa (e forse molto) all'esperienza delle deportazioni imperiali. Già la promessa divina del tipo "io vi farò abitare in un paese in cui scorre il latte e miele" è significativamente consonante con l'assicurazione del rab-saqe assiro di dare a chi si sottomette la possibilità di andare ad abitare in un paese fertile e produttivo. Altrettanto indicativo è il timore serpeggiante nel popolo in marcia, di non trovare nella terra di destinazione condizioni di vita adeguate alle promesse e alle speranze - timore che riflette lo stato d'animo di chi nella diaspora doveva decidere se affrontare o meno i rischi del rientro. E soprattutto gli elenchi o censimenti (Num. 2; 26) del popolo diviso per gruppi familiari e per clan risentono di un tipo di registrazione amministrativa che veniva applicata ai gruppi di deportati, al fine di controllarne il numero (nonché le inevitabili perdite in corso di trasferimento) e le mete finali (Mario Liverani, Oltre La Bibbia, Laterza, 2003). 
Esdra porta con sé un'ulteriore ideuzza destinata ad avere, anch'essa, una lunga fortuna: la purezza etnica. La prima cosa che fa quando arriva è stracciarsi le vesti in segno di protesta: i capifamiglia gli hanno appena accennato il problema dei matrimoni misti.
Udito ciò, ho lacerato il mio vestito e il mio mantello, mi sono strappato i capelli e i peli della barba e mi sono seduto costernato. Quanti tremavano per i giudizi del Dio d'Israele su questa infedeltà dei rimpatriati, si radunarono presso di me.
Matrimonio Israele
È tuttora una questione spinosa.


Esdra rimane seduto e costernato diverse ore, fino al sacrificio serale. Poi cade in ginocchio e prorompe: "Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare, Dio mio, la faccia verso di te, poiché le nostre colpe si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa; la nostra colpevolezza è aumentata fino al cielo" e bla bla bla, insomma stava andando tutto bene, e che mi fanno? Cominciano a sposarsi con le donne del luogo. Ora non dico che vadano sterminate – come c'è pur scritto che avremmo fatto un millennio fa in quel rotolo che abbiamo messo assieme a Babilonia – ma sposarle, farci i figli... l'assimilazione culturale... e nel giro di due o tre secoli finisce che mangiamo maiale pure noi, e poi come faranno gli archeologi del Duemila a capire se in tale insediamento ci stavano i canaaniti o gli israeliti? [sul serio, l'unica differenza spesso sta nei resti di ossa di maiale].
Ma ora, che dire, Dio nostro, dopo questo? Poiché abbiamo abbandonato i tuoi comandi che tu avevi dato per mezzo dei tuoi servi, i profeti, dicendo: Il paese di cui voi andate a prendere il possesso è un paese immondo, per l'immondezza dei popoli indigeni, per le nefandezze di cui l'hanno colmato da un capo all'altro con le loro impurità. Per questo non dovete dare le vostre figlie ai loro figli, né prendere le loro figlie per i vostri figli; non dovrete mai contribuire alla loro prosperità e al loro benessere, così diventerete forti voi e potrete mangiare i beni del paese e lasciare un'eredità ai vostri figli per sempre...
Va avanti così per molti altri versetti, ma insomma il senso è chiaro. Mentre piange e si dispera, intorno a lui si forma un crocchio di fedeli che cerca di consolarlo. Alla fine uno di loro (Secania, figlio di Iechiel) prende la parola: dai Esdra, possiamo ancora salvarci. Che ne dici se divorziamo tutti quanti in una volta, e rimandiamo le nostre mogli infedeli ai loro genitori? E i figli? Anche i figli naturalmente. Al che Esdra, snif, si calma un po': dite che è possibile? Massì, Esdra, che ci vuole. Un bel divorzio collettivo, magari per ogni moglie offriamo anche un ariete in sacrificio. E va bene, mi avete convinto. Ma d'ora in poi guai a chi sgarra."Con Ezra", spiega ancora Liverani, "si conclude l'elaborazione della Legge, si chiude anche l'elaborazione storiografica, cessano di agire i profeti, il sacerdozio di Gerusalemme ha pieni poteri".

Lo Utah dei mormoni, l'Etiopia dei rastafariani, la Guyana di Jim Jones. Tutte queste terre promesse, senza Esdra, ci sarebbero state? Probabilmente sì; è difficile immaginare che un oscuro sacerdote ebraico-babilonese a cavallo tra sesto e quinti secolo a.C. sia la causa di tutto. Più probabilmente è solo il primo sintomo di qualcosa che ci portiamo dentro: il retaggio di millenni di nomadismo, una propensione ancestrale ad andarcene da qualche parte dove finalmente saremo soli, saremo puri, saremo noi. Poi ci arriviamo e c'è sempre qualcun altro.
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Rita l'impossibile, una spina nel cervello

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Con l'aiuto dell'Onnipotente vincerò

22 maggio - Santa Rita da Cascia (1381-1447), donna dei prodigi.




[2012]. Erano mesi che aspettavo, ma finalmente oggi è il 22 maggio e vi posso mostrare in tutto il suo splendore la monumentale Santa Rita di Cascia di Santa Cruz, Rio Grande do Norte, Brasile. Coi suoi 56 metri d'altezza, la signorina qui (opera di Alexandre Azedo Lacerda) può serena-mente mangiare in testa al Redentore di Rio de Janeiro, e anche la Statua della Libertà deve stare molto, moolto attenta, che Rita è appena un metro più bassa, ma ha l'aria più robusta. Poi che altro dire. Io la prima volta che l'ho vista ho avuto un'illuminazione, ho capito che dovevo tenere una rubrica dei santi da qualche parte. Solo i santi ispirano cose del genere. I santi, i supereroi americani e i robot giapponesi, ma sulla distanza io non scommetterei troppo su Daitarn3 o l'incredibile Hulk. Rita c'era prima di loro e ci sarà anche quando loro se ne saranno andati, con la sua spina retrattile in fronte e il suo crocione contundente. Ma chi era Santa Rita da Cascia? Perché la chiamano la Santa degli impossibili? Ma anche: dove accidenti è Cascia? In provincia di Perugia. Rita è una di quelle sante più invocate che conosciute, e c'è un motivo. La Rita originale, quella su cui si sono incrostati i miracoli più fantasiosi, è un personaggio piuttosto inquietante.


Nata sul finire del difficile XIV secolo (epidemie, recessione economica, terremoti, tutto un repertorio che ormai vi è noto), Rita è un altro esempio anti-romantico e anti-illuminista di donna che vorrebbe disperatamente entrare in convento, se la famiglia non la costringesse a sposare un uomo violento e darle due figli. Il marito, ufficiale di qualche soldataglia di ventura, finirà ammazzato in una delle classiche faide famigliari con le quali si ingannava il medioevo nei piccoli centri. Se Sant'Albano è un Edipo battezzato alla benemeglio, Rita è la Medea cristiana, che per spezzare le catene dell'odio non uccide i suoi due figli, ma prega Dio di prenderseli con sé alla svelta, che alla fine è la stessa cosa. Nel giro di un anno Dio la esaudisce: i figli muoiono, la faida secolare s'interrompe, ma il senso di colpa la schianta. Forse la spina che le si conficca nel cervello, trent'anni più tardi, ne è ancora un segno.

Rifiutata dal convento delle agostiniane, Rita si fa miracolosamente paracadutare entro le mura di cinta dai suoi tre amici altolocati: Sant'Agostino, San Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, non ancora santo ufficiale (ma grazie a lei lo diventerà). Quando se la ritrovano in casa, le sorelle fanno buon viso a cattivo gioco: bisogna dire che all'inizio Rita è la collega ideale, se ne sta sempre confusa sullo sfondo. L'unico episodio singolare avviene nel 1432, quando al termine della funzione del Venerdì Santo sulla sua fronte spunta una spina della corona di Gesù. La badessa proibisce allora a Rita di recarsi a Roma in pellegrinaggio, ché non son cose da mostrare in giro, le suore trafitte da spine. Rita al pellegrinaggio ci tiene molto, ha intenzione di perorare la causa di beatificazione di Nicola da Tolentino: così la spina per qualche giorno si ritrae, e Rita può partire. Ricomparirà miracolosamente al suo ritorno a Cascia. Ha ormai cinquant'anni: porterà la spina in fronte per altri quindici, medicando quotidianamente la ferita, il suo chiodo fisso. Le cronache non riportano altre stranezze, salvo una stravaganza che la vecchierella si sarebbe concessa sul letto di morte: a un parente venuto a trovarla chiese di portarle una rosa del suo vecchio orto. Il tizio osserva, imbarazzato, che siamo in pieno inverno, ma si reca ugualmente nell'orticello e in mezzo alla neve... trova una rosa appena sbocciata. È chiaramente un miracolo postumo, suggerito a qualche anonimo predicatore dall'elemento della spina. Sono postumi, e di origine antichissima, anche i miracoli a base di api, che le avrebbero depositato il miele nella bocca da bambina (lo stesso prodigio è attribuito a Sant'Ambrogio e ad altri).


Lo sai che non esisti? O se esisti, esisti male?
La vera carriera di Santa degli Impossibili comincia immediatamente dopo il trapasso: guarisce la zoppia del falegname venuto a farle la cassa. La stessa bara verrà rimossa e sostituita da una teca di cristallo e argento, man mano che i prodigi concessi ai fedeli si faranno più eccezionali e sorprendenti. All'interno della teca, il suo corpo si conserva mirabilmente, dicono: attualmente testa mani e piedi sono incartapecoriti, e sotto l'abito si indovinano le ossa. Ma va bene così, c'è fior di santi che sono durati anche meno di sei secoli. Per il resto la Chiesa ufficiale è scettica, a canonizzarla ci mette quattrocento anni, finché a furia di miracoli Rita non riesce a convincere anche Leone XIII, che la nomina santa già nel 1900.

A questo punto dovrei enumerare, con esibita ironia, i miracoli più eccezionali attribuiti alla Santa dal Cinquecento in poi, ma non me la sento. Per prima cosa, un elenco di siffatti miracoli non è poi così facile da trovare, e i più famosi (la spina, la rosa, le api) si lasciano smontare fin con troppa facilità. Ma i classici miracoli di Rita sono fatti privati: un marito disperso in guerra, un cancro al pancreas, una media del quattro in greco. Dietro a ogni ex voto c'è una storia di disperazione e un fiore sbocciato all'improvviso, e io mi sento a disagio, con la disperazione non si scherza. Non mi piace chi ci specula su nelle dirette del pomeriggio, ma farci dell'ironia non sarebbe un modo appena un po' più elaborato di specularci su? Un giorno potrebbe capitare anche a me di trovarmi in guai così grossi da invocare una santa degli impossibili: prego che non succeda mai, ma appunto, chi prego?

Uno dei miei miracoli preferiti è quello che portò l'anziano Dino Buzzati, nel 1970, a scrivere e dipingere il suo ultimo capolavoro, I miracoli di Val Morel. Nella prefazione spiega di aver trovato, durante una delle sue camminate in montagna, un vecchio santuario dedicato alla santa, rivestito di ex voto naïf che in realtà fu proprio Buzzati a dipingere negli ultimi mesi di febbrile lavoro. Sapeva di avere poco tempo a disposizione, ma in fondo era Buzzati, lo sapeva da una vita. Nelle tavole la Santa è già una super-eroina che sconfigge i mostri giganti e i mostri sotto il letto, ammaestra le formiche del cervello, salva i grattacieli abbattuti dalla folgore. Buzzati è uno dei più grandi scrittori e inventori di immagini che abbiamo avuto, ma facciamo ancora fatica a riconoscerlo, a riconoscergli un posto nel canone. È un po' la stessa fatica che dovette fare Rita per imporsi nel calendario. Entrambi lavoravano con la nuda disperazione, un argomento che nelle accademie non si porta molto bene. Nessuno li stronca più, ormai, ma nessuno ha il coraggio di invocarli a voce alta. Li preghiamo di nascosto, la sera: spirito di Dino Buzzati, fammi fare sogni orribili che io possa raccontare, fammi dormire qualsiasi sonno tranne quello noioso dei giusti.
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Giorgio il megalomartire

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23 aprile - San Giorgio, cavaliere (III secolo).

[2012]. San Giorgio un giorno s'è stufato, di ammazzare draghi e salvare fanciulle che poi alla fine si sposano sempre con coltivatori diretti e fanno tre bambini. San Giorgio di Portogallo. Di Ferrara. San Giorgio di San Giorgio a Cremano. Un giorno ha spento la sveglia ed è rimasto a letto, lo ha chiamato la segretaria verso le 8.05.

“Cavaliere, tutto bene?”
“Insomma”.
“Cavaliere lei forse non si ricorda ma stamattina avevamo un appuntamento per le otto, c'è un drago nel Polesine, una dozzina di fonti da bonificare, e inoltre...”
“Il drago nel Polesine, ricordo benissimo”.
“Cavaliere c'è qualcosa che non va?”
“Sono un po' depresso Teresa”.
“Si mette in mutua? In aspettativa? Cavaliere mi scusi eh, ma io a quest'ora lo devo sapere, se devo chiamare un supplente...”
“Sì, ecco, chiamate Demetrio”.
“Cavaliere, Demetrio è morto”.
Clic.

San Giorgio di Lituania. Di Catalogna. Di Reggio di Calabria. Un giorno si è stufato e basta. Hai voglia a dire la vocazione. Cos'è poi questa famosa vocazione? Siamo bambini di campagna, ci sbucciamo i ginocchi sulla ghiaia, un giorno arriva la fanfara: arruolati nella cavalleria! Girerai il mondo! Ucciderai i draghi, salverai le fanciulle! Bivaccherai sulle vette più alte!

“Si suona la chitarra nei bivacchi?”
“Prima si ammazzano i draghi, poi si suona la chitarra”.
“Cosa sono i draghi?”
“Sono bestie cattive sputafuoco, minacciano le nobili fanciulle, quando sono giovani guizzano un po' ma li trafiggi facile”.

Allora, tanto per cominciare non è vero che sputano fuoco. Forse una volta, sicuramente nelle favole. È un modo romantico di nascondere la prosaica verità, ovvero che i draghi hanno un alito pestilenziale, se sbuffano sai di fogna per tre settimane. Sono bestie anfibie ma non si lavano, anzi sporcano dappertutto, si installano in un fiume e ci fanno palude. E gli escrementi, quando ti arruolano non ti parlano mai degli escrementi. Tonnellate da smaltire, e mai – mai – mai! una sola pentola d'oro. Al limite qualche minorenne impaurita e incrostata dai liquami che non ti dice grazie. Giorgio cova il dubbio che alle tizie il drago sotto sotto piaccia. Coi genitori non lo ammetteranno mai, ma... È quel tipo di mostro virile che si fa strada nel parcheggio delle scuole con un sei marce scoppiettante, il maschio alfa, le ragazzine fiutano il testosterone e la morchia, una cosa che fa ribrezzo. Giorgio certe mattine sotto l'elmo vorrebbe portare la mascherina, si è anche informato, pare non si possa.

“Che figura ci facciamo con gli utenti”.
“Sono allergico al polline”.
“Tu sei San Giorgio, il Megalomartire”.
“Ma infatti, sono già morto di choc anafilattico sotto Diocleziano”.

San Giorgio di Georgia, Caucaso. San Giorgio di Georgia, USA. San Giorgio in Campobasso. Non è che rivanghi così spesso i vecchi tempi. Quando i draghi erano verdi e non marron, e sprigionavano una deliziosa fiammella al sentor di diavolina, te la ricordi Demetrio l'odore della diavolina a Champorcher -

“Giorgio, la devi smettere di parlarne con me. Io sono morto, non sta bene”.
“Come sarebbe a dire che sei morto, scusa, quando sarebbe successa questa cosa”.
“Una sera eravamo usciti, con Michele e Gabriele, un drago è spuntato da una curva”.
“Una curva. Sempre una curva. Ma si può sapere cosa ci stanno a fare tutte queste curve in Terrasanta”.
“Giorgio non fare il cretino. Tirati su”.
“Demetrio ma tu ci pensi mai a me?”
“Non è che uno nella mia condizione può pensare o non pensare, eh, non è così che funziona”.
“Perché io a te ci penso tutti i giorni”.
“Tutti i giorni tu pensi alla morte, che è una cosa diversa. Datti una mossa”.
“Ah io vorrei tornare anche solo per un dì lassù nella valle alpina”.
“Renditi utile. C’è un drago da ammazzare a Vieste”.
“Là tra gli alti abeti ed i rododendri in fior, distendermi a terra e…”
“Fai bene a cantare. I cavalieri sorridono e cantano nelle difficoltà”.
“Mi sono rotto i coglioni, Demetrio”.
“È una mattina come un’altra, nuvoloso tendente al bello, apri i biscotti al cioccolato”.
“Non mi piacciono i biscotti al cioccolato”.
“Alla fine li mangiavi”.
“Li mangiavo perché io sono così, io non mi lamento, sono laborioso ed economo, se in cambusa c’erano solo biscotti al cioccolato perché a te piacevano, a te, non c’era ragione perché non li mangiassi anch’io, però, se devo dire la mia, i biscotti al cioccolato non sono i miei preferiti, va bene? Ma perdio, sono un adulto ormai, avrò ben il diritto…”
“Apri i tarallucci”.

Io sono San Giorgio, il Megalomartire. Sono morto tre volte, tre volte resuscitato. Mi hanno tagliato in due e mi sono ricucito. Cavati gli occhi, mozzata la lingua, di’ un supplizio a caso, me l'han fatto. La cistifellea? Senza anestesia. L’altro giorno il dentista mi ha guardato il molare 35 e ha detto “una cosa da niente”, poi mi ha conficcato nella gengiva un perno grosso come un picchetto da tenda. Non è che mi lamento, ma sai cos’è una colica renale? È peggio di una colica biliare. Sai cos’è una colica biliare? Ho l’anemia mediterranea. Tutta una serie di dermatiti misteriose. Sono allergico alle noccioline. All’uva passa. Alle mele. Alla buccia delle arance. Ho l’intestino rapsodico e il cuore asincrono, non tiene il tempo, me lo sento continuamente in petto, l’altro giorno mi faceva anche un po’ male e il medico mi ha mandato al pronto soccorso, mi hanno detto che non era infarto. Come sarebbe a dire non è un infarto? Poteva essere un infarto? Sono sempre stanco. Mi avrà morso un drago malarico, che vi devo dire. Gli antistaminici mi deprimono. Le droghe causano sonnolenza. Io volevo solo fare il chitarrista.

Ammazzare i draghi dicono che è un bel mestiere, che uno lo deve fare per passione, per la gioia di lasciare il mondo migliore di come lo si è trovato, come no, la gioia di spalare tonnellate di merda per utenti che non si ricordano nemmeno come si coniuga il verbo ringraziare. La paga, ora non vorrei rivangare, però è una vergogna. E i draghi sempre più grossi. Ogni anno che viene ce n’è di più. Alla fine, sai cosa ti viene da pensare? Che l’errore sono io. Se non ci fossi io, tutte le mattine, a tappare un’emergenza, col dito nella falla della fogna, forse si accorgerebbero che c’è un problema, forse la puzza diventerebbe insostenibile, forse la pentola scoppierebbe, lo vedi che alla fine è tutta colpa mia Demetrio?

“Non so, non rispondo”.
Dai che lo sai.
“Vai pure avanti così, fatti dare la ragione dai morti, complimenti”.

San Giorgio d’Inghilterra, dove non mi pregano più. San Giorgio di Genova, ma lì fanno finta di non riconoscermi. Sono nato da nessuna parte in particolare, sono morto sotto Diocleziano come tutti. Sono sempre esistito, i miei maestri si chiamano Perseo e Marduk. Non li vado a trovare spesso, vivono in campagna, hanno fatto dozzine di bambini che hanno reso centinaia di nipoti. Tutti cortesi, amanti della natura, puri di pensieri parole azioni. All’Accademia dormivo in camerata con San Maurizio e San Martino. Sono ancora miei amici su facebook, a volte a tarda ora ci linchiamo vecchi canti di bivacco che troviamo su youtube.

“Senti, non te l’ho mai chiesto, ma sei stato tu quella sera a Crocette, a farmi lo scherzo della spada?”
“Che spada?”
“A Crocette di Pavullo, una sera. Ci eravamo appena coricati, e nel buio davanti a me all’improvviso è apparsa una spada di luce”.
“Perché non hai detto niente?”
“Pensavo che uno di voi due mi stesse facendo uno scherzo con la torcia elettrica”.
“Io no di sicuro”.
“Sarà stato Martino”.
“Martino è morto”.
“Ma piantala”.
“Un drago non ha visto uno stop”.
“Comincio ad averne abbastanza”.
“Sarà stata la luce di sicurezza, a volte si illuminano all’improvviso”.
“Era più affusolata, una specie di spada”.
“E poi? È scomparsa?”
“Tre volte si è accesa, due volte si è spenta”.
“Il riflesso di fari di auto in curva dalla fessura degli scuri della finestra. Ma cos’è successo la terza volta?”
“Non lo so, mi sono voltato”.
“Cosa hai fatto?”
“Mi sono voltato, di solito dormo pancia in giù”.
“E se era Dio?”
“Non era Dio, adesso Dio fa gli scherzi con le torce elettriche, andiamo. Era Martino. Oppure eri tu”.
“Non ero io”.
“Non ti ricordi, capirai, uno scherzo con la torcia che hai fatto a dieci anni”.
“Hai paura di aver deluso Dio?”
“È Dio, se ne sarà fatto una ragione”.

Drin!
“Pronto”.
“Cavaliere buongiorno, le volevo dire per quel drago in Polesine, abbiamo risolto”.
“Avete trovato Demetrio?”
“No abbiamo chiesto a Perseo”.
“A Perseo? Quel Perseo? Ma è in pensione!”
“Ci aveva detto che in caso di emergenza potevamo chiamarlo, così…”
“Ma non potete… ma guardate che è una cosa… cioè ma lo capite cosa state rischiando? Ha tremilacinquecento anni e pretendete che vada ad ammazzare un drago, un drago di adesso? Ma non sa neanche più come sono fatti, ci vien fuori un disastro”.

“Cavaliere, cosa dobbiamo fare, lei è depresso e a noi serviva un supplente”.
“Ma uno giovane”.
“Graduatoria esaurita”.
“Teresa mi sta prendendo in giro”.
“Vuole venire qua a vedere?”
“No voglio stare a letto! Perché sono depresso! Ho sempre sonno!”
“Come vuole cavaliere, si ricordi solo di portare il certificato e rendere la spada”.
“La spada”.
“Le passo Perseo”.
“Cosa? No”.
“Non vuole parlare con Perseo?”
“Vaffanculo, no. Lo mandi a casa. Gli dica di salutarmi i nipoti, tutti e centocinque”.
“Ci va lei allora in Polesine?”
“Vaffanculo sì, ci vado io”.
“Lei però non dovrebbe parlarmi così. Dovrebbe essere più cortese”.
“Vaffanculo sì, dovrei essere cortese e amico di tutti, perché sono San Giorgio Ammazzadraghi, tutti i giorni mi sveglio e ne ammazzo un paio, tutti i giorni spalo la merda, questo sono io, va bene? San Giorgio degli arcieri, San Giorgio Cavaliere, San Giorgio degli scout, sono pronto. Seppellitemi impiccato al mio stendardo. Bianco e rosso.
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Kateri, il giglio dei Mohawk

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La cresta che in italiano chiamiamo "moicana", in realtà è mohawk. I moicani erano loro nemici e avevano i capelli lunghi.
17 aprile - Santa Kateri Tekakwitha (1656-1680), vergine mohawk

[2014]. Di solito gli irochesi attaccano su due fronti; accerchiano il villaggio; uccidono i guerrieri feriti, gli anziani, i bambini troppo piccoli e in generale chi non reggerebbe la fatica di un lungo viaggio a piedi. Ai restanti prigionieri viene tagliato un dito a scopo di identificazione; nel frattempo un messaggero viene mandato al villaggio per avvertire che la piccola guerra è andata bene. Lungo il cammino i prigionieri che cadono vengono terminati rapidamente a colpi d'ascia e abbandonati insepolti. Quando finalmente arrivano al villaggio, un capannello di osservatori si fa avanti per percuoterli un po'. Vengono spogliati e torturati con più professionalità dalle donne, specie le più anziane ed esperte. A questo punto venivano nutriti e potevano riposare; quindi erano fortemente invitati a danzare in cerchio mentre il consiglio del villaggio deliberava sul loro destino. I nuclei famigliari che avevano avuto un lutto recente avevano la facoltà di adottare uno dei prigionieri, che in caso contrario veniva ulteriormente torturato, ucciso e parzialmente mangiato. Il prigioniero adottato diventava membro della famiglia a tutti gli effetti, e dalla sua disponibilità a impersonare il parente precedente morto in guerra o in malattia dipendeva la sua sopravvivenza: se non riusciva a integrarsi poteva essere ucciso anche dopo qualche anno. Anche la madre di Kateri Tekakwitha divenne mohawk in questo modo, quando era bambina. Di nascita era algonchina, di una tribù cattolica e filofrancese; gli irochesi (di cui i mohawk facevano parte) in questa fase acquistavano armi da olandesi e inglesi, e attaccavano i francesi che si ostinavano a comprare pelli di castoro da altri popoli.

Le "longhouse" irochesi, condomini plurifamigliari (anche la Conferazione delle Sei Nazioni era concepita come una longhouse; i mohawk guardavano la porta orientale).
Gli irochesi erano tutto meno che un popolo in simbiosi con la natura. Giunti da sud nel medioevo, miravano a diventare la potenza egemone di tutta la zona tra i Grandi Laghi e il Mississippi che in alcune mappe europee si chiamava invece Nuova Francia. La loro idea di egemonia prevedeva il genocidio e l'assimilazione delle tribù nemiche. Da un punto di vista economico, miravano al monopolio della vendita di pelli del castoro gli europei, e questo era un buon motivo per combattere contro le tribù alleate dei francesi. Pazienza se nel frattempo la caccia sistematica dell'animale lo stava portando all'estinzione in una vasta porzione del suo habitat. Cacciatori e guerrieri erano costretti a viaggi sempre più lunghi, il che aumentava il prestigio e l'importanza delle donne che restavano a casa. Alle donne appartenevano terreni e abitazioni; soltanto loro conoscevano i misteri delle "tre sorelle" (mais, fagioli, zucche), senza le quali anche i più potenti guerrieri non avrebbero saputo come riempire la scodella quotidiana. E tuttavia le donne dovevano sposarsi e avere figli: era l'unico destino concesso. L'infertilità era connessa con la stregoneria e con altre sciagure. D'altro canto, divorziare sembrava straordinariamente facile: bastava posare i mocassini del marito fuori dalla casa.

Di solito è raffigurata senza i segni del vaiolo, con tratti somatici quasi europei (del resto dopo la morte ai gesuiti sembrava "più chiara").
non molto credibile
Kateri però non voleva sposarsi. Quando le presentarono un pretendente (a 14 o a 17 anni), se la squagliò senza tante cerimonie. Ora faccio l'avvocato del diavolo: Kateri non era un buon partito. Non per via delle origine algonchine, dal momento che l'abitudine a rimpolpare le famiglie con prigionieri di altre tribù aveva reso gli irochesi un melting pot più amalgamato del nostro: dopo l'epidemia del vaiolo del 1662 gli etnologi calcolano che il 90% dei mohawk non fossero di origine mohawk.

Nella stessa epidemia però Kateri aveva perso la famiglia e la bellezza: i segni del vaiolo le sfiguravano la fronte. Aveva anche una vista assai debole, il che non le impediva di essere un'artigiana molto abile. La zia che l'allevava non aveva probabilmente né l'interesse né la possibilità di trovarle un guerriero bello e forte: bisognava arrangiarsi. Le fonti gesuite ovviamente non scrivono così, bensì:
Tekakwitha crebbe senza scuola e senza studio, amante soltanto della solitudine e del lavoro, ma la grazia di Dio la condusse per vie misteriose alla pratica eroica di tutte le virtù, specialmente di quella più sconosciuta agli Indiani, la castità.
E può anche darsi che abbiano ragione; che Kateri non disprezzasse unicamente il suo promesso sposo, ma il matrimonio e il congiungimento carnale in sé. Persone del genere esistono in tutte le culture e a tutte le latitudini. Fu la scelta di non sposarsi - che nella cultura mohawk l'avrebbe portata dritta a un'accusa di stregoneria - ad avvicinarla ai "vestenera", i missionari gesuiti. Ogni villaggio ne aveva uno: lo prevedeva una clausola di una pace da poco firmata coi francesi. Qui bisognerebbe aprire una parentesi enorme sul ruolo dei gesuiti, che abbinavano a una devozione fanatica una duttilità etnologica veramente in anticipo sui tempi. Ovunque arrivano - e arrivano ovunque, sprezzanti dei rischi di martirio - i gesuiti sanno di non trovarsi semplicemente in mezzo a selvaggi, ma al cospetto di culture da interpretare e studiare. Saranno i primi a pubblicare grammatiche giapponesi e azteche; ma a differenza degli antropologi di oggi, che sono portati a considerare ogni popolo come una nicchia da preservare, anche a costo di impedirsi di conoscerla, i gesuiti sono in missione per conto di Dio. La cultura che si portano con sé, dall'Europa sconvolta dalle guerre di religione, la vogliono spargere nel Nuovo Mondo, innestandola su piante autoctone ed esotiche, nella speranza che da qualche parte nella foresta o nella jungla nasca qualcosa di simile a un regno dei cieli, o anche solo una Repubblica di Indios conversi come in Paraguay. Anche in Nuova Francia erano riusciti a farsi intestare delle seignuries, dei feudi. Il piano era infettare le Sei Nazioni come un virus, portando armi e sacramenti.

Un po' più realistico.
più credibile
Quando aveva 12 anni, nel suo villaggio a Caughnawaga si celebrò la decennale festa dei morti. Il cerimoniale prevedeva la riesumazione di tutti i cadaveri morti durante il decennio, i cui spiriti finalmente avrebbero potuto volare verso ovest. Il vestenera Padre Pierron si oppose all’usanza, contestandone la logica: se i vostri morti devono volare, perché li seppellite? Se li seppellite, perché poi li riscoperchiate? E anche da un punto di vista igienico, c’è il rischio di epidemie. Era un discorso pericoloso, e Pierron poté proseguirlo soltanto grazie all’intercessione del capo Oneida Garakontié. L’episodio ci è utile per capire la forza della penetrazione gesuita: Pierron riuscì a convincere i capi a non celebrare la festa, a non onorare più il dio della guerra e a non intraprendere più iniziative belliche sulla base dei sogni. In cambio i francesi si impegnavano ad acquistare castori e a vendere armi da fuoco. In sostanza era la liquidazione della cultura guerriera irochese, ma in quel momento dovette sembrare un buon affare. Garakontié si convertì l’anno dopo; Ganeagowa – il capovillaggio di Caughnawaga nel 1671, dopo aver stabilito una rotta commerciale con un accampamento francese sulle rive del San Lorenzo.

Nei villaggi Mohawk nasceva la contrapposizione tra clan filo-francesi e filo-inglesi. I francesizzanti erano cattolici e meglio armati: i gesuiti riuscivano anche a trafficare armi, benché la cosa non andasse a genio alle guarnigioni francesi. I filo-inglesi difendevano le tradizioni, i riti degli antenati; e anche l’alleanza con gli europei protestanti era a quel punto una tradizione secolare (i protestanti non avevano mai cercato di evangelizzarli; al massimo di ubriacarli con l’acqua-di-fuoco). Gli zii di Kateri erano filo-inglesi e non consentivano ai gesuiti di entrare nella loro casa. D’altro canto erano spesso fuori loro, lo zio a caccia e la zia nell’orto; i gesuiti invece erano liberi di curiosare a casa di chiunque, e presto o tardi padre Jacques Lamberville incontrò anche la diciottenne Kateri.

Facciata della basilica di Sainte-Anne-de-Beaupré, dalle parti di Quebec City.
Facciata della basilica di
Sainte-Anne-de-Beaupré,
dalle parti di Quebec City.
Fu subito deliziato dalle virtù di una ragazza che fino a quel momento non aveva mai studiato dottrina: difficilmente poteva conservare qualche ricordo della madre, morta quando aveva quattro anni, e comunque già in precedenza assimilata alla cultura mohawk. Ma i gesuiti erano diversi da tutte le persone che Kateri aveva conosciuto: non si sposavano, non avevano figli; Kateri desiderava un destino simile. Lamberville fu talmente impressionato dalla sua vocazione da impartirle il battesimo dopo appena un anno di catechismo. Era un evento eccezionale: i gesuiti non avevano molta fiducia nella costanza degli amerindi e li battezzavano soltanto sul letto di morte. Kateri era diversa. Fu Lamberville a darle quel nome, la versione mohawk di “Caterina”, in onore dell’anoressica di Siena. Non sappiamo come si chiamasse in precedenza.

Le fonti gesuite raccontano con dovizia di particolari la vita difficile della conversa Kateri, perseguitata da zie e zii che la volevano sposa e pagana. Monelli del villaggio assoldati per insultarla e prenderla a sassate “al grido di cristiana”. Aggressori inviati dallo zio a “minacciarla di morte facendole roteare una scure sopra il capo”, a cui avrebbe risposto: “Eccomi pronta. Puoi togliermi la vita, ma non la fede”. L’atmosfera diventò veramente pesante solo quando qualcuno mise in giro la voce di una tresca col padre adottivo. Discutendo in pubblico, Kateri lo aveva nominato senza soggiungere, secondo l’uso, l’espressione “mio padre”. Per qualche vecchia malelingua di famiglia questo equivaleva a un’ammissione di colpa.

Ai mohawk filofrancesi, quando se la vedevano brutta, restava la possibilità di scappare nel Canada francese. I gesuiti li aspettavano a braccia aperte: il villaggio che avevano fondato per loro vicino a Salto San Luigi si chiamava Caughnawaga, come quello vecchio dall’altra parte del fiume. Kateri arrivò nel 1677, con una lettera di raccomandazione di padre Jacques.
“Caterina Tekakwitha viene a Salto San Luigi. Vi prego di volervi interessare della sua direzione. Conoscerete presto il dono che vi facciamo; è un tesoro”.
I gesuiti di Salto San Luigi non conobbero mai veramente Tekakwitha. Esteriormente, non fece nulla per deludere le aspettative di chi si immaginava un miracolo di castità, il “giglio dei mohawk”. Le pratiche sadomasochistiche che già probabilmente aveva coltivato al villaggio rimasero confinate all’ambito delle sue nuove amiche, tra cui Anastasia Tegonhatsiongo, che aveva conosciuto sua madre, e l’amica del cuore Maria Teresa Tegaiaguenta. Padre Pierre Chaulenec scrive dell’entusiasmo con cui Kateri si accostò al sacramento della Prima Comunione; della sua dedizione al lavoro e alla preghiera; del pudore che le infiammava il volto vaioloso ogni volta che udiva un complimento. Solo di sfuggita accenna alla sua passione per il flagello, durante sessioni che prevedevano tra le millecento e le milleduecento frustate.

Alla ricerca di un terreno comune, uomini gesuiti e donne irochesi lo avevano trovato nel masochismo. Cholenec aveva introdotto flagelli, cilici e cinture di ferro, nella speranza di soppiantare le torture tradizionali. D’altro canto i convertiti e le convertite avevano la sensazione che i gesuiti non raccontassero tutta la storia. L’idea che il dolore auto-inflitto portasse a un’alterazione della coscienza simile a uno stato mistico era già presente nella loro cultura originale: i flagelli dei gesuiti sembravano suggerire la stessa idea, ma i vestenera sembravano restii a condividere tutti i loro segreti. Nel frattempo Anastasia aveva fondato una confraternita di donne che metteva insieme il meglio delle torture europee e amerindie. Kateri dormiva su un tappeto di spine; si praticava tagli rituali; si bruciava con carboni ardenti e si gettava nel fiume in pieno inverno. Nel giro di quattro inverni era morta: aveva 24 anni. I gesuiti al suo capezzale raccontano che il volto, dopo la morte, perse ogni segno del vaiolo e divenne bellissimo. Anastasia la vide risorta ai piedi del suo stesso letto, con in mano una croce luminosa. Maria Teresa udì soltanto la sua voce nel bosco: Di’ al padre che vado in cielo, Adieu. Sulla sua tomba scrissero Ownkeonweke Katsitsiio Teonsitsianekaron, “il più bel fiore mai cresciuto tra i pellerossa”.

La sua venerazione, immediatamente promossa dai gesuiti, incontrò numerosi ostacoli: nel Settecento dopo la guerra dei Sette anni i francesi abbandonarono il Nordamerica; nel frattempo l’ordine gesuita veniva sciolto. Anche gli irochesi furono sconfitti da George Washington (“il Distruttore di Città”). Nel Settecento viene ricordato almeno un miracolo – necessario per qualunque causa di canonizzazione: un gesuita avrebbe curato un bambino protestante dal vaiolo con un frammento ligneo della bara di Kateri – prima però il bambino aveva dovuto convertirsi al cattolicesimo.

A prendere sul serio la causa di Kateri fu la comunità cattolica statunitense, che a metà Novecento non poteva ancora vantare un santo autoctono. Nel 1943 – un anno delicato per i rapporti con gli USA – Pio XII si limitò a dichiararla venerabile. Persino Giovanni Paolo II, il più grande canonizzatore di tutti i tempi, si contentò di renderla beata, segno che alla gerarchia la ragazza mohawk che amava le frustate non è mai realmente andata a genio. Non le hanno nemmeno dedicato una chiesa: soltanto una cappella nella chiesa di S. Francesco Saverio, a Montreal. Kateri è diventata santa a tutti gli effetti soltanto nel 2012, in una delle ultime cerimonie di canonizzazione celebrate da Benedetto XVI. Oggi il vecchio accampamento di Caughnawaga si trova all’interno dell’area metropolitana di Montreal: vi hanno sede almeno una decina di casinò on line, e pare ci sia un fiorente commercio di sigarette di contrabbando.

Prima ancora che le gerarchie cattoliche si interessassero realmente a lei, nel 1966 Kateri era diventata un’eroina di primo piano nel complesso romanzo di un giovane e brillante scrittore canadese, Beautiful Losers. L’insuccesso spinse il suo autore ad abbandonare la letteratura e a concentrarsi sulle canzoni; peraltro se era riuscito a sfondare Bob Dylan, con quella voce, avevano tutti quantomeno il diritto a provarci, no? Si chiamava Leonard Cohen.
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Il roveto di Benedetto

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21 marzo - San Benedetto da Norcia (480-547), eremita, fondatore dell'ordine benedettino, patrono d'Europa

[2013]. Benedetto ogni tanto lo volevano ammazzare. Gli intossicavano il vino, gli avvelenavano il pane, a lui ovviamente bastava un segno di croce perché il bicchiere impestato si frantumasse, o un corvo venisse a far sparire il pane avvelenato. Ma chi è che voleva così male a Benedetto? Gli invidiosi, come al solito. Quelli che prima magari avevano strisciato per portarselo nel proprio monastero, per il solito fatto che un teorico della povertà integrale è sempre molto decorativo; però poi quando si rendevano conto che Benedetto non scherzava, che digiunava sul serio e voleva che anche i confratelli lo facessero, cercava un sistema per toglierlo di mezzo. Il tentativo più famoso comunque resta quello di Don Fiorenzo che, constatata l'impossibilità di avvelenare Benedetto, tentò di screditarlo mandando sette giovinette nude a ballare girotondi nel giardino del monastero. Giacché diciamocelo: chi resisterebbe a un girotondo di sette giovinette nude?

Benedetto, per esempio. Vide le giovini, provò una profonda tristezza, fece i bagagli e se ne andò. Pochi minuti dopo lo stavano già richiamando: torna pure indietro, Don Fiorenzo è morto, era sul terrazzo a guardarti partire e sghignazzava così tanto che insomma il terrazzo è crollato, eheh.

Dai, facciamo una cena elegante (È il famoso quadro in cui il Sodoma aveva dipinto le giovani nude, per precisione filologica, ma i monaci di Monte Oliveto non lo pagarono finché non le rivestì).

Qualcun altro si sarebbe inginocchiato e avrebbe reso gloria al Signore, Benedetto invece si rattristò, era pur sempre morta una persona, e redarguì il messaggero: che hai da ridere? vergognati, piuttosto, e penitenziagìsci. Resistere alle coreografie di sette donne nude è già una virtù eroica, ma non accennare nemmeno una smorfia di soddisfazione mentre apprendi che il tuo nemico è morto precipitato tra i rottami mentre ti rideva alle spalle, questo è da superman della santità, questi è Benedetto, primavera del Medioevo. Non amava che i monaci ridessero; la sua Regola tradisce una certa insofferenza per il riso. Ma tutto sommato è un testo ragionevole, poco in sintonia con l'integralismo del Benedetto leggendario, che prima di dirigere o fondare monasteri era stato a lungo un eremita solitario e poi forse, chissà, invecchiando si era di molto addolcito. L'esempio più famoso è quello del vino: il digiunatore Benedetto nella Regola lascia benissimo intendere che lui non ne berrebbe mai ("riteniamo che il vino non sia per il monaco"), ma siccome con i giovani è impossibile ragionarci, vada per un quartino al giorno, e non di più. Una dose di tutto riguardo, considerati gli standard di vita dei secoli bui. Con Benedetto i monasteri occidentali si allontanano dagli eccessi ascetici di oriente e si avviano a diventare luoghi di rifugio per artigiani e intellettuali in quei secoli senza mecenati.

Ai tempi in cui resisteva vittorioso alle sette ballerine nude, Benedetto era ormai trasceso al di là di ogni concupiscenza. Non era stato un percorso graduale o faticoso, come smettere di fumare. Da giovane aveva sperimentato la seguente terapia shock: un giorno che si era sorpreso a pensare a una ragazza vista per strada, si era gettato nudo in un roveto. La libido era cessata all’istante. Son quelle leggende che quando te le leggono da bambino, in refettorio, tu alzi il sopracciglio, mmm, la capriola nel roveto che ti fa passare per sempre la voglia di copulare, certo, certo. Ma poi il tempo passa, e quanto ne passa a inseguire persone di solito inadatte, che magari hanno solo la sfortuna di passare di lì e poi devono sopportarti per mesi, anni, e quanta fatica, per cosa poi? Diciamo la verità: trovassimo il rovo di San Benedetto, non ci getteremmo? Una capriola, un po’ di croste e poi via, tranquilli ed eunuchi per il resto dei nostri giorni. Non ci faremmo un pensiero?

No.


I funerali
Non ci pensa mai nessuno. Solo qualche maniaco, quando lo beccano, chiede la castrazione chimica, ma è comoda così. Noi proprio non ce la facciamo a spegnere il pulsante. È frustrante, è faticoso, ti porta a commettere gli errori peggiori della tua vita, e ciononostante non lo spegne nessuno. Neanche i più intelligenti sono così intelligenti. Neanche i più potenti. Faccio un nome a caso. Silvio Berlusconi. Ma cosa combinava, ma è possibile. Poteva avere tutto quello che voleva, possibile che tutto quello che voleva fosse una corte dei miracoli di sgallettate che avevano un quarto dei suoi anni? Poi la gente dice che è tutta invidia. Può anche darsi che lo sia. Voglio dire, il caso di Berlusconi mi interpella come maschio. Ogni volta che ne leggo una nuova su di lui non posso fare a meno di misurarmi, di pensare: ma se io avessi tutto quello che ha lui, se potessi fare tutto quello che può lui, sul serio mi ritroverei a settant’anni a scambiare appartamenti per pompini? Davvero potrei essere così imbecille? E per quanto la coscienza mi dica di no, perbacco, che io non sono così, non lo sono mai stato, c’è un’altra voce più profonda, dal basso scroto che mi dice Altroché che tu potresti. Siete tutti uguali. Siete maschi. Capite un cazzo. Solo quello. Quando punta, voi seguite.


Colgo l’occasione per salutare un grande re d’Israele che nel calendario non c’è, il saggio Salomone. Su di lui le Scritture si contraddicono allegramente: per parecchi capitoli non fanno che dire quant’era savio, quant’era bravo, e qui e là: ma nei fatti dopo di lui il Regno franò miseramente spezzandosi subito in due. A mo’ di spiegazione la Bibbia accenna al fatto che Salomone, dopo aver chiesto e ottenuto da Dio la saggezza, verso la fine si era un po’ rincoglionito a causa delle troppe concubine, peraltro non tutte 100% ebree. Insomma a un certo punto Dio, scandalizzato avrebbe ritirato il suo dono. Ma se dissipare tutte le energie senili in concubine fosse al contrario la cosa più saggia da fare? Se Salomone, se Berlusconi non fossero semplici vecchietti bavosi, se al contrario avessero capito tutto quello che c’è da capire?

Siamo tutti così. Se non allestiamo un condominio per le nostre concubine è soltanto perché non ce lo possiamo permettere. Io comunque non ho intenzione di invecchiare così, eh, appena trovano il roveto di San Benedetto…

“Trovato”.

“Eh?”

“Sai il roveto di cui parlavi? L’hanno trovato”.

“Ma no ma dai che stai dicendo”.

“È in farmacia”.

“Ah, bene”.

“Quindi vai?”

“Magari domani”.

“Punto la sveglia?”

“Magari tra un anno o due”.

“Google Calendar?”

“Ma cambiamo argomento, è un periodo che mi sento flaccido, stavo pensando di iscrivermi a un corso, qualcosa…”

“Pilates?”

“No pensavo una cosa un po’ più sociale, non so, tipo… la salsa e…”

“Il merengue? Sei pronto per la salsa e il merengue? Sul serio?”

“Guarda che si bruciano un sacco di calorie, e inoltre…”

“Penitenziagisci”.
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L'ultimo patriarca, il primo papà

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Lo sapevo, tutto sua madre.
19 marzo - San Giuseppe artigiano, padre putativo di Gesù (primo secolo)

[2012]. Giuseppe, dice il messale romano, è l'ultimo patriarca della Bibbia. Buffo, lui che era padre solo in senso lato. Però pensando ai suoi predecessori – Noè che ubriaco si fa ridere dietro da Cam e lo maledice; Abramo che quasi sacrifica Isacco; Isacco che benedice Giacobbe ma solo perché è travestito da figlio maggiore; Giacobbe che ha 12 figli ma sembra curarsi solo di Giuseppe e Beniamino; il profeta Samuele che quasi adotta Saul, lo unge re e poi lo tratta da mentecatto; Saul che quasi adotta Davide e poi cerca di farlo fuori... la lista potrebbe continuare, ma insomma in fondo alla sequela di tutti questi padri e patrigni arrabbiati o distratti, talvolta paranoidi, schizzati, tutte proiezioni di un Dio padre geloso e irascibile... Giuseppe sembra fin troppo tranquillo: un intruso.

In realtà non conosciamo quasi nulla di lui; anche nel suo caso molte cose che crediamo di sapere sono incrostazioni di leggende e chiose che non hanno fondamento nella lettera dei Vangeli. Per esempio ci piace raffigurarcelo come un tizio avanti negli anni ("i vecchi quando accarezzano" cantava De Andrè, "hanno paura di far troppo forte"). L'anzianità di Giuseppe è un dettaglio che diventa sempre più nitido man mano che si chiarisce, nel corso dei primi secoli, l'altro dettaglio fondamentale della verginità di Maria: immaginare il marito anziano era il modo più spiccio per allontanare il sospetto di intimità tra i due sposi.

In realtà i pochi versetti che ce ne parlano hanno dato filo da torcere a chi voleva saltare a certe conclusioni. Di Giuseppe parla soprattutto Matteo, l'evangelista più legato al mondo ebraico dove Gesù era nato e vissuto; Luca, come abbiamo visto, è più liberal, scrive subito in greco e mette donne e proletari in primo piano, il suo Giuseppe è un semplice custode di Maria: è lei che viene visitata dall'angelo, è lei che acconsente, è lei che intona il Magnificat, che medita le cose nel suo cuore, Giuseppe è una semplice scorta. Matteo tratta il marito con più considerazione: nel suo vangelo è lui a ricevere più volte istruzioni dall'angelo. Il problema è che proprio in Matteo (1,25) c'è una parolina maledetta, che anche San Girolamo a malincuore dovette tradurre con "donec", "finché": Giuseppe "non ebbe con lei rapporti coniugali finché Maria non ebbe partorito un figlio".

Non vi dico le arrampicate sugli specchi dei padri della Chiesa per dimostrare che quel finché in realtà non è quel che sembra, e che Maria restò vergine anche in seguito. Arrampicate rese ancor più disagevoli da quel che Matteo combina nel capitolo 13: mette per iscritto una lista di fratelli di Gesù, nientemeno. Hanno tutti nomi familiari. C'è da dire che a parlare è la folla, e si sa, la folla è sempre male informata. Ma comunque:
Non è questi il figlio del falegname? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda?
Anche qui si sono spesi in centinaia per dimostrare che "fratelli" non vuol dire proprio "fratelli", che al tempo di Gesù si diceva "fratelli" anche ai cugini, agli amici, ai conoscenti, come no, la Galilea era una specie di Bronx dove tutti si dicevano Hey Bro. Giusto per mettere il dito sulla piaga, anche Luca negli Atti degli Apostoli e Paolo nella Lettera ai Galati menzionano un personaggio importante della prima comunità di Gerusalemme chiamandolo Giacomo, "il fratello del Signore". Un'altra spiegazione è che i fratelli fossero in realtà fratellastri, e che Giuseppe avesse sposato Maria da vedovo. Ecco un'altra buona ragione per immaginarlo vecchietto incanutito (ma è anche un tizio che quando l'angelo gli dice in sogno: adesso prendi su con la tua sacra famigliola e ti rechi in Egitto per tot anni fino a nuovo ordine, lui lo fa; non era proprio un viaggetto di piacere da raccomandare a un pensionato).

Il versetto sopra è fondamentale anche per determinare la professione di Giuseppe: falegname. Di questo almeno siamo sicuri, o no? No, nemmeno di questo.

Intanto la parola greca (tekton) è più vaga: un tekton lavorava con materiali duri, senz’altro con il legno, ma poteva essere anche carpentiere o muratore. Persino impresario di cantiere, e in questo caso cadrebbe la tradizione di San Giuseppe artigiano e patrono dei medesimi. Ma c’è di più. Se leggiamo il versetto corrispondente in Marco (6,3), ci accorgiamo che è un po’ diverso

Non è questi il falegname, il figlio di Maria, e il fratello di Giacomo e di Iose, di Giuda e di Simone? Le sue sorelle non stanno qui da noi?
Dai che ti fai buon sangue

Qui ci sono delle sorelle, addirittura… ma notate: non c’è più il padre. Marco non parla mai del padre. C’è la parola falegname (che in realtà è tekton), e poi la parola figlio. Qui è Gesù a essere chiamato tekton: ma magari suo padre non lo era, chi lo sa? Va bene, quel che sappiamo della mobilità del lavoro nella Galilea del primo secolo ci autorizza a immaginare che Gesù abbia fatto gavetta come tekton semplicemente perché era il mestiere del patrigno. Di quest’ultimo Marco non parla forse perché nel suo breve vangelo ci tiene a sottolineare la vera, divina, paternità di Gesù, e il patrigno diventa un’inutile distrazione. Viceversa Matteo scrive per gli ebrei del suo tempo, che nel perplesso ebreo Giuseppe potevano riconoscersi. Ovviamente non ci siamo mai messi d’accordo su quale dei due vangeli sia stato scritto per primo.

Nell’ultimo episodio evangelico in cui compare Giuseppe, Gesù ha 12 anni. Dopo aver festeggiato la Pasqua a Gerusalemme, come si conviene, la Famiglia è ripartita per la Galilea. Che Gesù fino a quel momento fosse stato un figlio modello lo dimostra il fatto che papà e mamma si facciano un giorno di viaggio senza nemmeno domandarsi come mai Gesù non si faccia sentire, non si lamenti che vuole fare la pipì o comprare un pupazzetto all’autogrill. Solo verso sera si accorgono che non è più nella carovana, e questa è la Sacra Famiglia, figuriamoci quelle ordinarie. Il mattino dopo ripartono per Gerusalemme. Lo cercano per tre giorni, che sembrano un’esagerazione: alla fine lo trovano al tempio che si fa interrogare da scribi e dottori della legge e dà i punti a tutti. A quel punto parla Maria, perché l’evangelista è Luca (2,48); però parla anche per conto del padre, che in tutto il Nuovo Testamento non dice una parola. Forse è davvero un falegname e in mezzo a tutti quei dottoroni si vergogna; oppure è un padre sanguigno, di quelli che se inizia a parlare poi esplode, e Maria sta cercando di contenerlo; oppure è solo triste, come certi padri che non sanno bene come si fa, ci provano tutti i giorni ma non esistono ancora i manuali, insomma Giuseppe tace e frigge, e Maria parla per lui:

«Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io ti cercavamo, stando in gran pena». Ed egli disse loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?»
Secondo me, sbaglierò, proietterò, mio padre è un artigiano e quando mi laureai era un po’ a disagio, però secondo me in quel momento a papà, volevo dire a Giuseppe, si spezza il cuore: e poi scompare. Lasciamo stare le leggende medievali, se sia stato o no assunto in cielo, sì, d’accordo, glielo auguriamo tutti, però se restiamo alla lettera dei vangeli da lì in poi nessuno ne parla più. Solo i nemici di Gesù per screditarlo, taci tu che sei figlio del tekton. L’evangelista Marco nemmeno lo nomina. Alla fine di tutti i padri padroni della Bibbia, Giuseppe è il padre che non minaccia, che non maledice, che non disereda e non cospira, è il padre che si lascia cancellare così: dopo avere sposato una vergine, dopo averne accudito il figlio, dopo averlo nascosto in Egitto, riportato in Galilea, magari insegnato un mestiere, quando non ha avuto più nulla da dare al figlio suo, lo ha lasciato andare. L’ultimo patriarca, il primo papà.
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Patrizio e il mal d'Irlanda

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San Patrizio (385-481) - Patrono d'Irlanda, scacciatore di serpenti.

Jatavenne, per dirla
in gaelico antico.
[2013]. In Irlanda non ci sono serpenti. L'unico è l'orbettino, che in realtà non è un vero serpente, è una lucertola che si adattata all'ambiente perdendo le zampe, come io potrei adattarmi a un divano. E anche lui comunque non era stato avvistato fino al 1970, secondo gli esperti è stato portato qui via nave. Non si vede in che altro modo i serpenti potrebbero arrivare in Irlanda dopo l'ultima glaciazione, del resto. Però in Scozia ci sono, in Irlanda no: tra le due terre nel punto più stretto ci sono appena 35 km di mare. Per cui secondo alcuni è stato San Patrizio, che i serpenti avevano infastidito mentre meditava. Posò il bastone a terra ed essi strisciarono in mare ad annegarsi (o a evolversi in serpenti di mare).

Secondo alcuni la leggenda parla di serpenti ma allude ai druidi, quei viscidi sacerdoti pagani: Patrizio, che forse si chiamava Palladio (o forse erano due evangelizzatori diversi) li cacciò dall'isola con relativa facilità. L'Irlanda, da quel che ho capito, è l'unica terra cattolica senza martiri - anche se alcuni, per darsi un contegno, sostengono che Patrizio fu martirizzato (almeno lui) il 17 marzo. Nella sua Confessione, una delle cose più noiose che ho letto (e io leggo storie di Santi, rendetevi conto), Patrizio ammette di avere avuto qualche grana coi locali. A un certo punto lo fermarono in un bosco.

"Quel giorno avevano una gran voglia di uccidermi, "ma non era ancora venuto il tempo" [cf. Giona 7,20-30], e tutto ciò che ci trovarono nei bagagli ce lo presero, e mi incatenarono perfino, ma dopo quattordici giorni il Signore mi liberò dalle loro mani e tutto ciò che era nostro ci fu restituito, «per opera di Dio» [1 Pt 2,13] e di «amici fidati»".


Patrizio si esprime copia-incollando citazioni bibliche. Anche Agostino, suo contemporaneo, fa così; era lo stile del tempo; però Agostino era anche un grande scrittore, mentre Patrizio, per sua ammissione, un "peccator rusticissimus", uno che a scrivere non ha mai veramente imparato, ma non essendo un italiano del XXI secolo la cosa non lo inorgogliva, anzi, lo colmava di vergogna.

Senz'altro ausilio che qualche vecchio tomo della Vulgata da usare anche come vocabolario, Patrizio non è che riesca a spiegarsi molto bene. Potrebbe trattarsi di una persecuzione ordita da qualche druido invidioso del successo dell'evangelizzatore, ma anche di un banalissimo sequestro di persona: gli "amici fidati" potrebbero essere guerrieri cristiani pronti a liberare il loro leader, ma anche più prosaicamente i compagni di Patrizio venuti a pagare un riscatto. Patrizio era ricco, forse il segreto del suo successo con le anime fu tutto qui: evangelizzò l'Irlanda comprandosela. Fu un ottimo affare per tutti, non gli costò neppure tantissimo. Quanto? Per spiegarcelo, Patrizio usa un'unità di misura che ci dice molte cose, la "persona". Coi soldi spesi per beneficiare le autorità delle varie regioni, nelle frequenti visite, Patrizio riteneva

di aver distribuito loro una somma non inferiore al prezzo di quindici persone, per far sì che possiate godere di me e io sempre godere» di voi «in Dio» [cf. Lettera di San Paolo a Filemone]..


I vecchi romanzieri russi tradurrebbero "quindici anime", noi oggi diciamo "15 schiavi" e inorridiamo, ma era il quinto secolo, la compravendita di esseri umani era una cosa normalissima; era successo allo stesso Patrizio (al secolo Maewyin Succat, dicono) di essere rapito a 16 anni e trattenuto in schiavitù per sei. Ecco perché, malgrado fosse di famiglia benestante e cattolica (prete il nonno, diacono il padre) non ebbe un'istruzione all'altezza: negli anni in cui i compagni ci davano dentro col rosa rosae Maewyin pascolava ovini per il suo padrone in quell'isola dimenticata da tutti e quindi in teoria pure da Dio. Lui veniva dall'isola più grande, non si sa bene se dall'Inghilterra o dalla Scozia, ammesso che la divisione avesse un senso ai suoi tempi. È il tempo degli Scoti e dei Pitti, quest'ultimi famosi per l'abitudine a dipingersi il corpo con disegni favolosi e forse anche qualche serpente annodato. Solo con le sue pecore, in quell'isola fuori dal mondo, Maewyn riscopre la fede nel Dio dei suoi padri, che fino a quel momento aveva snobbato. Cristo fu forse l'amico immaginario che lo aiutò a non impazzire - fino al giorno in cui lo condusse a una nave che faceva la traversata.

Tornato miracolosamente agli affetti famigliari, Maewyn cominciò a fare carriera ecclesiastica, visitò l'Europa e forse persino l'Italia. Ma il mal di Britannia che aveva sofferto in quell'isola lontana si era trasformato in mal d'Irlanda. Voleva tornare là. Sognava che Cristo lo volesse là, a proteggere i pochi cristiani che già c'erano e a farne altri. Era l'uomo giusto, se non altro perché conosceva quella lingua impossibile. E la famiglia aveva abbastanza da parte.

Cioè pazzesco sembra verde
Patrizio forse non era colto, ma sull'inculturazione aveva già capito tutto. Il paganesimo non si combatte, il paganesimo si assorbe. Le fonti sacre si riconsacrano ai santi; i pozzi sacri ci mettono in contatto con l'Aldilà; e cari iberni rudi e incolti come me, che avete pascolato le capre tra le pietre come me: volete capire cos'è la Trinità? Il mistero più misterioso di tutti? Ve la spiego, è facile, la Trinità è il trifoglio, uno e trino; a Roma la fanno difficile perché non hanno tutta quest'erba, tutto questo verde. Adorate il disco del Sole? No problem (non so come si scriva in gaelico), il Sole è effettivamente importante, basta che ammettiate che la Croce è più importante, quindi da qui in poi sul disco del Sole ci iscriviamo una croce, che non sarà un simbolo fascista per altri 1500 anni (lo è diventato forse a partire dal Ku Klux Klan, la circostanza non è chiara).

Patrizio forse non è esistito, ma qualcuno che abbia evangelizzato l'Irlanda sarà pure esistito, e non c'è dubbio che abbia fatto un lavoro egregio. Niente persecuzioni, niente martiri. Nei tre secoli a venire, i più oscuri del medioevo, il latino si conservò grazie ai monasteri irlandesi, lontani dalle guerre e dalle pesti del continente. Addirittura a un certo punto furono i monaci irlandesi a sbarcare in Inghilterra e in Francia per rievangelizzarle. Un irlandese, San Colombano, arrivò anche in Italia e fondò il monastero di Bobbio.

Sono l'unico che nota questa cosa?
Secoli più tardi fu il dominio inglese a rendere ancora più caro agli irlandesi il loro santo protettore. La croce di San Patrizio (che non è quella celtica; è una X rossa in campo bianco) diventò lo stendardo ufficiale dell'Irlanda anglizzata, e come tale finì nell'Union Jack quando l'Irlanda fu unita al Regno Unito. È ancora lì, iscritta nel bianco della Croce di Sant'Andrea degli Scozzesi ma sormontata dalla croce rossa di San Giorgio degli inglesi. È un po' asimmetrica, il che consente ai soldati di capire al volo qual è il lato giusto per appendere la bandiera, ma lascia aperti sospetti inquietanti: se alzi la croce di San Giorgio, sotto ci dovrebbe essere un inviluppo rosso simile a una svastica, non so se qualcuno ci ha fatto caso. Comunque gli irlandesi (meno quelli protestanti dell'Ulster) hanno sempre preferito il verde di San Patrizio - che per la verità all'inizio era associato a una sfumatura di blu - ma alla fine fu il trifoglio a vincere su tutto e oggi a Chicago tingono il fiume di verde, e nei pub se la chiedi ti danno pure la birra verde, io una volta l'ho assaggiata e me ne vergogno. Nella bandiera della Repubblica accanto al verde c'è l'Arancione degli orangisti di Guglielmo III, protestanti, che a fine Seicento combatterono contro il re cattolico Giacomo II Stuart suo suocero. Insomma è una bandiera interconfessionale, anche se come tutte le bandiere troppo oberate di simboli il colpo d'occhio non è un granché (un tricolore italiano lavato per sbaglio a 90°).
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Madonna Povertà, Sorella Morte

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5 settembre – Beata Teresa di Calcutta (1910-1997), mendicante.

(Chissà se è lei davvero)
[2012] "La mia prima impressione fu quella di tutte le fotografie e i filmati che avevo visto di Belsen e posti del genere, perché tutti i pazienti avevano la testa rasata. Non c’erano sedie, solo barelle. Sono dello stesso tipo di quelle usate durante la prima guerra mondiale. Non c’è un giardino, nemmeno un cortile. Niente di niente. Allora mi chiesi: che cos’è questo posto? Sono due stanze, di cui una ospita tra i cinquanta e i sessanta uomini, e l’altra tra le cinquanta e le sessanta donne. Stanno morendo. Non ricevono molte cure mediche. Praticamente non ricevono nemmeno antidolorifici oltre all’aspirina e, in pochi casi fortunati, del Brufen o cose del genere, per il tipo di dolori che accompagnano il cancro terminale e le malattie di cui stavano morendo… Non avevano un numero sufficiente di fleboclisi. Gli aghi li usavano e riusavano all’infinito e di tanto in tanto si vedeva una suora sciacquare gli aghi sotto il rubinetto dell’acqua fredda. Chiesi a una di loro perché lo faceva, e mi rispose: “Be’, per pulirli”. Allora le dissi: “Sì, ma perché non li sterilizzi; perché non fai bollire l’acqua e sterilizzi gli aghi?” Mi rispose: “Non ce n’è motivo. Non c’è tempo”. (Testimonianza raccolta da Christopher Hitchens in La posizione della Missionaria, che titolo del cazzo, 1995).

Prima dell’India, prima dei poveri, prima della dottrina sociale della Chiesa, prima di qualsiasi altra idea o concetto, nella nostra memoria involontaria Madre Teresa evoca un’immagine precisa: le rughe. Non c’è una Teresa di Calcutta senza rughe. Cercatela su google: non si trova. Avrete miglior fortuna digitando il nome secolare, Anjeza Gonxha Bojaxhiu (nata a Skopje, a quel tempo Kossovo ottomano, poi Regno di Jugoslavia, poi Federazione Jugoslava, poi Repubblica Ex Jugoslava di Macedonia, oggi Macedonia del Sud). Sin dai primi suoi timidi passi sulla ribalta mondiale (più o meno 1969: stava per compiere 60 anni) Teresa ha sempre mostrato quella faccia vizza che le persone della mia generazione erano abituati a identificare in pochi decimi di secondo. Prima di cambiare canale.

Perché nessuno guardava volentieri Madre Teresa. Di lì a poco di solito l’obiettivo si sarebbe allargato e intorno a lei sarebbero comparsi bambini denutriti o lebbrosi e mosche e tutto il resto, e da questa parte del televisore era quasi sempre ora di pranzo o cena. Madre Teresa è l’unica celebrità internazionale davanti alla quale veniva spontaneo abbassare lo sguardo. Questo, paradossalmente, potrebbe essere stato il segreto del suo straordinario successo. Senza dimenticare il velo delle missionarie della Carità, con quella banda di un bell’azzurro su bianco, sobria ed elegante, in mancanza del quale forse non avremmo mai riconosciuto davvero Madre Teresa di Calcutta. Le sue rughe in fondo non sono quelle di una qualsiasi signora di una certa età? Se oggi incontrassimo una Teresa vestita in abito civile, mentre chiede la carità in qualche luogo pubblico, la scambieremmo abbastanza facilmente per una mendicante abituale. E faremmo esattamente la stessa cosa che facevamo con la Teresa originale: scapperemmo via, magari lasciandole in mano una cifra qualsiasi, consapevoli che quello che stiamo facendo non servirebbe a nulla, né a distenderle le rughe né a salvare o cambiare la vita di qualcuno, e nemmeno ad alleviare un nostro senso di colpa o un semplice fastidio. Si tratta semplicemente di svincolare il prima possibile da una presenza sgradevole.

Questa situazione non è frutto di un caso, ma il risultato di accurate ricerche di mercato che i mendicanti fanno da millenni, al termine delle quali si è capito che infastidire il passante è meglio che commuoverlo: il passante commosso potrebbe fermarsi più del dovuto, preoccuparsi, mettersi a discutere, ostruendo così il passaggio e facendo perdere tempo al mendicante, che non è mica lì per raccogliere confidenze e consigli (sta lavorando). Si è scoperto altresì che il mendicante macilento rende più di quello sano; discorsi fatalisti e professioni di fede in entità superiori sono di gran lunga più redditizi che accuse circostanziate verso nemici identificabili; e che certi dettagli funzionano meglio di altri: le rughe, per esempio. A Teresa non sono mai mancate.
Il mio primo giorno di lavoro, finito il turno nel reparto donne andai ad aspettare fuori dal reparto uomini il mio ragazzo, che assisteva un ragazzino di quindici anni in fin di vita, e una dottoressa americana mi disse che aveva cercato di curarlo: aveva un problema renale relativamente semplice che era andato peggiorando sempre più perché non gli avevano somministrato antibiotici. Aveva bisogno di essere operato. Non ricordo quale fosse il problema, ma la dottoressa me lo disse. Era arrabbiatissima, ma anche molto rassegnata, come capita a molte persone in quella situazione. Disse: “Be’, non vogliono portarlo all’ospedale”. E io: “Perché? Basterebbe chiamare un taxi e portarlo all’ospedale più vicino, e chiedere che venga curato. Farlo operare” Lei rispose: “Non lo fanno. Non vogliono. Se lo fanno per uno, devono farlo per tutti”. Allora pensai: ma questo ragazzino ha quindici anni. Tenete presente che le entrate complessive di Madre Teresa bastano e avanzano per attrezzare svariati ambulatori di prim’ordine nel Bengala". (Hitchens, 1995).
Con Michèle Duvalier (la moglie del dittatore haitiano).
Nel 1995, quando Christopher Hitchens pubblica la prima edizione del suo pamphlet anti-Teresa, si meraviglia un po’ retoricamente di essere il primo a picconare un monumento tutto sommato abbastanza friabile: “mi sorprende ancora”, scrive, “che nessuno abbia deciso prima di guardare alla santa di Calcutta come se il soprannaturale non c’entrasse nulla”. Il fatto è che alla beata di Calcutta non si guarda proprio in faccia volentieri. Sappiamo tutti vagamente che gestiva delle case di cura (migliaia, diceva lei), in luoghi disperati a cui noi non abbiamo voglia di pensare. Di solito nel giro di pochi secondi abbiamo già voltato pagina, cambiato canale, cliccato su qualche altro contenuto più leggero; una piccola percentuale di noi avrà nel frattempo compilato un vaglia, ed è su questa piccola percentuale che fanno riferimento le imprese mendicanti come quella fondata da Teresa. Questa piccola percentuale non necessariamente crede nel soprannaturale; più spesso deve gestire sensi di colpa o mostrarsi compassionevole a sé stessa o a un pubblico.


Teresa questa cosa la capiva, e accettava il denaro senza giudicare, provenisse da Lady D o dal dittatore di Haiti, o da Reagan, o dall’accademia di Svezia, o da me o da te. Tutta gente unita dalla necessità di sgravarsi la coscienza, ma anche dall’urgenza di pensare ad altro, perché i poveri e i lebbrosi sono veramente brutti da guardare ed è quasi sempre ora di pranzo o cena. Anche su questo senso di urgenza, sulla necessità di distogliere in fretta lo sguardo, faceva affidamento Madre Teresa, mentre raccoglieva soldi in tutto il mondo, per metterli dove?
“Il denaro non era impiegato male”, racconta Susan Shields (ex suor Virgin); “per la maggior parte non era impiegato affatto. Quando ci fu una carestia in Etiopia, molti assegni arrivarono con la causale “per gli affamati in Etiopia”. Una volta chiesi alla sorella che era responsabile dei fondi se dovevo mettere da parte tutti quegli assegni e spedire il totale in Etiopia. Lei mi rispose: ‘No, noi non spediamo soldi in Africa’. Però continuai a inviare ricevute ai donatori intestate ‘Per l’Etiopia’” (Wüllenweber, “Stern”, 1998).
Dove siano finiti i soldi, ancora non è chiaro. Nessuno, nemmeno il laicista più esasperato, si è mai spinto fino a immaginare che Teresa e le sue Missionarie abbiano una doppia vita dissoluta, in cui scialano le offerte che piovono dal mondo intero. E quindi, considerato che i sanatori da loro gestiti restano luoghi poverissimi dove i malati muoiono a volte senza antibiotici (figurarsi gli antidolorifici), e che persino la presenza di un frigorifero o di un ascensore è maltollerata; considerato che è inverosimile che possano buttare via molti soldi le suore che usano gli stessi aghi ipodermici più volte, sciacquandoli nell’acqua fredda, e che somministrano vaccini molto oltre la data di scadenza… non resta che immaginare un enorme pozzo senza fondo in cui vanno a finire tutti i vaglia – poco importa se questo pozzo esiste davvero o è una metafora per lo IOR. Può darsi semplicemente che Teresa abbia reinvestito ogni soldo che le è arrivato nell’apertura di nuovi sanatori senza frigorifero, ascensore e aria condizionata, dato che la sua priorità non è mai stata la salute o il benessere dei suoi pazienti. Mai. Anche se noi viandanti infastiditi abbiamo spesso dato per scontato che lo fosse: che a Calcutta e altrove Teresa combattesse contro il dolore e la disperazione e la morte. Niente di più sbagliato, e non possiamo nemmeno prendercela con lei, che non ha mai fatto finta di essere diversa da quello che era.
A San Francisco fu messo a disposizione delle suore un convento a tre piani con molte stanze spaziose, lunghi corridoi, due scaloni e uno scantinato immenso. […] Le suore non esitarono a sbarazzarsi dei mobili indesiderati. Tolsero le panche dalla cappella e strapparono via tutta la moquette dalle stanze e dai corridoi. Buttarono grossi materassi dalle finestre e spogliarono l’edificio di tutti i divani, di tutte le sedie e di tutte le tende. La gente del quartiere stava sul marciapiede a guardare sbalordita. Quel magnifico edificio fu reso conforme allo stile di vita che doveva aiutare le sorelle a diventare delle sante.

Spaziosi soggiorni furono trasformati in dormitori stipati di letti. […] I riscaldamenti rimasero spenti per tutto l’inverno nonostante la casa fosse umidissima. Nel periodo in cui vissi là molte sorelle contrassero la TBC (Hitchens, 1995).


Con GP2, che faccia fa.
Anche i suoi grandi accusatori glielo riconoscono: Madre Teresa è sempre stata sincera su quello che intendeva fare. Se solo avessimo voluto ascoltarla, invece di scantonare appena potevamo, ci saremmo resi conto che dei dolori e della disperazione e della morte Teresa non era il nemico, ma un fedele alleato: che la sua priorità non era salvare delle vite, ma guadagnare delle anime. Spesso nel modo più spiccio; battezzandole ad esempio in punto di morte, distribuendo “biglietti per il paradiso”. Più in generale, in Teresa prosegue una corrente di pensiero che dal medioevo alla Controriforma vede nel dolore uno strumento di espiazione e di santificazione. Le Missionarie della Carità sono forse l’unico vero ordine mendicante che è resistito alla modernità, oggi che anche i francescani mettono su degli ospedali di eccellenza. La loro fondatrice – che pure è la protagonista di uno dei processi di beatificazione più rapidi della storia – in vita non ha mai fatto miracoli. O meglio: i miracoli a cui accennava nei suoi discorsi non riguardavano le guarigioni, malgrado avrebbe facilmente potuto attribuirsene, vivendo tra un sanatorio e l’altro. I prodigi che raccontava Teresa erano piuttosto telefonate improvvise in cui veniva avvisata che il tale ente aveva deciso di corrisponderle una cifra, proprio nel momento in cui questa cifra le serviva per aprire una casa della carità da qualche parte nel mondo. Miracoli di fundraising, miracoli da mendicante. Nulla di paragonabile alle trovate un po’ guittesche di Padre Pio, che a suo modo però mostrava di considerare il dolore e la malattia nemici da sconfiggere, anche con buone dosi di autosuggestione, in mancanza di meglio. Teresa no: non ha mai guarito nessuno (da viva. Da morta avrebbe fatto sparire il cancro a una signora indù che la invocava, miracolo sufficiente e necessario per ottenere la beatificazione). Guarire non era semplicemente la sua missione, né ha mai preteso che lo fosse. Siamo noi che abbiamo capito male, perché avevamo fretta, perché ci faceva comodo pensarla così.
Col crescere della sua fama, la fondatrice dell’ordine divenne in qualche modo consapevole dell’equivoco su cui si basava il “fenomeno Madre Teresa”. A un certo punto scrisse alcune parole che fece appendere fuori dalla sede dell’ordine: “Dite loro che non siamo qui per fare un lavoro; siamo qui per Gesù. Siamo prima di tutto religiose. Non siamo assistenti sociali, né insegnanti, né medici. Siamo suore” (Wüllenweber, 1998)
Nata e maturata sulle soglie del Terzo Mondo, Anjeza Gonxha Bojaxhiu ha trovato negli slums indiani l’habitat ideale per conservare un cristianesimo arcigno, refrattario a ogni progresso medico e scientifico, che in Occidente era già in crisi un secolo fa. Da Calcutta lo ha poi diffuso in giro per il mondo, trovando il sostegno di un Papa molto più simpatico, ma che in fin dei conti condivideva la stessa concezione: no a qualsiasi forma di contraccezione efficace, no al controllo delle nascite, i poveri e i sofferenti sono più vicini a Dio e quindi è giusto farne nascere sempre di più, e offrire la loro sofferenza a Dio. Bastava prestare attenzione ai loro discorsi, ma di solito avevamo meglio da fare.

L’equivoco di Madre Teresa si nasconde in quelle rughe balcaniche, tanto simili a quelle di chi ci tende agguati ai semafori per insaponarci il parabrezza in cambio di un euro, e se ci rifiutiamo abbiamo sempre paura che ci sputi addosso. Le abbiamo dato il Nobel, tutti i soldi che ha chiesto, e gliene avremmo dati di più: eravamo disposti a considerarla una benefattrice, una taumaturga, un’operatrice di pace, pur di non vederla per quello che era davvero: Madonna Povertà, la piccola Morte sdentata che ci aspetta fuori di casa, con la sua faccia vizza, e il suo occhio antico che mai vorremmo fissare, mai vorremmo che ci fissasse.
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Le pere del male

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28 agosto - Sant'Agostino di Ippona (354-430), ladro di pere e dottore della Chiesa.

L'Agostino della fiction Rai
(invecchiando si evolve in Franco Nero).
(2012). Eravamo in seconda elementare, quando in mezzo a noi comparve questa bambina nuova, inspiegabile. Perché prima non c'era e adesso sì? Era stata bocciata? Non risultava bocciata. Però a scuola andava male. Da dove veniva, era straniera? Non era straniera, anche se aveva un nome diverso dagli altri. La sua famiglia non la conosceva nessuno, e lei raccontava storie incoerenti, di parenti ricchissimi o poverissimi, a seconda della piega che prendeva la trama di Candy Candy in quella settimana. Io non la sopportavo, per nessun motivo al mondo. Non mi aveva fatto nulla di male, ma per esempio respirava. Durante le lezioni la sentivo respirare con un certo affanno e m'innervosiva, mi distraeva, le dicevo Smettila. Un giorno stavamo tutti al nostro posto, aspettando la maestra che aveva avuto un contrattempo. Eravamo una classe tranquilla: per ingannare l'attesa giocavamo a passaparola. Un messaggio passava da orecchio a bocca a orecchio, facendo il giro dell'aula, finché non arrivava a me, che ero il penultimo. Dopo di me c'era la bambina nuova, a cui io avrei dovuto passare il messaggio che mi arrivava. Ma non lo facevo. Ricevevo il messaggio e lo riconsegnavo a un'altra compagna, dall'altra parte dell'aula, e così il giro ricominciava, ignorando la bambina nuova. Nessuno mi aveva detto di fare così, era una mia iniziativa. Nessuno mi aveva corrotto o minacciato, e la bambina non mi aveva mai fatto nulla, salvo respirare. Il male che stavo facendo non aveva nessuna origine al di fuori di me: nasceva in me, e avrebbe causato probabilmente rabbia, dolore, e altro male. Ma a monte di tutto il dolore e la frustrazione c'ero io, un bambino di otto anni a cui nessuno aveva fatto niente.

Scrivere di Sant'Agostino non è come raccontare di un qualsiasi santo tardoantico di cui ci rimane il nome di battesimo e tre dettagli pittoreschi. Non è una leggenda, Agostino: è una delle persone del mondo antico che conosciamo meglio. Forse troppo per affezionarci. Ci si affeziona ai personaggi letterari, che hanno vite avventurose ma comunque ordinate secondo una traiettoria. Che Agostino sia un uomo vero, e non il personaggio di un romanzo, lo si capisce dal racconto della sua conversione, lungo, estenuante, proprio come sono lunghe e tortuose e un po' insensate le traiettorie delle nostre vere vite, tanto più complesse dei romanzi quanto meno belle da raccontare. Agostino non cade di cavallo, non vede roveti ardenti o segni in cielo, Agostino arriva al cristianesimo (o meglio vi ritorna, visto che aveva lo aveva succhiato col latte materno) al termine di un lungo assedio intellettuale; quando si direbbe che ceda per stanchezza.

E dire che il momento è storico: Agostino è stato uno dei più grandi acquisti della Chiesa. Se fosse rimasto alla concorrenza, se il guru manicheo Fausto di Mileve si fosse impegnato un po' di più con lui, oggi forse invece che cristiani non potremmo non dirci manichei, o più probabilmente il nostro cristianesimo avrebbe una forte componente manichea. Ma i manichei avevano il difetto tipico di molte dottrine new age, l'ansia di voler riempire i buchi della conoscenza, di spiegare tutto con teorie, magari per pochi iniziati, ma onnicomprensive. Agostino era un intellettuale, competente di Platone e di Aristotele; non poteva mandare giù l'astronomia for dummies degli opuscoli manichei, un cumulo di favolette che non reggevano il confronto con lo sferragliante ma apparentemente efficace sistema tolomaico. Cominciò a farsi domande, a porle ai correligionari, e l'unica cosa che gli sapevano rispondere è: aspetta Fausto, lui sa tutto. Ti risponderà su tutto. Fausto però era sempre in tournée, Agostino lo aspettò nove anni, al termine dei quali si rese conto che aveva atteso un conferenziere amabile ma abbastanza ignorante, che di astronomia nulla sapeva e lo ammetteva con candore. La fede di Agostino si dissolse in quell'esatto momento, di fronte all'inadeguatezza dell'ennesimo maestro. Se mi permettete la psicologia da strapazzo, anche stavolta Agostino non era riuscito a trovarsi un padre all'altezza. Dev'essere dura rendersi conto di essere il tizio più colto e intelligente in circolazione, proprio mentre ti rendi conto che alla fine non sai quasi nulla, e non c'è nessuno in giro in grado di rispondere alle tue domande. L'Impero Romano stava per rovinare, c'era da ripensare tutta la filosofia della Storia, trovare un nuovo modello, un nuovo senso a tutto quello che sarebbe successo di lì in poi, e Agostino non aveva nessuno che gli mostrasse una strada. Solo la madre (Santa Monica) in un angolo a sgranare paternostri.
Augustine of Hippo
(Existentialcomics.com) 

Alla fine trovò Ambrogio. Molto prima di farsi cristiano, Agostino divenne ambrosiano. Al patriarca di Milano Agostino non fece astruse domande di astronomia. Del resto i cristiani, più astuti, su queste materie lasciavano campo libero agli scienziati laici: l'unica indicazione biblica parlava di un sole che fa il giro intorno alla terra, e questo era pacifico, autoevidente, riconosciuto da tutti. Ad Ambrogio in realtà Agostino chiese ben poco perché, particolare realistico, non aveva molta voglia di disturbarlo. Forse era stanco di delusioni. Forse era per la prima volta soggiogato dal carisma di un uomo, l'unico, che percepiva intellettualmente superiore. C'è un dettaglio famoso che tradisce il suo senso di inferiorità: Ambrogio, riferisce Agostino, sa leggere a mente! Senza dar voce alle parole, senza nemmeno muovere le labbra, Ambrogio è così... così forte che gli basta scorrere l'occhio, e il senso delle parole gli arriva al cervello. Sì, oggi tutti leggiamo così (quasi tutti). Nel quarto secolo no, era appannaggio degli uomini più colti dell'impero.
Di Agostino tutti conoscono un passo, che sotto forma di aforisma da qualche parte avranno anche attribuito a Oscar Wilde: Dio mio, dammi la forza di resistere alle tentazioni, ma non subito. A rendere faticosa la conversione di Agostino al cristianesimo non fu la cultura scientifica che gli aveva impedito di diventare un buon manicheo. Il vero ostacolo stavolta era la carne. Per molti anni probabilmente Agostino seppe di essere destinato al magistero, ma continuò a vivere in quel "subito" in cui poteva concedersi ogni sorta di vizio e nequizia. Cosa facesse in realtà, se orge luculliane o semplicemente qualche bicchiere di falerno e una partitina di dadi con gli amici, non ci è dato sapere. Quando scrive le Confessioni è pur sempre un vescovo, troppo sgamato per lasciare descrizioni dettagliate dei suoi anni perduti. Sappiamo che visse con una concubina per quindici anni. Oggi sembrerebbe piuttosto un indice di relativa stabilità sentimentale. Tanto più che la signora, di cui ignoriamo il nome, manifestò l'intenzione di rimanere fedele allo stronzo anche una volta ripudiata, strappata al figlio e rispedita in Africa. Agostino era profondamente lacerato, ma intendeva fidanzarsi con un buon partito, mammà soprattutto ci teneva tanto. La fidanzatina tuttavia non era ancora in età da marito, occorreva aspettare due anni, e così nel frattempo Agostino si trovò un'altra donna di ripiego. Va bene, però noi quando pensiamo a una vita dissoluta non abbiamo esattamente in mente le traversie di un arrampicatore sociale un po' mammone che in 17 anni intreccia ben due relazioni a sfondo sessuale. Che altro faceva di orribilmente peccaminoso, Agostino?
L'unico misfatto su cui il grande autobiografo si concentra è un furto, congegnato a 16 anni.
Chi già sa, porti pazienza: chi non lo sa, trattenga il fiato: a 16 anni Sant'Agostino organizzò coi suoi amici un furto di pere ai danni di un coltivatore diretto. Questo furto, assolutamente gratuito (nel giardino dei suoi Agostino aveva a disposizione pere di qualità superiore), occupa un libro intero degli undici delle sue Confessioni - è quasi un decimo di quel che Agostino sceglie di raccontare della sua vita. Questo libro, il secondo, comincia così:
Voglio ricordare il mio sudicio passato e le devastazioni della carne nella mia anima.
Non è che avevi fregato pure una paletta dei vigili?
E prosegue raccontando di un furto di pere, ma come si potrebbe raccontare di un delitto premeditato. Era laida e l'amai, amai la morte, amai il mio annientamento. Non l'oggetto per cui mi annientavo, ma il mio annientamento io amai, anima turpe, che si scardinava dal tuo sostegno per sterminarsi. Va avanti così per diverse pagine, e sta introducendo una bravata combinata a 16 anni. Alla nostra sensibilità tutto questo potrebbe sembrare morboso, scriveva Bertrand Russell. Certo, noi avremmo preferito che Agostino ci portasse a fare un giro notturno in qualche luogo peccaminoso del quarto secolo. Ben altra testimonianza d'inestimabile valore storiografico-antropologico avrebbe avuto questo Libro II, per noialtri storiografici e antropologici guardoni. Agostino invece sceglie un episodio squallido, dove non c'è spazio possibile per il compiacimento: a certi peccati di gioventù è impossibile non guardare con tenerezza, ma riempire un sacco di pere altrui senza nemmeno mangiarle, senza aver fame e nemmeno voglia, è una stronzata e basta, se guardi indietro non puoi che darti dell'imbecille. Del resto chi combina scherzi del genere di solito non guarda indietro, non è progettato per farlo, non reggerebbe lo sguardo. Agostino è diverso. Agostino, trent'anni dopo, ha ancora quelle pere sulla coscienza.
Un'accusa che ho spesso sentito muovere al cristianesimo, è che ci avrebbe fatto il dono non richiesto della nozione di peccato: una gabbia ferrea imposta ai nostri desideri, alla libertà della carne, o dei corpi, come li chiamiamo adesso. Non dubito che il cristianesimo sia stato questo per milioni, per miliardi di persone: un prete che ti controlla, ti spia, ti giudica, da fuori o persino da dentro. Ma se guardiamo ai padri fondatori, a quelli che conosciamo un po' meglio: a gente come Paolo, come Agostino, come Martin Lutero, ci accorgiamo che hanno qualcosa in comune. Un'ossessione del peccato, un oscuro senso di colpa che suona persistente per tutta la prima fase della loro vita, una nota grave e costante che si fa sentire sopra ogni altra passione o emozione. Paolo o Agostino non credevano nella colpa perché erano cristiani: erano cristiani perché si sentivano già in colpa, prima, di qualcosa o di tutto. Per loro la fede non era una gabbia, ma un riparo. Se volevano sopravvivere dovevano prima o poi trovare un padre che dicesse: va bene. Sei una merda, lo sei sempre stato: tutto quello che hai fatto è vile e cattivo, e non poteva essere diversamente, ma non importa. Io ti voglio bene, ti ho scelto, ti perdono. Ora smetti di frignare e renditi utile, confuta i pelagiani, scrivi la Citta di Dio, ché tra le infinite merde del mondo sei quello che ha più talento per queste cose, e del tuo talento c'è bisogno.

Agostino è un grande filosofo. Ha anticipato, tra le altre cose, il cogito cartesiano, e ipotizzato una concezione relativistica del tempo. Passato e futuro forse non esistono, sono illusione: ogni cosa accade ora, mentre io scrivo e tu leggi e Agostino a 16 anni ride mentre ruba quelle pere che non mangerà e che non cesserà di rimproverarsi per il resto della sua vita, cioè adesso. Agostino è un grande scrittore. Intuisce che il cuore ha le sue intermittenze, e che anni interi di vita possono sparire dietro il ricordo cristallizzatosi in un giorno solo: come quel giorno delle mie elementari, l'unico che ricordo bene, in cui dovevo fare entrare la mia compagna in un gioco, e senza nessun motivo al mondo la esclusi. Ho commesso senz'altro molte altre cattiverie e cose buone, essendo io buono e cattivo come chiunque altro. Ma gli altri ricordi sfumano, e in questo eterno presente io rimango lì, il penultimo della fila, un atomo che senza motivo decide di fare il male, di generare il male, da cui nascerà altro male che forse è ancora attivo sulla terra in questo momento, cioè sempre; senza nessuna grazia ricevuta.
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Gesù e la colf

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29 luglio - Santa Marta e San Lazzaro, amici di Gesù, I secolo.

 Se abbiamo bisogno di qualcosa
ti chiamiamo noi, grazie.
[2012]. Comincia tutto nel vangelo di Luca, con una episodio che sta in cinque versetti (10,38-42): Gesù predica in casa di due sorelle, Marta e Maria. Quest'ultima resta seduta ai suoi piedi ad ascoltarlo, mentre Marta attende ai lavori domestici, finché non sbotta: ehi, Gesù, lo vedi come sono messa? di' a mia sorella che mi aiuti.
Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».
Luca, lo abbiamo visto, è l'evangelista liberal: ha un debole per i poveri, gli extracomunitari, le donne. Forse, come ogni liberal si rispetti, a casa aveva pure dei domestici, che trattava con molta gentilezza, versando i contributi e usando la frusta solo in caso di estrema necessità. Chissà. In ogni caso ogni progressismo ha un limite, e quello di Luca riguarda i lavori domestici: tutti possono seguire Gesù, tutti possono entrare nel Regno dei Cieli, però gli sguatteri in seconda fila, grazie. Non è che il loro lavoro non sia utile, anzi. Però qualcun altro si è scelto la parte migliore: un modo educato per dire che a voi è rimasta la peggiore. Luca non immaginava forse che la religione che stava contribuendo a fondare avrebbe attecchito nelle metropoli proprio presso quel ceto sradicato senza tradizioni e senza prospettive, la servitù. Gli schiavi che venivano comprati e venduti nei porti del mediterraneo si mescolavano tra loro, cercavano un'identità comune e un riscatto almeno ideale: lo trovarono in una fede religiosa che implicava l'uguaglianza di schiavi e padroni davanti a Dio, ma a quel punto l'episodio di Marta cominciò a creare difficoltà. Per ogni vergine che si consacrava alla vita contemplativa, all'estasi e alle rivelazioni mistiche, dovevano esserci una o più Marte che continuassero a rigovernare le case. Tra la sorella incantata ai piedi del Salvatore, e quella indefessa e brontolona che continua ad andare su e giù tra cucina e lavatoio, lo zoccolo duro dei fedeli ha sempre istintivamente tifato per la seconda. Anche personaggi insospettabili, come Agostino e persino Teresa d'Avila, hanno lasciato scritto che la "parte" di Marta è fondamentale, irrinunciabile, complementare a quella di Maria, eccetera. Però alla fine se torniamo alla lettera del vangelo, vediamo che il Gesù di Luca la mette giù molto più semplice e brutale: Marta è una che si agita per molte cose inutili. Nel vangelo c'è scritto così, se non vi va scrivete un altro vangelo.

Sì, vabbe', miracolo, ma che puzza.
Ciò è stato fatto. In quello di Giovanni, il più tardo dei quattro, scopriamo che la sorella di Marta è la donna che unge i piedi di Gesù e li asciuga coi capelli: la Maddalena, dunque? Giovanni non lo dice. Non sembra considerarla nemmeno una peccatrice: l'unico a sdegnarsi per la scena è Giuda, il disonesto tesoriere degli apostoli, che si lamenta dei 300 denari buttati via per l'unguento, invece di darli ai poveri. Non solo, ma Maria e Marta hanno anche un fratello, Lazzaro, che Gesù risuscita al capitolo 11, creando qualche imbarazzo nei sommi sacerdoti che deliberano di far crocifiggere il sedicente Messia. Le due sorelle da comparse sono promosse insomma a personaggi di rango, e Marta è quella che parla di più. Però c'è sempre il sospetto che Giovanni stia scrivendo una fan-fiction, utilizzando personaggi e nomi già noti per imbastire una storia coerente, ma che non ha riscontri negli altri vangeli, e a ben vedere li contraddice (nei sinottici i sacerdoti decidono di sbarazzarsi di Gesù dopo l'incidente del tempio). Persino il nome di Lazzaro non è una novità: nel vangelo di Luca era il nome di un mendicante. Giovanni insomma sembra conoscere Luca, ma non lo cita. Del breve alterco sulla "parte migliore" non c'è traccia, però le due sorelle sembrano modellate proprio su quel precedente. Quando Gesù arriva, Marta è quella che si muove di più, mentre Maria in un primo momento resta ferma. E se il momento di commozione più pura, in cui si scioglie in lacrime, Gesù lo vive con Maria, è Marta quella che dice le parole che devono esser dette:
«Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà». Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell'ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo».
Guardandosi bene dal pretendere un miracolo qui-e-ora, Marta pronuncia la professione di fede necessaria a ottenerlo. È l'ultimo dei sette "segni" che nel vangelo di Giovanni attestano la divinità di Gesù; è anche quello che ne causa il martirio: siamo insomma al centro di tutta la buona novella, e al centro c'è una sguattera.  Dai tempi di Luca sono passati venti o trent'anni, ma ormai i servi hanno preso il sopravvento, e si stanno forse plasmando un Salvatore a loro uso e consumo: più gentile di quello dei sinottici, più umano, un amico che piange i fratelli morti, e che si fa intenerire dai discorsi di una colf. Perché Marta dentro è rimasta una colf, come si vede bene qualche versetto più giù, dove ribadisce la sua essenza di donna pratica nell'esatto momento del prodigio. Qui, senza apertamente dubitare della divinità del Cristo, si permette di far notare che se si scopre la tomba dopo quattro giorni probabilmente ne uscirà un cattivo odore.
Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni».
Dopo il miracolo Gesù torna nel capitolo 12 a trovare la famiglia e a farsi ungere i piedi da Maria (Marta serve in tavola). Lazzaro a quel punto è una celebrità, vengono da lontano per vederlo; però di lui e delle sue sorelle nessuno parla più. Successivamente le leggende li localizzano qui e là per tutto il Mediterraneo: Lazzaro sarebbe diventato il vescovo di Kittim, Cipro, oppure di Marsiglia, Francia. Quest'ultima ipotesi è compatibile con lo sbarco di Marta e delle tre Marie tra Provenza e Camargue, dove avrebbero compiuto varie imprese. A Marta ovviamente è assegnata una delle più pedestri: sconfiggere il Tarasque, uno di quei mostri medievali dal fiato mefitico che rendevano malsani gli acquitrini. Alla fine si trattava di fare pulizie, come al solito. Marta è la protettrice delle casalinghe, delle collaboratrici domestiche, degli albergatori, dei ristoratori, dei cuochi, delle cognate, di tutte le donne e gli uomini che si lamentano perché non li stai aiutando e allora tu ti alzi e loro ti dicono che tanto ormai è troppo tardi e hanno già finito e dopo un'ora sono ancora lì che passano qualcosa sul pavimento e brontolano ma non puoi più alzarti perché contamineresti il pavimento, e poi non c'è proprio niente da fare, è la parte peggiore, se la sono scelta.
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Dormire come sette

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Questa è una versione turca27 luglio - Sette dormienti di Efeso

In una grotta, dalle parti di Efeso (Lidia, oggi Turchia sudoccidentale), forse riposano ancora i Sette Dormienti. Si chiusero nella grotta ai tempi di Decio imperatore, per sfuggire alle sue violente persecuzioni. Si coricarono, e il mattino dopo mandarono uno di loro a comprare il pane. Al tizio la città sembrò subito un po' cambiata. In ogni foro, grandi edifici sormontati da croci. La gente non voleva il suo denaro, e sì che era argento buono, coniato sotto Decio imperatore. Ci misero un po', i Sette, a capire che avevano dormito duecento anni. La loro religione, già proibita, ora era obbligatoria. Inoltre fra Decio e Teodosio imperatore vi erano state almeno tre riforme monetarie, quindi forse era difficile capire cosa si potesse comprare ora col denaro che si erano portati nella grotta, al di là del valore intrinseco. Racconta la leggenda che i Sette morirono quello stesso giorno, dopo aver ringraziato il Signore per averli tenuti in stand-by tutto quel tempo; il che non ha molto senso da un punto di vista narrativo, ma è una pezza necessaria se sei un agiografo e vuoi conservare il loro status di santi - in alcuni calendari vengono chiamati anche martiri, il che è abbastanza incongruo.

È facile immaginare che il mito esistesse già prima dell'avvento del cristianesimo (che a Efeso arrivò prestissimo, già ai tempi di Paolo). Da un punto di vista cristiano, non ha molto senso sottrarsi al martirio durante una persecuzione - anzi in certi periodi era considerato un vero e proprio tradimento: il vero cristiano dimostrava la sua fede andando incontro ai supplizi, non imboscandosi in una grotta. D'altro canto, la leggenda era troppo bella per rinunciarvi. È in sostanza il primo viaggio nel tempo della storia della narrativa. Non si può però venerare un dormiente: finché dorme non è in cielo. Deve dunque essere morto, possibilmente subito dopo il risveglio miracoloso.

Che la leggenda sia antica, e famosa, lo dimostra anche la sua presenza in un testo d'eccezione, il Corano. Nella Sura della Caverna, Maometto afferma che i giovani dormirono 300 anni "più nove" (309 anni lunari = 300 anni solari?). Poi si svegliarono freschi e decisero di mandare in città qualcuno ad acquistare il cibo, con gentilezza; questa parola ("comportarsi con gentilezza") pare sia il centro esatto di tutto il Corano. In città vengono scoperti e onorati. Ma quale città? Efeso o Ahl al-Kahf, in Giordania? O a Chenini, in Tunisia, dove si ritiene che dormano ancora senza aver mai smesso di crescere, e quindi non potranno che risvegliarsi giganti? Maometto non lo dice. Non chiarisce nemmeno quanti fossero i giovani, ma di una cosa è sicuro: con loro c'era un cane. Quel cane che ancora è udito dai viandanti nei pressi di Azeffoun, Algeria.
Diranno: “Erano tre, e il quarto era il cane”. Diranno, congetturando sull'ignoto: “Cinque, sesto il cane” e diranno: “Sette, e l'ottavo era il cane”. Di': “Il mio Signore meglio conosce il loro numero. Ben pochi lo conoscono”. Non discutere di ciò, eccetto per quanto è palese e non chiedere a nessuno un parere in proposito. Non dire mai di nessuna cosa: “Sicuramente domani farò questo...” senza dire “...se Allah vuole” (Sura XVIII,22-24)
Il cane è del tutto assente nella versione cristiana. Secondo il Corano anche lui dormì per tutto il tempo, assolvendo comunque la funzione di guardiano: stava sulla soglia e dissuadeva chiunque passasse di lì a curiosare nella caverna. Il cane non è un animale molto apprezzato in ambito islamico, anche se Maometto non sembra considerarlo impuro (si raccomanda però che siano lavate molto bene le stoviglie e i vestiti in cui ha ficcato il muso). Impossibile non pensare al dio egiziano Anubi, testa di cane, guardiano del mondo dei morti, e al suo padrone Osiride, anche lui congelato in uno stato di sonno o animazione sospesa, fino alla vittoria finale del figlio Horus sul suo assassino, il fratello Seth. Anubi per l'occasione dovrebbe anche avere inventato l'imbalsamazione - sempre che non fosse un procedimento criogenico per ibernarlo in attesa dell'arrivo di qualcosa che poi non si è fatto vivo, magari rinforzi da Sirio su dischi volanti - da bambino devo aver letto qualcosa di Kolosimo in merito. Da bambino mi faceva un po' paura Kolosimo, pensavo fosse russo o almeno americano. Poi ho scoperto che è nato a Modena.

Tuttora mi domando: ma è terrestre?
Tuttora mi domando: non è terrestre?
Kolosimeggiamo un po’, dai. Mettiamo che Osiride, Horus, Seth, Nefti e tutta la combriccola siano i rappresentanti di una civiltà avanzata che si ritrova a regnare sull’Egitto dell’età del bronzo. A un certo punto scoppia un litigio, Seth ferisce Osiride, ma la tecnologia per guarire Osiride non è più disponibile. Si può soltanto ibernare e aspettare. Con gli anni, tutti i suoi colleghi lo seguono, in un sito perfettamente occultato. Gli egiziani continuano a governarsi da soli, facendo tesoro di alcune innovazioni tecniche portate da Osiride, e dimenticandone altre. Anche la pratica dell’imbalsamazione dei faraoni potrebbe essere nata per scimmiottare le tecniche criogeniche dell’ing. Anubi. I sette dormienti sarebbero ancora nascosti da qualche parte, in attesa di qualcosa che non sappiamo. “Non discutere di ciò, eccetto per quanto è palese e non chiedere a nessuno un parere in proposito”.

Come ormai saprete siamo nei giorni della Canicola, la levata eliaca della stella Sirio (il Cane); tre giorni fa festeggiavamo San Cristoforo, che nelle prime raffigurazioni aveva la testa da cane come Anubi, e faceva un mestiere simile (il traghettatore). Il 29 luglio invece è la festa di San Lazzaro, l’unico uomo a essere stato risorto da Gesù prima della fine dei tempi: un’eccezione incongrua, proprio come quella dei sette dormienti.


Il mito del sonno sospeso è comune a culture diverse e lontanissime: vi è un dormiente nel Talmud, uno in una leggenda cinese del decimo secolo, uno giapponese un po’ più antico, altri simili nei folklori europei – fino alla Bella Addormentata (ma anche i Sette Nani vivono da qualche parte in una caverna fuori dal tempo). Nell’Ottocento Washington Irving si inventa Rip Van Winkle, un contadino fuori New York che dopo un diverbio con la moglie esce di casa e ritorna vent’anni dopo con una barba lunga. Racconta di essere stato accolto in una caverna da dei tizi strani che gli hanno fatto bere qualcosa di molto forte (i superstiti della spedizione di Hudson, abbandonati dopo l’ammutinamento del 1611?) Quando si proclama fedele suddito di Re Giorgio, i locali restano sbigottiti: Rip si è dormito tutta la rivoluzione. Un po’ lo invidiano.

Nel 1961 Rod Sterling scrive per la seconda stagione della serie tv Twilight Zone (Ai confini della realtà) un episodio in cui quattro rapinatori, dopo una fortunata visita a Fort Knox, si nascondono in una caverna nel deserto dove hanno preparato tutto l’occorrente per ibernarsi. Quando si sveglieranno, nel 2061, chi si ricorderà di loro e della loro refurtiva in lingotti d’oro? Uno dei quattro è ovviamente lo scienziato matto dell’occasione, incurante del consiglio del profeta: non dire mai di nessuna cosa: “Sicuramente domani farò questo…” senza dire “…se Allah vuole” . Gli altri tre sono un po’ perplessi, ma si chiudono comunque nelle teche criogeniche.

Si svegliano poco dopo. Quanto tempo è passato? Impossibile capirlo. Però sono rimasti in tre – la quarta teca è stata danneggiata da una roccia. Dentro c’è uno scheletro completamente bianco. Quindi sono nel 2061? Risalgono sulle vetture, ma scoppia un diverbio. Un altro rapinatore ci lascia le penne. Ora le vetture sono inservibili e i rapinatori sono rimasti in due. Nel deserto. Con due sacchi di lingotti d’oro.

C’è solo una strada. Dov’è tutta la gente? In cielo non un aeroplano. Siamo davvero nel 2061? Dove sono le macchine volanti? Dopo un po’ uno dei due ha sete. La sua borraccia è finita. Hai sete? Io ho ancora un po’ d’acqua. Ma ti costa un lingotto d’oro.

I superstiti vengono alle mani. Forse sono tutto quel che resta dell’umanità; in ogni caso uno ammazza l’altro e rimane solo nel deserto, senz’acqua e con due sacchi di lingotti d’oro. Prosegue per l’unica strada. Prima di soccombere, vede finalmente arrivare un veicolo futuristico (un avanzo del set del Pianeta proibito, girato cinque anni prima). Ne scende un tizio vestito in modo strano. Acqua, voglio acqua, dice l’assassino. Ve la pago. E brandisce un lingotto. Va bene, dice il tizio, ma l’assassino muore subito dopo.

Nel veicolo c’è anche una signora. Che voleva, caro? Acqua. Pensa, in cambio voleva darmi questo. Questo affare? E che roba è? Un lingotto d’oro. Una volta era molto prezioso, lo usavano per scambiare le cose. Lo butta via e riparte sul veicolo.

In Galles, Germania, Scandinavia, Ungheria e Boemia, “sette-dormiente” significa dormiglione. In Siria ti augurano di dormire “come quelli di Efeso”. Buona notte anche voi, a Dio piacendo.
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Il santo che tolsero da tutti i portachiavi

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25 luglio - San Cristoforo, cinocefalo, ex patrono degli automobilisti

San Cristoforo e il bambin Gesù, portachiavi
[2012]"Wof".
"Ciao Cristoforo, qual buon vento! Erano secoli che..."
"Taglia corto. Voglio vedere il capo".
"Il... il capo non riceve, mi dispiace".
"Cosa vuol dire che non riceve. Non ha senso. Io gli devo parlare. Adesso".
"Adesso no, Cristoforo, adesso è in... in riunione".
"Ecco. Parliamo di queste riunioni. Cosa sta succedendo là sotto, me lo vuoi spiegare? Cosa stanno combinando?"
"Ma niente... rimettono a posto il calendario, cose che capitano, d'altronde ogni tot secoli una riforma è necessaria, devi pensare che arriva gente nuova in continuazione, e così..."
"E io che c'entro? Forse che ho fatto qualcosa che non va?"
"Ma no Cristoforo, non c'è niente che non vada, però..."
"È vero che mi tolgono il patronato degli automobilisti? Perché? Forse che non li ho protetti?"
"Hai fatto quel che hai potuto, ma..."
"E poi se li tolgono a me a chi li danno, scusa".
"A Sant'Antonio, pare".
"Antonio? L'eremita?"
"Noo. Quello nuovo, il francescano... Antonio di Padova".
"Il ragazzino? E che ha fatto, scusa, che c'entra lui cogli automobilisti".
"L'hanno visto col Bambino in braccio, miracolo attestato in un processo di canonizzazione".
"Col Bambino in braccio? E io allora? Non ce l'ho un affresco col bimbo in spalla in tutte le cattedrali d'Europa?"
"Cristoforo, eddai..."
Cima da Conegliano,
San Cristoforo col bambino e San Pietro
"In braccio. Quel francescano smagrito. Ma vuoi mettere. Gesù si tiene sulle spalle. Seduto comodo, in posizione frontale, come un automobilista, appunto. Sennò vabbe', capirai, il bimbo in braccio... allora diamolo pure alla Madonna, il patronato degli automobilisti. Ma chi è questo Antonio. È appena arrivato e già fa le scarpe agli anziani".
"È qui da sette secoli, ormai..."
"Appunto. Una matricola. Io lo sai che sono qui da quando hanno messo in piedi la baracca".
"Forse anche da prima".
"Esatto".
"È un po' questo il problema, Cris. Tu sei veramente un po' antico".
"Arf! Che male c'è?"
"Basta vedere gli affreschi più vecchi, il bambino sembra minuscolo sulle tue spalle".
"Sono un gigante, e allora? Cosa c'è di male?"
"C'è che i giganti non esistono, Cristoforo".
"Che ne sai tu. Una volta, magari..."
"Una volta, una volta. Adesso queste cose si sanno. C'è la paleontologia, l'archeologia. I giganti non sono mai esistiti".
"Magari ero un Neanderthal".
"Eddai Cristoforo, non fare il furbo. È saltata fuori questa cosa imbarazzante della cinocefalia".
"Wof, di che parli?"
"Nelle raffigurazioni più antiche avevi la testa di un cane, Cris"
"Embè?"
"Senti, non è niente di personale. Non è che ti cacceranno proprio... ti toglieranno dalla prima fila del calendario, questo sì".
"Bau! Cosa?"
"Per quanto riguarda il patronato degli automobilisti, cerca di capire... è un affare serio, parliamo di un settore in crescita vertiginosa, c'è tutta una gadgettistica che sta fiorendo, calamite, adesivi da parabrezza, portachiavi..."
"Io mi sono difeso bene, non puoi dire di no".
"Non sto dicendo questo. Però cerca di metterti nei panni del capo. È un ruolo importante. Non possiamo metterci uno che forse all'inizio aveva la testa di cane. Serve un tizio che abbia dei riferimenti storici, uno di cui si possa dimostrare l'esistenza. Mentre tu..."
"Io cosa? Cosa c'è che non va con me?"
"Tu sei una leggenda, Cristoforo, dai".
"Ma siamo tutti leggende, qui..."
"Tu più di altri. Sei un mostro che guada il fiume col bambino sulle spalle. Magari eri una figura mitologica legata a qualche guado di fiume, o il guardiano di un ponte. Sempre che tu non sia Anubi".
"Anubi? Io? Ma come vi è venuta in mente".
"Già, chissà come. Un traghettatore con la testa di cane, guarda un po'".
"Pietro, questo è veramente un colpo basso".
"Anubi traghettava le anime dal mondo dei vivi al mondo dei morti. Sei sicuro di non saperne niente?"
"Un santo come me, a cui hanno dedicato cattedrali e sagre..."
"La tua festa è il 25 luglio, giusto? La levata eliaca di Sirio, pensa un po'".
"La levata che?"
"Non fare il furbo. La levata eliaca è il giorno dell'anno in cui una stella sorge esattamente all'alba. Nell'antico Egitto la levata di Sirio annunciava la piena estiva del Nilo".
"Molto interessante, ma che c'entro io..."
"Sirio è la stella alfa della costellazione del Cane".
"Costellazione greca, non egiziana".
"Aha! Vedi che queste cose le conosci. Il 25 luglio è l'inizio della canicola, il periodo più caldo dell'anno".
"Io non c'entro niente, io porto il bimbo in spalle, basta".
"Di Anubi si sono perse le tracce con l'arrivo dei Greci. Sappiamo che a un certo punto si è fatto assumere nel loro pantheon come Ermete Psicopompo, l'accompagnatore delle anime. Un autista, praticamente. Però..."
Chi è Anubi? Bau, bau
mai sentito
"Non lo conosco".
"...però c'è questo dettaglio intrigante in Apuleio, che parla di un culto di Anubi ancora nel secondo secolo dopo Cristo, a Roma..."
"Wof! Non ci sono prove!"
"Cris, sei sicuro di non essere Anubi, il dio egiziano dei morti, lo sciacallo inventore dell'imbalsamazione?"
"Ma certo che ne sono sicuro".
"Puoi dimostrarlo?"
"Siete voi che dovreste provare il contrario, al massimo".
"Erano tempi un po' particolari, lo sai meglio di me. C'era il calendario vuoto e molti riti pagani ancora ben radicati, e insomma, si cristianizzò tutto molto in fretta e un po' alla benemeglio. Anch'io in fin dei conti ho una barba bianca un po' da Zeus, diciamo. Però sto nei vangeli, sono abbastanza inattaccabile. Ma tu?"
"Io ho un sacco di affreschi..."
"Sei una figura del folklore. Il gigante selvaggio che salva il bambino. Sei anche un topos letterario. Ma non possiamo metterti nei portachiavi. Che figura ci facciamo?"
"Fino all'anno scorso andava tutto bene".
"Siamo nel 1969, l'uomo è andato sulla luna. L'uomo protestante, almeno. Il cattolico deve ancora star lì a credere ai giganti e onorare gli sciacalli del mondo dei morti? Eddai".
"Mentre invece Antonio..."
"È un predicatore, un francescano, un personaggio storico, ha un carnet di miracoli attestati che non finisce più. E poi era cosmopolita, parlava una dozzina di lingue, tu ancora abbai".
"Non abbaio più così tanto".
Sant'Antonio e il bambin Gesù, portachiavi
"È ancora un po' troppo, Cris, mi dispiace".
"Ho guidato Colombo verso il Nuovo Mondo, ricordati".
"Fu una botta di culo, lo sanno tutti".
"E così mi date il benservito".
"Ma non è così... si tratta di aver pazienza, è cominciata questa fase industriale in cui si dà importanza ai documenti, alla scienza... magari passa un secolo e ti ritiriamo fuori, anche con la testa di cane. Lo sai che ci fu un dibattito medievale sui cinocefali, chi diceva che erano anche loro figli di Dio e chi diceva di no?"
"E allora?"
"E allora per certi versi precorreva i tempi, era un dibattito sulla diversità radicale, in seguito abbiamo capito che i cinocefali non esistono, ma ora ci stiamo misurando con diversità sempre maggiori, per dire, metti che incontriamo razze extraterrestri intelligenti, metti che invece di essere primati siano canidi, per dire... A quel punto torni in ballo tu, con la testa originale".
"Mi stai dicendo che devo aspettare degli ET con la testa di cane?"
"Non necessariamente, però in pratica sì, si tratta di aspettare. Sei un archetipo dopotutto. Hai l'eternità davanti".
"Wof".
"E non fare così, su. Non ti ha preso a pedate nessuno".
"Wof".
"Senti. Non ci guarda nessuno. Perché non facciamo un gioco?"
"Wof".
"Io tiro le chiavi e tu me le riporti".
"Arf! Arf! Arf!"
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Alessio, il finto povero

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17 luglio – Sant’Alessio (V secolo), povero di rango

Un mendicante a Manchester, nel 2015. (Christopher Furlong/Getty Images)
[2018]. Lo trovarono secco nel sottoscala, il mendicante, nella casa del patrizio che diciassette anni prima gli aveva dato riparo. “Anche mio figlio, come te, è in giro per il mondo”, gli aveva detto: “ovunque sia, prego che un altro padre gli dia un tetto e un giaciglio per dormire”. Quando l’ospite morì, e furono per raccogliere dal pavimento le sue ossa irrigidite, si accorsero che la mano stringeva un cartiglio, e che c’era scritto qualcosa; ma non si riusciva a leggere, il morto non mollava la pergamena.

Ci provarono i medici ad aprirgli la mano, i pompieri e i pretoriani, ormai era diventata una specie di sfida. Alla fine chiamarono gli imperatori Arcadio e Onorio, tutti e due, perché l’autore della leggenda probabilmente non era sicuro su quale imperasse a Roma e quale a Costantinopoli; e in effetti probabilmente all’inizio la storia era ambientata nella nuova Roma sul Bosforo, ma poi un copista si confuse, probabilmente un locale, sai come la pensano: di Roma ce n’è una sola, hai voglia a spiegare che ce ne sono almeno tre. In una versione successiva interviene il Papa direttamente, così è chiaro in quale Roma siamo. Dunque ecco arriva il Papa in questo palazzo sull’Aventino, ah ma quindi è in questa casa che dormiva quel sant’uomo del mendicante? Gli volevano tutti tanto bene. Cos’avete detto che ha nella mano? Un cartiglio? Ecco qui (la mano morta si apre senza fatica). C’è scritto… c’è scritto che si chiama Alessio e che ringrazia suo padre per l’ospitalità.

Al padrone di casa si ferma il cuore.

Ritrovamento del corpo di sant’Alessio, XVIII secolo
Il papa all’improvviso si rammenta. “Ma tu avevi un figlio che si chiamava Alessio, no? Quello che mollò la fidanzata davanti all’altare, quando fu? Trent’anni fa? Ma non se n’era andato per il mondo?”

“Alessio, figlio mio”.

“Vuoi dire che per tutto questo tempo non l’hai riconosciuto?”

“Figlio mio!”

“Anche lui però poteva dirti qualcosa, eh”.


Di tutti i santi del calendario, Alessio è forse quello che capisco meno. Tutti i suoi atti di eroica santità, ai miei occhi di abitante del 21esimo secolo, mi sembrano un mix indigeribile di ingenuità e stronzaggine. Mollare la sposa all’ultimo momento perché Dio è più importante? ok, può succedere a tutti di cambiare idea all’ultimo momento, per fortuna lei ti capisce, condivide la tua scelta di castità e si fa monaca, a questo punto perché non dovresti farti monaco anche tu? No, tu te ne scappi via, beh, posso capire anche questo. Decidi di dare tutto quello che possiedi ai poveri, molto giusto, salvo che sei andato via senza un soldo e quindi sei povero anche tu: se fossi rimasto a casa dei tuoi almeno avresti avuto a disposizione un budget da destinare in imprese benefiche, microcredito eccetera, e invece niente: vuoi combattere la povertà con la povertà, una di quelle cose omeopatiche. Ti è mai venuto in mente che invece potevi metterti a lavorare? In fondo sei un giovane sano, puoi benissimo trovarti un mestiere e poi elargire elemosine a tutti i poveri che incontri, il Vangelo si rispetta anche così – eh, no, dopotutto sei un patrizio romano, o campi nel lusso o fai l’elemosina, ma lavorare è fuori discussione.

A un angolo di strada di Edessa di Siria, dove potrebbe stazionare un povero vero, uno che ha problemi seri, un cieco, uno storpio, un lebbroso ci vai tu che per affettare la miseria non ti lavi per anni; e l’espediente funziona, la gente ti annusa e caccia i pezzi d’argento, che poi nottetempo tu dividi davvero coi poveri, e vabbè, se questo è il posto che ti sei trovato nel mondo buon per te; ma a quel punto che fai? Decidi di tornare a Roma. La nostalgia, posso capire. Ma incontri tuo padre e non gli dici chi sei. Ti fai ospitare 17 anni da tuo padre, tuo padre che è in pensiero per te e si torce il cuore all’idea che tu sei in giro per il vasto mondo senza un soldo ed è sicuramente colpa sua, è stato il padre peggiore del mondo, se solo potesse avere una seconda possibilità, e tu stai lì per 17 anni e questa seconda possibilità non gliela dai.

E va bene, chi sono io per giudicare, son tre giorni che non telefono ai miei. Però alla fine prima di morire glielo scrivi sul cartiglio, così fa ancora in tempo a guastarsi la vecchiaia dal rimorso che non ti ha riconosciuto – eh no vabbè ma allora vaffanculo, Sant’Alessio, sei la leggenda di santi più stronza che conosco.

Talmente stronzo che sembri vero. Cioè qui non parliamo di draghi che rapiscono fanciulle o dormienti in una grotta o martiri che accarezzano i leoni; qui c’è un hippy di buona famiglia che sembra stato ritratto l’altro ieri. Figurati se non ce n’è stato almeno uno a Roma o Costantinopoli od ovunque, figurati se in mille anni non è mai successo che un giovinastro mollasse la famiglia per fare il barbone, in teoria in giro per il mondo ma ben presto a pochi metri dalla casa dei genitori. I quali magari a un certo punto si erano impietositi e lo ospitavano pure nella mansarda a uso foresteria, magari fingendo di non riconoscerlo perché il ragazzo ha un suo distorto senso della dignità, che non gli impedisce di chiedere scusa a mamma e papà ma non di chiedere moneta sotto il loro portico di casa. Magari ce n’è stato uno sia a Edessa che a Bisanzio che a Roma, che si svegliavano presto senza mettere a posto la cameretta e uscivano in strada a mendicare, e alla fine che gli vuoi dire? Dopo un po’ sei parte del paesaggio urbano, il giorno che non ti vedono sulla panchina si preoccupano.

Nausicaa s’imbatte sulla spiaggia in un migrante economico.
La leggenda di Sant’Alessio, che io trovo tanto stronza, era una delle più popolari nell’Alto Medioevo. Serviva probabilmente a spiegare che in ogni mendicante ci potrebbe essere un principe, e quindi come tale va trattato; o anche più di un principe: un figlio nostro. Nei tempi in cui capitava a tutti di aver figli in giro per il mondo, su barchette sospesa sui flutti del Mediterraneo o intruppati in qualche legione a portare la pace dove ancora non la sapevano apprezzare; ma ovunque si fossero perduti, avrebbero potuto contare sull’ospitalità, che è la legge più antica. E che ci riguarda tutti, uomini di terra o di mare: se qualcuno è senza tetto, è figlio nostro. Anche se non fosse mai esistito un Alessio, a un certo punto la leggenda ne produsse almeno uno: il primo che mi viene in mente è San Benedetto Labre, un ragazzo francese che nel Settecento arrivò a Roma a piedi senza lavarsi mai, la sua Vita sembra un servizio di Chi l’ha visto. I romani lo presero in simpatia, decisero che era un santo e che faceva i miracoli. Si vede che sotto i pidocchi era un bel ragazzo, ma in un certo senso aveva il terreno preparato dalla storia di Sant’Alessio. Ma io lo so cosa state pensando, voi tre che siete arrivati fin qui.

Pensate: ma quindi viviamo nell’epoca più selvaggia, quella che ha rinnegato persino i principi basilari di umanità espressi nelle leggende medievali? Cosa ci è successo? Niente di così nuovo in realtà. Sant’Alessio non è sempre stato così popolare: in alcuni secoli lo era, in altri no, la percezione del mendicante è cambiata spesso nel corso della Storia. Persino l’Odissea, il libro che mette per iscritto la legge dell’ospitalità nei confronti dei viaggiatori (chi non la rispetta è un antropofago, un mostro senza abbastanza occhi per vedere): persino l’Odissea nella seconda parte nel finale diventa una storia molto diversa, forse lievemente più tarda, un libro in cui gli ospiti puzzano, si azzeccano, mangiano bevono e non vogliono saperne di sloggiare, bisognerebbe farli fuori tutti, ruspa! Anzi no, arco e frecce e nessuna pietà.

Ulisse e i migranti economici.
L’oscillazione che conosco meglio è quella avvenuta tra i secoli XIII e XIV. Nel Duecento, il secolo d’oro della civiltà comunale, il povero diventa un modello. Più i borghesi metton pancia e vestono elegante, più le strade e i sentieri si riempiono di gente che vuole essere povera non per necessità, ma perché la povertà è un valore. Il pauperismo diventa uno stile di vita, un’ideologia, la Chiesa corre al riparo, brucia un po’ di rivoluzionari come eretici e poi cerca di irregimentare le frange moderate: nascono gli Ordini Mendicanti, che sono poveri perché il Papa glielo ha concesso. In mezzo a tutto questo, gli uomini del Duecento continuano a considerare il poveraccio come un’immagine di Cristo, un modello di vita e un figlio da ospitare.


Ma poi arriva il Trecento, la popolazione è aumentata un po’ troppo rispetto alle risorse, le carestie sono sempre più frequenti. La percezione del povero cambia altrettanto repentinamente. L’accattonaggio diventa un reato, i mendicanti vengono incatenati e condotti ai lavori forzati. Non sono più principi in incognito, ma minacce per la società costituita. In effetti spostandosi di città in città non è escluso che diffondano le epidemie: a metà secolo la peste nera falcidia più di un terzo della popolazione. Ritrovarsi per strada senza un soldo nel Trecento era molto più pericoloso che nel secolo precedente. È un esempio che mi ha sempre fatto pensare, forse perché ho spesso avuto la sensazione di vivere in uno di quei passaggi difficili, come tra Duecento e Trecento: i ricchi ingrassano, i poveri aumentano, la classe media perde coscienza di sé, gli artisti si rifugiano nel mercato del lusso e così via. Tutto già previsto e prevedibile.

Anche la nostra insofferenza nei confronti dei mendicanti non è un fenomeno inedito. Quel senso di vergogna che ci sembra così personale, così intimo, quando avvistiamo un’accattona col piattino sotto il portico e tiriamo dritto: anche quel senso di vergogna è una variabile fortemente correlata ad altre funzioni sociali misurabili con un certo margine di errore, per esempio nelle fasi di crescita economica il povero viene trattato meglio, talvolta idealizzato, è il momento in cui Claudio Lolli vede gli zingari felici e Bob Dylan si traveste da gitano sulla copertina di Desire. Probabilmente c’è una correlazione tra il PIL e l’apprezzamento per la musica balcanica, perché vi giuro che c’era un periodo che Bregovic tirava da matti qui da noi, mentre oggi è universalmente disprezzata e bandita anche dal congresso annuale dei poveri, il Concertone del primo maggio. Noi poi siamo convinti che sia tutto relativo, tranne noi. Pensiamo di avere una morale indipendente dalle nostre coordinate geografiche, storiche, sociali; magari siamo comunisti o femministi o vegetariani e siamo convinti che lo saremmo stati anche se fossimo nati a Bisanzio nel V secolo. Tutti convinti di saperci giocare sapientemente le carte che il destino ci ha messo in mano, come se la vita fosse uno scopone scientifico e non un triviale rubamazzo.



E siccome crediamo di avere una morale tutta nostra, e non ereditata dall’ambiente o determinata dal reddito, ci crediamo in diritto di farla agli altri, che dovrebbero essere più buoni, più ospitali, meno egoisti, meno preoccupati per catastrofi che in effetti non sempre accadono, in fondo chi mai potrebbe pensare che l’umanità stia di nuovo finendo le risorse a disposizione? E ci preoccupiamo, quanto ci preoccupiamo di quel che penseranno i posteri di noi: ma i posteri non è che avranno sempre tempo o voglia di processarci. Probabilmente penseranno quello che pensiamo noi degli europei del Trecento: che eravamo sostanzialmente dei poveracci, terrorizzati dall’idea di perdere quel po’ di benessere accumulato dai genitori, smarriti di fronte a segnali di catastrofe che non sapevamo interpretare. E che per quanto superstiziosi, per quanto ignoranti, i peggiori di noi avevano capito quello che gli economisti patentati fino a qualche anno prima si rifiutavano di accettare, ovvero: non si può crescere all’infinito, magari sul grande grafico della Storia una curva può venire un po’ più ampia di un’altra, ma prima o poi si riabbassa, è la sua natura. Sant’Alessio, fossi vissuto un po’ più a monte della curva, mi sarebbe riuscito un po’ più simpatico, un proto-San-Francesco integerrimo e giramondo. Ma non ci posso fare niente, io invece vivo nel 2018 e non lo sopporto, mi sembra la caricatura di un hipster che si fa morire di stenti per fare un dispetto al padre. Invece di salire quelle scale e dirgli scusa, papà, mi sono sbagliato, insegnami un mestiere, ai poveri poi manderò un vaglia. Li aiuterò a casa loro.
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L'arcivescovo in guêpière

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16 luglio – San Vitaliano di Capua (VII sec.), un vescovo molto distratto.

Brancati
Che patrono del cacchio
A San Vitaliano capitò, verso la fine del settimo secolo, di svegliarsi molto presto, come tutti i giorni, per il servizio mattutino; di intonare i salmi in cattedrale con gli occhi probabilmente ancora incispati di sonno; e di cominciare a udire, negli intervalli tra inno e responsorio, qualche risolino sempre meno imbarazzato, finché non capì che stava succedendo qualcosa di veramente terribile; e solo in quel momento aprì gli occhi davvero; e solo in quel momento si accorse che era vestito da donna.

Da donna come?

La leggenda non lo dice! e quindi siamo liberi di sfrenarci: reggicalze, guêpière, eccetera. Anche se più probabilmente era un semplice sottanone, neanche troppo diverso da quelli che veste un prete: ma siamo nel settimo secolo, quasi ottavo, qualsiasi indumento femminile in quella situazione sarebbe risultato piuttosto conturbante.

Bisogna anche dire che il mattutino si cantava molto presto: prima dell’alba. Con tutto questo, per arrivare vestiti da donna in cattedrale ci vuole una certa disattenzione. Vale la pena di ricordare ancora una volta che il travestitismo fu ritenuto per tutto il medioevo un peccato gravissimo (carnevale a parte), e che l'unica prova veramente trovata per bruciare Giovanna d’Arco come strega fu il fatto che si era messa in pantaloni. In seguito Vitaliano riuscì a dimostrare che si era vestito così a sua insaputa: alcuni suoi nemici, preti invidiosi che mal digerivano la sua popolarità presso i fedeli capuani, gli avrebbero sostituito nottetempo i paramenti sacri con abiti femminei; Vitaliano poi era uno di quelli che al mattino si vestono alla cieca, senza neanche accendere il lume, e così… in fondo sempre gonne sono, no? Devo dire che non è così implausibile. Meno di un vescovo col fetish degli indumenti femminili? Non saprei.

Fieni pure a noi, Fitaliano, noi capiamo le extrafakantze tegli uomini ti fede.
Fieni pure a noi, Fitaliano:
noi capiamo le extrafakantze tegli uomini ti fede.
La prima reazione di Vitaliano fu darsela a gambe in direzione Roma, dove il Papa lo avrebbe senz’altro capito e sostenuto. Ma i preti invidiosi lo inseguivano e lo catturarono all’altezza di Mondragone: lo ficcarono in un sacco e lo buttarono a mare, incuranti delle mille altre leggende in cui i santi insaccati e affogati la fanno franca. E infatti, mentre Vitaliano approdava senza grosse difficoltà a Ostia e decideva di trascorrerci le vacanze, a Capua cominciarono a infuriare carestie e pestilenze. La gente mormorava: rivogliamo Vitaliano, anche in tacchi e reggipetto. Torna Vitaliano! Ti capiamo! Chi non ha mai infilato una giarrettiera anche solo per l’effetto che fa, scagli il primo tacco dodici. No.

Mi sto inventando.
È estate, dai.

Ma insomma rivolevano tutti ardentemente Vitaliano, e Vitaliano… non tornò. Cioè, sì, ma appena per un’ospitata di una sera – più che sufficiente a far piovere e ad allontanare il morbo. Ma non si fermò, si vede che non si sentiva più a suo agio; e forse presagiva la fine. Si ritirò in eremitaggio presso due o tre cime diverse – c’è sempre un po’ di concorrenza – nei pressi di Caserta o forse più verso Avellino, dove il Monte Virgiliano fu ribattezzato, in suo onore, Montevergine. E dove poteva anche infilare un paio di mutandine di pizzo sotto il cilicio senza che nessuno avesse niente da dire.
In occasione della sua festa, gli abitanti di Capua si vestono tutti da donne comprese le donne, e poi si abbracciano e si baciano fino al mattutino e anche oltre. No.

Mi sto inventando.

Ma sarebbe divertente, insolito, e credo che gioverebbe anche al turismo, insomma io se fossi nella pro loco ci farei un pensiero. Vitaliano è patrono di tutti gli uomini molto sbadati o che fanno finta, e che si vestono al buio e certe volte arrivano a lavorare con delle mises che ma ti sei visto? Eh, no, scusa, ancora no…. Mado’ che vergogna… San Vitaliano proteggimi.
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Maria12 perdona tutti

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6 luglio - Santa Maria Goretti (1890-1902)

Uno dei due ritratti autorizzati dalla madre
(tra loro non si somigliano).
[2012]. La modernità è una crosta sottile, ha scritto qualcuno, in cui vivono solo alcuni di noi, e solo in alcuni momenti del giorno; altre ere, anche arcaiche, sono a portata di mano, letteralmente: afferri il telecomando, accendi la tv al pomeriggio, e non sei più nella modernità. Sei da qualche altra parte, molto prima o molto dopo, comunque altrove. Vedi cose che in altre ore del giorno non capiresti: ad esempio, le file per entrare ai processi. Anche d'estate, col caldo che fa, c'è gente che a certi processi vuole proprio assistere, e alla sbarra di solito non c'è lo speculatore che si è giocato i loro risparmi coi bond tossici; più spesso si tratta di un tizio che forse ha ammazzato qualcuno di cui non sono nemmeno parenti. Ma in quel momento del pomeriggio – sarà che hai caldo anche tu – sei in un'altra era e capisci che il concetto di parentela è relativo, chi è mia madre? chi è mio parente? Se i parenti sono le persone che vediamo tutti i giorni, ormai Sarah Scazzi è nostra cugina.

Possibile persino che ce la sogniamo di notte. Prima o poi qualcuno verrà a riportare un miracolo commesso da Yara Gambirasio, una grazia ricevuta da Ylenia Carrisi. Non credo che diventeranno sante: il calendario della Chiesa cattolica e quello della cronaca nera sono trasmessi ormai su due frequenze diverse. Però su quelle frequenze si trasmettono cose non dissimili, e forse all'inizio la frequenza era una soltanto. Poco prima del bivio, dello switch, c'è Maria Goretti: l'ultima santa antica, la prima protagonista moderna di un fatto di cronaca nera. Le sue eredi non sono più protagoniste di lunghe cause di canonizzazione; però i fiori, e gli altarini, dopo pochi giorni crescono già, abbarbicandosi ai cancelli delle case, spontaneamente. Dopo un po' arrivano anche i primi biglietti, i primi rudimentali ex voto. La modernità è una crosta sottile: se scavi un po' ti accorgi che sotto c'è ancora un Seicento vivo e pulsante che se la cava benissimo. Non teme la tecnologia, anzi: è cablato, ha le antenne, le parabole, tutto quello che gli serve a produrre e vendere devozione. Evidentemente c'è chi compra.

Di Maria Goretti si sa tutto e niente, nel senso che quel tutto più volte scandagliato da agiografi e giornalisti è comunque poca cosa: è nata; è vissuta in un contesto di miseria profonda, in questo contesto ha resistito tre volte alle avances di un uomo (oggi lo chiameremmo ragazzino) che viveva nella sua famiglia allargata; la terza volta è stata trafitta con un punteruolo; è morta soffrendo orribilmente e perdonando il suo assassino, anzi, perdonando tutti. Siccome la storia era tutta lì, la si poteva gonfiare di ideologia come un palloncino. Maria poteva diventare il simbolo della purezza cristiana, la sua storia si prestava a racconti imbastiti sulla stessa trama delle antiche leggende di santi: uomo cattivo, vergine pura, punteruolo, perdono, resurrezione. Fin troppo facile (eppure il processo di beatificazione andò per le lunghe). Al punto che il palloncino a un certo punto qualcuno lo sgonfiò e lo rivoltò dall'altra parte, e Maria Goretti diventò il simbolo di come la Chiesa opprimeva le donne, attraverso la diffusione di figure sottomesse e sessuofobe come la bambinella illetterata. È il palloncino che abbiamo visto più volte sventolare a sinistra, ma non è sempre stato così: fino agli anni Cinquanta la Goretti poteva ancora passare come una figura protofemminista. Sì, la bambina che difende il suo corpo dalla prepotenza dell'uomo fu persino raccomandata da Togliatti come modello alle ragazze comuniste. Secondo un'altra fonte fu un giovane Enrico Berlinguer a proporla, insieme a un altro recentissimo prodotto mitologico, la partigiana sovietica Zoya Kosmodeminskaja: la lotta contro il nazismo e contro la prepotenza maschile erano evidentemente da intendersi sullo stesso piano. [D'altro canto anche oggi non serve alcuno sforzo per includerla tra le martiri del patriarcato femminicida].

Negli anni Ottanta, in un momento di relativa bonaccia ideologica, un appena trentenne Giordano Bruno Guerri sceglie di compiere seriamente quello che in questo blog si fa per burla: irrompe nella stanza dei palloncini, prende quello già un po’ ammosciato della Virtù Eroica di Maria Goretti… e lo fa esplodere, bang! spaventando chi sonnecchiava nei paraggi. Il suo libro, Povera santa povero assassino, fa il botto: è una ricostruzione storica affidabile, vende bene, viene respinto dal Vaticano come blasfemo e sacrilego, ma costringe la Congregazione per le Cause dei Santi a convocare una commissione, che risponderà ribadendo le tesi del processo di canonizzazione: la Virtù Eroica di Maria Goretti è una Virtù Eroica, punto.

Guerri era di un altro parere. Nel giochino scemo destra-sinistra, G. B. Guerri non può che andare dalla parte di chi ha scritto tante cose su Mussolini e sul Ventennio, tiene una rubrica sul Giornale, ha organizzato celebrazioni per il centenario del futurismo, dirige il museo del Vittoriale. Però rileggere un suo libro degli anni Ottanta ti fa lo stesso effetto di guardare le prime vignette di Forattini degli anni Settanta: dalla distanza sembrano tutti di sinistra estrema. Probabilmente è vero il contrario: siamo noi che ci siamo spostati dall'altra parte, in moto rettilineo uniforme, tanto che a un certo punto Montanelli è diventato un compagno, semplicemente perché restava fermo mentre noi ci muovevamo. A rileggerla oggi, l’anti-agiografia di Guerri sembra costruita su un solido impianto marxista: prima di essere vittima del suo assassino, Maria Goretti è insieme al suo assassino vittima della miseria, del contesto socio-economico che la produce. La prima metà del libro è tutta appunto concentrata sul contesto, e fa spavento: Guerri documenta una povertà dickensiana, una barbarie alle porte di Roma, in una palude in cui il fatto di sangue è l’esito logico di una catena di circostanze inesorabilmente determinate: il vero responsabile, lo si legge più volte tra le righe, è il padrone che affama la santa contadinella e il contadino allupato. Quanto alla Chiesa, se a un certo punto riscopre la martire è ad uso propaganda: per Guerri è cruciale che, dopo tanti ritardi, il processo si sblocchi durante l’occupazione angloamericana, nel momento in cui la virtù delle fanciulle di Roma e Napoli veniva facilmente scambiata al mercato nero. Bisognava trovare un esempio di eroica resistenza al mercimonio della carne, e Maria Goretti era lì a immediata disposizione.

"Dio non vuole. No! Alessandro, tu vai all'inferno. Sì. Sì. Sì".
Quando finalmente si tratta di parlare di Maria come persona, Guerri non nasconde di aver poco da dire: Maria non ha identità, non può averla: non ha studiato, non sa leggere, non aveva le facoltà intellettive necessarie a comprendere i rudimenti della sua stessa religione: sarebbe morta ubbidendo a un Dio che non capiva. Togliatti, lo abbiamo visto, non sarebbe stato d’accordo: Dio o non Dio, Maria non voleva acconsentire a una prepotenza, e questo significa che aveva una coscienza, un coraggio da additare ai giovani. Ma ce lo ebbe davvero, tutto questo coraggio? Scartabellando tra gli atti del processo, Guerri scopre che di fronte al punteruolo Maria aveva esclamato Sì, sì, sì. Quel triplo sì, certificato dal suo assassino (ormai pentito, quarant’anni dopo il fattaccio) aveva creato non pochi problemi ai cardinali durante il processo di beatificazione. Avevano cercato di girarlo in vari modi: “sì” poteva essere considerato la ratifica della frase precedente, “vai all’inferno”? O magari Maria stava acconsentendo a essere accoltellata? Oppure (ci fu chi lo propose) non era proprio un “sì”, magari uno strillo isterico, un “hi hi hi”? Il grido tipico di chi viene minacciato di violenza con un punteruolo…


A distanza di trent’anni la ricostruzione di Guerri sembra ancora solida: eppure c’è qualcosa nel libro che lo fa sembrare in un qualche modo datato, espressione di un periodo felice in cui si potevano ancora scoppiare palloncini per il gusto di farlo. All’inizio pensavo che fosse un problema di scarsa empatia con la vittima, ma non è così: Guerri prova sincera pietas per la “povera santa” (ma anche per il “povero assassino”); il che non gli impedisce di indagare sulle frustrazioni sessuali del secondo e su uno dei pochi misteri della prima: perché faceva la Comunione così poco spesso? (Risposta: perché fisicamente non avrebbe retto il digiuno eucaristico). A mancare è piuttosto un certo tipo di impostazione che negli ultimi trent’anni è diventata lo standard, quando si parla di vicende di questo tipo. Per Guerri i motivi che portano Maria sul calendario sono complesse circostanze storiche, sociali, politiche, e anche diversi colpi di fortuna (fortuna per i parenti, e persino per l’assassino: smisero tutti di far la fame). Oggi, se una Sarah o una Yara diventano improvvisamente famose, noi non ci chiediamo il perché. La fama si spiega da sola, è autoevidente: una persona diventa famosa perché tutti ne parlano, e tutti ne parlano perché è famosa. Se in un primo momento ancora ci sforziamo di imputare la morbosità dei media, appena sorgono i primi altarini ci arrendiamo: c’è un inconscio collettivo da qualche parte, e i media non fanno che sondarlo; ogni tanto invece è lui che sbuca sotto la crosta sottile della modernità, e si mostra per quel che è: un beghino del Seicento, tale e quale. Ma non andò così anche con Maria Goretti?

Secondo Guerri no, non ci furono altarini né una particolare devozione popolare, prima della beatificazione. La notizia di cronaca anzi rischiava di non essere nemmeno pubblicata sui quotidiani clericali, che la ripescarono in chiave polemica (qualche giorno prima erano morti due amanti suicidi, e qualche quotidiano ne aveva approfittato per lamentare il mancato diritto al divorzio). Per molti anni gli unici miracoli, le uniche apparizioni, Maria le fece ai suoi famigliari. Insomma tutto il carrozzone della piccola Santa sarebbe stato imposto dall’alto: solo quando dall’alto arrivarono le prime agiografie, i primi santini, il popolo rispose dichiarando i primi miracoli, le prime grazie ricevute. Magari è andata così davvero. Ma gli altarini che nascono spontanei alle cancellate delle giovani protagoniste di fatti di cronaca mi fanno pensare che potrebbe essere andata diversamente: che un culto di Maria Goretti, sotterraneo, popolare, potrebbe avere tenuto viva la memoria della bambina fino all’inizio della causa di beatificazione; in seguito gli stessi alfieri della causa avrebbero avuto interesse a cancellare questo tipo di devozione dal retrogusto pagano, che potevano creare difficoltà nel dibattimento.

Alla fine sto gonfiando anch’io per quel che posso il mio palloncino: secondo me le religioni esistono prima delle Chiese, che sono un tentativo più o meno goffo, più o meno elegante di dare un’aria strutturata, consequenziale, a qualcosa che nasce già spontaneamente. Per pensarla così mi basta accendere la tv al pomeriggio, c’è la Vita in Diretta e mi sembra una cerimonia. Parlano di qualche bambina scomparsa, e all’improvviso sembra scomparsa anche per me. Cosa voleva dirmi? Quale mio peccato sta espiando? Non è chiaro; Mara Venier fa il possibile per spiegarmi, ma forse certe verità sono accessibili solo a un ristretto cerchio di iniziati.
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Tommaso, apostolo doppio

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3 luglio – San Tommaso apostolo (I sec.), scettico credente e giramondo

[2018]. C'è un gesuita austriaco in giro per l'Amazzonia in cerca di popoli da battezzare. Quando incontra una tribù di Guaranì, la prende molto per il largo: salve, mi chiamo Martin Dobrizhoffer, vengo dall'altra parte del grande mare, sono un prete e vengo a portarvi il C...
"Sì, sì", taglia corto il capotribù, "grazie del pensiero ma non abbiamo bisogno di preti qui, tutta la storia di Cristo e della salvezza ce l'ha spiegata direttamente Tommaso".
"Tommaso?"
"L'apostolo".
Ci sarebbe di che gridare al miracolo – salvo che siamo nella seconda metà del Settecento e neanche Dobrizhoffer riesce ad accettare l'idea che San Tommaso si sia spinto a predicare il vangelo in Paraguay. La stessa risposta l'aveva ottenuta un gesuita spagnolo un secolo prima; magari i guaranì avevano semplicemente scoperto che raccontando la storiella giusta i gesuiti li lasciavano stare.

Oppure.

Oppure un Tommaso evangelizzatore è esistito davvero: non necessariamente l'apostolo, ma uno dei primissimi esploratori europei, perché no? un cane sciolto che si era perso nella jungla e che aveva insegnato il cristianesimo agli indigeni caricandosi una croce sulle spalle. Qualcosa del genere, lo vedremo, potrebbe essere successa anche dall'altra parte del mondo.

Il Vangelo non lo dice esplicitamente, ma Caravaggio, se c'è una piaga, ci mette il dito.

Del resto Tommaso è un doppio: lo dice il nome. In aramaico significa "gemello", e a volte è affiancato all'equivalente termine greco, Didimo. I tre vangeli sinottici non ci dicono nient'altro di lui. È solo col vangelo di Giovanni che diventa un personaggio, uno di quelli di poche parole ma tutte importanti. Sua è una delle frasi più icastiche di tutto il libro, quando alla notizia che Gesù intende riavvicinarsi a Gerusalemme, dice ai colleghi: "Andiamo a morire con lui". Giovanni passa per l'evangelista-filosofo, ma in certi casi mi sembra anche uno straordinario narratore: in tre parole ha suggerito al lettore il momento in cui Gesù decide di mettersi davvero nei guai, e la rassegnazione con cui i seguaci più intimi lo accompagnano al macello. Inoltre ci ha preparato per l'altra scena in cui userà il suo personaggio: che idea ci facciamo di Tommaso in questo versetto? Sembra il brontolone nell'angolo, il tizio che mentre Pietro e Giovanni si esaltano al pensiero di sedere nella gloria del figlio dell'uomo, sta riflettendo sul fatto che probabilmente nessuno riporterà la pelle a casa.

Oppure?

Io perlomeno l'ho sempre visto così ("Ecco, adesso ci tocca morire anche noi"), ma rileggendo mi sono reso conto che la frase si può anche interpretare in un modo più semplice, come un'esortazione al martirio: dai, andiamo a morire con lui! Dipende insomma tutto da come ti immagini la scena, e la tua immaginazione dipende molto dalla tua esperienza di vita. Per tutto questo tempo non mi ero accorto che alla fine il mio Tommaso era uno specchio: il brontolone nell'angolo ero io.

Ma l'episodio che fa di Tommaso uno degli apostoli più conosciuti è ovviamente quello del dito nella piaga (un dito che Tommaso non ha necessariamente infilato, anche se la scena era troppo adatta a Caravaggio perché Caravaggio non la dipingesse). Dopo la morte in croce, quando Gesù comincia ad apparire qua e là, Tommaso prende di nuovo la voce a nome degli osservatori più concreti, meno disposti a farsi prendere dall'entusiasmo: sentite, so che siamo tutti molto scossi, ma questa cosa non la bevo. Non ci credo. Potrebbe essere un altro, dopotutto, no? Per crederci dovrei vederlo, anzi no, dovrei infilare il dito nelle ferite dei chiodi, la mano nel suo costato. Otto giorni dopo, Gesù riappare e sfida Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio costato». A questo punto molti credono che Tommaso abbia davvero infilato il dito (e Caravaggio è appunto tra loro), ma il vangelo non lo dice. Giovanni si limita a riferire che Tommaso cede su tutta la linea: «Mio Signore e mio Dio», dice. Gesù gli risponde: tu hai veduto e hai creduto; beati quelli che non vedranno ma crederanno. Per il quarto evangelista in effetti non c'è niente di male a chiedere a Gesù dei segni tangibili della propria divinità: la prima parte del suo resoconto è proprio un elenco circostanziato di miracoli (il cosiddetto Vangelo dei segni), avvenuti davanti a testimoni credibili. Con l'Ascensione di Gesù in cielo il tempo dei segni si conclude: non sarà più possibile chiedere dei segni, Tommaso è tra gli ultimi ad averne ottenuto uno. Da qui in poi, per credere bisogna fidarsi dei testimoni: tanto più che la fine dei tempi è vicina.

Oppure?

Oppure il Gesù risorto era un imbroglione, e Tommaso il suo compare. Come altri personaggi del quarto vangelo, sembra più un'invenzione letteraria che un testimone in carne e ossa: nell'economia del racconto la sua funzione è proprio quella del compare del ciarlatano. Se avete presente la scena: il tizio con la cura miracolosa sta imbonendo la folla. Un tizio prende la parola per dire che non ci crede. Il ciarlatano stranamente lo lascia parlare, finché non ha catalizzato tutto lo scetticismo del pubblico, e poi gli propone di provare il suo elisir. Il tizio esita, in un primo momento non vuole (forse ha paura?) ma poi si lascia convincere, e miracolo! La cura su di lui funziona. Il pubblico si pente di aver dubitato.



Il ciarlatano, di Giovan Battista Tiepolo

È un trucco da quattro soldi; stupisce che l’abbia adoperato un narratore e un pensatore raffinato come il quarto evangelista, ma probabilmente la predicazione dei primi testimoni funzionava così: di fronte alle obiezioni degli scettici, reagivano raccontando che anche loro erano stati scettici, ma avevano dovuto ricredersi. Avevano visto il Risorto, avevano controllato le sue ferite, ed erano degni di fede. Paradossalmente, tendiamo tutti a credere di più al racconto di un ex scettico: solo gli scemi non cambiano mai idea, se questa persona che mi parla a un certo punto ha cambiato idea, forse non è scema. In un mondo in cui le informazioni viaggiavano attraverso i resoconti orali e le rare testimonianze manoscritte potevano essere interpolate a piacere, il trucco del Compare doveva essere particolarmente efficace (lo è tuttora). Non è che ci cascassero tutti, anche allora: ma se hai voglia di cascarci, se tutto quel che ti serve è una piccola spinta, non c’è niente come un tizio sereno e risolto che ti dice: dubiti? Dubitavo anch’io, so come ti senti, ma poi mi è passata. Passerà anche a te.

Lo stesso Pietro doveva insistere molto, nella sua predicazione, su tutti gli episodi in cui aveva dubitato di Gesù, talmente diffusi che compaiono in tutti e quattro i vangeli. Lo stesso Paolo ci teneva a ricordare che non era stato cristiano sempre, anzi all’inizio i cristiani li perseguitava. Quanto a Tommaso, ecco, appunto: dov’era finito Tommaso, col suo Dito Indagatore? Secondo un Acta del terzo secolo, era partito nella direzione contraria di Pietro e Paolo: a est, fino alle Indie. Dove effettivamente esistevano comunità ebraiche, e forse a un certo punto anche comunità cristiane, ma la leggenda potrebbe anche essere nata per spiegare la completa scomparsa di Tommaso dall’orizzonte. Di uno degli apostoli più interessanti dei vangeli (in realtà soltanto del quarto vangelo, il più tardo e il più diverso dagli altri) si erano completamente perse le tracce.

Oppure.

Oppure qualcuno le aveva cancellate con scrupolo, perché? Chi lo sa. Forse perché il vangelo di Tommaso era molto diverso dagli altri. Ancora più diverso di quello di Giovanni. Era un’ipotesi stuzzicante, non dite di no. Sta stuzzicando persino me che la racconto – l’idea di un vangelo completamente diverso dagli altri quattro, che racconta insegnamenti diversi, oppure gli stessi insegnamenti, ma presentati in una luce diversa. Ma gli uomini preferirono la tenebra alla luce, e nascosero il vangelo di Tommaso sotto il moggio. E se qualcuno lo ritrovasse? Oppure: se qualcuno lo scrivesse – magari interpolando qualche vecchia raccolta di detti di Gesù da cui avevano attinto anche gli altri evangelisti, e lo intestasse a Tommaso, l’unico apostolo degno di toccare le piaghe del Cristo? Se non fosse esistito, il Vangelo Apocrifo di Tommaso, prima o poi qualcuno lo avrebbe inventato. E anche se fosse stato scritto in qualche dispersa comunità cristiana di quelle terre lontane tra l’Eufrate e l’Indo, ai tempi dell’impero Arsacide o Sasanide, prima che l’invasione islamica facesse tabula rasa, sarebbe stato comunque più facile trovarne una copia semidistrutta in Egitto, nei pressi della grande biblioteca di Alessandria – anche se in realtà il manoscritto integrale è stato ritrovato a Nag Hammadi, dall’altra parte dell’Egitto. È una copia del quarto secolo, ma il testo quando è stato composto? Gli studiosi non si raccapezzano. Potrebbe essere stato scritto presto, prestissimo, quando ancora non esisteva il racconto della Passione (il vangelo di Tommaso è soltanto una raccolta di detti di Gesù), quando i cristiani non si chiamavano così e alcune credenze fondamentali non erano ancora state fissate. Ad esempio il Giudizio Universale, la fine dei tempi: il Gesù del vangelo di Tommaso non ne parla, e almeno in un punto sembra suggerire che non esista la vita dopo la morte, e che il Regno dei Cieli sia qualcosa che esiste sulla terra, tra i viventi.

Oppure?

Oppure potrebbe essere un’opera molto tarda, una rielaborazione dei detti di Gesù da parte di una setta gnostica che li travisa completamente – il Gesù che emerge da molti versetti è più simile a un santone orientale, dà consigli sull’alimentazione e sull’abbigliamento e insegna misteriose parole magiche ai discepoli più intimi (a Tommaso). Potrebbero anche essere vere entrambe le ipotesi: una setta gnostica nel terzo o quarto secolo potrebbe aver interpolato un manoscritto molto più antico, forse addirittura il resoconto più antico dei detti di Gesù (la famosa “fonte Q”). Sarà una suggestione, ma quando provo a leggerlo mi sembra di avere davanti un oggetto ambiguo, doppio: quando racconta gli stessi episodi degli altri quattro vangeli, li esprime in modo più rozzo degli altri, come una fonte primaria; quando invece aggiunge qualcosa, si perde in svolazzi misticheggianti.
Avete presente quando si dice che la tale questione è “un puzzle che affascina gli studiosi”? È solo una frase fatta, ma col cristianesimo antico spesso si tratta di ricostruire un puzzle 700×700 quando in mano abbiamo soltanto una manciata di pezzi che non combaciano tra loro. Tre tessere sono azzurre, il che ci fa pensare che il puzzle sia l’immagine di un cielo – ma il cielo potrebbe anche essere solo un angolo del quadro.

Tommaso è venerato come martire: gli Acta del quarto secolo raccontano che dopo aver costruito chiese ovunque dalla Persia all’India (del resto era carpentiere) fu messo a morte da un re dell’India meridionale che è stato identificato in Vasudeva I. Oppure no: Marco Polo nel Milione racconta una storia molto poetica, che scagiona Vasudeva e toglie all’apostolo la corona del martirio: mentre pregava in un boschetto, circondato da pavoni che facevano le loro ruote, Tommaso sarebbe stato trafitto accidentalmente dalla freccia di un cacciatore. Marco Polo scrive tutte le storie che sente raccontare sul suo cammino, senza porsi troppi problemi sull’affidabilità di chi glieli racconta; oppure è un uomo del suo tempo: in Italia i santi si sono improvvisamente messi a predicare ai pesci e agli uccelli, perché un apostolo disperso in oriente non dovrebbe attirare a sé i pavoni? Marco Polo però non accenna all’esistenza, in India, di comunità che si definivano Cristiani di San Tommaso. Queste comunità esistono tuttora sulla costa meridionale dell’India, nello stato di Kerala, riconosciute dai governanti locali come sottocaste: esistevano ben prima dell’arrivo dei mercanti portoghesi, coi quali strinsero un’alleanza commerciale. Solo a quel punto cominciarono a definirsi Cristiani di San Tommaso, ad abbandonare i riti in lingua siriaca e ad abbracciare il latino. Da cui l’ipotesi che l’evangelizzazione indiana di Tommaso sia una leggenda arrivata solo nel XVI secolo con le prime caravelle europee.

Oppure?

Tommaso di Cana

Oppure il Tommaso dei cristiani di Kerala potrebbe essere un altro Tommaso, e più precisamente Tommaso di Cana: un sacerdote e capotribù che tra il IV e il IX secolo avrebbe guidato 72 famiglie cristiane dalla Siria orientale fino alla costa occidentale dell’India. Questo almeno è l’ipotesi più accreditata presso i Cristiani di San Tommaso del sud, e non è poi così inverosimile che una comunità di cristiani possa aver cercato nell’India politeista un rifugio durante questa o quella invasione turca o mongola; mentre i Cristiani di San Tommaso del nord insistono sul fatto che a Kerala, prima del Tommaso di Cana, fosse già arrivato Tommaso apostolo. Proprio come in Paraguay, dall’altra parte del mondo. Tommaso è sempre un doppio, qualcuno che ci racconta una storia che già sappiamo: ma forse ripeterla ci aiuta a crederci. Oppure a dubitarne.
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Ester e il primo pogrom

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1 luglio - Santa Ester (V secolo aC), da reginetta a salvatrice

La più famosa alla fine resta l'Ester di Benouville.
(Benouville) Niente teste tagliate, qui,
al massimo ogni tanto spunta un piedino.
[2014]. Ester è la protagonista di una delle storie più divertenti della Bibbia - anche se non ha avuto presso i gentili lo stesso successo di Mosè o David. La sua vicenda è molto più popolare presso gli ebrei, che sin dall'antichità rileggono il breve libro di Ester una volta all'anno in occasione dei festeggiamenti primaverili del Purim. I cattolici invece la celebrano il primo luglio, mai capito il perché. Alcuni la confondono con un'altra eroina assai più discutibile, Giuditta: la ragazza di buona famiglia che si concia da prostituta per far abboccare un generale antisemita e tagliargli la testa, offrendo un buon pretesto a generazioni di pittori e pittrici per ritrarre indumenti sexy e schizzi di sangue. Giuditta però non è stata ammessa né nella Bibbia ebraica, né nel calendario cristiano. Ester, al contrario, per salvare il suo popolo non commette nulla di riprovevole: anche lei si tira da urlo, ma soltanto per convincere il suo legittimo convivente a non ammazzarla, e magari a sospendere un pogrom.

Siamo a Susa, a corte del potente re Assuero. Chi sia questo potente re che governa "dall'India all'Etiopia" non è ben chiaro, anche se tradizionalmente viene identificato con Serse I, sì, il cattivo delle Termopili. Erodoto ha scritto parecchio su Serse, ma senza menzionare nessuna Ester. A un certo punto però ricorda l'episodio in cui promette alla moglie di concederle qualsiasi cosa ella chiederà, ed ella ovviamente chiede che Serse tagli la testa a una sua amante. È un esempio molto antico di "don contraignant", il tropo narrativo in cui un re firma una specie di promessa in bianco che gli costa sempre molto caro.

Lo stesso tropo torna nel libro di Ester, che se fosse davvero ambientato ai tempi di Serse descriverebbe fatti successi nel V secolo aC. Più probabilmente è stato composto tre secoli più tardi, da un bravo narratore senza molte preoccupazioni di verosimiglianza storica, all'epoca dei Maccabei - una dinastia di sacerdoti che lottava per conservare l'autonomia e l'identità del popolo ebraico, contro l'imperialismo assimilatore dei tiranni seleucidi. Per sopravvivere arrivarono al punto di allearsi coi Romani, che nel primo secolo aC. finirono per sostituire i tiranni precedenti, e il resto della storia più o meno la sapete.

Ma torniamo a Serse, anzi, Assuero. Siamo a una festa in grande stile a Susa, più o meno al settimo giorno di festeggiamenti, quando al re dei re, un po' brillo, vien voglia di esibire la regina Vasti davanti ai suoi invitati. Mandata a chiamare dagli eunuchi, Vasti si nega, senza neanche accampare la scusa di un mal di testa. Per il re dei re non è solo una figuraccia insopportabile: come gli spiegano i consiglieri, una cosa del genere rischia di devastare l'istituto famigliare in tutto l'impero. Appena la notizia si saprà in giro, dall'India all'Etiopia, c'è il rischio concreto che le mogli smettano di correre in salotto quando il marito le chiama, bisogna fare qualcosa. Vasti viene immediatamente detronizzata e, secondo una tradizione successiva, messa a morte; per rimpiazzarla viene lanciato un concorso che porta a Susa le più avvenenti (e obbedienti) fanciulle vergini di tutto l'impero. A vincere è la giovane Hadassa, un'orfanella ebrea che Mardocheo, funzionario del re, aveva allevato come una figlia, e che forse per nascondere le sue origini si fa chiamare "Ester", stella del mattino.

Il fatto che il nome richiami Ishitar, la dea babilonese della fertilità, e abbia per cugino un Mardocheo (Marduk è il re degli dei babilonesi, cugino di Ishitar) lascia sospettare che il canovaccio sia un antico mito mesopotamico, ripreso dagli ebrei quasi in chiave di farsa. Il Mardocheo del libro ha probabilmente dovuto assumere il nome pagano per poter lavorare a corte. Proprio qui gli capita di sventare un complotto di eunuchi che vogliono attentare alla vita del sovrano. Mardocheo avvisa Ester, Ester avvisa Assuero, Assuero fa arrestare e interrogare i due eunuchi e premia Mardocheo con una promozione. La vita di un re dei re è però molto intensa, e in poco tempo Assuero finisce per dimenticarsi sia dello zelante funzionario che dell'avvenente reginetta. Nel frattempo splende a corte la stella di Aman (BOOOOOOOOOOOOOH! SCRASHSBDANGANGDANG), un principe agaghita - non che nessuno sappia chi siano gli agaghiti e donde vengano. Infatti la versione greca, un po' più tarda, lo nazionalizza macedone.

Questo Aman (BOOOOOOOOOOOH!), investito di un'autorità inferiore solo a quella di Assuero, si monta immediatamente la testa e impone che tutti si inginocchino davanti a lui. L'unico a non inginocchiarsi davanti ad Aman (BOOOOOOOOOOOOH!) è proprio Mardocheo. Quando Aman (BOOH!) se ne rende conto, decide di fargliela pagare, sterminando completamente il suo popolo. Per decidere il giorno del genocidio si affida ai purim, pietruzze adoperate per estrarre i numeri a sorte. Esce il tredici del dodicesimo mese (Agar, tra febbraio e marzo). Quindi tutto contento si reca dal suo re e gli propone, in cambio di un indennizzo di diecimila talenti d'argento di sterminare un popolo disseminato nel suo regno "che non osserva le leggi del re". Il re gli passa tranquillamente l'anello col sigillo reale, che Aman (BOH!) usa per controfirmare uno dei primi discorsi antisemiti in nostro possesso - se non il primo in assoluto.
...in mezzo a tutte le stirpi che vi sono nel mondo si è mescolato un popolo ostile, diverso nelle sue leggi da ogni altra nazione, che trascura sempre i decreti del re, così da impedire l'assetto dell'impero da noi irreprensibilmente diretto.
Considerando dunque che questa nazione è l'unica ad essere in continuo contrasto con ogni essere umano, differenziandosi per uno strano tenore di leggi, e che, malintenzionata contro i nostri interessi, compie le peggiori malvagità e riesce di ostacolo alla stabilità del regno, abbiamo ordinato che le persone a voi segnalate nei rapporti scritti da Amàn, incaricato dei nostri interessi e per noi un secondo padre, tutte, con le mogli e i figli, siano radicalmente sterminate per mezzo della spada dei loro avversari, senz'alcuna pietà né perdono, il quattordici del decimosecondo mese, cioè Adàr; perché questi nostri oppositori di ieri e di oggi, precipitando violentemente negli inferi in un sol giorno, ci assicurino per l'avvenire un governo completamente stabile e indisturbato».
(Tintoretto) "Dei sali, presto".
(Tintoretto) “Dei sali, presto”.
È la versione greca; l'originale ebraico è molto più stringato. Ma insomma la sostanza è già familiare: vivono tra noi, ma non sono come noi. Vanno eliminati. È un rotolo di ventuno o ventidue secoli fa, pensate. E già allora la situazione, per quanto terribile, ispirava i toni di una farsa. Perché il libro di Ester, secondo alcuni lettori contemporanei, è una spietatissima commedia.

Quando Mardocheo viene a sapere dell'Editto di sterminio, si lacera le vesti e si cosparge il capo di cenere; coperto di un umile sacco viene a chiedere udienza al re, ma ovviamente viene bloccato prima di entrare. Ester lo vede dalla finestra e gli fa mandare dei vestiti; Mardocheo rifiuta di indossarli e le spiega (tramite un eunuco) cosa sta per succedere. Ricordati dei giorni della tua povertà, di chi ti ha nutrito! Intercedi per noi presso il tuo re, che aspetti? Il guaio è che Ester non è più la favorita del re. Succede a molte reginette: adorabili, ma stancano subito, non ti entrano nelle vene. Pensa che è da trenta giorni che il re non mi fa chiamare, spiega Ester. Credi che io possa andare da lui così, come se niente fosse? Lo sai cosa succede a chi cerca di incontrarlo senza essere stato convocato? Gli tagliano la testa all'istante.

Mardocheo reagisce con una certa durezza: credi di salvarti perché sei nella reggia, ma sei ancora un'ebrea. Morirai comunque se non fai qualcosa. Chissà, forse c'è un motivo per cui ti è capitato si essere lì dove sei.

È a quel punto che Ester cessa di essere la reginetta timida e noiosa. Manda a dire allo zio di radunare tutti gli ebrei di Susa: ché preghino e digiunino tre giorni. Anche lei, nei suoi appartamenti, farà la stessa cosa. Nella versione greca seguono due lunghe preghiere di Mardocheo ed Ester, aggiunte probabilmente da un ebreo di Alessandria, forse un po' impensierito dallo spirito laico del libro - uno dei due della Bibbia in cui non viene mai nominato Dio (l'altro è il Cantico dei Cantici). E tuttavia anche le due poesie ottengono un effetto narrativo, perché dopo tante accorate invocazioni, quando al terzo giorno Ester depone i vestiti di sacco e si leva la cenere dal capo e si veste da principessa, è un po' come in quel film in cui la Mangano da suora si trasforma improvvisamente in ballerina: ecco, adesso sì che non è più una reginetta slavata, adesso sì che è sexy. La vediamo procedere nel corridoio, rosea nel volto, ma col cuore stretto dalla paura: sta andando al supplizio. Quando il re la vedrà, le guardie verranno a coprirle il capo e l'ammazzeranno. La sua unica speranza è che il re stesso stenda lo scettro verso di lei. Il re è seduto sul trono, "tutto splendente di oro e di pietre preziose, e aveva un aspetto terribile".

Ma Dio volse a dolcezza lo spirito del re ed egli, fattosi ansioso, balzò dal trono, la prese fra le braccia, sostenendola finché non si fu ripresa, e andava confortandola con parole rasserenanti, dicendole: «Che c’è, Ester? Io sono tuo fratello; fatti coraggio, tu non devi morire. Il nostro ordine riguarda solo la gente comune. Avvicinati!». Alzato lo scettro d’oro, lo posò sul collo di lei, la baciò e le disse: «Parlami!».
Gli disse: «Ti ho visto, signore, come un angelo di Dio e il mio cuore si è agitato davanti alla tua gloria. Perché tu sei meraviglioso, signore, e il tuo volto è pieno d’incanto».

(Lastman) Aman porta a spasso Mardocheo.
(Lastman) Aman porta a spasso Mardocheo.
Ma poi sviene di nuovo (anche in questo caso, l’originale ebraico è meno fotoromanzesco e svenevole). Il re a questo punto è pronto a prometterle anche mezzo regno: Ester si accontenta di invitare a pranzo lui e Aman (BOOOOOOOOOOOH!)

A pranzo li tiene sulle spine: insomma Ester cosa vuoi? Mezzo regno? Guarda che è tuo, eh, basta che me lo dici. No, mi piacerebbe invitarvi a un banchetto anche domani. Uhm, va bene. Mentre Assuero non sa più che pensare, Aman (BOOOOOH) se ne va tutto tronfio per l’onore di essere l’unico ammesso in questi esclusivissimi meeting col re e la favorita. Ma poi in fondo al corridoio vede Mardocheo e gli torna la rabbia, una gran rabbia. Tanto che quando torna a casa è ancora lì che rimugina, e Mardocheo di qua, e Mardocheo di là, al che la moglie esasperata gli dice, ma senti, perché non pianti un palo di 50 cubiti e non chiedi al re di farlo impiccare? Così la facciamo finita. Grande idea!

Mentre l’odioso personaggio sta facendo piantare il palo, Assuero nei suoi appartamenti non riesce a dormire. C’è un pensiero che lo tiene sveglio, e nemmeno sa che pensiero sia. In casi come questi non c’è niente come il librone delle cronache: i domestici te ne leggono un po’ e tu cadi in letargo, meglio che contar le pecore. Orbene di tutte le pagine, quella sera gli viene letta la storia di come un oscuro funzionario – Mardocheo – gli salvò la vita sventando un attentato. Ma toh, pensa Assuero, me n’ero dimenticato. E cos’ho fatto per ricompensare il tizio? Niente di che, gli rispondono. Niente di che? Sono davvero un cafone tanto insensibile? Non sorprende che non riesca a dormire.

(Armitage) BRUTTO PORCO LEVALE LE MANI DI DOSSO
(Armitage) BRUTTO PORCO LEVALE LE MANI DI DOSSO
L’indomani, di buon ora, Aman (BUH!) si reca tutto contento da Assuero. Non vede l’ora di chiedergli di impiccare l’ebreo. Ma prima che possa aprire la bocca, Assuero gli domanda: senti, se io volessi onorare un uomo, sul serio intendo, che dovrei fargli? Di me! Sta parlando di me!, pensa l’odioso. E di chi altri? Eh, mio sovrano, se dipendesse da me… io lo vestirei con gli abiti regali, gli metterei in testa una corona e lo farei scortare dal più nobile dei principi, a cavallo per le vie della città. E il più nobile dei principi dovrebbe gridare davanti a lui: guardate cosa succede all’uomo che il re vuole onorare!
Mi piace, dice Assuero. Allora facciamolo. Prendi queste vesti, prendi la corona, e va a scortare per le vie di Susa Mardocheo… conosci Mardocheo, sì?

E questo è solo l’inizio. Dopo aver accompagnato il suo peggiore amico nel trionfo, l’odioso antisemita deve pure andare a pranzo dalla regina e assistere alla solita manfrina: cosa vuoi Ester? Mezzo regno? Qualsiasi cosa. Stavolta Ester una richiesta ce l’ha: vuole vivere.
Perché io e il mio popolo siamo stati venduti per essere distrutti, uccisi, sterminati. Ora, se fossimo stati venduti per diventare schiavi e schiave, avrei taciuto; ma il nostro avversario non potrebbe riparare al danno fatto al re con la nostra morte».
È chiaro? Ti stanno fregando. In cambio di diecimila talenti d’argento stanno dissipando un capitale culturale inestimabile. E chi è che mi avrebbe convinto a fare una cazzata del genere?, si domanda il re dei re. È lui, Aman. BOOOOOOOOOOOOOOOOOOH!

Assuero è talmente fuori di sé che deve uscire dalla stanza. L’antisemita è completamente distrutto, fa persino un po’ pena. Si inginocchia davanti a Ester, ai piedi di Ester, si prostra davanti al divano in cui giace semisdraiata Ester – in quel momento Assuero rientra nella stanza, lo vede e impazzisce. Ti vuoi anche fare la regina, davanti a me, in casa mia? Eunuchi, prendetelo. E gli eunuchi: ehi, ma è lo stesso che stamattina ci ha fatto piantare un palo per impiccare Mardocheo. CHE COOOOOSA?


Il lieto fine potreste immaginarvelo da soli: l’antisemita viene appeso al suo palo, Mardocheo prende il suo posto, Ester è di nuovo la favorita. No, c’è di più. Bisogna sistemare la questione del pogrom. Siccome ciò che è stato suggellato con l’anello imperiale non può più essere revocato, Assuero non può impedire ai nemici degli ebrei di prendere le armi. Può però dare agli ebrei ampia facoltà di difendersi. Quanto ampia?
...il re dava facoltà ai Giudei, in qualunque città si trovassero, di radunarsi e di difendere la loro vita, di distruggere, uccidere, sterminare, compresi i bambini e le donne, tutta la gente armata, di qualunque popolo e di qualunque provincia, che li assalisse, e di saccheggiare i loro beni […] In ogni provincia, in ogni città, dovunque giungevano l’ordine del re e il suo decreto, vi era per i Giudei gioia ed esultanza, banchetti e feste. Molti appartenenti ai popoli del paese si fecero Giudei, perché il timore dei Giudei era piombato su di loro.
E tuttavia, quando alla fine arriva il 13 di Agar, evidentemente qualcuno ancora stava minacciando l’esistenza degli ebrei, perché solo a Susa ne fecero fuori mezzo migliaio.
I Giudei dunque colpirono tutti i nemici, passandoli a fil di spada, uccidendoli e sterminandoli; fecero dei nemici quello che vollero. […] Quel giorno stesso il numero di quelli che erano stati uccisi nella cittadella di Susa fu portato a conoscenza del re. Il re disse alla regina Ester: «Nella cittadella di Susa i Giudei hanno ucciso, hanno sterminato cinquecento uomini e i dieci figli di Amàn; che avranno mai fatto nelle altre province del re? Ora che chiedi di più? Ti sarà dato. Che altro desideri? Sarà fatto!»
Ester si contenta di far impiccare i dieci figli di Aman (buh), e di prolungare il contro-pogrom fino a tutto il quattordici. “Il quindici si riposarono e ne fecero un giorno di banchetto e di gioia”. Purim si festeggia da allora.

Credo di non essere il solo lettore contemporaneo che preferirebbe chiudere il libro al capitolo sette. Ester e Mardocheo ci piacciono soltanto finché lottano per sopravvivere; quando ordinano la rappresaglia, ci lasciano a disagio. D’altro canto, Ester e Mardocheo ce l’hanno fatta: la loro festa si celebra da più di duemila anni. La rappresaglia funziona; può non andare incontro ai nostri gusti, ma chi siamo in fondo noi? Quante guerre avremmo vinto, al posto loro? La Storia non premia il fair-play, non è proprio mai successo; anche senza scomodare le scritture ci sono abbondanti esempi. Ormai siamo adulti e vaccinati e potremmo anche ammettere che le cose vanno così. Inginocchiarci.
Io però non m’inginocchio, aspetto un altro po’. Spero che non si offenda nessuno.
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Figure di Pietro

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29 giugno – San Pietro apostolo, gaffeur di dimensioni bibliche

[2012]. C'è Gesù in Molise alle pendici di un monte, non chiedetemi il perché, è una favola raccolta da Francesco Jovine. Dice agli apostoli: dobbiamo salire in cima, ognuno si prenda una pietra: gli apostoli obbediscono. Solo san Pietro, che già borbottava dall'inizio della gita, domanda a Gesù: come dev'essere questa pietra? Grande? Piccola? Vedi un po' tu, risponde Gesù, ognuno si carica secondo le sue forze. Perfetto, pensa Pietro, e si mette in tasca un sasso grande quanto un uovo di piccione. Comincia la salita. Gli apostoli arrancano, tranne Pietro che anzi perde tempo a sfotterli. Finché non arrivano in cima, dove Gesù con due paroline magiche trasforma i sassi in pane e ricotta...
...Tanti rotoli di pane e di ricotta quanti erano quelli della pietra portata. Tutti dissero la preghiera di ringraziamento e si misero a mangiare. Solo san Pietro si rigirava in mano la sua pagnottella grande come un uovo di piccione e piangeva: "Io così poco mangio?" Gesù disse: "Pietro, Pietro, poco hai lavorato e poco mangi" (Continua...)
Qual è il santo più ridicolizzato, il più citato nelle barzellette? Quello che è più facile trovare nelle vignette sui giornali, senza che nessuno mai si offenda? Il protagonista di episodi apocrifi strutturati come sketch comici, in cui appare come la vittima designata degli scherzi di Gesù? San Pietro, il suo primo vicario sulla terra. Non è un caso. Di altri santi è difficile scherzare; a volte è proprio sconsigliabile: con Pietro è quasi necessario. Quando ci prendiamo gioco di lui, non facciamo che proseguire un solco tracciato fin dalle Scritture. Pietro, tra l'altro, è il più grande gaffeur dei Vangeli. Nessuno fa tante figuracce come lui, anzi è discutibile che nei Vangeli altri a parte lui facciano figuracce. Sembra proprio che sia il suo specifico: a volte è come se a Gesù servisse una spalla comica. L'esempio più estremo è in Giovanni (13,8-9), l'evangelista filosofo, che però quando si tratta di Pietro è capace di montare dei veri e propri siparietti:
PIETRO: Tu lavarmi i piedi? Giammai.
GESÙ: Se non ti lavo, non avrai parte alcuna con me.
PIETRO: Ah, allora anche le mani e la testa, grazie.
Altre volte l'impressione è che a Gesù serva semplicemente un tizio ottuso, di quelli che si incontrano spesso nei dialoghi filosofici, e servono semplicemente a far rifulgere meglio la sapienza dell'interlocutore; quando replicano il più delle volte lo fanno soltanto per permettere al Maestro di prender fiato e molto spesso in realtà non dicono niente, se il dialogo fosse una videointervista li vedresti annuire in controcampo. Il classico esempio di battuta di dialogo che può toccare a Pietro è "spiegaci la parabola": come il dottor Watson, il più delle volte Pietro non ha capito bene, non ha capito niente, e questo oltre a essere funzionale a introdurre nel racconto una spiegazione, ce lo rende immediatamente simpatico. L'esatto opposto di Paolo di Tarso, che ha capito tutto senza neanche conoscere Gesù: Pietro viceversa c'era sin dai tempi della Galilea, e sin d'allora non si raccapezzava, chiedeva spiegazioni, continuava a non raccapezzarsi, rimediava figuracce.

Pietro è uno di noi. Quando conosce Gesù, e si rende conto dei suoi poteri, gli si getta ai piedi e lo supplica: "allontanati, perché sono un peccatore". Però poi lo segue: Lui solo ha parole di vita eterna (e all'occorrenza sa come si combina una pesca miracolosa). Sul monte Tabor ha l'incredibile privilegio di vedere il suo Maestro trasfigurato nella gloria, tra Elia e Mosè: la sua reazione è la più pedestre che si possa immaginare. "Maestro, qui si sta proprio bene, restiamo? Posso fare tre tende": il pescatore si preoccupa che le apparizioni bibliche possano prendere freddo. Nell'orto degli ulivi è un disastro ambulante: vuole vegliare su Gesù ma invariabilmente si addormenta; quando arrivano le guardie del Sinedrio sfodera la spada, stacca un orecchio a un servo, finché non è lo stesso Gesù a calmarlo. L'istinto barricadero, già ribadito poche ore prima a cena ("se anche gli altri ti abbandoneranno io non ti abbandonerò!", "Ti seguirò anche in prigione e fino alla morte!") gli passa d'un tratto nella portineria del sommo sacerdote, quando Pietro rinnega il Maestro tre volte prima che il gallo canti, senza bisogno di torture, di minacce e nemmeno di giudici: Pietro si fa mettere sotto torchio da una serva. L'episodio è uno dei pochi a essere ricordato in tutti e quattro vangeli, il che ci lascia capire che non esiste, nemmeno nella Chiesa primitiva, una corrente che cerchi di addolcire, di profumare in un qualche modo le fecali figure di Pietro: Pietro è un rodomonte che in tutto il suo romanzo tira un solo colpo di spada e stacca l'orecchio a un poveretto senza colpe; il classico duro-e-puro che alla prima minima difficoltà nega tutto e se la dà a gambe: costui è Pietro già nei primi racconti ancora non scritti, ovvero quelli che probabilmente ha messo in giro lo stesso Pietro. Il quale probabilmente aveva nel repertorio numeri simili a quelli di certi predicatori che raccontano sempre di quando vivevano nel peccato e nell'ignoranza di Gesù: probabilmente l'ex pescatore faceva qualcosa del genere, deliziava il suo pubblico raccontando tutte le sue figuracce in presenza del Dio vivente. ("Ehi, raccontaci ancora di quando hai provato anche tu a camminare sulle acque e a momenti affogavi").

Se Pietro è così umano, troppo umano, cosa ci fa sulla cattedra più importante della Chiesa? Ma sono proprio i suoi difetti a renderlo, oltre che simpatico, una prova vivente della grazia di Dio che esalta gli umili e arricchisce i poveri in ispirito. Sul primato di Pietro si discute del resto da millenni: i cattolici si basano sull'interpretazione metaforica di Matteo 16,18: "Tu sei una roccia e su questa roccia edificherò la mia Chiesa". Pietro prima si chiamava Simone: da lì in poi prenderà il nome di Cefa, "Roccia" in aramaico, "Pierre" in francese: l'italiano "Pietro" perde un po' di significato nel passaggio dal latino. Simone ottiene il prestigioso nomignolo in una delle rare volte in cui risponde correttamente a un'interrogazione del Maestro: "Chi voi credete che io sia?" Simone "the Rock" risponde: "Il Cristo, il figlio del Dio vivente". Per i protestanti la vera "roccia" sulla quale Gesù voleva fondare la sua Chiesa non è la persona fisica di Simone, ma la verità che lui per primo riconosce: che Gesù, appunto, è il Messia. Un'altra possibilità, poco accreditata ma non del tutto improbabile, conoscendo i due personaggi, è che Simone abbia preso l'ennesima topica e che Gesù se ne stia prendendo gioco: oh, ancora con questa storia del Cristo, ma sei duro eh, sei proprio un sasso, d'ora in poi ti chiamerò Sasso. Poi si sa, alla gente piace interpretare e fa ancora più casino.

Il momento di gloria di Simon-Sasso dura pochissimo: pochi versetti dopo lo stesso Gesù lo chiama addirittura “Satana”, una parola che non usa con nessun altro nel Vangelo. Bisogna dire che la parola non ha quella pregnanza che gli assegniamo dal medioevo in poi: il Satana biblico, lo vedremo, è un accusatore, un tentatore, un negatore dei piani divini; più che un demonio, una specie di distillato del senso comune degli uomini, quello che di fronte al progetto di morire in croce reagisce dicendo: magari anche no. Meglio di tutti lo spiega Gesù stesso: Pietro è Satana perché non pensa come Dio, ma come gli uomini:
Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molte cose da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti, degli scribi, ed essere ucciso, e risuscitare il terzo giorno. Pietro, trattolo da parte, cominciò a rimproverarlo, dicendo: «Dio non voglia, Signore! Questo non ti avverrà mai». Ma Gesù, voltatosi, disse a Pietro: «Vattene via da me, Satana! Tu mi sei di scandalo. Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini». (Mt 16,21-23)

Ma no niente, io passavo di qui,
la Galilea manco so dov'è sulla cartina.
Parole del genere sembrano fatte apposta per suggerirci un sospetto: forse alla morte di Gesù Pietro sale in cattedra perché di un Satana, di un uomo che abbia il senso delle cose degli uomini, anche la Chiesa di Dio ha un gran bisogno. Ipotesi interessante: peccato che Pietro non abbia nulla del leader machiavellico, del pontefice scaltro. È vero che dopo la Pentecoste, quando lo Spirito finalmente scende su di lui, ci troviamo davanti a tutt’un altro Pietro; un tipo sicuro di sé, che seduce la folla con appassionanti lezioni di teologia, mette in imbarazzo il Sinedrio, guarisce i malati, ridona la vista ai ciechi: sembra venuto insomma quel momento del film in cui il personaggio imbranato finalmente mostra sotto i vestiti qualunque la calzamaglia del supereroe. A dire il vero la cosa prende pieghe più inquietanti: tra le prime realizzazioni di Super-Pietro c’è infatti il comunismo, che si realizza per la prima volta nella Storia (e forse per l’ultima) con la comunione dei beni della Chiesa primitiva. E a chi non è d’accordo, come per esempio un certo Anania, che tenta di occultare una parte del ricavato della vendita di un podere, Pietro fa un discorsetto al termine del quale Anania cade stecchito. Se l’esempio non è sufficiente, la cosa si ripete subito dopo con la moglie:
Circa tre ore dopo, sua moglie, non sapendo ciò che era accaduto, entrò. E Pietro, rivolgendosi a lei: «Dimmi», le disse, «avete venduto il podere per tanto?» Ed ella rispose: «Sì, per tanto». Allora Pietro le disse: «Perché vi siete accordati a tentare lo Spirito del Signore? Ecco, i piedi di quelli che hanno seppellito tuo marito sono alla porta e porteranno via anche te». Ed ella in quell’istante cadde ai suoi piedi e spirò. I giovani, entrati, la trovarono morta; e, portatala via, la seppellirono accanto a suo marito. Allora un gran timore venne su tutta la chiesa e su tutti quelli che udivano queste cose (At 5,7-11).
In un primo momento, insomma, Pietro sembra quel tipo di predicatore che si fa intestare tutti i beni degli adepti e mantiene il controllo su di loro terrorizzandoli: un genere di satana che nel Novecento abbiamo conosciuto abbastanza bene. A rileggerli a questo punto, gli stessi passi del Vangelo che abbiamo visto più sopra appaiono più sinistri: sotto alla patina del pasticcione c’è forse la sagoma di un mitomane violento e intransigente? Però questo è il Pietro che conosciamo di meno, il Pietro che non sarebbe mai diventato testimonial del caffè. La fase superomistica non dura così tanto, possiamo dire che occupa soltanto i primi dieci capitoli degli Atti degli Apostoli. In seguito Pietro si raddolcisce: comincia a viaggiare, allentando il controllo sulla comunità dei cristiani di Gerusalemme; a un certo punto risente la voce del suo Signore in sogno, e di fronte all’antico Maestro torna di nuovo il vecchio Pietro dubbioso e pasticcione. La Voce gli srotola un’enorme tovaglia in cielo, piena di ogni sorta di animale, e gli propone: “Ammazza e mangia”. Pietro avrebbe anche fame ma non osa, lui è pur sempre un ebreo e le cose non kosher non le ha nemmeno mai toccate. La Voce insiste tre volte, come al solito, poi Pietro si sveglia e scopre che c’è un centurione romano, uno di quei mangia-maiali, che ha mandato da lui un messaggero perché vuole battezzarsi. Pietro finalmente capisce: “In verità comprendo che Dio non ha riguardi personali; ma che in qualunque nazione chi lo teme e opera giustamente gli è gradito”. In pratica sta aprendo alla mozione Paolo-di-Tarso, quell’ex fariseo con contatti a Roma che vuole trasformare la setta di Pietro in un movimento internazionale basato ad Antiochia di Siria e chissà, un indomani a Roma stessa. Siamo intorno al 50 dopo Cristo, magari il grande pescatore di uomini comincia a sentire la stanchezza e vuole far spazio ai giovani. Negli anni successivi Pietro si barcamenerà tra due fazioni, quella internazionalista di Paolo e quella giudaica di Giacomo il Giusto, “fratello del Signore”, che con ogni evidenza ha preso il suo posto a Gerusalemme. Pietro invece dov’è? Ad Antiochia, probabilmente: in origine il 22 febbraio era la festa della sua cattedra in quella popolosa città, la terza dell’Impero dopo Alessandria d’Egitto e Roma. È ad Antiochia che nasce, tra l’altro, la parola “cristiani”.


Di là, t'ho detto che si va per di là! 
Ma lo sai che sei proprio duro, tu.
Il problema è che ad Antiochia c’è pure Paolo, e i due non vanno sempre d’accordo; e l’iniziativa sembra ormai nelle mani del secondo, che non ha mai visto Gesù ma sa come si scrivono epistole teologiche. Nei fatti, dopo l’episodio del centurione l’autore degli Atti (Luca evangelista) smette di seguire Simon-Pietro e si concentra su Saul-Paolo. Dal canto suo Pietro firma due epistole del Nuovo Testamento, ma sono brevi testi che non si discostano molto dalla teologia paolina, scritte in un greco elaborato che lascia supporre che l’ex pescatore si sia affidato a degli editor competenti. Nella prima Pietro manda i suoi saluti da “Babilonia”, che già duemila anni prima di Bob Marley era sinonimo di impero del peccato: i cattolici ovviamente leggono un riferimento in codice a Roma, dove Pietro avrebbe operato in clandestinità negli ultimi anni della sua vita. Talmente in clandestinità che persino Luca evangelista, sbarcato a Roma in compagnia di Paolo, non ne parla. Per la verità Babilonia a quei tempi era ancora il nome popolare di una città vera, e importante: Seleucia-Ctesifonte, sulle rive del Tigri, contesa per secoli tra Parti e Romani. Era una grande città e vi erano già comunità ebraiche: non è affatto inverosimile che a un certo punto da Antiochia Pietro abbia deciso di predicare il Vangelo laggiù. Diventa inverosimile pensare che da laggiù si sia poi recato a Roma: o l’una o l’altra, insomma; e tutte le testimonianze di Pietro nell’Urbe sono apocrife.

Non c’è bisogno di sottolineare quanto sia importante per la Chiesa cattolica la presenza di Pietro in città: Paolo può aver scritto tutte le epistole che vuole, ma senza Pietro a Roma tutta la dottrina del primato romano casca come un castello di carte. È proprio la presenza di un personaggio ingombrante come Paolo a rendere in qualche modo necessaria la presenza a Roma del capo indiscusso degli apostoli. Il problema è che l’arrivo di Paolo è descritto da un cronista di parte, ma scrupoloso e abbastanza attendibile (Luca): viceversa, l’arrivo di Simon Pietro è tratteggiato da racconti leggendari che tra l’altro sono imperniati sulla rivalità con un altro Simone, il mago.

Quest’ultimo merita una rapidissima digressione. Di lui si parla per una manciata di versetti negli Atti degli Apostoli: è un esperto di “arti magiche” con un certo seguito in Samaria. Luca non si spinge a definirlo un imbroglione, ma senz’altro le sue “arti” non hanno nulla a che vedere con i doni dello Spirito Santo. Quando nella zona arriva il diacono Filippo, Simone ha modo di vedere all’opera lo Spirito, e ne rimane impressionato: per questo motivo chiede a Pietro di entrare nella Chiesa… in cambio di denaro. Peccato gravissimo, che da lui prenderà il nome di simonia, e conficcherà nell’Inferno dantesco una nutrita schiera di acquirenti di titoli ecclesiastici, papi e cardinali inclusi. Simone se la cava con una ramanzina di Pietro: gli è andata bene, era il periodo che a contrariarlo si cadeva in terra morti. Da qui partono gli spin-off che in diversi testi apocrifi trasformano Simon Mago nel più pericoloso antagonista dei cristiani, uno stregone invidioso che ha commerci con le forze demoniache e che tenta in tutti i modi di pervertire i neoconvertiti al cristianesimo, al punto che il povero Simon Pietro si deve scontrare con lui più volte, inseguendolo per tutta la cristianità, fino allo scontro finale, ovviamente a Roma.

Le leggende su Simon Mago in realtà sembrano ispirate da un altro episodio degli Atti, quello in cui Paolo (sempre lui!) davanti al omonimo proconsole romano di Cipro sconfigge il mago Elima Bar-Gesù. Il Simon Mago che arriva a Roma forse non è lo stesso che Pietro aveva incrociato in Samaria: più probabilmente era un predicatore gnostico, in un periodo in cui gnosi e cristianesimo giungono in città sulle stesse navi, magari invischiati assieme in un calderone di nuove credenze orientali che ai Romani di allora dovevano sapere un po’ tutte di New Age. Il dubbio è che forse l’unico vero Simone arrivato a Roma sia stato il Mago: Simon Pietro è la sua nemesi, evocata dai cristiani per farlo tacere una volta per tutte. Ma anche in queste leggende Pietro non è più l’intransigente supereroe degli anni di Gerusalemme: è appesantito, chiede spesso aiuto a Dio, e cominciamo a vederlo raffigurato con la barba bianca. Alla fine in un qualche modo il Mago sparisce dalla circolazione, ma i problemi non sono finiti qui, anzi. La predicazione di Paolo, pardon, la predicazione di Paolo e Pietro ha conquistato diverse matrone importanti, che di conseguenza non si concedono più alle brame pagane e perverse dei mariti. Le loro lamentele giungono alle orecchie del saggio Nerone, che proprio in quel periodo sta meditando di dare all’Urbe un piano regolatore più funzionale e degno di una grande capitale, però bisognerebbe demolire tutto il centro… trovato! Si può dar fuoco a Roma e poi dare la colpa a quei sessuofobi dei cristiani! Detto, fatto. Il Pietro che ritroviamo in questa leggenda è un Pietro anziano, modellato però sul Pietro giovane, il pescatore tremebondo e pasticcione: alla notizia delle prime persecuzioni, decide coerentemente di darsela a gambe. Lungo la strada incontra Gesù, e anche Gesù è proprio quello di certe pagine dei Vangeli, che con Pietro non si capisce mai se scherzi o sia serio: e insomma immaginatevi un Gesù con la corona di spine e la croce in spalla a questo crocicchio tra l’Appia Antica e l’Ardeatina. Pietro è così sbalordito che invece del nativo aramaico gli scappa la domanda in latino: Domine, quo vadis? Signore, ‘ndo’vvai? E dove vuoi che vada, a Roma vado, a farmi crocifiggere per la seconda volta. Come dire: se vuoi fare una cosa bene fattela da sola, eh. Pietro come ci rimane? come volete che ci rimanga: in perfetta coerenza con la sua figura evangelica: di sasso, diciamo così. Torna a Roma e si fa crocifiggere, ma a testa in giù, da buon vecchio satana.
Un altro giorno arrivati ai piedi di Monte Peloso Gesù Cristo disse: "Ognuno di voi prenda una pietra e la porti in cima". San Pietro vedendo che il monte non era molto alto disse tra sé: "Questa volta non mi gabbi!" Si caricò sulle spalle una pietra grande come quella di un'aia. Arrivati su in cima Gesù cristo si fece il segno della croce e disse rivolto agli apostoli, facendo l'occhiolino: "Posate le pietre e sedetevici sopra". (Francesco Jovine, Signora Ava).
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La puttana di Don Milani

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26 giugno -  Don Lorenzo Milani (1923-1967), priore di Barbiana

scuola_ultima[2014, con inserti più antichi].

UNA RAGAZZINA: Alle riunioni sindacali e politiche non si capisce nulla.
DON LORENZO: A fare quelle mossettine in sala da ballo ti riesce e a seguire una riunione politica e sindacale che ti prepara a essere più capace, più sovrana, ti pare di non essere capace? 
(Don Lorenzo Milani, Anche le oche sanno sgambettare (1965), Edizioni Stampa Alternativa, 1995, pagg. 36-37).

Nel suo primo libro, Esperienze pastorali, Don Lorenzo Milani scrisse un intero capitolo "Contro la ricreazione" che a suo parere era tempo sottratto allo studio e al lavoro. Quando l’arcivescovo lo esiliò a Barbiana, lui ne approfittò per creare un esperimento educativo irripetibile, anche perché se qualcuno riprovasse a ripeterlo al giorno d’oggi finirebbe in galera per sequestro di persona: gli alunni di Barbiana studiavano dodici ore al giorno senza giorni festivi e senza ricreazione. Quando seppe che alcune ragazzine del paese scendevano a valle a ballare, attaccò una predica che non finiva più. Le ragazze proletarie non devono ballare! Devono partecipare alle riunioni sindacali e di partito, altroché. A quindici anni.

Eppure probabilmente l’anno prossimo andrai a lavorare e avrai davanti responsabilità immense: licenzieranno una tua compagna di lavoro e dovrai decidere se scioperi o no per lei, se difenderla o no, se sacrificarti o non sacrificarti per lei, se andare in corteo davanti alla prefettura o davanti alla direzione, se rovesciare le macchine e rompere i vetri oppure se tu dovrai zitta zitta chinare la tesata e permettere che la tua compagna sia cacciata fuori a pedate dalla fabbrica.

Questo è il periodo dell'anno in cui mi capita più spesso di pensare a don Milani, alle sue classi e alle sue lettere. L'anniversario della morte (52 anni nel 2019) non c'entra molto. Un giorno magari finirà sui calendari, ma il percorso per la causa di beatificazione si annuncia molto accidentato. E dire che qualche miracolo da esibire davanti a una commissione Milani ce l'avrebbe: il solo fatto che stiamo parlando ancora oggi di un sacerdote che morì a 44 anni, dopo aver servito e insegnato in due piccole parrocchie, non ha del miracoloso? Ma i tempi non sono ancora maturi: per adesso i suoi seguaci cattolici devono accontentarsi di poter finalmente leggere le Esperienze pastorali senza incorrere nella censura del Sant'Uffizio, ritirata dopo più di cinquant'anni. Bella e saggia mossa di Francesco, dopo il silenzio dei quattro pontefici che l'avevano preceduto. Milani continua a essere un prete molto più popolare fuori dalla Chiesa che dentro.

Tu queste cose le dovrai decidere l’anno prossimo e per ora ti prepari twistando in una sala da ballo?[…] La preparazione alla vita sociale e politica, o oggi o mai. L’età giusta è questa.

Questo è il periodo dell'anno in cui penso più spesso al priore di Barbiana, e ai suoi studenti, perché è il mese degli esami: quel bizzarro momento in cui il bistrattato insegnante, da nove mesi zimbello di studenti genitori e riformatori, si ritrova improvvisamente investito di un potere enorme, sproporzionato: la facoltà di rovinare al fanciullo un'estate, un anno, eventualmente anche la vita. Proprio così: da settembre a maggio il professore soffre, supplica, corregge, sorregge; ma a giugno boccia. O perlomeno potrebbe. Ma prima di brandire un'arma così sproporzionata, il prof pensa sempre a don Milani. Da qualche parte - non necessariamente l'Alto dei Cieli - il priore lo guarda, scuote la testa e dice: lo sai cosa sei, vero? Un cane da guardia del sistema? Sì, ma non basta. Una bestiolina ammaestrata dai padroni? Certo, ma c'è di più. Lo sai.

Sei una puttana.

È in fondo a pagina quarantuno.

Tutti noi, quando ricordiamo un libro, o un film - quando crediamo di ricordare un libro, o un film - in realtà peschiamo dal pozzetto della nostra memoria due o tre situazioni o immagini, sempre le stesse. Sono il riassunto estremo di quell'opera d'ingegno, come lo schema finale che ci siamo fatti la notte prima di un esame. A volte ci aiutano a recuperare il resto; altre volte finiscono per assorbirlo, sicché alla fine molti libri che crediamo di aver letto in realtà non li ricordiamo più, a parte quella paginetta, quella frase. La maggior parte delle persone che conosco, quando pensa a Lettera a una professoressa, ricorda Gianni e Pierino. In effetti sono due personaggi sbozzati in modo molto efficace. Io però quando ripenso alla Lettera, ripesco sempre mio malgrado quel passo volgare in fondo a pagina quarantuno: "Le maestre sono come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere".

Mi viene sempre in mente questo passo a fine giugno, perché non è solo il mese degli esami; è anche quello dei commiati, che a scuola sono sempre frettolosi e informali. L'esame è finito. Buone vacanze. Di solito me la sbrigo così, e in alcuni casi sarà l'ultima cosa che dirò a quella persona in tutta la mia vita. Ho diviso con lui ore, settimane, mesi, anni. Gli ho voluto bene, l'ho detestato, l'ho aiutato quando non ne avrebbe avuto bisogno, l'ho ignorato quando invece gli serviva un aiuto; in ogni caso è tutto finito, buone vacanze. Loro mi dicono "arrivederci", e poi qualche volta mi saluteranno per strada, un po' imbarazzati. Io non ho mai tempo per piangerli perché, in effetti, sono una puttana. A pagina quarantuno è spiegato molto bene, da qualcuno che evidentemente aveva sperimentato sulla sua pelle cosa significa essere maestro, essere prete: voler bene alla gente per mestiere. Con tutto il rispetto per le puttane e la loro professione complicata e pericolosa, mentre per noi maestri o preti si tratta semplicemente di voler bene tutti i giorni a un sacco di gente che poi, improvvisamente sparirà dalla nostra vista senza che ci sia il tempo per rimpiangerla - stiamo già preparando le prime dell'anno prossimo, ci sono già centinaia di nuovi sciagurati a cui voler bene. Da settembre a giugno. È strano, però. Alienante, si sarebbe detto una volta.

A meno di non fare come don Milani: abolire le vacanze, i pomeriggi, la domenica, il tempo libero, la famiglia. Allora sì, l'amore smetterebbe di essere finzione. Noi però alle vacanze ci teniamo, e alle domeniche, e anche i pomeriggi non li passiamo proprio tutti a correggere, ad aggiornarci, ad amare i nostri piccoli clienti a distanza. Perché siamo delle puttane, e Don Milani ce lo diceva in faccia - no, peggio. Ce lo faceva dire dai suoi studenti.

"Quante T ci sono in "puttana"?"
Alla scuola di Barbiana si parlava molto schietto. Sulla porta di tutte le scuole della Repubblica gli studenti di Don Milani avrebbero voluto scrivere LA SCUOLA SARÀ SEMPRE MEGLIO DELLA MERDA. L'aforisma è attribuito al giovane Lucio, che quando non era a scuola dal priore aveva una stalla con 36 mucche da gestire. A me piacerebbe ogni tanto parlarne nelle mie classi, sollecitare un'inchiesta: tu che ne pensi? Secondo te è meglio la scuola o la merda? Ma ho paura di finire sul giornale.

Dici: potresti sempre usare un eufemismo. Potresti chiedere se è meglio la scuola o la deiezione vaccina. No, non potrei. Merda si dice merda. Puttana si dice puttana. Non solo don Milani si lasciava evidentemente sfuggire queste parole di fronte ai suoi ragazzi; non solo permetteva che le scrivessero in un libro, e resistessero alle decine di stesure e ristesure; ma le sottoponeva al vaglio dei suoi amici colti e raffinati, ad esempio David Maria Turoldo che sale a Barbiana per farsi leggere le bozze e "si sganascia dalle risa a ogni parola grossa". Lettera a una professoressa è un testo molto elegante nella sua rozzezza. Profondamente toscano, azzarderei, ma poi dovrei spiegare il perché solo ai toscani è concesso di maneggiare la nostra lingua letteraria come se fosse un coltellaccio da cucina, senza quella distanza, quel disagio in cui consiste l'uso della lingua per tutti noialtri non toscani - quella maschera che indosso continuamente, qualsiasi cosa io scriva, come se io la stessi traducendo da un'altra lingua che ho in testa (quale lingua, se non so nemmeno bene il mio dialetto?) Eppure questa distanza c'è: la sentiamo tutti ogni volta che rileggiamo quello che scriviamo e ci sembra sempre fuori fase, distorto come la nostra voce registrata. Un diaframma che forse è responsabile di intere età letterarie, di barocchi, classicismi e linee lombarde, mentre ai toscani basta scrivere come si mangia. Papini, Malaparte, la Fallaci. Ma anche i ragazzi di Barbiana, e il loro priore che non poteva più pubblicare niente a nome suo.

Questo è il periodo dell’anno in cui tento di scrivere qualcosa in memoria di don Milani, e ogni volta passo dalla biblioteca a ritirare l’edizione speciale del quarantennale (2007) di Lettera a una professoressa, uno dei pochi libri di carta che forse varrebbe la pena tenere in casa. Non solo per il testo, che merita un ripasso ogni tanto, ma anche per il paratesto: le testimonianze di studenti e colleghi, gli articoli che la Lettera ispirò alla sua uscita, e ancor di più la polemica che nacque 25 anni dopo intorno a due articoli di Sebastiano Vassalli su Repubblica. Vassalli detestava la Lettera, la definiva una mascalzonata; e nel suo secondo intervento ammise anche le sue ragioni personali. Nella professoressa svillaneggiata dai ragazzi di don Milani, Vassalli riconosceva sé stesso, giovane professore travolto dalla contestazione. “Per quindici anni, dal 1965 al 1979, mi sono sforzato, giorno dopo giorno, di essere anche un bravo professore; e ho maturato in quegli anni difficili la persuasione – forse sbagliata ma certamente legittima per un insegnante – che la nostra povera scuola di Stato abbia urgente bisogno di un legislatore che porti a termine le riforme avviate trent’anni fa; e che non abbia invece alcun bisogno di redentori, e di maestri carismatici come don Milani. Che i redentori portino solo scompiglio; e questo è tutto”.

figuNel tentativo di vendicare la professoressa, Vassalli si abbatte sul “libretto bianco di don Milani” con foga lacerbiana. Don Milani non sapeva nulla di pedagogia. “Era un maestro improvvisato e sbagliato”, “manesco e autoritario (quanti dei suoi sostenitori d’un tempo hanno veramente saputo che nella Lettera c’è l’apologia della frusta, a pag. 82, e che a Barbiana erano considerati strumenti didattici “scapaccioni”, “scappellotti”, “cazzotti”, “frustate”, e “qualche salutare cignata”? Se da insegnante è portato a diffidare di un maestro in grado di insegnare 12 ore al giorno, da scrittore Vassalli non può credere neanche per un istante all’utopia della scrittura collettiva: macché dibattito, il prete dettava e i ragazzi esprimevano “la propria incondizionata adesione”: un po’ come votare una legge elettorale su beppegrillo.it. Don Milani avrebbe consapevolmente distorto la realtà dei dati statistici, pure generosamente riportati, per “dividere il mondo come allora s’usava, con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra”; e soprattutto si sarebbe accanito contro un bersaglio di comodo: gli insegnanti.
Ma se don Milani avesse davvero alzato il tiro contro l’istituzione scolastica e i suoi potentati, l’arcivescovo lo avrebbe costretto a fare le valige anche da Barbiana e gli avrebbe tolto anche quell'ultimo pulpito. Perciò – credo – lui se la prese con gli insegnanti, che del resto sembravano messi lì apposta per fare da bersaglio ai rivoluzionari dell’epoca, come i poliziotti di valle Giulia infagottati nelle loro divise. Soprattutto i giovani, e tra loro l’autore di questo articolo, erano tutti poveracci e figli di poveracci: miracolati del “miracolo economico”, che, in onta alle statistiche, gli aveva permesso di arrivare alla laurea. Manovalanza intellettuale senz’altri sbocchi sul mercato del lavoro, che dall’università passava direttamente nella scuola di Stato, allora in grande espansione, e sognava e si sforzava di migliorarla. Queste e non altre furono, in concreto, le vittime della Lettera a una professoressa; i beneficati, invece, furono i furbi di sempre, studenti e insegnanti che buttarono all’aria libri e registri e si fecero qualche anno di finte lotte e di vere vacanze, movimentate da cortei e da discorsi reboanti contro la scuola di classe… Povera Italia! E povera sinistra, che dal ‘ 68, o forse dal ‘ 45, non ha saputo fare altra politica culturale che quella d’ applaudire tutte le primedonne e tutti i tenori che hanno calcato le platee del bel paese, e che già ha incominciato a pagarne le conseguenze; ma che ancora non sembra rendersene conto, e resta cieca e sorda sui suoi errori di sempre.
Chiedo scusa per la lunga citazione, che tra l'altro non rispecchia il mio pensiero. Nel volume ci sono tanti altri interventi interessanti, tra cui una lunga e ponderata replica a Vassalli di Tullio De Mauro, che ribadisce quanto fu importante, e necessario, il libretto bianco di don Milani e dei suoi studenti. Io però ogni tanto sento la necessità di rileggermi gli sfoghi di Vassalli, non so esattamente il perché. È un modo per sentirmi un po’ meno puttana? Dovrebbe consolarmi il pensiero che, sì, non avrò salvato nessuno dall’ignoranza, ma non ho nemmeno mai frustato un piccolo utente? Credo che ci sia di più. Io ci tengo a mantenere una certa distanza da don Milani, non perché disapprovi le sue frustate. Al contrario, è l’unico modo per sentirle. Se gli corressi incontro, se lo abbracciassi, se sillabassi anch’io “I care” come certi suoi discepoli postumi, magari la cinghia mi eviterebbe, ma che studente sarei? Cosa imparerei da lui? Don Milani diventerebbe anche per me un’icona come un'altra, una di quelle figurine che ti sorridono e ti confortano qualsiasi cosa tu faccia. Io invece vorrei ricordare che Don Milani non era così. Era ruvido, manesco, mi dava della puttana ed è difficile che condividesse il mio rispetto per le sex-worker.

Se oggi sono 52 anni, significa che ne sono passati dodici da quando Walter Veltroni lanciò il Partito Democratico, durante un discorso fiume che nessuno ricorda. Il giorno prima aveva voluto passare da Barbiana. Se il Berlinguer riscoperto da Grillo vi ha dato un po’ fastidio, immaginate per un attimo cosa potrebbe pensare don Milani, nell’alto dei cieli o dovunque, dell’uomo che aveva scoperto il valore culturale della figurina Panini. Il priore che nella sua prima parrocchia aveva abolito il biliardino e il ping pong – il maestro del popolo che non voleva sentire parlare di ricreazione e vacanze – riscoperto da un figlio di dirigente Rai con la fissa per il jazz e per il cinema, l’inventore delle notti bianche. Ecco. Pensate alla Notte Bianca.

Pensate cosa ne scriverebbe Don Milani, se potesse parlare con la lingua sua o dei suoi studenti. Per lui, innanzi tutto, il mondo si divideva in oppressori e oppressi, una distinzione che Veltroni non saprebbe applicare correttamente. Lui stava con gli oppressi e li esortava a bere caffè, a stare in piedi di notte per studiare, per leggere un libro in più, per recuperare la distanza culturale dai padroni. Veltroni invece è, definitivamente, il Sindaco di Roma, l’erede di una lunghissima tradizione di questori la cui principale preoccupazione era Divertire il popolo sotto-occupato, sedarlo a furia di Circenses. Tutti obbligati a far mattina, tutti in fila col bicchiere in mano mentre i padroni si allungano in tribuna vip. E non ci sarebbe niente di male: ma doveva anche prendersi Don Milani, doveva scrivere “I care” sui manifesti...

A loro comodava che sciupaste gli anni migliori della vostra vita in ballonzoli inutili. Perché sapevano che se gli riesce farvi prendere un maritino che vi appioppi due o tre bambini, con un po' di tosse la notte, tra le poppate e una cosa e un'altra, sareste tagliate fuori dalla vita politica e sindacale. E al potere restano quelli che questi anni non li hanno sciupati così. Così succede che in Italia da diciassette anni a questa parte tutti votano liberamente, hanno libertà di sciopero e di organizzazione sindacale, di organizzazione politica, di leggere il giornale che vogliono, però al potere ci sono sempre quei pochi che alla vostra età non hanno ballato. Quelli che sono al potere, i potenti dell'industria e della politica, alla vostraetà hanno studiato, perché sennò non ci arrivavano a reggere in mano il mondo. I poveri obbediscono e gli industruali comandano, e hanno ottenuto questo ballonzolando come voi? 
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Uno, nessuno, centomila Calogero

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18 giugno – San Calogero eremita 

"San Calogero di Girgenti, miracoli non ne fa nienti;
San Calogero di Canicattì, miracoli non ne fa tri;
San Calogero di Naro, miracoli ne fa un migliaro".

Calogero di Agrigento
[2018]. Di Calogero si sa che fu eremita e fu in Sicilia; su tutto il resto i siciliani disputano. Potrebbe essere vissuto nel primo secolo ad Agrigento o nel decimo a Naro. Potrebbe aver viaggiato l'isola in lungo e in largo, soggiornando in quasi tutte le grotte da cui sgorgano acque termali; potrebbe esser vissuto a lungo, veramente molto a lungo. Per gli abitanti di Naro la questione si risolve come sopra, in modo molto pragmatico: cosa importa il passato? Quel che conta è determinare il Calogero più efficace nel presente, quello che fa più miracoli, e il nostro ne fa mille. Al che gli agrigentini obiettano: "San Calogero di Girgenti, le grazie le fa per nienti; San Calogero di Naro le fa sempre per denaro". Alla fine della disputa ognuno rimane col Calogero suo. Siccome poi "Calogero" in greco vuol dire "buon vecchio", non si fatica a immaginare che di Calogeri ce ne siano veramente stati più d'uno, e che a un certo punto della tarda antichità "Calogero" fosse il semplice appellativo con cui i siciliani si rivolgevano i vecchi e saggi eremiti che vivevano nelle grotte. Per non sottoporre i loro fragili corpi alle tentazioni del secolo? Per trovare nel silenzio e nella solitudine una via più diretta all'assoluto? Ma anche perché avevano scoperto che bagnarsi in acque solforose fa bene alla salute e ti aiuta a invecchiare più lentamente.

Di tutte le leggende, quella della cerva avvalora l'ipotesi. Racconta che giunto intorno ai novant'anni, Calogero non riuscisse più a mandar giù nessun tipo di cibo. Il digiuno, che di solito nelle storie dei santi è una pratica autoindotta e consapevole, qui è semplicemente il segno dell'invecchiamento. Calogero dunque si nutre unicamente del latte ad altissima digeribilità prodotto da una cerva che Dio gli invia tutte le mattine. Finché un cacciatore, Siero, non gliela ferisce a morte. La cerva fa giusto in tempo a tornare nella grotta di Calogero e morirgli tra le braccia; il cacciatore che la stava braccando arriva anche lui nella grotta, vede il monaco che l'ha battezzato bambino chiudere teneramente gli occhi alla preda che ha ucciso: minchia, pensa, l'ho fatta grossa. Ma il santo lo perdona immediatamente, e già che c'è gli mostra la grotta vaporosa e gli illustra tutte le virtù delle acque che sgorgano in quelle falde, un vero tour guidato al termine del quale Siero diventa un suo discepolo, appena in tempo perché Calogero non sopravviverà alla cerva che per quaranta giorni.

Calogero è un buon vecchio che conosce le virtù nascoste all'interno della terra; lo si venera a Sciacca, il cui monte era dedicato al dio Crono; sul monte di Termini Imerese dove avrebbe scacciato i demoni e lasciato l'impronta della mano; mentre a Vicari avrebbe lasciato quella del piede. Calogero è insomma una figura dell'inculturazione, il nome dietro al quale uno dieci o centomila chierici, forse davvero provenienti dalla Grecia bizantina, scacciarono le antiche divinità ctonie dalle grotte della Sicilia; che poi uno o dieci avessero davvero la pelle scura, non è implausibile; ma il momento in cui San Calogero diventò davvero nero fu quando cominciarono a circolare le sue statue, più spesso in bronzo o in rame. Il bronzo dei Calogeri di Agrigento e di Naro ha anche l'indubbio vantaggio di scintillare al sole, il che deve suggerire durante la processione del pomeriggio di giugno l'idea che anche il santo stia sudando; che il suo sudore sia qualcosa di fisico, che si può trattenere nelle pezzuole e poi usare per curare i malati. Il sudore di Naro pare che funzioni di più di quello di Agrigento (ma che sia anche più costoso).

La madonna nera di Czestochowa è talmente nera
che a Haiti è diventata una divinità Vudù,
storia lunga, un’altra volta la raccontiamo.

La negritudine di Calogero nei secoli è stata spiegata con tante ipotesi diverse, nessuna del tutto soddisfacente. Fino a un certo punto deve essere sembrata una cosa naturale, così come era naturale in ambito bizantino dipingere icone della Madonna con un certo pigmento; poi a un certo punto (nel basso Medioevo?) i colori hanno preso un significato diverso, un’icona qualsiasi della Madonna è diventata una “Madonna nera” e gli agiografi hanno cominciato a domandarsi il perché fosse stata dipinta con una tinta così scura (che magari in quel secolo era l’unica a disposizione): o non si era annerita col tempo, e il fumo degli incensi e dei ceri? O il colore scuro indicava la sofferenza? Più difficilmente si sarebbe potuta trattare di un’insolita concessione al realismo, visto che Maria di Nazareth in fin dei conti era un’ebrea della Palestina.


Anche nel caso di Calogero, il colore scuro forse dipende unicamente dai materiali a disposizione degli artisti. Però si lasciava facilmente interpretare anche come un segno della lotta dell’eremita contro i demoni del sottosuolo, quelle forze della terra che aveva domato, ottenendone in dono le acque della salute. Solo al termine del medioevo il colore assume un significato etnico o geografico; è il momento in cui davvero qualcuno potrebbe aver sostituito in un manoscritto l’appellativo Chalkhidonos, (“di Calcedonia”, la città bizantina sulla sponda asiatica del Bosforo), con “Karchidonos“, “Cartaginese”. A Cartagine poi non è che la gente abbia mediamente la pelle molto più scura che sul Bosforo, o a Sciacca. Ma lo scambio segna il momento in cui “nero” comincia a significare “africano”, ovvero “alieno”. Con la complicazione che in Sicilia, a differenza che nelle altre regioni dell’Europa cattolica, qualche alieno ci viveva: persino a quei tempi il Mediterraneo non aveva la chiusura ermetica che piacerebbe a Salvini e ai suoi seguaci. Il fatto che il nero fosse il colore di San Calogero portò a un curioso corto circuito: ai frati neri veniva chiesto più spesso di fare miracoli; e a furia di chiederli evidentemente i miracoli si realizzavano, sicché dopo Calogero in Sicilia nacque e visse più di un santo nero: Benedetto il Moro di San Frau, che oltre a essere nero come un etiope parlava pure un dialetto lumbard, in Sicilia nel XVI secolo, c’è da perderci la testa, e almeno tre Antonii: uno ad Avola (chiamato anche Catagerò, morto verso il 1550), uno a Caltagirone e uno a Camerano; tutti e tre portano il nome di quell’Antonio di Padova che in molti santini viene raffigurato con la pelle olivastra, benché sia nato a Lisbona.

Cercando “Calogero” sulla libreria di immagini
del Post ho trovato la foto di Sacko Soumali,
che è stato ucciso a 29 anni a San Calogero.
Ma il Calogero originale di che colore era? Non ha nessuna importanza. Proviene da un’epoca in cui in effetti nulla di individuale aveva molta importanza: non il colore, non il luogo di provenienza, né la data di nascita, né lo stesso nome. “Calogero” era chiunque riuscisse a invecchiare serenamente in un luogo salubre e appartato; anche tu potevi diventare Calogero e in fondo te lo auguro: è sufficiente togliersi dai piedi, farsi crescere più barba bianca possibile e mandare a memoria un po’ di buoni consigli da snocciolare ai giovani che salgono a trovarti e a portarti qualcosa di non troppo difficile da digerire. La cosa migliore è che quando diventi Calogero il tuo passato individuale scompare: anche se in teoria è il motivo per cui sei lì, nessuno ti chiede più davvero cosa hai combinato, chi eri, contro chi hai combattuto. Il tuo passato finisce sottoterra come quello di tutti i Calogero prima di te: l’idea che si fanno i giovani è che hai passato qualche migliaio di anni a lottare contro i demoni del sottosuolo, che ti hanno carbonato la pelle e incanutito le chiome ma non ti hanno vinto, e se ci rifletti un attimo è andata proprio così. Buon San Calogero a tutti.
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La ballata di San Vito

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15 giugno – San Vito (♱303, patrono di un sacco di posti e di 34 categorie professionali, invocato in tutte le patologie che contemplano convulsioni). 

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[2018]. Vito era un bambino agitato, alzi la mano chi non lo è stato. Il padre gli diceva: vuoi star fermo? Non è che se smetti di correrci non si chiama più corridoio. E quelle sono posate, non bacchette del tamburo. Ce la fai a star seduto mentre mangi? T'ha punto un ragno, t'ha morso un serpente, si può sapere cos'hai? E Vito, sempre: Scusa papà!, perché alla fine era un bambino perbene: ma non lo tenevi neanche con le catene.

"Un giorno io chiamo Diocleziano e gli racconto che sei un cristiano".
"No papà dai, non lo farò più".
"Non farai più cosa?"
"Non lo so, cosa stavo facendo?"

Vito faceva il distratto, alzi il piede chi non l'ha mai fatto. Perché in verità era cristiano sul serio: l'aveva convertito il suo maestro, che poi era San Modesto. E non aveva ancora finito di asciugarsi dall'acqua del battesimo che si era già messo a fare miracoli a destra e a manca; ora si capisce che un santo i miracoli ogni tanto li deve fare, ma Vito proprio non se li teneva, gli scappavano da tutte le parti. Ti guariva la psoriasi anche solo a guardarlo da lontano, anche solo a pensarci. San Modesto gli diceva: ti vuoi calmare? Hai tolto la rabbia all'intero canile, vuoi mandare sul lastrico i veterinari? Non c'è più un caso di encefalite da Praga a Mazara del Vallo: e i dottori che cosa faranno? Anche Cristo si è fermato a Eboli: tu dov'è che pensi di andare? E Vito, sempre: scusa Modesto! perché alla fine era un bambino onesto: ma niente da fare, come si voltava ricominciava a mollare miracoli dappertutto.

"Guarda che arriva Diocleziano, guarda che scopre che sei cristiano".
Difatti un bel giorno arrivò, lo processò e lo condannò. Ma Vito era un po' iperattivo, chi non lo è stato controlli se è vivo. Vuoi stare un po' fermo (gli diceva Diocleziano mentre lo immergevano nella pece bollente)? Non vedi che sporchi dappertutto.

"Guarda qui che macello, ci sono macchie di pece fino in Basilicata".
"Scusa Cesare".
"Augusto, io mi chiamo Augusto, Cesare è il mio vice. Ma a scuola non la studiate più la tetrarchia?"
"Non lo so, ho perso il diario".
"La solita scusa, anche mio figlio non fa in tempo a scriversi i compiti che..."
"Tuo figlio in realtà è indemoniato".
"Ti dirò che la cosa non mi sorprende affatto".
"Comunque l'ho guarito".
"Meno male, adesso se non ti dispiace potresti smettere di accarezzare quel leone?"
"Ma perché? È così carino".
"Non è carino, è una belva feroce, è anche paurosamente magro, non mangia da una settimana, l'abbiamo liberato in questa arena affinché ti morsichi a morte e tu gli stai facendo i grattini dietro alle orecchie".
"Senti che fusa, senti".
"Va bene, ho capito, portate via il leone, proviamo col supplizio del cavalletto. Io non li sopporto questi cristiani. Han così tanta voglia di morire e poi alla prova dei fatti non muoiono mai. Li immergi nella pece e non si scottano, liberi i leoni e fanno le fusa. Abbassi la scure e la scure rimbalza. Li lanci dalla finestra e s'involano con gli angeli, ma che razza di religione è. Se proprio ci tieni a morire, non puoi star fermo un attimo e aspettare che ti ammazzino? E adesso cosa c'è? Cosa dice il boia?"
"Cesare, si dimena troppo, non riusciamo ad appenderlo".
"AUGUSTO! MI CHIAMO AUGUSTO! È da vent'anni che ho implementato questa cazzo di tetrarchia e ancora i sottoposti non sanno come chiamarmi ma dico io, le leggete le circolari?"
"Ma Maestà..."
"Non si dice Maestà, non siamo in una fiaba medievale, questo è l'impero romano e io devo essere chiamato Au-gu-sto, Au-gu-sto, Gaio Aurelio Valerio Diocleziano per i biografi. E il cristiano nel frattempo che fine ha fatto?"
"Credo che si sia involato con gli angeli".
“No vabbe’. Io esco. Vado a Spalato a coltivare i cavoli, con vent’anni di contributi da imperatore credo di potermi permettere una villetta in campagna”.

L’angelo aveva portato San Vito alla foce del fiume Sele, dove fece giusto in tempo a morire a causa delle torture, e salito in paradiso cominciò a tormentare anche i santi. Ma vuoi stare un po’ fermo? gli diceva San Simeone Stilita. T’ha morsicato un serpente? gli chiedeva San Patrizio. Qua bisogna dargli qualcosa da fare, propose Sant’Isidro contadino. Buona idea, pensò San Pietro: “Vito, ti va di proteggere i farmacisti? Non hanno ancora un patronato, potresti pensarci t–”

“Fatto”.
“Come fatto”.
“Li ho protetti, capo”.
“Ma ti ho detto di farlo due secondi fa”.
“Controlla”.
“Sì vabbe’ ma scusa non si fa così, non te l’ha spiegato San Modesto? Bisogna avere anche un po’ di rispetto per i santi che ci mettono più tempo”.
“Scusa hai ragione, prova a darmi un altro patronato”.
“Eh vabbe’, così, su due piedi… Gli albergatori”.
“Ok”
“Ok cosa vuol dire? Li hai già protetti?”
“No, no, ci sto lavorando”.
“Non fare il furbo con me”.
“Ti giuro capo, non ho già finito, ci sto mettendo più tempo, guarda”.
“Ci hai messo tre secondi in più, Vito, dai, non è una cosa seria”.
“Ma che ci posso fare? Sono nato così”.
“Non c’è nessuna gloria nell’essere nati, io per dire ero nato pescatore. Bisogna sforzarsi un po’, inventarsi qualcosa. Sennò sembriamo palline scagliate dalla racchetta di Dio. Almeno un po’ di effetto, un po’ di libero arbitrio; Dio t’ha fatto tondo? Prova a metter fuori gli angoli. Se Dio ti ha creato veloce tu almeno prova a rallentare”.
“Ma se Dio mi ha creato in un modo…”
“Di sicuro non era per vederti finire nello stesso modo. Dio ama le sorprese”.
“Ma se è onnisciente”.
“Esatto, ama l’unica cosa che non può avere davvero. È per quello che ci somiglia tanto. Ma cosa puoi capirne tu, sei solo un bambino. E probabilmente lo resterai. Ma fa una cosa: proteggimi i birrai, tu che non bevi mai”.
“Protetti”.
“E i bottai”.
“Fatto”.
“I muti e i sordi, tu che non taci mai”.
“Protetti”.
“Gli abitanti di Sapri e di Rijeka già Fiume, in Croazia. Gli idrofobi e i letargici – proprio tu che non dormi mai”.
“Ok”.
“Sei uno spasso, Vito, non invecchiare”.
“Capo, non credo di poterlo fare”.

Vito era un bambino complesso, chi non lo è stato può alzarsi adesso. Batti quel piede, batti la mano, danza con Pietro e con Diocleziano. Tu che se vuoi riesci a stare seduto (e per questo ai maestri sei sempre piaciuto); che se ti dicono “fermo” tu stai; ma io dico “balla”, e tu ballerai. Tutta la notte finché, sfinito, non ti verrà a salvare San Vito. Lui fa in un attimo, stende la mano: su te, su Pietro e su Diocleziano. Così saprai come ci si sente, a non poter star mai fermi per niente: a sentirsi bruciare le ossa, mentre i nervi ti danno la scossa. E avrai pietà anche di quel cristiano: e pietà per Pietro, e per Diocleziano.
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Il Santo che batté il Brasile. Due a uno.

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San Cono di Diano o Teggiano (XIII secolo), patrono ufficioso di chi si rovina al lotto e della nazionale di calcio dell'Uruguay. 

E lo stadio era pieno.
E lo stadio era pieno (record ineguagliato di spettatori).
[2014]. L'Uruguay è un piccolo Paese con un record calcistico impressionante: schiacciato tra Brasile e Argentina, ha vinto più Coppe America di entrambi. In effetti, ha vinto più Coppe America di qualsiasi altro Paese. È stata la prima nazione a organizzare una Coppa del Mondo (1930) e a vincerla; nelle due edizioni successive - vinte dall'Italia - non partecipò nemmeno. Si ripresentò nel 1950, al primo mondiale disputato in Brasile: e proprio contro il Brasile si trovò a disputare l'ultima partita, decisiva per aggiudicarsi il torneo. Al Maracanà, figuratevi.

Non era una finalissima vera e propria perché, per la prima e fin qui unica volta nella storia della FIFA, la fase finale del torneo era un girone all'italiana con quattro squadre: ma le due europee qualificatesi, Spagna e Svezia, si erano dimostrate molto inferiori al gioco delle sudamericane. Il Brasile, in particolare, aveva infierito su entrambe: 7-1 contro la Spagna, 6-1 contro la Svezia. L'Uruguay aveva più modestamente superato la Svezia per 3 reti a 2, e contro la Spagna aveva addirittura pareggiato. Dunque quella sera al Brasile bastava un pareggio. Già, ma voi avreste mai scommesso su un pareggio del Brasile, al Maracanà appena costruito, davanti a duecentomila spettatori paganti, nella finale di Coppa del Mondo?

Era stato un mondiale stranissimo, un difficile tentativo di recuperare la normalità dopo la lunga interruzione dovuta alla guerra mondiale. Su 16 squadre qualificate, solo 13 si erano presentate. L'India era stata squalificata perché si faceva un punto d'onore di giocare a piedi nudi. La Scozia non era venuta perché non sopportava l'idea di non essere testa di serie come l'Inghilterra. L'Inghilterra non aveva molta esperienza del gioco oltremanica, e si ritrovò sbigottita a perdere 0-1 contro gli Stati Uniti d'America. L'Italia - detentrice del titolo, conquistato dodici anni prima in camicia nera - si era presentata stremata da un viaggio di tre settimane in transatlantico. Le altre squadre avevano preferito prendere l'aereo, ma la federazione italiano aveva appena perso gran parte dei titolari nel disastro di Superga, e non se la sentiva di rischiare. Il transatlantico si era rivelato un pessimo ambiente per un ritiro: tutti i palloni dopo qualche giorno erano finiti nell'oceano. Inseriti in un girone a tre con Svezia e Paraguay, perdemmo con la prima che pareggiò col secondo, e a quel punto eravamo già fuori: vincemmo comunque col Paraguay ed eravamo già pronti a re-imbarcarci.

A quel punto non restava che tifare Uruguay, una delle nazioni più italiane del mondo. Italiani erano i cognomi dei titolari più titolati: Ghiggia, Schiaffino. Entrambi avrebbero qualche anno più tardi indossato la maglia della nostra nazionale. Il capitano, Obdulio Varela, prima della partita invoca addirittura un santo italiano, Cono da Diano. Promette, in cambio della vittoria, di compiere un pellegrinaggio a piedi da Montevideo al santuario di San Cono a Florida, ridente cittadina dell'Uruguay. Ma perché proprio San Cono?

La cappella di San Cono a Florida (Uruguay)
La cappella di San Cono a Florida (Uruguay)
Cono Indelli nacque a Diano (in seguito conosciuta come Teggiano, provincia di Salerno) alla fine del dodicesimo secolo, e scappò appena poté in un monastero benedettino a Montesano della Marcellana. Lì visse una vita breve, santa e, per i nostri parametri, noiosissima, ravvivata da qualche saltuario evento miracoloso: come quella volta che vennero a trovarlo i genitori e lui dimostrò l'amore che riservava loro nascondendosi in un forno acceso. Quando se ne andarono ne saltò fuori incolume: miracolo! Pur di non dire ciao papà, ciao mamma.

Del resto il forno era il suo habitat, ci entrava dentro per cucinare; col tempo aveva magari sviluppato una certa resistenza. È anche vero che morì giovane: e che a un anno dal decesso ancora non avevano deciso dove seppellirlo. Ne reclamavano le spoglie ancora incorrotte sia Diano che Padula - quest'ultimo centro non so a che titolo - finché non si decise di tirare a sorte, abbandonandole a metà strada su un carretto legato a due buoi. I due buoi presero di buona lena la strada per Diano e si fermarono solo davanti alla chiesa del paese. Vince Diano, perde Padula.

Gli abitanti lo eleggono subito protettore del paese e ricorrono a lui a ogni crisi. Le solite cose: una guerra coi vicini, un assedio, un’epidemia, il terremoto del 1857. Santificato nel 1871, durante le migrazioni di fine Ottocento Cono comincia a essere venerato anche nell’Altro Mondo. In particolare a Florida, Uruguay, dove al suo esordio in una processione pubblica fa tremare la terra. L’Uruguay ha la sua parte di sfortune, come ogni Paese del mondo, ma non è zona sismica: il terremoto è un prodotto d’importazione, grazie San Cono. Per diciassette anni nessun sacerdote mette piede nella cappella a lui dedicata. Più che superstizione, è il segno di un conflitto tra la comunità italiana che l’aveva portato con sé da Teggiano e la curia locale, ispanofona. Il dissidio viene superato in un modo bizzarro quando il 3 giugno del ’45 sulla ruota di Montevideo esce il 3. Il giorno della morte di San Cono, il giorno della sua festa in Cielo.

Due giorni dopo si estrae il primo premio della lotteria nazionale: il numero del biglietto finisce per 3. Può essere una coincidenza, ma a quel punto molti bravi uruguagi si mettono a giocare numeri che finiscono per 3. La situazione degenera al punto che le lottomatiche del Paese decidono di imporre limiti alle puntate sul 3 nelle settimane a cavallo tra maggio e giugno

A questo punto la cabala si scatena. Il tre negato in Uruguay può sempre uscire sull’altra riva del Rio della Plata, in Argentina. Oppure si può giocare il 2, o il 4: è l’intenzione che conta, il Santo capirà. Se esce l’12, è il secolo in cui nacque; il 13, quello in cui morì. A proposito, forse morì a 18 anni: controlla, due settimane fa è uscito un 18. È stato canonizzato nel 1871: prova il 18, il 71 o 1+8+7+1=17. La sua cappella è al numero 50 della strada numero 26. E così via.
L’ultima partita della Coppa del Mondo del 1950 si giocò il 16 luglio (1+6=7: le lettere di S-a-n-C-o-n-o). Gli spettatori erano 199.854, di cui un centinaio uruguagi. Molti tifosi brasiliani vestivano già la maglietta Brasil campeão 1950. La partita fu preceduta da un discorso del prefetto che salutava i connazionali come campioni del mondo. Insomma si possono dire tante cose dei brasiliani, ma non che pecchino di scaramanzia.


Potrei sbagliare ma Ghiggia dovrebbe essere il secondo in basso da destra; Schiaffino tiene il pallone.
Potrei sbagliare ma Ghiggia dovrebbe essere il secondo in basso da sinistra; Schiaffino tiene il pallone.

Durante il primo tempo non segnò nessuno – i tre quarti d’ora più noiosi dell’intero torneo. All’inizio della ripresa segnò Friaça per il Brasile. Tutto sembrava andare per il verso giusto.

Venti minuti dopo Ghiggia serve un cross a Schiaffino. Uno a uno. Tosto, però, l’Uruguay. E va bene, tanto al Brasile basta un pareggio. D’altro canto, è il Brasile. Nello suo stadio nuovo, concepito apposta per il trionfo. Non può mica cominciare a coprirsi, non sarebbe nemmeno capace. Altri tredici minuti. Ancora Ghiggia. Due a uno per l’Uruguay.

Due più uno fa tre.

A quel punto l’Uruguay serra le file – forse sanno che San Cono non ha più numeri a disposizione – o forse è il silenzio spaventoso dei duecentomila spettatori che non festeggiano più, non gridano più. Quando l’arbitro fischia tre volte, la Coppa sembra dissolversi in una nebbia d’angoscia. La banda non suona perché non si sono portati lo spartito dell’inno dell’Uruguay, e di suonare quello del Brasile non è veramente il caso. Jules Rimet, presidente FIFA e inventore della coppa del mondo, cerca le autorità brasiliane per andare a consegnare il trofeo, ma non le trova – sono tutti scappati. Scende in campo, vede piangere i soldati in uniforme di gala che dovrebbero creare il cordone di sicurezza. Individua Varela, lo saluta, gli consegna il trofeo d’oro che comincia a scottargli in mano, e scappa pure lui. Sulle gradinate non c’è la violenza come la conosciamo oggi. I brasiliani se la prendono con sé stessi. Si lanciano dagli spalti. Alcuni accusano fitte al petto; si contano almeno dieci infarti. Molti avevano scommesso sulla vittoria. Il governo proclamerà tre giorni di lutto nazionale. Il Brasile non giocherà per due anni, e abbandonerà per sempre la maglietta bianca e il colletto blu con cui aveva disputato tutte le competizioni internazionali fino a quel momento (la tenuta verde-oro debutterà quattro anni più tardi nel mondiale in Svizzera).

Al santuario di San Cono, Florida, tra gli ex-voto c’è una maglietta bianco-azzurra della nazionale dell’Uruguay. La leggenda racconta che l’abbia portata un calciatore, a piedi da Montevideo.

PS: Forse avrete sentito dire che quest’anno, dopo 64 anni, la Coppa del Mondo si disputa di nuovo in Brasile. Il 24 giugno si gioca Italia-Uruguay. 2+4=6. Giugno è il sesto mese. 6+6=12. 1+2=3. Coincidenza? Noi della rubrica dei santi del Post crediamo di no.
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Kizito e Carlo Lwanga, martiri di Buganda

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3 giugno - San Carlo Lwanga, San Kizito e i loro undici compagni, martiri d'Uganda (1886)

La vetrata che ricordo io però è più bella.
Senza essere nulla di
artisticamente rilevante,
la vetrata che ricordo io
però è più bella.
[2014]. C'è una chiesetta da queste parti, in cui nessuno mette piedi da due anni ormai. È una piccola pieve romanica molto rimaneggiata, che a dispetto dei sigilli e dell'incuria non vuole saperne di crollare. Nel coro della chiesetta c'è una vetrata istoriata che risale agli anni Ottanta del secolo scorso - il momento in cui l'astrattismo simbolico conciliare cede al riflusso del realismo e dopo tanti agnelli, anelli, croci e mani giunte, finalmente si rivedono sulle finestre le sane vecchie storie di santi. I due protagonisti della vetrata, che pregano sommersi dalle fiamme, hanno qualcosa che li rende particolari: sono neri, neri dell'Africa. Una didascalia in calce li chiama Carlo Lwanga e Kizito, martiri in Uganda. La vetrata testimonia la passione missionaria di quella minuscola parrocchia, accennando a una storia che da piccolo nessuno mi sapeva raccontare. Prima o poi, pensavo, qualche missionario in vacanza al paese mi avrebbe ragguagliato su quei due neri in un roveto ardente. Ma non successe mai, e ci ho messo anni a scoprire il perché. Il martirio del robusto lottatore e catechista Carlo Lwanga, del suo più giovane studente Kizito, e di altri undici compagni dai nomi molto difficili da trascrivere, non è una semplice storia di eroismo e testimonianza della fede.

C'entra anche il sesso.

E c'è poco da scherzare. Un anno fa mi capitò di raccontare la leggenda del martire Pelagio, fatto a pezzi dal sultano malvagio perché non rispondeva alle sue avances. Pura propaganda omofoba e antislamica messa in giro dalla prima drammaturga europea, Rosvita di Gandersheim, durante la riconquista cristiana della Spagna. Mentre dalla Germania alla Castiglia si spacciavano storie di califfi sodomiti e pedofili, i califfi veri lanciavano i gay dalle torri. Dalle due parti del fronte rimbalzavano le stesse accuse di virilità deviata. Pelagio probabilmente non è mai esistito, è il fantasma di una purezza che esiste solo nei sogni di chi non ha mai visto una guerra dal vero. Ma non facciamo in tempo a derubricarlo a leggenda medievale, che inciampiamo in Kizito.

L'unica foto che ritrae Kizito e compagni
L’unica foto che ritrae Kizito e compagni
Kizito non è medievale e non è una leggenda. È realmente vissuto, almeno per 14 anni, nel cuore dell'Africa: un mondo alieno che gli europei scoprono soltanto nell'Ottocento, dove al loro passaggio molti fantasmi occidentali prendono vita. Kizito ebbe il dubbio onore di essere scelto tra i paggi di Mwanga II, kabaka (re) di Buganda, al tempo una delle nazioni più importanti dell'Africa orientale. Gli agiografi del XXI secolo lo descrivono come un sovrano dissoluto, dedito a vizi d'importazione:
"Da mercanti bianchi venuti dal nord, ha imparato quanto di peggio questi abitualmente facevano: fumare hascisc, bere alcool in gran quantità e abbandonarsi a pratiche omosessuali. Per queste ultime, si costruisce un fornitissimo harem costituito da paggi, servi e figli dei nobili della sua corte." 
L'unica foto che ritrae il Kabaka Mwanga II
L’unica foto che ritrae il Kabaka Mwanga II
Prego notare il razzismo al contrario, che pur sempre razzismo è. Hascisc, alcool, sodomia: tutto deve venire per forza dai corruttori bianchi. Eppure l’abitudine a circondarsi di un harem di prepuberi era antica e consolidata, presso i kabaka. Possiamo dire che fosse parte delle prerogative reali, così come la poligamia su larga scala: il padre di Mwanga aveva avuto 85 mogli, lui si limitò a 16. Se ci immaginiamo un anziano vizioso siamo un po’ fuori strada, perché nel 1884, quando fu scelto da un collegio di anziani come successore del re appena morto, aveva soltanto sedici anni.

Ne aveva solo due in più quando mise fine alla politica di tolleranza che aveva permesso a suo padre di mettere cattolici, anglicani e musulmani gli uni contro gli altri, e lanciò ai cristiani della sua corte un ultimatum: rinnegate la vostra fede e sottomettetevi ai miei appetiti, oppure morite.

Tra i primi caduti il vescovo inglese James Hannington, assassinato nel suo villaggio. Quando il maggiordomo di corte (nonché sacerdote cattolico), Joseph Mukasa, accusò Mwanga di essere il mandante dell’omicidio, e lo rimproverò esplicitamente per le sue pratiche omosessuali, Mwanga lo fece giustiziare con una coltellata al cuore. Charles Lwanga, già primo tra i paggi reali, ne prese subito il posto.

martiri d'uganda

Pare che Mwanga lo ammirasse anche come wrestler. Ma Charles oltre che lottatore era un buon cristiano, maestro di catechismo addirittura: e molti paggi reali erano suoi catecumeni. Il giorno successivo si autoaccusa al cospetto del re con una ventina di suoi studenti. Mwanga non li fa ammazzare subito. Spera che il tempo, e un po’ di tortura, giochi a suo favore. Quando la sua residenza va a fuoco li porta con sé nella sua villa sul lago Vittoria: un lungo viaggio durante il quale alcuni compagni di Charles e Kizito muoiono trafitti dalle lance della guardia reale. Per tutto il tempo, raccontano gli agiografi, Mwanga non cessa gli approcci sessuali nei confronti dei suoi prigionieri, ma Charles riesce a difenderne l’onore. Quando il 3 giugno viene posto sulla pira, gli aguzzini hanno cura di accendere il fuoco sotto i suoi piedi, e si assicurano di carbonizzarli prima di dare fuoco al resto del corpo. Mentre muore, Charles dice due cose: “mi bruciate ma è come se rovesciaste acqua addosso al mio corpo” e katonda“, mio Dio. Con lui, anche dieci sacerdoti anglicani e due musulmani. A suo modo Mwanga non faceva differenze.

Ronald Muwenda Mutebi II e Sylvia Nagginda

Ronald Muwenda Mutebi II e Sylvia Nagginda

Lo scandalo per il massacro fu il pretesto che spinse i britannici a entrare nel Buganda, appoggiando una rivolta islamo-cristiana contro gli animisti governativi. Mwanga dovette scappare. Al suo posto, gli inglesi pescarono uno dei più di cento fratellastri. Durò un mese, e poi fu sostituito da un altro fratellastro. A questo punto Mwanga II rientrò in ballo, promettendo tra trasformazione del Buganda in un protettorato in cambio del suo reinsediamento al trono. Di lì a dieci anni avrebbe capeggiato due rivolte anti-inglesi, per finire i suoi giorni in esilio alle Seychelles, dove fece in tempo a convertirsi e morire a 35 anni, una vita intensa. Gli anglicani lo battezzarono ironicamente col nome di Daneri, Daniele: il libro della Bibbia in cui si racconta dei ragazzini che furono gettati in una fornace e non tradirono il loro Dio. Sì, ma loro dalla fornace uscirono illesi.

Kizito e i suoi compagni bruciarono vivi. Charles gli aveva promesso: Se dobbiamo morire per Gesù moriremo insieme, mano nella mano. Gli ultimi giorni della sua vita, il ragazzino li passò tra due fuochi non letterali: quello del supplizio minacciato dal re, e quello dell’inferno evocato dal suo educatore, Charles. Vinse l’educatore, dal suo punto di vista un successo glorioso. Dal mio non saprei, ma è ingiusto sovrapporlo a una storia che conosco appena.

Il Buganda esiste ancora, è una regione autonoma che occupa un quarto dell’Uganda, ci vivono sette milioni di abitanti. L’odierno kabaka si chiama Muwenda Mutebi II. Sua moglie, la regina Sylvia Nagginda di Buganda, è molto impegnata in campagne di scolarizzazione e prevenzione delle malattie infettive.
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Giovanna era bellissima che ne sai

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30 maggio - Santa Giovanna D'Arco (1412-1431)


Spiacente Milla, mi spiace Ingrid,
Jean Seberg è più Giovanna di tutte.
[2013]. Santa Giovanna mi trova sempre nel momento peggiore - scadenze e pendenze d'ogni tipo, scrutini, rovesci temporaleschi, astratti furori che rubano sonno ed energia. Si arriva a fine anno scolastico sopravvivendo a tutti i buoni propositi caricati a settembre, seppelliti uno alla volta lungo il sentiero verso il maggio atroce, il giugno torrido. Si parte giovani e pieni di voglia di cambiare il mondo e si arriva stanchi, sfibrati, senza prospettive, come doveva trovarsi il Bastardo d'Orléans nel 1429, mentre difendeva Orléans. Tutti i sogni cavallereschi di gioventù seppelliti in quel disastro che era stato la battaglia delle aringhe. Ormai la guerra, se non già perduta, era comunque un mestiere come un altro, magari più a rischio infortuni. Il Bastardo, a dispetto del soprannome un nobile di primo rango, tirava avanti perché aveva due riscatti da pagare: i fratellastri prigionieri degli inglesi. Era l'ultimo Orléans rimasto in campo e ci mise 25 anni a saldarli, peggio di un mutuo sulla casa. Una guerra insomma senza gloria, le prospettive oscillavano tra la resa disonorevole e gli orrori di un assedio a oltranza, crepare di fame e peste mentre il tuo popolo ti maledice. Le provviste in città erano già razionate, il re Carlo lontano e talmente pavido da non potersi nemmeno definire in senso stretto un re: non aveva le palle per sfidare gli inglesi mettendosi una corona in testa. E poi che altro? Niente, sta arrivando in città una matta, una contadina che parla con gli angeli, ha appena imparato a cavalcare e dice che la guerra la vincerà lei. Pure i matti adesso, putain, non bastavano le epidemie? Ma quando finisce 'sto medioevo che ne ho piene le palle.

Finché non arriva Giovanna: ed è bellissima.

No, non abbiamo ritratti. Ma che fosse bella è chiaro. Per quanto tu possa parlare con Michele Arcangelo e vederti ogni sera con Domineddio, se non sei un po' carina difficilmente ti darebbero retta gli eserciti della Francia intera. Doveva essere bella di una bellezza scostante, hai presente quelle ragazze talmente fuori standard che nessuno ci prova veramente: così come non ci provarono i cavalieri che la stavano accompagnando, e che testimoniarono sulla sua correttezza al di sopra di ogni sospetto. Questa spaventevole bellezza, Giovanna doveva portarla con molta disinvoltura: in poche settimane aveva imparato a cavalcare, mentre teneva testa ai nobili della corte di Chinon e ai dotti di Potiers. Per esigenze di cavalcatura si era adattata a mettere i pantaloni, cosa mai vista se non in qualche bordello assai raffinato, di cui lei nella sua incontestabile innocenza nulla poteva sospettare. E poi che altro?

E poi era simpatica. Anche su questo, tutti concordano. Pronta al riso e alla battuta, di fronte a qualsiasi autorità. A Potiers un erudito, fra Seguin - immaginatevi un accademico davanti a una contadina che sostiene di parlare gli angeli, immaginatevelo - le aveva chiesto che lingua parlassero, questi angeli. Glielo aveva chiesto con uno spiccato accento di Limoges, la Campobasso della Francia meridionale. Beh (rispose lei) senz'altro una lingua migliore della vostra. E fu amore a prima battuta, anche per il professorone. Seguin avallò il parere della commissione, che considerava Giovanna utile alla causa regia, e anche ad anni di distanza non smise mai di parlarne e di scriverne tutto il bene che poteva scrivere il futuro ultrasettantenne decano della facoltà di Poitiers.

Giovanna era incantevole, nell'autentico senso. Piacque a tutti quelli che ebbero l'opportunità di conoscerla un poco. Durò poco (e lo sospettava) ma finché durò i mercenari smisero di chiedere riscatti, i saccheggiatori di saccheggiare, i politici di mercanteggiare, i francesi di lamentarsi - riuscite a immaginarli? Francesi che non si lamentano? Tutto dunque era possibile. Il Bastardo incontrò Giovanna, e all'improvviso non era più il mesto impresario di un teatrino al massacro. Era di nuovo un Capitano del Re; e anche il Re, quella mezzasega, se Giovanna insisteva una corona in testa poteva ben mettersela.

Jean de Dunois, senza l'aria di essere soprannominato il bastardo d’Orléans.

Giovanna non sapeva combattere, e ben presto fu chiaro che nemmeno le piaceva. Dopo la prima scaramuccia seria chiese di non portare la spada, ma la bandiera. Prima di ogni combattimento implorava i nemici di arrendersi, e riconoscere l’evidenza: erano un esercito di occupazione, avevano Dio contro, ma se si fossero arresi Giovanna li avrebbe difesi da vendette e ritorsioni. E quelli: fottiti strega! Puttana degli armagnacchi! Giovanna non portava rancore. Si prese frecce e pietrate; cadde sull’antenata di una mina antiuomo – un arnese di ferro appuntito che serviva ad azzoppare cavalli. Era la Guerra dei Cent’Anni, era cominciata con le frecce e finì coi cannoni. La gente nasceva in guerra, viveva in guerra, moriva in guerra, e gli anni di tregua dovevano lasciare come una sensazione di vuoto dentro. Più di una rivelazione angelica, questo era miracoloso: che una contadina nata in un’enclave armagnacca nei territori occupati credesse a qualcosa che chiamava “pace duratura”. Non erano mai esistite paci durature, solo tregue un po’ più lunghe del solito: esistevano assedi e battaglie, massacri e riscatti, dai tempi del nonno e del nonno del nonno era sempre andato così, in che modo una bella ragazza avrebbe potuto cambiare le cose?

Giovanna ci provò. Li fece innamorare. Liberò Orléans, diede al Bastardo la sua vittoria più bella. Portò il Delfino a Reims, dove si incoronavano i re di Francia, e lo fece re, lo rese uomo. Ma non poteva durare, ed era la prima a saperlo. Gli uomini son fatti così, i re come i bastardi: qualche anno di fuoco e fiamme, e poi cenere. Appena indossata la corona Carlo VII stava già pensando a cosa offrire agli inglesi per non farli troppo incazzare. A Giovanna regalò uno stemma nobiliare, ma nessuno riusciva a immaginare una Giovanna a corte che sorseggia champagne e discute di beneficenza rifiutando pudicamente un macaron. Disobbedendo all’ordine di ritirata, proseguendo la guerra in qualche scaramuccia periferica, Giovanna aveva controfirmato il suo destino: prima o poi si sarebbe fatta ammazzare. Si trattava semplicemente di stabilire il quando, il come. A Compiègne  mentre rientrava da una sortita trovò la porta della rocca chiusa. Forse qualcuno aveva tradito. C’erano taglie sulla sua testa, gli inglesi avrebbero pagato parecchio per portarla nella zona occupata, svergognarla pubblicamente e bruciarla viva. Anche se all’inizio la presero i borgognoni.


Divenuta merce di scambio lungo la proficua e intricata filiera dei riscatti, Giovanna per qualche tempo fu ospite-prigioniera di tre nobildonne che avevano il suo stesso nome. Quel poco di psicologia che crediamo di condividere con l’aristocrazia del Quattrocento ci lascia immaginare cosa potessero pensare queste tre Giovanne ben nate di lei, contadina in pantaloni al soldo del nemico. Ma è proprio da questi dettagli che si riesce a capire quanto doveva essere irresistibile la pulzella di Orléans, perché le tre dame si innamorarono anche loro, non volevano lasciarla andare; Giovanna di Lussemburgo minacciò di diseredare il nipote. Niente da fare, Giovanna finì a Rouen, a recitare la parte di invasata e strega, e a farsi bruciare viva.

Sola, senza nessun uomo esperto di legge o teologia, Giovanna combatté la sua ultima battaglia: e vinse. Per più di un mese la contadina che sentiva le voci mise in imbarazzo i teologi che cercavano disperatamente prove di eresia o stregoneria. Chiunque dia un’occhiata ai verbali non può nutrire dubbi su da che parte stessero superstizione e fanatismo. Il vescovo Cauchon le provò tutte. Insistette a lungo sulle ghirlande con cui da bambina Giovanna aveva adornata un albero al suo paese: è un’usanza pagana! Si fece ridere dietro, e intanto gli inglesi scalpitavano: la volevano al rogo, la procedura era un dettaglio; purché si trovasse un modo. Giovanna di morire sembrava tutt’altro che entusiasta, e si difese in tutti i modi che riuscì a trovare; ma non rinunciò mai alla sua ironia, forse controproducente. Quando l’inquisitore le chiese se un’entità soprannaturale le avesse suggerito un modo per evadere, Giovanna sbottò: ma se davvero me l’avesse detto ve lo racconterei? Dopo un po’ cominciarono a fare le udienze a porte chiuse.

Rarissima foto di santa travestita da altra santa (è Teresina del Bambin Gesù nei panni di Giovanna, e ci crede un casino).

Alla fine non riuscirono a trovare niente di più incriminante dell’abitudine di indossare i pantaloni. Giovanna aveva capito al volo e si era rimessa una gonna: gliela tolsero. Sola in un carcere maschile, senza indumenti (dopo aver già subito percosse e tentativi di violenza), Giovanna alla fine cedette e si rimise i pantaloni. Tecnicamente questo faceva di lei una relapsa, un’eretica che dopo aver abiurato alle sue perfide idee ritornava sui suoi errori. Cauchon si volle assicurare che il falò fosse composto di solida legna, e non fascine che avrebbero asfissiato la ragazza prima che le fiamme l’ustionassero. Giovanna doveva andare arrosto e bestemmiare, l’accordo con gli inglesi era questo. Giovanna andò arrosto, ma non bestemmiò. La gente venuta a vedere la strega allo spiedo tornò a casa dicendo che era morta da santa. Un soldato inglese ebbe un malore, raccontò di averle visto uscire di bocca una colomba.

Vent’anni più tardi gli inglesi avevano perso la guerra, una volta per tutte. Carlo VII era ancora re, il primo dopo secoli a regnare su qualcosa di simile a una Francia unita. Il Bastardo era diventato suo gran ciambellano. Un giorno ebbero la pensata di riabilitare Giovanna, con un processo al contrario. Invitarono i testimoni sopravvissuti, trovarono molta gente che non ne disse che bene. Il perfido Cauchon non era più su questa terra: lo scomunicarono ex post. E magari così si lavarono un po’ la coscienza, per aver lasciato andare al rogo quella ragazza bellissima che nel giro di pochi mesi aveva preso quei due falliti da un angolino sfigato del libro di storia – il bastardo e il delfino – e li aveva fatti uomini. Non risulta nessun tentativo di Carlo VII di liberare Giovanna, nei mesi della prigionia e del processo. Qualche storico pietoso però ha notato come non vi siano tracce del Bastardo, per almeno due mesi nel bel mezzo del 1431: sembra scomparso. Il Quattrocento non è un secolo oscuro, a saper scartabellare si riesce a trovare anche il nome del cavallo preferito dell’arcivescovo di Limoges; ma del Bastardo, in quei due mesi, niente. Così si è fatta strada questa ipotesi: che il Bastardo fosse in missione segreta per ordine di sua Maestà, oltre le linee nemiche. Scopo: liberare la pulzella, fede, speranza, amore della Francia. È una bella storia, raccontabile in settembre.

Ma è il trenta maggio e io me ne immagino un’altra: probabilmente il Bastardo era da qualche parte nelle retrovie, a non combinare un granché come la maggior parte degli uomini nella maggior parte delle loro esistenze (i soldati, poi). La Storia poi la fanno i vincitori, e il re e il suo uomo di fiducia avrebbero avuto vent’anni a disposizione per riscriverla a piacere, fingendo una missione priva di un reale senso strategico. Giovanna era andata, ormai: bellissima ragazza, sì, d’accordo, ma ingestibile come combattente, e nemmeno così performante. Invece come martire avrebbe ancora avuto un senso, e in fondo non era quello che voleva? Non era quello che aveva sempre voluto? Erano gli angeli a ispirarla, no? Ci pensassero gli angeli.

E così se n’è andata un’altra primavera. Quanta vita mi è passata intorno, senza che sia riuscito a trarne niente di sensato. Ormai non riesco neanche a ripromettermi che la prossima volta andrà diversamente: non andrà diversamente, come potrebbe? Le forze in campo sono queste, le conosco. Sono qui sotto assedio da cent’anni, è il mio mestiere e non so più perché lo faccio, chi sto riscattando. Intanto paro i colpi, schivo le scadenze, campo alla giornata. Eppure lo so, lo sento, che potrei rivincere tutto in un giorno solo, una sola meravigliosa battaglia campale. Se solo Giovanna si rifacesse viva e sorridesse, io mi ci metterei. E vincerei. Ma poi la tradirei, metterei pancia, e penserei a lei soltanto un giorno all’anno. Quel giorno farei in modo di trovarmi in una locanda, berrei forte e al primo borgognone che incontrassi farei una scenata: a chi hai detto puttana? Ta gueule, frocetto, mettiti in ginocchio quando parli di lei. Tu non c’eri, tu non puoi capire, era bellissima.
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26 maggio - San Filippo Neri, prete di strada.

...ma quando la morte ti coglierà
che ti resterà delle tue voglie?

Più Proietti che Dorelli,
effettivamente
[2012]. Sanpippo il Buono potrebbe, volendo, vantare alcuni futili primati. È il primo moderno prete di strada, trecento anni prima di Giovanni Bosco ma sostanzialmente alle prese con lo stesso lumpenproletariato di figli di NN. È il primo santo col cognome, che si usava già da secoli: però sul calendario ci finivi solo col nome di battesimo e al massimo il luogo di nascita. Francesca Bussa de' Leoni in Ponziani è Santa Francesca Romana, per dire; Caterina Benincasa non la conosce nessuno, bisogna togliere il cognome e specificare "Da Siena", ah, allora è la patrona d'Italia. Filippo invece è sin da subito Filippo-Neri. In circolazione c'era anche il suo nobile amico Carlo Borromeo, che invano cercò di portarselo a Milano dove c'erano analoghi problemi coi meninos da rua; però "Borromeo" è più di un cognome, è un blasone, uno stemma. Il cognome di Sanpippo è invece il più banale del mondo, uno di quelli bisillabi tipici toscani; non è un NN ma quasi, niente ascendenze nobili, è la marca di un chinotto poco noto oltre il GRA. Sanpippo è anche il protagonista della prima fiction agiografica della RaiTv, perlomeno la prima che ho visto io, che è anche la più bella, scritta e diretta da Luigi Magni, mica cotiche. E c'è Branduardi.

Parliamo di Angelo Branduardi. È uno degli artisti italiani più snobbati in Italia. Qualche mese fa una popolare rivista rock mise assieme la classifica dei cento migliori dischi italiani scelti da una giuria qualificata, e c'erano un po' rimescolati mostri sacri, meteore, e gente assurda (con tutto il rispetto per il prog italiano). Non c'era Branduardi. E Alla fiera dell'est? mai esistita. C'erano a dire il vero tante altre ingiustizie, ma per Branduardi si mobilitarono dall'estero: dal resto dell'Europa, del mondo, vennero a scrivere, ma come? Siete italiani e non vi piace Branduardi? Ma Branduardi è l'Italia. Come gli spaghetti alle polpette, forse. Su Youtube Vanità di Vanità, la sigla di State buoni se potete, c'è anche in versione serba, cantata da un coro di bambini ortodossi alla presenza del patriarca serbo. Ultimamente sento che tornano di moda gli 883, c'è una Repetto-renaissance, del resto in tv ieri pomeriggio ho visto Franco IV e Franco I, normale. Ma Branduardi guai, Branduardi se inviti gente in casa devi nasconderlo dietro i remix di Albertino e se lo carichi sull'Ipod lo devi travestire coi tag delle canzoni dei Sepultura. Forse in Serbia, chissà. A me Branduardi piaciucchia, niente di speciale. Mi sembra che non sia vissuto nel passato di tutti gli altri, ma in una bolla fuori dal tempo e dallo spazio. Anche in State buoni se potete è così, un'entità che suona il suo arciliuto dall'inizio alla fine senza accorgersi di tutto quello che gli succede intorno, risse di uomini e ragazzi e demoni; se Johnny Dorelli non gli dice di andare a letto lui probabilmente resta lì, su un inginocchiatoio a strimpellare tutta la notte, tutto il giorno. Ne ho conosciute di persone così, le invidio. Secondo me sono felici. Alla fine ti rendi conto che quel che fa la differenza tra una fiction normale e una scritta da Magni sono i dettagli: doveva infilarci Branduardi, e cosa fa? Lo mette lì, una presenza rassicurante e lontana, non invecchia mai ma non riconosce nemmeno bene i personaggi, un angelo. Io perlomeno gli angeli me li immagino così: suonano il liuto, sorridono, non capiscono niente. Qualche anno fa hanno rifatto una fiction su Filippo Neri, ci hanno messo Proietti. Non l'ho guardata, giusto un'occhiata su youtube per documentarmi. La prima apparizione angelica è arrivata prima ancora dei titoli iniziali. Invece Magni l'angelo te lo mette lì e tu te ne accorgi vent'anni dopo, che c'era e che l'hai visto.

È strano il modo in cui certe fiction ti restano in testa. Io Belfagor in realtà non me lo ricordo: rammento un mostro in bianco e nero negli incubi che facevo da piccolo, somigliava vagamente a lui. Ma se devo parlare di paura, ecco: Renzo Montagnani in State buoni se potete mi gelava discretamente in sangue nelle vene. Il dirimpettaio dell'Oratorio di Sanpippo, il fabbro che soffia col mantice su un fuoco che grida - altra idea geniale - con le voci dei dannati de l'inferno. Tanto più riusciva perturbante quanto più era Renzo Montagnani, una faccia nota, in teoria rassicurante. Negli stessi anni faceva i varietà alla domenica sera, si travestiva da prete addirittura. Però compariva anche in certi film scollacciati che riuscivi a captare su telepanaro la notte di nascosto, quindi quel bagliore luciferino negli occhi era in un qualche modo credibile. Una realistica incarnazione del Male, il vicino di casa dai modi schietti e bonari che ti invita in casa e ti regala i giornaletti porno, Montagnani metteva i brividi ogni volta che entrava in scena. Per fortuna se ne va nel primo episodio (ma se ne va col botto, nell'unica scena splatter: Johnny Dorelli gli scarnifica la testa con una secchiata d'acquasanta). Aggiungi l'accento toscano. Colgo l'occasione per dire una cosa ai toscani.


Il diavolo, o è un'africana, o parla toscano
Amici toscani, allo stesso modo in cui prima o poi qualcuno dovrà spiegare ai francesi a cosa serve il bidet, voglio dire, a che serve realmente... qualcuno prima o poi deve illuminarvi sull'orribile equivoco. Voi siete convinti di essere simpatici a tutti, per via della vostra parlata schietta, per il fatto che nella lingua italiana, che tutti gli altri indossano come una camicia appena candeggiata col bottone del colletto che sega la glottide, voi vi ci trovate comodi come nel pigiama usato. Amici toscani ebbene, non è vero. Cioè, è vero che la gente ride. Ma è un modo per esorcizzare la paura. Ci fate paura. Tutti. Il primo toscano che ai non toscani viene in mente è Dante Alighieri, un tizio che nemmeno l'inferno si è tenuto, e tutti da secoli ci ripetiamo che un motivo ci sarà. Per noi comunque il fiorentino è la parlata dell'inferno, rifletteteci. Il secondo toscano che ci viene in mente è Pacciani, spiace ma è così. C'è qualcosa di arcaico, famigliare e perturbante, nel modo in cui aspirate o calcate le consonanti. Forse siete i superstiti di un antico olocausto etrusco, forse abbiamo tutti messo su casa su qualche vostra necropoli. I più celebrati tra voi nel mondo sono quelli che questa cosa l'han capita: la Fallaci, Benigni, se ci pensate hanno tutti un che di demoniaco nel loro immaginario. Pieraccioni no, ma forse è appunto quello che gli manca. In ogni caso io credo che Montagnani sia stato uno dei più grandi attori sprecati della sua generazione, anche se sicuramente recita in qualche film sexy rivalutato di recente. Però con Magni fa la sua porca figura pure Johnny Dorelli: pensate che io per tanti altri anni ancora non ho saputo che cantasse, per me era FilippoNeri e punto.

Un'altra grandissima trovata di casting fu Ignazio Loyola, cioè Philippe Leroy. Il suo accento francese non aveva molto senso; però Leroy era già stato Yanez e Leonardo Da Vinci, e questo invece aveva senso eccome: Leonardo + Yanez = Loyola, tutto torna. I suoi siparietti con Filippo-Johnny sono la cosa più divertente: il tormentone di Leroy è "Li avete letti i miei Esercizi Spirituali?"

"Eh, no, sa, ho avuto da fare".
"Ve li ho prestati quando Francesco Saverio partiva per l'India, adesso è in Cina".

I piccoli gesuiti irrompevano in State buoni se potete cantando in coro un inno scritto apposta da Branduardi, Capitan Gesù, una specie di sigla di Capitan Harlock se invece del Giappone del XX secolo lo avessero fatto nell'Italia durante il Concilio di Trento: Capitan Gesù, non star lassù, ma sta quaggiù a battagliare il male! Sempre quaggiù, a battagliare il male! Gesù mio generale! Irresistibile. Seguivano maledizioni alla "belva luterana" e "al popolo giudìo", e l'ultima strofa era tutta la la la la. A un certo punto fanno pure una partita a calcetto contro gli scalcagnati ragazzi di Sanpippo, e segnano ogni volta che Ignazio glielo ordina, perché sono gesuiti e i gesuiti sono così, obbediscono. Loyola e Sanpippo siedono in panchina.

Io avevo paura a riguardarlo, State buoni se potete. Certi vecchi album di foto non vanno semplicemente riaperti. Poi però su Sanpippo non sapevo bene come scrivere, volevo anche dare un'occhiata a una biografia ma mi hanno chiuso la biblioteca comunale per terremoto e non so quando riaprirà, insomma non ho fatto i compiti, signoramaestra. E allora mi sono detto vabbe', magari su Youtube c'è qualche frammento di quella fiction. No. Su Youtube c'è tutto, State buoni se potete, ed è una roba incredibile, i bambini attori passano il tempo a dire "stronzo" e "merda", ma io l'ho vista in prima serata a dieci anni! In particolare i ragazzini di Sanpippo se la prendono con un "frocio" che va in giro in ghingheri, un protetto di un cardinale. A un certo punto lo circondano per fargli la "stira", che da noi si chiamava sgugna, insomma lo schiacciamento dei testicoli a scopo bullismo, solo per accorgersi (orrore) che il frocio è una ragazzina (Federica Mastroianni). Al che il più grande, Cirifischio, spiega agli altri che la stira non si può più fare. ("Perché?" "Perché le femmine non ci hanno il pisello". "E che ci hanno?") La portano però all'oratorio, dove avviene il dialogo che accludo:
FILIPPO
"E tu chi sei, come ti chiami?"

LEONETTA
"Leonetta".

FILIPPO
"Leonetta. Ma il cardinale lo sa che sei una femminuccia?"

LEONETTA
"Ma se è stato lui a vestimme da maschio".

FILIPPO
"E perché?"

LEONETTA
"Io so' la figlia de madama Lucrezia".

CIRIFISCHIO
"Fiuuuu! 'Na mignotta rinomata".

FILIPPO
"Ma sta zitto! Ma cosa ne sai tu".

LEONETTA
"Per cui so' cresciuta ar casino, insieme alle altre figlie delle puttane. Ma mò Padre Ignazio de Loyola ha detto che le ragazzine nun ce devono sta' ar casino, sennò se imparamo er puttanesimo fin da piccole".

FILIPPO
"Beh, ci ha ragione. Non è un posto indicato".

LEONETTA
"Ah, perché secondo voi è indicato il convento delle vergini miserabili? È là che ci chiudono".

FILIPPO
"Beh, ma vi danno un'educazione, vi mandano a scuola per sette anni".

LEONETTA
"E ve l'immaginate sett'anni trammezzo ai gesuiti? Manco in galera".

FILIPPO
"Vabbe', mò sta' a vede' che è meglio il casino"

LEONETTA
"Apposta er cardinale m'ha portato via e m'ha vestito da maschio".

FILIPPO
"Eh... qui non ci capisco più niente".

LEONETTA
"Don Fili', er cardinale mi vo' bbene".

FILIPPO
"Beh, ma è proprio perché ti vuole bene che si deve preoccupare del tuo avvenire, di mandarti a scuola come tutte le bambine".

LEONETTA
"Ma questo che, ce fa?" (Risolini)

CIRIFISCHIO
"È Santo, è senza malizia".

FILIPPO
"Nel senso che sono un po' stronzo?" (Risate)

LEONETTA
"Don Fili', er cardinale me vo'bbene, ma no alla maniera che pensate voi".

FILIPPO
"Eh? Come? Ma... Voi tutti fuori! Fuori! Cosa state a sentire, tanto voi non capite niente, siete troppo 
piccoli. E tu?"

CIRIFISCHIO
"Io so' grande, posso pure sentì".

FILIPPO
"Ma io... io spero che tu ti renda conto, ma... lo sai quello che stai dicendo, tu capisci, vero?"

LEONETTA
"Io sì. Siete voi che non capite".

Siamo nel 1984 su RAI1, e di pedofilia nella Chiesa non si parlerà più per un bel pezzo. In effetti, non so nemmeno se esistesse già la parola, pedofilia. Ho come l'impressione che le fiction agiografiche di adesso glissino ancora sulla questione.

L'angelo il più delle volte dà le spalle
Per altre cose, State buoni oggi sarebbe considerato assolutamente politically uncorrect. Siccome il demonio dirimpettaio si rigenera periodicamente, come il dottor Who, al fabbro Montagnani subentra una "bella mora", un'extracomunitaria che usa il forno dei dannati per cuocere dolcissimi pasticcini, nel frattempo che seduce i più grandi tra i ragazzini di Sanpippo! C'è pure la scena in cui Johnny in vestaglia (che ti fa subito pensare a Nino Manfredi in vestaglia, è un tic autoriale di Magni la vestaglia) la prende a mestolate nel sedere e lei aaah, sì, picchiami picchiami, non riesco nemmeno a contare in quanti modi oggi una scena del genere sarebbe ritenuta lesiva di minoranze. D'altro canto a un certo punto Johnny sputa in faccia alla Madonna. Cioè, non è la Madonna, è il demonio, però si era truccato proprio bene.  L'episodio peraltro è apocrifo, Sanpippo si limitò a ricevere la confessione di un penitente che diceva di vedersi spesso con la Madonna. "Cotesto è il demonio, e non la vergine", avrebbe suggerito; "però se tornerà più, sputagli in faccia". Ma figuratevi se Magni si lasciava scappare l'occasione di mostrare un prete che sputa in faccia alla Madonna. Non credo che ne vedremo più molti in tv, in prima serata o anche in seconda. Eravamo più laici?
Forse. Eravamo più furbi, senz'altro: in grado di realizzare dei prodotti complessi, strutturati su più livelli di lettura. Anche allora si faceva tv per le vecchiette e i bambini dell'oratorio, e su quel livello State buoni era agiografia onestissima, c'era un Santo che faceva il santo e Montagnani e la bella mora che facevano i demoni, e che demoni. Su un livello un po' superiore c'è la Roma papalina in cui Magni sguazza come un pesce nel suo acquaio: cardinali corrotti e preti ironici, non c'è Manfredi ma Dorelli s'arrangia davvero molto bene. Anche un anticlericale moderato poteva farsi una mezza risata guardando Loyola e Neri che si misurano i centimetri d'aureola. "A me ha guarito la Madonna". "A me no, non volevo disturbare". "Io mangio sempre solo pane e acqua". "Ecco perché vede la Madonna". Forse eravamo anche un po' più paraculi; senz'altro pensavamo di poter costruire favole che piacessero a tutti, cattolici e scettici. Adesso ognuno se ne sta sul suo canale digitale, chi vuole vedere le aureole su rai1 spesso le trova, ma posso dire? Spesso è roba che non si può vedere, non regge neanche l'unico livello che è rimasto.

A Sanpippo è attribuito uno dei miracoli più delicati che si conoscano. Avrebbe resuscitato un ragazzino, ma solo per qualche minuto: il tempo per confessare l'ultimo peccato e salutare.
Interrogandolo poi Filippo la seconda volta se moriva volentieri rispose parimente che moriva volentierissimo, massimamente per andar a veder sua madre e sua sorella in Paradiso; onde il S. Padre, dandogli la benedizione, gli disse: "Va': che sii benedetto, prega Dio per me". E subito con un volto placido e senza alcun movimento tornò a morire nelle braccia del S. Padre...  
La morte non si può sconfigge, anche Lazzaro risorto sarà rimorto prima o poi. Sanpippo si accontenta di sconfiggerla una mezz'ora. Vai cercando là, vai cercando là: ma quando la morte ti coglierà, che ti resterà delle tue voglie? Quella di salutare gli amici, quella forse non è vanità.
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20 maggio - San Bernardino da Siena (1380-1444), predicatore.


'Ci saranno bombe, terremoti, falsi profeti
che vi diranno che ve l'avevano detto...'
[2012]. C'è crisi. Da parecchio. Ce n'è così tanta che non ci ricordiamo nemmeno quand'è cominciata, e nulla ci lascia sperare che possa finire. Le vecchie ricette non funzionano più, i vecchi partiti si sono scannati tra loro senza portarci nulla di buono. C'è confusione e non c'è nessuno che ci spieghi cosa fare. No, veramente uno c'è. È un tizio fuori degli schemi. Per dire, è esperto di Apocalisse e di teorie economiche. Però non è tanto questo l'importante. L'importante è che lui si fa ascoltare. Gli altri sono noiosi e battibeccano sempre, lui quando occupa la scena può tenerla per ore, giorni, settimane. Si capisce che ne sa a pacchi, ma non te lo fa pesare; cita gli economisti ma anche i barzellettieri, ti fa spetasciare dal ridere, certe volte; altre volte ti fa pensare. Quando arriva in città, col suo battage pubblicitario un po' rozzo ma innovativo, le donne fanno la fila per occupare i primi posti, dove si sente tutto. Gli uomini occupano i secondi posti, dove si vedono meglio le donne. Insomma è l'uomo dell'anno, del decennio. Dove passa ammainano le bandiere dei partiti e innalzano la sua. Gli hanno offerto cariche importanti, ma lui la politica preferisce lasciarla fare agli altri. Quello che veramente gli interessa non sono gli onori (ne ottiene), né i guai (se li procura). Quello che davvero vuole fare, lo sta già facendo: predicare è la sua più grande gioia, continuerà finché le forze non lo abbandoneranno. Sto ovviamente parlando di Bernardino degli Albizzeschi, il più grande predicatore del quindicesimo secolo.

I ritratti quattrocenteschi di Bernardino
sono tra i più realistici (si vede chiaramente
che non aveva più denti, per esempio).
Ma non è che nel ventunesimo le cose vadano troppo diversamente. A chi continua ad affettar stupore per gli exploit di Beppe Grillo, porto questa ipotesi in regalo: forse Grillo non è affatto un uomo nuovo, forse è l'incarnazione di un archetipo dell'inconscio collettivo che noi italiani ci portiamo dentro da secoli: il Grande Predicatore. Grillo è tutto lì, un meraviglioso affabulatore, uno spacciatore di apocalissi da coniugare secondo necessità. In un altro secolo si sarebbe messo un saio addosso e avrebbe detto più o meno le stesse cose: guai a voi banchieri usurai affamatori del popolo, guai a voi politici corrotti, le cose stanno per cambiare, eccetera.


Io sono andato a vederlo una volta sola, perché uscivo con una ragazza a cui interessava. Meno male che ci sono le ragazze, ne approfitto per dirlo, e che acconsentono a uscire con me, altrimenti io passerei le mie serate a leggere prediche quattrocentesche o ad approfondire su wikipedia dettagli oscuri delle biografie di supereroi di fumetti di cui si è interrotta la pubblicazione. Stavo dicendo. Una volta sono andato al palazzetto dello sport a vedere Bernardino di Siena, pardon, Beppe Grillo. Non era ancora diventato un non-leader politico, forse non aveva ancora nemmeno spaccato un PC col martello, ma ricordo che proiettò vecchi filmati in bianco e nero sulla canapa indiana. Spiegò che era un materiale incredibilmente duttile e resistente, che ci si poteva fare qualsiasi cosa, e mostrò in un filmato un’automobile realizzata con una carrozzeria di canapa indiana. Si poteva prendere a martellate. Poi interruppe il filmato e disse, con una voce un po’ meno urlata del suo standard: ragazzi vi ho preso in giro, è tutto finto. Poi riprese il tono stridulo abituale e disse: no, è vero, la canapa indiana è stata criminalizzata dalle multinazionali della plastica bla bla. Quello è stato uno dei momenti nella vita in cui mi è sembrato di avere avuto un’illuminazione. Cioè, veramente Grillo aveva detto che mi stava prendendo in giro? O me l’ero sognato? Forse voleva dimostrare che era in grado di convincermi di qualunque cosa: anche che con la canapa indiana si può carrozzare un’automobile. Il palazzetto era pieno di gente che in quel momento ne era convinta, ma lui non lo era. Allora capisci che uno così in politica doveva entrarci per forza, e che ha perso fin troppo tempo prima di decidersi. Che fantastici anni Novanta ci siamo persi, Grillo vs Berlusconi, il Milione di posti di lavoro contro la Biowashball. Stavo dicendo.

Ecco il bozzetto, che ne dite?
Quando predicava ai suoi concittadini, ed era libero di sbrigliare il suo volgare più schietto, Bernardino aveva un modo particolare di dire “stavo dicendo”. Diceva: “a casa”. Nei momenti in cui l’affabulazione lo portava lontano dal seminato, o si metteva a replicare a qualche ascoltatrice, per tornare all’argomento gli bastava annunciare: “a casa”. E ripartiva dal punto che aveva abbandonato. Bernardino, il più grande stand up comedian del Quattrocento, non era esattamente un improvvisatore. Aveva studiato la retorica di Marco Tullio e aveva perfezionato quella empirica dei grandi predicatori francescani. Il repertorio di storiellette buffe da cui poteva attingere era sterminato, Boccaccio e Sacchetti non erano nella condizione di esigere copyright. E comunque l’importante non era il repertorio, ma il personaggio: con quella voce suadente che gli era miracolosamente rifiorita in gola dopo una malattia di gioventù che aveva minacciato di troncargli la carriera. Con la mimica che doveva metterci – sfogliando le sue prediche sembra di vedere le smorfie e sentire le risate. Bernardino non fu il primo predicatore a diventare una celebrità assoluta: prima di lui, già Antonio da Padova aveva stupito l’Italia e il mondo. Ma a Bernardino capita di vivere e predicare in decenni di transizione, privi di personaggi guida, e a doversi ingegnare inquisitore, giudice, conciliatore, diplomatico. È anche patrono dei pubblicitari, per essersi disegnato di suo pugno il logo – il trigramma YHS nel sole raggiante – e per averlo trasformato in una bandiera che le città sventolano al suo passare, abbassando temporaneamente gli stemmi cittadini e nobiliari, i simboli delle rivalità senza fine che intrappolano l’Italia in un medioevo agli sgoccioli. Tanto clamore gli varrà l’attenzione degli inquisitori, attenzionati dai bigliettini di colleghi invidiosi. Vuoi vedere che dietro quel logo molto efficace, il trigramma nel sole, si nasconde l’idolatria? Bernardino dovrà difendersi in tre processi.

Nel frattempo i concittadini di Siena gli offrono la cattedra di vescovo. “A me mi pare che voi siate vescovo e papa e ‘mperadore”, gli dicono, ma Bernardino non vuole veramente essere nessuno dei tre. Si capisce che comandare non gli interessa. L’unica cosa che lo appassiona è predicare. La predica è tutto: alle dame senesi osa dire che è persino più importante della Messa (“E se di queste due cose tu non potessi fare altro che l’una o udire la messa o udire la predica, tu debbi piuttosto lassare la messa che la predica”). La predica è poesia, la predica è preghiera, la predica è il mondo e la sua volontà di rappresentazione. La predica, in una parola, è teatro: quella forma informale di teatro in cui i comici italiani eccellono, da Petrolini a Gaber a Grillo: il monologo senza interruzioni. Continuerà a predicare in un tour infinito attorno all’Italia, fino all’esaurimento fisico, che lo coglierà all’Aquila nel 1455: gli era rimasto in bocca un dente solo.

Di lui ci sarebbe rimasto poco: un trattatello di economia interessante, non fosse per il fatto che è uno dei primi, in cui tesse le lodi dell’imprenditore che contribuisce alla ricchezza della collettività. Un altro tratto in comune con Grillo. Ma la vera eredità di Bernardino è nelle mille e più pagine di prediche volgari tenute sul Campo di Siena in quaranta mattine nel 1427: nella sua città Bernardino, fresco di assoluzione e di rinuncia alla cattedra vescovile, doveva parlare all’aperto, su un pulpito a rotelle manovrabile a seconda della posizione del vento, amplificatore naturale. Nel pubblico un cimatore, Benedetto di maestro Bartolomeo, raccoglie ogni parola del santo su tavolette di cera, con un metodo stenografico a noi sconosciuto. Il risultato è impressionante: come infilare un dvd medievale e trovarci davanti al Beppe Grillo del Quattrocento, che ammonisce, maledice, improvvisa, sghignazza, cita Duns Scoto e fa i versi degli animali. Qualcuno lo considera il più grande autore italiano del secolo: prima di fare quella smorfia, citatemi un altro autore italiano del Quattrocento. Nelle quarantacinque prediche Bernardino non risparmia invettive agli usurai e ai “maladetti sodomiti” che ammorbano Siena e l’Italia tutta, né elogi delle donne, angeli del focolare nonché parte più cospicua del suo pubblico. Tra i suoi discorsi più famosi c’è quello in cui Bernardino parla proprio dell’arte del predicare, spiegando come si fa a parlare “chiarozo chiarozo”. “O donne”, esordisce, “domani vi voglio fare tutte predicatrici”: le sue istruzioni sono così chiare che dal giorno seguente anche le donne saranno in grado di predicare come lui. Lo leggi, ti sembra di ascoltarlo, e sai che sta mentendo. Nessuno sarà mai bravo come lui, lo sa benissimo. La maggior parte si piegherà dalle risate, si commuoverà quand’è il momento, e pochi minuti dopo avrà già scordato il contenuto, perché la gente è fatta così: ha pance per ridere, occhi per piangere, ma non ha memoria. Sicché alla fine dei conti puoi raccontare loro qualsiasi cosa. L’unico concetto che conserveranno è: ma come predica bene Beppe Grillo, pardon, Bernardino.


Advenne che, una volta fra l’altre, avendo udita la predica di questo suo fratello, elli si misse un dì in un cerchio di altri frati, e disse: – o voi, fuste voi stamane alla predica di mio fratello, che disse così nobile cosa? – Costoro li dissero : – o che disse? – O! elli disse le più nobili cose che voi udiste mai. – Ma dici di quello che elli disse. – E elli: – disse le più nobili cose di cielo, più che tu l’udisti. Elli disse…….doh, perchè non vi veniste voi? che mai non credo che elli dicesse le più nobili cose! – Doh, dicci di quello che elli disse. – E costui pure: Doh, voi avete perduta la più bella predica che voi poteste mai udire! – Infine, avendo costui detto molte volte in questo modo, pure e’ disse: – Elli parlò pure le più alte cose e le più nobili cose che io mai udisse! Elli parlò tanto alto, che io none intesi nulla.
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Storia di due Jan

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16 maggio - San Giovanni Nepomuceno (1340-1393), patrono degli annegati, dei confessori e della Boemia.

Monumento a Giovanni Nepomuceno, a Praga sul ponte di Carlo.
Monumento a Giovanni Nepomuceno,
a Praga sul ponte di Carlo.
[2014]. Nel centro dell'Europa, perenne spina nel fianco destro tedesco, c'è una nazione che da quattordici anni non sappiamo come chiamare. Sulle cartine c'è scritto Repubblica Ceca. Manco fosse l'unica repubblica d'Europa: per dire, e invece l'Italia cos'è? L'Estonia? E il Lussemburgo? No, aspetta, il Lussemburgo è un Granducato. Però non leggerai su nessuna mappa d'Europa "Repubblica Estone" o "Granducato di Lussemburgo", anche perché la dicitura ti occuperebbe mezzo Belgio e tutta la Renania. Non è che i cechi siano più repubblicani degli altri: è che in italiano abbiamo l'aggettivo ma non il sostantivo. "Cechia" è una parola che proprio non riusciamo a dire. Qualcuno ci prova: ricordo in tal senso il coraggio di Claudio Lippi nel presentare Giochi Senza Frontiere. E però a un certo punto dovremmo anche rassegnarci: ci sono parole che funzionano e altre che non prendono mai il largo, e "Cechia" in italiano non ce l'ha fatta.

Io sarei per tornare a "Boemia", che suona infinitamente meglio. E però ogni volta che su internet provo a proporre questa cosa, qualcuno protesta che sarebbe un'offesa ai moravi. In realtà non sono mai riuscito a capire perché un moravo dovrebbe offendersi meno se invece che "ceco" lo chiamiamo "boemo" (conoscete un moravo? Glielo chiedete per favore? grazie). I moravi in verità non sono né cechi né boemi. Sono una cospicua minoranza etnica all'interno della Repubblica Ceca: costituiscono il 30% della popolazione e occupano il 30% del territorio. Però non sono cechi. Sono moravi, appunto. Se ci tenessimo davvero alla loro opinione, dovremmo chiamarla Cecomoravia.

Nel Settecento, una volta fatto santo,
Jan divenne anche piuttosto bello, grazie a un anonimo
di scuola fiorentina che ne dipinse il ritratto più famoso.
"Cechi" è il termine slavo occidentale con cui gli abitanti della Boemia chiamano sé stessi sin dall'alto medioevo. "Boemia" è una parola ancora più antica, derivata probabilmente dai Galli Boi che abitavano nella stessa zona prima di emigrare in Valpadana (non tutti), strappare Felsina agli Etruschi e ribattezzarla Bononia. Similmente agli ungheresi, che tutti chiamano così anche se tra loro preferiscono chiamarsi magiari, i cechi fuori dai loro confini erano conosciuti come boemi: Böhmen in tedesco, bohémiens in francese (che però era anche sinonimo di "zingari", perché si riteneva che venissero da lì; finché per estensione diventarono bohémiens gli studenti squattrinati con ambizioni artistoidi, a metà strada tra hipster e pancabbestia). L'aggettivo "ceco" arriva nelle lingue occidentali nell'Ottocento, il secolo in cui incubano i nazionalismi e i tedeschi per primi scoprono la necessità di distinguere tra boemi di lingua tedesca (Deutschböhmen, concentrati nei Sudeti) e boemi di lingua... ceca (Tscheschien). I moravi però non c'entrano: perlappunto, non sono cechi, sono moravi. La tesi per cui Ceco=Boemo+Moravo non ha nessun serio fondamento, anche se ormai si sta consolidando (vedi la voce di Wiki Italia). Io non sono d'accordo, per cui da qui in poi dirò "Boemia", e credo che tutti dovrebbero imitarmi. Questa sciocchezza della Repubblica Ceca è durata fin troppo.

D'altro canto come potrei definire San Jan Nepomucký patrono della Repubblica Ceca? Una delle nazioni più agnostiche al mondo, dove i cattolici non superano il 10% della popolazione, e nell'ultimo censimento il 35% si è definito "irreligioso" e il 40% non ha nemmeno risposto alla domanda? Jan di Nepomuck era un pio suddito del Regno di Boemia, Stato piccolo ma importante; specie quando alla fine del Trecento il suo re, Venceslao (Václav) il Pigro, riesce a farsi eleggere Sacro Romano Imperatore. Non deve fare una campagna elettorale a tappeto: gli elettori sono sei, uno dei quali è proprio lui. Non solo, ma essendo re di Boemia e principe del Brandeburgo, la Bolla d'Oro gli riconosce il doppio voto (come il jolly ai GSF).

Nepomuceno in un ponte a Borghetto sul Mincio, con un'aria tipo ma dove mi hanno infilato.
Nepomuceno in un ponte a Borghetto sul Mincio,
un’aria tipo ma dove mi hanno infilato.
Essendo Imperatore, Re e Principe, Venceslao ritiene di avere il sacrosanto diritto di nominare vescovo un suo sodale; purtroppo nessuna diocesi è vacante. In compenso è appena morto l'abate del monastero di Kladruby; Venceslao converte l'abbazia in diocesi e ordina ai monaci di sospendere le procedure per l'elezione dell'abate. I monaci non lo ascoltano e nel marzo 1393 eleggono il loro collega Olenus. Jan è il vicario generale dell'arcivescovo di Praga, che ratifica la nomina. Venceslao lo fa arrestare insieme ad altri tre membri dello staff; li fa torturare finché gli altri tre non cambiano idea, e infine condanna l'irremovibile Jan a morte per annegamento nella Moldava (il fiume che attraversa Praga - da non confondere con l'omonima repubblica che sta molto più a est). Fin qui Jan ha tutte le carte per diventare il Thomas Becket boemo: un ecclesiastico tutto d'un pezzo che non si arrende ai diktat del potere temporale e difende fino alla morte l'autonomia della Chiesa. E però la fortuna di Jan sarà molto inferiore a quella del collega inglese: i tempi stanno cambiando. Proprio in quel 1393 a Praga un giovane studente squattrinato sta prendendo la laurea breve in filosofia. Si chiama Jan Hus.

La linea che separa medioevo ed età moderna non taglia lo spazio-tempo in due tronconi netti: a osservarla da vicino è un intrico di linee più sottili e spezzate. Una di queste linee passa proprio per Praga, per quel 1393; Giovanni Nepomuceno, annegato per ordine dell’imperatore, vive e muore in uno spazio ancora solidamente medioevale: il che consente a chi verrà dopo di lui di mitizzarlo, addirittura di anticipare la data della sua morte per farla combaciare con la leggenda. Jan Hus è già al di qua del confine: di lì a poco otterrà una cattedra di teologia e ne approfitterà per divulgare le opere di John Wyclif malgrado qualche papa le abbia già trovate eretiche. In comune i due Jan hanno un tratto del destino: anche Hus sarà gettato in un fiume (il Reno che passa per Costanza), non prima di essere stato carbonizzato sul rogo e convertito in cenere. Un secolo dopo, Lutero eviterà per un soffio la stessa fine. La riforma protestante comincerà in Boemia con un secolo d’anticipo, e assumerà i tratti di una guerra di popolo contro la prepotenza dei regnanti di lingua tedesca. Tutto questo mette in ombra il sacrificio del primo Jan, morto per una causa che i praghesi non riconoscevano più.

Di canonizzazione non si parlerà per altri duecento anni: in mezzo ci sono tutte le guerre di religione che innaffiano l’Europa, facendola germogliare in una forma tanto diversa – gli hussiti contro l’imperatore, gli hussiti pro-Lutero contro gli hussiti anti-Lutero, le guerre di religione del Cinquecento e la guerra dei Trent’anni che prende il volo proprio da una finestra del castello di Praga. Al termine di tutto il processo, i cattolici manterranno in Boemia una presenza residuale, tutelata dagli Asburgo. La necessità di trovare un eroe comune, uno Jan cattolico da contrapporre al più famoso Jan dei protestanti, inciampa in una difficoltà: Nepomucký ormai è una figura evanescente. Miracoli pochi, anche perché nel periodo hussita nessuno più glieli chiedeva. E a distanza di secoli è persino difficile capire cosa abbia fatto di eroico: ha scelto il martirio, d’accordo, proprio come Hus, ma per difendere cosa? Sul serio val la pena di morire per una ratifica? Anche il fatto che avesse disobbedito a un imperatore non doveva aiutare molto la sua causa presso una minoranza protetta dagli Asburgo. D’altro canto, se la sua storia non era più interessante, si poteva pur sempre cambiare.


vltava nepomuk

È così che progressivamente la storia di Jan Nepomucký assume connotati diversi. Viene spostata dieci anni indietro (forse a causa del refuso di un cronista), e confusa ad arte con un oscura vicenda di gossip di corte. Jan diventa il confessore della moglie dell’imperatore Venceslao – non inverosimile, dopotutto era il canonico della cattedrale – e sull’imperatrice Giovanna di Baviera vengono fatti penzolare turpi sospetti. A Venceslao spetta ora il ruolo del classico re becco dei romanzi cavallereschi. Sospetta la tresca, ma Jan è integerrimo e si rifiuta di violare il segreto professionale e sacramentale: e allora Venceslao lo annega. Riscritta così, la storia fila meglio: difendendo il sacramento della confessione, Jan diventa il difensore di tutto il cattolicesimo. Ora sì che lo si può venerare in quanto martire. Tanto più che i gesuiti hanno l’idea di pubblicizzarlo come patrono degli annegati: un colpo di genio che conquista a Jan, anzi a Johannes Nepomucenus (finalmente canonizzato nel 1729), un cospicuo numero di chiese anche in Italia, da Venezia al Polesine a Livorno ad Acireale e in generale un po’ ovunque un fiume o una bufera minacci il povero cristiano. Anche la sua statua va molto forte nelle nicchie sui ponti. In patria molte furono rimosse e distrutte al termine della grande guerra, mentre la Cecoslovacchia si affrancava finalmente dagli Asburgo e si apprestava a decollare come repubblica laica dalle enormi potenzialità industriali. Però la lapide con la croce dalle cinque stelle è rimasta, nel luogo dove Jan sarebbe stato buttato a mare. Ancora oggi qualche anziano si leva il cappello. I turisti invece sfiorano la grata in ferro battuto: pare che porti 10 anni di fortuna. Certo, giù in piazza Jan Hus ha un monumento molto più grosso. Ma non lo sfiora nessuno, i protestanti non vanno in giro a toccar cose.
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Gli angeli zappano per te

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15 maggio – Sant’Isidoro lavoratore, contadino col pilota automatico (1070-1130)

[2013]. Un altro Isidoro; questo non si nasconde in remoti conventi, non soffre di misteriose patologie e non inventa Internet; al limite può essere considerato il primo utilizzatore di un pilota automatico, perché è sostituito nelle sue incombenze da un angelo che si mette a zappare quando Isidro ha bisogno di pregare; e ne aveva bisogno spesso, essendo un santo.

Isidoro il contadino viveva con la moglie, Maria Toribia (beata, patrona dei lavori domestici) nei pressi di Madrid, cittadina araba riconquistata di fresco da sovrani cristiani, che mai avrebbe sospettato di trovarsi al centro di una nazione molto di là da essere disegnata sulle cartine, la Spagna. Colleghi invidiosi notano la sua abitudine ad assentarsi spesso dalla postazione di lavoro; se ne lamentano con il boss, ma questi constata che a parità di salario la produttività di Isidro è superiore a quella dei compagni. Miracolo! O più semplicemente Isidro ha scoperto le virtù rigeneranti del break, quattro secoli prima dell’introduzione del caffè nella penisola iberica.

Perciò Sant’Isidoro l’agricoltore è anche il vostro patrono in questo esatto momento, cari internauti che senza nessuna necessità al mondo siete venuti a vedere se c’era qualcosa di nuovo da leggere qui: e ve la meritate, lettori in pausa caffè, senza di voi nessuno avrebbe mai inventato l’internet; che consta al 70% di siti frequentati da gente che procrastina impegni professionali mentre sorbisce bevande calde. E fate bene, sarete molto più produttivi dopo che vi sarete rilassati un po’. Ma facciamola comunque corta – l’angelo ha detto che vi copre altri due minuti, non di più.
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Perché non avete orecchie

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25 aprile - San Marco evangelista (primo secolo)

[2012]. Un profeta grida nel deserto e battezza i peccatori nelle acque del Giordano; tra di loro vi è un nuovo giovane predicatore, che dopo una quarantena nel deserto si mette a proclamare una buona novella, attraverso parabole enigmatiche e profezie di sventura.
Basilica di York, Eire.
Gli va meglio con le guarigioni miracolose: usa sistemi un po' singolari, (fango, sputi), ma tutto sommato funzionano. Un paio di volte si ritrova a dover moltiplicare pani e pesci per le folle che si radunano ad ascoltarlo. Quel che dice però non è sempre chiaro, nemmeno ai dodici collaboratori più stretti, che a volte hanno troppa soggezione per chiedere spiegazioni. In seguito il predicatore viene accusato di sedizione, arrestato e fatto uccidere. Ma il terzo giorno le donne trovano nel sepolcro, al posto del corpo, un ragazzo vestito di bianco che parla di resurrezione, e scappano impaurite. Questo è in breve il Vangelo di Marco, che se non si trovasse mimetizzato in mezzo agli altri risulterebbe un testo abbastanza inquietante: c'è un Gesù senza Natale e senza Pasqua, sempre un po' arrabbiato perché la gente non capisce. Alla fine di diversi episodi, miracoli o parabole, c'è quel classico versetto alla Marco, come “E si meravigliava per la loro incredulità”, “Chi ha orecchie per intendere intenda”. Solo i bambini lo smuovono un po' dal suo sempiterno cipiglio (“a chi è come loro appartiene il Regno di Dio”). Insomma è un tizio burbero, con un cuore che lascia vedere solo a sprazzi:
Ora, quella donna che lo pregava di scacciare il demonio dalla figlia era greca, di origine siro-fenicia. Ed egli le disse:“Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. Ma essa replicò: “Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”. Allora le disse: “Per questa tua parola va', il demonio è uscito da tua figlia”.
L'episodio c'è anche in Matteo, dove Gesù concede anche un complimento (“Donna, davvero grande è la tua fede!”). In Marco si limita a dire “va'”, e poi passa ad altro. Non è così difficile mettersi nei panni degli apostoli, sempre timidi e vagamente terrorizzati, “stupiti in sé stessi” “Essi però non comprendevano, e avevano timore a chiedere spiegazioni”. Marco è l'evangelista del leone, e il suo Gesù sembra davvero un re leone nella gabbia di un'umanità che non lo capisce. “O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?” (9,19). L'unico Vangelo che suggerisce al lettore che Cristo sulla terra abbia avuto fretta di andarsene.

Ragioni per cui amo Wikipedia.
È anche il più breve: nessuna genealogia, nessuna storia sull'infanzia di Gesù (al punto da far sorgere più di un sospetto di adozionismo: Gesù diventerebbe figlio di Dio solo col battesimo nel Giordano, quando si sente una voce dal cielo dire “Tu sei il Figlio mio prediletto”). All'inizio non era inclusa nemmeno – cosa più sorprendente – un'apparizione di Gesù risorto: solo questo ragazzo vestito di bianco che dice alle donne “Non abbiate paura, Gesù è risorto, andate a dire a Pietro che vi precede in Galilea”. Al che le donne scappano terrorizzate “e non dissero niente a nessuno, perché avevano paura”. La versione più antica finisce così: non molto promettente, per il testo fondativo di una religione. Del resto, se le donne non l'hanno detto a nessuno, come facciamo a saperlo? Logica e sintassi greca dell'ultima frase ci lasciano il sospetto che esistesse un seguito, andato perduto quasi subito e rimpiazzato a volte con un solo versetto, a volte con una paginetta che è quella che di solito troviamo nelle nostre traduzioni.

In questo finale Gesù appare di nuovo a Maria di Magdala, che lo dice agli apostoli (“Ma essi non vollero credere”), poi a due di loro (ma gli altri “non vollero credere”) e alla fine a tutti gli undici a tavola “e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore”. Il finale lungo probabilmente non è di Marco, ma come si vede è coerente con il suo protagonista: neanche una parola gentile (Ehi, che piacere ritrovarvi, scusate se vi ho fatto prendere paura con questa cosa della passione e morte...) Del resto Cristo è un re, poche smancerie.

Magari è anche il contesto romano, la necessità di conferire al figlio di Dio un’aura di imperiale autorità: se Marco è lo stesso Marco che Pietro chiama suo figlio (=discepolo) nella sua prima lettera (“La chiesa che è in Babilonia, eletta come voi, vi saluta. Anche Marco, mio figlio, vi saluta”), e se è vero che Babilonia in realtà è Roma, il suo Vangelo sarebbe nato nell’Urbe o comunque pensato per i cristiani della comunità romana. Lo lascerebbero pensare gli errori di geografia (la Palestina di Marco sembra un fondale di cartone, con laghi monti e città alla rinfusa), i tentativi non sempre riusciti di spiegare abitudini e ritualità ebraiche che Matteo dà per scontate, e un versetto: “Il Sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il Sabato?” che è difficile immaginare sulle labbra di un Gesù davvero ebreo (nella Genesi persino Dio si riposa, nel primo sabato della creazione). Qualcuno si è spinto a trovare echi di Marco nel Satyricon di Petronio, come se la cena di Trimalcione fosse una parodia delle prime mense cristiane. Marco sarebbe dunque lo stenografo di Pietro: il suo Vangelo sarebbe il tentativo di dare una forma scritta coerente agli aneddoti che Pietro predicava (aneddoti in cui, come abbiamo visto, Pietro non ci fa quasi mai una bella figura). Ma Pietro a Roma potrebbe anche non esserci mai arrivato, “Babilonia” potrebbe essere Antiochia o Persepolis-Ctesifonte, tanto più che il Vangelo è scritto in greco (con qualche latinismo).


The Jefferson's Cut

Oltre a essere il testo più breve, è quello con meno materiale originale. Questo si può spiegare in due modi: il suo Gesù burbero potrebbe essere il più antico, quello da cui hanno attinto gli altri (meno Giovanni), addolcendolo un po’. Ma potrebbe anche essere un bignamino di Luca o di Matteo o di entrambi, in versione semplificata per un pubblico che non aveva dimestichezza con gli usi e i luoghi della Palestina. Il dibattito è sconfinato: comincia praticamente nel terzo secolo e arriva ai giorni nostri. Oggi l’ipotesi più condivisa dai critici è che Marco sia una delle fonti di Luca e Matteo, insieme a un altro testo che non ci è arrivato (la famosa “Fonte Q”). Ma anche Marco potrebbe avere attinto a Q, o viceversa, oppure potrebbero esserci più fonti diverse, è un caos interpretativo. Se vi intriga il suggerimento è: risolvervelo da soli; tanto i testi dei Vangeli li trovate ovunque, in qualsiasi traduzione. Non c’è neanche bisogno di una copia della Bibbia intonsa e un rasoio, come quello di Thomas Jefferson, che si fece un vangelo personale sforbiciando i versetti che per lui non avevano senso. È il dibattito filologico più antico della Storia ed è completamente gratis, approfittatene! (Wikipedia in questo caso mi sembra un buon punto di partenza; non può esserci tutto ma c’è un sacco di roba). Magari per scoprire che l’ipotesi di partenza, la cosiddetta “priorità marciana”, rimane una delle più probabili e suggestive: in questo caso il Gesù più vicino all’originale sarebbe un predicatore scontroso che salta fuori un po’ dal nulla e nel nulla scompare, senza che nessuno tra gli apostoli e le donne abbia ben capito il senso di tutta la storia.

Dopo Roma, la tradizione vuole Marco in missione nel Nordest per conto di Pietro: dopo aver battezzato il primo vescovo di Aquileia (forse la quarta città italiana per popolazione), un naufragio lo avrebbe sospinto nella laguna veneta. A questo punto una voce gli avrebbe detto: Pax tibi Marce, evangelista meus, dopo il martirio riposerai qui. Chissà Marco come dev’esser stato contento del suo palustre sepolcro promesso, sotto il cielo grigio topo che ha la laguna deserta nei giorni di tempesta (Venezia sarebbe sorta solo qualche secolo dopo). Invece in un qualche modo lo ritroviamo ad Alessandria d’Egitto, di nuovo in missione, martirizzato dai pagani. Le sue reliquie arrivano effettivamente a Venezia nel nono secolo, contrabbandate in un recipiente di carne di maiale che i saraceni avrebbero avuto orrore a perquisire.

"Non possiamo portarlo un attimo fuori e fare le fotocopie?"
Un altro dei rari versetti di Marco che non si ritrovano negli altri Vangeli parla di un ragazzo misterioso che fugge senza mantello al momento dell’arresto di Gesù. Non si sa chi sia e perché fugga; non se ne riparla più; non è strano che Luca e Matteo lo abbiano tagliato (sempre che Marco non sia venuto dopo e non lo abbia aggiunto). Un’ipotesi è che quel ragazzo fosse lo stesso Marco, che qui voleva segnalare la sua presenza come testimone oculare. Però Marco lo chiama con una parola, “neaniskos”, che nel suo testo torna una volta sola: quando si parla di un altro misterioso ragazzo, quello ritrovato dalle donne nel sepolcro di Gesù. È lo stesso ragazzo? Che senso avrebbe? Il Vangelo di Marco sembra un giallo aperto: c’è un protagonista che continua a dirti: non capisci? Non capisci? Neanche così capisci? In che altro modo te lo posso spiegare? Come se dall’altra parte del filo ci fosse un Ente superiore che cerca di comunicare delle ovvietà a un babbuino. E tu ti senti un po’ un babbuino: la soluzione è a un passo, ma ci devi arrivare da solo. Verranno altri evangelisti più completi e accomodanti, con la soluzione alla fine, ma forse il più riuscito è quello che dice: sono un enigma, risolvetemi (stupidi).

Oggi è anche ovviamente la festa della Liberazione. Il venticinque aprile è un giorno molto particolare, che purtroppo spesso si prepara con una serie di polemiche sull’apertura dei negozi. Io non lo so se sia giusto o no tenerli aperti. Però credo che tutte le feste, compreso il 25 aprile, siano fatte per l’uomo, non l’uomo per il 25 aprile. Almeno io l’ho capita così, ma magari non ho capito niente. Buona Liberazione.
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La pastorella che vide la Madonna (e non la riconobbe)

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16 aprile - Santa Bernadette Soubirous (1844-1879), pastorella e mistica di Lourdes

Ha degli occhietti furbetti.
Ha gli occhi furbetti. 
[2014]. La Madonna è contagiosa, chi la conosce lo sa. Chi la vede, di solito, ha già sentito parlare di altri che l'avevano vista. Proprio come le malattie infettive, il fenomeno è particolarmente virulento nei collegi. Un'allieva intravede Nostra Signora in fondo a un corridoio; lo dice a un'amica; la vede anche lei; il resto della camerata le prende in giro, lei insiste; nel giro di un mese l'hanno vista tutte. È successo in più di un caso. Da bambino mia zia ogni tanto andava a Medjugorje, molti anni prima che Paolo Brosio si accorgesse delle potenzialità mediatiche del fenomeno. Però non è che ci si potesse recare così spesso in quel Paese relativamente lontano che ancora si chiamava Jugoslavia (la Madonna spesso sceglie nazioni sulla via del disastro: in quegli anni si faceva vedere anche in un collegio in Ruanda). Così a volte si contentava di Fossoli di Carpi, perché tra i cultori locali di Medjugorie si era diffusa questa storia, che la Madonna stesse apparendo anche a Fossoli, poco distante dal vecchio campo di concentramento. E un giorno, in effetti, mentre una folla pregava da qualche parte a Fossoli, si sentì una voce ben distinta dall'alto che diceva: peccatori, pentitevi. Non era esattamente Nostra Signora, come si vedrà.

La natura virale delle apparizioni mariane è un grande argomento in mano agli scettici: chi vede la Madonna in realtà sa già cosa deve vedere. È stato, per così dire, istruito da una tradizione secolare. Questo spiega il perché la madre di Dio frequenti di preferenza contrade cattoliche: altrove, del resto, può capitare che ti curino a elettroshock, o ti recludano finché non confessi che ti eri inventato tutta la storia, prima per prendere in giro i compaesani e poi per non deluderli (così accadde per esempio alla giovane Margarethe Kunz nel 1878, appena qualcuno cominciò a parlare di una "Lourdes tedesca" a Marpingen, nel Saarland). Anche i veggenti in buona fede non farebbero che riprodurre, nelle loro allucinazioni, un immaginario cattolico condiviso da secoli.

Bernadette davanti alla grotta (ma è passato qualche anno).
Bernadette davanti alla grotta (ma è passato qualche anno).
A questa obiezione i credenti rispondono col modello della Pastorella, di cui la piccola Bernadette è l'incarnazione più famosa. Se è abbastanza naturale che una collegiale o una suora sogni le madonne e i sacri cuori che si vede intorno dappertutto, come la mettiamo con le pastorelle? Sono ignoranti, analfabete; frequentano cappelle disadorne; non riconoscerebbero la Madonna nemmeno se la vedessero, e nel caso di Bernadette andò proprio così: non la riconobbe. La chiamava "aqerò" ("quella là" in dialetto occitano); la descriveva come una piccola, bellissima signora biancovestita con una cintura blu e una rosa gialla su ciascun piede. Chiunque a quel punto penserebbe, se non a uno scherzo, a Maria di Nazareth; ma bisogna concedere che il vestito biancoazzurro non era così diffuso: entrò nell'iconografia standard proprio dopo le apparizioni di Lourdes. Nostra Signora dal suo canto ci mise più di quaranta giorni, e sedici apparizioni, prima di presentarsi con quelle fatali parole, que soy era immaculada concepciou, che, a detta di tanti lourdologi, Bernardette sarebbe stata troppo ignorante per capire: come poteva una pastorella sapere che appena quattro anni prima papa Pio IX aveva dichiarato dogma di fede l'Immacolata Concezione di Maria, al termine di un dibattito che aveva messo contro per secoli il fior fiore dei teologi? Anzi, se Bernadette riuscì a riferire la curiosa espressione allo scettico abate Peyramale, fu soltanto perché nel tragitto non smise di ripeterla sottovoce: quesoyeraimmaculadaconcepciou, quesoyeraimmaculadaconcepciou, quesoyeraimmaculadaconcepciou. Padre! Ho rivisto la bella signora! Mi ha detto di dirle quesoyeraimmaculadaconcepciou.

Per il povero parroco fu un bel colpo. Sei sicuro che ti ha detto così? Ma lo sai cos'è... lo sai chi è l'immaculada eccetera? No, certo che non lo sai, poveretta. Fin lì l'abate aveva diffidato della pastorella allucinata. Quando era venuta a riferirle la pretesa della bella signora di costruire un santuario nella grotta, aveva preteso un segno: di' alla tua signora che faccia fiorire il roseto lì sotto. Chissà se aveva in mente il miracolo della Vergine della Guadalupe.

Io ne avevo una, una volta mio cugino ne ha bevuto un sorso ed è ancora vivo.
Io ne avevo una, una volta mio cugino ne ha bevuto
un sorso ed è ancora vivo (miracolo).
Il roseto non rifiorì. In compenso la fonte che Bernadette aveva trovato scavando lì sotto con le unghie cominciava ad attirare i malati. Era stata un'amica della pastorella, Catherine, a immergere per prima un braccio paralizzato e a trarne, diceva, un subitaneo giovamento. Non poteva certo immaginare di essere la prima di settecento milioni di visitatori, nonché di una settantina di guarigioni ritenute inspiegabili e pertanto miracolose - una ogni dieci milioni, percentuale tutto sommato ragionevole. Fu l'acqua benedetta a fare di Lourdes la Madonna più famosa del mondo: le altre si limitavano a sorridere e sussurrare segreti angosciosi a pastorelli perplessi, ma quella della grotta ti guariva. O perlomeno ti lasciava un segno tangibile, imbottigliabile: un sorso d'acqua pura - a patto di intercettarla molto vicino alla fonte, perché qualche metro dopo il miracolo è non prendersi il colera, con tutti quei malati intinti nella fanga.

Se l'acqua rese famosa la Madonna di Lourdes, la dichiarazione raccolta da Bernadette (quesoyeraimmaculadaconcepciou) la rese canonica: Pio IX riconobbe ufficialmente le apparizioni quattro anni dopo (1862) un record. Per dire: i veggenti di Medjugorje stanno aspettando lo stesso riconoscimento da trentaquattro anni. E d'altro canto l'apparizione a Bernadette era stata straordinariamente tempestiva. Proclamando l'immacolata concezione nella sua enciclica Ineffabilis Deus, il pontefice aveva sfidato i suoi stessi vescovi: era la prima volta che un papa proclamava un dogma senza consultarli in un concilio. Parecchi probabilmente borbottavano, specie quelli di formazione domenicana che avevano osteggiato il concetto di immacolata concezione sin dai tempi di Tommaso d'Aquino. Per metterli a tacere, niente di meglio che un intervento della diretta interessata, anche nel dialetto dei Pirenei. Quando alla fine il concilio si farà - nel 1870 - Pio IX ne profitterà per farsi dichiarare infallibile ex cathedra. Notevole prova di forza per un pontefice che stava per perdere l'ultimo brandello di Stato della Chiesa. Bernadette per quanto possibile, gli aveva dato una mano, recapitando un messaggio dal Cielo con la sua voce pura, immune da contaminazioni culturali e intellettuali. Perlomeno la tesi è questa: Bernadette era troppo ignorante per essere stata anche solo imbeccata da qualcuno meno che santo.

È una tesi che trasuda malafede.

È vero, Bernadette non sapeva leggere e scrivere e si esprimeva soltanto in dialetto. È vero, non aveva nemmeno studiato catechismo: figurarsi se conosceva le ultime novità in fatto di dogmi di fede. Dimostrava anche meno dei suoi 14 anni, a causa della denutrizione. Veniva da una famiglia di mugnai caduti in disgrazia che si erano ridotti a vivere nella cella di una vecchia prigione in disarmo. Il padre era ancora nei guai a causa di un’accusa infamante: sottrazione di qualche sacco di farina. E però la pastorella non è una tabula rasa, non è un buon selvaggio. La storia che racconta assomiglia ad altre storie che si raccontano a pochi chilometri o a pochi anni di distanza: basta allargare un po’ il campo per accorgersene.

Continua a sembrarmi furbetta.
Continua a sembrarmi furbetta.
A 25 chilometri da Lourdes c’è un santuario, Notre-Dame de Médoux. È associato alla leggenda di Liloye, una pastorella a cui la Vergine sarebbe apparsa tra Cinque e Seicento, minacciando epidemie e alluvioni se gli abitanti di Bagnères-de-Bigorre non avessero cambiato atteggiamento; in un’altra versione, la Madonna avrebbe indicato a Liloye la fonte d’acqua pura da bere per guarire dalla peste. Possibile che Bernadette non ne avesse mai sentito parlare?

A 15 chilometri da Lourdes c’è il santuario di Lestelle-Bétharram. Bétharram significa “bel ramo”: si racconta che qui la Madonna avrebbe salvato una ragazza caduta nel torrente allungandole un bétharram. Di origine medievale, nel primo Ottocento il santuario era ancora rinomato per i suoi miracoli. Bernadette ne aveva sicuramente sentito parlare – sappiamo anzi che vi si recava spesso. Il che ci rende ancora più difficile immaginare che nella grotta di Massabielle non riuscisse a riconoscere nella bella signora la Vergine Maria. Persino il colore bianco delle vesti ricorda le fiabesche “dame bianche” che gli incauti viaggiatori dei boschi trovavano all’imboccatura delle grotte un tempo abitate (secondo altre leggende pirenaiche, all’imboccatura delle grotte si possono spiare le Basaandere che si pettinano i lunghi capelli; trattansi delle femmine dei Basajaun, ovvero gli abominevoli uomini pelosi dei Pirenei, che potrebbero discendere dai Neanderthal). Bernadette non ha bisogno di saper leggere o scrivere per conoscere tutte queste storie. Le basta chiacchierare con chi incontra; è una pastorella che vive in una locanda.

In effetti in foto non era mai venuta così bene.
Credo che si tratti già della maschera, ma non è affatto chiaro.
Allontaniamoci dai Pirenei, avviciniamoci al 1858. Alle pendici delle Alpi c’è La Salette, nel dipartimento dell’Isère, dove la madonna era apparsa dodici anni prima ai pastorelli Maximin e Mélanie. Il successo planetario di Lourdes li ha eclissati, ma in quegli anni la Francia cattolica non parlava d’altro. Ferveva il dibattito tra credenti e scettici; tra questi in un primo momento si era schierato anche il popolarissimo padre Jean-Marie Vianney, prima di cambiare idea. Anche a Maximin e Mélanie la “bella signora” si era rivolta in dialetto; anche loro non l’avevano riconosciuta. Certo, può darsi che Bernadette non ne avesse mai sentito parlare; che parimenti nessuno, neanche un prete durante una predica domenicale, le avesse mai raccontato delle apparizioni di rue du Bac (Parigi, 1830); e però al collo aveva proprio una versione della medaglietta miracolosa che in quell’occasione la Madonna aveva commissionato a Catherine Labouré. Su un lato della medaglietta si legge “conçue sans peché”, concepita senza peccato: dunque la concezione immacolata rivelata a Bernardette era già stata anticipata un quarto di secolo prima, e diffusa in centinaia di migliaia di medagliette. E in effetti una festa dell’Immacolata esisteva già, prima ancora che Pio IX ne ratificasse il dogma. Dunque come possiamo essere sicuri che Berdadette cascasse dalle nuvole, di fronte all’affermazione “que soy era immaculada concepciou”? Era analfabeta, d’accordo – ma anche a una pastorella analfabeta e denutrita può venire la curiosità di sapere cosa c’è scritto sulla medaglietta che le penzola dal collo tutto il giorno. Era così difficile trovare qualcuno che glielo spiegasse, anche solo tra il personale e la clientela di una piccola locanda?


Bernadette racconta che la Madonna le si dichiarò il 25 marzo – festa dell’Annunciazione. Era la prima apparizione dopo venti giorni di silenzio; la sedicesima in tutto. Le altre quindici si erano succedute quasi quotidianamente tra l’undici febbraio e il quattro marzo. In quel mese Bernadette aveva sperimentato l’ansia della celebrità: a ogni visita la folla che la accompagnava si moltiplicava. L’ultima volta erano in ottomila: la Signora non le aveva detto niente, e non l’aveva più invitata a tornare. È lecito immaginare che lei o Bernadette fossero stanche di tutto il chiasso. Poi, il 25, all’improvviso, il ritorno.

La madonna di Lourdes è la più simpatica tra quelle apparse in età moderna. Non preannuncia apocalissi o massacri, non terrorizza i suoi pastorelli con visioni infernali; si sforza invece di guarire i malati, con risultati discutibili, ma nessuno è perfetto evidentemente. Non pretende riti o consacrazioni specifiche; chiede solo di fare penitenza, da una madonna è il minimo. Non confida segreti – in breve, non fa politica. Tranne in quel fatale 25 marzo in cui offre a Pio IX un regalo inatteso: la conferma di un dogma di fede. Non è così implausibile che Bernadette sia stata imbeccata da qualcuno, se non dall’inizio, almeno nei venti giorni di silenzio tra le quindici apparizioni e la sedicesima. Credere alla madonna di Lourdes non è difficile – basta essere disperati, il che succede a molti e non escludo che possa capitare a me. Mi è più difficile credere al mito di una Bernadette che prima di incontrare la vergine non conosca niente: nessuna storia, nessuna leggenda, nessun fatto di cronaca, nessuna spiegazione per la medaglietta che portava al collo.

L'aeroporto di Carpi-Budrione, stranamente, non è ancora meta di pellegrinaggi.
L’aeroporto di Carpi-Budrione, stranamente,
non è ancora meta di pellegrinaggi.
Dopo il 25 marzo, Bernadette rivide la signora altre due volte. Il sette aprile rimase in estasi per quindici minuti, senza accorgersi della candela che le si era completamente sciolta in mano. Il medico che le esaminò la mano non trovò nessun segno di scottatura e si convertì all’istante. Infine, il 7 luglio Bernadette non riuscì a recarsi alla grotta, che era stata recintata per motivi di sicurezza. La signora le apparse comunque dall’altra parte del torrente; e fu tutto. Bernadette lasciò Lourdes e trovò ospitalità presso la scuola delle Suore della Carità di Nevers, dove prese i voti nel 1866. Non tornò più alla sua grotta; non vide i cantieri delle tre basiliche, né degli hotel progettati per accogliere migliaia di turisti. Solo in seguito a violenti attacchi d’asma si fece portare un po’ d’acqua benedetta, che a quanto pare le giovò. Morì comunque presto, a trentacinque anni, esattamente 135 anni fa. Anche da morta continuava a sembrare un po’ più giovane. Riesumata nel 1909, apparve in ottimo stato; gli esperti però non poterono esimersi dal notare nella cassa tracce di carbone e uno strato di sale, elementi adoperati in alcuni procedimenti di mummificazione. Dieci anni più tardi il cadavere non era più così di buon aspetto; a partire dal 1929 il volto fu coperto da una maschera di cera.

Che altro dire – ah, mi stavo dimenticando, la storia di Fossoli. La Madonna non so poi chi la vide; ma senz’altro quella voce, peccatori, pentitevi, la sentirono in parecchi, dall’alto. Era un coglione in deltaplano, con un megafono.
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Gemma

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Nel 1902?
1902? 
11 aprile - Santa Gemma Galgani, mistica, ragazza (1878-1903)

[2014]. Rientrano fra le gemme tutte quelle specie e varietà minerali (oltre ad alcune rocce ed alcuni materiali di origine vegetale od animale) che, suscettibili di taglio o lucidatura, possono essere utilizzate in lavori di gioielleria.
La preziosità di queste pietre è determinata dalla loro purezza e dall'intensità del loro colore oltre che dalla loro rarità.


Santa Gemma ha rischiato di chiamarsi Sant'Umberta Pia. Almeno il nonno pare che la volesse chiamare così in onore del nuovo re. Il nome Gemma, suggerito da uno zio, lasciava perplessa la madre, che non trovava nessuna santa omonima sul calendario. Si tratta in realtà di un nome attestato in Toscana già nel medioevo: ma nel lucchese, a fine Ottocento, un nome senza santo in paradiso era una scelta da anarchici o da socialisti. Non era il caso dei Galgani, stirpe di dottori e farmacisti generalmente timorati di Dio. A tagliar corta la questione fu il parroco: se non c'è ancora una santa Gemma, pazienza: magari il posto se lo prenderà la vostra bambina. Bella leggenda, parzialmente guastata dal fatto che il 13 maggio si veneri Santa Gemma di San Sebastiano di Bisegna (AQ).

La gemma è un organo vegetativo che rappresenta il primordio di un nuovo asse vegetale, da cui possono avere origine foglie, rami e fiori.

Gemma Galgani invece è una santa di fine Ottocento. Un secolo complicato per questa rubrica, ci avete fatto caso? Dal Novecento in poi è facile parlare di santi: sono nostri contemporanei, protagonisti o comparse di una storia condivisa. Per contro, i santi anteriori all'Illuminismo sono completamente alieni alla nostra sensibilità, il che in fondo ci libera dalla fatica di capirli: possiamo reinventarli un po' come preferiamo. Tra gli alieni del passato e i nostri contemporanei c'è una frontiera mobile lunga un secolo, che per ora è proprio il XIX. I santi ottocenteschi (Giovanni BoscoJean-Marie VianneyTeresina del bambin Gesù, Pio IX) sono particolarmente indigesti, refrattari a qualsiasi trattamento meno che devoto. O li stronchi o li veneri, una terza via è quasi impossibile.
la foto più iconica
Lo scatto più iconico

L'Ottocento, in generale, è un secolo che sta scivolando giorno dopo giorno oltre l'orizzonte della nostra sensibilità: e forse per un effetto ottico, nell'ultimo istante prima di sparire ci sembra che scorra più lentamente, come il sole al tramonto. La restaurazione e il risorgimento, il romanticismo e il patriottismo, ci abbandonando lentamente, un po' alla volta: facciata ritinteggiata dopo facciata ritinteggiata, convento dopo convento ristrutturato e adibito a hotel o sala convegni. Delle passioni di un secolo ormai ci restano formule vuote, frasi tronfie su targhe di marmo e la geolocalizzazione di ogni tetto sotto cui dormì Garibaldi. Forse ci fu anche un Ottocento felice, di garzoncelli scherzosi, ma il loro lieto rumore è il primo a essere svanito nel frastuono contemporaneo. A resistere, tenace, è una sensazione di tristezza che impregna ancora certi androni: l'Ottocento è lo spettro di molte scuole che abbiamo frequentato, infestate ancora negli sgabuzzini da anime in ginocchio sui ceci. Come si chiamavano? Non lo sanno più, ma i colletti lisi delle loro camicie non potrebbero appartenere a nessun altro secolo.

Le scuole poi stanno migliorando, secondo me, anche nei colori: certi gialli sporchi, certi verdi marci penitenziari ho smesso di vedermeli attorno da un pezzo. Dobbiamo restare lì seduti per sei mattine a settimana e quindi facciamo il possibile per trovarci tutti a nostro agio: un bell'azzurro pastello è in molti casi la soluzione migliore. Ma i muri, e certi sbraghi dell'intonaco da cui affiora l'anima in mattoni, ci ricordano ogni mattina la natura concentrazionaria della nostra istituzione.

Gemma con la sorella Angiolina che da piccola la picchiava e che dopo il processo di canonizzazione campava smerciando reliquie della sorella.
Gemma con la sorella Angiolina, che da
piccola la picchiava e che dopo il processo
di canonizzazione campava smerciando
reliquie della sorella.
In una scuola così, diversi anni fa, ebbi un'allieva che somigliava un po' ai fotoritratti di Gemma Galgani, Di molte altre ricordo ancora meno che il volto. Non sono fisionomista e ho già avuto mezzo migliaio di alunni/e. Altri mi tornano in mente tutti i giorni, come le battaglie devono tornare in mente a un soldato (nel mio caso sono più o meno tutte sconfitte: forse è normale, o forse sono io). Di questa ragazza ricordo lo sguardo vitreo che mi rivolgeva dall'ultimo banco, e che a volte mi dava qualche pensiero: era in trance? o mi guardava? mi giudicava? aveva senz'altro avuto insegnanti migliori. Ripeteva le lezioni diligentemente e consegnava elaborati molto corretti, benché fosse chiaro che la sua anima fosse da qualche altra parte. A me andava bene così, non sono uso nutrirmi dell'anima dei miei studenti.

Anche Gemma a scuola se la cavava. "Molto silenziosa e sempre obbediente", ebbe a dichiarare la direttrice che la dispensò negli ultimi anni dalla tassa scolastica. Altre colleghe non erano d'accordo: la trovavano "canzonatoria" e "ipocrita" e sabotarono la sua richiesta di ammissione nel convento delle oblate. L'apparente incoerenza delle testimonianze si lascia facilmente comporre con un po' di esperienza di consiglio di classe: alcuni insegnanti si contentano del tuo silenzio, della tua obbedienza. Altri no, vogliono scavarti dentro. Chissà cosa cercano poi, cosa pretendono: e se non riescono ad aprirti, ogni tuo vago sorriso diventa canzonatorio; ogni lezione memorizzata diventa ipocrisia. Il percorso di studi di Gemma si sarebbe interrotto di lì a poco in seguito alla morte del fratello Gino, seminarista, per tisi: aveva 17 anni. Gemma, che ne aveva due di meno, cercò coscientemente di trarre il contagio dai suoi indumenti. Lo stesso male le aveva portato via la madre quando aveva otto anni. Non morì, ma interruppe gli studi. Quattro anni dopo avrebbe perso il padre, raro esempio di farmacista senza senso degli affari: lasciava quattro figli sul lastrico. Gemma cominciava a sentire fitte lancinanti ai reni e alla testa. L'unico conforto erano i discorsi edificanti di Giulia Sestini, una sua ex maestra che l'andava ancora a visitare, molto legata ai padri passionisti: la biografia di Gabriele dell'Addolorata, un sacerdote passionista in via di beatificazione, letta tra un'emicrania e l'altra, la impressionò tantissimo.

L'allieva supera la maestra: Gemma è santa, Elena Guerra soltanto beata, so far.
L’allieva supera la maestra: Gemma è santa,
Elena Guerra soltanto beata, so far
La Sestini non fu l'unica maestra che segnò profondamente la vita di Gemma. A nove anni una lezione di suor Camilla Vagliensi sulla passione di Gesù le aveva fatto venir la febbre. Dalla mia distanza è impossibile capire se il tema della passione sia per Gemma un destino che si portava dalla nascita (così come una predisposizione genetica per la tbc che devastò la sua famiglia) o semplicemente un ritornello che ossessionava tutti i religiosi e insegnanti che ebbe la ventura di frequentare. Magari nell’aula di fianco un’altra maestra incantava le fanciulle parlando di fiori e farfalle, creando dal nulla potenziali floricultrici ed esperte di botanica – che qualche anno più tardi si sarebbero comunque sposate per morire di parto di lì a poco. Magari anche Gemma ebbe una maestra così, ma non la stava ad ascoltare: o la fissava con uno sguardo che poteva sembrare, a seconda dell’osservatore, estatico o canzonatorio.

A distanza di un secolo e più rimane l’evidenza: prima di soffrire e sanguinare, Gemma fu molto istruita sull’utilità del soffrire e del sanguinare, da insegnanti molto appassionate, che amavano il loro mestiere e amavano lei. Succede a molti ragazzi, spesso cresciuti in famiglie affettuose dove non hanno mai avuto necessità di dubitare della bontà dei genitori e della loro buona fede: una volta arrivati a scuola, cercano negli insegnanti la stessa affettuosa autorità, e si innamorano di ogni maestra appassionata – e, di conseguenza, della materia che insegna.


Molto spesso questa materia è lettere, ma devo avvertire che non ho rimpianti o rimproveri. Sono contento di avere incontrato maestre meravigliose e competenti ed entusiaste che amavano molto la loro materia, e che l’hanno fatta amare anche a me. Mi dispiace soltanto, in generale, che per ogni insegnante appassionato alla letteratura non ce ne sia uno altrettanto in fissa con la tavola degli elementi, un altro con l’ingegneria delle strutture, o con la teoria quantistica, la macroeconomia, e così via. Ci sono banali motivi culturali ed economici per cui questo succede, ma mi dispiace lo stesso. Comunque poteva andare peggio: a molte ragazze dell’Ottocento, come Gemma, veniva impartito il catechismo e poco più. Normale che una piccola percentuale andasse in fissa con il catechismo (Gemma vinse anche una medaglia), al punto di viverlo sulla propria pelle, e trasformare le proprie crisi nervose in visite angeliche e demoniache. Alla fine la santità era l’unica strada di successo accessibile a ragazze diligenti e studiose, rimaste senza dote ma con una grandissima forza di volontà.

Gemma senza photoshop? (Scherzi a parte, qui sembra più grande, ma gli altri scatti ufficiali sono del 1902-3, e lei è morta nel 1903).
Gemma senza photoshop?
(Scherzi a parte, qui sembra più grande,
ma gli altri scatti ufficiali sono del 1902-3,
e lei è morta nel 1903).
Era in forma di un grosso cane tutto nero, e mi metteva le gambe sulle mie spalle; ma mi ha fatto assai male, perché mi ha fatto sentire tutti gli ossi . Alle volte perfino credo che me li tronchi; anzi una volta, tempo indietro, nel prender l’acqua santa, mi dette una torta tanto forte al braccio, che cascai in terra dal gran dolore, e allora mi levò l’osso proprio dal posto; ma mi ci tornò ben presto, perché me lo toccò Gesù, e fu fatto tutto.

Prima di morire, di tubercolosi a venticinque anni, Gemma Galgani scrive per ordine del suo confessore un diario dove annota quello che le succede ogni giorno, e soprattutto ogni notte, nella piccola stanza della famiglia che la ospita. Scopriamo, leggendo, che Gemma è visitata in fasi alterne da Gesù e da un piccolo demonio. Il demonio la detesta e la bastona, soprattutto alla schiena; Gesù, che invece la ama, la incorona di dolorosissime spine. Vi è poi l’angelo custode, tizio volubile, incline allo scherzo ma anche all’invettiva sdegnosa: basta che a Gemma scappi un pensiero, o uno sguardo curioso al vestito di un bambino durante una funzione domenicale, perché l’angelo vada su tutte le furie e minacci di non tornare mai più, o avverta che addirittura Gesù non la vuole più vedere. Gesù in effetti si fa desiderare: passa anche settimane senza farsi vivo con la corona. Il demonio è più costante. Ogni tanto passano anche altri santi: l’Addolorata, e il Beato Gabriele dell’Addolorata, ormai nei panni del fratello maggiore. Sono allucinazioni? Sì e no. Gemma – che per tutto il tempo ebbe il dubbio di essere in preda ad allucinazioni di natura demoniaca – non ne scrive volentieri, è tutto un mondo privato che preferirebbe tenere per sé, ma il confessore ci tiene. Le capita allora di scrivere “Soffrivo poi tanto a ogni movimento che facevo: che poi era tutta mia fantasia”; “Non creda chi legge queste cose a nulla, perché posso benissimo ingannarmi; che Gesù mai non lo permetta! Lo faccio per obbedienza, e mi sottometto a scrivere con gran ripugnanza”. Di certo c’è che Gemma soffre molto, alla testa e forse ancora ai reni: che è una persona molto sola, educata ad apprezzare la sua solitudine e a popolarla dei personaggi della sua cultura, e ad assecondare ogni richiesta dei maestri che stima.

Appena mi si presentò, lo pregai tanto che non mi lasciasse sola. Mi domandò che avessi; gli feci vedere il diavolo, che si era assai allontanato, ma mi minacciava sempre. Lo pregai che stasse con me tutta la notte, e Lui mi diceva: «Ma io ho sonno». «Ma no, – gli ripetevo – gli Angeli di Gesù non dormono». «Ma pure – soggiungeva – devo riposarmi (ma mi accorsi che faceva per ridere); dove mi farai stare?». Io volevo dirgli che Lui si mettesse sul letto, e io stavo lì a pregare; ma allora avrei disobbedito. Gli dissi che stasse vicino a me; me lo promise.

Io andai a letto; dopo Lui mi parve che allargasse le sue ali e mi venisse sopra il capo. Mi addormentai, e stamani pure era al solito suo posto di ieri sera. Io ce l’ho lasciato; quando sono tornata dalla Messa, non ci era più.


Gemma avrebbe sofferto anche se avesse conosciuto altri maestri e altri dottori; ai suoi tempi la tbc non perdonava, e nel 1903 l’avrebbe presa in ogni caso: da chiuso morbo combattuta e vinta, eccetera. Questo non mi esenta dal provare pena per lei, e vergogna per non averla saputa aiutare in qualche modo; per non averle saputo raccontare qualche altra storia appassionante, per non aver trovato qualche altro senso al suo dolore. E d’altro canto: che senso avrei saputo trovare? Nessuno; io so molte cose, e alcune so spiegarle con passione; ma non so perché si soffre, non so perché si muore. La Vagliensi e la Sestini – che mi immagino spiritate, fanatiche – loro però sì, un senso da dare al dolore l’avevano. Gemma avrebbe comunque preferito ascoltare loro, e i miei discorsi sul big bang, o sulla tavola degli elementi, li avrebbe assecondati con uno sguardo assente o vagamente canzonatorio. Io credo di sapere tante cose, e che vadano insegnate in un certo modo, e che a Gemma sia stato impedito di sbocciare in un secolo di oscurantista bigotteria; ma io non sono nessuno. Gemma invece è sul calendario, ce l’ha fatta: 11 aprile, Santa Gemma Galgani.
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Chi ha paura del profeta Ezechiele

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10 aprile - Sant'Ezechiele, profeta (620-550 aC circa).

[2012]. I profeti biblici più familiari ai bambini della mia generazione erano Zaccaria ed Ezechiele. Zaccaria era il nome di un cono pralinato, la risposta Algida al Blob Toseroni; Ezechiele, beh, era Ezechiele Lupo, quello che dava la caccia ai porcellini nelle storie centrali di Topolino. Il motivo per cui il Big Bad Wolf del più fortunato cortometraggio di Walt Disney a un certo punto sia stato ribattezzato "Zeke" in inglese ed "Ezechiele" in italiano non è tuttora stato chiarito, e il sospetto che c'entri un qualche pregiudizio antisemita non è mai scomparso del tutto. Senz'altro nella sua prima apparizione cinematografica il Lupo Cattivo si travestiva anche da venditore ambulante di spazzole affettando un accento yiddish: e sappiamo che il riferimento era già considerato offensivo nel dopoguerra, quando la Disney portò in tv una versione autocensurata del cortometraggio.



(Però c'è anche chi sostiene che la versione originale sia quella a destra, e che la maschera col nasone sia un'aggiunta successiva: la Disney non ha nessun interesse a chiarire la situazione).

Per Laurence Olivier il personaggio disneyano era ispirato a un suo Riccardo III, e in quest'ultimo Olivier aveva voluto ritrarre un produttore teatrale che detestava, Jed Harris, nato a Vienna da famiglia di origini ebraiche come Jacob Hirsch Horowitz. Potremmo persino sforzarci di cercare nella ferinità del personaggio e nella sua determinazione a cucinare i grassi e rosei porcellini qualche traccia delle più nere leggende medievali sugli infanticidi rituali degli ebrei. Però per quanto grassi e rosei sono pur sempre porcellini; se Ezechiele Lupo fosse anche solo una caricatura di ebreo, non dovrebbe andarne così ghiotto. Del resto i nomi biblici negli USA erano condivisi da ebrei e protestanti, e forse Ezechiele è più popolare presso questi ultimi. Non il lupo, dico: proprio il profeta.

C'è poco da scherzare, con Ezechiele Profeta. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un'astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall'interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri - non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.

È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l'afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano... già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l'aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell'Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.

Siamo nei primi mesi del 2003. L'invasione angloamericana dell'Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all'Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all'Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall'altra parte del filo c'è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l'appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c'è senz'altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l'interprete. Ci sono due tizi, Gog e Magog, operativi in Medio Oriente... una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Gog e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società?

Lo staff, invece di limitarsi a googlare, chiama un esperto di Scritture, Thomas Römer dell’università di Losanna. Di questa storia c’è la testimonianza di Chirac e quella di Römer, non la sto inventando io, non sono così bravo. Römer ridà una controllatina ai testi per essere sicuro di non essersi perso niente, e poi spiega: “Gog e Magog” è un modo di dire che compare una volta sola nell’Apocalisse di Giovanni, in un passo in cui gli eserciti della terra si stanno radunando per la battaglia finale (non è l’Armagheddon, è qualcosa di ancora più definitivo, mille anni dopo). Gog e Magog insomma vuol dire tutto e niente, è un po’ come Tizio e Caio, questo e quello, e patatì e patatà: insomma, se arrivano anche Gog e Magog vuol proprio dire che alla battaglia ci saranno tutti. Dietro c’è un riferimento ormai stereotipato e quasi irriconoscibile a Ezechiele 38, in cui si parla di un Gog re di Magog, che invaderà Israele da nord alla testa di una coalizione di maligni, per volontà di Dio, e da Dio stesso Magog sarà sbaragliato con pioggia scrosciante, pietre di ghiaccio, fuoco e zolfo
Così mi magnificherò e mi santificherò e mi farò conoscere agli occhi di molte nazioni, e riconosceranno che io sono l’Eterno».
Dis donc mais tu rigoles, n'est-ce pas?
Seguono in Ezechiele 39 i dettagli su dove scavare una fossa comune grande come una città, perché di Magog non resterà un solo superstite: il profeta calcola che solo per seppellire i nemici gli ebrei ne avranno per sette mesi. “Cosí da quel giorno in poi la casa d’Israele riconoscerà che io sono l’Eterno”, un Eterno che quando c’è da distruggere non bada a spese, tanto poi a pulire c’è la casa d’Israele, ma vabbe’, dettagli. Chirac a questo punto ha un brivido: sul serio il presidente degli Stati Uniti mi ha chiamato per farmi un sermone apocalittico? Sul serio pensa che io, il punto di arrivo del più laico dei sistemi educativi, possa bermi una profezia escogitata quasi tre millenni fa? Oppure, il che è peggio, è in buona fede! cioè queste per lui non sono solo le chiacchiere che si dicono e si ascoltano per raccattare voti nella Bible Belt, ci crede veramente in Gog e Magog e compagnia bella? Devo insomma pensare, con la mia cultura laica e illuminista, che l’unica superpotenza mondiale è governata da un mattoide fanatico? E suo padre, il petroliere, lo sa? La Francia non entrò nella Coalizione dei volenterosi, questo lo sapete tutti. Ma ci resta il dubbio: quello di Bush fu il discorso sincero di un cristiano “born again”, o un semplice modo di dire mal calibrato? Magari Bush voleva soltanto parlare un po’ colorito, attingendo al suo vocabolario di riferimento, che nel suo caso è la Bibbia così come nel caso di Berlusconi è un libro illustrato di barzellette sconce.


Nel corso dei secoli “Gog e Magog” è diventato davvero un modo di dire per chi mastica un po’ di Bibbia, e forse se Chirac fosse provenuto dal sistema educativo italiano le tre sillabe non lo avrebbero trovato impreparato: di Gog e Magog parla Marco Polo, piazzandoli da qualche parte a nord nel suo planisfero immaginario. Di Gog e Magog parlano un po’ tutti gli apprendisti fantarcheologi del medioevo, tutti sicuri di avere trovato la chiave del mistero: sono i Romani, anzi no, sono i Barbari che invadono l’impero, più precisamente i Goti, no, meglio, gli Unni, ma perché non gli Ungari? Senz’altro Ezechiele aveva in mente gli Ungari… anche se, aspetta, anche questi Khazari… e i Tartari, massì, sono chiaramente i Tartari. Nel frattempo il folklore europeo li trasforma in due giganti; su Gog e Magog, popoli affamati che non osano oltrepassare il cancello eretto dal grande Alessandro, Giovanni Pascoli scrive uno dei suoi più suggestivi poemi conviviali. Insomma, uno studente italiano non dovrebbe avere scuse, noi la Bibbia la studiamo. O no?

Anche di carte come queste, su google images
ce n'è un fottio. Ognuno è il Gog e Magog di qualcun altro.
Credo che dovremmo. La Bibbia è un libro sacro, che Dio l’abbia dettata o no. Non ha così importanza: se uno o più popoli si scelgono un libro sacro, quello diventa sacro per forza. Se contiene delle profezie, alcune si avvereranno. Non è solo statistica (in fondo, che ci vuole a immaginare un’invasione del nord da qui a un migliaio d’anni): un popolo che crede in una profezia prima o poi la fa avverare. Il problema con la Bibbia è che molte profezie finiscono con enormi fosse comuni, e anche al popolo di Dio viene pronosticato un futuro da becchini intensivi.
Per questo io, che non ho nessuna paura del calendario dei Maya, ogni volta che sento parlare del programma nucleare iraniano e degli eventuali raid israeliani ho un brivido: ci risiamo, penso, Gog e Magog…

Tra i loro alleati (38,5) “la Persia, l’Etiopia e Put”. La Persia, si sa, oggi si chiama Iran. L’Etiopia, è vero, sembra in tutt’altre faccende affaccendata, ma nei pressi c’è quel ribollente calderone che è il Sudan (e il Sud Sudan). Quanto a Put… meglio non pensare a come si chiama l’autocrate di un grande impero settentrionale che al momento è il migliore amico dei persiani moderni. La punizione di Dio, a base di pioggia zolfo e pietre di ghiaccio, ha tutta l’aria di un armamento non convenzionale. Lo so, sono solo coincidenze. Ma non ha importanza: quel che importa è che qualcuno le trovi verosimili, e che possa concretamente dare una mano al caso affinché la profezia di una battaglia apocalittica si autoavveri. Ma chi? Non gli ebrei, che l’Apocalisse di Giovanni non la leggono, e anche Ezechiele lo prendono con le molle. Viceversa, negli Stati Uniti, milioni di cristiani evangelici (bisognerebbe chiamarli evangelicali, ma è un nome così brutto) prendono il loro contenuto per oro colato. E votano.

Bush jr non fu il primo presidente a parlare di Gog & co.; trent’anni prima li aveva evocati Reagan: ovviamente lui pensava all’URSS. In seguito Iraq e Al Qaeda hanno avuto il loro momento; adesso tocca all’Iran. Gli evangelicali si dividono in tante congregazioni e credenze; alcuni aspettano il regno millenario di Gesù, per altri il regno è già finito e siamo alla battaglia finale; su una cosa però tutti concordano, ed è che la battaglia prevista da Giovanni (e da Ezechiele) potrà avere luogo soltanto se il popolo di Israele si fa trovare là; insomma, affinché il disegno di Dio si realizzi compiutamente, ci dev’essere uno Stato Ebraico e dev’essere attaccato da nord. Dopodiché, apocalisse per tutti, ebrei compresi – solo allora accetteranno che Gesù Cristo è il Messia, prima no. La sto raccontando come una barzelletta perché non vorrei annoiare nessuno, ma non c’è niente da scherzare: è un’interpretazione della Bibbia come tante, ma è anche la chiave di volta dell’alleanza tra cristiani fondamentalisti americani – il cuore dell’elettorato repubblicano – e sionisti israeliani. Giusto per sfatare il mito della lobby ebraica: no, negli USA milioni di appassionati sostenitori (e talvolta finanziatori) dello Stato di Israele sono cristiani, cristiani born again. Per loro c’è un motivo escatologico per cui Israele deve stare proprio là, non esattamente al riparo, anzi in balia degli invasori del nord. Il tutto alla luce del sole, perché tutto si può dire dei cristiani rinati salvo che facciano mistero dei loro piani.

Insomma, gli ebrei di Israele non hanno solo dei nemici che dichiarano di volerli eliminare dalla cartina geografica, ma anche dei simpaticissimi “amici” che li vogliono tenere lì a fare da esca escatologica per Gog e Magog, Saddam Hussein e Ahmadinejad e tutti gli altri mostri della fine del mondo: e tutto questo magari perché una notte di duemilaseicento anni fa sant’Ezechiele profeta aveva mangiato un po’ pesante. E questa è la nostra storia, la storia dei nostri giorni e dei prossimi futuri. Voi direte che no, la nostra storia è fatta di altro: di democrazia e totalitarismo, denaro e materie prime, gasdotti e oleodotti, e che tutto questo è molto più importante delle profezie di Ezechiele. Ecco, mi piacerebbe darvi ragione, perché se è una questione di soldi e di petrolio, in un qualche modo ci si può mettere d’accordo. Ma se c’entra anche la Bibbia, se c’è gente importante che ci crede davvero e non fa finta, beh, per sapere come va a finire basta leggere Ezechiele 39:

«In quel giorno avverrà che darò a Gog, là in Israele un luogo per sepoltura, la valle di Abarim, a est del mare; essa ostruirà il passaggio ai viandanti, perché là sarà sepolto Gog con tutta la sua moltitudine; e quel luogo sarà chiamato la Valle di Hammon-Gog.

La casa d’Israele, per purificare il paese, impiegherà ben sette mesi a seppellirli.

Li seppellirà tutto il popolo del paese, ed essi acquisteranno fama il giorno in cui mi glorificherò», dice il Signore, l’Eterno...
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Benedetto el Negher (di Sicilia)

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San Benedetto il moro, francescano nero lombardo di Sicilia (1526-1589)

[2016]. Brot negher, torna all'infer'n. Immaginate la scena: una squadra di braccianti ha circondato un pastore, un ragazzino che porta due buoi al pascolo. Lo prendono in giro perché è scuro di pelle. Molto scuro. Figlio di schiavi dell'Africa nera, forse etiopi. Lui li guarda preoccupato ma cerca di tenere basso lo sguardo, non vuole grane. Se gli prendono i buoi è rovinato. E forse è a quello che puntano. Una parola sbagliata, uno sguardo di traverso, e un coltello si fa presto a tirar fuori...

Il ritratto (anonimo) più credibile.
Per fortuna arriva il frate. Non è neanche un frate vero e proprio, è Girolamo Lanza, un giovane di San Frau che si è messo in testa di fare il francescano per i fatti suoi; ha donato la sua eredità e si è trovato un eremo poco lontano, a Santa Domenica. Insomma arriva fra Girolamo e domanda: che succede, perché tormentate questo ragazzo? Vi ho visto, sapete. Lui non vi ha fatto niente. È un tipo a posto, secondo me ne sentirete parlare. I braccianti si ritirano di buon ordine: fra Girolamo sarà anche un mezzo matto, ma il suo cognome in paese pesa ancora. L'eremita resta solo col pastore. Magari gli chiede: "Ma di chi sono questi buoi?"
"Della mia famiglia".
"Ma tuo padre non è Cristoforo, che ha preso il cognome di Manasseri dal padrone che lo ha liberato? Quando mai hanno avuto animali i vecchi schiavi dei Manasseri?"
"Li ho comprati io".
"Due buoi? Con che soldi?"
"Avevo dei risparmi".
"E che volevano quei braccianti? Che ti dicevano?"
"Non ascoltavo".

Nella mia testa ovviamente non potevano che dargli del negher-de-merda. Perché a Benedetto non era capitato di nascere soltanto in Sicilia, dove la sua carnagione era già abbastanza eccezionale da suscitare, lo vedremo, forme di psicosi di massa; ma tra tutti i castelli e i villaggi di Sicilia, una serie di circostanze non chiarite avevano portato il padrone del padre a liberarlo a San Fratello, ridente cittadina della provincia messinese di lingua longobarda. Esatto, a San Frau (cattiva traduzione del latino Sanctus Filadelphus) gli abitanti parlavano un dialetto lumbàrd, come a Nicosia, a Sperlinga, a Piazza Armerina, ad Aidone (EN): e a differenza di Acquedolci, di Montalbano Elicona, e di Novara di Sicilia (ME), lo parlano ancora. Non si sa neanche esattamente quando abbiano iniziato - l'ipotesi è che queste zone siano state ripopolate dopo l'invasione normanna (1090), trapiantando in zona contadini e allevatori che provenivano da qualche anfratto non ben localizzato della valpadana occidentale, una zona tra Asti, Cuneo e Savona. Oggi insomma non li considereremmo nemmeno lumbard in senso stretto: ma erano longobardi, o addirittura franzosi, per i siciliani del tempo, che non capivano una parola. In mille anni poi la lingua è cambiata, a volte accettando a volte combattendo le parlate circostanti (trovate qualche esempio di sanfratellese nei romanzi di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell'ignoto marinaio Lunaria). Per dire non credo proprio che oggi si dica "negher" in sanfratellese: oggi no, ma nel Cinquecento magari sì.

"Senti, perché non ti disfai di questi buoi?"
"Ma sono miei".
"Rivendili. Potrai donare il ricavato ai poveri".
"I miei sono poveri".
"A maggior ragione".
"E poi che faccio?"
"Vieni con me".
"A fare il frate?"
"Molto meglio che fare il pastore. E poi cos'hai da perdere?"
"Due buoi!"
"Non ci crederà mai nessuno che sono tuoi".
"E perché non dovrebbero..."
"Perché sei un negher!"

(Lo sguardo di traverso che Benedetto era riuscito a risparmiarsi in mezzo ai braccianti, ora fra Girolamo se lo prende in pieno).

"Ti ho offeso? Scusa ma insomma, si vede da lontano. E un pastore negro qua non s'è mai visto. Ma se vieni con me, io posso farti diventare..."
"Un frate negro?"
"Un santo".
"Un santo negro?"
"E quelli vanno forte".
"I santi negri?"
"Fidati di me. Vendi quei buoi".

Antonio l'Etiope,
il nero d'AvolaAHAHAH
CHE SPASSO
LA RUBRICA DEI
SANTI DEL POST.
Anche ad Aidone si parlava lombardo. Il santo patrono è Filippo apostolo: però la statua di Aidone è nera d'ebano "Ha occhi neri e acuti che fanno paura: e quando viene messo in movimento per il giro della città, desta un senso di sbalordimento e di raccapriccio". Il colore scuro testimonierebbe il transito del santo dal mondo dei morti. Altrove si venera un altro San Filippo, siriaco, molto efficace contro i demoni, talvolta definito "schiavo negro". Popolarissimo in tutta la Sicilia (e in particolare ad Agrigento) è San Calogero, sempre raffigurato nerissimo benché greco di Costantinopoli, al punto che in età moderna qualcuno ipotizzò un errore di traduzione: da Chalkhidonos (di Calcedonia, città sull'altra riva di Costantinopoli), a Karchidonos, cartaginese. Ma anche a Cartagine non nascono scuri così... poi ci sono le madonne nere, tipiche dell'iconografia bizantina e molto diffuse in Sicilia già prima dell'arrivo degli arabi. Finché a un certo punto non arrivano i neri veri: Benedetto non è il solo. A Noto c'è il Beato Antonio l'Etiope, detto anche Catagerò d'Avola, eremita e guaritore, poi inquadrato nei francescani, e morto verso il 1550 (ma altri etiopi, tutti chiamati Antonio, risultano a Caltagirone e a Camerano. Notiamo en passant che "etiope" poteva semplicemente significare "nero ma cristiano": il modo più semplice di rendere credibile questa curiosa compresenza di tratti somatici non europei e fede cristiana era evocare il mitico Paese cristiano al di là delle terre islamiche). Lo stesso Antonio di Lisbona, che in Valpadana tutti chiamano Antonio da Padova e raffigurano con l'incarnato roseo di un bambino, era secondo alcuni testimoni piuttosto scuro di pelle. Insomma, essere neri in Europa non è mai stato facile, ma in certe carriere poteva rivelarsi un bizzarro vantaggio.

Negli anni successivi, Girolamo e Benedetto dovranno spesso cambiare eremo per seminare i pellegrini che arrivavano da tutta la Sicilia a chiedere miracoli al frate nero. Il quale magari ci provava pure, a fare qualche miracolo – e non è escluso che qualche guarigione gli riuscisse – in ogni caso, male che andasse, i pellegrini potevano andare a casa e raccontare di aver visto un frate nero. Pensateci: voi quand’è che avete visto un nero per la prima volta? I vostri figli se li trovano all’asilo e non fanno nemmeno in tempo a farci caso. Io devo averne visti migliaia in tv per più di dieci anni, prima di incontrare un nero in carne e ossa. Cinquecento anni fa, quando la fantasia visiva si nutriva al massimo degli affreschi e delle vetrate delle chiese, che emozione poteva essere vedere un uomo nero? E dopo averlo visto, scoprire che malgrado l’incredibile ed evidentissima differenza, è proprio un uomo come noi. Mangia e beve come noi. Parla come noi – salvo quell’accento un po’ esotico, già: lombardo.

Otto anni nella valle di Nazara; poi a Mancusa. Qui Benedetto guarisce un malato di troppo e il traffico di pellegrini diventa tale che i seguaci di Girolamo decidono di trasferirsi sul Monte Pellegrino, fuori Palermo. Gli affari andavano talmente bene che a un certo punto la Chiesa ufficiale si fece sentire, e obbligò i francescani improvvisati a porre termine a ogni forma di spontaneismo. A quel punto Girolamo aveva già lasciato il mondo dei vivi, e i suoi seguaci avevano nominato superiore Benedetto. Niente male per un pastore analfabeta. Forse anche l’idea di avere una congregazione francescana guidata da un nero alle porte di Palermo potrebbe aver lasciato perplesso qualche elemento della gerarchia: fatto sta che nel 1550 Pio IV revocò i permessi. Benedetto scelse di entrare nei Frati Minori, che gli trovarono un posto nelle cucine del convento di Sant’Anna di Giuliana.

Da superiore a sguattero: però la prese bene. Fece ancora carriera: diventò capo-cuoco a Santa Maria del Gesù (Palermo), poi guardiano del convento, e, allo scadere del mandato, maestro dei novizi. Ma la cucina è l’ambiente che gli è rimasto più attaccato, come a Martin de Porres l’infermeria. Tra i suoi miracoli più famosi, oltre alle guarigioni, un paio di moltiplicazioni di pani e pesci – quel tipo di prodigio alla portata di un cuoco che sappia gestire con oculatezza materie prime e avanzi. L’ultimo suo viaggio, dal convento di Sant’Anna a quello di Santa Maria, lo aveva fatto tra due ali di folla venute a toccare il taumaturgo nero. Che magari non li avrebbe guariti, ma potevano pur sempre tornare a casa e raccontare di aver toccato un nero.

cuiaba
Qui siamo a Cuiabà, in Mato Grosso

Benedetto lascia questa terra il quatto aprile del 1589 – 427 anni fa oggi – senza nemmeno sospettare quanto sarebbe diventato importante. L’affetto di confratelli e novizi, la venerazione di palermitani e messinesi non è che una piccola frazione di quello che sta per succedere al di là dell’Atlantico. C’è un intero continente da cristianizzare, ci sono moltitudini di neri da battezzare, e di un santo con la pelle scura c’è un disperato bisogno. Il processo di beatificazione a dire il vero andrà un po’ per le lunghe (bisognerà aspettare Benedetto XIV, aka Prospero Lambertini, già in pieno Settecento: due anni prima, nel 1743, aveva pubblicato una severissima enciclica contro la schiavitù). Nel frattempo i francescani avevano già stampato e diffuso milioni di santini col cuoco nero che tiene in braccio il bambino biondo – l’iconografia più diffusa di Benedetto il moro è, in sostanza, una copia carbone di quella di Antonio di Padova. In Venezuela Benedetto diventa il protagonista di una settimana di festa che prosegue il Natale fino al sei gennaio. L’idea che dietro al santo siciliano si nasconda qualche rito non proprio omologato è qualcosa di più di un sospetto: in Brasile a un certo punto il festeggiamento prevede un matrimonio e un’incoronazione. A sposarsi e a regnare per un giorno sono il re e la regina del Congo, ma anche San Benedetto e la Madonna del Rosario.
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La terra piatta di Sant'Isidoro

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4 aprile - Sant'Isidoro di Siviglia, dottore della Chiesa, enciclopedista, patrono di Internet.

[2013]. I posteri non ci leggeranno, i posteri non leggeranno in generale. Smetteranno di imparare l'alfabeto come noi abbiamo smesso di fare le aste e le O. Per capire quel che c'è da capire probabilmente guarderanno cose sospese nell'aria, in fondo lo stanno già facendo. E rideranno di noi. Ci considereranno dei deficienti. Ogni tanto verranno a guardare come si imparava ai nostri tempi - sfoglieranno i libri, guarderanno le figure, e rideranno per cose che non fanno ridere. Un atlante geografico, per esempio, un planisfero, che risate.

AHAH CHE RIDERE, GOOGLE PENSAVA
CHE LA TERRA FOSSE UN RETTANGOLO.
"Ma guarda, ahah".
"Cosa c'è da ridere, stronzetto".
"Com'eravate buffi. Pensavate che la terra fosse piatta".
"Ma no, niente affatto".
"E allora perché la disegnavate così?"
"Tanto per cominciare non è un disegno, ma una proiezione. E poi non avevamo scelta, se volevamo raffigurarla su un libro dovevamo proiettarla su una superficie piatta, dal momento che... mi stai ascoltando?"
"No, scusa, sto facendo sesso in chat3d"

Devo scrivere un pezzo su Isidoro di Siviglia, a cui un papa - il terzultimo, ormai - ha affidato il padronato di Internet. Per cui capite che non posso assolutamente far finta che il quattro aprile non si festeggi Sant'Isidoro, il celebre erudito, l'ultimo dottore dell'Antico Occidente, prima dei secoli veramente oscuri; ma questo non vuol dire che ne sappia molto. Solo perché ho una prestigiosa rubrica sul Post la gente crede che io sia un pozzo di scienza ma non è vero, la più parte delle volte do solo un'occhiata su internet il giorno prima. Di solito su wikipedia. Che non è il massimo, eh, ci ha tanti difetti, però è sempre il primo posto in cui vai a cercare. È comoda, a portata di clic. Quando proprio voglio ostentare una profonda conoscenza della materia seguo un paio di link che partono da lì. Mi piacerebbe saperne davvero di più, ma ho tante altre cose da fare, sapeste a che ora mi alzo. Su Isidoro poi pensavo che avrei trovato tantissime cose, ma come succede spesso non è affatto così; dovunque trovo più o meno le stesse tre-quattro nozioni. Ho anche dato un'occhiata ai libri che ho in casa ma non dicono nulla di più; potrei sellare i buoi e recarmi in una biblioteca seria - ma a quel punto mi troverei davanti i venti volumi delle Etymologiae in edizione critica, e poi che ci faccio? Troppo materiale è uguale a nessun materiale.

Non sembra, ma questa è la prima versione a stampa
(Günther Zainer, 1472. Il disegnino compare in alcuni manoscritti,
ma non siamo sicuri che ci fosse anche nell'originale di Isidoro.
Isidoro ha scritto migliaia di pagine che non si legge quasi nessuno, ed è stato messo in croce per un disegnino. A un certo punto, dovendo spiegare nella sua enciclopedia di tutto lo scibile umano una questione abbastanza secondaria, una mera curiosità - com'è fatto il mondo? - Isidoro ne traccia uno schizzo semplificatissimo: una T dentro una O. La O è l'Oceano, che circonda le terre emerse; la T è costituita dal Mediterraneo, che a oriente si biforca in due fiumi (il Nilo e il Don) dividendo i tre continenti: Asia in alto (est), Europa a sinistra (nord), Africa a destra (sud).

Isidoro sapeva benissimo che il mondo era più complicato di così; probabilmente condivideva l'opinione degli antichi navigatori che lo consideravano sferico e non piatto; lui stesso aveva viaggiato per terra e per mare, emigrando da Cartagine in occasione dell'invasione bizantina, e trovando riparo nella Spagna visigota. Sapeva benissimo che Europa e Africa avevano coste irregolari e frastagliate; il suo schizzo non era una cartina geografica, ci sbagliamo a interpretarlo così. Era un simbolo, un ideogramma, un modo per raffigurare un concetto e mandarlo a mente. La forma circolare non alludeva a una presunta piattezza della Terra - del resto anche noi, con tutte le nostre approfondite conoscenze geografiche, sui libri usiamo ancora figure piatte, pardon, proiezioni.

Sappiamo benissimo che tutte le cartine piatte raccontano qualcosa di falso - la Terra non è piatta - semplificando un concetto più complicato. Ma le usiamo lo stesso, sono comode. Anche Isidoro, sappiamo benissimo che aveva conoscenze più approfondite di quelle espresse con la T nell'O. Ma ci è comodo semplificarlo così, inserirlo nella Storia che ci raccontiamo nel ruolo dell'ultimo compendiatore del mondo antico, sul suo terrazzino spagnolo sospeso sull'abisso dei Secoli Oscuri: si fece buio su tutta la terra e la gente smise di viaggiare, pensate che l'unica cartina che ancora si copiavano nei manoscritti era una T iscritta in un cerchio! È anche un'ottima occasione per fare sfoggio di un sano relativismo culturale, visto che di lì a poco in Ispagna arriveranno gli Arabi con mappe assai più precise, schizzate da navigatori che sapevano orientarsi tra un porto e l'altro.


(La realtà è solo apparenza, l'universo è tutto un codice).

Ma quello di Isidoro è un mondo che nessun navigatore avrebbe potuto esplorare. È un mondo di libri, di parole, di lettere. Isidoro lo raffigura con un calligramma perché lo considera realmente un calligramma: le lettere dell’alfabeto sono i suoi unici strumenti a disposizione. Deve riassumere tutto lo scibile umano in venti agili volumi che possano essere ricopiati a mano per una decina di secoli, e non ha a disposizione cannocchiali per vedere più lontano, o microscopi per vedere più piccino. Ha solo la grammatica, soltanto l’alfabeto – ma l’alfabeto per Isidoro non è un insieme di simboli arbitrari: è il Codice segreto in cui è stato scritto il mondo. Le sue etimologie, che ci sembrano così stiracchiate e fantasiose, sono tentativi di decifrare il mondo, che non è certo una T iscritta in una O: il mondo è un libro, un glossario di termini inventati da Dio, che forse gioca a ruzzle da un’eternità: da quando digitò la prima parola, tre lettere, “lux”, e la luce fu.

Isidoro non era un topo di biblioteca: fu un personaggio politico di primo piano, convocò un paio di concili della Chiesa di Spagna, contrastò l’eresia ariana. Ma il mondo che descrive nelle Etymologiae è un mondo di pergamena, tutto ricostruito nelle citazioni degli Autori venuti prima di lui. Persino Siviglia, la città dove viveva e lavorava, è un fantasma libresco. Millequattrocento anni prima di Wikipedia, Isidoro aveva fatto tesoro della Terza Direttiva: Niente Ricerche Originali (WP:NRO). Wiki però è una comunità di migliaia di persone; a Isidoro toccava arrangiarsi da solo, sperando che i copisti non lo maltrattassero troppo. Aveva però un vantaggio importante: i diritti d’autore non sarebbero stati codificati per altri dodici secoli. Copiare era insomma consentito, anzi, consigliato. Isidoro è il definitivo artista del copia-incolla: non si esprime a parole, ma a citazioni: come il tipico studente insicuro, che sfoglia le enciclopedie in cerca di un testo da ricopiare pari pari, ecco, la prima enciclopedia è stata scritta da uno studente del genere. Molto spesso non sa nemmeno cosa sta citando esattamente: la maggior parte degli autori non li ha potuti leggere in originale, con la solita scusa che era iniziato il Medioevo, e prima i Suebi e poi i Vandali e infine i Visigoti, insomma molte biblioteche erano marcite o andate in fiamme: e così a Isidoro non restava che citare Varrone attraverso riassunti altrui, bignamini anonimi. Chissà se era poi vero. Magari frugando un po’ nell’archivio qualche dozzina di volumi di Varrone avrebbe anche potuto reperirli; ma poi bisognava leggerli, e indicizzarli, sarebbero serviti degli anni, e Isidoro magari aveva fretta. Anche lui al mattino poi doveva alzarsi presto.

Per dire, questo è Al-Idrisi (arabo di Sicilia) nel 1150.
(Il nord è verso il basso).

Isidoro lavorava su materiali di seconda e terza mano, come gli studenti che studiano riassunti di altri studenti che hanno copiato da libri che riprendono altri libri, e se ci riflettete non c’è nulla di strano, è la tipica cultura scolastica: quel sistema per cui esci dal liceo con la sensazione di aver “studiato” Cartesio (cioè di aver studiato un riassuntino di due paginette di un manuale di filosofia che a sua volta riassume una monografia dedicata al Discorso sul metodo), di aver “studiato” Kant. Passa qualche anno e cominci a metterti in discussione: cosa ho studiato, realmente, di Kant? Magari a quel punto vai su internet e trovi più o meno le stesse cose, riversate da qualche studente come te, specie da quando Google ha deciso di mettere al primo posto Wikipedia. Che ha tanti difetti, però è comoda, e rapidamente ha soppiantato le altre fonti. Più in profondità magari ci sono contenuti più complessi e originali, ma servirebbe molto tempo per cercarli, e dobbiamo tutti alzarci presto. Così alla fine ci aggrappiamo tutti a Wikipedia, che galleggia su terabyte di nozioni che non si legge più nessuno.

Isidoro voleva solo rendersi utile, ridurre lo scibile umano in venti agili volumi per la classe dirigente del suo tempo; non aveva la minima idea del disastro che ne sarebbe derivato. La sua enciclopedia piacque così tanto che molte sue fonti dirette e indirette sparirono dalla circolazione. Non c’era più bisogno di loro: le Etymologiae bastavano e avanzavano, e così nessuno si prese la briga di copiarli. Non c’era tempo, bisognava copiare Isidoro.

I posteri queste cose non le capiranno. Tempo e spazio saranno a loro completa disposizione. Scansioneranno i palinsesti finché non troveranno tutti i libri di Varrone andati persi sotto una pandetta o un laudario. Vivranno immersi in archivi fatti a nuvola, densi di tutto ciò che è stato scritto, di tutto ciò che si potrebbe leggere, avendone il tempo. E tempo ne avranno, ma non sapranno più leggere: solo ogni tanto sul tapis roulant verso casa visualizzeranno qualche concetto volante, e un giorno da qualche parte un documentario interattivo sui blog italiani del XXI secolo si bloccherà per errore di sistema su uno screenshot di questa pagina, con la mappa di Isidoro in primo piano. Qualcuno chiederà: che roba è? Un disegno del mondo? Piatto? Nel XXI secolo? Come erano stupidi.
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Ciccio, eremita a corte del re

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Tre uomini in saio, attraverso lo stretto di Messina.
Tre uomini in saio, attraverso lo stretto di Messina
2 aprile, San Francesco di Paola o da Paola (1416-1507), eremita d'esportazione.

[2014]. Essere eremiti di successo è complicato. La logistica, ad esempio: devi vivere in un luogo lontano da tutti, ma non del tutto irraggiungibile, sennò rischi che i pellegrini si scelgano un altro venerato maestro. A Paola (provincia di Cosenza) a un certo punto si decise di costruire un ponte tra le due sponde scoscese di un torrente, che avrebbe accorciato di molto il faticoso percorso dei devoti all'eroe locale, Francesco detto Ciccio. Per fare i ponti, però, bisogna venire a patti col demonio: ciò è noto sin dal tempo dei Longobardi, e anche i santi più facili al miracolo si sono rassegnati: Dio fa tante cose, ma i ponti sono una specialità demoniaca.

Persino Francesco di Paola, che aveva attraversato lo stretto di Messina sul suo mantello per non pagarsi il traghetto; Francesco di Paola che aveva resuscitato il suo agnellino preferito facendolo uscire illibato dal forno da dove gli operai si aspettavano uscisse un abbacchio cotto e croccante; Francesco che per i suoi prodigi sarebbe stato invitato alla corte del re di Francia; persino lui dovette chiedere una consulenza ingegneristica al demonio. In cambio il demonio, come sempre in questi casi, richiese l'anima del primo essere vivente che avrebbe transitato sul ponte. Francesco accettò e, a lavori ultimati, fece attraversare il ponte a un cane.

Il demonio si arrabbiò molto, o almeno così dice la leggenda: ma siccome il trucco era vecchio di secoli, e adoperato in dozzine di ponti medievali in tutta Europa, viene il sospetto che sia tutta una messinscena, e che il demonio sia al contrario piuttosto ghiotto di anime di cani, maiali o altri animali. Non si spiega altrimenti la buona volontà con cui è disposto a edificare ponti a qualsiasi altezza, dimostrando capacità ingegneristiche elevate, sempre col pretesto di pigliarsi la prima anima che passa, e sempre costretto ad accontentarsi della povera bestiola il cui transito è una specie di cerimonia inaugurale, forse di origine pagana, tanto è diffusa in tutto il continente. Ponti del diavolo ce n'è dappertutto anche in Italia: quello di Paola è anzi uno degli ultimi, il medioevo ormai è finito. Il diavolo che finge di adirarsi col santo sembra volersi prestare a un'ultima sacra rappresentazione: la colluttazione lascia sul ponte una traccia, una buca in cui ancora oggi i viandanti sputano, anche chewing-gum se capita di averne in bocca.

Dai, non dite che non ci somiglia.
Dai, non dite che non ci somiglia
Sospeso tra medioevo ed epoca moderna, Francesco di Paola è un santo attualissimo: è difficile impedire alla fantasia di visualizzarlo con i tratti di un altro meridionale frate dei miracoli, Francesco Forgione, più noto come Padre Pio di Pietrelcina. Non si può escludere che tra le cause del successo di quest'ultimo ci sia la facilità con cui la sua figura aderiva a un modello già elaborato e diffuso da secoli: un frate barbuto, burbero e penitente, la cui severità è temperata dalla generosità con cui dispensa i suoi prodigi. Entrambi sembrano ricevere il loro destino insieme al nome di battesimo: Forgione chiese di entrare in convento a 14 anni, Francesco "Ciccio" di Paola a 13 fu contattato in sogno da un frate che gli ricordò il voto fatto dai genitori, già in età avanzata: se avremo un primogenito lo consacreremo a Francesco d'Assisi. Già da bambino del resto gli era stato imposto per un anno il saio francescano, affinché guarisse da un'infezione agli occhi.

Nel 1429 entra quindi in un convento a Cosenza, ma vi resta solo per l'anno di prova, quanto basta per stupire i confratelli con un primo assaggio di effetti speciali: Ciccio si sta già esercitando a reggere i carboni ardenti nelle mani, è in grado di accendere le candele con un semplice sfioramento; a volte riesce a essere simultaneamente sia nella cappella sia nel refettorio (è la bilocazione, un altro grande classico di Padre Pio). Ma il saio dei francescani regolari gli sta troppo stretto, o troppo largo, a seconda dei punti di vista. L'anno successivo coinvolge i genitori in una specie di grand tour della spiritualità nell'Italia centrale: visita Assisi, Loreto, Montecassino, nonché ovviamente Roma, dove rimprovera un cardinale per gli abiti sfarzosi. Al suo ritorno, decide di fare il francescano in proprio, ritirandosi sui monti. È una scelta estrema e anche un po' pericolosa: non solo l'epoca d'oro degli anacoreti era tramontata da secoli, ma da almeno cent'anni le gerarchie ufficiali della Chiesa guardavano con sospetto a chi interpretava la povertà francescana in senso troppo letterale. Lo scontro tra frati conventuali e spirituali era terminato con l'espulsione di questi ultimi; altre esperienze borderline, come quella dei fraticelli, erano state represse con la spietatezza riservata alle correnti eretiche. La povertà era potenzialmente rivoluzionaria.

Ciccio in realtà non rischia niente finché nessuno si accorge di lui: le cose cambiano quando i cacciatori cominciano a parlare di un sant'uomo ritirato sulle montagne. Ai primi ammiratori che lo raggiungono, Ciccio impone un regime durissimo: niente carne né latticini o uova, una quaresima di trecentosessantacinque giorni che si aggiunge ai tre voti francescani (povertà, castità, obbedienza). Anche all'ispettore ecclesiastico inviato da Roma, Baldassarre de Gutrossis, Francesco non nasconde la sua dieta vegan. Questo regime è impossibile, gli obietta il prelato. Nulla è impossibile a chi ama Dio, ribatte Ciccio, prendendo in mano un tizzone ardente a mo' di dimostrazione. Baldassarre riparte in fretta per Roma, deposita una relazione entusiastica, e ritorna a Paola, dove aiuterà il santo verdurista a organizzare un vero e proprio Ordine. Quando l'approvazione del Papa arriva, nel 1474, Francesco ha quasi sessant'anni, e anche se tra la corte di Napoli e la Sicilia ha viaggiato molto più di quanto ci si sarebbe aspettato da un eremita, tutti si aspettano che termini i suoi giorni in uno degli eremi da lui fondati. E invece, nel 1482, l'imprevisto: Francesco riceve un invito che non può rifiutare, dal più potente regnante europeo, Luigi XI detto il prudente.

Lui si è fasciato la testa per anni,
poi è morto e suo figlio ha sbattuto
la sua contro una trave.
Qualcuno lo ha anche chiamato il re Ragno, per la pazienza e l’astuzia con cui tesseva le sue trame. Un Andreotti medievale, che eredita dal padre la Francia uscita intera dalla guerra dei Cent’Anni e la traghetta verso il Rinascimento. Luigi XI era piuttosto brutto e andava sempre in giro con un berretto. Per alcuni storici non si trattava di un semplice trucco per mascherare le calvizie, ma di un’imbottitura che gli impediva di picchiare troppo forte la testa durante una delle sue crisi apoplettiche. In realtà non sappiamo esattamente di cosa soffrisse, ma la sua ostinazione a vivere lo portò a radunare a corte il fior fiore dei dottori del tempo, e a dare un nuovo impulso alla scienza medica. Verso i sessanta però doveva aver esaurito la pazienza: cominciò a rivolgersi ai guaritori.

A quel punto la fama di Francesco aveva già oltrepassato i confini, ma il santo non si sarebbe certo lasciato smuovere né da un ordine del re né dalle sue donazioni: il valore che dava a queste ultime lo aveva già dimostrato alla corte del re di Napoli Ferdinando, facendo stillare il sangue da una moneta spezzata. Strana parodia di miracolo eucaristico che, se aveva un significato politico (le tue ricchezze sono fondate sul sangue dei tuoi sudditi, ecc.), lo perse immediatamente nei resoconti degli agiografi. L’unico sistema per portare Ciccio in Francia era ottenere che glielo ordinasse il Papa, a cui tutti i frati devono obbedienza. Sisto IV, il pontefice dell’omonima cappella (che non vide mai affrescata) cercò di trasformare il viaggio di Ciccio in un’ambasciata: in cambio di una guarigione il re Luigi avrebbe dovuto rivedere le sue prerogative sulla chiesa di Francia, che in certi casi scavalcavano quelle del Papa. A quel punto Francesco doveva partire – e possibilmente salvare la vita al re.


Partendo a piedi dalla Calabria (s’imbarcherà solo a Civitavecchia), il frate ha cura di lasciarsi dietro una scia di miracoli che ci consentono di ricostruire il suo cammino a tappe forzate. Più volte si ritrova nella situazione paradossale del mendicante che non ha nulla ma vorrebbe lasciare qualcosa di prezioso: messo alle strette può sempre staccarsi un dente, come fece effettivamente quando la sorella gli chiese un ricordino. A un altro compaesano lascia un pezzo di pane che sarebbe resistito fresco e profumato per anni (finché non fu divorato durante una carestia). Sul Monte Pollino lascia le sue impronte in una roccia; a Castelluccio (provincia di Potenza) spilla vino da una botte vuota per rinfrancare i compagni; a Lauria (sempre Potenza) il suo asino si libera miracolosamente dei ferri, dal momento che il maniscalco pretende d’essere pagato; a Polla (Salerno) regala alla famiglia che lo ospita un suo autoritratto miracoloso, inciso nell’intonaco… che però un giorno scompare altrettanto miracolosamente. E così via, e non siamo neanche a Napoli. E tuttavia, al termine di questa odissea dei miracoli, Ciccio si ritrova a Tours davanti a un re provato dalla malattia – e non lo guarisce. Il miracolo più atteso di tutti non arriva: Luigi muore qualche mese dopo, nell’agosto 1483.


Carlo VIII, in questo ritratto ufficiale, ci ha quell'ineffabile espressione del figlio di capitano d'industria un attimo prima di intonare lodi alla meritocrazia.
Carlo VIII, nel ritratto ufficiale, con quell’ineffabile espressione
 da figlio di capitano d’industria un attimo prima
di intonare lodi alla meritocrazia.
A questo punto gli agiografi si sforzano in vario modo di indorare la pillola: Luigi non fu salvato, è vero, ma forse meritava di morire, ne aveva combinate tante; e comunque la missione di Francesco non fu vana, e portò a un riavvicinamento diplomatico tra Francia e Papato (e però la prammatica sanzione di Bourges non fu annullata, e la Corona mantenne le sue prerogative). Qualcuno si spinge anche a parlare dell’effetto che avrebbero avuto gli insegnamenti di Francesco sul re successivo, Carlo VIII, forse senza rendersi conto dello sproposito. Carlo era il giovane cialtrone che nel 1494 avrebbe invaso l’Italia, dando la stura a quei sessant’anni di guerre italiane che avrebbero devastato il Rinascimento e trascinato la penisola nei grigi secoli della Controriforma. Si può dire che il ritardo tra l’Italia e le zone più evolute dell’Europa comincia con Carlo VIII, per cui questa cosa che Francesco di Paola fosse il suo confidente meglio non dirla a voce troppo alta. Vero è che né lui né il suo successore, Luigi XI, lo lasciarono ripartire (Carlo VIII morì presto, a 27 anni, sbattendo la testa contro un’architrave del castello di Amboise mentre usciva a cavallo: la ritrosia del padre a lasciargli in eredità la Francia intera si spiega). Nel suo orticello di Plessis-les-Tours, Francesco continuò serenamente a coltivare e mangiare le sue verdure fino alla miracolosa età di 91 anni, un ottimo argomento per qualsiasi vegano.

Nel frattempo il suo Ordine cresceva anche in Francia: negli ultimi anni Francesco diede un significato più penitenziale alle privazioni che imponeva ai confratelli, ma non le alleviò: anche sul letto di morte rifece il vecchio trucco delle braci in mano. I suoi frati in Francia si chiamano bons-hommes, dal soprannome che re Luigi diede al suo mancato guaritore, “buon uomo”; in Italia “minimi”, o “paolotti”; in Germania “paulaner”: il fatto che il nome ricordi quello di un’ottima birra torbida ci lascia immaginare un certo addolcimento nel regime.

Francesco morì nei pressi di Tours nel 1507, dieci anni prima dell’arrivo a corte di un altra celebrità italiana, Leonardo Da Vinci. Fu canonizzato rapidissimamente, dodici anni dopo, da un Papa a cui da bambino aveva profetizzato l’elezione, Leone X. Nel 1562 gli ugonotti profanarono la sua tomba, dando fuoco a una salma che fino a quel momento (dicunt) si era conservata “incorrotta”. Oggi non restano che cinque frammenti ossei, custoditi nel santuario di Paola. Francesco è patrono di Napoli, di Calabria e di Sicilia; dei naviganti e dei pescatori; è invocato contro incendi, sterilità ed epidemie; ma anche mangiare tanta verdura può aiutare.
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Maria, la meretrice nel deserto

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Qui è ancora vestita.
1° aprile - Santa Maria d'Egitto (IV-V sec.), ex meretrice e patrona delle medesime.

[2012] Mettete a letto i bambini. Siamo nella Giordania del V secolo, gli anni ruggenti dei martiri sono finiti. Adesso vanno di moda gli eremiti. Gente che va nel deserto e ci resta per anni senza mangiare niente: la gente ne va matta, molti attraversano il Giordano alla ricerca di questi anoressici modelli di perfezione. Tra questi cercatori vi è un monaco palestinese, Zosimo (o Zozima), già stimato e riverito da tutti per la saggezza e la rettitudine. Un giorno una voce gli ha detto: Zosimo, o Zozima che dir si voglia, ma chi ti credi di essere, un Santo? Ma va', va', attraversa il Giordano se vuoi vedere quelli che fanno sul serio. Zosimo obbedisce, e si inoltra nel deserto alla ricerca di qualche "santo padre antico solitario". Dopo venti giorni di nulla, gli appare da lontano un'ombra, un miraggio, si direbbe... una donna, una vecchietta dai capelli d'argento e dalla pelle secca. Zosimo si mette a correre verso di lei, ma la donna gli sfugge. "Perché mi fuggi? Ti prego, fermati, parlami". "Zosimo, abbi pazienza, non vedi che sono nuda? Se vuoi che io parli con te, gettami il tuo palio, acciocché possa coprirmi". Accidenti, pensa Zosimo, questa sa persino come mi chiamo, è una santa seria. E adesso cosa fa? Si è inginocchiata a oriente, ma... per san Girolamo, sta volando! Ehi, ma siamo sicuri che non è un'allucinazione? Dopotutto è da venti giorni che vago nel deserto praticamente senza mangiare né...

"Zosimo, o Zozima che dir si voglia, non dubitare. Io non sono un'allucinazione o uno spirito maligno, ma una femmina peccatrice. Vuoi conoscere la mia storia? A dire il vero ho paura che ascoltandola fuggirai da me, non potendo il tuo cuore reggere tanta iniquità: ma se proprio insisti..."

Flashback! Quarantasette anni prima, su un dock di Alessandria d'Egitto, una donna si accosta a un gruppo di dieci marinai: ehi belli, ve ne salpate di già? Che peccato, e dove andate? Portiamo un carico di pellegrini a Gerusalemme, sai, il Santo Sepolcro. "Ah, ecco cos'era tutto questo movimento in giro, i pellegrini. Sentite, ma mi portereste con voi?" "Se hai il denaro per il naviglio, volentieri". "Il denaro non ce l'ho, ma una volta a bordo sarò io il vostro naviglio, ah ah". Dice proprio così. Qualcuno dei marinai si allontana schifato, qualcun altro sorride magari perché l'ha riconosciuta: costei è Maria d'Egitto, non è una come tutte le altre. Lei, per dirla col poeta, lo faceva per passione:
Diciassette anni fui meritrice pubblica e sì disonesta e libidinosa che non m’inducea a ciò cupidità o necessità di guadagno, come suole addivenire a molte, ma solo cupidità di quella misera dilettazione; in tanto ch’io m’andava profferendo impudicamente e non volea altro prezzo da’ miei corruttori, reputandomi a prezzo e a soddisfazione solo la corruzione della lussuria: onde gli giuochi, l’ebrietadi, e altre cose lascive e induttive a quel peccato, io riputava guadagno; e spesse volte rinunziava al guadagno e ai doni per trovare più corruttori, sicché nullo si scusasse e lasciasse di peccare con meco per non avere che darmi; e questo non faceva io perch’io fossi ricca, ma avvegnach’io fossi indigente, sommo mio disiderio e diletto era stare in risi e in giuochi e in disonesti conviti e ‘n corruzione continova.
La vita di Maria d'Egitto ci arriva in tre versioni. La prima è di san Sofronio, patriarca di Gerusalemme tra sesto e settimo secolo, ed è forte il sospetto che se la sia inventata lui (e complimenti patriarca per la fervida fantasia). L'idea di un eremita che attraversa il deserto per incontrarne uno ancora più santo sembra ricalcata sulla storia dei santi Antonio e Paolo scritta da Girolamo (anche in quel caso i due si scambiavano il pallio). La seconda è un riassuntino di una nostra vecchia conoscenza, Jacopo di Varazze o Varagine. La terza versione è quella che sto citando, ed è già in volgare: avete notato come scorre bene, malgrado la patina medioevale? Perché è di Domenico Cavalca, un domenicano del Due-Trecento che scriveva benissimo. La vita di Maria Egiziaca è considerata il suo capolavoro: Gianfranco Contini la riporta nella sua antologia della Letteratura italiana delle origini, che è dove l'avete letta voi, popolo di laureati in lettere. Ma probabilmente non c'era bisogno di ricordarvelo, probabilmente di quel mattone è l'unica pagina che vi rammentavate, dopotutto Maria è la cosa più hard che succede nella letteratura italiana fino al Boccaccio. Per farla breve, Maria si mette in testa di pagarsi il viaggio in natura, ed è una di quelle situazioni in cui si dice che non conta la destinazione (il Santo Sepolcro de che?), ma come ci si arriva:
E per tutto quel viaggio la mia vita non fu altro se non ridere e dissolvermi in canti e in giuochi vani, e inebriarmi e fare avolterii e fornicazioni, ed altre cattive e laide cose e parole dire e fare, le quali tutte sufficientemente la lingua non può isprimere. E non mi ritraeva da tanti mali né paura di tempesta di mare, né vergogna della gente che v’era; ma era io sì sfrontata e lieve, che eziandio uomini gravi e onesti invitava a corruzione e facevagli cadere, sicchè veramente la mia fetidissima carne era esca del diavolo a tirare l’anime in abisso e in perdizione.
Mentre Maria viaggia nella turpitudine, anche noi ci facciamo un giro nelle fantasie erotiche di un patriarca del settimo secolo, felicemente riprese e rielaborate da un domenicano del quattordicesimo. L’abisso di perdizione è tale che la stessa Maria si domanda com’è possibile che il vascello non vi sia sprofondato, "inghiottimmi viva viva". Si vede, pensa Maria, che Dio voleva che arrivassimo sani e salvi a Gerusalemme, affinché potessimo pentirci. Nel frattempo chiudeva l’occhio sui gangbangisti in crociera – Dio senz’altro l’occhio lo chiudeva, ma Sofronio e Jacopo e Domenico sbirciavano; a maggior gloria di Dio, ma sbirciavano. Comunque in un modo o nell’altro la nave arriva in porto, e i passeggeri, esausti ma di ottimo umore, si incamminano per il Santo Sepolcro. Basta seguire la folla: vengono da tutto il mondo, il Cristianesimo è religione di Stato e l’Islam non è ancora stato inventato. Maria segue la corrente; ha ventinove anni, pratica il mestiere da diciassette. Ma cos’è dunque quella forza misteriosa che, giunta alla soglia della chiesa più sacra della cristianità, non la lascia passare? Maria non sa neanche bene dove si trova: sa solo che gli altri passano e lei resta bloccata fuori. Ci riprova. Niente da fare. Si mette davanti a un folto gruppo di pellegrini, “mi spingeranno loro”, pensa. Macché. C’è un esercito invisibile che fa quadrato alla porta e non lascia entrare solo lei, di tutti i pellegrini del mondo: solo lei.
E avvenendomi così più volte, e io pure volendomi mettere per entrare, stancai, sicch’io rimasi tutta rotta del corpo e dolorosa e afflitta dell’anima; e così piena d’amaritudine puosimi in un cantone molto istanca, e pensava piangendo per che cagione questo m’avvenisse. E aprendomi Iddio lo cuore, conobbi che per le mie sordide iniquitadi non permettea Iddio che io così immonda e iniqua entrassi nel suo tempio.
Disperata, Maria trova in quel cantone un’immagine della Madonna e si mette a pregare: fammi entrare tu, e prometto che con questa vita ho chiuso.

Di colpo la porta del Sepolcro si spalanca anche per lei: Maria corre a venerare la Santa Croce, e poi tutti i luoghi santi, finché tornando all’immagine della Madonna non sente forte e chiara una voce che le dice: “Passa il Giordano”.

Per strada un tizio le regala tre monetine con cui compra tre pani per il viaggio. Le basteranno per 47 anni, di cui i primi 17 veramente terribili, trascorsi a fuggire incessanti pensieri di tentazione, mentre i vestiti le marciscono addosso. In seguito – spiega a Zosimo – le cose erano andate meglio; ma insomma per tutto questo tempo Maria era vissuta in perfetta solitudine, senza incontrare nemmeno un animale.

Zosimo è sconvolto. Prima di conoscere la donna del deserto credeva di essere un santo, ma ora si rende conto che di fronte a un esempio del genere lui non è nulla: niente più che una comparsa in una leggenda di Santi altrui. La donna gli chiede di non dire nulla in giro, e di tornare di lì a un anno, per Pasqua: quindi scompare (con il suo pallio), prima che Zosimo possa chiederle come si chiama. Per tutto l’anno rimane con la curiosità, ma poi quando a Pasqua si rivedono (lei porta ancora il suo pallio) Zosimo le impartisce la comunione ma si dimentica di nuovo di chiederle il nome. Il terzo anno la trova morta, un mucchietto d’ossa nel suo pallio: in fondo aveva ottant’anni e il paradiso è sicuro, però Zosimo ci resta ugualmente male perché… non sa nemmeno come si chiama.

Ora forse è una suggestione, ma l’angoscia di Zosimo per il nome della santa, il desiderio di sapere mescolato alla repulsione a domandare, è un tratto che la letteratura successiva assegnerà spesso al fruitore che si innamora della meretrice. Per fortuna che Zosimo
vide a capo di questo corpo una scritta, che dicea: «Abate Zozima, seppellisci questo corpicello di me misera Maria, e òra per me a Dio, per lo cui comandamento del mese d’aprile passai di questa vita». Per la quale iscrittura Zozima conoscendo lo suo nome, lo quale infino allora non avea saputo, fu molto allegro; e computando bene lo tempo della sua morte, conobbe che incontanente ch’egli l’anno precedente l’ebbe comunicata al fiume Giordano, corse questa santissima al predetto luogo, dove giaceva morta.
Addio (e grazie per il pallio)
Ora si tratta di seppellirla, ma Zosimo non ha niente con sé. Fortuna che in quel momento appare un leone. Zosimo dapprima si spaventa, poi riflette: Maria è stata in questo deserto per cinquant’anni senza vedere una sola bestia, dunque questo leone è chiaramente un miracolo, magari se gli chiedo di darmi una zampa a scavare la fossa, lui collabora. Ovviamente è così. Fine della leggenda.

Perlomeno, a Sofronio e Jacopo e Domenico interessava arrivare qui. Ma io sono un uomo di un altro millennio, ho una scala di valori diversa, io la gente che va a digiunare per cinquant’anni nel deserto non la capisco, semplicemente: non riesco a vedere cosa ci sia di positivo in qualcuno che si tira fuori dalla mischia dell’umanità. Oso dire che se Maria ha fatto qualcosa di buono nella vita, secondo la mia scala di valori, ebbene forse lo ha fatto prima, per esempio, riavvolgiamo un attimo la videocassetta, torniamo al punto in cui il nastro è un po’ più liso.

Dunque, siamo su questa nave. C’è un sacco di gente triste, gente brutta, povera, che al sesso proprio non ci pensa. Non si fa, non si può, non ce lo si può permettere. Guarda il mozzo, è terrorizzato, probabilmente in cambusa si accettano scommesse sul primo marinaio ubriaco che lo sodomizzerà. Quand’ecco arriva Maria, e all’improvviso sono tutti più rilassati e contenti. A sodomizzare il mozzo non ci pensa più nessuno, a meno che non sia lui che prende l’iniziativa, in tal caso ok. E il viaggio passa così, le acque sono tranquille, Dio chiude l’occhio e li aspetta tutti a Gerusalemme per perdonarli, ci fu mai una crociera più felice? Senz’altro non fu il viaggio di ritorno.

Me li immagino, tutti contenti di tornare a casa belli purificati dal peccato, compresa Maria… no, Maria non c’è. Dov’è? Non si trova. Ah, peccato. Però. Mandiamo qualcuno a cercarla? È già partito il mozzo. Volevo ben dire. Ma è appena tornato! Cosa dice? Che l’hanno vista sconvolta, fuori dal Sepolcro, diceva che voleva cambiar vita. Un vecchio gli ha venduto tre pani e gli ha mostrato la via per il Giordano. Il Giordano? Ahi! Perché, che roba è questo Giordano? È un fiume, un fiume della Bibbia. Dall’altra parte ci stanno gli eremiti del deserto, quelli che non mangiano e non bevono e non fanno all’amore. Ah. E quindi? E quindi niente, si vede che Maria ha deciso così, buon per lei, no? Ed è meglio anche per noi, niente niente che in mezzo al mare ci venisse l’uzzo di risporcarci l’anima, andava a finire che eravamo andati fino a Gerusalemme per niente. Giusto, con quel che costano i viaggi per mare. Quindi partiamo, no? Sì, partiamo.

“Certo che però Maria…”
“Cosa vuoi farci, la santità è così. Una voce che ti chiama e tu vai”.
“Sì, però… un po’ egoista, no? Lei sente la voce… e noi?”
“E noi cosa?”
“No, dico, noi”.
“Noi ce ne torniamo belli puliti a casa nostra, meglio così no?”
“Già”.
“Ma senti, hai visto il mozzo in giro?”
“È in cambusa”.
“Grazie”
“Ma devi metterti in fila, comincia dietro il cassero di prua”.
“Grazie ancora”.
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La beata che sfidava i nazisti (a crocefissi?)

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"Tu sei il Male, io sono l'Anestesista"
30 marzo - Beata Restituta Kafka (Brno 1890 - Vienna 1943), martire antinazista

[2012] Uno potrebbe anche pensare che i tempi ruggenti dell'agiografia siano finiti per sempre - quei secoli, hai presente, in cui c'eri solo tu, in un monastero perso nel nulla, con un po' d'inchiostro e della vecchia cartapecora raschiata, e ti chiedevano: "Oggi è Sant'Albano d'Ungheria, dai raccontaci la storia di Sant'Albano d'Ungheria". "Ma io mica la so, manco so cosa sia, l'Ungheria". "E inventa". Al limite si poteva sempre scrivere: martire sotto Diocleziano (Diocleziano andava sempre bene, Diocleziano li aveva fatti fuori tutti, Diocleziano pasteggiava a carne di martiri e brindava a sangue di vergini, Diocleziano probabilmente in certi eremi andava forte anche come criptobestemmia: ma Dio cleziano! Quel porco! E il priore non poteva dirti nulla).

Ma oggi che ci sono biblioteche in ogni piazza, google in ogni tasca, oggi non puoi più inventarti niente, o no? Per esempio il 30 marzo si celebra tra le altre la memoria di una Beata novecentesca, Maria Restituta. Su di lei ci sarà ben poco da inventare, penserai. In effetti ci sono i documenti. Sappiamo che è nata Helen Kafka, nel 1890 a Brno, prima impero Austro-Ungarico, poi Cecoslovacchia, poi Protettorato di Boemia e Moravia sotto il Terzo Reich, poi di nuovo Cecoslovacchia, oggi Rep. Ceca. Che prese i voti nell'ordine delle francescane della Carità, diventando suor Maria Restituta (detta "Resoluta" per i modi spicci) e che si distinse per la dedizione e la professionalità con cui esercitò la professione di infermiera e anestesista. Sappiamo che è morta a Vienna nel 1943, decapitata dai nazisti per alto tradimento. L'ha beatificata Giovanni Paolo II nel 1998, che l'unica suora decollata dai nazisti non poteva proprio perdersela. E tutto questo è Storia, voglio dire, abbiamo pure le foto. Non ci puoi ricamare, su Helen Kafka: con tutte le monografie che si saranno su di lei, nelle biblioteche, su internet, insomma, se improvvisi ti sgamano. O no?

Ecco, no.

Una delle cose fantastiche che scopri studiando i santi è che il medioevo, quello fiabesco delle leggende dipinte sulle vetrate, è a portata di clic. Me ne stavo infatti leggendo la scheda di Famiglia Cristiana, quando mi capita di inciampare sulle ultime due righe. Leggi anche tu:
E in faccia agli assassini, prima che il carnefice alzi la mannaia, suor Restituta dice al cappellano: "Padre, mi faccia sulla fronte il segno della Croce".
Tutto abbastanza verosimile tranne... la mannaia? Va bene, lo abbiamo visto, dei nazisti si può raccontare tutto e nessuno si lamenterà - i nazisti sono un po' il nostro Diocleziano moderno. Ma ce le vedete le SS che tagliano la testa di una suora con la mannaia? Non suona un po' anacronistico? In effetti basta sfogliare un po' di Internet in altre lingue per rendersi conto che suo Maria fu decapitata, sì, ma mediante ghigliottina: il vecchio trabiccolo illuminista con cui i nazisti a Vienna avevano sostituito la tradizionale forca austriaca così tristemente nota ai nostri patrioti. E la mannaia? Un ricamo di Famiglia Cristiana. Uno solo? Vien voglia di dare un'occhiata più da vicino.

Visito quattro o cinque biografie in inglese, francese e tedesco (quelle in tedesco non le leggo, guardo solo le parole, al liceo a volte funzionava). Sono tutte molto brevi – in effetti cosa ti aspetti dalla vita di un’anestesista, ancorché provetta? Riprendo in mano la scheda di FamigliaC. Mi cade l’occhio su queste altre due righe:
E quando i nazisti tolgono il Crocifisso anche dagli ospedali, lei tranquillamente lo va a rimettere, a testa alta, sfidando comandi e comandanti.

Ecco, magari sarà una coincidenza, ma questa notizia del crocefisso (nemmeno inverosimile) l’ho trovata solo nelle biografie italiane. Da qualche parte ho letto che suor Restituta riuscì a ottenere che fosse esposto il crocefisso nell’ala nuova di un ospedale, appena costruita, dove le autorità naziste non lo avevano previsto. Tutto lì. Solo su Famiglia Cristiana l’esposizione del crocefisso diventa una sfida “a testa alta”, peraltro l’unica sfida esplicita tra la suora e i nazisti: sicché al lettore vien fatto di pensare che la suora sia caduta in disgrazia perché continuava a rimettere i crocefissi dove i nazisti li toglievano. E invece no, mi è parso di capire che l’accusa vertesse su due documenti critici nei confronti del Reich, scritti dalla suora stessa: la wikipedia francese li chiama “poemi satirici”, ma non sono riuscito a leggerli.

La controversa scultura si trova nella cattedra di Santo Stefano a Vienna. È opera del celebre scultore austriaco Alfred Hrdlicka, che in precedenza aveva prodotto (sempre per la cattedrale) un’ultima cena in forma di orgia gay (l’ho letta sul Telegraph).

Però, insomma, la suora scriveva. Criticava il nazismo in forma scritta. È una notizia che Famiglia Cristiana non dà. L’unica forma esplicita di critica al nazismo che interessa a Famiglia Cristiana è la lotta per rimettere al loro posto i crocefissi. Ripeto: è un’informazione che ho trovato solo lì e in un’altra breve scheda biografica in italiano, sempre pubblicata in Santiebeati.it, che sembra per molti versi debitrice di quella di Famiglia Cristiana. Guarda per esempio come il tema del crocefisso viene sottoposto a un’ulteriore rielaborazione, un’ulteriore ricamatura:

Il crocifisso nelle stanze e nelle corsie dell’ospedale diventa invece quasi una questione personale: Suor Restituta, risoluta come sempre, si prende l’incarico di personalmente andare a rimpiazzarli là dove sono stati tolti: sa di rischiare parecchio con quel suo gesto provocatorio, ma intanto più crocifissi vengono eliminati e più lei ne risistema.

Non era la musona che tutti credono
Un’infaticabile risistematrice di Crocefissi, questa è suor Maria Restituta per i moderni agiografi italiani. Niente scritti, niente pagine critiche o satiriche sul nazismo, si sa che il cattolicesimo è un po’ refrattario alla scrittura. Ma tante opere di bene, e tra tutte la più importante è continuare ad appendere il crocefisso ogni volta che la turpe SS lo stacca. E mentre scrivo ho già in mente la vetrata in tre vignette: nella prima l’orribile camicia bruna, pallida in volto, incerto su una scala a pioli, stacca il pregevole manufatto ligneo, mentre su tre letti bianchi tre malati di tre colori diversi lo guardano rassegnati. Nel secondo non c’è più la scala: il nazista è al centro della scena, paonazzo in volto, le mani ai capelli biondicci, perché ha visto che sul muro c’è di nuovo il crocefisso! Miracolo! I tre malati sono in piedi sul letto che esultano in pigiama. In un angolino del vetro, racchiusa in un medaglione, Maria Restituta sorride sorniona. Nel terzo riquadro, va da sé, Maria Restituta posa la testa sul ceppo, mentre il diabolico doktor Mengele alza la mannaia. Che serva da monito per tutti quelli che a Strasburgo o altrove vogliono staccare crocefissi dalle pareti pubbliche: tutti nazisti, se non si era capito. O non si era capito? E vabbe’, ma a voialtri vi dobbiamo proprio disegnare le figure.
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Con questa lancia vincerai, o no?

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15 marzo – San Longino trafiggitore di Gesù e martire (I sec.)

Rubens (a volte un po' caotico, devo dire)
[2012]. Stasera parliamo un po’ di Hitler. Prima o poi sarebbe successo, nessuna conversazione su Internet può farne a meno a lungo. È un principio noto come legge di Godwin, dal primo internauta che la formulò: essa afferma più o meno che, col proseguire di una conversazione, la possibilità di mettersi a parlare di Hitler o dei nazisti si allontana da 0 e si avvicina a 1. In realtà questo si potrebbe dire per qualunque cosa, non so, le zucchine: se conversiamo all’infinito, prima o poi ne parleremo. La differenza tra Hitler e le zucchine è che queste ultime non mandano necessariamente in vacca la discussione. Hitler sì, quasi sempre. Uno dei corollari della legge di Godwin era: quando su un forum cominciano a paragonare qualcuno a Hitler, scappate! Tutto quello che di intelligente e originale si poteva dire è già stato detto. (Non potete dire che non vi si è avvertiti).

Una delle difficoltà con Hitler è che non importa quanto il nostro sistema di valori possa essere complesso, stratificato, relativista: siamo comunque tenuti a considerare H. il Male Assoluto (un’espressione che, non esistesse lui, nessuno probabilmente riuscirebbe a pronunciare con serietà da un pezzo; e invece riuscì a farlo perfino Gianfranco Fini). Se non lo facciamo, se ci permettiamo dei distinguo anche piccolini, veniamo subito relegati nell’angolo dei disadattati, tra i nostalgici, i mistici e gli sciachimisti. È una specie di deità al contrario, siamo tutti tenuti non a inchinarci ma a calpestarlo un po’. È un anti-tabù: non solo se ne può parlare, ma prima o poi siamo come costretti a farlo, a sproposito, con qualsiasi sciocchezza ci venga in mente, perché – questo è un ulteriore problema – su Hitler si può dire e scrivere veramente qualsiasi cosa: nessun erede protesterà. E quindi le abbiamo sentite tutte: Hitler pagano, Hitler indù, Hitler iniziato a questo o quel mistero, Hitler ovviamente satanico, Hitler ebreo (non proprio fiero di esserlo), Hitler che crede nella terra cava (ma Von Braun evidentemente no, se riesce a calcolare le traiettorie per far cadere i razzi V2 a Londra), Hitler che vuole prosciugare il mediterraneo per coltivarci il grano (progetto delirante che qualcuno in Germania effettivamente concepì, ma H. rimase scettico), Hitler ufologo, Hitler antartico, Hitler qualunque cosa, purché strana, esotica, fuori dal normale. Perché c’è una sola cosa che potrebbe essere peggio di Hitler.

Tra i tanti misteri: ma come faceva a torcere il polso così?
Io non ci riesco.

Un Hitler banale. Un Hitler prosaico, un Hitler che frequenta maghi e guaritori perché è semplicemente superstizioso come tanti dittatori, un Hitler che accoglie certe sparate paganeggianti di Himmler con scetticismo; un Hitler senza fantasia, che perseguita teosofi e rosacroce; o peggio ancora, un Hitler cristiano, con tutto l’imbarazzo che ce ne deriva. E allora si fa finta di non sapere che sì, il tizio adorava Wagner come tanti tedeschi e austriaci della sua generazione, ma che si trattava di ammirazione artistica, non teologale; tutt’altro che entusiasta all’idea di ripristinare un Walhalla tramontato da un pezzo. “Mi sembra che niente potrebbe essere tanto stupido quanto ristabilire il culto di Wotan. La nostra mitologia antica ha smesso di essere realmente praticabile fin da quando il Cristianesimo si è impiantato. Niente muore, a meno che non sia già moribondo“. Si dà credito alle figure di contorno che si ingegnavano a vedere in Hitler un nuovo Buddha, un nuovo Sigfrido, fingendo di non vedere che le uniche reliquie che gli interessavano davvero (il Sacro Graal, i gioielli della corona del Sacro Romano Impero, la Santa Lancia) erano tutte dannatamente cristiane. Certo, di un cristianesimo medievale, da ciclo bretone, più Artù che Gesù.

Ok, magari non esisto,
ma ho una statua di Bernini grossa così
nel mezzo di San Pietro,
e salutatemi San Maurizio.
Ma è pur sempre oggettistica cristiana: prendi la Lancia, la reliquia più sacra su cui riuscì a effettivamente a mettere le mani. È l’arma che avrebbe trafitto il costato di Cristo facendone sortire sangue e acqua (Gv 19,34). Il soldato che trafigge Gesù era venuto in realtà a spezzargli le gambe, con quei modi carini che avevano i legionari per accorciare le sofferenze a condannati che, abbiamo visto, avrebbero potuto agonizzare per giorni e giorni. Il soldato però a Gesù le gambe non le spezza, e questo poteva insospettire il lettore: per Giovanni, testimone oculare, era cruciale provare che Gesù fosse stato schiodato dalla croce e riposto nel sepolcro da morto. La lancia nel costato chiude la discussione.

Nei secoli successivi l’arma e il suo portatore, battezzato “Longino” (il nome, se deriva dalla lancia stessa, è evidentemente più tardo) assumeranno un potere taumaturgico: nel fertile periodo in cui tutte le comparse dei Vangeli divennero protagonisti di immaginosi spin-off, Longino si ritrovò convertito al cristianesimo, taumaturgo e martire in Cappadocia (non prima di aver raccolto una fiala del Sangue di Gesù, che però sta a Mantova). Addirittura qualcuno lo vuole cieco, un centurione cieco a cui danno l’ordine di spezzare le gambe a tre crocefissi, che ritrova la vista grazie a una salutare spruzzata del sangue di Gesù, certo, perché no.

Comunque il ragionamento di fondo era questo: se dalla ferita di Gesù non era uscito pus, la Sacra Lancia aveva il potere di scongiurare infezioni e cancrene. Forse. Chi siamo poi noi per giudicare, qualcuno ha avuto una cancrena qui? Secondo me quando rischi una cancrena le provi tutte. Compresa la lancia che trafisse Gesù – ce n’erano quattro in circolazione: una ad Antiochia, la vera prima capitale del cristianesimo: oggi si trova a Echmiadzin, in Armenia. Un’altra a Roma – dono al Papa di un sultano, pensate, che l’aveva trovata nel bottino dell’assedio di Costantinopoli e non sapeva cosa farsene. Un’altra a Parigi, souvenir delle crociate di San Luigi IX re, un frescone da antologia che si sarebbe comprato anche la fontana di Trevi, se l’avessero già scolpita: di questa si sono perse le tracce durante la Rivoluzione Francese. Il doppione parigino non creava ai romani nessun imbarazzo, si sa come va con le reliquie: le Sacre Lance e le Vere Croci si smontano, si spezzettano, si grattugiano, da una sola lancia se ne possono creare due o persino tre. La terza lancia era in Germania. E all’inizio non era nemmeno la lancia di Longino; all’inizio era stata ceduta come lancia di San Maurizio, un altro soldato convertito al cristianesimo (un generale, in verità) che rifiutandosi di condurre operazioni di rappresaglia su villaggi cristiani era stato dal solito Diocleziano condannato a morte con tutta la sua legione, tutta convertita al cristianesimo: seimila martiri. La storia era poco credibile già nell’Alto Medioevo, ma Sankt Moritz divenne il pallino dei cavalieri tedeschi, finché Enrico I l’Uccellatore non regalò un intero cantone svizzero a un’abbazia in cambio della lancia, che prima sarebbe passata per le mani di Carlo Magno e Costantino. A noi Enrico I dice poco, ma è il fondatore della dinastia sassone che avrebbe di lì a poco rifondato di nuovo l’Impero Romano, però anche Sacro (come quello di Carlomagno) però anche Germanico: il primo Reich. Himmler si considerava una sua reincarnazione, forse.


Se la trova lui, è la lancia giusta.
Col tempo il culto di Maurizio deve appannarsi un po’, tanto che si rende necessario accessoriare la reliquia con un gadget di quelli che fanno veramente la differenza: un Sacro Chiodo della Vera Croce. Da lì in poi, intorno alla lancia comincia a crearsi un alone di invincibilità: è la Lancia del Destino, è l’arma che rende invulnerabili, eccetera eccetera. I re cristiani ne vogliono tutti almeno una copia con almeno un po’ di limatura del sacro chiodo, ma Ottone III accontenta solo quelli di Polonia e Ungheria, gli altri nisba. Ormai si è capito che le reliquie funzionano come le scope di Topolino Apprendista Stregone: ti basta coltivare una scheggia della Vera Croce e dopo un po’ hai una foresta di Vere Croci rigogliose di Veri Chiodi, e la gente ci credeva? La gente rischiava le cancrene, io se rischiassi in una cancrena toccherei qualsiasi cosa.

A un certo punto, non oltre il XIV secolo, qualcuno comincia a confonderla con la Lancia di Longino, e l’equivoco fa evidentemente comodo a tutto un indotto turistico e socio-assistenziale, nonché al prestigio dei Sacri Romani Imperatori, che tra una rissa feudale e l’altra ne avevano un disperato bisogno. Seguono riforme e controriforme, defenestrazioni e guerre dei Trent’anni: la lancia segue le alterne vicende dell’impero sempre meno sacro e sempre più asburgico, finché non si ritrova in un Museo di Vienna, dove il giovane Adolf la vede in una teca e ne trae una fortissima emozione: sono questi i dettagli che ti fanno capire che se invece di diventare adulto in una trincea durante la più orribile e insensata carneficina, il tizio fosse venuto al mondo due o tre decenni dopo, oggi i suoi massacri li farebbe su World of Warcrafts, il Mein Kampf avrebbe un altro titolo e si scaricherebbe gratis da un forum di fanfiction fantasy. Invece lo ritroviamo spiantato a Monaco di Baviera nel dopoguerra più difficile, con gli spartachisti che prendono il potere e lo perdono; chiede di riprendere servizio nell’esercito (proprio lui che anni prima aveva lasciato l’Austria per evitare la leva); gli propongono di infiltrarsi in un partitino equivoco, gente mattoide un po’ nazionalista un po’ socialista, tra i quali si mimetizza benissimo. Dopotutto potevano capitargli missioni peggiori, il partitino si riunisce perlopiù in birreria. Certo, bisogna essere pazienti, ascoltare lunghi e vani discorsi sulla superiorità del popolo tedesco, la riscossa dell’anima tedesca eccetera. Presto o tardi si ritrova a parlare pure lui.

Qui succede qualcosa di cruciale: Hitler scopre di essere un bravo oratore. Quando parla la gente tace e lo fissa, la gente in quello che lui dice ci crede, un buon motivo per crederci sul serio anche lui. Da lì a convincersi di avere una sacra missione il passo è breve, perché Hitler in fin dei conti non era né pagano né indù né iniziato né buddista e nemmeno così tanto cristiano: Hitler era per prima cosa hitleriano, tanto quanto Mussolini era mussoliniano, Stalin stalinista eccetera. Quando cominci a pensare di essere stato chiamato a un sacro compito che riscatti la mediocrità della tua giovinezza stracciona, quando ti alzi convinto che la Storia ruoti attorno a te, perno vivente, è chiaro che sei portato a idealizzare tutto quello che ti è successo in gioventù: così quando dopo mille peripezie H. arriva al potere e annette l’Austria, la Lancia che lo aveva affascinato in gioventù viene immediatamente requisita e trasferita a Norimberga, centro mistico del Reich. Ottenuta l’invulnerabilità, Hitler può dedicarsi all’obiettivo primario: la conquista del mondo. Se proponessi una trama del genere a un editore di fumetti mi riderebbe in faccia.

Comunque la lancia di Vienna è questa.
L’oro è stato aggiunto per saldare una frattura.
E invece è la trama del mondo in cui viviamo (Dio è un fumettista scarso?) Quando le cose cominciano a mettersi male per il Reich, la Sacra Lancia viene spostata in un rifugio segreto, e gli Alleati cominciano a cercarla. Ho letto in vari siti che Churchill in persona parlasse del ritrovamento della Lancia come di una “importante necessità strategica”, ma è un dettaglio poco credibile. La Lancia è semplicemente parte di quel bottino che i nazisti stanno nascondendo dappertutto, e su cui inglesi russi e americani sono ansiosi di mettere le mani. A ritrovarla in un sotterraneo di Norimberga, con tutte le insegne imperiali, è Walter Hill: un medievalista che aveva lasciato la Germania nazista e ci era tornato come tenente dell’esercito USA, inquadrato in quella squadra di cercatori di tesori a cui George Clooney ha dedicato un brutto film. Nel gennaio del 1946 la Lancia torna a Vienna, ed è ancora là. Naturalmente c’è chi dice che no, non è vero, gli americani se la sono tenuta ed è il motivo per cui adesso sono invulnerabili. Oppure al sicuro in una fortezza antartica, dove Hitler riposa cullato dai cloni di Eva Braun in attesa di tornare più bello e più forte. Se proprio viviamo in un fumetto scadente, perché non decorarlo con fortezze tra i ghiacci e bei principi addormentati.

Dico la mia. Hitler era uno psicopatico soggetto a deliri di onnipotenza? Probabilmente. Questo non vuol dire che credesse davvero a qualsiasi puttanata. Cercava il Sacro Graal? Cercava la Sacra Lancia? Può darsi che ci credesse davvero, tutti i tiranni hanno le loro scaramanzie e le loro fissazioni, e i paranoici non fanno senz’altro eccezione, anzi. Ma può anche darsi di no, può anche darsi che quegli oggetti li collezionasse per altri scopi. Il più banale: propaganda. Il Reich aveva bisogno di simboli, e Hitler si stava adoperando a cercarli. Più nel medioevo cristiano che nel Tibet buddista, senza dubbio. Magari riteneva davvero che la lancia potesse portargli fortuna. Ma l’essenziale è che ci credessero i tedeschi. Da loro sì, ci si aspettava una fede cieca e sorda a obiezioni, come ad esempio: ma cosa vuol dire invulnerabile? Ma vi ricordate un solo imperatore tedesco invulnerabile, uno che sia riuscito a farsi rispettare veramente da conti e duchi e baroni tedeschi e comuni italiani e protestanti luterani e tutto il resto? E i mongoli che premono, i turchi che incalzano? Gli svizzeri che si vendono al miglior offerente? I praghesi che defenestrano? I francesi che s’incazzano? Ma perfino gli svedesi, cioè l’impero germanico è quel posto dove nel Seicento pure gli svedesi venivano a fare i grandi condottieri. L’unico vero momento di autentica gloria militare dell’esercito tedesco comincia col regno di Prussia e prosegue col secondo Reich… salvo che i prussiani la Lancia non l’hanno mai avuta e nemmeno ci tenevano, a quelle romanticherie cattomedievali. Erano gente razionale, s’intrattenevano con Voltaire e con Kant. A quel tempo la Lancia l’avevano gli austriaci, esatto, l’impero che perse i pezzi per tutto l’Ottocento. E io forse sono un po’ italiano e votato alla misurazione del bicchiere mezzo vuoto, ma a me la storia della lancia suggerisce l’esatto contrario, ovvero: non è che il ferro che osò trafiggere il Sacro Costato… non porti un po’ sfiga? Gli austriaci sono l’unico impero che ha perso guerre perfino con gli italiani. Non è che le truppe di Hitler avrebbero marciato più spedite senza? In tal caso ci toccherebbe paradossalmente ringraziare la Lancia del Destino, che forse non è mai stata in mano né a Longino né a Maurizio, e probabilmente non ha mai reso invulnerabile nessuno; e meno male.
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Rinnega Cristo (e fatti un bagno caldo)

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9 marzo – Quaranta santi martiri di Sebastea (320 ca.)


È anche il nome di una porta monumentale
di Treviso (e di una casa editrice lì nei pressi).
[2014] Erano quaranta, giovani e forti (meno uno). Militavano tutti nella Legione XII, fondata da Giulio Cesare, detta anche “Fulminata” per la folgore che portava sui propri vessilli, duemila anni in anticipo su qualsiasi brigata di paracadutisti. La legione nel corso dei secoli si era coperta di gloria ma anche un po’ di guano: durante alcune guerre di successione aveva scommesso sul Cesare sbagliato, e così era finita tra le truppe di frontiera, dislocata sul fronte orientale. La tipica destinazione punitiva da usare nelle minacce in caserma: se non fate silenzio vi spedisco nella Fulminata. Verso il 320 si trovavano appunto dalle parti di Sebastea (oggi Sivas, in Turchia centrale, a quel tempo Armenia), una delle zone di incubazione del primo cristianesimo. Basilio Magno, vescovo di Cesarea, ci racconta di come quaranta legionari fulminati venissero tratti in arresto con l’accusa di professare questa religione empia e sgradita all’imperatore d’oriente Licinio. Basilio scrive mezzo secolo dopo e ci lascia perplessi, visto che nel 320 Licinio aveva già da qualche anno controfirmato col cognato Costantino quel famoso editto di Milano che garantiva ai cristiani la libertà religiosa.

C’è un accappatoio azzurro.
Fuori piove un mondo freddo.
Sia come sia, i Quaranta vengono messi di fronte a una scelta secca: rinnegare la loro fede o morire. La solita storia, insomma, riscattata però dall’originalità del supplizio: ai Quaranta viene proposto il martirio per ipotermia, mediante immersione fino al collo nelle acque gelide di uno stagno. È una morte orribile ma abbastanza lenta, che offre discreti margini di riflessione: a chi durante il supplizio manifesta il desiderio di rinnegare il proprio dio, viene promesso un bagno caldo. Lo stagno è effettivamente contiguo a uno stabilimento termale romano provvisto di tutti i comfort, un fumante invito a rinunciare Cristo e farsi una bella sauna tonificante.

Prima dell’esecuzione, i Quaranta hanno il tempo per dettare le ultime volontà al più letterato di loro, tale Melezio: un accorato invito ai confratelli cristiani a non rinnegare, a non disperdersi, a seguire il loro coraggioso esempio. La lettera contiene una richiesta di essere sepolti in una tomba collettiva, che fu prontamente disattesa: i loro resti furono bruciati e le ceneri sparse al vento, forse nel tentativo (vano) di sventare il merchandising delle reliquie. Una volta immersi nello stagno, i 40 si dimostrano compatti e disciplinati soldati di Cristo, morendo assiderati senza esitazione, tutti.

Tutti tranne Melezio: Basilio ci informa che l’unico a tradire e chiedere a gran voce il bagno caldo fu proprio il letterato, che figura. Il suo posto fu immediatamente preso da un custode delle terme, commosso dal coraggio dei 39: gridando “sono cristiano anch’io!”, si tuffò nello stagno, permettendoci di ripristinare il numero tondo. Melezio invece si fece il bagno caldo e… morì immediatamente, ancora prima degli altri, proprio a causa dello sbalzo di temperatura. Ben gli sta. Ma perché doveva essere proprio il letterato a cedere? Perché a chi ha la pazienza di scrivere non deve essere concesso il coraggio di resistere sulle proprie posizioni?

Santiquaranta è anche il nome italiano di Sarandë, ridente località portuale albanese,
dal 1940 al 1944 nota anche come Porto Edda (sì, Edda Mussolini in Ciano).
Potrebbe trattarsi di un’antica manifestazione di diffidenza per scribi e intellettuali, comune non solo agli agiografi cristiani. Salvo che la leggenda ci è stata tramandata proprio da intellettuali scribacchini. Basilio Magno, Efrem il Siro, Gregorio di Nissa, Gaudenzio di Brescia, è come se ci dicessero: non fidatevi troppo di noi, noi siamo solo un medium, non il messaggio. Scrivere storie coraggiose non è necessariamente coraggioso. Un conto è scrivere, un conto è vivere, un conto è morire. Puoi scrivere di morte tutti i giorni della tua vita: il giorno che arriverà ti farà ugualmente paura, come se non l’avessi mai vista in vita tua. Non importa quanto tu ne abbia sentito parlare, fin da quando eri bambino: la morte è una sconosciuta che ti lascerà senza fiato e senza un discorso scritto. Sarebbe bello riuscire a prepararsi un’uscita dignitosa, qualche frase di circostanza: e invece chissà come ti comporterai in quel momento. Piangerai, scapperai, chiederai un bagno caldo; e dire che fino a un attimo fa sembravi un uomo.
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Faustino e Giovita, la strana coppia

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15 febbraio – San Faustino, patrono di Brescia e dei single; San Giovita, patrono soltanto di Brescia (II sec.)

Faustino e Giovita nella Pala della mercanzia
di Vincenzo Foppo. Giovita è il biondo ricciolino.
[2014]. Insomma, come siano davvero andate le cose con San Valentino e la festa degli innamorati non lo sapremo mai. Ogni tentativo di capire dove nasca il popolare abbinamento si scontra con un muro di omertà e una cascata di storielle messe in giro secoli dopo per giustificare una festa che esisteva già. Colpa dei secoli bui? No. Pensate che succede la stessa cosa con la “festa dei single”, una celebrazione postmoderna nata negli anni ’00, e quindi più giovane di voi che leggete e di me che scrivo. A inventarsi un San Faustino patrono dei single potrebbe essere stata nel 2001 la redazione di un sito internet che si chiama vitadasingle punto net: purtroppo la fonte di questa affermazione è vitadasingle punto net, per cui qualche dubbio rimane.

E dire che abbiamo Google – ma cosa può il più potente dei motori di ricerca contro una diceria popolar-commerciale? Troveremo centinaia di articoletti che copiano e incollano la stessa pubblicità di un ristorante che organizza una serata speciale tutto compreso a 69 euro con ricchi premi e cotillons e una sorpresa per lei. Appare abbastanza ovvio che la Chiesa cattolica almeno stavolta non c’entri: e tuttavia non mancano i tentativi di elaborare una mitologia che colleghi il martire patrono di Brescia con gli infelici in amore. Scopriamo così su sapere.it, che “Secondo la tradizione [quale?] San Faustino dava opportunità alle giovani fanciulle di incontrare il loro futuro ‘moroso'”. Lo stesso pettegolezzo, ricorderete, è stato messo in giro sul conto di Valentino; pare che il ruffiano sia il patrono ideale sia per chi ha il moroso sia per chi lo cerca. Un altro tentativo passa per quello che i tedeschi chiamano Volksetymologie, l’etimologia “del popolo”: quando il volgo non conosce la storia di una parola, se la inventa, improvvisando con le sillabe e i sinonimi. Faustino sarebbe diventato il protettore dei single in virtù della sua radice, Faustus: favorevole, prospero, fortunato.

L’intervento dei santi patroni Faustino e Giovita sulle mura di Brescia nel 1438, un pastrocchio del giovane Giandomenico Tiepolo, figlio del più noto Giambattista.

I single hanno senz’altro bisogno di fortuna, come tutti. Ma Faustino è semplicemente il primo nome che un tizio ha trovato sul calendario nella casella del 15 febbraio. Il primo. Non si è neanche sforzato di leggere un po’ più in là; sennò avrebbe scoperto che proprio il Faustino di Brescia è uno dei santi meno single di tutto il calendario: uno dei pochi che non resta da solo mai, né nelle apparizioni né nella giaculatorie. Ovunque ci sia Faustino, lì nei pressi c’è sempre anche Giovita, il suo partner di lavoro e di martirio. Il patrono dei single è un tizio che fa coppia fissa con un altro da… diciannove secoli, un commendevole esempio di fedeltà.

Ogni città ha i dioscuri che merita.
Non solo. Giovita è un personaggio un po’ ambiguo. Non siamo del tutto sicuri riguardo la sua sessualità. La tradizione ufficiale lo vuole soldato inquadrato nel corpo dei cavalieri, come il collega; probabilmente è più giovane, perché quando Faustino viene ordinato presbitero (=prete), Giovita deve accontentarsi del grado subordinato di diacono. Gran parte dell’ambiguità dipende dal nome, Iovita, che forse deriva da Iovis, Giove… ma è della prima declinazione, insomma, finisce in a. Siamo sicuri che sia un nome maschile? No, non ne siamo sicuri sicuri. Tant’è che c’è un doppione, Iovinus, quest’ultimo sicuramente maschile. In altre lingue Iovita diventa un nome femminile: Jowita in polacco, Jovita in spagnolo (ha anche una forma maschile, Jovito). In italiano Giovita è maschile, ma ogni tanto ci si imbatte in qualche curiosa eccezione: per dire, il sito santiebeati.org (che raccoglie acriticamente tutte le informazioni reperibili in rete e sulla pubblicistica cattolica) accanto alla scheda standard sui SS. Faustino e Giovita, ne ha anche una brevissima su una “Santa Giovita” che sarebbe stata “martirizzata con il fratello Faustino, durante l’impero di Adriano, coopatrona di Brescia”. Va da sé che una Santa Faustina non sarebbe potuta essere né cavaliere né diacono. Forse per tentare di conciliare le due versioni, i pittori rappresentano il partner di Faustino nel modo più androgino possibile: capelli lunghi, magari un po’ ricci, biondi, lineamenti dolci, ampie tuniche che vanno bene in tutti i casi. Quando al tramonto del medioevo i due protettori diventeranno i due eroi guerrieri e salvatori della città, Giovita indosserà un’armatura più aggraziata di quella del capo.

I Super Pietro e Paolo secondo Raffaello.
In effetti, l’ultima volta che li hanno visti assieme, Faustino e Giovina si trovavano sulle mura orientali della città, a difenderla armati contro l’ultimo assalto dei mercenari milanesi al soldo degli Sforza, il 13 dicembre del 1438. Un’apparizione nell’antico stile dei dioscuri, i due mitologici gemelli venerati dapprima a Sparta, che occasionalmente difendevano dagli aggressori apparendo sempre in coppia: anche a Roma erano molto adorati, dopo aver salvato il culo alla cavalleria nella battaglia del Lago Regillo. Trionfatore grazie a loro di una battaglia che aveva già visto persa, il dittatore Postumio aveva voluto sdebitarsi dedicando ai Gemelli un tempio nel Foro romano. Nell’Urbe i dioscuri si ibridano con altre coppie illustri: Romolo e Remo, e più tardi Pietro e Paolo. Sì, anche il pescatore e il confezionatore di tende potevano diventare due guerrieri all’occorrenza: due supereroi con ali di colomba, che brandiscono spadoni dall’alto e scortano, per esempio, papa Leone che va a incontrare Attila nell’affresco di Raffaello nella stanza di Eliodoro.

Di eculei c’erano tanti modelli diversi;
questo è quello che stirò Santa Restituta.
L’apparizione di Faustino e Giovita sulle mura di Brescia è di ottant’anni prima, ma ha un simile sapore classicista. Nella leggenda originale Faustino e Giovita non combattono mai: si permettono soltanto qualche atto di vandalismo ai danni di una statua pagana. L’imperatore Adriano, che passava giusto da Brescia in quei giorni, li avrebbe quindi condannati a essere sbranati dai leoni nell’anfiteatro, nella zona dove poi avrebbe preso forma piazza della Loggia (ma c’è chi preferisce localizzarlo intorno a corso Magenta). In ogni caso i leoni corrono ad accovacciarsi in grembo alla strana coppia, causando il solito boom di conversioni in città. Adriano, il principe più raffinato e pacifico del secolo d’argento, avrebbe ordinato allora di scorticarli e bruciarli vivi: ma i due risultano ignifughi. A questo punto i torturatori sembrano prenderci gusto più ancora dei cristiani, lanciando Faustino e Giovita in una vera e propria tournée: a Milano resistono gloriosamente all’orribile supplizio dell’eculeo; a Roma, nell’anfiteatro più grande del mondo, rifanno il numero dei leoni accovacciati. Nel golfo di Napoli li disperdono su una barchetta per ritrovarli sospinti a riva dagli angeli. Ricondotti a Brescia, Faustino e l’amico/a Giovita vengono finalmente decapitati fuori porta Matolfa. Il loro culto diventa importante in città nel periodo longobardo, per decadere nei secoli successivi, finché l’apparizione del 1438 non riporta in auge i due inseparabili eroi. Faustino e Giovita avrebbero qualche titolo per ambire al patronato delle unioni civili. Ma ormai è troppo tardi, Faustino ha vinto alla lotteria questo assurdo patronato dei single, e gli tocca far tardi tutte le sere mentre Giovita resta a casa a rammendare le tuniche. Nessuno ci pensa mai, a Giovita. Buon onomastico a tutti i Giovita, maschi o femmine o quel che vi pare.
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La martire aveva mille denti

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9 febbraio – Santa Apollonia martire, invocabile contro il mal di denti


Apri grande, non ti faccio male
[2013]. A un certo punto – eravamo già nel Settecento – i denti di Sant’Apollonia in giro per la cristianità erano così tanti che persino il papa (Pio VI) decise di farla finita: se li fece consegnare, li chiuse in un baule che a detta degli osservatori pesava diversi chili, e li gettò nel Tevere. Erano probabilmente svariate centinaia. D’altro canto un dente è una reliquia perfetta: facile da trovare e da conservare. Commerciare denti è intuitivamente più semplice di trafficare clavicole. Mancava ancora più di un secolo alla messa in commercio dei primi analgesici.

E pensare che l’Apollonia vera di denti probabilmente ne aveva ben pochi. Se mai è realmente esistita; ma rispetto ad altre martiri del terzo secolo la sua storia appare più verosimile. Molto prima di diventare la giovane principessa standard insidiata dal re cattivo, nel primo resoconto di Dionigi di Alessandria, Apollonia era una vecchietta. Non fu vittima di una persecuzione imperiale, ma di un linciaggio durante uno di quei tumulti che opponevano comunità religiose diverse nella metropoli egiziana, milleottocento anni fa come oggi. I denti li avrebbe persi durante la colluttazione; le tenaglie vengono aggiunte dopo dalla fantasia popolare.

In virtù del doloroso incidente Apollonia si assume il patronato del mal di denti, che la renderà una delle sante più invocate per più di un millennio. Entra quindi a far parte dei quattordici ausiliatori, una specie di prontuario medico medievale che prescriveva Sant’Acacio contro l’emicrania, Santa Barbara contro la scossa, San Biagio contro il male alla gola, Santa Caterina d’Alessandria (che non tace mai) contro le laringofaringiti, San Ciriaco contro le ossessioni diaboliche, San Cristoforo contro la peste, San Dionigi contro i dolori alla testa, Sant’Egidio contro le crisi di panico, Sant’Erasmo contro i dolori addominali, Sant’Eustachio contro le scottature, San Giorgio contro le dermatiti, Santa Margherita per partorire senza problemi, San Pantaleone per morire senza troppe sofferenze, San Vito contro l’epilessia.

Il caso di Apollonia è particolare per un altro motivo: dopo averle fatto cadere i denti – e preparato già il falò – i suoi persecutori le proposero infatti di rinnegare la fede cristiana, bestemmiando un po’, la solita procedura. A quel punto Apollonia si fece slegare e si gettò da sola, volontariamente, tra le fiamme. Il che creava qualche perplessità anche negli antichi padri della Chiesa: un conto è desiderare il martirio, un conto è procurarselo da soli, la sfumatura è importante. Agostino in particolare si mostra un po’ scandalizzato dalla prospettiva che le martiri facciano tutto da sole senza chiedere aiuto ai maschi.

Apollonia è copatrona di Catania (la città delle tenaglie) e patrona di Cantù, di Ariccia e di tutti noi, ogni volta che sentiamo la testa vibrare in risonanza col trapano, e ci sembra di avere mille denti, e ce li faremmo togliere tutti.
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Ad Agata (non voglio più pensare)

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5 febbraio – Sant’Agata (230-251), martire ignifuga.

Agata è stata la santa che più ha fatto per rendere accettabile
in chiesa il nudo femminile, ma per molto tempo i pittori non
hanno potuto fare a meno di corredarla di tenaglie.
Questo è Sebastiano del Piombo.
[2013. Dopo sei anni di attesa, il restauro della Pieve Matildica dovrebbe iniziare quest'anno]. 

Agata ha solo 15 anni, quando il proconsole di Sicilia Quinziano le mette gli occhi addosso: giovane, ricca, consacrata a Cristo. Poiché non cede né alle proposte né alle minacce, la consegna a una cortigiana, tale Afrodisia, acciocché la rieduchi ai costumi pagani: banchetti, orge, prostituzione sacra… niente da fare. “Ha la testa più dura della lava dell’Etna”, dice Afrodisia, rispedendola al mittente.

Si passa così alla tortura. Le stirano le membra, la lacerano con pettini di ferro, la scottano con lamine infuocate. Lei resiste; allora le strappano i seni con le tenaglie. Verrà nottetempo Pietro apostolo nella sua cella a fargliele ricrescere. Infine l’empio Quinziano decide di farla alla brace, ma il suo velo rosso (simbolo di verginità) resiste al fuoco. È il primo tessuto ignifugo della storia. I catanesi lo usano ancora per fermare le eruzioni di lava. Agata se la cava bene anche con le pestilenze e i terremoti, in generale con tutte le sfighe che possono capitare in una città mediterranea tra una faglia sismica e un vulcano.

Attribuito ad Andrea Vaccaro.
Il dettaglio del sangue sulle dita
Mille chilometri più a nord, Sant’Agata era l’unico dipinto a olio di un certo valore nella Pieve di Sorbara (MO), oggi è sagra anche lì. Per molti anni non ho neppure fatto caso al seno che portava sul vassoio; poi a un certo punto ho imparato la storia, e da quel momento non c’è stato più verso di passarci davanti senza pensare ad Agata, al seno, alle tenaglie, al seno, alle tenaglie, al seno, tutti pensieri che non si dovrebbero portare in chiesa, ma una volta fatti entrare non c’è modo di buttarle fuori, le tenaglie, e il seno, e un seno preso a tenaglie. Agata ma quanto doveva esser brutto quel Quinzano per voler più bene alle tenaglie, Agata; ci fossi stato io al tuo posto, quanto presto avrei tradito il mio padre e i miei compagni.

“Scambiamoci ora un segno della pace”.
“La pace sia con te”.

Agata scusa posso chiedertelo: quanti seni hai? Due sul vassoio ok, ma sul serio ne hai altre due al loro posto? Dalla posa non sono in grado di farmi un’idea, e tuttavia sarebbe molto più sano per me pensare che ce le hai, e tuttavia non posso fare a meno di domandarmi: che senso ha fartele ricrescere la notte prima che t’ammazzino?

“La messa è finita andate in pace”.

Come, è già finita? Vuoi dire che è da mezz’ora che sto solo pensando a tette e a tenaglie?


Giovanni Carlani, 1616 (Edimburgo).
Quando ero piccolo era diverso, ma c’è da dire che a quei tempi il vassoio probabilmente non si vedeva bene, il quadro era stato restaurato più volte da imbrattatele che non si accontentavano di togliere il fumo delle candele, no, erano artisti, loro, volevano lasciare il segno, loro. Oppure risentivano delle oscillazioni della committenza. Il seno su un vassoio magari a un arciprete non piaceva – in effetti è abbastanza ripugnante se ci rifletti – e lo toglievano; poi ne arrivava un altro che ci teneva – dopotutto è una tradizione millenaria – e lo rimettevano; qualcuno aveva pensato bene di aggiungere il campanile di Sorbara sullo sfondo; finché un altro arciprete si sarà chiesto: Agata è una siciliana del terzo secolo, che senso ha il campanile di Sorbara sullo sfondo? Niente, però sta bene. È un campanile ottocentesco, che somiglia a tutti i campanili ma è in un qualche modo diverso. Per capirlo però devi andartene, girare il mondo, dare un’occhiata a tutti i campanili che trovi, e poi tornare al tuo paese e dire: dai, mica male il campanile. Ha un suo stile. Forse è il tetto che fa la differenza, non ne trovi molti fatti a punta così: è stravagante senza dare nell’occhio, non ci tiene a essere diverso ma semplicemente lo è.

Sotto il campanile la pieve invece è un patchwork di cose messe assieme da generazioni di arcipreti dotati più di spirito di iniziativa che di senso estetico. È in piedi dall’anno Mille, quando però era più alta (pian piano si è interrata, poveretta, viviamo tutti su un budino) e a navata unica: adesso ne ha cinque, un tripudio di colonne che facevano imprecare i fotografi ai matrimoni, non si riesce a inquadrare mai niente, solo colonne colonne colonne. Io il prete l’avrò visto in faccia dopo tre anni di messa, all’inizio era solo un vocione che rombava dagli altoparlanti e rimbalzava sulle volte nel soffitto. Facciata cinquecentesca, stucchi settecenteschi, all’interno una madonna di Lourdes di quelle biancazzurre fatte con lo stampino – però ad altezza naturale. E un’altra Madonna in baldacchino, modello Carmelo, una bomboniera. Vetrate neocubiste anni Settanta. In mezzo a tutto questo l’olio di Sant’Agata sembrava un Tiziano. Crescendoci assieme perlomeno avevo questa sensazione, poi si cresce, si gira il mondo e le pinacoteche, e quando torni nemmeno Agata non ti sembra un granché, è naturale.

Siccome la vita non assomiglia, in generale, a una storia di Santi, devo dire che l’effigie di Agata non ha potuto un granché contro il terremoto dell’anno scorso. Cioè. Dipende. La chiesa è effettivamente ancora su, altre non ce l’hanno fatta, forse in altre epoche avremmo gridato al miracolo e portato Agata in processione. Ma la chiesa è comunque pericolante e i lavori di ristrutturazione sono fermi, i Beni Culturali non sanno dire quando sarà rimessa in sesto, se lo sarà. Da sei mesi la messa si celebra nella sala polivalente dell’Oratorio, che per fortuna era stata ristrutturata pochi anni fa, cioè, aspetta, pochi – venti. Hanno tolto le panche, le statue, immagino che anche Agata sia al sicuro, mi domando che effetto deve fare la Pieve adesso. Tutta vuota. Come casa tua nel momento in cui chiudi la chiave per l’ultima volta e la passi a uno sconosciuto.

Insomma stanno aspettando di vedere se casca. Dipende molto da come va lo sciame, se la faglia non si riattiva ecc. Sono quei momenti in cui mi dispiace di essere me e non una persona più interessante, più compiuta, più successful, perché magari basterebbe questo a sbloccare la situazione, a togliere la pieve matildica dal lato basso del foglio delle priorità. Se fossi famoso, magari anche morto, ti immagini? la chiesa in cui il famoso tizio visse i suoi primi vent’anni, nell’atmosfera rustica e mistica insieme in cui attecchirono i semi che avrebbero generato il suo magnum opus, La Rubrica Dei Santi Del Post, ecco, magari a quel punto la sovrintendenza potrebbe decidere di sgaggiarsi. Poi per carità, tutto deve cadere prima o poi, siamo cenere ed è cenere persino il marmo della nostra tomba; ci mette un po’ di più ma è cenere comunque. Io nella pieve di Sorbara suonavo spesso la chitarra. La suonavo forte e male, nel deliberato intento di scandalizzare i benpensanti e spiazzare i malpensanti; irridevo le composizioni fiorite del post-progressive cattolico e predicavo una specie di ritorno alle radici, agli inni primordiali, di cui in certe messe pomeridiane molto intime proponevo delle rivisitazioni piuttosto punk, che Agata immobile era costretta ad ascoltare, povera Agata, quante volte avrai rimpianto che Quinziano si fosse fissato sui seni, che non ti avesse voluto strappare le orecchie. Ma esagero, in realtà ero un musicista di servizio, abbastanza duttile, suonavo anche nelle situazioni in cui nessuno se lo sentiva: i matrimoni di gente sconosciuta in paese, e i funerali. Quanti funerali.

Per me sono stati importanti, lo dico anche a volte in classe: ma voi, fanciulli, ci andate mai ai funerali? Ci siete entrati almeno una volta in un cimitero? È una cosa importante, una cosa della vita, prima o poi succede a tutti e non vi augurate certamente che succeda per primi a voi: quindi vi dovete abituare all’idea di accompagnare i vostri parenti, i vostri amici, a me è successo, è una cosa naturale, e che c’è Nizzoli?

“Posso andare in bagno?”
Per essere un villaggio di 3000 anime ha una skyline interessante
– la costruzione monumentale grigia è un mangimificio,
i vicini di casa non captavano Videomusic.
Nizzoli ma è possibile che tu abbia un’autonomia di un quarto d’ora, ma il giorno che seppelliscono me e c’è da accompagnarmi al camposanto, centocinquanta metri in linea d’aria, ce la fai a stare nel corteo o ti tocca farti mettere un catetere? Vai, vai. Stavo dicendo?
“Che è importante andare ai funerali”.
Sì. L’ultima volta che ci sono andato Agata fu testimone di questa storia assurda, io ero nella prima panca, quella su cui nessuno vuole sedersi. Durante le letture, molto belle, le avevo scelte io, aveva squillato a lungo un cellulare. Tipico. Ma eravamo credo già alla predica quando una signora si fece avanti, una matta – non lo sapevo, me lo dissero poi, manco le matte del mio paese riconosco – si fece avanti fino alla mia panca e si scusò per essere in ritardo, e chiese se faceva in tempo a vedere il morto. Poi indicò la cassa, che stava davanti a noi, e mi chiese: “È lui il morto?”

È lui il morto.
Questa non so proprio di chi è, aiutatemi voi.
Certi quadri vagano per l’internet senza più attribuzione,
come gli inni sacri fotocopiati nei canzonieri.

E io nella prima fila, le lacrime strette in fondo agli occhi, che già mi domandavo come avrei fatto a uscir fuori da lì e farmela a piedi fino al cimitero, io la guardavo e non capivo cosa stesse dicendo, certo che è lui il morto non lo vede? Le sembra il momento di scherzare? È lui il morto? Posso avere nella vita un momento, uno solo, che non sia quello di scherzare? È una cassa chiusa con le viti, i bulloni, il sottocoperchio zincato sotto il coperchio di legno, certo che è lui il morto, cosa vuole da me? Vuole che portino via me invece? Ho domandato, sa: non si può.

M’avesse preso Quinzano in quel momento, con dieci tenaglie, con cento, non avrei detto una parola, tutto giustissimo, tutto appropriato, morì sotto Decio imperatore, di lui resta un ritratto a olio pregevole in una chiesa che tra un po’ viene giù. Invece sono vivo e non ci vado più ai funerali. Mi sono stancato, in quel preciso momento. Continuo a pensare alla matta, alla bara, ai bulloni, alla bara, alla matta, pensieri che una volta che ti sono entrati in chiesa, in testa, non c’è verso di farli saltar fuori; uscirà tutto il resto – le panche, l’altare, le chitarre – loro resteranno lì.

Agata aveva quindici anni; secondo altri ventuno.
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I miei amici sono anemici, mi dici

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27 gennaio - Sant'Angela Merici, (1474-1540), mistica, fondatrice delle orsoline.
[2013]




“I miei amici sono anemici”, mi dici,
si sono messi ai margini
di foto con cornici.
Non pranzano con gli astici,
si adattano alle alici
che spacciano al convitto di Sant'Angela Merìci1.

I tuoi amici sono cinici, ci dici:
hanno scialato rendite, non certo in dentifrici.
Non serve essere aruspici per trarne infausti auspici:
staresti molto meglio chez Sant'Angela Merìci2.

I miei amici son quei tipici infelici
che han fatto studi classici e ne han tratto i benefici:
non san quadrare i circoli, né estrarne le radici,
proteggerli è un lavoro per Sant'Angela Merìci3.

Ex amici, han messo via i berretti frigi,
i riccioli li rasano per non mostrarli grigi.
Li trovi in ferie a Lerici più spesso che a Parigi,
ma è molto meglio perderli, da’ retta alla Merìci4.

Amici un dì magnifici; ma han chiuso i maglifici,
e senza più bonifici, da Etruschi o da Fenici,
han perso accesso agli attici, non flertan con le attrici,
non sanno a chi votarsi più (non certo alla Merìci)5.

I tuoi amici, inurbati in cupi uffici,
arcigni e tristi artefici di artritici artifici,
strillano strofe stridule a troiette traditrici;
ti prego, trasferisciti in Sant’Angela Merìci6.

Che accolga tra le accolite, le sue benefattrici,
la bimba a cui proselita, con mani protettrici,
la scala verso l'indaco indicava da pendici
che sono competenza di Sant’Angela Merìci7.


(1) Il poeta – un mediocre anonimo degli inizi del secolo XXI – ode forse in sogno la figlia primogenita lamentarsi della scarsa vitalità dei propri amici, che infallibilmente li condurrà a un destino oscuro e marginale ("si sono messi ai margini di foto con cornici"), e a una difficile situazione economica, qui descritta evocando una mensa dei poveri (un "convitto di Sant'Angela Merìci").

(2) La figlia continua a lamentarsi che gli amici abbiano delapidato i patrimoni accumulati dai genitori ("hanno scialato rendite") a causa di uno stile di vita non sano ("non certo in dentifrici"). Non è necessario essere pratici di un'arte divinatoria ("non serve essere aruspici") per rendersi conto del disastro, al quale il poeta propone di ovviare con l'immediato trasferimento della figlia in un istituto religioso ("Staresti molto meglio chez Sant'Angela Merìci". Sant'Angela, nata a Desenzano nel 1474 e morta a Brescia nel 1540, è la fondatrice della Compagnia delle Dimesse di Sant'Orsola, volgarmente conosciute come orsoline.

(3) In questa strofa il poeta inizia a rivolgere il pensiero ai propri amici, per i quali non intravede un destino migliore di quello paventato dalla figlia per i suoi: vi sono per esempio quelli che, avendo intrapreso studi classici, si sono rivelati inetti alle discipline scientifiche ("non san quadrare i circoli, né estrarne le radici": il fatto che l'operazione di estrarre una radice da un circolo sia totalmente insensata ci lascia supporre che anche il poeta si inserisca tra questa schiera di "amici", sui quali invoca la protezione di Sant'Angela Merici).

(4) Ad altri amici, che il poeta non considera più tali ("ex amici"), egli rimprovera il tradimento delle velleità rivoluzionarie espresse durante la giovinezza ("han messo via i berretti frigi": il berretto frigio è uno dei simboli della rivoluzione francese). Benché questi amici non accettino i segni dell'invecchiamento, e tentino di camuffarli con un look giovanile ("i riccioli li rasano per non mostrarli grigi") essi hanno ormai accettato le comodità di una vita borghese. Per questo è meno facile incontrarli a Parigi (la città rivoluzionaria per eccellenza, e in generale un punto di arrivo per gli ambiziosi di ogni generazione, cfr. Stendhal, Balzac) che a Lerici, placida località balneare sul Mar Ligure che si raggiunge più facilmente dalle province di Brescia, Mantova, Parma, Modena. La stessa Santa, secondo il poeta, consiglierebbe la figlia di perdere di vista amici del genere.

(5) Vi sono poi amici che in tempo godettero di un grande benessere grazie ai "maglifici", e qui forse il poeta si riferiva a un distretto industriale ormai in via di smantellamento, nella bassa modenese. Questi amici non fanno più affari con gli "Etruschi" (forse i toscani del distretto tessile di Prato) e coi "Fenici", un popolo di origine medio-orientale che nell'Antichità si era specializzato nel commercio, stabilendo basi in tutto il Mediterraneo. Per questo motivo hanno dovuto abbandonare lo stile di vita edonista e spensierato della loro giovinezza: anche loro dovrebbero invocare la protezione di un Santo, ma il poeta dubita che la Merici possa intercedere efficacemente per loro.

(6) Il poeta immagina altri amici prigionieri di una vita di ufficio che li rende sterili: anche ciò che producono è un artificio digitale che rende artritico chi vi si dedica. Costoro sfogherebbero la loro mediocrità intrecciando rapporti frustranti con colleghe fedifraghe (segretarie?) Il poeta ribadisce alla figlia che c'è un solo modo sicuro per sottrarsi a un destino tanto orribile, ed è trasferirsi presso le Dimesse di Sant'Orsola. 

(7) Finalmente il poeta ricorda come alla figlia piacesse, da piccola, durante le visite presso un pio istituto religioso bresciano, salire le scale che conducevano agli alloggi delle Dimesse; e associa il ricordo alla più famosa visione raccontata da Sant'Angela, quella di una scala protesa verso il cielo. Chiede perciò che la santa accolga finalmente tra "le sue benefattrici" (le Dimesse) la sua figlia come "proselita". È infatti la stessa bambina a cui la Santa indicava la scala verso l'"indaco", quando si trovava "alle pendici che sono competenza di Sant'Angela Merici", ovvero a Brescia, città a ridosso dei monti, di cui Sant'Angela è co-patrona.
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San Vincenzo, il martire banale

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22 gennaio – San Vincenzo di Saragozza (†304, martire citazionista).

San Vincenzo era diacono, come Santo Stefano, presso Saragozza (come San Braulione). Sotto Diocleziano imperatore fu arrestato, come San Sebastano, e interrogato come il suo vescovo, San Valerio. Trovato colpevole di cristianesimo, fu torturato sul cavalletto, come Santa Caterina. Siccome invece di pentirsi ringraziava i suoi torturatori, come Sant’Ignazio, il magistrato decise di arrostirlo, come San Giovanni. Dopo un po’ che era sui ferri ardenti pare che abbia detto anche lui al carnefice “Voltami, son cotto”, come San Lorenzo. Ma a quel punto il magistrato si stancò, e così Vincenzo rimase cotto a metà, il destino di ogni imitazione di un’originale. Le copie più riuscite molto spesso sono le più superficiali.

Ancora una graticola, che banalità.
Vincenzo è il patrono di Lisbona, di Vicenza, del casino di Saint-Vincent, dei vinai e dei vignaioli, e di tutti noi ogni volta che vorremmo dire qualcosa di importante, di potente, anche solo una parola ma definitiva, e tutto quello che ci viene in mente è una citazione. Una frase che ha già detto qualcun altro, pensando ad altro, e che ci è rimasta attaccata addosso. Come diceva Oscar Wilde. Come diceva Voltaire. Come diceva Albert Einstein. Questi uomini insigni passano i loro giorni nell’Ade a tormentarsi e rigirarsi: questa non l’ho detta! questa forse sì, ma intendevo l’esatto contrario! Questa sicuramente, ma ripensandoci era una cazzata. Ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi a Davos ha detto che l’Italia deve investire nel futuro, deve smettere di considerarsi un museo: e per dimostrarlo ha citato un motto di duemila anni fa: Carpe diem! Se avete fatto un liceo italiano (i migliori del mondo) avrete già riconosciuto la citazione di Robin Williams. Il problema è che quella poesia dice l’esatto contrario, maledizione. Dopo Carpe diem viene “quam minimum credula postero“, più o meno “credi al futuro quanto meno puoi”. Altro che investire nel futuro, Leucò, lascia perdere, versami da bere piuttosto. E infatti se ci pensate gli studenti di Robin Williams in quel film non è che si diano troppa pena di alzare le medie del quadrimestre: preferiscono appartarsi con le ragazze, scrivere poesie o suicidarsi direttamente.

Noi non investiamo nel futuro, noi siamo la minoranza dei bei gesti che durano un attimo,
e al sette in condotta ci penseremo poi.
D’altro canto le citazioni sono definite proprio dal loro essere ormai completamente estrapolate dal contesto. Come le parole. In effetti sono diventate parole. Le usiamo nello stesso modo, combinandole in frasi senza più preoccuparci della storia lunga e complessa che ce le ha portate sulla bocca. Diciamo “Faccio cose vedo gente”. Diciamo “ho visto cose”, e non sappiamo nemmeno più che film stiamo citando e perché. Diciamo “digitale” e le dita sono l’ultima cosa a cui pensiamo. Quanto a gennaio, non è più il mese del dio Giano da un pezzo: perché carpe diem dovrebbe sottrarsi all’incessante mutare del tempo, dei significati e dei significanti?

Il fatto di vivere in un mondo saturo di discorsi, dove ogni parola che ci viene in mente è una citazione, forse non dovrebbe tormentarci. Peraltro non è una novità, ci sono stati altri periodi così. Forse tutti i periodi sono così, anche se a posteriori non è sempre facile accorgersene. Alcuni di voi avranno certamente letto da ragazzini il capolavoro del Federico Moccia del secolo XVIII, tal Wolfgang Goethe – in seguito seppe riciclarsi egregiamente come autore di testi per adulti seri, ma nel nostro cuore è sempre stato l’autore di quell’agile romanzetto che lanciò la moda della giacca blu col panciotto giallo – e anche quella dei suicidi tra i lettori più sensibili – i Dolori del Giovane eccetera. Se l’avete letto nel periodo giusto forse ricordate ancora la notte di lampi e tuoni in cui il Giovane Imbucato a una festa di nobili conosce Lotte e s’innamora di lei. L’espressione “colpo di fulmine” forse prima non esisteva, ma il momento in cui il Giovane si infiamma davvero non coincide con un tuono o con un lampo. Il grosso della tempesta è già passato, quando Lotte pensosa alla finestra pronuncia la parola che lo infiammerà, condannandolo a un amore impossibile e alla lunga mortale.

Questa parola è “Klopstock”.

Ciò mi ha sempre fatto ridere.

Nessuno potrà più dire “Klopstock” senza commuoversi.
Provateci. Klopstock. Klopstock. Vedete?
È un riso da scimmia, perché in effetti la situazione può suscitare ilarità soltanto se non si conosce il celebre lirico Friedrich Gottlieb Klopstock; se non si ha la minima idea della poesia a cui sta pensando Lotte in quel momento. Probabilmente fa ancora più ridere se addirittura non so una sillaba di tedesco: se per me è solo un accrocchio di sillabe che gridano “invadiamo la Polonia” anche quando vorrebbero parlare d’amore. Quindi, nel momento in cui Werther s’innamora, tu ridacchi, ah ah ah ah, che ha detto? No, ma sul serio, come ci si fa ad innamorare ascoltando il suono “Klopstock?” Capirei Lessing, Novalis, persino Heine ha ancora qualcosa di languido, ma Klopstock sembra una marca di ciabatte.

Werther invece si innamora, perché ha colto il riferimento. Conosce Klopstock, ha indovinato l'”ode sublime” che Lotte ha in mente. Questo era il significato di “Klopstock” sulle labbra di Lotte, ma nelle orecchie di Werther ha già assunto un significato diverso. Significa: “ode sublime che io so che tu sai”. Significa già “Affinità elettive”. C’è qualcosa tra di noi che la rigida compartimentazione sociale della società tedesca prenapoleonica non potrà toglierci, nemmeno quando per darmi un tono mi farò prestare [SPOILER] le pistole da tuo marito e mi ci bucherò le cervella [/SPOILER]. Nel giro di pochi secondi la parola ha assunto un significato così personale che Werther vorrebbe ritirarla dalla lingua tedesca. “Nobile poeta, se tu avessi potuto vedere in quello sguardo la tua apoteosi! e se io potessi ora non sentir più pronunciare il tuo nome così spesso profanato”.

Chissà se poi Klopstock era così contento di essere diventato una specie di catenaccio di Ponte Milvio del preromanticismo, il McGuffin di un romanzetto per giovani tormentati. Sì, perché alla fine non è così importante di che poesia si tratti. Era davvero così bella? Lotte e Werther avevano davvero il gusto per apprezzarla, o non stavano pescando nel banale come Fiorello quando cantava la Nebbia agli irti colli piovigginando sale? Che importa. Con le citazioni non si sbaglia mai: dici “gatto di Shroedinger” e il tuo interlocutore penserà che tu ne sappia davvero qualcosa di meccanica quantistica. Di fronte allo spettacolo del temporale che si ritira Lotte avrebbe potuto provare a tirar fuori qualcosa di suo, ma se fosse suonata ridicola? La citazione ti risolve. Klopstock.

Ma chi siamo noi per giudicare. L’abbiamo avuta tutti una fase Klopstock, specie se ci è capitato di maturare sentimentalmente negli anni Novanta. A rileggere i libri del tempo, viene la vertigine: tutti i protagonisti passano il tempo a citare altri libri, o fumetti o film o poesie (persino Fiorello). Cosa avevamo in testa tutti? Perché non cercavamo la nostra singola voce invece di ritagliare frasi a caso dai discorsi degli altri? Eravamo solo giovani e stupidi, o c’era qualcosa di più?

Forse c’era qualcosa di meno. I Novanta non sono poi così lontani, ma sembrano ormai un universo parallelo, dove tutto più o meno è uguale a qui salvo che non c’è internet. C’era comunque molta cultura dappertutto, ma non era così immediatamente accessibile: andava comprata, noleggiata, riprodotta, fotocopiata: tutti passaggi che la consumavano e ce la rendevano più nostra. Citarsi addosso era un modo per riconoscerci: da qualche parte in città qualcuno quella sera stava dando una festa in cui a un certo punto una ragazza avrebbe detto “Klopstock”, o “Per un bel pezzo sono andata a letto presto”, o “Preferisco di no”, “Dove vanno le anatre”, o qualche altra frase che tutto il mondo avrebbe trovato ridicola tranne te. Dovevi trovarla. Dovevi allenarti a distillare le citazioni e riconoscerle nei discorsi altrui. Memorizzarle il più possibile e mescolarle con sapienza. Trasformare te stesso in una pratica citazione da snocciolare al momento giusto.

La barra di google ha messo fine a quell’era di abiezione. Non abbiamo smesso di citare, ma lo facciamo in modo più automatico, senza più il timore e il tremore di essere o non essere capiti. Diciamo “Pijamose Roma”, diciamo “Avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto”, ma non è per selezionare i nostri uditori all’ingresso. Ci spuntano ancora sulle labbra per pigrizia, noi non sapremmo mai farne di altrettanto efficaci. Nel frattempo abbiamo anche smesso di immagazzinare contenuti, sia nelle librerie che nel disco rigido che nel nostro stesso cervello. Tanto nella nuvola c’è tutto; l’importante è sapere come cercarlo, cosa cercare, nell’evenienza che ancora da qualche parte arrivi una bufera e noi ci si ritrovi in quella situazione in cui…

“Klopstock”.

“Che hai detto?”

“No, niente”.

“No, ti ho sentito, hai detto qualcosa di una ciabatta”.

“No, non è una ciabatta, è un lirico tedesco”.

“Sicuro? Perché sembrava proprio una ciabatta”.

“È un lirico tedesco”.

“Sei sicuro? Guarda che lo sto già cercando”.

“Si scrive con la kappa”.

San Vincenzo voleva soltanto morire dicendo qualcosa di memorabile, come si conviene a un martire: che colpa aveva di vivere alla fine dell’epoca dei martiri, in un mondo ormai saturo di supplizi e frasi celebri? Tutte le torture e tutte le parole erano già state prese da santi non necessariamente più ispirati. Lui non aveva niente di meno di Santo Stefano o San Valerio o Santa Caterina, ma era arrivato dopo, in quel momento in cui qualsiasi cosa tu dica o faccia fa già parte di un discorso già finito. Qualcosa di simile sarà forse capitato anche a noi. Avevamo solo le parole degli altri, ce le siamo fatti bastare. Per quel che avevamo da dirci, alla fine [2015].
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Il papa che successe a sé stesso

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16 gennaio - San Marcello I Papa (†309), doppione

Nulla, non c'entra assolutamente nulla.
[2014].
Dell'imperatore Diocleziano, delle sue sanguinose persecuzioni, su questo blog ci siamo spesso presi gioco. Il fatto è che già a poco più di un secolo di distanza (quando il cristianesimo era diventato religione di Stato), Diocleziano aveva già assunto le dimensioni dell'orco sbrana-cristiani, a capo di un esercito di torturatori efferati e un po' frustrati: a Santa Cecilia cercano di tagliare il collo e la lama rimbalza, Santa Lucia cercano di portarla nel bordello ma è troppo pesante, a Sant'Agata tagliano i seni e le ricrescono, eccetera. E però tutto questo grand-guignol di leggende inventate dai monaci per distrarsi un po' nell'ora di refettorio non deve farci dimenticare che un Diocleziano ci fu davvero, e che di cristiani ne fece uccidere più di qualsiasi altro imperatore: quanti? Difficile dire. Migliaia, forse più – Gibbon semplicemente non ci credeva, ma era un uomo del Settecento, quando anche le battaglie campali sembravano figure di minuetto. Gli storici del penultimo secolo, familiari coi concetti di pogrom e di purga, non escludono che un imperatore deciso a fondare un culto della personalità non possa aver messo in cantiere uno sterminio, anche se il body count rimane piuttosto prudente (tremila o un po' di più in tutto l'impero). Pochi, tutto sommato, per una religione che nelle città era ormai un fenomeno di massa.

Evidentemente molti cristiani cercarono di sfangarla venendo a patti con l'autorità costituita: alcuni bruciando incenso agli Dei (turificati), altri sacrificando animali agli stessi Dei (sacrificati), altri, non volendo scannare nessun animale, corrompendo qualche autorità per procurarsi un certificato che attestasse che lo avevano sacrificato (libellatici). Infine c'erano i peggiori di tutti, i traditores, che all'inizio significava semplicemente "consegnatori": erano i sacerdoti che avevano consegnato i libri sacri ai magistrati - e magari anche qualche registro di battesimo coi nomi degli affiliati, gli infami. Tutto questo poteva salvarti la vita terrena, ma quella eterna? I sacrificati, i turificati, i libellatici e i traditores non erano più ammessi in chiesa. Erano i cosiddetti lapsi, "scivolati", quelli che avevano avuto un'occasione buona per diventare protagonisti di una sanguinosa leggenda di martiri e se l'erano giocata. Il dibattito sulla riammissione dei lapsi era già scoppiato ai tempi dell'imperatore Decio, e riprese subito vigore. In certe comunità venivano riammessi soltanto dopo una pubblica cerimonia di pentimento: insomma dopo aver ritrattato il cristianesimo davanti ai magistrati dovevano ritrattare la ritrattazione davanti ai sacerdoti, e farsi consegnare una ricevuta, un libellus che dimostrasse che erano di nuovo cristiani a tutti gli effetti. Ovviamente se i magistrati imperiali mettevano la mano sul libellus potevano ri-imprigionarli, e così via.

Si dice che il cristianesimo crebbe annaffiato dal sangue dei martiri. È una mezza verità: le piante hanno bisogno di liquidi ma anche di letame. Senz'altro i martiri ci misero il sangue, ma se il cristianesimo sopravvisse a Diocleziano fu grazie ai lapsi. Questo però non si può dire - tranne che sul Post - perché molti lapsi furono probabilmente traditores, nel senso moderno del termine: molti di loro probabilmente si conquistarono la libertà vuotando il sacco davanti al magistrato, spifferando nomina e cognomina di tutti i cristiani del quartiere. Poi alla fine se ne tornavano alla catacomba e chiedevano pure di essere riammessi al culto, che facce toste. Il cristianesimo che sopravvive alla persecuzione dioclezianea deve affrontare quel senso di colpa collettivo che attanaglia i superstiti di qualsiasi disastro: perché gli altri sono morti e io no? Aggiungi che in certi casi la risposta è insostenibile: sono morti gli altri perché tu li hai traditi. Gli altri sono santi, e ne leggiamo le leggende: tu sei il peccatore, tu dovrai espiare. La realtà probabilmente era molto più sfumata, vedi il caso di San Marcellino Papa.

Da non confondere con San Marcello Papa, che è il santo che si festeggia oggi, e di cui dovrebbe essere il predecessore. Il nome può sembrarvi buffo, ma è uno di quei tipici nomi tardoromani: si chiama Marcellino anche uno degli scrittori più interessanti del quarto secolo, un ex soldato dalla prosa cupa e marziale che non ti aspetteresti in un'antologia, alla voce Ammiano Marcellino. "Marcellino" è la terza derivazione del nome Marco, che a sua volta deriva dal dio Marte: all'inizio Marco significa "di Marte". Marcello, invece, significa "di Marco": può sancire un'adozione o forse un passaggio di proprietà di schiavi che poi una volta liberati mantengono il nome. "Marcellino", a sua volta, potrebbe essere un figlio di Marcello, o uno schiavo venduto e poi liberato. I nomi dei primi secoli erano brevi: Lucio, Mario, Claudio. Verso il terzo secolo abbiamo Marcellino, Claudiano, Valentiniano (←Valentino ←Valente), Costantino (←Costanzo ←Costante) eccetera. L'impero continua a essere retto da uomini duri e violenti, ma hanno nomi derivativi, sempre meno originali, sempre più involontariamente pucci, fino a quel Romolo Augustolo che chiude miracolosamente il cerchio. Non fossero arrivati i barbari, oggi ci chiameremmo Marcelliniancelliniano? In un certo senso i barbari dovevano arrivare, era un'esigenza sentita a tutti i livelli, persino nell'onomastica.

La chiesa di San Marcello al Corso
(da wikipedia) sorge nell'antico sito della stalla
(far lavorare un papa, che barbarie).
Marcellino, dicevamo, tradì. Sacrificò qualche animale agli Dei. Lo attesta il Liber pontificalis, la wikipedia delle vite dei papi, redatta lungo qualche secolo da un insieme anonimo di cronisti che purtroppo non nominava mai le fonti. Lo stesso Liber, tuttavia, afferma che in un secondo momento si pentì di aver tradito e ritrattò, ottenendo una pronta decapitazione e l'immediata santità. La storia sembra molto antica, ma già un po' complicata: forse un tentativo di salvare la reputazione a un papa controverso. In Nordafrica un vescovo eretico, durante una polemica con Agostino, accusa Marcellino (senza prove) di aver sacrificato agli dei. D'altro canto era un santo già venerato allora, a Roma e altrove: possibile che i buoni cristiani portassero fiori sulla tomba di un sacrificatus? Fino al quinto secolo nessuno lo inserisce nell'elenco dei martiri. È l'unico papa che non compare nel Cronografo del 354, la più antica agendina illustrata che ci sia arrivata (alla quale dobbiamo un tesoro di informazioni, perché nessuno scrittore blasonato si abbassava a nominare, per esempio, i quartieri della Roma imperiale).

A dire il vero il suo nome nel Cronografo c'è: ma è associato al diciottesimo giorno alla Calenda di Febbraio, cioè oggi, 16 gennaio, e non al 26 aprile. E tuttavia deve trattarsi di una svista: il 16 gennaio non è la festa di Marcellino, bensì di Marcello, il suo successore: un papa integerrimo che si oppose al facile recupero dei lapsi, e insistette sulla necessità che facessero penitenza e mostrassero contrizione per i loro tradimenti. Tanta intransigenza lo portò in rotta col successore di Diocleziano, Massenzio, che lo condannò a lavorare nelle stalle imperiali (ma questa forse è una storia messa in giro dal proprietario di una stalla che credeva nelle opportunità del turismo religioso e sperava di attirare i pellegrini con una storiella). Il lavoro in stalla era molto pesante e Marcello ne sarebbe morto, martire, il 16 gennaio, perlappunto. Ora, non è così strano che un papa Marcello subentri a un Marcellino (non era ancora invalsa l'abitudine a cambiar nome una volta varcato il soglio): ma che cadano entrambi martiri lo stesso giorno, è una cosa che lascia perplessi. Al punto che Mommsen riteneva che il secondo non fosse un vero papa: piuttosto un vicario, un facente funzione. In effetti la situazione poteva essere molto delicata: magari Marcellino aveva perso la carica di pontefice nel momento in cui aveva temporaneamente abiurato la fede in Cristo. Poi ci aveva ripensato, ma a quel punto era da considerarsi ancora pontefice a tutti gli effetti? Chi poteva deciderlo, se non lui stesso? Un falso storico del sesto secolo ci mostra proprio un concilio-processo in cui i vescovi lo interrogano, ne ottengono una confessione, ma non lo condannano, perché "la prima sede non può essere giudicata da nessuno".

Un'altra possibilità è che Marcellino se ne sia tornato bel bello a fare il pontefice, dopo l'abiura, senza chiedere scusa a nessuno. Qualche secolo dopo un cronista avrebbe potuto trovare la cosa imbarazzante, e dividerlo in due: un pontefice un po' tremebondo che viene perseguitato, abiura ma poi si pente e muore martire nel 305, e un altro tutto d'un pezzo che ostenta tolleranza zero per i lapsi e i traditori, e muore anch'esso martire in una stalla il 16 gennaio 309. La scelta di chiamare il doppione di Marcellino "Marcello" potrebbe essere stata dettata da scarsa fantasia o (più verosimilmente) dalla necessità di non alterare troppo i documenti originali. Dei due, quello probabilmente inventato è il più eroico e intransigente. Non sorprende.
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Parlo di teologia, io?

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10 gennaio - San Gregorio di Nissa (335-395), teologo patentato

[2016].

Anche oggi c'è gente che, come quei famosi ateniesi, non trova di meglio da fare che discutere di argomenti inediti od originali. Braccia rubate al mercato o al cantiere che si improvvisano maestri di teologia: avanzi di schiavitù da prendere a mazzate, che d'un tratto ci filosofeggiano con solennità di cose incomprensibili.

Lo sapete di chi stiamo parlando: la città ne è piena. Le strade, i crocicchi, i fori, i parchi... venditori di tappeti, cambiavalute, friggitori ambulanti. Tu chiedi di scambiare una moneta, ti rispondono disquisendo sulla natura del Generato e dell'Ingenerato; vuoi sapere quanto costa una pagnotta, “Il Padre è il maggiore”, ti dicono, “e il figlio gli è soggetto”: domandi se ai bagni l'acqua è calda, e ti informano che il Figlio ha origine dal nulla...


Padri cappadoci, Nissa è (forse) quello con la barba lunga.

Certe citazioni ormai galleggiano nel vuoto, non siamo nemmeno sicuri del libro da cui sarebbero ritagliate. Hanno maturato significati diversi da quelli previsti in partenza; diventano meme, parole di un linguaggio nuovo, incomprensibile ai non iniziati. Tra i miei amici di facebook non è infrequente rimproverarsi di parlare di astrofisica. Citiamo ovviamente la battuta di un regista frustrato, protagonista di un film di Nanni Moretti - no, non l'ultimo - neanche il terzultimo - forse il terzo? Lamentandosi della mania che hanno tutti di parlare di cinema senza mai aver studiato l'argomento, gridava: parlo di astrofisica io?

Molti anni prima dell'invenzione del cinema, e della stessa astrofisica, il problema era già avvertito dagli intellettuali. Non potendo citare Moretti, ripiegavano su San Gregorio vescovo di Nissa, che nel IV secolo scrisse in mezzo a un migliaio di pagine fitte di patristica l'esilarante bozzetto che ho tradotto sopra un po' liberamente. È un brano famoso in senso molto relativo: ci ho messo anni a rintracciarlo. Poi mi sono reso conto che lo cercavo nel volume di patristica sbagliato, perché tutti questi professori che si lamentano dell'incompetenza popolare... sbagliano quasi sempre a segnalare la fonte della citazione, attribuendola a un amico di famiglia di Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo. Anche lui vescovo in Cappadocia e padre della Chiesa, per cui non è così difficile confondersi.

È un errore illustre, condiviso dallo stesso Hegel; lui del resto non aveva perso tempo a sfogliare i padri cappadoci, ma si era fidato di Gibbon che nel suo best seller Declino e caduta dell'Impero Romano aveva a sua volta citato il Gregorio sbagliato, mutuando l'errore da un teologo dei suoi tempi, tale John Jortin che nelle note del suo volume aveva fatto confusione tra i due Gregori ed era morto prima di correggere le bozze. Che storia affascinante. Morale: non si è mai abbastanza competenti.

Va bene, ma di che stava parlando Gregorio esattamente? In quel frammento dell'orazione Sulla divinità del Figlio e dello Spirito Santo, 46esimo volume della Patrologia greca, il vescovo di Nissa si distrae per un attimo dal problema trinitario, e si volta a dare un'occhiata a quel che succede nella grande città: Costantinopoli. Quando mi imbattei per la prima volta nei due Gregori, a metà anni Novanta, in società si parlava più che altro di calcio e politica. Tutti ne erano esperti, tutti ritenevano di avere pareri interessanti, giuro, non è una frenesia nata con facebook: Zuckerberg ci ha fornito soltanto un impietosissimo specchio. A volte mi mancava l'aria e così frequentavo lezioni strane, ad esempio Storia del Cristianesimo Antico.

Scoprivo che secoli prima, gli abitanti di una lontana metropoli, dovendo pur trovare qualcosa su cui litigare in attesa dell'invenzione del calcio, si scannavano intorno alla teologia. Il dibattito sulla Trinità, e sulla generazione del Figlio, era uscito dai capitoli e dai sinodi e circolava sulle bocche di tutti, pizzaioli e rigattieri. Venivano alle mani spesso, e a volte ci scappava il morto.  L'altro Gregorio - non quello di Nissa - fu quasi linciato nella sua stessa cappella privata, perché era stato ordinato vescovo niceno di Costantinopoli, in un periodo in cui in città andavano per la maggiore gli ariani. Questi ultimi credevano che il Padre avesse creato il Figlio in un secondo momento; i niceni invece credevano in un Figlio generato, non creato, della stessa sostanza del Padre. I niceni avevano già vinto un Concilio nel 325, e col tempo avrebbero prevalso, massacrato gli ariani e distrutto i loro libri. Ma in quel periodo erano un po' in crisi: gli imperatori, dopo averli favoriti, se ne erano stancati e a volte sponsorizzavano apertamente gli avversari. Il bello di studiare queste cose, quando sei giovane, è che ti chiedono la stessa sospensione dell'incredulità di una saga fantasy - pensateci, si accapigliavano per stabilire se il Figlio fosse stato "creato" o "generato" dal padre. Un dibattito che oggi non interessa più nemmeno i cristiani. Già. Oggi parliamo d'altro. Ma, ecco, di che parliamo? 

A quel tempo ero una specie di marxista, a mio modo ovviamente – in sostanza credevo che gli uomini si potessero dividere soltanto in classi sociali. Questa era l’unica classificazione che avesse un senso economico, e quindi l’unica che avesse un vero senso. Tutti gli altri insiemi – i cosiddetti “popoli”, le cosiddette “religioni” – erano fenomeni sovrastrutturali. Non è che non esistessero, ma venivano elaborati dagli uomini a mo’ di paravento, sovrastruttura, per occultare la ripartizione fondamentale, quella tra profittatori, aspiranti profittatori e lavoratori. Tutte queste cose non so se Marx le abbia mai scritte davvero, avrei più difficoltà a spulciare il Kapital che la Patrologia, però ci credevo e forse ci credo un po’ persino adesso. Dunque diffidavo della versione di San Gregorio, perché davvero, che può interessare a un cambiavalute della Generazione del Figlio? Però da altri accenni si capiva che gli ariani erano la fazione più popolare (lo stesso Ario, racconta Filostorgio, una volta cacciato dalle chiese ufficiali, si era messo a comporre i suoi sermoni sulla musica delle canzonacce dei marinai e dei mulattieri). I niceni invece avevano già quella sfumatura benpensante che li identificava come organici della borghesia – e i Costantini giocavano a metterli gli uni contro gli altri, appoggiando ora questa ora quella fazione, per strategia o per capriccio.

Due secoli più tardi sarebbe successa la stessa cosa coi tifosi delle due più importanti scuderie delle corse di bighe, gli Azzurri e i Verdi. I primi erano i popolari (ma appoggiati dall’imperatore Giustiniano), i secondi aristocratici e monofisiti. Entrambi giravano coi coltellacci legati alla gamba, e si pettinavano all’Unna, lasciandosi crescere le creste per spaventare gli avversari. Vedi come lo stesso fenomeno (una guerra tra bande di delinquenti per le strade di una metropoli) si può leggere in tre modi: (1) guerra di tifosi: è il modo più superficiale, come se qualcuno fosse davvero disposto a morire per i colori di una squadra; (2) guerra di religione, monofisiti contro ortodossi; (3) lotta di classe. A me ovviamente interessava solo il terzo piano, quello di cui nessuno vuole mai parlare. Fanno tutti una gran confusione, parlano di bighe o quadrighe o di natura divina e umana del Figlio, perché non vogliono parlare di salari e di libertà degli schiavi… Però alla fine Azzurri e Verdi si stancarono di ammazzarsi per il sollazzo del Cesare, gli assediarono il palazzo contiguo al Circolo e chiesero le dimissioni del prefetto del pretorio, ritenuto responsabile dell’iniqua tassazione. (Le ottennero, ma in seguito Giustiniano, consigliato dalla moglie Teodora, riuscì a dividerli e li sterminò).

(Milletrecento anni più tardi, in una difficile città di mare dall’altra parte dell’Europa, ci si rimise ad ammazzare tra “verdi” e “azzurri”. I primi tifavano il Celtic Glasgow, erano immigrati irlandesi e cristiani cattolici. I secondi sostenevano i Rangers, ostentavano lealtà alle maestà britanniche e fedeltà alla chiesa protestante. Risse da ubriachi, guerre di religione, indipendentismo e identità celtica: dipende anche da storia vuol leggere la gente il mattino dopo).


Seduta di autocritica maoista in Bobocandia ("O Marx O Lenin O Mao Mao").

Nello stesso periodo in cui studiavo i padri cappadoci, avevo messo le mani su certi vecchi fumetti di un francese geniale e irregolare, Gérard Lauzier. La sua prima storia era ambientata in un’ex colonia francese di fantasia tra jungla e savana. Gli abitanti della savana erano diventati il Fronte Bobocalandese di Liberazione – trotskisti – mentre la tribù della giungla si era convertita al marxismo-leninismo di marca cinese, fondando il Fronte di Liberazione Bobocalandese. Dopo il tramonto conducevano lunghe sessioni di autocoscienza politica davanti al fuoco, cantando O Lenin O Mao O Mao al suono dei tamburi. Negli anni Settanta Lauzier passava per un autore di destra, e in effetti disegnava ancora gli africani coi labbroni e i dentoni. Si rifiutava a vedere il progresso nella decolonizzazione: era tutta una farsa, una tribù resta una tribù anche se coi fucili le vendi il libretto rosso. Il libro è fuori commercio in Italia, trovarlo è stato più difficile che rintracciare la citazione giusta nella patrologia.

Mi capita spesso di ripensare alla vignetta della tribù marxista, ultimamente, e ai venditori di tappeti di Gregorio di Nazianzo, pardon, Nissa. Sono contento che è finito Natale, quest’anno più del solito. Al mercato, in piazza, in sala insegnanti, per un mese non s’è parlato che di identità cristiana, e soprattutto di presepe. Chiedevi il prezzo del pane, ti rispondevano presepe. Domandavi che fine aveva fatto la programmazione monodisciplinare, ti mettevano al corrente del grosso rischio che stavamo passando di non poter più sentire le zampogne a causa degli immigrati musulmani. L’Amaca di Michele Serra appesa dappertutto. Il punto di riferimento del ceto medio riflessivo progressista che verso la fine del 2015, fidandosi di qualche notizia distorta, si è convinto che i musulmani ci stessero togliendo il presepe. Il presepe. Tra due secoli qualcuno ritroverà un fondo di Michele Serra nel fondo di una valigia, leggerà e si domanderà nella sua lingua sconosciuta: ma sul serio? Parlavano di questo all’inizio del millennio? Di presepe? Non del riscaldamento globale, dell’instabilità economica europea o delle migrazioni nel mediterraneo; parlavano del presepe? Era così tanto importante per loro? O c’era dietro qualcos’altro che non volevano dirci. Cioè: cosa intendeva davvero questo Serra per “presepe”?

Poi i sauditi hanno ammazzato un imam – i sauditi ammazzano chi vogliono più o meno come l’Isis, e più o meno per gli stessi motivi, ma sono nostri alleati, quindi è ok – salvo che per una settimana è stato tutto un fiorire di esperti di teologia islamica. Ci hanno spiegato che tutte le tensioni del Medio Oriente – tutte – si possono spiegare con la religione, l'eterna rivalità tra sunniti e sciiti. Perché, credevate che fosse il petrolio? I sauditi che lottano per imporre una supremazia regionale, che l’Iran gli contende? La Russia che reagisce all’accerchiamento Nato? Le irrisolte questioni curde e palestinesi? No. «Braccia rubate al mercato o al cantiere», avrebbe detto il nostro Gregorio, ci hanno avvertito che tutto dipende da uno scisma di mille anni fa. E infine si è scoperto che a Colonia a capodanno c’erano un sacco di maschi molesti, e i redattori hanno subito deciso che si trattava di stranieri, anzi immigrati, probabilmente clandestini, magari islamici e Bruno Vespa ha twittato:



Le nostre donne. Forse siamo sempre stati così, forse la novità è che Internet ha moltiplicato gli specchi per guardarci. Io una volta pensavo che Bruno Vespa fosse organico a una determinata classe sociale che imponeva la sua visione dei fatti a tarda sera su Rai 1. Ultimamente lo vedo più come uno stregone che balla al ritmo del tamtam, cantando parole che non conosce, “religione”, “valori”, “cultura”. Ma quel che vuole dire è quello che i capotribù hanno sempre detto in questi casi: straniero vuole venire e rubarci le donne.

Forse i posteri saranno più indulgenti. Spulciando un enorme archivio troveranno l’amaca di Serra o i tweet di Vespa, e capiranno che “presepe”, “religione”, “valori”, “bande di immigrati”, in realtà volevano dire una sola cosa: abbiamo paura. Il mondo cambia troppo alla svelta, un sacco di gente arriva qua e mette in discussione tutto quello in cui abbiamo sempre creduto – comprese quelle cose in cui non credevamo di credere davvero (il presepe?) ma erano insomma parte di un paesaggio. Difendo il mio presepe dai musulmani, quarant’anni fa difendevo la mia famiglia dai cosacchi. La mia quarta sponda dagli inglesi. La mia Patria dallo Straniero. Il mio Dio dall’infedele. La mia bandiera, qualsiasi colore abbia, perché è proprio questo il punto: non importa il colore. Non importa il Dio, non importa la Patria, né la famiglia né il presepe. Sono valori arbitrari che fissiamo di volta in volta. L’importante è l’aggettivo: mio. Tracciamo una linea qualsiasi e guai a chi la oltrepassa. Sul serio non moriremmo per il colore di una squadra? Non è l’unica cosa per cui moriamo, alla fine dei conti?

Gregorio nacque in Cappadocia, che oggi è lo zoccolo duro della Turchia rurale e islamica, ma nel suo secolo produceva santi cristiani e padri della Chiesa a un ritmo impressionante. Gregorio può vantare in calendario una nonna, Santa Macrina l’Anziana; due fratelli (San Basilio Magno e San Pietro di Sebaste) e una sorella (Macrina la Giovane). Lui si venera il 10 gennaio.
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I diavoli in Angela

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4 gennaio - Sant'Angela da Foligno, mistica, maestra dei teologi, autolesionista

(ATTENZIONE: dettagli repellenti. Poi non dire che non ve lo si era detto).

Dapprima baciò il corpo di Cristo e vide che
giaceva morto, con gli occhi chiusi; poi baciò
la sua bocca dalla quale colse come un
profumo di dolcezza, impossibile a dirsi...
Dietro a ogni santa di successo c'è sempre un frate. La coppia folignate Arnaldo-Angela somiglia molto a quella, più famosa, formata da Caterina da Siena e Raimondo da Capua. Anche Arnaldo, come Raimondo, all'inizio non immagina nemmeno di essersi imbattuto in una santa: la prima volta che assiste a una crisi ha la netta sensazione di trovarsi di fronte a un'isterica. Sta accompagnando una comitiva di pellegrini alla basilica di Assisi, e all'improvviso quella lontana cugina si accuccia vicino alla porta della chiesa superiore e si mette a urlare Amore Perché M'Abbandoni? Una pazza, insomma, ed è pure sua parente. Angela sta urlando così perché ha improvvisamente perso la connessione con lo Spirito Santo, che l'aveva sorretta durante tutto il viaggio. Sulla scena accorrono altri frati, cominciano a fare domande, ma chi è questa, la conosci? C'è da sprofondare dalla vergogna. Questa è l'ultima volta che la porto. "Mai più in avvenire osasse metter piede in Assisi".

Più tardi alla vergogna per la figuraccia subentra la vergogna per non averla saputa aiutare. Se si comporta così, è probabilmente posseduta da qualche spirito maligno: non è suo dovere indagare? Decide di sottoporre Angela a un rigoroso interrogatorio. La cugina si sottomette volentieri, ma le sue risposte sono così interessanti che Arnaldo smette di fare domande e la lascia parlare a briglie sempre più sciolte. Man mano che procede nelle sedute, il frate si convince di avere trovato una mistica di prim'ordine. Quando le rilegge un suo primo abbozzo, lei lo respinge come oscuro, ma soprattutto "privo di gusto": nel frattempo in paese la gente comincia a mormorare, guarda quel frate come le sta sempre attaccato. Le sue trascrizioni, frettolose e furtive, diventeranno il Liber, uno dei capolavori della mistica medievale. La mistica medievale è però piuttosto noiosa, così Angela da Foligno su internet è per lo più citata per quelle due o tre pratiche veramente hard che ha confessato al suo padre spirituale o ai destinatari delle sue lettere. Col rischio di farla apparire ancora più estrema di quanto non fosse: per esempio, non è esattamente vero, come ho letto più di una volta, che leccasse le ferite dei lebbrosi. Una volta, è vero, mentre stava pulendo le ferite putrefatte, bevve l'acqua sporca della bacinella (non fate così io ve l'avevo detto che si andava sul repellente; e siete ancora in tempo); a un certo punto sentì di avere ingoiato un pezzetto di carne, ma, per quanto volesse ingoiarlo, non ne fu in grado. E poi c'è la questione dei carboni ardenti nella vagina (IO VE L'AVEVO DETTO). In uno dei tanti periodi in cui si sentiva torturata e tentata da demoni, Angela ricorse anche a questo diversivo, ma Arnaldo glielo proibì.

Beh la frusta ogni tanto la usava.
Per queste e per altre aberrazioni, Angela può sembrare il personaggio ideale di un pamphlet anticattolico e antireligioso in generale, come ce n'è un po' dappertutto in rete. Anche qui non è che siamo esattamente su Avvenire; e però mi sembra che le cose siano un po' più complesse. Nei pamphlet la fanciulla vivrebbe libera e felice, ma viene costretta da torve famiglie a rinchiudersi in un convento. Non è esattamente il caso di Angela, che semmai era stata costretta a maritarsi, e che aveva avuto più di un figlio. Quando morirono, Angela (già quarantenne) "provò consolazione": finalmente il suo cuore era libero di donarsi a Dio. Nei pamphlet la religione ufficiale inocula nei fanciulli quei sensi di colpa che poi germineranno in masochismo e altre patologie; nel caso di Angela, che non sembrava vergognarsi di aver provato sollievo alla morte dell'intera famiglia, la religione ufficiale non incoraggiò e nemmeno autorizzò gli eccessi masochistici; cercò per quanto poteva di capire cosa stava succedendo alla povera suora. Frate Arnaldo non poteva certo inventarsi la psicanalisi da solo, anche se il caso effettivamente meritava. Fece del suo meglio, a rischio di mettersi nei guai. Era un frate spirituale a cavallo per Due e Trecento: il problema per lui si poneva nei termini: "Santa o posseduta?" Se era posseduta, si poteva ancora guarire. Se invece era una santa, andava incoraggiata 

Nella sua cella Angela visse una vita complicata: lo Spirito che la rendeva piena di gioia poteva anche abbandonarla per due anni di seguito. I demoni erano più abitudinari. Lei stessa ancora prima di Arnaldo aveva sospettato di essere indemoniata, e il dubbio non l'abbandonava mai. Un profondo desiderio di morte l'accompagnò per anni, trasformandosi nel tempo in un desiderio di agonia protratta all'infinito, nel tentativo di sentire su di sé tutto il dolore del mondo.

Giuseppe Riccetti. 1° premio ex-aequo
al concorso di grafica "Angela da Foligno
- la grande mistica" indetto nel 2000
dal Comune di Foligno.
Poi le passò.

Magari le sarebbe passato anche se Arnaldo non le avesse dato ascolto, non avesse trascritto i suoi discorsi e deliri, non l'avesse messa in contatto con altri colleghi interessati all'esperienza di una campionessa di misticismo. Quel che sappiamo, è che a un certo punto Angela riprese peso. Cominciò a sentire chiaramente che Dio le dava il permesso di interrompere la preghiera, ogni tanto, per mangiare. A differenza di Caterina da Siena, che si lasciò morire a trentatré anni, Angela in un qualche modo venne a patti con la vita, che lasciò soltanto alla ragguardevole età di sessantuno. Negli ultimi quindici fu il punto di riferimento di un nutrito gruppo di fedeli; in alcune sue lettere si propose anche come intermediaria nel conflitto sempre più acceso tra francescani spirituali e conventuali.

Mangiava, scriveva, si appassionava alle liti degli uomini; con la lingua di oggi diremmo che sembrava guarita. Senza trattamenti farmacologici, senza altra terapia che non fosse quella rudimentale portata avanti insieme a un frate che in fatto di mondi interiori ammetteva di saperne meno di lei. Poi successe qualcosa, intorno all'anno 1300. Angela continua a essere invocata e venerata come una santa in vita, ma ha sempre meno voglia di parlare delle sue esperienze e di dare consigli. Le sue lettere diventano distaccate, formali. Per coincidenza, Arnaldo è partito per Roma, sta cercando di fare carriera alla corte di papa Bonifacio. In uno dei suoi ultimi messaggi, stanca forse del suo personaggio, Angela esprime il desiderio di essere esposta per le strade della sua Foligno, coperta soltanto di pesci e tagli di carne.
Venite a vedere questa donna indegna, piena di malizia e simulazione, sentina di ogni vizio e di ogni male. Osservavo la Quaresima standomene tappata nella mia cella, per avere la stima degli uomini, e facevo dire a tutti quelli che m'invitavano: "Non mangio ne carne né pesce". Ero ghiotta, invece, e piena di ogni golosità, mangiona e beona. [...] Non dovete credermi più, non dovete più adorare quest'idolo, erano parole ingannatrici e diaboliche: pregate la giustizia di Dio che quest'idolo cada e vada in pezzi in modo che vengano svelate le mie opere menzognere e ingannatrici.
Non sembra la solita finta modestia dei santi. E si fa fatica anche a interpretarla come un tentativo di riallineamento (alla morte di papa Bonifacio le cose si stavano mettendo male per gli spirituali; anche Arnaldo finì in una lista di eretici). È più semplice immaginare che persino nei suoi momenti di gloria, quando godeva della considerazione e dell'ammirazione di alti prelati e intellettuali, Angela non avesse perso il sospetto di essere un'indemoniata. Una malata, diremmo oggi. Aveva forse ingannato il suo confessore e migliore amico, ma non era riuscita del tutto a ingannare sé stessa. [2013]
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Garantita contro il colera e l'ateismo

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31 dicembre - Santa Catherine Labouré (1806-1876), veggente, designer del gadget più diffuso nell'Ottocento

Disponibile anche in italiano
Nel marzo 1832, a Parigi, durante i festeggiamenti di metà quaresima, un arlecchino all'improvviso si leva la maschera e prima di accasciarsi rivela un volto paonazzo, innaturale: la folla scoppia a ridere, ma di lì a poco i carretti delle ambulanze cominceranno a caricare decine di persone ancora nei costumi della festa. Il colera è arrivato in città.

Farà settemila morti in due settimane, diciannovemila entro l'anno. L'unico rimedio conosciuto e raccomandato dalle autorità è un bagno caldo con aceto, sale e mostarda. Anche linciare repubblicani bonapartisti e legittimisti può servire; non è escluso che siano loro ad avvelenare i pozzi. Alunna di una centralissima scuola elementare in Place du Louvre, la piccola Caroline Nenain è l'unica della classe che sembra avvertire i sintomi. Le suore della Carità scoprono che è anche l'unica a non avere ancora indossato la Medaglia Miracolosa raffigurante la madonna com'era apparsa alla consorella Catherine Labouré, due anni prima. Fortunatamente le sorelle hanno ampie scorte di medaglie, sono loro che le distribuiscono: Caroline guarirà non appena se la sarà messa al collo. È l'inizio di un successo mondiale che farà della medaglietta il gadget più diffuso dell'Ottocento. Si calcola che ne siano state distribuite almeno un miliardo.

Una da qualche parte devo avercela anch'io, in qualche cassetto abbandonato in un trasloco. Potete facilmente procurarvene una anche voi, facendo domanda su un sito che non vi linko, ma è a portata di google. Non costa niente, però ve la mandano con un bollettino da compilare. "...non è una fattura, si tratta di un suggerimento per una possibile offerta libera e del tutto volontaria che aiuterà a portare avanti questa campagna di diffusione della Medaglia Miracolosa". Dicono sempre così, e poi magari cominciano a mandarti il giornalino una volta al mese, e chissà, magari vendono i tuoi dati a frate Indovino, o al messaggero di Sant'Antonio, o San Giuseppe, appena scoprono che sei uno di quelli che compila i bollettini c'è mezzo paradiso pronto a invadere la tua buca delle lettere.

Nella primavera del 1832 la medaglia era appena stata coniata dall'orafo Vachette (quai des Orfèvres 54), sulla base delle indicazioni di padre Jean-Marie Aladel, confessore di Catherine, che al tempo era ancora una novizia. Aladel conosceva già da mesi le visioni della ragazza, e per molto tempo era rimasto scettico; solo quando Catherine lo aveva informato che "la vergine era dispiaciuta" si era deciso a chiedere udienza al vescovo di Parigi per chiedere l'autorizzazione a forgiare la medaglietta che Catherine descriveva nelle sue visioni. Il vescovo da parte sua aveva altre preoccupazioni: dopo la rivoluzione del 1830 la sua posizione era piuttosto precaria. La medaglietta avrebbe potuto aiutarlo, purché i miracoli arrivassero in fretta: nel frattempo non era il caso di divulgare le visioni di Catherine, altrimenti sarebbe stato necessario fare un processo per omologare la visione, mandare tutto a Roma, e a Roma sono lentissimi su queste cose. All'inizio insomma la medaglia sembrò spuntare dal nulla.

L'iconografia non era poi così originale: sul verso appaiono, riconoscibili a ogni cristiano di media cultura, due sacri cuori. Quello di Gesù si riconosce dalla corona di spine, quello di Maria dalla spada che, come le aveva annunciato Simeone, "ti trafiggerà il cuore" (Luca 2,35). Sopra c'è una M che sorregge una croce, un rebus abbastanza facile. Il tutto contornato di dodici stelle che, per dirla col lessico giornalistico, sono un vero giallo: benché infatti anche in questo caso il riferimento alle scritture sia molto chiaro (la corona delle dodici stelle della donna "rivestita dal sole", in Apocalisse 12,1), Catherine non sembra aver mai parlato di stelle. Forse sono un'aggiunta di padre Aladel, forse l'orafo sentiva semplicemente il bisogno di un motivo che incorniciasse l'ovale. La scelta avrà una conseguenza enorme e imprevista, se è vero che il giovane disegnatore Arsène Heitz stava proprio leggendo un libro sulla medaglia miracolosa nel periodo in cui disegnava bozzetti per la bandiera del Consiglio Europeo; ne propose diversi, ma alla fine la giuria laica e inconsapevole scelse proprio la corona di dodici stelle in campo azzurro, che poi fu ripresa dagli altri organismi europei e oggi è la bandiera della UE che gli ucraini nei cortei sventolano con allegro coraggio e i forconi italiani strappano rabbiosi dai pennoni degli edifici pubblici (non si potrebbe semplicemente fare uno scambio? i forconi per tre mesi in Ucraina, gli ucraini al loro posto in Italia, vediamo chi cambia idea su cosa). Gli euroburocrati non se ne erano resi conto - e continuano a smentire - ma hanno messo un simbolo mariano sulla bandiera federale: se aggiungi che la scelta fu presa proprio un otto dicembre, festa dell'Immacolata Concezione... però tutte queste cose le racconta Vittorio Messori, e forse andrebbero ricontrollate una per una.

Catherine, con i suoi gadget
Di tutto ciò Catherine è innocente: lei le dodici stelle non le aveva proprio viste. Aveva visto invece la Madonna raggiante custodire un pianeta nella mano, e aveva sentito una voce dire "Questo piccolo globo simboleggia il mondo intero e ogni anima in particolare". Ogni anima è un mondo, non è mica una brutta immagine: ma nella medaglietta non c'è. Ci sono i raggi che "simboleggiano le grazie che la Santa Vergine ottiene per coloro che le domandano": però il pianeta non c'è più, Aladel lo ha rimosso. La spiegazione più semplice tira in ballo la politica: il globo era una delle insegne regali. Nella prima metà dell'Ottocento era ancora universalmente collegato alla monarchia assoluta, quella che i francesi avevano appena liquidato con la rivoluzione del 1830. Il vescovo in quell'anno aveva dovuto lasciare la sede due volte onde evitare linciaggi e saccheggi; non era veramente il caso di mettere in giro medaglie di gusto monarchico-legittimista (di lì a poco anche i legittimisti saranno accusati di diffondere il colera). Eppure al globo Catherine ci teneva particolarmente: fino alla morte insistette affinché almeno la cappella del suo convento in rue de Bac si dotasse di un altare con la Madonna e il globo.

La cornice sul recto della medaglia non è stellata, ma reca l'iscrizione "O Marie, conçue sans péché, priez pour nous qui avons recours à vous": o Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ci affidiamo a voi. Così aveva udito Catherine, e così fu inciso nella medaglietta: sfidando l'autorità ecclesiastica, che non aveva ancora definito il dogma dell'immacolata concezione. D'altro canto il modello per la medaglietta fu una statua dell'Immacolata (opera settecentesca di Edmé Bouchardon) esposta nella chiesa di Saint Sulpice, insomma, l'immacolata non era esattamente un concetto originale. Il successo della medaglietta però ebbe l'effetto di sbloccare l'antico stallo tra maculisti e immaculisti e a ridare vigore a questi ultimi: il papa Gregorio XVI concesse la festa dell'otto dicembre, ma a decidersi una volta per tutte e a proclamare il dogma fu Pio IX nel 1854. Per la prima volta un dogma veniva dichiarato da un papa e non da un concilio: dunque il pontefice si considerava infallibile? La cosa avrebbe richiesto un altro concilio, ma nel frattempo a troncare la discussione intervenne la Madonna stessa, che apparendo nel 1858 all'ignara Bernardette Soubirous, le si presentò in perfetto occitano: "Que soy era immaculada concepciou". Ora uno degli argomenti che si sentono spesso, a favore di Bernardette, è che non fosse culturalmente in grado di inventare quello che stava raccontando: era una pastorella analfabeta, non aveva mai sentito parlare del dogma dell'immacolata concezione. Sarà. Però al collo aveva una medaglietta miracolosa in cui Maria era definita "concepita senza peccato", ovvero immaculada. Certo, Berardette era analfabeta. Magari nessuno le aveva spiegato cosa stava scritto in quella medaglietta. Ma insomma di apparizioni mariane poteva aver già sentito parlare, visto che ne portava al collo un'effigie. Dal canto suo, suor Catherine non appena seppe di Bernardette e delle apparizioni di Lourdes dichiarò: "È la stessa".

L'altro miracolo importante a cui è associata la medaglietta è la conversione dell'avvocato Alphonse Marie Ratisbonne durante una gita a Roma nel 1842. Professando un orgoglioso ateismo, il giovane di belle speranze accetta la sfida di un'amica di famiglia, che le propone di indossare la medaglietta e di recitare una preghiera di San Bernardo. La notte stessa nella sua camera d'albergo vede una croce, ma al risveglio l'ha già dimenticata. Il giorno dopo, mentre cerca affannosamente di vedere il papa (è l'ultimo desiderio prima di lasciare l'Urbe), segue incautamente l'amico nella chiesa di Sant'Andrea delle Fratte: lì ha una visione mariana che gli cambia la vita per sempre. Doveva lasciare l'Italia, salpare per l'oriente, vedere un altro po' di mondo prima di tornare a casa e sposare una nipote; decide lì per lì di battezzarsi e farsi monaco. Non c'è neanche bisogno di catechizzarlo perché all'improvviso conosce tutti i dogmi della fede cristiana. Alla conversione miracolosa verrà date ampia risonanza anche perché Alphonse Marie (fino a quel momento Alphonse Tobias) era di origine ebraica: e poche ore prima di infilare la medaglietta fatale aveva visitato il ghetto di Roma, scandalizzandosi per le condizioni in cui vivevano gli ebrei della città. Poi gli appare la madonna e da lì in poi tutto gli è chiaro, compresa la segregazione.

Ratisbonne dopo la cura
Dopo una breve militanza nei gesuiti, Ratisbonne fonderà il proprio ordine, con la priorità della conversione di musulmani ed ebrei. Terminerà i suoi giorni in Palestina. Il racconto della sua conversione, steso da lui medesimo, è un altro di quei memoriali ottocenteschi che sembrano invocare l'arrivo di Freud. Per quanto dichiari a ogni pagina di non aver mai ricevuto nessun tipo di cultura religiosa, né ebraica né cristiana, Ratisbonne inciampa nell'idea di Dio continuamente. Racconta per esempio di aver troncato di netto i rapporti col fratello maggiore, che si era convertito qualche anno prima, e che aveva dedicato un saggio monografico proprio su San Bernardo - tu guarda la coincidenza. Del fratello Alphonse non voleva più nemmeno sentir parlare (poi andranno in Palestina assieme). Alphonse ammette ancora di aver partecipato almeno a una riunione di ebrei che avrebbe avuto come oggetto una riforma dell'ebraismo, anche se garantisce che per tutta la riunione non si discusse mai di Dio, né della sua legge: e si capisce che lo dice con rammarico. Quando l'amica di famiglia gli propone di pregare San Bernardo, accetta con allegria, e per un attimo gli balena l'idea di uno scambio: purtroppo non conosce nessuna preghiera ebraica da insegnare all'amica.

Tutto insomma contribuisce a proiettare la figura dell'ateo devoto: quel tipo di persona che, con la scusa di ribadire che non esiste, ha in bocca dio continuamente. Sono i più facili da convertire, di solito stanno soltanto aspettando la spinta giusta. La signora che gli mise al collo la medaglietta conosceva il suo pollo, per così dire. Ma ancora oggi è abbastanza facile tracciarli, gli atei così. Sono loro stessi che escono allo scoperto, con lunghi discorsi che all'orecchio annoiato dell'esperto suonano come un semplice grido: convertimi convertimi! non subito, ma presto! Il resto del tempo stanno spiegando la religione ai papi o la scienza agli scienziati, o viceversa, a un certo livello è uguale. C'è poco da fare ironia, magari siamo tutti così. È piuttosto plausibile che una certa tensione verso l'assoluto, una certa ansia di sottomissione a una divinità, siano eredità ancestrali, genetiche magari: poi subentra l'educazione, e soprattutto in certi contesti si tende a reprimere anche queste inclinazioni: non si rutta a tavola e non si pensa a Dio. Prima o poi, però, come sappiamo, salta fuori tutto; alcuni riescono a sublimare dedicandosi ad altre speculazioni metafisiche: la filosofia, la matematica magari. Altri non ce la fanno. Rimane in loro questo vuoto pazzesco e non sanno come gestirlo. Potrebbe capitare a chiunque. Se almeno si potesse capire per tempo se siamo quel tipo di persone... forse un giorno basterà un analisi del dna... ma nel frattempo. Nel frattempo potreste replicare l'esperimento di Alphonse: accattatevi la medaglietta su internet, ripetete la preghiera di San Bernardo, vedete come va. Se non avete allucinazioni nel giro di una settimana, forse non siete quel tipo di persone. Magari un giorno ci provo anch'io. Appena trovo la medaglietta. Da qualche parte deve pur essere, non butto mai via niente. In ogni caso non c'è fretta, come diceva quello [2013].
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Morte di un tecnico (nella Cattedrale)

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29 dicembre: San Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, tecnico e martire (1118-1170)

Otford è un graziosa cittadina del Kent con un lieve difetto: non vi cantano gli usignoli. Anche prima che si disboscasse per far passare l'autostrada M26, a Otford di usignoli non ce n'è, o se ce n'è stanno zitti. Gli abitanti dicono che è colpa di San Thomas arcivescovo, o meglio: è colpa degli usignoli che cantavano troppo una notte che l'arcivescovo voleva pregare in santa pace: così li ha zittiti per sempre. In questo episodio, ovviamente apocrifo, c'è tutto il carattere di Thomas. Anche a Francesco d'Assisi, di una generazione più giovane, è attribuita la facoltà di silenziare gli uccelli: il senso dell'aneddoto però è completamente diverso, Francesco tratta le rondini di Alviano da sorelle, gli usignoli di Otford per Thomas sono semplici seccatori. Francesco è il santo più popolare, Thomas qualche anno fa ha partecipato a un controverso sondaggio sul "peggiore personaggio storico britannico" classificandosi secondo dietro a Jack lo Squartatore, il che è un'autentica ingiustizia: Becket non ha mai fatto a pezzi nessuno. Semmai lui è stato fatto a pezzi, e dal suo sacrificio ci hanno guadagnato in tanti; e adesso lo infamano.

Mi piacciono le miniature sui fatti di cronaca.
L'ipotesi è che il vago sentimento di antipatia che circonda il più venerato santo inglese dipenda dal fatto che Thomas è quel che oggi definiremmo un tecnico: uno che chiami perché faccia un lavoro e lo faccia bene, e non t'interessa se nella sua intimità veste un cilicio o zittisce per sempre gli usignoli. Abbiamo tutti bisogno di tecnici, ma li odiamo. Forse perché intuiamo di essere totalmente in loro potere. Malediciamo gli idraulici, gli elettrauto li vorremmo morti; per loro fortuna non abbiamo cavalieri al nostro servizio che realizzino le nostre minacce. Thomas non fu altrettanto fortunato.

Suo padre era un mercante normanno che aveva fatto fortuna nell'Inghilterra conquistata di fresco. Aveva amici nobili che avevano insegnato a Thomas a cacciare col falcone e altre menate aristocratiche cui non seppe rinunciare neanche quando vestì l'abito di arcivescovo. L'amico più importante, l'abate Teobaldo di Bec, lo indirizzò agli studi, e lo prese al suo servizio quando gli affari del padre andarono male. Thomas aveva abbandonato l'università di Parigi dopo un anno, ma proseguì gli studi a Bologna e Auxerre. Nel frattempo Teobaldo di Bec era diventato arcivescovo di Canterbury, ovvero primate d'Inghilterra: colui cui spettava incoronare i re, per intenderci. A trentasei anni Thomas divenne il suo arcidiacono. A trentasette la svolta improvvisa: il re Enrico II, su consiglio di Teobaldo, lo nominò suo cancelliere. Fino a quel momento Thomas era stato un tecnico di diritto canonico: al re però serviva tutt'altro, un primo ministro che riuscisse a farsi pagare le tasse da tutti, compresi i grandi proprietari. E persino, sì, la Chiesa: anche da lei Enrico II pretendeva un tributo, lo so, è inimmaginabile, sono barbare usanze medievali che comunque il cancelliere Thomas assecondò. Il canonico dell'arcivescovo cambiò casacca e divenne un vero mastino laicista, uno strenuo difensore delle prerogative del regno. Forse è per questo che è arrivato secondo solo dietro a Jack the Ripper? Macché, questo è solo l'inizio.

Sei anni dopo l'arcivescovo Teobaldo muore. Enrico II a quel punto ha una gran voglia di insediare Thomas al suo posto. Questi rifiuta più volte, e non lo fa per modestia (carattere che nessun cronista gli attribuisce): ma conosce troppo bene sia Canterbury sia il re per non capire che il conflitto d'interessi lo stritolerà. Grazie, no, gli risponde: "Perderei la benevolenza di vostra maestà, e l’affetto di cui mi onorate si trasformerebbe in odio, giacché diverse vostre azioni volte a pregiudicare i diritti della Chiesa mi fanno temere che un giorno potreste chiedermi qualcosa che non potrei accettare". Fu nientemeno che il Papa Alessandro III a sbloccare la situazione: conosceva Thomas e si fidava di lui. Oltre ad avere bisogno del sostegno della corona d'Inghilterra: mezza Europa non lo riconosceva, Federico Barbarossa lo aveva rimpiazzato con un antipapa.

Alessandro comunque aveva visto giusto. Cambiata l'ennesima casacca, Thomas diventò un geloso difensore delle prerogative ecclesiastiche, tanto quanto prima era stato uno zelante difensore delle prerogative regie. Era evidentemente un tecnico, uno che di mestiere difendeva le prerogative del migliore offerente. Non significa necessariamente che fosse un uomo arido. Tra i vari incarichi che ricoprì, gli capitò anche di dover fare il regio babysitter: allevò per qualche anno il principe Enrico il Giovane, quello che tanto avrebbe desiderato diventare Enrico III, invano. Sembra che il Giovane abbia dichiarato di avere ricevuto da Thomas più affetto paterno in un giorno che dal suo vero padre in tutta la vita.

Mentre lo squinternavano, diceva
tante cose nobilissime, riportate
in varie cronache.

Ad alienare definitivamente padre e patrigno fu una questione di diritto canonico. Al tempo i membri del clero, se accusati di un crimine anche grave, potevano essere giudicati soltanto da un tribunale ecclesiastico. Questo tribunale poteva infliggere multe e pene anche peggiori, come la dismissione dallo stato clericale ("laicizzazione") o addirittura la scomunica... ma non poteva spargere il sangue: nemmeno una stilla. Viceversa, nei tribunali civili di Enrico II pene di morte e mutilazioni erano ancora all'ordine del giorno. Fa un po' effetto pensare che la laicità a quel tempo fosse una pena sostitutiva del patibolo, ma le cose stavano così: ammazzi qualcuno? ti trovano in flagranza di reato? Se sei un laico, ti mutilano o ti ammazzano. Se sei un prete... non lo sei più. La cosa presentava ovvi vantaggi, tanto più che non riguardava soltanto preti monaci e vescovi, ma anche gli ordini minori, insomma si calcola che un quinto dei sudditi di Enrico potesse teoricamente delinquere senza temere la giustizia del re. Il quale re non discuteva nemmeno il privilegio ecclesiastico, ma ragionava in questi termini: se laicizzate un omicida, quello non è più un prete, e quindi perché a quel punto non posso farlo arrestare e giudicarlo io? Basta mettere un mio uomo in ogni corte ecclesiastica, e ci pensa lui ad arrestare i laicizzati e a portarli in un tribunale ordinario... ma per i vescovi questo non si poteva fare. I vescovi in realtà erano perlopiù disponibili a discuterne, e magari anche un po' corruttibili, tranne ovviamente Thomas. Enrico gli tolse tutto quello che gli aveva elargito da cancelliere, compresa la custodia del principino, ma niente da fare.

A Clarendon nel 1164 Thomas fu messo davanti a un documento (le Costituzioni di Clarendon) che per la prima volta metteva per iscritto alcuni principi della common law inglese, in particolare la competenza dei tribunali laici nei riguardi dei chierici colpevoli di crimini secolari. Thomas affermò di accettare, ma poi non firmò, o forse firmò ma immediatamente dopo cercò di lasciare l'Inghilterra, il che era esplicitamente proibito dalle Costituzioni. Arrestato, condannato, Thomas arrivò comunque in Francia l'anno dopo, prima ospite dei monaci cistercensi e poi di Luigi VII, un re che se c'era da fare un dispetto al collega inglese, non si tirava mai indietro. Tra i due c'era ben più di un contenzioso diplomatico: la moglie di Enrico, Eleonora di Aquitania, era stata un tempo moglie di Luigi, gli aveva dato qualche figlio e lo aveva persino accompagnato in una crociata, che aveva messo a dura prova la convivenza della coppia. Eleonora non era solo bellissima, era anche il miglior partito d'Europa: possedeva mezza Francia e quando Luigi aveva consentito all'annullamento del matrimonio certo non aveva immaginato che di lì a poco Eleonora si sarebbe fidanzata con un Re rivale. Le seconde nozze di Eleonora avevano reso Enrico il signore del più grande dominio feudale d'Europa, esteso dalla Scozia fino alla Francia occidentale: questo può spiegare la disponibilità di Luigi a ospitare l'arcivescovo ormai nemico dichiarato della corona d'Inghilterra. Molto più tiepido il Papa, che con Enrico non voleva rompere assolutamente, e che cercava di ricomporre il dissidio scrivendo lettere a tutte le parti in causa con versioni che però non combaciavano. Thomas da parte sua aveva una sola arma a disposizione – la minaccia di scomunica nei confronti dei sostenitori del re – e cominciò a usarla: ma come tutte le minacce, è un'arma che a snudarla troppo si consuma. Un primo tentativo di scomunicare il collega vescovo di Londra, Foliot, andò a vuoto, perché Foliot riuscì a dimostrare che Thomas non gli aveva mandato un preavviso previsto per legge. Thomas, si cominciava a dire in giro, è uno che prima condanna e poi giudica.

Proprio quando le parti stavano faticosamente arrivando a un compromesso, che conveniva a tutti, un evento esacerbò il già agro arcivescovo: Enrico decise di associare al trono il suo primogenito, proprio l'ex pupillo di Thomas: e chiamò a incoronarlo l'arcivescovo di York. Ora, da che mondo è mondo, i re d'Inghilterra li incorona l'arcivescovo di Canterbury. Thomas alla fine accettò di tornare sull'isola, ma quasi appena sbarcato mandò un triplo giro di scomuniche, ai vescovi di York, di Londra e di Salisbury, che erano stati presenti alla cerimonia. Questi fecero immediatamente appello al re, il quale, quando fu informato della tripla scomunica, si incazzò molto. Pronunciò in quell'occasione qualcosa di cui in seguito ebbe a pentirsi, anche se non sappiamo esattamente cosa. Ci sono varie versioni, diversi resoconti, perché il martirio di Thomas non è solo l'ultima leggenda del medioevo: è anche uno dei primi fatti di cronaca nera di risonanza europea, per mesi e anni nelle corti e nei chiostri non si parlò d'altro. Per il biografo ufficiale Enrico avrebbe detto: "Quali miserabili traditori ho allevato e cresciuto nella mia casa, che lasciano che il loro signore sia trattato così vergognosamente da un chierico di umili natali?" Ve lo immaginate un re incazzato del dodicesimo secolo che parla così? Diciamo che una frase tanto elaborata, ancorché verosimile in un contesto cortigiano, si presta male alla tesi della difesa, che sostiene che fu uno sbotto di collera: così nei secoli ha avuto più successo la teoria secondo cui Enrico disse semplicemente: "Nessuno mi libererà da questo prete turbolento?" Quattro cavalieri lo presero in parola e partirono immediatamente per Canterbury. Si chiamavano De Tracy, FitzUrse, Brito e Hugh de Morville, tutti e quattro cavalieri di alto lignaggio.



Anche di quel che accadde il 29 dicembre del 1170, 842 anni fa oggi, esistono vari resoconti. Tutti più o meno concordano sul fatto che i quattro cavalieri non volessero, in un primo momento, fare a pezzi il povero Thomas, e proprio all'interno della Cattedrale. Fu un incidente, come si dice. Prima di entrare avevano addirittura deposto le armi sotto un albero. Thomas era a pranzo in canonica quando si vede arrivare questi quattro normanni semianalfabeti che lo intimano di presentarsi a Winchester davanti a una corte del re, o qualcosa del genere. Presentarsi per chi? Per cosa? Ma chi siete? Ma come vi permettete? Io sono l'arcivescovo, fuori dai piedi.

A quel punto i quattro vanno a recuperare le armi sotto l'albero. Thomas nel frattempo si era spostato all'interno della cattedrale, voglio ben vedere se quei quattro senzadio mi seguono fin qui. I quattro entrano effettivamente nella casa del Signore, e ci entrano armati, ma non è che volessero proprio proprio uccidere l'arcivescovo, però... anche nel suo seguito c'è qualche testa calda, gira qualche brutta parola, insomma a un certo punto succede quel che ha da succedere. FitzUrse trafigge l'arcivescovo una prima volta, De Tracy vibra il secondo colpo. Brito mira un po' più in alto e gli scoperchia il cranio. Hugh de Morville non fa nulla, in compenso un suo intendente sparge la materia cerebrale sul pavimento. Poi, visto che ormai la frittata è fatta, i quattro pensano bene di saccheggiare la cattedrale. Ma non era che l'anticipazione di quanto sarebbe successo di lì a poco.

Morendo da martire, e proprio sul pavimento di una cattedrale che era già meta di pellegrinaggi, Thomas ebbe il raro privilegio di diventare una reliquia immediatamente, a piastrelle non ancora lavate. "Mentre giaceva immobile sul pavimento, qualcuno si imbrattava col suo sangue; altri che avevano portato piccoli recipienti si allontanarono immediatamente in tutta fretta con quanto sangue poterono, altri ancora vi intinsero avidamente brandelli di stoffa strappati dai loro vestiti: alla fine nessuno parve appagato se non avesse portato via un po' di quel prezioso tesoro". Non appena la folla di cacciatori di sacri resti si fu un po' diradata, i monaci presero quel che restava del corpo e decisero di seppellirlo immediatamente, prima che qualche altro fanatico lo profanasse o qualche zelante cavaliere del re lo facesse sparire. Spogliandolo, scoprirono che sotto le ricche vesti arcivescovili indossava un cilicio: forse non era semplicemente un tecnico, forse in quel che faceva ci credeva davvero. Questo almeno si è deciso di raccontare, aggiungendo via via elementi alla leggenda (non è vero, come si legge qua e là, che una volta nominato al seggio di Canterbury si sarebbe tagliato i capelli). I miracoli non si fecero attendere, verso sera c'era già una paralitica risanata dal contatto col sacro sangue dell'arcivescovo. Di lì a poco cominciò il commercio di ampolle di sangue arcivescovile, opportunamente diluito, probabilmente fino a diventare trasparente anche se l'omeopatia ufficialmente è nata qualche secolo dopo.

Mentre Canterbury si avviava a diventare la Lourdes inglese – e gli inglesi se si impegnano non sono secondi a nessuno – in Normandia Enrico II si lasciava rodere dai sensi di colpa. Forse. O forse fu tutta una messinscena. Di lì a poco la moglie un po' sfiorita ma ricchissima e il primogenito con la fissa dei tornei si allearono per estrometterlo dal governo del regno. Portarono dalla loro parte anche il fratello Riccardo, mentre l'ultimogenito, Giovannino Senzaterra, rimase dalla parte di papà. Schiacciare i rivoltosi fu così semplice che Enrico non se la prese nemmeno troppo con chi gli aveva finalmente dato una buona scusa per mettere agli arresti la vecchia moglie. Riccardo, non ancora esattamente un Cuor di Leone,  si guadagnò il perdono strisciando in lacrime. Enrico il Giovane sembrò per qualche anno rinunciare a ogni velleità di fare il re per davvero, e si rituffò in un'intensa attività agonistica, torneando in tutta Europa. Durante la rivolta il padre aveva ritenuto giusto riconciliarsi con la Chiesa, recandosi in pellegrinaggio a Canterbury e passando una notte insieme con la salma dell'ex validissimo collaboratore. Il Papa approvò e perdonò ufficialmente, nel mentre che si accingeva a santificare Thomas con una canonizzazione lampo – d'altro canto i miracoli registrati a Canterbury erano già centinaia. Dopo essere stato un cancelliere modello e un arcivescovo inflessibile, Thomas si era subito rivelato un santo di indiscutibile efficacia.

E i quattro cavalieri? Non furono nemmeno arrestati: se ne stettero per un po' autoreclusi in Scozia, e poi ottennero un solenne perdono in cambio dell'impegno ad andare in guerra contro i turchi. Non si sa se tornarono (non si sa nemmeno con sicurezza se partirono). Ma insomma, alla fine la sensazione è che il martirio di Thomas convenne a tutti: il re e il Papa giunsero finalmente a un compromesso sulle costituzioni di Clarendon; e gli inglesi ebbero un martire di prima categoria. Thomas ci rimediò, un secolo più tardi, una meravigliosa tomba placcata in oro e tutta incastonata di diamanti e pietre preziose, una gioia per gli occhi. Tre secoli dopo un altro Enrico, l'ottavo, spazzò via tutto in spregio dei papisti. Ma fino al Cinquecento Thomas con le sue ampolline e le sue grazie era stato il San Gennaro degli inglesi (e gli inglesi, se si impegnano, non sono secondi a nessuno). È il patrono di Londra, con San Paolo, e dei tecnici arcigni che tutti invocano nella necessità, e a cui nessuno vuole veramente un po' di bene. [2012]
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Dalla padella alla Rivelazione

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27 dicembre - San Giovanni Evangelista (10?-100?)

Giovanni è il primo e l'ultimo. Primo degli apostoli di Gesù, dopo aver seguito per qualche tempo l'altro Giovanni, il Battista; ultimo a morire, dopo aver sperimentato il tentato martirio (a Roma provarono a friggerlo nell'olio), l'esilio, il delirio psichedelico dell'Apocalisse, e il declino fisico: negli ultimi suoi anni correva voce che non sarebbe morto prima del Giudizio Universale. Poi effettivamente morì, lasciandoci i due libri più enigmatici del Nuovo Testamento.

Il tempietto di San Giovanni in oleo
(San Giovanni all'olio!), nel luogo dove si
tentò invano di friggere l'evangelista.
La forma del tempietto (forse di Bramante,
sicuramente rimaneggiato da Borromini),
richiama la padella.
Il primo è il quarto Vangelo – qui si potrebbe aprire una parentesi sulla bizzarria di una religione, come il Cristianesimo, basata su un Annuncio (eu anghélionEvangilium) di cui però non ci rimane una sola versione, come sarebbe opportuno quando si manifesta il Divino, ma tante, tutte un po' discordanti tra loro: il che finisce per inoculare un germe di senso critico nel nucleo stesso della cristianità. La filologia, che con tanti difetti è già una scienza, l'hanno dovuta inventare gli stessi cristiani, per capire come fossero andate realmente le cose, e comunque non ci sono riusciti: ogni tentativo di riorganizzare la vita di Gesù in una sola narrazione coerente non deve aver funzionato, visto che già nel secondo secolo la Chiesa si ferma sui quattro Vangeli: quattro come i punti i cardinali, diceva Sant'Ireneo; come i piedi di un tavolino, aggiungo io, che comunque lo sistemi un po' traballa. Dipende anche dalla superficie.

Di solito dondola sul lato Giovanni. Il suo Gesù, pur richiamando chiaramente quello degli altri tre cosiddetti sinottici, dice e fa cose piuttosto diverse. Quasi nessuna parabola, quei raccontini che in Luca Marco Matteo erano il fulcro di una predicazione molto concreta, rivolta anche agli umili. Il Gesù di Giovanni invece si spende in densi discorsi sulla sua natura divina e umana; a cominciare da quell'Inno al Logos che apre il Vangelo e che imbarazza i cristiani saltuari alla Messa di Natale: cos'è questo trattatello filosofico sul Verbo fatto Carne, perché non ci raccontate la storia del bimbo nella mangiatoia tra il bue e l'asino? Con Giovanni, l'aquila che può fissare il Sole, si capisce che non è più tempo di favole ai bambini. Il suo Vangelo è l'ultimo a essere stato composto (ma è il primo di cui ci restano tracce su un papiro) e risente già delle polemiche teologiche della fine del primo secolo: condanna gli adozionisti e ispira gli gnostici, se non ruba loro qualcosa. Poi c'è la questione dei miracoli. Giovanni li chiama segni e li mette in una luce diversa: nei sinottici Gesù guarisce chi crede in lui e risolve i problemi di chi ha già fede. Invece il Gesù di Giovanni cambia l'acqua in vino, risuscita Lazzaro, moltiplica pani e pesci, affinché la gente creda: addirittura dopo morto è disponibile a farsi mettere le dita addosso da Tommaso, l'apostolo scettico.

Un episodio indicativo della diversità di Giovanni è il perdono dell'adultera, il brano famosissimo in cui Gesù dice ai lapidatori “Chi non ha peccato scagli la prima pietra”: attualmente si trova nel quarto Vangelo, ma gli studiosi sono concordi nel ritenerlo spurio, una paginetta piegata e infilata alla bell'e meglio in un capitolo giovanneo, che come stile assomiglia piuttosto a Luca. Luca però era un vangelo per tutti, compresi coloro che avrebbero potuto equivocare l'episodio e considerarlo un'autorizzazione al meretricio, sia mai! Così a un certo punto l'episodio in Luca potrebbe essere stato censurato. Ma era comunque un meraviglioso brano di vangelo, e allora alla fine qualche manina non necessariamente santa l'ha messo lì, dov'è più difficile che qualche povero di spirito lo noti: tra i discorsi del Gesù di Giovanni.

Forse la differenza principale coi sinottici riguarda la Passione. Giovanni non è il solo evangelista a ricordare dettagli discordanti, ma è l'unico a dedicare ai fatti di Gerusalemme metà del suo libro. All'ultima cena Gesù lava i piedi agli apostoli e tiene un lungo discorso in cui ribadisce tutti i suoi insegnamenti, ma non spezza il pane: si limita a offrirne un pezzo a Giuda, dicendo “Fa' quel che devi fare”, e in quel momento “Satana” entra nell'apostolo.

Di queste e altre differenze facciamo fatica a renderci conto: di solito il Gesù che impariamo a conoscere è un mix di sinottici e Giovanni. A Messa ogni anno si legge un sinottico diverso, e ogni tre anni si ricomincia da capo: Giovanni invece si legge tutti gli anni, un po' ogni tanto, il prezzemolino per darsi un tono. Invece se si prova a leggere il Nuovo Testamento dall'inizio alla fine si resta frastornati: proprio quando più o meno ti sembra di aver raccolto tre deposizioni, con qualche dettaglio discordante ma tutto sommato coerenti, ecco che arriva Giovanni, che sostiene di essere un testimone oculare, e si ricorda tutt'altro. Siccome siamo nati scettici, e credere ci costa fatica (ne riparleremo), la prima conclusione è che Giovanni stia facendo fan fiction: il suo, invece di essere l'ultimo Vangelo, sarebbe il primo romanzo storico con Gesù protagonista: un racconto accurato e verosimile, con alcuni personaggi davvero ben tratteggiati (fantastico Ponzio Pilato, dice cinque cose e sono tutte memorabili: Sei tu il re dei Giudei? Quid est veritas? Costui o Barabba? Ecce Homo! Quel che ho scritto ho scritto). Un romanzo composto su misura per un pubblico del Secondo Secolo, più esigente di quello delle generazioni precedenti che si contentavano di parabole. In alcune pagine, come nella resurrezione di Lazzaro, si ha l'impressione di trovarsi davanti a un Gesù tridimensionale, non più un guru piovuto dal deserto: un uomo, con amici da consolare e perfino amiche – ecco, troppo bello per essere vero. D'altro canto, se Giovanni fosse un romanziere, avrebbe pure dovuto attingere informazioni su Gesù: e allora perché non usa quasi mai i sinottici, neanche per stravolgerli? Anzi è quasi come se non li conoscesse. Ma se non li aveva presente, come faceva a conoscere la storia di Gesù?

Alla fine l'ipotesi originale rimane una delle più sensate: il quarto Vangelo è diverso dagli altri tre perché riflette la predicazione di un testimone oculare – che però è rimasto a lungo isolato dagli altri tre (in esilio a Patmos?), e ha finito per rimuginare un Gesù molto diverso da quello, per dire, di Matteo, che era pure apostolo quanto lui. Capita a tutti i fratelli di farsi, negli anni, un'immagine diversa dello stesso padre: quello dice una cosa e a distanza di anni loro si ricordano chi un dettaglio, chi un discorso, chi il pane, chi il vino, chi nulla. Tutto giustissimo, ma lo Spirito Santo non sarebbe dovuto intervenire a spianare i malintesi? Sì, ma forse ci avrebbe tolto il piacere dell'indagine: io preferisco tenermi un Dio che autorizza versioni discordanti delle sue avventure, un invito quasi esplicito a non fidarsi al 100% di nessuna rivelazione. In ogni caso quello che ci è arrivato sotto forma di Vangelo secondo Giovanni sarebbe la collazione un po' disordinata di due testi più antichi, il Vangelo dei “segni”, i miracoli appunto; e la Passione, più altre pagine vaganti, come l'Inno al Logos: sarebbe l'emanazione della comunità cristiana di Efeso, grande città dell'Asia Minore in cui Giovanni avrebbe predicato prima e dopo la tentata frittura e l'esilio a Patmos. Gli efesini mantennero, come Giovanni, delle curiose differenze: continuarono a festeggiare la Pasqua nella data degli ebrei anche dopo che furono minacciati di scomunica.

A Patmos poi Giovanni avrebbe avuto la famosa rivelazione, che in greco si dice anche Apocalisse, e terrorizzava i nostri sogni di cresimandi: proprio quando il Nuovo Testamento sembra volgere al termine, con una serie di lettere letterine e bigliettini augurali in cui si ribadisce che Gesù è buono e ci ha salvato dai peccati... ecco che arriva l'ultimo libro e ci risprofonda nell'immaginario delirante dei profeti più oscuri: chiunque l'abbia scritta davvero aveva più in mente Ezechiele o Daniele che il buon pastore dei Vangeli. Rimane un libro fondamentale per l'immaginario cristiano moderno: i quattro cavalieri, i sette sigilli, il numero 666 e soprattutto la donna gravida che calpesta un serpente hanno popolato incubi e visioni di santi, beati e semplici lettori. In realtà, a calarla nel suo contesto, l'Apocalisse non è che l'esempio più fortunato di una letteratura profetica che in quei secoli era molto diffusa (c'era l'apocalisse di Pietro, di Paolo, di Maria, eccetera, tutte escluse dal canone). Gran parte delle visioni che il lettore moderno trova orrorifiche sono allegorie che l'antico lettore avrebbe saputo interpretare senza battere ciglio: quando la tal bestia ha “sette occhi” (brrr) significa semplicemente che riesce a vedere molto più in là di noi; aquila angelo toro e leone rappresenterebbero le quattro costellazioni che indicano i punti cardinali nei solstizi e negli equinozi.

Mi piace raffigurarmelo come Carlo Dolci
(XVII sec.): giovane e un po' fumato.
Persino il senso del titolo ci è sfuggito: per noi è ormai sinonimo di fine del mondo, ma oggi i teologi preferiscono considerare il libro come un'esortazione ai cristiani del primo secolo a tener duro nei periodi difficili. D'altro canto in un qualche modo bisogna pur spiegare come sia possibile che il finale della Bibbia riveli un regno di Mille anni che ancora non s'è visto nel 2012. Alcuni continuano a spostare la Rivelazione un po' più in là: i Testimoni di Geova leggono il numero 666 in tutti i codici a barre, mentre nel ciclo di romanzi fanta-cristiani protestanti più letti in America, Left Behind, la Bestia che parla tutte le lingue del mondo fa il segretario generale dell'ONU. I cattolici si sono rassegnati, o forse più semplicemente hanno messo su pancia: non si può predicare che la fine dei tempi è vicina e poi chiedere tutti gli anni l'otto per mille come se niente fosse. Così da racconto della fine dei tempi l'Apocalisse diventa una cronaca allucinata delle vicende della Chiesa e dell'Impero nel secondo secolo: la Bestia che pretende di tatuare tutti i suoi sudditi sarebbe l'imperatore Domiziano, un banale persecutore di cristiani, neanche particolarmente famigerato. C'è persino una corrente di studiosi che escludono che Gesù fosse un predicatore escatologico: parlava di un Regno dei Cieli, sì, ma non di un'imminente fine dei tempi. Eppure i cristiani delle prime generazioni, nella fine del mondo, ci credevano.

Lo si capisce dal fatto che non pensassero agli eredi: l'abitudine a mettere i beni in comune, le esortazioni di Paolo a lasciar perdere la carne – una bella differenza con la prolificità dei cattolici di adesso. È chiaro che vivevano nell'attesa della fine imminente: in questo contesto si riesce anche a capire la leggenda secondo cui Giovanni non sarebbe mai morto. Una voce del genere non può esser nata che quando Giovanni era già vecchio, ma evidentemente ancora arzillo. Sopravvissuto alla frittura miracolosa e all'esilio, probabilmente a un certo punto si ritrovò a essere l'ultimo testimone oculare in vita, e questo gli permise di acconciare le cose a modo suo: nel suo Vangelo accetta il ruolo di preminenza conferito a Pietro, ma fa capire in vari modi di essere stato il favorito del capo: di essere stato uno dei primi due a seguirlo, di aver tenuto la testa nel suo grembo mentre Gesù annunciava il tradimento, di aver avuto da Gesù stesso in punto di morte l'incarico di badare alla Madre (o era la Madre che era incaricata di pensare al ragazzino, o entrambe le cose) di aver visto la tomba vuota insieme a Pietro, e di aver creduto forse prima di lui. Però, con una modestia molto letteraria, rinuncia a firmarsi col suo nome, e per tutto il Vangelo si fa chiamare “il discepolo che Gesù amava”: perifrasi che qualcuno ha voluto leggere maliziosamente (c'è tutta una corrente gnostica secondo cui in realtà il Vangelo lo ha scritto Maria Maddalena). Ecco, alla fine del quarto Vangelo c'è un'appendice commovente, in cui Gesù appare di nuovo agli apostoli in riva al lago di Tiberiade, pesca e cena con loro, e chiede a Pietro se gli vuole bene. Glielo chiede tre volte, un modo molto delicato e giovanneo per rinfacciargli l'episodio del canto del gallo. Pietro ci resta male, e invece Gesù gli dice “Seguimi”: l'episodio serve a ribadire la sua posizione di capofila degli apostoli. Dopo di lui però c'è subito “il discepolo che Gesù amava”: Pietro si volta, forse preoccupato per il destino del ragazzo, e chiede a Gesù che cosa ne sarebbe stato (21,22-23):
Gesù gli rispose: «Se voglio che rimanga finché io venga, che t'importa? Tu, seguimi». Per questo motivo si sparse tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto; Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che rimanga finché io venga, che t'importa?».
Io ovviamente da bambino questi versetti li interpretavo nel modo più fantastico, immaginandomi un Giovanni in giro sulla terra ancora oggi, ad aspettare le trombe e i sigilli un po' in ritardo sulla tabella di marcia. Ora che comincio a farmi bianco anch'io, mi sento più attratto da un'altra leggenda, che mostra l'apostolo ormai decrepito a Efeso, un monumento vivente degli anni ruggenti di Gesù, che però non riesce più a camminare, né quasi a parlare. A chiunque viene a visitarlo ripete soltanto: Figlioli, amatevi gli uni gli altri. E a chi gli chiede perché sempre la stessa frase, risponde: Perché è precetto del Signore: basta questo. Tutto il Vangelo di Giovanni in una frase sola: Giovanni che effettivamente non muore, ma invecchiando perde la sua proverbiale eloquenza, a poco a poco, fino a ridursi a un unico versetto. Non è male, c'è chi muore ripetendo affannosamente il Cinque Maggio di Manzoni perché è la cosa che a scuola, la maledetta scuola gentiliana, gli hanno inculcato con più forza. Ecco, potendo scegliere, io preferirei il versetto di Giovanni. Forse dovrei cominciare a ripeterlo ossessivamente prima di addormentarmi, e appena alzato. Un fioretto per l'anno nuovo.

[È un pezzo del 2011].
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Stefano è il primo

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26 dicembre - Santo Stefano, primo martire.

Stefano con le pietre in testa (Giotto)
O poesia della festa di Santo Stefano, fragrante di panettone secco e citrosodina. Festa di cinture slacciate, di avanzi riscaldati, di cartacce che frusciano sul pavimento - appena ieri erano involucri preziosi, contenevano la Magia del Natale, adesso aspettano il camino o la differenziata. Eppure testimoniano che qui passò una Festa di quelle importanti, di quelle che ti servono a segnare il tempo, per sempre il 2012 sarà quell'anno in cui a natale lo zio rovesciò lo champagne sul vestito nuovo della tua fidanzata ma non importa, è Santostefano, chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, anzi no ci sono ancora degli antipasti da ieri, qualcuno vuole degli antipasti? E sbafiamoci pure questi volovòn - no, aspetta, ci stanno le cozze. Nessuno poi si ricorda cos'ha fatto a Santostefano.

Che forse è il giorno più bello dell'anno, proprio per questo. Un giorno di crapula, postumi e oblio. È andata, non dovrai più preoccuparti di pacchetti e pensieri e presenti, e certi parenti molesti non si ripresenteranno più almeno per altri 364 giorni. Da qui in poi è in discesa - è vero che bisogna ancora sorpassare quella notte incresciosa in cui bombardano i cassonetti - ma il più è fatto. Eppure l'anno nuovo coi suoi fardelli sembra ancora lontano, lontano, quasi una settimana di distanza; e se sei ancora uno studente la Befana è lontanissima, c'è tutto il tempo per farsi venire la nausea da playstation. Santostefano, secondo me, per la maggior parte di chi lo festeggia non esiste, non sanno nemmeno che si chiama così. Non hanno mai smesso veramente di mangiare, magari allo stesso tavolo, oppure stanno videogiocando ininterrottamente da venti ore, in tv fanno ancora roba natalizia, e chi sarebbe 'sto Stefano poi.

Un piantagrane, un classico martire saccente, di quelli che vogliono spiegare tutto a tutti e presto o tardi si mettono nei guai. Nel suo caso prestissimo: Stefano è il primo martire in assoluto. Subito dopo Gesù, forse appena un anno dopo, tocca a Stefano, che potrebbe non averlo mai conosciuto, ma si fa comunque ammazzare in suo nome. La maggior parte dei laici in hangover natalizio semplicemente lo ignora, ma anche i veri praticanti - e da poche cose li riconosci come dal fatto che hanno messo la sveglia per andare a messa pure a santostefano - restano talvolta un po' perplessi. Hanno ancora nelle orecchie gli inni di Natale, gli angeli e i pastori e la mangiatoia (e i Magi non sono ancora arrivati), e invece il 26 è tutta un'altra storia, dal sapore tipicamente pasquale, un processo al sinedrio, un martirio... una piccola pasqua, all'indomani del Natale. Non è chiaro esattamente come mai sia andata così. Né il Natale, né il martirio di Santo Stefano sono date storiche: Iacopo da Varazze ricorda che in un primo momento la passione del Santo si festeggiava nello stesso giorno dell'"invenzione", cioè del ritrovamento delle reliquie (3 agosto); poi si decise di spostarla in dicembre, anche per separare la commemorazione dello Stefano storico da quello prodigioso che, disseminato in mille santuari (tra Venezia e Roma dovrebbero esserci almeno due corpi, in tutto quattro braccia se si aggiunge quello custodito a Capua), aveva ovunque sbalordito con miracoli spettacolari.

Lo Stefano del ventisei dicembre invece è probabilmente un ragazzino meno prudente dei suoi compari, che si fa beccare mentre dice cose molto blasfeme sulla religione degli ebrei (a Gerusalemme, in quegli anni, non era veramente il caso). Condotto al tribunale religioso, il Sommo Sinedrio, invece di rimangiarsi i suoi discorsi su Gesù Cristo distruttore di templi e sovvertitore di costumi, conferma ogni cosa, ma con dovizia di citazioni bibliche allo scopo di dimostrare che Gesù è il Cristo, che in ebraico sta per Messia. Ora, vuoi far arrabbiare un ebreo? Mettiti a spiegargli la Torah. Quelli impazziscono di rabbia, nei modi molto teatrali in cui era necessario farlo all'epoca: digrignano i denti, si tappano le orecchie, prorompono in grida altissime. Ma non si stracciano le vesti. Con Gesù si erano stracciati le vesti, con Stefano no, forse si era capito che l'eresia gesucristiana rischiava di durare parecchio e non ci si poteva permettere una veste nuova a ogni processo.

Stefano con le pietre addosso
(Carlo Crivelli).
Ai nostri occhi moderni può sembrare una sceneggiata, ma erano tempi in cui non esisteva il montaggio serrato delle immagini, né le basi drammatiche da sovrapporre in cabina di regia: era tutto in diretta, ci si arrangiava con grida altissime e gesti esagerati, visibili anche da lontano. Comunque, mentre digrignano e strepitano, Stefano va in estasi, ha una visione: "Ecco io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio". A quel punto la rabbia è tale che i sacerdoti si permettono quello che nemmeno con Gesù avevano osato fare: lo portano in un prato fuori città e lo ammazzano a pietrate. Era la pena prevista dalle Scritture per i blasfemi, la lapidazione: un'esecuzione a distanza, prevista per chi non era più degno di essere toccato nemmeno per essere ucciso. Gesù era stato ritenuto colpevole dello stesso reato, ma in quel caso i sacerdoti si erano ben guardati dall'eseguire una sentenza, visto che la forza d'occupazione romana in città glielo impediva: solo il procuratore Pilato aveva il potere di mettere a morte un uomo. Pilato poi aveva fatto quell'altra scenetta molto teatrale del lavarsi le mani, ma non c'è dubbio che Gesù sia morto per mano di boia romani, inchiodato al più romano dei supplizi.

Stefano invece muore in modo molto mediorientale, ancora oggi ogni tanto da quelle parti qualcuno (più spesso qualcuna) rischia di finire così, lapidato. Cosa sta succedendo in città? Qualche storico si è azzardato a supporre che la differenza abbia un senso storico: ai tempi di Pilato il sinedrio non aveva il diritto di giustiziare un uomo, quindi Stefano deve essere morto dopo, in un breve periodo di interregno tra un procuratore e l'altro. Pilato viene effettivamente sollevato dall'incarico nel 36 tra le proteste: non per avere ucciso Gesù (già mezzo dimenticato), ma per avere represso una rivolta nel sangue. La data è compatibile col racconto degli Atti, ma non è detto che le cose siano andate così: forse Stefano fu semplicemente vittima di un linciaggio, forse l'intenzione dei sacerdoti non era farlo fuori, e la cosa scappò di mano. Di sicuro il suo lungo discorso fiorito di citazioni bibliche sembra strapparti i sassi dalle mani, Gesù al confronto è un tipo laconico, con le sue frasi un po' sibilline che possono significare tutto e niente. Stefano invece è proprio il primo della classe, vuol far sapere che ha studiato la lezione e la sa meglio di tutti.

C'è un che di verosimile nel fatto che il primo a morire per la nuova fede sia un novellino come lui,  e non un testimone diretto della vita di Gesù. Gli apostoli - più maturi, più consapevoli dei rischi e forse istintivamente portati a cercare un modus vivendi con le autorità ebraiche - da qualche tempo avevano optato per un basso profilo in città. Fino a quel momento nessuno era stato perseguitato per la propria adesione a questa nuova forma eretica di ebraismo in cui si identificava Gesù col Messia: Pietro, è vero, era stato messo agli arresti, ma era stato prontamente liberato da un angelo, o da un GIP clemente, non sappiamo. A un certo punto però gli apostoli decidono di concentrarsi sull'apostolato e delegare l'ordinaria amministrazione dei sacramenti a sette persone: sono i primi diaconi. Hanno tutti un nome greco: questo non significa nulla, i nomi greci erano ormai diffusi in tutto il quadrante orientale dell'impero, e anche molti apostoli ne avevano uno (c'erano poi strani ibridi, come BarTolomeo). Anche nel caso di Stefano, non sappiamo se fosse ebreo o no. Il nome greco ci fa immaginare che provenisse da una famiglia "ellenizzata", il cui stile di vita era più simile a quello di un suddito greco dell'Impero, che a un tradizionalista ebraico. In effetti il dubbio è che Stefano sia vittima, più che di una persecuzione cristiana a opera di ebrei, di una dei periodici scontri tra ebrei ellenizzati ed ebrei tradizionalisti, che dovevano fare di Gerusalemme una specie di Belfast del mondo antico. Per contro i cristiani come Pietro, o come Giacomo "fratello del Signore", che pur dicendosi seguaci di Cristo continuavano a rispettare le leggi ebraiche, non sembravano avere nulla da temere dalle autorità. Ma in realtà non possiamo sapere come siano andate realmente le cose.

Lapidazione di Santo Stefano (Lotto).
Quel che sappiamo è che quando Stefano diventerà una star assoluta del pantheon, padon, del calendario cristiano, lo dovrà oltre al suo primato al fatto di essere un rarissimo esempio di vittima degli ebrei. Di solito gli ebrei non si trovano nella posizione di persecutori, ma con Stefano le cose sembrano andate così. Diventerà in diversi casi una bandiera dell'antisemitismo cristiano: a Minorca, dove durante la traslazione delle reliquie gli ebrei vengono costretti a convertirsi e assumerlo come santo patrono; in Asia Minore, dove la venerazione per Stefano viene diffusa dal clero per contrastare quella nei confronti dei Maccabei, protagonisti dei libri più barricaderi e anti-ellenici dell'antico Testamento.

Ma per diventare così popolare, Stefano doveva mettersi a fare enormi prodigi, ed è quello che successe proprio a partire dal quinto secolo, quando ormai il cristianesimo era religione di Stato, e gli eretici da perseguitare erano diventati gli ebrei. È a questo punto che un sogno miracoloso di un monaco porta alla scoperta sensazionale delle reliquie di Stefano, reliquie che ovviamente fanno il giro del mediterraneo: prima prelevate da una nobildonna che a causa di uno scambio di persona, anzi di salma, le porta a Costantinopoli in luogo dei resti di suo marito. Poi da Costantinopoli viene organizzato uno scambio alla pari, Lorenzo di Spagna in cambio di Stefano protomartire, ma qualcosa va storto. Stefano viene effettivamente portato a Roma, ma i fedeli costantinopolitani venuti a portarlo e a ritirare le spoglie di Lorenzo muoiono tutti miracolosamente. Almeno Iacopo da Varazze scrive che fu un miracolo, ma non ci sono testimoni - anche i pochi romani favorevoli allo scambio muoiono contestualmente - e insomma il risultato è che i romani si sono tenuti sia Stefano che Lorenzo; quest'ultimo poi alla notizia dell'arrivo di tanto collega sembra che si sia allegramente fatto da parte nella tomba, accucciandosi come un amante per lasciare un po' di posto al nuovo arrivato. Non che ci fosse bisogno di così tanto spazio: il cranio andò alla basilica di San Paolo fuori le mura, tranne qualche frammento che si trova a Putignano (BA); un braccio a Sant'Ivo alla Sapienza, un altro braccio a San Luigi dei Francesi, un altro ancora a Santa Cecilia in Trastevere, uno ancora a Capua, Stefano era un freak.

Sempre secondo Iacopo i giorni immediatamente successivi al Natale sono quelli in cui si celebrano i primi compagni di Gesù, i martiri, nelle tre tipologie: San Giovanni evangelista (27) è l'esempio di un santo che volle il martirio ma non lo ottenne. I santi innocenti (28) forniscono l'esempio contrario: sono santi che non volevano essere martirizzati, ma gli successe comunque, beati loro. Stefano 26 rappresenta invece la prima categoria di martiri: quelli che il martirio lo hanno voluto e lo hanno trovato. Se la sono cercata, diremmo oggi. Festeggiarlo proprio oggi, nel giorno più rilassato dell'anno, ha un certo retrogusto di beffa. Beviamoci su del limoncino.

[È un pezzo del 2012].
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La madonna azteca

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12 dicembre - Nostra Signora della Guadalupe (1531) prima fotografia a colori della Storia.

I latinoamericani sanno già, gli altri sospendano l'incredulità: a Città del Messico c'è una foto cinquecentesca della Madonna, a colori. Sembra un dipinto, ma chi ha potuto esaminarlo dice che non lo è, non c'è nessuna traccia di pigmento, e poi l'espressione del suo volto ha un che di irriproducibile. È l'immagine della Madonna più popolare del Sudamerica, e quindi, tra poco, di tutta la cattolicità. Alcune madonne sono finite sugli scudi e negli stemmi, ma Nostra Signora della Guadalupe è l'unica Madonna a essere stata sventolata come bandiera da un esercito, ovviamente rivoluzionario. Ah, e inoltre è probabilmente una divinità azteca sotto falso nome. Ma procediamo con ordine, o quasi.

Sono passati appena dieci anni da quando Cortés si è impadronito della città del Messico, che gli abitanti sopravvissuti al vaiolo e ai conquistadores chiamano ancora Tenochtitlan. Juan de Zumarraga, primo vescovo della Nuova Spagna, riceve la visita inattesa di un contadino azteco di mezz'età, nome di battesimo Juan Diego, al secolo Cuauhtlatóhuac.  Mi manda nostra signora la Vergine di Dio, dice Juan al vescovo, stavo andando alla chiesa di Tlatelolco quando l'ho vista sul colle Tepeyac, mi ha detto di venire da voi perché vuole che le si costruisca un tempio lì.

Zumarraga non è un frescone: nel vecchio mondo faceva l'inquisitore, anche nel Nuovo troverà il modo di bruciare qualche prete azteco che forse non aveva del tutto rinunciato ai sacrifici umani. Probabilmente sa che su quel colle fino a poco tempo prima c'era il tempio di una divinità chiamata Tonantzin, "Nostra Cara Terra", insomma diffida. Quando il giorno seguente Juan Diego ritorna da lui, raccontandogli di avere rivisto la Madonna che insiste con la storia del tempio, lo caccia in malo modo e lo fa addirittura pedinare. Juan, disperato, torna dalla Madonna scusandosi e implorandola di trovarsi un migliore avvocato. La Madonna lo esorta a non mollare e gli promette che l'indomani gli farà avere una prova da esibire al vescovo scettico.

Il nastro nero in vita è un'allusione alla
gravidanza che i nativi avrebbero compreso
immediatamente. Luna, stelle e raggi del sole
sono attributi divini, ma lo sguardo rivolto
al basso attesta che non si tratta di una divinità.
Il giorno dopo, però, Juan non si fa vivo. È assente giustificato, suo zio è in fin di vita. Verso sera l'anziano parente gli chiede di andare l'indomani a Tlatelolco a trovargli un confessore. Invano Juan spiega che ha già una commissione da sbrigare per conto di Nostra Signora: lo zio se non trova un confessore va all'inferno. Juan a malincuore sceglie di dare buca alla Madonna, ma invano: quella lo attende al varco l'indomani sulla strada per Tlatelolco.

Quando la vede Juan si getta ai suoi piedi e cerca di spiegarsi. Non preoccuparti per tuo zio che sta già meglio, gli dice bonaria Nostra Signora. Piuttosto sali sul solito colle e raccoglimi dei fiori. Fiori? È il 12 dicembre, esattamente 481 anni fa, e il Tepeyac è una pietraia: e tuttavia Juan vi trova dei bellissimi "fiori di Castiglia" (rose?), che raccoglie nel suo mantello (tilma) e corre a offrire a Maria. Questa li manipola per qualche istante e poi li rimette nella tilma: portali al vescovo, vedrai che stavolta ti crede.

Mentre a casa lo zio guarisce miracolosamente, Juan torna per la terza volta dal vescovo inquisitore. Stavolta gli uscieri non lo vogliono nemmeno far entrare: poi notano i bei fiori nella sua tilma e cercano di portarglieli via, ma non si staccano: incuriositi dal fenomeno, vanno a chiamare Zumarraga. "Ancora lui? Cos'hai portato stavolta?" Juan Diego balbetta qualcosa e poi apre la tilma: ZOT!

Succede qualcosa di inspiegabile: un flash illumina la stanza e sul tessuto vegetale del mantello di Juan Diego si sviluppa all'istante l'immagine di Nostra Signora della Guadalupe, così come la possiamo vedere adesso nel suo santuario effettivamente costruito alle pendici del Tepeyac (le foto in questo caso non valgono, l'espressione ha un che di ineffabile che si può notare soltanto dal vivo). Va bene, direte voi, ma allora perché non si chiama Nostra Signora del Tepeyac? Perché la vergine avrebbe insistito con Juan per farsi chiamare proprio Vergine della Guadalupe, che è un santuario della vecchia Spagna, e precisamente dell'Extremadura, la terra arcigna donde provenivano tanti conquistadores e in particolare Hernan Cortés? Ci sono tante teorie.

Per esempio: forse Juan non ha detto davvero "Guadalupe", ha detto "Tecuatlanopeuh" ("Colei che ha origine dalle cime rocciose"), e gli spagnoli che lo ascoltavano hanno comprensibilmente interpretato con la parola più vicina nella loro lingua, ovvero "Guadalupe" (che per coincidenza era anche un santuario europeo veneratissimo da molti conquistadores, eccetera). Diego avrebbe potuto anche dire "Tecuantlaxopeuh" ("Colei che scaccia chi ci divorava"), o, ipotesi più accreditata, "Coatlaxopeuh", "colei che schiaccia il serpente", bella reminiscenza di Genesi ("Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno") e Apocalisse (la donna insidiata dal drago-serpente). La Madonna fotografata nella tilma non schiaccia un serpente ma sta in piedi sulla luna, come in tante immagini ispirate all'Apocalisse ("una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi"). Vale anche la pena di ricordare che Quetzalcoatl, uno degli dei più adorati dagli aztechi, era il "serpente piumato", un Prometeo locale squamoso e vagamente antropomorfo simile anche a un drago. Un personaggio estremamente complesso, ma per i primi missionari messicani un semplice demone da schiacciare col calcagno...
Il racconto insomma alluderebbe a un esempio classico di inculturazione: un santuario azteco in onore di una divinità femminile viene nel giro di una generazione "schiacciato" e sostituito da uno nuovo in onore della Madonna. Anche se nel racconto a farsi promotore dell'operazione è un umile nativo, Juan Diego, di cui però non ci sono molte testimonianze. Zumarraga nei suoi scritti non parla mai né di Diego né di Nostra Signora.

La Guadalupe originale, quella in Estremadura,
a me fa pure più paura.
Un quarto di secolo più tardi, il primo a lasciarci una testimonianza approfondita sulla venerazione dei nativi per il santuario della Guadalupe-Tepeyac è un altro francescano scettico, Francisco de Bustamante. Costui scrive preoccupato al viceré riguardo a questo culto, fomentato dai domenicani, che ritiene dannoso per i nativi, perché "fa credere loro che l'immagine dipinta dal pittore indio Marcos sia in qualche modo miracolosa". Dunque esiste un pittore: dovrebbe chiamarsi Marcos Cipac de Aquino, essere di origine indigena ma dipingere all'europea, però su un tessuto vegetale sconosciuto in Europa, con tecniche che non siamo ancora riusciti a capire (qualsiasi tentativo di rifare l'immagine coi colori del tempo, su un tessuto simile, ha dato per ora risultati insoddisfacenti). Naturalmente per molti Marcos è semplicemente un restauratore, un tizio che a un certo punto avrebbe cercato di correggere col pennello, in modo anche piuttosto maldestro, alcuni dettagli dell'immagine originale. Ma a ben vedere le due storie sono in conflitto: o è esistito Marcos l'indio, o è esistito Juan Diego. Il primo esclude l'altro. Il primo è attestato sin dal 1556. Il secondo però è stato fatto santo da Giovanni Paolo II. Diciamo che la Chiesa a un certo punto ha preso posizione.

Pensate che la disposizione delle stelle
sulla veste sia casuale? Eh no, è proprio
la posizione che dovevano avere il 12 dicembre
1531 a Città del Messico (ma non era giorno?)
Nel 1556 la situazione era più fluida. All'indomani della denuncia di Bustamante parte un'inchiesta: da una parte domenicani e vescovo, favorevoli al culto che è già popolarissimo; dall'altra i francescani, che perderanno il controllo del santuario, destinato di lì a poco a essere smantellato e ricostruito più grande, e poi più grande ancora. Qualche anno più tardi Bernardino de Sahagun scrive che gli indios continuano a chiamare Nostra Signora col nome nahuatl di Tonantzin, "prendendo spunto dai Predicatori che chiamano col nome di Tonantzin Nostra Signora, la Madre di Dio". Ma di Juan Diego e della sua storia ancora nessuna traccia. La Madonna azteca varca l'oceano, diffondendosi prima della patata: nel 1571 l'ammiraglio Gian Andrea Doria che guida la flotta cristiana a Lepanto ha in cabina di comando una riproduzione dell'immagine miracolosa, dono personale di re Filippo II di Spagna. Il che non gli impedisce di tagliar la corda quando se la vede brutta: i cristiani vinceranno lo stesso e lui racconterà a tutti che è stata una geniale mossa tattica, era scappato solo per finta. Il Papa ne approfitterà per attribuire la vittoria alla Madonna del Rosario, del resto anche quella di Coatlaxopeuh-Guadalupe era nata dalle rose. Ma questo nel 1571 ancora non lo sapeva nessuno. I primi racconti della vicenda di Juan Diego risalgono a metà del secolo successivo. Un po' tardi per un evento che avrebbe dovuto essere avvenuto centoventi anni prima.

Dalla posizione delle stelle poi puoi arrivare alla proiezione del planisfero sulla tilma, il che ti porta a fare tutte delle considerazioni geopolitiche interessanti (ad esempio la luna punta verso gli USA, le mani stanno in Medio Oriente, uhm).
La cosa non impensierisce più di tanto i devoti, che più che che dalle vicende terrene di Juan Diego sono attirati dai miracoli - sono le grazie ricevute, non le leggende di fondazione, ad attirare il grosso dei pellegrini. Uno dei primi miracoli rivela che la transizione da tempio azteco a santuario mariano dev'essere stata abbastanza graduale: i fedeli sono ancora indios che partecipano ai riti con archi e frecce; poi si sa cosa succede quando tutti girano armati, prima o poi un colpo parte, è statistica, insomma un fedele rimane ferito, viene esposto davanti all'immagine e guarisce all'istante: potente Tonantzin, pardon, Nostra Signora, ma tanto per i domenicani Tonantzin vuol proprio dire Nostra Signora, quindi viva pure Tonantzin, l'inculturazione non è uno sport per chi ha troppi peli sullo stomaco. Anche il fatto che sia un po' scura di pelle ha il suo perché: per alcuni è la dimostrazione del suo carattere sovrannaturale, Nostra Signora appare a Juan Diego già con quelle fattezze meticce che diventeranno tipiche dei messicani solo qualche generazione più tardi. Ribattono gli scettici: non è meticcia, ha la pelle scura come tante madonne europee sin dall'epoca bizantina; peraltro la Madonna della Guadalupe originale, quella dell'Estremadura, è proprio nera; ed era davvero veneratissima da tutti i colonizzatori spagnoli, lo prova il fatto che negli stessi anni stava avendo un enorme successo dall'altra parte del Pacifico, nelle Filippine.

Secoli di bandiere messicane.
Nel giro di due secoli Tonantzin-Guadalupe diventa il vero emblema del Messico, pronta a seguire il suo paese in tutte le tappe di una storia che si preannunciava tormentata. "Morte agli spagnoli e viva la Vergine della Guadalupe!", intona padre Miguel Hidalgo all'inizio del suo "Grido di dolore" (1810): è l'inizio della guerra d'indipendenza. Al termine del conflitto il Messico avrà un primo presidente, José Miguel Ramón Adaucto Fernández, però forse i lunghissimi nomi dei dominatori spagnoli hanno un po' stancato, così José decide di tagliar corto e si ribattezza Guadalupe Victoria. Un secolo dopo, Pancho Villa ed Emiliano Zapata sventolano ancora la Vergine come stendardo. Ancora un altro secolo, e l'EZLN che occupa il Chiapas battezza la sua capitale itinerante Guadalupe-Tepeyac. E tuttavia non è che stia simpatica a tutti: nel 1921 sopravvisse (miracolosamente, va da sé) a un attentato di un bombarolo anticattolico – il governo però disse che erano stati i cattolici a mettere la bomba per attuare una strategia della tensione ecc. ecc. La storia di Nostra Signora è la storia del Messico, che in questo post, abbiate pazienza, non ci sta.

ECCO JUAN DIEGO! Non lo vedi?
Vabbe', miscredente.
Torniamo invece a Juan Diego. Per molto tempo non è stato così importante. È comparso piuttosto in ritardo, come si è visto (la prima ricerca ufficiale della Chiesa è del 1666), e per molto tempo è rimasto un dettaglio. Poi nel 1951 il fotografo José Carlos Salinas Chávez annuncia di avere trovato il suo volto. Dove? Ma è ovvio: riflesso negli occhi della vergine, catturato nel momento in cui l'immagine si fissa nella tilma, così come negli occhi di ogni personaggio fotografato c'è un minuscolo ritratto di chi sta scattando la fotografia. Purtroppo la risoluzione non ci permette mai di ingrandire così tanto – ma la tilma è una fotografia divina, puoi ingrandirla quanto vuoi. Sarà anche così, peccato che sia Chávez che i fanatici successivi non abbiano lavorato sulla tilma, ma su normali riproduzioni fotografiche che non si possono ingrandire più di tanto: la faccia barbuta intravista da Chávez è un esempio perfino banale di pareidolia, la tendenza a riconoscere volti umani in qualsiasi macchia casuale di colore. Lo dimostrerà suo malgrado l'ingegnere peruviano José Aste Tonsmann, che vent'anni dopo proverà a ingrandire per 2500 volte una foto, e non ci vedrà più la faccia che ci vedeva Chávez, bensì... cinque o sei facce diverse, ovvero Juan Diego più il vescovo, più il traduttore, più i servi scettici e persino una governante di colore. E così via, l'ultima volta che ne ha parlato Voyager i personaggi erano tredici: tutti in una macchiolina in una pupilla socchiusa ingrandita migliaia di volte. Tutti questi personaggi poi profetizzano l'apocalisse Maya del 21 corrente mese, c'è senz'altro un blog da qualche parte che lo dice (trovato), d'altro canto se la Madonna appare il 12 non è un caso. Nulla è mai un caso.

Il vescovo è quello con la barba e la pelata, la serva nera è in basso, Juan Diego ha il cappello a punta,
e ce n'è altri due NON LI VEDI? Sei senza speranza.

Anche il fatto che la Chiesa abbia recuperato l'evanescente figura di Juan Diego non è un caso, ma deriva dalla determinazione di Giovanni Paolo II a trovare santi in ogni dove e in ogni quando: non gli bastavano quelli latinoamericani, no, lui voleva anche il santo azteco, e quindi bisognava in un qualche modo dimostrare che Juan Diego (beatificato già nel 1990) fosse realmente vissuto. E tuttavia l'assenza di testimonianze per un secolo e più stava portando il processo di canonizzazione a uno stallo, quando nel 1995 Padre Escalada, già autore non di un saggio sulla Madonna di Guadalupe, ma di un'enciclopedia di cinque volumi sulla Madonna di Guadalupe, annunciò al mondo di avere ritrovato un resoconto dell'apparizione del 1531 su una pelle di daino risalente al Cinquecento. Nella cartapecora, anzi cartadaino, rinvenuta per caso tra le pagine di un libro ottocentesco in un negozio di reprint, e passato di mano in mano fino a quella di Padre Escalada, si fa il nome di Juan Diego, anzi di Cuauhtlactoatzin, di cui si segnala la data di morte: 1548. C'è anche la firma di un francescano famoso, Bernardino de Sahagun, ed è inutile che facciate quella faccia, la firma è autentica. Lo dicono gli studiosi, se è un falso è stato fatto veramente molto bene. C'è da dire che, come molti falsi, si guarda bene da aggiungere qualcosa a quello che già sapevamo. Non tutti si convinsero: nel 1996 Guillermo Schulenburg, canonico del santuario della Madonna, dichiarava ancora che Juan Diego era da considerare un semplice simbolo, e non un personaggio storico - dopodiché perse il posto, dopo trentasei anni di onorata attività. Nel 2002 Juan Diego è diventato santo; si festeggia il nove dicembre. In Europa invece non è molto conosciuto. Eppure è probabile che la sua storia vi sia risultata familiare.

"Vari altri Vescovi, Sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna
ripida, in cima alla quale c’era una grande Croce di tronchi grezzi
come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di
arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo
con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime
dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte,
prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce venne ucciso
da un gruppo di soldati" (Terzo segreto di Fatima).
In effetti ricalca quello delle apparizioni mariane più celebri, da Lourdes a Fatima: apparizione a un personaggio incolto, intervento di un'autorità scettica che cerca di negare l'apparizione, agnizione finale di Nostra Signora che trionfa anche sui dubbiosi. Ma la Madonna non si è sempre comportata così: questo modus operandi un po' da romanzo popolare è una novità relativamente recente nella storia della Chiesa. In Europa la prima apparizione di questo tipo (Nostra Signora del Laus, Francia) è a cavallo tra Sei e Settecento. Quindi, anche se Juan Diego fosse un personaggio inventato a metà Seicento, sarebbe comunque un'invenzione assolutamente originale, un prodotto di esportazione americano più rapido ad attecchire di patata e caffè. Il che ci lascia un sospetto. E se fosse sul serio Tonantzin? Se Guadalupe fosse la tradizione malintesa di Quetzalcoatl, se fosse un'incarnazione del Serpente Piumato o di qualche altra divinità mesoamericana, che in una delle sue mute millenarie si è impossessato di un'immagine dell'inconscio collettivo dei conquistadores europei, ha preso le forme di una tenera fanciulla gravida, e con quelle forme ha invaso l'Europa? E se Gian Andrea Doria, mentre sconfiggeva i turchi con le sue ritirate strategiche, avesse avuto senza saperlo a bordo una divinità pagana assetata di sangue? E poi? Chi è apparso davvero a Bernardette? Chi ha sussurrato i segreti apocalittici ai tre pastorelli di Fatima? La montagna insanguinata del terzo segreto, non ricorda in qualche modo una piramide azteca? D'altro canto, un dio mesoamericano assetato di sangue poteva davvero perdersi i campi di battaglia europei tra Ottocento e Novecento? Chi tra le divinità assassine non avrebbe fatto di tutto per essere presente, compreso travestirsi da fanciulla un po' scura di pelle? Non è che siamo tutti devoti da tre secoli al serpente piumato, non è che Cortés credeva di vincere e invece ha perso, non è che i veri aztechi alla fine siamo noi?

[Pubblicato la prima volta nel 2012].
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Senza macchia o senza scelta?

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8 dicembre - Immacolata concezione della vergine Maria, dogma di fede

Maria di Nazareth si venera con tante feste diverse, per tanti motivi diversi. Nei prossimi giorni assisteremo a un trittico fortuito e fantastico: oggi è l'Immacolata, l'esito ultimo di una diatriba teologica durata più di mille anni; il dieci sarà Santa Maria Aviatrice, alias la Madonna di Loreto; e il 12 dicembre tenetevi pronti per la Madonna più bizzarra ed esotica di tutte, quella azteca della Guadalupe. Il primo gennaio festeggeremo Maria in quanto madre di Dio (anche lì i teologi litigarono non poco, ci furono morti e dispersi); in seguito avremo l'Annunciazione, l'Assunzione, il Carmelo, il Rosario, Lourdes, Fatima, la Madonna della Neve. Inoltre l'otto settembre, tra nove mesi esatti, sarà il suo compleanno.


Francesco Podesti, musei vaticani. Gli affreschi della sala dell'Immacolata
sono l'ultimo kolossal pittorico romano, prima del grigio diluvio democratico.

In tutti questi giorni, se uno vuole, può venerare la vergine. Ma non c'è una vera festa della Vergine in quanto tale. La possiamo considerare in quanto assunta in cielo, o immacolata, o comparsa a Lourdes o altrove. Ma un giorno per riflettere sulla sua misteriosa verginità pre- e post-puerperale non c'è. Questo è singolare, anche per il modo in cui sono nate molte di queste feste: per gemmazione più o meno spontanea, molti secoli prima che un concilio o un papa ratificasse ex cathedra il dogma. L'Assunzione, per dire, si festeggiava mille anni fa, ma è stata omologata da Pio XII nel 1950. Anche l'Immacolata concezione, un concetto che circolava sicuramente sin dai tempi di Agostino, ha dovuto attendere il 1854. Quanto alla nascita verginale di Gesù, è un dogma sin dal 553 e non era molto controversa nemmeno prima: le Scritture lì parlano abbastanza chiaro. Un altro paio di maniche però è sostenere che la Madonna abbia continuato a essere vergine anche dopo il parto, e non abbia concepito col suo legittimo sposo altri fratelli (malgrado nei vangeli li si chiami per nome). Questa sorta di postulato al quinto dogma è uno degli articoli di fede più refrattari alla contemporaneità: una divinità che decida di incarnarsi in un uomo e sacrificarsi per i suoi peccati può sembrare bizzarra, ma una donna che resta vergine dopo un concepimento e dopo un parto è qualcosa di irrimediabilmente buffo: non si capisce come se ne possa discutere restando seri, e in effetti i teologi se possono evitano l'argomento. Ma si tratta in qualche modo di un effetto ottico, un difetto nella nostra prospettiva. Quando parliamo di corpo, noi abbiamo sempre in mente quello contemporaneo, misurabile, raffigurabile, sezionabile, fotografabile addirittura. Se non siamo storici - e non lo siamo quasi mai - ci è facile commettere l'errore di guardare al medioevo o all'epoca antica senza cambiare il nostro paradigma: per noi si è vergini o no a seconda di una cosa che si chiama imene, che siamo tutti convinti di sapere cos'è e dove si trova (sbagliandoci). La verginità è diventata un puro fatto fisico, tant'è che oggi "rifarsi una verginità" ha smesso di essere un paradossale modo di dire: esistono chirurghi che ti rifanno l'imene. Siccome ai tempi di Maria di Nazareth questo tipo di chirurgia era impossibile, ne deduciamo che il quinto dogma sia un'assurdità, pura propaganda che ha fatto il suo tempo. Siccome capiamo soltanto quello che possiamo osservare e misurare, l'unica caratteristica della Madonna che ci interessa davvero non è l'immacolata concezione o l'assunzione o la maternità di Dio, ma il suo imene.

Non ci viene quasi mai il sospetto che la parola "verginità" possa avere avuto un significato diverso, in un'epoca diversa, in cui ogni corpo aveva una dimensione morale inscindibile da quella fisica. I cattolici, per primi, mostrano una certa difficoltà a relativizzare. Se un concilio nel VI secolo ha detto "vergine", dovremmo credere che intendeva "vergine" nel senso che ha il termine su un manuale di anatomia del XXI secolo. Il problema dei dogmi è tutto qui: non puoi che fissarli a parole, ma le parole cambiano significato continuamente. L'unica è smettere di usarle: e infatti più che della verginità - concetto sempre più scabroso, man mano che la morale sfuma e la corporeità viene messa sempre più a fuoco - i cattolici amano parlare di immacolata concezione. Lì sì che la teologia si può sfrenare senza attriti col mondo fisico: non ci sono imeni che tengono, si tratta di stabilire se la Madonna non sia mai stata macchiata dal peccato originale. Siccome ha procreato Cristo che è Dio, carne della sua carne, se ne deduce di no, fine del dibattito - eh no, troppo comodo. Solo Cristo ci ha liberato dal peccato originale, quindi come poteva la Madonna esserne libera prima? L'obiezione è di Tommaso d'Aquino, mica l'ultimo arrivato: però già Agostino aveva messo in dubbio la categoria del tempo, forse il "prima" e il "dopo" per Dio non hanno il senso che hanno per noi. C'è poi la questione del libero arbitrio: Maria di Nazareth ha scelto o no di concepire il Cristo? Ci piacerebbe pensare di sì; ma se Dio l'aveva già creata senza peccato, la scelta non era in un qualche modo già pilotata?

Un po' sì, gli somiglia.
Il dibattito prosegue per secoli e arriva a un punto di svolta nel Duecento con John Duns detto Scotus perché era nato in Scozia, o anche Dottor Sottile, settecento anni prima di Giuliano Amato che un po' gli somiglia. A differenza di Tommaso d'Aquino, Duns giunge alla conclusione che l'uomo riceva l'anima al concepimento: questa idea (che lo avrebbe reso secoli più tardi il teologo di riferimento dei movimenti pro life) lo porta in pochi passaggi a postulare che Maria non solo fosse senza peccato originale nel momento in cui concepì Cristo, ma che sia stata a sua volta concepita così, senza la macchia originale, immacolata: è una mezza rivoluzione, perché fino a quel momento anche chi sosteneva la purezza di Maria pensava che Dio le avesse tolto la macchia in un secondo momento. Scoto non esclude la possibilità, ma ritiene più logico, più "pulito" che Dio l'abbia creata direttamente senza macchia. Scoto non ha nessuna difficoltà a invertire la cronologia dei rapporti di causa-effetto: in virtù del sacrificio del Cristo, più o meno cinquant'anni prima, sua madre è stata concepita immacolata da Dio, che tutto sa in anticipo. E il libero arbitrio? Eh, non è che io abbia ben capito come funziona, ma mi pare che Scoto sia di quella corrente che, da Agostino in poi, tende a minimizzarlo: siamo atomi di male davanti a Dio, la nostra pretesa di decidere dove orbitiamo è una pia illusione che Dio stesso forse ci autorizza - il protestantesimo nasce da queste parti.

Oltre a essere un neo-aristotelico di razza, Scoto è francescano, e questo avrà ripercussioni importanti, perché la storia della Chiesa è anche una storia di lotta fra bande. Con lui i francescani diventano (quasi tutti) immacolisti, ovvero difensori dell'Immacolata concezione; e i loro rivali di sempre, i neri domenicani, fedeli alla summa del loro San Tommaso, macolisti.

La polemica esplode negli anni Ottanta del Trecento al Quartiere Latino: il tomista domenicano Giovanni Monzón accusa di eresia gli scotiani; gli rispondono Giovanni Duval e Andrea di Novocastro - è il caos alla Sorbona, blocco delle lezioni, già allora ogni scusa era buona per far filotto. Viene convocata una corte di trenta teologi che si guarda bene dal deliberare in materia (servirebbe un concilio) ma condanna il Monzón. Quest'ultimo si appella al Papa: niente da fare. In linea di massima chi parla bene della Madonna vince sempre, anche se le battaglie sono lunghe ed estenuanti. Gli immacolisti sembrano spuntarla al concilio di Basilea (1438), ma il decreto che condanna i macolisti e impone a tutti i cattolici la credenza nell'Immacolata concezione diventa lettera morta: il papa Eugenio IV nel frattempo ha deciso di trasferire il concilio a Ferrara. I vescovi riuniti a Basilea si rifiutano di scendere in Italia, lui li scomunica e ne convoca degli altri (aprendo agli ortodossi), loro nominano un altro papa - un classico scisma del Quattrocento. Negli anni Ottanta papa Sisto IV, francescano, introduce a Roma la festa dell'otto dicembre che - come l'Assunzione - in oriente era antichissima. Gli ortodossi però si limitavano a festeggiare la Concezione di Maria: Sisto almeno in un documento la chiama "Immacolata concezione" (i successori depenneranno l'aggettivo), richiamando nel frattempo macolisti e immacolisti al rispetto reciproco: il primo che accusa l'altro di eresia lo scomunico. I pittori ne approfittano per dipingere le dispute dell'immacolata, sacre conversazioni dove i santi per una volta conversano davvero: macolisti da una parte, immacolisti dall'altra, gli uni mostrano un libro, gli altri puntano il dito sulla Madonna stessa, è un talk show che i papi disciplinano ma si guardano bene dall'interrompere.

Questo è il Pordenone. L'anoressico che pesta
un libro è senz'altro Girolamo, ma gli altri,
 mah, potrei sbagliarmi.
Persino il concilio di Trento glisserà sull'argomento. Bisogna anche dire che a quel punto molti teologi di formazione agostiniana e scotista erano passati dalla parte di Lutero, o rischiavano di essere considerati luterani e contestualmente bruciati. Il cattolicesimo che si riorganizza dopo lo scisma protestante è molto più sensibile al tema del libero arbitrio: è una naturale reazione alle dottrine della predestinazione che nascono in ambito protestante, nonché l'unica via per continuare a lucrare un po' sulle indulgenze: ma come abbiamo visto una Madonna già programmata alla nascita per concepire il Cristo stona un po' con l'idea del libero arbitrio in libera vergine. Nulla che non si possa risolvere con un po' di fuffa teologica - ma ci vorrà ancora qualche secolo, e un Papa deciso a far valere la sua autorità spirituale in un'Europa che si accinge a toglierlo dal tavolo delle autorità politiche.

Nel 1848 Pio IX è appena tornato da Gaeta, dove si era rifugiato in attesa che Napoleone III gli restituisse Roma sloggiando quei democratici petulanti, Mazzini e l'altro pirata barbuto. L'Immacolata è ormai una presenza rassicurante nel calendario, ma i teologi più in vista gli sconsigliano ugualmente di ufficializzarla con un dogma: son cose delicate, e poi bisognerebbe convocare un concilio... Pio IX preferisce procedere nominando commissioni, per poi pubblicare un'enciclica, la Ineffabilis Deus, nella quale per la prima volta un pontefice afferma una verità di fede senza il sostegno di un'assemblea conciliare di vescovi: è una prova di forza del papa-re che da lì a poco avrebbe perso tutte le guerre; l'anticipo di quel Concilio Vaticano I che ratificherà l'infallibilità papale e si scioglierà alla chetichella mentre i bersaglieri sbrecciano Porta Pia. I dogmi non portano fortuna.

Oggi a pranzo, se qualche parente si mette a ironizzare sul fatto che si festeggi la verginità della madonna, potete spiegargli con serenità che l'imene non c'entra nulla, e che si tratta viceversa dell'esito finale di una disputa secolare intorno ai concetti di grazia e di libero arbitrio. Sennò si può parlar d'altro; ci sono i sorteggi della coppa del Mondo, il campionato, mal che vada le primarie del PD (CIVATI).

[Quindi è un pezzo del 2013].
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Il vescovo venuto dal futuro

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7 dicembre - Sant'Ambrogio, già Aurelius Ambrosius, 339-397, vescovo di Milano, dottore della Chiesa.

In certe giornate di giugno, non potendo fare diversamente, mia madre mi caricava in macchina e mi portava con sé al lavoro, nella scuola materna che pochi anni prima avevo frequentato anch'io. Ero già più alto e robusto dei suoi alunni, e disponevo di tutto il necessario per sbulleggiarli, tranne l'inclinazione. Me ne stavo per lo più seduto su una panca, o un gradino, o un'altalena, a leggere qualcosa - era incredibile quanti libri ci fossero in un istituto per non alfabetizzati, ed era tutta roba di qualità, i classici, Rodari Lodi Calvino. A volte leggevo ad alta voce ai bimbi che me lo chiedevano peffavore, altre volte uno di loro veniva a chiedermi cosa stessi facendo, senza nessuna ironia: perché me ne stavo impalato davanti a quelle pagine senza leggerle? Dopo il mio iniziale stupore, mi ero rassegnato a spiegare ogni volta l'arcano.

"Sto leggendo con gli occhi".
Ambrogio è uno dei pochi santi dell'antichità
di cui abbiamo la sensazione di conoscere
davvero il volto: il mosaico nella sua basilica
è quasi una fototessera (io me ne sarei fatta
scattare un'altra con le orecchie allineate,
ma vabbe', vanità).
"Eh?"
"Non c'è bisogno di parlare quando si legge. Si può fare anche solo con gli occhi".
"Cioè tu stai leggendo?
"Eccerto".
"Non ci credo. Dimmi cosa c'è scritto qui".
"Schiaccia il piede Cipollone / al gran principe Limone".
"Ma come fai?"
"Ma niente, è facile, alle elementari lo insegnano anche a te vedrai".
"Ma la maestra..."
"Anche la maestra sa leggere con gli occhi se vuole. Usa la bocca solo per leggere le fiabe a voialtri analfabeti".
"MAESTRA! TONDELLI MI A DETTO ALFANABETA!"
Giuro, mi chiamavano Tondelli già all'asilo.

Quando penso ad Ambrogio mi vengono sempre in mente quelle giornate di giugno in cui per la prima volta mi sentivo un grande in mezzo ai piccoli; uno che sa fare senza difficoltà qualcosa che loro nemmeno riescono a immaginare. Forse Ambrogio si è sentito così tutta la vita, l'unico adulto di tutta Milano, di tutto l'impero. Nelle sue Confessioni Agostino riporta, sbalordito, un dettaglio illuminante: Ambrogio sapeva leggere senza parlare, senza nemmeno muovere le labbra! Ma perché faceva così? Forse, riflette Agostino (certo non l'ultimo arrivato, anzi un famoso docente di retorica, uno specialista della parola orale e scritta), forse era un modo per non affaticare le corde vocali, stressate dalle continue prediche e orazioni. Si direbbe che al più grande intellettuale e scrittore del quinto secolo sfugga la semplice evidenza che leggere con gli occhi è il modo più spiccio. Quindi, insomma, i contemporanei di Agostino e Ambrogio non sapevano leggere in silenzio. Forse non era sempre stato così, per esempio Plutarco rappresenta sia Alessandro Magno sia Giulio Cesare nell'atto di leggere in silenzio almeno dei brevi biglietti. Magari leggere a voce alta era l'unico sistema per decifrare fitte righe scritte a mano senza nemmeno uno spazio tra una parola e l'altra. O magari verso il quarto secolo la qualità delle scuole era calata drasticamente: non possiamo saperlo perché non c'erano ancora le ricerche Ocse o Invalsi.
(Lorenzo Sabbatini, Ambrogio e Agostino).
Ma sul serio devo passare l'eternità a
conversare con 'sto tizio che, Sant'Iddio,
non sa leggere un versetto senza parlare
a voce alta?

È persino possibile che Ambrogio, rampollo di una famiglia facoltosa, prima di cominciare il suo cursus honorum nelle cariche pubbliche avesse goduto nella sua lontana Treviri di una formazione di prima qualità. In fondo l'impero aveva bisogno di funzionari professionisti ancor più che di generali sanguinari. Ma è anche possibile che il trentenne governatore della provincia Emilia-Liguria brillasse semplicemente di doti non comuni: gli basta moderare un dibattito tra i due candidati alla carica di vescovo, perché tutti i milanesi si convincano che la scelta migliore è proprio lui. Non è che dobbiamo credere proprio alla storia del bambino che in uno squarcio di silenzio urla "Ambrogio vescovo" e tutti dietro, visto che assomiglia già a una fiaba e il diretto interessato ha avuto tutto il tempo per riscriverla come gli aggradava. Anche tutti i suoi tentativi di sottrarsi alla nomina possiamo ritenerli sceneggiate di un abile press-agent di sé stesso. Il più intrigante - sempre più attuale - resta l'aneddoto dell'orgia, che Ambrogio avrebbe organizzato in casa sua con amici e prostitute alla vigilia della solenne investitura, per dimostrare definitivamente ai milanesi di non essere degno della loro fiducia. Possiamo anche leggerlo in controluce: magari prima di dare l'addio al secolo il ricco Ambrogio volle concedersi almeno un festino stile pagano, e finì arrestato e schedato con l'intera comitiva per schiamazzi e atti osceni. Ma niente da fare: poche ore dopo l'arresto nella cattedrale viene definitivamente acclamato vescovo di Milano. Benché la sua famiglia fosse già convertita al cristianesimo, Ambrogio non si era ancora battezzato (molti non praticanti lo facevano soltanto in fin di vita) e non nascondeva le sue scarse competenze in fatto di religione: si vede che non era questo che i milanesi cercavano in lui - e nemmeno il rigore morale dell'uomo di governo, al quale del resto non sembrano aver mai tenuto in modo eccessivo. Forse era una questione di carisma. D'altro canto, se in città c'è l'uomo più intelligente del mondo, vuoi che ce lo facciamo scappare? È addirittura in grado di leggere senza muovere le labbra!

Ad Ambrogio riesce tutto bene: se non al primo, al secondo tentativo. Ambrogio sa leggere, sa predicare il Verbo di una religione che ha imparato pochi giorni prima, sa persino cantare: è lui a inserire gli inni nelle liturgie cattoliche, copiando forse l'idea dai rivali di culto ariano. Col battesimo di Ambrogio, la Chiesa cosiddetta nicena realizza uno dei colpi migliori di quella campagna acquisti che la condurrà di lì a poco all'egemonia culturale. I niceni non sono il culto maggioritario, non sono nemmeno i preferiti dagli imperatori (alcuni dei quali favoriscono apertamente i rivali ariani), ma da Ambrogio in poi calamitano gli intellettuali più importanti e i funzionari più capaci: il solo fatto che un personaggio come Ambrogio potesse, e a ragione, rinunciare a una carica amministrativa di primo piano per farsi vescovo fotografa con precisione il momento in cui l'edificio imperiale collassa rilevando una struttura nuova cresciuta al suo interno. Nel 380 l'editto di Tessalonica obbligherà tutti i cittadini dell'impero a professare il credo niceno e ad assumere il nome "christianorum catholicorum": quelli che rifiuteranno saranno da considerarsi eretici e "dementes". Mollando la carica pubblica di governatore per quella religiosa di vescovo, Ambrogio aveva scommesso sul cavallo giusto: l'impero non sarebbe sopravvissuto un altro secolo, la Chiesa cattolica duemila anni dopo è ancora qui. Ma forse il cavallo diventò quello giusto anche perché gli uomini migliori decisero di cavalcarlo. Non fu una scelta indolore: Ambrogio rinunciò a farsi una famiglia, rinunciò a una discendenza, e sposò Milano, dividendo con lei tutto il suo patrimonio. D'altro canto da vescovo diventò intoccabile; nei vent'anni abbondanti del suo patriarcato vide una mezza dozzina di imperatori morire di morte violenta: per tacere dei loro dignitari, quasi tutti coinvolti in uno spoil system piuttosto rozzo che contemplava l'esilio o l'assassinio. Il vescovo invece morì nel suo letto, circondato dall'affetto sincero di una città a cui aveva insegnato a cantare e aveva regalato il carnevale più lungo d'Europa; motivi forse sufficienti per bersi vent'anni di prediche moraleggianti e sessuofobe: in fondo è stato giovane anche lui, sembra di sentirli pensare, mica ci dimentichiamo l'orgia da cui ti abbiamo tirato fuori a forza per farti vescovo.

(Camillo Procaccini, Ambrogio ferma Teodosio)
In realtà la scenata in pubblico non ci fu,
erano uomini di mondo. Ambrogio si limitò
a darsi malato per non incontrare l'imperatore,
e gli fece sapere via mail i dettagli della pubblica
cerimonia di pentimento a cui Teodosio
si sarebbe dovuto sottoporre
A un certo punto della sua carriera Ambrogio tratta gli imperatori da suoi pari, tanto più che quello che risiede a Milano, Graziano, è solo un ragazzino, bisognoso di guida e protezione: raramente gli imperatori invecchiavano. Per far contento Ambrogio l'imperatore convoca un concilio, fa rimuovere la statua pagana della Vittoria dalla curia del Senato romano, malgrado l'accorata protesta del più grande intellettuale del suo tempo, il prefetto Quinto Aurelio Simmaco, un inno alla tolleranza religiosa: Grande è il mistero, non può esserci una sola strada per trovare quel Dio che, comunque, è uno solo - non siamo tutti sotto uno stesso cielo, sotto le stesse stelle, avvolti nello stesso universo? No, risponde Ambrogio, c'è un solo Dio ed è il mio. Gli altri sono demoni; chi li segue - ebrei, pagani, ariani - nemici. Fine della discussione, anzi non c'è mai stata nessuna discussione, inutile discutere coi bambini.

Perfino Teodosio, l'Augusto che da Costantinopoli farà del cristianesimo la religione di Stato, verrà costretto a umiliarsi e a chiedere perdono in una pubblica cerimonia. Era successo che a Tessalonica la repressione di una rivolta cittadina aveva un po' preso la mano ai legionari, che avevano lasciato nello stadio e nelle vie circostanti qualche migliaio di morti. Erano troppi anche per lo standard dei tempi. Ma chi lo decideva poi lo standard dei tempi, chi poteva avere l'autorità morale per dire No, questo è troppo? Ambrogio è l'unico adulto in città, nell'impero, nel mondo. Non ha nessun rispetto per il passato, il cristianesimo gli offre l'opportunità per rottamarlo e riscriverlo come gli pare: mentre a Roma smontano l'altare della Vittoria, a Milano organizza il ritrovamento delle prime reliquie, i sacri resti di due martiri misteriosi ma finalmente milanesi, Gervasio e Protasio, di cui nessuno sapeva niente e che guarda caso erano sepolti nei pressi della nuova grande Basilica che Ambrogio stava facendo costruire. Non è solo un abilissimo spot pubblicitario per i cattolici nella lunga campagna per eliminare la concorrenza della Chiesa ariana; è anche la dimostrazione che il passato si può fare e disfare a piacimento, se Milano non ha ancora i suoi martiri se li può inventare in qualsiasi momento. Ci voleva una notevole faccia di bronzo per organizzare una inventio, un ritrovamento archeologico del genere; per annunciare a tutta la cittadinanza che le ossa antiche continuavano a stillare sangue; per l'occasione Ambrogio probabilmente vestì la stessa faccia serena e tranquilla che mettete fuori voi quando raccontate una bugia ai vostri bambini, sta' buono perché Babbo Natale ti osserva.

Sant'Ambrogio è uno dei miei migliori candidati quando gioco a Trova Il Viaggiatore Nel Tempo (un altro è David Bowie): metti che un tizio mentre sta tornando al XXV secolo ingrani per sbaglio la retromarcia e si ritrovi nel IV, senza la possibilità di tornare indietro, pardon, avanti, che ti fa? Deve raccontare in giro che viene da lontano, ad esempio in una città del nord (ma non un villaggio di barbari, perché si vede che il tizio ha studiato). All'inizio non sa bene né la lingua né la religione, però impara in fretta perché sa leggere, il che non è da tutti. E poi si arrangia come può, diventa funzionario dello Stato ma quando capisce che il mestiere è pericolosissimo cambia casacca in un istante, e nel giro di pochi anni cominciano a fare tutti riferimento a lui.

Cambiamo argomento. Leggevo qualche giorno fa che gli italiani non sanno più leggere, pare che sia colpa di sms e tablet. Ma per la verità la tendenza non è solo italiana, ed è persino più antica degli antichissimi sms. Nel dicembre del 2005 il Ministero dell’Istruzione americano sconvolse l’opinione pubblica dichiarando che il numero dei laureati in grado di interpretare testi complessi era diminuito negli ultimi 14 anni del 10%. Calcolate quanti anni separano gli USA dall'analfabetismo totale - non credo che noi sopravviveremo molto di più. Ogni volta che leggo o ascolto notizie del genere resto in silenzio e mantengo una faccia impassibile, non vorrei che nessuno si accorgesse che da qualche parte nel mio profondo sorrido. E dire che di mestiere insegno italiano ai bambini. E ci credo, credo che saper leggere e scrivere sia fondamentale. Eppure a volte ho nostalgia di quando erano tutti bambini, qui intorno, quando era un enorme asilo, e bastava saper scorrere qualche riga per fare il fenomeno. Magari la macchina del tempo non si era affatto rotta, magari Ambrogio l'ha sistemata da qualche parte sotto la basilica e non ha più voluto toccarla, perché essere l'unico uomo nell'universo che sa leggere è... divertente.

[È un pezzo del 2012].
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Il santo più famoso di tutti (è turco)

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6 dicembre - San Nicola vescovo (270-343), taumaturgo, portatore di doni, icona postmoderna

Chiesa di San Nicola a Myra, Licia, oggi Turchia
Il santo più popolare del calendario non è Pietro. Lui ha solo la basilica più grossa, e in molte vignette fa il portiere, ma diciamo la verità, non lo invocano in tanti San Pietro. Anche Paolo, e sì che tutta la baracca del cristianesimo in fondo l'ha messa in piedi lui, ma i teologi non sono mai veramente popolari. Non è padre Pio, perlomeno non ancora; Wojtyla il suo quarto d'ora l'ha già avuto; il santo più popolare del calendario, a pensarci bene, dovrebbe essere la Madonna: cioè non c'è gara, pensa solo a quante feste e quante apparizioni, e icone, statue, quadri e tondi - ma proprio mentre sto per dichiarare chiuso il televoto, mi assale un dubbio: la Madonna sarà pure la diva di Lourdes e Loreto, ma quante letterine riceve? C'è un santo che ne riceve tutti gli anni da ogni angolo del mondo, un santo venerato persino dove i cattolici non hanno mai veramente preso piede - in Russia, negli USA, in Turchia - un santo che i bambini imparano a pregare e ad aspettare assai prima di frequentare catechismo. Un santo che da solo nel 2006 riceveva il 90% di tutta la posta recapitata in Finlandia, non male per uno che in Finlandia non c'è mai veramente stato. Quel santo è, ovviamente, Babbo Natale. Cioè Santa Klaus, Sinterklaas, San Nicola. Il vescovo di Myra (Licia), nato a Patara (Licia). Ma dov'è la Licia? Oggi è in un angolino della Turchia in basso a sinistra, ma per molto tempo ha fatto parte del mondo greco, poi romano, poi bizantino. Il modo in cui un vescovo dell'epoca costantiniana sia diventato, in seguito a un complicato sovrapporsi di immagini e racconti, il testimonial della Coca-Cola e il portatore di doni più famoso di tutti i tempi, meriterebbe un libro a parte. Che probabilmente è stato già scritto. Facciamo finta di averlo letto e tracciamone un agevole riassunto.

Odino cavalca Sleipnir, cavallo a otto zampe.
Antefatto. Nelle lunghe, lunghissime notti antecedenti al solstizio d'inverno, i barbari dell'Europa centrosettentrionale intrattengono e blandiscono i bambini raccontando di Odino, il Dio guercio che cavalca nella notte in testa al suo corteo di demoni. Di uscire di casa quindi non se ne parla, ma se si lascia qualche carotina sul davanzale per Sleipnir, il cavallo a otto zampe di Odino (sulla cui origine incestuosa è meglio sorvolare), e poi si va a letto presto senza fare capricci, Egli lascerà qualche leccornia, o un regalino: balocchi di legno intagliato, noccioline, calze di lana, roba del genere. Le farà passare dal camino. Ma bisogna dormire o almeno tenere gli occhi ben chiusi, Odino mai e poi mai vorrebbe essere sorpreso mentre si intrufola nel nostro camino. Tutto chiaro fin qui? Ora cambiamo drasticamente latitudine.

Dà la vertigine pensare che, a differenza di altri santi popolarissimi, Nicola è realmente esistito, in un mondo diversissimo dal nostro, un mondo senza coca-cola e panettone, ma un mondo non immaginario. Eppure è abbastanza probabile che ci sia stato un vescovo, contemporaneo dell'imperatore Costantino, che si distinse per la condotta irreprensibile, lo zelo con cui difendeva i bisognosi, e perché no, i regali. Era probabilmente il rampollo di una locale famiglia facoltosa, e la carica di vescovo se l'era guadagnata a suon di donazioni. L'impero romano era una formidabile macchina militare e burocratica senza nessun welfare state, niente mutua, niente assicurazioni, la pensione solo ai militari. La Chiesa nasce anche per colmare questa lacuna: i cristiani più ricchi donano del loro alla collettività, e ricevono in cambio ruoli e titoli di prestigio.

In uno dei miracoli di più antica circolazione, Nicola salva tre fanciulle bellissime che il padre, ridotto in miseria, aveva ormai destinate al meretricio. Nicola risolve il problema con uno stratagemma che ha qualcosa di familiare: nottetempo getta attraverso le finestre dei sacchetti pieni d'oro, e scompare. Da buon cristiano non cerca ricompensa sulla terra per le buone azioni che commette. Dei tanti aneddoti riferiti a lui, non è solo il primo riportato nella Legenda Aurea (libro un po' noioso, la maggior parte dei lettori si ricorda solo le prime pagine di ogni capitolo), ma è anche il primo in cui a Nicola sono associati dei sacchi. Al terzo lancio il padre delle ragazze, rimasto sveglio per curiosità, riuscirà finalmente a sorprendere lo strano ladro all'incontrario. Il vescovo gli ordinerà di non fare il suo nome, i regali devono restare un segreto (qualcosa non deve essere andata per il verso giusto, visto che 1700 anni dopo siamo ancora qui a parlarne)

La statua del patrono di Bari è stata annerita appositamente.
Il numero tre compare in molti altri episodi associati a Nicola, compreso il più antico, che potrebbe essere ispirato a un fatto reale: tre sono i generali, ingiustamente imprigionati da Costantino, che pregano e implorano l'intercessione di Nicola, salvo che questi è ancora vivo. Eppure anche da vivo Nicola può apparire in sogno all'imperatore e chiedergli conto della sua prepotenza. Al miracolo delle tre fanciulle e a quello dei generali possiamo aggiungere un racconto assai più tardo, già intessuto su uno sfondo nordico medievale, in cui Nicola interviene a salvare tre fanciulli squartati da un efferato macellaio, e chiusi in tre pentole. Come il racconto dei tre generali sia diventato la fiaba di tre fanciulli, non si sa, ma l'ipotesi più semplice è che qualche pittore medievale, molto scarso, abbia dipinto la prima storia disegnando dei generali giovani, quasi imberbi, liberati da celle di prigione piccole, quasi pentole. Poi magari passa un secolo e a un predicatore tocca spiegare chi sono quei tre, e cosa c'entrano le pentole, e l'unica cosa chiara di tutto l'affresco (o la vetrata istoriata) è che il protagonista è Nicola, se ha la barba bianca e il cappello da vescovo è Nicola. In questi casi un predicatore professionista che fa? Inventa, magari si ricorda di qualche vecchia fiaba che le raccontò la nonna, un proto-Hansel-e-Gretel. Rimane da spiegare che ci faccia Nicola in Europa centro-settentrionale, non era un vescovo del basso mediterraneo?

I motivi dello straordinario successo di Nicola a tutte le latitudini sono probabilmente due. Il primo è un olio. Non sappiamo bene di cosa fosse fatto (probabilmente venivano usate piante del luogo) ma sappiamo che per qualche secolo fu il prodotto di erboristeria più richiesto nel bacino del mediterraneo. Guariva qualsiasi cosa, ma in giro non ce n'era molto, per via che si diceva distillato lentamente dal luogo di sepoltura del santo. Il secondo motivo sono i naufragi. Non importa che Nicola abbia vissuto probabilmente gran parte della sua vita nei pochi chilometri di terraferma tra Myra e Patera: la Licia è una regione esposta al mare, separata dal resto dell'Anatolia dagli alti monti del Tauro; ci si arriva per mare, per mare vi si riparte. È una fermata quasi obbligata di quella trafficata autostrada tardoantica che è il mediterraneo, in una zona complicata e burrascosa. I naviganti minacciati dalle tempeste invocano spesso San Nicola: quelli che sopravvivono gli diventano straordinariamente devoti. Via mare la devozione a Nicola arriva in tutti i porti della cristianità (Nicola diventa il patrono di Amsterdam) e lentamente penetra anche le terre dove il mare è lontano: è il santo più amato di tutte le Russie.
L'immagine archetipica di Thomas Nast
per Harper's Magazine

Nel frattempo la sua cattedrale, a Myra, è seriamente minacciata dalle incursioni dei turchi, che ormai trattano la zona come cosa loro, e nel giro di qualche secolo la Storia darà loro ragione. A un certo punto (1100) i veneziani decidono di salvare le ossa del patrono dei marinai, che loro chiamano Niccolò; inviano una spedizione in Licia... giusto per scoprire che è troppo tardi, a rubare le sante spoglie ci hanno già pensato dei mercanti giunti da Bari tredici anni prima. I veneziani però non demordono: impossibile che i baresi ci abbiano pensato prima di noi, impossibile, di sicuro si saranno presi qualche sòla, il vero santo dev'essere ancora qui, si sente l'odore, diteci dov'è. Mettono sotto torchio gli ultimi quattro canonici della chiesa, fanno lunghe ispezioni nei dintorni cercando col naso quel buon profumo che emanano i luoghi santi... finché non ritrovano sepolto nelle vicinanze un cadavere intriso nell'olio: è lui il vero Niccolò, nascosto provvidenzialmente secoli prima onde evitare che i turchi lo trovassero, ma ai veneziani non la si fa. Quello portato a Bari invece è qualcun altro, perlomeno a Venezia decidono di pensarla così.

A Bari (dove la pensano ovviamente al contrario) nasce anche la strana idea che Nicola sia scuro di pelle: l'equivoco nasce dalla resa cromatica delle icone bizantine, molto più scure delle raffigurazioni occidentali. Sdoppiato a Bari e Venezia, Niccolò-Nicola continua ad attirare pellegrini malati o scampati ai naufragi, in due città finalmente al sicuro dalle invasioni turche. Ma anche dove i turchi arrivano (ad esempio a Famagosta, porto di Cipro, capitale di uno degli ultimi baluardi crociati), l'unica immagine sacra a scampare alla trasformazione del duomo gotico in moschea è un'immagine di un vescovo Nicola. A dire il vero non è il Nicola giusto, non ha la barba ed è più probabilmente l'icona di un vescovo locale: ma è un Nicola è tanto basta, gli abitanti di Famagosta possono essere forzati a convertirsi all'Islam, ma non a rinunciare a un'immagine di Nicola.

Haddon Sundblom (sì, è quello
che ha disegnato tutte quelle pinup, sì).
La popolarità del santo gli conquista un posto d'onore nel calendario: tocca a lui aprire il periodo più allegro dell'anno, che è poi, e non è una coincidenza, il più buio e oscuro, quello in cui è necessario rallegrare i bambini con qualche ghiottoneria - ma anche convincerli a restare a letto, gli occhi ben chiusi, e in generale a comportarsi bene. Lentamente, almeno dal XII secolo in poi, prende forma la tradizione di un santo che nella notte si aggira come un ladro, ma è un ladro al contrario: porta confetti e doni a tutti i bimbi buoni. I bambini cattivi invece hanno di che dolersi: Nicola-Niccolò non viaggia solo, ma in compagnia di uno strano personaggio. È un folletto, un orco in miniatura, uno strano essere irsuto e selvatico: una creatura che Nicola ha trovato nei boschi. È cattivo? Diciamo che fa il lavoro sporco: se i bambini si comportano male, sarà lui a punirli.

Questa bizzarra entità che può visitarci nella notte (all'inizio è la notte di San Nicola, quella del sei dicembre, insomma questa), informe e indefinita come è giusto che siano le creature dei sogni, ha un destino notevole. È forse quello che resta dell'antico culto di Odino, il dio guercio che cavalcava nella notte: a un certo punto mentre cavalcava davanti ai suoi demoni deve avere incontrato il nuovo boss, Nicola, che lo ha evangelizzato e ammansito notevolmente. L'ultima parola non è ancora detta, però, perché a partire dal Cinquecento la riforma protestante vibra un duro colpo al culto dei santi. I nostri amici aureolati escono dalle chiese e dai calendari in mezza Europa, e a malincuore devono cedere il passo anche nelle leggende. Il signore barbuto e corpulento che si infila nella cappa del camino, anche se ancora pretende in alcuni paesi di chiamarsi Santa Klaus, è in realtà una contaminazione del vescovo col suo servitore irsuto e diciamolo, un po' demoniaco, che man mano che l'Europa si laicizzava ha preso il sopravvento. Peraltro il vero luogo di nascita di Santa, là dove se ne fissano nel giro di pochi anni i caratteri fondamentali (il pancione, l'abito, il sacco coi regali, ho ho ho! e tutto il resto) è dall'altra parte dell'oceano, a New York. L'immagine elaborata da Thomas Nast per l'Harper's Weekly del 1863 mette definitivamente a fuoco un personaggio che già da quarant'anni popolava la pubblicistica stagionale, e aveva persino fatto un cameo, come "fantasma dei Natali presenti", in un popolarissimo libro del più popolare degli scrittori, Charles Dickens (devo dire quale?)

Nast mette assieme i caratteri di una vecchia allegoria inglese del Natale come personaggio anziano e gaudente, Father Christmas, e qualche lontana reminiscenza di Nicola, l'antico patrono dei primi coloni di New Amsterdam. Nast però secondo me lavorava in bianco e nero: anche se ci viene istintivo immaginare il tizio vestito in rosso, è probabile che all'inizio i lettori potessero pensare piuttosto al verde, il colore del vischio e della foresta da cui la creatura proveniva (prima di essere spostata al Polo, o in Lapponia, o in Finlandia, o a Capo Nord, dipende dalla nazionalità di chi ve la racconta). D'altro canto anche il rosso aveva i suoi argomenti: tanto per cominciare è il colore del manto vescovile di Nicola - che per la verità, essendo un presule del quarto secolo, vestiva in un modo del tutto diverso, ma lasciamo stare. Il rosso però diventerà definitivamente associato a Santa soltanto con le prime campagne invernali della Coca Cola Company. Per fissare un'immagine archetipica non c'è niente come una campagna di affissione di dimensioni continentali. All'inizio degli anni '30 la C-C-C aveva un problema: fatturava soltanto nei mesi caldi. Ci voleva un un'idea per convincere gli americani a bere intrugli frizzanti a base di caramello (i nove milligrammi di cocaina per bicchiere erano già stati eliminati nel 1903). Ci voleva un personaggio giusto, che sprizzasse benessere e autorevolezza. Il Babbo Natale di Haddon Sundblom diventò il  testimonial stagionale della coca, e lo rimase per quasi settant'anni - prima di essere quasi ovunque soppiantato dagli orsi bianchi meno religiosamente connotati. Perché sì, è difficile da immaginare, ma in tanta parte del mondo il Babbo è ancora visto non come un emissario del consumismo, ma ancor peggio, come un vecchio vescovo, un tronfio rappresentante dell'imperialismo cristiano.

HO! HO! HO! BENVENUTI IN TURCHIA!
Myra oggi si chiama Demre, è una città turca di media grandezza, dove d'estate fa un caldo non descrivibile a parole. Il turismo è ancora una voce molto importante: l'antico teatro greco è ben conservato, e da lì è possibile vedere le favolose tombe scolpite nella pietra. Anche la chiesa dove per settecento anni fu sepolto Nicola continua a essere meta di pellegrini, in cerca di grazie, o scampati ai naufragi, o semplicemente bagnanti che nei villaggi sulla costa dopo un po' si annoiano. Qualche anno fa i russi, che a Nicola ci tengono veramente parecchio, donarono alla città una statua in bronzo, da esporre sulla rotonda, in mezzo al traffico. Il municipio di Demre in un primo momento accettò di buon grado, dopotutto i turisti russi sono una risorsa. Però evidentemente quel santo di bronzo, in mezzo alla rotonda, era complicato da mandar giù - insomma, a un certo punto l'hanno spostato. Ora è nel prato davanti alla basilica. Nella rotonda invece c'è un babbo Natale di resina colorata, abbastanza ridicolo - tanto più se ci vai d'estate, con quaranta gradi all'ombra - ma ai turchi piace più così. "Questa statua", dichiarò il sindaco alla stampa "è il modo migliore per introdurre il visitatore a San Nicola, perché il mondo intero conosce questa sua rappresentazione con abito e cappello rosso, col sacco dei regali e la campanella in mano". Se vi fa strano, un sindaco turco che vi spiega com'è fatto San Nicola, pensateci un attimo: il vero conterraneo di Nicola è lui, volete che non lo sappia?

Eppure, disperso nella nebbia dei secoli, sepolto tra bibite al caramello e orchi e altre leggende, un Nicola, un vero Nicola è vissuto davvero. Immaginate di resuscitarlo - non è escluso che qualche suo osso sia ancora lì sotto, e poi chi l'ha detto che non abbiano preso una sòla sia i baresi che i veneziani - e di spiegargli che il tizio rosso col barbone è lui una sua immagine venerata in tutto il mondo, appena millesettecento anni dopo.

"Ma perché la barba? Io ero una persona importante e un uomo di Dio, ovviamente mi tenevo il volto in ordine".
"Monsignore, sì, ma di lì a poco in ambito orientale si è diffusa questa idea per cui gli uomini di Dio non dovevano curare troppo l'aspetto esteriore, e quindi..."
"E quindi si andava in giro come dei selvaggi?"
"...la barba bianca è diventata l'elemento con cui Lei, monsignore, veniva identificato nelle icone".
"Misericordia. E il sacco?"
"Il sacco contiene dei regali per... per tutti i bambini buoni".
"E a quelli cattivi?"
"Tendenzialmente, carbone. Comunque ci pensa un'altra entità".
"Divertente. Ma perché tutto quel rosso?"
"Quella fu un'idea pubblicitaria, sono i colori dell'etichetta di... di una bibita frizzante".
"Cos'è un'etichetta?"
"Ahem, meglio mettersi comodi".

un pezzo del 2012].
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Il gesuita nella jungla

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3 dicembre – San Francesco Saverio, missionario ed esploratore, evangelizzatore di massa

…apud campum babylonicum ducem impiorum in cathedra ignea et fumosa sedere, horribilem figura vultuque terribilem (Ignazio di Loyola, Exercitia Spiritualia, 140)

Suppongo che vi ricordiate quando sono diventato, per un po’, marinaio di acqua dolce.

"Uomo condannato al rogo
dall'Inquisizione di Goa".
Ma cominciamo con ordine. In quel tempo ero tornato a Goa, al collegio. Ufficialmente ero in ritiro spirituale. Stavo cercando di smettere con l’oppio, anche. Non ridete. Me lo aveva prescritto un dottore indiano contro l’ulcera. Senza accorgermene avevo iniziato ad aumentare le dosi. È difficile spiegare a chi non l’ha provato. Ti sembra di entrare in un mondo diverso, che al risveglio non sai raccontare nemmeno a te stesso. Potrebbe essere il paradiso, ma più probabilmente è un altro luogo.

In ogni caso, avevo visto uomini migliori di me partire e non tornare, ed ero determinato a non seguirli. Così mi ero chiuso in una cella col mio Eymerich tascabile e il flagello. Quando i miei nervi cominciavano a tendersi e a chiedere il frutto del papavero, io cercavo di strapparmeli a nerbate. Poi il dolore mi teneva sveglio tutta notte e un po’ d’oppio dovevo prenderlo comunque, per non impazzire. Vedevo le pareti della cella stringersi intorno a me, e pensavo alla giungla. Sentivo di diventare sempre più debole, e vedevo gli idoli diventare sempre più forti – stavo sbagliando metodo, evidentemente.

Goa, fottuto posto. Ma ognuno ottiene quello che vuole, alla fine. Io volevo una missione; e per scontare i miei peccati me ne assegnarono una davvero speciale; una volta conclusa, non ne avrei volute altre.

Non posso raccontarvi tutto, naturalmente. Ricevetti un invito a pranzo che non si poteva rifiutare. Mi buttai sotto un getto d’acqua gelida per togliermi la giungla dalle palpebre, e nel giro di un paio d’ore ero di nuovo un domenicano nel suo saio pulito e bianconero, al cospetto dell’Inquisitore Generale.

Si era fatto arredare un bell’ambientino, nel palazzo di un Khan locale. Il disprezzo per gli idoli, le vacche sacre in particolare, lo manifestava facendone arrostire generose porzioni per gli ospiti.
“Buongiorno padre”.

“Buongiorno fra Marcelo. Ha già conosciuto il Generale?”

“No padre, non di persona”.

“Lei ha lavorato molto in autonomia, è vero?”

“Sì padre, è così”.

“Nel suo dossier si parla di un paio di autodafè nei distretti a nord di Goa”.

“Al momento mi dichiaro non disponibile a parlarne, padre”.

“Lei non ha già lavorato per l’Inquisizione?”

“No padre”.


“Non ha bruciato tre idolatri e due musulmani in un villaggio a venti leghe da qui?”

“Non… non mi risultano le attività da lei menzionate. Né sarei propenso a parlarne qualora tali attività…”

“Cos’è quel brutto taglio sul collo?”

“Un incidente di pesca durante le attività ricreative, Padre”.

“È profondo. Sembra un gatto a nove code. Lei fa uso del gatto a nove code nella sua cella?”

“No padre”.

“Lo sa che è proibito?”

“Certo padre”.

“Va bene, si sieda. Ha l’aria di uno che digiuna da un mese. Vediamo quello che abbiamo qui. C’è dell’arrosto, di solito è buono. Ma se vuole provare i crostacei, non dovrà fornirci ulteriori prove di coraggio”.

“Grazie, padre”.

“Mi serve nel pieno delle forze. Ha mai sentito parlare di Francisco de Jasso Azpilcueta Atondo y Aznares de Javier?”

“Nato in Navarra nel 1506, al collegio fu compagno di cella del fondatore dell’ordine noto come Compagnia del Gesù, Íñigo López Loiola. Inviato da questi a Goa nel 1541 su richiesta di sua maestà il re del Portogallo, estese l’opera di evangelizzazione delle Indie fino a Malacca, alle Molucche e a Cipango, battezzando milioni di indigeni e compiendo centinaia di prodigi…”

“…Non tutti risultanti al nostro Sacro Ufficio. Vada avanti”.


Convertili tutti, Dio riconoscerà i suoi
“Nel 1552, desideroso di portare il messaggio di Nostro Signore Gesù Cristo nell’impero della Cina, parte su una giunca diretta all’estuario del fiume delle Perle, ma muore di febbre nell’isola detta di Sanclan. Dio dà, Dio toglie, Dio sia benedetto”.

“Amen. Tutto qui, figliolo?”

“Più o meno sì”.

“È sicuro di non aver sentito altre voci?”

“Niente di rilevante, padre”.

“A proposito di un padre gesuita che addentrandosi nel fiume delle Perle con un carico di fucili, avrebbe portato la coltivazione del papavero nel cuore del Guangdong?”

“Lo apprendo da voi, padre”.

“Francisco Javier è stato uno dei migliori pastori che la Chiesa abbia mai inviato nelle Indie. Un cavaliere e un santo. Spiritoso, intelligente. Ma in un qualche modo non riusciva ad accontentarsi. Lo avremmo voluto più spesso presso di noi, a Goa. Come sa, c’è tantissimo lavoro da fare per le anime dei sudditi indiani del Re, senza andare in capo al mondo. Sappiamo che lo stesso Loyola gli aveva chiesto di fermarsi. E invece… le Molucche, e poi il Giappone, e poi… la giungla. Lei conosce la giungla, fra Marcelo?”

“Ci sono stato”.

“Poi però ha dovuto andarsene… ha conosciuto i tormenti dell’ulcera, mi hanno detto”.

“Cibi troppo speziati”.

“Che altro ha conosciuto?”

L’orrore.

“Si sta ancora curando?”

“No, padre, sono guarito”.

“Me ne rallegro. Stavo dicendo… quando Francisco si addentrò nel Fiume delle Perle, le sue lettere cominciarono ad apparirci… insane. Abbiamo pertanto stabilito di non divulgarle. Eccole qui”.
Con le stesse mani con cui aveva affettato il manzo, mi porse un pacchetto. Se non si stava prendendo gioco di me, dentro c’erano missive inedite di Francisco Javier, l’uomo che aveva in pochi mesi procurato alla chiesa cattolica più anime di quante gliene avesse perse l’immondo Lutero in trent’anni. A Roma si parlava già di beatificarlo.

“A quel che ci risulta, ha rilevato un latifondo nell’entroterra. Dirige una vera e propria impresa commerciale, che rifornisce di oppio i mercati di tutta la Cina meridionale. Gli affari vanno così bene che i prezzi sono crollati persino qui a Goa, ne avrà sentito parlare”.

L’orrore.

“Devo darle un’altra informazione inquietante: pare che i suoi contadini lo temano e lo venerino. Eseguono ogni suo ordine, anche il più assurdo. Nella giungla, come sa, il bene e il male si intrecciano in modi che ancora non capiamo. In mezzo a quegli idolatri persino il più santo degli uomini può essere tentato di credersi… Dio”.

“Dio?”

“In ogni uomo c’è un punto di non ritorno. Francisco Javier è andato oltre, ed è ormai evidente che sia del tutto impazzito”.

Che cosa volevano da me?

“La sua missione consiste nel risalire il Fiume delle Perle a bordo di una giunca. Ottenere un permesso per entrare nel territorio dell’Impero è molto difficile, e in ogni caso non intendiamo dare nell’occhio. Pertanto indosserà gli abiti di un bonzo. Lungo il tragitto raccoglierà informazioni. Una volta trovato padre Francisco deve infiltrarsi nella sua impresa e… porre fine al suo comando”.

“Porre fine a… padre Javier?”

“Quell’uomo è ormai completamente fuori controllo. Porre fine con estrema determinazione. Ha capito, sì?”

“Sì, padre”.

Da un po’ stava armeggiando con un attrezzo di cui avevo sentito già parlare, senza averlo mai visto. Una cannuccia di legno con un minuscolo fornellino all’estremità. Ora che finalmente all’interno aveva preso fuoco qualcosa – spargendo nella stanza un odore non sgradevole – si mise in bocca l’altra estremità. Sembrava che succhiasse.

“Lei non fuma, vero figliolo?”

“Mi perdoni?”

“Un po’ la invidio. È un vizio nuovo, che ci arriva dalle indie occidentali. Un’alternativa assai più sana al masticare oppio. Vuole provare?”

“Grazie, no”.

“Le sarà chiaro, fra Marcelo, che questa missione non esiste. Francisco Javier è morto nel 1552 di febbre sull’isola di Shangchuan, dopo aver convertito milioni di fedeli. Nelle Indie tutti parlano dei suoi prodigi. Dio l’assista”.

“Sempre sia lodato”.

Quando accettai la missione non ero certo un educando. Quante persone avevo già ucciso? Cinque, sei? Avevo ancora addosso l’odore di bruciato delle loro carni sul rogo. Stavolta però si trattava di uccidere un santo. Accettai la missione: che altro potevo fare? Ma non sapevo ancora come mi sarei comportato al suo cospetto.

(Continua…)
[Pezzo pubblicato la prima volta li 2/12/2015].
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Oggi è la festa di San Budda Abate (e voi non lo sapevate)

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27 novembre - Santi Barlaam e Iosafat, leggenda.

Più di ogni altra cosa il re indiano Avenir desiderava che suo figlio Iosafat fosse felice. Più di ogni cosa temeva quelle nuove sette che arrivavano dall'occidente, quei corvacci neri che speculavano sulla paura della morte, quei cristiani. Li aveva già visti rovinare uomini ricchi e potenti, dignitari di corte ridotti a vestirsi di sacco e a mendicare. Così quando un astrologo predisse che Iosafat si sarebbe convertito al cristianesimo, per poco non impazzì...

Questo è Gautama Buddha,
il Budda storico…
Decise così di nascondere suo figlio al mondo, di crescerlo il più lontano possibile dalla sola idea della morte, della sofferenza. Lo rinchiuse bambino in un palazzo ricolmo di ogni lusso; gli diede amici e amiche in abbondanza, tutti sani e senza difetto: quando qualcuno si ammalava, nottetempo veniva sostituito con qualcun altro in salute; e così Iosafat cresceva senza conoscere né malattia né dolore, eppure non era felice.

(Dove ho già sentito questa storia?)

C'era come un vuoto che gravava sul suo capo, la sensazione di galleggiare sulla superficie delle cose. Un giorno piantò una grana, non avrebbe più mangiato né bevuto finché il papà non lo avesse lasciato uscire a fare un giro nel mondo. Alla fine il re acconsentì. Preparò l'uscita in ogni dettaglio, infiltrò i suoi ministri nella scorta del figlio, fece per la prima volta ripulire le strade in cui sarebbe passato il corteo principesco, disseminando lungo il percorso danzatori e ballerine, affinché tutto sembrasse il più possibile ameno. Qualcosa però dovette andare storto, perché appena Iosafat uscì, incontrò un cieco e un lebbroso, che lo stupirono molto.

"Sono malanni che capitano agli uomini", risposero gli uomini del re.
"A tutti gli uomini?"
"No, a tutti no".
"Meno male. E si sa già prima a chi accadono questi malanni, o sono imprevedibili?"
"Il futuro nessuno può prevederlo, o sire".
"Quindi anch'io potrei un giorno diventare cieco come questo cieco, o lebbroso come questo lebbroso?"
"Si è fatto tardi, rientriamo".

...questo invece è Budai, non c'entra quasi niente.
Il vuoto che gravava sul capo del principe cominciò a riempirsi di angoscia e di paura, sentimenti a cui non sapeva nemmeno dare un nome. Un'altra volta che volle uscire, la security fu più efficiente: non trovò nel suo percorso né paralitici né appestati, tutto andava per il meglio, finché non passò un vecchietto. Un vecchietto assolutamente standard, niente di eclatante, ecco forse perché le guardie non avevano pensato a tenerlo lontano: la faccia un po' vizza, la schiena curva, i denti pencolanti, ma a parte questo in forma. Lo aveste visto voi, avreste pensato: che bel vecchietto, spero di poter invecchiare anch'io così. Ma lo vide Iosafat, e Iosafat non aveva mai visto un vecchio.

"E questa che malattia è? Una sottospecie di lebbra?"
"Sire, questa non... non è una malattia".
"In che senso? Il tizio quasi non si regge in piedi, se non è una malattia questa qui..."
"È solo vecchiaia. Non è una malattia, nel senso che... che viene a tutti".
"A tutti? State scherzando? E si guarisce?"
"...No, sire, non si guarisce".
"Ma allora il mondo dovrebbe essere pieno di vecchi come questo qui, dai. Mi state prendendo in giro".
"No sire, no. Effettivamente la vecchiaia non dura in eterno. Al massimo venti, trent'anni..."
"Eh? Trent'anni così? Siete matti?"
"Ma poi si muore, pur troppo - o per fortuna".
"Che significa si muore?"
"Si è fatto tardi..."
"No, adesso mi spiegate sul serio cos'è questa cosa, io con tutto che ho studiato non riesco a immaginare niente di peggiore che questa roba che chiamate... vecchiaia, e invece adesso salta fuori che c'è una cosa peggiore e si chiama... come avete detto che si chiama?
"Si chiama morte, è... è la fine".
"La fine di cosa?"
"Di tutto, la fine della vita".
"La vita finisce? E perché non mi avete detto niente?"
"Suo padre preferiva non disturbarla..."
"E come si fa a evitare questa cosa?"
"Evitare la morte? Non si può".
"Come sarebbe a dire non si può, mi state dicendo che moriremo tutti? Tutti? Anche voi?"
"Certo che moriremo, sire".
"E perché non impazzite al solo pensiero?"
"In effetti, ora che ce lo fa pensare, perché non impazziamo?"
"Io impazzirei".
"Non avrebbe tutti i torti. Si vive per settant'anni, ottanta con un po' di fortuna, si scansa per quanto possibile la lebbra e altre malattie, per arrivare al momento in cui si muore, questa in ultima analisi è la vita".
"Settant'anni? E me lo dite così?"

Iosafat comunica il suo desiderio di farsi monaco, in un manoscritto greco del Duecento

Iosafat ovviamente non impazzirà, anzi conoscerà un saggio monaco di nome Barlaam, che lo stordirà di apologhi e lo convertirà alla vera fede, dopodiché dovrà sfidare il padre che arriverà al punto di riempirgli il palazzo di giovani fanciulle seminude per metterlo in tentazione – ma niente da fare. Invece di continuare nella storia – che altri hanno raccontato meglio di me – vorrei chiedere se non vi suona in qualche modo familiare. Dovrebbe.

È in effetti una leggenda antichissima, che il solito Iacopo da Varazze attribuisce a San Giovanni di Damasco (l'arabo che amava la Madonna), ma in realtà è probabilmente entrata in Europa da ovest. Un autore ebraico di Barcellona, Abraham ibn Chisnai, la porta qui nel dodicesimo secolo. In seguito, opportunamente cristianizzata, la leggenda del principe che non conosceva la morte conosce un successo strepitoso: in meno di cent'anni è tradotta persino in islandese, e di lì a poco Iosafat e il suo amico Barlaam entrano nel calendario. Ma la storia è ben più antica.

Se ne rende conto un navigatore portoghese nel Seicento, Diego do Couto. Ascoltando un resoconto cingalese dell'adolescenza di Gautama Buddha, quando era ancora un Bodhisattva, un uomo che non aveva ancora ricevuto l'illuminazione, do Couto esclama: ma questo principe chiuso in un palazzo che non conosce né malattia né morte io lo conosco: è San Iosafat: Bodhisattva=Iosafat! Ma allora... allora... questi pagani hanno fondato la loro religione sulla vita di un santo cristiano! Il buddismo è un equivoco!

Benedetto Antelami, leggenda di Barlaam, Battistero di Parma

A noi oggi sembra abbastanza ovvio il contrario: la fiaba di Iosafat e Barlaam è la vita di Budda, cristianizzata quanto basta per entrare nei martirologi cristiani. Ma ci vollero altri due secoli perché gli studiosi europei lo ammettessero. Eppure già nel Duecento Marco Polo aveva menzionato nel Milione un personaggio simile, anche lui vissuto a "Seila" (Ceylon), Sergamon Borgani:
Ora era tanto tempo istato in casa ch’egli non avea mai veduto veruno morto né alcuno malato; il padre si vollé uno dí cavalcare per la terra con questo suo figliuolo. E cavalcando loro, il figliuolo si ebbe veduto uno uomo morto che si portava a sotterare ed avea molta gente dietro. E ’l giovane disse al padre: «Che fatto è questo?». E ’l re disse: «Figliuolo, è uno uomo morto». E quegli isbigotío tutto, e disse al padre: «Or muoiono tutti li uomini?». E ’l padre disse: «Figliuolo, sí». E ’l giovane non disse piú nulla, ma rimase molto pensoso.
"Sergamon" è la prima traduzione in veneto di Sakyamun, "saggio della famiglia Sakya", uno dei tanti appellativi del Budda. "Borgani" deriva dal sanscrito Bhagavan, "signore", che è anche la più probabile origine di "Barlaam". "Iosafat" invece dovrebbe venire da Bodhisattva; la B potrebbe essersi trasformata in I durante un lungo percorso di traslitterazione dal sanscrito all'arabo al latino. Il romanzo della giovinezza di Buddha è stato messo per iscritto più o meno nel primo secolo dopo Cristo: Buddha dovrebbe essere vissuto cinque secoli prima. È popolarissimo in Sri Lanka, in India, in Nepal (suo luogo d'origine), in Cina, in Giappone, dove i cristiani clandestini lo usavano come copertura per i crocefissi e le altre immagini sacre.

In occidente, nel frattempo, veneravamo Buddha come santo cattolico e apostolico, senza accorgercene. Era già quel tipico budda occidentale, quel soprammobile fuori contesto (spesso confuso con un altro), sconosciuto e familiare, che se ne sta su qualche ripiano a prender polvere. Eppure la sua storia è anche la nostra, ci racconta con poche variazioni quel giorno lontanissimo e vicino in cui abbiamo visto per la prima volta il dolore, e abbiamo scoperto che si muore, che è normale, che capiterà anche a noi, infallibilmente: e chissà perché non siamo impazziti. Già, in effetti, ripensandoci, perché.
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Il santo che salvò il Colosseo, circa

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26 novembre - San Leonardo di Porto Maurizio, inventore della Via Crucis, salvatore del Colosseo


Il solito allegrone
È inutile che proviate a farmi gli auguri adesso, miei cari lettori, ipocriti, fratelli; il mio onomastico era il 6 novembre, San Leonardo abate di Limoges – e anche stavolta non se n'è ricordato nessuno. Questo Leonardo non è meno importante del primo, diciamo che gioca in tutt'altra categoria: è un predicatore francescano del Settecento, secolo finora colpevolmente snobbato da questa rubrica, come se per cent'anni non ci fossero stati santi interessanti. Non è decisamente così, però riflettete un attimo sul Settecento che conoscete, sul Settecento che avete studiato a scuola, o quello che poi vi è ricapitato sott'occhio al cinema o in tv. Non vi sembra anche voi di avere un buco? Il secolo dei Lumi, vi dicevano gli insegnanti. Sì ma gli illuministi a ben vedere erano una manciata di persone in tutt'Europa sparsi tra le corti e le caffetterie; ok, gli abbonati all'Encyclopédie erano parecchi di più, però il secolo senz'altro non è tutto lì. C'erano i libertini, questa è cosa nota, almeno un film o un libro di libertini lo abbiamo consumato. Poi verso la fine partono le rivoluzioni, e quelle le studiamo già con più interesse, ma fidatevi che se al liceo vi è capitato di saltare una cinquantina di pagine di Storia d'Italia, erano tutte tra Seicento e Settecento.
Soprattutto nella penisola sembra che non succeda nulla. E invece succedono tantissime cose, tra cui parecchie guerre che cambiano un po' la cartina – prende forma tra l'altro il Regno di Sardegna – ma alla fine della fiera tutto cambia perché non cambi nulla, più o meno finché non arriva Napoleone. Qualche sovrano effettivamente legge Voltaire e si dà arie di principe illuminato, ma è quella crosta sottile della società che segue le mode: il Paese reale, come si chiama adesso, pende ancora dalle labbra dei predicatori, come ai tempi di Bernardino tre secoli prima. Leonardo di Porto Maurizio è uno di prima scelta, otterrà persino degli incarichi diplomatici. Ma preferiamo ricordarlo per averci dato una grossa mano a salvare il Colosseo, si fa per dire. Diciamo che senza di lui il Colosseo poteva arrivarci in uno stato ancor peggiore.

Come doveva apparire, l'Anfiteatro Flavio, più massiccio
e meno evocativo. All'inizio il "Colosso" era la grande statua
di bronzo all'esterno (Nerone?)
Un giorno il Colosseo (che poi si chiama Anfiteatro Flavio) andrà rifatto. Lo scrivo così, per abituarmi all'idea. Nulla dura in eterno, nemmeno i luoghi più sacri e appartati, e non è certo il caso di un'arena tirata su nel centro di Roma a scopi propagandistici. C'è chi dice che Vespasiano abbia voluto offrire al popolo quello che il dittatore precedente, Nerone, gli aveva tolto; secondo altri gli fu molto utile il bottino del saccheggio del tempio di Gerusalemme; impossibile non ricordare poi che fu lo stesso imperatore che mise una tassa sui gabinetti pubblici, che è poi il motivo per cui il suo nome è ancora sulla bocca di tutti duemila anni dopo. Poteva immaginarselo? Difficile, ai suoi tempi il passato non esisteva nella forma in cui esiste adesso. Esistevano miti, leggende, e pietre vecchie già un po' dappertutto, ma Roma non aveva nemmeno compiuto mille anni: e 1930 anni dopo il suo anfiteatro è ancora più o meno lì. In ogni caso l'estate scorsa si è saputo che la curva sud pende di 40 cm., quasi quanto la Torre di Pisa. Un giorno o l'altro potrebbe venir giù, non sarebbe la fine del mondo - a meno che non abbia ragione Beda il Venerabile:
Finché starà in piedi il Colosseo, esisterà anche Roma;
quando cadrà il Colosseo, cadrà anche Roma;
quando cadrà Roma, cadrà anche il mondo.
Al tempo in cui Beda scriveva le sue storie, nell'ottavo secolo in una landa lontana – l'Inghilterra – il Colosseo se la cavava ancora abbastanza bene. Era adibito a necropoli o forse a fortezza (come il mausoleo di Adriano, diventato Castel Sant'Angelo). I gladiatori non ci giocavano più dal 400: a rovinare il divertimento era stato l'imperatore Onorio. I combattimenti contro gli animali, ugualmente sanguinosi (leoni e orsi, a volte aizzati contro condannati a morte) erano proseguiti per un altro secolo; poi l'anfiteatro aveva smesso di essere tale. La vera decadenza cominciò a partire dall'847, con un terremoto catastrofico, in seguito al quale il monumento fu declassato a cava di marmo. Seguono secoli oscuri, in cui il Colosseo diventa un palazzo, anzi parte di un palazzo della famiglia Frangipane. Ma anche questa destinazione d'uso non dura più di tanto, e l'emorragia di blocchi di travertino prosegue per tutto il Cinquecento (un secolo in cui il nuovo amore per la classicità non impedì ai pontefici di saccheggiarla a tutto spiano), e buona parte del Seicento. Poi le cose cominciarono lentamente a cambiare. Forse fu anche merito del turismo. L'unica forma di turismo di massa che esistesse a quel tempo: il pellegrinaggio, soprattutto in occasione dei giubilei.

Progressivamente divenne chiaro che ai pellegrini che arrivavano a Roma per ottenere l'indulgenza plenaria bisognava mostrare pure qualcosa del periodo antico, non si poteva smontare tutto per adornare Palazzo Barberini. Quel poco di anfiteatro rimasto continuava a essere una mole impressionante, bisognava trovare un modo per sfruttarla, però cristianamente. Del resto, se il cristianesimo era fiorito sul sangue dei martiri, quale suolo ne era più pregno di quello dell'anfiteatro, dove a migliaia erano stati sbranati dalle fiere sotto questo o quell'imperatore?

L'idea era fondata soltanto sulle antiche leggende; non c'era nessuna evidenza storica o archeologica di una simile pratica. Ci mise anche un po' a passare. Le prime notizie di celebrazioni religiose nel Colosseo risalgono all'ultimo giubileo del Seicento (1675); settant'anni più tardi, Benedetto Quattordicesimo fece il salto di qualità, consacrando il Colosseo a Tutti i Martiri. Esatto, sì, il Colosseo diventò una chiesa. E meno male. Se l'idea fosse venuta un po' prima, l'anfiteatro ci sarebbe arrivato in uno stato migliore: come il Pantheon, che chiesa lo era diventato quasi mille anni prima, e la differenza si vede: è l'unica cupola antica che ci è arrivata quasi intatta.

Consacrare un edificio è un'operazione delicata – specie se lo stesso edificio è stato in precedenza una cava di marmo, un luogo disabitato per coppiette, un castello, un cimitero, una plaza de bestias, un'arena di gladiatori. Bisogna in qualche modo resettare l'immaginario, sostituire 1700 anni di storia con qualcosa di altrettanto interessante, ma cosa? Papa Benedetto chiamò per l'occasione il miglior predicatore sulla piazza, Leonardo di Porto Maurizio, inventore di una nuova concezione di spettacolo religioso: la Via Crucis. Sacre rappresentazioni ne esistevano da secoli, ma quella standardizzata in quattordici stazioni, quella che vi ricorda immediatamente certe fresche sere primaverili, l'odore delle rose misto alla cera delle candele, quella l'ha inventata lui. Nel 1744 le quattordici stazioni diventarono quattordici edicole all'interno del Colosseo. Quattro anni più tardi a Napoli Carlo III di Borbone inviava l'ingegnere spagnolo Rocque Joaquin de Alcubierre a compiere qualche scavo alle pendici del Vesuvio, un po' più a sud di Ercolano dove già si era trovato qualcosa d'interessante. Joaquin cercava l'antica Stabia, ma lì sotto avrebbe trovato (senza accorgersene davvero) qualche traccia di Pompei. Che c'entra con Leonardo di Porto Maurizio? Niente.

È solo interessante che sia vissuto proprio negli stessi anni in cui nasce l'archeologia moderna. L'interesse che porterà ben presto studiosi e artisti a Pompei è già tipico di quel Settecento che conosciamo noi, quello illuminista e scientifico; dai dipinti delle ville pompeiane nasce anche, è superfluo dirlo, lo stile neoclassico che i vari Canova e David avrebbero imposto in tutta Europa. La forza del neoclassico sta nel suo essere insieme antico e modernissimo: il segreto è nei fanghi di Pompei, da cui si poteva estrarre un ideale di bellezza vecchio di millesettecento anni come una cosa mai vista, inedita, come la scoperta di una civiltà extraterrestre.

Più a nord, i ruderi romani non se l'erano cavata altrettanto bene. Nessun fango provvidenziale li aveva coperti: erano rimasti lì per tutto il medioevo, esposti all'incuria, ai terremoti, al piscio delle pecore e dei pastori. Per sfangare il medioevo il caro vecchio Anfiteatro Flavio le ha provate tutte: è stato cimitero ed è stato castello; senza che nessuno lo decidesse è spontaneamente diventato uno degli orti botanici più biodiversi del mondo; e per uno scorcio di secolo si è improvvisato anche basilica. Per inciso, la storia dei martiri divorati dalle belve nell'arena potrebbe davvero essere una bufala: non abbiamo nessuna prova che i cristiani venissero giustiziati così. È vero che gli schiavi giudicati colpevoli dei crimini peggiori potevano essere travestiti da eroi mitologici e finire sbranati da orsi e leoni nella tarda mattinata (quando gli spettatori più raffinati andavano a mangiare; a guardare l'intermezzo restava solo il popolino sgranocchiante); tra i condannati potrebbe anche esserci stato qualche cristiano, ma non lo sappiamo. Per fortuna che San Leonardo e il suo Papa ci credevano – o trovavano comodo crederci. Di lì a pochi anni l'archeologia si sarebbe reimpossessata anche di Roma, ma forse per il vecchio Flavio sarebbe stato troppo tardi.

Prima o poi sarà troppo tardi: nulla è per sempre, tantomeno una vecchia arena costruita per ospitare migliaia di spettatori e duelli all'ultimo sangue. Non è mica una piramide: è un monumento al chiasso, al divertimento, alla dissipazione, e prima o poi cederà al traffico, al turismo di massa, all'inquinamento. Ci sarà poi il problema di rifarlo, bisognerebbe cominciare a pensarci. Bisognerà inventare nuove leggende, i miti classici non ci bastano più, e anche le vie crucis settecentesche cominciano a segnare il tempo. Per esempio leggevo che ieri il sindaco Alemanno e sua moglie Isabella Rauti lo hanno illuminato contro la violenza sulle donne. Non sono sicurissimo di aver capito cosa significhi, in che modo l'illuminazione di un monumento possa avere una connessione con la violenza sulle donne, o in qualche modo rappresentare un modo di porsi il problema. Immagino che si tratti di una cosa postmoderna che non capisco, e non è detto che abbia un senso, ma almeno è un tentativo di inventare qualcosa di nuovo, perché qualcosa di nuovo prima o poi dovremo trovarlo, così non può mica durare per sempre. Sempre che non abbia ragione Beda.

[Questo pezzo è comparso per la prima volta nel 2012].
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Caterina è una trottola

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25 novembre - Santa Caterina vergine e martire (III secolo)

Caterina trae il suo nome da catha, che vuol dire "universo", e ruina, "rovina", come a significare "rovina universale". Con lei infatti ogni edificio del diavolo cadde in rovina... (Iacopo da Varazze, Legenda Aurea).

Non mi fate scrivere chi è il pittore, dai
Caterina era una principessa che non dormiva mai mai mai, hai presente mai? come dire neanche adesso. Il re suo padre e la regina sua madre ci avevano provato in tutti i modi, con le fiabe di Grimm e di Andersen e di Calvino e di Vladimir Propp, e le canzoni dello zecchino d'oro d'argento e di bronzo i grandi successi di Mina e la Voce del Padrone, ma neanche il libro dei Salmi e la tavola degli elementi facevano addormentare la principessa Caterina, che invece di dormire imparava tutto. Infatti era anche intelligentissima, nonché molto intonata, e tutti potevano udirla alle tre del mattino cantare:

Folle, folle banderuola
folle banderuola segnatempo...

Avendo l'imperatore Massenzio convocato tutti, ricchi e poveri, ad Alessandria (EG) perché immolassero agli idoli pagani, proprio mentre stavano cominciando le celebrazioni sul più bello arrivò Caterina e disse dai, ma smettila, cosa sono tutti questi affari di ferro e legno e plastica non omologati CE? Non mi piacciono!, e sbing e sbleng e sbadabvong in dieci minuti aveva rotto tutti gli idoli del potente imperatore Massenzio, che disse: ma chi sei o giovane fanciulla impertinente?
"Sono Caterina", ella disse, "la patrona delle ruote dei carri-attrezzi e dei filatoi, perché giro tutta la notte e non mi fermo mai".
"Caterina, hai fatto un bel pasticcio. Ma adesso avrai sonno, almeno".
"Sonno io? No mai. Mi leggi un rotolo?"
"Che rotolo? Vuoi scherzare? Qui abbiamo solo papiri pregiati... ferma! stai strappando un Qumran originale!"
"Auff, le figure dove sono?"
"Senti Caterina, non ho tempo, sono il potente imperatore Massenzio, ho molti idoli da onorare, per cui adesso ci salutiamo, è stato un piacere, buonanotte e..."
"Che noia i tuoi idoli, lo sai che messi assieme non valgono nulla in confronto a mio papà?"
"E chi sarebbe tuo papà?"
"Mio papà è il più grande e il più bello di tutti, inoltre sa come va a finire la fiera dell'est".
"Ah-Ah, Caterina, tu scherzi, nessuno sa a come va a finire la fiera dell'est. Neanche Gugol".
"Lui ne sa più di Gugol, perché è mio papà".
"Dai Caterina piantala".
"No sul serio lui  sa chi uccise il bue che bevve l'acqua che spense il fuoco che bruciò il bastone che picchiò il cane..."

Quando udì queste parole Massenzio rimase molto turbato, perché nessun suddito del suo impero conosceva la canzone fino al punto in cui il bue beveva l'acqua - anche il più anziano dei gugol di corte sapeva risalire fino all'acqua che spense il fuoco, ma il ruolo del bue in tutto ciò era stato ormai dimenticato da generazioni, insomma Caterina ne sapeva proprio a pacchi e Massenzio cominciò a tentennare, vuoi vedere che suo papà è davvero uno potente. Mah, boh, che si fa? Per prima cosa legàtela, disse Massenzio ai suoi collaboratori a tempo determinato.

"Sire, non si può, ella gira e non sta ferma un attimo".
"Dannata gioventù".
"Ci ha già fatto stramazzare tre cavalli a dondolo e uno gnu".
"Sfiancatela con l'altalena".
"Ha consumato la catena".
"Caterina ma insomma sei un totale disastro, cosa vuoi da me?"
"Devi accettare che mio papà è il più grande di tutti".
"Caterina ma insomma mettiti nei miei panni sono un imperatore malvagio che figura ci faccio?"
"Silenzio ora canterò la sigla della Pimpa originale".
"Ah ah Caterina piantala, nessuno si ricorda la sigla della Pimpa originale".
"E la Pimpa corre e va / in campagna ed in città".
"Per gli dèi non è possibile! Tutte le videocassette della serie originale sono state distrutte nel rogo del quarantadiciannove! Com'è possibile che tu abbia accesso a codeste informazioni?"
"Me la canta sempre mio papà".
"Caterina senti non ho voglia di litigare, mi sembri una fanciulla piena di spirito e di sapienza, onora gli dei e farò di te la prima principessa del regno, anzi dell'impero, tutti si prostreranno a te e..."
"Non è che hai del panino?"
"Va bene, allora adesso facciamo così. Inviterò i cinquanta saggi più saggi dell'impero, verranno qui e discuteranno con te, ti confuteranno e ti surclasseranno in sapienza e a quel punto ti addormenterai, d'accordo?"
"Una zebra à pois, à pois, à pois".
"E non cambiare sempre argomento".

I cinquanta saggi all'inizio non volevano venire, millantavano impegni pregressi e dicevano: ma sul serio ci scomodi per una minorenne? Cioè per chi ci hai preso? Ti mandiamo uno stagista, ne abbiamo di molto bravi che non costano e non sporcano.
"No, no, dovete venire proprio voi. Vi prometto ricchi premi e un sontuoso coffibrek, ma addormentatela, addormentatela ve ne prego".
"Beh vabbe' se insisti veniamo, ma non piangere, dai, sei un imperatore crudele o cosa sei?"
"Non ce la faccio più! Non dormo da una settimana! Sul lavoro ho le allucinazioni! Mi trottola sempre da ogni parte del campo visivo!"
"Non te la devi prendere, son ragazzi".
"Ho una pila di papiri arretrati che non finisce più, al lavoro non so più che scusa inventarmi, vi prego fate qualcosa".

I saggi scossero le lunghe barbe e salirono in groppa agli stagisti. Il viaggio durò una settimana. Nel frattempo ad Alessandria ormai la prodigiosa Caterina era sulla bocca di tutti, per via che sapeva contare fino a dodici e distingueva le macchine rosse da quelle blu, e tutti lodavano la sua sapienza. Quando i saggi arrivarono, lei volle tirare le barbe a ciascuno di loro, trovandole tutte in ogni caso deludenti rispetto a quella di papà. Il colloquio verté su argomenti di filosofia, diritto naturale, e su quale fosse la precisa sequenza degli animali nel Pulcino Pio. Ben presto i saggi cominciarono a traballare, e quindi a stramazzare al suolo addormentati, uno alla volta. Dopo tre ore l'imperatore bussò ma nessuno gli apriva, così entrò da solo e vide Caterina seduta su un tappeto di vecchie barbe addormentate che cantava I Più Grandi Successi Del Quartetto Cetra.

"Svegliatevi!" urlò. "Con quello che mi costate di rimborso spese! Possibile che una giovane fanciulla tenga testa a tutti voi?"
"Sire non c'è niente da fare", dissero quelli. "Conosce le lingue degli uomini e degli animali da cortile, e i nomi dei sette nani".
"Di tutti i sette nani? Mi prendete in giro. Nessuno è mai riuscito a..."
"E riconosce ogni singolo barbapapà per nome colore e competenza. A malincuore dobbiamo ammettere che suo papà è veramente un tizio tosto".
Al sentire queste parole, Massenzio fu scosso da una terribile ira e ordinò che fossero tutti torturati con l'aspirazione nasale.
"NO! Ti preghiamo, crudele imperatore, scanna i nostri stagisti e nutricati delle loro frattaglie, ma l'aspirazione nasale no!"

Ma l'imperatore fu irremovibile. E poi, siccome i martiri sono un po' come le ciliegie, uno tira l'altro, decise già che c'era di ordinare uno strumento di tortura per la giovane Caterina, un meccanismo con molte ruote dentate. Ma Caterina, che ve lo dico a fare? Appena provarono a legarla si mise a girare, e girava così forte che la ruota dentata grippò, e l'ingranaggio saltò in testa al re, che ne riportò un bernoccolo con prognosi riservata per duemila anni.

E poi basta, Caterina non è mica stata martirizzata nel terzo secolo come dicono certi stupidi calendari, certe stolte leggende auree o argentee o bronzee. Nessuno poteva martirizzarla, Caterina era troppo veloce, e non potevano neanche aspettare che si addormentasse, perché Caterina non dormiva mai. E non dorme neanche adesso, se senti bene in fondo al corridoio senti che canta

Folle, folle banderuola
folle banderuola senza tempo
che giri come il sole e come il lampo
sul tetto rrrrrrosso del mio cuor
tirintirintin tì!

[Questo pezzo è stato pubblicato la prima volta nel 2012].
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Abdia (per piccino che tu sia)

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Sta tutto su un rotolo
(Mosaico della basilica di S. Marco,
Venezia).
19 novembre - Sant'Abdia (600 aC) - minuscolo profeta di sventura

Nella Bibbia ebraica c'erano quattro libri intestati ai profeti: Isaia, Geremia, Ezechiele e i Minori (e Daniele? Non conta, è un caso a parte, lo raccontiamo un'altra volta). Isaia – che in realtà è il nom de plume di più profeti – è il poeta; Geremia il brontolone, Ezechiele il visionario, i Minori sono dodici e hanno il libro più breve. I cristiani ebbero la bella pensata di dividerlo in dodici minuscoli libretti, alcuni poco più che cartigli. Quello di Abdia è il più corto di tutti: una pagina scarsa, ventuno versetti, appena lo spazio sufficiente per augurare sciagure a un popolo beduino (gli Edomiti) colpevole di aver collaborato con Nabucodonosor II, l'invasore babilonese.

Gli Edomiti discenderebbero da Esaù, il figlio di Isacco che cedette la primogenitura al fratellino Giacobbe in cambio d'un piatto di lenticchie: così che al posto della famosa terra del latte e del miele alla sua discendenza capitò il deserto del Negev, e una malcelata invidia per il popolo eletto. Non è chiaro quanto gli edomiti effettivamente contribuirono alla sconfitta del Regno di Giuda, ma sicuramente profittarono delle deportazioni ordinate da Nabucodonosor per sconfinare e trasferirsi in quella terra più fertile. Agli ebrei non restava che maledirli, ed è quello che fece, molto sinteticamente, Abdia: vi siete appostati ai bivi per sterminare i nostri fuggiaschi? Avete consegnato al nemico i suoi superstiti, nel giorno della sventura? Bene, il giorno del Signore è vicino: tutte le vostre azioni ricadranno sul capo. Giacobbe sarà fuoco e voi sarete paglia. Sarete sterminati, ovviamente, e le tribù d'Israele s'ingrandiranno sulle vostre rovine...

Negli ultimi versetti Abdia da profeta si trasforma in notaio della Volontà divina davanti a una mappa catastale: dal giorno del Signore in poi, spiega, gli israeliti del sud “possederanno il monte di Esaù; quelli della pianura possederanno il paese dei Filistei, il territorio di Efraim e quello di Samaria; e Beniamino possederà Galaad” eccetera eccetera, insomma Giacobbe (detto anche Israele) trionferà. È andata così?
Ovviamente no – ci fosse un solo profeta nella Bibbia che ne avesse azzeccata una. È vero che spostandosi verso la Palestina gli Edomiti persero progressivamente le loro postazioni nell’entroterra desertico e montuoso, dove furono soppiantati non da Israele bensì dai Nabatei (quelli che costruirono Petra, nuova meraviglia del mondo). Ma non furono sterminati: rimasero nella zona anche dopo il ritorno degli israeliti dalla deportazione, e cinque secoli dopo Abdia furono costretti a convertirsi all’ebraismo da un sovrano maccabeo. Alcuni fecero carriera – gli Erodi erano di origine edomita, e anche grazie all’alleato romano regnarono su Israele (anche noi italiani del resto abbiamo avuto tre re savoiardi). Quella di Abdia è l’ennesima frustrata fantasia biblica di sterminio, e il fatto che sia piccola piccola la rende in un qualche modo più suggestiva: tanti secoli fa, in un Paese lontano, c’era un popolo piccolo piccolo che le prendeva sempre da tutti gli altri popoli, e si sfogava ispirando a profeti piccoli piccoli degli stermini di massa (ma piccoli piccoli).

Tutto questo ovviamente avveniva secoli fa: oggi quei popoli non esistono più. Qualcuno forse è scomparso, la maggior parte più probabilmente si è mescolata come sempre avviene. Alcuni mantengono ancora nomi e tradizioni di qualche millennio fa: ma nessuno ovviamente pretende di occupare il Negev e il Wadi Araba sulla base di quel che scrisse millenni fa un profeta piccolo piccolo su un piccolo, piccolo cartiglio. Pensate anche solo per un momento a quanto sarebbe assurdo.

[Questo pezzo è stato pubblicato per la prima volta il 19/11/2013]
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Il peggior scrittore del secolo

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(Non di questo, del secolo VI. Un secolo in cui magari in Europa sapevano leggere in cinquecento e scrivere in quindici – comunque si aggiudica il trofeo San Gregorio di Tours, di cui si leggono mirabilie sul Post. Quella nell'immagine invece è una bis-bis-bis-nonna di Cenerentola, giuro).

17 novembre - San Gregorio di Tours (538-594)

...aveva di poco passati i trent'anni quando divenne vescovo di Tours; se è lecito giudicare l'uomo dallo scrittore, deve aver posseduto coraggio e forza di carattere, e certamente nulla di quanto vide poté distoglierlo dalla sua via...


e ADESSO chi è la più bella del reame, eh?
Come? Non ti sento bene, scusa.
Uno dei motivi per cui la gente guarda i talent show, secondo me, è che sono pieni di incapaci che fanno ridere, all'inizio; e in seguito di mediocri che possono sbagliare nota o figura da un momento all'altro. E a quel punto lo spettatore si sente come Nerone sul palco del Colosseo pronto a invertire il pollice e far entrare i leoni, no? No, esagero, tra l'altro ai suoi tempi il Colosseo non c'era, e comunque a Nerone non piacevano gli spettacoli sanguinosi. Forse i mediocri ci fanno stare bene perché sono gente come noi, sbagliano come noi, se diventano ministri fanno le stesse cazzate che faremmo noi, se non peggiori.

Ma c'è di più: a volte solo contemplando un mediocre noi riusciamo a farci un'idea della grandezza. Per esempio. Io la danza classica non sono mai riuscito a guardarla, alla prima ruota impeccabile sbadiglio, sono sempre tutte incommensurabilmente brave e mi annoio. Invece se guardo un'amica di Maria col collo del piede inadeguato riesco a capire le sue mancanze, le correggo con l'immaginazione e all'improvviso mi rendo conto della fatica, della grazia che deve metterci una ballerina vera; è come se la mediocrità mi aiutasse a misurare il valore di chi è bravo sul serio; è come quando fotografi un piccione spennato in cima a un monumento e finalmente riesci a capire quanto il monumento è grande. Dico tutto questo perché oggi è San Gregorio di Tours, che non è patrono di Tours (con San Martino non c'era gara), quindi non si sa esattamente di cosa sia patrono, e allora io avrei una proposta: nominiamolo patrono di tutti gli scrittori mediocri.

Gregorio in effetti è un po' l'amico di Maria della scrittura. Il mio Dizionario dei Santi (“Da Abacuc a Zosimo tutti i protagonisti della fede”) spiega che la sua Historia Francorum “non si può dire un'opera d'arte”, mirabile eufemismo per nascondere ai non esperti la terribile verità: Gregorio come scrittore è un disastro. Ma è uno di quei disastri molto interessanti da studiare, come il Big Bang. Non è che non sappia mettere la punteggiatura: ai suoi tempi nemmeno esisteva la punteggiatura, forse non costumava nemmeno più spaziare tra una parola e l'altra, siscrivevatuttoattaccatoperevitarecheilpenninofacesselagocciamacchiandolapergamena (con quel che costava, la pergamena: per qualche secolo si è andato avanti riciclando testi antichi, se volevi raccontare gli ultimi gossip sulla regina Cunegonda prendevi un rarissimo volume della Poetica di Aristotele, lo raschiavi, e iniziavi ascriverefittofittoqualsiasistoriellativenisseinmente). Niente punteggiatura, insomma, niente spazi: quindi diventano importantissimi i nessi logici, quelle paroline come “Perciò, Quindi, Infatti, Siccome”... ecco, quelle. Gregorio non sa bene come usarle, è come uno di quegli studenti che cominciano sempre con "Infatti" ma non sta introducendo una conseguenza, con "Perché" ma non sta recuperando una causa, è solo un modo per prendere parola e iniziare a raccontare fattoidi senza continuità finché qualcuno spazientito non ti toglie il microfono.

Gregorio del resto non è che capisca il come e il perché, la sua Historia non è che un groviglio senza capo né coda di Merovingi che si accoppano e poi fanno la pace e poi si riaccoppano, con un vescovo (a volte Gregorio stesso) che ogni tanto ne prende due sottobraccio e dice “Va bene adesso basta ammazzarsi tra cugini di terzo grado, dite un Pater Ave Gloria e da qui in poi tutti amici, oc?” [Non è vero che si diceva “oc”, a Tours non si parlava la Langue-d'Oc, ma mi piaceva la scena di un vescovo che dice “Oc”]. E il bello è che nella pagina seguente i due sono davvero amiconi e fanno bisboccia insieme, poi quando è ora di pagare il conto uno dice "Paga il mio amico che ha appena ereditato, è diventato ricco da quando ho fatto uno spiedo di tutti i suoi parenti, eh eh, Cramnesindo, dovresti solo ringraziarmi..." e Cramnesindo a quel punto si adonta, gli taglia la testa e la infilza su un palo, ecco, questi erano i tempi di Gregorio di Tours (continua...)


Gregorio non dispone che del suo latino grammaticalmente corrotto, sintatticamente povero e di conseguenza quasi di scolaretto, egli non ha registri da manovrare e non ha un pubblico sul quale possa influire con un gusto inconsueto o con una variante stilistica; ha però i fatti concreti che accadono intorno a lui, che si svolgono davanti ai suoi occhi o che gli sono riferiti “caldi caldi"...

Gallia, sesto secolo. L'Impero Romano è finito dai tempi dei nonni dei bisnonni, e al suo posto ci sono questi sovrani burgundi visigoti e merovingi che però non conoscono la differenza tra nazione e proprietà privata, sicché qualsiasi regno lo dividono tra numerosi figli maschi, i quali ovviamente non perdono tempo e cominciano ad ammazzarsi a volte quando il padre è ancora vivo, spalleggiati da mogli e concubine efferate: i confini cambiano continuamente, le nazioni hanno nomi stranissimi (Neustria, Austrasia), e in mezzo a tutto questo Gregorio cerca di fare l'uomo saggio, l'uomo di fede e soprattutto di lettere. La volontà non gli mancava, ma cominciava a scarseggiare il materiale, dico proprio le pergamene: in tutta la sua vita Gregorio si nutrirà soprattutto di cronache tardo-antiche, un po' di Eneide, poca patristica, Cicerone solo attraverso San Girolamo, le Scritture compreso qualche apocrifo, tutto lì. Per i tempi era comunque una biblioteca degnissima, che gli valse una fama di intellettuale, non del tutto immeritata, perché son tutti buoni oggi di fare i sapientini con google. Gregorio non aveva nemmeno a disposizione un vocabolario decente della lingua in cui cercava di scrivere (il latino).

Quanto alle fonti, è tutto un sentito-dire. Gregorio è contemporaneo di alcuni dei personaggi più incredibili della sua Historia; donne fatali e criminali, come Brunechilde e Fredegonda. Quest'ultima, nata schiava, seduce il re Chilperico e lo convince a ripudiare la prima moglie Audovera e a trovarsene una degna di lui. Chilperico obbedisce ma, come capita sovente ai Merovingi, fraintende e sposa Galsuinda, sorella di Brunechilde regina di Austrasia. Fredegonda abbozza ma appena Chilperico si stanca della sposa novella riesce a convincerlo a farla sgozzare: la cognata non apprezza, e da qui un'infinita guerra tra Austrasia e Neustria in cui inutilmente gli studiosi moderni cercherebbero quei moventi, quegli indicatori socio-economici per cui si fanno le guerre, perché ce la racconta Gregorio da Tours, e per Gregorio alla fine è tutto molto semplice: quelle due tipe, Fredegonda e Brunechilde, non si sopportavano, per trent'anni continuarono a scagliarsi contro re principi  e pretendenti come pezzi bianchi e neri sulla scacchiera.

A Gregorio nulla dell'uomo è estraneo, fa luce in tutti gli abissi, chiama le cose col loro nome, e conserva tuttavia la sua dignità e una certa unzione di tono, e non si fa nemmeno nessun ritegno d'impiegare mezzi temporali accanto a quelli spirituali; sa che la Chiesa deve essere forte e potente se vuol raggiungere in questo mondo qualcosa di durevole nel campo morale e che bisogna legare a sé anche con interessi pratici coloro di cui si vuol conquistare durevolmente il cuore. 

Nel frattempo Fredegonda aveva anche il suo daffare ad eliminare i figliastri, avvelenandoli o facendoli sgozzare o screditandoli presso il marito. Persino i suoi figli naturali dovevano stare attenti alla testa, letteralmente. Alla vezzosa Rigonda promise di regalare ogni vestito e prezioso che sarebbe riuscita a trovare in un baule; ovviamente era solo un pretesto per chiuderle la testa nel baule stesso, ma le sue guardie sventarono il crimine e... e niente, il mattino dopo tutti a colazione come prima, che gente i Merovingi.

L'episodio è interessante perché riaffiora dieci secoli dopo nell'ultimo posto dove uno se lo potrebbe aspettare, e cioè nella fiaba di Zezolla, che è poi la versione napoletana di Cenerentola, narrata nel Cunto de li Cunti da Giambattista Basile. Qui in una versione italiana:
Ma [il padre di Zezolla], essendosi sposato da poco il padre e pigliata una focosa malvagia e indiavolata, questa maledetta femmina cominciò ad avere in disgusto la figliastra, facendole cere brusche, facce storte, occhiate accigliate da spaventarla, tanto che la povera ragazza si lamentava sempre con la maestra dei maltrattamenti che le faceva la matrigna, dicendole: "O dio, e non potessi essere tu la mammarella mia, che mi fai tanti vezzi e carezze?" E tanto continuò a ripetere questa cantilena che, messole un vespone nell'orecchio, accecata dal diavolo, una volta la maestra le disse: "Se farai come ti dice questa testa pazza, io ti sarò mamma e tu mi sarai cara come le ciliegine di questi occhi". Voleva continuare a parlare, quando Zezolla (che così si chiamava la ragazza) disse: "Perdonami, se ti spezzo la parola in bocca. Io so che mi vuoi bene, perciò zitto e sufficit: insegnami l'arte, perché io vengo dalla campagna, tu scrivi io firmo" "Orsù" replicò la maestra, "senti bene, apri le orecchie e il pane ti verrà bianco come i fiori. Appena tuo padre esce, di' alla tua matrigna che vuoi un vestito di quelli vecchi che stanno dentro la grande cassapanca nel ripostiglio, per risparmiare questo che porti addosso. Lei, che ti vuol vedere tutta pezze e stracci, aprirà il cassone e dirà: 'Tieni il coperchio' E tu, tenendolo, mentre andrà rovistando dentro, lascialo cadere di colpo, così si romperà l'osso del collo. Fatto ciò, tu sai che tuo padre farebbe monete false per accontentarti e tu, quando ti accarezza, pregalo di prendermi per moglie, perché (beata a te!) sarai la padrona della vita mia".


Divorzio alla merovingia:
Chilperico strangola la moglie nel sonno.
Sì, lo so, di queste cose Walt Disney non parla, ma la Cenerentola originale napoletana spezza il collo della matrigna in un baule. Le va comunque male, perché il papà sposa la maestra che diventa una matrigna peggiore della prima, ed è quella che poi la relega definitivamente alle pulizie. Secoli prima lo stesso crimine era stato imputato a quella granculo di Fredegonda, che con Cenerentola del resto condivide il salto improvviso da domestica a principessa. Insomma dietro alla fiaba della scarpetta di cristallo (che con molte variazioni è attestata nell'antico Egitto, in Cina e tra i nativi americani) potrebbe esserci una delle più malvagie regine della storia, una di fronte alla quale Lucrezia Borgia è una Teresina del Bambin Gesù. E alla fine un dettaglio della fiaba potrebbe averlo messo su pergamena proprio il mediocre Gregorio da Tours, con la sua passione per le scene un po' truculente, ma vivide. Se lo amiamo, con tutto l'affetto fraterno che riserviamo ai mediocri, è grazie a Erich Auerbach, che in Mimesis ci ha fatto conoscere la sua prosa sgrammaticata, e ci ha insegnato a riconoscere l'alba nell'imbrunire degli antichi nessi logico-sintattici. Perché è vero, Gregorio scrive male, ma senza di lui forse non avremmo il realismo moderno.
Di certo il suo talento e il suo temperamento conducono il vescovo Gregorio molto al di là della semplice cura spirituale e della pratica ecclesiastica; quasi senza avvedersene diventa uno scrittore che afferra e foggia la vita. Non ogni prete avrebbe potuto diventar quello che è diventato lui, ma in quel tempo soltanto un prete poteva diventarlo.
È passato molto tempo da quando studiavo Auerbach e il realismo in generale, ma ancora oggi quando correggo qualche tema di tredicenne, e sbatto inevitabilmente contro sintassi traballanti, punteggiature insensate o inesistenti, “perché” che non spiegano e “ma” che non avversano, proprio mentre sto per accartocciare il foglio protocollo... mi torna in mente Gregorio di Tours, grande e sgrammaticato scrittore che coi cocci del latino s'inventò una lingua nuova e un realismo nuovo, patrono di tutti noi cattivi e incompresi scrittori sempre in guerra con punteggiatura e logica. Magari il mio peggior studente sarà il cronista dei prossimi barbari; possa San Gregorio illuminargli il desktop, mentre raschia dalla memoria fissa qualche e-book inutile e comincia a scrivere le gesta del popolo tamarro.

[Pubblicato la prima volta il 18 novembre 2011].
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San Martino, l'estate che non c'è

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11 novembre – San Martino da Tours (316-397), soldato, vescovo, fenomeno meteorologico
Carpaccio (1480 circa)
L’estate di San Martino dura tre giorni e pochino, e nessuno sa spiegarmi il perché. Pensavo si trattasse di un piccolo anticiclone stagionale, ma salta fuori che esiste in tutte le fasce temperate del mondo; addirittura anche in Australia, anche se là ovviamente arriva tra aprile e maggio. E quindi non la chiamano estate di San Martino ma, come un po’ dovunque ormai, Indian Summer. L’estate indiana, già, ma di che indiani si parla?
È parere unanime che si tratti di nativi nordamericani. Il primo a segnalare l’espressione fu uno scrittore francese immigrato a New York, nel 1778; cinquant’anni più tardi, una colona anglo-canadese si burla della leggenda metropolitana per cui l’aumento effimero della temperatura sarebbe causato dai grandi falò rituali accesi dalle nazioni indiane [questa cosa l’ho pur letta da qualche parte, ma non riesco più a trovare la fonte] . Già allora nessuno sapeva esattamente spiegare cosa ci fosse di indiano nella piccola estate che nella Madre Patria continuava a essere attribuita a San Martino. Forse era un periodo particolarmente indicato per per la raccolta di determinati frutti della terra, o per le razzie e il saccheggio. Oppure, semplicemente, l’aggettivo “indiano” veniva usato in senso dispregiativo, come sinonimo di “falso”. Quest’ultima spiegazione ha il pregio di essere più semplice e il grosso difetto di suonare razzista – al punto che al momento è stata espunta dalla pagina inglese di Wikipedia. Risolverebbe anche la coincidenza per cui dall’altra parte del mondo, in Bulgaria, la stessa estate è chiamata “zingara”. In molti altri Paesi slavi è “l’estate delle vecchie” o “delle donne” (in russo Babye Leto): anche in questo caso le interpretazioni si sprecano, le donne potrebbero essere le Norne della mitologia norrena, ma anche le madri di famiglia che in questo periodo dell’anno potevano approfittare dei giorni di sole per uscire a raccogliere funghi o castagne; ma alla fine anche in questo caso viene il sospetto che le “donne” siano l'”indiano” di turno, qualcuno a cui attribuire un fenomeno irrisorio, depotenziato. Un’estate di tre giorni, come dire un’estate da donne.
Nel resto d’Europa l’estate è stata attribuita a un santo. Martino, l’ex legionario divenuto vescovo di una diocesi della Francia profonda, l’ha spuntata su concorrenti agguerriti: San Luca (UK), Sante Brigida e Britta (Svezia), San Michele (Galles, Spagna, Serbia), Santa Teresa (Paesi Bassi), Tutti i Santi (altrove). Com’è giusto che sia: l’estate in questione non si verifica negli stessi giorni in tutte le latitudini – ammesso che si verifichi. Non siamo nemmeno sicuri che Martino abbia vinto il confronto perché l’11 novembre era il giorno statisticamente più probabile: forse si è fatto strada perché era un santo simpatico, un vescovo sollecito che non lesinava aiuti e miracoli. Fosse nato appena qualche anno prima, probabilmente sarebbe stato martirizzato sotto Diocleziano molto prima di diventare un vecchio saggio, e su di lui sarebbero state raccontate le solite storie favolose e sanguinose, arti che si staccano e riattaccano, gole che si offrono alla lama ma la lama schizza via, eccetera.
Per me i legionari romani sono tutti così (e mi sono sempre chiesto l’utilità di quel mantello in un combattimento)
Martino però viene al mondo (in Pannonia, oggi Ungheria) tre anni dopo che l’editto di Milano ha sospeso le persecuzioni.  È uno dei primi santi-non-martiri, santi che diventano vescovi e invecchiano. L’unica leggenda sulla sua giovinezza è quella famosa del mantello: trovando un mendicante per strada, dalle parti di Amiens, in un freddo giorno (di novembre), taglia col gladio il suo rosso manto da ufficiale della legione e gliene passa metà. Una versione più recente a questo punto fa uscire il sole, ma è chiaramente un’aggiunta postuma che serve a spiegare la singolarità meteorologica. Invece la leggenda originale fa comparire a Martino, la notte seguente, il mendicante in sogno: era Gesù.
Il manto di Martino nei quadri di solito è rosso, come quello dei centurioni di Asterix. Mi ricordo una favolosa pala d’altare in una minuscola città del Poitou (o forse era già Turegna). Era dello stesso rosso della mia minuscola macchinina, con la quale in quel periodo mi aggiravo tra Tours e Poitiers, cercando case di Balzac, di Descartes, rovine romane, il più delle volte trovando pioggia e girasoli. E autostoppisti, coi quali dividere l’unica cosa che possedevo, la mia vetturetta il mio unico mantello; sperando con ciò di propiziare il sole. Non voglio dire che credo in queste cose, ma nella targa c’erano le lettere S-M-A-R. Lascia che le altre vetture preghino san Cristoforo o Antonio da Padova, la mia era devota a San Martino.
La macchinina esiste ancora, ogni tanto la vado a trovare, la usano per andare nei cantieri. È un po’ acciaccata, lo sterzo è durissimo, ma ogni volta che mi vede è come se mi dicesse: sei tornato, connard? Quand’è che ce ne torniamo su su più a nord del Moncenisio, dove piove sempre e i girasoli s’en fichent? E se troviamo ragazze rosse di capelli o studenti con l’alitosi li carichiamo. Ho ancora un’autoradio, ci ha pure gli mp3, ma lo sai da quand’è che non ascolto un pezzo di Brel a palla? Non è che mi lamento, eh, è tutto piatto anche qui. Ma un bel dosso, ti ricordi quei dossi pazzeschi che arrivavi in cima ai cento all’ora e non vedevi più niente! più niente! dimmi che non ti divertivi con me in Francia, dillo. Senza un quattrino e un progetto a termine, con le valigie già fatte nel dormitorio. Stavamo dicendo?
Sole? Sì, ne abbiamo sentito parlare, ma dalle nostre parti non crediamo molto in queste cose, siamo laici sapete.
Per le stesse strade, secoli prima, Martino si aggirava, prima soldato, poi diacono, poi infaticabile vescovo deciso a evangelizzare il pagus, il contado, infine cadavere, conteso dai fedeli di Tours e Poitiers, affamati di reliquie e dell’indotto turistico-commerciale che avrebbero creato. Martino è sempre stato molto amato. Si intuisce che lui stesso amasse profondamente la sua terra d’adozione, piatta come la Pannonia (a parte qualche dosso effettivamente pazzesco), forse un po’ più esposta agli elementi. Come molti santi in seguito, partì rivoluzionario e invecchiò pompiere: cominciò bruciando idoli dove ne trovava, e verso la fine probabilmente si contentava di benedirli: il Dio di questo fiume d’ora in poi è il tal martire, ecc. ecc. Lui stesso forse subì lo stesso destino: forse sotto Martino c’è un po’ del Dio soldato, Marte: un Dio che smette di fare la guerra e si dà alla filantropia.
Quanto al fenomeno atmosferico, mi domando se esista. Per esempio, oggi è San Martino e piove come Dio la manda. Mi spiace un po’ per le bancarelle a Bomporto (MO), ma se ci penso bene, sin da quando ero bambino è sempre andata così. Quando non pioveva c’era nebbia, o vento, persino vento, guardate che dalle nostre parti è una notizia il vento, insomma, Estate di cosa?
Concludo con una poesia, e con un’ammissione pesante: a me San Martino di Carducci piace. Mi mette di buonumore, mi fa venir voglia di annusare mosto e mangiare castagne, una poesia che fa appetito secondo me merita. C’è quel participio molto semplice ma così appropriato, scoppiettante, è una poesia scoppiettante. La trovo semplice e aggraziata, con quello stormo di uccellacci neri che si dilegua, come i cattivi pensieri, appena torni a casa da una sagra piena di pioggia e nebbia e ti metti davanti a un camino, scoppiettante. Buona estate, se la vedete salutatemela.
Novembre di Pascoli invece mi fa venir voglia di morire
[Questo pezzo è apparso la prima volta l'11/11/2011].
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Chi abolisce le province non capisce il territorio

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La Riforma Boschi-Renzi, com'è noto, non elimina di fatto le Province, ma le raschia via dal testo costituzionale, realizzando così una vecchia proposta dell'Italia dei Valori - ma anche Renzi, nei 100 punti di una delle sue prime Leopolde, aveva messo nero su bianco che le province andavano abolite perché costano troppo. L'ho sempre trovato un punto di vista straordinariamente miope e populista, e non ho mai smesso di scriverlo. Così perdonatemi se stavolta, invece di trovare nuove parole per spiegare le stesse semplici cose, mi limito a copiare e incollare pezzi che ho prodotto negli ultimi cinque anni, su questo blog e sull'Unita.it. 

Dalle mie parti è stato il Natale più caldo del secolo. È probabilmente un record destinato a infrangersi presto, conviene prepararsi. Temperature miti a Natale significano poca neve sull'alto appennino, precipitazioni piovose un po' dappertutto, fiumi in piena (noi ne abbiamo due abbastanza pericolosi), ponti da chiudere al traffico, e rischi di inondazioni. Per fortuna ci sono le casse di espansione, i bacini artificiali da allagare quando i fiumi arrivano a livello di guardia. E però non sono mai stati collaudati. Pare. In Regione dicono che non c'è problema, ed è sicuro che funzioneranno; anche l'Agenzia interregionale del Po è dello stesso parere, e quindi ce le teniamo così. Nel frattempo dall'altra parte dell'Appennino una procura sta indagando su tredici funzionari accusati di disastro e omicidio colposo, perché? Perché non avevano collaudato una cassa di espansione. Sembrava funzionante. Poi un giorno il Magra ha straripato e ad Aulla sono morte due persone. Più i soliti milioni di euro di danni. Collaudare la cassa d'espansione sarebbe costato meno, ma è un'operazione complessa e non del tutto priva di pericoli, che arreca disagio alla popolazione, e così alla fine non è mai la priorità di nessun funzionario o politico.

Se i politici tendono a non pensare più di tanto al territorio, non è per miopia o egoismo; semplicemente, il territorio non vota. Votano i cittadini, e i cittadini sono sempre più concentrati nei centri. Del dissesto territoriale si accorgono soltanto quando arriva la piena. Una possibile soluzione poteva passare per il potenziamento dell’ente provinciale, che ha le dimensioni ottimali per occuparsi dei problemi relativi al territorio e alla viabilità. I comuni sono troppo piccoli, le regioni troppo grandi. La provincia era perfetta: sicuramente qualcuna avrebbe potuto essere accorpata, ma in generale è l’entità territoriale che permette di gestire un fiume, una valle, una catena montuosa; l’unica in cui gli amministratori potrebbero trovare l’equilibrio tra le esigenze del centro urbano e quelle del territorio circostante.

Avremmo dovuto potenziarla. Invece a un certo punto qualcuno ha cominciato a dire che andava abolita, e a furia di ripeterlo ci abbiamo creduto tutti. Quella che resterà in piedi col decreto Delrio sarà una specie di dopolavoro dei sindaci, dove la bilancia penderà ancora di più dalla parte di chi rappresenta i centri urbani più popolati. Questi sindaci-volontari dovranno preoccuparsi di inezie come il dissesto idrogeologico praticamente gratis. Bisogna infatti risparmiare, tutte le forze politiche ci tengono molto a risparmiare e pare che il modo migliore sia non pagare lo stipendio ai politici che devono vigilare sul territorio. Il risparmio si calcola subito; i milioni di danni di una frana o di un'alluvione li conteremo poi.

Sull'abolizione delle province ho una teoria. Di solito chi ne parla come una cosa seria, fattibile, sensata... abita a Roma. Al massimo a Milano. Già i napoletani, immagino, si rendono benissimo conto che una cosa è il comune (900.000 abitanti) una cosa la provincia (tre milioni stretti stretti). Ma i milanesi, e i romani soprattutto, le province non riescono a capirle perché non le vedono. Non fanno parte della loro esperienza.

Una provincia ben gestita è una provincia che ha una rete viaria efficiente; che conosce le necessità del suo territorio; sa dove rimboschire per evitare le frane a valle; sa dove intervenire per evitare le alluvioni; sa interpretare il pericolo sismico regolamentando l’edilizia di conseguenza. Tutto questo i comuni non lo possono fare: hanno un orizzonte più corto, ogni comunità vede solo il tratto di fiume che l’attraversa. Né possono farlo le regioni, enti troppo grandi, portati per forza di cose a privilegiare le esigenze dei centri più popolati (che portano più voti) e accantonare il resto.

Molto spesso poi chi parla di abolire le province mostra di non riconoscere che un Paese non è soltanto una comunità di persone, ma è anche il territorio in cui queste persone vivono. Il fatto che alcune province, anche vaste, siano poco popolate, non dovrebbe costituire di per sé un motivo sufficiente per eliminarle. La gestione dei fiumi, delle valli, delle strade, deve essere efficace: la risposta alle emergenze deve essere pronta, anche se in quel territorio abitano poche migliaia di persone.

Ci si scandalizza del fatto che un piccolo centro, Sondrio, continui a esercitare prerogative da capoluogo, ignorando il fatto che per quanto Sondrio possa essere piccola, il territorio a cui fa capo è immenso, e separato dal resto della Lombardia da confini naturali. Non è che non si possano trasferire uffici e competenze a Bergamo, ma rimane da stabilire se sia un risparmio. Per il Tesoro magari sì, almeno nell’immediato; ma per i cittadini? I tagli hanno di buono che sul bilancio si vedono subito: le magagne, i disastri “naturali” che possono derivare da una gestione miope e lontana del territorio, all’inizio non si vedono, e comunque a calcolarli servono mesi, a volte anni.

La stragrande maggioranza degli italiani non vive in grandi centri, ma in territori diversificati dove l’organizzazione provinciale dei trasporti pubblici o delle scuole superiori ha ancora un senso.
Chi vive nell'Italia non metropolitana sa benissimo che tra comune e regione esiste un livello intermedio, che può mettere insieme il bacino di un piccolo fiume, o il contado di una città di medie dimensioni. E che certe decisioni ha più senso prenderle a Massa o Ascoli che non a Firenze o ad Ancona. Le scuole, gli ospedali, i tribunali, le prefetture, perfino le diocesi: chiunque si è posto il problema di amministrare un servizio nel territorio ha sempre preferito dividere l'Italia in pezzettini da 2000 chilometri quadrati, invece che venti enormi blocchi da trentamila.La dimostrazione di quanto sia finto il federalismo dei leghisti è tutta in decisioni del genere: blaterano di dialetti e intanto tagliano province.

Potremmo leggere questa fase di dissoluzione localistica come una fase di guerra tra la nozione di provincia e di regione: mentre le regioni trionfano (la Lega è un partito che ragiona per regioni), la nozione stessa di provincia viene messa in discussione: pare che sia una burocrazia inutile... perché debba essere inutile proprio la provincia e non la regione, non si sa. Un vero decentramento dei servizi dovrebbe avrebbe un respiro provinciale. Ma la tendenza non è questa: la tendenza è quella di trasformare venti città d'Italia in venti capitali di staterelli autonomi, e chiamarlo federalismo. Se potessimo aprire la testa di un federalista milanese e dare un'occhiata al suo "federalismo"... sospetto che ci troveremmo davanti uno Stato assoluto e accentrato su Milano, peggio che ai tempi di Lodovico il Moro; nel frattempo pero' i comuni di confine fanno i referendum per passare al Trentino (si pagano meno tasse), e in generale 'sti sudditi "lombardi" non c'è verso di farli passare per l'Hub Granducale di Malpensa: i bresciani hanno Montichiari, i bergamaschi Orio al Serio, e cosi' via.

Forse la provincia è l'esatto contrario del campanile: il luogo in cui le esigenze dei centri si armonizzavano con quelle del territorio circostante. Le province sono state, dall'Unità a oggi, le maglie di un tessuto complesso, avvinto a un territorio eterogeneo. Non a caso le loro competenze riguardano quasi esclusivamente la tutela delle terre e delle acque (e delle strade, non meno importanti). La retorica populista che in questi anni ci ha voluto convincere che le province 'non servono a niente' nasconde il nostro progressivo scollamento da un territorio che non capiamo, attirati come siamo dai Centri. Non lo vediamo nemmeno più, il territorio, dai finestrini di treni sempre più veloci; salvo spaventarci e indignarci quando lo stesso territorio si ribella, e frana o smotta. In quei casi ci accorgiamo che avrebbe dovuto essere amministrato meglio - ma da chi? La Regione avrebbe dovuto preoccuparsene, ma aveva altre priorità, legate a territori più popolati e più rappresentati in consiglio regionale. Non resterà che lamentarsi dell’emergenza che nessuno aveva previsto: e trovare da qualche parte i soldi per la ricostruzione. Se spenderemo più di quanto avevamo risparmiato tagliando le province, nessuno se ne accorgerà. Sono conti difficili, calcoli noiosi, non li farà nessuno.

Considerate le mie opinioni sulle province e sulla serietà di chi propone di abolirle, non credo che ci si possa stupire se voto No a questa riforma - è più strano che Grillo voti come me, e in effetti l'impegno che il M5S sta esibendo nella campagna per il No mi stupisce. Qui sotto gli altri motivi che ho trovato per votare No. Magari non sono tutti buoni, ma insomma, cominciano a essere tanti: 

1. Non si riscrive la carta costituzionale col martello pneumatico.
2. Non si usa una brutta legge elettorale come moneta di scambio.
3. Non mi piacciono le riforme semipresidenziali.
4. Meglio un Renzi sconfitto oggi che un Renzi sconfitto domani
5. Mandare 21 sindaci al senato è una stronzata pazzesca
6. Mandare sindaci al senato è davvero una stronzata pazzesca.
7. Nel nuovo Senato alcune Regioni saranno super-rappresentate, ai danni di altre
8. Si poteva scrivere meglio, ma non hanno voluto.
9. Di leggi ne scriviamo già troppe: non abbiamo bisogno di scriverne di più e più in fretta, ma di farle rispettare
10. Il numero di firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo va aumentato e basta
11. Non è vero che sarà più facile approvare leggi di iniziativa popolare, non fate i furbi.
12. Dio ci scampi dai referendum propositivi.
13. Il Presidente della Repubblica non sarà necessariamente una figura sopra le parti.
14. Gli abitanti delle città metropolitane non avranno il diritto di eleggere i loro rappresentanti? Ma siete scemi?
15. Chi abolisce le Province non capisce il territorio.


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I knew right away he was not ordinary

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(Riciclo un pezzo scritto per un altro compleanno, in un sito ormai introvabile)

Io dopo tanti anni non l'ho ancora capito se si cresce intorno al proprio stampino primordiale, diventando peri se eravamo semi di pero, fragole se eravamo semini di fragole, eccetera. A me piace pensare che alcune persone al momento giusto abbiano avuto la possibilità di dare una botta all'impasto che cuoceva, una direzione, anche solo un segno. Sennò non farei il mestiere che faccio? O ce l'avevo già nell'embrione, il mio mestiere?

Sia come sia, io sono immensamente grato, per esempio, al prof di Educazione Musicale di cui non ricordo nemmeno il cognome, che a un certo punto della terza smise di insegnarci filastrocche al flauto e cominciò a prestarci dischi, ma seriamente, 33 giri e 1/3, e libri da leggere, e ci commissionò una ricerca multimediale con i media che c'erano allora, le diapositive insomma, ed eravamo divisi in gruppi, tutti volevano ovviamente la musica rock ma a me capitò il folk, e io subito esclamai John Denver! Non ho la minima idea del perché conoscessi John Denver in terza media (forse perché comparsava in una puntata dei Muppets?) e invece, somma vergogna, Bob Dylan no, Bob Dylan non avevo la minima idea di chi fosse, e cinque minuti dopo avevo in mano le cassettine di Bringing It All Back Home e The Times They Are A-Changin', e una monografia che forse era uno dei primissimi libri dell'Editrice Arcana.

D'altro canto non avrebbe funzionato con tutti, voglio dire che ventiquattro studenti su venticinque gliel'avrebbero tirata in testa, la cassettina di The Times They Are A Changin', a metà degli anni Ottanta e con una conoscenza piuttosto limitata dell'inglese bisognava portare nei propri geni interi millenni di autolesionismo per mettersi ad ascoltare roba del genere sul registratore panasonic. Non so se avete presente i suoni di quel periodo, quel tipo di produzione gommosa, la cassa frusciante sparata su entrambi i canali (tanto poi il panasonic era un mono), l'estetica mixarola dei 12 pollici, Revenge degli Eurythmics, e poi all'improvviso ti metti ad ascoltare una voce nasale in un silenzio che puzza d'antico che suona la chitarra per mezz'ora con qualche attacco d'armonica ogni tanto, come passare da Gianni Rodari ai geroglifici egizi. Io invece mi misi ad ascoltare seriamente quella roba, e confesso che fui molto lieto quando Bob passò al blues elettrico, Subterrean diventò subito la mia preferita. Poi dovevo andare a casa della Rebecca che mi stava antipatica ma aveva il giradischi e quindi si era presa i 33 e 1/3. Io avevo questa sfiga che tutte le compagnie raggiungibili ciclisticamente a fine ricerche nel doposcuola eran femmine, e del folk o del blues elettrico proprio non poteva loro fregar nulla, a loro fregava mangiare patatine sancarlo sfogliando MODA guardando le foto di tipe magre e fu la prima volta che pensai che doveva esistere qualcosa come l'omosessualità femminile, ma me ne fregava davvero così poco, soprattutto quando Rebecca mise su il 33 1/3, e io ebbi quella sensazione di saltare dalla sedia, che in una famosa intervista lo stesso Dylan dice che gli capitò la prima volta che ascolto The House of The Rising Sun rifatta dagli Animals; io la ebbi al ritornello di Hurricane. Poi basta perché credo che Rebecca alzò subito la testina disgustata per quei suoni così diversi. A sua discolpa, era davvero qualcosa che non avevamo mai ascoltato prima. Cioè, non era come adesso. Noi non ascoltavamo la musica dei nostri genitori, Battisti per dire era ancora vivo ma non lo avremmo mai considerato ascoltabile neanche per sogno; era lo stesso passato di Charles Aznavour o Chopin, una cosa che non ci riguardava. Non c'erano gli mp3, non c'erano i cd, ma soprattutto non c'era tutta questa industria della nostalgia che c'è adesso. Nel 1986 i Bee Gees erano ridicoli e tutto quello che veniva prima, semplicemente, non si ascoltava, roba da genitori che rompono i coglioni alla fine della festa.

Però Hurricane mi fece saltare sulla sedia, e da quel momento forse il mio destino era segnato. O forse l'avevo nei geni, o forse passare gli anni della formazione musicale tra gli scaffali dei Nice Price era la strategia più conveniente. E' una canzone che non ascolto più da anni, non mi fa più nessun effetto sentire un violino sopra una chitarra acustica e un'armonica e una corista. Garantisco però che fu uno choc, la fine dei miei anni Ottanta (che poi mi dovetti recuperare negli anni Novanta). E poi Dylan mi rimase comunque in una strana dimensione sottopelle, mi misi a studiare la sua discografia ed era davvero come studiare i geroglifici, tutti quegli album e quelle canzoni che non conoscevo e che per anni non avrei comunque ascoltato. Familiare e incomprensibile per tutta la vita, un cugino lontano di cui ogni tanto ti arrivano notizie assurde - si è convertito al cristianesimo - gli è passata - si è convertito all'unplugged - si è messo a stonare tutti i concerti - va al Giubileo - ha fatto sette dischi magri - ha fatto sette dischi grassi.

Forse ero nato per conoscere Dylan, forse no. Si fanno incontri incredibili alle scuole medie. Quella sensazione di scoprire una cosa, qualsiasi cosa, che era lì e ti aspettava, quello svegliarsi ogni giorno nel primo giorno della creazione. Molto difficile da spiegare a chi non frequenta più.
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Possiamo convivere con gente così?

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(Forse li avete già visti: alcuni youtuber olandesi vanno in giro a citare versetti del Corano ai passanti; dopo averli scandalizzati, scoprono la copertina e rivelano che si tratta di una Bibbia. È divertente, ma non così originale.

Quando 11 anni fa Vittorio Feltri pubblicò il Corano in dispense su Libero - vi giuro, 11 anni fa Vittorio Feltri pubblicò il Corano in dispense su Libero - io scrissi questa recensione per Macchianera, che al tempo era uno dei blog più letti in Italia. Ci cascarono in parecchi - incredibilmente, un sacco di commenti sono ancora on line. È passato tanto tempo e siamo ancora convinti di parlare di qualcosa di attuale, di interessante).

Possiamo convivere con chi crede nel Corano? No

24 novembre 2004.

Ogni giorno è buono per imparare qualcosa, e io temo di avere imparato qualcosa da Vittorio Feltri. Sì, proprio lui, l'esegeta del Corano.
L'avevo preso sottogamba, sapete. Credevo che valesse la pena di comprarlo per dedicargli uno sfottò, una di quelle cose che piace a noi frustrati di sinistra. Ebbene.
La tesi di Feltri è scontata: il Corano è inconciliabile con l'Occidente. Si tratta di un pregiudizio? Magari. No, Feltri si è documentato, ha studiato il Corano, ed è giunto a conclusioni che sono inoppugnabili. Cioè, io ho anche provato, a oppugnarle. Ma quando uno ha ragione ha ragione, e stavolta devo dare ragione a Vittorio Feltri. Il Corano è inconciliabile coi principi della nostra Costituzione. Chi crede in quel libro non dovrebbe rimanere a lungo sul suolo italiano. Mi dispiace, ma è così. Giudicate voi:

Le donne? Per Maometto sono inferiori
di Vittorio Feltri

Il Corano che cosa pensa delle donne? C'è un versetto molto chiaro. Sura II [detto della "vacca"], 228: «Ma gli uomini sono un gradino più in alto». Usa proprio questa formula il Libro Sacro: i maschi sono superiori. Non è una frase suscettibile di interpretazioni.
[. . .]
Questa inferiorità è strutturale, ed essa è la chiave di volta su cui è costruita la società. Insomma, la donna non è vittima di qualche incidente di percorso, per cui basta un ritocco qua e là delle leggi o della mentalità. No, è minorata per volontà divina, ed anzi la vita comune si regge su questo principio. Il resto discende come conseguenza: nessun ruolo direttivo, nessuna possibilità di organizzare per sé un minimo di vita individuale. La schiavitù è sancita e benedetta. Non sono teorie religiose, ma sono diventate immediatamente leggi politiche dove l'Islam è al potere, e pratiche familiari dove sono (per ora) in minoranza. Non illudiamoci: gli ayatollah imporranno a tutti questa visione del mondo appena potranno, perché per essi non c'è distinzione tra sfera spirituale e politica, tra morale cranica e legge dello Stato. Si pone un'altra questione seria. Le comunità musulmane presenti in tra noi possono trattare così le donne in barba alle nostre norme e consuetudini?


La risposta sarebbe scontata (no), ma lo sapete, io sono il solito malfidato, mica potevo fidarmi del primo versetto che mi citavano.
Così sono andato a prendermi la mia copia del Corano, ché sapevo bene di averne una da qualche parte su una mensola alta (il Libro va sempre posato in alto). E ho iniziato a sfogliare. Ero convinto che avrei trovato subito qualche versetto che ribaltava la faccenda. Beh.
Mi sono dovuto ricredere. Più andavo avanti, più era peggio. Ragazzi, c'è poco da essere politically correct. Quel libro è veramente misogino. Tutte le volte che compare la parola "donna", da qualche parte lì intorno c'è anche la parola "sottomessa". Non ci credete?

Si parte dalla Sura "della Genesi" (3,16): è Allah che dice alla prima donna:
"Verso tuo marito sarà il tuo istinto,
ma egli ti dominerà".


Tanto per mettere subito le cose in chiaro. Ma cos'ha fatto, la donna, di male? Lo spiega a chiare parole la Sura "del Siracide" (25,24):

Dalla donna ha avuto inizio il peccato,
per causa sua tutti moriamo.


Per cui il minimo che possa fare è restare sottomessa. E infatti: Se non cammina al cenno della tua mano, toglila dalla tua presenza (Siracide 25,26)

E poi ci lamentiamo se le loro donne rimangono segregate in casa? Finché continueranno a credere in un Libro che ragiona così…

Motivo di sdegno, di rimprovero e di grande disprezzo
è una donna che mantiene il proprio uomo
(Siracide 25,21)

…non c'è da aspettarsi che escano a cercarsi un lavoro. Né che partecipino a qualsiasi tipo di attività sociale. Perfino nella preghiera sono emarginate:

Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea. (Sura "dei Corinti I", 14,34-35)

Nella stessa Sura si motiva anche l'uso femminile del velo (e del burqa, eventualmente):

L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli. [… ] Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo. Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine […] (Sura "dei Corinti I", 3,7-16)

Notate la grazia della chiusa finale: se qualcuno vuole contestare… noi non abbiamo questa consuetudine. Tante grazie. Noi sì, però. Come la mettiamo?
E ancora:

Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie […] (Sura "degli Efesini" 5,22-23;

Ugualmente voi, mogli, state sottomesse ai vostri mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati considerando la vostra condotta casta e rispettosa. (Sura "di Pietro I", 3,1)

Per finire con questa botta:

"Di più! Dobbiamo cagarci addosso di più, perdio!"
La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia. (Sura "di Timoteo I", 2,11-15)

Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo… e poi pretendiamo che abbiano rispetto per le nostre insegnanti? No, mi dispiace, io credo di essere una persona di aperte vedute e tollerante, ma ci sono dei limiti.

E che nessuno venga a dirmi che questi versetti vanno interpretati, inseriti nel loro contesto, mediati… interpretare cosa? Mediare cosa? È tutto chiaro qui, tutto nero su bianco: dalla donna ha avuto inizio il peccato, la donna stia sottomessa all'uomo, punto. E questo credo che non dovremmo tollerarlo. Mi dispiace, ma su questo sono più feltriano di Feltri: chi crede in questo Libro non ha il diritto di rimanere nel nostro Paese, dove vige una Costituzione che prevede per uomo e donna pari diritti.
Perciò, cari amici musulmani, aria.

[Continua domani]
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Proemio

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Era Carola una giovane di nobili natali a cui la Natura, così parca abitualmente, così prudente nel dispensare i suoi doni ai mortali, aveva viceversa profuso un'avvenenza e un fascino senza pari: e tutto questo senza volerla sprovvista di un'intelligenza acutissima e viva, e di quel buon senso senza il quale tutte le altre doti e talenti non sono che spinte scomposte in ogni direzione, che tirandoci di qua e di là non ci portano veramente in nessun luogo, incatenandoci viceversa ai nostri fallimenti, quando non sono talmente violente da dilaniarci. Non così per Carola, la quale, al culmine di una carriera ricca di soddisfazioni professionali, dopo essere stata lungamente corteggiata da uomini d'arte e di potere, aveva preso in isposo il Presidente di un reame ricco e potente, il cui popolo l'amava e invidiava con alternante intensità.

Un giorno, mentre nel Palazzo presidenziale ella disbrigava gli affari correnti, gettando uno sguardo distratto a una finestra invasa da un cielo insolitamente sereno, Carola si sentì pungere dal cocente desiderio di rivedere la sorella maggiore, con cui madre Natura non era stata meno generosa, e che aveva sposato l'anziano Presidente del reame confinante. Senza indugio ordinò che fossero preparati i bagagli, e si avvertisse l'augusto marito che sarebbe stata assente tutta la settimana. Ma poi, quando già il convoglio presidenziale era a un buon punto sulla strada dell'aeroporto, si accorse di aver dimenticato una spilla che Verola, la sorella maggiore, le aveva regalato in occasione del suo matrimonio, e che nel trasporto degli addii aveva giurato di portare sempre con sé (ma poi aveva chiuso nel penultimo cassetto a partire dal basso del terzo comò della seconda cabina armadio). Ordinato dunque agli autisti e alla scorta un repentino dietrofront, Carola giunse al palazzo presidenziale ben oltre l'ora del tramonto: credette tuttavia che introducendosi con discrezione nei suoi appartamenti non avrebbe disturbato il diletto marito, il quale era solito lavorare fino a tardi ai suoi decreti nella sala del consiglio. Quale fu dunque lo stupore della povera Carola, quando, penetrata nell'alcova presidenziale, vi trovò il coniuge abbrancato a una robusta domestica circassa?

(Questo pezzo era l'inizio originale delle 1+2+3+4+5+6 notti, che si è qualificato agli ottavi della Grande Gara degli Spunti. Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

Sconvolta da ciò a cui il suo cuore non voleva credere, e di cui pure i suoi occhi non potevano negarle la visione, nulla seppe fare nell'orgasmo del momento, fuorché chiudere la porta sulla scena penosa e grottesca insieme, ripartendo nottetempo senza far parola con nessuno di quanto visto e sentito, e senza aver recuperato la spilla fatale. L'episodio non cessò tuttavia di tormentarla per tutta la durata del viaggio. “Non è tanto il tradimento” (pensava, dibattendosi sulla poltroncina di prima classe) “in somma, siamo uomini e donne di mondo, ma proprio sul nostro talamo nuziale? E il mio aereo non era nemmeno partito! Che razza di uomo è mio marito? Vi è mai stato qualcuno al mondo meno provvisto di rispetto per sé stesso, per la carica che ricopre, e per me? E vi è mai stata al mondo moglie di presidente più vilipesa?”

Di un simile tenore erano ancora i suoi pensieri quando finalmente fu ricevuta da Verola, la quale, pur nell'allegrezza per l'incontro lungamente agognato, non impiegò molto tempo ad accorgersi che un'ombra ostinata di malinconia raffreddava l'umore della sorella adorata. Ma per quanto ripetutamente le chiedesse il motivo di questa tristezza, non ebbe da Carola che vaghe risposte sull'insostenibile vanità degli uomini e blablà. “Non vuoi veramente saperlo, sorella: contentati di riconoscere in me la più triste e insultata delle donne”. Andarono avanti così per due o tre giorni, dopodiché Verola, molto presa dalla sua agenda istituzionale, dovette recarsi da qualche parte a tagliare un nastro o consegnare un premio. “Sorella diletta”, le disse allora, “nel tempo che hai trascorso qui tra noi non hai ancora visitato i giardini presidenziali, luogo di delizie se mai ve ne fu uno in questo Reame. Ora che debbo assentarmi per qualche giorno, te li raccomando fortemente: chi sa che una breve passeggiata nell'ora del crepuscolo, quando spira una lieve tramontana e il sole all'orizzonte incendia le nubi più basse e lontane, non possa in qualche modo lenire le tue pene segrete”. “Ci credo poco, mia cara sorella; comunque grazie”, le rispose Carola, e proseguì a soffiarsi il naso. L'indomani, tuttavia, ella si recò davvero nei giardini, dove ebbe modo di verificare che né gli esemplari botanici unici al mondo, né i cespugli dalle forme bizzarre e favolose, né i leggiadri getti d'acqua avevano il potere di rimettere in sincrono il suo cuore intermittente.

Immersa in pensieri di disprezzo e vaghi propositi di vendetta, Carola non aveva prestato attenzione al trascorrere del tempo: grande fu perciò il suo stupore quando – il sole stava per calare – vide entrare dal lato opposto del giardino una trentina e più di servitori provvisti di torce, al centro dei quali distinse una sagoma tracagnotta nella quale riconobbe immediatamente il Presidente marito di sua sorella, che pure sapeva in missione all'estero. Incuriosita dalla situazione, ma tutt'altro che ansiosa di farsi riconoscere dall'ospite di cui non apprezzava i modi un po' villani, né l'umorismo greve, si nascose dietro un cespuglio, verso il quale tuttavia il gruppetto convergeva: sicché la prudente Carola poté osservare la scena che qui sotto racconto quasi come se vi partecipasse.

Man mano che vedeva i servitori avanzare ignari verso di lei, scopriva che si trattava piuttosto di servitrici: alcune nella livrea della Presidenza, altre fasciate da un'uniforme di crocerossina che appariva tuttavia troppo stretta per risultare pratica; altre le si sarebbe dette, dalla divisa ugualmente discinta, agenti delle forze della pubblica sicurezza o delle forze armate; altre ancora, e non erano le più coperte, vestivano in borghese, e dall'acconciatura o dalla montatura degli occhiali si sarebbero dette istitutrici, se il trucco pesante e le movenze non avessero smentito questa prima impressione nel modo più spettacolare. Tutte quante apparivano poi troppo giovani per le professioni che i loro costumi denunciavano, e per qualsiasi altra professione che non fosse illegale ed esecranda; e tuttavia Carola, da donna di mondo quale in effetti era, non poteva negare una certa dose di professionalità ai loro movimenti (che del resto non rimasero impediti dai vestiti per molto tempo ancora). In mezzo a loro, rosso e tronfio, troneggiava il Presidente marito di Verola, come un fiore che non smettesse di attirare a sé farfalle e api danzanti e frementi; anche se Carola trovava più congruo pensare a una piccola pallina di sterco di cervo o cinghiale, rinvenuta in mezzo al bosco durante una battuta di caccia e sfiorata e baciata da cento moscerini e parassiti.

Capita a volte anche al più giudizioso degli automobilisti di non riuscire a distogliere lo sguardo da un catastrofico incidente avvenuto nella corsia contigua: vuoi per quella morbosa curiosità che ci suscitano gli orrori, vuoi per la torva soddisfazione di non farne parte. Similmente, per quanto trovasse ripugnante e osceno lo spettacolo che si dipanava dinanzi a lei, Carola non trovava modo di saziarsene gli occhi. Ad animarla non era certo un lubrico interesse per gli amplessi, il cui ritmo artificialmente sostenuto conosceva fin troppo bene, quanto un senso di distacco, che man mano che la serata andava avanti si impadroniva sempre più del suo cuore. “Ecco dunque”, si diceva, “un uomo che un tempo fu ambizioso e capace di ogni impresa, e oggi è potente e anziano, ricco di ogni cosa al mondo fuorché di giorni da vivere; che realmente potrebbe realizzare ogni suo residuo desiderio: e quello che desidera a quanto pare è essere lo zimbello di giovinette fatue e inconsistenti, parassiti persino troppo piccine per succhiare realmente, intendo per saper trovare la vena giusta. Cosa può trovarvi in loro, di paragonabile ai trionfi dei suoi giorni più verdi? E che fine ha fatto la sua esperienza del mondo, che lo soccorse in cento e più battaglie e rovesci di fortuna, e ora lo abbandona ai capricci di una scolaresca ginnasiale? Come può non rendersi conto che fingendo un vigore impossibile non si prende gioco del Tempo, ma si rende suo zimbello? Ma è dunque questo il destino dei più dotati fra gli uomini: lottare per tutta la vita per traguardi sempre più ambiziosi, per poi cedere alla più banale e bestiale delle pulsioni?”, e altre simili filosofiche riflessioni con le quali forse Carola nascondeva a sé stessa la ragione più segreta del suo cambio d'umore: la sorella Verola era da compatire quanto e più di lei, e il pensiero, anziché colmarla della necessaria compassione, la consolava: la catastrofe che si annunciava era avvenuta nella corsia opposta alla sua, e un così esibito disprezzo della fedeltà coniugale da parte del cognato non poteva che derubricare il fugace amplesso del marito a banale scappatella, comprensibile, perdonabile e anzi già perdonata, prima che la luce dell'alba venisse a rischiarare la comitiva esausta, che col favore delle tenebre Carola aveva già abbandonato...

Non è che debba andare avanti così per tutto il tempo, ma se questo è lo spunto che più ti interpella, non avere remore a mettere Mi piace su facebook, o a esprimerti con eloquenza nei commenti. Grazie per l'attenzione così strenuamente mantenuta a dispetto delle avversità, e arrivederci ai quarti di finale.
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Il chiar di luna colpisce ancora

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“Vi saranno inoltre areoplani-fantasmi carichi di bombe e senza piloti, guidati a distanza da un areoplano pastore. Areoplani fantasmi senza piloti che scoppieranno con le loro bombe, diretti anche da terra con una tastiera elettrica. Avremo dei siluranti aerei. Avremo un giorno la guerra elettrica.” L’alcova di acciaio, 1921 (1).
“Professor Modena, voi ritenete che esista un argomento inappellabile contro la possibilità di viaggiare nel tempo, non è vero? ”
Angelo Modena riprese fiato e tornò a fissare il suo interlocutore nella penombra del salotto. Le mani dell’uomo aderivano ai braccioli della poltrona come se ne fossero un’estensione naturale. Sembrava aver preso forma in quella stessa posizione, pochi minuti prima, mentre in cucina il professore preparava un caffè.
Una pioggia opaca sbatteva granuli di piombo sulla parete-finestra, affacciata sulla laguna. La tangenziale di Venezia era da qualche parte oltre lo smog. Più in fondo lampeggiava il faro per i dirigibili in cima all’orribile grattacielo Sant’Elia, appena inaugurato e già annerito da un catrame che sembrava secolare.

(Questo è un racconto di qualche anno fa, ambientato in un passato alternativo non molto diverso da quello di Il chiar di luna non passerà! Tutto questo partecipa ovviamente alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 
“Non sono un’allucinazione, professor Modena. Sono perfettamente reale e potrà toccarmi, se lo desidera. Ma la prego, risponda alla mia domanda. Qual è la miglior prova del fatto che i viaggi nel tempo non siano possibili?”
“Stamattina ho scritto un appunto”.
“Sul vostro diario, certamente, eccolo qui”. L’interlocutore estrasse da una tasca esterna un taccuino ingiallito, oscenamente logoro. “Tre febbraio 1929. Ho ritrovato una vecchia edizione di un grande amore della mia gioventù, La Macchina del Tempo di H.G. Wells. Oggi come ieri mi sbalordisce l’intuizione del tempo come quarta dimensione. L’idea del viaggio nel tempo è una delle più originali mai concepite, anche se purtroppo impraticabile al di fuori della finzione narrativa. D’altro canto è molto semplice dimostrare che l’umanità non potrà mai viaggiare nel tempo…
“Chi vi ha dato il permesso di frugare tra i miei appunti?”
“Il vostro diario è come sempre nel cassetto dello scrittoio. E non ricordo dove voi teniate la chiave. Stavo dicendo: è molto semplice dimostrare che l’umanità non potrà mai viaggiare nel tempo…
“…non abbiamo mai avuto visite dal futuro”.
“Molto brillante, professor Modena. È vero. Se il viaggio nel tempo fosse praticabile, noi riceveremmo senz’altro visite degli uomini dal futuro. Ma questa – se posso farle un’obiezione – non è una vera prova contro il viaggio nel tempo. Al limite è un indizio. E forse non ha valutato altre ipotesi”.
“Quali ipotesi?”
“Viaggiare nel tempo potrebbe essere molto complesso. E pericoloso. I viaggiatori nel tempo potrebbero essere costretti a nascondersi per evitare alterazioni nei rapporti di causalità, mi segue? Essi proverrebbero da un futuro che consegue dal nostro presente, ma palesandosi per viaggiatori nel tempo altererebbero questo stesso presente, generando nuove catene di cause ed effetti che potrebbero mettere a rischio la loro stessa esistenza, non so se riesco a spiegarmi”.
“Potrebbero uccidere un loro antenato”.
“Per esempio”.
“O sé stessi”.
“Non deve veramente preoccuparsi di questo”.
“Si verrebbe a creare una specie di…”
“Noi lo chiamiamo paradosso”.
“Voi del futuro, mi è lecito immaginare”.
“Proprio così, professor Angelo Modena. Il viaggio nel tempo è possibile, voi stesso lo dimostrerete tra sette anni. Ne serviranno altri tre per le verifiche sperimentali, dopodiché…”
“Questo spiega le rughe e la calvizie, professor Angelo Modena. Deve aver lavorato molto nei prossimi dieci anni”.
L’interlocutore sospirò. “Mi dispiace. Mi rendo conto di essere un’immagine perturbante per lei. Ne ho discusso a lungo coi miei collaboratori. Abbiamo vagliato diversi scenari, ma alla fine abbiamo convenuto che nulla sarebbe stato più convincente di vedere una copia invecchiata di sé stesso…”
“Sulla mia poltrona, come il cattivo demone di Stavroghin. Potevo avere un infarto! E voi sareste morto con me”.
“Questo non sarebbe stato possibile. E infatti non è successo, come vede. Abbiamo un cuore di ferro, io e voi. E possiamo concederci un dito di cognac, la bottiglia che nascondete dietro all’attestato della Corporazione Futurista Israelita”.
“Quella ve la ricordate”.
“La memoria funziona in un modo davvero curioso, lo sto sperimentando”.
“Spiegatemi però meglio questo punto”, continuò il Modena meno anziano, mentre strappava l’etichetta fiammante dei futur-monopoli dal tappo del liquore. “Io inventerò la macchina del tempo – a proposito, dov’è?”
“È restata nel mio tempo. Non è un veicolo come quella di Wells – pensate piuttosto a una specie di cannone. E a me come a un proiettile umano”.
“Ma questo significa che…”
“Non posso tornare nel 1949, no. Almeno finché non ne costruiamo un altro”.
“Voi mi avete appena spiegato che il viaggio nel tempo è possibile. E mi avete convinto. Questo avrà senz’altro cambiato il rapporto di causa-effetto che vi ha portato nel 1949 a farvi sparare qui col cannone”.
“Certamente. Il 1949 non è più quello da cui sono partito. La mia sola partenza lo ha già modificato per sempre”.
“Eppure voi continuate a esistere, e a ricordarvi quel 1949, che è giocoforza diverso dal 1949 che io vivrò. Per dire, se io ora prendessi un coltello dalla cucina e mi praticassi un taglio…”
“Non comparirebbe sul mio corpo nessuna cicatrice, no. Non sono più soggetto ai rapporti di causa-effetto che ho contribuito a modificare”.
“Ne è sicuro?”
“Ragionevolmente sicuro. Ci abbiamo messo molto tempo, e abbiamo spedito molti oggetti e cavie nel passato per misurare gli effetti. Vedete, viaggiare nel tempo significa precisamente sottrarsi dai rapporti di causa-effetto. Viaggiando, ho modificato il mio presente dal mio punto di osservazione, restando però uguale a me stesso, e continuando a conservare gli stessi ricordi di un tempo che non esiste, e rughe scavate da esperienze che non esistono più. In effetti non sono io il viaggiatore, io rimango fermo. È il continuum causa-effetto che si modifica intorno a me, riuscite a capirmi?”
“Forse. È curioso che continuiamo a darci del voi”.
“Non riesco a farne a meno”.
“Nemmeno io. Ma dev’essere successo qualcosa di orribile, immagino”.
“Come avete fatto a…”
“Per venirmi a trovare avete distrutto venti anni di esperienze. Voi non lo fareste… io non lo farei mai, a meno che non fossi costretto da ragioni estreme. Ho ragione?”
“Ovviamente”.
“È successo qualcosa a Isacco?”
“Vostro figlio sta benissimo. Nel 1949 che ho lasciato era il vostro collaboratore più prezioso. Nel nuovo 1949 naturalmente le cose potrebbero essere diverse, ma c’è ben altro in gioco”.
“Non riesco a immaginare nulla di più…”
“L’umanità, professore. La stessa vita sulla terra. Nel futuro da cui provengo vi sono state altre due spaventose guerre mondiali, e la quarta è alle porte. Lo stesso progresso tecnico-scientifico che ha reso possibile il mio viaggio, ha trasformato i conflitti in spaventose carneficine. Intere città possono essere distrutte in pochi secondi, grazie a bombe di spaventoso potenziale attivate su razzi comandati a distanza. I gas venefici sono stati sostituiti da agenti batteriologici in grado di contagiare milioni di persone. Gli abitanti autoctoni dell’Africa nera sono stati scientificamente sterminati. Di decine di milioni di cinesi si ignora il destino – non sono mai esistiti. La stessa Europa è una polveriera radioattiva…”
“E tutto questo dipende da me?”
“Tutto questo dipende dalla Guida – lo chiamate ancora così nel 1929, se non sbaglio. Il primo Ardito, l’Audace, Il Volante della Nuova Italia. In seguito rivaluterà l’impero Romano e prenderà il titolo di Duce, ne apprezzerà la sintesi. Ma in sostanza è sempre lui”.
“Filippo Tommaso Marinetti. È ancora al potere?”
“È durato molto più di tanti papi e imperatori del passato che disprezza. Ha saputo sbarazzarsi con destrezza dei rivali più pericolosi. Lo si è già visto, no? Nel modo in cui liquidò i Savoia e riuscì a emarginare D’Annunzio dopo la Corsa su Roma”.
“Sapete, questo mi stupisce molto. Detto tra noi, non l’ho mai ritenuto un uomo particolarmente prudente”.
“Lo so. Ci sbagliavamo sul suo conto. O forse non è la prudenza che mantiene un uomo in una posizione del genere. Da un certo momento in poi, per lui si è trattato di correre o cadere. E ha corso molto. Il suo sogno di svecchiare l’Italia poteva realizzarsi soltanto con una politica aggressiva su tutti i fronti, e così è ridiventato il vecchio guerrafondaio degli anni Dieci – se lo ricorda?”
“A quei tempi era solo un artista. Abbastanza mediocre, a voi posso dirlo”.
“Era già un buon organizzatore, con un gusto spiccato per il paradosso”.
“Sì, ma quando uno va al governo e poi Venezia la asfalta davvero…” (2)
“Nel mio 1949 Porto Marghera è la capitale tecnicoindustriale d’Europa. La messa in vendita dei patrimoni artistici del passato (3) ha fornito la spinta necessaria a un’evoluzione senza precedenti, attirando nei nostri laboratori gli scienziati più visionari e spregiudicati del Vecchio e del Nuovo Mondo. È il secondo Rinascimento italiano, quello tecnico e scientifico. Conoscete Enrico Fermi”.
“Un bravo ragazzo”.
“Tra quattro anni la sua équipe scinderà per la prima volta il nucleo di un atomo di uranio”.
“È a questo che stanno lavorando?”
“Non ancora. La guerra civile in Germania accelererà di molto le cose. Anche Albert Einstein si fermerà da noi per un po’”.
“Quindi ci sarà una guerra civile in Germania”.
“I gotico-nazionalisti prenderanno per qualche mese il controllo della Baviera. A Berlino il cancelliere Gropius accuserà il partito della Tradizione di aver incendiato il Reichstag”.
“Quel tizio non ha l’aria di un assassino”.
“Il potere corrompe, specialmente quando comincia a traballare. Lo aiuteremo noi, e i cubosovietici naturalmente. Lui e Majakovskij si spartiranno anche la Polonia. Noi ci accontenteremo di avere campo libero nei Balcani e in Africa. Vendicheremo Adua con le armi batteriologiche”.
“Adua? Per quale motivo al mondo…”
“L’uranio. È inutile essere la nazione più progredita, se mancano le materie prime. È una bizzarria della storia che Marinetti si adopererà a correggere. La Repubblica Futurista Italiana diventerà l’Impero Futurista Mediterraneo e Africano. E il nostro “duce” perderà completamente la testa. Nel tentativo di giustificare il massacro di intere popolazioni, svilupperà un’ideologia sempre più razzista. Lo scandalo internazionale ci porterà alla seconda guerra mondiale contro gli inglesi e i francesi”.
“Gli ultimi da cui prendere lezioni in fatto di umanità coloniale”.
“L’antico amore di Marinetti per la Francia la salverà dai bombardamenti più atroci. Brazzaville, nel Congo francese, e York, saranno letteralmente spazzate via dalle prime bombe nucleari che verranno messe a punto qui, tra quindici anni, dai migliori alunni di Fermi”.
“Bombe nucleari?”
“L’arma spaventosa che garantirà a noi e ai nostri alleati – razionalisti tedeschi, cubosovietici russi, industrialisti giapponesi – la superiorità militare per quasi un decennio. La Francia capitolerà, Le Corbusier sarà messo a capo di un governo collaborazionista…”
“Mi faccia immaginare, sventrerà i fauburg per costruire grattacieli”.
“Sarà inevitabile. L’Inghilterra negozierà una tregua che metterà tutto il continente africano a nostra disposizione. Credetemi quando vi dico che il ricordo dei vecchi soprusi coloniali sbiadirà di fronte alla crudeltà dei giovani cresciuti alla scuola del futurismo politico italiano. Le popolazioni negroidi verranno usate per testare nuove armi batteriologiche. Giapponesi e cubosovietici faranno la stessa cosa coi cinesi. E nel 1941 l’attacco nipponico a una base americana nel Pacifico darà inizio alla terza guerra mondiale: inglesi e americani contro le tecnocrazie di Europa e Asia”.
“Il capitale contro la tecnologia…”
“Sarà più complicato di così: gli inglesi riusciranno a salvare la loro isola dalle incursioni dei nostri bombardieri, grazie a un’arma segreta difensiva. E a partire dal 1944 anche gli americani avranno sviluppato la bomba atomica. Dopo l’armistizio comincerà una lunga corsa agli armamenti. Già verso il 1950 il potenziale accumulato negli arsenali dei paesi europei e in USA sarà sufficiente a porre fine alla vita sulla Terra”.
“Ed è tutta responsabilità di Marinetti? Mi state dicendo questo?”
“È più complicato, è sempre più complicato di così. Non si tratta di responsabilità, ma di una variabile cruciale di una complessa formula causa-effetto… nel vostro 1929 non esiste nemmeno la matematica necessaria per dimostrarvi quello che vi sto spiegando. Dovete fidarvi di me – è il motivo per cui abbiamo deciso di inviare me stesso, l’unica persona che vi può chiedere un simile atto di fede. Anni di calcoli ed esperimenti ci portano a concludere che sia Marinetti la chiave di volta delle catastrofi scoppiate in Europa a partire dagli anni Trenta del secolo XX. Senza il suo esempio cruciale, nessuna avanguardia artistica si sarebbe tramutata in partito politico. Gropius e Le Corbusier sarebbero rimasti architetti, Majakovskij un poeta inquieto. Dovete credermi quando vi dico che le artecrazie europee si sono rivelate la forma di governo più crudele della storia dell’umanità. Abbiamo formulato ipotesi anche su questo – la componente narcisistica che era fortissima nelle avanguardie storiche, una volta trasferita sul piano politico, ha propiziato massacri di intere popolazioni, di intere classi sociali”.
“E quindi, lasciatemi indovinare, io dovrei cercare di avvicinarmi al Primo Ardito d’Italia e traforargli le cervella con un revolver?”
“Sarebbe inutile. Probabilmente un attentato del genere fallirebbe, oppure lo spazio occupato da Marinetti verrebbe riempito da qualcuno molto simile a lui. In anni di esperimenti abbiamo capito che i rapporti di causa-effetto hanno una certa rigidità. La Storia si può entro certi limiti cambiare, ma non si può prendere di petto. È come cercare di spezzare un diamante con un temperino. Io sono riuscito a prendere forma in questo salotto, oggi pomeriggio, perché le modifiche che il mio lancio ha compiuto sulla Storia sono ancora molto contenute. E un lancio ancora più lungo è tecnicamente impossibile”.
“Quindi non possiamo soffocare il piccolo Marinetti nella sua culla, o impedire ai genitori di conoscersi”.
“Non funzionerebbe, no. Ma ora che sono qui, posso effettuare ulteriori modifiche”.
“Devo nascondervi?”
“Tutt’altro. Deve denunciare subito la mia presenza al ministero dell’innovazione scientifica. Il fatto che io sia qui, e che possa collaborare da subito con voi, ci permetterà di sviluppare la tecnologia dei viaggi del tempo con 10 anni d’anticipo. Fingeremo di lavorare a maggior gloria della Repubblica Futurista. Ma con il prossimo lancio dobbiamo riuscire a raggiungere il 1919”.
“Piazza San Sepolcro? Vuole tirare una bomba a mano sul palco?”
“Voi non sapete quanto mi piacerebbe. Ma no, i calcoli escludono che una mossa del genere sia possibile. Mi toccherà un ruolo più imbarazzante. Dovrò contattare una signorina di 21 anni, Benedetta Cappa. Avrete senz’altro sentito parlare di lei”.
“Una poetessa, mi pare. Una delle innumerevoli amichette del Primo Ardito”.
“È molto di più. Tra qualche anno denuncerà le violenze d’Abissinia e sarà espulsa dal partito futurista. Sarà una della principali organizzatrici dell’opposizione clandestina, e l’ispiratrice e finanziatrice delle nostre ricerche. In effetti il piano che sto eseguendo è in gran parte opera sua. In questa busta, che vedete, c’è una lunga memoria che la signora Cappa del mio 1949 ha scritto alla sé stessa di trent’anni prima. Io dovrò assicurarmi che la legga, e che accetti col suo sacrificio di salvare il mondo dal baratro”.
“Che tipo di sacrificio?”
“Dovrà fidanzarsi e sposare Marinetti”.
“Questo è ridicolo”.
“Purtroppo non posso mostrarvi le equazioni che lo dimostrano…”
“Il Primo Ardito conquistato da una ragazzina? Si ricorda cosa scriveva nei suoi manifesti? Il disprezzo della donna, eccetera? Non si sposerà mai”.
“Non è mai riuscito a trovare quella giusta. Una proiezione della madre, ovviamente. Leggete il polpettone futuristico che scrisse nel ’09, Mafarka, si chiamava. Un libro profetico, anche se di rara goffaggine. Tra qualche anno sarà introvabile. La Cappa è la donna che più si è avvicinata al suo ideale – ma si sono incontrati troppo tardi, quando la discesa nell’agone politico era ormai irrevocabile. Eppure è mancato poco – avevano già avuto un breve incontro nel 1918. La Cappa era una ragazzina, e quel reduce donnaiolo le faceva paura. Dovrò convincerla ad accettare le sue avances”.
“Avete ragione, sarà molto imbarazzante”.
“La memoria della Cappa cinquantenne la ragguaglierà su come soggiogare il suo seduttore. Il momento cruciale è l’autunno del 1919. Non so se ve lo ricordate, ma le prime elezioni a cui partecipò Marinetti furono un fiasco solenne. Fu arrestato la notte stessa per detenzione d’armi da fuoco. Passò una settimana in cella, era deluso e spaventato (4). Credeva che i bolscevichi avrebbero vinto. Quello è il momento in cui la signorina Cappa deve andarlo a visitare (5). C’è una finestra nel continuum causa-effetto che possiamo sfruttare. Cambieremo la Storia con un colpo preciso, come il tagliatore di diamanti che sa dove deve incidere per ottenere una sfaccettatura perfetta. Non siete convinto”.
“No”.
“Nessuno vi conosce quanto me. Siete già un uomo fuori dal tempo – positivista per formazione, e socialista per ideologia. Voi non accordate molta importanza al ruolo dell’individuo nella Storia. Credete che al posto di Marinetti vi sarà qualcuno come lui”.
“Sono in errore?”
“Vi mancano gli elementi per capire il vostro errore. Nel vostro 1929 la Storia è ancora una scienza umana, un’arte più che una scienza vera e propria. Nel mio 1949 è una disciplina scientifica rigorosa quanto la chimica o l’astrofisica. Ci sono eventi irripetibili – noi le chiamiamo “singolarità”. Uno di questi è l’avvento al potere di un artista d’avanguardia, Filippo Tommaso Marinetti. Un evento fortuito, verificatosi per un esilissima catena di circostanze, che avrà effetti a catena catastrofici. Non possiamo fare nulla per sciogliere le catene, ma se riusciamo a risalire al 1919 ci basterà un bigliettino profumato per salvare l’Italia dall’infamia e il mondo dalla guerra”.
“Chi prenderà il suo posto? Ignoro del tutto le vostre formule, ma so che l’Italia era alla vigilia di una rivoluzione. D’Annunzio?”
“Non ha nessuna chance, dopo Fiume è soltanto una presenza decorativa. Nessuno fa davvero affidamento su di lui. Abbiamo diversi scenari, tutti migliori di quello in cui Marinetti prende il potere. Per esempio… Si ricorda come si chiamava il movimento fondato a Piazza San Sepolcro?”
“I fasci futuristi, mi pare”.
“Fasci di combattimento. Il futurismo non era ancora la corrente egemone. C’era una forte componente socialista rivoluzionaria. Si ricorda di Benito Mussolini?”
“Il giornalista? È a Parigi coi Rosselli, mi pare”.
“Era lui il capo, a San Sepolcro”.
“Ma veramente?”
“La propaganda futurista sta già modificando la memoria collettiva. Ma controllate sui giornali del tempo. Mussolini verrà messo in minoranza soltanto al congresso del 1920, e poi cadrà in disgrazia. Il fidanzamento con Benedetta Cappa può modificare la situazione”.
“Niente più Corsa su Roma?”
“La organizzerà Mussolini. E otterrà l’incarico dal Re. È una persona molto più pragmatica di Marinetti; altrettanto ambiziosa, ma senza il narcisismo dell’artista. Non congiurerà contro la Corte; dovrebbe riuscire nell’obiettivo di pacificare socialisti e popolari”.
“Lo odiavano entrambi. I socialisti, soprattutto”.
“Vecchi rancori, li seppelliranno”.
“Ci sono delle equazioni che lo dimostrano, immagino”.
“Nulla è dimostrabile al 100%. Comunque è difficile immaginare uno scenario peggiore di quello dell’ascesa al potere di Marinetti. Ed è altamente probabilità che senza il suo esempio anche i cubofuturisti non riescano a liquidare Giuseppe Stalin. Quest’ultimo avvierà una politica di industrializzazione molto meno aggressiva – non massacrerà i contadini, è di estrazione contadina lui stesso. La repubblica di Weimar salderà il suo debito di guerra e grazie agli investimenti americani già verso la fine degli anni Venti sarà la prima potenza industriale d’Europa. Ovviamente ci saranno ancora guerre, e scenari al di là delle nostre possibilità di calcolo: ma l’incubo futurista sarà spazzato via prima ancora di prendere forma. Di Marinetti ci ricorderemo soltanto come di un artista mattoide che dopo la Grande Guerra mise giudizio e si sposò”.
“E Venezia?”
L’anziano professor Modena fissò negli occhi il sé stesso di venti anni prima, e sorrise. Per un attimo l’illusione di specchiarsi fu perfetta. “Venezia non sarà mai asfaltata. A nessun altro verrà in mente un progetto così folle”.
“Non me lo può garantire al cento per cento…”
“Al novantasei virgola quindici”.
“Mi basta e mi avanza”.
(Filippo Tommaso Marinetti e Benedetta Cappa si sposarono nel 1923. Il professor Angelo Modena non ha mai scritto il suo appunto sulla Macchina del Tempo di Wells. È morto a Birkenau nel 1944).

Se a differenza del professore hai una voglia matta di vedere Venezia asfaltata, approva con futuristico vigore lo spunto che oggi se la gioca contro Redenzione. Tutto quello che ti si chiede è mettere Mi piace su facebook, o esprimervi nei commenti. Grazie per l'attenzione e arrivederci al prossimo spunto.
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Come odiavamo (lettera dal 2009)

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Quando ho letto della nuova tirata di Aldo Grasso sul "popolo del web" ho avuto, ovviamente, un déja vu. Ero sicuro di avere già scritto da qualche parte la risposta - del resto al Corriere scrivono le stesse cose da vent'anni - ma dove? Ci ho messo un po' a recuperarla: era il primo pezzo che scrissi sull'Unità.it, nel lontanissimo 2009: e già allora la discussione sembrava vecchia. Non rispondevo a Grasso ma a Stella che scriveva esattamente le stesse cose; è come se si passassero i canovacci. Io invece credo di essere cambiato un po'. Era l'unico pezzo che non avevo ripubblicato qua sopra, lo faccio adesso per scongiurare l'orribile eventualità che vada perso (il server dell'Unità potrebbe azzerarsi da un momento all'altro). È anche una manovra per placare l'ansia dei nostalgici dei pezzi lunghi - se provate a leggere questo magari un po' vi passa, la nostalgia.

Stella che brilli lassù


Ho una teoria. Quando a un giornalista capita di scrivere il solito pezzo demonizza-internet (un genere relativamente giovane, ma già irrigidito nella statuaria dei luoghi comuni senza età, come gli elzeviri sulle mezze stagioni o sugli esodi d'agosto) la prima reazione di chi su internet ci scrive davvero, e magari da anni si sbatte per difendere e diffondere contenuti di qualità, è più o meno: Nonno Non Hai Capito Niente. Probabilmente parli per sentito dire e non sai distinguere un profilo facebook da un blog, avrai una connessione modem a 56k con il fischiettino (vi ricordate il fischiettino?) oppure la stagista schiavetta che ti scansiona i comunicati battuti in Olivetti Lettera22.

Tante volte devo aver reagito così anch'io, qualche anno fa, ma appunto: era qualche anno fa. Adesso siamo nel 2009 e davvero anche il nonno ha capito come si accende il computer. Parlare di Internet per sentito dire non solo non è più ammissibile, ma è davvero impossibile. Eppure le cose che ha scritto Gian Antonio Stella sono un po' le solite: “zona franca dove divampa una guerra che quotidianamente si fa più aspra, volgare, violenta” (Montecitorio? No, Internet) “individui e gruppi che, pur nella diversità di accenti e idiomi utilizzati, parlano tutti [...] il linguaggio della violenza, della sopraffazione, dell’annientamento” (Curva di stadio? Set del Grande Fratello? Nooo, Internet). A gente come me, come probabilmente anche voi, che frequenta internet ogni giorno e ci trova lampi d'intelligenza, di fantasia e di creatività che nessun altro media gli offre, può sembrare strano e triste che Gian Antonio Stella si trovi in casa la stessa finestra sul mondo e non ci trovi nient'altro che volgarità, violenza, odio, anzi, “libertà di odio”. Eppure è così: come si spiega?

Io una teoria ce l'ho, dicevo: dipende tutto da dove è piazzata la finestra. Gian Antonio Stella guarda internet come tutti noi, ma da una posizione infelice: quella di giornalista. Rifletteteci bene. Voi praticoni di internet avete i vostri riferimenti, i vostri feed, le persone simpatiche ed esperte di questo o quel settore che avete selezionato in anni di frequentazioni, ed è questo a rendere la vostra finestra così colorata e interessante. Stella ha avuto meno tempo di voi, e i frequentatori di internet forse li conosce soprattutto sotto forma di commentatori medi del sito del Corriere. Ma i commentatori medi al Corriere (o alla Repubblica), beh... è il caso di dire no comment. Davvero, cosa pensereste di Internet e di chi lo frequenta, se le uniche prove della loro esistenza fossero le tracce di bava che lasciano sui siti dei grandi quotidiani, e su qualche gruppo di facebook?

Internet è piena di melma, inutile negarlo (nessuno infatti ci ha provato). Però in mezzo alla melma ci sono cose straordinarie che valgono tutta la bolletta, e persone che sostengono, come me, che è inutile criticare la melma: l'unico sistema per migliorare la qualità è creare piccole oasi di cose intelligenti e interessanti, in zone non troppo remote da quelle dove passa il grande traffico. I blog che leggo quotidianamente sono una realizzazione imperfetta di questa idea di oasi: mi riassumo i fatti importanti del giorno in modo esauriente e divertente, mi raccontano notizie singolari e importanti che da solo non avrei trovato mai, a volte mi fanno arrabbiare, ma sempre per un'idea diversa dalla mia, non per uno schizzo d'odio. Però ci ho messo anni a selezionarli, e ho dovuto vincere il fascino per la melma, per i deliri dei dementi, che soprattutto all'inizio mi soggiogavano e mi facevano perdere tempo prezioso (tuttora, a portata di clic, c'è la perdizione). Insomma, ci ho messo anni per rendere davvero efficiente e interessante quella che una volta si chiamava “navigazione” su Internet. E questo smentisce il luogo comune che Internet sia facile come schiacciare un bottone: no, se schiacci un bottone per prima cosa escono quintali di melma che ti schizza dappertutto. Il setaccio di contenuti interessanti è una pratica difficile che si acquisisce con gli anni, è più complesso che imparare a guidare. Basta vedere cosa combinano gli adolescenti in rete: in teoria dovrebbero capire tutto alla svelta, in pratica finiscono subito impantanati in luoghi assurdi, e ci impiegano anni a trovarsi una posizione rispettabile, a costruirsi un profilo decente.

Con gli anni s'impara a tenersi lontani da certi luoghi come i commenti su youtube, i gruppi su Facebook... o i commenti di Repubblica.it, o del Corriere. Ma non è paradossale che la melma su Internet tenda ad addensarsi proprio intorno a siti informativi professionali? Immaginatevi il Corriere on line come un grattacielo in mezzo a una discarica: ecco, Gian Antonio Stella vede gli internauti da una finestra di quel grattacielo, e cosa volete che veda? Mostri subumani che inneggiano al ferimento di premier mediante souvenir, negatori di olocausti, odiatori di “negri”, insomma, brutta gente. Come spiegargli che quelli non sono tutti gli internauti... ma solo quelli che più spesso circolano intorno al Corriere? E perché proprio intorno al tuo giornale, è colpa della linea editoriale? No, assolutamente. È solo una questione di dimensioni: il grattacielo è un punto di riferimento nazionale, attira la massa, e in mezzo alla massa la suburra, i cospiratori, i mitomani.

Per contro in un piccolo sito come il mio, mantenere un discreto livello di discussione è relativamente semplice. Molto di rado negli ultimi anni mi è capitato di dover mettere i mattoidi alla porta. Merito mio? No, assolutamente, anche in questo caso è una questione di dimensioni. I mattoidi accorrono naturalmente verso i centri di traffico, sono attirati dalle celebrità. Non sono massa, ma si disseminano sempre nella massa. Nei piccoli blog che negli anni abbiamo selezionato con cura, i mattoidi non vengono: al limite passano di sbaglio se gli capita di scambiarci per qualcuno più importante di noi. Ma appena hanno capito che noi siamo pesci piccoli, ci lasciano nella nostra nicchia e se ne tornano in piazza a vandalizzare gli editoriali delle Grandi Firme coi loro commenti.

Così senza volere siamo riusciti a parlare del povero Tartaglia, che nemmeno aveva un profilo Facebook. Peccato, ci si sarebbe trovato bene. E forse iscrivendosi a qualche gruppo idiota gli sarebbe passata la voglia di realizzare le sue idiozie nel mondo vero. Perché Internet è anche questo: una valvola di sfogo per colletti bianchi che giocano a fare gli odiatori di negri, i negatori di olocausti, gli inneggiatori a Tartaglia. Sì, non è molto coraggioso da parte loro. Ma ognuno dovrebbe essere libero di gestirsi la sua melma come vuole, finché non schizza gli altri.
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Non voglio pagare per la scuola privata di tuo figlio, grazie.

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Cari cattolici riformisti, liberali, o chiunque voi siate: io vorrei che fosse chiaro che, contrariamente a quanto sembrate sostenere, nessuno in Italia vi costringe a far studiare i vostri figli in una scuola pubblica. Voi potete, e da sempre, iscrivere vostro figlio a qualsiasi scuola vi pare e piace. E a me sta bene.

Però ve la pagate.

Perché in questo momento le cose stanno in questo modo: io, in quanto contribuente, sono costretto a pagare, oltre per il servizio pubblico (come è giusto che sia), anche per i vostri buoni scuola. Ed ecco, questa idea che voi siate liberi di fare quello che volete, ma a spese mie, è la cosa che sopporto di meno in assoluto.

Sarà una coincidenza che l'unica volta in cui compare, nella nostra Carta Costituzionale, questa brusca espressione, "senza oneri per lo Stato", sia proprio in quel famoso art. 33? "Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato". Possiamo pagare per molte cose, ma per la scuola dei vostri figli, grazie, no. Fatevene una migliore coi soldi vostri, se siete così bravi.

Nudo, vogliamo Don Giussani nudo!


un vecchio pezzo, scritto su un blog abbandonato come tanti. Lo rimetto qui perché a quanto pare ha ancora senso).
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I piccoli elettori della Prima Esse

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(racconti del mese, ottobre)
(È un pezzo di qualche anno fa).

"Buongiorno, è la Prima Esse questa?"
"Sì, ma tu chi sei, signore?"
"Io sono il supplente".
"E la profFarfarella?"
"Non so, immagino che sia ammalata".
"Quindi non c'è".
"Infatti ci sono io che sono il supplente. Quindi voi siete la Prima Esse. Era da un bel pezzo che non venivo qui, ma vedo che, ehm..."

(L'intonaco scrostrato trattiene poche tracce dell'ultima mano di verde marcio. Dal soffitto secentesco - quest'ala della scuola è stato un convento, una casa di reclusione per figli indesiderati - pendono ragnatele ripugnanti, scure come i rami, dita di un orco che picchietta alle finestre, "fammi entrare". Tre cartelloni sull'apparato digerente ornano la parete in fondo, chi li ha disegnati si è laureato da un pezzo ed ha lasciato il Paese per sempre. Intorno al termosifone le zanzare africane fiutano la carne fresca e scaldano i motori. L'ultima classe che ho avuto qui dentro contava tre dislessici, due asociali e tre possessioni demoniache).

"...vedo che è tutto al suo posto come sempre. Bene. Facciamo l'appello? Abati, Bandiera, Bauadanogou, si pronuncia così? Carotone".
"Catorone".
"Ops, scusa. Dgfhj. Elamiri. Fghkj".
"Fkhjg".
"Scusa anche te. Beh, mi sono un po' stancato di questo appello. Ditemi chi non c'è e facciamola finita".
"Scusa signore, ma tu sei un professore?"
"Sì".
"Ma in che classe insegni?"
"Insegno in una classe lontana lontana, dall'altra parte del plesso".
"E cosa insegni?"
"Mah, di solito italiano, storia, geografia..."
"Ma noi adesso avevamo matematica, tu la conosci la matematica?"
"Beh, boh, dipende. Cosa avevate per oggi?"
"I numeri irrazionali".
"Ah, bene, ecco, ho un'idea. Come sapete alla quarta ora c'è l'elezione dei rappresentanti".
"Cos'è l'elezione dei rappresentanti?"
"Ecco, appunto, potremmo usare questa ora per parlarne, che ne dite?"
"Ma è vero che dobbiamo votare?"
"Dunque, su questo vorrei esser chiaro, perché a volte ci sono dei ragazzini che confondono un po' la realtà coi telefilm e pensano che si tratti di votare per la ragazza-o più carina-o, ecco, no, non c'entra niente. Anzi, se volete un mio consiglio, votate dei tipi anche bruttini ma determinati, perché in pratica si tratta... avete presente il Preside? Ecco, i vostri rappresentanti andranno a parlare con il Preside".
"Ma cosa hanno fatto di male?"
"No, niente! Non hanno fatto niente di male, anzi... dunque, ricominciamo. Vi siete mai chiesti chi comanda nella scuola? Cioè chi ha deciso, poniamo, che la scuola comincia il 15 settembre e che il riscaldamento si accende oggi e la campana suona alle otto eccetera?"
"Berlusconi".
"No. Cioè, anche lui in un certo senso, ma prima..."
"Il preside".
"Beh, senz'altro il preside è importante, ma non decide tutto lui. Ci sono infatti altri organi, per esempio c'è una riunione di tutti i docenti, cioè gli insegnanti, che si chiama appunto collegio docenti. E poi c'è il consiglio di istituto, e ce ne sono altri che sulla lavagna non vi scrivo perché francamente li devo ancora capire io, comunque il senso è che tutti decidiamo un po', nella scuola. I docenti, i collaboratori che sarebbero i bidelli, i funzionari che sarebbero le segretarie nell'ufficio là in fondo, insomma tutti. No, aspettate. Mi sto dimenticando qualcuno. Di chi mi sto dimenticando?"
"Il cane del bidello Guercio".
"Quello in teoria non dovrebbe entrare. No. Parlo di un sacco di gente che viene a scuola tutti i giorni, ma non sono docenti, non sono collaboratori, non sono funzionari, non è il preside, insomma, chi è?"
"Siamo noi".
"Ecco, questa cosa a un certo punto è sembrata ingiusta al preside, che disse a noi insegnanti: perché non facciamo anche un'assemblea degli studenti, con i rappresentanti eletti di tutte le classi? E noi insegnanti gli rispondemmo - io mi ricordo, ero al primo incarico - gli rispondemmo che era una follia, far votare gli undicenni, che se vi lasciavamo soli con delle schede e una scatola per mettercele dentro (si chiama urna elettorale) probabilmente vi sareste mangiati le schede e poi vi sareste buttati dalla finestra, perché insomma, in quegli anni non ci fidavamo molto degli studenti. Ma lui volle provare e devo dire, dopo tanti anni, che forse aveva ragione, nel senso che non c'è quasi più nessuno che si mangia le schede, anche i precipitati dalle finestre non sono aumentati negli ultimi anni, in compenso adesso c'è questa assemblea di studenti che può fare proposte anche molto costruttive".
"Scusa professore..."
"Prova a dire Scusi professore, dai".
"Scusi professore, dai, ma non ho capito. Vuole dire che noi possiamo fare delle proposte al Preside?"
"Vedi che invece hai capito benissimo? Soltanto che non potete andarci tutti, dal Preside, e quindi ci mandate due rappresentanti - un ragazzo e una ragazza. Quindi alla quarta ora vi porteranno una scatola, delle schede, e ognuno scriverà sulla scheda il nome di un ragazzo e di..."
"Posso votare per due maschi?"
"No. Devi votare per un maschio e per una femmina".
"Ma io non voglio votare una femmina!"
"Abituati all'idea".
"Ma non posso votare per chi mi pare?"
"Beh, sarebbe meglio che qualcuno si candidasse... cioè, qualcuno dicesse a tutti gli altri: voglio provarci, voglio essere io il vostro rappresentante, dal Preside ci vado io... e se mi votate, prometto che gli chiederò... ecco, cosa chiedereste al Preside? Pensateci bene, e mi raccomando, non fate le solite proposte assurde, tipo..."
"Allungare l'intervallo!"
"...è un classico. No, questa non si può fare".
"Perché?"
"Perché l'orario della scuola non dipende dal Preside, ma dall'ufficio da cui dipendono tutti i presidi d'Italia, che si chiama Ministero (la faccio molto più semplice di quanto non sia, ma fidatevi), e quindi no, l'orario non si cambia: l'intervallo non si allunga e le lezioni non si restringono".
"E più ore di fisica?"
"Fisica nel senso di Scienze Motorie? Non si può. Bisognerebbe togliere altre lezioni, e quali? E poi nominare altri insegnanti, e probabilmente ci vorrebbe un'altra palestra, e quindi no, non è una promessa elettorale realizzabile, mi dispiace".
"Ma allora è una fregatura. Non è vero che possiamo decidere".
"Non potete decidere su tutto subito, tante grazie. Avete undici anni. E comunque chi credete che decida per voi? Il Ministro, lo sapete chi lo nomina?"
"Berlusconi".
"Complimenti. E Berlusconi chi lo ha nominato?"
"Si è nominato da solo".
"No, anzi, ha dovuto spendere un sacco di soldi, mettere i manifesti, perché? Perché è stato e-let..."
"Eletto?"
"...proprio come i vostri rappresentanti, solo che lui è stato eletto dalla maggioranza degli italiani, che ha votato per il suo partito, e quindi il presidente Napolitano lo ha chiamato nel suo palazzo che si chiama il Quirinale e gli ha detto: Berlusconi, ti do l'incarico di formare un governo nominando i ministri che credi siano i migliori sulla piazza, e lui l'ha fatto".
"Ma Napolitano sta a Napoli?"
"Sta a Roma. Quindi, ricapitolando: l'intervallo non si può allungare perché è di competenza del Ministero, che comunque è stato eletto indirettamente dal popolo italiano che sarebbero i vostri genitori. Educazione fisica non si può raddoppiare. Cosa si può fare?"
"La carta igienica nei bagni".
"Bravissimi! Ecco, la carta igienica è un argomento alla vostra portata. E poi?"
"Le ragnatele".
"Per esempio. Ecco, su queste cose i candidati vi possono fare delle promesse. Per esempio: Se votate per me farò togliere i ragni dai soffitti! Cose così".
"Ma se non li hanno fatti togliere i ragazzi dell'anno scorso..."
"Magari non sono stati abbastanza convincenti. Oppure i ragni sono tornati quest'estate. Nessuna battaglia è vinta per sempre in democrazia. Ma sentiamo la vostra compagna che ha alzato la mano. Ti vuoi candidare?"
"..."
"Non fare la timida, eh? Perché se ti votano dovrai partecipare a un'assemblea con quelli di seconda e di terza, e se non prendi la parola loro di sicuro non te la daranno. Dai. Hai delle promesse da fare ai tuoi compagni?"
"Ma io pensavo... che potevamo chiedere di poter usare i cellulari..."
"Eh, i cellulari. Ma lo sapete che è complicato, il discorso-cellulari".
"Però la profFarfarella..."
"Sapete che all'inizio dell'anno abbiamo fatto firmare ai vostri genitori un avviso che parla chiaro: non li vogliamo vedere. Perché poi va a finire che li usate per scambiarvi le foto, poi si vedono le pareti dei bagni della scuola su facebook, insomma non è tanto bello".
"Però i miei mi hanno detto che lo devo portare lo stesso, perché se mi succede una cosa grave..."
"Tipo che rimani schiacciata sotto un armadio e non riusciamo a capire chi sei, ma ti riconosciamo dal cellulare, una cosa così?"
"Ma no, però mettiamo che foro la bicicletta".
"Eh, capisco. E pensa che per un secolo i tuoi compagni sono venuti a scuola in bicicletta ma senza il cellulare, perché non lo avevano ancora inventato, e quando foravano, sai cosa gli succedeva?"
"No prof".
"Guarda, è una cosa molto triste. Passava un orco e se li mangiava, poi sputava le ossa qui intorno".
"..."
"Sul serio, nel seminterrato abbiamo l'ossario, l'ossario di tutti i bambini che sono venuti a scuola in bicicletta senza cellulare dal Seicento in poi, è una storia tristissima. Pensate anche solo alle povere madri, che al mattino abbracciavano il bambino pensando: lo rivedrò?"
"Prof, lei non ci sta prendendo molto sul serio".
"Hai ragione, scusa. Comunque la questione è molto semplice: se un prof vi vede il cellulare ve lo sequestra, ma il prof non ha il diritto di perquisirvi, quindi se lo tenete spento... ma per spento intendo spento, non come quelli che dicono che tolgono la suoneria e poi hanno un vibro che vengono giù le tegole".
"Però alla profFarfarella le suona sempre".
"Ma quello che c'entra scusa, lei è una prof... le prof hanno regole diverse"
"Ma una volta che faceva lezione le hanno telefonato dieci volte per offrirle dei lavori e lei diceva sempre di no e metteva giù".
"Ecco, lo so perché ci sono passato, si vede che la vostra prof è una precaria, cioè il suo nome è in una lista, e quando in una scuola si libera un posto, devono chiamarla, e finché lei non risponde anche solo per dire di no, loro non possono chiamare un'altra, capite? Per cui uno deve portare sempre il cellulare con sé, ma è per una cosa seria, mica per l'orco delle ruote sgonfie. Dovete capire che gli adulti hanno delle preoccupazioni che voi nemmeno..."
"Ma di solito lo usa per chiamare suo marito".
"Magari suo marito sta molto male, che ne sai. Non si deve mai giudicare il p..."
"Ma gli dice delle cose tipo Butta la pasta"
"Stavamo parlando di candidati alle elezioni. Qualcun altro si vuole candidare, o anche solo suggerire delle proposte? Tu là in fondo, dai".
"Io... la macchinetta delle merendine".
"Ecco, guarda, me l'aspettavo. Perché sto invecchiando. La macchinetta delle merendine, ragazzi miei, io capisco che vi possa sembrare una cosa fantastica, ma credetemi, è un diabolico arnese. Una volta ce l'avevamo, sapete?"
"Infatti mia sorella..."
"Ecco. Però forse tua sorella non ti ha raccontato di quando passava metà dell'intervallo a far la fila per comprare una merendina che costava dieci volte il prezzo che spenderebbe tua mamma al supermercato. E tutte le monetine che si è mangiata senza restituirle. E tutte le volte che premendo schiacciatina usciva il terribile fruttino alla pera appiccicosa. Lo so anch'io che fa scena, una bella macchinetta delle merendine, ma quando il principale passatempo dei ragazzi di terza diventa prenderla a spallate, e i bidelli li aiutano pure... insomma c'è un motivo se l'abbiamo tolta e..."
"Ma al piano di sotto ce l'hanno".
"Ma quella è la macchinetta dell'acqua".
"Ma adesso ci hanno messo dentro le merendine".
"Sul serio?"
"Sììììì".
"Questa è un'ingiustizia però".
"Allora possiamo chiederla anche noi?"
"Beh, in linea di... cioè io non vi appoggio assolutamente... ovvero vorrei che fosse messo a verbale che è una proposta che non condivido, però se al piano terra l'hanno messa, voglio dire, voi chi siete? I figli delle badanti?"
"Ma prof".
"Dicci".
"Nella scuola elementare che facevo io, nell'intervallo, passava il bidello Giorgio col carrello con le focaccine".
"Ma pensa".
"Che erano molto buone perché le andava a comprare calde nel forno, e c'erano anche le fette di pane con la marmellata o la nutella".
"E la tua scuola si chiamava".
"Santissimo Cuore Addolorato della Beata Vergine".
"Invece questa si chiama Scuola Pubblica, benvenuta. È la campana, questa? Scusate, eh, resterei con voi tutto il mattino, ma devo andare dai miei".
"Ciao prof"
"Si dice arrivederci".
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SCONVOLGENTE: ecco perché Joni Mitchell non andò a Woodstock

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18 agosto 1969 - Joni Mitchell partecipa a un programma televisivo, il Dick Cavett Show. Per andare in tv aveva rinunciato a partecipare nei tre giorni precedenti a un certo festival di Woodstock che poi, si scoprì, sarebbe diventato il concerto più famoso del secolo. Se ne pentì. Poi si pentì di essersene pentita.


(La sublime ironia di accettare un cachet per cantare For Free)

(Segue vecchio pezzo)
Se c'è un motivo (non è detto debba esserci per forza) per cui la Woodstock di Iain Matthews mi sembra superiore alle altre versioni, credo che abbia a che vedere col sentimento del tempo. La storia racconta che Joni Mitchell scrisse la canzone nei giorni immediatamente successivi al festival, mettendo a frutto il rimpianto per non esserci andata, per aver capito troppo tardi quello che stava succedendo in quel pratone fuori New York; per aver dato retta al suo agente e barattato l'evento più importante della sua generazione con una comparsata in tv. D'altro canto solo la lontananza da Woodstock poteva permetterle di scriverci sopra un inno cosmico, pieno di fede nel futuro e vibrante del respiro dell'universo eccetera eccetera, al riparo dagli schizzi di fango e dal caos organizzativo. Quando poi le capitò di andarci davvero, ai concertoni, la Mitchell non ne trasse vibrazioni così positive. Un mese dopo portò la canzone inedita a Big Sur, dove cercò persino di insegnare agli hippie il ritornello: su, cantate con me, siamo polvere di stelle, siamo d'oro... no, niente, quelli sorridono, scuotono le chiome, e chissà su che pianeta sono in quel momento. Ma d'altro canto, come si fa a cantare dietro a Joni Mitchell? Cioè, davvero credevi che fossero tutti bruchi pronti a mettere le ali? tutti in grado di cantare quello che canti tu? Tutti pronti a fondare rock'n roll band e inseminare la pace del mondo? Ci credeva.



Ma non ci ha creduto a lungo.
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12 anni

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(È un pezzo vecchio, sì, ma a partire da un certo punto in poi i compleanni si assomigliano tutti)

Il pregevole blog lo Zibaldone

"Come? Eh? No, le candeline no. Il mio povero cuore.
Volete che vi racconto? Ma probabilmente la storia la sapete già. Sono io che non mi ricordo più bene quando ho cominciato.
Mi sembra di averlo sempre avuto un blog, più o meno dall’… Ottocentoquindici, mi pare… in quel periodo eravamo in pochi, eh, anche perché il layout dovevi farlo a mano… il codice, dico… lo vergavi con la penna d’oca, nei primi tempi… e quindi non eravamo poi così tanti ad avere la costanza, la… manualità… comunque c’era già Giacomo.  Lui con lo Zibaldone era un po’ il mio mito, me l’aveva linkato Pietro Giordani che… aveva questa directory di giovani poeti italiani promettenti, che se ci pensi era una cosa da suicidio, allora, mettere in piedi una directory così… anche oggi certo… però a quei tempi… metti che Foscolo un giorno la consulta e non trova il suo sito… minimo ti sfidava a duello… non gli potevi mica dire: “Scusa, Ugo, ma è una directory di giovani promettenti, e francamente tu…” insomma, c’erano equilibri molto complicati.

Ma dicevo di Giacomo. Di lui non è che si sapesse molto, stava in campagna come molti di noi, e gli volevamo tutti molto bene perché… ma fondamentalmente aveva una costanza pazzesca. Ogni volta che facevi refresh qualcosina la trovavi. Spesso era roba pesante, filosofia, linguaggio, però era due secoli fa, forse allora c’era più mercato per queste cose. A me sembrava uno dell’altro mondo, poi un giorno leggendo capisco che si è trasferito a Bologna… allora vado a impegnare i gioielli della mia povera madre per prendere a nolo un biroccio e in un paio di giorni sono là… però non c’era ancora google street view e anche la segnaletica stradale lasciava molto a desiderare, francamente… sicché entro in un’osteria, sotto le torri, e chiedo a lorsignori se conoscono l’indirizzo del poeta Giacomo Leopardi. Silenzio. “Intendo l’autore del pregevole blog lo Zibaldone”. Mi ridono in faccia. Lì per la prima volta ho capito che… la blogosfera non è proprio esattamente il mondo reale… uscendo alla luce del sole urtai un gobbetto, gli feci cadere una borsa piena di carte e mi mandò al diavolo… mi lasciò un pessimo ricordo Bologna, non saprei neanche dire perché… forse capivo che tra il mondo vero e la blogosfera ormai avevo scelto la blogosfera. Vuoi mettere tra discutere di lettere con IppolitoNievo.It o stare per strada a farsi ingiuriare dai brutti gobbi sgorbi?

Manzoni? Non so, me l’hanno detto poi che c’era anche Manzoni, il punto è che non era già il grande Manzoni, era un ragazzo molto timido, che non usciva di casa volentieri, balbettava... aveva crisi di panico nei luoghi affollati... al giorno d’oggi sicuramente diremmo che è la sindrome di questoquello, ma a quei tempi… Lui stava molto sulle sue e faceva questa cosa, che a me non è mai piaciuta… cioè si cancellava spesso. Magari per un mese scriveva cose fantastiche, fantasie di monache lesbiche, poi un mattino gli saltava il ticchio… cancellava tutto. Magari perché qualcuno gli aveva lasciato un commento livoroso (lui però li bloccava, mi pare), oppure gli era venuta la crisi mistica... Io quelli che fanno così... non li ho mai compatiti veramente. Voglio dire, o fuori o dentro, trovate un vostro equilibrio. Però non voglio fare polemica. L’ultima polemica la feci col Tommaseo, mi pare nell’Ottocentoquarantavattelapesca… quanto a Manzoni, era un altro che non usciva di casa volentieri, aveva crisi di panico nei luoghi affollati…

No, all’inizio no, non c’erano classifiche. Non avremmo saputo cosa conteggiare. Dovete capire che con la tecnologia di allora anche una cosa che per voi sembra scontata… non so, lincarsi. Io per lincare un post di Luigi Settembrini dovevo scrivergli fermo posta, e sperare che filtrasse il firewall austroungarico. Le polemiche sullo sbarco dei Mille, poi, francamente… non si poteva fare liveblogging da Marsala, mettetevelo in testa. I borbonici avevano bloccato il protocollo postale, non avevamo né piccioni né segnali di fumo, e poi c’era questo piccolo particolare che dovevamo scannare nemici a mani nude perché avevamo lasciato i fucili a casa. La prossima volta portatevi l’Iphone, cosa volete che vi dica. I giovani la fanno sempre facile.

Lo devo ammettere, all’inizio il telegrafo mi spaventava. Temevo che uccidesse il blog, lo avevo anche scritto… un post dal titolo il blog è morto. Mi davano soprattutto noia quelle abbreviazioni, anche inglesi, SOS per Salvate le Nostre Anime, che roba è? E poi tutti quegli stop a fine frase, stop, stop, stop… insopportabili. Ma davvero ero convinto che il futuro sarebbe stato sintetico, che quelli che amavano le pagine lunghe e complicate, come le mie, fossero condannati… magari chissà avevo pure ragione… nei tempi lunghi…

Invece Marconi lo adoravo. Mi ricordo quando fece quella presentazione, a Londra… tutti si immaginavano un gadget portatile, magari un telegrafo palmare, ma chi si poteva immaginare un congegno wireless nell’Ottocentonovanta… dico bene? O novantacinque? Va bene, insomma, adesso in che anno siamo? No, fa lo stesso, un anno vale l’altro.

Ma ve l'ho detta quella volta che sono andato a Bologna, perché volevo vedere un blogger, come si chiamava... Entro in un'osteria e..."
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Teoria narratologica della sf

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(Una cosa di cui colpevolmente non m'interesso molto è il festival di filosofia che fanno praticamente sotto casa mia - avete presente quelli che abitano dietro un monumento e non lo visitano mai? Ecco. Mi dispiace che ci sia stata una polemica su Fabio Volo, che secondo alcuni non dovrebbe andare a un festival di filosofia - probabilmente la stessa gente nel Settecento avrebbe snobbato quegli autori di romanzetti dozzinali e satirici, come si chiamavano, Voltaire e Diderot. Comunque. L'unico mio vago contributo al filosofume in cui sono immerso è questo pezzo che scrissi un paio di anni fa per una di quelle belle iniziative di Barabba. Lo riciclo oggi. Era molto più divertente dal vivo (niente dello spessore di un Fabio Volo, comunque)).


Noi vogliamo leggere di eroi: li vogliamo buoni e generosi, positivi e propositivi. Questo la narrativa ce lo può dare. Però li vogliamo anche veder impattare con il nostro stesso mondo (o meglio, un mondo perfettamente identico al nostro). Questo la narrativa non può darcelo senza pretendere qualcosa in cambio. Questo qualcosa lo possiamo definire Sfortuna. Vogliamo degli eroi? Li vogliamo alle prese con le difficoltà del nostro mondo? Dobbiamo accettare che siano molto sfortunati. In caso contrario non si dà verosimiglianza, e senza verosimiglianza non si dà narrativa.
Cerco di spiegarmi meglio. Nel nostro mondo, gli eroi che pretendiamo dalla narrativa non ci sono. Se ci fossero, il mondo migliorerebbe all’improvviso. L’esempio più classico resta Superman: se esistesse, non perderebbe certo tempo a combattere contro il crimine più o meno organizzato: devierebbe un paio di fiumi, risolverebbe il fabbisogno energetico degli Stati Uniti, risolverebbe le controversie internazionali (Eco, 1964). Questo è quanto sarebbe logico aspettarsi da un superuomo verosimile. Quindi, o rinunciamo alla verosimiglianza e caliamo Superman in un altro universo, dove gli sia consentito cambiare la sorte di altri pianeti (e a quel punto avremmo un fantasy di scarso interesse), oppure lo lasciamo in un mondo verosimile fatto di grattacieli realistici e cabine telefoniche identiche alle nostre, operando però affinché, malgrado la sua buona volontà e i suoi poteri ultraterreni, non riesca a rendere il mondo neanche un briciolo migliore di quanto lo abbia trovato. Ma come si fa?
Lo si circonda di sfortuna. Si crea una pletora di antagonisti, a volte in calzamaglia e mantello come lui, che non gli lasciano un attimo di tregua. L’unico modo per ammettere Superman nel nostro mondo è dotarlo di una sfortuna tale da neutralizzare del tutto i suoi superpoteri, affinché alla fine di ogni sua avventura gli enormi sforzi positivi di Superman e le enormi energie negative dei suoi antagonisti diano una somma zero. Il nostro mondo imperfetto diventa così il risultato della lotta titanica tra Superman e i suoi perfidi avversari. Questo alla lunga rischia di rendere Superman e i suoi successori antipatici: con tutti i loro poteri in fondo non fanno che difendere lo status quo, saranno mica per caso eroi di destra? Conservatori, se non addirittura reazionari? Ma è la narrativa a essere in qualche misura conservatrice: per essere interessante ha bisogno di restare in frizione col mondo vero, ma il mondo è quel che è, uno status quo molto discutibile, e la narrativa accetta di non poterlo cambiare. La rivoluzione si fa nelle strade, o al limite nei fantasy: nei romanzi realisti non può che finir male. Poi date la colpa all’autore, ma è colpa vostra che accettate il patto finzionale senza far caso alle clausole scritte in piccolo.
Eroe + Sfortuna = 0
Eroe = 0 – Sfortuna
Sfortuna = 0 – Eroe
In pratica, a ogni azione positiva dell’eroe corrisponde una sfortuna di uguale valore e di segno contrario. Più l’eroe sarà potente, più grande la sfortuna intorno a lui. Più Ulisse è astuto e curioso, più Itaca si allontana. Più Ercole è forzuto, più gli tocca faticare. La sfortuna è in fondo il calco in negativo dell’eroe, e questo si vede in metafisica semplicità nelle opere di Kafka: i suoi quasi anonimi eroi sono definiti esclusivamente dalla sfortuna che li plasma. K esiste finché c’è un Castello che non lo lascia passare, o un Processo che non gli consente di difendersi: rimosso lui, il Castello apre i cancelli e il tribunale si scioglie. Solo un po’ di vergogna sopravvive.
La sfortuna è quindi proporzionale alle capacità dell’eroe. Nel caso di Superman essa tende all’infinito: finché Superman vivrà, l’universo di Metropolis sarà sotto costante minaccia di folli che lo vogliono dominare o distruggere. Fortunatamente di solito gli eroi hanno poteri più modesti, e di conseguenza anche la sfortuna che li contrasta è minore. Prendi i Malavoglia: sono una piccola impresa a conduzione famigliare, i cui membri all’inizio del romanzo appaiono dotati di un minimo di spirito d’iniziativa. Anche se il carico di lupini arrivasse in porto, essi non salverebbero certo il mondo: al limite porterebbero ad Aci Trezza un po’ di moderna mentalità imprenditoriale. Il che però è inammissibile: non perché Verga non lo desideri, ma perché semplicemente ciò non è avvenuto nel mondo reale, a cui l’autore è vincolato da una clausola di verismo: e quindi la tempesta deve infuriare, e la sfiga colpire a ripetizione finché dei Malavoglia non resti che qualche superstite incanaglito e riconvertito al mito arcaico della Casa del Nespolo.
Proseguendo per questa china si arriva agli antieroi: quei personaggi la cui carica è prossima allo zero o addirittura negativa: ebbene, a loro potrà capitare anche qualche occasionale botta di culo, al fine di mantenere l’equilibrio: vedi il caso dell’Idiota. Sappiamo che l’idea iniziale era quella di creare un personaggio “buono”. Dostoevskij all’inizio ha l’aria di pensare che la bontà non sia una qualità, quanto una mancanza di qualità negative: così l’Idiota sarà privo di fondi, privo di salute, privo di malizia… dopo un centinaio di pagine però l’autore si dev’essere reso conto che tutte queste privazioni rischiano di renderlo un osservatore inerte, e allora cosa ti combina? Ma guarda un po’: una zia sconosciuta, un’eredità improvvisa. Il Deus ex machina dei canovacci ottocenteschi.
Il più sfacciato resta comunque Zeno Cosini: chi più fortunello di lui? S’innamora di sua moglie, il suo rivale in amore e in affari s’ammazza per sbaglio. Persino quando il malessere esistenziale sembra prevalere, non ha che da scoppiare una guerra mondiale per trasformarlo in uno speculatore soddisfatto. Zeno doveva evidentemente contenere un potenziale negativo altissimo: non è difficile immaginare che il tizio “un po’ più ammalato degli altri” che si arrampica al centro della terra e la fa esplodere sia egli stesso. Per evitare che ciò succeda, per salvare il mondo (e la verosimiglianza del racconto), Svevo è costretto a servirgli colpi di fortuna a ripetizione.
Per i narratori insomma non c’è scampo: o inventano eroi positivi e li sommergono di sfighe, o s’ingegnano a elaborare colpi di fortuna per antieroi inetti. Di solito quelli più buonisti all’apparenza sono proprio quelli che nascondono in cantina orribili attrezzi con cui tormentare i loro eroi senza macchia. Essi tuttavia amano presentarsi in società come padri di eroi, e quindi un po’ eroici essi stessi, senza troppo insistere sul fatto che ne sono anche i più instancabili persecutori. Del resto, perché dovrebbero insegnare i più oscuri segreti del loro mestiere? La fortuna commerciale di un narratore dipende dalla quantità di dolore, frustrazione e sofferenza che riesce a infliggere ai suoi eroi prediletti. Egli dovrà essere spietato, come si addice a un padreterno. Ma persino il padreterno, tra un diluvio e una pestilenza, ha quei momenti in cui ci terrebbe ad apparire come un tizio misericordioso. Allo stesso modo quando i narratori vanno alle conferenze o ai corsi di scrittura creativa, hanno sempre quell’aria di “io non farei male a una mosca”. Il risultato è che poi da questi corsi escono un sacco di discepoli buonisti che credono che per raccontare una storia sia sufficiente inventarsi un simpatico eroe (spesso aspirante narratore egli stesso), al quale succedono solo cose simpatiche e mai niente di veramente grave, perché la violenza è una cosa ripugnante, no?
Anche quando è violenza su creature immaginarie. Da qui il corollario più interessante della teoria: come si distingue un vero narratore da un aspirante? Dalla pietà per i personaggi. Il vero narratore ne sarà totalmente privo. Ti è venuto bene quel tenero ragazzino, Nemecsek? Bravo Molnár, ora stroncalo con una polmonite fulminante. Generazioni di giovani lettori piangeranno per quello che stai facendo al più eroico soldato semplice delle strade di Budapest. Milioni di fanciulli e fanciulle t’imploreranno e ti malediranno, ma sarà per sempre troppo tardi: Nemecsek è morto, fatevene una ragione, e se non fosse morto il romanzo non sarebbe finito negli scaffali su cui lo avete trovato.
Diventare veri narratori significa accettare il proprio ruolo di assassini di eroi, dispensatori di disgrazie, reggitori di cornucopie di ininterrotta sfiga. Questo è il destino del narratore. Non ti va? Nessun problema, il mondo ha più bisogno di idraulici.
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Ma in quattro non avrebbe proprio senso

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(Vuoi perché è estate, tempo di repliche; vuoi perché i rudi panni del sensale di compromessi al ribasso mi stanno stretti, il fine settimana... insomma sono andato a riprendere un vecchio pezzo del 2005, cioè del 2025, insomma, la mia proposta utopica ma serissima per risolvere il problema non solo del matrimonio gay, ma anche del matrimonio etero, che è in crisi fissa da anni, al punto che io ho un po' paura che estenderlo ai gay sia rifilar loro una sòla che non si meritano; comunque il pezzo eccolo qui).

Il Trimonio spiegato a mia figlia

"Papà-Mac?"
"Sì?"
"Perché la mamma vuole bene a un altro uomo?"

Non era senz'altro ieri sera che mi sarei messo a spiegare il Trimonio alla mia piccola Leti.
Non mentre le cose sembravano filare lisce, tutto sommato. Assunta non si era presentata a cena con una scusa qualsiasi. Apparecchiando, Concetta aveva annunciato a monosillabi che non avrebbe mangiato, perché aveva mal di testa anzi sonno anzi nausea e si ritirava in camera, e i piatti li avrei lavati io. Leti si era subito offerta di aiutarmi, per il grande amore che porta al profumo del detersivo biologico al limone. Così avevamo stabilito che lei avrebbe risciacquato i piatti che le passavo, e intanto avremmo parlato di come vanno le cose a scuola.

Ma Leti non aveva voglia di parlare della sua scuola. Voleva invece parlare del nostro Trimonio.

"Papà-Mac?"
"Sì?"
"Perché la mamma vuole bene a un altro uomo?"

Anche questa doveva succedere prima o poi, ma proprio ieri sera?

"Tesoro, sono cose che capitano ai grandi. Anche tu, quando-sarai-grande…"
"Papà no, quella frase era vietata. Lo avevi promesso!"
"Hai ragione".
"Tu lo conosci, l'uomo che piace a mamma Sunta?"
"Sì, credo di sì".
"È il dottore, quello da cui siamo andati per il vaccino, te lo ricordi?"
"Certo"

(Assunta aveva deciso d'informarci della sua relazione un giorno d'autunno che pioveva, e Supernet ogni mezz'ora interrompeva le trasmissioni con paurosi bollettini sull'incredibile virulenza del bacillo influenzale in arrivo dalla Corea, mentre Concetta faceva e rifaceva i conti di casa senza trovare i denari per vaccinare la bambina.
"Conosco un uomo all'Ospedale Maggiore", aveva detto.
Un uomo).

"Certo che mi ricordo".
"A me sta simpatico, lo sai?"
"Bene".
"Papà, ma lui non può venire a stare con noi?"
La piccola, ecco dove voleva arrivare… "No, tesoro, no. Lui non può entrare nella nostra famiglia".
"Però la mia compagna di banco, l'Elisabetta, lei ce li ha due papà, e vivono tutti e due insieme con lei".
"E quante mamme ha l'Elisabetta?"
"Una".
"Lo vedi? Lei ha due papà e una mamma: totale, tre. Tu hai già due mamme e un papà: quanto fa?"
"Fa sempre tre".
"Certo, per questo si chiama Trimonio. Ognuno deve avere tre genitori, questa è la regola".
"Ma perché proprio tre?"
"Tesoro, tre è il numero perfetto. Vedi, una volta, quando il Trimonio non c'era, la gente era triste, le famiglie nascevano e morivano in un niente, i papà e le mamme si litigavano i bambini, tutta un'enorme confusione senza senso, mi segui?"
"Sì".
"Finché un giorno un gruppo di persone, che si riuniva in segreto per cercare di risolvere i problemi del mondo, decise di studiare con attenzione la faccenda e cercare di proporre delle soluzioni nuove. Qualcosa a cui nessuno avesse pensato prima".
"Chi c'era questo gruppo di persone?"
"Tesoro, nessuno lo sa. Si trovavano in segreto, appunto".
"Ma tu non c'eri?"
"No, beh, io… andavo e venivo, portavo il carrello con le paste. Ma è stato tanto tempo fa, sai. Insomma, questo gruppo di persone, che sono i fondatori del Teopop, decisero di consultare un uomo molto intelligente. Gli dissero: abbiamo grossi problemi coi rapporti di coppia. Gli uomini e le donne non fanno che litigare, e poi ci sono anche uomini che vogliono stare con altri uomini, e donne che vogliono stare con altre donne, e questi uomini e queste donne vogliono ugualmente crescere dei bambini, il che ci pone altri problemi di natura etica che non abbiamo più voglia di porci, perché sono irresolubili e in definitiva una gran perdita di tempo; potresti risolverci tutte queste complicazioni, e farlo in fretta, per favore? Perché noi tra una settimana facciamo un colpo di stato e andiamo al potere".
"Cosa vuol dire colpo di stato?"
"Scusami, non importa. L'importante è che questo uomo molto intelligente, che si chiamava Arci…"
"Quello che faceva gli esperimenti con te?"
"Proprio lui. Be', lui ci pensò su una mezz’oretta e poi disse: avete mai pensato che forse il problema è la coppia? Perché non proviamo a inventarci qualcos'altro, qualcosa di più stabile? La coppia è un concetto incerto, traballante, come la bicicletta, se non è in movimento cade. Non è molto più stabile il triciclo?"
"Cosa c'entra il triciclo, papà?"
"Era un esempio per spiegare la grande differenza che c'è tra una Coppia e un Trimonio. La Coppia deve sempre sorvegliare il suo equilibrio; il Trimonio invece è stabile, perché è sorretto da tre persone, come le ruote di un triciclo, e se una delle tre persone ha problemi, ce ne sono ancora due su cui si può contare. All'inizio però la gente non ne voleva sapere".
"Perché?"
"Sai, la gente non si fida delle cose nuove. Dicevano: da che mondo e mondo si è sempre fatto in due. E Arci rispondeva: ma guardatevi attorno, signori. Non vi è mai venuto in mente che da che mondo e mondo si è sempre fatto male, che sarebbe ora di provare a fare un po' meglio? Ma loro scuotevano la testa e dicevano: se aumentiamo le persone in una famiglia, aumenteranno anche i litigi".
"E lui cosa rispondeva?"
"Lui spiegava che i litigi di coppia sono i peggiori, perché si è sempre uno contro uno, e nella maggior parte dei casi uno deve cedere di sua spontanea volontà, e questo alla lunga lo avvelena. Mentre quando si è in tre o più, i litigi sono più facili da contenere, perché, per esempio, si può votare, e ci sarà sempre una maggioranza e una minoranza; oppure, molto spesso quando due litigano la terza persona cerca di rimetterli d'accordo".
"Come tu con le mamme?"
"Sì, vedi. Probabilm se avessi una sola mamma, e lei non fosse qui ora, io sarei molto arrabbiato con lei".
"Come mamma Cetta".
"Ma siccome mamma Cetta è già molto arrabbiata, io sono portato a sentirmi meno arrabbiato di lei, perché devo stare nel mezzo. Arci questo lo capiva, ma gli altri non gli credevano. Gli dicevano: non puoi generalizzare queste cose".
"E lui?"
"E lui rispondeva, perché no? Anche voi non fate che generalizzare i rapporti di coppia, perché io non posso generalizzare quelli in tre? Solo perché non si sono ancora visti? Ma appena si vedranno, sembreranno naturali e imperfetti come se fossero sempre esistiti. Altri gli dicevano: ma noi siamo cristiani e la Bibbia non lo permette".
"Davvero?"
"Macché, infatti lui rispondeva: la Bibbia è un libro molto grande, sfogliatelo bene e vedrete che vi permette qualsiasi cosa".

Ora siamo su divano, davanti a noi Supernet mostra il Pontefice che si sbraccia dal balcone di una clinica. Non ho mai capito se giornalisti e spettatori siano solo contenti della guarigione, o se non sperino di assistere di persona a una polmonite fulminante. Dev'essere un ambiguo misto di tutt'e due.
Dall'altra parte di una parete di cartone, so che Concetta mi ascolta. So che ha gli occhi sbarrati e non riesce a dormire.

"Non ho capito, papà. La Bibbia dice che ci si deve sposare in tre?"
"No, però non dice neanche il contrario. E molti personaggi importanti avevano due mogli, come Abramo o Giacobbe".
"E c'erano anche donne con due mariti?"
"No, questo in effetti è un'assoluta novità. Ma non ha creato particolari problemi. Per molti uomini anzi è stata una specie di liberazione, perché... come faccio a spiegarti... si dividevano le donne anche prima, ma dovevano farlo di nascosto".
"Quando sono grande, voglio avere due mariti".
"Hai ancora molto tempo, per fortuna".
"E poi voglio avere un bambino".
"Se ti sposi con due uomini, dovrai averne almeno due".
"Perché due?"
"Ogni Trimonio deve produr mettere alla luce due bambini, è la regola".
"Ma se uno non se la sente?"
"Tesoro, avere bambini è molto importante. Un altro dei motivi per cui fu istituito il Trimonio era il fatto che se ne facevano sempre meno. A un certo punto tutte le coppie facevano solo un bambino, e così nel giro di una generazione i cittadini rischiavano di diventare la metà, mi segui? E questo non andava bene".
"Ma non potevano farne due?"
"No, diventava sempre più faticoso, e sia la mamma che il papà dovevano lavorare".
"E se uno dei due stava a casa?"
"Non c'erano abbastanza denari per crescere i bambini. Ma Arci aveva pensato anche questo. Lui ragionava in questo modo: non c'è nulla di grave se caliamo un po', ma non dobbiamo dimezzarci. Allora possiamo fare così: invece di avere due genitori che produc che fanno un bambino, con un calo demografico del 50%, noi possiamo avere tre genitori che ne fanno due, riducendo il calo del 33%. Questo funziona anche per il lavoro: se chiederemmo a ogni madre di famiglia di stare in casa a badare ai bambini, noi ridurremmo la forza produttiva del Teopop al 50%. Ma col Trimonio, noi possiamo avere due coniugi che lavorano, e il terzo che sta a casa e bada ai due bambini. Risultato: 66% di forza produttiva esterna, 33% di autogestione familiare, e…"
"Papà, noi le percentuali a scuola non le abbiamo ancora fatte".
"Scusa, hai ragione. Ma insomma, il Trimonio risolveva un sacco di problemi".
"A me non sembra tanto".

Ora le cose si fanno difficili. Cerco di abbassare il volume di Supernet, invano. Ultimam il comando del volume non funziona più tanto bene. Spegnere non è il caso, darei una brutta immagine della famiglia, e poi magari la bambina si spaventa.

"Tesoro, non devi pensare soltanto a noi. Arci pensava alla situazione generale, non ai casi particolari".
"C'è una cosa che non ho capito".
"Lo so, ma te la spiego un'altra volta, è ora di lavarsi i denti".
"Però, papà, quando tu eri giovane il Trimonio non esisteva".
"No".
"E adesso ti sembra una cosa normale".
"Certo tesoro, la cosa più normale che c'è".
"E allora quando io sarò grande, ci si potrà sposare in quattro, sembrerà una cosa normale".
"Ancora con questa storia? No, tesoro, non ci si potrà mai sposare in quattro".
"E come fai a saperlo, papà? Conosci il futuro?"
"No, ma… insomma, in quattro non avrebbe proprio senso".
"Invece in tre ha senso".
"Sì, in tre ha senso. È molto meno divertente di quel che credevamo, ed è difficile, ma io sono tanto contento di essere sposato con le due mamme, e di essere tuo papà".
"Papà, io vorrei parlare con Arci".
"Tesoro, è impossibile, Arci è andato via".
"E nessuno sa dove?"
"No, nessuno sa dove. Buonanotte".
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Tutti figli di Bearzot

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Per vincere domani


(È un pezzo di due anni fa, stasera ha un po' di senso).
A vederlo da qui, il Calcio italiano sembra avere avuto due incarnazioni, che per comodità possiamo chiamare “in bianco e nero” e “a colori”. Dunque il calcio in bianco e nero è un mondo di leggende, sacrifici, uomini di poche parole dal destino spesso tragico, magliette a strisce strette e senza scritte, riprese accelerate. Il calcio a colori è un mondo di stelle e stelline, scritte ovunque, indossatori di scarpe, spot di telefoni, risse in campo e sugli spalti, azioni al rallentatore. Al centro di questo grande cambio di paradigma, per un curioso accidente, c'è il Mundial del 1982, e la nazionale di Bearzot, coi suoi uomini che hanno un piede nel mondo antico e uno già in quello moderno, ma non appartengono davvero a nessuno dei due.

Aspettate, aspettate, non cliccate via. Non sono venuto qui a dirvi che il nostro mondiale è stato più bello del vostro; vorrei soltanto cercare di spiegare ai più giovani e ai più anziani che per noi, che eravamo al mondo da nemmeno dieci anni, fu qualcosa di diverso e irripetibile, né una saga in bianco e nero né una fiction a colori. Un romanzo, un incredibile romanzo, il primo vero romanzo che abbiamo visto consumarsi tra la tv e i giornali (quanti giornali! E che titoli! Me ne ricorderò sempre uno, che forse non era nemmeno in prima pagina, in un maiuscoletto che pugnalava il cuore: IL CAMERUN CI FA PAURA).

Vorrei spiegare che prima di tutti i grandi romanzi di formazione degli anni Ottanta, prima di Pat Morita che ti fa dare la cera e togliere la cera, prima di Rocky che spacca la legna, persino prima dei napoletani che sfidano a football gli yankees della base Nato e ovviamente si fanno massacrare, finché Bud “Bulldozer” Spencer non si rompe i coglioni ed entra in campo, prima che qualcuno dicesse “coniglio” a Michael J. Fox, insomma, prima di ogni cosa, ci fu quella nazionale pesante, che non riusciva a giocare contro la Polonia, non riusciva a battere il Perù; quella nazionale criticata da tutti che aveva paura del Camerun, quella nazionale passata al secondo turno per una pietosa differenza reti, quella nazionale che quando si ritrovò in un girone a tre con Brasile e Argentina fu data per spacciata dai nostri saggi padri.

Noi invece, non sapendo davvero nulla di calcio, che altro potevamo fare se non sperare, pregare, sognare che i potentissimi sudamericani si liquefacessero come nella Bibbia accade agli empi nemici di Israele. E così fu: il Dio della nostra infanzia ascoltò le querule preghiere dei suoi figli piccoli e quella nazionale, già vergogna delle italiche genti, si rialzò sferragliante come Mazinga prima che gli diano il colpo di grazia, e sconfisse l'Argentina di Maradona, trionfò sul Brasile di Zico e Falcao, passeggiò sulle spoglie della Germania di Muller e Rummenigge, e ci diede il primo vero lieto fine della nostra vita; non una semplice vittoria: una crescita, un riscatto. Lo avevamo sognato, ora il sogno era realtà. Ed era appropriato che i protagonisti di questa avventura avessero nomi bizzarri, da romanzo ungherese: Zoff, Bearzot (anche se poi chi segnava i gol portava cognomi più rassicuranti: Rossi, Tardelli).

L'allenatore, in particolare, fu immediatamente assunto nel nostro olimpo di nonni rassicuranti, con Pertini ed Enzo Ferrari (che per me a nove anni avevano davvero il volto intercambiabile): uomini saggi che tenevano dritto il timone, incuranti delle sconfitte passeggere, essi vegliavano sui nostri sonni e ovviavano ai disastri dei nostri genitori. Senza di loro, Gilles Villeneuve non sarebbe stato che un locale campione d'autoscontro. Erano loro ad aver pescato Paolo Rossi dal vortice del calcioscommesse; ad aver creduto in lui per quattro lunghe partite mentre si aggirava per l'area avversaria struggendosi nel tentativo di rammentarsi le regole del giuoco. E i nostri saggi padri lo fischiavano, maledicendo Bearzot e chi ce l'aveva mandato, e l'Argentina '78 era un'altra cosa, per tacer del Messico.

Come poteva non scattare l'immedesimazione, come potevamo non sentirci tutt'uno con quel Paolo Rossi timido, incapace, distrutto dalle critiche, che a un certo punto si sblocca e piazza tre gol ai brasiliani? Era ovvio che prima o poi sarebbe successo anche a noi: ci saremmo sbloccati. Avremmo spiccato il volo e superato in elevazione tutte le difficoltà. Non è escluso che da qualche parte, nella nostra testa, ci crediamo ancora: ci sbloccheremo prima o poi, la faremo vedere a tutti. Forse sarebbe bastato trovare un saggio maestro, un nonno partigiano, un Bearzot che credesse in noi.

Non ci furono sequel al romanzo: chiusa la copertina Bearzot tornò immediatamente un comune mortale, il selezionatore di nazionali mediocri, che non si qualificarono agli Europei e uscirono agli ottavi in Messico. Ci furono altri mondiali, e anche se non abbiamo mai smesso di tifare per gli azzurri, da qualche parte nel nostro cuore c'era come una resistenza, l'idea che nessuna fiaba sarebbe mai stata bella come quella di Bearzot. Magari piangemmo persino nel '90, quando la cavalcata trionfale di Baggio e Schillaci si schiantò sulla più bituminosa Argentina mai vista: piangemmo, ma qualcosa dentro di noi diceva meglio così, ci sta bene, abbiamo voluto vincere tutte le partite e ci siamo dimenticati che non c'è vera gloria senza sofferenza.

Soffrimmo di più per l'Italia di Sacchi, che in partenza poteva sembrare ancora più arrogante di quella di quattro anni prima, ma poi fu messa in ginocchio da infortuni e squalifiche che la resero un'armata brancaleone, trascinata di peso da Baggio fino al malinconico finale. In seguito i calciatori diventarono sempre meno simpatici, eppure avevano un modo di mettersi nei guai che ti costringeva a credere in loro, a sperare nel riscatto, a cercare nel fondo del nostro cuore il Dio delle vittorie assurde che avevamo pregato nel 1982. Persino l'europeo di Grecia diventò interessante soltanto quando Totti si fece cacciare, e Cassano scese in campo e segnò, ma Svezia e Danimarca fecero melina e allora pianse: sì, Cassano pianse. Due anni dopo, in pieno scandalo Moggi, era di nuovo una questione di riscatto: i nostri gladiatori pompati e tatuati dovevano dimostrare di essere professionisti all'altezza, e forse ce la fecero, ma poi.

Poi, l'ho scritto, almeno in me qualcosa si è rotto – qualcosa, credo, tra la testata di Zidane e la scenetta odiosa di Totti con la coppa in mano. Non riesco più ad appassionarmi, mi sembro una donna che vede ventidue idioti a spasso per un prato e cambia canale. Non capisco - se mai l'ho capito - che senso abbia far giocare miliardi di budget contro milioni di debiti, non riesco più a trovare motivi d'interesse. Non posso nemmeno dire che rimpiango il calcio che fu: se riguardo al Mundial dell'82 con gli occhi di oggi, mi rendo conto che fu una bella impresa, sì, ma come tante altre, nulla di davvero eccezionale: non ci voleva un genio a capire che quel Brasile non sapeva difendersi, e Bearzot probabilmente non era un genio.

L'unica cosa che mi porto dentro, alla quale non voglio rinunciare, è il mio concetto di vittoria, che è quello dei film degli anni Ottanta dove Rocky deve sempre prima andare al tappeto, sanguinare, vedere doppio, spaccare la legna, mettere la cera, togliere la cera... per vincere domani. Il mio concetto di vittoria è che la vittoria in sé non m'interessa. Non voglio essere il più forte, non trovo nessuna gloria nel nascere Maradona. Non ci sarebbe gloria nemmeno nel battere il Brasile, se prima non hai avuto paura del Camerun. Per me l'unica vittoria che abbia senso è la vittoria di Paolo Rossi, che sbeffeggiato dal mondo intero spicca il volo, supera due ciclopi brasiliani in elevazione e la mette dentro. Perciò mi troverete sempre coi perdenti: non perché mi piaccia perdere, ma perché sto aspettando l'unica vittoria che mi farebbe godere realmente: la vittoria di Davide su Golia, di Bearzot sui mostri del calcio, di Pertini sui fascisti i nazisti e i democristiani. Voi tifate pure per la vostra squadra miliardaria: mica vi giudico, e mi fareste un piacere se non giudicaste me. Siamo semplicemente diversi, abbiamo avuto educazioni diverse, ci siamo letti romanzi diversi negli anni in cui leggere i romanzi ci serviva davvero. Adesso per capirsi forse è tardi, voi state da una parte, io dall'altra, e non m'importa quante palle mi mettete dentro: l'importante è la sola palla che un giorno metteremo noi. Ne basterà una sola, a un certo punto ci sbloccheremo, scenderà Bulldozer, il signore degli Eserciti, vi faremo un culo così, la palla schiacciata in meta scoppierà e non ne verranno fabbricate altre, non ci saranno rivincite, il mio romanzo finirà in quel momento.
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Scampato alle Diaz

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un pezzo del 2007. Non aggiungo più niente, ho già scritto troppo). 

Stasera non avrei scritto niente, se non che prima di coricarmi, passando davanti allo specchio, ho visto la faccia di uno che ha scampato le Diaz per pura botta di culo.
Siccome un pensiero tira l'altro, mi sono anche domandato che faccia avrei. Un po' più sbattuta di certo: magari un dente in meno (qualcuno lasciò un dente sulle scale). Forse più calvo, chi lo sa, più rugoso e interessante. Io non voglio passare per un reduce – è ridicolo, Genova furono tre giorni – però capisco perfettamente la gente che va in guerra, la scampa e poi si sente in colpa per tutta la vita. È un senso di colpa strano, misto a una curiosa invidia, e alla voglia di contar balle ai ragazzini al bar.

Io alle Diaz in quel momento avrei voluto esserci. Nel senso che avevo una gran voglia di andarci, venti minuti prima che le Diaz passassero alla Storia. Suona buffo, ma era tutta una questione di blog. Volevo aggiornare il blog, che poi era un modo di avvertire una ventina di persone che l'avevano letto fino a poche ore prima che ero salvo e stavo bene. Era tutto puerile e terribilmente serio allo stesso tempo. Le scuole cablate erano due, una di fronte all'altra: la più grande aveva la Sala Stampa e i server, ma i computer giravano con un cacchio di sistema operativo alternativo che s'inchiodava continuamente. Nelle Diaz invece c'era il vecchio stramaledetto windows duemila. Io dunque, mentre stavo in fila per accedere al sospirato blogger, avevo una gran voglia di provare se lì di fianco c'era meno fila. La Diaz, fino a quel momento, la conoscevano in pochi, tra cui io; io che due sere prima mi ero coricato con le chiavi della Diaz in tasca, perché nel cosiddetto servizio d'ordine del Movimento dei Movimenti si faceva carriera rapidissimamente, bastava continuare a preoccuparsi mentre la gente andava a dormire.

Io dunque ero indeciso se restare lì o andare alle Diaz. Se ci fossi andato, forse oggi passerei i miei pomeriggi a fissare il muro o a guardare i manga, magari soffrirei la depressione e peserei 120 chili; oppure mi sarei liberato di ogni borghese inibizione, come quelli che scampano un disastro aereo e non hanno più paura di nulla, e lavorerei sulle impalcature dei grattacieli, chi lo sa. Se invece fossi rimasto lì in fila, di lì a cinque minuti i carabinieri mi avrebbero semplicemente convinto ad accucciarmi al muro con le mani alzate, mentre sequestravano i server con un sacco di immagini compromettenti (compromettenti per loro, visto che in tutti questi anni non risulta le abbiano usate per incriminare chicchessia). Ma non feci nulla di tutto questo, perché passò Glauco a dirmi che andavano a prendere una birra lì all'angolo e io dissi ma sì, chi se ne frega. Era tutto molto serio, e allo stesso tempo no.

Come Buzzati, quando la sera tornava a casa dal grande giornale e scriveva su un quadernetto il Deserto dei Tartari; come Fenoglio quando da bambino montava sui tetti e s'immaginava di sparare agli invasori, anch'io probabilmente nel mio piccolo pensavo che ci sarebbe stata una guerra prima o poi, almeno una Battaglia, e che solo la Battaglia mi avrebbe fatto uomo. La guerra però non arrivava mai e così ho provato ad arrangiarmi con Genova.
A Genova le cose erano estremamente serie, in effetti, e allo stesso tempo restare seri era spesso difficile: tutto rischiava di diventare puerile da un momento all'altro. La cosa di cui sono più fiero è il servizio d'ordine al concerto di Manu Chao, quelle quattro ore spese a sgolarsi per avvertire i ragazzini di non oltrepassare la linea rossa della corsia ambulanze, e per cortesia di non rompersi l'osso del collo sugli scogli. Mercoledì sera, prima di ritirarmi al campeggio, avevo lungamente cercato di mettere pace tra due skin francesi impasticcati che se le davano in piazzale Kennedy, e non avevano l'età di mio fratello. Poi mi ero scocciato: ero un adulto, non Madre Teresa.

In seguito ci furono le cariche di venerdì, e bamboccioni se n'erano visti molti, in uniforme e in tenuta da movimento. Noi stessi, soliti modenesi, ondeggiavamo da una piazza tematica all'altra, cercando di mantenere un distacco critico, ma anche annusando a pieni polmoni la voglia di mettersi nei guai, il profumo con cui la troia Guerra seduce tutti i ragazzini. Poi era corsa voce di un morto, anzi di due, di tre; dalla città salivano fili di fumo e tutto sembrava allo stesso tempo serio e patetico, e per quanto non fossimo allegri eravamo più che mai fieri di essere lì piuttosto che altrove. Sabato ci eravamo svegliati con la sensazione di essere più che mai nel giusto, e le cariche e la lunga anabasi per i quartieri della città scoscesa in fondo li avevamo vissuti con lo spirito giusto: che era lo spirito d'avventura. All'ora in cui Glauco mi invitò a bere una birra tutto sembrava finito, la tensione era scesa di molto; e l'ansia di aggiornare il blog (l'unico blog a Genova!) poteva sembrare una cosa puerile.

La birreria stava dietro l'angolo e faceva affari d'oro, perché era l'unica rimasta aperta in quel quadrante della città. C'incontrammo una ex compagna di classe di Glauco che si era trasferita in Belgio e faceva teatro e tornava in Italia solo per le rivoluzioni. Quella birra non l'ho mai bevuta – ma la storia credo di averla già raccontata, o no? Ma qui c'è un sacco di gente che forse non l'ha ancora sentita, e allora sedetevi ragazzuoli, che vi spiego. Ci fu un frastuono di sirene, e quando uscimmo a vedere, restammo molto stupiti che non fossero i soliti CC o PS o GdF o Forestali, ma una colonna di ambulanze e Croce Rosse. Magari le aveva chiamate proprio Fournier, che ringrazio. Ho sempre pensato che fossero state molto tempestive, come se i picchiatori delle Diaz le avessero chiamate ancora prima di irrompere.

Voi, com'è giusto, la storia la conoscete dalla A alla Z: il poliziotto che si graffia il giubbotto con un coltello e poi lancia l'allarme (hanno cercato di accoltellarmi), i carabinieri e i poliziotti che entrano, le ambulanze che arrivano, le barelle che escono, il questore il giorno dopo in conferenza stampa che mostra le prove della resistenza armata della Diaz: un piccone fregato al cantiere di fianco, le molotov che poi qualche poliziotto confessò di avere fabbricato, e che in seguito sono misteriosamente scomparse, un sacco di coltellini svizzeri e pacchetti di kleenex da non sottovalutare (se si pensa che la principale fobia dei ragazzini in uniforme da poliziotto erano i fantomatici "palloncini di sangue infetto"). A raccontarlo sembra una comica, col sangue finto e i pugni per finta che fanno saltare i denti per finta.

Quando però le vivi, certe situazioni, ti trovi come nel mezzo della battaglia: non hai la minima idea di quello che sta succedendo. Dopo esserci nascosti per un quarto d'ora dietro la saracinesca della birreria, alla fine cedemmo alla tentazione di andare a vedere cosa succedeva. Non si capiva nulla, e non c'era nessuno che ti raccontasse la stessa cosa. Siccome nessuno mi aveva spiegato che i server avevano preso il volo, io mi fiondai subito all'ufficio stampa per aggiornare il blog, che ora mi sembrava la cosa più adulta da fare; stavo inutilmente cliccando il tasto refresh quando sentii un boato d'umana indignazione che mi scaraventò di nuovo fuori, e mi fece arrampicare sulla cancellata di fronte alle Diaz. Cosa stava succedendo?
"Portano via un morto".

Il morto in realtà era una barella carica delle famose munizioni di cui sopra, ma coperte da un telo verde impermeabile, che faceva un effetto body bag orribile a vedersi. Rimasi appeso alla cancellata per un tempo che mi sembrò interminabile, fregandomi del blog e probabilmente inveendo e fischiando a poliziotti e infermieri, ben sapendo che non era la cosa più adulta da fare.

Più tardi sono entrato, come altri cento, e ho visto le cose che avevano già visto altri cento: ma le ho viste male, in fretta, sicché quando le rifanno vedere in tv (molto di rado) non le riconosco, oppure confondo ricordi televisivi e reali, e mi vergogno. La sensazione di trovarsi al centro delle cose, che ci aveva aiutato a drizzare le antenne per tre giorni, stava svanendo. Ricordo sempre quella porta dei bagni forata da un colpo secco di manganello: m'immagino sempre di trovarmi lì, di chiudermi in bagno, di sentire le botte di manganello e poi di vedere la mano del poliziotto che si sbuca dal foro, trova la maniglia e la apre. Ma non ero lì, per cui in fondo il mio è solo un film come un altro.

Genova mi ha fatto paura, bisogna dirlo: quando tornai a casa continuavo a sentire le sirene, di giorno, di notte, per una settimana. Poi mi è passata.
Genova mi ha dato la scossa, e per alcuni mesi mi ha spinto a fare cose serie; ma in mezzo alle cose serie continuavano a esserci molte storie buffe, ridicole e apparentemente inadeguate, che col tempo hanno preso il sopravvento. Ho concluso che la vita è così, seria e ridicola insieme, che il bambino egotico e curioso che mi porto dentro non deve per forza morire in seguito a una battaglia: può restarsene lì, a patto che non rompa troppo.
Adesso vivo in una città ancora più piccola, davvero una miniatura; continuo ad aggiornare il blog per un motivo o per un altro e non racconto balle da reduce ai ragazzini, perché un reduce non sono.
I ragazzini poi sono terribili, perché ogni anno ne arrivano di nuovi, e non c'è cura migliore alle nostalgie sciocche di una nuova infornata di allegri ignoranti. Questi che stamattina han fatto l'esame sono del Novantatré, cosa vuoi che gli freghi di un tafferuglio che scoppiò a 9 anni? Quello che gli fa drizzare le antenne sono gli argentini torturati sotto lo stadio e lanciati dagli aeroplani senza paracadute. Il desaparecido volante è un enigma che coinvolge Storia, Geografia e Scienze: da che altezza venivano lanciati? Che velocità raggiungevano durante la caduta? Cadevano in moto uniforme o con un'accelerazione costante? Morivano asfissiati, inceneriti come le meteore, o annegavano? Questi sono misteri intriganti per un ragazzino.

Io non vorrei dover aggiungere misteri alla Storia del dopoguerra, che già ne sovrabbonda. Crescendo i miei ragazzini dovranno prendere appunti sull'Italicus, sulla Stazione di Bologna, su Ustica, Piazza Fontana... io vorrei che almeno si risparmiassero le Diaz. In fondo sono un mistero minore, che con un piccolo sforzo da parte dei carabinieri e dei poliziotti onesti si potrebbe archiviare in breve. Non era mica la guerra, anche se "Diaz" ha sempre avuto un suono sinistro (i giornalisti non avrebbero potuto inventarsi di meglio). Si disse subito che era l'Argentina, il Cile. No: erano le Diaz, nemmeno una scuola vera, una piccola palestra in cui le forze dell'ordine dello Stato repubblicano persero del tutto l'autocontrollo, e ancora aspettiamo che ci spieghino il perché.
Dovrebbero farlo. Sarebbe un bene per loro, per il Senso dello Stato dei nostri ragazzini, e anche per me. Personalmente non ho voglia di rivedermi tra cinque o dieci anni in un documentario sgranato, mentre mi appendo all'inferriata come un deficiente. Non vorrei perdere tempo a spiegare a mio figlio perché ero lì. Ero lì perché in quel momento non avrei sopportato di essere altrove: fine.
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Il ministro della terza età

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(Chiedo scusa ai più giovani, ma per quelli della mia età il primo giorno senza un tg di Fede sarà davvero come il primo giorno senza muro di Berlino. Lo festeggio ripubblicando un vecchio pezzo che vaga malsepolto, spezzettato tra Piste e l'archivio dell'Unità.)

Il complotto dei vecchietti

E se il ministro Frattini avesse ragione? Se davvero esistessero "strategie dirette a colpire l'immagine dell'Italia sulla scena internazionale", cioè in pratica un complotto? È davvero così paranoico mettere in collegamento i crolli di Pompei, la crisi dei rifiuti, Finmeccanica che perde una commessa, e le altre figuracce che nelle prossime ore Wikileaks pubblicherà?

Ora, nella migliore tradizione della letteratura paranoica, facciamo un passo indietro. Qualche sera fa, mentre gli studenti cominciavano a scendere in piazza, in un ristorante di Milano due vecchietti si prendevano a botte. La notizia, succosa in sé (cosa ci fanno due settantenni, a mezzanotte, in un locale alla moda? Perché non se ne stanno tranquilli al caldo nelle loro case, magari circondati dagli affetti dei loro cari?) è passata quasi inosservata, occultata dalle generalità dei due personaggi. Uno dei due signori era Gian Germano Giuliani, produttore di un famoso amaro digestivo; l'altro, Emilio Fede, uno dei più dileggiati e sottovalutati uomini chiave di Berlusconi: il suo Ministro per la Terza Età, imbonitore di un favoloso parco buoi elettorale che può ancora fargli vincere le elezioni in barba a qualsiasi scandalo o contestazione.

È difficile perfino accorgersi che si tratta, in effetti, di due persone anziane. Giuliani è fresco di terze nozze, e terza separazione; Fede, l'aggredito, poche ore dopo era già davanti alle telecamere, coi lividi imbellettati, instancabile, a chiedere alla polizia di menare "la gentaglia", gli studenti "che capiscono solo di esser menati", i "poveri cuccioloni" che hanno osato violare il Senato, l'assemblea degli anziani intoccabili.

La vitalità di questi personaggi ha qualcosa di stupefacente. Non c'è dubbio che entrambi abbiano fatto cose importanti per l'Italia e gli italiani. Il primo negli anni Settanta vendeva a casalinghe e pensionati sostanze alcoliche sotto forma di prodotti medicinali; allo stesso pubblico, un po' più incanutito, Fede ha smerciato per anni un varietà propagandistico sotto forma di telegiornale. Tutto questo comunque andrebbe scritto su un libro di Storia, nelle ultime pagine riguardanti il secolo scorso. E invece questi e altri settantenni sono ancora qui, nelle prime pagine dei quotidiani del 2010, a reclamare il loro diritto a innamorarsi e fare a pugni. Esponenti di una classe di ferro che non ha nessuna voglia di mollare le redini del Paese.

Questi vecchietti, lo scrivo qui quasi di nascosto, mi riempiono di invidia e di ammirazione. Una loro seratina standard è più avventurosa di svariati miei semestri. Personaggi che si meritavano un Balzac che i figli e i nipoti non sono stati affatto in grado di produrre. Posso dirmi che è stato il boom, l'inflazione, una bolla d'ottimismo tutta finanziata dalla guerra fredda - posso suonarmela e cantarmela, ma mi resta il dubbio che le cose siano molto più semplici. Siamo figli dei titani, quando se ne saranno andati tutti di cosa parleremo, alle dieci e mezza di sera sul divano, la palpebra già a mezza serranda? Cosa ci racconteremo? Le barzellette sui bunga bunga che non abbiamo mai vissuto faranno ridere i nostri nipotini?

Quanto al complotto denunciato da Frattini... nulla, sono solo paranoie. Eppure... se uno prova a unire i puntini, si rende conto che le recenti disgrazie colpiscono un aspetto specifico del nostro Paese: il futuro. Quello dell'Italia, in fin dei conti, non è difficile da prevedere. Le coordinate le abbiamo: siamo una nazione piccola, con una grande Storia, in un mercato globale ormai aperto agli enormi serbatoi asiatici di manodopera a buon mercato. Per restare competitivi non possiamo che investire sulla ricerca, sull'innovazione, sull'istruzione. È una scelta obbligata, gli stessi imprenditori non fanno che ripeterlo. E proprio mentre continuiamo a ripetercelo, scuola e università crollano; il dicastero è occupato da personaggi di dubbia competenza, che elaborano fantasiose riforme che nascondono (neanche troppo bene) una realtà fatta di tagli all'osso.

L'altro investimento obbligato è quello sul carattere specifico dell'Italia: anche nel mezzo di una crisi come questa, il Bel Paese rimane apprezzato nel mondo per il suo patrimonio naturale e culturale. E qui si dovrebbe intervenire: salvando il salvabile, eliminando senza pietà gli eco-mostri, investendo pesantemente nel turismo. Magari anche nel cinema, che negli anni del boom ci rese un grandissimo servigio, diffondendo in tutto il mondo il sogno di una Dolce Vita che a ben vedere era ancora un sogno anche per noi. Dovremmo offrire a miliardi di potenziali turisti la forza di sogni nuovi... Sì, sono considerazioni perfino banali. E mentre le facciamo, il patrimonio è affidato a personaggi di conclamata incompetenza; siti archeologici unici al mondo giacciono in abbandono; il meridione, che potrebbe essere la nostra Mecca, qualcosa che ogni cittadino del mondo dovrebbe sentirsi obbligato a visitare, è stato convertito in discarica dalla malavita organizzata. In mezzo a tutto questo, il ministro dell'Economia dà le mazzate finali al settore affermando che con la cultura non si mangia. Possibile che tutto questo avvenga per caso? È davvero così azzardato ipotizzare un complotto?

Io non so che volti hanno gli uomini che, tra una cena e l'altra, complottano contro l'Italia e il suo futuro. L'unica teoria che mi sento di fare riguarda la loro età. Sono vecchi. Un po' più anziani di quella Repubblica che hanno offeso e depredato senza nessun timor reverenziale. Hanno vissuto alla grande gli anni del boom, hanno finanziato le loro avventure ipotecando il futuro di figli e nipoti. Oggi, nel mezzo di una crisi mondiale, vivono gli ultimi fuochi senza progetti a lungo termine - e perché dovrebbero averli? Ancora un'altra donna, un'altra barzelletta, un'altra bella serata al ristorante. Di accompagnarci al disastro non hanno nessuno scrupolo: sono i primi a sapere che se ne andranno prima.
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Un Natale anarchico e informale

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Io sulla Federazione Anarchica Informale ho, più che una teoria, una sensazione; non sono in grado stasera di dimostrarlo, ma mi pare proprio che colpiscano sempre a fine anno. Questa cosa li rende un po' più simili a dei maniaci seriali che a dei rivoluzionari. Come rivoluzionari anzi faccio sempre più fatica a immaginarmeli, di solito un rivoluzionario o ha molta pazienza o molta fretta; uno che smolla due pacchetti bomba sotto le feste ogni anno, e qualche volta salta pure l'anno, che razza d'insurrezione ha in mente?

Quel che è peggio è che ormai gli anarchici informali si sono impregnati di quello spirito natalizio ancora lieve dei primi di dicembre, privo delle angosce che ci attanagliano dal venti dicembre in poi: senti che hanno messo una bomba e ti viene in mente che è ora di addobbare l'albero e telefonare agli amici lontani. Forse c'è una spiegazione tecnica, forse sotto le feste è più facile contrabbandare esplosivi in mezzo ai botti di fine anno, non lo so. In realtà non ne sa niente nessuno.

Due anni fa (avevo appena cominciato a scrivere sull'Unità), trovai su un forum anarchico un testo che è la cosa più vicina a un manifesto della Federazione Anarchica Informale. Anche in quel caso si respira a pieni polmoni l'atmosfera della notte di San Silvestro, con quell'acre sentore di petardo. Ci scrissi un pezzo che coi suoi difetti mi sembra ancora interessante, anche se ormai di difficile reperibilità. Lo ricopio qui, credo di fare cosa non troppo inutile.


“Abbiamo scelto di colpire dove meno ve lo aspettate”, scrivono le “Sorelle in armi” nel comunicato in cui rivendicano la bomba alla Bocconi. E invece non c’è mai stata una bomba tanto prevedibile, nel luogo e nel momento in cui più avremmo potuto aspettarcela. 

Una bomba anarchica a Milano, nell’anniversario della morte di Pinelli. Una bomba anarco-insurrezionalista, mentre al vertice di Copenaghen i black bloc attiravano (o distoglievano, a seconda del punto di vista) l’attenzione del pubblico mondiale. Una bomba in un ateneo privato, mentre gli studenti italiani manifestavano per la scuola pubblica. Una bomba gravida d’odio proprio mentre Berlusconi, percosso al volto ma non domo, si dichiarava sicuro della “Vittoria finale dell’Amore”. Tanto maldestre in fatto di detonatori, queste Sorelle, quanto raffinate nella scelta dei luoghi e dei momenti più suggestivi. Raffinatezza che molti hanno voluto trovare sospetta – non saremmo più in Italia se pochi minuti dopo il ritrovamento della bomba non fosse già fiorita una specifica dietrologia. Ma bisogna anche capirci: abbiamo stragi che aspettano un colpevole da trent’anni, poliziotti che piazzano molotov… con simili precedenti è effettivamente dura per un’organizzazione terroristica alle prime armi farsi prendere sul serio. 

Il comunicato non aiuta, perché le citazioni che fino a qualche anno fa avrebbero dimostrato inoppugnabilmente il radicamento delle Sorelle nell’anarcoinsurrezionalismo ‘latino’ (la citazione dell’anarchico spagnolo Pombo da Silva, il richiamo all’anarchico cileno Mauricio Morales), nell’era di google diventano facilmente falsificabili: chiunque può farsi una cultura su da Silva o Morales in dieci minuti, e magari condirla con un verso di De Andrè che fa sempre anarchia. Questo in effetti è il punto meno credibile del comunicato: un anarchico che cita De Andrè è un po’ banale, ma un anarchico che cita De Andrè fraintendendolo così (il Bombarolo che vuole terrorizzare per non “ammalarsi di terrore” è un borghesotto figlio di papà) o è un ragazzino o un impostore. Brutta storia in entrambi i casi.

L’attenzione dei giornalisti si è concentrata sulla sillaba finale
. Bastano infatti tre lettere, la sigla Fai, per trasformare la bomba di un gruppo sconosciuto nell’ultima azione del più temibile gruppo terroristico italiano. La Fai, spiegano, sta per Federazione Anarchica Informale: e se ti dicono così, significa che la Fai ha già vinto. Non la guerra, ma almeno una battaglia di immagine contro la vera FAI, la Federazione Anarchica Italiana nata nel 1945, editrice della malatestiana Umanità Nova e depositaria della storia più nobile dell’Anarchia italiana. La storica FAI non ha mai perso un’occasione per dissociarsi dal gruppo di bombaroli che ne usurpa la sigla: anche in questo momento sul suo sito compare un comunicato che “denuncia la natura oggettivamente provocatoria e antianarchica delle esplosioni di Milano e Gradisca d'Isonzo”. Fatica sprecata: ormai per il grande pubblico la Fai sono gli anarchici che mettono le bombe. “La principale minaccia terroristica di matrice anarco-insurrezionalista a livello nazionale», secondo l’AISI (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna). Se non proprio l’unica. 

Una “galassia”, scrive Paolo Colonnello sulla Stampa, addirittura un “universo che nel 2003 provò a colpire Prodi”. Visti gli effettivi attentati portati a termine sarebbe il caso di parlare, più che di galassia, di una costellazione. Una manciata di gruppetti, disseminati in tutt’Italia, senza nessuna velleità di costituire un movimento armato unitario (anzi, la frammentarietà è quasi rivendicata), che tra il 2003 e il 2006 hanno piazzato e spedito ordigni che anche quando sono scoppiati non sempre sono riusciti a guadagnarsi le prime pagine. Unico risultato concreto: oggi la sigla Fai è cosa loro. Fino al 2006 le periodiche consegne esplosive della Fai informale ribadivano l’esistenza di una corrente sotterranea violenta annidata tra le pieghe del “Movimento dei Movimenti”. Per i Movimenti invece la Fai informale non è mai esistita: si trattava di infiltrati, servi del potere. I loro comunicati, come s’è visto, non appaiono molto convincenti.

Forse la sola testimonianza a favore della ‘genuinità’ della Fai è l’unico bizzarro comunicato divulgato su internet, dal sito Anarchaos.it (ma “a semplice scopo informativo”). Risale al Natale del 2006 e porta il nome di “Documento-Incontro della Federazione Anarchica Informale a 4 anni dalla nascita”. Dopo una cronistoria accurata delle azioni compiute dai gruppi prima e dopo la nascita della Fai informale, il Documento riporta i verbali di una riunione natalizia in… “casa di Paperino”. Sì, perché per ragioni di segretezza i nomi degli esponenti dei vari gruppi (“COOPERATIVA ARTIGIANA FUOCO E AFFINI, BRIGATA 20 LUGLIO, CELLULE CONTRO IL CAPITALE, IL CARCERE, I SUOI CARCERIERI E LE SUE CELLE, SOLIDARIETA’ INTERNAZIONALE”) sono sostituiti da quelli della banda Disney. 
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Gran giorno nel pollaio

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Questo pezzo è stato scritto esattamente un anno fa. Lo ricopio senza neanche correggere la punteggiatura.

Quest'uomo vecchio, quest'uomo stanco.
Quest'uomo che sta dall'altra parte del mondo, col prevedibile mal di testa da jet-lag, che torna in albergo e si mette a scanalare sul satellite finché non trova Annozero, e ci trova gli ex amici che parlano di lui come una cosa finita, un cadavere da spolpare con calma; e sullo sfondo, il dettaglio delle sue rughe in technicolor.
Quest'uomo solo, circondato da lacchè che non hanno nulla di buono da suggerirgli, ma gli ostruiscono la visione; quest'uomo in preda alle sue più triviali ossessioni. Quest'uomo al capolinea.
Quest'uomo.
Questo rivince le elezioni quando vuole.

Volete rifarle domani? Le rivince domani.
Volete aspettare sei mesi? Aspetta anche lui, si rilassa un po', si sfoga. E tra sei mesi le rivince.
Allora magari tra un anno? L'Italia può aspettare un anno?
Se è per questo è da quindici anni che aspetta. Quest'uomo è sempre lì, non molla.
Dite che mi sbaglio? Ma davvero, ci spero, sarei così contento di sbagliarmi. Di non aver capito niente. Lo scriverò su tutti i muri dell'internet, sono Leonardo e non capisco niente, non leggete i miei blogs e sputatemi addosso.

Dite che non mi fido degli italiani? Il solito snob che li ritiene una massa di... guardate, non lo so. Mi attengo ai fatti: gli italiani sono più o meno gli stessi e lui di solito vince; anche quando perde, perde di misura, prende fiato e poi rivince di nuovo. L'unica cosa che in politica gli riesce sono le campagne elettorali. Di sicuro i mezzi non gli mancano. Sembra un po' più stanco, ma nei manifesti non si vedrà.

Lo so che in questi giorni c'è il gioco a smarcarsi, che persino Feltri non ne può più, e anche la mascella di Belpietro è in fase calante. Poi però comincia la campagna e si scoprirà che i candidati del Pd sono tutti noti omosessuali attenzionati. È uno sporco lavoro, ma pagano bene.

Lo so che ultimamente è partito il tiro al piccione. Ma la campagna è lunga, e si vince in tv, sui giornali, mettiamoci anche youtube e facebook, giusto per stare larghi. In ogni caso, Berlusconi continua a possedere tre canali; sugli altri ha disseminato uomini di fiducia. Se pensate di batterlo senza neanche (diciamo la parola) epurare Minzolini, ecco, state commettendo il solito fatale errore di sottovalutazione. In campagna elettorale i tg servono. E non per il numero di minuti che danno a un candidato all'altro.

Abbiamo già visto cosa succede. Preparatevi a una nuova travolgente ondata di microcriminalità, tutte le sere verso le 20:00 uno tsunami di stupratori seriali, torvi muratori rumeni, svaligiatori di appartamenti di vecchiette, zingari che rubano gli organi ai bambini, pericolosissimi lavatori di parabrezza ai semafori. Sono al confine che aspettano che vinca la sinistra e apra i cancelli alle orde di Og e Magog. La prima settimana vi sembrerà strano. Dopo un mese non ne potrete più. Dopo tre mesi comincerete a pensare che sì, Berlusconi esagera, però la sinistra ha veramente qualcosa da rimproverarsi per quella legge troppo lassista, come si chiama... la Bossi-Fini, già. E la mafia? Berlusconi li aveva fatti tutti arrestare, ma adesso rialzano il capo! A Caltanissetta è andata a fuoco una tabaccheria. E i rifiuti? Berlusconi li aveva tolti da Napoli, ma sono rispuntati, è andata la Jervolino in persona a riprenderli dalle discariche per rimetterli nei vichi.

Dite che gli italiani non ci cascano più? E perché? Sul serio, cosa cambia stavolta?
Perché lo hanno già visto promettere e non mantenere? Ma non è colpa sua, lo sanno tutti che lui avrebbe cambiato l'Italia da un pezzo se non fosse stato bloccato dai suoi falsi amici, quei traditori, quinte colonne della sinistra, Casini Fini e compagnia. Stavolta c'è solo lui. Riempirà il parlamento di bambole gonfiabili e ci farà riscrivere la costituzione.

Perché non dovrebbe succedere? Vogliamo guardare realisticamente alle forze in campo? Nessuno discute l'inettitudine di Berlusconi a governare. Ma nessuno si è permesso di togliergli quella straordinaria corazzata mediatica che non ha smesso un attimo di funzionare. Se poi non volete nemmeno cambiare la legge elettorale che si è disegnato su misura... vabbe', allora ditelo, che sconfiggerlo non è nemmeno la vostra priorità.

Prendi Matteo Renzi. Voglio immaginare che abbia idee cento volte più fresche di quelle che aveva Veltroni tre anni fa. Ma la sua fretta di concludere è veltroniana al 100%. Dai che ce la facciamo, e se poi non ce la facciamo? Pazienza, probabilmente la sinistra che uscirà dalle elezioni sarà ancora minoritaria... ma un po' più simile a noi. Questa è esattamente la trappola in cui cadde Veltroni. Dopo aver fatto fuori la sinistra, sperava almeno di essersi guadagnato il ruolo di capo dell'opposizione, primo ministro ombra. Si è fatto cucinare a fuoco lento. Berlusconi è così. Ti attira con l'immagine del vecchietto ormai sfibrato, ti fa lavorare per lui, ti stanca e poi ti mangia vivo. E quindi che si fa?

Si cambiano le regole. Sul serio, bisogna essere polli per continuare a giocare contro Berlusconi con un regolamento che si è fatto scrivere lui.
Tutto qui? È sufficiente cambiare la legge elettorale? No. Anzi, è il momento di fare il passo più difficile. Berlusconi non è semplicemente inadeguato a governare. Berlusconi è una minaccia per la democrazia. Le sue tv, i suoi giornali, i suoi uomini, impediscono agli italiani di scegliere serenamente i loro rappresentanti e il loro futuro.

Ieri ad Anno Zero Bocchino si comportava in un modo strano.
Continuava a prospettare un futuro parlamento in mano a “Piersilvio e Marina”. Lo avrà ripetuto cinque o sei volte, con l'insistenza di un ipnotizzatore. Voleva raggiungerci su un piano subconscio. O più semplicemente ci sospetta tutti rintronati e vuole insistere sul concetto. Perché sembrano sempre due ragazzini, Piersilvio e Marina. Ma è un bel pezzo che il primo ha in mano almeno metà della tv italiana; l'altra, la prima casa editrice. Ora, perché due signori molto potenti e facoltosi dovrebbero gettare la spugna? Perché il papà è vecchio e stanco? Ma Mediaset non è Silvio Berlusconi. È un'azienda, e le aziende lottano per sopravvivere. Mediaset potrebbe trovare un modus vivendi con una nuova Italia deberlusconizzata? Potrebbe sopravvivere alla fine di quel regime straordinario che da Craxi in poi le ha garantito di infischiarsi di tutte le regole più elementari di un regime di concorrenza? Forse sì, ma è un rischio che la famiglia Berlusconi vuole davvero correre? Hanno in mano i comandi della corazzata: devono arrendersi senza lottare? Non è il loro stile. Se il papà è stanco, troveranno un nuovo candidato, dentro la famiglia o fuori. Il berlusconismo non finisce con Silvio Berlusconi, perché dovrebbe?

Il berlusconismo secondo me non può che finire con un atto di forza. In un momento di difficoltà, come per esempio questo, tutti gli avversari politici di SB dovranno accettare una semplice idea, che fa ancora molta fatica a passare: che Berlusconi è un criminale, che ha truffato gli italiani per vent'anni, e che i criminali non si sconfiggono alle elezioni. Non partecipano nemmeno. I criminali si arrestano, e i beni che hanno alienato alla collettività si sequestrano. In ogni caso le prigioni italiane scoppiano e nessuno ha veramente voglia di vederci entrare un vecchietto, per quanto arzillo. Che patteggi, che se ne fugga in qualche isola ai Caraibi con una parte del bottino. Questo non è difficile da concepire. Il problema è la famiglia. Può accettare che la festa è finita, o può mettere i sacchi di sabbia alle finestre. Conoscendo il padre, io mi preparo al peggio. Saranno comunque tempi interessanti.

Certe favole esistono in tutte le nazioni; certe altre soltanto in Germania, o in Russia, o nella favolosa fantasia di Andersen. Ma io ne so una che è nata in Italia, e che forse né tedeschi né russi né Andersen avrebbero potuto immaginare: la favola delle galline che trovano una volpe morta e le fanno il funerale. Nel culmine della cerimonia, circondata dall'affetto dei pietosi pennuti, la volpe si rialza e ne fa strage. La notizia fa il giro dei pollai; ma qualche tempo la stessa volpe si fa ritrovare morta, e le galline che la trovano che ne fanno? Le rifanno il funerale. E così all'infinito. Direte che chi l'ha scritta non amava gli italiani. No: voleva soltanto che leggessero, che ridessero delle galline, e che da grandi si ricordassero, al momento giusto, di essere più intelligenti. Qualsiasi momento, da quindici anni in qua, sarebbe andato bene.
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Ognibene ippopotamo in Kenya

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(1996)

Esso è la prima delle opere di Dio;
il suo creatore lo ha fornito di difesa.

Giobbe 40,19

– I primi ad accorgersene sono gli avvoltoi.

Visto da una buona distanza in verticale, sembra trattarsi di un salsicciotto intriso in una densa salsa di fango. È Ognibene, che si prende cura del suo stagno. Poche settimane fa si trattava di una vasta laguna: oggi non è che una polla di melma che lo contiene a malapena. Domani, se il caldo non cesserà - e perché dovrebbe? la stagione arida è al suo culmine - sarà forse una tomba d'argilla screpolata. Ognibene ne è consapevole: diciamo pure che ne è sicuro, ora che ha sentito l'ombra nervosa degli avvoltoi danzargli sul capo. Eppure non è vecchio: il pensiero della morte dovrebbe investirlo di indignazione. Se solo non facesse così caldo, troppo caldo per pensare a qualsiasi cosa... E poi il giorno è fatto per dormire, pensa Ognibene. Se mi riuscisse di prender sonno, tutto sarebbe più semplice.

Di tanti piccoli lacchè che lo servivano e lo adoravano, non ne è rimasto che uno. È un uccelletto dal piumaggio nero, che si ostina ancora a cercar parassiti sulla crosta fangosa che copre la poderosa schiena del gigante. "Bel Dio mi sono scelto - penserà, a modo suo - un Dio che si lascia morire di siccità! A pochi voli di distanza da qui c'è il fiume: un grande fiume in giorni lontani, oggi non più che un rigagnolo, è vero: ma pur sempre un corso d'acqua limpida... laggiù gli Dei meno testardi si stringono ormai muso contro muso per conservare un posto al fresco: ma non il mio, il mio preferisce difendere il suo regno: e domani sarà cibo da avvoltoi - guardali, lassù - e da iene".


Dal canto suo Ognibene sbuffa, defeca. Un tempo questa era una gioia - nel tempo, intendi, della stagione dolce e dell'acqua limpida, quando sulla scia di feci che il gigante sparge qua e là, scodinzolando, accorrono nugoli di pesciolini festosi e variopinti. Anche per loro Ognibene è senz'altro un Dio, terribile nella sua maestosa apparizione (Signore delle correnti, Portatore di cibo, Essere immenso che trascende, con la sua mole, i limiti liquidi dell'universo). E invece, oggi: splunf, ploch, tutto questo ben di Dio buttato via. Ognibene sprofonda nei suoi stessi rifiuti.

Certo, non la si direbbe una fine dignitosa. Eppure se Ognibene resta qui è per pura coerenza. Se tu hai dei principi, se tu hai dei valori - e quale valore più grande del territorio, per un ippopotamo? - non puoi decidere di averli soltanto nove mesi all'anno, quando ti fa più comodo. D'accordo, se egli sapesse essere più elastico nel praticare i suoi valori, avrebbe più possibilità di resistere. D'accordo, probabilmente sono gli ippopotami più elastici a salvarsi, non quelli più fedeli e coerenti alle proprie convinzioni. Ma francamente - pensa Ognibene - non vedo proprio che senso avrebbe vivere, senza qualcosa di sacro. Lascio volentieri sopravvivere chi ne sente l'esigenza. Io preferisco rimanere fedele a me stesso, ai miei valori.

(Approvano dall'alto gli avvoltoi. Finalmente qualcuno che ha valori).

Si scuote da una fantasticheria il gigante, per reimmergersi immediatamente nei suoi pensieri - e nel fango, senza riuscire per altro a coprirsi interamente. L'uccelletto scatta in volo per evitare d'infangarsi. Se solo si decidesse, questo pigro Dio. Forse ce la fa ancora ad alzarsi. Ma non gli do un altro sole. E sono già troppo buono. Ah, non so nemmeno perché sto qui a perdere il mio tempo. Questo qui morirà annegato nella sua merda. Non mi merita.


Ognibene, lo ascolti, il tuo ultimo devoto fedele? Ognibene è in dormiveglia; cerca forse di andarsene senza disturbare nessuno. Se gli riuscisse, tra un pigro pensiero e l'altro, di smettere di respirare senza volere, se per distrazione le narici aperte a fior d'acqua non scendessero un po', otturandosi di fango una volta per tutte... Forse, pensa lui, se mi perdo tra i ricordi...

– Ma se poi finalmente prende sonno, il suo primo sogno è il Grande. Un'ombra soltanto, in realtà, un'idea vaga di una perdita, la sensazione di una promessa fatta: e non aspettatevi qualcosa di più preciso, dai sogni di un ippopotamo.

Il Grande, dunque - ma forse soltanto quattro denti grigi, enormi, spaventosi, tra i quali il destro superiore è quello orribilmente scheggiato, chissà in quale battaglia con chissà quale malcapitato rivale. Più d'ogni cosa il Grande è terribile per quel dente anomalo, che Madre Natura non gli provvide affatto: se lo procurò lui, da solo, come trofeo d'odio e di potenza. (C'è mai stato un animale più perfido dell'ippopotamo? L'unico che attenti alla vita del suo simile...). Quel dente spaccato, acuminato, può aprire squarci fatali nella più robusta delle corazze: ma quel giorno memorabile Ognibene a dire il vero aveva ancora la scorza rosea e delicata di un ragazzino che ha appena abbandonato le madri per andare a cercarsi un territorio. E che, per un misto d'ignoranza e sbadataggine, non ha fatto caso a certi chiari confini segnati sulla spiaggetta sabbiosa della laguna (due monumentali escrementi neri): insomma, immaginate il giovane ippopotamo più sprovveduto al mondo ritagliarsi il suo spazio nel bel mezzo della giurisdizione del maschio dominante più grande e feroce. Su chi scommettereste?

Ognibene beatamente ignaro oziava, naso ed occhi a fior d'acqua, godendosi la sua prima giornata di maturità, quando vide emergere d'un tratto la bocca già spalancata pronta al combattimento: quella bocca enorme, vecchia, rugosa, la porta franata di una galleria infernale: quella bocca e quei denti che il nostro eroe sogna da allora ad ogni sonno inquieto.

Il tempo di un barrito, ed il piccolo è già in fuga sott'acqua, veloce come nemmeno lui si sarebbe sognato di nuotare. Il Grande, che non vuole averla subito vinta, lo insegue: ma perde distanza. Ognibene ha muscoli scattanti e adrenalina. Ma lo spavento lo ha fatto immergere senza quasi il tempo di prender fiato, e il Grande, vecchia volpe, questo lo sa. A Ognibene basterebbe alzare un poco il muso per succhiare a fior d'acqua tutta l'aria di cui ha bisogno: questo è quello che farebbe qualsiasi ippopotamo ragionevole. Ma Ognibene, inesperto e in preda al panico, non farà così, ed il Grande lo sa benissimo. Piuttosto, non appena la sua fuga disordinata non lo porterà vicino a riva, vorrà fermarsi e alzare il muso intero, per assicurarsi di essere salvo. Orbene, è lì che il Grande corre ad attendere il piccino per spaventarlo di nuovo a morte, emergendo dall'acqua all'improvviso con le fauci spalancate.

Ognibene ora è in trappola: il Grande lo ha chiuso contro la riva del fiume. Certo, la fuga e l'inseguimento potrebbero continuare in campo asciutto: ma lì la mole del Grande è persino più temibile. Del resto per un ippopotamo la fuga equivale alla resa: ma che può fare ancora chi si è già arreso incondizionatamente? Ognibene non lo sa, non ha nemmeno tutto questo tempo per riflettere: dopo tutto, è solo un ippopotamo. L'istinto, in questi casi, può tirare strani scherzi. Di nuovo di fronte ai quattro denti orribili, Ognibene di scatto abbassa il capo nell'acqua, in apparente segno di riverenza: ma poi immediatamente lo risolleva in alto, le mascelle spalancate a sprizzare ettolitri d'acqua sul muso del Grande. Che affronto!

Il nostro eroe forse non lo sa (egli del resto non ha fatto che ripetere d'istinto la mossa di tante allegre battaglie vinte coi cugini all'asilo), ma ha commesso un atto di straordinaria impudenza. Spruzzare acqua sul muso dell'avversario, equivale, nella retorica marziale degli ippopotami, a una dimostrazione di potenza, al più teatrale dei segni di sfida. (Esiste forse in natura un animale più civile dell'ippopotamo, che combatte le sue guerre con la retorica, e non con la violenza? Ma d'altro canto, vi è al mondo una creatura più ipocrita di questa, che nasconde dietro gesti rituali il proprio istintivo odio verso il prossimo?) Il Grande, che forse in gioventù ha sfigurato dei rivali per molto meno, rimane interdetto. Sono anni che nessuno osa più spruzzarlo. Di solito tutto quello che deve fare è mostrare un po' i denti, e tutti scappano. Certo, ogni tanto si trova l'imbecille che è convinto di essere il più forte, insomma il classico attaccabrighe a caccia di cicatrici: e il Grande li incontra sempre volentieri questi qui, è sempre felice di poterli accontentare. Sì, perché la crosta dell'ippopotamo si rimargina in fretta, ma il segno dello sfregio resta: e un paio di segni è quello che ci vuole per crescere un po', sanguini per un paio di giorni ed intanto impari alcune cose, metti giudizio, insomma. È questo ciò che vuole il giovane Ognibene? Il Grande esita, strano per lui. Ognibene ha ricacciato il muso giù, nell'acqua, imbarazzato. Mamma mia l'ho fatta grossa, penserà. Il Grande lo guarda a bocca chiusa.

Perché ti risparmiò, Ognibene? Perché ti lasciò andare, senza neppure lasciarti un segno? Certo suona assurdo interrogarsi sui pensieri di un ippopotamo. Blasfemo, anche. Eppure: cosa gli passò per la testa in quel momento? Forse valutò che, per farti pagare l'affronto occorreva dissanguarti, magari ucciderti, e quel pomeriggio non aveva voglia? Forse non ti considerò nemmeno, pensò che trionfare su uno sfidante così inetto era un'infamia. O magari ti prese in simpatia per quel gesto folle, riconoscendo nella tua sfacciataggine quella delle sue prime batoste... Più probabilmente ti riconobbe per un bambino allontanatosi per sbaglio dall'asilo, le cui spruzzate non vanno prese sul serio perché si sa come sono i bambini. Fatto sta che rinunciò. Diede un grugnito, a bocca chiusa, e ti voltò le spalle. Bastò il grugnito a farti scappar via, a terra.

Questo, Ognibene, il tuo primo, fallimentare debutto in società. Oltre la laguna, sul greto del fiume, le mamme del tuo asilo ti riaccolsero come se nulla fosse successo. (Vi è in natura creatura più amorevole dell'ippopotamo, vi è una madre più generosa di quella che assiste a turno a tutti i cuccioli, e li riaccoglie tra sé quando essi, delusi dalla vita adulta, vogliono tornare?) Soltanto il Grande era stato testimone del tuo fallimento. Il Grande? Se tutti gli adulti erano come lui, tu potevi ben dire addio alla speranza di crescere mai...

– Invece crebbe, Ognibene: non ci mise un giorno e nemmeno una stagione; ci vollero altre prove, ed altri fallimenti, ma alla fine crebbe. Chi l'avrebbe immaginato, eppure succede a molti. Venne il giorno della vittoria, il giorno in cui altri chinarono il capo davanti a lui, e - ci credereste? Ognibene, che tanto aveva sognato quel giorno, disperando che arrivasse mai, ora non ci trovò nulla di particolare: lo considerò una cosa ovvia, una cosa dovuta. Ora era un maschio dominante, e i maschi dominanti hanno sempre la meglio, non c'è nemmeno da gloriarsene. Così, di lì a pochi anni, Ognibene divenne un protagonista. Le femmine lo cercavano volentieri, perché lui era socievole e generoso quanto bastava, e gli altri maschi si tenevano ad una rispettosa distanza. Prima che tornasse per la ventesima volta la stagione arida, Ognibene era già uno dei padri più richiesti e prolifici, e portava sulla pelle i segni del suo coraggio: proprio in quel periodo trovò anche modo, in una rissa, di scheggiarsi un dente. Sempre in quell'estate gli capitò, per la seconda ed ultima volta, d'incontrare il Grande.

Non saprei dirvi se lo riconobbe - del resto ora il più grande era lui. Inoltre era notte - luna piena - ora di pascolo, e l'istinto portava il nostro eroe affamato su sentieri nuovi, eppure in un qualche modo familiari. C'era odore di rivale in giro, ma Ognibene era tranquillo: la zona era piena di germogli. Dove passa un ippopotamo, non può esserci tanta abbondanza: allora, o il rivale è ammalato, o è morto addirittura. In ogni caso che si facesse vivo lui, se ci teneva: Ognibene non aveva paura di nessuno.

Non aveva tutti i torti. La stagione arida è sempre il momento critico, per gli ippopotami: gli specchi d'acqua si contraggono in polle di fango, e la maggior parte degli inquilini delle lagune scendono al fiume: là in pochi metri si addensano decine di ippopotami, e sono naturalmente risse a non finire. Poco cibo, poca acqua, nervi tesi: se passi l'estate hai passato il peggio. Ma accade a volte che alcuni tra i maschi dominanti rifiutino la promiscuità del fiume. Si sa, quando non fai che pensare al territorio, questo comincia a diventare un'ossessione. Così, talvolta, il territorio finisce per farti da tomba, quando al culmine della stagione il fango si asciuga fino a chiuderti in una morsa di creta secca.

Ognibene probabilmente non rammentò che il sentiero, sul quale un curioso istinto lo guidava, era quello percorso con trepidazione anni prima, nella prima libera uscita della giovinezza. E che la laguna, niente più di una polla di fango ora, era stato il teatro della sua prima battaglia. Fu lì, alla luce della luna che Ognibene lo vide: un vecchio conservatore prigioniero della sua testardaggine. Le crepe della sua corazza si confondevano con le screpolature dell'argilla. Cercò in un qualche modo di comunicare con lui? Provò ad aiutarlo, a dissuaderlo dall'assurdità del suo gesto? Anche se ne fosse stato in un qualche modo capace, Ognibene era arrivato troppo tardi. Non trovò di meglio che rimanere lì, perplesso, a vedere come se ne va un Grande. (Vi è al modo creatura più pietosa dell'ippopotamo, che veglia sulla sofferenza e sulla morte dei suoi simili?) Forse fu là in tempo per vederlo chiudere gli occhi: in ogni caso arrivò prima dei coccodrilli.

Ne passò un paio, mezz'ora dopo: gente coriacea, messasi in viaggio apposta dal fiume per quel salsicciotto cotto alla creta. Del resto bisogna capirli, l'Estate è dura per tutti.

Ognibene ha sempre odiato i coccodrilli: il suo più grande spavento di bambino fu il giorno che un finto tronco galleggiante, rasente la riva, non sollevò all'improvviso due spaventose tenaglie a pochi metri dal cucciolo: non fosse stato per sua madre, sempre all'erta, le avventure di Ognibene Ippopotamo sarebbero terminate lì. Ecco cosa le aveva insegnato d'importante sua madre buonanima: tutti temono i coccodrilli, ma i coccodrilli temono gli ippopotami. Quando vide che ringhiare a bocca aperta non li teneva lontani, Ognibene partì alla carica. Senza darci troppo dentro, o li avrebbe raggiunti: mentre invece il suo scopo era semplicemente allontanarli. Andò avanti per quasi duecento metri, poi li perse di vista e tornò indietro: c'era il rischio che quei rettili lo avessero aggirato. E poi...

(Si era appena voltato verso la tomba del Grande, quando udì il primo latrato). Ecco, arrivavano le iene.

I coccodrilli, le iene, e prima dell'alba sarebbero arrivati anche alcuni avvoltoi: ma a quell'ora Ognibene aveva già abbandonato la sua veglia funebre, distrutto. I coccodrilli li avrebbe sempre tenuti lontani, ma le iene sono terribili, col loro maledetto gioco di squadra. Prima o poi Ognibene era dovuto cascare in un loro tranello, depistato da una iena mentre l'altra affondava i canini nella schiena del Grande. Poi, non c'era stato più nulla da fare: gli spazzini, confortati dal successo e allettati dall'odore del sangue, erano tornati all'attacco ancora e ancora. Alla fine il branco era talmente numeroso che Ognibene fu praticamente ridotto alla fuga. Tornando nello stesso luogo, la sera successiva, vide le costole del Grande emergere dall'argilla; le iene se ne erano andate, mentre alcuni coccodrilli stazionavano: li mise in rotta. La notte seguente andò allo stesso modo. La quarta notte Ognibene non trovò nessuno: brucò erba e germogli tutt'intorno, e si chiese cosa ci faceva lì: non era suo territorio, e non era nemmeno un posto particolarmente felice.

Tre notti dopo scese la prima pioggia, improvvisa e tanto attesa. Dalle parti del Grande si rifecero vivi gli spazzini: cercavano altri resti della carcassa sotto l'argilla. Ognibene non li degnò d'uno sguardo. Passava di lì spesso, tutto sommato il posto gli piaceva; forse gli ricordava qualcosa (Cosa?) Col tempo, finì per eleggere la laguna (ora una vasta e dolce laguna, feconda di piante acquatiche e pesci) a capitale del suo territorio. Vi è forse creatura più felice dell'ippopotamo nella stagione delle piogge? La Natura lo ha provvisto di tutto, e nessun altro animale osa averlo per nemico. Soddisfatto della sua nuova e, il giovane ippopotamo dimenticò il Grande (solo i suoi denti orribili tornavano a visitarlo ad ogni sogno inquieto): o meglio, dimenticò che il Grande fosse mai stato qualcun altro se non lui.

– Perciò, nell'ultima tua stagione arida, Ognibene, quando da tempo la tua mole e i tuoi canini dominano incontrastati (ma le femmine negli ultimi anni, non gradendo il tuo pessimo umore, ti hanno decisamente emarginato), non ti resta che recitare la tua fine ingloriosa e coerente, nella morsa fangosa delle tue convinzioni. È un copione che già sai, anche se non ricordi il padre da cui l'hai appreso: ma in questa vita è il tuo copione. È già notte, notte di luna piena sull'altipiano: l'ultimo uccello nero ti ha lasciato da un pezzo. Difficile per un ippopotamo dormire di notte: e gli strilli di questi avvoltoi poi, sono una tale noia... forse con una buona spinta ce la faresti ancora a sollevarti; sei molto più forte di quanto non si creda; e fuori di lì c'è ancora qualcosa da brucare: nessuno può darti noia, tu sei il Grande. Ma il fatto è che non vuoi.
Ora, che male c'è in fondo se un ippopotamo preferisce morire, per coerenza, o pigrizia, o qualsiasi altro motivo? Esso è sempre un dono: da vivo mantiene pesci e uccelli, da morto satolla coccodrilli e iene. Se non lo molesti non ti darà fastidio: e nessuno lo molesta, gli stessi leoni e le pantere se ne guardano bene. La natura gli ha dato tutto. Chi non ha avversari degni, deve saper decidere la sua fine da solo. E così Ognibene: il più potente, il più grande, la prima delle opere di Dio.



******* FINE DELLE 21 NOTTI *******

Grazie per la pazienza
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La strage alla sagra d'Autunno

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(2000)
Lo lasci dire a me che lo conoscevo, brigadiere: Fischio non era un tipo cattivo.

Sì. Faceva il deejay. Che vuol dire, è un mestiere come un altro: peggio di tanti altri, coi tempi che corrono. La fiera d’Autunno del 2015 finiva quella sera; cominciava a far fresco. Tra un po’ la gente avrebbe cominciato a passare le serate nei locali al chiuso, ma quell’anno Fischio non aveva nessun contratto con nessun locale. Insomma era l’ultima volta che metteva su i suoi dischi, e a nessuno gliene fregava niente. Nello Stand Giovani della fiera ci saranno state una ventina di persone si e no.

32, dice lei?

Ah, lo dice il comunicato ufficiale.

Non so, forse qualcuno da fuori ha sentito il casino e ha cercato di intervenire. Cosa crede, non si sono mica tutti arresi senza combattere… io? io quando ho visto che perdevo sangue dalla testa mi sono gettato a terra, ho fatto il morto. Lei cos’avrebbe fatto? Erano cinque a uno, Brigadiere.

No, no, mi stia a sentire, non ci fu nessuna provocazione. O meglio. Io penso che sia stato un errore mettere lo Stand Giovani così vicino allo Spazio Ricreativo Terza Età. Quelli hanno un sacco di soldi e fanno il pienone tutte le sere – ma soprattutto hanno un sound system, mi permetta, della madonna. Fischio doveva portare le casse sue da casa, e poteva anche averci della roba buona, ma senz’altro era il liscio romagnolo a sovrastare la techno, non il contrario. Quel maledetto tre quarti tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… faceva uscire di testa. Già si era in pochi, e sempre gli stessi, come si faceva a farsi venire voglia di ballare? Venivamo solo per fare piacere a Fischio.

Brigadiere, non mi guardi così, lei mi crede fatto o chissà che, ma è solo stanchezza. Io dopo i funerali ieri sono andato al lavoro, cosa crede?

Sì il turno di notte. In casa di riposo, naturalmente. È un interinale. La settimana scorsa facevo la vendemmia, la sera si e no mi tenevo in piedi, secondo lei mi ci sarei buttato di mia volontà in un casino così? Senta, ho 28 anni, due lauree brevi e un diploma di specializzazione. L’altro giorno ho fatto il calcolo e ho scoperto che andrò in pensione a centovent’anni. Non è male, guardi, conosco sì, , certo, se la speranza attuale di vita è 135… Ma lei, mi permetta, brigadiere, quanti ne ha? Ottantasei? E ci va l’anno prossimo? Ah, però.

Io me la vedo male, Brigadiere, sa? A casa mi devo nascondere. Mio padre non mi vuol vedere, mio nonno mi disprezza, e la bisnonna mi chiama a voce alta dalle scale: fannullone, parassita, bamboccione. E cosa ci posso fare? Tra due anni ci sarà il concorso, e con un po’ di fortuna finirò in graduatoria, diciamo tra i primi duecento: altri dieci anni e mi sistemo. Un bilocale con la mia ragazza… chi lo sa, magari un figlio… Ma nel frattempo debbo vivere coi miei, non c’è rimedio…

…mi chiede questo cosa c’entra… beh, Fischio era nella mia stessa situazione… o peggio. Vivere coi genitori (e i nonni) per un deejay è una vera umiliazione… tutto il giorno, sentirti interrompere da una voce che ti dice tesoro, per favore abbassa il volume, stiamo cercando di vedere la milleseicentesima puntata di cuorinfranti o chennesò… esasperante… e so per certo che la settimana scorsa la ragazza lo aveva mollato: è andata a vivere con un sessantenne del ramo import-export, un tipo sportivo… uno col porsche coupé, ha presente… Fischio, per dire, era uno che si faceva prestare l’apecar del nonno, che a trasportare l’impianto gli servivano due giri…

No, apparentemente non l’aveva presa male, però chi lo sa, magari dentro ci moriva. Sono cose difficili da sopportare, alla nostra età… Per di più dal giorno dopo sarebbe stato ufficialmente disoccupato. Brigadiere! per un disoccupato alla nostra età non c’è speranza, non c’è sussidio! Sì, sì d’accordo, se al posto della patente da tecnico del suono avesse preso, per dire, quella da conducente di carrozzine, il lavoro non gli sarebbe mancato: ma i giovani devono seguire i propri interessi, non è quello che si dice sempre a scuola?

E poi i giovani devono divertirsi finché hanno il tempo. Si sente dire anche questa. E io faccio il possibile per divertirmi, per esempio l’altra sera mi sono sforzato di uscire per andare a sentire il mio amico Fischio deejay. Anche se lo sapevo già che lo Stand era un mortorio, mi perdoni la battuta orribile. Le solite facce arrabbiate – no, neanche arrabbiate: stanche. Tante smorfie non erano che sbadigli repressi.

E a pochi metri da noi, quei vecchi – pardon – quegli anziani scatenati, in centinaia a strusciarsi senza ritegno con le loro polche e le loro mazurche, tutto il tempo, ump ta ta, ump ta ta… tra cent’anni vivranno ancora e ascolteranno ancora la stessa musica, mi diceva sempre Fischio. Non si schiodano. Certo, per quel che devono fare domattina, diceva ancora… svegliarsi a mezzogiorno e andare a tirare la pensione…

Brigadiere, era l’ultimo pezzo della serata. Era l’ultima serata della fiera. Era la Sagra d’Autunno. Può anche darsi che Fischio abbia alzato un po’ il volume, può anche darsi che lo abbia tirato un po’ in lungo, e allora? Ricordo che ho dato un’occhiata al mio orologio ed era un quarto dopo mezzanotte. Ma lo sa che neanche dieci anni fa nello Stand Giovani si ballava fino alle tre? Me lo racconta sempre mio fratello più grande… ma è vero che a quel tempo eravamo più forti, più organizzati…

Insomma quand’è arrivato quel tappetto, come si chiama, Prosperi Alcide, non ci volevamo credere. Senza dire beo questo tizio, avrà avuto un’ottantina d’anni, si mette davanti alla consolle di Fischio e gli stacca la spina.

Silenzio, di colpo – silenzio per modo di dire, perché in realtà si sentiva un Ump ta ta ump ta ta incessante. E poi la voce stridula dell’Alcide si mette a rovesciare insulti su Fischio, sul tono di: drogato di merda, hai visto che ora è? va a lavorare, non ti vergogni, sei la disgrazia di tua madre e tua nonna.

Brigadiere è vero, a quel punto Fischio l’ha toccato.

Può persino darsi che lo abbia spintonato un po’. Ma è stato il gesto di un attimo, e poi il Prosperi lo abbiamo aiutato in tre a rimettersi in piedi, e ci siamo assicurati che stesse bene prima di lasciarlo andar via.

Ecco, brigadiere, il fatto – la provocazione, come dice lei – è tutta qui. Chi se lo immaginava che il Prosperi se ne sarebbe tornato di lì a cinque minuti, con un po’ di amici suoi, un’ottantina? Tutti armati di stampelle e cagnole? Dai settantenni ai centenari c’erano tutti i signori dello Spazio Ricreativo Terza Età, e secondo me si erano messi d’accordo prima. Io ho visto anche volare delle bocce, brigadiere, in particolare ne ho vista una che aveva preso la mia testa per il boccino. Venivano da tutte le parti, eravamo circondati. L’ultima cosa che ho visto è stata Fischio cadere sotto i colpi mentre cercava di difendere le casse, che erano proprio sue, se le portava da casa. Poi ho chiuso gli occhi e non ho più voluto veder niente. Ma non potevo fare a meno di sentire quel maledetto Ump ta ta, Ump ta ta, che scandisce i tre quarti in eterno.

*******


"Toh, professore", commentò l'algida Verola, "sei tornato al tuo cavallo di battaglia: le stragi! Ammetto tuttavia che non mi piacciono più come un tempo; i miei gusti variano evidentemente secondo il capriccio della stagione".
"Mia signora, anche stavolta ho fatto quel che ho potuto. Se vuole eliminarmi, non ho nessuna obiezione, tanto più che avverto sempre più un certo languore nel basso v..."
"Elimina piuttosto me, mia signora", lo interruppe allora don Tinto. "Ho tremiti e sudori freddi ed è comunque più prudente per voi due privarvi della mia presenza".
"E dove andresti, pretonzolo? Giù dabbasso a evangelizzare i lupi? Resta qui, non c'è più uscita".
"Mia signora, ho dunque vinto?"
"Se la cosa ti fa star meglio".
"Molto meglio, mia Signora", rispose don Tinto, e sorridendo spirò.




******* FINE DEL QUINTO TURNO *******




"L'abbiamo fregato", disse allora Verola al professore, "in realtà hai vinto tu".
"Non ci contavo. E adesso?"
"E adesso prova a immaginare. Ce la fai a spostare Don Tinto almeno in corridoio? Mi snerva tenermi un cadavere nell'alcova".
"Mia signora no, mi spiace, le forze mi mancano".
"Va bene, cerchiamo almeno di farlo cadere giù... ecco. Uff! Povero prete. Alla fine non ho mica capito se credeva in Dio o no".
"Credo che non si ponesse più il problema da un pezzo".
"E tu, professore?"
"Io cosa?"
"Tu Dio come lo immagini?"
"Mia signora, a questo punto più che sforzarsi di immaginare, non ci resta che avere un po' di pazienza".
"La pazienza, già. Non è tra le mie virtù".
"Lo so, mia signora".
"Ma credo di poter aspettare dignitosamente ancora un poco, se mi racconti un'ultima storia".
"Un'altra storia?"
"Siccome hai vinto la competizione, me la devi".
"Non ho più storie, mia Signora".
"Fingi d'essere Don Tinto. Raccontamene una delle sue, una storia su Dio".
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(2011)

“Quindi adesso a chi tocca? Tortora, Trani, Turoldo...”
“Mi scusi, io sono Tinto”.
“Tinto, mi lasci guardare, Tinto... avevamo appuntamento un'ora fa”.
“Sì, ecco, io... ero uscito a... a prendere una boccata d'aria, perché qui... non si respira, davvero, stavo per svenire”.
“Vabene vabene vabene, se Tortora accetta di aspettare... Ma c'è Tortora?”
“Credo sia il signore che è svenuto davvero, lo hanno portato via poco fa”.
“Meglio così. Si accomodi”.
“Certo che fa caldo qui”.
“Non me lo dica, non me lo dica. Ha con sé i documenti? Codice fiscale?”
“TNTDVD73H11HGKJFG fjhkjh lk jj dij fsaokekelleterre678”
“Codice Ibann?”
“OT709834750943446'549'65987'98'97987098760980989809483098043085094860594ì743'097ì063898u'9'29046895i6498690509ì'098098098'0ì0000000000000000000459384790578'60589890'0”
“Numero di Carta di Credito?”
“76896”.
“Pin della Carta di Credito?”
“...”
“Ahahah, stavo scherzando, ci stava per cascare eh?”
“Quanti abboccano?”
“Sempre meno, ma ne vale comunque la pena. Codice meccanografico?”
“Domodossola Livorno Cagliari Domodossola Domodossola Domodossola Pisa Milano Empoli Domodossola Domodossola Arezzo Frosinone Gaeta Domodossola Domodossola Belluno Klagenfurt Novi Ligure Piazza Al Serchio Altolà Madonna dell'Oppio...”
“Basta così. Peccati da dichiarare?”
“Mah, le solite cose: non ho santificato le feste, non ho meritato la fiducia dei miei assistiti, non ho ricambiato l'affetto inesauribile dei miei genitori, ho tradito la mia vocazione in miliardi di minuscoli modi e poi...”
“Sì, sì, ma ha portato le notule?”
“Ha ragione, mi scusi, è il caldo. Dunque... qui c'è una vecchia notifica di violazione del terzo comandamento”.
“Questo al massimo sarebbe il sesto comandamento. Lei ha commesso atti impuri”.
“Atti impuri? Io? Ma se non mi ricordo nemmeno come...”
“Sullo scontrino c'è scritto 2004”.
“Aaaaah, sì, il 2004, fu un estate difficile, poi mi ero totalmente dimenticato e...”
“La gente come lei mi fa uscire di matto”.
“Mi scusi”.
“Cioè, ha idea di che mora le faranno pagare per un minuscolo atto impuro del 2004?”
“Non ho idea, davvero”.
“Ma la gente non potrebbe essere più attenta? Dico, cosa ci vuole? Commette un peccato, le rilasciano la ricevuta, lei appena a casa la archivia in un cassetto... ma è chiedere troppo?”
“Io non so gli altri, ma io... forse non ho abbastanza cassetti in casa”.
“È quel che dicono tutti. Sa cosa le rispondo io? Balle. Siete tutti convinti di avere miliardi di peccati da dichiarare”.
“In effetti...”
“Quando alla fine sono le solite due o tre cose tutti gli anni, sa cos'è questa? Superbia. Settimo vizio capitale. La paga lei l'aliquota sul settimo vizio capitale?”
“Di solito no”.
“Forse sarebbe il caso”.
“Se lo dice lei”.
“Vabene vabene. Ha delle esenzioni?”
“Un bonifico per l'onlus ex bambini ciechi...”
“Buono”.
“E poi un contributo al canile municipale”.
“Questo non lo passiamo, mi dispiace”.
“Ma pensavo di fare del bene”.
“Noi contiamo solo il bene che si fa agli esseri umani. No cani. Tutti gli anni ve la spiego, questa cosa”.
“Ma non è giusto. Secondo me...”
“Senta, è inutile che mi spieghi l'universo secondo lei. Io sono solo quello che riempie i moduli, lo vede?”
“Mi dispiace. È che con questo caldo...”
“Non lo dica a me. Non lo dica a me. È tutto? Sicuro di non aver fatto nient'altro di buono?”
“Mi sono fermato spesso nel mio luogo di lavoro, dopo l'orario”.
“Quella non è bontà, è lavoro in nero”.
“Ma non per i soldi... l'ho fatto per risolvere dei problemi di cui mi sarei potuto fregare, invece sono rimasto lì, ho aiutato i miei colleghi, credo di aver fatto del bene...”
“Lei si crede importante e insostituibile. È convinto che senza di lei i suoi colleghi non sappiano risolvere un problema. Direi che a questo punto l'aliquota sulla superbia scatta automatica”.
“Ma avevo le migliori intenzioni...”
“Sì, sì, dite tutti così. Che caldo, Signore...”.
“È difficile fare del bene”.
“La cosa più difficile al mondo. Dunque, è tutto?”
“Tutto, sì”.
“Molto bene, allora, lei deve all'Ufficio del Giudizio trentacinque punti karma”.
“Così tanti?”
“Eh, arriva con una pendenza del 2004, cosa pretende?”
“Ma trentacinque punti... cosa mi aspetta?”
“Dunque, mi faccia vedere... noi abbiamo già cominciato a farle i perdere i capelli, direi da tre anni...”
“Da due”.
“Sì, beh, però a questo punto dobbiamo recuperare un'altra decina di punti, non resta che accelerare il passaggio alla calvizie completa”.
“La prego, mi lasci ancora stempiato per un anno. Non voglio diventare come quei quarantenni che si rasano”.
“Eh, la fa facile lei. Dove li prendiamo trentacinque punti? Col fegato come sta messo?
“È un po' grasso”.
“Senta, mi sembra di ricordare che qualche anno fa le avevamo assegnato una dermatite rara”.
“Atipica. Poi c'è stato il condono”.
“Ecco, ricominciamo progressivamente con la dermatite atipica, e dieci punti li abbiamo fatti fuori. Poi, visto che si sente così giovanile, che ne dice di una bella forfora?”
“Forfora?”
“In dodici mesi ci recupera cinque punti, che ne pensa?”
-Sigh- Vada per la forfora”.
“E poi ci sono i denti”.
“La prego, i denti no”.
“Senta, allora me lo dica lei da dove prendere altri venti punti. La colecisti ce l'ha?”
“Me l'avete presa due anni fa. Però ho ancora l'appendice”.
“L'appendice, che tenerezza. Non conta nulla l'appendice, come i denti del giudizio. Qui ci vuole una bella carie, glielo dico subito, una capsula in un molare”.
“Li ho finiti”.
“Va bene, mi dica lei cosa vuole! Calcoli renali? Alitosi? Paranoia? Faccia lei. Abbiamo una ventina di punti da recuperare”.
“Non è possibile una dilazione?”
“Un modo c'è. È un pacchetto lancio che stiamo offrendo negli ultimi tempi. Non paghi nulla per cinque anni”.
“E poi?”
“Ischemia cerebrale, invalidità semipermanente”.
“No, non credo che sia il caso, no. Non... non potrebbe aumentarmi la forfora?”
“Più di così? Magari vorrebbe anche qualche brufoletto?”
“Eh”.
“Senta, bisogna che se ne faccia una ragione. Lei va per i quaranta. Questo non è l'ufficio della fatina del dentino, questo è l'ufficio della dichiarazione dei peccati. L'acne giovanile dei suoi diciottanni non tornerà più".
"Mai più"..
"Al massimo se vuole un herpes”.
“No, non è proprio la stessa cosa”.
“Va bene, sa cosa le dico? Alziamo il livello di tolleranza alimentare”.
“Ma l'abbiamo già alzato l'anno scorso, ormai non mangio più latticini...”
“Perfetto, da qui in poi astensione completa”.
“Quanti punti karma fa?”
“Sette”.
“Auff”.
“Lei è miope? Potremmo abbassare le diottrie”.
“La forfora, l'intolleranza alimentare, gli occhiali più spessi...”
“Senta, noi qui riempiamo solo i moduli con i dati che ci portate voi. È colpa nostra se lei fa oggettivamente una vita di merda?”
“Con tutti gli stronzi che si vedono in giro”.
“Niente turpiloquio”.
“Coi loro denti bianchi, la loro pressione sanguigna nella norma, i loro capelli folti...”
“Senta, è il karma. Ognuno ha il suo. Non deve guardare agli altri. Ognuno se la vede col suo proprio destino”.
“E tutti gli evasori dove li mettiamo?”
“Si reincarneranno in commercialisti. Ma lei deve preoccuparsi di sé. Senta. Un po' di reumatismi?”
“Reumatismi? Mai avuti”.
“Ecco, vede? Un'esperienza nuova”.
“Ma sono dolorosi”.
“Un po' fastidiosi, ma poi ci si affeziona. È come un sesto senso, sentirà la bassa pressione, l'anticiclone delle Azzorre”.
“E vada per i reumatismi”.
“Così la voglio. Positivo e propositivo. Mancano ancora cinque punti. Si sbizzarrisca”.
“Non so...”
“Una disfunzione erettile!”
“Ma no... Senta, la tristezza conta?”
“La tristezza... nel senso di malinconia, no”.
“Maledizione”.
“Invece nel senso di crisi depressiva, beh, di punti ne facciamo otto”.
“Ho sforato?”
“Sì, ma li recupera sulla dichiarazione dell'anno prossimo, non si preoccupi. Allora stampo?”
“Stampi, stampi”.
“Vuole lasciare l'otto per mille allo Stato Italiano?”
“No, ai Paesi Bassi”.
“Ecco qui. Una firma sul modulo...”
“Aspetti, aspetti un attimo. Mi stavo dimenticando...”
“Ecco, lo sapevo. La buona azione che vi viene in mente all'ultimo momento. Dio quanto vi odio”.
“Io... ho regalato un ombrello a un'anziana signora, tre mesi fa. Conta?”
“Eh, dipende. Stava piovendo?”
“Un acquazzone improvviso, lei non riusciva ad andare avanti, e così io...”
“Si è fatto fare la ricevuta?”
“Sì, ma credo di averla a casa. Mi scusi...”
“Non è possibile”.
“Mi scusi davvero, io... a volte mi dimentico delle cose buone che faccio”.
“Ma è rimasto seduto lì davanti per tre ore. Non poteva farselo venire in mente prima?”.
“È che non riesco a pensare qui dentro. Fa caldo”.
“Lo dice a me?”
“Non si respira. Sembra di stare nell'anticamera dell'inferno”.
“Sembra?”

FINE

*******


"Se non altro stasera l'hai fatta breve", commentò la triste Verola. "Ma davvero mi domando com'è stato possibile ritrovarmi in finale un pretonzolo come te.
"Signora", replicò Don Tinto, ha avuto una ventina di giorni per eliminarmi. Se non c'è riuscita deve biasimare soltanto sé stessa. Peraltro, non è che io abbia mai desiderato di restare l'ultimo uomo sulla terra".
"Non siamo gli ultimi uomini sulla terra", obiettò il prof. Esso. "Non è che se manca la rete, nessun cellulare prende più campo, e non si captano più emittenti nemmeno a onde lunghe, uno deve per forza dedurre che l'umanità si sia estinta".
"Inutile discuterne", tagliò corto Verola, che doveva andare in bagno. "Cerchiamo almeno noi di finire quello che avevamo iniziato, come conviene agli umani, anche ove fossimo gli ultimi. Professore, hai già pronto il tuo racconto?"
"Certo, mia signora, l'ho scritto nella veglia di ieri".
"Allora me lo racconterai più tardi stanotte, nell'ora in cui nella vallata i lupi ululano la loro indigestione di carne frolla, impedendoci di dormire".
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In bagno coi Maestri

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(2010)
C'è da dire che la sessualità è un mistero – la nostra: figurati quella degli altri. Ognuno ha la sua storia e non ve la viene certo a dire. D'altro canto a chi interesserebbe. (A Kinsey interessava, ma gli sospesero i finanziamenti).
Del resto, giudicate voi. Per tutti i lunghi anni del seminario e dell'università, mai Don Tinto si era masturbato o ne aveva anche solo sentito l'urgenza. In questa che a voi lettori potrà sembrare una bizzarria statistica (ma quale statistica? ne esistono di attendibili?) e che i suoi coetanei avrebbero ritenuto una grave menomazione, sin dalla prima pubertà Don Tinto aveva creduto di scorgere un dono del Signore, un segno evidente della Sua chiamata. Pur sensibile alla bellezza dei corpi (anzi all'università aveva optato per l'indirizzo storico-artistico), Don Tinto sembrava riuscire a goderne a distanza, senza cadere nei turbamenti delle passioni carnali. Sporadicamente, è vero, in qualche sogno sperimentava un'estasi, una specie di trasporto – di cui al risveglio la biancheria recava tracce imbarazzanti. A sedici anni il confessore gli aveva spiegato di che si trattava, del retaggio dell'inevitabile debolezza della carne – ma non era peccato, tecnicamente. Non nella fase onirica. A meno che non avesse sognato... angeli? Vestiti? Maschi? Femmine? Proprio non riesci a rammentare, figliolo?

“Padre, non mi prenda in giro, ma...”
“Ci mancherebbe altro”.
“Mi sembrava di stare nell'assunzione del Correggio”.
“Un quadro, insomma”.
“Un affresco del Cinquecento. La basilica di Parma”.
“Ah, quindi angeli nudi, insomma".
"Con molti panneggi".
"Bene. Bambini?"
"Eh?"
"Gli angeli del sogno, sono bambini?"
"No, direi adulti".
“Meglio ancora. Tre rosari alla Madonna della Neve”.
“Quindi ho peccato, Padre!”
“No. Però un rosario non può far male. Vai, figliolo, e non... non sognare troppo, eh?”

Centocinquantemilatrecentosettantadue rosari più tardi, Don Tinto (ora cappellano di buone speranze, in una grande parrocchia metropolitana) ebbe finalmente qualcosa di piccante da confessare al suo padre sprirituale.C'era una ragazza castana di dodici anni, nel coro, che non lo faceva dormire. Era forse il modo sfrontato e insieme dolcissimo con cui attaccava gli acuti. Don Tinto era stravolto. Non riusciva a pensare che a lei. Non che ci fosse molto da pensare; allora diciamo che non riusciva a pensare ad altro che non fosse il suo non riuscire a pensare che a lei, e chissà, forse in queste vertigini consiste l'amore? La pubertà, come si vede, stava arrivando in ritardo, tram sferragliante che rischiava di travolgerlo. Mai avrebbe toccato la fanciulla, mai, anche solo presa sottobraccio, o afferrata alle spalle per salvarla da uno strapiombo come gli era capitato una volta di sognare, ma quindi come avrebbe potuto accompagnarla nel pellegrinaggio a Roma con la classe dei cresimandi? Mentre ascoltava, il confessore censurò in sé stesso una certa torva soddisfazione. Il fatto è che se lo aspettava. Tutti quei sogni di apoteosi angeliche da qualche parte dovevano pure andare a parare, bastava aver letto Freud – e poi la carne è debole, Cristo Santo, anche quella dei vitelli da latte come Don Tinto. Fu brusco con lui, come si faceva ai vecchi tempi:
“Ti tocchi?”
“Eh?”
“Ti sto chiedendo se ti masturbi, figliolo”.
“Ma no, padre”.
“Allora forse è meglio cominciare”.
“Ma padre!”
“Che padre e padre. Senti un po'. Tu sei convinto di essere sul precipizio di chissà quale perdizione. E mi sta bene. Significa che dai ancora molto peso ai tuoi sentimenti”.
“Ma...”
“Io però ho sessant'anni ormai, confesso i seminaristi da trenta, e non hai idea di quante storie del genere ho già sentito. Per cui scusami se taglierò corto. Quanti anni hai?”
“Ventiquattro”.
“È tempo che cominci a masturbarti con regolarità”.
“Ma...”
“La sera dei giorni dispari, dopo compieta. Salta la domenica. Vedrai che i sogni poi si calmano”.
“Ma io...”
“Non sai come si fa. Eh, beh, certo. Dio mio, tutto ti devo spiegare? Con la mano destra...”
“Padre, la meccanica più o meno la conosco”.
“Oh, meno male”.
“Ma non mi viene niente da pensare...”
“Hm. Dormi ancora in San Filippo, no? Hai accesso alla biblioteca di Don Bruno?”
“Padre, sì”.
“La pornografia è nel terzo stipetto a destra, la chiave è nel trofeo della corale del 1974. E adesso va'”.
“Padre, non mi assolve?”
“Peccati non ne hai fatti, per adesso. Adesso dovrai cominciare a farne di molto piccoli, con regolarità, in modo da evitare quelli grandi. Se tutto va bene arrivi alla mia età senza avere niente di veramente brutto di cui pentirti”.
“Speravo che non sarebbe mai successo”.
“Ma certo, perché avresti dovuto avere un corpo, come noialtri? Dei desideri? Un pisello, addirittura? Perché mai Nostro Signore avrebbe dovuto farti uomo come noi? Non avrebbe potuto farti angelo? Ecco il tuo vero peccato. Sai qual è".
“La superbia, Padre”.
“Ascolta. Per quanto ne so, tu sei un bravo ragazzo. Non toccheresti una bambina neppure se ti costringessero. Il solo fatto che tu sia venuto a raccontarmi questa storia... però potrei sbagliarmi. Mi sono sbagliato altre volte”.
“Sbagliato?”
“Su altre persone. Ma devi sapere una cosa. Mettiamo che un giorno ti succeda. Mettiamo che un giorno ti capiti veramente di toccare una bambina”.
“Dio non voglia...”
“Dio, sempre questo Dio. Dio ci lascia liberi. Tu verresti a dirmelo?”
“Penso di sì”.
“E io cosa dovrei fare?”
“Dovrebbe... non so, immagino che non mi assolverebbe”.
“Esatto”.
“E mi denuncerebbe alle autorità ecclesiastiche e... a quelle secolari”.
“Ai carabinieri, dici? No, questo no”.
“E perché no?”
“C'è una direttiva molto precisa a riguardo, figliolo. Se ti denuncio rischio la scomunica”.
“Dunque la Chiesa... mi proteggerebbe?”
“Ora pecchi di stupidità. La Chiesa non protegge te. La Chiesa protegge sé stessa. Se tu infangherai il tuo abito, la Chiesa si tiene il diritto di lavarlo in casa propria. Sappiamo lavare come chiunque altro, noi. Meglio di molti altri, devo dire. Ora sai che, se un giorno tu peccassi, puoi venire da noi, da me, sapendo che io non chiamerò i carabinieri. Ti prenderò a ceffoni, questo sì. Lungamente”.
“E giustamente”.
“Ti spezzerò tutta una serie di piccole ossicine tignose che conosco io. Farò quanto mi è possibile per farti trasferire nella parrocchia dell'Africa nera frequentata dai più sifilitici dei sodomiti, ma non ti denuncerò. È giusto che tu lo sappia. E adesso vai. Che giorno è oggi?”
“Mercoledì”.
“Giorno dispari, ottimo. Buona meditazione”.

Una tragicommedia, la prima 'meditazione' di Don Tinto. All'inizio l'impresa sembrava veramente disperata, i polverosi numeri di Le Ore ritrovati nello stipetto rivelandosi quanto mai inadatti alla bisogna. Queste signorine, pensava Don Tinto, oltre a essere così desolantemente diverse dall'oggetto dei miei desideri, sono ormai tutte nonne; tranne quelle che senz'altro sono già passate a miglior vita; ora io devo credere a un Dio misericordioso che avrà perdonato i loro vizi di gioventù e le avrà portate in cielo; dal quale cielo mi possono vedere mentre tento di eccitarmi con le immagini dei loro decrepiti peccati, ormai rimessi, eppure ancora in circolo. Preso da siffatti pensieri, Don Tinto era tanto lontano dall'erezione quanto lo siete voi, miei intristiti ascoltatoti, in questo esatto momento. E tuttavia il padre spirituale era stato molto chiaro; ed era uomo di provata saggezza, a cui Don Tinto avrebbe ciecamente obbedito anche se non glielo avesse imposto il voto, appunto, di obbedienza. Di fronte a Don Tinto si spalancava la voragine, non già del peccato (quello sembrava essersi stranamente ridimensionato) ma della conoscenza di sé: che uomo era, se non riusciva a peccare nemmeno volendo? È santo l'uomo che tra il bene e il male sceglie la prima strada; ma è santo proprio perché sceglie, non perché un qualche accidente di natura gli ha impedito l'accesso alla seconda.

Quando alla fine il volume di Caravaggio dei Maestri del Colore riuscì dove le Ore avevano fallito, Don Tinto fu preso da uno disgusto di sé che mai nella sua vita aveva sperimentato. La sola idea di aver potuto nutrire pensieri per una ragazzina – lui? Era successo veramente? Erano solo fantasie, sogni, poi si sa com'è la vita nelle parrocchie, ci si annoia, si ingigantiscono le cose, ci si inventano peccati anche solo per avere qualcosa da confessare. Eppure, sotto tutto quel disgusto, covava una strana, secca soddisfazione. Dunque anch'egli era un uomo, in grado di disperdere il suo seme come chiunque altro. Aveva potere sul suo corpo; un potere che non avrebbe mai esercitato, ma ora era suo. Non era più un ragazzo in balia dei sogni. Quarantotto ore dopo, la prima sensazione di disgusto era scemata; ma la soddisfazione per la conquista del suo corpo ruotava ancora lì, vorticosa intorno al suo cuore. Don Tinto non covava più nessun assurdo pensiero per la moretta del coro. Si era dimenticato del tutto di lei; ma non del solenne impegno preso col Padre. All'ora prestabilita di venerdì, detta compieta, rientrò in bagno coi Maestri del Colore.

FINE
*******

"Finisce così?", disse ancora la stanca Verola. "Molto prima che diventi interessante, direi".
"Mia signora", concesse Don Tinto, "avrei potuto allungarlo ulteriormente, ma qui è dove ho cominciato a sentire che mi stavo scuoiando vivo. I racconti è giusto farli solo con i pezzi di pelle che sono già venuti via".
"Sento nelle tue parole una velenosa allusione al tuo rivale Taddei e al suo prolisso testamento spirituale. Ma lui è pur stato l'unico, in questo turno dedicato all'amor carnale, a non essersi fermato a sogni e masturbazioni, e meriterebbe meno di voialtri due d'essere eliminato. Ma qualcuno lo ha visto?"
"Mia signora, io l'ho sentito dire che andava al bagno. Sei ore fa".
"Poveretto. Va bene, direi che perde il turno per abbandono di campo. È un peccato però. Siete rimasti voi due idealisti che non fareste male a una mosca. Nessuno m'intratterrà più con bozzetti sociali, niente più racconti ossessionati dall'economia e dalla mano invisibile del mercato..."
"Mia signora, se è di questi racconti che avverte la necessità, possiamo provare a raccontargliene noi due. Propongo che l'economia sia il tema del prossimo turno".
"Ah, lo proponi, eh? Don Tinto, vecchia volpe, immagino che tu abbia già il colpo in canna. E sia. Comincerai tu. Ora, se non ti dispiace, mettiti il solito bavaglio davanti al muso, e va' a cercare il cadavere del povero Taddei nei bagni di servizio al primo piano. La vanga è sempre lì dove l'hai appoggiata, direi. Tu professore invece monterai la guardia, d'accordo?"
"A che ora vi sveglierò, mia signora?"
"Qualsiasi ora andrà benissimo, ma qualora non dovessimo svegliarci, non insistere troppo. Buonanotte".

******* FINE DEL QUARTO TURNO *******
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L'ombelico è un problema complesso

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(2004)
Chi crede ai sondaggi e alle inchieste, chi li fa, sembra affezionato a questa idea:
che la gente, interrogata, dica sempre la verità. Gratis. A degli sconosciuti. Quando è già così difficile dirla a sé stessi.

La verità, tutte le volte che mi sono trovato un microfono davanti, mi è parsa la più remota delle opzioni – ma basta parlare di me e del mio ombelico. Parliamo invece di quello di Calozza Clarissa, classe II C, tutta allegra sotto il burqa nero: il motivo di tanta eccitazione?

A domanda del cronista risponde che l'idea non è sua, ma della compagna e amica del cuore Bellei Wanna, che l'altroieri nel putiferio seguito alla circolare a un certo punto ha esclamato: ma perché non facciamo come quelli là di Avezzano? Sabato mattina tutte in burqa! I tradizionali veli afgani sono stati cuciti dalla mamma di Clarissa, sarta part-time. Ah, quindi la mamma è d'accordo… "Le abbiamo detto che ci servivano i costumi di Halloween".

L'amica Wanna in realtà si è già stancata del travestimento, scoprendo magliettina viola e piercing ombelicale di ordinanza. "Avevo un caldo…". Sì, come no. A metà ottobre è definitivamente autunno, qui: piove da tre giorni, ma di avviare le caldaie scolastiche non si parla. Sono effettivamente i giorni a maggior rischio raffreddore. Ma chi conosce Vanessa ha imparato a non sottovalutare il potere della sua melatonina mutante, che in agosto immagazzina su uno sdraio di Cesenatico il calore necessario a scaldare l'ambiente circostante da settembre ad aprile. Così che non è un caso che intorno a lei i ragazzini avvampino. L'ombelico di Vanessa non va in letargo nemmeno a Natale: al rinfresco dell'anno scorso si è presentato in aula magna adorno di un campanellino, jingle bells, jingle bells. Idea copiata da un catalogo sisley, ok, ma tutti abbiamo copiato qualcosa o qualcuno a 16 anni. È comunque probabile che pensasse proprio a quel campanellino il Preside, quando l'altroieri ha pensato bene di riciclare la circolare di Avezzano che vieta agli studenti i calzoncini a vita bassa, cambiare luogo e data e farla girare nelle classi. Una provocazione bella e buona!

Ora, siccome l'amica del cuore Vanessa ha detto che fa caldo, anche a Clarissa tocca aver caldo, e levarsi come minimo il cappuccio: ahi.

Lei pure, a suo modo, è una mutante. Non è brutta, no, non veramente: solo inguardabile, e lo sa. Ed ora è nervosa. È nervosa perché ha i brufoli. E ha i brufoli perché è nervosa. Chi può interrompere il circolo vizioso? Chi può impedirle di osservare la sua pelle, sottoporla a un micidiale cocktail di prodotti per l'igiene, massaggiarla compulsivamente, strizzarla, strizzare le strizzate, seguire diete sballate, interromperle con disastrosi abusi alimentari? Chiunque le passi vicino può distogliere lo sguardo, ma lei no: la sua pelle le è a portata di mano in ogni momento, ogni specchio è un'istigazione all'automolestia. Una camicia di forza?

Per ora si leva il burqa, ché alla sua amica non piace già più, e scopre anche lei una magliettina gialla, e tra la magliettina e il cinturone un budello roseo, concentrico: l'ombelico è da qualche parte lì in mezzo: il piercing, se c'è, non se la passa molto bene. Eppure Clarissa Colozza (La Cozza, per gli amici più fidati) ama il suo pancino: è la cosa più rosea gommosa e liscia che ha. Le lebbra bianca non ha ancora raggiunto il punto vita. Si massaggia teneramente e, interrogata, risponde.

"Sì, il burqa è un modo per protestare contro la circolare del preside, che vuole toglierci la libertà di vestirci come vogliamo, di apparire come siamo. Io credo che i vestiti facciano parte dell'identità di una persona, cioè, se scelgo di mostrare l'ombelico a scuola mica scandalizzo nessuno".

Questo è quanto ha da dirvi Clarissa.
E voi magari le credete.

Passiamo ora al prof. Esso, che stamattina già si è alzato male. Il sabato lavorativo non si addice al prof. progressista: in più, la prospettiva di imbattersi alle nove del mattino nell'ombelico nudo della Cozza gli ha chiuso la bocca dello stomaco a metà colazione.
"E dire", pensa lui, "che la ragazza avrebbe anche un suo stile. Certe acconciature… i golfini che portava l'anno scorso… la Bellei ha copiato un sacco da lei. Eppure…"
Sull'autobus Esso continua a riflettere sull'apparente mistero: ogni anno, 'ste ragazzine si scoprono un po' di più, e lo eccitano un po' di meno. Meglio così, però la cosa è triste, ti dà proprio l'impressione di invecchiare. "Quand'è l'ultima volta che mi sono eccitato per una ragazzina? vediamo…"
Poi gli viene in mente un film, non si ricorda neanche il titolo, ma inglese. Roba da ggiovani – era rimasto sulle poltrone in fondo per paura di imbattersi in qualche alunno suo. Il protagonista, appena disintossicato dall'eroina, andava in discoteca e si faceva immediatamente agganciare da una ragazza, che se lo portava in casa. La ragazza non era niente di speciale, la situazione non era niente di speciale, la scena di sesso niente di niente di speciale. Ma poi -
- Al mattino, quando il protagonista si sveglia, ha una visione abbacinante: la ragazza si sta vestendo. Una gonna blu, una camicia azzurra, e… forse persino una cravatta. Un'uniforme! L'uniforme di una scuola britannica!
In quel momento, il protagonista realizza che è stato sedotto da una minorenne.
E il prof Randolla, appeso al trespolo dell'autobus, ripensandoci ha un timido accenno d'erezione.

Ora che è arrivato sul luogo di lavoro, e ha assistito scuotendo la testa alla manifestazione finto-talebana, se gli mettete il microfono davanti vi dichiarerà:
"Guardate, io mi considero un progressista, ma stavolta mi sento assolutamente dalla parte del mio preside. La libertà non consiste nello scoprire un centimetro in più di pelle, come ritengono questi studenti. Sono loro piuttosto a essere schiavi di una moda sempre più esigente. Qui rischiamo di creare un nuovo tipo di emarginazione, non più sociale, ma estetica: chi non entra in una camicetta, chi non si può permettere di mostrare l'ombelico, resta fuori dal gruppo. Io, fosse per me, re-introdurrei le uniformi, come in Inghilterra. Le ragazze… e i ragazzi, anche i ragazzi, devono capire che a scuola sono tutti uguali, non c'è il ricco e il povero, e nemmeno il bello o il brutto. C'è solo chi si impegna e chi no. Essere uguali davanti a chi vi giudica: questo è il vero senso della libertà".

E questo è quanto ha da dirvi il prof. Esso.
E magari voi credete pure a lui.

FINE


*******

"Un... 'timido accenno di erezione', professore? Chiedo un racconto sull'amore carnale, e tutto quello che ottengo è un 'timido accenno di erezione'?" Questi sarebbe il mio spasimante che fa la ruota?"
"Mia signora, nella mia posizione quel timido accenno è già oltre i limiti della deontologia".
"Hai sbagliato turno: non si parla più di lavoro qui, ma di sesso. Voglio sperare che il tema sia più congeniale al tuo rivale, Bart Taddei... a proposito, Taddei, che notizie ci porti dalla palestra della mia residenza ormai deputata a lazzaretto?"
"Non buone, mia signora: nessun antibiotico sembra fare effetto sui malati, che..."
"Sì, beh, questo si era capito. Ma insomma in quando pensano di sgomberare? Dovevamo fare training autogeno. Non dovrebbero metterci molto ormai"...
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Storia di Mària

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(2007)
Il primo a porre il problema fu il padre, che una sera – Mària aveva dieci anni – rincasando fetente di bar, le appioppò un ceffone. Senza un motivo al mondo. O meglio: Mària stava correndo verso di lui nel corridoio, blaterando di un compito di scuola o di qualche altra sciocchezza, mentre il padre aveva i suoi problemi, i suoi debiti, i suoi pensieri, e insomma S-ciaf!
“Perché non parli come un maschio?”

Mària non crede nei traumi infantili, via! un ceffone è un ceffone. Di sicuro non è diventato così per una sberla, tra mille che ne avrà prese. Ma da quel giorno cominciò pure qualcosa. Col ceffone il padre gli propose la questione fondamentale: chi sono i maschi? Cosa vogliono? Come parlano? A dieci anni Mària non ne aveva la minima idea. Sempre in casa stava, appiccicato alla sottana di mamma. Era ora di dare un'occhiata al mondo.

La curiosità lo spinse a vivere la ricreazione in un modo diverso. Di colpo in bianco smise di giocare alla settimana con le compagne, che pure teneva carissime, e si avventurò nell’angolo di cortile dove spallonavano i maschi di quinta. Qui trovò una conferma ai sospetti del padre: la sua voce non andava. Il tono non era così diverso da quello degli altri bambini, ma c’era qualcosa di stridulo, che paragonato al rozzo bofonchiare di Flavio Dusacchi lo faceva suonare affettato. Lo stesso soprannome, abbreviazione del banalissimo cognome “Mariani”, sillabato da quei monelli assumeva una sfumatura equivoca. Né Mario né Maria: Mària. Un nome qualunque, eppure unico al mondo. Mària non lo avrebbe mai più abbandonato.

Per il resto non erano così cattivi, gli ometti di quinta. Mària se li ingraziava con merende supplementari e pacchetti di figurine. Ripensandoci da adulta, un poco la imbarazza questa totale mancanza di dignità. Ma stare coi maschi era troppo importante. Era fiera dei lividi che si portava a casa – i maschi avevano sviluppato un’arte marziale che consisteva in una sequenza infinita di ganci destri alle spalle. Mària era un punchball simpatico e disponibile, e lo sarebbe rimasto per anni. Da Bordon Diego imparò anche a bestemmiare Dio e i Santi: ma quelle sillabe magiche, ripetute da Mària, tornavano a suonare troppo simili a preghiere, e insomma, dopo qualche tentativo Mària lasciò perdere: la sua non era una voce da maschi. Anche il padre si rassegnò.

Alle medie il vocabolario maschile s’allargò all’improvviso, e Mària scoprì d’essere un finocchio, un ricchione, una checca, un busone: tutto questo senza ancora mai avere desiderato nessuno, né maschio né femmina: e poi dicono che il genere si sceglie. Mària si era rimesso a chiacchierare con le compagne, ora che i maschiacci evitavano anche solo di toccarlo, per via del contagio: fermamente convinti che lo sfioramento del busone comportasse un rischio per la loro virilità, passavano intere ricreazioni a inseguirsi urlando “sfiga-di-Mària-immune!” E altre cose simili che gli insegnanti, innocenti non notavano. Erano tempi diversi, parole come bullismo e omofobia non stavano nemmeno nel dizionario.
Poi venne la fase degli odori.

Si ricorda molto bene, Mària, che molto prima di decidersi a guardarli, i maschietti cominciò ad annusarli.
Non ci poteva fare niente. Gli odori stanno nell’aria. Gesù ha detto di cavarti un occhio, se ti dà scandalo, ma non ha aggiunto di turarti il naso. Il sudore di D’Angelo era muschiato e dolcissimo. Germini Patrizio aveva una pelle spugnosa che tratteneva l’odore di qualsiasi bagnoschiuma, anche se quasi sempre era pino silvestre. Nel frattempo le sue compagne cominciavano timidamente a truccarsi: Mària aveva potuto contare fino a quel momento sulla loro complicità, ora qualcosa stava cambiando; iniziava a odiarle. I loro profumini le impedivano di concentrarsi sull’afrore ascellare di Verozzi. E c’era il problema delle tette, che iniziavano a catalizzare gli sguardi. In questo gioco di rimandi incrociati, Mària restava totalmente indisturbata, e aveva modo di osservare gli altri. I maschi la indispettivano, non riusciva più a capirli. Fino a qualche settimana prima non alzavano gli occhi dalle figurine, ora avrebbero dato il rarissimo Pietro Vierchowod per uno sfioro di tetta.

E i peli. Fu Dusacchi il primo uomo a porre il problema, nello spogliatoio maschile. “Mària, oh! Ma ti radi?”
Se avesse avuto il tempo, in mezzo alle risate dei compagni, Mària avrebbe risposto di sì: si radeva, perché cominciava ad averne tanto, e folto, e la imbarazzava in particolare quel ciuffetto che tendeva a salire in direzione ombelico; ma Dusacchi, biondo com’era, poteva capirlo? D’altronde, cosa stava succedendo? Da quando in qua nello spogliatoio ci si guardava in basso? Mària non aveva mai osato. Pensava che ai maschi non piacesse. E Mària stava facendo il possibile per capirli, i maschi.

Gli piacevano. Gli piaceva l’insolenza metropolitana di Dusacchi, la timidezza irsuta di Verozzi, l’accento nordico di Bordon quando con una presa al collo lo stringeva tra le braccia per un momento, sussurrando “busone di merda”. Tutto sembrava pronto per un’esplosione ormonale, che invece il liceo congelò: al riparo dai maschi, in una classe a stragrande maggioranza femminile, Mària si dimentico degli odori e riprese a cicalare con le amiche. Divenne il migliore confidente di tutte, perché effettivamente conosceva i maschi meglio di loro, e la frase “Tutti stronzi” in bocca a Mària sapeva più di vero. In compenso le ragazze gli insegnarono a vestirsi con stile, a camminare nei corridoi come sotto i portici del centro, e viceversa.

Il quinto anno fu meraviglioso, Mària era diventata una sintesi di due sessi che gli piacevano molto, e cominciava ad aggiungerci qualcosa di originale, di suo. Un pomeriggio d’aprile, mentre ufficialmente aiutava Barazzi Clelia a ripassare chimica (in realtà provando vestiti vintage eredità di una zia), si ritrovò abbracciata su di lei, nel letto di lei, e pensò che quello che la situazione le richiedeva era un bacio. Ma forse sbagliò i tempi, o i modi: non aveva mai baciato una ragazza – non aveva mai baciato nessuno! Clelia si irrigidì di scatto, se lo aveva desiderato era stato un attimo, un giorno, un anno, un millennio prima: Mària si ritrasse, avrebbe voluto scomparire, e in un certo senso davvero scomparì qualcosa in lui, per sempre.

Un mese dopo, in gita scolastica, Clelia venne a bussare alla sua camera. “Ti devo dire un segreto. Sono omosessuale”.
“Eh?”
“Si dice anche delle donne, non lo sai? Perché deriva dal greco…”
“Clelia, ehi, lo so da cosa deriva. Maccosa… come fai a saperlo”.
“Ho fatto sesso con Nadia”.
“Quella zoccola? Ma non vuol dire, è ubriaca da ieri, e poi… e perché vieni qui a dirmelo adesso…”
“Volevo ringraziarti. Perché è stato grazie a te che l’ho capito… quel pomeriggio che tu... che io...”
“Clelia, senti, sei fatta anche tu. Perché non ti stendi un po’, ti riposi e poi magari domani ne riparliamo”.
Clelia russò tutta la notte, come a ribadire il suo omoerotismo conquistato e trionfale, lasciando Mària sveglia a scalciare i dubbi: ha capito che è lesbica perché l’ho baciata, o ha capito che è lesbica perché l’ho baciata da schifo? Le piaccio o no? Le piaccio come uomo o come donna? O le piaccio perché non sono né l’uno né l’altro? Oppure tutto sommato non le piaccio, visto che alla fine si scopa la zoccola dall’altra parte del corridoio? Oppure avevano ragione i maschi alle medie, l’omosessualità è un virus e io gliel’ho passato… sfiga-di-Mària-immune… che casino… ma sai che c’è? Io non ne voglio un cazzo… a me piacciono i maschi… l’odore dei maschi… queste ragazze con tutti i loro problemi mi stressano la minchia e basta… fammi prendere la maturità e poi non mi trovano mai più”.

All'università, in una città diversa, la bomba ormonale, pazientemente custodita negli anni di frustrante apprendistato, esplose con la forza di cento cavalli vapore. Da vergine a idolo delle feste nel giro di pochi mesi, finché – sorpresa – non si stancò. Piuttosto presto. La promiscuità lo attirava, e insieme lo lasciava insoddisfatto. Provò a farsi una storia seria: ci provò con tutte le forze. Andò persino a vivere con lui, un damsino di Matera con la fissa per il cinema tedesco. Durò due anni. Finché Mària non si accorse che stava soffocando. Andavano nei locali dei gay, alle feste gay. Conosceva tutti, e non gli piaceva più nessuno. Avrebbe voluto entrare nel bar di una polisportiva, e guardare le partite della Fortitudo coi ragazzetti del quartiere, e invece doveva sgugnarsi la retrospettiva di Almodovar. E non provare ad allungare quelle mani.
“Vabbe', senti, ti lascio”.
“SSsssst, è iniziato il film”.
“Ed è colpa mia, eh. Tu sei gentilissimo e bravissimo e assolutamente a posto. Il problema è che sei gay”.
“Anche tu”.
“Lo so. Io però i gay non li sopporto”.
“E cosa ti piace, allora?”
“Mi piacciono i maschi”.
“E cosa pensi di fare?”
“Non lo so”.
“Prova con le tette”.

Il consiglio, totalmente gratuito, schiacciò Mària come l’uovo di Colombo. Ma per abituarsi all’idea ci vollero comunque un annetto o due. Cominciò con un push-up, giusto per vedere l’effetto. Non male! Aveva la sensazione di portarsi un pezzo di mamma con sé, le dava un senso come di confidenza. Infine iniziò con gli ormoni. Vedersi cambiare fu spaventoso e fantastico: l’adolescenza, finalmente, a ventott'anni. Il risultato finale fu discretamente spettacolare. Ora Mària sarebbe piaciuta agli uomini.
Il risultato andava ovviamente monetizzato: dei soldi aveva bisogno, e inoltre non conosceva molti altri modi d’incontrare persone interessate alla sua nuova identità sessuale. Prese in affitto una mansarda e pagò un paio di annunci sul giornale adatto: era nata una stella. I primi utili furono utilizzati in un paio di altri ritocchi che Mària riteneva necessari. Perché aveva voglia di tornare a casa, e voleva tornarci perfetta, e magari irriconoscibile. Come una seconda nascita.

“Torno a spaccarvi il culo”.
Letteralmente. Nei primi sei mesi di attività, Mària si ritrovò a sodomizzare D’Angelo, che ogni tanto ne aveva voglia ma non si considerava un ricchione; Verozzi, che voleva provare “una volta l’effetto che fa”; Germini che sosteneva d’essere ubriaco e di avere litigato con la fidanzata, e che dopo mezz’ora ebbe una specie di orgasmo multiplo mai attestato nella letteratura scientifica; e Bordon, il rude Bordon, che lo incitava pure: “Dai! E dai! E spingi, busone di merda!”
“Ma allora ti ricordi di me?”
“Perché ti sei fermato? E spingi!”

Fu Dusacchi a riconoscerlo, invece, dalle misure.
“Ma certo che lo so chi sei, eri quello che ce l’aveva più lungo di tutta la scuola”.
“Io?”
“E che pelo avevi. Ne avevi tanto che ti radevi. E due gioielli, grossi così, solo tu. Ci ho pensato per anni”.
“Ai miei gioielli”.
“Sì”.
“E non potevi dirmelo prima? Dovevi aspettare che mi facessi crescere le tette?”
“Mi piacciono le tue tette”.
“Ma non le stai nemmeno guardando. È un pretesto. Non ti piacciono così tanto”.
“Certo che mi piacciono. Non sono mica un busone”.
“Sicuro?”
“O, vaffanculo”.

Il che, detto da Dusacchi, nella posizione in cui si trovava in quel preciso momento, suonava decisamente ironico.
“Non darmi mai più del busone. Mai più”.
“Va bene, ora sssst”.

Ricapitolando: Mària cercava l’uomo vero, si è montata un par di tette da sogno, e adesso il suo mestiere consiste nel sodomizzare una manica di maschi repressi che hanno paura di chiederlo a un gay. Non vi girerebbero le palle? A Mària in effetti girano. Ma questi maschi chi sono? Cosa vogliono? Lei si aspettava protezione, energia, magari anche ceffoni. E questi giù, in ginocchio o a pecora, a implorare, spingi spingi, che roba è? Mària è molto delusa. Cambierebbe anche sesso, se gliene fosse rimasto uno da provare.

L’altro giorno, per incanaglirsi, sbirciava la diretta del family day, quando in uno scorcio rapido li vide: nell’orgia cattolica di Piazza San Giovanni – milioni di persone convenute da tutt’Italia perché ce l’avevano con lei – Barazzi Clelia e Dusacchi Flavio mano nella mano, quest’ultimo con un bambino biondo calcato sulle spalle. E a momenti sveniva, sul serio, perché un bambino coi capelli di Dusacchi e il labbro di Clelia era ciò che più si avvicinava alla sua idea di perfezione.
Eh, quanto è piccolo il paese. Dunque è Clelia l’oca-moglie a cui Flavio ama sputare ingiurie postcoitali. Ma non era lesbica? Si vede che s’era sbagliata – chi è Mària per giudicare. Ma chi sono Flavio o Clelia, d’altro canto, per dare lezioni di normalità sessuale? E perché ce l’hanno tanto con Mària, che in tutta la sua vita non ha mai tolto niente a nessuno? Dio probabilmente ha inventato la famiglia solo per vedere il sorriso dei bambini, e si dimentica alla svelta tutte le ipocrisie, le promesse e le minchiate che vengono prima o dopo. Gli uomini e le donne e gli altri però quaggiù hanno da vivere, raccontandosi bugie e tirando avanti – e finché funziona che male c’è? Ma funzionerebbe, la Sacra Famiglia Dusacchi, senza la mansarda di Mària che fa da camera di compensazione? Sul serio non c’è posto nel presepe per lei? Potrebbe fare il bue, un'altra creatura di sessualità incerta; ma senza di lui si moriva dal freddo, quella notte.

FINE
*******

"Spero che non me ne vorrai, cara Mària", sbottò dopo qualche tempo l'assonnata Verola, "se a un certo punto mi sono addormentata. D'altro canto è pur degno di nota che tu sia riuscita a rendere noiosa la storia di una meretrice transessuale. Vabbe'. Chi è rimasto? Don Tinto, dopo aver sentito i suoi concorrenti, sarà d'accordo con me sul fatto che la promozione è alla sua portata".
"Vedrò cosa posso fare, mia signora".
"Veda veda. Noi ci vediamo domani nell'orto. Coglieremo - pardon, coglierete - qualche vegetale bio per il nostro desco. Il mio giardiniere ha avuto una crisi di diarrea un po' sospetta, sapete, così l'ho messo in quarantena"...
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È un mercato pazzerello

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(2008)
“Non stai dormendo, vero?”
“Mmmno”.
“Che faccia che hai. Si può sapere cosa ti preoccupa? Non è mica la tua crisi questa. Sei uno statale”.
“Ma come ci arrivo in pensione a ottant'anni”.
“Ti ammalerai e ci andrai prima”.
“E se mi ammalo dove li trovo i soldi”.
“Per allora avremo messo qualcosa da parte, un'assicurazione, la casa...”
“A proposito, e l’immobiliare?”
“Ci risentiamo domani. Comunque i prezzi sono quelli lì”.
“Ma sono matti. Sono tutti matti. Non dovrebbero calare?”
“Come no”.
“Calano, calano”.
“Dovevano calare già l’anno scorso, no?”
“Tra un po’ va giù tutto, vedrai”.
“Quando va giù tutto la gente si aggrappa alle case, quindi...”
“Dici?”
“Il prezzo potrebbe perfino andare su”.
“Non ci avevo mai pensato”
“Certo che uno come te, che capisce tante cose… è un peccato”
“Cos’è peccato?”
“No, dico, peccato che l’unica cosa che tu non riesca a capire siano i soldi”
“Ma non è che non li capisco, li capisco benissimo, è solo che...”
“Come no. Un rockfeller. Ti chiamerò Rockfeller, come il merlo”.
“Il corvo. Era un corvo”.
“Non aveva il becco giallo?”
“Ti confondi con Portobello. Buonanotte”.
“Buonanotteamore”.

Ha ragione.
Sto a preoccuparmi dei massimi sistemi e intanto ci piove in casa. Bisogna farsi furbi, monetizzare.
Potrei cominciare a dare lezioni. Si arrotonda abbastanza bene, dicono. Tutti i liceali col panico dell’esame a settembre… vedi che la Gelmini una cosa giusta l’ha fatta. Certo, equivale a tradire le cose in cui credevo. “Signora, suo figlio ha bisogno di un intervento didattico personalizzato, me lo mandi domani pomeriggio con una banconota da cinquanta”. Niente fattura naturalmente. Io che ho sempre odiato i medici pubblici assenteisti al mattino che si rifanno nelle cliniche al pomeriggio. E adesso eccomi qui. A quel punto tanto vale rubare, no?

Alla fine è solo una pezza. A scuola quanto potrò andare avanti? Può solo peggiorare, e si fa già fatica adesso. Nelle classi a 29 non si respira, letteralmente, e poi basta che ce ne sia uno un po’ schizzato e tutti lo seguono a ruota.
E tutte queste storie sul bullismo, sugli insegnanti fumati o maniaci sessuali… lo sai dove vogliono arrivare, no? Vogliono convincere i genitori middle-class a staccare i buoni scuola e mandare i figli al SacroCuore. Così ci resteranno solo terroni, tunisini e albanesi. C’è da dire che a volte sono più educati. Soprattutto i sargasci, che però hanno un odore che non sopporto. È la loro cucina maledetta. Che razza di spezie usano? Mi si fermenta il caffelatte nello stomaco – l’altro giorno stavo per vomitare davanti a una bambina. Tutta una vita così? Ma forse ci farò l’abitudine. Forse.
È chiaro che quando sei giovane, hai tanto entusiasmo, credi di poter risolvere tutto, ma siamo seri: quanto credi di poter durare? Io volevo insegnare la storia e la geografia, se devo mettermi lì a spiegare l’alfabeto ai sargasci mi annoio. Cioè, dai, non è più il mio mestiere.
Però è l’unico mestiere che so. Forse.

“Spengo la luce”.
“Ok, buonanotte”.

E intanto il conto cala. E se mi capita qualcosa? Imprevisti, probabilità – poi un giorno ti segnano la fiancata e finisci in rosso. Succederà. È già successo ad altri. E io non sono più furbo di loro. Diciamo la verità. Capisco tante cose, ma non sono più furbo di loro.
L’università è esclusa, c’è una fila di ex ricercatori questuanti che parte dagli anni Novanta, e sono tutti più giovani e svegli di me. E quindi? Questi son problemi, altro che Berlusconi. Certo, può sempre darsi che crolli il petrolio e il dollaro, si sciolgano i ghiacciai e collassi tutto l’occidente. Questo nel migliore dei casi. Ma metti che non succeda. Cosa faccio?
In politica non mi posso buttare, ho parlato male praticamente di tutti – e poi c’è la fila anche lì. Con Beppe Grillo? Per carità, inaffidabili. Andrà a finire come al g8, qualcuno si farà male e poi tutti a casa. Ma io comincio ad avere un'età. E se mi capita qualcosa? Del tipo, metti che mi debba far operare.

Già solo di denti mi stanno andando via stipendi interi, e fanno male lo stesso. E poi i dottori non me la contano giusta. L’altro giorno: cento euro per cinque minuti e un dito in culo! A proposito, cos’è questa nuova tendenza? Il proctologo lo posso ancora capire. Il dermatologo m’insospettisce già un po’. Ma l’otorino? Possibile che non possa sfilarmi due biglietti da cinquanta senza appoggiarmelo lì? Ehi! Se proprio ho un bel culo dovreste pagarmi voi. E non è detto che non vada a finir così. Ma sto davvero pensando a questo?

E ‘sta pioggia maledetta, com’è che fa tanto rumore, stanotte? Di solito non picchia forte così. Del resto è aprile, ogni giorno un barile. Potrei mandare il curriculum in banca. Ma a chi la racconto? Io di soldi non capisco niente.
La verità è che in banca ci dovrei entrare con una pistola giocattolo. Una volta sola. In una banca sola. Funziona, una gran scarica di adrenalina e vai, la prima volta non ti beccano. Quelli che si fanno beccare, è sempre perché ci riprovano. Ma una rapina in banca non si nega a nessuno, è quasi un tuo diritto, del resto se le banche cominciano a fotterti a dodici anni…
Sì, ma un colpo solo mica basta. Nella cassaforte di una filiale, quanto ci sarà? Centomila? Va bene, si tira un po’ il fiato, e poi? Ci vuole un reddito. Potrei fare il corriere.
In effetti sarei un buon corriere. Le autostrade le so tutte e mi piace girarle, fermarmi agli autogrill e non pensare a niente. Non mi hanno mai fermato a un blocco, mai, nemmeno con la barba sfatta. Ispiro confidenza. Potrei girare l’Europa in lungo e in largo trasportando chili di qualsiasi cosa. Tra l’altro non consumo, per cui come corriere sarei molto affidabile.

Mi terrei un mestiere di copertura – non so, potrei fare il rappresentante di enciclopedie. La faccia ce l’ho. E nella ruota di scorta potrei portare in giro di tutto. Ma che ruota di scorta, ormai ti fanno ingurgitare – se va bene. Sennò supposta. E torniamo sempre lì. Ma almeno si guadagna. Non posso credere che sto pensando a questo. Io corriere, sì, di cosa? E per chi? Non conosco nessuno. Cioè, nessuno, aspetta. Toni di IIIC.

Lui riga abbastanza dritto, ma suo zio venne qui in soggiorno coatto, due anni prima che cominciassero gli incendi dei capannoni. Quando viene al ricevimento generale gliela butto lì: “devo arrotondare, faccio già dei piccoli trasporti, lei non conosce mica qualcuno che ha bisogno di…”. Si capisce che non si fiderà subito. Magari mi chiederà di accendergli un capannone, prima. E vabbe', dopotutto a me che frega dei capannoni? Tutti di gente che vota lega, se ne vadano affanculo, ve li brucio con soddisfazione. Ha anche smesso di piovere.

Tre o quattro anni così, senza dare nell’occhio. E se mi mandano all’est, c’è anche la possibilità di arrotondare. Se vado via vuoto e imbarco un paio di badanti a viaggio metto insieme una somma discreta senza spesa aggiuntiva. Se guidassi un camioncino, ma in macchina chi vuoi che mi fermi? Ho la faccia da tratta delle bianche? Tutto tranquillo, basso profilo. E se il padre di Toni vuole farmi la cresta? Tra l’altro suo figlio sa benissimo dove parcheggio. Lo vedi che mi serve un garage?
E va bene, avrà la sua percentuale. Però bisogna starci attenti, perché è un mestiere in cui si brucia molta benzina, e la benzina sarà sempre più cara… potrei mettere la bombola a metano… ma c’è il metano in Ucraina? Devo guardare su internet. Anche se poi… con la bombola… nel traforo del Gottardo… ma è già esploso una volta, quel tunnel… quindi le probabilità che esploda ancora…

E poi non devo mica passare la vita così. Quattro-cinque anni e poi mi metto in proprio. Una cosa piccola e pulita, senza dare fastidio a nessuno. Un bar con due camere sopra. Ci metto due bielorusse regolarizzate, e gli chiedo il venti per cento. Mi sembra onesto. O non lo è? Devo guardare su internet, ma sono convinto che c’è gente che prende anche il quaranta. Naturalmente se viene il padre di Toni offre la casa. Ma se viene il resto della famiglia? È numerosa. Gente che non paga volentieri. Hanno buttato giù un ristorante nella bassa, una volta, per via di un conto. Bisognerà abbozzare. Che mi metto a litigare coi camorristi, coi tempi che corrono?

E se le bielorusse si rifiutano di lavorare gratis e amore dei? Che poi i bar mica te li regalano, ci sarà un mutuo da pagare. Va a finire che mi toccherà chiedere soldi. Alla famiglia di Toni, naturalmente. E poi mi strozzeranno, va da sé. Un bel giorno mi alzo e mi trovo il bar bruciato… ma chi me l’ha fatto fare…
“Abbia pazienza, prof, ordini superiori. Dovevamo verificare che non ci fossero perdite dal tetto, ci capisce…”.
“Ma stavo giusto arrivando con la rata…”
“Prof, lei è un bravo guaglione, ma con rispetto parlando, se avesse mai studiato economia. Gli interessi passivi, ha presente gli interessi passivi? Comunque un modo di recuperare c’è. Si ricorda il vecchio mestiere? Ci sarebbe una missione a Chişinău”
“Ma Toni…”
“Una cosa rapida e indolore. Sei capsule. Ai vecchi tempi ne teneva pure otto”.
“Ma sono vecchio, Toni. Va a finire che esplodo”.
“E c’è pure un pappagallo con il becco giallo”.
“Con la bombola. Di metano. Nel traforo. Lungo chilometri sei”.
“Un tantino picchiatello… non sa dire: portobello”.
“Ma stavo così bene da statale”.

***

“Ma stai bene?”
“Eeeeh?”
“Stai scalciando!”
“Macché”.
“Ti dico che scalciavi. Dormivi? Hai fatto un brutto sogno?”
“Ma no, ero qui che pensavo tra me e me”.
“Che pensavi?”
“Pensavo… pensavo che dovrei cominciare a dar lezioni… c’è molta richiesta”.
“Mi sembra una buona idea”.
“Sai, hanno tutti paura dell’esame di settembre, adesso”.
“Ottimo”.
“Ti voglio bene, sai”.
“Lo so, anch’io ti voglio bene. Buonanotte”.
Buonanotte.

FINE

*******

"Finale quanto mai appropriato", osservò l'esigente Verola, "per questo concentrato di pura noia. Ma quand'è esattamente che ti abbiamo fatto credere che le tue preoccupazioni quotidiane fossero abbastanza interessanti da costruirci un racconto?"
"Mia signora", obiettò, tremante, il prof. Esso, "Non è un racconto sulla mia vita, quanto piuttosto su una vita che non ho vissuto".
"E la rimpiangi?"
"Non saprei come rispondere".
"Quanto sei noioso stasera professore. Voglio sperare che Mària abbia esperienze professionali più varie e interessanti delle tue. E ora buonanotte, ci vediamo domattina alle cinque in tenuta da yoga".
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Il re impiccione e lo specchio magico

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(2007)
E ora, bambini miei cari, se la smettete di picchiare il down; se restituite la carrozzella al tetraplegico; se tirate giù il nanetto dall’appendino; se l’effeminato si tira su alla svelta i calzoni che i cinque maschioni gli hanno abbassato; se la fazione salafita ha smesso di pregare e la bimba molestata nell’ora di fisica la pianta finalmente di frignare, se l’anoressica è tornata dal bagno e il bullo bulimico ha finito di incamerare merendine potrei raccontarvi una storia! Massì, una storia, dai, che storia vi racconto?


IL RE IMPICCIONE E LO SPECCHIO MAGICO


C’era tanto tempo fa, in una terra lontana lontana, un Re che si struggeva, perché non conosceva i suoi sudditi. Oh, ma lui ci aveva provato ad andare verso il popolo, in mezzo a loro a fare domande, come va? Come vi pare il mio regno? Vi trovate bene con un monarca par mio? Ma insomma a parte i molto bene sua maestà, ottimo e abbondante sua maestà, divertentissima la barzelletta sua maestà (ah, ah, ah)... non poteva dire di conoscerli davvero. Era sul serio brava gente o no? Le leggi le rispettavano per intima convinzione o per paura delle frustate? Potresti anche fregartene, incamerare le imposte e regnare alla benemeglio come i tuoi antenati, gli diceva il Mago di Corte. Ma lui voleva saperne di più. Era proprio un Re Impiccione.

“Se proprio insisti”, disse il Mago, “avrei l’oggetto che fa proprio per te. Eccolo qui, come vedi è uno Specchio”.
“Sì”, disse il Re, “è proprio uno specchio, embè? La faccia mia già la conosco”.
“Ah”, disse il Mago, “ma questo è uno specchio Magico. Premi di qua, gira di là, recita la formula, e vualà: ti mette in contatto con tutti gli specchi del tuo Regno”.
“Con tutti gli specchi del mio Regno?” disse il Re, e gli occhi già gli brillavano.
“Proprio così, e con un piccolo sovrapprezzo ti fa vedere anche gli Specchi del Regno qua di fianco”.
“No, per ora non esageriamo”, disse il Re; e premi di qua, gira di là, recita la formula, si mise a scuriosare.

Adesso, se la piantate con gli aeroplanini, coi bigliettini, con le palline di carta, con le palline di pelo, con le palline in generale, con qualsiasi oggetto in movimento, vi racconterò che cosa vide. Vide i suoi sudditi com’erano davvero! Vide per prima cosa che avevano parecchi brufoli, denti gialli rughe e borse sotto gli occhi; e già questo non era proprio un bel vedere. Ma poi cominciò a notare che erano vacui e vanitosi; violenti coi più piccoli e servili coi potenti, e lui mai se l’era immaginato. Vide che si picchiavano per un nonnulla, e gli bastava una parola per far morire il prossimo di tristezza e crepacuore. Vide che si facevano scherzi orrendi, e che non avevano rispetto per niente e per nessuno, e insomma tutto questo non gli piacque, non gli piacque neanche un po’. Eppure passava le ore a guardare questo specchio. Al punto che la Regina brontolava: ma esci ogni tanto, fatti una passeggiata. E lui: “Taci, scema! Che mi sto tenendo aggiornato”.
“Ma cosa ti aggiorni a fare, prenditi un cavallo e fatti un giro”.
“Ma che cavallo, tu non capisci! Tu vivi in un mondo di fiaba!”
Il che, per inciso, era vero. La Regina uscì a lamentarsi con le amiche.

“Aveva ragione mia madre, quando diceva mettiti con un Principe più biondo! Questo è moro e introverso e passa il tempo a guardarsi allo specchio!”
“È il solito Re pieno di sé”.
“Ma no, si tratta di uno specchio magico che lo mette in contatto con tutti gli specchi del regno, così può vederci tutti mentre facciamo le smorfie e ci strizziamo i punti neri, ma mi raccomando, non ditelo a nessuno”.
“Naturalmente”.

In capo a pochi giorni si sparse la notizia che il Re Impiccione spiava i suoi sudditi. E quelli allora cosa fecero? Smisero di essere brutti e intriganti? Ma no bambini, non si può smettere d’un giorno all’altro. Anzi continuarono, e se possibile peggiorarono, sapendo che il Re li spiava, e da quel giorno ogni volta che tiravano fuori la lingua davanti allo specchio, era espressamente per fare una pernacchia al Re Impiccione.

Quest’ultimo capì che la cosa non poteva andare avanti. E allora un giorno ebbe un’idea: prese la penna d’oca e scrisse un Editto Regale. E mandò i banditori in ogni angolo del Regno a dire: “Udite udite! Siccome il Re non ne può più, di vedere allo specchio quanto brutti siete ed intriganti, d’ora innanzi vi proibisce di usare i vostri specchi di casa! Rompete quindi i vostri specchi in mille pezzi, copriteli o consegnateli all’autorità competente, con decorrenza immediata, perché smorfie ne avete fatte già abbastanza”.

I sudditi all’inizio non erano molto contenti, ma per amore o per forza dovettero rompere i loro specchi o consegnarli; e da quel giorno il Re non vide più smorfie e cattiverie e delitti nel suo Regno, e fu contento.

E adesso, bambini miei cari, potete ricominciare a taglieggiarvi gli snack e a farvi di vinavil; se la ragazzina molestata continua a frignare potete provare coi ceffoni; se il ragazzino effeminato è triste può provare a sporgersi dal cornicione; e chi vuol cominciare a giocare a bowling coi banchi, in attesa della campanella, è benvenuto.

Ma se qualcuno osa tirare fuori un telefono e scattare qualche foto di quello che succede qua dentro, com’è vero Dio, in virtù dei poteri a me conferiti vi spezzo quelle braccine, e ve le faccio mangiare.

FINE
*******

"Professore, il tuo cinismo incline alle stragi è di mio gradimento, non lo nascondo: ma se ne abusi, rischi invero di annoiarmi", commentò la maliziosa Verola.
"Se corro dei rischi", rispose il prof. Esso, "è solamente per l'ossessione di piacere alla mia Signora"...
"Ma tu guarda", s'intromise allora Mària, nel tono greve che le era abituale, "che razza di leccaculo ormai senza vergogna".
"Sei stata interpellata, Mària?"
"Tanto domani tocca a me, no? Cosa ho da perdere?"
"Cosa hai da perdere, me lo domandi? La competizione, la mia considerazione, e, se quanto ripetono in tv corrisponde al vero, anche la salute, visto che qua fuori c'è davvero l'epidemia di cacarella più virulenta mai attestata. Hai altre cose da perdere, Mària?"
E siccome costei non volle rispondere, Verola soggiunse: "Ci si rivede alle sei alla piscina olimpionica, mi aspetto come minimo una quarantina di vasche entro mezzogiorno".
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Sono schizzato e mi piaccio così

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(2008-9)
Ciao, sono il tuo telegiornale delle Tredici! La tua finestra sul mondo! Peccato che il mondo faccia schifo. No, sto scherzando, è tutto molto divertente.

Nei primi dieci minuti ci saranno interviste a dei politici presi per strada che si rimbeccano. Questo è effettivamente molto noioso, ma il Direttore sostiene che c'è una legge che lo costringe, e che comunque se un giorno sbagliasse il minutaggio licenzierebbero lui la moglie e i discendenti fino alla settima generazione. Ehi, sembra che a qualcuno sia successo davvero.

Apprezza almeno lo sforzo: anche se i politici che parlano sono quasi sempre le stesse mezze calze, i miei operatori si sforzano di trovare ogni giorno un'inquadratura diversa. Così almeno ti mostriamo un po' di Città Eterna a ora di pranzo; e poi anche loro riescono più spontanei, più naturali. Le loro dichiarazioni sembrano estorte a forza dopo ore di pedinamenti, e questo se vuoi è paradossale, perché la loro mansione di Portavoce consiste appunto in questo: uscire da Montecitorio, sparare una cazzata anche breve che comunque taglieremo, e andarsene per i fatti loro. Bella vita, eh?
No, in realtà dev'essere frustrante.

Vengo alle buone notizie. E' da un po' che ti parlo della nuova influenza, ebbene, pare che non ci sia nulla da temere, infatti l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha annunciato che si tratterà di un'ORRIBILE PANDEMIA. Moriranno appena MIGLIAIA DI PERSONE VACCINIAMOCI TUTTI SUBITO, VACCINIAMOCI PRESTO COSA FAI LI' VECCHIETTO, CORRI A VACCINARTI. Insomma, l'allarme è praticamente PANDEMIA! rientrato. PANDEMIA! Basta così, speriamo sia passato un PANDEMIA! messaggio rassicurante.

Ecco, finalmente siamo arrivati alla Cronaca, che poi è quello che m'interessa (no, in realtà non me ne frega niente). Dunque. C'è un tale in un quartiere di una città che ha ucciso un bambino. Pare gli sia saltato alla gola. L'assassino è uno straniero originario dell'... dell'Anatolia. Notizia tremenda, eh. C'è davvero da aver paura ad andare in giro, con tutte queste brutte facce... Stacco. Pare che in Italia ci sia un'emergenza razzismo. Lo dice una ricerca di un'università. Pazzesco, ma ti rendi conto! Il razzismo! In Italia! La ricerca dice che i mass media tendono a dare risalto ai crimini commessi da stranieri bla bla bla... a questo punto ti saresti già annoiato, quindi ho montato si seguito l'intervista a uno psicologo che l'anno scorso ha detto ai nostri microfoni che razzismo è brutto, razzismo non si fa. Poi c'è un incidente sull'autostrada, il conducente è positivo al palloncino, vergogna!

Ok, e veniamo all'Orribile Processo. Di' la verità, cominciavi a temere che non te ne avrei parlato, eh? Oggi pare che l'Imputata Bionda abbia scambiato uno sguardo con l'Imputato Scuro. Forse era uno Sguardo d'Intesa, ma potrebbe anche essere uno Sguardo di Disapprovazione, in effetti l'unica sarebbe fartelo vedere, ma in quel momento il cameraman s'era distratto, comunque fidati. È tutto? Sì, perché le deposizioni erano noiosissime e noi non vogliamo farti cambiare canale, soprattutto adesso che tra tre minuti c'è la pubblicità. E quindi... beh, abbiamo pensato di approfondire mostrandoti la fila di gente che c'è fuori! Una fila di gente che vorrebbe entrare a vedere l'Orribile Processo, non lo trovi morboso? Abbiamo attaccato la dichiarazione di un vip che lo trova morboso. Oddio, vip... in realtà è un poeta di cui nessuno conosce un verso, ma ha una raccomandazione di ferro della Congregazione Opere Mariane. E poi abbiamo intervistato i vecchietti in fila. Sono sempre morbosi, i vecchietti.
No, in realtà mi stanno simpatici.

A questo punto, senza nessun preavviso, comincia lo spezzone preferito dai bambini e dalla quota cacciatori della Lega: gli animali! I nostri piccoli grandi amici! Purtroppo non riusciamo più a mostrarti l'orso Knut, si è mangiato gli ultimi tre cameramen che si sono avvicinati. Pensavamo di farti vedere un cucciolo di foca orfano allattato a biberon, ma all'ultimo momento c'è arrivata un'agenzia: in un quartiere di una città un bambino è stato morso alla gola da un cane! Sì, vabbè, povero bambino, ma il cane? Vogliamo parlare del povero cane? Quale sarà il suo futuro? I cani come sapete sono buoni di default, e se per caso a uno scappa di sgozzare un bambino, chissà che infanzia di privazioni e crudeltà si porta dietro. Poi i bambini, diciamolo, certe volte non sanno veramente trattare i cani. Schizzano da tutte le parti, li eccitano... vogliamo un po' parlare della responsabilità di chi non li addestra?

Sì, lo so, è la stessa notizia di prima. Mi sono accorto che ad essere saltato alla gola del bambino è stato un "pastore dell'Anatolia”, embè? No, ma se tu leggi un'agenzia con scritto “pastore dell'Anatolia”, pensi prima a un cane o a una persona?
Come? Ma certo che funziona così:

straniero sgozza bambino = colpa straniero;
cane sgozza bambino = colpa bambino. 

Lo trovi strano? Non è affatto strano. È molto semplice: nel consiglio di amministrazione abbiamo tre padroni di cani e nessuno straniero. Adesso però veniamo alle cose serie. Pubblicità.

Automobili grosse, automobili veloci, bevande alcoliche, aperitivi alcolici, digestivi alcolici, gomme da masticare che pagano gli art director direttamente in psicofarmaci, compagnie telefoniche che cercano di strapparsi i clienti esausti, succhi di nulla al gusto di qualcosa che rafforzano, ah ah ah, le tue difese immunitarie, no scusa, ah ah ah, ma sul serio ti bevi tutta questa roba? E la prossima volta cosa ti venderemo? La polverina che scioglie le calorie? Certo, come no, abbiamo brevettato una sostanza che infrange le leggi della Termodinamica e invece di usarla per possedere il mondo te la vendiamo sotto le feste di Natale a prezzi modici!

Fine del momento serio.
Costume e Società. Allarme dei medici: la gente prende troppi antibiotici! Ma ogni antibiotico non fa che selezionare batteri più forti, e andando avanti così tra qualche anno i batteri diventeranno... chissà poi se era così interessante questa notizia, mah. Nel frattempo comunque ti abbiamo mostrato tre minuti di gente che starnutisce e tossisce sotto la pioggia e un sacco di pilloline dai colori sgargianti; speriamo che sia passato il messaggio giusto. Ah, dimenticavo: PANDEMIA!

E poi c'è il super-mega-concorso che sta facendo perdere il sonno agli italiani, che spendono un sacco di soldi per vincere il super-mega-jack-pot. Abbiamo intervistato uno psicologo che dice di stare attenti, che uno rischia di perdersi tutti i risparmi, giocando a questo super-mega-concorso con il super-mega-jack-pot. Che sciocchi, eh, questi italiani che... ma ti ho già detto che c'è un super-mega-jack-pot? No, sai, non vorrei mai venir meno al dovere di cronaca. Dunque, dicevamo, mi raccomando, non dilapidate i vostri risparmi per vincere questo SUPER-MEGA-JACK-POT. Così lo vincerà qualcun altro. Magari proprio dal tabacchino sotto casa tua, perché chi lo sa, in fondo potrebbe avercela lui, la scheda che vince il SUPER-MEGA-JACK-POT.

A grande richiesta: cucina! Che ne pensi della trippa? Lo so, è repellente, ma oggi ho deciso che la trippa è sexy, e ho qui le foto di uno chef superstellato che fa una trippa fantastica, la farcisce, la frigge, la impana, poi butta via la trippa e serve tutto il resto e guarda che roba, guarda! magari è immangiabile, ma guarda che colori, che contrasto, che saturazione, col montaggio serrato sulla preparazione, c'è dell'arte qui, e mentre mi guardi manda giù pure la tua pasta scotta, con un bicchier di vino che fa bene, dicono i medici.

E adesso che c'è... ah, già, modelle. C'è rimasta la marchetta alle ultime due case di moda importanti, poi se Dio vuole la stagione Primaveraestate è finita. Siccome però notizie da abbinare agli outfit non ne abbiamo, pensavamo di risolvere anche stavolta il problema così: mostriamo solo le modelle più ossute e intervistiamo uno psicologo che dice che l'anoressia è un problema. Quindi beccati altri due minuti di modelle ossute... Ehi, ma hai visto che bel pellicciotto quella lì... ah, è foca? Però. Proprio bella, eh. Certo, ne dovresti perdere di chili per entrarci. Però col nuovo prodotto che scioglie le calorie, chissà.

E questo è tutto. Ciao dal tuo Telegiornale, la tua finestra del mondo.
Sì, lo so, sono schizzato. E mi piaccio così.
No, non è vero, mi faccio schifo.

FINE

*******

"Sono perplessa", confessò la pensosa Verola. "Anche questo mi pare un racconto in senso molto, molto, molto lato. Si direbbe che l'argomento che vi ho proposto non consenta un normale sviluppo narrativo. Oppure ho invitato una mezza dozzina di deficienti, anche questo è possibile. Prof. Esso, ce la fai a portarci qualcosa di passabile domani?"
"Non dovrebbe essere così difficile, mia signora".
"Ecco, appunto. A domattina allora, e mi raccomando, domattina puntuali a pilates".
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L'assedio in pausa caffè

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(2011)
“Ehm, professore...”

Eh? Cosa? Come? Che c'è? Sono in pausa caffè.

“Professore, la pausa caffè era due ore fa”.

E allora? Mi serve concentrazione. Avevo anche messo fuori il cartellino do not disturb.

“Professore scusi, eh, ma ultimamente quando si concentra russa così forte che tremano i vetri di mezza redazione. E poi... sarebbe arrivata la classe”.

La che?

“Non si ricorda? La classe di quinta elementare, in gita d'istruzione, ci aveva detto che le mostrava il reparto”.

Aaah, già, la classe... che seccatura.

“Li faccio entrare?”

Un attimo, mi serve un caffè.

“Professore, ma è sicuro che tutti questi caffè le facciano bene?”

E tu che ne sai, ragazzino.

“Professore, ho cinquantadue anni io ormai”.

Appunto, ne devi mangiare di crostini ancora... Aspetta cinque minuti e poi falli entrare, ok?

***

“Allora bambini, se adesso fate silenzio, siamo arrivati nella parte della redazione oserei dire più... più nobile. Si può dire 'più nobile', professore?”

Ma sì, dica pure.

“È il reparto editoriali! Chi è che sa cosa sono gli editoriali?”
“Ioìo”.
“Noioìo”
“Allora dillo tu, Kevin”.
“Sono quelle colonnine scritte fitte fitte che stanno sui lati della prima pagina, è come se tenessero su la testata”.
“Miopapà dice che solo colonnine di chiacchiere che fanno discutere la gente”.
“Ah, ah, ah, Jonathan, non devi sempre credere a quello che dice papà... li scusi, professore... sono piccoli... credono un po' a tutto quello che gli si dice...”

Ma non ha tutti i torti, Jonathan.

“Ora, bambini, fate molta attenzione perché questo signore è il caporeparto, ed è uno degli editorialisti più letti d'Italia, e proprio lui ha accettato di mostrarci il suo luogo di lavoro, e di spiegarci come si fanno gli editoriali, pensate”.

Dunque, se prima di venire qui siete passati negli altri reparti, avrete notato che dappertutto c'era una cosa che qui manca, chi mi sa dire cos'è?

“Ioìoìo!”

Va bene, dimmelo tu.

“In tutti gli altri reparti c'erano tubi e cavi che portavano informazioni, e qui non ce n'è neanche uno”.

Esatto. Perché, come ha detto il vostro compagno prima, gli editoriali servono a far discutere la gente, e per far discutere non c'è bisogno di dare informazioni di prima mano, anzi, si rischia di distrarre il lettore. Questa è la prima cosa da sapere, quando si lavora al reparto editoriali: mai mettere un'informazione di prima mano, al massimo solo cose già rimasticate dagli altri reparti. Cosa che il lettore già sa, insomma.

“Ma se la gente le sa già perché le vuole rileggere?”

Perche gliele riscrivo io, che sono una persona importante, vedi come mi vesto? Ho anche la cravatta, qualche volta vado in tv - ma non troppo. Così, se tuo papà legge le cose che pensa già nel mio articolo, si convince che se le penso anch'io devono essere cose intelligenti.

“Mio papà legge solo Tuttosport”.

Funziona anche con Tuttosport. In questo reparto quindi noi lavoriamo con delle idee semplici semplici, che possono venire in mente ai vostri papà e alle vostre mamme, vedete? Stanno in quel cestone, il cestone dei Luoghi Comuni, noi li chiamiamo così. Allora tutte le volte che serve un editoriale, io prendo uno o due luoghi comuni (ma è meglio prenderne uno solo per volta) e li assemblo su una scocca. Per esempio, adesso ne pesco uno...

“Professore, ci fa provare?”
“Ioìoìo!”

Guardate che è un lavoro difficile, di responsabilità... oh, va bene. Tu, con le treccine, afferra un Luogo Comune.

“Ma quale devo prendere?”

Il primo che ti viene in mano.

“Questo?”

Leggi cosa c'è scritto.

“I-metalmeccanici-devono-rimboccarsi-le-maniche-perché-c'è-la globalizzz...”

...la globalizzazione.

“Cosa vuol dire globalizzazione?”

Che nel mondo, che è un globo, c'è sempre più gente disposta a fare il lavoro di tuo papà per meno euro all'ora, e quindi tuo papà deve sforzarsi di lavorare di più, meno pause caffè e meno gabinetto, eccetera.

“Ma mio papà è in cassa integrazione a zero ore”.

Parlavo in generale. Dunque, ora che abbiamo preso questo bel Luogo Comune, lo montiamo su una scocca. Le scocche sono da questa parte... sono intelaiature, come vedete”.

“Quanta polvere! Eccì!”

Sì, sono modelli molto antichi, in effetti sono più o meno le stesse intelaiature che si usano dall'invenzione del giornalismo, nel Seicento... ma alcuni erano in giro già ai tempi della retorica antica, una materia che voi a scuola non studiate.

“Studiamo Harry Potter”.

Meglio così.

“Ma non ho capito, scusa professore, a cosa servono queste sciocche?”

Scocche. Vedi, cara bambina, a tirar fuori un concetto dal cestone dei luoghi comuni sono buoni tutti, ma inserire un luogo comune in un'intelaiatura di processi logici è una cosa molto più complicata. La scocca è la base di tutto, perché rende i luoghi comuni resistenti al senso critico. E dev'essere aerodinamica, nel senso che deve offrire meno attrito possibile agli argomenti contrari. Deve dare l'immagine della coerenza, della logica, della rapidità, così che quando da lontano vedono passare il mio editoriale con tutti i luoghi comuni al posto giusto sulla scocca, tuo papà e tua mamma esclamano: “è tutto chiaro! Non c'è nulla da aggiungere, ha già detto tutto il Professore!”

“Mio papà guarda solo la tv”.
“Mia mamma legge solo internet”.

Parlavo di papà e di mamme in generale. Chi vuole montare il Luogo Comune su una scocca?

“Ioìo!”

Va bene. Stai attento, eh, che c'è gente che ci mette anche una settimana a...

“Fatto!”

Però, sei stato rapido.

“Da grande voglio fare l'editorialista!”

Allora devi imparare a lavorare più piano. Comunque l'editoriale non è ancora finito, adesso si procede alla zincatura, ovvero si immerge la scocca in una vasca di Lessico Corretto. Il lessico è molto importante: non deve essere troppo banale o sciatto.

“E perché?”

Perché deve essere chiaro che è un Professore che parla, uno che ha studiato a lungo. Altrimenti rischia di non esserci nessuna differenza tra questo editoriale e le chiacchiere dei vostri papà al bar.

“Mio papà non va al bar, è musulmano”.

...Quindi, per esempio, al posto di “scegliere”, si usa la parola “optare”.

“Cosa vuol dire optare?”

Scegliere.

“Ho capito, si prendono tutte le parole facili e si trasformano in difficili”.

Eh, no, attenzione, perché se l'editoriale diventa troppo difficile la gente poi non lo legge, e comincia a pensare che il Professore è uno snob. Invece il messaggio che deve passare è che il Professore ha studiato tanto ma si sta sforzando di farsi capire alla gente umile, che sarebbero poi i vostri genitori.

“I miei genitori fanno i precari all'università”.

Mollali appena puoi. Quindi, ricapitolando: non esageriamo con la zincatura. Due o tre minuti sono più che sufficienti per rivestire la scocca di un lessico forbito ma non troppo. Ecco, abbiamo finito.

“E adesso che si fa?”

Si manda l'editoriale al reparto correttori di bozza, dove elimineranno qualche errore ortografico, non troppi.

“Ma non passa dal reparto facts-checking, come tutti gli altri pezzi del giornale?”

Hai visto troppi film americani, quel reparto da noi non esiste – e poi se anche esistesse, non sarebbe il nostro caso, perché questo editoriale, come dicevamo prima, non contiene propriamente nessun “fact”, nessuna informazione di prima mano. Quindi il mio lavoro è finito. Domande?

“Professore, mio papà lavora in una fabbrica simile, però produce le macchine, anche dieci al giorno”.

Non male, tesoro, anche se dovrà abituarsi a produrne un po' di più. Ma qual è la domanda?

“Ecco, io volevo chiedere, tu quanti editoriali produci in un giorno?”

In un giorno? Per carità, al massimo ne faccio un paio alla settimana. Sono più che sufficienti.

“E tutto il resto del tempo cosa fai?”

Beh, mi concentro per scriverli meglio. E poi ho anche altri lavori, per esempio faccio lezioni all'università, utilizzando più o meno le stesse scocche che si adoperano qui, ma con una zincatura più pesante. Poi ogni tanto prendo tutti i miei editoriali, li monto in una scocca più pesante con copertina di cartone e rilegatura in brossura, e li rivendo di nuovo ai vostri genitori in libreria.

“Mio papà in libreria compra solo i divudì”.

E a volte mi invitano in tv a dire due parole sui miei libri. Insomma, sono molto impegnato.

“Ma professore, come si fa a diventare editorialisti?”

Eh, figliolo, bisogna studiare tanto tanto. E poi ancora tanto tanto. Fare tanti sacrifici. E poi, un giorno, chiedere a tuo papà se ti fa scrivere nel suo giornale, o in quello dell'amico del cognato, o se suo zio rettore ti assume all'università, cose così.

“Mio zio di mestiere guida il muletto dietro l'esselunga, mi ha promesso che me lo fa provare”.

Direi che tua strada è segnata. Altre domande?

“Professore, ma lei non ha paura della globa... come si chiama”.

Della globalizzazione? Tesoro, perché dovrei averne paura io?

“Ma lo ha detto prima, c'è sempre gente al mondo che è disposta a lavorare per meno euro all'ora. Questo non vale anche per lei?”

Ma no... vedi, la maggior parte di queste persone stanno in Cina e in India, e se si sforzano possono anche imparare a guidare il muletto dello zio del tuo compagno, ma prima che imparino a scrivere editoriali in italiano... eh, ci vorrà ancora molto tempo. Quindi il mio mestiere è al sicuro, vedete, perché è ancora un mestiere antico, come li chiamavano nel medioevo... un'Arte. Ci vogliono anni e anni di esperienza per riuscire a scrivere quello che...

“Professore, mio papà a volte ti legge...”

Oh, finalmente.

“...e dice che quello che scrivi tu lo potrebbe scrivere anche un bambino delle elementari, e in effetti adesso che ci hai mostrato come si fa, penso che mio papà ha ragione”.

Si dice “abbia ragione”. Vedi? Credi che sia facile, ma poi sbagli i congiuntivi.

“Professore, abbia pazienza, i congiuntivi esprimono: dubbio, incertezza, sospetto, mentre io sono assolutamente sicuro che mio papà HA ragione”.
“Io se scrivo temi con idee così banali la maestra mi dà al massimo sette meno meno”.
“Mia mamma ha smesso di leggerti da tre anni, dice che su internet ci sono persone che scrivono gratis cose molto più interessanti”.
“Mio papà quanto ti vede in tv la spegne, dice che piuttosto di starti ad ascoltare va al bar, dove almeno la gente che dice le tue banalità si può insultare dal vivo”.
“Adesso, professore, onestamente: quanto guadagna netto in quei cinque minuti in cui spiega con belle parole che i nostri genitori non devono più fare la pausa caffè?”

Fermi, state fermi... se mi venite tutti addosso non respiro...

“Professore, secondo me tu sei un parassita che non servi a nulla, nessun indiano o cinese ti verrà a sostituire perché fondamentalmente il tuo mestiere ormai è inutile”.
“Sei convinto di vivere in una torre d'avorio in mezzo alla pianura dell'ignoranza, quando ti basterebbe dare un'occhiata alla finestra per accorgerti che tutto intorno ormai è pieno di grattacieli”.

Maledette canagliette, dov'è la vostra maestrina?

“Sono qui dietro”.

Richiama queste piccole pesti, mi vengono addosso!

“Ehiehi, che maniere. Mi dia del lei, intanto, sono una professoressa anch'io. Ho appena conseguito un dottorato di ricerca in Letteratura per l'Infanzia, se ha dato un'occhiata al mio curriculum avrà notato che negli ultimi tre anni ho scritto più articoli scientifici di lei”.

Ma io mica leggo i curriculum...

“Già, che bisogno c'è. Dalla sua torretta siamo tutte maestrine. Allora bimbi, cosa vogliamo fare di questo babbano inutile?”
“Impicchiamolo!”
“Alla sua cravatta!”
“Dai!”
“Buttiamolo nel cesto dei Luoghi Comuni, in fondo è quello che è”.
“Anzi, probabilmente è lì che lo hanno trovato”.
“Lo hanno assemblato su una di queste scocche”.
“Poi a un certo punto si è convinto di essere un umano, ma è stato tanti anni fa, quando la gente ancora lo leggeva!”
“Meravigliosa intuizione, Kevin. Va bene, smontiamolo e vediamo se riusciamo ad assemblarlo in un modo più originale”.

Indietro! Indietro! Canaglia! Canaglia!

***

“Professore, dice a me?”

Eh? Oddio, era tutto un incubo. Devo essermi appisolato e... ma cosa sono queste urla di là? Ci sono dei bambini?

“Bambini? Ma no, è la vertenza. Sa che dobbiamo mandare a casa un'altra dozzina di redattori”.

Ancora?

“Che ci vuol fare, professore, continuiamo a perdere copie... Piuttosto, è pronto l'editoriale?”

No, mi dispiace, mi devo essere assopito e... Qual era l'argomento, scusami?

“Riforma Gelmini. Deve scrivere che gli studenti sono reazionari, non accettano le novità, difendono lo status quo”.

Ma l'ho già scritto la settimana scorsa.

“Va bene, allora prende il pezzo della settimana scorsa, lo smonta, lo riassembla in un ordine diverso, cambia un po' di sinonimi... se è stanco le mando uno stagista, ce n'è uno giovane che è molto bravo”.

No, no, faccio da solo.

“Guardi che non è un problema, tanto lo stagista è qua. E non lo paghiamo mica a prestazione. Anzi, non lo paghiamo proprio, ahah”.

Quanti anni ha?

“Un po' meno di trenta, direi... ventotto, ventisei...”

Alla sua età io ero già in facoltà... prendevo l'assegnino...

“Cosa ci vuol fare, professore, è una generazione di... di bamboccioni, no? Non l'ha detta lei questa cosa?”

No. Non ero io. L'ha detta uno che adesso è morto.

“Ah, mi scusi. Devo averla vista nel cestone dei Luoghi Comuni, e ho pensato che fosse roba sua”.

Eh? Cos'hai detto?




FINE
*******

"Un dialogo a più voci, però!", disse allora l'intrigata Verola. "Aureliano, il tuo coraggio non si fa scrupolo di superare i limiti della prudenza. Che ne pensi, Taddei?"
"Mia signora, perché lo chiede proprio a me?"
"Forse per le cinque volte che hai sbuffato durante la recitazione? Il racconto evidentemente non ha incontrato i tuoi gusti".
"Mia signora, non è a me che qui spetta il ruolo di giudice: e tuttavia se possibile vorrei fosse messo agli atti che i dialoghetti didascalici del mio avversario mi urtano; che il suo populismo frustrato, che non a caso parla per mezzo di bambini di scuola elementare imbeccati a ideologia, offende la mia intelligenza; e il tono da agitprop con cui ci elargisce l'ennesimo capitolo del suo martirologio mi ributta, sì, mi ributta profondamente".
"Disgustare i lettori come te", rispose Aureliano, "potrebbe anche essere uno dei miei obiettivi".
"E in ciò almeno ti sbagli, Aureliano", replicò Verola, "giacché l'unico obiettivo, qui, è intrattenermi e fare prova della vostra abilità narrativa. Come ci dimostrerà Taddei domani, con un nuovo racconto interessante e originale, vero Taddei? Ma ora a nanna, ché domani mattina c'è il corso di equitazione"
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Dio mi ama

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(1998)
Mi chiama Dio, mi chiede se ho impegni in serata.

"In effetti, ecco, è curioso, mi sono appena messo d'accordo con Simona, si pensava di andare al cinema… però potresti venire con noi, che ne dici? No, guarda, nessun imbarazzo. Sul serio… Beh, come vuoi".

Mi chiedono in tanti perché credo nel mio Dio. Lo so, è una di quelle classiche divinità di una volta, un po' noiose, sì, è tutto vero. Ma onestamente non mi posso lamentare. È un Dio che sa stare al suo posto e capisce immediatamente quando non è il caso di insistere. Al cinema con Simona volevo andarci da solo, è ovvio.

"Possiamo vederci comunque una di queste sere, se ti va…”, propongo, “venerdì per esempio hai degli impegni, sei da qualche parte?" Questa è una domanda retorica, Lui è onnipresente, e in particolare per me c'è sempre. È da tanti anni che mi chiama, almeno una volta alla settimana: certamente venerdì andrà benissimo.

Per lui. Quanto a me, ho un bel da ripetermi che non è una storia importante, anzi non è nemmeno una storia, ci esco solo una sera ogni tanto e basta. Stimo molto il mio Dio, potrei quasi dire di esser fiero di lui, ma vorrei tanto che non ci provasse tutte le volte con me, che potesse finalmente considerarmi per quello che sono: un amico, soltanto un amico… ma non c'è niente da fare. Dicono gli adesivi sui parabrezza: Dio ti ama. Accettalo. Ma io so già come andrà a finire: gliela darò buca anche questo venerdì, sicuro che se ne starà per una buona ora e mezza ad aspettarmi al bar dell'angolo. Per poi richiamarmi domenica, puntuale. Dio mi ama! e non sa proprio cosa farsene, della mia semplice amicizia.

Guardo troppa televisione.
Stasera c’era questo programma di spiritualità, e intervistavano un sacco di gente: tutti raccontavano di aver incontrato il loro Dio in un momento di massima difficoltà. La ragazza grassottella parlava di una situazione famigliare disastrosa (percosse, divorzio, ricatti sull'affidamento, alimenti in ritardo); il tizio con la barba era rimasto maciullato durante una spedizione di trekking in alta quota; ma l'immagine di una vita intera in carrozzina non aveva fatto in tempo a profilarglisi che tac! era miracolosamente guarito, e potete star certi che il suo Dio ci aveva messo lo zampino. E il consulente finanziario che si era giocato tutti i risparmi dei suoi clienti su una roulette a Montecarlo, perdendoli: sulla strada del ritorno aveva visto Dio, si era pentito e fatto frate; anche i clienti lo avevano perdonato, figurarsi: Dio ci aveva messo una buona parola.

Io su queste cose non dovrei riderci sopra. Peggio per me se guardo troppa televisione, se sgonfio la mia noia per una vita facile facendomi raccontare i guai che ho schivato, le disgrazie cadute su qualcun altro.

In fondo quello che provo veramente è invidia. Invidia per il modo in cui tante persone – tutti, si direbbe – si incontrano con Dio. Sempre sul luogo del disastro. Sempre quando ormai non ti aspetti più aiuto da nessuno. Quando somatizzi, quanto ti soffochi masticando di rabbia un cuscino in un letto sporco e troppo grande, quando vedi pezzi di te tutt'attorno e non ti rispondono, quando hai fame, quando hai sete, quando hai sonno.

E mi chiedo: solo a me capita che Dio si faccia presente quell'ora al mese che sto bene, pulito, ben mangiato e ben dormito, senza sensi di colpa e con buone possibilità di concludere con Simona in serata? Solo a me?

*******

"Dunque è tutto qui?", domandò l'annoiata Verola. "Faccio persino fatica a considerarlo un racconto".
"Mia signora", rispose Don Tinto, "a mia parziale discolpa, ho avuto poco tempo per elaborare una storia su questo tema".
"Hai avuto tutto il tempo necessario. Va bene, basta così. Domani sentiremo Aureliano, che più volte ha scosso la testa mentre Don Tinto raccontava i fatti suoi. Confido che saprà fare di meglio. E adesso a letto, che domattina alle sette siamo tutti attesi in infermeria per un controllo - così saremo ancora più sicuri di non aver portato con noi quassù quel batterio della cacarella che a quanto pare tormenta gli abitanti della valle... 
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Il contagio

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(2007)

>Avviso
>Sono capitano della polizia Prisco Mazzi. I rusultati dell'ultima verifica hanno rivelato che dal Suo computer sono stati visitati i siti che trasgrediscono i diritti d'autore e sono stati scaricati i file pirati nel formato mp3. Quindi Lei e un complice del reato e puo avere la responsabilita amministrativa.
>Il suo numero nel nostro registro e 00098361420.
>Non si puo essere errore, abbiamo confrontato l'ora dell'entrata al sito nel registro del server e l'ora del Suo collegamento al Suo provider. Come e l'unico fatto, puo sottrarsi alla punizione se si impegna a non visitare piu i siti illegali e non trasgredire i diritti d'autore.
>Per questo per favore conservate l'archivio (avviso_98361420.zip parola d'accesso: 1605) allegato alla lettera al Suo computer, desarchiviatelo in una cartella e leggete l'accordo che si trova dentro.
>La vostra parola d'accesso personale per l'archivio: 1605
>E obbligatorio.
>Grazie per la collaborazione

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Re:Avviso

Da: Tenente dei Carabinieri a riposo Nicudi Alcide
Egregio sedicente “capitano della polizia” Mazzi Prisco,
in relazione alla sua missiva elettronica del 16 maggio corrente anno, ore 10:27 antimeridiane, in cui lei mi notifica la mia “responsabilita [sic] amministrativa” per la complicità con un non meglio precisato trasgressore del reato di violazione dei diritti d’autore,

IO SOTTOSCRITTO
Tenente dei Carabinieri a riposo Nicudi Alcide, nato a Licata l’11/6/1949 e risiedente a Mondovì (CN), nel pieno possesso delle mie facoltà mentali nonché intellettive e psichiche

CERTIFICO:
di essere nato a Licata l’11/6/1949 e di risiedere a Mondovì (CN), nel pieno possesso delle mie facoltà mentali nonché intellettive e psichiche;

NOTIFICO
Punto a: Di non avere mai collaborato con chicchessia trasgredente i sopradetti diritti, che in quanto sanciti dal Codice Civile sono nutriti nei miei confronti del deferente rispetto con il quale ho sempre onorato la legalità e tenuto fede al giuramento della mia Arma ecc. ecc.

Punto due: Di non essermi mai, a nessuna ora del dì e della notte, recato in “siti illegali”; di ignorare altresì l’ubicazione di codesti siti e di non essere giunto a formulare con certezza una supposizione sul perché i sopradetti siti dovrebbero essere raggiungibili mediante il mio Computer Portabile, regalo del mio nipote maggiore;

DIFFIDO
La sua persona, in quanto sedicente “capitano di polizia”, dall’imputare nei miei confronti responsabilità amministrative o penali, pena l’eventualità non inammissibile che io la denunci presso autorità competenti;

LE COMUNICO, ALTRESì ED INOLTRE
Di avere inviato per conoscenza alla Polizia Postale di Cuneo la sua missiva elettronica in allegato onde contribuire al fare luce su questo caso.

Nei Secoli Fedele, suo
TENENTE DEI CARABINIERI A RIPOSO NICUDI ALCIDE

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Fwd:Re:Avviso

Da: Cicci’82, polizia postale
A: Webmaster p.postale

Ciao, Nn so se t e gia arrivata questa ;-)))) Hai letto il tenente dei CC? FA SGANASCIAREEEE!
O provato a clikkare sul file allegato, ma nn e successo niente. Forse serve 1 programma che nn cho, boh :-((( Prova a clikkare tu, vediamo.

PS: T scrivo dal PC del mio collega, xké il mio nn funziona più. L. MI MANDI UN TECNICOOOOO?


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Re:Re:Re:Avviso
Da: Giacomo Panzetti, Polizia Postale Cuneo

Gentile Tenente dei CC a riposo Nicudi Alcide,
mi trovo costretto a inviarLe questa missiva in modo tradizionale, in seguito a un misterioso incidente che ha inficiato irrimediabilmente i server della Polizia Postale.
A causa del sopradetto incidente, non siamo stati in grado di determinare l’origine della misteriosa denuncia a lei recapitata.
Certi di poter contare sempre sulla sua preziosa collaborazione, le inviamo i nostri più cordiali sentimenti, suo
Ecc. ecc.


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Re:Re:Re:Re:Avviso
Gentile Giacomo Panzetti, Polizia Postale Cuneo
da: Tenente dei Carabinieri a riposo Nicudi Alcide

Cogliendo l’occasione per ringraziarla della sua pronta missiva, testimonianza quanto mai rara e preziosa degli ampi margini di collaborazione possibili tra membri di differenti forze dell’ordine, anche a riposo, purché tesi al bene comune e nel rispetto dell’ordine e della legalità,

APPROFITTO

della sua gentile missiva per porLe un altro quesito: proprio oggi, recandomi in posta, una signorina un po’ svogliata – probabilmente lavoratrice a cottimo o interinale – ha rifiutato di versarmi la somma richiesta, adducendo la risibile scusa che il mio conto era stato svuotato ed era chiuso: dettaglio, questo, assolutamente inverosimile. Mi perdoni la schiettezza del mio sfogo, da uomo d’ordine a uomo d’ordine, ma in queste ore confesso di struggermi non poco dinanzi alla domanda: Dove sono i miei soldi? Certo in una sua competente e pronta e risposta, la saluto, suo [Ecc. Ecc.]


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>Re:Re:Re: Avviso
>Sono capitano della polizia Prisco Mazzi. Mi scuso per il disturbo della mail dell’altra volta, giunta per sbaglio al suo indirizzo a causa di un virus nel nostro server. Una migliore ispezione a chiarito che i siti che trasgrediscono il diritto d’autore non sono stati visitati dal suo computer e che quindi lei non e punibile di nessun reato.
>Per desinserire il suo nome dal nostro, conservate l'archivio (avviso_98666420.zip parola d'accesso: 1605) allegato alla lettera al Suo computer, desarchiviatelo in una cartella e leggete l'accordo che si trova dentro.
>Ricordate inotlre di riempire il form con i vostri dati sensibili: nome, cognome, indirizzo e-mail, passwors di conto bancario principale. E obbligatorio.
>Grazie per la collaborazione


*******

"Cos'è, uno scherzo?", chiese dopo qualche minuto la spazientita Verola. "Non si capiva nulla".
"Mia signora", rispose Arci, "il racconto, ispirato a una mail che ricevetti realmente, funziona certo meglio se letto a video, e tuttavia..."
"E i morti? La sofferenza? Non c'è nemmeno un ferito!"
"Mia signora, lei ci disse, [control v]: battaglie, guerre ed epidemie saranno parimenti bene accette. 
Così ho pensato di descrivere un'epidemia informatica, nel suo dipanarsi e prolificare attraverso gli errori degli uomini, che..."
"Sei in nomination, Arci, sappilo. Quanto al prof. Esso, a questo punto da lui mi aspetto almeno un'ecatombe, che mi ripaghi di tutto il sangue che voi checche in queste cinque notti avete risparmiato. E adesso ritiratevi. Domattina comincia il corso intensivo di amore tantrico. Io sotto le cinque ore non scendo, fatevene una ragione".
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La supplente

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(2009)
Agosto
Carissimo Aureliano! Come sta il mio anarcosindacalista prediletto?
Ti scrivo per condividere teco il gaudium magnum: ho rassegnato le dimissioni dal dipartimento. Dimissioni ufficiose, evidentemente, giacché il tignoso cattedratico che ho servito e riverito per un lustro tondo s'era ben guardato dal regolare la mia posizione con un qualsivoglia contratto. O tempora, o mores... Cinque anni della mia unica vita dilapidati alla corte di un barone senescente – consumati a completargli le ricerche, a gonfiarne le bibliografie, per tacere di tutte le sessioni d'esame che mi sobbarcai in sua vece, e tutto questo a che pro? Per vedermi sgraffignare un assegno di ricerca dalla prima figlia di un sodale del congiunto della collega di un ateneo lucano? De hoc satis: mi sono infine affrancata dalla schiavitù. Ora almeno avrò tempo per finire quel lavoro sugli scoliasti del Millecento – ma no, non temere, non verrò inghiottita dal Maelström della disoccupazione. Nel mentre che cerco un'occupazione confacente alla mia formazione (impresa ardua, lo concedo), ho accettato a partire da settembre una di quelle supplenze presso una scuola media secondaria inferiore che da anni mi vengono offerte e che ho sempre snobbato. Per una come me, avvezza a interagire con studenti ultraventenni, sarà senz'altro un'esperienza curiosa, ma (mi auguro) formativa. Chissà che non riesca a introdurre qualche diavoletto preadolescente ai misteri della filologia medioevale.

Settembre
Saluti da un'ormai ex giovane promessa della filologia. Scusa se non ho risposto alla tua cartolina con qualcosa d'altrettanto kitsch, ma ero praticamente rinchiusa in un monastero apuano dove mi sono portata avanti con la mia ricerca sugli scoliasti – e nessuno smerciava cartoncini illustrati. So che riderai nel leggerlo, ma è stata un'estate meravigliosa. Comunque, è giunta al termine.
So che friggi di condividere le mie impressioni sul mio nuovo ambiente di lavoro. Ebbene, i colleghi sono più o meno la congerie di frustrazione e pressapochismo che presagivo. Tu che sei il solito materialista mi dirai che è una questione di stipendio; che nessun ingegno men che mediocre può rimanere a lungo in una posizione professionale così mal remunerata. Come se l'università, da cui provengo, fosse più generosa coi suoi giovani addetti... del resto non c'è bisogno di ripeterci quanto i lavoratori dell'intelletto siano svalutati ovunque. Eppure in nessun contesto mi era capitato di percepire una rassegnazione così disperata come nella sala insegnanti da cui provengo dopo una riunione di tre ore. E dire che i prepuberi non mi sembrano quei selvaggi descritti a tinte così fosche dagli organi di stampa. Non che li conosca ancora molto, le lezioni sono cominciate da appena una settimana – ma mi paiono grosso modo vivaci come lo erano i miei compagni ai nostri tempi. Rammenti? Se seppi conquistare i vostri favori smerciando compiti e ripetizioni, non dovrei faticare troppo ad attirare la loro attenzione, ora che ho un bagaglio ben più ricco di nozioni da offrire. Già ora mi sembrano ben disposti nei miei confronti: quando gli racconto del medioevo mi ascoltano per ore intere, alcuni a bocca aperta. Non so quanto riescano effettivamente a seguirmi, ma si tratta di seminare: qualcosa crescerà.

Ottobre
[...] quanto ai miei studenti, dopo un paio di settimane trascorse a raccontar loro, sostanzialmente, gli affaracci miei (affaracci pure non privi d'interesse linguistico) ho pensato che fosse tempo di verificare le loro competenze linguistiche, e ho impartito loro il primo tema. È stato uno choc.
Più di metà della classe è praticamente analfabeta! Per alcuni di loro sembra troppo ambizioso anche l'obiettivo di tracciare segni consequenziali lungo le righe di un foglio protocollo: vanno su e giù tracciando grafi mostruosi. Li si direbbe tratti a forza da una caverna, non da scuole elementari di un certo prestigio. Persino i più bravi non hanno idea di cosa sia la punteggiatura: alcuni ficcano virgole e punti alla rinfusa tra le parole di un tema già composto, come pittori informali che ritocchino la loro opera scuotendo il pennello delle ultime gocce di tempera. Ovunque strafalcioni, termini dialettali, anglismi storpiati... alcuni di loro quando non sanno compitare una parola la sostituiscono col disegno, o con le orribili “faccine” mutuate da internet e dalla telefonia cellulare: il risultato sono rebus inintellegibili che mi fanno rimpiangere i manoscritti che sfogliavo quest'estate.
Correggere quei brogliacci è un'impresa disperata – non di rado l'inchiostro rosso delle mie correzioni sovrasta il nero e il bleu delle loro bic incerte. Ma poi, che senso ha segnalare i loro errori per iscritto? Tanto non riusciranno a interpretare nemmeno i miei segni...
Peraltro, è una faticaccia che non mi aspettavo. Tutto il tempo che speravo di dedicare alla rifinitura del mio saggio sugli scoliasti se n'è andato in queste disperate e (temo) inutili correzioni. Ho faticato anche a trovare il tempo per rispondere alla tua mail, come vedi. Scusami ancora, tua [...]


Novembre
[...] Dal fronte degli asini nessuna novità. Anzi, ti dirò: per qualche tempo ho temuto che a me inconsapevole fosse stata affibbiata una classe di minorati. Ma il collega al quale ho esibito i brogliacci ha scosso la testa e mi ha, per così dire, rassicurato: il livello dei miei studenti non si discosta molto da quello delle altre classi, così come il nostro istituto non si discosta dalla media nazionale. Con una profonda rassegnazione, di cui ora comprendo meglio le cause, mi ha spiegato che l'abbassamento della competenza linguistica dei bambini è un fenomeno ormai riconosciuto, e in parte riconducibile all'inserimento nella scuola elementare di altre materie, come la lingua straniera o l'informatica, che hanno sottratto ore importanti alla lingua italiana. L'afflusso di bambini stranieri da alfabetizzare ha completato il quadro. Il collega si è perfino provato a consolarmi! Mi ha detto che meno sono pratichi del linguaggio scritto, più tendono ad affidarsi alla comunicazione orale, per cui diventa relativamente più semplice catturare la loro attenzione raccontando delle storie. Me ne ero già accorta, si bevono tutto! Ma descrivendo le mie avventure medievali non ero consapevole di partecipare a mia volta a un'operazione di regressione culturale... dunque è quello che sono diventata? La maestrina dalla penna rossa che racconta favole a bimbi con la bocca aperta? No, questo no.
Ho fatto un esame di coscienza: forse avevo preso questo lavoro sottogamba, credendo che si trattasse di svolgere mansioni già ben definite, a cui avrei potuto dedicare solo una piccola parte del mio tempo e del mio intelletto. Avrei dovuto capire subito che le cose non stavano così. Ma credo di avere ancora tempo per rimediare ai miei errori.
Così ho fatto a me stessa un giuramento: alfabetizzerò questi somari. Li bombarderò di grammatica, li tempesterò di dettati: loro sbaglieranno e io li correggerò, dovesse essere l'ultima supplenza che accetto. Tu mi conosci: non pretendo di saper fare di tutto, ma quel poco che so fare voglio farlo bene.

Dicembre
Carissimo, buon Natale! Io non l'ho mai atteso con tanta trepidazione da quando a undici anni mia zia mi promise la Barbie Monaca. No, stavolta non ho in programma alcuna vacanza-studio in un eremo, ma ho qui a casa una pila di quaderni da correggere che sfiora il soffitto.
Il fatto è che finché non cominci a fare questo mestiere non puoi capire che lavoraccio sia correggere. Per spiegartelo devo fare affidamento ai tuoi ricordi di scuola, rammenti i pomeriggi trascorsi davanti a qualche esercizio nemmeno troppo lungo o complicato, ma comunque noioso e ingrato? Ricordi come bastasse una breve versione, o qualche espressione matematica, o un capitoletto di storia da studiare, a riempire di angoscia quelle ore che in teoria avrebbero dovuto essere le migliori della nostra vita? E la fatica impiegata non tanto a tradurre dal latino o a risolvere le operazioni, no, ma a trovare la forza morale di alzarsi dal letto, spegnere un telecomando, zittire la radio, chiudere la rivista ed estrarre un libro dallo zainetto, ecco, ti devo confessare che le ultime settimane mi sembra di averle trascorse così, a ingannare il tempo mentre la Pila dei Compiti in Arretrato si allungava, in piena regressione puberale. I miei pomeriggi sono inghiottiti da buchi neri di vergogna, addirittura mi capita di bloccarmi ore intere sul divano, davanti a stupidissimi programmi per casalinghe, perché la prospettiva di correggere per la centodecima volta la q di “aqqua”, di “cuadro”, perfino di “squola”, mi schianta. Quello che più mi pesa è appunto il dover ripetere infinite volte le stesse correzioni: mai come ora il rapporto di un insegnante di italiano per ogni sessanta studenti mi è apparso in tutta la sua inicuità. E dire che molti pensano al nostro come a un lavoro creativo! Una catena di montaggio, piuttosto. Almeno funzionasse bene, almeno producesse qualcosa di buono.

Gennaio
[...] Sei stato ben impietoso a rilevare il mio errore... sì, è successo, ho scritto “iniquità” con la c. La tua sorpresa è anche la mia, sai che non sono abituata a refusi del genere.
Ma cerca di capirmi, passo ore intere a correggere sciocchezze, ad accorciare lunghe frasi asintattiche e raddrizzare passati remoti e congiuntivi storpiati, alla fine è normale che qualcosa mi sfugge.
Non so se ti è mai capitato di ripetere una parola a voce alta, o anche solo mentalmente, finché essa non perde il significato e non rimane che una nuda veste di sillabe scorticate: è la stessa cosa che mi capita dopo una sessione intensiva di correzioni di grammatica. A volte ho la sensazione che quel poco di ortografia che riesco a infondere ai miei ragazzi, lo sto perdendo io.
Loro poi non hanno colpa se hanno avuto insegnanti mediocri e remissivi come i miei colleghi, che spesso interpretano il mio impegno come il zelo superficiale di una neofita che non ha ancora capito come vanno le cose a questo mondo, per esempio l'altro giorno il mio collega, te ne avrò parlato, uno di quelli con cui almeno ci si può parlare, mi ha detto testuale: “Vacci piano a correggere la punteggiatura”. E io: perché dovrei andarci piano? È il mio mestiere. E lui, scuotendo la testa: certo che è il tuo mestiere, ma se vai avanti così rischi di bruciarti. Cioè, siamo alle minacce, capisci? Basta l'arrivo di una nuova supplente per farli sentire scomodi sugli scranni sfondati delle loro cattedre, e dire che io all'inizio un po' ci contavo sulla loro collaborazione, e invece no, non mi anno aiutato per niente.

Febbraio
E successa una cosa bruttissima. Pochi giorni dopo l'ultima mail che ti avevo scritto mi é venuta un influenza pesissima, le scuole sono dei focolari di virus non indifferenti. Sono stata a casa dieci giorni e ne ho aprofittato per mettere giù quella ricerca medievale di cui ti parlavo, ti ricordi? Be' la rivista di studi medievali a cui o spedito il mio pezzo me là mandato indietro. Quell'oca della direttrice, una mia ex compagna di corso che se non era per le fotocopie dei miei appunti era ancora dietro a laurearsi, mi scrive che la ricerca “non soddisfa i nostri standard editoriali”??? ed è sempre la stessa rivista che da quando ci lavora lei scazza una bliografia su tre, e hanno il coraggio di criticare, la mia sintassi! Un articolo a cui lavoro da un anno, lo letto e riletto finche non mi e venuta la nausea, senzaltro puo essermi sfuggito un errorino, ma i correttori di bozze ci stanno per questo o no???

Marzo
Caro,
finalmente buone notizie: ti ricordi che ero stata a casa da scuola X 10 giorni? Bhè non me lo sarei mai aspettato, ma la collega di italiano che mi aveva sostituito é passata a farmi i complimenti e ma detto che erano da anni che non le capitava di insegnare a ragazzi cosi preparati in ortografia e in sintassi, e con un lessico cosi ricco e vario, a proprio detto cosi! Mi a anche chiesto qual'è il mio segreto e io:  non cè nessun segreto, gli faccio scrivere e gli correggo, gli faccio scrivere e gli correggo, 6 mesi cosi si vede che qualcosa serve, e tra l'altro io non avevo notato tutto questo milioramento, ma se lo dicono i colleghi penso che probabilmente e vero. Insomma in questo periodo mi sta dando più soddisfazione la scuola che la ricerca!!! ki lavrebbe mai detto??? bacioni

Aprile
Non sto bene
Non e tanto la scuola, la scuola è ok, i ragazzi sono forti, ma i compiti i compiti mi danno la nausea non riesco + a leggerli. O smesso di portarli a casa
Sono sempre stanca vado a letto alle 8 di sera mi sveglio alle 7 sono stanca lo stesso
Pensa che nel frattempo alla rivista anno silurato la tipa che mia rifiutato l'articolo!!!
Il mio professore a detto ke quello sarebbe il posto giusto X me ma io penso ke nn posso propormi in questo stato, faccio tanti errori, hai notato? E appena cerco di correggerli ancora la nausea
Il mio collega un giorno mi a detto secondo me ai perso dei gradi va dall'oqulista, ci sono andata, mi a detto ai perso un grado devi rifare le lenti
Non succedeva da quando andavo alle medie ma già, adesso ci sono tornata
Magari la prossima volta mi mettono lappparecchio per i denti ;-)
Scusa smetto perche mi viene ancora la nausea.
Ciao

Maggio
Il dottore mi a detto che se voglio posso ricominciare a scrivere un po X esercitarmi, e io pensato subito d scrivere a te. Scusa se trovi degli errori, ok???
È stato 1 esaurimento ha detto lui, X lo stress.
Io nn sapevo di essere sotto stress ma lui Signorina si fidi ognuno si esaurisce a modo suo lei si è esaurita il linguaggio
Mi a detto Ci sono quochi che per il troppo lavoro perdono il senso del gusto
e giardinieri perdono il senso dellodorato
lei uguale a perso la cosa ke + aveva coltivato fino da piccola, il gusto X le parole
ma tornerà, ho chiesto, lui a stretto le spalle
poi a suonato il campanello, erano due miei studenti!!! portavano un mazzo di fiori allora o detto: menomale ke nn sono giardiniera! loro nn anno capito.
Mi anno anke scritto un biliettino:


Alla nostra cara professoressa, 

per la pazienza e la dedizione con cui ci ha seguito
in quest'anno meraviglioso,
e con l'augurio di una pronta guarigione.
La classe III H


Post Scriptum: ci manca tantissimoooooo!

Ma mentre cercavo d leggerlo mi e venuto da vomitare e poi mi sono messa a piangere!!! ke vergonia


*******


"Non male, compagno Aureliano, non male", proruppe dopo qualche attimo di silenzio l'ironica Verola, "salvo il trascurabile fatto che avevo chiesto un racconto di morte, e qui la morte dov'è? Dov'è la sua vittoria?"
"Mia signora, se non erro si parlava di morte, sì, ma anche, in un'accezione più figurata, di malattia, di sofferenza, e io ne ho profittato per illustrare la progressiva perdita di senso di una giovane operatrice del comparto cognitario, che con la sua bizzarra sindrome illustra..."
"Seh, seh", interloquì don Tinto, "la verità è che il tuo irriducibile pacifismo t'impedisce di attentare alla vita dei tuoi stessi personaggi, per quanto immaginari".
"Se ho capito bene", disse allora Verola, divertita, "abbiamo qui tra noi uno di quelli che da bimbi si facevano scrupoli a far cadere i propri soldatini in combattimento? Tuttavia non credo che la non-violenza paghi, in narrativa. Per ora Aureliano si è guadagnato una nomination; domani sera vedremo se il nostro amico Parroco saprà trattare con maggior crudeltà i suoi personaggi. E ora a letto, che domani c'è il corso di cucina. Tenetevi per detto che non mi prenderò un partner che non mi sappia preparare un brunch come si deve".
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Di ronda in ronda

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(2009)

"Mia signora - cominciò dunque Taddei - lei è troppo giovane per ricordare di quando non c'erano le ronde nel quartiere. La gente aveva paura a uscire in strada, non sapeva di chi fidarsi..."

Certo, quando proprio le cose si mettevano male c'erano i Poliziotti. Si chiamavano col telefono, e a volte arrivavano, con le volanti, le sirene, le mitragliette – ma poi si mettevano a fare domande anche a chi non c'entrava o non voleva c'entrare, s'impicciavano dei fatti altrui, insomma alla fine nessuno li chiamava volentieri.

Invece gli Uomini in Camicia Verde, quando cominciarono a venire, non facevano domande. Soltanto: Tutto Bene Signori? Possiamo esservi utili in qualche modo? Erano gentili, e non mostravano le armi (all'inizio non le portavano nemmeno). Si fermavano sempre al bar da Pino a prendere il caffè, e insistevano per pagarlo. Poi si mettevano a chiacchierare, più di calcio che di politica, fino a mezzogiorno, quando andavano a dare un'occhiata al vialetto su cui si affacciavano le scuole. L'anno prima era morto un ragazzino, messo sotto da un pirata, così i vigili non si erano lamentati troppo quando gli Uomini in Verde avevano cominciato a dare una mano col traffico. Inoltre, da quando erano arrivati, non si era visto più un solo spaccino del Magreb intorno alla scuola. Si capisce che i genitori fossero molto contenti delle Camicie Verdi – molti chiesero anche di unirsi, erano felici di dare una mano. Persino alcuni magrebini chiesero la casacca.

Quando ci furono le elezioni, e nel quartiere il partito degli Uomini in Verde vinse a man bassa.

Dopo le elezioni ci furono dei tagli, per via della crisi economica. Davanti alla scuola i vigili non si videro più, ma all'inizio nessuno ci fece caso. Tanto c'erano gli Uomini in Verde, ed erano capaci di dirigere il traffico quanto chiunque altro. Anzi, molti automobilisti del quartiere avevano più rispetto dei Verdi che dei Vigili, perché i Verdi ormai erano tutta gente del quartiere, che sapeva chi eri che mestiere facevi e dove parcheggiavi la macchina: perciò non era proprio il caso di fare gestacci al finestrino. Così, man mano che i semafori si spegnevano (il comune non poteva più permettersi la manutenzione), il traffico rimase in mano ai Verdi, ma tutto sommato funzionava. Si facevano meno incidenti, la gente ci metteva più attenzione. Non era più come una volta, quando guidare in città era come schivare i birilli: adesso dovevi stare attento a chi ti osservava; guidare era tornato a essere un gioco di relazioni. Lo dicevano anche i sociologi: le Ronde ci hanno costretti a uscire di casa, a riscoprire il concetto di cittadinanza attiva, eccetera. Gli Uomini in Verde vinsero anche le elezioni successive.

Però la crisi economica continuava, e molti onesti padri di famiglia cominciarono a borbottare e chiamarsi fuori. Il fatto è che le ronde erano cominciate in sordina, come un dopolavoro per pensionati, e man mano erano diventate sempre più importanti: ora, senza una camicia verde all'incrocio, si rischiava il caos. Fare un turno agli incroci poteva essere molto stressante, e anche se tutti ti dicevano grazie e votavano per il tuo partito, ugualmente dopo un po' cominciavi a sentirti un pirla a farlo gratis. Alla fine restarono soltanto i più esaltati, e i disoccupati: e quest'ultimi (alcuni dei quali magrebini) ormai le ronde le facevano soltanto intorno alla villetta dell'Assessore alla Sicurezza, quello eletto coi voti degli Uomini in Verde. Costui alla fine riuscì a sbloccare qualche fondo comunale, ma erano briciole.

Nello stesso periodo un odioso piromane cominciò a dar fuoco alle automobili del quartiere, una ogni notte. A quel tempo ormai la Polizia non aveva più compiti di sorveglianza: in base al principio di sussidiarietà si dava per scontato che a queste cose ci pensassero le ronde. Anche gli Uomini in Verde ritenevano che la cosa fosse affar loro; soltanto chiedevano ai residenti del quartiere di contribuire alle spese per la vigilanza notturna. Così fu organizzata una colletta: gli Uomini in Verde passavano di casa in casa, e ciascuno dava secondo la sua necessità e la sua cilindrata. Chi aveva il garage pagava il triplo, perché (spiegava l'esattore) anche i garage dei tirchi prendono fuoco molto bene.

Fu una gara di generosità davvero commovente: tutti diedero qualcosa. Solo Pino, il titolare del bar, non volle partecipare, per via di un'annosa bega col boss degli Uomini del quartiere, un vecchio conto da saldare. Beh, sì, certo, era capitato spesso al boss di offrire da bere alle sue Camicie, al termine di un turno faticoso, e tante volte aveva detto “segna sul conto”: sempre in attesa di quei maledetti fondi che non si sbloccavano mai, ma la colpa di chi era? Comunque se Pino non voleva pagare per la vigilanza, per la protezione, era un suo diritto, erano fatti suoi.

La colletta fu un successo: nessuna automobile o garage prese più fuoco nel quartiere. Un mese dopo tuttavia fu il bar di Pino ad andare in fiamme.

I famigliari gli sconsigliarono di chiamare la polizia. Cercarono anche di convincerlo ad accettare la generosa offerta del Boss, che voleva rilevare le macerie del bar per installarci un circolo ricreativo delle Camicie Verdi. Pino però era una testa dura, e aveva contatti in altri quartieri. Vendette la licenza a un suo lontano parente, e sloggiò. Il bar, trasformato in Ristorante, riaprì due mesi dopo, con certi ceffi dentro che nessuno aveva mai visto in zona. Quando gli uomini in casacca verde provarono a chiedere la questua, furono cortesemente accompagnati alla porta con qualche colpetto di manganello alla nuca. Questo rese evidente a tutti che gli Uomini in Nero avevano messo piede nel quartiere.

Gli Uomini in Nero non avevano mai avuto una grande presenza in zona, ma in altri quartieri erano maggioranza. Si raccontavano cose favolose e un po' orribili sui quartieri gestiti dai Neri: stranieri segregati, apartheid sulle panchine ai giardinetti, scolaresche al passo dell'oca, eccetera, ma in gran parte erano leggende. Certo, avevano un'organizzazione un po' più militare, e questo in certe situazioni poteva servire. Per esempio, il Comandante Nero a cui era stato affidato l'ex bar di Pino era un fine stratega e sapeva che lo scontro frontale coi Verdi, per il momento, era fuori discussione. Bisognava andarci piano; così quando seppe dell'increscioso incidente andò pubblicamente a chiedere scusa al Boss dei Verdi, e lo invitò anche al ristorante, a bere alla sua salute e a sue spese. Il Boss ci andò; rifiutare l'invito l'avrebbe messo in cattiva luce, bisognava dimostrare di aver coraggio.

Quel pomeriggio, mentre il boss dei Verdi brindava nel locale dei Neri, ci fu una rissa davanti alle scuole. Una squadra di Uomini in Nero circondò tre magrebini in casacca verde che spacciavano. Questo era quello che facevano per mantenere le loro famiglie, da sempre: prima in borghese, poi, adeguandosi allo spirito dei tempi, in casacca verde. Inchiodati dalle prove fotografiche (e al vecchio semaforo in disuso), i tre spaccini sgamati fecero crollare l'indice di gradimento degli Uomini in Verde nel giro di una mezza giornata. La raccolta fondi porta a porta cominciò a fruttare meno: anche se nessuno osava rifiutare un obolo, quasi tutti piangevano miseria, trovavano scuse, scucivano spiccioli. Il boss Verde era già l'ombra di sé stesso, quando, un mesetto dopo, girando la chiave della macchina saltò in aria. La raccolta fondi fu temporaneamente sospesa. Qualche tempo dopo ci furono le Comunali e gli Uomini in Nero, a sorpresa, s'imposero nel quartiere.

La loro raccolta era molto più scientifica: si trattava anche per loro di dare ciascuno secondo le proprie possibilità, ma queste possibilità erano calcolate in base alle dichiarazioni dei redditi, grazie alle talpe che gli Uomini in Nero avevano nell'Ufficio Entrate. Tanto che alla fine la dichiarazione era meglio farla al sindacato degli Uomini in Nero: così i soldi per la protezione li detraevi direttamente dalle imposte. Insomma, da un punto di vista burocratico il progresso era innegabile. I Verdi erano sempre stati dei simpatici cialtroni in questo senso.

Il guaio dei Neri era la loro fissa col colore della pelle. Il quartiere era multietnico da quasi mezzo secolo; e questa idea che le ronde spettassero solo ai bianchi non passava. Era un vero e proprio boomerang; i ragazzetti con la pelle scura, che fino a pochi anni prima avevano potuto scegliere se spacciare o mettersi la camicia verde e fare le ronde, ora non avevano scelta: dovevano spacciare. Nel giro di sei mesi il parcheggio della scuola divenne una delle principali piazze di smercio della città. La gente cominciò a brontolare. Il Comandante Nero non ci badava. La gente cominciò a sussurrare che il Comandante Nero ci prendesse delle percentuali, in contanti e in polvere purissima. Il Comandante mandò una squadraccia a pestare gli spaccini. Tornarono alla base mogi mogi, coi manganelli fra le chiappe. Cos'era successo?

Era successo che il comandante Nero aveva sottostimato il problema. Il parcheggio della scuola era diventato una piazza talmente interessante da attirare l'attenzione della gang Morales, una banda di narcotrafficanti di origine andina con ramificazioni in tutto il mondo, che finanziava la Revolución Permanente vendendo droga ai viziati occidentali. Il core business dei Morales erano ovviamente i derivati della foglia di coca, di cui detenevano praticamente il monopolio nel lato nord della città: fornitori ufficiali del Sindaco, fronteggiarli era fuori discussione. Non solo, ma lo stile di vita libertario e lassista della gang stava facendo presa sulle giovani generazioni, che dopo un paio d'anni di marce e saluti romani ne avevano già abbastanza. La gang aveva anche un suo braccio politico, la lista rossa Izquierda y Libertad. Per quanto in crescita, difficilmente avrebbe potuto imporsi le elezioni, a meno che... non si fosse alleata coi Verdi.

Fino a qualche anno sarebbe sembrato impossibile, ma la politica ti ficca nel letto di strani compagni. Con l'aiuto dei Morales, la circoscrizione tornò in mano ai Verdi. Il loro capo, fratello minore del Boss esploso, fece giusto in tempo a prestare giuramento: un cecchino dei Neri lo centrò da un cornicione. A quel punto i Morales fecero una chiamata intercontinentale. Qualche giorno dopo il comandante Nero, accerchiato nel privé del suo ristorante, sollevò il capo da un vassoio di coca e vide sugli schermi a circuito chiuso che gli uomini della sua sorveglianza venivano a uno a uno strangolati da... incursori della marina boliviana? Oh, beh, “Me ne frego”, pensò lui: imbracciò il suo bazooka, spalancò la porta e...

***

“Qui non c'era un ristorante, dieci anni fa?”
“Io mi ricordo un caffè”.
“Il bar di Pino. Poi è andato a fuoco, e al suo posto ci hanno fatto una villa. E ora questa... questa voragine”.
“È stato un missile terra-terra, due anni fa. I Verdi stavano facendo una convention, una specie di rito celtico, che ne so io... qualcuno ha informato i Morales...”
“Ma non erano amici, una volta?”
“Divergenze. Pare che i Verdi non volessero più coca nel quartiere. Dicevano: noi vi proteggiamo, va bene tutto, anche le serre di cannabis sui terrazzi sono ok, però niente polvere ai nostri ragazzi. E così...”
“I ragazzi sono passati tutti coi Morales”.
“È più complicato di così. I Morales non hanno problemi a finanziarsi, sono una multinazionale. I Verdi invece continuano a stressare col pizzo, porta a porta, molta gente non ne poteva più. Qualcuno cominciava a rimpiangere persino i Neri”.
“Bene, e noi in tutto questo?”
“Ecco, dopo lo sterminio dei Verdi si è creato un certo senso d'insicurezza nel quartiere. È tutto in mano agli spacciatori e la gente non esce più di casa. Così il Monsignore ha pensato che potrebbe toccare a noi”.
“Ma i Morales...”
“Ci ha parlato il Monsignore, è tutto ok. Anche loro pensano che il quartiere sia un pessimo biglietto da visita. Ha bisogno di una ripulita”.
“Ci alleiamo coi rossi?”
“Solo all'inizio. Mettiamo su una chiesa, un oratorio, una sezione di CL, e quando avremo tirato un po' di gente dalla nostra, allora...”
“Quelli hanno i missili”.
“Ma noi abbiamo Dio”.
“E basta?”
“No, se vuoi saperlo è arrivata anche quella partita di granate all'uranio impoverito, contento?”
“Rendiamo grazie a Dio”.

Se chiedete ai nonni, forse qualcuno ancora si ricorda, di quando non c'erano le ronde nel quartiere. La gente aveva paura a uscire in strada. Non sapeva di chi fidarsi...

*******

"Hai finito?"
"Certo, mia signora".
"Ecco!" esclamò la schietta Verola, "questo sì che è un racconto sul quale valeva la pena di sonnecchiare. Ma quelli del compagno Aureliano, più che sbadigli, mi sono sembrate esibite smorfie di disgusto. O sbaglio?"
"Mia signora", ammise quest'ultimo, "pur apprezzando la prima parte del racconto, in cui Taddei ha ben delineato la deriva sociale conseguente alla privatizzazione della sicurezza, non potevo condividere la caricatura della sinistra extraparlamentare, equiparata per esigenze macchiettistiche a un cartello di narcotrafficanti, mentre è proprio dai gruppi della sinistra cosiddetta radicale che viene l'opposizione più netta a..."
"Stop, stop", lo interruppe l'insofferente Verola, "ricorda che né tu, né Taddei, né gli altri, siete qui per fare politica, quanto piuttosto per roteare la vostra coda di pavone narrativa di fronte al mio severo giudizio critico. Come capiterà a te domani sera, intesi? E adesso a nanna, che domattina si fa spinning".
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Sem livros e sem fuzil

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(Questo è un pezzo che ho scritto per l'Unità on line in gennaio, quando Lula rese evidente che Battisti non sarebbe mai stato estradato, anche se in Italia faceva comodo a molti pensarla diversamente. Lo ripubblico qui perché può essere ancora utile, con un'avvertenza: io non sono un giornalista in nessuna accezione del termine, men che meno un esperto di giudiziaria, anni di piombo, diplomazia o Brasile. I primi pezzi che scrissi sul caso Battisti erano deliberatamente cose da blog un po' cialtrone. Vederli linkati ancora oggi come fonti primarie mi crea più imbarazzo che soddisfazione; continuare a leggere su molti organi autorevoli gente che ne sa ancora meno mi dà, non scherzo, le vertigini).


Un latitante troppo fotogenico
Alla fine di tante discussioni su Cesare Battisti resta un dubbio: ma se non avesse la faccia che ha, con quel ghigno da furfante che ha mostrato ai fotografi due o tre volte di troppo, ne staremmo ancora parlando? In fondo un motivo ci deve pur essere, se a distanza di tanti anni il suo volto è ancora sui titoli dei tg, mentre di tanti altri latitanti non si parla semplicemente più. Non si parla più di Giorgio Pietrostefani, che per i giudici italiani è colpevole dell'omicidio di Luigi Calabresi. Nessun La Russa si permette di minacciare fuoco e fiamme contro la Svizzera che non intende estradare Alvaro Lojacono, complice dell'assassinio di Moro, divenuto cittadino elvetico; nessuno propone sanzioni contro il Nicaragua se il brigatista Casimirri gestisce suo ristorante in riva all'oceano. E la lista di gente che l'ha fatta franca potrebbe continuare ancora a lungo: cos'ha dunque Battisti che tutti questi assassini non hanno? Io una teoria ce l'avrei.



Battisti è il latitante più fotogenico che abbiamo. Per quante volte possa avere rinnegato la lotta armata, il suo volto è diventato l'icona con cui i cronisti scelgono di rappresentarla. Bastano pochi secondi di filmati di repertorio, lui che ghigna in un parcheggio, e i Due Minuti d'Odio quotidiani sono serviti. Sarà per questo che di lui si parla tanto, e invece non si parla mai, per esempio, di Cacciola?

Salvatore Alberto Cacciola non è un terrorista, ma la sua storia è ugualmente interessante. È un banchiere fraudolento. Nato in Italia, cresciuto in Brasile, fuggito in Italia nel 2000, quando l'aria per lui cominciava a farsi pesante. Non lascia orfani e vedove, come ne lasciarono i Proletari Armati di Battisti, ma famiglie sul lastrico ne ha messe parecchie, e in questi dieci anni i brasiliani non si sono mai veramente scordati di lui. Questo è un dettaglio importante, che spesso si omette quando si parla di Battisti in Brasile. Perché prima che il nostro Proletario Armato fuggisse laggiù, era l'Italia che avrebbe dovuto estradare Cacciola in Brasile, e non lo fece. Fino al 2007, condannato in patria a tredici anni, Cacciola rimase a spassarsela dentro i confini della nostra rispettabile Repubblica, più o meno ignorato dai nostri organi di stampa. Che i brasiliani non se lo fossero affatto dimenticato lo dimostra la velocità con cui fu acciuffato appena osò mettere appena il naso oltre Ventimiglia, per un weekend a Montecarlo con una nuova fidanzata. Fu il ministro della giustizia Genro a ricordarlo allo stesso presidente Napolitano, un anno fa: gli italiani che ci chiedono Battisti non ci hanno mai dato Cacciola, un criminale comune. È superfluo notare chi aveva avuto, per gran parte di quei sette anni, la responsabilità di governo.

D'altro canto Berlusconi ci teneva tantissimo, a Battisti. A parole. Nei fatti, è lecito dubitare che si sia mai realmente speso per l'estradizione. Non risulta che ne abbia parlato con Lula nell'ultimo incontro, il vertice italo-brasiliano di fine giugno. Non in pubblico, “magari in ascensore”, dice l'ex sottosegretario Adolfo Urso, oggi in Futuro e Libertà. Il fatto è che Battisti diventa un argomento interessante soltanto davanti ai microfoni italiani. Ai brasiliani magari fece più effetto il party privato con sei ballerine che Berlusconi si concesse per l'occasione. 

Il caso Battisti è un esempio classico dell'approccio berlusconiano ai problemi: perché risolverli, quando li si può trasformare in spettacolo? Vedi l'emergenza rifiuti: dopo le elezioni Berlusconi aveva gli strumenti e il consenso per risolverla in modo strutturale, anche con misure impopolari; ma gli conveniva davvero? Che altro avrebbe promesso alle elezioni successive? Lo stesso con Battisti. Forse, con un'azione diplomatica più ponderata, Berlusconi avrebbe potuto averlo indietro.

Ma ne valeva davvero la pena? Non era meglio mandare in vacanza il solito ministro Frattini, rilasciare una dichiarazione insolente nei confronti di Lula, e liberare il ministro delle chiacchiere moleste, on. Ignazio La Russa? Si sventola il ghigno del mostro al tg delle venti, si mobilitano i parenti delle vittime (che hanno tutte le ragioni per sentirsi presi in giro), e se non si ottengono risultati, si può sempre lamentare l'esistenza di un complotto radical chic contro l'Italia. Probabilmente orchestrato da Carla Bruni – che con Battisti ha smentito di aver mai avuto a che fare, ma non ha importanza: tutto fa brodo. Compresi i dubbi di chi in Italia osa mettere in discussione le sentenze: non per una questione ideologica, ma perché tutto lascia intendere che su Battisti, una volta fuggito, qualche ex complice abbia scaricato tutto quello che poteva in cambio di sostanziosi sconti di pena.

Questa è stata la giustizia italiana che ci ha fatto uscire dagli anni di piombo. Possiamo anche decidere che certe pagine è meglio non riaprirle, ma dobbiamo accettare che i brasiliani, a distanza, maturino un giudizio diverso. Anche alla luce di un altro dato di cui si parla poco: le nostre carceri fanno schifo. In un anno abbiamo perso 170 detenuti: l'ultimo, morto il 28 dicembre, era un invalido al 100%. Di questi, 65 sono suicidi. Sono conteggi che difficilmente sentiremo al tg: il ghigno del perfido Battisti è senz'altro più sexy. Eppure l'Unione delle Camere Penali parla senza mezzi termini di strage, e lamenta che le carceri italiane siano diventate una “discarica sociale dove vengono meno i principi fondamentali del diritto e dell'umanità”: di fronte a tutto questo desta stupore che una richiesta di estradizione venga rifiutata per ragioni umanitarie?

E adesso che si fa? Si potrebbero ammettere i propri errori sul caso Cacciola, chiedere scusa per le dichiarazioni che hanno fatto infuriare Lula, pensare magari a un possibile percorso di revisione dei processi, non solo nel caso di Battisti. Ma tutto questo sarebbe faticoso e complicato, e avrebbe come unico risultato il ritorno in patria di personaggi che fanno molta piùaudience finché recitano, loro malgrado, la parte di cospiratori all'estero. Molto meglio continuare a far baccano, blaterando di sanzioni e altre misure minacciose che danno un tono molto virile ai nostri governanti. Paolo Granzotto, sul Giornale, ha scritto che "un tempo, in simili casi, una nazione con gli attributi e che non voleva esser trattata a pesci in faccia mandava le cannoniere": insomma siamo già alla battaglia navale. Discorsi da pranzo di capodanno, chiacchiere ideali per assopire i cummenda in poltrona: quando poi lunedì si torna al lavoro, di blocchi alle esportazioni e accordi commerciali congelati nessuno vorrà più sentir parlare, i cummenda per primi.

E quindi? Ricominceremo da capo. Quello che non abbiamo saputo chiedere a Lula, lo richiederemo a Dilma Roussef, probabilmente con la stessa boria. E davvero non ha nessuna importanza che le possibilità di ottenere un verdetto diverso dalla nuova Presidente siano praticamente nulle. In fondo è proprio quello che Berlusconi e i suoi uomini perseguono sempre, consapevolmente o no: un gran baccano intorno al nulla. Battisti continuerà a scappare di nazione in nazione, coi suoi rimorsi (se ne ha); la sua foto, l'unica cosa che realmente interessa ai nostri governanti, continuerà a sogghignare in tv, alla faccia nostra.
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Crux desperationis

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Io l'ultima sentenza di Strasburgo, se devo essere sincero, non l'ho molto capita. Il problema del crocefisso non mi sembra così complesso, e trovo molto strano che in due anni si riescano a scrivere sentenze così diverse. Comunque ne approfitto per ripubblicare l'unico pezzo di questo blog che piacque anche a Giuliano Ferrara, a proposito buongiorno Giuliano Ferrara, l'ho rivista in tv, una volta non era così noioso.

Il Calvario quotidiano

Io un crocefisso l'ho già tolto.
Due settimane fa, nell'intervallo. Stavo dando un'occhiata ai traffici loschi in zona distributore di merendine, quando vengono in due a dirmi che in Seconda è caduto Gesù. Mi reco immediatamente sul luogo del misfatto e interrogo i testimoni oculari. Chi è stato? Silenzio. Proiettili, elastici, palline di carta? Negano tutti, del resto non mi pare l'abbiano mai considerato un bersaglio; hanno una certa soggezione. Forse una vibrazione del pavimento, qualcuno che saltella o che va a sbattere contro la parete, una porta chiusa di scatto: sia come sia, sembra caduto da solo. Ne traggo auspici non buoni.
Ma in quanto insegnante ostento razionalità e pragmatismo. Do un'occhiata al Cristo in questione: è caduto per l'ultima volta. Frattura completa del polso sinistro, il destro era già partito mesi fa. O anni fa. Anche il chiodino sotto i piedi è sparito da molto. A questo punto mi spiace, ma finché qualcuno (chi?) non stanzia nuovi fondi, il crocefisso se ne resta nel cassetto in fondo.

Oggi l'ho rivisto in corridoio, però a grandezza naturale. Sanguinava copioso. Subito ho pensato a una rissa in IIC, poi mi sono accorto della corona di spine e della croce che portava in spalla, quindi, insomma, era Lui.
“Domine, quo vadis?”
“E non parlare latino, che tu sappia io ho mai saputo il latino?”
“No, che io sappia no”.
“Mi dà anche un po' ai nervi”.
“In effetti è comprensibile. Ma insomma, Signore, dove vai?”
“Dove vado, dove vuoi che vada. A farmi crocifiggere un'altra volta, vado”.
“Ma no, dai, Maestro...”
“...visto che la prima non è bastata”.
“Non te la prendere, ti prego. A scuola succede, le cose cadono, si rompono... ho dovuto metterti nel cassetto, ma ti giuro che...”
“Ma non ce l'ho con te, cosa c'entri te. Sei anche tu un povero cristo”.
“Grazie, Maestro”.
“Ce l'ho con i farisei, per prima cosa”.
“Aaah, i farisei”.
“Hai capito, no?”
“Beh, magari un aiutino...”
“Quelli che mi hanno preso per un simbolo della cultura, della tradizione. Una bandierina, praticamente. Aho', ma stiamo a scherzare?”
“Però anche la tradizione ha la sua importanza...”
“Cioè secondo voi io mi sono fatto inchiodare mani e piedi per rappresentare una tradizione? Cioè, siamo a questo? Babbo Natale, la Befana e Cristo in Croce? Magari vi aspettate che vi porti anche i regali?”
“Ma no, non dico questo, però...”
“Però niente. Li vedi questi chiodi qua? Li vedi?”
“Ehm, sì”.
“Sono autentici, va bene? Non sono un simbolo, sono una rappresentazione realistica. Duemila anni fa i ribelli li uccidevano così. Li esponevano su un trespolo finché non morivano soffocati. Perché fossero da esempio. Tutto molto razionale, ma anche molto teatrale, ma anche violentissimo, Dio Me! Io rappresento questo, va bene? Rappresento un supplizio capitale! Rappresento la crudeltà dell'uomo e la ribellione dell'uomo! Rappresento la Morte! Rappresento il...”
“Ehm, Maestro... forse sarebbe meglio abbassare un po' la voce”.
Il Martirio!
Ssssssssssssh!
“Cos'è, hai paura?”
“Maestro, in effetti sì. Siamo nel 2009, è pieno di bambini musulmani qui, e quella parola...”
“Quella parola è italiana, ha radici nel latino che ti piace tanto, è il fondamento della tua cosiddetta tradizione, sepolcro imbiancato che non sei altro”.
“Sì, sì, Maestro, è vero... d'altronde...”
“D'altronde?”
“Non puoi negare che suoni po', come dire... scandalosa”.
“E che m'interessa a me? Guarda che io non sono mica un santone indiano peace and love! Io non sono venuto a portare la pace, ma la spada”.
“Matteo Dieci Trentaquattro”.
“Appunto. Io sono lo Scandalo! Sono pornografia, non so se è chiaro! Un uomo trafitto da chiodi che grida dai vostri muri, che chiama al combattimento per la salvezza! Io sono questo, mica l'albero di Natale”.
“Ecco, Maestro, in effetti, se mi ci fai pensare, sì. Tu sei molto scandaloso. Molto più di quanto io quotidianamente possa sopportare”.
“Tuo problema, non mio”.
“Però succede un po' come con tutti gli spettacoli disgustosi... all'inizio non riesci a guardarli, ma se ti abitui a darci un'occhiata tutti i giorni, dopo un po' non ci fai più caso... diventi parte di uno sfondo familiare”.
“Ah, dici che è così? Va bene, allora toglietemi immediatamente”.
“Ma poi i Vescovi...”
“Tiratemi fuori solo ogni tanto, quando i fedeli meno se lo aspettano. Io non voglio passare sullo sfondo, io voglio spaventarvi”.
“Se la metti così...”
“E aggiungo una cosa. È proprio sulla mia consistenza di carne e sangue e ossa e chiodi che è fondato il realismo europeo, è chiaro? Se avete avuto Giotto Caravaggio e Mapplethorpe lo dovete solo a me! Esclusivamente a me!”
“Adesso, Mapplethorpe...”
“Adesso niente. Rileggiti Auerbach. Che se era per gli ebrei o per Maometto, con le loro menate filosofiche sulla non rappresentabilità del divino, a quest'ora eravate ancora lì a eccitarvi sui triangoli e gli ottagoni. Dario Argento deve tutto a me. Che dico. Tinto Brass...”
“Piano, Gesù, piano!”
“E adesso salta fuori che sono solo una tradizione. Il mandolino è una tradizione. La pizza è una tradizione. Appendete i mandolini e non rompete, io sono Gesù Cristo morto in croce, non ci credi?, vuoi toccare?”
“No, no, no, mi fido”.
“No, ma guarda, tocca”.
“Maestro, sul serio, io...”
“No, tu adesso tocchi. Il cristianesimo si tocca, va bene? Non è una menata filosofica: è carne e sangue, pane e vino. E i farisei lo sai che fine fanno. Finiscono in vomito”.
“Apocalisse Tre Quindici”.
“Precisamente. E poi ce l'ho anche coi Sadducei”.
“I sadducei”.
“Hai capito, no?”
“Ehm”.
“Ma perché perdo tempo con te. Matteo Ventidue Ventitré”.
“Quelli che non credono nella resurrezione”.
“Ecco. Non ci vogliono credere? Va bene. Che problema c'è? Nessun problema. Voi non ci credete, io non vi risorgo. Non esisto nemmeno, per voi. Facciamo che sono un pezzo di legno”.
“Quindi?”
“Quindi cos'è questa storia che mi denunciate a Strasburgo? Cosa posso aver fatto, se sono un pezzo di legno?”
“Dunque, se ho ben capito la sentenza, la tua presenza sul muro, in quanto pezzo di legno... impedirebbe ai loro figli di crescere secondo i principi dei genitori”.
“Vabbè, siamo alle comiche. Ma che principi hanno questi genitori, si può sapere?”
“Beh, presumo che si tratti dell'illuminismo, del razionalismo...”
“Non conosco, ma dev'essere un pensiero molto debole, se si cancella appena fissi un pezzo di legno. Cos'è, sono un totem, adesso? Se mi fissi ti faccio dimenticare la lezione? Mi volto un attimo e mi tornate all'età della pietra?”
“Maestro, ci vuole tolleranza...”
“Ma tolleranza di che. È come quelli che si sbattezzano. In teoria non credono nel battesimo. In pratica però hanno paura di restare segnati per sempre da uno schizzo d'acqua. Va bene, allora a questo punto chiamiamo Wanna Marchi che vi fa le carte e vi vende i numeri del lotto, a proposito, di che segno sei?”
“Maestro, ci vuole rispetto...”.
“Che poi, spiegami. Il genitore ha il diritto che il figlio sia educato secondo i suoi principi? Non suona un po' totalitario? E quindi ti cresci un piccolo a tua immagine e somiglianza, che creda solamente nelle cose in cui credi in te, e poi la prima volta che lo lasci libero nel mondo, lui vede due legnetti appesi al muro che non corrispondono al suo sistema di credenze e va in confusione? Corte dei diritti dell'uomo, intervieni immediatamente! Il pezzetto di legno sta fissando il mio bambino! Ma come li tirate su questi ragazzi?”
“Facciamo quel che possiamo”.
“Il mondo è pieno di cose. Per dire, ci sono i semafori e non sempre segnano verde. I bambini lo devono sapere. Ci sono persone nel parco che offrono caramelle e non sono tutti buoni. Poi ci sono i pezzetti di legno e non tutti corrispondono alle cose a cui crede mamma o papà. Vogliamo abolirli a scuola? E quando li incontreranno nella vita, come si comporteranno?”
“Quindi Maestro, in conclusione, dobbiamo riappenderti o no?”
“Ma fate quel che vi pare, tanto comunque sia non avete capito. Mi sembra tutto così poco serio. Il fariseo che mi pianta come una bandierina, il sadduceo che vede la bandierina e si sente leso nei suoi diritti umani, è l'umanità? Sembra un pollaio. Non ci sono cose più serie? A scuola, poi. Che io nelle scuole ci vado, lo so quali sono i veri problemi”.
“Eh, immagino”.
“No, non puoi neanche immaginare, fidati. Sai quante non sono a norma? Sai quante non rispettano la 626? Sai quanto costerebbe metterle tutte in sicurezza?”
“Ecco, Maestro, questi sono effettivamente problemi seri...”
“Sai che mancano i sostegni? I corsi di recupero? Sai che la scuola assomiglia sempre meno un luogo educativo e sempre più a una casa di detenzione? Parliamo di questo!”
“No, Maestro, appunto. Proprio perché sono problemi seri, è meglio non parlarne”.
“E perché?”
“Perché, perché... perché a parlarne non si risolvono, e allora ci si deprime soltanto. Siamo in crisi, tutti vorrebbero scuole più belle, ma votano il primo che gli promette una tassa in meno, quindi...”
“Vi consolate chiacchierando di bandierine”.
“Sì. I problemi veri sono deprimenti. I problemi identitari invece, come dire, sono sexy. Tutti possono dire la loro senza impegno... ieri le bandierine, domani i dialetti...”
“Oggi i Cristi in croce...”
“Maestro, sì. Ma non devi prendertela”.
“No, no, non me la prendo. Adesso però vado. Mi aspettano in sala mensa”.
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Almeno un pareggio

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Fratelli d'Italia,
l'Italia è un po' stanca.
è al verde, va in bianco,
e il rosso l'ha in banca.
Dov'è la Vittoria,
diciamolo, dove?
Siam qui dalle nove
e Vittoria non c'è.

Fratelli d'Italia,
l'Italia è per terra,
in crisi, in declino,
e pure un po' in guerra.
Dove sei, Vittoria,
la volta che servi?
Che rabbia, che nervi,
l'Italia imprecò.

Fratelli d'Italia, l'Italia è un po' a pezzi,
per quanto la osservi non ti raccapezzi:
dopo altri tre anni di aiuti a Tremonti,
né mari né monti ne possono più.

Fratelli d'Italia, l'Italia è precaria:
stivale spaiato che scalcia nell'aria.
Dov'è la Vittoria? Ma quanto fattura?
Di monte in pianura l'Italia franò.

Poropò
Poropò
Poropoppoppoppoppò

Dall'Alpe a Sicilia,
dovunque è una pena:
ogni uomo per Silvio
ha dolori alla schiena.

Del sangue d'Italia
non sei già satollo?
Vuoi spezzarci l'ossa?
vuoi pure il midollo?

Fratelli d'Italia,
rompete le righe.
Chi mai v'ha promesso
vent'anni anni di sfighe?
E chi v'ha arruolato
alla guerra infinita,
pensando a una gita,
l'Italia tradì.

(Si stringono a corte,
- ma con un' "o" sola! -
Son pronti alla morte,
finché è una parola.
Si stringono a corte,
a leccare il più forte,
se ha le gambe corte
in ginocchio si stan).

Fratelli d'Italia,
l'Italia s'è rotta:
nessuno al timone
che tenga una rotta.
Dov'è la Vittoria
(o almeno un Pareggio?)
Qui dal male al peggio
in picchiata si va.

Noi siam da cinque anni
calpesti e derisi,
perché siam coglioni,
perché siam divisi.
Vogliamo un po' bene
a 'sto suolo natìo?
Uniti, perdio,
chi vincer ci può?

Fratelli d'Italia,
sorelle, cognate,
non datevi vinti,
non vi rassegnate.
L'Italia è in ginocchio,
ma non è finita.
Siam pronti alla vita,
l'Italia chiamò.

Poropò
Poropò
Poropoppoppoppoppò

(Buoni primi 150 anni - io adesso vado al Mattatoio a leggere cose patriottiche).
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Chi se ne andrà per primo

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[Dieci anni fa, quando nacque, mai e poi mai questo blog si sarebbe immaginato di essere oggi ancora qui a pubblicare più o meno le stesse cose. Eppure è successo, bisogna accettarlo, aggrapparsi all'idea che tutta questa roba non è andata interamente sprecata, che qualcuno se ne ricorderà, certo non fino al 3754, ma alla fine poi cosa dovrebbe fregare a noialtri della gente del 3754, con le loro idee religiose un po' balzane e i loro gusti musicali discutibili. Questo era un pezzo dello scorso aprile]:

Più grandi di J.

DAL NOSTRO INVIATO - SILVABUL, 10 APRILE 3754.
Gsaui Rradoc, il più famoso lennonologo 'laico' del nostro semisfero, autore del controverso Intervista su Jesus mi accoglie nella sua confortevole cella di rigenerazione. Quando gli racconto delle ultime dichiarazioni di Ganesh XXVI, le rughe intrecciate sul suo volto sussultano; è il suo modo di ridere.

“Cos'è che avrebbe detto, l'elefantino?”
“Ganesh XXVI, il Dio vivente del Punjab, ha dichiarato ai giornalisti di essere diventato più grande di Lennon. È stato il suo modo di festeggiare la quarantesima settimana in testa alla top 20 Divinità”.
“Ah, già, la top 20. Beh, io non m'intendo molto di queste cose...”
“Si calcola che in media GXXVI richiami venti milioni di fedeli alle sue celebrazioni settimanali. È in effetti un record con pochi precedenti nella Storia recente”.
“Beh, se la mettiamo su questo piano, sì, non credo che Lennon facesse numeri del genere, ma vede, è sulla distanza che si vedono queste cose... non so se si ricorda T-re§”
“Vagamente. Faceva uno show coi serpenti...”
“L'incantatore di rettili transessuale di Ganimede. Fece il botto quindici anni fa, milioni di fedeli in tutto il sistema solare, anche a lui a un certo punto scappò detto di essere più grande di Lennon. E poi che fine ha fatto?”
“Che fine ha fatto?”
“Pare abbia aperto una concessionaria di condizionatori su Plutone. Vede, Jesus Lennon resta il più grande predicatore della Storia, non per i milioni di contemporanei che ha portato dalla sua parte; ma per il solo fatto che a duemila anni di distanza stiamo ancora parlando di lui. Tra dieci, vent'anni, arriverà qualche nuovo fenomeno da baraccone – una donna con dodici mani, un dio-lucertola, che ne so – e di loro, scommetto, nessuno dirà che sono “più grandi di Ganesh XXVI”. Diranno che sono più grandi di Lennon”.
“Gli Dei passano, Jesus Lennon resta. Come mai?”
“Il tempo è dalla sua parte, come recita un suo inno (per la verità di incerta attribuzione). Essere vissuto due millenni fa, nell'oscuro medioevo prediluviano, lo mette al riparo dalla luce troppo invadente dei riflettori. Di lui in effetti non sappiamo poi molto”.
“Chi era veramente Jesus?”
“Dopo duemila anni di rielaborazione mitologica è difficile rispondere a una domanda come questa. Ma almeno viviamo nel semisfero dove possiamo porcela senza temere di essere crocifissi da qualche inquisitore troppo zelante”.
“Profeta o figlio di Dio?”
“Io preferisco pensare a lui laicamente, come a un grande musicista. Per molti secoli questo aspetto della sua biografia è stato tralasciato; ci si concentrava sui contenuti degli inni, senza riprodurre la musica (che comunque era molto lontana dalla nostra sensibilità). Ma io resto convinto che non sarebbe diventato il più grande predicatore della Storia se non avesse avuto l'idea geniale di musicare le parabole e trasformarle in canzoni. Penso a certi inni immortali, come Stairway to Heaven o God Save The Queen. Figlio di Dio... mah, senz'altro nei suoi inni il padre è visto come un'entità lontana; è possibile che Lennon fosse orfano di padre, o comunque avesse sperimentato l'abbandono durante l'infanzia”.
“Falegname o chitarrista?”
“Le due cose potrebbero andare assieme; abbiamo trovato in vari siti archeologici esemplari di chitarre interamente lignee; può darsi che il giovane Jesus abbia svolto un breve apprendistato musicale in una bottega di falegnameria”.
“Fino all'incontro, che gli sconvolge la vita, con Elvis il Battista”.
“Su questo i Vangeli concordano: la predicazione di Lennon ha inizio solo dopo che Elvis lo battezza nel Giordano. È un evidente passaggio di consegne; il Battista è nella fase calante della sua carriera; i seguaci gli hanno voltato le spalle, lui stesso si considera Vox Clamans in Las Vegas
“Eh?”
“È latino. Voce che chiama nel deserto”.
“Ah”.
“Nel frattempo in Galilea Jesus raccoglie i primi discepoli, gli Scarabei”.
“Questi li so, li so. Luca, Matteo, George e Ringo”.
“Così secondo i Vangeli, che sono attribuiti a loro. Ma gli storici tendono a escludere George, che nei documenti più antichi è visto indossare una chitarra lignea”.
“Ma non era lo strumento di Lennon?”
“Appunto. La tesi più accreditata è che gli Scarabei fossero quattro in tutto, e che Lennon fosse uno di loro; San George sarebbe stato aggiunto al racconto un millennio più tardi, durante le crociate, quando diventa il patrono dei crociati e poi dell'Inghilterra.; probabilmente un soldato inglese reduce dalla prima crociata in Terrasanta, che tornando nel Merseyside riscuote un incredibile successo spacciando per sue le canzoni di Lennon, e trasformandosi in una vera e propria reincarnazione di Lennon in una terra tanto lontana da quella che aveva assistito alle esibizioni del quartetto originale”.
“Quindi lei non ammette l'ipotesi che Jesus Lennon e gli Scarabei d'Argento abbiano vissuto gran parte della loro vita in Inghilterra”.
“È una deformazione medioevale, quando fioriva il mercato delle reliquie e ogni nazione si inventava luoghi santi in cui avevano vissuto... pensi che un culto di Lennon sopravvive anche nelle isole del Pacifico Orientale, dove rappresenta il Sole, contrapposto al Dio Luna Yoko...”
“Ma la Sindone mostra i lineamenti di un inglese biondo, capellone...”
“La Sindone è una reliquia medievale. Potrebbe essere effettivamente il sudario di un crociato, chissà, magari proprio George. Ma il Lennon storico deve avere avuto lineamenti molto diversi da quelli con cui viene raffigurato di solito. Tratti somatici mediorientali, carnagione olivastra...”
“Niente capelli biondi, quindi. E niente occhialini”.
“Nella Palestina romana? No”.
“Già, i Romani. Sono stati davvero loro a ucciderlo?”
“Anche questo ovviamente non è chiaro. Lennon viveva in un periodo turbolento, in cui molti predicatori sobillavano alla rivoluzione. All'inizio però la sua posizione è ambigua. C'è un inno, Revolution, di cui si conoscono due versioni. In una dice “You can count me in”, che in aramaico significa “Includetemi, anch'io voglio fare la vostra rivoluzione”. In un'altra dice l'esatto contrario: “You can count me out”, tenetemi fuori”.
“Probabilmente una delle due è apocrifa”.
“Sì, ma è praticamente impossibile determinare quale; entrambe le versioni sono antichissime, al punto che alcuni ipotizzano che lo stesso Lennon fosse indeciso sulla strada da prendere, e che abbia inciso la canzone in due versioni. In ogni caso all'inizio non si considerava un predicatore politico nel senso che diamo oggi all'espressione. La sua figura era più simile a quella che oggi chiameremmo artista”.
“Jesus Lennon, un artista?”
“Nei primi anni di predicazione con gli Scarabei, Lennon non sobilla nessuna rivoluzione. È soltanto un musicista ispirato che richiama folle ovunque si esibisca, in Galilea, Giudea, e nella misteriosa Bolla degli Olivi”.
“È il periodo dei miracoli: dà la vista ai ciechi, risuscita i morti...”
“La tradizione dei miracoli è probabilmente un equivoco linguistico. Quante volte ci capita di dire che la tal cosa “risuscita i morti”. È un'espressione enfatica che sottolinea la grande potenza espressiva delle parabole musicali di Jesus”.
“Quindi Lennon non risuscitava i morti”.
“Solo in senso figurato”.
“Non tramutava l'acqua in birra”.
“Probabilmente i birrai in sua presenza preferivano spillare birra vera e non la solita broda annacquata”.
“E il grande miracolo di Woodstock?”
“Su Woodstock ci sono diverse teorie. Tutti gli studiosi concordano che fu un disastro logistico, e che migliaia di persone rimasero in mezzo al fango senza nulla da mangiare”.
“Finche Lennon non moltiplicò i pani e i pesci”.
“È indimostrabile, ovviamente. Il vero miracolo di Woodstock sono le sue parole, il cosiddetto discorso della montagna, sul quale è fondato il lennonismo occidentale: "Beati i miti perché erediteranno la terra, beati quelli che hanno fame e sete di giustizia..." peccato che di questa canzone si sia persa la musica. Comunque i Romani non avevano nulla da temere da un fenomeno musicale-religioso di questo tipo. Gran parte dei riferimenti delle sue canzoni (il divino Tricheco, la Lucia nel Cielo di Diamanti, i Perpetui Campi di Fragole) erano oscuri già allora”.
“E allora perché lo crocifiggono?”
“A un certo punto qualcosa cambia. Lennon è accusato di avere frequentazioni scandalose: pubblicani, prostitute, spacciatori, artisti concettuali. Gli Scarabei d'Argento si sbandano”.
“Forse il successo gli stava dando alla testa”.
“È la tesi forte del Vangelo di Ringo, che però è il più tardo dei quattro. In realtà i suoi inni del periodo post-Scarabei sono i più politicizzati. È possibile che a un certo punto Lennon si sia veramente trasformato in oppositore al regime di occupazione romana che, non dimentichiamocelo, era fondato sulla violenza e sulla prevaricazione. Anche nell'ultimo periodo Lennon rimane comunque un pacifista; non inneggia alla lotta armata, al contrario. Ma è possibile che il suo antimilitarismo desse ugualmente fastidio. Era il periodo in cui l'Impero reclutava legionari anche nelle province per difendersi dalle incursioni Sovietiche e Persiane”.
“Tradito dal suo manager, Lennon viene arrestato e condannato alla morte sulla croce”.
“Il resto è leggenda”.
“Una leggenda comunque miracolosa, per aver resistito tutti questi secoli”.
“Chissà quanti altri cantanti e predicatori infiammarono i cuori per una breve stagione e poi furono dimenticati. Lennon ha potuto contare su uno dei più grandi PR della Storia”.
“Si riferisce a Paul McTarso?”.
“Il buffo è che probabilmente i due non si sono mai conosciuti di persona. Paul aveva ricevuto un'educazione musicale classica, e all'inizio non aveva assolutamente orecchio per le composizioni di Lennon. Anzi, con le sue prime ferocissime recensioni Paul dà inizio a una vera e propria campagna di persecuzione contro il lennonismo e i suoi seguaci”.
“Poi succede qualcosa... Un incidente, mi pare”.
“Sull'autostrada Damasco-Liverpool. Paul vede una luce abbagliante, sbanda ed esce di strada. Viene soccorso, ma rimane temporaneamente cieco, muto, e apparentemente sordo. Ma è evidentemente una sordità selettiva. Immerso nel silenzio, Paul sperimenta una vera e propria epifania. Può ascoltare le composizioni di Lennon senza pregiudizi culturali. La sua conversione fa scalpore e getta le basi per il successo del credo lennoniano in tutto il bacino del mediterraneo”.
“C'è anche chi dice che il vero Paul sia morto nell'incidente”.
“È una leggenda durissima a morire. Ma ce ne sono di più interessanti. Secondo alcuni è Paul il vero inventore del lennonismo moderno: molti ritornelli degli inni lennoniani sarebbero suoi. In effetti è difficile pensare che la stessa persona possa aver scritto composizioni musicalmente così diverse tra loro come Helter Skelter o Yesterday. Alcuni si spingono ad affermare che Lennon non sarebbe che una figura mitica, un musicista biondo e capellone studiato a tavolino per rendere più appetibili le composizioni dello stesso Paul. Come vede, c'è una teoria per tutti”.
“Non c'è proprio niente di cui possiamo essere sicuri?”
“Io sono ragionevolmente sicuro di un paio di cose. La prima è che tra un millennio o due ci sarà ancora qualcuno, come lei o come me, che ha voglia di discuterne. La grandezza di Lennon è questa”.
“E la seconda cosa è...”
“Anche l'invidia non cesserà mai. Ci sarà sempre qualche Messia o Avatar pronto a dichiarare di essere diventato Più Grande di Lui. Guardi questa, è la riproduzione di un antichissimo ritaglio giornalistico. Come sa, gran parte dei documenti originali dell'epoca lennoniana non ci sono arrivati, perché gli archivi erano stati digitalizzati nei decenni precedenti al diluvio, e non abbiamo mai capito come si leggono i loro supporti magnetici. Di loro ci è rimasta solo la carta stampata che si erano dimenticati di riciclare. Vede? Questo è un antichissimo ritratto fotostatico di Lennon, molto sbiadito. La scritta in basso è in aramaico. Sa cosa dice?”
“IGGER THAN JESUS LENNON CLAIMS. Ovviamente no”.
“La traduzione più accreditata è: Qualcuno afferma di essere più grande di Jesus Lennon. Evidentemente Lennon veniva attaccato dagli emuli già in vita. Eppure loro sono passati, lui no. La sua musica era semplicemente migliore”.
“Io in realtà non ne ho ascoltato molto”.
“Venga, le faccio sentire un pezzo rarissimo”.
“Ma veramente... non m'intendo molto di musica classica, sa...”
“Quando è buona musica, non è classica né moderna: è eterna. Sente?”
“Sento solo rumore”.
“Deve abituarsi un po'. Vede, in questo pezzo Lennon chiede all'ascoltatore di ascendere, di immaginare un luogo meraviglioso dove qualsiasi cosa è possibile”.
“Le parole dicono questo?”
“Le parole dicono: Portami laggiù, nella Città Paradisiaca, ove l'erba è verde e le fanciulle sono leggiadre”.
“Molto bello. Si è fatto tardi, devo andare”.

Attraverso la loro musica quei quattro ragazzi di Liverpool, splendidi e imperfetti, sono stati capaci di leggere e di esprimere i segni di un'epoca che a tratti hanno persino indirizzato, imprimendovi un marchio indelebile. Un marchio che segna lo spartiacque tra un prima e un dopo. E dopo, musicalmente, nulla è più stato come prima
L'Osservatore Romano, 10/4/2010.

Siamo più famosi di Gesù adesso. Non so chi se ne andrà per primo, se il rock'n'roll o il Cristianesimo
John Lennon, 1965.
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Per il prestigio dell'Italia nel mondo

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[Oggi, o domani, a seconda del fuso, questo blog compie dieci anni. La redazione, colta da una certa vertigine, cerca di esorcizzare il fantasma del tempo perduto dimostrando che qualche vecchio pezzo è ancora vagamente leggibile, vagamente attuale. Questo per esempio è la semplice sbobinatura di un vertice internazionale della mafia tenutosi nel dicembre 2009 in un luogo che non posso dirvi (però c'è una piazza molto grande)]:


Cugghiuni+Business

DON PIPPO: Bacio le mani a voi tutti.
Illustrissimi, se siete venuti oggi qui, chi da Mazara, chi da Sidney, chi da Nuovaiorche... è per discutere di qualcosa che sta veramente a cuore a tutti noi, ed è il prestigio dell'Organizzazione.

Ora, illustrissimi, guardiamoci in faccia. Io vado ormai per i cinquanta, almost fifty year old, e sono tra i più vecchi qui. Eppure anch'io, credetemi, non sono mai stato un compare con la coppola e la lupara, che va in giro per i vichi a chiedere “rispetto”...(risate). Quello è cinema, ormai, ed è giusto lasciarlo al cinema... noi non siamo tagliagole, siamo uomini d'affari, e quando parliamo di prestigio, di rispetto, ne parliamo come uomini d'affari, che sanno quanto sia importante, nel mondo degli affari, questo concetto.

Illustrissimi, la nostra Organizzazione ha avuto negli anni degli alti e dei bassi, che non vi riassumo... ma anche nei momenti più difficili, ha potuto contare su qualcosa di inestimabile, qualcosa che non è mai venuto meno... come chiamarlo? “Made in Italy”, se vi va... insomma, nel nostro ambiente essere italiano ha sempre fatto la differenza. Un po' come con le femmine, sì, italians do it better (risatine). Qui c'è gente che viene da tutto il mondo, per esempio don Giggi se non sbaglio adesso sta a... Shenzen, ho detto bene? Che non molti sanno dove sta sul mappamondo, ebbene è una città di sette milioni di abitanti, una Nuovaiorche in mezzo alla Cina, che manco i pechinesi sanno dov'è a momenti... noi invece lo sappiamo, e ci abbiamo don Giggi che fa affari lì. Per dire i cugghiuni che abbiamo – cioè, sicuramente ce li ha don Giggi. Bravo don Giggi (applausi).

Ma anche don Giggi mi deve fare la cortesia di riconoscere che tutti i suoi cugghiuni non sarebbero serviti a niente senza il prestigio che gli derivava dall'essere italiano, dal fatto che quando sei italiano nel mondo degli affari tutti, tutti ti stanno a sentire: le triadi, la Yakuza, i pirati somali, Al Qaeda, tutti quando tocca a noi parlare si stanno zitti e ci fanno parlare, perché siamo l'Organizzazione più famosa del mondo e questa fama, questo prestigio, i filme a Hollivud, ce li siamo conquistati sul campo, col sudore e col sangue nostro e degli infamoni che abbiamo mandato al Creatore (ovazione).

Illustrissimi, io non so quanti di voi facciano affari con la moda... io ci ho lavorato un po', lo sapete... e mi viene spontaneo il paragone. Cioè, anche nel mondo della moda, fino a dieci anni fa, essere italiani faceva veramente la differenza. C'era Armani, c'era Valentino, ma c'erano anche certi inculati qualunque che comunque potevano contare sul rispetto e sul prestigio che gli derivava da un cacchio di cognome italiano. E poi cos'è successo. Ma lo sapete anche voi cos'è successo. Che i grandi vecchi sono invecchiati un po' di più, e i giovani inculati invece di darsi da fare si sono addormentati sugli allori. Non hanno fatto ricerca, non hanno fatto innovazione, hanno stampato il loro bel cognome italiano sul profumo e sulla mutanda, e hanno pensato che tutti in America o in Cina o in India avrebbero fatto sempre la fila per comprarsi il parfum o la mutanda italiana. Un po' di soldi li hanno anche fatti (ne abbiamo fatto più noi taroccandogli profumi e mutande, ma questo è un altro discorso), però nel medesimo hanno perso il loro prestigio. E ora nessuno li rispetta più come stilisti, al massimo come venditori di mutande. Ecco, illustrissimi, io mi sono posto questo problema: non è che corriamo il rischio di finire così? (brusio) Lo so, non è piacevole essere paragonati a degli inculati (risatine), però sul serio, io ho la sensazione che il problema c'è. Ed è una sensazione che è diventata più forte qualche mese fa, quando ne ho parlato con don Christopher, di Wellington, Nuova Zelanda. È qui alla mia destra.

DON CHRISTOPHER: Bacio le mani a voi tutti illustrissimi.

DON PIPPO: Ebbasta con queste formalità, andiamo. Allora, Don Chris è una persona formidabile, che ho avuto il piacere di conoscere in tenera età, anche perché, se non sbaglio, ti ho tenuto a battesimo, no?

DON CHRISTOPHER: Era la prima Comunione.

DON PIPPO: Vabbè, vabbè. Don Christopher ha trent'anni ed è il delegato dell'Organizzazione per la macroreggione Oceania – Sudest asiatico. Segno evidente che i cugghiuni ce li ha anche lui, mmm? Ecco, due mesi fa è stato a un summit internazionale a Wellington a... Koala Lumpur, dico bene? Eh, Malesia, quei posti lì. Ma spiegalo tu, che te ne intendi meglio.

DON CHRISTOPHER: Era un meeting internazionale di dealer, promosso dall'organizzazione leader del mercato indonesiano-malesiano.

DON PIPPO: Un mercato che vale...

DON CHRISTOPHER: Mah, approssimativamente... qualche centinaia di miliardi di euro.

DON PIPPO: Ecco, no, perché secondo me c'è ancora chi è rimasto ai tigrotti di Sandokan con l'anello al naso... qualcuno crede che vivono sulle giunche in quei posti lì, altro che giunche, non so se sapete che il grattacielo più alto del mondo ce l'hanno i malesiani, e i malesiani che vivono nel grattacielo più alto del mondo secondo voi non pippano? Pippano, pippano, hanno bisogno di colombiana anche loro. Quindi è evidente che è un mercato che c'interessa.

DON CHRISTOPHER: Noi abbiamo il know-how, però non siamo i più convenienti.

DON PIPPO: Perché ci piace fare le cose per bene. Però adesso io non è che vogliamo annoiarvi coi tigrotti della Malesia. Vorrei solo che don Cristopher ci raccontasse com'è andata a Kuala Lumpur.

DON CRISTOPHER: E' stata un'esperienza allucinante. Allora, io premetto che sono nato a Wellington, NZ e di cose italiane ho davvero poca esperienza... sarà anche un limite mio, però... i giornali italiani li leggo poco e... li capisco poco. Quindi arrivo nell'albergo senza sapere niente, è un albergo in mano all'organizzazione locale e quindi mi devo fidare, do il nome, entro in camera e mi trovo accucciate sul letto due bambine cambogiane che non arrivavano a vent'anni. In due, voglio dire. (Espressioni di disapprovazione e genuino disgusto).

DON PIPPO: E cos'hai fatto a quel punto.

DON CRISTOPHER: Mah, quello che avrebbe fatto chiunque di voi illustrissimi. Sono immediatamente uscito dalla stanza, e dal lounge ho telefonato che così non andava, non andava assolutamente, che non avevano capito con chi stavano trattando, e che venissero a riprendersi le tipe immediatamente (Bravo! Così!) Si sono scusati, hanno detto che non sarebbe più successo, e che era una questione di cinque minuti. Io ho aspettato dieci, e poi sono risalito nella stanza

DON PIPPO: E cos'hai trovato.

DON CRISTOPHER: Un transessuale tailandese (risate).

DON PIPPO: No, no, signori... illustrissimi volevo dire illustrissimi, no, qui non c'è niente da ridere. Un meeting per discutere di business importanti, e ti trattano così... come un maniaco sessuale... adesso, ma lo vedete don Cristopher? A me sembra un ragazzo a modo, elegante, colto, parla anche un bellissimo italiano anche se in Italia non c'è mai stato... ma cos'è questa cosa che improvvisamente se un italiano va a un meeting lo trattano da maniaco sessuale? Quand'è cominciata questa cosa (mormorii)? Signori, guardate che il problema sta qui. È un problema di prestigio.

DON CHRISTOPHER: Sì, e se posso dire la mia...

DON PIPPO: Ma certo, dilla, dilla

DON CHRISTOPHER: E' anche un problema di business.

DON PIPPO: Ma soprattutto è un problema di business. E infatti, poi, il meeting com'è andato?

DON CHRISTOPHER: Non mi hanno praticamente fatto parlare (mormorii di disapprovazione). C'erano dealer filippini e colombiani. C'era pure un rappresentante peruviano e lo hanno fatto parlare. C'erano un paio di triadi della zona di Canton, che fra parentesi, don Giggi, le porto gli omaggi del signor Xu Chang.

DON PIPPO: Ora faccio l'avvocato del diavolo: magari tu sei un ragazzo, dovevamo mandare uno più anziano, affidabile...

DON CHRISTOPHER: Don Pippo, io sono a disposizione dell'Organizzazione, però vi devo dire che lì ero il più vecchio. Tutti sotto i trenta. È un mercato molto dinamico.

DON PIPPO: Forse che non sai bene le lingue...

DON CHRISTOPHER: Please, don Pippo. Ho una laurea a Princeton in lingue orientali, e mi mandate a dei meeting con gente che non ha la licenza elementare. I colombiani si esprimevano in spagnolo e a gesti, e la commessa l'hanno vinta loro.

DON PIPPO: E allora, Don Chris, spiegaci 'sto fatto a tutti quanti. Com'è che non ti hanno fatto parlare.

DON CHRIS: Mi hanno tenuto per ultimo prima del coffee-break e mi hanno chiesto... io non so se dirlo, don Pippo.

DON PIPPO: Dillo, Chris. È importante.

DON CHRIS: ...se sapevo qualche funny joke.

DON PIPPO: Qualche barzelletta.

DON CHRIS: Di quelle sporche.

DON PIPPO: The nasty ones.

DON CHRIS: Mi facevano ammicchi, risatine... l'ospite mi ha chiesto se mi era piaciuta la “sorpresa in camera”... eccetera.

DON PIPPO: Illustrissimi, io non so... qui abbiamo un caso che secondo me è molto più grave di un affare perso. Abbiamo dei fetentoni, venuti su dal niente, in Paesi che fino a trent'anni fa le cartine geografiche avevano schifo a rappresentare... uomini di nulla che il mestiere lo imparano dai film che hanno fatto su di noi... e di colpo ci trattano da pagliacci. Da maniaci. Ora io mi chiedo: magari la colpa è nostra. Magari sono i nostri uomini che non si meritano più il rispetto dei loro genitori. Vedo Don Christopher, a cui l'organizzazione ha pagato gli studi migliori, un ragazzo elegante, di cultura, capace, e mi dico: magari non ho capito niente, magari è un povero cugghiune che non sa farsi rispettare. Ma me lo dovete dire anche voi: pensate che il problema sia don Chris? Pensate che non meriti il rispetto del mondo del business?

(Silenzio)

E allora, visto che siamo tutti uomini d'onore, qui, me lo dovete dire con franchezza: quello che è capitato a don Chris in Malesia è un caso isolato? O non sono successe cose del genere anche a voi, in giro per il mondo, negli ultimi mesi?

(Brusii)

E insomma, signori, secondo voi qual è il problema? In pochi mesi gli uomini dell'Organizzazione più rispettata in assoluto del mondo diventano dei pagliacci. E perdono gli affari, perché è sempre di questo che stiamo parlando, di affari. Allora vi chiedo: secondo voi cos'è successo negli ultimi mesi? Rimango in ascolto.

DON CALOGERO: Don Pippo, posso parlare?

DON PIPPO: Ci mancherebbe, ne hai facoltà.

DON CALOGERO: Don Pippo, noi siamo giovani, ma comunque maggiorenni e vaccinati, e quindi si è capito dov'è che si vuole andare a parare. Però, don Pippo, io vengo dalla Sicilia, non so se si ricorda, quell'isola triangolare...

DON PIPPO: Don Calò, questa ironia...

DON CALOGERO: Mi lasci finire, don Pippo, perché io vi ho ascoltato e vi ho anche capito, don Pippo, e lo so che c'è un problema. Insomma, è su tutti i giornali.

DON PIPPO: Di tutto il mondo.

DON CALOGERO: Insomma, il vecchio è fatto pazzo di viagra, sragiona, va alle feste di minorenni, ammicca alla regina Elisabetta, fa il cugghiune con Michelle... le abbiamo viste tutti queste cose. Siamo venuti per parlare di questo?

DON PIPPO: E per trovare una soluzione. Perché questo vecchio fatto pazzo di viagra, come dite voi don Calò, è diventato il rappresentante del made in Italy nel mondo, e questo fatto ci danneggia, ci danneggia molto, ci fa perdere qualche milione di euro al giorno, don Calò, e noi come organizzazione, abbiamo sciolto creaturine nell'acido per molto meno.

DON CALOGERO: E con questo cosa mi volete dire, don Pippo, che dobbiamo sciogliere pure a lui?

DON PIPPO: Naturalmente no...

DON CALOGERO: Perché non si può fare! E ci sono accordi precisi!

DON PIPPO: Gli accordi, don Calò, gli accordi... se poi li andiamo a vedere... li avrebbe dovuti rispettare lui per primo... mentre se mi ricordo bene, per esempio, il 41bis...

DON CALOGERO: Don Pippo, con tutto il permesso... ma che minchia ci frega del 41bis a noi... di quei mammasantissima in isolamento, coi loro pizzini medievali... ma che se ne stiano a farsi i loro criptogrammi colla bibbia, cosa minchia ce ne dovrebbe fregare a noi... io sto parlando business, come voi. Ospedali. Cantieri. Sto parlando di cose tangibili, come... il ponte sopra il cacchio di stretto (risate). Sì! Perché qui c'è gente che non crede nell'innovazione, nel coraggio per i progetti che sfidano il... voi volete tornare ai pastori coi pizzini, è questo...

DON PIPPO: Don Calò, io non dubito... in Sicilia siete tutti avvedutissimi uomini d'onore, e se avete voluto sostenere il... papiminchia (risatine) senz'altro ci avevate il vostro interesse. Però qui proprio perché non siamo medievali, bisogna cominciare a vedere la cosa globalmente, e globalmente il papiminchia è, per lo stato attuale dei nostri affari, un rugosissimo e puntuto pruno su per il pertugio del culo. (Risate e applausi) Ragione per cui la quale... ragione per cui la quale... è tempo di discutere un'exit strategy.

DON CALOGERO: La fate facile, voi.

DON PIPPO: E insomma, don Calò, siamo nel duemilaenove, non ci sono mica più i comunisti, andiamo. Un po' di alternanza fa bene a tutti. Pensate che ho votato Obama anch'io, sì, quella melanzana, mi piaceva e me lo sono votato, embè? Non lo riuscite a trovare un altro partito da votare?

DON CALOGERO: Ma non è una questione... voi forse siete assenti dall'Italia da un po' di tempo, don Pippo, e non avete presente... cioè noi i distretti elettorali in Sicilia li controlliamo abbastanza bene e ci possiamo inventare un partito anche domani, ma lui vince in Lombardia, in Veneto, perché le elezioni qui si vincono con le televisioni, e le ha tutte lui.

DON PIPPO: Un altro buon motivo per ridimensionarlo un po'... ma non c'è anche Murdoch? Possiamo fare pressione...

DON CALOGERO: Murdoch in Italia non ha lo spessore...

DON PIPPO: Ho capito. Insomma, è diventato più potente di noi.

DON CALOGERO: Don Pippo, purtroppo sì.

DON PIPPO: Però noi non è che possiamo starcene qui a ridacchiare mentre lui ci sputtana tutto il prestigio degli italiani all'estero. Qui dobbiamo cominciare, se non altro con gli avvertimenti. Chissà, può anche darsi che da quell'orecchio ci senta.

DON CALOGERO: E' molto rintronato.

DON PIPPO: Questo lo vediamo. Cominciamo a fargli pressione. Qualche infamone che lo tira dentro a un'inchiesta... non riusciamo a trovarne uno?

DON CALOGERO: Don Pippo, io di infamoni ne trovo a centinaia, voi dite e io ve li preparo. Ma dovete capire che il papiminchia, come lo chiamate voi, sul piano processuale ha due cugghiuni degni dei meglio nostri.

DON PIPPO: E vabbè, di cosa lo avranno mai accusato? Corruzione, falso in bilancio, briciole... tiratelo dentro in una strage terroristica. Non avete delle stragi a mano?

DON CALOGERO: Qualcuna... ma roba vecchia... primi anni Novanta.

DON PIPPO: Perfetto. Tiratelo dentro. Vediamo come reagisce.

DON CALOGERO: Ma don Pippo, sono cose vecchie, di quando ancora comandavano i pastori, coi loro pizzini incomprensibili, e quindi nessuno sa veramente come sono andate le cose... voglio dire che a sparare una cosa del genere...

DON PIPPO: Sì?

DON CALOGERO: Noi per assurdo potremmo anche azzeccare una verità.

DON PIPPO: Una verità? Noi?

DON CALOGERO: Potrebbe anche darsi.

DON PIPPO: E vabbè, don Calogero, una verità, in mezzo a tante bugie, che differenza farà mai?

DON CALOGERO: Voi disponete, don Pippo.

DON PIPPO: Dunque, se siamo d'accordo, io passerei al secondo punto all'ordine del giorno, che è: riscaldamento globale. Allora, io non so se sapete la cifra che ogni anno stanziavamo globalmente agli istituti di ricerca perché minimizzassero il problema, bene, soldi buttati via, ormai è chiaro che i ghiacci si sciolgono, ci crede anche quell'omminicchio di George W. Bush. Dunque io proporrei di risparmiare quella cifra e investirla in energie rinnovabili... è inutile che facciate quella faccia, è business, bisogna pensare anche ai nipoti, e qui se la California va sott'acqua ci perdiamo triliardi di fatturato, insomma il mondo è una cosa troppo complessa per lasciarla salvare ai governi, bisogna che ci si metta la mafia e che ci si metta seriamente...
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Un'Italia che reagisce cazzo

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[Questo blog sta per compiere dieci anni, che sono tanti. In occasione della fausta ricorrenza, apre cassetti a caso del suo ammuffito archivio e pubblica pezzi che forse c'entrano forse no. Questo è del luglio 2008, ai tempi di manifestazioni antiberlusconiane un po' sboccate, con Grillo e Sabina Guzzanti e altri radical chic che adesso non ricordo].

Carteggio

2/6/1994
Mio caro Algernon,
ho letto con attenzione e (non lo nego) qualche difficoltà la tua dissertazione in cui azzardi una sintesi di Horkheimer e Debord nel tentativo di offrire una chiave interpretativa filosofico-sociologica alla recente vittoria elettorale di Silvio Berlusconi. Come sempre il tuo pensiero è solido e articolato, forse troppo articolato, al punto che mi sorprendo talvolta a chiedermi se tanta complessità sia realmente utile alla decostruzione dell'avvento al potere di una plutocrazia mediatica nel vuoto creato dall'esaurimento della guerra fredda. Concordo sul fatto che siamo di fronte a un'involuzione culturale prima che politica, di fronte alla quale dobbiamo fare appello a tutte le nostre risorse intellettuali: ma ho la sensazione che la discussione non possa, e non debba, rimanere confinata in un ambito precipuamente accademico. Perdonami la fretta, ma mi riprometto di tornare su questi argomenti assai presto in futuro.

15/9/1996
Caro Algernon,
Ho ritrovato proprio oggi tra le mie carte la bozza di un vecchio biglietto di due anni fa in cui velatamente ti rimproveravo di un linguaggio troppo accademico e usavo, credo per la prima volta, il termine “involuzione culturale”. Come vedi la nostra discussione prosegue ancora intorno allo stesso problema, che credo di poter sintetizzare così: in questi anni di volgarizzazione indotta delle masse pilotata dallo strapotere mass-mediatico, in che misura noi intellettuali possiamo rompere il “guscio” accademico e tornare a parlare a quelli che non si sentono coinvolti dai nostri discorsi, la cosiddetta (perdonami il termine vago), “gente”? E non rischiamo coi nostri tentativi, di rimanere intrappolati proprio in quella involuzione che stigmatizziamo? Magari al convegno in gennaio avremo l'opportunità di approfondire il problema.

22/10/1998
Caro Algernon,
non credevo che la caduta di Prodi mi avrebbe tanto turbato. Sento che la mia profonda avversione per Berlusconi e per tutto ciò che rappresenta nella storia d'Italia – chiamiamolo pure “berlusconismo” - mi trasforma talvolta in un vero e proprio tifoso, impedendomi di analizzare i fatti con la razionalità necessaria. Mi sorprendo a definire Bertinotti un “traditore” - una parola che non faceva parte del mio lessico, decisamente, e a evitare il mio verduraio di fiducia, noto forzista, unicamente perché temo i suoi sfottò, proprio come se si trattasse di una contesa sportiva, e non di un lento processo storico che avrà ripercussioni sul futuro dei nostri figli. E d'altro canto, se in quattro anni di critica a Berlusconi non sono nemmeno riuscito a convincere il mio verduraio, la responsabilità non è forse mia? Rileggo le lettere che ci scambiamo tre o quattro anni fa, e scopro nei nostri discorsi un eccesso di astrazione che mi fa vergognare. Citavamo Horkheimer e Debord, e nel frattempo Lui si faceva le leggi su misura – quanto siamo stati stupidi.

Da: gcharlie69@altavista.com
Inviato il: 10/12/2000 14:36
A: algernon71@yahoo.com
Ciao Algernon
Totalmente d'accordo con quanto scrivi. Rutelli o chi per lui non hanno la minima speranza: Berlusconi ha già vinto. E però anche stavolta mi sembra il caso di fare un'autocritica: cosa abbiamo fatto noi cosiddetti “intellettuali” in questi anni per convincere la gente che Berl era il male?
Quanto tempo abbiamo perso in discussioni astratte e oziose invece di uscire nelle piazze e denunciare a gran voce il monopolio televisivo-editoriale, le collusioni con la mafia, la corruzione dei giudici, ecc. ecc.? E allora è inutile che ci lamentiamo adesso. Alla prossima.

Da: gcharlie69@altavista.com
Inviato il: 10/5/2002 00:41
A: algernon71@yahoo.com
E no, Algernon, mi spiace, ma non puoi trattare il movimento no-global o no-war o come vuoi chiamarlo alla stregua di una massa di ignoranti. La loro critica all'apparato industriale-bellico-mediatico, per quanto rozza, è sacrosanta, ed è nata dal basso, finalmente. E gli stessi girotondini, con il loro culto sicuramente un po' acritico della Costituzione, esprimono una voglia di legalità e di giustizia che non puoi liquidare. Questa è finalmente un'Italia che protesta, che reagisce, cazzo. Sì, ho proprio scritto cazzo, hai letto bene. Scusa, ma questa discussione mi sta infervorando.

Da: gcharlie69@gmail.com
Inviato il: 10/5/2004 23:26
A: algernon71@yahoo.com
Il fatto, Algernon, è che in questi ultimi anni io mi sento sopraffatto dallo schifo. Schifo per la Guerra del signorino Bush, schifo per il nostro regime da operetta, per il Nano e per le Ballerine, e non ho tempo, e se avessi il tempo non avrei voglia, per produrre analisi articolati, lunghi discorsoni e quella roba lì. Cioè, di fronte a una come la Fallaci che bercia, secondo me l'unica analisi che mi sento di fare è “Taci stronza”: davvero, c'è altro da aggiungere? Del resto perché lei può usare le parolacce e io no?

Da: gcharlie69@gmail.com
Inviato il: 23/9/2006 12:34
A: algernon71@yahoo.com
Sai cosa c'è, Alge? C'è che il mortadella è una grossa delusione... neanche per colpa sua, poverino...
lui ci prova a governare, ma deve dare un contentino al cinghialone Mastella... un altro a Di Pietro... che è un po' come la botte piena e la moglie ubriaca, no? E poi ci sono i rifondaroli, i comunisti italiani, i verdi coi loro no-tav e no-qui e no-là, i gay, le lesbiche, il trans... insomma, più che è un governo è il carnevale... e dietro l'angolo c'è il Nano che è già pronto a mettercela in culo... cosa che evidentemente ci piace... e allora un intellettuale cosa deve fare? A me certe volte la sera vien voglia di uscire in terrazzo e gridare... Gridare cosa? Non so, probabilmente... probabilmente un gran vaffanculo... che non risolve i problemi, però.... ti sfoghi...

Da: gcharlie69@gmail.com
Inviato il: 9/7/2008 12:34
A: algernon71@yahoo.com
E allora VAFFANCULO anche a te Alge, VAFFANCULO. Non ti è piaciuto l'otto luglio? E allora lasciati pure governare da un NANO PELATO CHE PIPPA e manda al governo le POMPINARE, ai capito bene, le POMPINARE, e tutta la corte di STRONZI compresa l'opposizione ombra di TOPO GIGIO che e dà trentanni che studia politica e NON A ANCORA CAPITO UN CAZZO come te del resto. Vaffanculo, va.

(Continua? Può continuare così?)
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Vivono tra noi

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[È un pezzo del maggio 2007]:

Amare i bambini

Noi siamo persone normali, persone buone. Abbiamo chi un cane, chi un gatto, chi almeno un canarino. E molti di noi hanno bambini. Sono belli, i bambini. Teneri, senza colpe. Sono angeli. Noi amiamo i bambini.
E questo ci riempie di angoscia, perché sono indifesi, i bambini. Se potessimo tenerli sempre con noi – ma non è possibile. Ogni tanto dobbiamo lasciarli andare fuori.
Fuori ci sono altre persone. Sembrano normali, come noi, ma non sono normali. Magari hanno un cane, hanno un gatto, come noi, ma sono mostri. Sono pedofili. Sono organizzati. Hanno libri e siti internet.
Adescano i nostri bambini. Li drogano, coi tranquillanti. Li costringono a fare cose che noi non riusciamo neanche immaginare. Davanti a una telecamera li molestano. Gli rubano l’infanzia e la felicità per sempre.
In una casa come la nostra c’è una stanza buia, in cui torturano i nostri bambini. Fuori i pulmini girano indisturbati, nel traffico pigro di metà mattina. Bidelli e benzinai sono d’accordo. Insegnanti e medici, custodi, obiettori, avvocati, preti. Non ti puoi fidare di nessuno.

I bambini di questo non parlano. Non esistono, alla loro età, le parole, per l’orrore che hanno dentro. Vorrebbero dimenticare.
Per salvarli dai pedofili, noi non li facciamo più uscire. Per aiutarli a non dimenticare, li chiudiamo in una stanza, e cominciamo con le domande. Quello che devono dirci, lo abbiamo già sentito da altri, a cui è successa la stessa cosa. Perché noi ci teniamo informati. Abbiamo libri, abbiamo siti internet.

Loro all’inizio non vogliono dire niente. Allora insistiamo. Li tempestiamo di domande.
Può durare un paio d’ore o un paio di giorni. A volte occorre abbassare la luce, e minacciarli. È durissimo ascoltarli quando ancora non vogliono parlare. È odioso riprenderli con una telecamera. Ma è l’amore che ci fa resistere, è l’amore che ci costringe a farli parlare. E alla fine l’amore vince sempre.

Arriva il momento in cui parlano. È terribile starli ad ascoltare, ma tutto quello che dicono di solito coincide. E non sono invenzioni. Tutti i racconti coincidono. Come potrebbero, bambini così piccoli, inventarsi dettagli così orribili. E sono sempre gli stessi! Chi può in buona fede pensare a un’invenzione? I bambini non mentono mai. Sono angeli.

Dopo aver parlato sono sempre molto scossi. Fanno fatica a uscire. A volte dobbiamo dargli tranquillanti, perché ciò che hanno ricordato, ciò che hanno vissuto in quella stanza buia è orribile. Resterà con loro per tutta la vita.

Ora però abbiamo il loro racconto. Lo metteremo su internet. Faremo girare anche il video, è giusto che tutti vedano, che tutti sappiano. Perché ci sono persone cattive là fuori.
Persone che torturano i bambini. Che mettono i video on line. Ci sono i mostri. Il mondo deve saperlo. E glielo dobbiamo dire noi.

Bisogna che tutti stiano attenti. Fuori c’è gente cattiva. Torturano i bambini. Dicono di amarli, ma sono i mostri.
Fuori i pulmini girano indisturbati, nel traffico pigro di metà mattina. Vigili e carabinieri sono d’accordo. Giornalisti e psicologi, giudici e magistrati. Di chi ti puoi fidare.
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Con me non puoi far finta

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Eppure Berlusconi non è sempre stato il vecchio porco degli ultimi anni. Al punto che viene il sospetto che questo parossismo sessuale sia anche un po' colpa nostra, che non abbiamo creduto in lui, che non abbiamo realizzato il Miracolo Italiano che ci aveva promesso nel '94, ci siamo fatti contagiare dal pessimismo globale, siamo cascati nella trappola della crisi come dei pirla qualsiasi... e allora a un certo punto lui ha capito che non lo meritavamo, si è rinchiuso come un personaggio di Sade nel suo castello di fanciulle e ci ha lasciato lì, appesi alla corda, pronti a essere spolpati dai marchionne di turno.

Una volta non era così. Dieci anni fa, per esempio, era già un corruttore e un gaffeur di fama mondiale. Ma nulla lasciava trapelare una simile dipendenza dal sesso. La finzione matrimoniale teneva abbastanza bene. Quand'è che ha mostrato le prime crepe?

In occasione del decennale, questo blog sta ripubblicando fondi di magazzino invenduti. Questo pezzo, rinvenuto su uno scaffale dell'aprile 2006, racconta di un episodio che col senno del poi appare rivelatore: durante la campagna elettorale di quella primavera (quella del pareggio con Prodi), fu Berlusconi stesso a raccontarlo. Una sera, rincasando stanco da un comizio, aveva acceso la tv e trovato uno show di pornomodelle che "invitavano a telefonare". E lui telefonò. Per chiedere (testuale, da Libero): "Mi consenta, signorina, ma lei il 9 e 10 aprile per chi voterà? Sette su nove hanno detto Berlusconi". Dunque ne aveva chiamate almeno nove, prima dell'alba. La liquidammo come la solita berlusconata, una di quelle uscite assurde che distolgono l'attenzione da argomenti più seri. E invece era un grido d'allarme. Nel culmine della campagna elettorale, proprio quando avrebbe dovuto essere concentrato e circondato da amici e sodali, l'uomo passava le notti a chiamare le hotline. Lo stavamo perdendo. Io forse me n'ero reso conto. Ma a parte scrivere questo inutile pezzo, non ho fatto nulla di concreto per aiutarlo. Insomma, è anche colpa mia.


Post+coitum

"Pronto?"

"Ciao, sono io, l'avresti detto mai?
Nel bel mezzo del tuo lavoro squallido.
E sì che sono io, insomma non ti fidi?
Mi hai preso per un comico? Macché:
nessuno sa imitarmi come me.

E dunque eccitami, su,
è il tuo mestiere, o no?
Dimmi che vuoi votare solo me.
Non devi fare finta
(con me non puoi far finta),
Io me ne accorgo, e poi ti pago bene:
dimmi che vuoi votare solo me.

Non è come tu pensi, io non mi sento solo:
stasera ero a un comizio, la gente mi invocava,
la cena, e poi gli autografi... non riuscivo ad andar via.
(La gente non lo vuole, tu questo lo capisci,
la gente mi ama troppo, la gente non vorrebbe
vedermi mai andar via).
Così si è fatto tardi, il sonno mi è passato,
in tv film di merda, nessun sondaggio fresco
(tu puoi capirlo – essendo nel settore:
c'è un'ora della notte, un'ora sola, e lunga,
in cui non c'è nessuno a dirti: Sì).
Ma tu me lo puoi dire – soltanto, non-far-finta.
Non sono uno di quelli, con me non puoi far finta.
Inoltre pago bene, per cui avanti, dillo,
che vuoi votare solamente me.

E no che non mi annoio, io non mi annoio mai.
Lavoro sedici ore al giorno, non lo sai?
E tu?

Lo vedi, solo dieci, lo vedi come va:
per questo io faccio il leader, tu la centralinista.
E in più io sono figlio di un professionista
Mentre tuo padre era operaio, vero?
Eppure, quante cose in comune, io e te:
noi arrapiamo il popolo, questo è il nostro mestiere.
E quante cose io potrei insegnarti
sull'essere gentile, disposta, sempre allegra
e mai sincera, mai! – Sennò ti vien da ridere,
e non si deve ridere! S'ammoscia se tu ridi.
Sorridere bisogna, a denti stretti, sempre
sorridere e sudare, è questo il mio mestiere
(e il tuo, naturalmente).

Ma stanotte è diverso.
Stanotte non puoi fingere, ti parlo da collega,
se fingi lo capisco, se fingi non ci riesco.
Ti prego, sii te stessa
E dimmi che vuoi votare solo me.

È solo un mio capriccio, sondaggi io ne ho,
e guardacaso dicono quello che voglio io
(del resto è matematico, più paghi più hai ragione
non devi dirlo a me).
Io sono nel settore da trent'anni, si può dire
che i trucchi del mestiere te li ho inventati io
È un gioco troppo facile: più paghi più hai ragione.
Io forse pago troppo, ma questo non vuol dire
che tu ora possa fingere, io me ne accorgo subito,
perciò ora sii sincera, prova a essere sincera
nel dirmi che tu voterai per me.

Non ridere, non ridere,
non c'è niente da ridere:
è quell'ora della notte,
e io ti pago, sai.

Cerca di rilassarti, sii te stessa,
parlami un po' di te, ce l'hai un ragazzo?
Cosa? Hai una bimba? Ottimo! E si chiama?
Silvia! Ma pensa! Che bel nome! Silvia!
E il padre? E perché non vi sposate, voi ragazzi?
Io me lo chiedo sempre, perché non vi sposate?
La famiglia è importante, il mettere su casa,
e io posso anche aiutarvi.
L'assegno famigliare, vi toglierò le tasse,
vi comprerò la macchina – se tu sarai sincera
devi essere sincera,
e dire che tu voterai per me.

Non può essere altrimenti,
non sei una cogliona.
Sei una che lavora,
non stai coi comunisti.
Mi sembri un tipo ammodo
Senz'altro intelligente
Bella presenza, immagino
– e io non sbaglio mai.
Perché non vieni su
a Cologno, un giorno o l'altro?
Un talento come te
è sprecato per le hotline.
Tu hai tutto quel che serve per sfondare.
Ti basta essere te stessa
– avanti, sii te stessa –
quando dici che mi vuoi
votare, che tu vuoi
votare solo me.

Adesso
Vuoi votare solo me
Dimmelo
Dimmelo
Non Fini, non Casini
Con Prodi non ci godi
Tu vuoi votare solamente me
Dimmelo
Dimmelo

Ma devi essere sincera
Io non ci riesco, se non sei sincera
Non ce la faccio se non sei te stessa
E se poi scoppi a ridere io non…

Clic

Ma cribbio, cos'hanno tutte stanotte? Fanno le preziose, fanno.
Con quel che costano.
Proviamone un'altra, va'."
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The Rutelli Scenario

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[Questo blog è nato dieci anni fa, e festeggia pubblicando un post per anno. Siamo arrivati al 2005, che però è ambientato nel 2025 - storia lunga. Quel che vi interessa sapere è che 15 anni dopo che Tremonti ha paragonato la crisi economica a un videogioco, Arci e Mac caricheranno su Civilization VII il seguente scenario: cosa sarebbe successo se alle elezioni del 2001 avesse vinto Rutelli e non Berlusconi?]

Civilization VII - Lo Scenario Rutelli

Ave, Rutelli. Sei il Primo Ministro della Repubblica Italiana nel 2001 AD. Gli italiani sono simpatici, improvvisatori e inconcludenti.

"Be', ma come si permette?"
"In effetti questo è uno degli aspetti più discutibili del software. Ogni civiltà ha delle caratteristiche innate che si porta avanti in ogni fase del gioco, dalla preistoria all'era spaziale".
"Sì, lo so benissimo. I tedeschi sono metodici ed espansionisti, gli indiani sono mistici e pacifici, eccetera".
"Ah, vedo che hai giocato, qualche volta".
"Io… sì, qualche versione precedente. Negli anni Novanta".
"Ah sì? E come mai non sei diventato un Neocone?"
"Un che?"
"È una teoria molto in voga, ultimam. Fino a qualche tempo fa si pensava che la generazione di intellettuali USA formatasi negli anni Novanta avesse abbracciato l'ideologia neoconservatrice dopo aver letto The Clash of Civilizations, hai presente, il libro di Huntington".
"Che non è un Neocon".
"Diciamo che era un buon antipasto. Perché, l'hai letto?"
"Beh… ho guardato le figure".
"Ecco, appunto. A un certo punto qualcuno si è reso conto che The Clash of Civilizations era stato molto più citato che letto, e comunque era uscito solo nel 1996, mentre Sid Meier aveva pubblicato Civilization I già nel 1991".
"Sul serio? Pensato che le teorie di Huntington lo avessero influenzato".
"Era il contrario. Il videogioco aveva influenzato Huntington. O perlomeno i suoi lettori. Anche perché… pensaci un momento. The Clash of Civilizations si legge in una settimana. Quanto ti dura una partita di Civilization?"
"Io… non so. Trentasei ore".
"Di più, di più. E se ci giochi una volta…"
"…ci giochi altre volte".
"Insomma, i neoconservatori degli anni dieci erano tutti appassionati giocatori di Civilization negli anni Novanta. Erano maturati ideologicamente durante lunghe sessioni di gioco. E poi può darsi che leggessero anche un po' di Huntington, ma un buon gioco di simulazione ti penetra molto più di qualsiasi opera letteraria".
"Vabbè, ma che vuol dire, ci giocava anche un sacco di gente non Neocona… Io mi ricordo una volta che tornavo in treno da una manifestazione, sai, quelle cose enormi che facevamo ai tempi dell'Iraq, e non riuscivo a dormire perché il mio dirimpettaio pacifista si ostinava a spiegare a un suo amico come aveva scatenato la guerra nucleare contro gli egiziani e… ma come, sono già sotto coi soldi?"
"È il buco lasciato dal governo precedente".
"Ma no! Amato non mi avrebbe mai tirato un gioco simile. Lui era un uomo onesto, un…"
"Un socialista, sì. Non ti ricordi il bonus fiscale del 2000? Il tuo primo aumento alla tua prima busta paga. Pura manovra elettorale".
"Allora Tremonti non mentiva".
"Era solo un simpatico esageratore".
"Beh, che importa, tanto non ho mica promesso mari e monti, io. Ci metto solo un turno a… Momento. Cos'è qsta puzza di fritto?"
"Qsto è un altro aspetto discutibile della simulazione. Ogni ambasciatore si annuncia dal suo… profumo".
"Mao Tze Tung?"

Ave, Rutelli. L'ambasciatore della Repubblica del Popolo Cinese ti augura pace e prosperità.

"Sì, mi rendo conto che a questo livello avrebbero potuto usare volti più verosimili, ma pare che agli utenti piaccia più così. Quando tratti coi francesi c'è sempre Napoleone, e l'ambasciatore indiano è sempre Gandhi, anche quando ti lancia l'offensiva nucleare. Piccoli effetti umoristici".

Abbiamo sentito dire che state fondando un'Organizzazione Mondiale del Commercio con USA, Europa e Russia.
Ci piacerebbe aderire alla vostra Organizzazione.
Possiamo vendere: utensili in acciaio, manufatti tessili, tecnologia hi-tech
.


"La traduzione lascia un po' a desiderare. Cosa gli rispondo?"
"Sei tu, il Presidente. Improvvisa. Sei italiano o no?"
"Se gli dico di no, cosa fa, mi invade?"
"Ufficialm no. Potrebbe usare le bombe umane".
"Bombe umane?"
"Un deterrente molto efficace. Libera qualche milione di cittadini ansiosi di emigrare in Italia clandestinam".
"Beh, meglio così, un sacco di forza lavoro. Tanto io sono di sinistra… e qsto chi è?"

Ave, Rutelli, sono il tuo Ministro degli Interni, on. D'Alema.

"Ma se non ha i baffi!".
"Porta pazienza, è uno scenario che ti ho fatto in due ore, secondo te avevo il tempo di mettere i baffi a D'Alema? Senti che ti dice".


Rapporti confidenziali dicono che un attacco umano dalla Repubblica del Popolo Cinese causerebbe rivolte in tutte le città del Nord.

"Beh, ma si fottano, quei Padani! Ignora le loro fievoli minacce!"

Se questo è il tuo volere, Presidente, devo rassegnare le dimissioni.

"E si fotta anche D'Alema! Però, mi piace qsto gioco. Ma la prossima volta mettici i baffi, mi darà più soddisfazione… beh? È già finita?"
"D'Alema si è dimesso, i Diesse ti hanno tolto la fiducia, il tuo governo è caduto, hai perso la partita".

Addio, Rutelli.
Il tuo governo è durato 27 giorni.
Gli annalisti del futuro ti ricorderanno come:
RUTELLI L'IMBELLE


"No, no aspetta. Torno indietro. Come non detto. Control Zeta. C'è un modo di fare Control Zeta?"
"Come no, basta pensarlo intensamente".
"E infatti! Dunque, sono di nuovo di fronte a Mao Tze Tung che sa di fritto. Gli dico che può entrare nell'Organizzazione Mondiale del Commercio, però… deve rispettare alti standard in materia di diritti umani! To', beccati questa".
"Lui che dice?"
"Fa sì con la testa e sorride".
"È un modo del software per esprimere assenso «all'orientale»".
"Più che sorridere ridacchia".
"È sempre un cenno d'assenso".
"Bene. E qsta adesso cos'è… cannella?"

Ave, Rutelli. Sono il Presidente degli Stati Uniti, George W. Bush.

"Sì, e sai di cannella. Cosa vuoi?"

Vedo che anche tu sei d'accordo all'ingresso della Cina nel WTO. Firmeremo l'accordo formale al prossimo summit, in Italia, in luglio. Mi raccomando di curare le misure di sicurezza anti-terrorismo".

"E se lo mando a f'nql?"
"Non credo che andrai molto avanti".

"Va bene, allora Ok, George, non ti preoccupare, anzi, te lo posso dire? Preoccupati. Osama Bin Laden sta preparando un attacco alle Due Torri in settembre. Ouch! Che succede?"
"Succede che stai barando. Stai usando il senno del poi".
"E mi arriva la scossa?"
"Un piccolo deterrente".
"E qsto casino cos'è?"
"Non è niente, c'è malcontento popolare".
"E perché? Cosa ho fatto?"
"Pensano che organizzando un summit in Italia attirerai i terroristi; inoltre né Mao Tze Tung né George W. Bush sono molto popolari".
"Vabbe', ma che ci posso fare?"
"Più o meno lo sai cosa puoi fare. Puoi intrattenerli, costruire stadi, ripetitori tv, cinematografi…"
"Ci sono già in tutte le città, non bastano".
"Puoi farli lavorare meno a parità di salario".
"Ma sono già in rosso".
"Ti sarà già capitata una situazione del genere, no? Di solito cosa facevi?"
"Beh, la cosa più facile era distaccare un'unità militare nella città in tumulto".
"Bene, allora fa così. Prima concentri tutto il malcontento popolare in una città… in qlla dove avverrà il summit. E poi, con la scusa dell'antiterrorismo, ci mandi un bel po' di unità-carabinieri".
"Non è che ne abbia tante a disposizione. Mi servono per gli stadi".
"E allora prendi anche i poliziotti, i finanzieri, i forestali… tutto quel che hai".
"Però non so… non mi sembra una cosa molto di sinistra".
"Se te ne vengono in mente altre…".
"Non conosco il gioco abbastanza".
"Lo conosci benissimo. Improvvisa".
"E qsto chi è?"

Ave, Rutelli, sono il tuo Ministro degli Esteri, on. Veltroni.

"Veltroni?"
"Pensavo che ti sarebbe piaciuto, sai, è un brav'uomo, ogni tanto lo mandi in Africa…"

Il summit internazionale è stato un successo. I terroristi non hanno colpito. Il mondo ti stima.

"Oh, bene".

Ave, Rutelli, sono il tuo Ministro degli Interni, on. D'Alema.

"E tu che vuoi?"

La sollevazione popolare nella città di Genova è stata sedata.

"Ottimo".

Perdite: una unità.

"Che significa?"
"C'è scappato un morto".
"Militare o civile?"
"Senti, è una simulazione fatta in poco tempo, non ha nessuna importanza se è morto un carabiniere o un manifestante. Uno su 57 milioni è comunque poca cosa".
"Poca cosa? Questa è una Repubblica! Non è che può morire una persona in una città così".
"Certo che puoi, se concentri tutto il malcontento e tutte le forze di polizia in una città sola! Quando giocavi alle versioni più vecchie non ti capitava mai di far morire i tuoi cittadini?"
"Sì, ma era un gioco. Non me ne accorgevo neanche".
"È un gioco anche questo".

Ave, Rutelli, sono il tuo Addetto Stampa, Michele Serra.

"Piuttosto inverosimile".
"È il primo che mi è venuto in mente".

Lieve malcontento in tutte le città, a causa della morte di un cittadino durante la rivolta di Genova.
La tua popolarità è crollata. Fini e Bertinotti vinceranno le prossime elezioni.

"E va bene, che ci posso fare?"
"Puoi chiedere scusa, nominare una commissione d'inchiesta e scaricare le colpe sui sottoposti".
"Giusto. Faccio dimettere tutti i dirigenti delle forze di polizia. E anche D'Alema, to', non è agli Interni, D'Alema? Al suo posto ci metto Fassino, così i DS mi mantengono la fiducia. Come sto andando?"
"Non male, sei arrivato al settembre del 2001 senza ancora fare una sola cosa di sinistra".
"Va be', ho ancora cinque anni, tanto".

***

Caro Leonardo, se ci penso, aveva ragione Arci: non c'è niente di meglio di un gioco di simulazione per trasmettere un'ideologia. Connesso a Civilization VII io giocavo, giocavo, e intanto tutta la mia fede nell'autodeterminazione individuale veniva espulsa dai pori, come una tossina dal sudore. Sudavo molto, in effetti.

"Tempo di finanziaria, bene. Mo' mi vedono. Supertassa patrimoniale, tie'! E lotta senza quartiere all'evasione. E all'abuso edilizio. E poi…"
"Mi sembra che esageri. Rutelli avrebbe fatto tutto questo? Con Bertinotti all'opposizione?"
"Rutelli no, io sì. E voglio proprio vedere chi lo rivota, Bertinotti… beh? Cos'è quella freccia in caduta libera?"
"Una freccia indaco?".
"Blu?"
"Sì. È il PIL trimestrale".
"E perché è crollato?"
"Non lo so, posso fare delle supposizioni. Forse le tue dichiarazioni hanno spaventato gli industriali, che hanno spostato i capitali nei paradisi fiscali. E già che c'erano, hanno spostato anche la produzione. Ricordi quando hai voluto la Cina nel WTO? Adesso possono trasferire intere fabbriche dal Po al Fiume Azzurro quasi a costo zero".
"Ma anche questi industriali, che due coglioni… attacco San Marino, va".
"Cos'è che fai?"
"Lo sanno tutti che è un paradiso fiscale. Ora voglio proprio vedere cosa succede se lo circondo con la fanteria meccanizzata".
"Mac, in questo scenario meno usi la forza meglio è. Hai già visto che è successo a Genova".
"Sciocchezze. Stavolta non ammazzo nessuno. E se Napoleone mi dà il permesso, dopo prendo Montecarlo… E adesso che cazzo vuoi, Veltroni…"

Il Parlamento Europeo condanna la tua politica espansionista.
Forti sanzioni economiche imposte dagli Stati Membri.


"Branco di rammolliti! Per tre colline in Romagna? E se invadevo l'Etiopia cosa succedeva?"
"Mac, stai giocando contro un computer che si intende di storia molto più di te. Il suo comportamento è assolutamente verosimile. Sei tu che stai facendo pazzie. Nessun vero uomo di Stato europeo assedierebbe un paradiso fiscale".
"Ma perché?"
"Perché no".
"Va bene, va bene: control Zeta. Ricapitoliamo: devo fare una finanziaria equa ma senza spaventare gli industriali, e inoltre… e adesso cos'è tutto questo casino?"
"Indovina un po'".
"O cazzo, giusto, l'11 settembre… ma io che c'entro? "
"Il mondo è piccolo, Mac".
"Ho mezza Italia in rivolta… qsto non è molto verisimile".
"Il Ministro degli Interni che dice?"
"Fassino? Un paio di stronzate sulla caccia all'arabo. A Milano e Verona danno la caccia agli arabi e li linciano per strada. Mi sembra un po' esagerato".
"Devi pensare che la destra è in stato confusionale. Berlusconi Bossi e Fini hanno perso le elezioni e non contano più nulla. Gli attivisti sono smarriti e confusi, e tu stai facendo ponti d'oro agli immigranti".
"Ho solo snellito le procedure".
"Hai anche abbreviato i tempi per la cittadinanza, mi pare".
"Altroché se l'ho fatto, è forza lavoro a buon mercato e voglio tenermela stretta! Altrimenti poi lo sai che i cinesi…"
"Sai cosa si dice di te? Che tra quattro anni e mezzo vuoi farti rieleggere coi voti dei musulmani. Forattini ti disegna già in prima pagina come Al-Rutel".
"No! Forattini no!"
"Niente panico. Niente panico".
"E questa cos'è? Un'autobomba contro una sinagoga? Ma siamo impazziti?"
"Gli arabi si sentono perseguitati e se la prendono con un'altra minoranza. È un classico. Niente panico. Lo statista si vede nelle emergenze".
"Va bene. Non è tempo di mezze misure. Tutti i fascisti in galera".
"Costituzionalmente impeccabile. Ma le galere sono piene".
"Già, dimenticavo. Va bene, prima un bell'indulto, facciamo uscire un po' di gente che può fare lavori socialmente utili e ficchiamo dentro i fascisti. In alternativa mettiamo su dei Centri di Detenzione per fascisti e li appaltiamo a delle cooperative, così creiamo anche dei posti di lavoro".
"Cominci a imparare".
"Sto improvvisando".
"E la minoranza araba, come la tranquillizzi?"
"Dunque. Faccio una bella dichiarazione in cui spiego che l'Islam non è il terrorismo, e che l'Italia è un luogo d'incontro, non di scontro, tra due grandi civiltà. Buono, no?"
"Ottimo".
"E allora perché George W. s'è rabbuiato?"
"Forse s'aspettava una parola di condanna sull'estremismo religioso. Ground Zero è ancora calda, i postini muoiono per le lettere al carbonchio".
"Beh, adesso non può pretendere. Io ho una grossa minoranza musulmana in casa. No. Ho detto No. Non ci vengo in Afganistan, George! Te lo puoi scordare. Eh? Che cosa?"
"Qualcosa non va?"
"Non ti immagini. Gli americani si sono incazzati perché ho condannato la guerra afgana… hanno tolto dai menu dei ristoranti tutte le parole italiane! Le lasagne alla bolognese sono diventate le Boston lasagns!"
"Non te la prenderai per così poco…"
"E poi il petrolio è alle stelle. Gli industriali piangono".
"Facci il callo".
"E adesso cosa c'è… questo no. Non potevo immaginarlo".
"Cosa?"
"Un gruppo di ex brigatisti, usciti di galera con l'indulto, con un sacco di esperienza nel mondo del lavoro socialmente utile, ha fondato una cooperativa non profit e si è fatto appaltare un Centro di Detenzione per fascisti".
"Lodevole iniziativa".
"C'erano delle vecchie ruggini… insomma, sono saltate fuori delle foto di abusi sui carcerati e Amnesty International mi ha condannato. È da Genova che non me ne perdonano una. Gli americani mi disprezzano e gli europei mi snobbano. Cosa faccio?"
"Io resetterei".

Resettai una dozzina di volte, quella notte, in seguito ai più svariati motivi: uno sciopero generale, una carestia in Basilicata, una polemica col Papa che mi valse la sfiducia del partito cattolico (il mio), eccetera. Di catastrofe in catastrofe, improvvisando, cominciai a ingranare. A parte alcune sciagure veram inevitabili (crisi della fiat, crack parmalat...), riuscivo a cavarmela in modo dignitoso. Mettevo i ministri gli uni contro gli altri. Truccavo i bilanci. Raccontavo palle ai telespettatori. Verso il mattino riuscii finalmente ad arrivare al quinto anno del mandato.
"Pss, Arci, sveglia!"
"Che c'è? Ora di colazione?"
"Sono arrivato al 2006! Ce l'ho fatta!"
"Complimenti. I conti come sono?"
"Bruttini, ma considerata la congiuntura… sai, dopo l'11 settembre, l'Euro… il caro-petrolio… meno male che ho aperto un pozzo a Nassiryia".
"Ah, stai a Nassiryia".
"Sì, ho dovuto prendere parte alla spedizione, non avevo molta scelta… ho avuto parecchie perdite, sai? È stato terribile".
"E all'interno come va?"
"Non malaccio. Ho cambiato alcuni ministri ".
"C'è ancora Fassino agli Interni?"
"No, ehm. C'è Fini".
"Fini?"
"Un grande acquisto. Sai, dovevo fare qualcosa per mettere ordine a destra, c'era un rischio di deriva eversiva fortissimo… così tre anni fa l'ho ripescato dalla fondazione dove s'era rintanato, e l'ho messo a capo di una lista civetta per le Europee. L'ho ripulito, l'ho convinto ad andare a Gerusalemme a riconoscere il nazismo male assoluto. Gran mossa. Ha pescato voti a man bassa: ex forzisti, cattolici… Quando i diessini si sono ritirati dal governo, lui mi è rimasto vicino".
"I diessini si sono ritirati".
"Sì, ufficialmente per via della guerra, sai, le solite petizioni di principio per gli allocchi, i cortei arcobaleno eccetera. In realtà D'Alema voleva fottermi il posto andando a elezioni anticipate. Ma l'ho fottuto io! Tiè!"
"Toglimi una curiosità. La Lega?"
"Stiamo giungendo a un accordo, dovremmo cambiare qualche articolo della Costituzione. Per ora è solo un appoggio esterno, ma poi… coi voti di Bossi in maggio stravinco, capisci".
"Capisco. Stai al governo con Bossi e Fini".
"Sì".
"Riscrivi la Costituzione. Controlli Nassiryia".
"Era l'unico modo, capisci, io..."
"Sei sicuro di essere ancora Rutelli?"
(continuava)
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Pensavo di aver chiuso con Billy

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[Dieci anni fa, quando è nato questo blog, bla bla bla, non c'erano un sacco di cose, bla bla. Altre invece c'erano già, come, per esempio, l'Ikea, che io continuai a frequentare almeno fino al maggio 2004, quando mi slogai qualche arto cercando di montare un Antonius in un bagno. Mi vendicai scrivendo queste righe, grazie alle quali il mito ikea è del tutto tramontato e infatti adesso al posto dei punti vendita ci sono delle palestre di lotta libera].

Avendo sentito dire che adesso noi blog siamo i trendsetters (ma forse è già troppo tardi), volevo approfittarne per rifarmi delle mie frustrazioni sull’uomo più ricco di Gates: per annunciare, insomma, che Ikea è definitivamente Out. E mi sembra che siamo tutti d’accordo.

Allora potrei tirare la mazzata finale, e aggiungere: non è mai stato In, e credo che vi troverei ugualmente d’accordo, ma direi una bugia, e voi sareste contenti di credermi. No, c’è ancora in giro qualche portaciddì, qualche cassettino portaspezie in compensato. No, la lavagnetta magnetica resta sempre un oggetto simpatico. No, c’è stato un periodo in cui trovavamo a casa degli amici la mensola per libri paraboloide e pensavamo: però, figata. Insomma, un conto è il trendsetting, un conto è il revisionismo. Quello i blog non lo fanno… ehm, beh, almeno stasera a me non va di farlo. Perché insomma, io certe cose le ho viste. Ho visto i cassettini in compensato in casa di gente rispettabile, laureati, laureandi, architetturandi, e sarà stato il 1998, massimo 1999. Ho visto Fight Club, nel 1999, e ho sogghignato quando Ed Norton sfoglia il catalogo Ikea al gabinetto, l’allusione masturbatoria colpiva sul vivo. E poi ho visto anche i famosi bastimenti in fiamme dalle parti di Orione, ma da vicino, sapete, non furono un granché, preferisco concentrarmi sull’Ikea. Fu un grande fenomeno di fascinazione collettiva, vi sentite di negarlo? Non vendevano truciolato, chiunque è in grado di venderti truciolato, loro vendevano stile di vita (sapessero fare i mobili come fanno i cataloghi). E noi abbiamo comprato.

A volte, bisogna dirlo, abbiamo comprato perché non avevamo scelta. Quando arrivò in Italia, Ikea puntò tutto sulla liberazione del Giovane e della Giovane. il cartello che a quei tempi andava per la maggiore era una duecavalli in camporella (giornali sui finestrini). Titolo: Non è ora di andare a vivere da soli? Probabilmente già allora la risposta di molti ventenni italiani fu: “No, perché?” Ma per altri era ora, decisamente. Quando io uscii di casa, non pensavo davvero ai mobili Ikea, non perché mi fossi accorto di quanto fossero brutti, ma perché credevo di non potermeli permettere. Pensavo di dover volare più basso, genere mercatoni di provincia. Ma nel giro di un mese mi resi conto di una cosa: solo Ikea capiva i miei problemi.

Se la mia stanza era lunga 1mt.60 x 3, era impossibile farci stare un letto e una scrivania, per tacer dell’armadio. Ergo, serviva un letto a soppalco, ma singolo. Adesso non so, ma vi garantisco che nel 1999 non li vendeva nessuno. Solo l’Ikea. Gli altri avevano letti a castello per bambino: perfetto, esco da casa dei miei e mi ritrovo nel reparto infanzia del mobilificio. Era come fare la spesa da single: umiliante.

E allora, quello che trovai da Ikea non era il fascino per il compensato svedese. Non ero così idiota, nemmeno nel ’99, e neanche voi. Quello che trovai a Casalecchio era rispetto. Rispetto per la mia situazione di ventenne-e-qualcosa-single-andato-ad-abitare-in-un-cesso-di-un-metro-e-mezzo-per-tre. Gli altri avevano solo sorrisi di commiserazione e lettini della Barbie. L’Ikea aveva un letto a soppalco singolo, grigio, anonimo, alto il giusto per non sembrare infantile. E ce l’ha ancora, esposto con tutto l’occorrente per trasformare lo spazio sottostante in uno studiolo, un guardaroba, un harem con tappeti e cuscini, una palestra da bodybuilding, un loft. Presi un giorno di malattia per andarlo a prendere con la macchinina, e quando arrivai scoprii che non l’avevano, e piantai una grana finché non me lo diedero lo stesso, e bestemmiai in svedese per farlo stare dentro la macchinina, e ripartii sgommando e cantando

I think I’m on another planet with you, with you

Ce l’avevo fatta. Ero autonomo. Avevo un letto tutto mio. Io, e il mio soppalco, non avevamo più bisogno di nessuno (anche se avessimo avuto bisogno, di qualcuno, non ci sarebbe più stato spazio, né sulla macchinina, né nella stanza, né sul soppalco). Eravamo liberi, indipendenti, autonomi, automuniti.

Giunto a casa, l’amara delusione. Il foglio delle istruzioni – sapete come sono fatti, no? Niente parole, solo disegni – mostrava chiaramente due persone che montavano il letto. Un ragazzo e una ragazza – per colmo dell’umiliazione. Bussai alla Fra’.
“Fra’”
“Sì?”
“Fra’, io pensavo di farcela da solo, ma nel disegno…”
“Che c’è?”
“C’è anche una donna, vedi”.
“Una donna?”
“Ha i capelli lunghi”.

In due riuscimmo a montare il soppalco, anche se demolimmo tutto il resto della stanza. Su quel soppalco ho passato gli anni più assurdi della mia vita. Al mattino, quando suonava la sveglia, mi alzavo – le grucce appese sotto la rete mi salutavano gnigolando – e mi sembrava di essere il capitano di un vascello in rotta verso l’ignoto. Perché ero lì? Ero saggio? Ero responsabile? Ero un idiota? Se lo sarà chiesto mille volte anche Cristoforo Colombo.

Allora, chi lo sa, forse il motivo per cui oggi Ikea non ci piace più, è che la generazione che è uscita di casa alla fine dei Novanta ormai ha passato il guado, si è sistemata, e ha bisogno di mobili più solidi, più personali, meno giovanili, che ne so? Ora a Casalecchio mi pare che puntino di più sugli adolescenti che vogliono rifarsi la cameretta. E mi pare giusto. Ikea è una specie di evoluzione del lego: ti monti le cose da solo, le ricombini, poi ti annoi, smonti tutto e compri un’altra scatola. Va bene.
Una cosa che invece non capisco è il laminato bianco, che quest’anno va molto. Io ho sempre odiato il laminato bianco, ma perché? Ne ho parlato con due miei amici, e condividevano. Poi ci siamo resi conto di una cosa: avevamo in comune un’infanzia in una zona industriale.
Probabilmente in Svezia queste cose non se le immaginano neanche. Devono avere tutto lo spazio per mettere le fabbriche da una parte e le casette dall’altra, tutte belle col loro giardino e il tetto spiovente per la neve. Ma in Emilia è successo tutto in modo così convulso. La gente si è messa a costruire fabbrichette, capannoni in cemento, e sopra, o di fianco, ci ha costruito il suo appartamento. Così si teneva il lavoro in casa. E in casa, per evitare confusione, mobili di noce massiccio. Invece giù, nell’ufficio, schifezze di laminato bianco.

Noi siamo cresciuti giocando col lego, ma anche con le scrivanie di laminato bianco, digitando numeri assurdi sulle calcolatrici da tavolo di papà, e a volte partiva il rullo della carta e non si fermava più. Poi, crescendo, può darci che ci torni un po’ di nostalgia per il lego, come per i cartoni giapponesi: ma il laminato bianco è il rovescio della medaglia, il mondo brutto che vorremmo esserci lasciati alle spalle per sempre, anche se ci ha dato da mangiare per così tanto tempo.

D’altro canto, al noce massiccio non ci siamo senz’altro arrivati, e forse non abbiamo intenzione di arrivarci mai.
E allora – dove siamo? (Ammiraglio, d’accordo, una terra l’abbiamo trovata. Ma che terra è?)
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Mi è tuttora oscuro il perché

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[Dieci anni fa Beppe Grillo andava in giro per i palazzetti a spaccare i computer col martello. La gente non voleva leggere sul video, stampava qualsiasi cazzata. Meno male che i blog ancora non esistevano, tranne questo. Per festeggiare dieci anni di obsolescenza, leonardo.blogspot.com pubblica dieci vecchi pezzi che parlano di passato e di futuro. Questo è del novembre 2003. Ci ho messo anni a ritrovare il volantino originale].

Trova l’errore

In questa foto c’è un grave errore. Riesci a trovarlo?

(Clicca qui per ingrandire).

È la pubblicità di un concorso indetto dal Ministro dell’Istruzione e dall’Inail, per “l’assegnazione di n. 200 borse di studio agli studenti degli Istituti Tecnici e Professionali […], che presentino progetti in tema di sicurezza e salute negli ambienti di vita, di studio e di lavoro”.

Lodevole iniziativa. Ma – come ogni pubblicità – è anche un lapsus collettivo. Ci passiamo davanti e non ce ne accorgiamo. Ma fingiamo un momento di venire da Marte, e di trovarci davanti un volantino così. Chi sono questi cinque umanoidi? Perché il più anziano è incellofanato? Stiamo forse assistendo a una cerimonia di imbalsamazione rituale? Cosa sta osservando l’altro personaggio anziano? Perché l’umanoide femmina sorride?

No, è difficile capirci qualcosa, da marziani. Reincarniamoci allora in un critico marxista del Novecento. Mmm. Che strano quadretto. Il professore, icona della borghesia improduttiva, lo riconosciamo senza problemi (veste più o meno allo stesso modo da quarant’anni); ma perché il ragazzo alla nostra sinistra veste indumenti di tre taglie più larghi, inadatti a qualsiasi funzione produttiva? E perché hanno travestito un signore anziano da operaio? E perché la ragazza veste più o meno allo stesso modo, ma ha le spalle nude? E ancora, cosa ci trova da ridere?

E adesso torniamo in noi. Forse, rispetto ai marziani e ai marxisti sappiamo qualcosa di più sulla moda degli anni Novanta: ma ne sappiamo davvero molto di più su di noi? Sulla nostra idea del lavoro? La foto non ci lascia dubbi: oggi la nostra immagine di “operaio medio” è quella di un signore di cinquant’anni e qualcosa, brizzolato. Bisogna fingersi un attimo marziani per ricordarsi che non è necessariamente così: un tempo nessuno avrebbe pensato a un signore di sessant’anni in un cantiere. Soprattutto mentre quelli che potrebbero essere i suoi nipoti vestono casual e presentano progetti al Ministero.

Ma allora forse aveva ragione il marziano: questa è un’imbalsamazione rituale. È il vecchio Lavoro che si seppellisce qui, incellofanato perché non si guasti ulteriormente. Quello che aveva fondato la Repubblica e il boom economico, quello che ora si meriterebbe la pensione, ma deve tener duro: sempre lui. Quel signore che nei prossimi anni continuerà a lavorare, incentivato dal Governo, anche se con qualche acciacco in più: ma anche i suoi acciacchi possono far girare un po’ di economia. Gli disegneremo un casco nuovo, scarpe più robuste e antinfortunistiche, protesi in titanio, indistruttibili, e poi via, finché c’è vita c’è lavoro.

E poi, quando non ci sarà più lavoro per lui, non ce ne sarà più per nessuno. O meglio: ce ne sarà ancora, perché è impossibile che tutto il lavoro scompaia nel nulla: ma sarà invisibile, non protetto. Avrà facce scure e poco rassicuranti. Ma nel nostro cuore resterà sempre un bel signore serio e brizzolato. Nostro padre. Dopo di lui, il diluvio.

Dopo di lui, il terziario. I servizi. I progetti. Le borse di studio. E gli eterni professori che studiano, con la solita giacca e il solito farfallino. Loro non hanno bisogno di cellophane: tra quarant’anni probabilmente saranno ancora uguali. Ma i tre ragazzi? Cosa faranno dopo la borsa di studio? Altri progetti, altre borse, altri servizi. E poi? E poi non si sa. Non diventeranno operai, questo è sicuro. C’è una grande, inconsapevole ironia, nella mise della ragazza. La canottiera riprende le forme della tuta blu: e la spalla, abbronzata, non sembra affatto inetta al lavoro fisico. Le borchie della cintura (che non tiene su i pantaloni) i tasconi delle braghe (dentro c’è un cellulare): tutte irriconoscibili citazioni del mondo del lavoro. Tutti oggetti il cui valore d’uso si è riconvertito in valore di moda. La ragazza veste come un operaio, e non lo sa.

O forse lo sa, perché le ragazze sanno sempre più cose di quante immaginiamo. Tiene in piedi il passato (sembra lo accarezzi quasi), guarda verso il futuro, e sorride. Non mi è chiaro il perché.
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Sei mai stato esperienziato?

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[Dieci anni fa non esistevano gli iPhone. In effetti, non esistevano nemmeno gli iPod, e i telefonini avevano il display in bianco e nero. La cosa più trendy della Apple era uno scatolone di plastica blu. I computer delle persone normali erano scatoloni di lamiera bianca. Niente banda larga, niente youtube. Niente facebook, ovviamente. In Italia non esistevano neanche i blog, tranne questo (e quello di Ludik). Per festeggiare la sopraggiunta anzianità, la redazione pubblica dieci pezzi di dieci anni diversi. Questo è del novembre 2002, e saluta la nascita di un quotidiano vecchio, pardon, nuovo, pardon, boh, non si capisce più, è passato troppo tempo].

Segni del tempo. (Un omaggio al Riformista, più o meno dieci anni dopo).

Sto ascoltando Are you experienced?, come oggi prescrive Polaroid, e intanto penso: però è una cosa strana, la nostalgia. Non sempre ha a che vedere coi ricordi. A volte è pura fantasia, è un universo parallelo che ci costruiamo coi ricordi degli altri. E non serve aver vissuto in un periodo per rimpiangerlo, anzi.

E poi è strano come certi periodi siano familiari a tutti e altri no. Tra un revival e l'altro ci sono zone d'ombra che nessuno ancora ha iniziato a rimpiangere. Prima o poi torneranno di moda – tutto torna di moda – ma nel frattempo a me piacciono così, accessibili e poco frequentate.

Quella manciata d'anni tra Ottanta e Novanta, per esempio, mentre veniva giù la cortina di ferro e Andreotti regnava, assai meno popolare allora di quanto non sia diventato dopo tangentopoli e un paio di processi per mafia. Vi ricordate? No, non vi ricordate, è un'epoca sbiadita, se cercate un volto o un ritornello non vi viene in mente niente. A furia di rievocare il Boom, il Sessantotto, gli anni di piombo, i favolosi Ottanta, abbiamo cancellato dalla memoria cache il passato più recente. Poco male, sarà divertente re-installarlo tra qualche anno, e giocarci.

Tutti i ricordi che ho di quegli anni sono per sottrazione – per esempio, ricordo che Internet non c'era, eppure si viveva; i cellulari ispiravano un misto d'invidia e disapprovazione, e Andreotti li fece tassare; in tv non c'erano tutti quei talk show politici di adesso, eppure non ci sentivamo affatto disinformati: forse compravamo qualche giornale in più.
Ecco, questo me lo ricordo bene: nelle edicole c'erano ottimi quotidiani. Per esempio, c'era il Riformista di Polito, che poi non so che fine abbia fatto. Una pietra miliare.

Oggi forse è difficile rendersene conto, ma in tempi in cui la dialettica della sinistra consisteva in eterne schermaglie tra PCI e PSI, il "Riformista" ebbe il merito di proporre una terza via, qualcosa di veramente innovativo. In tempi in cui tutti, a destra e sinistra, facevano blanda professione di fede europeista, "il Riformista" fu il primo a criticare seriamente le politiche protezionistiche della Comunità Europea, specie in materia agricola. Peccato non aver conservato certi editoriali, scommetto che ci troverei in seme tutta l'ideologia noglobbal d'oggigiorno… E poi, la scelta tutt'altro scontata di puntare il futuro della sinistra su un giovane politico di buone speranze, D'Alema… Insomma, per certe cose, quel piccolo quotidiano di opinione era davvero dieci anni avanti.

Ma non era solo una questione di politica. "Il Riformista" è stato il primo quotidiano ad accorgersi della svolta generazionale di quegli anni. Fu il primo a far caso a un mondo giovanile che esplodeva: il mondo delle autogestioni, delle prime braghe grigioverdi, dei 99 Posse, (anche di Jovannotti, ahimè). Insomma, fu il primo quotidiano a prendere atto che i figli dei sessantottini stavano prendendo la patente.
Tutto questo dieci anni fa, più o meno. Poi ci sono state le imitazioni, e le imitazioni delle imitazioni, e dell'originale si sono perse le tracce.

Eppure a me capita sempre più spesso, in questi giorni di dibattito politico rovente, di pensare: chissà cosa ne penserebbe, oggi, "il Riformista". Sarebbe noglobbal o siglobbal? Darebbe addosso ai giudici o ai loro corruttori? Continuerebbe a sostenere il vecchio timoniere o lo affonderebbe senza pietà? Sono domande senza senso, lo so. Nessuna verità è valida in assoluto: l'importante è trovarsi nel momento giusto con le idee giuste. In quella manciata di anni tra Ottanta e Novanta, il Riformista aveva forse le idee migliori in circolazione. Probabilmente quelle stesse idee, su un quotidiano di oggi, le troveremmo patetiche. Ma è il destino del giornalismo, anche di quello buono, non durare che l'éspace d'un matin, lo spazio di un mattino.

Intanto il disco è finito. Are you experienced?, Jimi Hendrix, 1967. L'ho messo su perché oggi Hendrix avrebbe compiuto sessant'anni. Mio padre li ha compiuti in giugno. È buffo pensarci.
Mio padre nel '68 stava mettendo su un'autofficina. Non mi pare che nutra molta nostalgia per quegli anni. Per lui i Beatles furono una meteora: fecero il botto nel '65 e quattro anni dopo si erano già sciolti. Non fece neanche in tempo ad affezionarsi. È strano pensare che i 99 Posse sono durati molto di più. È strana tutta questa storia della nostalgia, dei ricordi finti che sono più struggenti di quelli veri, del passato che possiamo modellare a nostro piacimento, tanto ci sfugge lo stesso. È strano, è curioso. Ma è anche tardi, adesso.

Non perdetevi domani mattina (sì, giovedì 28 novembre 2002) questo pezzo del Riformista:

Tra corsi di cucito e dibattiti sulla guerra nei licei va in scena l’autogestione
Amano il vestiario militare, leggono la biografia del Che, ascoltano Jovanotti e i 99 Posse: ecco i figli dei sessantottini, la nuova generazione di studenti italiani.
Viaggio nel mondo della scuola che si appresta ad essere okkupata.
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Il futuro è nel frigo

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[Tra un mese questo blog compie 10 anni, e li festeggia ripubblicando 10 pezzi del suo polveroso archivio. Questo è del febbraio 2001, e trae ispirazione da un tormentone di quegli anni: ogni volta che da qualche parte c'era una fiera dell'elettronica, SMAU e consimili, i giornalisti si precipitavano a scrivere l'imminente arrivo di un frigorifero che si sarebbe fatto la spesa da solo. 10 anni più tardi quel frigo lo devo ancora vedere, e sì che ne avrò cambiati tre. In compenso adesso ho l'ascensore. Ma non lo uso quasi mai].

Il futuro è fattorino

Di questi tempi, quando ho il frigo vuoto, difficilmente trovo il tempo per andarlo a riempire. Non penso che in futuro le cose andranno meglio, per quanto riguarda il tempo; in compenso credo che sarà la tecnologia ad aiutarmi.

Infatti tra un paio d’anni, recessione permettendo, stimo di poter iniziare a fare la spesa on line. Andrò sul sito della coop (o della conad, a seconda dei prezzi, della grafica, delle politiche ambientali) e selezionerò i prodotti, invierò una mail, e un fattorino verrà a recapitarmi le sporte a casa (non sarà più umiliante abitare al terzo piano senza ascensore). Avrò così più tempo da dedicare al mio lavoro.

Rimarrà la fatica di controllare cosa manca nel frigo.

Ma tra cinque-sei anni, penso che anche questa fatica mi sarà evitata da un frigorifero intelligente che mi avverta da solo sulle scadenze delle merci, sulle carenze (se manca il latte), sulle eccedenze (troppi pomodori, poi vanno a male), sui gusti dei famigliari (le sottilette non vanno mai via), ecc.. Il frigorifero mi manderà una mail e io farò l’ordine ai fattorini. Avrò così più tempo da dedicare al mio lavoro.

Infine, tra meno di dieci anni, se non si sovrappongono crisi, calamità, pestilenze, se insomma la civiltà occidentale resiste, la tecnologia mi doterà di un frigorifero non solo intelligente, ma anche affidabile, il quale manderà direttamente le mail ai fattorini, senza chiedermi il permesso. Al massimo sarò io a chiedergli di tanto in tanto più o meno gelati, a seconda di come me la passo. Ma col tempo il frigorifero imparerà a conoscere i miei cicli e stati d’animo, non dovrò più dirgli nulla, arriverò a casa la sera con la cena già bella e recapitata dai fattorini, e avrò più tempo da dedicare al mio lavoro.

Il quale lavoro consisterà, se le mie previsioni non sono errate, nel fare il fattorino, sgobbando dodici ore al giorno per strada e su per le scale, a portare la spesa a un sacco di persone come me che non hanno il tempo di farla, perché anche loro fanno i fattorini.
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L'innocente era lui

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(Cinque anni fa esisteva una bella rivista on line che si chiamava Sacripante!. Io avevo una rubrica in cui rispondevo a lettere immaginarie. I pezzi che ho scritto per Sacripante ogni tanto li ritrovo qua e là per la rete: non portano il mio nome, né il mio link, sono in assoluto i figli più orfani che ho.
Di questo in particolare provo molto pudore, e ogni volta che qualcuno lo ritirava fuori andavo a nascondermi dalla vergogna. Però è vero che l'ho scritto io, e dopo cinque anni è ora di riconoscerlo: brutto o bello che sia, viene da qui).


(2005). È vecchio, stanco e scazzato, con quel vago senso di vergogna che l'assale tutti gli anni verso la festa dei morti.
Perché? Non sa esattamente il perché. Saranno i tanti amici sepolti là fuori, che reclamano un saluto, una preghiera, un mazzetto di fiori. Ma Dio, che sciocchezze. Che banalità neo-pagano-vetero-borghesi. Dovrebbe fregarsene di queste cose. Dovrebbe.
Ma la mamma. Il solo pensiero.
Avrebbe dovuto farla cremare. Non ha avuto il coraggio. Così adesso è lì, e il solo pensiero di non andarla a trovare, gli ficca ogni due novembre un artiglio nel cuore.
"Ci vado. Ci vado. Ma oggi no, troppa confusione. E poi si è fatto tardi, che ora è?"
Sono le tre e lui è ancora in vestaglia. Un vecchio in pantofole e vestaglia, ecco quel che è. Lui un tempo così pieno di energia, di voglia di fare: ora gli ci vuole mezza giornata solo per mettersi a tavolino.
Il computer è il vecchio pentium che gli ha lasciato il povero Raffaele – fu lui a insistere che bisognava aggiornarsi, a buttargli via a tradimento la vecchia Lettera 22.
"Stai diventando un feticista della macchina da scrivere, Paolino, te ne rendi conto? Un vecchio rudere che scrive madrigali sui bei tempi andati. Svegliati! Tra un po' è il Duemila!"
"Mi fa schifo il Duemila, Raffaele".
"Ti fa schifo il Duemila, ti faceva schifo il Novanta, l'Ottanta, già il Settanta ti faceva piuttosto schifo. Dov'è la novità? La novità è che ormai il Duemila se ne frega, di quello che pensi tu. Se non impari ad accendere il computer, manco se ne accorgerà, il Duemila. E sai cosa vuol dire se nessuno se ne accorgerà?"
"Cosa vuol dire?"
"Vuol dire che sei morto! Quando nessuno ti leggerà più, quando nessuno ti capirà più, sarai morto, Paolino! Prima ancora di andare sottoterra! Perciò devi imparare a spedire le mail, capito? Le mail ai giornali! Così magari riescono a pubblicarti un pezzo in giornata".
"Ma per favore…"
"E aprire un sito, perché no? Un sito Internet in cui dialoghi coi tuoi ammiratori, e…"
"No. Col porno ho chiuso, e lo sai".
"Ma cos'hai capito. Non c'è solo il porno su Internet…"
Buon vecchio Raffaele. Anche lui era morto, qualche anno prima, di una morte ideale: un arresto cardiaco, istantaneo, indolore per lui e per chi gli stava accanto. Solo, si era dimenticato di lasciar scritto che lo cremassero. Così ora si trattava di scegliere se farsi tumulare accanto all'amata madre o al compagno di vita. Un altro pensiero fastidioso, un'altra spina. Benché certo, Raffaele non si sarebbe offeso – non si offendeva mai.
Si erano incontrati tardi, nel modo più improbabile. Com'era potuto accadere, a un pederasta incallito come lui, sempre a caccia di ragazzini, di innamorarsi di un borghese, un funzionario Rai con moglie e figli? Raffaele non divorziò finché la cosa non divenne davvero di dominio pubblico, e ci volle ancora molto tempo.
Nel frattempo lo aveva aiutato a rimettersi in piedi – lui veniva da anni complicati, processi per oltraggio al pudore e debiti con gli avvocati; film sequestrati dalla magistratura, e persino dalla malavita – per giunta era una fase di crisi creativa, in cui gli sembrava di non aver fatto nulla di buono, anzi: suo malgrado aveva creato un mostro, il filone erotico-medievale; e ora le sale di periferia pullulavano di pellicole pecorecce a base di dame e castelli, ed era una vera tortura portarci i ragazzini…
"Forte questo, aho! L'ha fatto lei?"
"Ma per favore…"
Gli sembrava di non aver mai capito nulla – per anni si era creato un mondo immaginario, perfetto, ingenuo, ignorante, popolato da ragazzini altrettanto perfetti, ingenui e ignoranti: tutta spazzatura da cinema di serie B, fantasie da vecchio pervertito: ora gli era tutto chiaro. Avrebbe voluto spazzare via tutto, distruggere sé e la sua opera, con un film davvero criminale, una fantasia sadomaso. E poi stava scrivendo un libro impubblicabile, un diario di tutte le perversioni sue e del suo tempo. In realtà stava scendendo una china pericolosa, chissà che fine avrebbe fatto, se una sera in trattoria non si fosse fermato a parlare con quell'uomo simpatico e brillante – Raffaele.
Raffaele che voleva fargli scrivere sceneggiati televisivi; in un qualche modo si era messo in testa che lui potesse scrivere dialoghi per la Rai TV.
È il futuro, diceva (proprio come avrebbe detto poi del Videoregistratore, del Fax, e infine di Internet). È il futuro che ti sfida, e tu non puoi rinunciare. Lasciati alle spalle tutte quelle menate sulla civiltà contadina. Lascia perdere tutti i tuoi teoremi politici, quelle orazioni da signor "So tutto io"… che poi cos'è che sai, realmente? Un cazzo, sai. E anche il sesso – lascia perdere anche il sesso per un po': è ancora troppo presto, ma vedrai. Io sogno una tv libera e intelligente. Fatta dai grandi autori come te – io so che tu sei un grande autore, se solo la smettessi di girare porcate per il puro gusto di fartele sequestrare, se solo superassi quella fase infantile del comunismo, quella fase, lasciamelo dire, anale…
Ora, mentre aspetta di caricare il file a cui sta lavorando, si chiede seriamente se Raffaele non avesse alla fine torto.
E se non abbia avuto torto lui a dargli retta. Aveva superato la fase anale: distrutto l'ultimo film maledetto, bruciato il romanzo-fiume. E si era messo a macinare dialoghi di qualità per l'industria culturale. Come l'ultimo corsaro della Regina, che si fa nominare baronetto e aspetta la marea giusta per tornare in mare aperto e innalzare la bandiera nera, come tanti altri in quel periodo – ma alla fine la marea non era tornata mai. Erano invece arrivati gli anni Ottanta, e lui si era trovato a bazzicare quel sottomondo di nani e ballerine. Aveva scoperto Eros Ramazzotti, si era fatto riscoprire da Bettino Craxi. Ogni tanto lo intervistavano, specie in autunno quando gli studenti occupavano le scuole; e l'intervistatore cercava sempre di fargli dire qualcosa di cattivo sugli studenti.
"Ecco, lo vedi, Raffaele? Sono diventato una maschera nel teatrino, sei contento?" E Raffaele, tranquillo: "Sta a te trasformare il teatrino in un teatro serio". "No, Raffaele, no. Il teatrino è più forte di me. Mi ha mangiato, digerito e cacato, come tanti altri". E lui scuoteva la testa e sorrideva. Sempre scuoteva la testa e sorrideva, ed era impossibile non amarlo. Per lui non c'erano sconfitte, solo sfide.
Ma ora che se ne andato, è difficile scambiare per sfide così tante sconfitte. Il file si è aperto, finalmente, cos'è che stava scrivendo? Un pezzo sulla cocaina, ancora. La cocaina? Ma è roba che andava quindici giorni fa! È da quindici giorni che ci lavora? E quale giornale gliela vorrà mai pubblicare?
Spegne tutto, si sente stanco. Stanco e scazzato. Non dovrebbe farlo, ma prende in mano il telecomando. La vita va avanti, più stupida che mai, e sapere che può andare avanti senza di lui è quasi consolante. Sul primo c'è una Medea moderna, che uccide il figlio e si getta in pasto agli avvocati. Sul due c'è un reality show per celebrità, lo conosce perché glielo avevano proposto. ("Ma guardate che ho 83 anni!" "Beh, al massimo esce subito, ma vedrà, in fondo lei è un personaggio, Tarantino le ha appena dedicato un documentario, i suoi vecchi film in dvd stanno andando forte, e poi l'omosessuale anziano funziona, e lei potrebbe approfittarne per parlare al grande pubblico delle sue idee. Purché non bestemmi…"). Sul tre cercano le zingare che rapiscono i bambini. Sul quattro e cinque e sei l'immaginario americano, eccola qua – l'immaginazione al potere. Sul sette c'è un grassone che pontifica di guerra al Terrore, e ogni volta che lui lo vede ha un sogghigno – guardalo lì, uno di quei coglioncelli di Valle Giulia. Restano i canali di video musicali. Li guardava a volte, di sera, assieme a Raffaele – gli piacciono i gruppi giovani, i ragazzini sono sexy. Non sono innocenti, non sono ingenui, a vent'anni sono già perfetti stronzi che sanno quanto possono spremere dalla vita, e gli va bene così. E anche a lui va bene così. Ha passato la vita a rimpiangere un mondo innocente, e troppo tardi si è reso conto che l'innocente era lui.

2/11/2005 Caro Leonardo
A volte non riesco a non chiedermi: e se? Lo so che è stupido, ma non ci posso fare niente. Per esempio in questi giorni mi chiedo: e se Pasolini non fosse andato all'Idroscalo, trent'anni fa, cosa farebbe adesso? Come sarebbe? Tu che ne pensi? Perdonami. IF '75.

È vecchio, stanco e scazzato, con quel vago senso di vergogna che l'assale, tutti gli anni, verso il giorno dei morti.
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Il sexgate di San Martino

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Sarà che anche il cielo è tornato pulito, ma questo rigurgito di sexgate mi ricorda i bei giorni di primavera in cui si scherzava su Noemi e il misterioso tassista di lei padre. Com'eravamo giovani, e ingenui, pensavamo che su argomenti del genere B. potesse perdere le elezioni... beh, a dire il vero qualche punto in percentuale lo ha pure perso, tempo al tempo... mi piacerebbe scherzarci su con l'energia di un tempo, ma la verità è che non è aprile, è Novembre, ho un sacco di roba da fare e vi mando in onda le repliche. Questo pezzo è del 29 aprile '09. Spero sia ancora divertente.

Ma Berlusconi, chi lo scuote più?
Una scossa magnitudo 7 gli fa il solletico: va persino a farsi fotografare tra le macerie; regala la dentiera alla vecchietta, e tutti gli vogliono più bene che prima.
Contro il nuovo blocco al potere, nemmeno l'emergenza rifiuti può nulla. Ve la ricordate? Sembrava che dovesse inghiottirsi Napoli. Ma è bastato spiegare ai leghisti del nord e ai masanielli del sud che gli inceneritori andavano rimessi a regime, e voilà.

No, non sarà un terremoto, né lo smaltimento di rifiuti. In questo momento l'unico punto debole del Pdl, il tallone vulnerabile che potrebbe costargli qualche punticino alle Europee, è

lo smaltimento della gnocca.

Perdonate il sessismo – anzi, no, perché mai dovreste perdonarlo? Accusatelo, fatelo risuonare nei lobi frontali come gesso spezzato alla lavagna, saggiatene la volgarità ottusa alle ironie. La gnocca è un annoso problema di questa maggioranza, di questo premier. Ne consumano troppa, non sanno più dove smaltirla. La spatolano sui palinsesti tv fino all'esaurimento, e ancora ne avanza. Ne hanno stoccata un po' a Monte Citorio, ma adesso per cinque anni il sito è pieno e non possono riaprirlo – e quindi? Si sente parlare di un convoglio che dovrebbe partire, un treno per Bruxelles. Ma non sarà facile spiegare agli europei che il loro parlamento è stato individuato come sede di stoccaggio.

Il principale responsabile, una volta tanto, è lui. Berlusconi adora la gnocca, è cosa nota: ma la passione che fino a qualche anno fa poteva ancora avere un significato virile, a settant'anni suonati ha assunto aspetti parossistici, inquietanti. Un uomo che da molti anni dovrebbe aver soddisfatto qualsiasi desiderio, realizzato qualsiasi fantasia, si circonda di gnocca, ci si avvolge, se ne fa schiacciare. Non è più *sesso* nel senso che diamo alla parola noi monogami malsicuri. Berlusconi sembra aver trasceso da un pezzo il regno animale, per approdare a una dimensione vegetale in cui la gnocca gioca il ruolo di fertilizzante: si sparge tutt'intorno, e la pianta riprende vigore. Tutto bene, anzi no, perché il fertilizzante esaurisce in fretta le sue proprietà, e va sostituito costantemente. In mancanza di dati certi, è ragionevole supporre che la stessa portatrice di gnocca non possa essere riutilizzata che tre, quattro volte: dopo basta, fine, non serve più, andrebbe sbattuta via. Ma lo smaltimento comporta grossi rischi.

Non importa che sia ancora giovane, bella e ambiziosa. Importa molto di più che sia in grado di parlare, di comporre un banale numero di telefono e contattare questo o quel giornalista incauto. Tra qualche anno forse il problema non si porrà più, i giornalisti saranno tutti sul libro paga giusto e capiranno che non è cosa: ma fino a quel momento la possibilità di alienarsi qualche voto (e la simpatia dei preti) è concreta, più concreta delle polemiche sulla Costituzione. Da qui la necessità di uno smaltimento compatibile con le esigenze e le aspirazioni delle signorine. Per esempio, hai sempre sognato di fare l'attrice, la presentatrice, la soubrette? E come si fa a negare una carriera tv a chi è stata adoperata per fertilizzare Berlusconi (o per comprare uno dei suoi collaboratori, succede pure questo)? Lo scambio di favori tuttavia è estremamente sproporzionato. Se devi assicurare dieci o più anni di carriera a tutte le signorine che hanno passato un week end col capo, o coi suoi alleati più influenti... ti rendi conto rapidamente che sei, sette frequenze nazionali non ti bastano. E si arriva a programmi-monstrum, come Bellissima.

Bellissima era un programma del Bagaglino senza i due comici del Bagaglino, ma con... quattro quintali di gnocca in più. Cioè, muore il grande Oreste Lionello? Compensiamo con la gnocca. Il grande Gullotta dà forfait? E noi ci sbattiamo dentro altra gnocca, non importa se over 40 e un po' fanée. Si capisce che tutta questa gnocca crea problemi strutturali, ovvero: prima tra un balletto e l'altro ci stavano le scenette, ma adesso? Adesso ci mettiamo la lapdance, in prima serata, per la gioia di vecchi e bambini. Il tutto nella settimana del terremoto, perché ci sono priorità che vengono sopra ogni considerazione di audience, e una di queste è l'allocazione di gnocca in surplus. Poi hai voglia a dire che è stato un flop – non credo che si aspettassero un successo di critica e pubblico. Hanno tagliato una puntata su quattro, ok, ma intanto per tre serate abbiamo potuto rifarci gli occhi con, con, con... Pamela Prati. Dico, voi ce l'avete presente Pamela Prati? Piantatela di dire che Berlusconi è immortale, concentratevi su Pamela Prati. In una soffitta di casa sua deve custodire il ritratto di un cadavere purulento. Io non mi ricordo di averla mai vista giovane, era una milf quando frequentavo le elementari, e adesso guardala, dà punti alla Novic. Se davvero non vogliamo più programmi come Bellissima la dobbiamo abbattere, non c'è altra soluzione.

No, una soluzione ci sarebbe: riconvertirla in parlamentare. Un vero uovo di Colombo, anche perché di solito le onorevoli portatrici di gnocca sono docili e non creano problemi. Certo, qualche caso imbarazzante c'è stato e tuttora c'è (ex presentatrici che vogliono chiudere internet, ecc.), ma di solito attirano l'attenzione di un pubblico di nicchia e non provocano nessuna crisi di governo; nel contempo, accrescono l'immagine di Berlusconi-galletto nel pollaio, che piace ai giovani. In questi casi, più che di smaltimento della gnocca, si potrebbe anche parlare di riciclaggio: le scorie della gnocca vengono riconvertite in consenso politico. A Bruxelles questo potrebbero anche capirlo, e provare a venirci incontro. In fondo Berlusconi sta facendo quel che può in direzione di un consumo della gnocca eco-sostenibile...

...ma non ci cascheranno. Nessun tipo di riciclaggio politico, cinematografico o televisivo, può davvero reggere i ritmi attuali di consumo. Pensate a quella ragazza che ha appena avuto Berl. al suo 18mo compleanno. Non so cosa B. abbia fatto o intenda fare con lei o la di lei mamma, e nemmeno m'interessa, ma facciamo due conti: questa vorrà essere sistemata prima o poi, e comprensibilmente. È convinta di essere brava ("perché io so fare tutto"), una nuova Cuccarini, e chi si prenderà la briga di dirle di no? Va messa a contratto. A Cologno, a Saxa Rubra, Monte Citorio, Strasburgo, vedete un po' voi, dipenderà anche dalle inclinazioni. Ma non hai fatto in tempo a sistemarne una così che tutt'intorno te ne sono spuntate altre cinque, è una gara persa in partenza.

E allora? Che fare? Si potrebbe semplicemente attendere che Berlusconi ci resti – in fondo non c'è fine migliore da augurare a un nemico. Ma l'impressione è che la gnocca, lungi da indebolirlo, lo tenga in vita. È il bromuro che lo schianterebbe. Il che vuole anche dire che l'uomo che ha comprato l'Italia, in fin dei conti non sa che farsene. Non è mai veramente riuscito a sublimare in brama di potere le sue banalissime pulsioni carnali. Qualcuno ha detto che comandare è meglio di fottere, ma non pensava a lui.

L'unica soluzione in vista è l'irrigidimento. Quel che rende instabile il sistema non è l'insaziabilità di B., ma i margini di libertà e di espressione che ancora vengono concessi ai cittadini, comprese le portatrici di gnocca. Bisognerà concentrare un po' di più l'editoria, ed educare le giovani generazioni a darla a B. per il gusto di farlo, senza pretendere contropartite televisive o parlamentari. Tempo al tempo, e intorno al Palazzo fioriranno leggende: il mostro che vi abitava pretendeva due vergini ogni primo giorno del mese.
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Avanzi di avanzi di Ersatz

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(Loro ogni tre anni rifanno le stesse polemiche, io ripubblico la stessa roba. Non mi posso mica scomodare più di così, scusate).

Invece quel che penso dei nuovi articoli del Foglio sui blog è… ma no, ma che due palle, scusate. Ma siam nel 2007, e ancora esiste il Foglio? Sul serio? Ma perché?

Chiudete il Foglio (e aprite le finestre)

Lo so anch’io che esiste, perché ne ho visto una copia. Un mese fa, in biblioteca. Sono sicuro che è stato un mese fa, perché il prestito mi è appena scaduto. E dunque un mese fa sull’espositore ho visto la prima pagina del Foglio, molto elegante come al solito. Sei colonne sull’omicidio di Garlasco. Il quotidiano intelligente. Cioè, pensa se era un cretino.

Ma non lo voglio neanche criticare, il Foglio, perché si criticano le cose che si conoscono e io da un pezzo non lo prendo neanche in mano. Mi pongo semplicemente la domanda: perché esiste, il Foglio? Serve ancora a qualcosa? A qualcuno? Me lo chiedo tutti gli anni, e tutti gli anni la risposta è più difficile.

Se poi qualcuno ha delle critiche da farmi in quanto rappresentante della categoria dei blog, io son qui, son pronto. Ma date soltanto un’occhiatina al piedistallo da cui le fate, vi conviene. Mi accusate di non fare giornalismo? In effetti non ne faccio. Non fornisco informazioni di prima mano, mai. Non ho neanche mai preteso di farlo. Ma voi che scrivete sul… Foglio?
Mi accusate di essere autoreferenziale? Beh, certe volte sarò pure autoreferenziale. Ma dovete proprio scrivermelo dalle colonne del… Foglio?
Mi accusate di essere inutile? Va bene, ma spiegatemi una buona volta in cosa consiste l’utilità vostra. A parte naturalmente il gusto di spremere soldi di finanziamento pubblico, con un patetico espediente, per stampare tutti giorni un sacco di carta che resta per lo più invenduta. Ma è un giornale per la classe dirigente, dicono. Ma per favore. Ce li voglio vedere, i padroncini, a decifrare Ferrara col DeMauroParavia a mano. La classe dirigente legge Libero, è questa l’amara verità. Poi ci sarà qualcuno che sfoglia il Financial Times per darsi un tono. Il Foglio è rimasto in mezzo, tragicamente fuori target.

La verità è che Il Foglio dovrebbe parlare soltanto bene dei blog. Ogni volta che un blog italiano fa un colpaccio, la redazione del Foglio dovrebbe titolare a quattro colonne: “noi lo sapevamo. Noi eravamo un blog quando ancora internet non c’era”. Perché è così. Quando io venivo in biblioteca, nel secolo scorso, a scaricare la posta da un 46k, il Foglio era già al suo posto nel raccoglitore di quotidiani, ed era già cazzeggio autoreferenziale. I tormentoni, i libri e i cantautori preferiti, i flame, era già tutto pronto. Mancava il supporto elettronico, ma i contenuti c’erano al 100%.
Non che io lo toccassi volentieri, ma in seguito l'ho letto molto, di seconda mano, proprio a causa dei blog. Un sacco di blog sbrodolavano adorazione per il Foglio, citando interi articoli. Se l’elefante aveva azzeccato un editoriale, sicuro che me lo copincollavano almeno un par di volte.

Adesso invece di Ferrara nessuno parla più, se non per spernacchiarlo, tanto che alla fine quatto quatto s’è fatto un blog pure lui, e che dire? Bravo Ferrara! E di che parla? Non è mica autoreferenziale, lui, macchè. Lui fa una polemica con Giampiero Mughini sul sesso. È chiaro? Vale la pena di ripetere? Una polemica, nel 2007, con Mughini, nel 2007, sul sesso.

Poi uno si lamenta perché Grillo usa male il blog? Ferrara lo usa per polemizzare con Mughini! Se Grillo attacca i buoi all'automobile, Ferrara ci attacca un'incudine da una tonnellata e poi parte in discesa. Ma scusa, se vuoi dire una cosa a Giampiero, invitalo nel tuo salotto tv! Oppure invitati tu a Controcampo, che bisogno c'è di annoiare i lettori con un lenzuolo sul... sesso? Perché tu saresti un'autorità sul sesso? Da quando? E in che modo è potuto succedere?

Scrivi che in occidente è diventato ridicolo. Proprio così. “Oggi il sesso non è libero, è soltanto ridicolo”. Parola di Ferrara. Ma quanto ne fai per dirlo? Ma sei sicuro che il sesso che fai tu sia rappresentativo della media occidentale? Perché a me qualche dubbio a volta viene, e sono un trentenne normodotato. Tu invece sei un vecchio obeso: non hai proprio nessunissimo altro argomento su cui pontificare? Se ho voglia di farmi un’idea sul sesso occidentale vado da pornoromantica. Da Melissa P. Vado in chat. C’è un migliaio di posti dove potrei andare, e in nessuno di questi posti mi piacerebbe trovarci tu o Mughini che vi scambiate dei pareri nel vostro lessico maldestro. Perché oltre a non essere due amatori rappresentativi (e non c'è nulla di male), restate anche due mediocri prosatori che continuano a sparare bordate di lessico stravagante nella speranza che qualcuno non se ne accorga e non si annoi. Io di solito manco vi seguo: scrollo col mouse e mi fermo quando vedo accrocchi di lettere strane. Molto spesso è tedesco, lingua che so poco – e voi meno di me.
Da noi si parlicchia, si freudeggia, si danza intorno a un sostituto, a un Ersatz

Sul serio, non vorrei essere nel lettore della classe dirigente che si mette a cercare Ersatz su google. Credo che ci metta meno tempo a prenotare un’escort, con la quale poi parlicchierà e freudeggierà a piacimento. Ma mangiatela, l’Ersatz, e se non va giù, condiscila con la mia Weltanschauung, toh, valà che ti piace.

Oscenità a parte: se anche Ferrara può avere un blog, cosa aspettano i pecoroni al seguito? Ci vuole così tanto coraggio a chiudere la baracca e ad aprirsi, finalmente, un bel multiblog, parolaio e autoreferenziale? Ci avete pensato a quanti soldi (nostri) e quanta carta risparmiata? E magari verrei a vederlo, sul serio, ci verrei! Mentre adesso il vostro lenzuolo in pdf non lo apro neanche per sbaglio, il pdf è una cosa che mi fa senso, puzza di concorsoni ministeriali e pecette della CIA, pussa via! Ma come si fa a mettere on line un pdf, nel 2007? Scusate l’insistenza sul calendario, eh, ma in dieci anni io ho cambiato almeno tre sistemi operativi, e sono uno tirchio. Voi invece siete ancora al pdf, è una cosa che dà da pensare.

Poi magari siete gli stessi che “dopo l’11 settembre nulla sarà come prima”: eh, magari. Voi, per esempio, anche dopo l’11/9/2001, siete rimasti al 1996. E si vede, si vede sempre più. Dieci anni fanno una certa foschia - state per scomparire dietro l'orizzonte. Vi volete dare una mossa? Qua da noi c’è tutta la fuffa che vi serve, tutta l’acrimonia che vi manca, tutto lo spirito che avete smarrito da un pezzo. Aver perso un tram è un peccato, ma non può diventare una vocazione. Potete prendere sempre quello successivo, ne passano continuamente. Insomma, in strada, su. Seguite Ferrara, seguite Camillo, seguite chiunque, vi aspettiamo.
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Un uomo chiamato Dimettiti

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(La domanda della settimana ovviamente è: ma può veramente un Ministro, seppure tra i più dimissionati della Storia della Repubblica, pensare che quell'appartamento lì costasse seicentomila euro? La domanda sarebbe retorica, se il Ministro non fosse Scajola.

Quando si parla di Scajola, e quindi di dimissioni-di-Scajola, la redazione di questo decrepito blog prova sempre un fremito di nostalgia per i vecchi tempi barricaderi, in cui a chiedere le dimissioni senza se e senza ma erano solo i brigatisti-noglobbal. Per questo motivo abbiamo pensato di festeggiare le ennesime dimissioni con un pezzo d'epoca: luglio 2002! Sì, esistevano già blog in Italia, e scrivevano pezzi sulle dimissioni di Scajola. Sembra impossibile, eppure).





Drin!
"Pronto"
"Presidente, sono Claudio".
"Claudio quale, il custode della villa?"
"No, il Ministro degli Interni".
"Ah, sì… Claudio! Che piacere, come va?"
"Insomma. Io chiamavo per via di quelle dimissioni".
"Ah, già, le dimissioni. Beh, Claudio, non se ne parla nemmeno".
"Ecco, appunto. Credo sia superfluo dirle quanta stima e quanta ammirazione io nutri per lei…"
"Non è mai superfluo, Claudio".
"…il giorno in cui io seppi che mi nominava Ministro degli Interni, non lo nascondo, ero francamente sorpreso…"
"Stupirvi è il mio mestiere, Claudio!"
"…perché fino a quel momento io di Interni non ne sapevo nulla".
"Via, Claudio, adesso sei ingiusto con te stesso".
"…però mi sono detto: il Presidente sa quello che fa, e se mi nomina Ministro, vuol dire che io ne sono capace".
"Bravo Claudio, questa è la giusta attitudine".
"…Ma i risultati, Presidente, sono stati disastrosi!".
"Ma no, che cosa dici".
"Presidente! In quest'anno di ministero io ho abusato della sua fiducia in tutti i modi! L'ho esposta al ridicolo nazionale e internazionale!"
"Ecco, Claudio, qualche errorino l'hai fatto, non lo nego… per esempio, a Genova, gli arazzi alle pareti non erano un granché…"
"A Genova ho lasciato che Fini prendesse il controllo della piazza! I poliziotti usavano armi proibite dalle convenzioni internazionali e nascondevano molotov nei dormitori, e io stavo a Roma a giocare a solitario col computer!"
"E i tappetini della passerella, soprattutto… si vedeva subito che non erano nuovi".
"E poi mi sono intrappolato da solo, con le mie dichiarazioni da deficiente! Siccome i carabinieri sparavano, io mi sono inventato di avergli dato l'ordine di sparare, e perfino i Comandanti mi hanno sputtanato! Che fosse chiaro che i carabinieri sparano quando gli pare e non glielo può ordinare nessuno!"
"Sì, quei tappetini mi hanno fatto sudar freddo. Ma da quale congresso li avevi riciclati? Ti sembrava il caso di lesinare, con Bush Putin e Chirac in giro?".
"Certo, tutto questo è successo un anno fa… ero nuovo del giro… si poteva dar la colpa al governo precedente…"
"Ed è quello che ho fatto, Claudio. Del resto non ho mai dubitato delle tue capacità".
"Lei è troppo buono con me, Presidente! Troppo! Ma è ormai evidente come io sia il più indegno dei suoi Ministri, e sì che è una bella gara!"
"Beh, se proprio insisti, Claudio, qualche rilievo da farti ce l'ho".

"Basti il modo in cui ho gestito il caso Biagi, dico, perfino il suo stalliere si sarebbe comportato in maniera più elegante di me!"
"Lasciamo stare gli stallieri, Claudio…"
"Certo, in fondo ho fatto quello che avrebbe fatto chiunque! Quel signore viene, sostiene di essere un consulente importante, capirai! E pretende che gli lasci la scorta. Ma se l'ho tagliata a tutti! Me l'aveva chiesto Tremonti…"
"Sì, Tremonti, d'accordo, ma bisogna stare attenti a non esagerare".
"Ho cercato di spiegarglielo, ma lui insisteva… diceva che Cofferati lo minacciava. Ora, è facile adesso prendersela con me, ma sfido chiunque al mio posto a comportarsi diversamente: arriva un professor nessuno, dice: salve, sono un consulente importante, e Cofferati minaccia di uccidermi! Come si fa a dargli retta? Era come se avesse scritto 'Mitomane' sulla fronte".
"Per esempio, tu sai quanto io apprezzi la cura degli dettagli…"
"I dettagli, già, Presidente… Avrei dovuto pensarci. Ricordarmi di D'Antona. Fare due più due. E invece niente. I brigatisti avrebbero potuto ucciderlo in qualsiasi momento, ma hanno aspettato che la questura di Bologna gli togliesse la scorta. Avrei dovuto pensarci".
"Ma ci sono accostamenti che proprio non riesco a mandar giù"
"Neanch'io, Presidente. Non riuscivo ad ammettere che qualcuno potesse tramare alle mie spalle. Io mi fidavo, e loro mi prendevano in giro. Mi hanno fatto dichiarare che era la stessa pistola di D'Antona, e non era vero. Un'altra figura di merda".

"Per esempio, al Viminale mi è capitato di vedere una cassapanca rococò di fianco a una scrivania Luigi XIII. Beh, non mi sembra proprio il caso".
"Poi, naturalmente, Biagi è stato fatto santo. Improvvisamente si è scoperto che il Libro Bianco l'aveva scritto tutto lui. Che era il martire delle riforme. E tutti a cospargersi il capo di cenere. Un'ipocrisia rivoltante".
"Quante volte te l'avrò detto, Claudio? Al Viminale il rococò non si addice. È roba da Farnesina. Un giorno o l'altro ti mando un camioncino per la consegna. Però a queste cose dovresti pensarci tu…".
"Nessuno che si sentisse di dire la sacrosanta verità: che Biagi non aveva più bisogno di scorta perché gli stavamo dando il benservito, che Maroni non gli avrebbe rinnovato il contratto! Certo, col senno del poi era un eroe delle riforme, ma da vivo Biagi mi era sembrato nient'altro che un precario, con le classiche paranoie del caso".
"E ti dirò, anche il mobilio di palazzo Chigi lascia un po' a desiderare":
"Io ho resistito, Presidente, non sa quante volte ho rischiato di scoppiare, ma ho sempre resistito. Poi, l'altro giorno, a Cipro… non so che mi è preso".
"Tutti questi cassettoni stile Impero, te l'ho già detto di buttarle via, ma quand'è che vieni a fare un sopralluogo? Certe volte mi chiedo cosa fai tutto il santo giorno. Per esempio, a Cipro che c'eri andato a fare?"
"Lei forse può capirmi, Presidente… all'estero si crede sempre che i giornalisti non capiscano quello che diciamo. Ho il sospetto che si travestano da giornalisti stranieri. E poi il caldo, lo stress, Maroni che fa il furbo… mi è scappata. Un errore imperdonabile. Imperdonabile".
"Claudio, ma insomma, mi ascolti quando parlo?"
"Certo, Presidente".
"Direi di no. Non fai che lagnarti per delle inezie che non c'entrano niente col tuo mestiere. Io ti ho nominato Ministro degli Interni".
"Sì, Presidente".
"E tu non fai che parlare di quel poveretto di Biagi, di scorte, di carabinieri, del G8… tutto questo cosa ha a che fare con gli Interni?"
"Mah, Presidente, veramente…"

"Claudio, io è da anni che ti tengo d'occhio, da quand'eri un pesce piccolo democristiano un po' inquisito, come tanti. Ma sin d'allora ho capito che in te c'era un grande talento. Io per queste cose ho un occhio. Per esempio, un giorno ho detto: bravo questo Mike Bongiorno, sarà un grande presentatore. Ed è andata così. E un'altra volta ho visto Ruud Gullit e ho detto: però questo negro, mi sa tanto che diventerà un gran calciatore. Nessuno ci credeva, eppure è andata così. O no?"
"Certo Presidente, ma io…"
"Lasciami finire. Sin dal primo momento in cui sono stato tuo ospite a Imperia ho capito che tu avevi un vero talento per gli Interni. Per l'arredamento, le tendine alle finestre, gli stucchi, gli arazzi. Come politico, sai, sei sempre stato una mezzasega. Ma come arredatore sei un genio ancora largamente inespresso. Un mago degli Interni. È per questo che ti ho fatto ministro".
"Ah… beh…"
"E dopo un anno che sei lì, non sei ancora venuto a cambiare i cassettoni di palazzo Chigi, e non fai che rilasciare dichiarazioni su fatti che non ti riguardano! Si può sapere cosa ti ha preso?"
"Ehm… Presidente, forse c'è stato un equivoco".
"Un equivoco?"
"Sì, direi un tragico qui pro quo".
"Ma che qui e quo qua vai parlando, il fatto è che ti sei montato la testa. Non sei l'unico Ministro a cui è successo. Ma non credere che io ti mollerò così facilmente. Un talento come il tuo vale tanto oro quanto pesa. Vuoi che ti ritocchi lo stipendio?"
"No, Presidente, meglio di no…"
"Come vuoi. Allora magari ti raddoppio la scorta, eh? Quattro macchine blu davanti e dietro. Così lo sapranno tutti quanto ti stimo e la pianteranno di attaccarti".
"Beh, Presidente, se insiste…"
"Ok, da domattina scorta raddoppiata. Però domani mattina alle nove precise voglio vederti a Palazzo Chigi per quei cassettoni. È chiaro?"
"Sì, mio Presidente".
"Molto bene. Sogni d'oro, Claudio. A domani".
"A domani Presidente".

-click-
"Ouf".
"Ma si può sapere chi era? Sono le tre del mattino..."
"Ma niente, era Claudio".
"Claudio chi, il custode?"
"No, il mio arredatore, un pirla di Forza Italia. Bravo, eh. Però un pirla".
"Certo che te li sai scegliere".
"Oh, Veronica, credi che alla mia età sarei ancora in circolazione se mi scegliessi collaboratori intelligenti? Devono essere perlomeno più pirla di me".
"Bella gara…"
"Cos'era, una battuta?"
"No, niente. Buona notte, Presidente".
"Buona notte".
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Mamma! Mamma!

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Il male banale
(Riveduto e corretto, e sempre attuale).

Monsignore, è un grandissimo onore per me averLa qui.
Prego, s'accomodi.
(Lara, vammi a prendere i ferri buoni. C'è il Monsignore!)

Colgo l'occasione per confessarLe che l'altro giorno ho goduto di un piacere autentico, e d'intensità rara, leggendo l'ultimo intervento del suo caro amico cardinale contro la pillola assassina. Soprattutto là dove dice
la Ru486 banalizza l’aborto perché l’idea di pillola è associata a gesti semplici, che portano un sollievo immediato
Si', quando una citazione mi piace davvero, la imparo a memoria. Adesso apra la bocca, per cortesia.
Mi sono anche permesso di riportarla sul forum della FOdCA, che mi onoro di rappresentare. La conosce? La Federazione Odontoiatriche Cattoliche. Qui è meglio fare una lastra.
(Lara, vammi a preparare una lastra).
Beh, in effetti non è molto conosciuta, la Fodca. Potremmo essere molte di più... sapesse quante professioniste non si attentano a uscire allo scoperto, difendere la loro fede... Ma Lei c'insegna che bisogna dare l'esempio. Adesso stringa. Ma no, non fa male. Appena un po' di fastidio, che sarà mai... Stringa, su. Ecco, abbiamo fatto. Un attimo che il computer rielabora l'immagine.

Vede, io credo che il cardinale abbia colto l'essenza del problema. Invece di tirare fuori la bufala della pillola pericolosa per le madri, una cosa a cui, diciamolo, non crede nessuno... no, il punto è esattamente quello: la banalizzazione. Con la Ru486 abortire non diventerà più pericoloso o meno assassino. Ma sarà una cosa facile, alla portata di tutti, in una parola: banale. E' questo l'abisso morale che si spalanca davanti a noi. Lara, questa immagine arriva o no?

Ah, ecco.
Eh, beh, capisco che le facesse male a masticarci sopra. C'è una carie che si è infiltrata sotto l'otturazione. E ce n'è già un'altra... qui, vede? Sotto il colletto. Ma da quand'è che non ci vediamo?

Monsignore, è un discorso che abbiamo fatto spesso. Caffè, fumo, zuccheri tra un pasto e l'altro... non sono amici dei suoi denti. Poi è inutile che Se la prenda con me. In tre anni è la quarta volta che rivediamo quell'otturazione. Le dico con tutta franchezza che a questo punto la maggioranza dei miei colleghi Glielo avrebbero già devitalizzato - se non cavato via, semplicemente. Ma noi della Federazione Odontotecniche Cattoliche abbiamo una concezione diversa. Lara, per favore, preparami dieci cc di zertyupol.

Monsignore, so che potrà capirmi. Lei ha un problema col Suo dente. Banalizzando, si potrebbe affermare che si tratti di un paio di carie. Ma io e Lei sappiamo che il problema non coinvolge soltanto lo smalto: esso penetra la dentina e il cemento e raggiunge l'essenza, come dire? spirituale del Suo premolare. Banalmente, io potrei raschiarle via l'ennesima macchia scura; molti miei colleghi laicisti lo farebbero, ben contenti di rivederla tornare poi di qui a pochi mesi. Ecco, noi della Fodca abbiamo deciso di lavorare in un'altro modo. Lara, per favore, allaccia le cinghie al Monsignore.

Se ora Lei non avvertirà la solita sensazione di intorpidimento alla mascella, c'è un motivo. Quello che Le ho iniettato non è un sedativo. Viceversa, è qualcosa che L'aiuterà a sentire meglio quello che sto per farLe. Perché alla Sua età, Monsignore, non vorrei mai che perdesse i sensi mentre... apra la bocca, da bravo, ecco. Dicevo, ma può sentirmi? NON VORREI MAI CHE LEI PERDESSE I SENSI MENTRE LE TRAPANO UN PREMOLARE SENZA ANESTESIA. No, non provi a chiudere la bocca mentre ho il trapano in mano. Non ci provi davvero. Si concentri su qualcosa. Su quello che Le sto dicendo, magari. Ora riprendo. C'è parecchio lavoro da fare qui dentro, lo sa.

Vede, quello che è successo a noi dentisti negli ultimi 50 anni, gli enormi progressi fatti in tutte le direzioni, ma soprattutto nella terapia del dolore, hanno in qualche modo degradato l'essenza morale della nostra professione. Noi dentisti sappiamo nell'intimo della nostra coscienza che il migliore nemico della carie è la prevenzione: una dieta corretta, l'astensione dalla nicotina e via dicendo. Ma d'altro canto è molto più lucroso curare i milioni di carie figlie delle cattive abitudini che ci guardiamo bene dal combattere. Tanto più che levarsi una carie, o un dente intero, è diventato sempre più facile e indolore... in una parola: banale. Ora, noi della Fodca abbiamo deciso che non può più essere così. Siamo ancora poche, è vero, ma decise a dare l'esempio. Lara, tieniGli stretta la fronte, così. Ecco, adesso va meglio.

Comincia a vedere le stelline? Non si spaventi, a questo livello è normale. Ma ci pensi bene: ha mai vissuto un'esperienza del genere nella sua vita? Pensa che potrà mai scordarSela? No, non muova la testa, mi risponda roteando le orbite. Bene. Ogni volta che scarterà un cioccolatino, che Si accenderà una sigaretta, lei Si ricorderà di questo dolore. Questa è la vera cura contro le carie, mi capisce? Quella non facile, non banale, quella che coinvolge il paziente anche sul piano spirituale. Noi Odontoiatriche Cattoliche ci crediamo fermamente. Ora se vuole può urlare.

Lara, hai notato che urlano tutti la stessa cosa? Che vorrà dire?
Mamma, mamma, come se il dolore più lancinante fosse un segreto tra noi e chi ci ha dato la vita. O forse è solo la sillaba più facile da pronunciare.
Si sciacqui, Monsignore: abbiamo finito.
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L'è el dì di mort, alegher!

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Questo sito, tra le altre cose, sta diventando
un impressionante cimitero:

Mike Bongiorno, presentatore
Fernanda Pivano, traduttrice
Michael Jackson, ballerino, cantante
Gérard Lauzier, fumettista
Santo Quadri, vescovo
Paul Newman, attore
David Foster Wallace, scrittore
Nicola Tommasoli, perché non aveva una sigaretta
Enzo Biagi, fumettista
Luciano Pavarotti, cantante
Hu Zhiquian, cinese
Bruno Lauzi, cantante
Oriana Fallaci, un bel caratterino
Syd Barrett, cantante
Giovanni Paolo II, pontefice
Fabrizio Quattrocchi, italiano
Marco Pantani, ciclista
Tom Harindal, attivista filopalestinese
Ermir Haxhiaj, cadetto a Modena
Rachel Corrie, attivista filopalestinese
Roberto Murolo, cantante
Alberto Sordi, attore
Giorgio Gaber, cantante, attore, drammaturgo
Joe Strummer, cantante
Raffaele Ciriello, giornalista
Marco Biagi, giuslavorista
George Harrison, chitarrista
Carlo Giuliani, ragazzo
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Magari è davvero solo un sogno

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(Ricopio dall'anno scorso, e domani spero di svegliarmi)

Incubo di una notte di mezza estate

C'è il Presidente Napolitano che entra in una banca con un sacchetto in mano, e dice: “Buongiorno”.
“Buongiorno, ma... Non posso credere ai miei occhi!”
“Ci creda, pure, giovanotto, ci creda”.
“Lei è... il Presidente della Repubblica”.
“Proprio io, già”.
“E si è messo in fila proprio al mio sportello!”
“Sa com'è, stamattina passavo di qui... e mi sono detto: perché no?”
"Che onore, ma... non sapevo che avesse un conto qui”.
“In effetti, ora che mi ci fa pensare, non ce l'ho”.
“Ah. Vorrebbe aprirne uno?”
“No, grazie per l'interessamento, no”.
“E quindi... è interessato a qualche nostro prodotto? Io sono solo un cassiere, forse è meglio se chiamo il direttore di filiale e...”
“No, non lo disturbi. Lei andrà benissimo per quello che mi serve”.
“Va bene, allora dica. Cosa posso fare per lei?”
“Dunque, la vede questa borsina? Ecco, vorrei che lei aprisse la cassaforte per me, e la riempisse di banconote di piccolo taglio”.
“Ma...”
“Devo avvertirla che sono armato. Un vecchio sten che avevo nascosto in attesa di tempi migliori”.
“È uno scherzo?”
“No, senz'altro no. E non si azzardi a premere quel pulsante, l'ho vista sa?”
“Ma lei... è il Presidente. Voglio dire, non può rapinare le banche”.
“In effetti fino a qualche giorno fa non potevo. Ma un qualche giorno fa è uscito l'ultimo numero della Gazzetta Ufficiale con il Lodo Alfano, l'ha letto? Avvincente. Ecco, in pratica quel lodo mi consente di rapinare tutte le banche che voglio”.
“Ma...”
“Così oggi stavo passando di qui e mi sono detto: perché no? Adesso, giovanotto, può fare quello che le dico? Perché non ho tantissimo tempo”.
“Un attimo! Sento come una voce... un megafono là fuori”.
“Ah, ecco, ci mancava anche questa”.
“Giorgio!”
“Auff”.
“Giorgio, sono Silvio, sono venuto a parlarti”.
“Tutti i giorni questa storia”.
“Giorgio, senti, io posso capire che l'immunità... possa fare un brutto effetto... alla tua età, poi...”
“Il solito cafone”.
“Del resto, guarda, anch'io stamattina ho corrotto un paio di finanzieri... così... giusto per provare quel brivido... l'adrenalina... per cui ti posso capire, Giorgio. Però... insomma, è la dodicesima banca che rapini stamattina”.
“E allora?”
“C'è qui il capo della polizia, Manganelli, è disperato, non sa più cosa fare. Ho dovuto promettergli che ci pensavo io. Allora senti, questa volta non prendere ostaggi, per favore. Sto entrando nella banca, mi senti? Sto entrando disarmato. Niente armi. Solo me e te. Ci facciamo una chiacchierata tra immuni, ok? Mi senti? Spara un colpo in aria se mi senti”.
Bang.
“Allora entro, eh? Oh, eccoti qua, ciao Giorgio. Senti, perché non....”
Bang. Bang. Bang.
“Ouch! Cos'hai fatto?”
“Ti ho sparato Silvio, sì. Era una cosa che sognavo di fare da anni”.
“...Ma...”
“Mi sono sempre trattenuto, perché sai com'è, le leggi, la rispettabilità, tutti questi lacciuoli piccolo-borghesi... finché un giorno tu non mi hai dato l'immunità”.
“...Io credevo che...”
“Renditi conto. Prima hai lasciato che un ex comunista stalinista salisse al Quirinale, e poi gli hai dato l'immunità. E poi ti lamenti se quello ti spara? Un po' te lo meriti, eh”
“...Muoio”.
“Vedo. Non mi resta che sciogliere le camere. Chissà se poi una volta sciolte le riapro, mah. Devo pensarci bene. Dopotutto il mondo è mio. Uah uah uaaaaaaaargh!”

****

“Aaaaargh!”
“Silvio, che hai? Sei tutto sudato”.
“Ho fatto un sogno... un incubo... c'era Napolitano che entrava in una banca e poi...”
“Come incubo non sembra un granché”.
“Sì, ma poi arrivavo anch'io... e lui mi uccideva... a sangue freddo. Dio! Perché non ci ho pensato prima!”
“A cosa dovevi pensare?”
“Ho lasciato l'immunità... un potere immenso, quasi diabolico... a un comunista! Ora lui può fare quel che vuole, può persino...”
“Ma vedrai che non ci farà niente, è solo un vecchietto un po' suonato”.
“Sarà. Ma non sono tranquillo per niente, Veronica”.
“Veronica a chi?”
“Ah, scusami, già... Anita”.
“Mi prendi in giro”.
“O eri la Bice? O la Chicca? Scusami, ma non mi ricordo più con chi mi sono coricato ieri sera. Eri una nuova, mi pare”.
“Gianfra. Chiamami Gianfra”.
“Ah, già, Gianfra. Mi ricordo di te. Così alta e abbronzata, anche se... un attimo. Dove sono i tuoi lunghi e fluenti capelli neri?”
“Me li sono tolti, mi impicciavano”.
“Ma quindi tu non sei...”
“Dentro di te sai benissimo chi sono. Accendi pure il lume, se vuoi”.
“Non ci posso credere! Gianfranco!”
“Proprio io, già”.
“Ma come ho potuto...”
“Silvio, a una certa ora ormai tu sei in grado di abbordare qualsiasi oggetto in movimento e io, modestamente, sono ancora un bel pezzo di oggetto in movimento”.
“Ma cosa hai intenzione di fare? Ricattarmi?”
“Ma no, perché? Il mio piano è molto più banale. Ora che mi sono introdotto con l'inganno a Palazzo Chigi, intendo soffocarti con questo cuscino, come fece Caligola con l'imperatore Tiberio. Perché io alle mie radici ci tengo”.
“Ma ti scopriranno! Hai lasciato impronte praticamente... dappertutto!”
“E allora? Io sono immune, non ricordi? Sei tu che mi hai voluto immune”.
“Ma io credevo che...”
“Lo so, tu credevi che io fossi una mezza calzetta. L'hai sempre creduto. E io te l'ho sempre lasciato credere. È stato un piano minuzioso, messo a punto in vent'anni... e ora...”
“Gianfranco, aspetta! Parliamone! Noi due possiamo ancora fare tante cose... insieme!”
“Grazie, ma è troppo tardi, vecchio. Muori”.

****

“Aaaaah!”
“Renato, cos'hai? Un altro incubo?”.
“Sì... questa volte c'era Napolitano che entrava in una banca... e poi Silvio a letto con Gianfranco... una cosa oscena... io...”
“Renato, forse dovresti fare terapia”.
“Eh, forse sì”.
“Voglio dire, un po' di rimorsi li posso anche capire... ma è passato un anno, ormai, da quando li hai strangolati nel sonno tutti e tre”.
“Del resto cosa potevo fare? Non l'ho mica chiesto io di diventare Immune”.
“Ci dovevano pensare bene, prima”.
“Cioè, lo hanno sempre saputo che avevo contatti con la mafia. Dico, bastava ascoltare Travaglio. Lo hanno sempre saputo, e un giorno mi hanno nominato Immune. Secondo loro cosa sarebbe successo, dopo? Bastava un po' di fantasia”.
“Erano dei minchioni, Renato. Hai fatto bene a sistemarli. Adesso dormi, che domani c'è l'inaugurazione”.
“Del ponte sullo stretto? È già pronto?”
“Non proprio, no. Anche perché ho sentito che hanno un po' ampliato il progetto”.
“In che senso ampliato?”
“Hanno deciso di allungarlo fino a Lampedusa, sarà il ponte più lungo dell'Universo. Domani inaugurano il nuovo cantiere”.
“Aaaaaaarg!”

***

“Aaaaaarg!”
“E adesso che c'è, Presidente?”
“Un incubo orribile! C'era Schifani che... Dio mio, che ho fatto!”
“Che hai fatto, Presidente?”
“Ho firmato il Lodo Alfano! Una legge diabolica, un mostro giuridico che... ci trasformerà in tanti mostri... ma forse faccio ancora in tempo... Clio, ricordami di chiamare la Corte Costituzionale, domani”.
“Ma non sono Clio. Clio è a Stromboli in confino, non ricordi?”
“E tu chi sei?”
“Sono la vergine del venerdì”.
“Del venerdì?”
“Davvero non rammenti? Da quando sei diventato immune, pretendi di giacere ogni notte con una vergine diversa, e al mattino le fai mozzare la testa”.
“Aaaaaaaaarg!”
“Su, non prendertela! Vieni qui che ti racconto una storia. Comincia così. C'è il Presidente Napolitano che entra in una banca con un sacchetto in mano...”

(Continua, all'infinito).
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(Quando ho sentito che Michele Placido portava a Venezia un film sul '68, mi sono detto: oh, finalmente qualcuno si decide a parlarne. A rompere questa oscena congiura del silenzio).

(Poi mi sono anche detto che non c'era veramente la necessità di scriverci un pezzo. Finché loro rifriggono la stessa storia io posso anche copia-incollarvi lo stesso pezzo. Questo per esempio è del 2003, quando a Venezia Bertolucci presentò coraggiosamente un film sul... sul '68).

E a me di lei
Non me n’è fregato niente mai


"Prima di venire qui a Venezia - racconta Bertolucci con autoironia - mi sono fermato un po' nel mio studio a Roma. C'erano un paio di pavé, uno vero e l'altro di piuma. Vi confesso: ho pensato di portarlo qui e lanciarvelo addosso. Ma sarebbe stato un gesto troppo osè, troppo sessantottino". E sorride con dolcezza, applaudito dalla platea.

Mi rendo conto che è inverosimile, ma per un attimo ho pensato che Marco Lodoli stesse facendo dell’ironia.
Era il 5 luglio e stavo leggendo su Diario la sua recensione de La Meglio Gioventù:

Come mai quasi nessuno ha tentato di raccontare la generazione che si è formata negli anni Sessanta e Settanta, sotto i baobab delle ideologie e delle grandi illusioni, quella generazione che si è nutrita di tutti i sogni possibili e poi si è risvegliata in un deserto? Qualche romanzo c’è stato, qualche regista e qualche cantante ci hanno provato, ma senza molta convinzione.

Un attimo. Avevo letto bene?

Come mai quasi nessuno ha tentato di raccontare la generazione che si è formata negli anni Sessanta e Settanta

Eh?

la generazione che si è formata negli anni Sessanta e Settanta


Cambiando argomento, non so se capiti anche a voi, ma io a volte ho la strana sensazione di avere 20 anni in più. Perché? Perché so a memoria quello che è successo in anni in cui non ero nato. Per esempio, conosco più o meno tutti i 33 giri più venduti del ’72, benché io sia venuto al mondo l’anno seguente. (Se mi chiedete quali sono i cd più venduti oggi, è il buio). O la moda. Io non capisco nulla di moda, eppure so come ci si vestiva nel ’69. Come ci si pettinava. I discorsi. I tormentoni del carosello. Le sigle dei partiti, parlamentari ed extra. So un sacco di cose, davvero.
E guardate che non sono un appassionato, anzi. Sono tutte informazioni che non sono andato a cercare. Per di più, al novanta per cento sono informazioni che non mi servono. Ma le ho. E le avete anche voi, ci scommetto. Come mai?

Forse si tratta di una memoria collettiva, qualcosa di ancestrale, atavico?
O non sarà forse che la cosiddetta “generazione che si è formata negli anni Sessanta e Settanta” è da trent’anni che ci straccia le palle con la sua tragica autobiografia?
In tv, sui romanzi, ma soprattutto al cinema, da Moretti su fino ai Vanzina, il pistolotto sugli anni sessanta-settanta ce l’hanno fatto tutti, tutti. Tant’è che l’idea di occupare un pomeriggio della nostra vita con La meglio gioventù più di tanto non ci spaventa: sappiamo già più o meno cosa ci troveremo, quali canzoni, quali acconciature; alluvione a Firenze, Valle Giulia, antipsichiatria… tutte cose che conosciamo già. Per sentito dire, d’accordo, ma un sentito dire incessante, alluvionale, inesauribile.

Una volta ho calcolato per quanto tempo ancora avrei dovuto sorbirmi gli amarcord dei sessantottini. Grosso modo, se la medicina non fa passi di gigante, devo rassegnarmi a convivere con le loro nostalgie più o meno fino al 2050. Dopodiché ne sarò libero, ma sarò anche ottantenne e frastornato, e probabilmente andrò in giro in fiat seicento cantando c’era un ragazzo che come me amava i beatles e i rolling stòns.

Ora, ci sono motivi storici per tutto questo. La generazione del baby-boom ha avuto davvero delle opportunità eccezionali. Ed è portata a sopravvalutarsi, a sopravvalutare la propria giovinezza, a sopravvalutare il riflusso che ne è seguito, (come se crescere e metter su casa e pancia non fosse il decorso tipico di qualunque generazione).
Ma Marco Lodoli? Possibile che non si renda conto di appartenere a una delle generazioni più autorappresentate della storia dell’umanità? Possibile che chieda ancora, in buona fede, altri romanzi, altri film, altra autocoscienza? Non è che per una volta ha solo cercato di prenderci in giro? Ah-ah, che buontempone.

***

E veniamo a oggi, a Venezia. C’era Bernardo Bertolucci, col suo nuovo film, ambientato, pensate un po’, a Parigi nel maggio ’68. Perché, chiederete voi, è successo qualcosa di particolare, a Parigi, nel maggio 1968? Pare proprio di sì. C’è stata una specie di rivoluzione, pensate, con le barricate. Slogan che poi non si sono mai più sentiti, come l’Immaginazione al Potere, Siamo Realisti Chiediamo l’Impossibile, Vietato Vietare. Tutte cose dimenticate, scivolate via come lacrime nella pioggia.
Ma Bertolucci non ci sta. È ora di rompere l’omertà! Nel 1968 lui c’era e si è divertito un sacco! Perché ora nessuno ha più voglia di parlarne?

I genitori dei ragazzi di oggi hanno cancellato con pudore quel periodo ritenendolo un fallimento. Sbagliato, grave errore storico, perché lì nasce quello che siamo oggi

Prego?

I genitori dei ragazzi di oggi hanno cancellato con pudore quel periodo

Figli dei sessantottini, lo chiedo a voi: vi risulta che i vostri genitori abbiano cancellato quel periodo con qualche specie di pudore? Sul serio, mi interessa. La mia impressione è che stiano continuando a parlare di loro, più o meno da trentacinque anni. Proprio come Bertolucci, che ammette di aver scelto il maggio francese..

...per parlare di me, certo, ma anche per fare un film per i ragazzi in cui si dice una cosa molto semplice: quando noi andavamo a dormire nel '68 lo facevamo con l'idea che il giorno dopo ci saremmo svegliati nel futuro, non l'indomani, ma nel futuro.

E bravo Bertolucci, che si faceva i suoi miscugli di “sesso, rock, filosofia, e naturalmente cinema” e andava a letto sperando di svegliarsi nel futuro. Quanto a noi, capirai. Sesso poco, e protetto. Rock un po’ di più, ma indipendente, minimale, lo-fi. Filosofia no, per carità. Cinema, sì, qualche volte si va al cinema, ma quasi sempre il regista è un sessantottino, è deluso da come è andata a finire e vuole farla pagare agli spettatori.
Viste le premesse, c’è poco da svegliarsi nel futuro: io vivo nell’incubo di svegliarmi nel passato, in un passato d’accatto, mai vissuto eppure ricostruito a memoria; svegliarmi a Parigi, in una stanza registrata a mio nome, su una moquette piena di topi, con De Gregori nel mangiadischi e una foto di Angela Davis che muore lentamente sul muro.

Ed è per questo che, pur con tutto il rispetto dovuto a Marco Lodoli, a Marco Tullio Giordana, a Bernardo Bertolucci e a tutti i sessantottini e i settantasettini che conosco e che non conosco, che mi trovo costretto a ribadire una verità che credevo banale, ed evidentemente non lo è:

Ragazzi, guardate che IL '68 CI HA


STRASFRACELLATO


I COGLIONI



Scusate il lessico, ma le cose stanno cosi, convincetevene.
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Amico Abbecedario

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(L'ho trovato. Il primo titolo stagionale sul caroscuola. E dal momento che gli editori scolastici non hanno difficoltà a rivendervi gli stessi libri dell'anno scorso, giusto con qualche errorino in più o in meno per far vedere che sono "aggiornati"; e che i giornalisti non hanno problemi a riscrivervi più o meno lo stesso pezzo di dodici mesi fa... beh, anch'io posso benissimo copiare di pacca il post dell'anno scorso. Per quel che mi pagano).

Settembre ha il profumo dei quaderni nuovi

Io non pretendo certo che abbiate letto gli articoli di quest'anno sul caroscuola, identici in tutto e per tutto a quelli dell'anno scorso. Del resto, cosa c'è da dire? Purtroppo i prezzi aumentano, e aumenterebbero anche se l'editoria scolastica non fosse quella turpe banda di parassiti e grassatori che è sempre stata e sempre sarà almeno finché non riuscirò a lavorare per loro e smetterò di dirlo ad alta voce.

Nel frattempo vorrei soltanto lanciare un appello a chi si trova nella spiacevole situazione di aver figliato qualche anno fa: sembrava che il bambolotto vi sarebbe rimasto appeso al collo per sempre e invece eccolo qua! cammina parla e ora pretende di andare a scuola e bisogna anche svenarsi per corredarlo di libri e quaderni. Così siete appena tornati dalle vacanze, neanche il tempo per leggere il tradizionale articolo sul caroscuola, e via! In fretta, prima che arrivi l'estratto conto con tutti i vostri bagordi agostani dettagliati voce per voce, via, all'ipermercato più vicino! Perché ho sentito dire che c'è lo sconto sui quaderni.

Ecco, per l'amor di Dio e vostro, non fatelo. Non comprate quaderni al buio. È carta sprecata, fidatevi.
Perché vedrete che poi si arriva al 15 settembre, e si scopre che il/la maestro/a o professore/ssa è uno di quei biechi individui a cui non va bene niente, mai! Il quadernino piccolo è troppo piccolo, quello A4 è troppo grande! La spirale no, le anelle solo a distanza continentale (gli anglosassoni usano un formato diverso), i quadretti di 0,5 cm. mentre voi avete fatto una scorta da 0,4 da qui all'università – sul serio, non buttate via i vostri soldi, aspettate.

Se poi vi considerate tipi sensibili, potete anche esercitarvi a comprendere l'insegnante. Magari è uno/a che ha la pretesa antistorica di controllare i compiti a casa, e come fa? Ritira i quaderni. A cinque o sei persone alla volta? Andrà a finire che quei cinque o sei no lavoreranno più per un mese, tanto la prof mi ha già beccato. Eh, no, meglio controllarli tutti e 25. Certo, e andare in giro per i corridoi con 25 quaderni sottobraccio, è in questo modo che il docente difende la sua dignità. Oppure presentarsi in classe col carrello. O ancora introdurre il concetto di quaderno ad anelli con fogli staccabili, ma è già settembre inoltrato, e la famiglia previdente aveva riempito la cantina di quadernoni e quadernini a fogli non staccabili che nessuno correggerà mai.

Generalizzo, certo. Ma ho ancora nel cuore il mio primo giorno di scuola alle elementari, i miei bellissimi quaderni di Superman e di Batman (eroi in calzamaglia che andavano molto in voga a quei tempi), e la maestra che mi raggela dicendomi: questi non si possono usare. Insomma, è una storia antica. La grande distribuzione lo sa, e ne approfitta. Vi vende la sensazione di essere genitori previdenti scaricandovi pacchi di carta che v'ingombreranno la mensola alta del garage fino alla consumazione dei giorni. Non cascateci. Il vero risparmio è comprare all'ultimo momento solo quello che l'insegnante vuole. Si salva pure un po' di foresta.

Detto questo, i prezzi aumentano. Aumenta tutto, a partire dalle materie prime: aumenterebbe anche se possedessimo la bacchetta magica per eliminare quelle tenie didattiche degli editori scolastici, con le loro pregiate ristampe patinate e colorate, in cui si cambia tutto purché restino gli errori di stampa dell'anno prima. In effetti la bacchetta magica ce l'avremmo: coi soldi che una famiglia spende in libri ci si potrebbe comprare un laptop, installare il wifi a scuola e lavorare direttamente su wiki. In qualche scuola già succede, e forse, chissà, un giorno anche in quella dei vostri figli (dipende anche da voi! Andate alle riunioni!) Certo, i laptop dopo un po' si scassano, ma se per questo anche i libri: già da oggi, se un ragazzino riuscisse a conservare un laptop per almeno tre anni, la convenienza ci sarebbe eccome. Anche la diffidenza di una classe insegnante un po' attempata è destinata a squagliarsi al sole di fronte alla possibilità di somministrare verifiche on line che si correggono da sole (tutta roba che esiste già, eh? Non sto inventando niente).
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21st Century Schizoid Anchorman

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(Versione estiva, un po' rivista)

Ciao, sono il tuo telegiornale delle Tredici!

La tua finestra sul mondo! Peccato che il mondo faccia schifo. No, sto scherzando, è tutto molto divertente.
Nei primi minuti ci saranno interviste a dei politici presi per strada che si rimbeccano. Questo è molto noioso e non interessa effettivamente a nessuno, ma il Direttore sostiene che c'è una legge che lo costringe, e che comunque se un giorno sbagliasse il minutaggio licenzierebbero lui la moglie e i discendenti fino alla settima generazione. Ehi, a qualcuno è successo davvero.

Apprezza almeno lo sforzo degli operatori: anche se i politici che parlano sono quasi sempre le stesse mezze calze, loro si sforzano di trovare ogni giorno un'inquadratura diversa. Così almeno ti mostriamo un po' di Città Eterna a ora di pranzo; e poi anche loro riescono più spontanei, più naturali. Le loro dichiarazioni sembrano estorte a forza dopo ore di pedinamenti, e questo se vuoi è paradossale, perché la loro mansione di Portavoce consiste appunto in questo: uscire da Montecitorio, sparare una cazzata anche breve che comunque noi taglieremo, e andarsene per i fatti loro. Bella vita, eh? No, in realtà dev'essere frustrante.

Ecco, finalmente siamo arrivati alla Cronaca, che poi è quello che c'interessa (anche se in realtà non ce ne frega niente). Dunque. C'è un tale in un quartiere di una città che ha ucciso un bambino. Pare gli sia saltato alla gola. L'assassino è uno straniero originario dell'... dell'Anatolia. Notizia tremenda, eh. C'è davvero da aver paura ad andare in giro, con tutte queste brutte facce... Stacco. Pare che in Italia ci sia un'emergenza razzismo. Lo dice una ricerca di un'università. Pazzesco, ma ti rendi conto! Il razzismo! In Italia! La ricerca dice che i mass media tendono a dare risalto ai crimini commessi da stranieri bla bla bla... a questo punto ti saresti già annoiato, quindi abbiamo montato sopra l'intervista a uno psicologo che l'anno scorso ha detto ai nostri microfoni che razzismo è brutto, razzismo non si fa.

Ok, e veniamo all'Orribile Processo. Di' la verità, cominciavi a temere che non ne avremmo parlato, eh? Oggi pare che l'Imputata Bionda abbia scambiato uno sguardo con l'Imputato Scuro. Forse era uno Sguardo d'Intesa, ma potrebbe anche essere uno Sguardo di Disapprovazione, in effetti l'unica sarebbe fartelo vedere, ma in quel momento il cameraman s'era distratto, comunque fidati. È tutto? Sì, perché le deposizioni erano noiosissime e noi non vogliamo farti cambiare canale, soprattutto adesso che tra tre minuti c'è la pubblicità. E quindi... beh, abbiamo pensato di approfondire mostrandoti la fila di gente che c'è fuori! Una fila di gente che vorrebbe entrare a vedere l'Orribile Processo, non lo trovi morboso? Abbiamo attaccato la dichiarazione di un vip che lo trova morboso. Oddio, vip... è un poeta sconosciuto ai più, però ha una raccomandazione di ferro della Congregazione Opere Mariane. E poi abbiamo intervistato i vecchietti in fila. Sono sempre morbosi, i vecchietti.
No, in realtà mi stanno simpatici.

Veniamo alle buone notizie. E' da un po' che vi parliamo della nuova influenza, ebbene, pare che non ci sia nulla da temere, infatti l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha annunciato che si tratterà di un'ORRIBILE PANDEMIA. Moriranno appena MIGLIAIA DI PERSONE VACCINIAMOCI TUTTI SUBITO, VACCINIAMOCI PRESTO COSA FAI LI' VECCHIETTO, CORRI A VACCINARTI. Insomma, l'allarme è praticamente PANDEMIA! rientrato. PANDEMIA! Basta così, i nostri 40 secondi di pilloline ve li abbiamo fatti vedere, speriamo sia passato un PANDEMIA! messaggio rassicurante.

A questo punto, senza nessun preavviso, comincia lo spezzone preferito dai bambini e dalla quota cacciatori della Lega: gli animali! I nostri piccoli grandi amici! Purtroppo non riusciamo più a mostrarti l'orso Knut, si è mangiato gli ultimi tre cameramen che si sono avvicinati. Pensavamo di farti vedere un cucciolo di foca orfano allattato a biberon, ma all'ultimo momento c'è arrivata un'agenzia: in un quartiere di una città un bambino è stato morso alla gola da un cane! Sì, vabbè, povero bambino, ma soprattutto... povero cane! I cani, sapete, sono buoni di default, e se per caso a uno scappa di sgozzare un bambino, chissà che infanzia di privazioni e crudeltà si porta dietro. Poi i bambini, diciamolo, certe volte non sanno veramente trattare i cani. Schizzano da tutte le parti, li eccitano... vogliamo un po' parlare della responsabilità di chi non li addestra?

Sì, lo so, è la stessa notizia di prima. Ci siamo accorti che il tizio che mandava suoni gutturali era un “cane pastore dell'Anatolia”, embè? No, ma se tu leggi un'agenzia con scritto “pastore dell'Anatolia”, pensi prima a un cane o a una persona?
Come? Ma certo che funziona così:

straniero sgozza bambino = colpa straniero;
cane sgozza bambino = colpa bambino.

Lo trovi strano? Non è affatto strano. È molto semplice: nel consiglio di amministrazione abbiamo tre padroni di cani e nessuno straniero. Adesso però veniamo alle cose serie. Pubblicità.

Automobili, compagnie telefoniche che cercano di strapparsi i clienti esausti, succhi di nulla al gusto di qualcosa che rafforzano, ah ah ah, le tue difese immunitarie, no scusa, ah ah ah, ma sul serio ti bevi tutta questa roba? E la prossima volta cosa ti venderemo? La polverina che scioglie le calorie? Certo, come no, abbiamo brevettato una sostanza che infrange le leggi della Termodinamica e invece di usarla per possedere il mondo te la vendiamo sotto le feste di Natale a prezzi modici!

Fine del momento serio.
Costume e Società. C'è il super-mega-concorso che sta facendo perdere il sonno agli italiani, che spendono un sacco di soldi per vincere il super-mega-jack-pot. Abbiamo intervistato uno psicologo che dice di stare attenti, che uno rischia di perdersi tutti i risparmi, giocando a questo super-mega-concorso con il super-mega-jack-pot. Che sciocchi, eh, questi italiani che... ma ti ho già detto che c'è un super-mega-jack-pot? No, sai, non vorrei mai venir meno al dovere di cronaca. Dunque, dicevamo, mi raccomando, non dilapidate i vostri risparmi per vincere questo SUPER-MEGA-JACK-POT. Così lo vincerà qualcun altro. Magari proprio dal tabacchino sotto casa tua, perché chi lo sa, in fondo potrebbe avercela lui, la scheda che vince il SUPER-MEGA-JACK-POT.

E adesso che c'è... ah, già, modelle. C'è rimasta la marchetta alle ultime due case di moda importanti, poi se Dio vuole la stagione Primaveraestate è finita. Siccome però notizie da abbinare agli outfit non ne abbiamo, pensavamo di risolvere anche stavolta il problema così: mostriamo solo le modelle più ossute e intervistiamo uno psicologo che dice che comunque l'anoressia è un problema legato alla famiglia. Quindi beccati altri due minuti di modelle ossute... Ehi, ma hai visto che bel pellicciotto quella lì... ah, è foca? Però. Proprio bella, eh. Certo, ne dovresti perdere di chili per entrarci. Però col nuovo prodotto che scioglie le calorie, chissà.

E questo è tutto. Ciao dal tuo Telegiornale, la tua finestra del mondo.
Sì, lo so, sono schizzato. E mi piaccio così.
No, non è vero, mi faccio schifo.
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