La stella a sei punte, e chi la fischia

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Quel minimo non dico di saggezza, ma di astuzia che avrei dovuto metter da parte in tanti anni che scrivo in pubblico, mi suggerisce di aspettare che sia la sera di questo 25 per scrivere qualcosa; perché anche se tira un'aria tremenda, come non si sentiva da vent'anni, può persino darsi che non succeda niente. O se lungo un corteo succede qualcosa, e qualcuno in strada ci rimane, dipenderà molto da che bandiera portava. Qualcuno qui si ricorderà di Genova, e di quanto sarebbero state diverse le cose se invece di cadere il ragazzo fosse caduto il poliziotto. Dunque sarebbe meglio aspettare, che non c'è nessuna fretta alla fine. Sì.

2015

Scrivo comunque qualcosa. Che al 25 aprile molti vadano per litigare è cosa nota, più o meno dallo spaventoso diluvio del 1994 (prima una festa antifascista non dava così fastidio, o forse un certo fastidio sentiva da solo la necessità di contenersi). Col tempo è inevitabile che anche un certo tipo di provocazione diventi parte della celebrazione: ad esempio almeno a Milano i fischi alle bandiere della Brigata Ebraica sono ormai parte della liturgia. Mi sembra di avere già annoiato qualche lettore sull'argomento: la Brigata Ebraica non fu propriamente un gruppo partigiano, ma un'unità delle forze armate britanniche che combatté in Italia nel 1944/1945, composta da circa 5000 volontari dell'Organizzazione Sionista Mondiale, perlopiù provenienti dalla Palestina Mandataria. Non tantissimi, ma molte bande partigiane erano anche più piccole. Che senso ha fischiarli? In Italia in quegli anni combatterono indiani e brasiliani e non credo che nessuno fischierebbe una bandiera indiana o brasiliana; ma non credo nemmeno che nessuno senta la necessità di sventolarla. Chi porta in corteo quella bandiera (molto simile a quella di Israele, al punto che è inevitabile confonderla), vuole ribadire il concetto che il sionismo è una forza antifascista, e collaborò alla liberazione dal nazifascismo. Il che è legittimo. Chi fischia quelle bandiere sta obiettando al concetto: il che è sempre stato altrettanto legittimo, vista la situazione dei Territori Occupati; e lo è molto di più quest'anno, dopo la tragedia di Gaza. 

Tutto questo è ormai da anni un gioco delle parti: chi viene con la bandiera della Brigata (o con la bandiera di Israele) si aspetta di essere fischiato, e ci tiene che i fischi vengano il più possibile amplificati in tv, e forse è questo è un po' più grave dei fischi: il modo in cui un'esperienza nobile come quella dei volontari sionisti contro il nazifascismo viene annualmente strumentalizzata da un po' di gente che vuole semplicemente litigare il 25 aprile; questo perenne impugnare Israele e il sionismo come un pretesto per polemiche che con Israele c'entrano poco o niente, e che finirebbero per danneggiarne la reputazione, se Netanyahu gliene avesse lasciata una. Alcuni sono radicali e vabbe', coi provocatori professionali è inutile discutere. Alcuni saranno ebrei e posso capire che la presenza sempre più massiccia di bandiere palestinesi li sgomenti. Ma questa è la situazione: ottant'anni fa il sionismo era un movimento che combatteva attivamente contro l'occupazione nazista, oggi è l'ideologia che ha trascinato Israele nella catastrofe morale di Gaza. 

In questi giorni chi non perde tempo a leggere i giornali italiani ha saputo che tutte ormai tutte le grandi nazioni europee (l'Italia no) hanno riaperto i finanziamenti all'UNRWA, visto che Israele non riesce in nessun modo a provare che si tratti di un'organizzazione terroristica; nel frattempo le stragi di civili proseguono, e l'IDF apre le fosse comuni alla ricerca dei cadaveri degli ostaggi che non ha mai dato l'impressione di rivolere vivi. Chi sventola una stella di David, oggi, volente o nolente, sta mettendo sotto il naso alla gente il simbolo di questo sionismo; non quello che diede il suo contributo contro la lotta nazifascista. I simboli non sono neutrali, una bandiera italiana nel 1848 non significava la stessa cosa che nel 1936 o nel 2024. Non è responsabilità di un comitato antisemita se oggi una bandiera israeliana, agli occhi di una discreta fetta della popolazione mondiale, rappresenta un governo e un esercito razzista e genocida. Una trappola è scattata, potremmo discutere a lungo su chi l'ha tesa a chi: ma è scattata, e oggi il sionismo è un'ideologia odiosa persino a diversi ebrei in tutto il mondo. E sarà così ancora per molto, per quanto tempo? Credo che dovremo attendere almeno una generazione: quella che oggi impugna le bandiere si è raccontata troppe bugie per poterle rinnegare. L'unica speranza è che non abbiano educato con troppa attenzione i loro figli.

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Israele uccide chi vuole, quando vuole, ovunque vuole; e dovremmo smetterla di farci domande

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Sembra successo tutto in un giorno, che per qualche perverso motivo è stato il primo aprile 2024.

Fino a tutto il marzo di quest'anno potevamo ancora essere convinti che:

– I giornalisti avessero ogni diritto di documentare quello che avviene in un teatro di guerra. 

– I volontari delle ONG che portano aiuti nelle zone di guerra – col consenso delle forze belligeranti – fossero tutelati, prima ancora che da qualche codicillo internazionale, da un principio di buon senso e di umanità.

– I messaggeri fossero sacri. Lo sono da millenni; è un principio che nell'era contemporanea è stato formalizzato nella definizione di immunità diplomatica. Gli ambasciatori risiedono in sedi extraterritoriali che anche nelle fasi più cruente di una guerra o di un bombardamento non sono mai stati obiettivi militari. 

Poi è arrivato il primo aprile, Netanyahu ha annunciato che Al Jazeera non avrà più diritto di operare in Israele (e nei territori che Israele evidentemente occupa), nel mentre che l'esercito israeliano bombardava una sede diplomatica iraniana a Damasco e prendeva di mira, uccidendoli, sette cooperatori internazionali a cui aveva dato il permesso di circolare nella Striscia di Gaza. E a questa organizzazione che prende di mira i giornalisti, prende di mira i cooperatori internazionali, prende di mira i diplomatici, e non lo nega, anzi ormai lo rivendica come suo specifico diritto, noi cosa diremo? La accuseremo di terrorismo, visto che ci terrorizza? La pregheremo di non proseguire quello che un tribunale internazionale ha più volte in questi mesi definito un genocidio? Nel frattempo l'amministrazione Biden le venderà qualche altro jet di guerra di ultima generazione; armi forse un po' esagerate finché l'obiettivo è desertificare la Striscia; ma la speranza ormai evidente è che scoppi presto una guerra diretta con l'Iran; del resto se bombardi un'ambasciata non è che serva un esperto decifratore di messaggi. 

E se sembra un po' esagerato aggiungere che domani potrebbe accadere a voi, a me, a noi, a chiunque muova un dito a favore di qualcuno che Israele considera suo nemico, mettiamola semplicemente così: è già successo. L'IDF ha ucciso Saifeddin Issam Ayad Abutaha, ha ucciso Zomi Frankcom; ha ucciso Damian Sobol, Jacob Flickinger, John Chapman, Jim Henderson e James Kirby. Ha ucciso Rachel Corrie e centinaia di giornalisti: lo ha evidentemente fatto per avvertire noi e chiunque altro voglia mettere il naso nel massacro dei palestinesi, e questo avvertimento noi lo abbiamo ricevuto forte e chiaro; altrettanto forte e chiaro sentiamo la necessità di ritrasmetterlo, non per un sussulto di coraggio ma perché magari qualcuno intorno a noi non si è ancora reso conto, non si è ancora spaventato abbastanza. 

Tutto questo somiglia sempre più all'inizio di una fine. La fine di un certo diritto internazionale, come ci eravamo illusi che funzionasse perlomeno da Yalta in poi; un ordine internazionale basato sull'idea, forse illusoria, forse consolatoria – che le guerre fossero uno stato di eccezione, e che la pace fosse l'equilibrio a cui le nazioni cercavano di tendere. Che tutto ciò dovesse infrangersi, di tutti i luoghi al mondo, proprio a pochi chilometri da Gerusalemme, è un'evidenza carica di una sinistra ironia.
E allo stesso tempo tutto questo non sembra avere un vero senso storico; tutto intorno l'umanità si evolve vorticosamente, le stagioni e i paesaggi cambiano, miliardi di persone nascono e diventano adulte in un mondo che di Gerusalemme si infischia e se ne infischierà sempre più. Persino quello tra Nato e Ucraina, dal punto di vista di cinesi e indiani, è un conflitto poco più che regionale, tra vecchie superpotenze rancorose; chissà cosa ne pensano di quel vecchio contenzioso su una piccola città del Medio Oriente che si trascina ormai da duemila anni. 

Non è vero che stiamo impazzendo tutti per Gerusalemme: in primis sta succedendo agli americani, e non da ieri. Può darsi che Israele alla fine non sia che una concrezione esotica dei loro sogni, delle loro aspirazioni bibliche e messianiche; la conseguenza estrema di un certo modo di concepire la politica come prosecuzione della guerra tra comunità organizzate in gruppi di pressione. Tutto questo che a tanti anche in Europa sembrava un modello, da Tocqueville in poi (ma anche Tocqueville forse andava letto con più attenzione) a un certo punto ha prodotto Bush, ha prodotto Fox News, ha prodotto l'ultrasionismo contemporaneo, ha prodotto Trump. Può persino darsi che abbia prodotto la stessa guerra in Ucraina, che una diplomazia più saggia avrebbe potuto evitare? Non lo so. Quel che so è che è ingiusto prendersela con gli israeliani per quello che fanno, e che possono fare semplicemente perché qualcuno lo consente a loro e soltanto a loro: chi altro potrebbe sognare di prendere di mira ambasciate, volontari e giornalisti, e farla franca. Va a finire che davvero il vecchio Bob ci aveva azzeccato, con quella canzone neanche troppo ispirata: Israele è solo il bullo del quartiere. Dietro a ogni bullo – Bob questo non ce lo diceva – c'è un boss che lascia fare, finché un giorno forse si stancherà, o non si troverà invischiato in guai ben più grandi. Quel giorno, ammesso arrivi, non è stato il primo aprile.
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Tajani e il bambino nel forno

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Stavo appunto riflettendo, senza molto costrutto, sul disastro di Gaza e a cosa posso paragonarlo, per cercare di spiegarlo a me stesso e agli altri; e a come, guardando i volti rapiti dei volontari israeliani che sembrano divertirsi un mondo mentre trasformano una città in un cumulo di macerie che nessuno forse avrà più la capacità di smaltire, mi sia affiorata alle labbra la parola: Pogrom. Un improvviso sussulto di violenza, nei confronti di una minoranza percepita come ostile; dove la diffidenza secolare improvvisamente viene portata a combustione: e la scintilla è molto spesso la propaganda. 

Volantini che additano i nemici dello Zar o della Rivoluzione; leggende nere su bambini scomparsi, dati per sgozzati a scopo alimentare; uno potrebbe anche osservare che non c'era bisogno di raccontare cose del genere per sobillare gli israeliani contro Hamas; eppure le leggende sono state raccontate lo stesso, e qualche effetto lo hanno sortito. Stavo riflettendo su questo, e su quanto bisognerà insistere, in futuro, sulla nuvola di disinformazione che si abbatté su di noi nell'autunno 2023: storie incredibili e francamente poco plausibili, spacciate per vere da testate prestigiose e persone esperte e intelligenti. Ora che ormai nessuno le riprende, bisognerà ricordare che per settimane e mesi sono state ripetute con foga sempre maggiore, e hanno offerto a chi era sul campo una scusa e un'ispirazione per commettere crimini di guerra.

Sarà complicato dover riferire di leggende come quella del bambino cotto dai miliziani nel forno a micro-onde, pregando gli interlocutori di credere che è successo davvero – non che un bambino sia stato cotto dai miliziani, ma che fior di giornalisti opinionisti e ufficiali dell'esercito ci abbia voluto credere; e mentre penso a queste cose nell'altra stanza è rimasta accesa una tv, e sento il ministro Tajani spiegare a Bruno Vespa che i miliziani di Hamas hanno messo un bambino vivo nel forno. "Avrà visto le immagini". Con Vespa che risponde: lo so, lo so (qui al minuto 14). Eppure le immagini non le ha viste nessuno. Non ci sono. È una storia messa in giro dai primi soccorritori, che però non hanno mai fornito prove.

 Il poeta Refaat Alareer è stato preso di mira e ucciso, con la sua famiglia.

Ora, questo è curioso. Continuo a imbattermi in persone che sostengono di avere "visto le immagini". Su twitter più o meno un mese fa, una tizia aveva visto un miliziano estrarre il feto da una vittima sbudellata, benché l'episodio fosse stato denunciato come falso mesi prima dalla stessa stampa israeliana. Hanno filmato gli stupri! dicono. Lo hanno fatto i miliziani per vantarsi, e li hanno visti tutti. E quindi i video dove sono? Boh, però li hanno visti tutti. Viene il sospetto che qualcosa, tra sette e otto ottobre, sia stato veramente trasmesso. Immagini di repertorio, o fiction spacciata per vera a un pubblico sotto choc. Ma forse semplicemente basta saper usare le parole giuste, mentre in primo piano scorrono fotogrammi che la memoria ricombina a suo piacimento. 

Sia come sia, ormai è primavera. L'Onu ha chiesto un Cessate il Fuoco e per la prima volta gli USA si sono astenuti. Ma ancora per il nostro Ministro degli esteri, Hamas è l'organizzazione che mette i bambini nel forno. C'è un repertorio di vecchie leggende e nuove fake news che ha convinto soldati e civili della necessità di sconfiggere un nemico disumano, a ogni costo. Ora che il disastro si è compiuto, dovranno continuare a crederci, o smettere di credere in sé stessi.  La seconda opzione è più difficile e dolorosa; la prima comporta una fuga dalla realtà che non può portare molto lontano.

Un giorno potrebbero raccontare ai vostri figli che il Nemico sta stuprando e mangiando le sue vittime; e questi racconti avranno una funzione istigatrice e una funzione descrittiva. Serviranno a giustificare i crimini di guerra e offriranno qualche spunto fantastico su come commetterne. Magari Vespa non ci sarà più (anche se ormai ne dubito), ma ce ne sarà un altro. L'unico antidoto che riesco a immaginare è lo studio del passato, delle leggende e delle evidenze. E un po' di senso morale, certo.

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Ma quale antisemitismo, vergognatevi

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C'è qualcosa di osceno nel voler commentare un massacro mentre accade, in presa diretta, e questo la maggior parte delle sere mi fa desistere. Ma poi leggo che invece Molinari è andato in un'università, a spiegare le solite tre idee sciocche che frigge per i suoi committenti da venti e più anni, e ha scoperto che gli studenti non avevano così voglia di ascoltarle; anzi che lo avrebbero contestato. Ha quindi insistito per parlare comunque? per difendere in pubblico, rischiosamente, idee per cui qualcun altro sta morendo in questi giorni? No, anche perché le sue idee consistono alla fine in questo: che tocchi agli altri morire, in Ucraina e a Gaza e chissà dove domani. E quindi, dando prova di perfetta coerenza, Maurizio Molinari se l'è data a gambe, lamentandosi perché qualche decina di studenti lo contestava. In seguito abbiamo scoperto – sul giornale diretto da Molinari – che si tratta di una recrudescenza antisemita, perché Maurizio Molinari è ebreo, non lo sapevate? No, per esempio io non lo sapevo. E adesso che lo so, spero di scordarmelo alla svelta. 

Tutto questo ha passato il segno, molto tempo fa. È in corso un massacro, al bordo di un Paese a cui siamo legati da stretti rapporti diplomatici ed economici. Questo ci fa sentire in parte responsabili, se non conniventi. Se questo ci allarma, se questo ci spaventa, è semplicemente perché siamo umani. Quando qualche giornalista cerca di spiegarci che va tutto bene, che non è proprio un massacro, oppure ormai sì, è un massacro ma non c'erano alternative; quando qualche propagandista viene a spiegarci la versione dei massacratori, peraltro senza particolare abilità (non parliamo esattamente di penne di prima scelta) non abbiamo nemmeno più lo spirito di ridergli in faccia. Non per questo lo staremo ad ascoltare. Lo contesteremo, non certo per antisemitismo, ma anche solo per pietà di noi stessi e del propagandista in questione, della sua conclamata mediocrità; della povertà di spirito di chi ha pensato che fosse adatto per quell'ingrato mestiere. Dite che è ebreo? Rispondiamo che non è interessante; lo giudichiamo per le sue idee e le sue idee non sono interessanti. Dite che siamo antisemiti? Dovreste vergognarvi di impugnare una parola del genere, e di banalizzarne così tanto l'uso e il senso. 

Qualche giorno fa un accademico israeliano ha spiegato su Twitter, con chiarezza e semplicità, che secondo lui a Gaza è in atto un genocidio. Se ci fosse andato lui, alla Federico II, immagino che gli studenti lo avrebbero accolto, e discusso volentieri le sue opinioni. Non perché Lee Mordechai sia meno ebreo di Molinari, ma perché le sue opinioni sono basate su quello che è successo negli scorsi mesi e anni a Gaza e dintorni; laddove le tesi di Molinari sono gli spin sempre più inerziali di un think tank di Washington che da vent'anni provoca soltanto disastri. 

Nella Striscia sono morte già trentamila persone, di cui un terzo minori: altre moriranno di fame, per concreta responsabilità dell'esercito israeliano che occupa e bombarda il territorio. Questa per i palestinesi è una catastrofe umanitaria, e per gli israeliani una catastrofe morale da cui il Paese non si risolleverà per almeno una generazione. Almeno credo, ma di questi tempi tutto è possibile, compreso che funzioni l'operazione di maquillage messa in mano a gente come... Molinari. Ma per convincere la maggior parte degli italiani che un genocidio non c'è stato, o c'è stato ma era inevitabile, e portato a termine con la massima moralità, occorrerà un'opera di repressione e propaganda talmente capillare che onestamente non riesco a immaginarla.

Non basterà chiudere TikTok (che secondo il povero Molinari è una "tecnologia più avanzata di quella occidentale": ora davvero, ma con tutti gli intellettuali ebrei informati e intelligenti, dove l'avete pescato questo qui). Anche tutte le piattaforme sociali occidentali, compreso questa piattaforma dove sto scrivendo, dovrebbero essere sottoposta a censura; così come tutti i quotidiani, beh lì in effetti siamo a buon punto. E poi ovviamente le scuole e le università. Tutto in nome di uno strisciante antisemitismo, nel mentre che al governo c'è 'na tizia che portava le borse a Giorgio Difesadellarazza Almirante. Dovreste veramente comprare tutti quelli che hanno un prezzo e mettere a tacere gli altri, e forse cinguettando nel vostro cortile sociale vi siete convinti che la cosa sia fattibile. Io non credo sia cosa alla portata delle vostre tasche e soprattutto delle vostre capacità, ma se la guerra continua molte cose impensabili diventeranno pensabili. Nel frattempo io continuerò a spernacchiarvi, dalla mia posizione qualsiasi, vincendo la repulsione, finché potrò: dopodiché amen.

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Il nemico è un insetto

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Forse non c'è mai stato un video tanto chiaro, nel mostrarci il punto di vista dei giganti: il nemico non è che uno sciame di insetti, che qualche astrusa convenzione internazionale impedisce di schiacciare una buona volta. Sono troppi e non si arrendono, ma anche se si arrendessero sarebbero comunque troppi: non si sa dove metterli e qualcuno da fuori pretende pure di nutrirli. Ma portare aiuti ormai è impossibile, nel fazzoletto di terra che gli abbiamo lasciato sono troppo affamati, instabili, pericolosi, qualcuno dei nostri avrà pure sparato, ma non c'era alternativa. E ora coraggio, fateci pure la morale: ci siamo abituati, a espiare per tutti. 

Come se non fossimo semplicemente i primi a porsi il problema, come se un giorno non toccherà a voi inquadrare i vostri poveri dall'alto, e schiantare qualche folgore per ridurne le sofferenze. Certo che capiterà anche voi, non temete. Anzi speratelo, perché se voi o i vostri figli non saranno dalla parte giusta di questa foto, allora saranno le formichine; per cui coraggio, da che parte state? A chi sceglierà la parte giusta forniremo tutti i particolari, scritture millenarie e un corso di Storia accelerato su tutte le occasioni che noi eroicamente abbiamo colto e che i palestinesi hanno volontariamente scelto di perdere; per gli stomaci forti e le coscienze deboli c'è poi una galleria di orrori veri e presunti che potete rinfacciare a chiunque provi ancora per gli insettini qualche incomprensibile simpatia. Noi non possiamo. Qualcuno deve pure stare in alto a giudicare i poveri e i loro peccati; e abbiamo preferito essere noi. 

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Il popolo più intelligente (che fine ha fatto)

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Buongiorno, mi chiamo Leonardo e sono un determinista geografico – perlomeno nel senso che credo che la geografia determini il modo in cui stiamo al mondo. L'ho sempre pensata così, quindi all'inizio non era che un pregiudizio: ma in seguito non ho trovato che conferme. 

Ad esempio: c'era una volta, ma neanche tantissimo tempo fa, un popolo che per una lunga e complicata serie di problemi era stato costretto a spargersi per il mondo, e inevitabilmente a mescolarsi con gli altri popoli; pur conservando con una certa ostinazione i riti e le leggende di una cultura millenaria. Ebbene, è probabile che questo popolo nei secoli avesse sviluppato una caratteristica peculiare: un'intelligenza media... sopra la media. Possiamo dimostrarlo? No, ma abbiamo molti indizi: il grande numero di intellettuali di spicco, alcuni dei quali diedero letteralmente vita a intere branche della scienza e della filosofia; la quantità di personalità ascese ai livelli più alti della scena politica e finanziaria senza diritto di nascita, o anche banalmente il numero di premi Nobel conferiti. Non bastava nascere in seno a quel popolo per essere più intelligenti, ma in un qualche modo aiutava. Il perché non è chiaro, e ci dà anche un certo fastidio domandarcelo. Si ha sempre paura di fare un discorso razzista.

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Sarebbe senz'altro un discorso razzista, se considerassimo quel popolo una razza (i nazisti lo facevano); ma siccome nel frattempo abbiamo concluso che le razze non esistono, e in particolare non potrebbe esisterne una che si mescoli nei secoli con le altre che incontra sulla strada, l'ipotesi razziale è facilmente archiviata. Più difficile risulta scartare del tutto un'ipotesi genetico-evolutiva, ovvero una tendenza tipica di quella specifica cultura a premiare gli individui più intelligenti, quelli che imparavano a leggere e a calcolare con meno sforzo; magari erano considerati elementi importanti della comunità e stimolati a sposarsi tra loro e ad avere famiglie numerose; laddove in altre culture individui con le stesse predisposizioni venivano persino disincentivati a figliare, mediante l'istituzione di caste di intellettuali celibi (vedi il cattolicesimo). Un altro stimolo poteva venire dall'appartenere, ovunque nel mondo, a una minoranza quasi costantemente minacciata e angariata; il lavoro intellettuale poteva apparire ai membri di questa comunità una via di fuga dai ghetti fisici e virtuali. Probabilmente non lo sapremo mai con certezza e probabilmente è meglio così – a un dittatore distopico potrebbe venire in mente di istituire un ghetto anche solo per verificare l'ipotesi.

Va bene, direte voi, e il determinismo geografico cosa c'entra? Parliamo di uno dei popoli meno geograficamente determinati del mondo! Ecco, appunto. Erano mediamente più intelligenti, erano spesso perseguitati (forse anche per questo motivo), erano sparsi per tre e più continenti. A un certo punto qualcuno di loro ha pensato, e non sembrava una cattiva idea: ma se ce ne tornassimo tutti nello stesso posto? Non necessariamente quello da cui provenivano i nostri antenati duemila anni fa – oppure no, aspetta, tutto sommato la terra costa lì meno che altrove, andiamo proprio lì. Ecco. Che idea potente. Milioni di persone mediamente più intelligenti degli altri, concentrate nello stesso piccolo spicchio di terra. Cosa avrebbero potuto fare, cosa avrebbero potuto diventare? Una civiltà da fare impallidire l'Atene di Pericle; ebbene, dopo qualche generazione oso dire di no. 


Sarò persino più brutale. Sono andati a vivere nel deserto, sono già diventati predoni. La geografia è un destino. Lo dico senza la minima soddisfazione, perché se invece fossero riusciti a farlo fiorire davvero, quel deserto, sarebbe stata una buona notizia per tutti. Ma per farlo fiorire serve banalmente l'acqua; per avere l'acqua bisogna prenderla ai palestinesi, e il resto della storia lo sapete. Dopodiché certo, Israele continua a essere un Paese culturalmente rilevante, con università importanti e intellettuali di spicco. Sarebbe anche il minimo, coi soldi che arrivano dagli USA ogni anno. Ma se andiamo a vedere un po' più da vicino, ecco, nelle università gli studenti urlano insulti ai professori dissidenti. I grandi intellettuali hanno una certa età, i più giovani sembrano meno interessanti e più faziosi: esattamente come in Italia, ma perché avrebbe dovuto finire come in Italia?


C'erano tutte le premesse perché Israele diventasse un faro per l'occidente e il mondo; appunto, c'erano tutte le premesse tranne la geografia: si vede che la geografia è l'unica condizione necessaria. Prendi il popolo più intelligente del mondo, schiaffalo su una strisciolina di terra con poche risorse, in mezzo ad altri popoli ostili, e guarda quanto ci mette a sviluppare un nazionalismo fanatico, e a devolversi anima e corpo a un militarismo spietato. La più giovane delle nazioni occidentali a costituirsi tale è anche il più grande argomento contro il concetto di nazione. E noi che una volta ci misuravamo con scrittori e intellettuali di straordinario acume, ci ritroviamo a leggere il fondo di una tale Dina Porat, "consulente accademica del centro Vad Yashem e professoressa emerita dell'università di Tel Aviv". 

Parliamo di un temino sconfortante, che in futuro magari sarà usato come pietra di paragone per stabilire la degenerazione dell'intelligenza media nel Ventunesimo secolo, probabilmente a causa della concentrazione di polveri sottili. Attenzione, non sto dicendo che la professoressa sia stupida – mai mi permetterei, non la conosco – ma è decisamente stupido il discorso che sceglie di fare: tarato per lettori incapaci di discorsi complessi, che poi saremmo noi che lo leggiamo. La professoressa ci spiega per prima cosa che la mentalità israeliana è per sua natura occidentale. A riprova di ciò cita... niente, assolutamente niente, l'occidentalità degli israeliani è autoevidente, eventuali prove ci affaticherebbero. Il fatto che gli israeliani stiano combattendo una lotta tribale contro altre fazioni tribali, a dispetto di ogni logica strategica ed economica, non deve distrarci. Se anche si stanno facendo terra bruciata intorno, lo fanno con una mentalità occidentale che "pensa seguendo linee logiche, calcola le proprie mosse in base al profitto e mira al benessere di cittadini e nazioni", capito? Noi occidentali siamo così, il romanticismo lo avrà elaborato qualche altra cultura. "La mentalità occidentale, e quella cristiana in particolare, ritiene che gli esseri umani siano fondamentalmente onesti..." No, aspetta.

Chiedo al lettore, se è arrivato fin qui, un piccolo sforzo. Chiuda gli occhi. Pensi a Lutero. Ad Agostino di Ippona. A Paolo di Tarso. E poi rilegga.

La mentalità occidentale, e quella cristiana in particolare, ritiene che gli esseri umani siano fondamentalmente onesti.

Per scrivere qualcosa del genere (e per pubblicarlo sul quotidiano che un tempo era Repubblica), bisogna essere o molto in buona fede, o molto in malafede. Non sta a me determinarlo, ma o la professoressa Porat ignora completamente il pensiero cristiano – il che denoterebbe un tragico abbassamento degli standard qualitativi delle istituzioni accademiche che rappresenta – oppure pensa che ce la beviamo, in fondo figurati se li studiamo davvero, quei Luteri e quegli Agostini.

Ci sta blandendo, proprio come un accorto mercante beduino blandisce il cliente frescone. Ed eccoci davanti al paradosso del bugiardo: se la prof.sa Porat ci sta prendendo in giro, non è "fondamentalmente onesta", e quindi non è così occidentale come vorrebbe sembrare, anzi starebbe facendo prova di astuzia levantina... oppure no, è perfettamente occidentale, tranne che la cultura occidentale non è così logica e consequenziale come lei sostiene che sia: magari mira davvero al "benessere di cittadini e nazioni", ma nel farlo non si preoccupa di dire bugie e causare il malessere di altri cittadini, altre nazioni. Non saprei. Mi sembra tutto così avvilente. Forse la Fallaci era scesa così in basso, ma era anziana, era malata ed era il Corriere, ventidue anni fa. Da tanti errori dovremmo avere capito qualcosa e invece no, siamo ancora allo stereotipo dell'occidentale onesto che non capisce il beduino astuto e malvagio. Tranne che anche questa propaganda di basso livello intellettuale cosa ormai l'abbiamo delocalizzata, la facciamo scrivere direttamente ai beduini.  

Quando i leader e gli opinion maker israeliani e occidentali pensano all'Islam e ai musulmani lo fanno sulla base del proprio modo di pensare e delle proprie convinzioni, e non su una profonda e attenta conoscenza della mentalità e delle convinzioni dei musulmani. Credono ciò che vorrebbero fosse vero. Questo è il motivo per cui di fronte ai fatti del sette ottobre Israele si è trovata impreparata...

Ah, ecco, questo è il motivo. Pensi che ingenui, professoressa; noi credevamo che il governo israeliano si fosse trovato impreparato perché incompetente, assorbito dalle beghe interne, e non del tutto ostile all'eventualità che qualche miliziano producesse un casus belli prima delle elezioni USA del 2024. Mentre invece ora è tutto chiaro: non se l'aspettavano perché erano occidentali, cioè un po' cristiani, cioè un po' ingenui, incapaci di concepire la malvagità del nemico. Inoltre la terza guerra mondiale è in pratica già scoppiata, perché Hamas è un emissario dell'Iran, che "ha stretto un'alleanza con Russia e Cina. I tre Paesi sono ferventemente anti-americani e anti-occidentali, e quindi ostili ad Israele e agli ebrei". Quante volte ci è capitato di dircelo in questi anni: chi aspetta i barbari, molto spesso non sa di esserlo. La professoressa è convinta di fare un discorso "occidentale": razionale, cartesiano, utilitaristico. Laddove sotto una paginetta del genere l'Occidente è morto, o quantomeno riavvolto fino al secolo XI: qualcuno dal balcone ci sta chiamando alle crociate, i cristiani sono buoni e i mori sono cattivi. Certo che questi discorsi si leggevano anche vent'anni fa. Su Libero, sul Giornale. Oggi arrivano su Repubblica, e infiammano quel che resta di una borghesia che, nello spicchio che intravedo da Twitter, mi sembra completamente sconvolta dagli eventi: hanno investito molta emotività su fronti che non stanno reggendo. L'Ucraina è un baluardo dell'Occidente – salvo che il fronte cede; Israele è un baluardo dell'Occidente – peccato che stia commettendo crimini contro l'umanità. Ormai vedo professori cattedratici buttarsi su Milei, il quale per quel che ci è dato da capire ha una concezione dell'economia tanto facilona quanto facilone è l'approccio della Porat al conflitto israelopalestinese. Stiamo diventando tutti scemi? Sono le polveri sottili? O la semplificazione intellettuale e linguistica è quel che avviene quando comincia una guerra, e la guerra è appunto già cominciata?


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Lost in Ratio: Proportional Thinking and the Gaza Catastrophe

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(This should be the English translation of this post. Unfortunately, after so many years, my English still doesn't fit my thoughts, so please be indulgent).

Israel is a complex phenomenon that we shouldn't try to summarize with simplistic definitions. No doubt about it. But those who argue that it is also an out-of-control sociological experiment have been provided with an important evidence in the last few days: the latest statement from the Israeli embassy to the Holy See.


Why does the Israeli government communicate in such a disastrous way? Here, in a thin A4 sheet of paper, we have a display of arrogance and an admission of guilt. "We must consider the big picture", they say. OK. Those who said the same thing after October 7th were called anti-semitic, but now of course it's different. So what's the big picture here? Looks like we should consider that for every militant "killed", only three civilians "lost their lives". Only three civilians out of four, yes, they're really claiming something like that. They don't even seem to expect that the interlocutor could react by asking: who caused these three civilians to "lose" their "lives"? The most immediate explanation is that they are used to interlocutors who never ask them these questions: by constantly rejecting any criticism as anti-semitic thoughtcrime, they have slipped into a self-referential bubble where no one would dare accuse them of killing civilians. But it's not just that.

To be truly convincing, you must believe in what you say, and this is usually one of the flaws underlying every regime based on propaganda: at some point, friction with reality becomes explosive. Whoever wrote that statement seems to believe that three civilian victims for every combatant is a success, something to be proud of. The Israel Defence Force is and will always be the most moral army in the world, and this should be proven by the fact that in wars fought by NATO in recent years, the ratio was higher, 1 to 9 or 1 to 10. How they managed to extract these numbers, I don't know, I took a look at the data for Iraq and it's a huge mess. Here I'll take them for granted because I'm not interested in debunking propaganda; I'm interested in understanding what they're thinking because it's the way they think that has led them to the catastrophe of these days.

My hypothesis is that Israeli government officials are so used to communicate ratios that they no longer understand absolute values. This leads to a culture shock, as absolute values are the only interesting data for the rest of the world. The rest of the world realizes that thirty thousand deaths in three months is an immense figure, unparalleled for a contemporary war (and there are many very close and very violent ones). How do Israeli government officials respond? They don't even try to correct the absolute value (thirty thousand). Instead, they provide a ratio (one militant out of four victims). How the rest of the world is supposed to react? Someone does the math and deduces that the IDF is accusing itself of having eliminated 22,500 civilians. It's still an enormous number, especially from a government defending itself in The Hague against a charge of genocide. Whoever wrote the statement didn't probably think that anyone would divide thirty thousand by four and then multiply by three. He was only thinking about the fractional number: three out of four, come on, it's not bad. In other wars it went worse, why do you even look at us?

Why so much emphasis on the ratio? Well, it certainly looks better than the absolute value. But to think that the rest of the world would buy into this, Israeli government officials must have bought into it first and for a long time. If we now take a look at how they communicated in the last 20 or 30 years, we realize that the habit of turning every absolute value into a ratio between different quantities is practically mandatory for them. Twenty years ago, during the so-called Second Intifada, I called it the Kissinger equation, except it's not exactly an equation (and I'm not exactly a mathematician). I called it that because at some point the former US diplomat, trying to explain the Israeli point of view, turned an already significant figure of victims (50 victims of suicide bombings) into something much more dramatic: he said that the suicide bombers had killed "the equivalent of 2500" US victims.

How did Kissinger get this figure? With a ratio. 50 Israeli victims stood to the total of Israeli Jews as 2500 victims stood to the total of US citizens. It's not that it didn't make sense. The sense was also to make it clear how serious a figure (50 civilian deaths) could be, which in the vast USA may seem almost routine. No, those 50 deaths were a lot because Israel is very small. Here, perhaps, we are at the heart of the whole problem.

Israel is very small. The disproportion between its size and its military and economic power (and its cultural and diplomatic influence) is something unseen since the times of the Greek city-states. Perhaps the catastrophe stems from here: the West is trying to save a too small outpost in every way; it cannot begin to give up pieces of it (it is already too small!), or let an enemy occupy strategic positions on the heights or the coast. But geography is a destiny: if a region is too small, and surrounded by potential enemies, it doesn't matter how many resources and settlers you can pour on it; one day it will simply cost too much.

Another immense disproportion is between Israel's smallness and the huge attention it receives from the world. To maintain this attention, to justify it, to alleviate the impression that half the world is fighting over an irrelevant strip of land, Israeli communicators have very quickly become accustomed to turning every number ratios by the Kissinger equation. I could cite endless examples, but I'm lazy. This is a slide published by IDF in 2014. 


Even in 2014 Gaza war, Palestinian deaths were more or less thirty times those of Israelis, but this was not the ratio that IDF wanted to share with us. The Israeli Force was keen to point out to us that the situation, although as usual confined to an area roughly the size of one of the 20 Italian regions, was extremely serious: the equivalent of carpet bombing over more than two-thirds of the peninsula. It's just propaganda, of course.

Or maybe not. In the eternal debate between those who think that language shapes thought and those who believe that thought shapes language, I wonder if some philospher wasn't right when he suggested that language and thought eat each other's tails infinitely. I'm not sure what philospher was and if he really said that. However, it seems to me a powerful idea: man has a thought, to express it he invents a language, and yet language leads him to think in certain ways and not others, which leads him to speak in certain ways and not others, until this thought/language leads him to collide with a reality that no longer corresponds to his thoughts or his words. Many empires have crashed on this problem.

The Kissinger equation, in the way Mr Kissinger applied it, didn't sound so eccentric. The problem is when you're not just communicating like this, but you start to think like this. Behind that ratio (one dead Israeli is worth 50 dead Americans) lies an axiom of chilling nationalism: every country recognized by the international community would be worth the same amount. Just as we are used from middle school to divide the GDP by the number of inhabitants, perhaps we should also divide the victims of wars and terrorism. As once I pointed out, this would make the injury of a citizen of the Republic of San Marino a crime against humanity. I was obviously joking. But whoever wrote that statement is serious. 

For him, the absolute number is not of great value. It needs to be contextualized – i.e., introduce a ratio between quantities that shows that other wars have had more victims. Even during the Iraqi War it took years and years of fighting in more cities to put together a similar number of civilian casualties. What happened in the last three months, however, is extraordinarily circumscribed, both in time and space. This is a strong argument for those who speak of attempted genocide. And yet Israeli government officials don't seem to understand it. It's possible that they are simply hiding behind the numbers. That would be the most optimistic hypothesis. I have another one: they consider Israel a state at risk of extinction. Any number of collateral victims would ultimately be irrelevant because the essential thing is the survival of Israel: without which perhaps the world would perish. Assuming that the world matters something to Netanyahu: let's hope so, or let's hope for his successors.

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Il pensiero proporzionale e la catastrofe di Gaza

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Al Jazeera

Israele è senza dubbio tante cose. Ma chi sostiene che si tratti anche di un esperimento sociologico fuori controllo, nelle ultime ore ha potuto mettere a verbale una prova importante: l'ultimo comunicato dell'ambasciata alla Santa Sede. 

Perché il governo israeliano comunica in un modo così disastroso? Qui abbiamo, in un esile foglio A4, un'esibizione di arroganza e un'ammissione di colpevolezza. A chi in questi giorni ha criticato me e altri perché prendevo per buono il bodycount delle autorità di Gaza (ovvero di Hamas), non posso che segnalare che il governo israeliano quei numeri già da tempo li ha accettati. Anche in questo comunicato non li nega. Oserei dire che li rivendica, ma lasciamo perdere quel che penso io. Cerchiamo di capire cosa pensano loro. 

Bisogna considerare il quadro generale, dicono. Senz'altro. (A chi diceva la stessa cosa il 7 ottobre davano dell'antisemita senza troppi complimenti: ma prendiamolo per un progresso). Per ogni militante ucciso, hanno perso la vita tre civili, spiegano; dando per scontato che l'interlocutore non reagirà immediatamente chiedendo: ma chi gliel'ha fatta "perdere", la "vita", ai tre civili? La spiegazione più immediata è che sono abituati a interlocutori che queste domande non gliele fanno mai: a furia di respingere ogni critica come psicoreato antisemita, si sono lasciati cullare in una bolla autoreferenziale dove nessuno oserebbe accusarli di uccidere i civili. Ma non è soltanto questo. 

Per essere davvero convincenti, bisogna credere in quello che si dice e questo è di solito uno dei difetti alla base di ogni regime basato sulla propaganda: a un certo punto l'attrito con la realtà diventa deflagrante. Chi ha scritto questa cosa, ritiene davvero che tre vittime civili per ogni vittima combattente sia un successo, una cosa da rivendicare a testa alta: siamo l'esercito più morale del mondo, lo prova il fatto che nelle guerre combattute dalla Nato negli ultimi anni il rapporto era più alto, 1 a 9 o 1 a 10. Come siano riusciti a estrarre questi numeri non lo so, ho dato un'occhiata ai dati per l'Iraq ed è un ginepraio immenso. Qui li prenderò per buoni, perché non m'interessa debunkare la propaganda; mi interessa capire cosa stanno pensando, perché è il modo in cui pensano che li ha portati alla catastrofe di questi giorni. 

L'ipotesi è che i governativi israeliani siano talmente abituati a usare indici relativi, da non comprendere più gli indici assoluti. Che invece sono quelli che interessano al resto del mondo. Il resto del mondo a un certo punto si rende conto che trentamila morti in tre mesi è una cifra immensa, senza paragoni per una guerra contemporanea (e ce ne sono di molto vicine e molto violente). Come rispondono i governativi israeliani? Non si sognano neanche di correggere il numero assoluto (trentamila). Forniscono invece un indice relativo (un militante su quattro vittime). A questo punto il resto del mondo rimane sbigottito: qualcuno fa l'operazione e deduce che l'IDF si stia autoaccusando di avere eliminato 22.500 civili. Continua a essere un numero enorme: da parte poi di un governo che si sta difendendo all'Aja da un'accusa di genocidio. Ma probabilmente chi ha scritto il comunicato non pensava davvero che qualcuno avrebbe diviso trentamila per quattro e poi moltiplicato per tre. Chi ha scritto il comunicato pensava soltanto al numero frazionario: tre su quattro, dai, non è male, in altre guerre è andata peggio. 

Perché tanta enfasi sul numero frazionario? Beh, senz'altro si presenta meglio del valore assoluto. Ma per pensare che il resto del mondo si beva questa cosa, i governativi israeliani se la devono essere bevuta per primi e molto a lungo. Se ora diamo un'occhiata a come hanno comunicato negli ultimi 20 e 30 anni, ci rendiamo conto che l'abitudine a trasformare ogni valore assoluto in un rapporto tra grandezze diverse è per loro un passaggio praticamente obbligato. Vent'anni fa, durante la cosiddetta Seconda Intifada, la chiamavo equazione Kissinger, salvo che non è esattamente un'equazione (e io non sono esattamente un matematico). La chiamavo così perché a un certo punto l'ex diplomatico statunitense, per cercare di spiegare il punto di vista degli israeliani, trasformava una cifra di vittime già importante (50 vittime di attentati suicidi) in qualcosa di estremamente più drammatico: 2500 vittime statunitensi "equivalenti").

Come faceva Kissinger a ottenere questa cifra? Con un rapporto. 50 vittime israeliane stavano al totale degli ebrei israeliani come 2500 vittime stavano al totale dei cittadini USA. Ora, non è che la cosa non avesse un senso. Il senso era anche quello di far capire quanto poteva essere grave un dato (50 morti civili) che negli sterminati USA può sembrare quasi di routine. No, quei 50 morti sono tantissimi, perché Israele è molto piccolo. Ecco, siamo forse al nodo di tutto il problema.

Israele è molto piccolo. La sproporzione tra la sua grandezza e la sua potenza militare ed economica (e la sua influenza culturale e diplomatica) è qualcosa di mai visto dai tempi delle polis greche e forse nemmeno a quei tempi. Forse la catastrofe nasce da qui: l'occidente sta cercando di salvare in tutti i modi un avamposto troppo piccolo; né può cominciare a cederne dei pezzi (è già troppo piccolo!), o lasciare che un nemico occupi posizioni strategiche sulle alture e sulla costa. E però la geografia non perdona: puoi rovesciare risorse e coloni, ma una regione troppo piccola sarà sempre troppo difficile da difendere. 


Un'altra sproporzione immensa è tra la piccolezza di Israele e l'enorme attenzione che riceve dal mondo. Per mantenere questa attenzione, per giustificarla, per alleviare l'impressione che mezzo mondo stia litigando per una irrilevante strisciolina di terreno, i comunicatori israeliani si sono molto presto abituati a trasformare ogni numero con l'equazione Kissinger. Potrei citare infiniti esempi, ma non ho tanto tempo. Questa è una slide del 2014, credo che l'operazione si chiamasse Margine di Protezione. Anche in quel caso i morti palestinesi furono più o meno dieci volte quelli israeliani, ma non era questo l'indice relativo che interessava al governo israeliano. Il governo israeliano ci teneva a farci presente che la situazione, per quanto come al solito circoscritta in un territorio grande più o meno come l'Emilia-Romagna, era gravissima: l'equivalente di un bombardamento a tappeto su più di due terzi della penisola. È solo propaganda, certo. 

Oppure forse no. Nell'eterno dibattito tra chi pensa che il linguaggio formi il pensiero e chi ritiene che il pensiero formi il linguaggio, io mi domando se per caso non avesse ragione Charles Sanders Peirce quando suggeriva che le due cose si mangino la coda all'infinito. Lui a dire il vero non si esprimeva così. Non sono nemmeno sicuro che lo abbia mai detto davvero. È possibilissimo che sia io ad aver capito male, in effetti per essere un pragmatista era piuttosto incomprensibile. Mi sembra comunque un'idea potente: l'uomo ha un pensiero, per esprimerlo inventa un linguaggio, e però il linguaggio lo porta a pensare in determinati modi e non altri, il che lo porta a parlare in determinati modi e non altri, finché questo pensiero/linguaggio non lo porta a sbattere contro una realtà che non corrisponde più né ai suoi pensieri né alle sue parole. Molti imperi sono andati a sbattere contro realtà simili. 

L'equazione Kissinger, nel modo in cui la applicava l'omonimo ex diplomatico, non suonava nemmeno così eccentrica: era un banale rapporto, tipico del linguaggio giornalistico americano che ama istituire rapporti tra oggetti lontani e domestici, ad esempio misurare la distanza tra un pianeta e il sole in campi da football. Il problema è quando, oltre a comunicare così, si comincia a pensare così. Perché dietro a quel pensiero (un morto israeliano vale 50 morti USA) c'è un assioma di un nazionalismo agghiacciante: ogni Paese riconosciuto dalla comunità internazionale varrebbe la stessa quantità, diciamo 1. Così come siamo abituati sin dalla scuola media a dividere il PIL per il numero di abitanti, così dovremmo forse dividere le vittime di guerre e terrorismo. Come facevo notare, questo avrebbe reso il ferimento di un cittadino della Repubblica di San Marino un crimine contro l'umanità. Stavo ovviamente scherzando. Ma chi ha scritto quel comunicato è serio. Per lui il numero assoluto non ha un grande valore. Occorre contestualizzare – ovvero introdurre un rapporto tra grandezze che dimostri che altre guerre hanno avuto più vittime. A dire il vero persino durante la guerra in Iraq, per mettere assieme una quantità simile di vittime civili, servono anni e anni di combattimenti in più città. Quello che è successo negli ultimi tre mesi è invece straordinariamente circoscritto, sia nel tempo sia nello spazio. Questo è un grande argomento a favore di chi parla di tentato genocidio, ma i governativi israeliani non sembrano capirlo. Può darsi che si stiano semplicemente nascondendo dietro ai numeri. Sarebbe l'ipotesi più ottimista. La mia è che ritengano Israele uno Stato in perenne via di estinzione. Qualsiasi numero di vittime collaterali alla fine sarebbe irrilevante, perché l'essenziale è la sopravvivenza di Israele: senza la quale perirebbe forse il mondo. Ammesso che del mondo interessi qualcosa a Netanyhau: speriamo di sì, o speriamo nei suoi successori. 

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Questo non è fascismo (non è abbastanza serio)

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Nel 1938 l'editore italiano di origine ebraica Angelo Fortunato Formiggini decise di protestare contro le leggi razziali nel modo più spettacolare, lanciandosi dalla Ghirlandina (la torre del duomo di Modena). Si dice che prima di lanciarsi avrebbe urlato "Italia" tre volte. Si dice: ma per un po' se ne dovette parlare sottovoce. I giornali non riportarono il fatto. Sotto il fascismo andava così.

Continuo a essere convinto che ogni volta che paragoniamo una situazione qualsiasi al nazismo (e al fascismo), noi esprimiamo per prima cosa la nostra scarsa fantasia. Il '900 è la nuova Bibbia, ci ha dato le parole che parliamo e i concetti che pensiamo, e non riusciamo a uscirne. Tra l'altro è un secolo di orrori, che fa impallidire quelli della Bibbia vera. Per esempio, chi paragona quel che è successo in Rai questi giorni a quello che sarebbe successo sotto il nazismo (o il fascismo), manca clamorosamente il punto. In un regime davvero nazista un cantante come Ghali... non sarebbe nemmeno nato, ma ipotizziamo che un Ghali relativamente biondo avesse detto davanti ai microfoni del Festival della Canzone Nazista "Stop al genocidio": come avrebbe reagito a quel punto un regime seriamente nazista?

Non avrebbe reagito.

Nessuno avrebbe risposto niente.

Avrebbe dato alla vicenda la minore importanza possibile. Meno se ne parla, meglio è.

 
Chi era davanti alla tv in quel momento (non moltissimi gli svegli) ne avrebbero parlato un po', nei giorni successivi, ma non così tanto, anche perché in sé la frase non dice molto: stop al genocidio, e ci mancherebbe, chi sarebbe mai favorevole a un genocidio? Nemmeno chi lo commette, di solito, sostiene di esserlo. E poi di che genocidio si tratterebbe? Alla radio ogni tanto parlano di un genocidio da qualche parte in Cina – gli uiguri? O forse in Congo, meno male che il nostro beniamino Ghali Biondo ci ricorda che esistono anche questi lontani scenari di guerra. Bravo Ghali Biondo, e sarebbe finita lì.

L'Eiar funzionava così. L'Eiar non improvvisava. Se avete dato un'occhiata a qualche cinegiornale Luce, sapete che non avevano nessuna remora a parlare di crimini di guerra. Purché fossero crimini imputabili agli inglesi, o ai sovietici.  

Invece nel nostro Paese, che chiamare fascista è offensivo (forse a questo punto è anche offensivo nei confronti del fascismo), un cantante ha cantato che non gli sembra giusto bombardare gli ospedali... e nel giro di poche ore il presidente di una importante comunità aveva scritto un comunicato in cui definiva inaccettabile, giuro, inaccettabile, il fatto che una canzone stigmatizzasse gli ospedali bombardati. Dal che cosa dobbiamo dedurre: che la comunità in questione è favorevole a bombardare ospedali? O piuttosto che il loro rappresentante non li sta rappresentando al meglio?

I cantanti di mestiere vendono canzoni, e se un po' di polemica li può aiutare, troppa rischia di essere controproducente per cui lo stesso Ghali, lo stesso Ghali! ha immediatamente tentato di stemperare la questione, dichiarando di avere scritto quel verso prima del 7 ottobre. E la sera successiva si è limitato ad aggiungere "Stop genocidio". Nient'altro.

Ed è scoppiata una crisi diplomatica.
Per Ghali. 
L'indimenticabile interprete di "Chi se ne frega dei tuoi ma, dei tuoi se, dei tuoi bla-bla".
Ghali. 

Se la situazione non fosse tragica, sarebbe persino divertente, perché davvero, non si è mai vista a memoria d'uomo una coda di paglia tanto grande, tanto in fiamme. Ghali ha detto "Stop genocidio", e il giorno dopo l'ambasciatore israeliano ha sentito la necessità di rispondergli, trasformando un cantante famoso tra i ragazzini nel nuovo punto di riferimento del pacifismo italiano. Merlo lo ha già definito antisemita, e come ti sbagli? Un'AI sarebbe stata meno prevedibile, magari Merlo ormai adopera l'AI, oppure l'AI adopera Merlo. Costretto da cotanti interlocutori a ritornare sull'argomento a Domenica In, Ghali non ha detto molto di più, ma tanto è bastato per costringere Mara Venier a leggere un comunicato della direzione, e se credete che tutto questo sia il fascismo avete una strana idea del fascismo. Questo è il risultato di un sistema mediatico che invece di troncare e sopire ogni dissenso, lo stimola e amplifica finché non diventa una crisi diplomatica. Questo è anche il disastro comunicativo che si verifica quando qualcuno che crede di avere ben saldo il controllo della narrativa scopre che non è così: un cantante qualsiasi ha notato che il re è nudo e non c'è più niente che si può fare. 

Ovvero no: si può continuare a sfilare nudi, portando a casa almeno un po' di coerenza e decenza, come il re della favola di Andersen. Invece il re che abbiamo visto all'opera in questi giorni sta passando il tempo a strepitare sui giornali e sui social che lui non è nudooooooo! basta dire che sono nudoooooo! Questo è un vestito finissimooooooo, posso mostrarvi le fatture dei sarti di fama mondiale, voi non lo vedete perché siete incompetenti. Saremo anche incompetenti, ma la sentenza preliminare della Corte di Giustizia Internazionale dell'Aja l'abbiamo letta; c'è scritto che i rischi di genocidio erano concreti e che Israele doveva prevenirli. Questo, alcune settimane fa: dopodiché il governo israeliano ha intimato ai profughi palestinesi di raggiungere Rafah, e ora sta bombardando Rafah. Un'altra cosa che il governo ha fatto è cercare di screditare l'UNRWA, che aveva fornito gran parte delle prove ammesse alla Corte. Ma per ora nessuna accusa è stata provata. 

Ora vi prego di seguirmi: se Israele, che doveva prevenire un genocidio, non lo sta facendo, e anzi sta distruggendo archivi e cimiteri – i segni della secolare presenza palestinese a Gaza – premendo la striscia come un tubetto di dentifricio sul varco di Rafah, si sbaglierà più di tanto Ghali a dire "Stop genocidio"? Che non vuol nemmeno dire che il genocidio ci sia già stato. Vuol dire che il rischio c'è, perdio, siamo a trentamila morti, due terzi civili, se avete paura a usare la parola in questo momento, per quale motivo al mondo abbiamo perso tempo a insegnarvela? Lo capite che tutta la Storia che avete studiato serviva a evitare di ritrovarvi qui, ora, di fronte a una catastrofe, con gli occhi chiusi per non vedere, e la bocca piena di se, di ma, di bla-bla, per non sentire?  

No, non solo Ghali non sbaglia, ma non dice niente di eccezionale. Quel che dice diventa eccezionale perché nessuno professionista ha il coraggio di dirlo. Ghali e Dargen D'Amico – quanto dev'essere frustrante passare anni e risorse a piazzare un po' di gente in tutto il sistema mediatico e politico, a blandire e minacciare, per poi scoprire che la gente dà retta a un tizio vestito da scemo che cantava Fottitene e balla? Di chi è esattamente la colpa, se Ghali e Dargen D'Amico sono più informati e attendibili della Repubblica e del Corriere? Quanto può essere ridicolo un Molinari che non pubblica l'intervista a Ghali finché non prende le distanze da Hamas, come se i lettori fossero più interessati alle lezioni di Molinari che alle parole di Ghali? Diteci ancora una volta, coraggio, che i giornali stanno sul mercato perché danno alla gente quello che vuole leggere.  

Come ha notato per esempio Anna Momigliano su Haaretz, in Italia di Gaza non si stava parlando molto, prima di Sanremo. E Ghali non ne stava praticamente parlando, prima che i filoisraeliani non lo stimolassero in tal senso. Convinti di avere dalla loro parte una cassa di risonanza che non funziona, anzi li stordisce, li convince di avere il polso di un pubblico che semplicemente non li conosce. Se sulla Repubblica non esce un'intervista a Ghali, non è certo un danno per Ghali. Sarebbe un danno per Repubblica, se non avesse chiuso, qualche anno fa.
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Per favore, Angelina Mango, rinuncia all'Eurovision Song Contest

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Cara Angelina Mango

per prima cosa, complimenti: hai vinto il festival della canzone italiana, al termine di una delle edizioni più seguite e più combattute. Con la tua vittoria hai probabilmente scritto una pagina della storia della musica italiana, e tante altre frasi fatte che potrei scriverti, prima di passare al dunque. Perché alla fine, se ti scrivo, è soltanto perché devo chiederti un favore. Molto grande.

Cara Angelina Mango, 

in quanto vincitrice del festival, hai il diritto di partecipare all'Eurovision Song Contest. Immagino che si tratti di un'occasione non piccola per far conoscere il tuo brano e la tua bravura anche all'estero. Ecco il motivo per cui ti scrivo. 

Devo chiederti di non partecipare: di boicottare l'Eurovision Song Contest. 

Sì, lo so, non sono cose da chiedere a un'artista.  

Ma non so a chi altro rivolgermi, sono abbastanza disperato. Proprio in questi giorni in cui tu hai avuto altre cose cui pensare, il governo israeliano ha chiesto ai civili palestinesi di evacuare Rafah, perché deve smantellare le basi di Hamas che a quanto pare adesso si troverebbero lì – è tre mesi che le cerca, devastando la Striscia nel processo. In queste ore l'esercito israeliano sta già bombardando Rafah. I civili dovrebbero andarsene, ma c'è un problema: Rafah è l'ultima città della Striscia. La gente che tre mesi fa ha accolto un simile invito ad andarsene da Gaza, è scappata più a sud, a Khan Younis – salvo che gli israeliani hanno bombardato e occupato anche Khan Younis, invitando la popolazione ad andare ancora più a sud, appunto a Rafah. Più a sud di così non possono andare, c'è solo il confine egiziano, che rimane chiuso. Ci sono centinaia di migliaia di civili in trappola, a Rafah. Negli ultimi tre mesi ne sono morti più di 25.000, uccisi dalle bombe e dai fucili dell'esercito israeliano. Più di un terzo erano minori. Sono numeri che il governo israeliano non contesta. È chiaro che tu non hai nessuna responsabilità di tutto questo.

Però all'Eurovision gareggerai contro gli artisti di altri Paesi, tra cui Israele, che ha già ufficialmente presentato la cantante che difenderà i suoi colori. Ora, parliamoci chiaro: l'Eurovision è una baracconata al quadrato, che moltiplica due cose che sono già baracconate in sé: le competizioni tra canzoni e le competizioni per nazioni. Tu ci vai a promuovere la tua canzone, non a difendere l'Italia; e allo stesso modo la tua collega non andrà a difendere Israele, né a rappresentare le decisioni del governo o i bombardamenti dell'esercito. E però ci andrà. Come se non stesse succedendo niente. 

Questa cosa, perdonami, la trovo insopportabile. Non è vero che non sta succedendo niente. Due anni fa, come sai, la Russia è stata esclusa dall'Eurovision in seguito all'invasione dell'Ucraina. I rappresentanti di diverse nazioni (non l'Italia) avevano annunciato che se la Russia restava in gara, loro non avrebbero partecipato. A tutti gli osservatori non filorussi sembrò una decisione ragionevole, un modo per dare un segnale al governo e alla popolazione russa: non possiamo tollerare un'invasione a poche centinaia di km da casa nostra, non possiamo giocare assieme a votare il cantante mentre c'è chi bombarda e uccide. Ecco. Due anni dopo il messaggio che rischia di passare è l'opposto: che il governo israeliano può fare quello che vuole senza che nessuno, almeno in Europa, si opponga. E cosa vuole fare il governo israeliano?

Youtube

C'è una sentenza provvisoria della Corte di Giustizia Internazionale dell'Aja che lo mette nero su bianco: Israele deve prevenire qualunque atto che possa essere ricondotto a genocidio. Il che significa quanto meno che il rischio di genocidio c'è. Dopo averla recintata e isolata dal mondo per decenni, l'esercito israeliano sta distruggendo la Striscia. I soldati stanno uccidendo migliaia di palestinesi, cercando di forzarne l'esodo in Egitto. Ufficialmente lo fanno per eliminare i guerriglieri di Hamas e ritrovare gli ostaggi, ma non sembra che stia funzionando. Inoltre compiono azioni che non sembrano avere molto a che fare con l'antiguerriglia. Ad esempio, distruggono gli archivi. e smantellano i cimiteri. Per quale motivo al mondo un esercito in guerra può perdere tempo a eliminare tombe e documenti? Mi viene in mente un solo motivo: cancellare la storia degli abitanti di Gaza, impedire che in futuro qualcuno possa dimostrare l'entità di quello che è successo. Ma come (potresti obiettare), sappiamo bene cosa sta succedendo: ci sono i giornalisti sul posto. Ormai non più, dall'inizio della crisi ne sono morti più di cento, sotto i bombardamenti o colpiti da armi da fuoco. È un numero assolutamente eccezionale, per un teatro di guerra così circoscritto. Sembra proprio che i giornalisti siano presi di mira dai militari israeliani. 

È come se in gioco non ci fosse soltanto la vita di centinaia di migliaia di persone (il che già basterebbe) ma la nostra oggettività. Israele è un Paese nostro amico, e quindi può riscrivere la sua storia a piacimento, e noi dobbiamo far fingere che sia tutto ok, che un tentativo di genocidio sia semplicemente un'operazione antiterroristica. Dobbiamo continuare a raccontarci questa cosa finché non cominceremo a crederci. Scrivere nei nostri libri che i palestinesi erano una sparuta minoranza che a un certo punto si è dileguata per cause naturali, e poi farli leggere ai nostri figli finché non si convinceranno che sia andata così. Questa normalizzazione comincia oggi, quando un tuo collega dice "stop genocidio" e la Rai taglia la frase dal video dell'esibizione; quando si parla dell'Eurovision e diamo tutti per scontato che ci saremo noi e ci sarà anche Israele.

Cara Angelina Mango, il giorno del tuo trionfo a Sanremo ha coinciso con il giorno del ricordo dei massacri delle foibe, forse hai sentito a un certo punto Amadeus che ne parlava. Si tratta di un episodio storico molto controverso; ti basti pensare che su wikipedia le stime dei morti infoibati oscillano tra le tre e le undici migliaia. Anche volendo prendere il numero più alto, si tratta di un massacro inferiore a quello che è avvenuto a Gaza negli ultimi mesi. Da cui la solita domanda: a cosa serve ricordare un episodio di 80 anni fa, se non a impedire che cose simili succedano? E se lasciamo che cose simili succedano senza opporre nemmeno la nostra coscienza, a che ci serve ricordare episodi di 80 anni fa?

Cara Angelina Mango,

probabilmente sto sbagliando tutto. Il conteggio dei morti non è mai un argomento efficace. La fantasia umana ha dei limiti oltre ai quali non riesce più a concepire l'orrore: tremila, trentamila, non fa nessuna differenza. Per questo motivo i comunicatori più abili di solito si concentrano sui casi singoli. Forse avrei dovuto parlarti semplicemente di Hind Rajab, la bambina di sei anni che è sopravvissuta per qualche ora al bombardamento che aveva ucciso la sua famiglia. Stavano scappando da Gaza in automobile, quando è stata presa di mira. La cugina quindicenne è riuscita a chiamato la Mezzaluna Rossa prima di morire. La Mezzaluna Rossa ha richiamato e solo Hind poteva rispondere, così ha risposto. Ha implorato che la venissero a prendere, era lì nascosta tra i cadaveri dei parenti e aveva paura del buio. Il personale della Mezzaluna Rossa ha contattato l'esercito israeliano, ha chiesto di poter accedere all'area. Ha aspettato per ore. Finalmente un'ambulanza è potuta partire, ma non è mai arrivata. L'esercito ha sparato anche all'ambulanza. Non è così raro laggiù. I volontari che partivano, sapevano che il rischio c'era. Ma c'era una bambina sola al buio, e così sono andati. Tutto questo non è normale, non dovrebbe succedere. Se abbiamo la minima possibilità di impedirlo, dobbiamo utilizzare quella minima possibilità. 

Così la mia minima possibilità, stasera, è domandarti questa cosa: per favore, prendi almeno in considerazione l'idea di non partecipare all'Eurovision. Che poi diciamocelo, hai già vinto Sanremo, cosa dovresti dimostrare all'Eurovision? Tutti gli anni una canzone vince l'Eurovision: di solito è un ritornello scemo e ce ne dimentichiamo la settimana dopo. Ma se tu riuscissi a dire, nei prossimi giorni: preferirei non andare, mi sento a disagio a partecipare; vorrei che prima di partecipare Israele si attenesse alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia e prevenisse un genocidio, ecco, credo che milioni di persone in Italia, e in Palestina, e in tutto il mondo (persino in Israele) non ti dimenticheranno più. Scriverai un'altra pagina di storia, persino più nitida di quella che hai scritto ieri.  

E poi certo, qualcuno se la prenderà. C'è gente che non sopporta nemmeno di sentire le parole "stop genocidio": le considera offensive, forse non sa cosa significa genocidio, oppure pensa che è una buona cosa, non lo so. Esiste gente così, e se tu dici che non vuoi andare all'Eurovision, si offenderà molto. Ma è gente che non ti avrebbe ascoltato comunque. E siccome non si può piacere a tutti, probabilmente la cosa migliore è scegliere di non piacere a chi difende i genocidi. Scusami, sono stato troppo lungo. Grazie. E ancora complimenti.

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I palloni di Hamas

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Avvertenza: questo pezzo contiene descrizioni di atti di violenza che possono impressionare il lettore, così come hanno impressionato me. 

Il 5 febbraio è la festa di Sant'Agata, la martire siciliana a cui il Signore avrebbe fatto ricrescere il seno, dopo che i carnefici glielo avevano amputato. Dunque se devo scrivere un pezzo sui seni-pallone amputati da Hamas, lo farò oggi. 

Ma devo proprio? Su un argomento così macabro, col rischio di indugiare in dettagli morbosi o mancare di rispetto alle vittime di una strage? Scrivere un pezzo che nessun algoritmo si filerà, che ben pochi verranno a leggersi, e quei pochi magari proprio per notarne i difetti, perché?

Pare sia terapeutico. Ho sentito dire che le fobie si superano parlandone. Inoltre ho la sensazione di essere stato preso in giro, da qualcuno che sapeva esattamente come spaventarmi, e mi ha raccontato una storia orribile ben sapendo che i dettagli più sanguinosi mi avrebbero tenuto lontano. Cedere a un trucco simile significa ammettere le proprie debolezze, per cui non lo farò. Siccome ho paura delle mutilazioni, ora scriverò un pezzo lungo e disteso sulle mutilazioni. Chi sperava di impressionarmi col sangue almeno saprà che non funziona.

È stata soprattutto questa fobia a tenermi lontano dai primi resoconti che apparivano sui media immediatamente dopo il 7 ottobre. I dettagli ultraviolenti mi turbano in modo particolare: mi restano in mente e non riesco a liberarmene, è come se contagiassero la mia fantasia. Forse si tratta di una mia fragilità, il motivo per cui ancora oggi ho grossi problemi a guardare film dell'orrore che i miei studenti minorenni mandano giù come Biancaneve. Oppure i miei studenti hanno capito che mandar giù film dell'orrore è un sistema efficace per non invecchiare fragili come sta succedendo a me. Non lo so, né mi ponevo il problema: i più prestigiosi organi di informazione riportavano che in quei giorni erano avvenute cose orribili, che i colpevoli erano i miliziani di Hamas, e io lo ritenevo assodato: senza troppo preoccuparmi di quanto orribili fossero. 

Finché – ma erano già i primi di gennaio, e un pool legale sudafricano stava per accusare all'Aja il governo israeliano di genocidio – lessi che i seni delle vittime erano stati "asportati e usati per giocare a pallone". Lo lessi in questo bizzarro appello, pubblicato su diversi quotidiani:

Trovate il testo per esempio qui.
Ma a chi sono state consegnate le firme?
Chi dovrebbe dichiarare il "femminicidio di massa"? 

E non ci ho creduto. 

Forse era troppo terribile per me, forse c'è un limite all'orrore che riesco a provare: un mostro con otto occhi mi farebbe paura, con cento occhi mi farebbe ridere? Oppure semplicemente il seno-pallone non è plausibile, è qualcosa di cartoonesco, completamente fuori dall'uncanny valley che sfida il mio senso critico. I seni non sono sferici (specie una volta asportati) né rimbalzano; per quello che ne so. E ho la sensazione di saperne di più, sui seni, di chi ha messo in giro questa storia. In mezzo a un resoconto di fatti orripilanti, è un dettaglio che manda in tilt la mia fantasia e sembra messo apposta per farmi dubitare di tutto il resto. Forse da un diabolico antisemita infiltrato che vuole prendersi gioco di chi in buona fede legge e firma... Oppure è una provocazione messa lì perché qualcuno ci caschi. Quel qualcuno sono io? È l'antisemitismo a farmi dubitare dell'equipollenza tra un pallone e un seno umano?

Va bene. Se qualcuno deve, ci cascherò io. Non rappresento nessuno oltre me stesso, non sono un esperto di nulla (senz'altro non sono un esperto di seni), ma ho una certa dimestichezza con le leggende di martiri ormai, e questa ha tutta l'aria di essere una leggenda. 

A dire il vero la prima analogia che mi è venuta in mente, per una pura associazione di idee, è assai più recente: 24 anni fa, alla vigilia delle manifestazioni genovesi anti-G8, i membri delle forze dell'ordine furono informati che i manifestanti li aspettavano al varco con "palloncini di sangue infetto". Era una leggenda metropolitana altrettanto implausibile e cartoonesca: anche in quel caso mescolava subdolamente l'idea del sangue coi liberi giochi all'aria aperta: non si capiva come adulti responsabili avrebbero mai potuto credere in qualcosa del genere. E però può anche darsi che abbia funzionato: in quei giorni poliziotti e carabinieri sembravano spiritati, animati da una furia che non aveva giustificazioni razionali. Magari era paura.

Allo stesso modo, ogni volta che un breve video dell'IDF ci mostra soldati sorridenti che si aggirano in mezzo alle macerie; o cittadini allegri che fanno cordone per non far passare gli aiuti umanitari, e ci domandiamo: ma cosa sta succedendo a tutta questa gente? Ci vorrà molto tempo per capirlo, sempre che qualcuno vorrà dedicarcisi; può darsi che in parte sia quello che succede a normali individui quando persone degne di fede ti raccontano che ci sono uomini cattivi che giocano a pallone con i seni umani. 

La propaganda ha le sue leggi che la ragione non conosce, ma qualcuno le ha studiate e le sa applicare. Quello che inorridisce me, può animare la furia cieca di un soldato di leva. La storia dei seni-palloni faceva parte di un un repertorio di testimonianze che arrivò sui media prestissimo, soprattutto in Israele dove per qualche giorno chiunque si sentiva in dovere di raccontare le peggio cose che gli venivano in mente, che le avesse viste o no. Non lo dico io, lo dicono i giornalisti israeliani sionisti: e non solo quegli eterni brontoloni di Haaretz, ma anche canali generalisti. Nelle ultime settimane quasi tutte le storie più raccapriccianti sono state debunkate (malgrado qualcuno le ripeta ancora ad alta voce, e forse ci creda ancora). Abbiamo saputo abbastanza presto che i miliziani non avevano decapitato quaranta bambini; che non hanno strappato un feto a una donna incinta (quest'ultimo è un vero topos: ricorre nelle testimonianze di molti eccidi in tempo di guerra). Soprattutto Haaretz ci ha raccontato che nei primi giorni l'IDF appaltò la raccolta dei cadaveri del 7 ottobre a un'organizzazione ultrasionista, Zaka, che definire controversa è un eufemismo. Molti dettagli truculenti sono stati forniti proprio dagli operatori di Zaka, che purtroppo hanno mostrato nell'occasione più fantasia nell'inventare mutilazioni non dimostrabili che perizia nella gestione dei corpi delle vittime. E tuttavia la storia dei seni-palloni non proviene da Zaka. Non potrebbe: per assistere a un'amputazione e vedere miliziani giocare a pallone bisognava essere lì durante il fatto. Questa storia richiede dei testimoni oculari. Ci sono?

Ce n'è uno. 

Questo è un problema, per più di un motivo. Nell'appello riportato sopra avete letto di "seni asportati e usati per giocare a pallone". È già una forzatura. L'appello tradisce la volontà di far apparire come sistematica una pratica di mutilazione cui la testimone avrebbe assistito una volta sola, e che difficilmente avrebbe potuto essere ripetuta durante un blitz che sappiamo essere stato molto concitato. I miliziani stavano cercando di tornare nella Striscia portando con sé più ostaggi possibile, e a partire da un certo punto hanno dovuto difendersi dall'esercito che stava intervenendo con gli elicotteri. Che abbiano perso tempo a giocare torturare sadicamente ostaggi che avrebbero dovuto usare come moneta di scambio sembra assurdo, ma è anche vero che in battaglia la gente perde la testa e fa le cose più assurde. 

Comunque la testimone c'è. È una donna – il che è cruciale – ha 22 anni, fa un lavoro di ufficio ("accountant") e si fa chiamare Sapir; non vuole rivelare la sua identità perché, scrive il New York Times, "sarebbe braccata per tutta la vita". La polizia la ritiene una teste chiave e ha divulgato quasi subito un video in cui il suo volto sfuocato racconta la storia che più tardi ha ripetuto al NYT, e che riporto qui

She said that at 8 a.m. on Oct. 7, she was hiding under the low branches of a bushy tamarisk tree, just off Route 232, about four miles southwest of the party. She had been shot in the back. She felt faint. She covered herself in dry grass and lay as still as she could.

Ecco. Non solo è l'unica testimone, ma era ferita alla schiena. Si sentiva debole. Ciononostante, dal suo nascondiglio (un cespuglio sotto un tamarindo) avrebbe assistito a una scena molto lunga e complessa, di fronte alla quale altri avrebbero certamente distolto lo sguardo.

About 15 meters from her hiding place, she said, she saw motorcycles, cars and trucks pulling up. She said that she saw “about 100 men,” most of them dressed in military fatigues and combat boots, a few in dark sweatsuits, getting in and out of the vehicles. She said the men congregated along the road and passed between them assault rifles, grenades, small missiles — and badly wounded women.

“It was like an assembly point,” she said.

The first victim she said she saw was a young woman with copper-color hair, blood running down her back, pants pushed down to her knees. One man pulled her by the hair and made her bend over. Another penetrated her, Sapir said, and every time she flinched, he plunged a knife into her back.

She said she then watched another woman “shredded into pieces.” While one terrorist raped her, she said, another pulled out a box cutter and sliced off her breast.

“One continues to rape her, and the other throws her breast to someone else, and they play with it, throw it, and it falls on the road,” Sapir said.

She said the men sliced her face and then the woman fell out of view. Around the same time, she said, she saw three other women raped and terrorists carrying the severed heads of three more women.

Le tre teste non sono state trovate – ma è anche vero che i volontari di Zaka raccolsero i cadaveri in modo molto approssimativo, e che in certi bodybag furono trovate più teste. Non sono stati trovati nemmeno i seni, né il taglierino da cartone ("box cutter") che Sapir sostiene essere stato adoperato per asportarli. Per ora non è stato trovato niente di quello che racconta Sapir, la quale del resto era ferita alla schiena mentre osservava una scena che sembra presa da un torture porn. 

Per credere che tutto questo sia successo dobbiamo prendere per buona una testimone unica,  probabilmente sotto choc, che era ferita alla schiena e nascosta in un cespuglio, che ha fotografato il cespuglio in cui era nascosta ma non i resti delle mutilazioni che racconta di avere visto. In coscienza, non posso dimostrare che sia una storia falsa: ma è una storia a cui non credo. Non credo che tagliare i seni con un taglierino (durante uno stupro) sia così facile. Non posso escludere che una persona ferita e sotto choc sia vittima di allucinazioni, o che subisca la pressione di organi di propaganda che sin dall'inizio della crisi erano determinati a far funzionare l'equazione Hamas=Isis. Giova ricordare che la mutilazione dei seni delle vittime era praticata dai miliziani di Isis in Siria, e che foto e resoconti delle loro torture rimbalzavano con gli smartphone negli anni in cui "Sapir" era adolescente. Per noi l'Isis ormai è una sigla lontana, ma per i giovani che stanno minando la striscia di Gaza è stato un incubo concreto, che ha nutrito la loro fantasia negli anni della formazione.  

Allo stesso momento, non posso escludere che la storia sia vera. Improbabile, ma non impossibile. Ci sono persone che in stato di choc dimostrano lucidità e presenza di spirito; un taglierino, se è abbastanza grosso, può anche recidere muscoli; se poi la vittima aveva protesi, ecco, si tratta di sacchetti di silicone che i miliziani avrebbero anche potuto lanciarsi per scherno. Forse il vero motivo per cui non voglio crederci è quello per cui fatico a credere alle leggende di santi torturati e mutilati. Se non ci credo, smetto di essere vero. Quei seni non sono mai stati tagliati: come il Salvatore, li faccio ricrescere. Forse sto scrivendo la mia leggenda anch'io... (continua) .

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Conosci il tuo ultrasionista

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The Guardian
Ogni tanto li incroci, e sempre più spesso alla rabbia cede il passo lo stupore: i sionisti riescono sempre a sorprenderti. Non per i loro argomentazioni (anzi molto prevedibili), quanto per la foga con cui li portano avanti, che comunica sempre più forte la sensazione di un cedimento all'irrazionale. È come se fossero sotto choc – ma perché dico fossero: è chiaro che sono sotto choc. Si sentono accerchiati, in una situazione in cui l'unica via di fuga è fuori dalla realtà: e la prendono. Quel che è più pericoloso, è che pretendono che il mondo intero li segua, a partire da te. 

Devi credere che sotto l'ospedale ci fosse il bunker di Hamas, che durante le sparatorie del 7/10 i miliziani si fossero messi pazientemente a decapitare bambini; che travestirsi da personale sanitario per uccidere nemici feriti sia assolutamente ok (se lo fa l'IDF; se invece Hamas si traveste da personale sanitario, occorre bombardare il personale sanitario). Devi cominciare a pensare che gli abitanti di Gaza potrebbero andarsene, da qualche parte, ovviamente non a spese della potenza occupante che tra l'altro non si sa bene come farà a smaltire i rottami. C'è una sentenza di una corte di giustizia internazionale che dice che Israele deve smetterla perché il rischio di genocidio è concreto – ma non c'è scritto "cease fire", quindi tutto ok, la sentenza non dice quello che tutto il resto del mondo ci legge, il resto del mondo ha capito male perché è antisemita. Come andrà a finire?

Non lo sai. Quel che puoi fare è prendere appunti, magari qualcuno li leggerà e capirà un paio di cose in più su quello che ci stava succedendo. L'aspetto più doloroso della faccenda è che in questa catastrofe morale ci siamo infilati con le migliori intenzioni del mondo: difendere un popolo storicamente perseguitato da millenni. Per quanto ti riguarda, non solo trovi ributtante e ridicola ogni accusa di antisemitismo, ma odi anche essere chiamato antisionista. Hai sempre avuto un grande rispetto per il sionismo storico, per quello che si proponeva di fare e per come è riuscito, in parte, a realizzarlo. Che ci fosse del nazionalismo, non potevi negartelo; ma se c'era un nazionalismo che poteva avere un senso storico, questo era il nazionalismo ebraico – soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ecco, quello che sta succedendo in questi mesi se non altro dimostra inoppugnabilmente che no, non può esistere un nazionalismo buono. Prendi anche il popolo più perseguitato, dagli un nazionalismo, agita un po', aspetta un secolo, guarda cosa succede.

A dire il vero di sionisti ragionevoli in giro ce n'è ancora, anche se nel baccano si sentono sempre meno. Definirai dunque i sionisti impazziti che incontri in questi giorni 'ultrasionisti', e farai lo sforzo di ricordare, ogni volta che assisti ai loro siparietti, che dietro alla tracotanza e al pensiero magico c'è un uomo o una donna che sta lottando per difendere il sistema di valori in cui è cresciuto – e che gli sta collassando addosso. Puoi capire come si sente? Forse sì, ma è meno semplice di quel che appare. Ormai parlate lingue diverse. Ad esempio: 

– Tu celebri la Giornata della Memoria domandandoti: può succedere anche a noi, di essere i carnefici? L'ultrasionista celebra la Giornata domandandosi: può succedere anche a me, di essere di nuovo la vittima?

– Tu pensi che la Shoah sia una tragedia per l'umanità. L'ultrasionista pensa che sia la tragedia del suo popolo. Avete entrambi ragione, in un certo senso, ma non potete andare d'accordo. Tu pensi che bisogna organizzarsi affinché non succeda mai più; lui pensa che bisogna lottare affinché non succeda mai più a lui.
(Questo gli consente di intervenire con maggiore efficienza; tu non sapresi da che parte iniziare, lui ha obiettivi precisi, anche se in ogni direzione).

Se ne occupa.

– Tu ti senti responsabile di quanto potrà succedere in futuro. L'ultrasionista ti ritiene connivente per quanto è stato commesso nel passato. 

– Tu, se senti parlare di "colpe", ritieni che si tratti di un concetto più religioso che giuridico, e comunque stai pensando a colpe individuali. Se è stato commesso un genocidio, la colpa sarà di chi l'ha ideato, gestito, chi ha dato gli ordini, chi li ha eseguiti. L'ultrasionista ormai tende a non riconoscere più molte differenze tra religione e legge, e nella colpa collettiva ci crede eccome. È colpa anche tua, chi ha eseguito gli ordini non era forse un tuo bisnonno? No? Avrebbe potuto esserlo. 

– Per te la memoria coincide con lo studio: vuoi capire, nei limiti del possibile, quanto è successo. Per l'ultrasionista la memoria è funzionale alla vittoria: se non sta vincendo abbastanza, si può cambiare la memoria. I palestinesi possono diventare nazisti, il Gran Muftì può diventare l'ispiratore di Hitler, non è un problema. Per l'ultrasionista la memoria coincide con la propaganda. 


– La tua 'civiltà' è per te l'ambiente in cui sei nato e cresciuto: ne conosci quanto basta per vivere coi tuoi simili, a volte la detesti come si detesta la propria famiglia. La civiltà dell'ultrasionista rischia quotidianamente l'estinzione, deve conoscerne quanto basta per farla sopravvivere, chi la detesta se sta fuori è un nemico, se sta dentro un traditore.  

– Tu pensi di poter distinguere ebrei, israeliani, e governo di Israele; così come pensi di poter distinguere palestinesi e Hamas; gli ultrasionisti non riconoscono più nessuna differenza: tutti gli ebrei devono stare con Israele (chi non lo fa è un traditore) e tutti i palestinesi sono Hamas. Anche chi aiuta i palestinesi è Hamas. Anche tu sei Hamas, lo era probabilmente anche il tuo bisnonno: ecco perché è diventato nazista.

– Per te la questione palestinese è cruciale nella misura in cui rischia di destabilizzare il Medio Oriente e quindi il mondo; per l'ultrasionista il mondo, e quindi il Medio Oriente, è interessante in quanto circonda Israele: e dovrà essere destabilizzato fin quando non lo circonderà volentieri.

– I tuoi politici, se si attentano a citare la Bibbia, devono cercare versetti che si confacciano al senso comune umanitario per come si è costituito dopo la Seconda Guerra Mondiale: non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te, chi è senza peccato scagli la prima pietra, ecc. ecc. L'ultrasionista, nella Bibbia, tenderà a cercare qualcosa che possa sorreggere il proprio nazionalismo (e ne troverà, oh se ne troverà): Amalek, Giosuè, Sansone, Davide, Ester...

È il tweet di un vicesindaco di Gerusalemme, poi cancellato.
Ora hanno trovato una fossa comune.

– Tu pensi che non ci possa essere pace senza compromesso; lui crede che non può esserci pace senza vittoria. Entrambi avete torto: i compromessi non durano per sempre e le vittorie non sono mai finali. 

– Tu vivi in uno Stato che la comunità internazionale ha riconosciuto così tanto tempo fa che nemmeno ti poni il problema. Anche quando questo Stato è stato complice di crimini contro l'umanità, nessuno ha veramente proposto di eliminarlo (al massimo è stato messo in una condizione di sovranità limitata, di cui preferisci non accorgerti). L'ultrasionista vive in uno Stato che si è imposto al mondo da solo, vincendo delle guerre e coltivando delle alleanze. Continuerà a esistere finché continuerà a vincere guerre e mantenere le sue alleanze. Chiedergli di smettere di combattere è chiedere di smettere di esistere.

– Tu puoi perdere una battaglia (in effetti ne perdi continuamente), lui non può permetterselo mai. Lui non capisce come mai dopo tante delusioni sei ancora in piedi. Tu non capisci come mai, se vince sempre, è ancora così arrabbiato.

– Tu questi problemi te li fai ogni tanto, quando l'attualità te li sbatte in faccia: l'ultrasionista ci pensa tutti i giorni. Per te è una questione di principio, per lui di sopravvivenza. Tu sei preoccupato per il futuro, lui è preoccupato per il presente.

– Nel tempo che ti ci metti a elaborare un argomento, lui ha già raccolto una serie di risposte preconfezionate agli argomenti che tu elaborerai la settimana prossima. Per te è una questione tra tante, per lui è un mestiere, o un'ossessione.

– Tu lo ascolti per cercare di capire come la pensa. Lui ti ascolta per trovare i punti che più facilmente possono denunciare il tuo antisemitismo. Facile che in questo pezzo ne abbia già trovati molti.

(Ma ormai non leggono più – con tutti quei video trucidi da guardare...)

***

In questi mesi siamo giunti a un bivio: o l'Occidente sceglie di difendere Israele sempre e comunque, accettando la sua narrazione anche negli aspetti meno verosimili, imponendola a chi come te non riesce a non vedere il massacro, facendo strame del diritto internazionale e aprendo le ostilità coi Paesi che lo impugnano... oppure lentamente, ma inesorabilmente, nei prossimi mesi il governo israeliano sarà messo di fronte alle sue responsabilità e chi l'ha appoggiato (anche tra noi) dovrà cominciare a spiegare cosa gli stava dicendo il cervello. In sostanza ci stiamo giocando l'anima, e non credi che vinceremo. Troppa gente ha troppo finto di non guardare: troppe parole sono state scritte, per poter essere rimangiate. Chi ha detto bugie non ha più altra scelta che dirle sempre più grandi. Così forse il bivio è già alle tue spalle. Del resto lo sai, che nessuno ti avrebbe mai chiesto un parere. Ti resterà la consolazione di poter dire: io non ero d'accordo. Ma a chi lo dirai? Per ora scrivilo qui, vediamo se dura.

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Alla presidente dei post-servi

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L'Italia ha sospeso i fondi a Gaza,
tu no. 

Presidente Giorgia Meloni,

devo confessare che avevo basse aspettative, e tuttavia.

Da un tweet del suo ministro degli esteri di venerdì scorso (venerdì scorso!) scopro che l'Italia non sta più assolvendo ai suoi doveri di solidarietà nei confronti della popolazione palestinese – gli aiuti all'UNRWA sono "congelati" non si sa bene da quando, forse da cento giorni. Nel frattempo la striscia di Gaza è stata quasi completamente rasa al suolo: le vittime dei bombardamenti e dei combattimenti sono più di ventimila, in gran parte civili (lo stesso esercito israeliano riconosce che Hamas è ancora operativo). Intere famiglie sono state spazzate via dalla guerra; gli israeliani ostacolano l'accesso di aiuti alimentari e sanitari a Gaza e venerdì abbiamo scoperto che comunque tra quegli aiuti nulla più viene dall'Italia.


Il blocco degli aiuti quindi sarebbe persino precedente al cosiddetto scandalo UNRWA, ovvero alla scoperta che alcuni dipendenti UNRWA avrebbero collaborato agli eccidi di Hamas del 7 ottobre scorso; il che sarebbe gravissimo se si potesse dimostrare. Senz'altro ci tiene molto il governo israeliano: probabilmente è un modo per spostare l'attenzione dalla sentenza preliminare della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja, che rappresenta già una severa censura del comportamento assunto dall'esercito israeliano in questi mesi nei confronti della popolazione civile della Striscia. Ma prendendo anche per vero quel che avrebbero confessato dodici dipendenti su tredicimila (interrogati dall'intelligence israeliana e dallo Shin Bet); considerata la penetrazione capillare di Hamas nella società gazawi, un numero così esiguo di sospettati è quasi un'indiretta conferma dell'autonomia dell'UNRWA rispetto ad Hamas.

Insomma qualsiasi governo sovrano attenderebbe prima di prendere per fondate le accuse mosse da Israele all'UNRWA, ma per il nostro governo il problema non si pone: a quanto pare i fondi li avevamo sospesi già, molto prima che qualche nostro importante alleato ci imponesse di farlo. O forse ce l'hanno imposto prima, come fanno i padroni ai servi un po' rintronati e noi questo siamo evidentemente, presidente. Altri governi, in queste ore, stanno mostrando un atteggiamento meno servile e più consono alle rappresentanze democratiche di Paesi sovrani: la Spagna, l'Irlanda, non stanno sospendendo gli aiuti, nemmeno la Scozia: noi sì. 

Presidente Meloni: il sospetto di essere cittadino di un Paese che non stava facendo praticamente nulla per evitare un genocidio lo nutrivo anche prima di venerdì; ma non immaginavo in che misura lei, in che misura noi fossimo già complici. Il nostro sostegno a Israele, mai così esplicito, è un incoraggiamento a proseguire nella direzione in cui sta andando, e la direzione in cui sta andando non è solo quella di una catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza. È anche un disastro morale per Israele, e per la complessa e struggente storia che rappresenta.   

Presidente Meloni, so che senza essersi mai definita fascista, non è mai nemmeno riuscita a dichiararsi antifascista – nemmeno adesso che ormai ha vinto tutto quello che poteva vincere, e nessuno può più scavalcarla: nemmeno adesso. E va bene. I fascisti si sa, facevano i gradassi in tempo di pace; quando scoppia la guerra annusavano il vento per capire dove stesse passando il sedere del più forte, e lì si attaccavano. Lei in teoria non fa così, lei è post. 

Io, l'avrà capito, non ho nessun rispetto per il partito che lei dirige, per la storia che c'è dietro, per il suo Almirante e il suo Berlusconi. Il giorno in cui ha vinto le elezioni è per me uno dei momenti più bui della storia della Repubblica. E però anche in quel momento mi restava la curiosità: cos'avrebbe fatto una gregaria di formazione, nel momento in cui saliva sul gradino più alto? Avrebbe forse scoperto la sua personalità, svelato finalmente un pensiero autonomo, qualcosa di simile a una volontà propria? Quanto meno me l'auguravo, sarebbe stata una bella sorpresa per tutti. E invece non c'è niente da fare: eccola al postservizio dei primi che le hanno mostrato i muscoli. 

Io non sono veramente nessuno e questo mio sfogo non è un granché, ma confesso che mi piacerebbe che le mie parole in un qualche modo si scavassero un sentiero tra la selva retorica che la circonda, e la pungessero in una qualche regione dove altre persone hanno una coscienza. Lei i palestinesi li conosce, è stata a Betlemme; quando Renzi era al governo chiedeva i Due Stati per Due Popoli: ora vede un popolo affamare l'altro e gli dà una mano. E quando al prossimo comizio ciancerà di orgoglio nazionale, di sovranità e di altre sciocchezze, lo so che è impossibile, ma vorrei che un poco si vergognasse, sarebbe ora: per lei e per noi. Postservi, non siamo altro che postservi: il postpadrone ordina e lei ha già eseguito. 

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Prima ricordare

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Vorrei rassicurare chi se ne preoccupasse sul fatto che io oggi, 27 gennaio, parlerò ai miei studenti della Shoah, che è "lo sterminio del popolo ebraico". A seconda del tempo e dei mezzi che avrò a disposizione, ricorderò "le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati". I virgolettati sono ovviamente presi dagli articoli 1 e 2 della legge 211 del 20 luglio 2000, che istituiva la Giornata della memoria. E basta.

Non paragonerò la Shoah ad altre stragi passate, future o presenti; non emetterò un giudizio su chi pensa che basta farsi fotografare ad Auschwitz per lavar via l'antisemitismo disseminato qua e là per anni; non approfitterò per entrare in polemica con governanti che non hanno ancora del tutto rinnegato il loro Almirante (e il loro Mussolini). Come ho scritto altre volte, sono convinto che la Shoah sia un evento assolutamente eccezionale, per modalità e per dimensioni. Non sono del tutto sicuro che il modo migliore di studiarlo sia la liturgia scolastica della Giornata, per come si è evoluta in questi 24 anni, ma se c'è un evento storico che merita almeno di essere ricordato un giorno all'anno, credo che si tratti questo. E la legge è molto chiara, quindi la osservo. Anche qui sopra, per oggi eviterò di entrare in esplicita polemica con chi non accetta altri paragoni con la Shoah tranne i propri.

Poi ovviamente l'anno è fatto di altri 365 giorni (è bisestile), e da domani fino al 26 gennaio 2025 ci sarà tempo per qualsiasi altra riflessione – talvolta stimolata da studenti che di quel che succede qua fuori sentono parlare, sia a casa sia sullo smartphone, così che se pensate che io abbia mai la tentazione di incitarli a boicottaggi o lotta armata ebbene è l'esatto contrario: mi tocca smentire tante storie deformate, leggende metropolitane, savi di Sion e quant'altro. Per cui di fronte all'eterno dibattito: è ammissibile paragonare la Shoah ad altri fenomeni? La mia risposta oggi è che per stabilirlo come minimo prima dobbiamo capire cos'è stata la Shoah, percepire la sua eccezionalità: prima studiare, poi paragonare.  

Questo è il modo in cui passerò il 27 gennaio al lavoro e in questo spazio. Altri hanno deciso diversamente, e ne approfitteranno per manifestare contro Israele. È una scelta che non condivido, ma non posso nemmeno fare nulla per impedirla. Con buona pace di chi in questi casi se la prende, la legge dice semplicemente che dobbiamo ricordare degli avvenimenti. Non proibisce a nessuno di istituire paragoni (anche sballati), né di manifestare per altre cause che hanno più o meno a che fare con la Shoah. Un'eventuale legge che includesse questi divieti sarebbe, temo, incostituzionale: tutti infatti hanno "diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", articolo 21. Poi certo, magari non sarà sempre così, specie coi riformatori costituzionali che girano oggigiorno. Ma per quest'anno è andata, inutile prendersela. Specie in un giorno così importante, con tante cose più gravi da ricordare.

(Vabbe' alla fine un po' di polemica forse l'ho fatta, mi dispiace, sono umano).

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I giovani dinosauri

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I video che Tsahal sta lasciando filtrare al pubblico internazionale sono qualcosa di incredibile, e rispondono a una domanda che forse non mi ero ancora fatto: cosa succederebbe ai nostri figli se improvvisamente la guerra scoppiasse, adesso, e il prossimo balletto di Tictoc lo girassero al fronte. C'è un senso di impunità, d'accordo, un'arroganza istituzionalizzata spacciata ormai per carattere nazionale. Ma soprattutto c'è proprio l'ignoranza dei vent'anni, li avete avuti tutti vent'anni. Ringraziate che nessuno in quel momento vi ha convinto della necessità di partecipare a un genocidio. Può darsi che nel caso vi sareste sparati anche voi una posa di dinosauro; magari è un modo per non prendersi sul serio, o fingere che è un gioco, o non impazzire, perlomeno non subito, non del tutto; diciamo impazzire con criterio. Può persino darsi che nei ranghi ci sia qualche psicologo che li consiglia in tal senso. (Ho sempre questo timore che Gaza ci stia mostrando il nostro futuro).
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Verso Rephidim

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Gennaio è sempre il mese più duro, e il riscaldamento globale a quanto pare non aiuta. Mi rendo conto abbastanza tardi di aver cresciuto, negli anni della pandemia, un germoglio di speranza che le guerre degli ultimi mesi hanno seccato. In una situazione di emergenza avevo visto persone di ogni genere e fede approdare su un terreno comune: accettare che esisteva un problema e adottare le misure suggerite dalla comunità scientifica per contenerlo e risolverlo. Ho visto capi del governo grillini rinnegare i novax, ho visto liberali chiedere i vaccini obbligatori e gratuiti, ho visto Big Pharma concederli. Chi rifiutava tutto questo, rifiutava la realtà condivisa e quindi oggettiva. Non è che rimpiango gli anni della mascherina, ma l'oggettività sì, molto. 

Ora vivo in mondi separati come gli universi cinematici. Twitter, il tanto bistrattato Twitter, acquistato da un ereditiere sudafricano che appena glielo chiedono sospende gli account filopalestinesi, per paradosso e per la prima volta è diventato il posto che frequento più volentieri, come una piazza di gente che potrebbe essere caricata da un momento all'altro e proprio per questo non ha tempo da perdere. Si parla della Corte di giustizia dell'Aja, si depreca l'arroganza imperialista di chi bombarda lo Yemen (e intanto interrompe i rifornimenti all'Ucraina). Su Facebook invece sono tutti preoccupati perché la Cortellesi ha parlato di Biancaneve e a quanto pare ne ha parlato in termini irriguardosi (cinquantenni che piagnucolano Non Toglieteci le Fiabe), non lo so, non riesco a interessarmi al problema, sarà un problema mio? Sui quotidiani italiani, se vinco il fastidio di aprirli, trovo riferimenti all'orrore della guerra, ma datati ancora al sette ottobre dell'anno scorso che per carità, è stato un giorno terribile: non dico che sia passato molto tempo, ma sono morte altre ventimila persone (più di cento giornalisti) che sembrano non contare. 

Gennaio è il mese più difficile: mi ricorda che esiste un futuro e che non c'è un motivo razionale per immaginarlo migliore, se niente intorno a me sta migliorando. Gli osservatori che dopo il 7 ottobre si sono calcati l'elmetto in testa per non vedere un genocidio, quando se lo toglieranno? Più passa il tempo e più quell'elmetto diventa complicato da sollevare. È sempre il complesso di Enrico IV: possiamo dire che la fatica con cui si accetta la realtà è direttamente proporzionale al tempo che si perde prima di accettarla. Si arriva a un punto X in cui la fatica è troppa e l'elmetto non si stacca più: chi si è ingannato per troppo tempo non ha nessun motivo – nemmeno razionale – per ammetterlo. Valeva per la pandemia, per il riscaldamento globale, e vale per Gaza, una trappola che gli israeliani si sono costruiti da soli, e nella quale nel momento X hanno dovuto cadere perché l'alternativa era ammettere un errore troppo grande. 


Sono al mondo da abbastanza tempo da ricordare una situazione simile – vent'anni fa, il dibattito sull'invasione dell'Iraq polarizzò un'opinione che si poteva ancora definire "pubblica". L'Esportazione della democrazia e le Armi di distruzione di massa divennero dogmi di fede: chi non ci credeva, un terrorista. Se è già successo, significa che a un certo punto è finito; ecco, è interessante, nessuno si ricorda davvero quando è finito. Credo che il clima sia cambiato intorno alle elezioni di midterm del 2006, una data che nessuno definisce storica: i Democratici ottennero per breve tempo la maggioranza al Congresso, Bush Jr cadde in disgrazia, le guerre al terrore non cessarono ma scivolarono sotto altri titoli in prima pagina, insomma la tensione si attenuò. Un po' di osservatori ebbe il tempo e lo spazio per alzare l'elmetto nella speranza che non sarebbero stati presi a pietrate. Non furono presi a pietrate. Oggi nei libri c'è scritto che l'Iraq non nascondeva armi di distruzione di massa, e che l'esportazione della democrazia fu un pretesto. Più di un milione di vittime sono morte, la maggior parte irachene e invano, ma l'oggettività si è in qualche modo salvata. Si salverà anche stavolta? Vorrei dire di sì, ma guardo fuori ed è gennaio. 

E non c'è più tempo. Il punto X si avvicina, se non è già alle nostre spalle. Chi ha distrutto la Striscia non può essere perdonato dal mondo che l'ha portato alla sbarra all'Aja; ne può perdonare sé stesso. Non ha alternativa che continuare a credere in quello che sta facendo, e siccome quello che sta facendo somiglia molto a un genocidio, i suoi amici non hanno alternativa che proporre di eliminare il termine dalle conversazioni. La guerra continuerà – nessuno prevede che cessi nei prossimi mesi, e gli elmetti resteranno molto ben calcati sulle teste di molte persone troppo leste a infilarli. Netanyahu, in teoria molto criticato in patria per le sue responsabilità nella crisi, sembra più saldo che mai, ma se anche dovesse cadere non si capisce come qualcun altro al suo posto potrebbe trarre Israele dal pasticcio senza che si veda di cosa si è sporcato le mani, e quanto. Al punto che davvero, nei loro panni un'escalation con l'Iran comincerebbe a sembrarmi una soluzione. Dopodiché dovremmo tutti accettare che da qualche anno è scoppiato un conflitto di dimensioni mondiali, il terzo da quando abbiamo cominciato a contarli. È pazzesco ritrovarsi a sperare nei nervi saldi degli iraniani, o a simpatizzare per gli Houthi che con la loro piccola pirateria stanno dando una lezione di diritto internazionale a maestri arroganti e incapaci. 

Nel frattempo fa sempre più caldo, le elezioni americane di novembre somigliano per ora a un salto nel vuoto, in fondo al quale è molto difficile immaginare che la situazione si calmi, che gli elmetti comincino ad allentarsi. Non dico che non voglio sperarci, ma oggettivamente non capisco perché non dovrebbe andare peggio di qui ai prossimi mesi, e questo nel medio termine coinvolge anche me. Per quanto ancora mi sarà consentito scrivere cose su Israele che mi sembrano ragionevoli, ma che in parlamento non sono difese da nessun parlamentare, che ormai non si possono leggere più in nessun quotidiano serio (ritrovarsi a leggere il Fatto, per me, è pure peggio che sperare negli ayatollah). Se tutti intorno a me si stanno radicalizzando, suppongo che da fuori l'unico radicalizzato sembri io. E non sono neanche l'unico, ma per quanto tempo ancora sarò tollerato? Ho passato anni a scrivere su piattaforme che ora sono in balia di milionari capricciosi e ricattabili che possono cancellarmi con un clic. Cosa ci sarà scritto nei libri tra qualche anno: magari quelle cose brutte che si raccontavano nel medioevo sugli eretici? che la gente come me inneggiava allo stupro etnico e pasteggiava a bambini. Certo, non sarà più un mio problema. Il pensiero mi dà comunque fastidio – chiedo scusa, è gennaio, è sempre stata dura per me.

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Taccuino da un genocidio

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You just can't kill'em all (30 ottobre). Devo accettare questa cosa che anche in caso di enormi disgrazie collettive, una delle mie reazioni è quella di venire qui e scherzarci sopra. È un meccanismo di difesa come un altro, c'è chi segnala la propria virtù, io una certa coglionaggine, che senz'altro non risolve alcun problema ma nemmeno li crea.

Più passano gli anni e più mi riconosco nel personaggio di John Hurt nei Cancelli del cielo di Cimino, che dura quattro ore ed è ubriaco tutto il tempo, pur dando la sensazione di essere un po' più intelligente di chi gli sta intorno. Ovviamente quando la Confcoltivatori del Wyoming decide di sterminare i peones lui non è d'accordo ma è facilmente messo in minoranza, dopodiché continua a bere e a fare battute del cazzo finché non si ritrova al centro esatto di un assedio all'ultimo sangue, dalla parte sbagliata della barricata, anche se non gli viene nemmeno in mente di sparare. L'ultima cosa che dice (con la fiaschetta in mano) è: l'anno scorso ero a Parigi, oh quanto amo Parigi (la penultima è: madò, quanti sono, mica potete farli fuori tutti).



Cheat mode.Tutto questo assurdo si potrebbe senz'altro spiegare con categorie religiose, ma alla fine basterebbero i videogiochi di strategia: come se gli americani fossero convinti di vivere in una simulazione in cui stanno vincendo, ma ha poca importanza perché Dio sta giocando la partita di Israele, e se perde tutto (o anche solo si annoia) il gioco finisce all'istante e buonanotte.  

La foglia di fico. (16 ottobre) Non dico perdere la verginità perché ce n'è sempre stata in giro poca, ma in questi giorni alcuni stanno perdendo comunque qualcosa di prezioso, diciamo la foglia di fico per cui ok, certe guerre a volte sono giuste ma i massacri della popolazione civile, ecco, quelli no: al massimo sono errori da coprire, da negare e poi ammettere con mille scusanti; in ogni caso non azioni da giustificare in nome di un bene superiore, fin qui nessuna bandierina copriva questa cosa.
Adesso invece un po' sì, c'è gente che ha già suggerito un'atomica su Gaza, ovviamente è una "provocazione", d'altro canto per quale altro motivo terremmo accese radio o tv, se non per sentici "provocati" a tirare fuori le cose che non abbiamo il coraggio di.
Dove a impensierirmi non è tanto Gaza, il destino di Gaza è probabilmente segnato e a fissare troppo si diventa colonne di sale; mi preoccupa cosa succederà dopo tra noi, perché quelle foglie di fico erano importanti, e se il bodycount questa volta fosse sensibilmente più importante, qualche "provocatore" dovrà continuare a rivendicarlo. Chi diceva: restiamo umani, forse ci metteva in guardia da questa cosa.


Ma tu nonno cosa ne pensavi. A volte mi chiedo come andrà a finire ma mi rendo conto che è una domanda retorica, non è che le cose finiscano. Oppure sì, ma finiscono tutti i giorni, un giorno ad esempio finirò io e quel giorno per me le cose saranno finite; inoltre tutto questo casino è causato soprattutto dal fatto che qualcuno ha pensato di "finirla" con Hamas, o con l'occupazione, ma anche con l'imperialismo russo o con l'Ucraina, insomma se c'è qualcuno di cui diffidare è appunto chi ti propone soluzioni, ehm, finali. Bisognerebbe accettare che le cose non si risolvono mai, al limite si migliorano e con molta pazienza, e con molto tempo, tempo che nessuno di noi individualmente possiede. 

Però davvero: come andrà a finire? Ci ritroveremo con due narrazioni inconciliabili: il Paese X ha raso al suolo Y, o Y era una congerie di terroristi stupratori che auspicabilmente è stata rasa al suolo. Sarà un po' difficile convivere tra gente che la pensa in modo tanto diverso, ma non è quello che facevamo già prima? Qualche migliaio di morti cambia la situazione? Qualche decina di migliaia di morti? 
Esisterà a un certo punto una narrazione condivisa, quello che una volta chiamavamo Storia? Se non i figli, i nipoti accetteranno l'idea che i nonni hanno commesso crimini che potevano evitare? E se ci domanderanno: nonno, macchecazzo, con tutti gli strumenti che avevate e la Storia che studiavate a scuola, tutta questa etica post-seconda-guerra-mondiale, tutta questa retorica antigenocida, com'è che a un certo punto una striscia con due milioni di persone ha cessato di esistere sotto i vostri occhi e voi guardavate da un'altra parte, se non addirittura applaudivate, noi che risponderemo? non puoi capire, non c'eri, le informazioni erano tendenziose... oppure proprio non è vero, gli storici mentono, il conteggio delle vittime è viziato, e comunque hanno iniziato prima loro. 
Oppure la domanda non avrà più senso. Forse l'oggettività occidentale è sempre stata un'illusione mantenuta da un equilibrio di poteri che è durato finché è durato; forse ai nostri figli e nipoti mancherà la sensazione che avevamo noi, di poter veramente sapere cosa accadeva nel mondo a volte persino in tempo reale, senza sempre dubitare di quanto i reporter ci mostravano. Era un privilegio che non meritavamo e che forse a un certo punto abbiamo smesso di desiderare, perché tutta questa oggettività a volte ci condanna. Beate le vittime, loro non hanno questi problemi, o meglio per loro i problemi sono già finiti.




Ci hanno gli algoritmi. Un ufficio propaganda abbastanza efficiente lascia comunque una sensazione fastidiosa, come quando un messaggio pubblicitario apre una breccia in una debolezza che non ricordavi di avere; ad es nella settimana contro la violenza sulle donne ci facevano notare che i loro nemici erano particolarmente violenti con le donne; se fosse seguita la settimana contro la violenza sugli animali probabilmente ci sarebbero arrivati inediti reportages dai macelli halal, invece la gente si è un po' rimessa a parlare di algoritmi e AI e loro ehi, a proposito, lo sapete che noi per bombardare usiamo un algoritmo che ci dice dove bombardare? Siamo o non siamo fighissimi.

(– Ma lo fate per minimizzare le vittime civili?

– Eh?)

Loro ci hanno un algoritmo, capite, per trovare il loro nemico pubblico n. 1 stanno bombardando da un mese una striscia di 40 Km. x 8, stiamo a 15000 vittime a essere prudenti, e i loro ufficiali, nota, i loro ufficiali, stimano che un terzo di loro dovrebbero essere combattenti. Insomma per abbattere due civili ogni combattente ci hanno l'algoritmo, figurati se non ce l'avevano. O no? 

Viene da domandarsi, non ironicamente: ma se non ce l'aveste, l'algoritmo; se le decisioni le prendeste alla vecchia maniera umana, a quest'ora ne avreste fatti fuori di meno o di più? Comunque oh, ai nipotini potrete sempre raccontare che obbedivate all'Algoritmo, vengono in mente libri antichi in cui un'entità altrettanto non-umana e astratta suggeriva agli uomini di radere al suolo città non molto lontane, ma dev'essere solo una suggestiva coincidenza.




Mille a ventimila. No, ve la rispiego perché davvero, con l'antisemitismo non c'entra niente: in un conflitto asimmetrico, quando è possibile contare le vittime con una ragionevole approssimazione, io parteggerò sempre per la parte che ne ha fatte di meno.
Così se davvero volete il mio sostegno – secondo me non lo volete, cosa ci fate col mio povero sostegno? secondo me volete solo una scusa per lamentarvi – ma se invece volete davvero il mio sostegno, se per voi è così tanto prezioso, ebbene, è facile: dovete cercare di fare meno vittime di quegli altri. Diabolico, nevvero? Ma il pacifismo funziona così. 
(I radicali effettivamente funzionavano in un altro modo).




I pirati hanno preso il palazzo. A un certo punto qualcuno, va' a capire chi, deve avere commesso un tremendo errore, insomma il Foglio doveva restare un simpatico naviglio di filibustieri, col capitano burbero ma di buon cuore, qualche mozzo volenteroso a lavargli le parti intime, un po' di marinai esperti ma ricattabili e ricattati, qualche scemo di guerra a dar colore, ecc. Era previsto che ogni tanto facesse un colpo, non che un giorno si conquistasse l'egemonia culturale. Non conveniva neanche a loro, un conto era proporre di uscire dall'Onu sul giornaletto del fanclub italiano del Likud, un conto è ritrovarsi Molinari a dirigere Repubblica, dopodiché hai un bel da prendere in giro i novaccinisti, gli sciachimisti, i putinisti, cioè sul serio: noi ceto riflessivo, dovremmo credere che l'Onu copre Hamas, perché lo leggiamo sui quotidiani teoricamente rispettabili? O dovremmo capire che è solo un gioco, come il bispensiero, cioè una parte del cervello sa benissimo che gli israeliani asfalteranno Gaza ma l'altra parte del cervello deve fare finta di no e in questo, da qui in poi, consisterà la riflessività del ceto riflessivo: nel far finta di essere membri di una società civile, basata su ideali di giustizia e libertà purché restino ideali? A un certo punto qualcuno ha commesso un terribile errore, va' a sapere chi, certe notti ho paura di essere stato io ma mi rendo conto che è poco probabile, anzi anche un po' egotico, sicuramente avrei dovuto fare qualcosa di più anche se non sono mai riuscito a capire cosa.




Tite tute. Adesso forse sono io che capisco male o sono il solito malfidato ma come si fa anche solo a pensare che radere al suolo la Striscia sia un mezzo per arrivare ai vertici di Hamas (e non viceversa)? Proprio perché la considerate un'organizzazione terroristica, non avrà qualche base sparsa nel mondo dove i leader possono riparare tranquilli mentre il mondo brucia? Tutte le altre organizzazioni ce li hanno; Hamas no, i leader restano tutti nei bunker con gli ostaggi ad aspettare di farsi catturare dall'Idf, che stupidi.

D'altronde mica possono dire che spianano Khan Yunis perché tutto il modo in cui hanno impostato la situazione era tragicamente sbagliato e pensano che radendo completamente la Striscia al suolo e deportando la popolazione magari tra un po' nessuno ne parlerà più – ci sono precedenti, per esempio una volta un generale romano si ruppe i coglioni di un popolo che viveva da quelle parti, rase al suolo una città intera e disperse il popolo in tutto il bacino del Mediterraneo e anche oltre e infatti nessuno di quel popolo parla più, ne avete sentito parlare? insomma ha già funzionato così bene, perché non dovrebbe funzionare di nuovo.


Che avremmo dovuto fare. Vedo che siccome comincia a essere un po' difficile negare che si tratti di un'operazione di pulizia etnica, il trend è domandare, retoricamente: "cosa avremmo dovuto fare allora?" Come se insomma, alla pulizia etnica ci si arrivasse per mancanza di alternative. 
Ora, a parte il fatto che sì, esistono sempre alternative a bersagliare gli ospedali, però bisognerebbe che ogni tanto qualche buon amico ve lo dicesse: ogni volta che ci dite che non potevate fare diversamente, vi state autoaccusando di esservi infilati da almeno 20 anni in una situazione senza uscita – ovvero un'uscita c'è, ma vi vede nel ruolo dei cattivi segregazionisti e sterminatori. Qualcuno avrebbe dovuto avvertirvi – ah no, aspetta, qualcuno vi ha avvertito, a lungo, e pazientemente, e voi avete passato tempo e risorse preziose ad accusarlo di intelligenza col nemico. 
C'è un complotto mondiale contro di voi? Certo che c'è, e prevede esattamente che voi vi troviate dove vi trovate, con le spalle al muro che avete costruito con le vostre mani.
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Il sigillo dei profeti

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18 dicembre: San Malachia (VI secolo), sigillo dei profeti

"Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l'uno contro l'altro profanando l'alleanza dei nostri padri?" Malachia 2,10, sul muro sulla barriera difensiva che separa Israele e Cisgiordania.
CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1027285

Non era forse Esaù fratello di Giacobbe? – oracolo del Signore – Eppure ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù. Ho fatto dei suoi monti un deserto e ho dato la sua eredità agli sciacalli del deserto. Se Edom dicesse: «Siamo stati distrutti, ma ci rialzeremo dalle nostre rovine!», il Signore degli eserciti dichiara: Essi ricostruiranno: ma io demolirò. Saranno chiamati Regione empia e Popolo contro cui il Signore è adirato per sempre. I vostri occhi lo vedranno e voi direte: «Grande è il Signore anche al di là dei confini d'Israele»
(Malachia 1,2-5)

Edom era un antico regno del Negev, a poche centinaia di km da Gaza. Per gli antichi ebrei gli edomiti erano discendenti da Esaù, il fratello che vendette la propria primogenitura a Giacobbe-Israele per un piatto di lenticchie; così come molti proprietari palestinesi in epoca ottomana vendettero terreni poco fruttuosi ai sionisti. Queste e altre coincidenze ci lasciano sempre sbigottiti. Si fa senz'altro un torto a proiettare le storie della Bibbia sulla storia contemporanea dello Stato di Israele; i motivi per cui sta distruggendo la Striscia sono tutti terribilmente razionali, il risultato inevitabile di una serie di errori commessi in settanta più anni. E tuttavia la Bibbia è ambientata proprio lì, e parla di popoli fratelli che si odiano. Il primo ministro democraticamente eletto cita Amalek, il nome di un antico popolo che osò attaccare gli ebrei mentre si insediavano nella Terra Promessa, e al quale giurarono guerra eterna, generazione su generazione, finché non fu effettivamente sterminato ed estinto. La Bibbia sta lì, e se la ride di tutti gli studiosi che ne mettono in discussione la storicità – forse in effetti non parla del passato, ma del futuro. Forse Mosè non ha mai riportato gli ebrei in Cananea, ma Zorobabele e Ben Gurion sì. Forse l'angelo di Dio non ha distrutto Sodoma e Gomorra, ma Gaza e Khan Yunis ormai sono colonne di sale. 

La Bibbia non va sottovalutata. Eppure tutti sanno come comincia (la creazione, Adamo ed Eva), ma nessuno ti saprebbe dire come finisce. In effetti dipende molto dall'ordine dei libri, che varia di traduzione in tradizione; in linea di massima le versioni cristiane dell'Antico Testamento tendono a posporre la sezione riservata ai profeti, l'ultimo dei quali è Malachia, già definito dagli ebrei "sigillo dei profeti". 

Malachia nella Cappella degli Scrovegni

Si tratta di un finale completamente arbitrario (anche nella Tanakh ebraica Malachia è l'ultimo profeta, ma ai profeti seguono altri libri). Malachia non è l'ultimo libro a essere stato composto, né contiene molti elementi che ci consentano di datarlo (persino il nome all'origine non era proprio: "Malachia" significa "il mio messaggero"). In effetti potrebbe adattarsi a qualsiasi momento della storia antica di Israele, tanto è esemplare di tutta la letteratura profetica nella sua alternanza di rimbrotti a un popolo peccatore e promesse di un futuro luminoso. 

Se però accettiamo, come abbiamo fatto per secoli, che Malachia sia l'ultimo profeta, non può che essere posteriore a Zaccaria e Aggeo che nel VI sec. aC si sono spesi per la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme: il che significa che neppure la realizzazione del Tempio ha soddisfatto il Signore, di nuovo stomacato dei sacrifici come ai tempi di Geremia: "spanderò sulla vostra faccia gli escrementi delle vittime immolate nelle vostre solennità", dice. È l'ennesimo capitolo della psicosi di un popolo che qualunque cosa faccia non riesce a soddisfare il suo Dio, a meritare le sue promesse di grandezza. Stavolta i motivi della collera divina sono almeno definiti con chiarezza: i sacerdoti non sacrificano capi di prima scelta, com'è previsto dalle Scritture, ma "animali rubati, zoppi e malati". Non solo: ma gli israeliti non restano fedeli alle "donne della loro giovinezza", le tradiscono e praticano il divorzio. Quest'ultimo consente loro di risposarsi con le "figlie d'un Dio straniero". Questa avversione per i matrimoni misti è una delle ragioni per cui nella tradizione ebraica Malachia è stato associato a Esdra, il sacerdote che nell'omonimo libro aveva lanciato un allarme ancora più esplicito: gli israeliti che tornavano a Gerusalemme dopo la cattività babilonese si stavano mescolando con la popolazione locale, minacciando un progetto che evidentemente si basava sulla segregazione etnica. Malachia però è molto critico nei confronti della casta sacerdotale, di cui Esdra faceva parte; e sembra detestare la pratica del divorzio, laddove Esdra ottiene proprio che gli israeliti divorzino dalle mogli etnicamente scorrette.

L'idea di considerare Malachia come l'ultimo dipende probabilmente dal fatto che nel finale questo profeta gioca una carta molto impegnativa: in attesa di un trionfo del bene che assume sempre più caratteri escatologici, il Signore degli eserciti invierà "il profeta Elia", che secoli prima era stato salito al cielo sul carro del sole. La promessa di un Messia che riscatti il popolo di Israele, ricompensi i giusti e castighi i superbi col fuoco ("sta per venire il giorno rovente come un forno"), non era mai stata messa per iscritto con tanta chiarezza, al punto che quattro secoli più tardi, quando Gesù comincerà il suo ministero, molti vedranno in lui l'Elia promesso da Malachia. Gesù stesso identificherà Elia con Giovanni Battista (quest'ultimo almeno in un'occasione nega di essere Elia). Il testo di Malachia dunque presenta il finale più adatto per un Libro di cui si ha già intenzione di allestire un seguito: il cosiddetto cliffhanger, o finale sospeso. E se per i cristiani il seguito è noto, gli ebrei sono sospesi da allora.

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Gerusalemme, sopra ogni gioia

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Il cessate-il-fuoco distende parzialmente i nervi e allenta i riflessi che fin qui vi hanno risparmiato diverse riflessioni oziose, ad esempio: avete presente quelli che hanno preso le distanze dalla manifestazione di Non Una Di Meno perché Non Una Di Meno non prendeva le distanze da Hamas, ecco, molto probabilmente stavano usando un argomento pretestuoso (Non Una Di Meno ha preso le distanze da Hamas), ma secondo voi qual era il vero pretesto: la violenza sulle donne o la causa israelopalestinese?

Ovvero: hanno usato la Palestina come scusa per boicottare una manifestazione contro la violenza di genere, o hanno approfittato della grande esposizione che ha avuto in questi giorni il dibattito sulla violenza di genere per aprire un altro fronte contro i nemici di Israele e chi li appoggia? Gerusalemme è semplicemente una scusa per far notare la propria distanza insormontabile con un certo tipo di sinistra, o è l'unica vera cosa che interessa, il motivo stesso per cui la distanza con quel tipo di sinistra è diventato insormontabile?

Vi avevo avvertito che era una riflessione oziosa – è nato prima l'uovo o la gallina? Può essere l'occasione per mettere a verbale una questione che mi intriga da decenni, ovvero: perché in qualsiasi situazione che preveda una presa di posizione politica, a un certo punto ci si mette a litigare su Gerusalemme, come se fosse una questione di fondamentale importanza, mentre a mente fredda bisognerebbe invece concludere che non lo è? Nemmeno dopo giorni come questi, in cui un piccolo conflitto asimmetrico in una piccola regione del mondo ha fatto più vittime che la grande guerra russo-ucraina su un fronte di centinaia di chilometri: nemmeno oggi, se volessimo restare razionali, potremmo concludere che il destino del mondo dipende dalla risoluzione del conflitto israelopalestinese. È una situazione terribilmente intricata, forse la più intricata di tutte, ma è anche una guerra come tante: perché ci appassiona così? Perché (ma questa forse è una sensazione mia) sembra diventare sempre più cruciale, man mano che il tempo passa? Se è una guerra di civiltà, ne abbiamo altre; se è un conflitto postcoloniale, non sarà l'ultimo; se è una delle caselle del Grande Gioco del Medio Oriente, non è quella più popolata né contiene la maggior parte delle risorse. 

Calenda vigila.

Dopodiché, è chiaro che mi dispiace per israeliani e palestinesi. Ma se dal generico dispiacere passo all'ansia per il futuro, se dovessi mettere per iscritto le prime dieci cose che mi preoccupano, ho la sensazione che Gerusalemme non ci entrerebbe. C'è l'emergenza climatica, è l'anno più caldo di sempre; non sappiamo esattamente cosa mangeranno i nostri figli quando avranno la mia età; dalla Cina sta arrivando un'altra ondata di polmoniti sospette, eccetera eccetera. Abbiamo così tanti motivi di preoccuparci, ma per qualche motivo Gerusalemme ciclicamente torna a catalizzare non solo la nostra attenzione, ma la nostra aggressività. Non saprei dire il perché. Quel che posso dire è che da quando mi ricordo di essere al mondo e partecipo a iniziative politiche, ho avuto modo di notare che procedendo il tempo in senso lineare sulla retta t, prima o poi si arriva sempre a un punto che definirò Y, in cui qualcuno ti chiede di prendere una posizione su Israele e Palestina. 

Ciò avviene invariabilmente e indifferentemente dal motivo per cui è stata organizzata l'iniziativa, ovvero potrebbe trattarsi di una raccolta fondi per gli ex gattini ciechi o per il buco dell'ozono, non importa; la prima volta che assistei con i miei increduli occhi a un evento Y stavamo cercando di organizzare un circolo Arci, che dalle nostre parti significava un bar e una pista per ballare, e mentre ne discutevamo un tizio prese la parola per spiegarci che Arafat voleva mettere gli ebrei nei forni. Lì per lì ci restammo male: non perché credessimo in quel momento che Arafat volesse mettere gli ebrei nei forni, ma insomma come si fa a discutere di un bar quando ci sono problemi del genere all'ordine del giorno, che figura ci stavamo facendo, altro che bar, parliamo un poco di questo Arafat. Vorrei poter dire che è l'ultima volta che ci sono cascato ma ahimè no, altre discussioni furono fatte, altre posizioni furono prese, il bar rimase aperto due mesi (due mesi incredibili, va detto) e però cinque anni dopo mi ritrovavo a Khan Yunis a fissare le torrette di guardia degli israeliani e i buchi delle granate nel cemento, domandandomi: ma che ci faccio, cos'è successo, io ero lì che volevo aprire un bar.

Ma io non faccio probabilmente testo. Ho questa strana formazione biblica (non particolarmente cattolica) per cui in fondo me lo aspetto che ogni strada dialettica ci conduca prima o poi a Gerusalemme, e che l'Armageddon debba cominciare in una spianata lì nei pressi; mentre non ho mai capito come mai gente in teoria laicissima si lasci coinvolgere con tanta foga in dilemmi così assurdi. Davvero, perché non succede mai in mezzo a un corteo femminista scoppi una diatriba sulla Libia o lo Yemen del Nord, cos'ha di Gerusalemme di così fondamentale per tutti, non si sa. Escludo che siano gli ebrei italiani, i primi a dividersi in squadre e a prendere posizioni molto forti (forse anche perché non sentono, come altri adulti, un impulso ad autocensurarle: capita così che tra tutti gli organi di stampa in Italia, un pezzo che ricollega l'attivismo filopalestinese a George Soros, insomma il complotto ebraico contro gli ebrei, venga pubblicato proprio su Open). Si tratta di una piccola comunità, certo ben rappresentata sui media, ma mi sembra comunque inverosimile che riescano a scatenare una diatriba così diffusa e capillare.

  

Io me la ricordo già così

Poi ci sono gli israeliani, ovviamente, e i palestinesi, e ogni volta che li vediamo all'opera nel tentativo di difendere la propria parte, con toni che tradiscono un'aggressività ancora difficile da accettare alle nostre latitudini, mi trovo a rammentare a osservatori sbigottiti che no, non sono simpatici; cosa vi aspettate da gente che si odia da 80 anni, che può nominare padri nonni e bisnonni che si sono fatti fuori a vicenda? Hanno un pelo sullo stomaco che noi neanche ci immaginiamo. È inevitabile che se c'è una manifestazione nazionale su qualsiasi argomento loro cercheranno di parteciparci con più bandiere possibili o mostrare polemicamente che sono stati esclusi con più bandiere possibili. È la continuazione della guerra con altri mezzi, lo hanno sempre fatto ed entro certi limiti è consentito che lo facciano, c'è libertà di espressione qui da noi. Il che non significa che sia giusto dare loro più visibilità di quanta ne meritano, certo, dipende tutto dai giornalisti.

Non credo di essere stato l'unico a notare che nel paio di giorni precedenti a una manifestazione nazionale contro la violenza di genere, sugli organi di stampa più vicini a Israele si è cominciato a ricordare che il 7 ottobre erano stati commessi stupri etnici. Nulla che non sapessimo già, ma improvvisamente se ne riparlava. Sono operazioni di comunicazione che mi lasciano sempre a metà tra l'ammirato e l'allibito, perché davvero, c'è qualcosa di geniale ma anche di molto cinico nel saper sempre trovare in ogni argomento il punto Y, quello che dividerà gli ascoltatori in due fronti che non hanno mai niente a che vedere con la causa per cui stavano marciando, ma sempre con questa benemaledetta Gerusalemme. 

Da decenni la questione israelopalestinese è una cartina al tornasole molto più efficace di teorie economiche o statistiche sul reddito: così come una volta per capire con che ragazzo uscivi dovevi chiedergli che musica ascoltava, da trent'anni per capire se una persona è di sinistra, e di che sinistra è, gli devi semplicemente chiedere cosa ne pensa dei Territori Occupati. E non ci sono sfumature, presentatemi una sola persona che ha cambiato idea sull'argomento almeno dall'assassinio di Rabin in poi. Sono successe tante cose, ma chi stava con gli israeliani sta ancora con loro, e chi stava coi palestinesi, beh, magari la kefiah l'ha messa via, ma a parte questo è ancora dalla stessa parte. Insomma per quanto ne abbiamo parlato in questi trent'anni, non stavamo davvero discutendo. Abbiamo imparato qualcosa? Più che altro abbiamo imparato come ragionano gli avversari, ormai i discorsi sono diventati slogan, gli slogan sono diventati meme, i meme un puro gesticolio. Il vero motivo per cui non litigo più con i sionisti è che mi annoio. Dicono sempre le stesse cose e probabilmente le dovrei dire anch'io. Ogni tanto passo a controllarli e mi sembra il giorno della marmotta, stanno di nuovo parlando di com'è davvero andata nel '48 e del Gran Muftì. Rispetto a loro mi sembra di avere una vita piena e complessa, e allo stesso tempo capisco che per loro dev'essere riposante avere un solo argomento, e su quell'argomento delle idee così chiare e definitive. Hanno un'idea da difendere, che tra le altre cose nel 1948 si è fatta nazione (per quanto a chiamarli nazionalisti si offendano), e per difenderla sono pronti a qualsiasi paradosso, a qualsiasi espediente retorico, il che consentirebbe loro un'esplosione di creatività, se fossero persone creative – salvo che non è quasi mai il caso, non so il perché, forse la creatività rifugge le idee chiare e definitive. Israele deve sopravvivere (dal momento che è minacciata, ogni istante, nella sua stessa esistenza) e questa sopravvivenza è prioritaria su qualsiasi altro problema, anzi, ogni altro problema è conseguente e vale la pena di essere risolto soltanto se contribuisce alla sopravvivenza di Israele e nella modalità in cui contribuisce alla sopravvivenza di Israele. Fiat Israel pereat mundus, è una cosa che leggendoli a volte mi esce dalle labbra. E un po' ci credo, il mondo potrebbe davvero finire. Magari non stavolta, ma intanto c'è già chi suggerisce che Biden si stia giocando la rielezione. Lì c'è un problema a monte: possibile che i Democratici in quattro anni non abbiano trovato meglio del vecchio Biden? Anzi due problemi a monte: possibile che con la loro invidiabile civiltà giuridica Donald Trump sia ancora in lizza? 

Dua Lipa contro il sionismo: chi vincerà?

Quando tutto intorno a me diventa un problema, non posso non sospettare che il problema sia io, il modo in cui mi ostino a vedere le cose. La mia pretesa di individuare problemi che ci minacciano in quanto umanità, problemi che riusciremo a risolvere soltanto tutti assieme: l'ambiente, la pace (intesa anche come riduzione progressiva e sistematica della violenza di genere), eccetera. Non è che alla fine ho sviluppato la mia forma di socialismo utopico? Non è che mi sto illudendo anch'io che il mondo si salverà convincendo i tycoon a convertirsi all'energia pulita e al riciclaggio, mandando qualche esperto a insegnare le emozioni nelle scuole... Gerusalemme sta lì per ricordarmi che no, i problemi non si risolvono mettendosi tutti d'accordo, ma sconfiggendo un avversario che ha una soluzione diversa dalla tua. Con tutte le armi metaforiche e non metaforiche, consentite e non consentite. Filoisraeliani e filopalestinesi mi fanno paura perché capisco che alla fine hanno una priorità che viene prima della pace del mondo, della tutela dell'ambiente e della mia, della loro stessa sopravvivenza, e benché quella priorità da fuori sembri tanto assurda quanto piantare una cazzo di bandierina su una spianata, forse il punto è semplicemente questo: il mondo ha il senso che tu decidi di dargli; non può averne tanti, ne ha uno solo e gli altri dipenderanno da quello. L'avevo pur letta questa cosa, da qualche parte: se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; resti la mia lingua attaccata al palato, se io non mi ricordo di te, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia.

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Io gli israeliani però li capisco

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Lo voglio dire a un punto qualsiasi di questo massacro: io capisco gli israeliani. Vorrei dire: li compatisco, se la parola italiana non si portasse con sé una sfumatura negativa, là dove vorrei semplicemente intendere: soffro con loro. Ho la sensazione di soffrire più con loro che coi palestinesi, per tutta una serie di motivi. E non li giudico, per lo stesso motivo per cui non giudico i palestinesi: perché giudicare non spetta a me. Per quanto i social, e in generale la mediasfera, possano avervi convinto di trovarvi in una corte internazionale permanente dove con la pressione di un tasto potete condannare Hamas, i coloni, Netanyahu, la Jihad, il Likud, ebbene no: questa cosa è un'illusione. Nessuno ci ha veramente convocato, nessuno saprà veramente che farsene del nostro giudizio – al massimo qualche profilazione per cercare di venderci un libro, o un costume da bagno, e soprattutto per metterci in contatto con gente che non la pensa come noi, così possiamo litigare a lungo e nella foga cliccare per sbaglio su altre inserzioni. Non siamo giudici internazionali, non siamo proprio giudici in generale; siamo banali osservatori e la cosa migliore che possiamo fare è cercare di capire cosa sta succedendo: una missione a cui la maggior parte dei giornalisti italiani mi pare abbia rinunciato. 

Qui accade qualcosa di non dissimile a quanto è successo con l'Ucraina, ovvero che dopo un'iniziale sorpresa ci tocca constatare che gli avvenimenti tanto imprevisti erano in realtà inevitabili, la conseguenza di decisioni prese anni fa, con troppa leggerezza; tanto che chi li ha prese spesso è già fuori dai giochi. Allo stesso modo, quel famoso 7 ottobre in cui "comincia tutto", secondo una retorica che trasuda di malafede, è un giorno che effettivamente ci ha preso alla sprovvista, ma che ora ci sembra inevitabile. Se la scommessa di Netanyahu – e in generale della classe dirigente israeliana – era mantenere la Striscia in uno stato di ebollizione permanente, evitando con ciclici interventi mirati che saltasse il coperchio, ebbene, il piano richiedeva il mantenimento di un'attenzione costante e capillare che nemmeno con tutti i droni del mondo Israele poteva permettersi; tanto più che prima o poi i droni avrebbe cominciato a usarli anche Hamas. Il 7 ottobre avrebbe potuto succedere qualche anno fa o tra qualche anno, ma prima o poi sarebbe successo, e questo è un motivo per cui capisco gli israeliani: da anni dormono, come noi, di fianco a una o più bombe a orologeria. 

In arancione i caduti palestinesi, in viola gli israeliani. CNN.

Israele è una nazione giovane (28 anni l'età media) che si trova in una situazione senza uscita a causa di scelte fatte ormai due generazioni fa. Le colpe dei bisnonni non dovrebbero ricadere sui figli, ma nei fatti è così. A chi è tanto lesto a condannare questo e quello, continuo a chiedere: ma se tu fossi nato in un quartiere di Gaza devastato dalle granate, credi che oggi non approveresti Hamas, che non ne faresti parte? E se invece io fossi nato in una colonia nel Negev o in un quartiere di Haifa, non chiederei anch'io di asfaltare la Striscia? Probabilmente sì – o magari affetterei un vago senso di colpa, come quando leggo che i miei ministri stanno allestendo altri campi di concentramento per i migranti all'estero. Vent'anni fa, Israele ha tentato di fermare la demografia recintando Gaza: fu una scelta scellerata, ma al tempo era difficile rendersene conto. Persino io per un attimo credo di aver pensato che potesse trattarsi di un passo avanti: finalmente la Palestina avrebbe avuto un pezzo di territorio senza coloni. Ma avrei già avuto tutti gli elementi per capire che quel pezzo di territorio sarebbe caduto in balia di Hamas. Anche il ruolo dell'Iran in tutta la vicenda si è chiarito abbastanza presto e adesso bisognerebbe dirlo: è inutile pretendere che israeliani facciano la pace coi palestinesi, finché gli USA mantengono un embargo con l'Iran. Israele e Palestina sono solo due o tre caselle della scacchiera – le caselle che da sempre ci attraggono di più, per motivi storici e culturali – ma il gioco è molto più vasto ed è ipocrita, è sempre stato ipocrita pensare che israeliani e palestinesi possano risolvere i loro problemi da soli. Alla fine sono solo due piccoli popoli schiacciati in due striscioline di terra, e questo è un altro motivo per cui li capisco: per quanto mi possa percepire al centro del mondo, anch'io alla fine abito in provincia. 

Israele fa quello che può – e quel che può fare è terribile – ma a questo punto non potrebbe fare diversamente. È uno Stato che si è dato per scopo la sicurezza del suo popolo, e che si è trovato incastrato in un territorio aspro tra popoli nemici. Per sopravvivere ha dovuto combattere molte guerre e concludere molte paci, e ancora non basta. Qualcuno da fuori potrebbe astrattamente concludere che si è trattato di un errore: forse non bisognava andare là, forse bisognava fare le cose in un modo diverso, forse, forse, forse. Può darsi che essere israeliani significhi ogni giorno svegliarsi e dire di no a tutti questi forse: perché a questo che qualcuno chiama errore, la tua famiglia ha dedicato vite intere, dissodando il deserto, morendo in guerra. Non posso dire di capire veramente gli israeliani in questo: per me, e credo per la maggior parte degli italiani, la nazionalità è qualcosa che si dà ormai per scontata, e dalla quale anzi amiamo chiamarci fuori appena possiamo. Però la fatica di credere ogni giorno in un ideale anche quando l'ideale assomiglia sempre più a una trappola, ecco: quella la conosco, l'ho sentita sulle mie spalle, anche solo per una giovinezze: non posso che compatire chi ci convive da sempre e sa di doverla passare ai propri figli.  

Ecco, ho scritto i motivi per cui credo di capire gli israeliani. Ora mi resta da spiegare perché non posso capire allo stesso modo chi in Italia, o altrove, tifa per loro: proprio come se fosse una squadra di calcio, e non un popolo intrappolato in una tragedia. La prossima volta.

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Gaza sarebbe bellissima

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Di solito quando scoppia una guerra ci accorgiamo di saperne poco; fa eccezione il conflitto israelopalestinese, del quale possediamo anche troppe chiavi di lettura. È una guerra per i luoghi santi, no è una guerra di civiltà, no è il colpo di coda del colonialismo (dove il problema sta nella coda: agli israeliani rimproveriamo di fare cose che i nostri bisnonni hanno fatto per lo più impunemente su scala assai più vasta), è una guerra asimmetrica, è la legalità contro il terrorismo ecc ecc. 

Tutte queste letture non si negano a vicenda: se potessimo conoscerle tutte, forse capiremmo davvero ogni aspetto del conflitto, come una mappa 1:1 conoscerebbe ogni aspetto del territorio: ma così come una mappa del genere sarebbe problematica da leggere quanto il territorio stesso, così più cose impariamo meno riusciamo a immaginare una via d'uscita (avrete notato che chi ha idee chiare e risolute sull'argomento di solito semplicemente non lo conosce).

Viene la tentazione, di fronte a tanta complessità, di riscoprire la chiave più semplice e stupida, la mappa più piccola e monocroma: questa è una guerra tra ricchi e poveri. A scandalizzare non è tanto che una milizia abbia assassinato più di mille persone – cose altrettanto terribili capitano in teatri di guerra non più lontani – ma che i miliziani venissero da una città di poveri, e che abbiano assassinato liberi cittadini di una nazione ricca. Questo è scandaloso; richiede la solidarietà di tutti noi (ricchi), nonché l'incondizionato appoggio di un esercito il quale, rappresentando una nazione ricca, non potrà che comportarsi in modo intrinsecamente morale anche quando conduce una rappresaglia su luoghi densamente popolati.

Anche il rapporto tra vittime delle due parti, se davvero si assestasse intorno a una vittima israeliana ogni 10 palestinesi, non ci scandalizzerebbe più di tanto perché le vittime non si contano, ma se ne pesa il reddito e questa pesa ci dice che Israele è ancora abbondantemente in credito. I ricchi hanno leggi scritte e tribunali, un alto senso della moralità che non può non irradiarsi sul loro esercito; i poveri si vestono male, si comportano in modo sconsiderato e irrazionale, portando avanti uno stile di vita patriarcale che ci risulta molto comodo stigmatizzare – e soprattutto, malgrado ogni nostro tentativo di dissuaderli, figliano troppo, ormai è un'emergenza ambientale, bisognerebbe fare qualcosa, Israele sta facendo qualcosa, con che faccia ipocrita possiamo biasimarli. 

Gaza potrebbe essere un luogo bellissimo, una stazione balneare con aeroporti e casino che farebbero fallire Ibiza in venti minuti, ma i poveri ci stanno abbarbicati e tutto quello che hanno saputo farci è quell'inferno di cemento e polvere. Che male veramente c'è se ora li strizziamo tutti fuori da quel tubetto – se solo l'Egitto volesse aprire il tappo, e prima o poi lo farà, o sarà ritenuto il colpevole. Se è una guerra tra ricchi e poveri, le squadre anche tra noi sono fatte: chi vorrebbe essere ricco più facilmente tiferà Israele, chi ha in antipatia la categoria (anche quando ne fa parte) più spesso manterrà una simpatia per la Palestina, poi certo per la maggior parte del tempo parleremo di argomenti più complessi, di guerre di civiltà, di terrorismo e religione e di tutte le altre sovrastrutture che ci siamo inventati più o meno da quando Caino ha capito che il suo stile di vita non era paragonabile a quello di Abele.

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Perché non riusciamo a odiare i palestinesi?

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C'è una discussione che sarebbe saggio rimandare a tempi più tranquilli, ma non è detto che ce ne saranno più, così comincio adesso. Parto da una domanda meno retorica di quanto potrebbe sembrare: perché non odiamo i palestinesi? Noi italiani, intendo. Persino in un momento come questo, in cui la pubblicistica di sinistra è ormai ridotta al lumicino, e i quotidiani del fu ceto moderato e riflessivo sono tutti a disposizione di Israele – certo, non li legge più nessuno, ma in parte proprio perché ormai se la cantano e se la suonano, senza preoccuparsi troppo di intercettare le opinioni di un pubblico così meno filoisraeliano di loro. 

(Il direttore di uno dei principali quotidiani italiani smentito dallo sgangherato strumento di fact-checking affidato alla peggiore comunità virtuale nella storia di Internet) pic.twitter.com/2TNTrDsze6


Poi c'è la stampa più becera, storicamente barcamenantesi tra antisemitismo e antislamismo, che dal 7 ottobre sembra decisamente aver optato per quest'ultimo. Almeno per quanto mi è dato di vedere (non è che mi soffermi molto). Ma quindi a questo punto chi potrebbe più intercedere per i palestinesi presso il pubblico italiano? Giusto qualche influencer che però se insiste rischia di essere malmenato. Eppure guardatevi intorno: abbiamo una stampa più filoisraeliana della stampa israeliana, opinionisti tv in servizio permanente che possono permettersi di accusare in serenità il segretario generale Onu di fiancheggiare Hamas, e malgrado tutto questo sforzo – che sarà anche costato parecchio denaro – gli italiani non odiano ancora i palestinesi: e parliamo di uno dei popoli più sfigati del mondo. Arabi di lingua, perlopiù musulmani di religione, insomma quel tipo di gente di cui siamo allenati da secoli a diffidare: ma ancora non li odiamo. Perché? 

Non hanno calciatori famosi, né ballerine o attrici disponibili a sposare i nostri; in effetti non hanno più niente, e quando avevano qualcosa erano limoni e olive e un po' di luoghi santi, insomma se avessero uno Stato e un minimo di economia dovremmo persino temere la loro concorrenza: e invece di ringraziare chi quotidianamente si adopera per evitare questa possibilità, noi ci ostiniamo a parlare di pace, di Due Popoli Due Eccetera, a tentare di capire le ragioni di chi non ha più un soldo per permettersele. Così empatici, noi, è possibile? Perché diciamolo, di altri popoli ci frega poco o nulla. Qualcuno ha la minima idea ad esempio di cosa stia succedendo in Libia? È una terra più vicina a noi, geograficamente e storicamente. C'è la guerra anche lì, in teoria, ma non ci scalda un decimo di quanto ci attizzi la causa palestinese, la più persa di tutte. Da cui un sospetto: forse non è tanto la simpatia per i palestinesi, che alla fine chi li conosce, quanto la diffidenza per la retorica filoisraeliana, che più martella più ci lascia diffidenti. Può essere il motivo, mutatis mutandis, per cui di putinisti ce n'è più qui che altrove. 

È abbastanza singolare che in un contesto sempre più globalizzato, dove ormai la gente in tutto il mondo guarda gli stessi programmi coi sottotitoli, l'italosfera dimostri una sua identità, o almeno un'immunità a messaggi costruiti appositamente per essere ripresi e amplificati da qualsiasi pubblico – e invece no, in Italia non passano. Così come ascoltiamo sempre meno musica in altre lingue (Kanye West l'avrebbe riempito sul serio Campovolo?), capiamo sempre meno certi discorsi, pure semplicissimi. Un anno e più fa gli ucraini cominciarono a spiegarci che non potevano assolutamente negoziare con Putin perché questo avrebbe comportato cessioni territoriali: chi mai cederebbe terreno in cambio di pace? A dire il vero è successo tante volte a tante nazioni, ma agli ucraini sembrava scandalosa la sola idea. Ricordo una serie di messaggi, ripresi anche da qualche volonteroso megafono italiano, tutte variazioni sul concetto: voi che regione del vostro Paese cedereste? È chiaro che una domanda così, se la fai a un americano, è retorica; ma noi italiani abbiamo una storia diversa, regioni ne abbiamo già cedute parecchie (ringraziando di non doverne cedere di più), e soprattutto passiamo il tempo a sfotterci da regione a regione, da provincia a provincia, ognuno a una domanda così ha già pronta una risposta scherzosa, ma fino a un certo punto. Non puoi convincerci con messaggi così, non devi neanche provarci se non vuoi dimostrarci di non conoscere né la nostra storia né la nostra psicologia. D'altro canto gli ucraini sono una nazione giovane, l'inesperienza va messa in conto. 

Una regione sola? Non possiamo darne un paio?

Gli israeliani viceversa queste battaglie mediatiche le combattono da sempre, con un'indiscussa professionalità, e sin dall'inizio hanno deciso di impostare la campagna autunno-inverno sull'equivalenza tra Hamas e l'Isis. Opzione assolutamente comprensibile, quasi obbligata, che negli USA e in molti Paesi europei farà senz'altro breccia. In Italia c'è questo problema, che dell'Isis non frega quasi più nulla a nessuno. Vagamente ricordiamo che si trattava di una specie di califfato che per un po' ha controllato certe zone desertiche poi riconquistate da potentati non molto più rispettabili, e non siamo del tutto sicuri (come in Libia) di non essere stati anche occasionalmente dalla stessa parte della barricata contro altri nemici, che in Medio Oriente si sa come vanno a finire tutte le guerre di civiltà (come vanno a finire? in guerriglie per il controllo di oasi e pozzi). 

Ai tempi "Isis" fu anche l'etichetta che si scelse di appioppare all'ultima storica ondata di attentati di matrice islamica in Europa, che a riguardare i pezzi scritti al tempo ci terrorizzarono parecchio: ma sono passati anni, abbiamo avuto altri problemi, e a differenza che in Francia o in Belgio nessun processo ha mantenuto un po' di attenzione mediatica sugli attentatori perché, anche stavolta, nessun terrorista ha scelto l'Italia. Non è chiaro il perché, forse si tratta solo di fortuna, ma in questo caso è una fortuna incredibile, che dura da più di vent'anni: né Al Qaeda né l'Isis hanno mai considerato l'Italia come un campo di battaglia. Magari è tutto merito della nostra intelligence, ma consentitemi di diffidarne. Comunque sia, registro questo fenomeno: che all'ennesimo agit-prop filoisraeliano (non sempre consapevole di esserlo) che ti ripete che Hamas va trattato come l'Isis, l'italiano medio risponde: ok, ma come l'abbiamo trattato l'Isis? No, sul serio: lo abbiamo pagato? e nel caso, quanto? Perché da noi c'è questa idea, che un prezzo ci sia sempre. Non è un'idea giusta, ma neanche storicamente sbagliata. È senz'altro un'idea cinica, ma ormai si è capito che non siamo quel tipo di popolo che combatte fino all'ultimo uomo per un'idea. Meglio così, vista la nostra inclinazione per le idee sbagliate e perdenti.  

Può darsi che questa nostra riluttanza a odiare i palestinesi sia soltanto una resistenza del passato, come quando non volevamo andare nei fast-food perché era la fine della cucina italiana. Può darsi che dipenda da una serie di circostanze che stanno per sfumare: nei prossimi giorni, se il blocco di luce e acqua proseguirà, moriranno veramente molte persone e l'unico modo di resistere a questa informazione sarà autoconvincersi che non si tratta esattamente di persone, bensì "inhuman animals" o qualcosa del genere, in altri Paesi probabilmente sta già funzionando. Aggiungi che dicembre si sta avvicinando, e presto i nostri giornalisti scopriranno che nelle scuole di Gaza non fanno il presepe. Questo potrebbe essere il dettaglio cruciale. 

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Le cavallette! (Non è stata colpa mia?)

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19 ottobre: Gioele, profeta (IX secolo o IV secolo aC)

Sesso con gli ortotteri!
Israele, la Palestina, come volete chiamarla, è una terra difficile. Che un Dio possa averla promessa a un popolo in cambio della sua fedeltà, è cosa che desta più di un sospetto. Ti promette fiumi di latte e miele, ti ritrovi con pietraie e laghi salati. Dev'esserci un errore, e non puoi che averlo commesso tu; forse non hai amato Dio abbastanza, dovresti impegnarti di più. Far fiorire il deserto – certo serve molta acqua, occorrerà occupare determinate oasi, scacciare determinati beduini, ma è Dio che ce lo chiede, implicitamente. Tra un pascolo e l'altro capita di imbattersi in rovine ciclopiche, i resti di antiche città che sembrano devastate da diluvi o da tempeste di fuoco – la ceramica si è fusa con le pietre – quel giorno Dio doveva essere molto arrabbiato e siccome ce n'è Uno solo, è lo stesso Dio che ti ha voluto esattamente qui. Meteore, inondazioni, guerre, e poi che altro? Beh, le locuste. Quegli insetti devastanti che Dio inflisse al Faraone per convincerlo a liberare il tuo popolo, ecco, a un certo punto lo stesso Dio le ha inviate a te. È quel che racconta il profeta Gioele nel suo breve libro, di datazione molto incerta: potrebbe essere stato scritto nell'800 come nel 300, un range di cinquecento anni nei quali la situazione più di tanto non cambia: accadono disgrazie, gli uomini domandano a Dio perché, Dio risponde che è colpa loro, ma che se si comporteranno meglio Lui li perdonerà. Questo però mediamente non accade e in breve arriva qualche nuova disgrazia. 

L'avanzo lasciato dal bruco l'ha mangiato il grillo;
l'avanzo lasciato dal grillo l'ha mangiato la cavalletta;
l'avanzo lasciato dalla cavalletta, l'ha mangiato la locusta.

In seguito i lettori poco famigliari con gli insetti migratori si sono ingegnati a considerare le locuste come una metafora, o anche solo l'allegoria di un esercito invasore; e però non è affatto improbabile che il profeta stesse documentando un fatto storico reale, una migrazione di cavallette della specie Schistocerca gregaria, dette volgarmente locuste del deserto, che da millenni infestano Nordafrica e Medio Oriente, creando gravi e periodici problemi a chi coltiva quelle terre così benedette da Dio. Addirittura Gioele potrebbe aver cercato di descrivere i quattro stadi della locusta: il "bruco" sarebbe la larva, il "grillo" la neanide, la "cavalletta" la ninfa e la "locusta" l'insetto adulto, in quella fase gregaria in cui abbiamo scoperto che la compagnia dei suoi simili gli dà una botta pazzesca di serotonina. Proprio così, aggregarsi per le locuste a un certo punto diventa una cosa piacevolissima, meglio del sesso. Non poteva inventarsi qualcosa del genere il Dio che ci ha creati? eh, ma ci ha creati a Sua immagine e così quando cominciamo a essere troppi in una terra che non ha abbastanza acqua, invece di provare piacere, ci ammazziamo. Forse è quello che Dio pretende da noi. Forse invece Dio si arrabbia in questi casi. Non è affatto chiaro. Molta gente al nostro posto impazzirebbe, noi no, non possiamo. Dio ci ha scelti per tutto questo, ci sta mettendo alla prova.

L'invasione delle locuste nel primo capitolo del libro di Gioele è davvero ben descritta, con toni più disperati che apocalittici; non è la solita minaccia di un profeta a un popolo che ha abbandonato il Signore. Tutto è già successo; il Signore è evocato soltanto in un secondo momento, quando Gioele sente la necessità di fornire ai suoi lettori una speranza. Se ci riaccostiamo a Lui, ci darà tutto (quello che ci ha tolto). Farà trionfare Israele su tutti i suoi nemici. Addirittura stenderà il suo Spirito su tutti noi, diventeremo tutti profeti (a causa di questa promessa inusuale, Gioele è considerato il profeta della Pentecoste). Può darsi che il libro di Gioele, per quanto piccolo, sia una collazione di testi diversi; una più antica lamentazione su un fatto storico (un'invasione di locuste) viene in seguito rimaneggiata da un profeta con una teleologia fin troppo chiara: ogni disgrazia è una prova che Dio ci manda affinché recuperiamo la fiducia in Lui. Il Quale un giorno verrà e risolverà ogni problema – nel frattempo ci manda le locuste.
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Farla finita con Gaza

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Il Messaggero

Se scrivo qualcosa qui, non è che ce ne sia un motivo. Non ho informazioni da aggiungere, non ho previsioni da proporre, in sostanza non ho quasi idea di cosa stia succedendo e di perché succeda. Scrivo per abitudine – un'abitudine che sto perdendo, in realtà, e forse non è nemmeno un male. Scrivo per rendere a me stesso conto del fatto che mentre cominciavano ad arrivare le notizie dell'attacco di Hamas, ho scoperto covare da qualche parte in me un sentimento di speranza. Non certo di una vittoria di Hamas – credo che non ci contino nemmeno loro, la violenza che esprimono è proporzionale alla disperazione che li nutre; forse speravo anch'io in una rappresaglia massiccia delle forze militari israeliane. La quale rappresaglia porterebbe senz'altro al massacro di una popolazione in gran parte inerme, ma magari anche alla fine di quel laboratorio mostruoso che è diventata Gaza, e dello status quo che ha incancrenito la situazione a partire dal ritiro unilaterale degli israeliani dalla Striscia nel 2005

Se scrivo qualcosa è perché su quel ritiro che apparentemente poteva sembrare una buona notizia, ho maturato col tempo e qualche lettura un'opinione che i fatti successivi hanno sembrato confermare; dopodiché non è da escludere che da un certo momento in poi io abbia messo di notare altri fatti che la smentivano. A chi aveva la pazienza di passare di qui ho cercato di spiegare, coi miei limiti, che quello che il mondo intero continuava a vedere come un problema, per Israele era una soluzione; che Gaza avrebbe fornito da quel momento agli israeliani quella modica quantità di minaccia esterna necessaria a mantenere la società coesa e bellicosa, in un warfare di bassa intensità che era la cosa più vicina alla pace che Sharon o Netanyahu potevano concepire. 

Quando i bombardamenti reciproci tra Gaza e Israele cominciarono ad assumere un ritmo stagionale, a chi periodicamente gridava che Israele era minacciata nella sua stessa esistenza obiettavo che no, Israele aveva di fatto già vinto, e come ogni vincitore aveva avuto la possibilità di scegliersi il suo nemico, selezionarlo, tagliargli gambe e/o testa ogni volta che ne intravedeva la necessità. Non volete sentirvi dire che Israele ha creato Hamas? Va bene, e del resto non ci sono le prove, ma dopo tanti anni non ha nemmeno più molta importanza chi l'abbia creato: qualcuno comunque ha consentito che prendesse il potere in una striscia di terreno sovrappopolata e recintata da ogni lato, e di certo non è stata l'ANP. Qualcuno ha pensato che piuttosto di cercare una pacificazione coi palestinesi, attraverso una strada che a nessuno è mai sembrata facile, si poteva invece dividerli e lasciare che in certe sacche i più radicalizzati e indifendibili prendessero il sopravvento. Questo non avrebbe mai garantito agli israeliani l'incolumità che si godono i cittadini di un Paese in tempo di pace, ma li avrebbe confortati nell'idea che la guerra che era necessario protrarre in eterno era una guerra giusta, combattuta dall'esercito più morale del mondo per difendere lo Stato che vince sempre ma che ogni razzo artigianale minaccia nella sua stessa esistenza. E poi dicevo un'altra cosa, che a distanza mi colpisce: che la Striscia era un esperimento, e che se avesse avuto successo – e stava avendo successo – non sarebbe passato molto tempo prima di ritrovarcelo in altre situazioni. Il che non significa che Kossovo e Donbass, per fare due esempi europei, non siano situazioni dove la guerra a bassa intensità può diventare lo status quo; ma che può succedere e in parte dipende da noi, dalla nostra attenzione, dalla nostra consapevolezza. 

Ora, quello che sta succedendo è atroce, ed è difficile immaginare che non porti nei tempi brevi ad atrocità ancora peggiori. Ma se per la prima volta dal 2005 i miliziani di Hamas danno l'impressione di avere davvero fatto qualcosa che Israele non si aspettava, forse almeno tante vittime significano che l'esperimento Gaza è fallito. La violenza che ha prodotto, la crudeltà che ha partorito, è qualcosa che Israele non riesce più a contenere: per farlo dovrebbe superare il nemico in crudeltà e forse non può farlo, perché Hamas prende ostaggi e perché Israele, malgrado tutto, è ancora una democrazia. I falchi nel 2005 hanno avuto un'idea; per qualche tempo è sembrata funzionare, e chi ne parlava male un pericoloso antisemita. Dopo quasi vent'anni, l'idea si svela per il congegno aberrante che è: chi l'ha voluta è morto, chi l'ha portata avanti è vecchio è odioso; Israele è uno Stato di giovani, e i giovani se una cosa non funziona di solito la cambiano, non ci si intestardiscono fino a morirne. Forse sto sperando in questo.

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La memoria e la farsa

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Noi siamo abbastanza sicuri del fatto che chi dimentica il passato sia condannato a riviverlo. Non è solo un proverbio ripetuto da persone autorevoli: è un'osservazione riferita più volte da persone che la Storia l'hanno studiata da vicino. E siccome nel passato sono stati commessi errori orribili, scegliamo per quanto possiamo di ricordare. Però.

(Lo sapevate che c'era un però).


UGUALE

Noi sappiamo anche che la Storia si ripete in farsa. Anche questa non è una semplice battuta di uno storico o di un economista: è un'osservazione molto sottile, che si adatta a così tanti episodi antichi e recenti. È una regola vagamente simile al principio di indeterminazione: una volta accettato che il passato va osservato (per evitare di riviverlo), occorre studiarlo, per osservarlo si inventa una disciplina – la Storia, che oltre a essere per quanto possibile una scienza dev'essere anche il più possibile popolare, un cannocchiale in un promontorio che tutti hanno il diritto/dovere di usare senza nemmeno l'esborso di una monetina – dopodiché come possiamo impedire che la Storia sia modificata dal fatto stesso che noi la studiamo, la popolarizziamo, ovvero la rendiamo più vicina al popolo fino al momento in cui il popolo non comincia a sognare di viverci dentro? Una volta sensibilizzati i sudditi dei regni ottocenteschi sul fatto che quei ruderi di campagna erano castelli di una civiltà importante ingiustamente svalutata, come impedire che gli stessi sudditi ottocenteschi si mettano a costruire palazzi con merlature ghibelline pacchiane e farlocchissime? Non puoi impedirlo, nemmeno ci provi, finché sono merlature pazienza. 

Con la Shoah però.

Noi non vogliamo che la Shoah si ripeta, quindi non ci basta studiarla: cerchiamo di parlarne il più possibile. Il che è comprensibile e giusto. Abbiamo creato una liturgia, ed era inevitabile che intorno alla liturgia si formasse un'economia. Ogni anno qualche libro in più, qualche film: l'argomento ci interessa ed è giusto interessarsene, quindi continuiamo. Finché un giorno non ci accorgiamo (ma non avremmo dovuto immaginarcelo?) che c'è un sacco di gente che in quei film e quei libri crede di viverci, benché siano molto meno confortevoli dei libri in costume sul medioevo – ma forse la fantasia rifugge il comfort. E quindi eccoci qui, coi novax che sfilano con le stelle di David, persone intorno a noi che vivono tutto un loro film personale in cui stanno lottando contro il nazismo, prima o poi si aspettano che torni la pellicola a colori e almeno una sequenza in cui i volenterosi carnefici del Green Pass guarderanno in camera terrorizzati mentre il giudice di una nuova Norimberga impugnerà il martelletto.

Sembriamo abbastanza fregati. Chi dimentica il passato è condannato a riviverlo. Chi se lo ricorda invece lo trasforma in una farsa. C'è un modo di evitare questo corto circuito? 

Qualche opzione forse c'è, ad esempio si può liquidare i fenomeni farseschi come esagerazioni, aberrazioni, cose che forse è inevitabile che accadano ma che con un minimo di controllo si possono evitare. Sembra buon senso – e come sempre, con gli inviti al buon senso, vale la pena esitare un attimo prima di entrare. Serve un controllo: chi controlla? Chi si metterà lì alla lavagna a dividere i riferimenti alla Shoah autorizzati da quelli aberranti? E con quali criteri?

Sembra tutto molto controriformistico – e siccome una Controriforma c'è già stata, non può che trattarsi di una farsa della medesima; tra gli aspetti farseschi vi è proprio che questa opzione di sapore tanto veterocattolico è quella adottata, in perfetta buona fede, da molti sionisti. Il loro criterio ha almeno il pregio della semplicità: a cosa è consentito paragonare la Shoah? A nient'altro. Che sia da considerare esclusivamente la tragedia del popolo ebraico. Chiunque la usi come un termine di paragone si sta impossessando per fini propagandistici di un genocidio, e va escluso dal dibattito civile in quanto antisemita.

Ora, non è che la cosa non abbia un senso. Perlomeno ci eviterebbe le manfrine di quelli che scambiano una classe con le finestre aperte per un vagone piombato. E da un punto di vista statistico lo sappiamo benissimo, che il 90% di chi tira fuori paragoni con la Shoah sta ciurlando nel manico. Ci perdiamo un 10%? Forse ne vale la pena. E allo stesso tempo non possiamo impedirci di pensare: che senso ha ricordare qualcosa che non può essere più paragonato a nulla se non a sé stesso? Chi non ricorda è condannato a ripetere, ma la Shoah potrebbe ripetersi soltanto in quanto Shoah: le uniche vittime possibili sono gli ebrei, gli unici carnefici possibili sono i nazisti. Non solo sembra tutto innaturalmente rigido, ma anche questo non ci salva dalla deriva: una volta istituita una Corte che impedisca a chiunque di paragonare la Shoah a qualsiasi cosa non riguardi gli ebrei, come impedire che concentri le sue attenzioni (già in partenza così selettive) su qualsiasi discorso riguardi gli ebrei? Come impedire che qualsiasi critica al popolo ebraico non venga presto o tardi associata alla Shoah? Nei fatti, nessuno lo sta impedendo. C'entrerà in molti casi la malizia interessata di questo o quell'osservatore; ma in generale, non è anche questo un passaggio inevitabile? È possibile ricordare la Shoah in quanto Shoah, vigilare affinché nessuno paragoni la Shoah ad altro che alla Shoah, senza rimanerne comunque ossessionati? 

Sinceramente non lo so. Qualcuno ha un'idea?

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Dua Lipa contro il sionismo, chi vincerà?

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twitter.com/matthewduchesne
Sabato scorso una pagina del NY Times chiedeva a Bella e Gigi Hadid e Dua Lipa di "condannare Hamas immediatamente". Si trattava di un'inserzione pagata da un gruppo di pressione sionista statunitense che ha l'obiettivo di "diffondere i valori ebraici nel mondo", immaginiamo la contentezza degli ebrei del mondo. 

Bella e Gigi Hadid sono due modelle di origine palestinese, lo so pure io perché vivo in un distretto di maglierie; Dua Lipa non è palestinese né (mi pare) modella, ma ha anche lei espresso rilievi critici nei confronti della politica israeliana in questi giorni, il che anche stavolta significherebbe essere emissari di Hamas; e in effetti non  ha ancora condannato Hamas, quindi insomma Israele è in serio pericolo. L'inserzione contiene la solita citazione antisemita presa dallo statuto di Hamas, il giorno del giudizio non verrà finché i musulmani non avranno ucciso gli ebrei eccetera. Chi ha anche solo due o tre contatti sionisti sui social queste cose ormai le sa a memoria; per tutti gli altri imbattersi in argomentazioni del genere è sempre uno choc culturale. L'inserzione è uno choc culturale. Ogni militanza ideologica richiede un minimo di fantasia, ma il momento in cui qualcuno cerca di venderti Dua Lipa come voce di Hamas è sempre il momento in cui ti guardi attorno per vedere se qualcuno ha montato una candid camera. Perché i sionisti fanno sempre queste figure? È antisemita chiederselo? Probabilmente è antisemita anche solo chiedersi di chiederselo, ma ops, ormai mi è scappata, tanto vale andare avanti.

Ci siamo passati tutti, anch'io durante almeno un paio di crisi israelopalestinesi sono stato inserito in un qualche organigramma di Hamas, errori di gioventù. Probabilmente non tutti i sionisti ragionano così, sono sicuro che ce n'è di intelligenti in giro, ma essendo intelligenti non perdono tempo a discutere con me (e nemmeno con Dua Lipa). Gli ottusi, al contrario... Su internet l'argomentazione idiota scaccia quella intelligente, più volte ho fatto notare che i sionisti sembrano farsi la parodia da soli ma è probabilmente vero per chiunque. Però, ecco, per loro un po' di più. In questo universo di bolle autoreferenziali la loro mi sembra quella che vortica più lontano di tutte, ormai irraggiungibile da qualsiasi disperato tentativo di ripristinare un minimo di oggettività, di buon senso. Esagero, in realtà c'è di peggio: novax, schiachimisti, però ecco, il sionismo non dovrebbe gareggiare in una categoria del genere. Un tizio che accosta il Gran Muftì a Hitler può essere un propagandista che tira l'acqua al suo mulino e fino a un certo punto è un gioco legittimo: il Gran Muftì collaborò coi tedeschi, lo sappiamo. Un tizio che si mette a dire che il Gran Muftì ispirò a Hitler la soluzione finale è uno che negli ingranaggi del suo mulino ci è rimasto incastrato e sarebbe uno spettacolo buffo, spesso lo è, ma è anche una tragedia culturale e sociale. A un certo punto Netanyahu questa cosa la proclama al mondo, e il problema non è che gli israeliani continuino a votarlo (gli italiani hanno continuato a votare Berlusconi anche dopo la storia della nipote di Mubarak); il problema è che potrebbe crederci pure lui ormai, a furia di sentirselo dire. La propaganda però dovrebbe servire per convincere gli altri, non te stesso. O no? E se non convince nessuno tranne te stesso, non abbiamo un problema?

Dal ritiro di Gaza in poi i sionisti hanno avuto ormai vent'anni per impostare il dibattito secondo la narrativa che preferivano. Sono organizzati, sono determinati, i fondi non mancano, tanti ex nemici ormai sono alleati; in certi teatri periferici, come l'Italia, non c'è più un partito in parlamento che osi manifestare solidarietà ai palestinesi. E malgrado tutto, appena ripartono i bombardamenti, il conto delle vittime crea il solito imbarazzo. È la natura asimmetrica del conflitto, non c'è niente da fare: gli oppositori a Israele fungano spontanei sui social, nessun Soros li paga. È gente qualsiasi, di qualsiasi estrazione ideologica o religiosa, che si domanda com'è possibile che in un angolo del mondo succeda questa cosa assurda. I sionisti prontamente rispondono: guardate che Israele è costretta, è minacciata nella sua stessa esistenza. Ma l'aritmetica dei morti e dei feriti ogni volta dice una cosa diversa e intollerabile, bisognerà una volta buona dichiarare antisemita l'algebra (il nome in effetti suona un po' sospetto). 

Finisce che il sionismo diventa uno spettacolo a sé, e non se lo merita. Ogni volta che tirano fuori dal repertorio il solito trucco benaltrista, ogni volta che ti chiedono: ma perché ti interessi dei palestinesi invece che dei siriani / armeni / nordirlandesi / saharawi? sono tentato di rispondere: guarda che io mica mi interesso ai palestinesi, poveracci: sei tu quello interessante. Sei tu che ogni volta mi lasci con la mascella a terra, quando dopo dieci razzi paventi la distruzione di Israele e il complotto mondiale di George Soros, Dua Lipa e Roger Waters. Sei tu che una volta eri progressista e adesso fai discorsi sulla necessità di salvaguardare l'identità religiosa, l'identità etnica, ma nel frattempo la tua identità te la ricordi? ti sei visto ultimamente? Cosa ti è successo, sei cambiato, come sono cambiate le città più multietniche di Israele ormai a un passo dalla guerra tra bande. Come avete fatto a ridurvi così, era inevitabile? Forse succede a tutti i militanti, a un certo punto, di dover scegliere tra la causa e il senso del ridicolo. Forse. L'alternativa del resto quale sarebbe: vivere alla giornata, soppesare ogni argomento finché non va a male? Io ho questa cosa, che di fronte a un problema a volte non so cosa scrivere. So benissimo che scrivere non è la soluzione del problema, perlomeno fuori da me; dentro di me invece qualche fila decente di parole basterebbe a farmi sentire in pace con quel disastro che è il mondo, ma non le trovo – per fortuna! Poter dire che comunque avevo ragione io, mentre la casa va in fiamme: non mi è consentito. Son vent'anni che ho un blog e decisamente la mia prosa non ha apportato nessun contributo fattivo alla risoluzione della questione palestinese. È un problema? I sionisti da tastiera, loro sanno sempre cosa scrivere: sempre le stesse cose, che nella loro testa funzionano. Sembrano risolti. Felici no; un po' ansiosi, talvolta terrorizzati: ma risolti. Loro sono i buoni, fuori ci sono i cattivi e tramano, tramano, ma ognuno di loro può fare nel suo piccolo qualcosa per sconfiggerli, anche solo ripostare per la millesima volta l'articolo 7 dello Statuto di Hamas in una conversazione in cui nessuno sta sostenendo Hamas. Per loro è tutto molto semplice e anche tu, che non sei d'accordo con loro, dovresti fare loro il favore di assumere un punto di vista più semplice possibile: critichi Israele? E allora si vede che stai con Hamas e con nazisti, che poi è la stessa cosa. Confessa, dai, che ci vuole.  

A un certo punto della storia – non saprei veramente dire quando – il sionismo ha deciso di appostarsi mentalmente sull'ultima spiaggia, quella dove o si salva Israele o si muore. Da quel momento è saltato qualsiasi ragionamento sulle proporzioni: non che nei ministeri non li sappiano fare, ma nel dibattito non si può più: ogni razzo che parte da Gaza è una minaccia-alla-nostra-stessa-esistenza, ogni critica alle azioni di Tsahel o alle deliberazioni della Knesset è antisemitismo, ogni palestinese è un potenziale nazista, e contro queste minacce nessuna rappresaglia sarà mai esagerata. Ripeto: questo solo da un punto di vista ideologico, in realtà nella stanza dei bottoni i conti li sanno fare, però questi conti prima del cessate-il-fuoco prevedono sempre un rapporto 1:10 tra vittime israeliane e vittime palestinesi (approssimato molto per difetto). Questo per il resto del mondo è scandaloso, è guerra, è apartheid; per loro è routine. Bisogna anche ogni tanto sforzarsi di vedere la faccenda dal loro punto di vista; per noi quella tra Israele e palestinesi è ancora una guerra, infatti ce ne accorgiamo soltanto quella volta ogni 3-4 anni che partono i razzi. Per gli israeliani invece questa è la pace: non ne hanno mai avuta una molto migliore; senz'altro è preferibile al periodo in cui la gente saltava in aria sugli autobus (ai vecchi tempi uno stallo del genere, in cui i combattimenti sono periodici e coinvolgono solo una parte periferica della popolazione, veniva definita guerra fredda). Il ritiro da Gaza è stato decisivo: in cambio del controllo del suo feudo, Hamas si è in un qualche modo addomesticata. Per molti versi si è trasformato nel nemico ideale, quello che Israele ha coltivato (approfittando di ogni occasione per minare la legittimità di Al Fatah e dell'ANP). Di tutte le possibili identità palestinesi, Hamas ha sempre rappresentato quella meno presentabile all'estero: è un'organizzazione islamica, non ha mai rinnegato i metodi del terrorismo, riceve senz'altro aiuti dall'Iran ma alla fine un aiuto decisivo glielo dà Israele, che ogni 3-4 anni dà una bella sfrondata ai grattacieli di Gaza e alla classe dirigente intercettata nei tunnel, e il resto del tempo lascia che cresca in seno a una comunità che non ha alternative o speranze. Israele e Hamas si legittimano a vicenda, non è che la scopro io oggi questa cosa. Bisognerebbe trovare un modo per contrastarle entrambi ed è esattamente quello che entrambi ti impediscono di fare, continuando a tirarsi razzi in modalità asimmetrica.

Quel che è davvero terribile, è che la situazione ormai sembra essersi assestata. A noi sembra orribile, intollerabile (e anche molti sionisti, ogni 3 o 4 anni, condividono dall'altra parte della barricata lo stesso orrore; cioè su questo almeno dovremmo trovare un accordo: non può continuare così). Ma agli israeliani no, e anche agli abitanti di Gaza forse no. È orribile per noi osservatori, che abbiamo alternative. Una di queste alternative è guardare da un'altra parte, e dopo un po' lo facciamo. 

(Ah se me lo chiedete, io condanno Hamas. E l'occupazione marocchina del Sahara Occidentale. Per altre questioni chiedete nei commenti).

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Esdra e l'invenzione d'Israele

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13 luglio - Esdra (V secolo a.C.), sacerdote.

[2014]. I mormoni che nel 1846 fuggirono dall'Illinois per fondare una nuova patria sulle rive del Grande Lago Salato. I giamaicani che a partire dagli anni Sessanta si trasferiscono a Shashamane (Etiopia) per stare più vicini a Ras Tafari, l'imperatore Hailé Selassié. Gli adepti del reverendo Jim Jones, pronti a seguire il loro Messia fino in Guyana, e poi all'altro mondo. Tutta questa gente che lascia la propria terra per arrivare in un'altra, dove quasi mai scorrono il latte e il miele promessi - tutta questa gente non sta improvvisando, il canovaccio è vecchio di migliaia di anni, ma chi l'ha scritto? È abbastanza impossibile saperlo, ma probabilmente è meno antico di quanto crediamo. Mosè dovrebbe essere vissuto più o meno verso la metà del secondo millennio avanti Cristo, ma gli storici ormai propendono per considerarlo un personaggio fantastico. Lo scontro col faraone, primo esempio storico di vertenza sindacale (finita malissimo), sarebbe un'invenzione molto posteriore, che riecheggerebbe un altro esodo, questo sì realmente accaduto: la deportazione babilonese. Proprio a Babilonia verso il sesto secolo prenderebbero forma le Scritture ebraiche, rielaborate intorno a nuclei più antichi. Come se gli Ebrei nascessero già in diaspora: con la consapevolezza di essere sparsi per il mondo, disuniti e perennemente minacciati nella loro stessa esistenza.

Trent'anni di lobbying e appena arrivate qui vi accoppiate coi nativi. È sconfortante.
Trent'anni di lobbying per ottenere una provincia autonoma,
e appena arrivate qui vi accoppiate con le indigene. È sconfortante.

A Babilonia, nel VI secolo, gli Ebrei cominciano a raccontarsi storie sul loro passato; storie che valgano la pena di provvedere a un futuro. Decidono di essere stati, prima delle invasioni assire e babilonesi, una grande nazione, guidata da grandi re: David e Salomone. Alla promiscuità di quest'ultimo viene imputata la decadenza successiva; ai peccati e alla disobbedienza di popolo e regnanti la divisione in due regni e le ripetute sconfitte, culminate con la deportazione. Ma se la diaspora è la punizione che Dio ha inflitto a un popolo disobbediente, il premio per un popolo obbediente non può essere che l'inverso: una Terra Promessa.

Ciro, lo Scià di Persia, che in una fase di recessione economica globale ha rilevato i resti dell'impero Babilonese, sembra sensibile all'argomento: la Palestina è un avamposto remoto, ma importante: un passaggio obbligato per le carovane dirette verso l'Egitto. Quando una lobby che rappresenta un gruppo di fedeli di un Dio di quella regione, un certo YHWH, gli propone di tornare là e cominciare a fortificare la zona, imponendo la pace imperiale alle burrascose tribù autoctone, Ciro sottoscrive l'editto, chissà se ci avrà pensato più di tanto. Era il Re dei Re, in quella mattinata gli capitò di suggellare tante altre tavolette o papiri che credeva assai più importanti, decisioni che avrebbero dimostrato ai posteri la sua illuminata potenza. Altro che le beghe di una piccola regione periferica, di cui nessuno probabilmente si sarebbe ricordato da lì a trent'anni...

L'Esdra biblico è un personaggio appena abbozzato; compare in un paio di scene, e non se ne sa più nulla. Il suo libro è tra i più frammentari e rimaneggiati del canone biblico. Una specie di backdoor ben occultata; se riusciamo a trovarla possiamo guardare le Scritture dal lato di chi le ha scritte. La storia si capovolge; Mosè diventa una proiezione di Esdra; l'esodo dall'Egitto è il ritorno a Gerusalemme; i popoli sterminati da Giosuè alludono ai popoli con cui il nuovo Israele non doveva mescolarsi; il Primo Tempio è un sogno concepito intorno al Secondo; il Faraone che insegue i suoi manovali è l'immagine specchiata dello Scià Ciro che lascia partire volentieri una tribù stanca di vivere mescolata alle altre.

Il sacerdote Esdra non è tra i primi ebrei che tornano a casa. Non assiste ai primi tentativi di costruire il tempio; non c'è quando i nemici cominciano a tramare e a mandare messaggi allarmisti alla corte del nuovo Scià, Dario. Esdra arriva anche venti anni più tardi, verso il 500. Porta con sé i rotoli della Legge, di cui darà solenne lettura davanti a tutto il popolo: la storia di un Mosè che aveva guidato i suoi fedeli fuori dall'empio Egitto, e di un Giosuè che li aveva ricondotti nella Terra Promessa, sterminando dietro richiesta divina i suoi indegni abitanti.
Alcuni gruppi concepirono anzi ed impostarono il nuovo esodo come un'impresa basata su una sorta di organizzazione para-militare e con forte conflittualità verso i gruppi residenti. La visualizzazione del popolo in marcia attraverso il deserto deve qualcosa a questa impostazione para-militare; ma deve anche qualcosa (e forse molto) all'esperienza delle deportazioni imperiali. Già la promessa divina del tipo "io vi farò abitare in un paese in cui scorre il latte e miele" è significativamente consonante con l'assicurazione del rab-saqe assiro di dare a chi si sottomette la possibilità di andare ad abitare in un paese fertile e produttivo. Altrettanto indicativo è il timore serpeggiante nel popolo in marcia, di non trovare nella terra di destinazione condizioni di vita adeguate alle promesse e alle speranze - timore che riflette lo stato d'animo di chi nella diaspora doveva decidere se affrontare o meno i rischi del rientro. E soprattutto gli elenchi o censimenti (Num. 2; 26) del popolo diviso per gruppi familiari e per clan risentono di un tipo di registrazione amministrativa che veniva applicata ai gruppi di deportati, al fine di controllarne il numero (nonché le inevitabili perdite in corso di trasferimento) e le mete finali (Mario Liverani, Oltre La Bibbia, Laterza, 2003). 
Esdra porta con sé un'ulteriore ideuzza destinata ad avere, anch'essa, una lunga fortuna: la purezza etnica. La prima cosa che fa quando arriva è stracciarsi le vesti in segno di protesta: i capifamiglia gli hanno appena accennato il problema dei matrimoni misti.
Udito ciò, ho lacerato il mio vestito e il mio mantello, mi sono strappato i capelli e i peli della barba e mi sono seduto costernato. Quanti tremavano per i giudizi del Dio d'Israele su questa infedeltà dei rimpatriati, si radunarono presso di me.
Matrimonio Israele
È tuttora una questione spinosa.


Esdra rimane seduto e costernato diverse ore, fino al sacrificio serale. Poi cade in ginocchio e prorompe: "Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare, Dio mio, la faccia verso di te, poiché le nostre colpe si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa; la nostra colpevolezza è aumentata fino al cielo" e bla bla bla, insomma stava andando tutto bene, e che mi fanno? Cominciano a sposarsi con le donne del luogo. Ora non dico che vadano sterminate – come c'è pur scritto che avremmo fatto un millennio fa in quel rotolo che abbiamo messo assieme a Babilonia – ma sposarle, farci i figli... l'assimilazione culturale... e nel giro di due o tre secoli finisce che mangiamo maiale pure noi, e poi come faranno gli archeologi del Duemila a capire se in tale insediamento ci stavano i canaaniti o gli israeliti? [sul serio, l'unica differenza spesso sta nei resti di ossa di maiale].
Ma ora, che dire, Dio nostro, dopo questo? Poiché abbiamo abbandonato i tuoi comandi che tu avevi dato per mezzo dei tuoi servi, i profeti, dicendo: Il paese di cui voi andate a prendere il possesso è un paese immondo, per l'immondezza dei popoli indigeni, per le nefandezze di cui l'hanno colmato da un capo all'altro con le loro impurità. Per questo non dovete dare le vostre figlie ai loro figli, né prendere le loro figlie per i vostri figli; non dovrete mai contribuire alla loro prosperità e al loro benessere, così diventerete forti voi e potrete mangiare i beni del paese e lasciare un'eredità ai vostri figli per sempre...
Va avanti così per molti altri versetti, ma insomma il senso è chiaro. Mentre piange e si dispera, intorno a lui si forma un crocchio di fedeli che cerca di consolarlo. Alla fine uno di loro (Secania, figlio di Iechiel) prende la parola: dai Esdra, possiamo ancora salvarci. Che ne dici se divorziamo tutti quanti in una volta, e rimandiamo le nostre mogli infedeli ai loro genitori? E i figli? Anche i figli naturalmente. Al che Esdra, snif, si calma un po': dite che è possibile? Massì, Esdra, che ci vuole. Un bel divorzio collettivo, magari per ogni moglie offriamo anche un ariete in sacrificio. E va bene, mi avete convinto. Ma d'ora in poi guai a chi sgarra."Con Ezra", spiega ancora Liverani, "si conclude l'elaborazione della Legge, si chiude anche l'elaborazione storiografica, cessano di agire i profeti, il sacerdozio di Gerusalemme ha pieni poteri".

Lo Utah dei mormoni, l'Etiopia dei rastafariani, la Guyana di Jim Jones. Tutte queste terre promesse, senza Esdra, ci sarebbero state? Probabilmente sì; è difficile immaginare che un oscuro sacerdote ebraico-babilonese a cavallo tra sesto e quinti secolo a.C. sia la causa di tutto. Più probabilmente è solo il primo sintomo di qualcosa che ci portiamo dentro: il retaggio di millenni di nomadismo, una propensione ancestrale ad andarcene da qualche parte dove finalmente saremo soli, saremo puri, saremo noi. Poi ci arriviamo e c'è sempre qualcun altro.
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Storia di un falso ricordo (la "piccola bara" della CGIL)

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A proposito di complesso di Enrico IV, questa è una piccola storia che ho trovato mentre cercavo tutt'altro.

Il 25 giugno 1982 (38 anni fa) successe qualcosa che, a seconda del punto di vista, è una sciocchezza o un crimine. Siccome non ero presente, cedo la parola a una persona che qualche mese fa l'ha descritta al pubblico inglese (la traduzione è mia).

"C'è una ragione per cui sono scettico sui tentativi della Sinistra europea di terminare il conflitto tra Israele e il mondo arabo. [...]
La ragione per cui non mi fido di loro è davvero molto piccola e bianca. È una bara adatta a un bambino, bianca, che fu lasciata sulle scale della Grande Sinagoga di Roma nel 1982, durante un corteo sindacale.
Una piccola bara. Bianca. Vuota.
Qualche settimana dopo quell'odioso corteo, un commando palestinese attaccò la Grande Sinagoga di Roma. Era Shabbat. Era Shemini Atzeret, il giorno in cui i bambini ricevono una benedizione speciale, secondo la tradizione romana. La sinagoga conteneva trecento fedeli, tra cui cinquanta bambini. I terroristi gettarono bombe e aprirono il fuoco con mitragliatrici. Trentasette persone furono gravemente ferite. Un bambino di due anni, Stefano Taché, fu ucciso. Quella bara bianca, lasciata vuota dai sindacalisti qualche settimana prima, ora era piena".

Ecco il motivo per cui il signore non si fida della sinistra europea. Noi, invece, possiamo fidarci di questo signore che – ora bisogna dirlo –  si chiama Andrea Zanardo? Chi in passato si attardava a leggere la sezione commenti di questo blog forse ricorda la sua tendenza, diciamo, a confondere realtà e fantasia. Per un po' di tempo mi sono domandato fino a che punto ne fosse consapevole; poi ho deciso che era una domanda che ha senso soltanto all'interno della sua coscienza, luogo dove non mi compete entrare. Se la sbrigherà lui: il massimo che posso fare io è osservarlo, da fuori, e notare come mescoli ad arte fatti veri a cose inventate per un pubblico selezionato.

Il dubbio che ne sia inconsapevole rimane, perché malgrado tenti con enfasi tipicamente fallaciana di accreditarsi come testimone diretto, alla fine Z. non fa che rielaborare cose rilette in giro: ed è anche stavolta un lettore frettoloso, abbastanza pasticcione. Se c'è disinformazione qui (e ce n'è), ne è insieme vittima e complice.

Z sta indicando nella CGIL il mandante morale dell'attacco alla Sinagoga del 1982: un'accusa (se uno ci riflette un attimo) pazzesca e non sostenuta da nessuna indagine: ma chi ha bisogno di inchieste quando ha una "piccola bara", "bianca", e "vuota"? Magari leggendo quel punto vi siete emozionati (la prosa fallaciana a questo servirebbe: a commuovere, i ragionamenti seguiranno). Insomma, i sindacalisti lasciano una piccola bara bianca, e "qualche settimana dopo" i terroristi la riempiono. Agghiacciante.

Salvo che non è vero.

O meglio, qualcosa di vero c'è: nessuna opera di disinformazione avrebbe successo se non mescolasse vero e falso. La verità più importante di tutte – molto, molto più importante di tutto il resto – è che un bambino è morto davvero, a due anni, vittima di uno spaventoso attentato terroristico. Si chiamava Stefano Taché Gay (in altri articoli ho trovato anche le grafie "Tachè" e "Gaj"). La "piccola bara", "bianca" e "vuota", su cui Zanardo torna ossessivo, si vede distintamente sulle foto del funerale (il ritaglio di una foto correda l'articolo). Anche la manifestazione della CGIL ci fu: Zanardo non dice la data perché, malgrado sostenga che l'episodio gli abbia lasciato un segno indelebile, forse nemmeno la conosce (oppure la conosce e preferisce tacerla, per un motivo che vedremo in seguito). Non importa, ve l'ho detta io: 25 giugno 1982, trentotto anni oggi. In quell'occasione è molto plausibile che un gruppo di dimostranti (non necessariamente tesserati CGIL) abbia inscenato una farsa di funerale davanti alla Sinagoga: dico che è molto plausibile non solo perché ho letto che la CGIL se ne scusò con un comunicato ufficiale, ma anche perché questa forma di contestazione di discutibile gusto è abbastanza tipica delle manifestazioni sindacali. Per rendersene conto è sufficiente googlare "CGIL bara". Io l'ho fatto e ho trovato una bara a una manifestazione anti jobs act del 2014; un'altra bara dedicata all'università di Siena nel 2009;  un'altra dei metalmeccanici di Savona nel 2016; nel 2013 un cronista racconta come i lavoratori della Bombardier di Vado Ligure si portino con loro in ogni manifestazione una cassa da morto "ormai inseparabile". E così via.

Prego il lettore di notare il dettaglio: in tutti questi casi, e ne conosciamo decine, i lavoratori usano la bara come un simbolo della loro condizione. Dentro l'"inseparabile" cassa da morto dei dipendenti Bombardier c'è un manichino che rappresenta i dipendenti della Bombardier. Dentro la cassa della manifestazione anti jobs act del 2014 ci sono i "diritti dei lavoratori". Mi sembra che il codice sia chiarissimo: i manifestanti usano la bara per dichiararsi vittime e accusare i loro avversari di un assassinio. Giusta o sbagliata che sia, la bara ai cortei funziona così.

E allora perché Zanardo decide di leggerla in un modo diverso, come un avvertimento di sapore mafioso – nonché una precisa indicazione al commando terrorista: riempiteci una bara così e così? Non è per forza in malafede. Semplicemente vive, da più di vent'anni, in una bolla comunicativa che ha sempre interpretato quella singola bara in quel singolo modo. Facendo la stessa ricerca di prima ("CGIL bara") in effetti troverete anche abbondanza di citazioni dell'episodio di 38 anni fa. Si tratta in dieci casi su dieci di siti sionisti italiani, il che dimostra quando davvero l'episodio abbia lasciato un segno sulla comunità ebraica, e in particolare su quel settore che aderì con molto entusiasmo al neoconservatorismo intransigente post 11 settembre. Sul sito Focus On Israel ci sono addirittura due tag dedicati: 
Il che dimostra anche un altro punto che tornerà in seguito, ovvero: scusarsi non serve a nulla. Nel caso in questione la CGIL aveva subito preso le distanze dal gesto con un comunicato. Quasi quarant'anni dopo, il comunicato non si trova più e qualcuno racconta ancora in giro di quando la CGIL portò una bara sui gradini della sinagoga.

E tuttavia quel che si raccontano la maggior parte dei membri di questa bolla non è esattamente una bugia: al limite la possiamo considerare un'interpretazione un po' forzata di un gesto simbolico. Secondo me non era un avvertimento di stampo mafioso, ma appunto, secondo me. Invece per molti lo era, e vabbe', sono opinioni (questo è il motivo per cui ai gesti simbolici preferisco i discorsi, il più possibile circostanziati e con un parchissimo uso di ironia: ma è anche il motivo per cui non faccio il sindacalista e anche come attivista lascio molto a desiderare).

La mia interpretazione si basa forse su un pregiudizio positivo nei confronti del (mio) sindacato? Senz'altro, ma anche su una minima conoscenza del contesto: il modo in cui di solito i manifestanti usano le bare "simboliche"; la situazione dei palestinesi nei Territori Occupati durante la guerra del Libano, alla vigilia delle stragi di Sabra e Shatila, eccetera. Per tutti questi motivi io ritengo che quella bara (comunque esecrabile) non fosse da considerarsi una minaccia; ma d'altro canto posso benissimo capire che qualcuno l'abbia letta così, e lo faccia ancora: i simboli non sarebbero tali se non si offrissero a più interpretazioni.

Zanardo però fa un passo oltre, ed è interessante chiedersi perché lo faccia. Non si limita a fornire dell'episodio l'interpretazione accreditata dalla sua bolla (è come se non gli bastasse): aggiunge dei dettagli che dovrebbero fugare ogni ragionevole dubbio sul fatto che la sua interpretazione sia l'unica possibile. Questi dettagli, prima di lui, non li descriveva nessuno. Il che significa con molta probabilità che se li sta inventando – non necessariamente in modo consapevole.

Per Zanardo la bara era "piccola" e "bianca": su questo dettaglio torna ossessivamente con una foga autolesionista che mi ricorda quella del protagonista del Gatto Nero di Poe, quando davanti ai poliziotti batte col bastone sulla parete proprio nel punto in cui ha nascosto la sua vittima. E in effetti il dettaglio è degno di un racconto di Poe: come facevano i sindacalisti a sapere che l'unica vittima di un assalto condotto con mitragliatrici e granate avrebbe riempito una bara "piccola"?

Non è che Z ci voglia dire che i sindacati abbiano chiesto ai terroristi: uccideteci un bambino, però... però battendo sempre su quel punto vorrebbe che per un attimo lo pensassimo. E magari lo facciamo: un attimo prima di accorgerci che siamo davanti a una fabbricazione di pessimo gusto. Visto che un bambino è davvero morto, e l'operazione di intestarne l'assassinio a un sindacato richiede un livello di cinismo di cui almeno io non credo Z capace. Tutto questo all'interno di un minuscolo resoconto autobiografico: ricordiamo che Z sta spiegando all'ignaro pubblico inglese il motivo per cui da ragazzino ha smesso di fidarsi della sinistra: e quel motivo è una "piccola bara bianca" deposta durante un corteo sindacale che però non era né piccola né bianca: un falso ricordo? Può anche darsi, in fondo la nostra memoria a volte funziona così: a un certo punto la bara in cui fu inumato il piccolo Stefano viene duplicata, e Z ricorda di averla vista anche durante il corteo CGIL, anche se lui non c'era: non importa, se l'è fatto raccontare e adesso lo ricorda probabilmente meglio di molti testimoni oculari.

Un'altra possibilità è la fretta dell'apologeta, quel tipo di pregiudizio cognitivo che gli studiosi di Storia conoscono bene. Quando vuoi difendere una tua ipotesi e cominci a ricordare tutte le cose che hai letto che, in effetti, sosterrebbero proprio la tua ipotesi: salvo che poi le vai a cercare e in molti casi scopri che te le ricordavi un po' distorte, e che a leggerle bene, con calma, non sostengono la tua ipotesi più di quanto non ne sostengano una completamente diversa. Questo succede quando sei uno studioso coscienzioso. Zanardo non è uno studioso, piuttosto un apologeta: non ha un'ipotesi sua personale, ne ha scelta una per così dire preconfezionata; le prove gli interessano soltanto come espedienti retorici da esibire al pubblico: ecco, vedete, questa è una bara bianca, quindi il sindacato ci voleva morti, quindi io non mi fido della sinistra (forse è una tortuosissima excusatio non petita per spiegare che vota qualche altro partito).

D'altro canto, se Zanardo legge in fretta è anche perché all'interno della sua bolla l'episodio ormai viene evocato con una cadenza meccanica, ogni volta che un corteo non solo sindacale accenna a protestare contro l'occupazione israeliana dei Territori. In questo modo si risolve anche l'imbarazzante problema dell'antisemitismo di sinistra, un fantasma che si aggira per l'Europa e che anche in Italia a quanto pare sarebbe fortissimo, secondo alcuni molto più pericoloso dell'antisemitismo di matrice nazifascista... salvo questo piccolo particolare che fin qui non risultano vittime. Invece indicando nella CGIL l'ispiratrice dell'attentato alla Sinagoga di Roma, il bilancio cambia drasticamente. Basta solo immaginare una collusione tra organizzazioni terroristiche palestinesi e sinistra italiana – non ultrasinistra, si badi: tesserati CGIL. Ci vuole molta fantasia, ma le bolle comunicative a questo servono: a creare intorno a me una distorsione della realtà in cui alcuni messaggi diventano progressivamente credibili. È sufficiente reiterarli ed eliminare ogni altra campana – certo, la reiterazione provoca inevitabilmente una semplificazione.

Non so se avete presente la cadenza un po' sbrigativa con cui i ministri di un culto affrontano alcuni passi particolarmente ripetitivi delle rispettive liturgie: ecco, qui Zanardo legge in fretta un canovaccio scritto in fretta da altri che leggevano in fretta. Tanto alla fine è la stessa zuppa, no? Qualcuno protesta per la Palestina? Antisemitismo-di-sinistra, come-la-CGIL, bara-davanti-Sinagoga, attentato-alla-Sinagoga. Sembrano tag ma anche nella nostra testa alla fine le nozioni si organizzano così, intorno a segnalibri molto sommari. Col tempo è fatale saltare un passaggio, o equivocarlo. Credo di aver trovato un bell'esempio del processo in questo post di un blog (titolo: "Il pregiudizio antisraeliano della CGIL: un cancro mai del tutto debellato"), che a sua volta ricopia un intervento del professor Ugo Volli (titolo: "La faccia di tolla della signora Cgil"):

Magari voi penserete che esagero, che in fondo la nostra povera pensionata non va in giro con le cinture esplosive finte alla cintura come usano fare i suoi amichetti palestinesi nelle manifestazioni pro-Hamas. [La CGIL non ha mai appoggiato Hamas, sembra banale ricordarlo ma chissà]. Il fatto è che le profezie della Cgil spesso si avverano. Sono passati poco meno di trent´anni da quanto una manifestazione sindacale a favore della Palestina, il 25 giugno 1982 si fermò davanti al tempio di Roma si fermò per regalare agli ebrei del ghetto una bara simbolica come segno di apprezzamento per l´appoggio della comunità ebraica romana a Israele. E alcuni dopo, il 9 ottobre dello stesso anno, dei terroristi palestinesi, naturalmente provocati dall´”arroganza istituzionale”, fecero un bell´attentato nello stesso posto ammazzando un “arrogante” bambino di due anni, Stefano Gay Tachè.

Come vedete se avete pazienza nel brano c'è già molto di quello che Zanardo riprenderà: la chiara volontà di leggere nell'episodio un intento intimidatorio ("le profezie della Cgil spesso si avverano"). Però c'è anche un'ammissione che Z, lettore frettoloso, si è perso: la bara in quel caso non è definita né piccola né bianca ma"simbolica". Altrove mi sembra di aver letto che fosse di cartone, ma non riesco a trovarlo e forse sono vittima dello stesso pregiudizio che descrivo. E anche voi, non crediate. Probabilmente avete letto in fretta e non avete notato i refusi, che sono un chiaro indizio di rimaneggiamento. Sul serio: avevate notato che dopo la data "il 25 giugno 1982" il predicato "si fermò" compare due volte? In compenso, alla fine del testo in grassetto, manca almeno una parola, perché c'è scritto "E alcuni dopo". Alcuni cosa? Siccome l'attentato si svolse in ottobre, ci viene spontaneo completare con "mesi". Probabilmente veniva spontaneo anche al professor Volli. Salvo che... se davvero scriviamo "mesi" tutto l'impianto accusatorio si smonta un poco. Sentite come comincia a suonar falso? I sindacalisti mettono una "profetica" bara davanti alla Sinagoga, e tre mesi dopo i terroristi di Abu Nidal avverano la profezia. Sarebbe molto meglio scrivere "settimane"  al posto di "mesi", se non addirittura "giorni". Qualcuno in seguito l'ha fatto. Ma nel testo che ho citato qui è come se mancasse ancora il coraggio, non so se da parte del professor Volli o del copia-incollatore.

In seguito, leggendo frettolosamente brani composti altrettanto frettolosamente, Z sceglie di scrivere "qualche settimana dopo" ("A few weeks after"). Ora tra il 25 giugno e il 9 ottobre ci sono effettivamente 13 settimane: sono poche? Si possono definire "a few"? Lo lascio alla coscienza di chi è riuscito a leggere fin qui. Sull'argomento avrei ancora altro da segnalare (la leggerezza con cui Z accosta alla figura di Arafat un attentato compiuto dai suoi avversari), ma mi sembra di averla fatta fin troppo lunga per stasera.

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Anche Salvini, a Gerusalemme?

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[Questo pezzo ci ha messo un po', ma alla fine è uscito su TheVision]. Salvini è un troll. Qualsiasi cosa faccia, la fa per provocare una reazione, possibilmente rabbiosa o scandalizzata. Non è senz'altro il primo a portare nella politica l'antica arte della provocazione; però maestri come Berlusconi e Bossi praticavano il trolling per arrivare a un risultato – attirare l'attenzione, certo, ma anche innervosire gli avversari e lasciarli autoridicolizzarsi con reazioni scomposte. Salvini è un passo oltre: dai maestri ha appreso l'arte ma non il senso; e oggi che ha il campo libero, lo vediamo trollare non tanto per imporre un'agenda politica, ma piuttosto imporre un'agenda politica che gli permetta di trollare.

Questo andrebbe premesso a qualsiasi commento sui comportamenti di Salvini, sia che disturbi la gente al citofono accusandola di reati gravi sia che riconosca Gerusalemme come capitale di Israele (per citare due cose che ha fatto in una surreale settimana di campagna elettorale). Perché si comporta così? Perché è un troll. Vuole la nostra frustrata attenzione, e infatti eccoci qui: stiamo parlando di lui, forse ha vinto. Magari l'idea di un aspirante capo del governo che gioca a fare il Gabibbo ci fa infuriare, ebbene, Salvini voleva esattamente questo da noi, Salvini si nutre della nostra furia.

Quanto a Gerusalemme, è il classico esempio di minima spesa per massima resa. Riconoscere Gerusalemme capitale dello Stato Ebraico è un gesto che non gli costa nessuna fatica e sarebbe gravido di conseguenze, se Salvini fosse al governo (si tratterebbe di tradire l'approccio UE al problema). Ma Salvini al governo più di tanto non riesce a starci: l'anno scorso è resistito fin quasi a Ferragosto perché in effetti un ministro degli interni a torso nudo al Papeete è ancora un po' provocatorio; ma non un minuto di più. E poi, certo, Salvini dimostra anche in questo caso l'allineamento della Lega alle posizioni del sovranismo europeo, che vede in Netanyahu un alleato in Medio Oriente, sì: ma davvero a Salvini premevano così tanto le sorti del Medio Oriente, e proprio la settimana scorsa? È difficile immaginare che la sorte della Spianata delle Moschee gli interessi più del centro di Bologna, dove le sue provocazioni ancora non sfondano, ma circola ancora qualche fuorisede filopalestinese in kefiah (il tizio ragiona per stereotipi un po' muffiti). Se solo si riuscisse a farli incazzare a portata di videocamera, magari in quello storico campo di battaglia tra via Irnerio e Piazza Verdi, che colpo sarebbe: che fantastico modo di terrorizzare i bolognesi benpensanti e mandarli a votare i candidati della Lega – e invece no, Piazzale VIII Agosto si riempie, ma di placide Sardine che di Gerusalemme non si preoccupano, come di tanti altri problemi.

A indignarsi rimane soltanto una piccola frangia di osservatori, per così dire, professionisti o appassionati; quei pochi che ancora in Italia si ostinano a considerare la marginalizzazione dei palestinesi un problema e non una soluzione. Combattuti, anche questi ultimi, tra la necessità morale di non prendere il troll sul serio e il richiamo della foresta, se non il fascino dell'abisso: perché ci sono livelli davvero sotto i quali nessuno era sceso, e Salvini li sta perforando in caduta libera. Cioè lui ha davvero cercato di rifarsi una verginità invitando a un convegno sull'antisemitismo Liliana Segre (che prontamente ha declinato l'invito). Salvini ha davvero spiegato a un giornale israeliano che l'antisemitismo, in Italia, lo hanno portato gli immigrati islamici – e questo malgrado l'osservatorio sull'antisemitismo continui a registrare con cadenza quotidiana episodi che hanno protagonisti dai nomi e dai cognomi italianissimi. Salvini, il più celebre tra i propagatori italiani di complottismi su George Soros, ha davvero affermato di non avere nulla a che spartire con l'antisemitismo di una "destra tradizionalista", e lo ha fatto proprio mentre il comune di Verona, con una giunta a trazione leghista, intitolava una via a Giorgio Almirante, fascista repubblichino e poi fondatore del Movimento Sociale Italiano. Magari ignorando in buona fede che la leggenda nera sul governo mondiale occulto del perfido Soros non è che la rielaborazione postmoderna di cose che nel 1938 si potevano leggere sulla Difesa della Razza, rivista ufficiale del razzismo fascista. Almirante era il segretario di redazione.

Qualcuno ha già rimarcato il cinismo con cui Salvini si è rivolto a Israele, mostrando di considerarlo, più che una nazione sovrana, un ente morale deputato a rilasciare "una patente di rispettabilità politico-religiosa". Certo, perché il giochino funzioni bisogna che dall'altra parte qualcuno si presti, e Netanyahu ha già dimostrato una certa disponibilità in questo senso: ha ricevuto Duterte, è andato a trovare Orban, perché non dovrebbe accostarsi a Salvini... [continua su TheVision

Per Netanyahu la Storia è subordinata alla politica: ogni nemico di Israele può essere paragonato a Hitler, se necessario (mentre paradossalmente Hitler può essere ridimensionato: non più ideatore della Shoah, ma semplice artefice dei piani genocidi del Gran Muftì). Netanyahu ha un'agenda, che a differenza di Salvini non si esaurisce nel vincere le prossime elezioni; da un punto di vista culturale, il suo obiettivo è includere nella definizione di antisemitismo qualsiasi forma di critica a Israele. Se vuole definirsi amico di Israele, Salvini non solo deve promettere di trasferire l'ambasciata italiana a Gerusalemme, come ha già fatto Trump; deve anche impegnarsi a chiedere "a Bruxelles" di proibire il boicottaggio dei prodotti israeliani. Promessa, quest'ultima, di molto difficile realizzazione: non solo perché Salvini a Bruxelles ci va il meno possibile, disertando in particolare qualsiasi riunione possa ottenere risultati concreti: ma soprattutto perché un boicottaggio è una forma di protesta non violenta e passiva. Certo, il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), può anche essere definito antisemita e messo fuori legge (se ne parla sia negli USA che in Germania), ma nessuna direttiva comunitaria può costringere i consumatori europei a comprare i pompelmi israeliani, se non li vogliono. L'obiettivo di Netanyahu è culturale: si tratta di convincere gli europei che chi non compra i pompelmi israeliani è antisemita, tanto quanto il complottista che ricicla i Protocolli dei Savi di Sion o il nazista che vandalizza i monumenti sulla Shoah.

Quello che a noi europei può sembrare una strumentalizzazione ha comunque un senso storico (e geografico). Netanyahu è il primo ministro di un Paese che vive il ricordo della Shoah in modo sensibilmente diverso da come lo si percepisce in Europa. Per noi europei il 27 gennaio è la ricorrenza annuale del senso di colpa collettivo, il giorno in cui ricordiamo di essere portatori neanche troppo sani di malattie che hanno sconvolto il mondo: nazionalismi, fascismi, xenofobia. Gli israeliani non possono e non devono viverlo con lo stesso senso di colpa: il loro 27 gennaio (che quest'anno celebreranno ospitando delegazioni di 50 Paesi) non può che confortarli nell'idea che se 80 anni fa fosse esistito Israele, la Shoah sarebbe stata impossibile. Questo può spiegare perché per un sionista come Netanyahu la memoria della Shoah combaci totalmente con la difesa a oltranza delle politiche di Israele. Un po' meno spiegabile è che un aspirante leader di una nazione come l'Italia si presti senza un plissé a fargli da megafono: Netanyahu vuole i BDS fuori legge? Salvini andrà a Bruxelles a chiedere i BDS fuorilegge. E tutto questo, badate bene, dopo aver sibilato per anni contro i politici europei servi di una fantomatica lobby ebraica. Un bel paradosso, se solo se ne fosse reso conto. Ma anche se se ne fosse reso conto, non ha molto senso mettere Salvini di fronte alle sue contraddizioni. In fondo, ricordiamolo, non è che un troll.

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Chi ha paura del profeta Ezechiele

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10 aprile - Sant'Ezechiele, profeta (620-550 aC circa).

[2012]. I profeti biblici più familiari ai bambini della mia generazione erano Zaccaria ed Ezechiele. Zaccaria era il nome di un cono pralinato, la risposta Algida al Blob Toseroni; Ezechiele, beh, era Ezechiele Lupo, quello che dava la caccia ai porcellini nelle storie centrali di Topolino. Il motivo per cui il Big Bad Wolf del più fortunato cortometraggio di Walt Disney a un certo punto sia stato ribattezzato "Zeke" in inglese ed "Ezechiele" in italiano non è tuttora stato chiarito, e il sospetto che c'entri un qualche pregiudizio antisemita non è mai scomparso del tutto. Senz'altro nella sua prima apparizione cinematografica il Lupo Cattivo si travestiva anche da venditore ambulante di spazzole affettando un accento yiddish: e sappiamo che il riferimento era già considerato offensivo nel dopoguerra, quando la Disney portò in tv una versione autocensurata del cortometraggio.



(Però c'è anche chi sostiene che la versione originale sia quella a destra, e che la maschera col nasone sia un'aggiunta successiva: la Disney non ha nessun interesse a chiarire la situazione).

Per Laurence Olivier il personaggio disneyano era ispirato a un suo Riccardo III, e in quest'ultimo Olivier aveva voluto ritrarre un produttore teatrale che detestava, Jed Harris, nato a Vienna da famiglia di origini ebraiche come Jacob Hirsch Horowitz. Potremmo persino sforzarci di cercare nella ferinità del personaggio e nella sua determinazione a cucinare i grassi e rosei porcellini qualche traccia delle più nere leggende medievali sugli infanticidi rituali degli ebrei. Però per quanto grassi e rosei sono pur sempre porcellini; se Ezechiele Lupo fosse anche solo una caricatura di ebreo, non dovrebbe andarne così ghiotto. Del resto i nomi biblici negli USA erano condivisi da ebrei e protestanti, e forse Ezechiele è più popolare presso questi ultimi. Non il lupo, dico: proprio il profeta.

C'è poco da scherzare, con Ezechiele Profeta. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un'astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall'interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri - non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.

È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l'afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano... già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l'aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell'Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.

Siamo nei primi mesi del 2003. L'invasione angloamericana dell'Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all'Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all'Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall'altra parte del filo c'è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l'appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c'è senz'altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l'interprete. Ci sono due tizi, Gog e Magog, operativi in Medio Oriente... una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Gog e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società?

Lo staff, invece di limitarsi a googlare, chiama un esperto di Scritture, Thomas Römer dell’università di Losanna. Di questa storia c’è la testimonianza di Chirac e quella di Römer, non la sto inventando io, non sono così bravo. Römer ridà una controllatina ai testi per essere sicuro di non essersi perso niente, e poi spiega: “Gog e Magog” è un modo di dire che compare una volta sola nell’Apocalisse di Giovanni, in un passo in cui gli eserciti della terra si stanno radunando per la battaglia finale (non è l’Armagheddon, è qualcosa di ancora più definitivo, mille anni dopo). Gog e Magog insomma vuol dire tutto e niente, è un po’ come Tizio e Caio, questo e quello, e patatì e patatà: insomma, se arrivano anche Gog e Magog vuol proprio dire che alla battaglia ci saranno tutti. Dietro c’è un riferimento ormai stereotipato e quasi irriconoscibile a Ezechiele 38, in cui si parla di un Gog re di Magog, che invaderà Israele da nord alla testa di una coalizione di maligni, per volontà di Dio, e da Dio stesso Magog sarà sbaragliato con pioggia scrosciante, pietre di ghiaccio, fuoco e zolfo
Così mi magnificherò e mi santificherò e mi farò conoscere agli occhi di molte nazioni, e riconosceranno che io sono l’Eterno».
Dis donc mais tu rigoles, n'est-ce pas?
Seguono in Ezechiele 39 i dettagli su dove scavare una fossa comune grande come una città, perché di Magog non resterà un solo superstite: il profeta calcola che solo per seppellire i nemici gli ebrei ne avranno per sette mesi. “Cosí da quel giorno in poi la casa d’Israele riconoscerà che io sono l’Eterno”, un Eterno che quando c’è da distruggere non bada a spese, tanto poi a pulire c’è la casa d’Israele, ma vabbe’, dettagli. Chirac a questo punto ha un brivido: sul serio il presidente degli Stati Uniti mi ha chiamato per farmi un sermone apocalittico? Sul serio pensa che io, il punto di arrivo del più laico dei sistemi educativi, possa bermi una profezia escogitata quasi tre millenni fa? Oppure, il che è peggio, è in buona fede! cioè queste per lui non sono solo le chiacchiere che si dicono e si ascoltano per raccattare voti nella Bible Belt, ci crede veramente in Gog e Magog e compagnia bella? Devo insomma pensare, con la mia cultura laica e illuminista, che l’unica superpotenza mondiale è governata da un mattoide fanatico? E suo padre, il petroliere, lo sa? La Francia non entrò nella Coalizione dei volenterosi, questo lo sapete tutti. Ma ci resta il dubbio: quello di Bush fu il discorso sincero di un cristiano “born again”, o un semplice modo di dire mal calibrato? Magari Bush voleva soltanto parlare un po’ colorito, attingendo al suo vocabolario di riferimento, che nel suo caso è la Bibbia così come nel caso di Berlusconi è un libro illustrato di barzellette sconce.


Nel corso dei secoli “Gog e Magog” è diventato davvero un modo di dire per chi mastica un po’ di Bibbia, e forse se Chirac fosse provenuto dal sistema educativo italiano le tre sillabe non lo avrebbero trovato impreparato: di Gog e Magog parla Marco Polo, piazzandoli da qualche parte a nord nel suo planisfero immaginario. Di Gog e Magog parlano un po’ tutti gli apprendisti fantarcheologi del medioevo, tutti sicuri di avere trovato la chiave del mistero: sono i Romani, anzi no, sono i Barbari che invadono l’impero, più precisamente i Goti, no, meglio, gli Unni, ma perché non gli Ungari? Senz’altro Ezechiele aveva in mente gli Ungari… anche se, aspetta, anche questi Khazari… e i Tartari, massì, sono chiaramente i Tartari. Nel frattempo il folklore europeo li trasforma in due giganti; su Gog e Magog, popoli affamati che non osano oltrepassare il cancello eretto dal grande Alessandro, Giovanni Pascoli scrive uno dei suoi più suggestivi poemi conviviali. Insomma, uno studente italiano non dovrebbe avere scuse, noi la Bibbia la studiamo. O no?

Anche di carte come queste, su google images
ce n'è un fottio. Ognuno è il Gog e Magog di qualcun altro.
Credo che dovremmo. La Bibbia è un libro sacro, che Dio l’abbia dettata o no. Non ha così importanza: se uno o più popoli si scelgono un libro sacro, quello diventa sacro per forza. Se contiene delle profezie, alcune si avvereranno. Non è solo statistica (in fondo, che ci vuole a immaginare un’invasione del nord da qui a un migliaio d’anni): un popolo che crede in una profezia prima o poi la fa avverare. Il problema con la Bibbia è che molte profezie finiscono con enormi fosse comuni, e anche al popolo di Dio viene pronosticato un futuro da becchini intensivi.
Per questo io, che non ho nessuna paura del calendario dei Maya, ogni volta che sento parlare del programma nucleare iraniano e degli eventuali raid israeliani ho un brivido: ci risiamo, penso, Gog e Magog…

Tra i loro alleati (38,5) “la Persia, l’Etiopia e Put”. La Persia, si sa, oggi si chiama Iran. L’Etiopia, è vero, sembra in tutt’altre faccende affaccendata, ma nei pressi c’è quel ribollente calderone che è il Sudan (e il Sud Sudan). Quanto a Put… meglio non pensare a come si chiama l’autocrate di un grande impero settentrionale che al momento è il migliore amico dei persiani moderni. La punizione di Dio, a base di pioggia zolfo e pietre di ghiaccio, ha tutta l’aria di un armamento non convenzionale. Lo so, sono solo coincidenze. Ma non ha importanza: quel che importa è che qualcuno le trovi verosimili, e che possa concretamente dare una mano al caso affinché la profezia di una battaglia apocalittica si autoavveri. Ma chi? Non gli ebrei, che l’Apocalisse di Giovanni non la leggono, e anche Ezechiele lo prendono con le molle. Viceversa, negli Stati Uniti, milioni di cristiani evangelici (bisognerebbe chiamarli evangelicali, ma è un nome così brutto) prendono il loro contenuto per oro colato. E votano.

Bush jr non fu il primo presidente a parlare di Gog & co.; trent’anni prima li aveva evocati Reagan: ovviamente lui pensava all’URSS. In seguito Iraq e Al Qaeda hanno avuto il loro momento; adesso tocca all’Iran. Gli evangelicali si dividono in tante congregazioni e credenze; alcuni aspettano il regno millenario di Gesù, per altri il regno è già finito e siamo alla battaglia finale; su una cosa però tutti concordano, ed è che la battaglia prevista da Giovanni (e da Ezechiele) potrà avere luogo soltanto se il popolo di Israele si fa trovare là; insomma, affinché il disegno di Dio si realizzi compiutamente, ci dev’essere uno Stato Ebraico e dev’essere attaccato da nord. Dopodiché, apocalisse per tutti, ebrei compresi – solo allora accetteranno che Gesù Cristo è il Messia, prima no. La sto raccontando come una barzelletta perché non vorrei annoiare nessuno, ma non c’è niente da scherzare: è un’interpretazione della Bibbia come tante, ma è anche la chiave di volta dell’alleanza tra cristiani fondamentalisti americani – il cuore dell’elettorato repubblicano – e sionisti israeliani. Giusto per sfatare il mito della lobby ebraica: no, negli USA milioni di appassionati sostenitori (e talvolta finanziatori) dello Stato di Israele sono cristiani, cristiani born again. Per loro c’è un motivo escatologico per cui Israele deve stare proprio là, non esattamente al riparo, anzi in balia degli invasori del nord. Il tutto alla luce del sole, perché tutto si può dire dei cristiani rinati salvo che facciano mistero dei loro piani.

Insomma, gli ebrei di Israele non hanno solo dei nemici che dichiarano di volerli eliminare dalla cartina geografica, ma anche dei simpaticissimi “amici” che li vogliono tenere lì a fare da esca escatologica per Gog e Magog, Saddam Hussein e Ahmadinejad e tutti gli altri mostri della fine del mondo: e tutto questo magari perché una notte di duemilaseicento anni fa sant’Ezechiele profeta aveva mangiato un po’ pesante. E questa è la nostra storia, la storia dei nostri giorni e dei prossimi futuri. Voi direte che no, la nostra storia è fatta di altro: di democrazia e totalitarismo, denaro e materie prime, gasdotti e oleodotti, e che tutto questo è molto più importante delle profezie di Ezechiele. Ecco, mi piacerebbe darvi ragione, perché se è una questione di soldi e di petrolio, in un qualche modo ci si può mettere d’accordo. Ma se c’entra anche la Bibbia, se c’è gente importante che ci crede davvero e non fa finta, beh, per sapere come va a finire basta leggere Ezechiele 39:

«In quel giorno avverrà che darò a Gog, là in Israele un luogo per sepoltura, la valle di Abarim, a est del mare; essa ostruirà il passaggio ai viandanti, perché là sarà sepolto Gog con tutta la sua moltitudine; e quel luogo sarà chiamato la Valle di Hammon-Gog.

La casa d’Israele, per purificare il paese, impiegherà ben sette mesi a seppellirli.

Li seppellirà tutto il popolo del paese, ed essi acquisteranno fama il giorno in cui mi glorificherò», dice il Signore, l’Eterno...
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Abdia (per piccino che tu sia)

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Sta tutto su un rotolo
(Mosaico della basilica di S. Marco,
Venezia).
19 novembre - Sant'Abdia (600 aC) - minuscolo profeta di sventura

Nella Bibbia ebraica c'erano quattro libri intestati ai profeti: Isaia, Geremia, Ezechiele e i Minori (e Daniele? Non conta, è un caso a parte, lo raccontiamo un'altra volta). Isaia – che in realtà è il nom de plume di più profeti – è il poeta; Geremia il brontolone, Ezechiele il visionario, i Minori sono dodici e hanno il libro più breve. I cristiani ebbero la bella pensata di dividerlo in dodici minuscoli libretti, alcuni poco più che cartigli. Quello di Abdia è il più corto di tutti: una pagina scarsa, ventuno versetti, appena lo spazio sufficiente per augurare sciagure a un popolo beduino (gli Edomiti) colpevole di aver collaborato con Nabucodonosor II, l'invasore babilonese.

Gli Edomiti discenderebbero da Esaù, il figlio di Isacco che cedette la primogenitura al fratellino Giacobbe in cambio d'un piatto di lenticchie: così che al posto della famosa terra del latte e del miele alla sua discendenza capitò il deserto del Negev, e una malcelata invidia per il popolo eletto. Non è chiaro quanto gli edomiti effettivamente contribuirono alla sconfitta del Regno di Giuda, ma sicuramente profittarono delle deportazioni ordinate da Nabucodonosor per sconfinare e trasferirsi in quella terra più fertile. Agli ebrei non restava che maledirli, ed è quello che fece, molto sinteticamente, Abdia: vi siete appostati ai bivi per sterminare i nostri fuggiaschi? Avete consegnato al nemico i suoi superstiti, nel giorno della sventura? Bene, il giorno del Signore è vicino: tutte le vostre azioni ricadranno sul capo. Giacobbe sarà fuoco e voi sarete paglia. Sarete sterminati, ovviamente, e le tribù d'Israele s'ingrandiranno sulle vostre rovine...

Negli ultimi versetti Abdia da profeta si trasforma in notaio della Volontà divina davanti a una mappa catastale: dal giorno del Signore in poi, spiega, gli israeliti del sud “possederanno il monte di Esaù; quelli della pianura possederanno il paese dei Filistei, il territorio di Efraim e quello di Samaria; e Beniamino possederà Galaad” eccetera eccetera, insomma Giacobbe (detto anche Israele) trionferà. È andata così?
Ovviamente no – ci fosse un solo profeta nella Bibbia che ne avesse azzeccata una. È vero che spostandosi verso la Palestina gli Edomiti persero progressivamente le loro postazioni nell’entroterra desertico e montuoso, dove furono soppiantati non da Israele bensì dai Nabatei (quelli che costruirono Petra, nuova meraviglia del mondo). Ma non furono sterminati: rimasero nella zona anche dopo il ritorno degli israeliti dalla deportazione, e cinque secoli dopo Abdia furono costretti a convertirsi all’ebraismo da un sovrano maccabeo. Alcuni fecero carriera – gli Erodi erano di origine edomita, e anche grazie all’alleato romano regnarono su Israele (anche noi italiani del resto abbiamo avuto tre re savoiardi). Quella di Abdia è l’ennesima frustrata fantasia biblica di sterminio, e il fatto che sia piccola piccola la rende in un qualche modo più suggestiva: tanti secoli fa, in un Paese lontano, c’era un popolo piccolo piccolo che le prendeva sempre da tutti gli altri popoli, e si sfogava ispirando a profeti piccoli piccoli degli stermini di massa (ma piccoli piccoli).

Tutto questo ovviamente avveniva secoli fa: oggi quei popoli non esistono più. Qualcuno forse è scomparso, la maggior parte più probabilmente si è mescolata come sempre avviene. Alcuni mantengono ancora nomi e tradizioni di qualche millennio fa: ma nessuno ovviamente pretende di occupare il Negev e il Wadi Araba sulla base di quel che scrisse millenni fa un profeta piccolo piccolo su un piccolo, piccolo cartiglio. Pensate anche solo per un momento a quanto sarebbe assurdo.

[Questo pezzo è stato pubblicato per la prima volta il 19/11/2013]
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Netanyahu è d'accordo con Hamas (lo dice lui)

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"Siete pronti per una notizia bomba?" Lunedì scorso, quando ormai le notizie da Gaza erano scomparse dal radar, Benjamin Netanyahu si è rifatto vivo sulla mia bacheca con queste parole. "Sono completamente d'accordo coi leader di Hamas".
Così tipico di Netanyahu, promettere bombe – nel senso di rivelazioni sconvolgenti che magari davvero vanno a segno, specie presso un pubblico distratto. Chi invece segue la questione palestinese da un po', per mestiere o per inerzia, o perché non riesce a distogliere lo sguardo dallo spettacolo di una lentissima e inarrestabile decomposizione, di che cosa può stupirsi ancora? Nell'ultimo mese sono morti più di sessanta palestinesi, forse nel modo più assurdo in cui potevano morire: hanno cercato di varcare il confine della Striscia davanti ai cecchini. Qualcuno senz'altro non si rendeva conto dell'assurdità; qualcun altro non aveva nulla da perdere; qualcuno eseguiva gli ordini o pensava alla pensione che Hamas paga ai parenti di ogni martire. Ora sono tutti morti e Hamas li reclama tutti come suoi. Un movimento di protesta che era nato non-violento è stato completamente fagocitato dalla macchina da martiri di Hamas: a un danno simile il sornione Netanyahu deve per forza aggiungere la beffa.


I leader di Hamas, ci spiega, dicono che è ingannevole definire questa protesta "pacifica", e senz'altro è così; molti hanno cercato di passare il confine armati, e hanno piazzato cariche esplosive anche sugli aquiloni. Non c'è nulla di pacifico in tutto questo: lo dice Hamas, lo dice Netanyahu, insomma non c'è da preoccuparsi. Chiunque morirà nei prossimi giorni sarà senz'altro un terrorista. Almeno cinquanta caduti erano militanti di Hamas, spiega Netanyahu: lo ha detto uno dei loro leader, non importa che altri membri di Hamas lo abbiano smentito. Chi segue la vicenda da un po' non ha davvero di che sorprendersi. Tra i due nemici asimmetrici, Israele e Hamas, c'è un obiettivo comune: dimostrare che Hamas e la Striscia di Gaza sono la stessa cosa. Se la Striscia protesta, è perché si mobilita Hamas; se Israele può reprimerli, è perché è in guerra con Hamas. E noi spettatori attoniti, noi che ancora perdiamo tempo a provare pietà, ora dobbiamo scegliere: o stiamo con Israele o stiamo con Hamas, che (Netanyahu ci ricorda) è un'organizzazione terrorista. Vogliono infatti sterminare gli ebrei; poco importa che non riescano più a fare qualche passo oltre il confine senza essere falciati. Hamas è forse il miglior nemico che Israele poteva procurarsi, e in un certo senso se lo è procurato; non mi riferisco tanto alle circostanze che portarono gli israeliani negli anni Ottanta a sostenere un nucleo di integralisti islamici in funzione anti-OLP, ma a tutto quello che è successo dal fallimento di Oslo in poi. I governi israeliani avevano bisogno di dimostrare al mondo che i palestinesi erano fanatici antisemiti: l'anziano Yasser Arafat, malgrado insistesse a portare con sé la pistola nella fondina e chiedesse di morire come martire, non era abbastanza credibile in questo senso (continua su TheVision)



Hamas invece funzionava egregiamente, e se non fu l’unica organizzazione ad abbracciare la tattica degli attentati suicidi, fu quella che ci investì più risorse: vite umane, dinamite, pensioni ai parenti. Senza Hamas i palestinesi non sarebbero mai diventati, agli occhi degli spettatori occidentali, una tribù di disperati assimilabili ad Al Qaeda. Quando poi nel 2005 Sharon spiazzò tutti ritirandosi dalla Striscia di Gaza, Hamas divenne la forza egemone di una Città-Stato isolata dal resto del mondo, un esperimento sociale che si protrae da allora. Hamas, branca della Fratellanza Musulmana, non è solo in guerra con Israele: anche l’Egitto ha chiuso la frontiera, e persino l’Autorità Nazionale Palestinese raziona l’energia elettrica per punire gli abitanti del loro sostegno al partito integralista. La vita dei due milioni di palestinesi che vivono nella Striscia sarebbe difficile anche se Hamas non destinasse gran parte delle sue risorse alla guerra (razzi, gallerie); una guerra sempre più asimmetrica e disperata che ciclicamente espone la popolazione di Gaza alle rappresaglie sproporzionate di Israele. Nel 2014 l’operazione Margine di Protezione causò più di 2000 morti tra i palestinesi (di cui la metà civili) e 71 vittime israeliane. Nel 2009, l’operazione Piombo Fuso aveva visto una sproporzione di uno a cento: tredici vittime israeliane, circa un migliaio di palestinesi. Chi parla di genocidio, però, è evidentemente fuori strada. D’altro canto si tratta di una situazione davvero particolare, che a qualcuno ha fatto venire in mente le guerre rituali che si combattevano nelle antiche polis Greche: la più famosa è la guerra che ogni anno gli Spartiati dichiaravano ai membri della casta inferiore, gli Iloti.

Le guerre rituali non si combattevano per il territorio (e infatti dopo ogni operazione la Striscia viene riconsegnata a Hamas); erano probabilmente connesse con le cerimonie di iniziazione che trasformavano i giovani in adulti, e servivano per fortificare l’identità delle caste in cui erano suddivise le polis. La guerra a bassa intensità che si combatte ciclicamente a Gaza offre ai giovani israeliani che fanno il servizio di leva un battesimo delle armi non privo di pericoli (ma nemmeno troppo pericoloso); mantiene la società israeliana in uno stato di allerta permanente contro un nemico esterno; ricorda alla comunità internazionale che Israele è minacciata nella sua stessa esistenza. La guerra a bassa intensità serve a mantenere uno status quo che evidentemente ai leader che gestiscono i fondi di Hamas non dispiace: tanto peggio se nel frattempo a Gaza la disoccupazione è oltre il 40%, e l’80% della popolazione vive grazie agli aiuti umanitari. La povertà crea disperazione, la disperazione fomenta i martiri, ogni martire è un successo per Hamas che lo rivendica e per Israele che lo abbatte in modo sempre più efficiente. Chi tenta di fuggire finisce falciato nel mucchio e rivendicato comunque tra i combattenti. Se non saranno i leader di Hamas a farlo, ci penserà Netanyahu, che la vede allo stesso modo: chi vuole uscire da Gaza non può che essere un terrorista. No, davvero, che si dica d’accordo con Hamas non sorprende.
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D'amore e d'ombra

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Sognare è vivere (A Tale of Love and Darkness, Natalie Portman, 2015).

Quand'ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand'anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca a Reykjavik, Valladolid, Vancouver...

Nel cinquantenario della guerra dei Sei Giorni, nelle sale italiane si celebra una specie di mini-festival israeliano, tutto al femminile: oltre a Un appuntamento per la sposa di Rama Burshtein (presentato a Venezia lo scorso settembre) è saltato fuori A Tale of Love and Darkness, girato e recitato in ebraico da Natalie Portman che era a Cannes due anni fa (e poi naturalmente c'è Gal Gadot, riservista dell'esercito israeliano, che fa Wonder Woman, e pare che sia molto brava). Dei tre film Love and Darkness è il più ambizioso: trasformare in cinema la monumentale autobiografia di Amos Oz richiedeva una dose di incoscienza che Natalie Portman fortunatamente ha conservato per dieci anni di lavorazione.


Come dimostrazione di serietà e perizia dietro la macchina da presa, A Tale of Love è sorprendente, forse anche troppo manierato: luci, ricostruzioni di esterni, montaggio, non puoi dirle niente. La Portman sa persino dirigere i bambini! (non solo il protagonista: c'è una ragazzina che sta in scena cinque minuti e riesce a comunicare con gli sguardi più di molti attori professionisti). Come trasposizione cinematografica, il film deve fare scelte inevitabili e in certi casi interessanti (ad esempio lo sfondo politico della storia è riassunto dalle chiacchiere dei passanti o dei passeggeri di un autobus, tra cui già onnipresenti nel 1948 i fanatici del complotto). Soprattutto la Portman sembra essere riuscita a cogliere un nucleo cinematografico in un libro disperatamente libresco, così concentrato sulla magia e sulla dannazione delle parole, sul fascino dei libri e sul desiderio degli uomini di partorirli e trasformarsi in loro. Di solito tutta questa letterarietà a Hollywood si risolve mettendo in scena tanti libri, possibilmente polverosi. La Portman non si sottrae, ma ti piazza ogni tanto qualche correlativo oggettivo di precisione spaventosa: l'utopia sionista di "far fiorire il deserto" trasformata in un orticello di cortile che non attecchisce, o il momento in cui il padre annuncia commosso al figlio: ora che è nato lo Stato di Israele nessuno farà più il prepotente con lui a scuola! e in capo a cinque minuti, ovviamente, il piccolo Amos deve cedere la merenda ai bulli (però israeliani).


Purtroppo il film ha un problema di ritmo (continua su +eventi!). In novanta minuti succedono parecchie cose, eppure sembra che non succeda quasi niente. Il disincanto che Amos Oz può permettersi, dopo aver partecipato alla guerra e alla stagione dei kibbutz, nelle mani volonterose ma affannate della Portman si trasforma in un pessimismo fin troppo cupo. Proprio quando ti aspetti che gli eventi precipitino (dalla dichiarazione d'indipendenza in poi) e la Storia irrompa sulla scena, la Portman decide di liquidare i combattimenti in un paio di scene e boati fuori campo, e concentrarsi sulla vicenda della madre: ovvero sul ruolo interpretato da lei stessa, ancora una volta nei panni di una depressa cronica.

Il problema è che i depressi sono i malati meno cinegenici al mondo. Piangono, prendono pillole, si scusano, prendono altre pillole, un po' d'euforia poi il crollo, altre pillole, chi non c'è passato difficilmente riesce a provare empatia. La voce narrante interverrà a collegare il crollo di Fania con l'inevitabile disillusione storica legata alla nascita di Israele: ogni sogno realizzato è un sogno deludente, voleva spiegarci Oz, e Israele non è più un sogno. Forse lo avremmo capito anche senza la didascalia, ma che fatica arrivarci. Alla fine anche questo film è un buon correlato oggettivo: un sogno cullato per lunghi anni, realizzato con grande fatica e serietà, che alla fine della visione lascia ammirati ma un po' freddi, stanchi: e i soldi del budget (perlopiù americani) non sono ancora stati recuperati. Come in altri film importanti prodotti in Israele (KippurVa' e vedrai), i palestinesi sono quasi del tutto assenti: compaiono soltanto in un paio di scene. Come se anche la Portman, per rispettarli e riconoscere i loro diritti, avesse bisogno di tenerli a una prudente distanza: quella distanza che a Gerusalemme forse non c'è mai stata. Sognare è vivere (un titolo italiano più sbagliato del solito, per un film che racconta la fatica di sopravvivere ai sogni) fino a mercoledì è all'Impero di Bra (20:20, 22:30) e ai Portici di Fossano (21:15).
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Però l'ANPI nazista, insomma, no.

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Questa è la bandiera della Brigata
Ebraica, che partecipò alla Resistenza.
Si avvicina il 25 aprile, col suo classico profumo di scazzi sui negozianti che vogliono tenere aperto senza pagare troppi straordinari (per Scalfarotto è tipo la fine del medioevo), filopalestinesi che fischiano la bandiera della Brigata Ebraica, ebrei che non vogliono la bandiera palestinese. Quest'anno il PD romano ha deciso che non parteciperà alla manifestazione dell'ANPI, ma a quella della Comunità Ebraica. Questa è una notizia - che esista ancora il PD romano, intendo. A quanto pare doveva scegliere tra comunità ebraica e ANPI, e ha fatto la sua scelta. C'entra l'amarezza per com'è andato il referendum? Naturalmente no, saremmo molto cattivi a pensarlo.

Io potrei anche concordare con Fabrizio Rondolino - che del PD renziano è ormai, a quanto pare, autorevole portavoce - quando afferma che l'ANPI non ha l'esclusiva del 25 aprile. Del resto non avrebbe i mezzi per difenderla. In termini pratici: i soci dell'ANPI non possono impedire che qualche attivista arrivi alla loro manifestazione e srotoli una bandiera palestinese. Mi sembra che il presidente dell'ANPI oggi l'abbia spiegato abbastanza bene: tutto quello che può fare la sua associazione è "dare l'indicazione di non portare bandiere che non siano quelle della Resistenza"; cosa che ha fatto, più volte. Assoldare buttafuori che allontanino tutte le persone che hanno una bandiera non resistenziale, l'ANPI non può farlo e non lo fa. Non dispone di un servizio d'ordine abbastanza massiccio e capillare, e sarebbe paradossale che se ne munisse: è un'associazione che difende la memoria della Resistenza, non un corpo paramilitare che organizza una parata.

È anche vero che tra le bandiere della Brigata, ogni tanto,
faceva capolino qualche bandiera israeliana,
che come quella palestinese non appartiene alla Resistenza.
Un servizio d'ordine ANPI avrebbe dovuto buttar fuori
anche quelle bandiere?
Per questo mi pare che Rondolino e comunità ebraica raccontino soltanto un lato della faccenda. È vero, purtroppo, che negli anni scorsi la bandiera della Brigata Ebraica è stata puntualmente fischiata da attivisti filopalestinesi (è anche vero che l'ANPI ogni volta ha stigmatizzato l'accaduto e ha preso le distanze dai contestatori). Ma è anche vero che negli stessi anni la comunità ebraica ha più volte definito i palestinesi "nazisti", e "alleati di Hitler", e non uso le virgolette a caso: in questo momento sul sito della Comunità di Roma c'è un comunicato che dice che l'ANPI Roma avrebbe deciso "di cancellare la storia e far sfilare gli eredi del Gran Mufti di Gerusalemme che si alleò con Hitler con le proprie bandiere".

Ricapitolando: la Comunità ebraica non chiede semplicemente (com'è suo sacrosanto diritto) di poter sfilare con la bandiera della Brigata Ebraica che partecipò alla Resistenza. La Comunità ebraica non vuole vedere bandiere palestinesi perché per la Comunità ebraica quella bandiera - che rappresenta una nazione con un seggio all'ONU, ricordiamo - è nazista, e chi la sventola è nazista. Quando l'ANPI fa presente, per l'ennesima volta, che non può veramente impedire a un filopalestinese di sventolare la bandiera di una nazione che aspira alla fine di un'occupazione militare, l'ANPI diventa una organizzazione negazionista che fa sfilare gli eredi degli alleati di Hitler.

Questo succede, mi pare, nell'indifferenza generale, perché poche cause come quella palestinese ormai risultano perse: oltre che a un nocciolo di affezionati, della Palestina frega ormai niente a nessuno, e il fatto che all'Unità qualcuno possa definirli filonazisti non desta davvero nessuna sorpresa. Cerco di mantenermi sorpreso io, giusto per un dovere di testimonianza: a questo punto non solo è nazista chiunque chiede che ai palestinesi sia riconosciuto il diritto all'autodeterminazione, ma siccome chi lo fa a volte partecipa alle manifestazione dell'ANPI, è nazista pure l'ANPI. Senz'altro sono nazista pure io che lo scrivo, e tu che leggi, tu: comincia a farti qualche domanda.

Quanti simboli nazisti vedi?
A quel punto un partito novecentesco, un partito di massa, cosa farebbe? Ci metterebbe il servizio d'ordine, butterebbe fuori i facinorosi e farebbe ragionare i capibastone. E un partito contemporaneo, più leggero, ma che non rinunci alla sua responsabilità di intellettuale collettivo? Cercherebbe di trovare una sintesi tra le istanze della Comunità ebraica, dell'ANPI e di quel nucleo più o meno compatto di filopalestinesi che, se festeggiano il 25 aprile, così tanto nazisti non devono essere: e votano anche loro. Il PD romano questa cosa non riesce a farla, e quindi forse la notizia non c'è: il PD romano non esiste. Esiste Orfini e il 25 aprile non andrà al corteo dell'ANPI: e se non l'avesse detto in giro, forse non se ne sarebbero accorti in parecchi. Buona Liberazione a tutti, festeggiatela con chi vi pare.
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Tutti nazisti anche quest'anno, buon 25 aprile

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È un discorso che si è già fatto, ma se ripetere non sempre aiuta, sicuramente non nuoce: i rappresentanti della Brigata Ebraica hanno tutto il diritto di partecipare ai cortei del 25 aprile senza essere fischiati.

www.combattentiliberazione.it
A chi li contesta - non sono poi in tantissimi - manca senz'altro un po' di educazione, non tanto nel senso di buone maniere. Da qualche parte c'è una lezione sulla memoria e sulla Resistenza che qualcuno avrebbe dovuto studiare meglio; ci sono concetti come sionismo ed ebraismo che non dovrebbero essere così fumosi. E così via. È una responsabilità che ci dobbiamo prendere un po' tutti sulle spalle, come educatori o anche solo come gente che scrive on line - visto che siamo tutti nel nostro piccolo educatori, siamo tutti gente che scrive on line. Nella nostra ideale festa del 25 aprile è invitato chiunque voglia ricordare i combattenti contro il nazifascismo, e se proprio si vuole contestare qualcuno, si contesta chi rimane a casa.

Ah, e il Gran Muftì non c'entra niente.

Perché se prendersela con tutti gli ebrei per l'occupazione della Palestina è un gesto ignorante e arrogante, accusare tutti i filopalestinesi di intelligenza col nazismo è più o meno sullo stesso livello di ignoranza e arroganza. Anche questo, mi rendo conto, è un discorso trito e ritrito: durante la Seconda Guerra Mondiale ci furono palestinesi che combatterono Hitler e altri (un po' di più) che collaborarono con lui - qualcosa di simile a quel che successe in Italia, tutto sommato. Questo toglie agli italiani il diritto di festeggiare il 25 aprile? Questo dovrebbe impedire ai palestinesi di chiedere la liberazione da un'occupazione militare? Lo sfogo di Peppino Caldarola mi sembra indicativo di un atteggiamento lievemente autoreferenziale: le contestazioni tra filopalestinesi e rappresentanti della Brigata avranno coinvolto al massimo qualche centinaia di persone. È senz'altro un incidente fastidioso e - parlo almeno per me - di una prevedibilità mortale. Si può fare qualcosa per evitarlo in futuro? Non lo so. Ma il punto è che per Caldarola non vale nemmeno la pena: se succede qualcosa del genere, va chiuso il 25 aprile, fine. Ah: e chi sventola una bandiera palestinese è un nazista.

Ecco: io sarei disponibile anche a scrivere tutti gli anni lo stesso pezzo in cui spiego che chi sventola la bandiera della Brigata Ebraica non è responsabile dell'incancrenirsi della questione israelo-palestinese. Ma se dall'altra parte, ogni volta, mi tocca sentire che tutti palestinesi sono nazisti, e anche tutti i loro amici, e anche gli amici dei loro amici... mi sa che ogni anni ripartiremo da zero.
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Cos'ha da insegnarci Netanyahu (anche niente)

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In linea generale forse no, mettersi a piangere durante una conferenza stampa non è la migliore risposta che si possa dare ai terroristi. Così come non lo è lucrare sul panico della gente, o scrivere editoriali scomposti il cui senso è stiamo perdendo aiuto aiuto lasciamo le chiavi della macchina a Netanyahu.

A Netanyahu.

Lo scrive Cerasa sullo stesso Foglio in cui appena uno sciagurato tira fuori un coltello, o da Gaza parte un razzo, qualcuno si precipita a spiegarci che Israele è minacciata nella sua stessa esistenza, Israele ha bisogno della solidarietà di tutto il mondo civile. Ora: non c'è nulla di strano nel fatto che Israele abbia amici nella stampa italiana. Ma possibile che non si possano trovare amici credibili, competenti? Non riescono mai a non sembrare un po' bipolari. I giorni pari Israele è sotto assedio, i giorni dispari Israele è la potenza trionfante sui suoi nemici interni che ha tante cose da insegnarci. Però vedo che anche l'Unità oggi sembra sintonizzata. Persino Haaretz suggerisce che l'Europa abbia qualcosa da imparare dall'antiterrorismo israeliano - che non è solo un'efficace serie di accorgimenti: è uno stile di vita. Va bene, vediamo. Vediamo cos'ha Netanyahu da insegnarci, in termini di sicurezza.

Se il tono un po' sgamato degli israeliani e dei loro amici è in parte giustificabile - è vero che convivono col terrorismo islamico da più tempo - l'idea che in Europa le stragi tra civili siano una novità è abbastanza ridicola. Il terrorismo è una delle tante cose che abbiamo inventato noi e - come si vede dal grafico qua a destra - in molti casi l'abbiamo anche già risolto (non è stata una passeggiata, e non lo sarà neanche stavolta).

Statista.com
Per quanto si stiano impegnando negli ultimi anni, gli integralisti non hanno ancora invertito la tendenza negativa: il terrorismo politico o indipendentista faceva molti più morti negli anni Settanta. Guardando al numero delle vittime, il panico degli ultimi giorni non è solo sbagliato: è anche ingiustificabile. Si spiega soltanto con la mentalità dell'assedio, con cui molti cittadini europei stanno reagendo alla crisi dei profughi. Terrorismo e profughi sono due fenomeni diversi, con cause e soluzioni diverse, ma stanno contribuendo a formare una mentalità isolazionista. Chi chiede soluzioni facili al terrorismo, probabilmente sta pensando anche ai profughi. Chi parla di Netanyahu magari sta pensando a un bel muro, pardon, barriera protettiva, che però, nella situazione, nemmeno Netanyahu saprebbe dove costruire: intorno all'Europa? O al Belgio?

Ovvero: nessuno nega che l'isolazionismo abbia dato risultati, in Israele. Se hai una nazione di ventimila chilometri quadrati (più o meno l'Emilia-Romagna), con zone desertiche e altre densamente popolate (ma nessuna città superiore al milione di abitanti); se la maggior parte dei terroristi proviene da un territorio (in teoria) straniero (ma militarmente occupato e/o circondato da posti di blocco), tu alzi una bella "barriera" di cemento + filo spinato e gli attentati, fatalmente, diminuiranno. Bisognerà però contestualmente ritirarsi da alcune zone che proprio non riusciresti a controllare - e qui magari si può far notare che Netanyahu non era affatto entusiasta dell'idea di ritirarsi da Gaza. Che però ha dato risultati abbastanza spettacolari.


Questo è il grafico più esauriente che ho trovato - e che illustra bene, a mio parere, quanto sia stato importante per la sicurezza degli israeliani il ritiro da Gaza e l'erezione della "Barriera" (2004-2005). Netanyahu è tornato al governo nel 2009, un anno abbastanza buono. Però morti e feriti ne ha contati tutti gli anni, purtroppo. Sei nel 2009. Dieci nel 2010. Ventuno nel 2011. Otto nel 2012. Sette nel 2013. Trentanove nel 2014. Trentasei nel 2015. Li ho contati sulla Jewish Virtual Library, dove non credo che abbiano interesse a tenere i numeri più bassi di quanto non siano - e comunque c'è qualcosa che non va, visto che lo stesso sito sostiene che per il Shin Bet l'anno peggiore sia stato il 2015 con 'solo' ventotto vittime. Dipenderà anche dalla matrice del singolo episodio, che può essere terrorismo ma anche criminalità comune.
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Due popoli, due Stati, una presa in giro

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La settimana scorsa Matteo Renzi è andato a Gerusalemme, e alla sede del parlamento israeliano ha pronunciato un lungo e appassionato discorso pieno di nomi non solo ebraici e italiani, ma specificatamente toscani (Michelangelo, Bartali, Nedo Fiano...) Il senso ultimo del discorso era: popolo italiano e popolo israeliano amici! Ce n'era bisogno?

Forse sì. Appena due settimane fa Obama ha dato il via al nucleare iraniano, l'incubo a cui Netanyahu deve parte dei suoi successi elettorali. A condurre la trattativa per l'Unione Europea c'era l'Alta Rappresentante Federica Mogherini, fortemente voluta da Renzi, e quindi sì, forse valeva la pena di passare da Gerusalemme a ribadire l'ovvio - ossia che l'esistenza di Israele non è in discussione. A quel punto non si poteva evitare di fare una visita di cortesia anche ad Abu Mazen, a cui non stringeva la mano da qualche mese. Prontamente colmata la lacuna se ne è tornato a casa, e laggiù hanno rimesso a tirarsi pietre e fumogeni al ritmo consueto.

In Italia l'unico dettaglio che ha attirato un po' l'attenzione degli spettatori è stata la pronuncia di "Michelangelo". L'inglese di Renzi è abbastanza terribile; l'idea che veicoli simpatia è irredimibilmente provinciale; e però bisogna concedergli che "Michelangelo" in inglese si pronuncia proprio così: se lo dici in un altro modo non è affatto detto che ti capiscano. Qui, come in altri casi, il pubblico italiano esibisce riflessi condizionati: è talmente addestrato ad aspettarsi periodiche gaffes internazionali dei suoi rappresentanti, che le vede e le sente anche quando non ci sono. È uno dei lasciti più subdoli del berlusconismo, questa idea per cui Renzi debba per forza essere ridicolo, e sia ammirabile o criticabile in quanto tale. Alla stampa israeliana, più avvezza a sentir pronunciare l'inglese in tutte le pronunce del mondo, è rimasto molto più impresso l'accenno ai boicottaggi. Chi boicotta Israele, ci ha fatto sapere Renzi, boicotta sé stesso, e forse non si rendeva conto di quanta ragione avesse: il boicottaggio comporta da sempre un danno anche per chi lo pratica.

Renzi ha anche pronunciato un'altra ovvietà necessaria, che non ha oltrepassato la soglia dell'attenzione né dei titolisti italiani né di quelli israeliani: a Gerusalemme non ci sarà pace finché non ci saranno due Stati per due popoli. Ha davvero detto così ("la pace che domandiamo per Gerusalemme sarà possibile solo quando sarà interamente compiuto il progetto Due Stati per Due popoli"). Anche questa sarà una banalità, ma ricordiamo che a una settimana dalle elezioni Netanyahu di Stato di Palestina non voleva più sentir parlare. Dunque di cosa si lamentano le Ong italiane che lavorano nei Territori? Che altro poteva fare un capo del governo italiano alla Knesset, se non ribadire che la Palestina deve esistere?

A parte che ci sono, in effetti, un sacco di cose che Renzi potrebbe fare per dare un senso alle sue parole di solidarietà ai palestinesi, e a tutte le strette di mano che dà ad Abu Mazen; a parte questo, c'è da dire che a nessuno piace sentirsi presi in giro, e ormai chi parla di Due Popoli e Due Stati a Gerusalemme dà questa fortissima sensazione. A meno che non sia in buona fede, il che però significherebbe essere rimasti fermi agli anni Novanta e alle strette di mano tra Arafat e Rabin, quando a un certo punto ci siamo convinti che uno Stato Palestinese potesse esistere, più o meno con questa forma (in verde la Palestina, in bianco Israele):



Ecco, più o meno quello che abbiamo in mente in Italia quando pensiamo ai Due Popoli Due Stati è una cosa del genere. C'è il piccolo particolare che né ad Arafat né ad Abu Mazen è mai stata offerta una Palestina così. A ventidue anni da Oslo II, la Palestina affidata ai palestinesi continua a essere questa.



Così quando Renzi va alla Knesset a proporre Due Popoli e Due Stati, quello che gli israeliani pensano è una soluzione del genere. Non solo i falchi alla Netanyahu (che almeno ogni tanto ammettono la verità: non ci sarà mai nessuna Palestina); il suo contendente laburista alle ultime elezioni non aveva in mente una Palestina molto diversa da questa - e di ritirare i coloni non voleva sentir parlare. Il fatto che quest'arlecchinata sia una proposta irricevibile per la maggioranza dei palestinesi non è un problema. Questo soprattutto facciamo fatica a capire in Italia, dove ci ostiniamo a considerare la questione palestinese un problema. In Israele il problema è un altro (la sopravvivenza di un piccolo Stato nel burrascoso Medio Oriente) e la questione palestinese, con crisi annesse, è già parte della soluzione: una soluzione già prevista dai collaboratori di Sharon, con disarmante semplicità, dieci anni fa. Israele ha vinto. Mi ripeto:

Non riusciva a cacciare i palestinesi e non voleva sterminarli; non poteva assimilarli senza rischiare di essere assimilato; e allora li ha recintati, umiliando e stroncando sul nascere qualsiasi embrionale tentativo di formare una classe dirigente. Ogni vittoria ha un prezzo, e ogni tanto in effetti qualche israeliano muore per mano palestinese. Ne uccide più il traffico, ma quando succede l'IDF può dimostrare a tutti i bravi cittadini israeliani la sua forza morale e la sua potenza di fuoco. In modo davvero non dissimile gli Spartani dichiaravano ogni anno la guerra ai loro schiavi Iloti: quella era Sparta, questo è l'Israele di Netanyahu.

Il presidente del consiglio dei miei sogni, invitato alla Knesset, non avrebbe fatto un discorso più bello di quello di Renzi. Però a un certo punto avrebbe detto: scusate, ma mentre mi applaudite perché parlo di Due Stati, non è che state già discutendo di condonare qualche altro migliaio di alloggi israeliani in Palestina? Se proprio ci tenete ad abitare in Cisgiordania, perché non fate uno Stato solo - magari federale - riconoscendo la cittadinanza a quei milioni di arabi che vivono nelle macchioline di un Paese che senza il vostro reale consenso non esisterà mai? Se non lo fate è perché evidentemente siete più comodi così. Se siete più comodi così, perché continuate a lamentarvi che il mondo ce l'ha con voi? Qualcuno a questo punto lo avrebbe accusato di antisemitismo, probabilmente di matrice cripto-islamica. Il presidente del consiglio dei miei sogni non se la prenderebbe: è più o meno quello che dicono di Barack Obama. D'altro canto il presidente dei miei sogni non riuscirebbe nemmeno a farsi votare dal me stesso sveglio, quindi il problema non si pone.

PS: mi scuso per il post intempestivo e ridondante. Il mondo ne poteva certamente fare a meno, e tuttavia la settimana scorsa un tizio (sempre il solito) ha detto in giro che io non parlerei più di Israele perché in un qualche strano modo sarebbe riuscito a farmi paura. Il sentimento che ogni tanto provo per lui, e per i suoi titanici sforzi, di può effettivamente definire con una parola che comincia per P: ma non è paura, proprio no. Se non parlo spesso di Israele è perché non succede nulla di abbastanza tragico (per fortuna), e mi annoio a ripetere sempre le stesse cose: che magari sono sbagliate, ma sono le cose che penso io. Se vi danno fastidio, non c'è bisogno di minacciarmi di questa o quella ritorsione: un dito su alt, un altro su f4, e il problema è bello che risolto. Non ce ne sono poi tanti di problemi che si possono risolvere premendo un tasto, anzi due. Profittatene. Shalom e buone vacanze - mi pare che ne abbiate bisogno.
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Giochiamo al 25 aprile (il fascista lo fai tu)

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Non credo proprio che mi leggano, ma gli Amici di Israele, decidendo di sfilare al corteo del 25 aprile senza la bandiera dello Stato di Israele, hanno fatto la cosa più intelligente: e chi ha continuato a fischiarli, nonostante sventolassero solo i simboli di una brigata che combatté nazisti e fascisti, la più sbagliata.

Da ieri chi accusa i filopalestinesi di antisemitismo ha un argomento in più; chi ha interesse a descrivere un’Italia e un’Europa sempre più difficili per gli ebrei, un nuovo episodio da raccontare. Rimane un mistero come tutto questo possa risultare utile alla causa dei palestinesi, di cui sventolate orgogliosi le bandiere: a occhio sembra più un favore ai sionisti, che i vostri fischi rendono più forti. D’altro canto è pur vero che in corteo si procede a tentoni, e da lontano tutte le bandiere si somigliano; che il clima era pesante da settimane; che la richiesta di bandire dal corteo le bandiere palestinesi era una provocazione bella e buona, e l’assenza di bandiere israeliane una relativa sorpresa: è tutto vero, e non vi scusa. Vi siete fatti fregare.

A questo punto il fatto che siate davvero antisemiti o no è irrilevante: era la parte che avevano scritto per voi, e non vi siete posti nessun problema a recitarla. Non si è mai idioti inutili; ci sarà sempre chi dalla vostra idiozia saprà trarre vantaggio, e non è con lui che ha senso prendersela.
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Chi è degno di sfilare il 25 aprile? (io no)

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Qualche lettore amico di Israele ha trovato molto grave che in un pezzo di 1500 caratteri sulle bandiere israeliane al corteo del 25 aprile, io non abbia trovato posto per una riflessione sul Gran Muftì di Gerusalemme, il leader arabo che si alleò con Hitler contro gli ebrei. Sarà forse revisionismo il mio? Spero di no; a mia discolpa potrei obiettare che il Muftì non è il fondatore dell’indipendentismo palestinese, e la sua bandiera non è proprio quella che sventolano i palestinesi - come la bandiera della Brigata Ebraica non è quella di Israele. Ma forse sono solo patetiche scuse. Se nella tua storia c’è un alleato di Hitler, non sei degno di sfilare nel corteo della Liberazione. Togliamo dunque le bandiere palestinesi. E i filopalestinesi in generale.

Bundesarchiv Bild 146-1978-070-05A, Amin al Husseini
bei bosnischen SS-Freiwilligen di Bundesarchiv,
Bild 146-1978-070-05A / Mielke / CC-BY-SA.
Con licenza CC BY-SA 3.0 de tramite Wikimedia Commons.
A questo punto però temo di non poter venire neanch’io, perché… mio nonno era nell’esercito regio. Tempo di sparare un colpo ed era già prigioniero in Sudafrica, e però indubbiamente prese ordini da alleati di Hitler. Lo fecero tutti i nostri nonni, anche quelli che poi diventarono partigiani; il che forse ci impedisce di sventolare un tricolore così simile a quello di fascisti e repubblichini, e di accompagnare i filoisraeliani al corteo del 25/4.

D’altro canto, se li lasciamo soli, che penseranno di noi? Forse che li stiamo deliberatamente isolando, accerchiando? E allora che si fa? Davvero non lo so. Cari amici di Israele, ditelo voi cosa possiamo fare. Io vorrei tanto non offendervi, ma mi domando se sia più possibile.
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A certe feste si va per litigare: il caso 25 aprile

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In 1500 caratteri la farò semplice. Questa è la bandiera della Brigata Ebraica, che diede un nobile contributo alla guerra di liberazione dal nazifascismo.



Bella. Questa è quella dello Stato di Israele, nato poco più tardi, che da tempo occupa alcuni territori dove secondo la comunità internazionale dovrebbe sorgere lo Stato di Palestina.



Pur simili, rappresentano cose un po' diverse. Perciò credo sarebbe stato utile, negli anni scorsi, portare nei cortei del 25/4 soltanto la prima, magari cogliendo l'occasione per spiegare che non era la seconda; e che la stella in sé rappresenta l'ebraismo, non uno Stato che ha una storia gloriosa ma non ha contribuito alla guerra di liberazione italiana (non ha fatto in tempo), e in questo periodo sta occupando territori di un altro Stato.

A quel punto chi venisse comunque a fischiare non ci lascerebbe dubbi: non fischierebbe Israele, ma l’ebraismo. Non esprimerebbe un sostegno alla Palestina, ma il proprio antisemitismo. Purtroppo non è mai successo.


Perlomeno, in tutte le foto che mi è capitato di vedere di cortei del 25/4, per ogni bandiera della brigata ebraica ne ho vista una dello Stato di Israele. E quindi? Niente, fate come credete. Ma non venite a dire che il 25 aprile è di tutti e che non volete litigare. Il 25 aprile non è mai stato di tutti; c’è sempre stato qualcuno che voleva litigare. Chi viene con la bandiera di Israele - e vuole fuori quelli con la bandiera della Palestina - non sarà il primo, ma non è da meno.

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Cosa pretendiamo da Israele

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Banksy?
"Fuori dalla realtà". A sentire Gideon Levy gli israeliani che hanno rivotato per il Likud sarebbero vittima di un lavaggio del cervello collettivo. "Se Netanyahu è il prossimo primo ministro, allora Israele non ha divorziato soltanto col processo di pace, ma col mondo". Che Israele non la pensi come buona parte del "mondo" non è per la verità una gran sorpresa. Nemmeno la vittoria di Netanyahu lo è, non fosse per i sondaggi che hanno movimentato un po' gli ultimi giorni di campagna. Forse esiste un fattore timidezza anche tra gli elettori del Likud, molti dei quali fino alle scorse elezioni avevano preferito scegliere altri partiti più a destra.

Il pezzo di Levy sembra pensato per lenire la delusione degli osservatori esterni, che continuano a non capire dove Netanyahu voglia portare la sue gente. Niente Stato palestinese, nessuna trattativa con l'Iran finché c'è Obama alla Casa Bianca, nessuna concessione, nessuna novità. Tutto questo a Levy e a tanti suoi lettori sembra fuori dalla realtà, eppure fin qui bisognerebbe riconoscere che ha funzionato. È vero, ogni tanto scoppia una guerra a bassa intensità; è vero, molte risorse si spendono in sicurezza, e il costo della vita ne risente. È vero, visti da una certa distanza gli israeliani (e i palestinesi) sembrano bloccati in uno stallo senza uscita. Ma che altro dovrebbero fare a questo punto? Cosa pretendiamo da loro?

Magari li avremmo voluti anche noi più ragionevoli. Ci sarebbe piaciuto che la formazione di sinistra vincesse le elezioni - come se il film non l'avessimo già visto. Abbiamo letto che Herzog era a favore di un processo di pace e tanto ci bastava. Due popoli e due Stati? Ma certo. Un negoziato a tre con Abu Mazen e Obama? anche subito.

E gli insediamenti in Cisgiordania? Ehm, vediamo.

Herzog: My settlement policy first and foremost is based on the famous [Clinton] parameters. I believe in the blocs. I definitely believe in Gush Etzion [a major settlement bloc just outside Jerusalem] being part of Israel. It's essential for its security.
Goldberg: When the U.S. administration tells you to stop building in Gush Etzion—
Herzog: Wait, wait, I haven't finished.
Goldberg: No, no, no, I want to get this in. When the U.S. administration tells you, no building in Gush Etzion, and you're prime minister, what do you say?
Herzog: It will be a mistake that you go in with all these - (continua qui)

http://www.mideastweb.org/palestineisraeloslo.htm
Come se non ci fossimo già passati. Un Herzog primo ministro avrebbe senz'altro rallegrato i lettori di Gideon Levy, le cancellerie europee e la Casa Bianca; avrebbe dato un'occasione ad Abu Mazen di volare in qualche location esotica e sorridere in favore dei fotografi come il rappresentante legalmente eletto di un qualche popolo; dopodiché - ci siamo già passati - la trattativa si sarebbe rapidamente incarognita sui soliti punti. Ad Abu Mazen, Herzog avrebbe offerto la consueta arlecchinata, una Cisgiordania a brandelli circondata e bucherellata dagli insediamenti e dai posti di blocco. Abu Mazen avrebbe potuto persino accettare, ma Hamas no, e saremmo al punto di prima. Non si capisce perché le cose non dovrebbero andare così, e non credo che un elettore medio israeliano dovrebbe immaginarsi che vadano diversamente. Quindi perché non Netanyahu?

Lui non ci prova nemmeno più, a far la pace: di Palestina non vuol più sentir parlare. Non è più onesto, almeno? Si può nel 2015 continuare a parlare di Due Stati ma senza toccare gli insediamenti? Si può immaginare un processo di pace come se dall'altra parte ci fosse sempre una leadership palestinese ancora in grado di farla, questa pace? Come se Hamas non si fosse ulteriormente radicalizzata, come se Abu Mazen non avesse smesso di convocare elezioni, come se il treno dei Due Popoli Due Stati non fosse ripartito da un pezzo?

Sono italiano, non faccio testo. A molti miei compatrioti basta un attentato o l'arresto di due marò per perdere la brocca. Non posso permettermi di giudicare la tenuta psicologica di un popolo che vota a qualche centinaio di chilometri dal caos siriano e iracheno. Mi sembrava improbabile che la maggioranza degli israeliani in questa situazione fosse disponibile a ritirarsi da un territorio di vitale importanza strategica - a meno che non si fosse trattato del solito ritiro per finta che è stato offerto ai palestinesi fin qui.

Un errore che facciamo quasi tutti, quando parliamo di Israele e di Palestina, è isolarli in un piccolo mondo a parte - un mondo tutto sbagliato i cui abitanti dovrebbero finalmente trovare un modo per andare d'amore e d'accordo. Ma Israele non è un'isola; non prospera sotto una cupola di vetro o di acciaio. Lo chiamiamo conflitto israelo-palestinese come se da una parte ci fossero soltanto israeliani, e dall'altra soltanto palestinesi. Non è così, non è mai stato così - conflitti del genere di solito si risolvono in molto meno di sessant'anni. C'è una guerra molto più grande intorno, e se per adesso Israele non è la prima linea, non è nemmeno una retrovia. C'è chi dall'altra parte del mondo finanzia i coloni e i partiti; c'è chi da qualche parte nel Golfo ha ancora interesse a nutrire Hamas e altre formazioni che credono nel piccolo e frammentato Stato di Palestina ancora meno di quanto ci creda Herzog. Il torto più grande che facciamo agli israeliani (e ai palestinesi), è pensare che possano fare la pace da soli. Che possano anche soltanto desiderarla, bloccati come sono nell'occhio del ciclone di un conflitto mondiale a intensità nemmeno così bassa. Un giorno finirà - finisce tutto col tempo. Ma non saranno gli israeliani (e i palestinesi) a farla finire: non da soli, almeno. Da loro non possiamo pretenderlo.
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Non parlerai di Gaza il 27

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27 gennaio - Giorno della memoria, "al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati" (legge 211/2000).

Aveva le orecchie a sventola.
Una storia del genere capita forse tutti gli anni: quest'anno è capitata a Magenta (MI). Una mostra dal discutibile titolo "Shoah di ieri shoah di oggi" è stata prima patrocinata dal comune, poi precipitosamente annullata quando esponenti della comunità ebraica hanno fatto notare che esporre foto dei campi di sterminio tedeschi accanto a disegni dei bambini di Gaza avrebbe potuto creare "confusione su due piani storici e di consistenza differenti” (Daniele Cohen, assessore alla cultura della Comunità ebraica di Milano). Nel frattempo la proprietaria della libreria che aveva promosso la mostra si dichiara scossa dalle mail di odio ricevute.

Il Giorno della memoria si celebra in Italia ormai da quindici anni. Come tutte le ricorrenze, ha generato in breve tempo i suoi automatismi: la Shoah si è fatta spazio nei palinsesti tv e nei manuali scolastici; persino la programmazione dei cinema ne risente. Chi passa quotidianamente davanti alla vetrina di una libreria conosce la sensazione: a Natale renne e uomini di neve, un mese dopo stelle di David e filo spinato. Ha persino un senso: dopo la festa della bontà obbligatoria, il ricordo di quanto possiamo essere crudeli. De Bortoli qualche anno fa cominciava a sentire una certa stanchezza, avvertiva "un pericoloso scivolamento nella retorica o nella ritualità dei ricordi". Ma retorica e ritualità sono entro un certo livello inevitabili, quando si decide di fissare un evento sul calendario per tutti gli anni a venire. E funzionano: per ogni De Bortoli che si stanca di leggere o scrivere il solito temino, ci sono nuove classi che ogni tanto si affacciano sui banchi di scuola, e di una certa dose di retorica e di ritualità hanno bisogno.

Allo stesso tempo, retorica e ritualità non sono i migliori custodi dei ricordi che loro affidiamo. Così come il Natale non è nato festa dei bambini, e di renne volanti per secoli non si è parlato, anche la giornata della memoria tra un secolo non sarà quella che oggi immaginiamo. Credo che sia inevitabile che col tempo certe narrazioni più rassicuranti, come La vita è bella o Il bambino col pigiama a righe, scacceranno le meno concilianti e più crude. Per ora, si registra il tentativo di respingere le interpretazioni 'attualizzanti'. Mescolare il passato col presente, suggerire come la libraia di Magenta che "i bambini, ebrei e palestinesi, hanno gli stessi sogni", è sbagliato. Come dichiara il suo vicesindaco: "Promuovere quella mostra è stato un grave errore, ci scusiamo eliminandola dal programma. Parlare dei bambini palestinesi il 27 gennaio non è opportuno in quanto è un dramma diverso dal punto di vista storico e di dimensione". 

È un'opinione che tutto sommato condivido: sono convinto che il paragone sballato tra territori occupati e lager nazisti non abbia mai giovato alla causa palestinese. Purtroppo è un paragone che non si può evitare. Ovvero: io posso rispondere di me stesso. Ma non posso evitare che qualcun altro lo faccia (la libertà di espressione, ricordate?) È un paragone sbagliato, proprio dal punto di vista storico e "di dimensione": ma è un paragone inevitabile, com'è inevitabile confondere parole molto simili dal significato anche diverso. Ebrei sterminati in un recinto, israeliani che alzano un recinto. È sbagliato accostare le due immagini, anche se sono simili. È sbagliato istituire correlazioni causa-effetto, ma il nostro cervello funziona così: vede cose simili e cerca di capire se una è la causa dell'altra. Dobbiamo chiedere al nostro cervello di sospendere un attimo la cosa, per favore, perché è controproducente. Una volta sistemata la questione col nostro cervello, dovremmo anche provare a convincere quello degli altri: da bravi, "parlare dei bambini palestinesi il 27 gennaio non è opportuno". Tutti gli altri giorni va bene: il 27 magari evitate. Non è un giorno come gli altri.

Io non credo che la libraia di Magenta sia antisemita, come le hanno scritto a quanto pare in tanti. Mi chiedo spesso a che serva l'etichetta di antisemitismo, se la si banalizza così. Si minaccia in un qualche modo il popolo ebraico esponendo disegni di bambini di Gaza? Si lede l'immagine di Israele e quindi la sua economia e quindi si congiura contro la sopravvivenza del suo popolo? C'è qualcuno che la pensa seriamente così? E se invece esporre disegni non danneggia in nessun modo concreto né Israele né l'ebraismo, cos'è esattamente questo "antisemitismo" che si esprimerebbe solo in pensieri e non in azioni, uno psicoreato? (continua sul Post)

Secondo me la libraia non ha fatto che applicare un principio sul quale veniamo martellati da quindici anni: chi non ha memoria non ha futuro, chi non ricorda il passato è condannato a riviverlo ecc.. Ovvero: ricordare il passato ci dovrebbe servire a interpretare il presente e modificarlo. Cercare a Gaza i lager moderni è un’operazione ingenua, ma in un qualche modo automatica: il risultato del modo in cui insegniamo e studiamo la Storia sin dalla più tenera età. La insegniamo e studiamo come museo degli errori, sollecitando continuamente l’alunno a istituire paragoni con la sua contemporaneità, a domandarsi: tutto questo a che mi serve? Può capitare anche a me? Posso fare in modo che non mi ricapiti? Così, di fronte alla Shoah, scatta automatica la domanda: esistono Shoah oggi? Dove esistono? Come posso combatterle?

A questo punto scatta una obiezione, anche questa ormai automatica: se proprio si devono cercare situazioni paragonabili alla Shoah, perché proprio Gaza? Con tutto il mondo a disposizione? Perché i bambini di Gaza possono esporre in una libreria italiani e di quelli che a pochi chilometri di distanza vivono la tragedia della Siria non ci interessiamo? Giusto. Ma l’obiezione si può anche ribaltare: se la libraia avesse esposto disegni di Kobane invece che di Gaza, la comunità ebraica avrebbe protestato ugualmente per il paragone indebito? Voglio pensare che sì; che se è indebita la Gaza recintata e saltuariamente bombardata dagli israeliani, sarebbe indebita anche Kobane occupata dall’Isis. Che non si tratta di difendere le politiche di Israele, ma di salvare la specificità della Shoah, tragedia assoluta senza termini di paragone.

D’altra parte, a questo punto possiamo domandarci: che ce ne facciamo di una tragedia assoluta se non possiamo usarla come termine di paragone? Che senso ha ricordare l’orrore nazista se poi dobbiamo subito puntualizzare che nessun orrore sulla terra può essere paragonato a esso? O qualche orrore può essere paragonato a esso, senza che nessuno si offenda? È una domanda non retorica. La comunità ebraica è oggettivamente investita della responsabilità non leggera di decidere cosa si debba ricordare nel Giorno della Memoria e cosa no. Il paradosso per cui il 27 gennaio rischia di diventare il giorno in cui tante altre cose devono essere temporaneamente dimenticate, per evitare paragoni sbagliati, era forse prevedibile già nella lettera della legge 211/2000, che definiva la Shoah “sterminio del popolo ebraico” e prescriveva di ricordare “gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte”. Nessun cenno alle altre minoranze sterminate: omosessuali, Testimoni di Geova, zingari sono universalmente riconosciuti come vittime dei lager, ma nella legge non se ne faceva menzione. (Eppure se quindici anni fa avessimo cominciato a riflettere più seriamente su come avevamo trattato zingari e omosessuali durante la seconda guerra mondiale, forse oggi vivremmo in una società diversa. Pensate soltanto a quanti italiani sono passati nelle nostre scuole negli ultimi quindici anni).

La legge insisteva invece sulla tragedia degli ebrei e anche questo ha un senso (un senso “di dimensione”, direbbe il vicesindaco, e suona goffo ma non saprei trovare un’espressione più felice). Nessun genocidio ha le dimensioni di quello ebraico; nessun altro dimostra la geometrica efficienza dell’uomo nell’eliminare il prossimo. Nessun altro mette in gioco la facoltà cruciale della memoria, configurandosi come una sfida alla Storia che, se avessero vinto i nazisti, sarebbe stata riscritta eliminando un intero popolo. Tutto questo è eccezionale e merita che ogni anno ci fermiamo a rifletterci, anche se certi anni non ci verrà in mente niente da dire e ci affideremo alle stampelle della ritualità e della retorica. Ma il dubbio rimane: che senso ha ricordare una cosa che ci è successa, se ogni anno ci dobbiamo affrettare ad aggiungere che è stata eccezionale, non paragonabile a nulla di presente e vivo?

Oggi è il 27 e in molte scuole si tratta di scegliere che film guardare, che brano leggere. Per orientarmi in mezzo a una produzione vastissima io di solito faccio tre mucchi: c’è la Shoah delle vittime, la Shoah degli spettatori e la Shoah dei carnefici. Alcuni prodotti (Schindler’s list) sono abbastanza complessi da rientrare in qualche modo in tutti e tre. La Shoah delle vittime può essere molto cruda (il Pianista), ma conserva di solito un impianto rassicurante: lo spettatore è indotto a immedesimarsi nella vittima, il che lo riempie momentaneamente di angoscia ma lo tranquillizza sulla propria condotta: i cattivi sono gli altri. La Shoah degli spettatori è ambigua, e adatta a un pubblico un po’ più cresciuto, al quale viene chiesto di immedesimarsi in personaggi né vittime né carnefici, che a un certo punto devono fare una scelta. La scelta di solito è di opposizione al nazismo, e quindi anche queste opere si chiudono su una nota rassicurante. La Shoah dei carnefici è quasi improponibile nelle scuole, ma credo che da un certo punto in poi dovrebbe essere l’unica a interessare chi ebreo non è, e non è omosessuale o zingaro, o testimone di Geova o handicappato: il passato che rischiamo di rivivere, se non stiamo attenti, è quello in cui gente come noi non fu vittima, ma volenterosa esecutrice.

Credo che un film come quello di Spielberg andrebbe visto almeno tre volte: da ragazzini, per immedesimarsi nella bambina col cappotto o i bambini nascosti nella latrina; più in là nell’adolescenza, quando cominciamo a sentire i pruriti di Oskar Schindler per le belle ragazze e i bei vestiti (e abbiamo ancora bisogno di qualcuno che ci perdoni, se nel finale ci scioglieremo in lacrime); a vent’anni, per specchiarsi in Amon Goeth. Si spera poi nella vita di non dover essere nessuno dei tre, ma è Goeth quello da cui ci dovremmo guardare con più attenzione. Se continuiamo a dirci che è stato eccezionale, il monstrum dei latini, un caso straordinario a cui nessuno è (in)degno di paragonarsi; se non riusciamo a intravedere nei suoi occhi un bagliore simile ai nostri, allora sì, può darsi che il rito davvero non stia funzionando; che la retorica stia girando a vuoto.
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Il piccolo terrorista israeliano

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Qui è ancora sbarbato.
4 agosto 2005 - Il diciannovenne israeliano Eden Natan-Zada fa fuoco in una corriera, uccidendo quattro connazionali arabi e ferendone altri dodici, prima di essere linciato.

Eden Natan-Zada oggi avrebbe ventotto anni, magari sarebbe in spiaggia con una moglie giovane e una bambina. Invece è morto linciato da una folla di gente che avrebbe voluto uccidere, a uno a uno, con una pistola a ripetizione.

Eden Natan-Zada nasce nel 1986, da una famiglia giunta in Israele dall'Iran. I famigliari lo descrivono come un bravo ragazzo studioso che avrebbe conosciuto il kahanismo attraverso internet. Il kahanismo è l'ideologia sviluppata da Meir Kahan, il fondatore della Jewish Defense League, riconosciuta come organizzazione terroristica da Israele, USA e UE.

Per Kahan lo Stato di Israele, centro universale dell'ebraismo, è minacciato nella sua stessa esistenza da nemici arabi che non si arrenderanno mai; l'unica soluzione è la guerra - esatto, sì, questo progetto in Israele è considerato terroristico, non so se sia il caso di avvisare Rondolino. L'obiettivo della guerra dovrebbe essere un grande Israele teocratico comprendente Gaza, Cisgiordania e anche un po' di tutti i Paesi confinanti, incluso l'Iraq. Agli arabi residenti sarebbero tolti i diritti civili - solo gli ebrei avrebbero diritto di voto.

Un vero e proprio contatto coi kahanisti, Natan-Zada potrebbe averlo avuto nell'insediamento di Kfar Tapuach, in Cisgiordania, dove passava spesso i fine settimana e dove infine si rifugiò per evitare il servizio militare. Secondo Matthew Gutman, del Jerusalem Post, a Kfar Tapuach era presente una cellula di kahanisti.

È l'estate del 2005. Il piano di sgombero degli insediamenti di Gaza, annunciato da Sharon sin dall'anno scorso, sta per diventare operativo. I coloni di Gaza si stanno preparando, chi al trasloco, chi all'assedio. Alcuni aspetteranno l'esercito israeliano con il filo spinato, e rovesceranno acido sui ragazzi di leva venuti a sgomberarli. Ma Eden Natan-Zada non sarà tra quei ragazzi. Qualche giorno prima ha scritto: "come non potrei mai eseguire un ordine che dissacrasse il Sabato, così non posso essere parte di un'organizzazione che espelle gli ebrei". L'organizzazione in questione può essere l'esercito di Israele, o Israele tout court. La famiglia ha già denunciato la scomparsa del figlio, facendo presente che ha ancora con sé parte del suo equipaggiamento militare.

Shefa Amr è una cittadina di trentamila abitanti nel nord di Israele, per la maggioranza arabi, musulmani cristiani e drusi. È arabo Michel Bahus, l'autista del bus che quando vede salire a bordo un soldato IDF con la kippah, la barba e i ricciolini, gli chiede se è sicuro di non aver sbagliato destinazione. Sono arabi tutti i passeggeri. Quando il bus arriva nel quartiere druso, Natan raggiunge il conducente, attende che abbia aperto lo sportello, e gli spara. Poi spara a Nader Hayek, che sedeva dietro il conducente. Poi spara verso il resto dei passeggeri e riesce ad ammazzare due ragazze, due sorelle ventenni: Hazar Turki e Dina Turki. Poi si ferma a ricaricare, e in quel momento un passeggero gli afferra la canna della pistola, ustionandosi. È un attimo: chi non si è ferito gli arriva addosso. Lo portano fuori, lo ammazzano a mani nude. Nove poliziotti si feriscono nel tentativo di impedire il linciaggio. Dopo una lunga inchiesta, un processo nel 2013 riconoscerà tra la folla sei colpevoli di omicidio. Un loro avvocato mostrerà un filmato preso da un drone durante l'attentato: la tesi (spericolata) è che Eden fu lasciato libero di agire. Già in precedenza serpeggiava una teoria del complotto presso gli attivisti del movimento contro lo sgombero degli insediamenti: Eden sarebbe stato usato per screditare tutto il movimento. In ogni caso Sharon si precipitò a definirlo un "terrorista israeliano assetato di sangue".

Bahus e Hayek furono sepolti in un cimitero cristiano; le sorelle Turki in un cimitero musulmano. Nessun cimitero ebraico era pronto per accogliere Eden Natan-Zada. In particolare la comunità di Kfar Tapuach non voleva saperne, lo sconfessò apertamente. Alla fine si riuscì a trovare un posto in un cimitero civile, ma ci vollero due giorni.

In un primo momento i famigliari delle vittime e i feriti non ebbero gli indennizzi previsti dalle leggi sul terrorismo, perché Eden Natan-Zada non era ufficialmente affiliato a nessuna organizzazione terrorista. Un matto, non un terrorista. La legge - veramente molto discutibile - fu modificata l'anno successivo.

Il ritiro da Gaza proseguì più o meno secondo il piano previsto. Già l'anno prima uno stretto collaboratore di Sharon, Dov Weisglass, aveva spiegato con molta franchezza ad Haaretz come questo ritiro non significava il riconoscimento di una Palestina indipendente, ma preparava uno scenario di piccola-guerra-infinita che è più o meno quello in cui vivono e crescono oggi israeliani e palestinesi. IDF e Hamas li armano, e su internet trovi tutta l'ideologia che ti serve. Buon 4 agosto, Shalom.
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La strage di San Marino

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(Ai cittadini della Repubblica di San Marino, qui evocati, va tutto il mio rispetto. Questo pezzo non intende essere un atto di antisanmarinismo, ne di antiqualcosaltrismo. È soltanto una riflessione sull'assurdità dell'equazione Kissinger).

Un tallone è un tallone

Se ci penso ho ancora i sudori freddi. A mia discolpa, la tizia in sandali davanti a me era distratta. Armeggiava sul telefono e non aveva notato che la fila andava avanti. Io viceversa ero fin troppo concentrato su quel che succedeva allo sportello, venti metri più in fondo. Vedevo la testa della fila procedere lentamente ma inesorabilmente, e non mi accorsi che lei manteneva la posizione, finché i miei piedi non finirono sui suoi. Ebbi la nitida percezione della punta della mia suola che sfregiava il suo tallone.
"Ahi! Ma guarda cos'ha fatto".
"Oh, mi scusi, mi scusi davvero, sono desolato".
"E questo cos'è... sangue!"
"Ma non è niente, via, mi faccia vedere..."
"Stia lontano".
"È solo un'escoriazione superficiale".
"La fa facile lei. Evidentemente non si rende conto".
"Se posso fare qualcosa per lei..."
"Vede, io sono cittadina della Repubblica di San Marino".
"Buon per lei, io invece vengo dalla bassa e..."
"Non ha capito. Sa quanti abitanti fa San Marino?"
"Ahem".
"Provi, dica un numero".
"Non so... centomila?"
"Trentaduemila".
"Ah, però".
"Le sembrano pochi?"
"Beh, sì, pochini in effetti".
"E crede che sia un buon motivo per cercare di estinguerci?"
"Eh?"
"Non faccia il finto torto. Saremo pochi ma abbiamo lo stesso diritto a vivere che ha lei. Non è d'accordo?"
"Ma per carità, d'accordissimo".
"E però questo non le ha impedito di attentare alla salute del mio popolo".
"Prego?"
"Non cominci a negare. Lei mi ha fatto sanguinare un tallone, è vero o no?"
"Certo. Mi dispiace, mi dispiace tantissimo, ma..."
"Lo sa che cosa rappresenta questo tallone per la sopravvivenza della nobile e indomita Repubblica di San Marino?"
"Confesso di no".
"Immagini ora che un drappello di prepotenti e nerboruti invasori entri in questa città e calpesti a sangue i talloni di duemila suoi concittadini. Come reagirebbe?"
"Non so, non... non ci avevo mai pensato prima".
"Io credo che protesterebbe con veemenza!"
"Sì, in effetti è probabile".
"Chiederebbe soccorso alle autorità?"
"Certo, sì".
"Questo è quello che è appena successo. Chi calpesta un tallone a un cittadino della nostra nobile Repubblica, è come se ne calpestasse duemila in Italia".
"E perché?"
"Ma le devo proprio spiegar tutto? Perché io, in quanto cittadina di San Marino, sono pari a un trentaduemillesimo della popolazione. Sa quanti talloni di cittadini italiani deve calpestare per ottenere lo stesso risultato?"
"Confesso di no".
"Millenovecentotrentasette".
"Ah, ecco".
"E non si vergogna?"
"Comincio a capire. Lei postula che tutte le nazioni abbiano pari dignità..."
"Osa negarlo?"
"...E questa dignità sia una quantità x che va divisa per il numero di cittadini. Quindi siccome l'Italia è duemila volte San Marino, se qualcuno fa male a lei è come se facesse male a duemila italiani".
"Precisamente" (PAFF!)
"Ehi, ma che cos'ha fatto?"
"Niente, perché?"
"Come niente? L'ho appena vista? Ha tirato un calcio nello stinco a quel signore".
"Sì, mi dava fastidio".
"Che fastidio le dava?"
"Ma che importanza ha? Diamine, non l'ha visto in faccia? È sicuramente un cittadino della Repubblica Popolare Cinese".
"E allora?"
"E allora un suo stinco quanto può valere... sono un miliardo e mezzo più o meno, dunque... uno stinco di San Marino vale più o meno come cinquantamila stinchi cinesi. Dovrei azzoppare un'intera città per causargli un danno".
"Ma gli ha causato un danno".
"Ma no, lo vede, si è già alzato".
"Sta chiamando qualcuno... spero per lei non siano i vigili".
"Ma si figuri, non vorrà mica rischiare un incidente diplomatico".
"E se non fosse un cinese della Repubblica Popolare? Se fosse di Taiwan".
"Beh, allora avrei fatto una tremenda gaffe".
"Senta, non si offenda. Mi dispiace davvero tanto per averle fatto male..."
"Giovanotto, non basta dispiacersi. Provi a pensare a duemila talloni italiani sanguinanti. Fiumi di sangue. Come reagirebbe?"
"...però secondo me lei è un po' matta. Non può ragionare così".
"Ah no?"
"Un tallone è un tallone. Non è che valga di più se è di San Marino o del Lichtenstein o di qualche altra nazione piccola".
"Noto un certo fastidio per le nazioni molto piccole".
"Un tallone è un tallone. E basta. Nessuno ragiona come lei".
"Ne è sicuro?"

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Guarda la tua vittoria

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Il lungo cammino del popolo eterno.

Cerchiamo di restare razionali e di guardare i numeri. Dall'inizio delle operazioni sono morti tredici soldati israeliani. (Sono morti anche più di quattrocento palestinesi, ma quelli per adesso lasciamoci stare). La loro morte era in qualche modo necessaria?

Prima che l'IDF entrasse a Gaza, i razzi lanciati da Hamas e da altre organizzazioni non avevano fatto nessuna vittima. Zero vittime. Evidentemente l'Iron Dome funziona bene (e i razzi palestinesi funzionano male). Poi Netanyahu, dopo una lunga riflessione, ha lanciato l'offensiva di terra: e tredici ragazzi israeliani, fin qui, sono morti. Più di tutte le vittime delle ultime due operazioni a Gaza. Nel frattempo l'operazione pare che abbia cambiato finalità: all'inizio si trattava di snidare qualche base sotterranea e qualche tunnel, ora si parla di "azzoppare Hamas, cosicché non sia più in grado di colpirci di nuovo per qualche anno»".
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Non è Israele; sei tu.

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"Ma la Siria? E l'Iraq? Non muoiono dei bambini anche là, da mesi? Perché non te n'è mai fregato nulla? Che cos'hanno di speciale quelli palestinesi? Cosa c'è di speciale nei bombardamenti di Israele per farti indignare come non ti hanno mai indignato le armi chimiche di Assad o le stragi in Egitto?"

Caro sostenitore di Israele che me lo domandi, su un blog o su un social network, un giorno sì e un giorno pure; e quando non lo chiedi a me lo stai domandando a qualcun altro che spaccia morticini siriani per palestinesi... io so che a nulla valgono le mie obiezioni: potrei dirti che non è vero che non m'è mai fregato nulla; non è vero che Assad non mi ha sconvolto e indignato. Anche se è vero che di Siria e di Iraq, e delle centinaia di altre crisi in giro per il mondo ho discusso di meno, litigato di meno. Ho un'attenzione selettiva? Probabilmente: e credo che ce l'abbiamo tutti. Ci sono mille motivi storici e culturali per cui un cittadino italiano di media cultura può sentirsi più vicino a Israele e alla Palestina che non a tanti altri Paesi che passano guai anche peggiori, vicini e lontani. E poi c'è un altro motivo, banalissimo: su internet si discute, si approfondisce, ma soprattutto si litiga.

Da che navigo in rete non mi è mai capitato di litigare con sostenitori di Assad o dell'ISIS. Non frequentiamo le stesse compagnie, non leggiamo gli stessi giornali, non seguiamo gli stessi opinionisti, insomma non abbiamo nulla da dirci. Nessuno mi ha mai taggato in una discussione sulle armi chimiche di Assad. Nessuno si è mai sentito in dovere di obiettare che sì, Assad è un genocida, però anche i suoi nemici... Nessuno ha mai tentato di spiegarmi quanto fossero giuste le rivendicazioni degli integralisti. E invece con Israele succede, puntualmente.

Tanta gente in buona e meno buona fede si sente in dovere di avvertirmi quotidianamente che sì, Israele ha i suoi difetti, ma Hamas è molto peggio (come se non lo sapessi). Qualcuno si sente in dovere di spiegarmi che sì, Hamas non riesce ad ammazzare nessuno, ma se fosse in grado farebbe un massacro (vero; però non ce la fa). Qualcuno deve continuamente ripubblicare la nuova versione del solito foglietto in cui gli israeliani sparano per difendere donne e bambini e invece i palestinesi li mettono in mezzo, come se non l'avessi visto migliaia di volte in vent'anni. Il tutto deve essere necessariamente condito con qualche sberleffo ("pacifinto", "sinistroide") e soprattutto quell'accusa di antisemitismo che ormai è una moneta di latta, tanto è inflazionata. Nel frattempo gli antisemiti veri minacciano e uccidono ebrei anche in Europa, e in rete c'è chi ogni tanto mi accusa allegramente di collaborare con loro. Per capirci: l'istigazione all'odio razziale qui da noi è un reato. Se davvero siete convinti che io stia diffondendo contenuti antisemiti, forse dovreste prendervi la responsabilità di denunciarmi alle autorità competenti. L'altra possibilità è ammettere che state, francamente, esagerando.

Caro lettore o interlocutore filo-israeliano: se davvero vuoi sapere qual è il motivo per cui discuto più di Israele che di Siria, più di Palestina che di Iraq, ebbene... il motivo sei proprio tu. (continua sull'Unita.it, H1t#240)

Sei tu che mi accusi di non capire (quando va bene), e di essere in combutta con degli assassini (quando sei un po’ più nervoso). Sei tu che mi inviti ad approfondire il problema, a studiarlo meglio, a cercare di esporre con più chiarezza le mie ragioni, onde evitare l’accusa di intelligenza con Hamas o la Jihad o direttamente con Hitler che controllerebbe il complotto antisemita da una base lunare. Sei tu che non lasci passare un giorno senza spiegare i motivi per cui Israele fa quello che fa, e non ti accorgi che in questo modo dai davvero l’impressione di avere bisogno tu per primo di ripeterteli ogni giorno, quei motivi. Se fossero motivi convincenti forse non ci sarebbe bisogno di tutto questo sforzo che, fin qui, non ha molto giovato alla tua causa.
Ora tu risponderai che anche i filopalestinesi si comportano così. Sì, qualcuno lo fa. E infatti ce n’è che non sopporto: ogni volta intervistano Vattimo sull’argomento ho l’istinto di impugnare un Uzi. E allora mettiamoci d’accordo almeno su questo: non c’è un altro conflitto che rovesci in rete tante quantità di cattiva fede, di foto false, di argomenti fallaci, da una parte o dall’altra. Temo che sia proprio questo ad attirarmi: non la sorte dei palestinesi o degli israeliani, che dalla nostra attenzione selettiva non hanno tratto finora molti benefici (anzi, forse la ribalta mondiale li ha danneggiati). Mi interessa il fatto che tutti mentano, che tutti si sbaglino, e che molti lo facciano volentieri, e di proposito. Mi interessano le leggende, e c’è chi ne fabbrica in continuazione. E a furia di sentirmele raccontare, e di cercare di smontarle, ho sviluppato una specie di competenza.
Molte cose probabilmente non le ho mai capite e forse non le capirò mai, ma è da anni ormai che ne sento parlare, che leggo, che discuto. Tutto quello che so l’ho imparato proprio mentre litigavo, on line e fuori. Certo, ci sono tante ragioni storiche e culturali per cui Gaza e Gerusalemme possono sembrarci più vicine di altre città martoriate del mondo. Ma forse non avrei mai davvero cominciato a interessarmi a Gaza o Gerusalemme se tanti anni fa, durante un’assemblea studentesca, un ragazzo vestito più o meno come me (jeans, camicia), non avesse preso la parola per accusare Arafat. Era un periodo abbastanza tranquillo, nessuno stava discutendo di Palestina, non era senz’altro all’ordine del giorno di quella precisa assemblea; e il ragazzo lesse un suo comunicato in cui spiegava che Arafat voleva sterminare gli ebrei. Tutti. Voleva riaprire i forni. Ecco, non ho più la minima idea di chi fosse quel ragazzo: probabilmente andò a studiare in un’altra città e ci perdemmo di vista.
Però ricordo perfettamente me che lo guardavo e pensavo: noi due non stiamo vivendo sullo stesso pianeta. Non avevo particolare simpatia per Arafat – non l’ho mai avuta, tutto sommato, ma questa storia che volesse riaprire Buchenwald, ecco, non l’avevo mai sentita. Si doveva essere aperto un portale interdimensionale, da qualche parte, e io o lui senza volere eravamo finiti in un mondo parallelo: forse ero io che senza saperlo quel mattino mi ero risvegliato in un universo in cui Yasser Arafat era un nazista genocida. Appena potei andai a controllare – no, non risultava. La storia era più o meno quella che ricordavo io: il leader dell’OLP era senz’altro responsabile della morte di molti nemici ebrei, ma questa cosa di riaprire i forni, insomma, era del tutto inedita. Dunque era quel ragazzo, vestito più o meno come me, a venire da un’altra dimensione. Avrei dovuto avvertirlo in qualche modo, e invece lo persi di vista. Forse si era richiuso il portale. Per qualche altro anno non ci pensai più.
Qualche anno dopo arrivò internet. Fu uno choc. Il varco interdimensionale si riaprì e cominciai a leggere di palestinesi nazisti. Era qualcosa che sfidava le mie certezze, che mi incuriosiva. A distanza di anni è ancora così. Perché non m’interesso anche della Siria, di Boko Haram, dei pirati somali? Perché sono un maledetto superficiale, probabilmente. Ma vi garantisco che se un gruppo di sostenitori della pirateria somala mi segnalasse ogni giorno delle notizie sull’umanità degli abbordatori, sulle giustezza delle loro rivendicazioni, sulla moralità dei loro abbordaggi, ecco, io resisterei qualche settimana, e poi comincerei ad interessarmene morbosamente.
“Hai paragonato Israele ai pirati somali, sei antisemita”.

(PS: questo pezzo si può commentare solo su facebook, sulla pagina dell'Unità o in fondo a questa. Vediamo come va).
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Israele ha vinto

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...sed victa Catoni. 

Piano piano ci stiamo arrivando: cominciamo re-interessarci di Gaza. Un po' in ritardo sulle nostre bacheche on line arrivano le solite dannate foto di bambini morti - magari non sono esattamente i bambini che stanno morendo stavolta; magari sono altri bambini di altre guerre, ma insomma, è l'orrore che conta. Però è vero che stavolta abbiamo avuto bisogno di più tempo del solito per carburare la nostra indignazione.

Parlo soprattutto di chi sta coi palestinesi; la controparte ha sempre riflessi più pavloviani. Però da noi è in minoranza: così che c'è stato un momento, durato fino quasi alla fine del mondiale di calcio, in cui davvero sembrava che stavolta gli israeliani avrebbero potuto occupare Gaza senza neanche passare su una prima pagina italiana. Si respira una disaffezione generale per una tragedia che una volta era La Tragedia, il punto focale di tutte le travagliate vicende del Medio Oriente e del mondo - e poi a un certo punto ha smesso di appassionarci. Quando è successo? Dopo Piombo Fuso, prima di piazza Tahrir. Perché è successo? Perché tanto sembra che non cambi mai nulla.

L'insofferenza per una stagione di stasi infinita la mette a verbale sul Post Christian Raimo ("La ripetitività della tragedia") : "Lo scandalo della tragedia lascia il passo, è terribile dirlo ma è innegabile, a una sensazione di ripetitività, di moto inerziale. Le analisi geopolitiche sono delle versioni aggiornate, sempre un po’ al peggio, delle analisi geopolitiche di un anno o cinque o dieci anni fa. Il conflitto israelo-palestinese è diventato una figura retorica che indica qualcosa di irrisolvibile e ricorsivo". Chi si ostina a discuterne dà a volte l'effettiva impressione di un reduce sotto choc che continua a fare gli stessi discorsi, a ricordare le stesse battaglie: Quarantotto, confini del '67, accordi di Oslo, eccetera.

Quel reduce a volte siamo anche noi - e forse il problema è tutto lì: perché chi segue la scena con un'attenzione più costante sa che quello che scrive Raimo è vero solo in apparenza: Gaza 2014 non è Piombo Fuso. Netanyahu non è Olmert, Abu Mazen non è più lo stesso Abu Mazen che aveva ottenuto una legittimazione popolare con le elezioni del 2005. Anche Hamas non è più la stessa Hamas. Dietro ai nomi sono cambiate davvero tantissime cose. Forse l'unica cosa che non è cambiata siamo noi, con le nostre idee sul conflitto israelo-palestinese ormai cristallizzate da più di un decennio, refrattarie a tutto quello che nel frattempo si è incaricato di smentirci.

Siamo peraltro in ottima compagnia, se persino John Kerry all'inizio dell'anno pensava di riproporre Due Popoli e Due Stati. Nel frattempo Israele continua a costruire colonie al centro di quello che dovrebbe essere lo Stato di Palestina; nel frattempo un Abu Mazen che non osa più convocare le elezioni riesce a trovare un accordo di governo con Hamas; ma anche Hamas è molto diversa da quella che conoscevamo. È un'organizzazione indebolita, che non può più contare sull'appoggio dei Fratelli Musulmani, passati dall'oggi al domani dal governo dell'Egitto alla clandestinità, e che fatica a contenere correnti più estremiste ed eterodirette.

Nel frattempo, soprattutto, l'intero Medio Oriente sta collassando; tra Siria e Iraq è nato un nuovo sedicente califfato che costituisce per Israele una minaccia meno apocalittica della fumosa atomica iraniana, ma più vicina e concreta: il che offre poi a Netanyahu l'occasione migliore per ridere in faccia a Kerry e a chiunque creda che gli israeliani siano mai intenzionati a ritirarsi davvero. Obama può lamentarsi e magari lo farà, ma quando dovrà scegliere tra Israele e uno Stato Islamico del Levante non potrà avere molti dubbi; quanto agli altri osservatori (Europa, Onu), ci aspettiamo tutti che brontolino, ma la loro impotenza è agli atti da decenni. Quindi?

Quindi Israele ha vinto. Ma non adesso: da molti anni. Forse dalla Seconda Intifada, se non da prima. Tutto quello che è successo poi, il piombo fuso e le cupole d'acciaio, fanno già parte della cruenta cerimonia trionfale. Israele ha vinto, nell'unico modo in cui poteva probabilmente vincere. Non riusciva a cacciare i palestinesi e non voleva sterminarli; non poteva assimilarli senza rischiare di essere assimilato; e allora li ha recintati, umiliando e stroncando sul nascere qualsiasi embrionale tentativo di formare una classe dirigente. Ogni vittoria ha un prezzo, e ogni tanto in effetti qualche israeliano muore per mano palestinese. Ne uccide più il traffico, ma quando succede l'IDF può dimostrare a tutti i bravi cittadini israeliani la sua forza morale e la sua potenza di fuoco. In modo davvero non dissimile gli Spartani dichiaravano ogni anno la guerra ai loro schiavi Iloti: quella era Sparta, questo è l'Israele di Netanyahu. A noi la cosa non piace e riteniamo che prima o poi debba cessare, in un modo o nell'altro; è un modo molto occidentale di ragionare. Essendo tutti ormai nati in tempo di pace, riteniamo che la guerra sia uno stato eccezionale; che debba finire prima o poi, e sarebbe meglio prima: basterebbe dare un'occhiata migliore ai libri di Storia per capire che l'eccezione siamo noi.

Gli israeliani non sono come noi; la nostra pace non è la loro priorità. Il futuro che lasciano ai loro figli è comunque promettente: chi 15 anni fa cresceva col terrore degli attacchi suicidi oggi può gustarsi i bombardamenti stagionali dell'IDF portandosi il divano in una posizione panoramica. Eppure basta qualche razzo alimentato a fertilizzante a sentirsi sotto assedio e pronti a giustificare qualsiasi bombardamento. Ragazzi e ragazze crescono bellicosi: saranno buoni soldati e maggiormente inclini a votare per la sicurezza e la disciplina. Ci sarà sempre, anche laggiù, una minoranza che non si rassegna; ma chi credeva che Israele avrebbe potuto diventare un'altra cosa ha avuto molto tempo per ricredersi: così chi con tanto ottimismo immaginava che i palestinesi avrebbero potuto resistere, di generazione sconfitta in generazione sconfitta, all'abbraccio del fanatismo islamico. Peraltro il loro ruolo di eterni sconfitti non deve troppo dispiacere anche a chi ancora li finanzia, mantenendoli in vita quanto basta perché possano infastidire il nemico a intervalli regolari. La Palestina non è che la casella di una scacchiera più complessa che non abbiamo mai compreso per intero.

In una parte di questa scacchiera Israele sembra proprio aver vinto. Ammetterlo non significa approvarlo; quel che sta bene agli dei non deve piacere per forza anche a noi. Abbiamo ancora un po' di spazio e di tempo per ribellarci alla cattiva fede di chi inverte bombardatori e bombardati, di chi scambia un razzo qassam per un attacco atomico, di chi lancia accuse di antisemitismo a vanvera, di chi paventa la fine di Israele faro-di-democrazia-nel-medio-oriente. Israele non è un faro; non è nemmeno il cane da guardia dell'occidente, come molti falsi amici pretenderebbero che fosse: è un piccolo Paese che ha militarizzato i suoi problemi esterni per risolvere i suoi problemi interni. Proprio perché funziona, proprio perché rischia di essere un modello esportabile, vale la pena di osservarlo, studiarlo, smontarlo. Senza quelle certezze prefabbricate che alla lunga, davvero, annoiano.
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L'inventore d'Israele?

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Trent'anni di lobbying e appena arrivate qui vi accoppiate coi nativi. È sconfortante.
13 luglio - Sant'Esdra (V secolo a.C.), sacerdote, rovinafamiglie, forse inventore del giudaismo

I mormoni che nel 1846 fuggirono dall'Illinois per fondare una nuova patria sulle rive del Grande Lago Salato. I giamaicani che a partire dagli anni Sessanta si trasferiscono a Shashamane (Etiopia) per stare più vicini a Ras Tafari, l'imperatore Hailé Selassié. Gli adepti del reverendo Jim Jones, pronti a seguire il loro Messia fino in Guyana, e poi all'altro mondo. Tutta questa gente che lascia la propria terra per arrivare in un'altra, dove quasi mai scorrono il latte e il miele promessi - tutta questa gente non sta improvvisando, il canovaccio è vecchio di migliaia di anni, ma chi l'ha scritto? È abbastanza impossibile saperlo, ma probabilmente è meno antico di quanto crediamo. Mosè dovrebbe essere vissuto più o meno verso la metà del secondo millennio avanti Cristo, ma gli storici ormai propendono per considerarlo un personaggio fantastico. Lo scontro col faraone, primo esempio storico di vertenza sindacale (finita malissimo), sarebbe un'invenzione molto posteriore, che riecheggerebbe un altro esodo, questo sì realmente accaduto: la deportazione babilonese. Proprio a Babilonia verso il sesto secolo prenderebbero forma le Scritture ebraiche, rielaborate intorno a nuclei più antichi. Come se gli Ebrei nascessero già in diaspora: con la consapevolezza di essere sparsi per il mondo, disuniti e perennemente minacciati nella loro stessa esistenza.

A Babilonia, nel VI secolo, gli Ebrei cominciano a raccontarsi storie sul loro passato; storie che valgano la pena di provvedere a un futuro. Decidono di essere stati, prima delle invasioni assire e babilonesi, una grande nazione, guidata da grandi re: David e Salomone. Alla promiscuità di quest'ultimo viene imputata la decadenza successiva; ai peccati e alla disobbedienza di popolo e regnanti la divisione in due regni e le ripetute sconfitte, culminate con la deportazione. Ma se la diaspora è la punizione che Dio ha inflitto a un popolo disobbediente, il premio per un popolo obbediente non può essere che l'inverso: una Terra Promessa.

Ciro, lo Scià di Persia, che in una fase di recessione economica globale ha rilevato i resti dell'impero Babilonese, sembra sensibile all'argomento: la Palestina è un avamposto remoto, ma importante: un passaggio obbligato per le carovane dirette verso l'Egitto. Quando una lobby che rappresenta un gruppo di fedeli di un Dio di quella regione, un certo YHWH, gli propone di tornare là e cominciare a fortificare la zona, imponendo la pace imperiale alle burrascose tribù autoctone, Ciro firma l'editto, probabilmente senza pensarci più di tanto. Era il Re dei Re, in quella mattinata gli capitò di firmare tante altre carte che credeva assai più importanti, decisioni che avrebbero dimostrato ai posteri la sua illuminata potenza. Altro che le beghe di una piccola regione periferica, di cui nessuno probabilmente si sarebbe ricordato da lì a trent'anni...

L'Esdra biblico è un personaggio appena abbozzato; compare in un paio di scene, e non se ne sa più nulla. Il suo libro è tra i più frammentari e rimaneggiati del canone biblico. Una specie di backdoor ben occultata; se riusciamo a trovarla possiamo guardare le Scritture dal lato di chi le ha scritte. La storia si capovolge; Mosè diventa una proiezione di Esdra; l'esodo dall'Egitto è il ritorno a Gerusalemme; i popoli sterminati da Giosuè alludono ai popoli con cui il nuovo Israele non doveva mescolarsi; il Primo Tempio è un sogno concepito intorno al Secondo; il Faraone che insegue i suoi manovali è l'immagine specchiata dello Scià Ciro che lascia partire volentieri una tribù stanca di vivere mescolata alle altre.

Il sacerdote Esdra non è tra i primi ebrei che tornano a casa. Non assiste ai primi tentativi di costruire il tempio; non c'è quando i nemici cominciano a tramare e a mandare messaggi allarmisti alla corte del nuovo Scià, Dario. Esdra arriva anche venti anni più tardi, verso il 500. Porta con sé i rotoli della Legge, di cui darà solenne lettura davanti a tutto il popolo: la storia di un Mosè che aveva guidato i suoi fedeli fuori dall'empio Egitto, e di un Giosuè che li aveva ricondotti nella Terra Promessa, sterminando dietro richiesta divina i suoi indegni abitanti.
Alcuni gruppi concepirono anzi ed impostarono il nuovo esodo come un'impresa basata su una sorta di organizzazione para-militare e con forte conflittualità verso i gruppi residenti. La visualizzazione del popolo in marcia attraverso il deserto deve qualcosa a questa impostazione para-militare; ma deve anche qualcosa (e forse molto) all'esperienza delle deportazioni imperiali. Già la promessa divina del tipo "io vi farò abitare in un paese in cui scorre il latte e miele" è significativamente consonante con l'assicurazione del rab-saqe assiro di dare a chi si sottomette la possibilità di andare ad abitare in un paese fertile e produttivo. Altrettanto indicativo è il timore serpeggiante nel popolo in marcia, di non trovare nella terra di destinazione condizioni di vita adeguate alle promesse e alle speranze - timore che riflette lo stato d'animo di chi nella diaspora doveva decidere se affrontare o meno i rischi del rientro. E soprattutto gli elenchi o censimenti (Num. 2; 26) del popolo diviso per gruppi familiari e per clan risentono di un tipo di registrazione amministrativa che veniva applicata ai gruppi di deportati, al fine di controllarne il numero (nonché le inevitabili perdite in corso di trasferimento) e le mete finali (Mario Liverani, Oltre La Bibbia, Laterza, 2003). 
Esdra porta con sé un'ulteriore ideuzza destinata ad avere, anch'essa, una lunga fortuna: la purezza etnica (continua sul Post...)
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Quello che Rondolino non tace

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E se restassimo ragionevoli? 

Io credo, e l'ho scritto altre volte, che molti e importanti siano i motivi per cui la questione israelo-palestinese ci interessa, ci affascina, ci tormenta, più di tantissime altre questioni potenzialmente altrettanto affascinanti e tormentose; così che persino un califfo nero spuntato dal nulla al capo di una nazione di fanatici appena nata ma già più grande dell'Italia, anche se minaccia undici settembre a ripetizione non ottiene un decimo dell'attenzione di qualche razzo che cade di qua o di là del muro della barriera difensiva. È tutto un groviglio di culture e sensi di colpa e proiezioni che ci portano a guardare lì piuttosto che altrove. Alla fine non ci sarebbe niente di male: non possiamo osservare tutto, non possiamo capire tutto, non possiamo nemmeno soffrire per tutto - ma se almeno riuscissimo a osservare Gerusalemme o Gaza, a soffrire per Gerusalemme o Gaza, addirittura a capire quel che succede a Gerusalemme e Gaza, forse diventeremmo persone migliori.

Ma non succede. Non diventiamo persone migliori. Diventiamo matti. La questione israelo-palestinese ci fa soltanto diventare matti.

Non parlo di israeliani e palestinesi, la maggior parte dei quali dimostra in questi frangenti una tenuta mentale - dopo tanti anni - ammirevole. Parlo di chi queste cose le osserva da lontano. Dopo un po' impazziscono, non tutti ma quasi: al punto che mi domando se il "restiamo umani" del povero Arrigoni. in attesa di definire meglio il concetto di umanità, non andrebbe riformulato come "restiamo razionali". Oggi studieremo il caso di Fabrizio Rondolino, giornalista, che all'indomani del ritrovamento dei cadaveri dei tre ragazzi israeliani cinguetta:


Le premesse implicite sono abbastanza chiare: Israele è l'unica-democrazia-del-Medio-Oriente, il suo esercito è il più-morale-del-mondo, quindi qualsiasi cosa faranno non sarà mai nulla che Rondolino possa pentirsi di aver sostenuto. Nei giorni seguenti in effetti non è che Israele faccia niente di particolarmente originale: bombardamenti mirati contro le batterie di Hamas, rappresaglie sulle abitazioni degli assassini, ecc. Nel frattempo però a Gerusalemme un diciassettenne viene bruciato. Dopo aver ripetutamente manifestato cordoglio per le vittime dalla parte israeliana; dopo essersi scagliato contro l'Autorità Palestinese che (secondo lui) non aveva espresso nessuna condoglianza; a questo punto - ci aspetteremmo - Rondolino dovrebbe scrivere almeno una riga per mostrarsi dispiaciuto che a Gerusalemme brucino ragazzi palestinesi. Invece lui reagisce col seguente tweet:


Quello che i "media non dicono" ma dice soltanto il piccolo sito Rights Reporter, è che il ragazzo palestinese non può essere stato ucciso da ebrei israeliani; e la prova di questo è che è stato bruciato, "una cosa che un ebreo (specie se ortodosso) non farebbe mai e poi mai, nemmeno per il peggior nemico". E allora chi può avere fatto una cosa tanto orribile? Dei non meglio precisati "criminali" palestinesi: "la storia criminale della famiglia del giovane arabo fa supporre che si tratti di un delitto maturato nel mondo criminale di Gerusalemme Est". Sì, ma il movente? L'omofobia.

Il ragazzino sarebbe stato bruciato perché gay. "Le prime voci, confermate da conoscenti, della omosessualità del ragazzino fanno addirittura pensare a un delitto d’onore". Ecco quello che i media non dicono, e che soltanto Rights Reporter dice.

A questo punto il giornalista Fabrizio Rondolino, che tra tanti alti e bassi non è sicuramente uno nato ieri, avrebbe potuto restare ragionevole e domandarsi: com'è che gli altri media non lo dicono e lo dice soltanto questo piccolo sito di hasbara fatta in casa? Rights Reporter ha una risposta anche per questo: è la stessa polizia israeliana a tenere nascosta questa pista, per ragioni di ordine pubblico. "Ma la situazione a Gerusalemme è gravissima, la polizia non può diffondere questi sospetti che verrebbero presi come una “montatura” e potrebbero accendere ancora di più gli animi". Però quello che i media non possono sapere, in un qualche modo Rights Reporter lo sa e lo diffonde: e se gli animi si accenderanno, beh, pazienza.

È un piccolo sito, appena nato, con pochi lettori quasi tutti di area filo-israeliana. Sia detto a loro merito: non abboccano neanche loro. Una notizia sparata così, senza fonti, alimentata da un corto circuito ideologico (i colpevoli non possono essere ebrei perché gli ebrei non possono essere colpevoli) quante possibilità ha di non essere una patacca? Due giorni dopo la polizia israeliana arresta sei ebrei israeliani. Tre confessano di aver ucciso Mohammed Abu Khdeir. Secondo la polizia lo hanno bruciato vivo.

Right Reporter non soltanto ammette di aver pubblicato una bufala (e ci mancherebbe anche che facesse finta di niente), ma non la cancella nemmeno, come avrebbe fatto un beppegrillo qualsiasi. Di questo li ringrazio. Per altro sono un piccolo sito da cui nessuno si aspetta autorevolezza o imparzialità. Ma Rondolino?

Quanto tempo pensate che ci abbia messo il giornalista Fabrizio Rondolino per chiedere scusa e avvertire che ha fatto girare una bufala clamorosa? È successo cinque giorni fa; vediamo se in seguito ha scritto qualcosa sull'argomento.


Niente, non ne parla più. Il giornalista Fabrizio Rondolino ha messo in giro una notizia falsa, da una fonte senza nessun credito; quando la notizia si è rivelata priva di fondamento, ha fatto finta di niente. Io non so se queste cose succedano anche in altri ambiti; mi sembra che succedano più spesso quando si parla di Palestina e Israele. L'abitudine di dar retta a chiunque ti dia la notizia che vorresti sentire; a far cassa di risonanza a qualsiasi voce che confermi le tue idee e smentisca quelle dei tuoi avversari, eccetera. Non succede con l'Iraq, non succede con Matteo Renzi o Beppe Grillo. Non in queste proporzioni, almeno. Ma succede in Italia, a una distanza che ci dovrebbe permettere di osservare, ragionare, e non esplodere alla prima scintilla che ci arriva. E invece.
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Il primo pogrom

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La più famosa alla fine resta l'Ester di Benouville.
1 luglio - Santa Ester (V secolo aC), da reginetta a salvatrice

Ester è la protagonista di una delle storie più divertenti della Bibbia - anche se non ha avuto presso i gentili lo stesso successo di Mosè o David. La sua vicenda è molto più popolare presso gli ebrei, che sin dall'antichità rileggono il breve libro di Ester una volta all'anno in occasione dei festeggiamenti primaverili del Purim. Invece i cattolici la celebrano il primo luglio, senza un apparente motivo. Alcuni la confondono con un'altra eroina assai più discutibile, Giuditta: la ragazza di buona famiglia che si concia da prostituta per far abboccare un generale antisemita e tagliargli la testa, offrendo un buon pretesto a generazioni di pittori e pittrici per ritrarre indumenti sexy e schizzi di sangue. Giuditta però non è stata ammessa né nella Bibbia ebraica, né nel calendario cristiano. Ester, al contrario, per salvare il suo popolo non commette nulla di riprovevole: anche lei si tira da urlo, ma soltanto per convincere il suo legittimo convivente a non ammazzarla, e magari a sospendere un pogrom.

Siamo a Susa, a corte del potente re Assuero. Chi sia questo potente re che governa "dall'India all'Etiopia" non è ben chiaro, anche se tradizionalmente viene identificato con Serse I, sì, il cattivo delle Termopili. Erodoto ha scritto parecchio su Serse, ma senza menzionare nessuna Ester. A un certo punto però ricorda l'episodio in cui promette alla moglie di concederle qualsiasi cosa ella chiederà, ed ella ovviamente chiede che Serse tagli la testa a una sua amante. È un esempio molto antico di "don contraignant", il tropo narrativo in cui un re firma una specie di promessa in bianco che gli costa sempre molto caro.

Lo stesso tropo torna nel libro di Ester, che se fosse davvero ambientato ai tempi di Serse descriverebbe fatti successi nel V secolo a.C. Più probabilmente è stato composto tre secoli più tardi, da un bravo narratore senza molte preoccupazioni di verosimiglianza storica, all'epoca dei Maccabei - una dinastia di sacerdoti che lottava per conservare l'autonomia e l'identità del popolo ebraico, contro l'imperialismo assimilatore dei tiranni seleucidi. Per sopravvivere arrivarono al punto di allearsi coi Romani, che nel primo secolo a.C. finirono per sostituire i tiranni precedenti, e il resto della storia più o meno la sapete.

Ma torniamo a Serse, anzi, Assuero. Siamo a una festa in grande stile a Susa, più o meno al settimo giorno di festeggiamenti, quando al re dei re, un po' brillo, vien voglia di esibire la regina Vasti davanti ai suoi invitati. Mandata a chiamare dagli eunuchi, Vasti si nega, senza neanche accampare la scusa di un mal di testa. Per il re dei re non è solo una figuraccia insopportabile: come gli spiegano i consiglieri, una cosa del genere rischia di devastare l'istituto famigliare in tutto l'impero: appena la notizia si saprà in giro, dall'India all'Etiopia, c'è il rischio concreto che le mogli smettano di correre in salotto quando il marito le chiama, bisogna fare qualcosa. Vasti viene immediatamente detronizzata e, secondo una tradizione successiva, messa a morte; per rimpiazzarla viene lanciato un concorso che porta a Susa le più avvenenti (e obbedienti) fanciulle vergini di tutto l'impero. A vincere è la giovane Hadassa, un'orfanella ebrea che Mardocheo, funzionario del re, aveva allevato come una figlia, e che forse per nascondere le sue origini si fa chiamare "Ester", stella del mattino.

Il fatto che il nome richiami Ishitar, la dea babilonese della fertilità, e abbia per cugino un Mardocheo (Marduk è il re degli dei babilonesi, cugino di Ishitar) lascia sospettare che il canovaccio sia un antico mito mesopotamico, ripreso dagli ebrei quasi in chiave di farsa. il Mardocheo del libro ha probabilmente dovuto assumere il nome pagano per poter lavorare a corte. Proprio qui gli capita di sventare un complotto di eunuchi che vogliono attentare alla vita del sovrano. Mardocheo avvisa Ester, Ester avvisa Assuero, Assuero fa arrestare e interrogare i due eunuchi e premia Mardocheo con una promozione. La vita di un re dei re è però molto intensa, e in poco tempo Assuero finisce per dimenticarsi sia dello zelante funzionario che dell'avvenente reginetta. Nel frattempo splende a corte la stella di Aman (BOOOOOOOOOOOOOH! SCRASHSBDANGANGDANG), un principe agaghita - non che nessuno sappia chi siano gli agaghiti e donde vengano. Infatti la versione greca, un po' più tarda, lo nazionalizza macedone. Questo Aman (BOOOOOOOOOOOH!), investito di un'autorità inferiore solo a quella di Assuero, si monta immediatamente la testa e impone che tutti si inginocchino davanti a lui. L'unico a non inginocchiarsi davanti ad Aman (BOOOOOOOOOOOOH!) è proprio Mardocheo. Quando Aman (BOOH!) se ne rende conto, decide di fargliela pagare, sterminando completamente il suo popolo. Per decidere il giorno del genocidio si affida ai purim, pietruzze adoperate per estrarre i numeri a sorte. Esce il tredici del dodicesimo mese (Agar, tra febbraio e marzo). Quindi tutto contento si reca dal suo re e gli propone, in cambio di un indennizzo di diecimila talenti d'argento di sterminare un popolo disseminato nel suo regno "che non osserva le leggi del re". Il re gli passa tranquillamente l'anello col sigillo reale, che Aman (BOH!) usa per controfirmare uno dei primi discorsi antisemiti in nostro possesso - se non il primo in assoluto.

...Amàn, distinto presso di noi per prudenza, segnalato per inalterata devozione e sicura fedeltà ed elevato alla seconda dignità del regno, ci ha avvertiti che in mezzo a tutte le stirpi che vi sono nel mondo si è mescolato un popolo ostile, diverso nelle sue leggi da ogni altra nazione, che trascura sempre i decreti del re, così da impedire l'assetto dell'impero da noi irreprensibilmente diretto.
Considerando dunque che questa nazione è l'unica ad essere in continuo contrasto con ogni essere umano, differenziandosi per uno strano tenore di leggi, e che, malintenzionata contro i nostri interessi, compie le peggiori malvagità e riesce di ostacolo alla stabilità del regno, abbiamo ordinato che le persone a voi segnalate nei rapporti scritti da Amàn, incaricato dei nostri interessi e per noi un secondo padre, tutte, con le mogli e i figli, siano radicalmente sterminate per mezzo della spada dei loro avversari, senz'alcuna pietà né perdono, il quattordici del decimosecondo mese, cioè Adàr; perché questi nostri oppositori di ieri e di oggi, precipitando violentemente negli inferi in un sol giorno, ci assicurino per l'avvenire un governo completamente stabile e indisturbato».
(Tintoretto) "Dei sali, presto".
È la versione greca; l'originale ebraico è molto più stringato. Ma insomma la sostanza è già familiare: vivono tra noi, ma non sono come noi. Vanno eliminati. È un rotolo di ventuno o ventidue secoli fa, pensate. E già allora la situazione, per quanto terribile, ispirava i toni di una farsa. Perché il libro di Ester, secondo alcuni lettori contemporanei, è una spietatissima commedia.

Quando Mardocheo viene a sapere dell'Editto di sterminio, si lacera le vesti e si cosparge il capo di cenere; coperto di un umile sacco viene a chiedere udienza al re, ma ovviamente viene bloccato prima di entrare. Ester lo vede dalla finestra e gli fa mandare dei vestiti; Mardocheo rifiuta di indossarli e le spiega (tramite un eunuco) cosa sta per succedere. Ricordati dei giorni della tua povertà, di chi ti ha nutrito! Intercedi per noi presso il tuo re, che aspetti? Il guaio è che Ester non è più la favorita del re. Succede a molte reginette: adorabili, ma stancano subito, non ti entrano nelle vene. Pensa che è da trenta giorni che il re non mi fa chiamare. Credi che io possa andare da lui così, come se niente fosse? Lo sai cosa succede a chi cerca di incontrarlo senza essere stato convocato? Gli tagliano la testa all'istante.

Mardocheo reagisce con una certa durezza: credi di salvarti perché sei nella reggia, ma sei ancora un'ebrea. Morirai comunque se non fai qualcosa. Chissà, forse c'è un motivo per cui ti è capitato si essere lì dove sei.

È solo a quel punto che Ester cessa di essere la reginetta timida e noiosa. Manda a dire allo zio di radunare tutti gli ebrei di Susa: ché preghino e digiunino tre giorni. Anche lei, nei suoi appartamenti, farà la stessa cosa. Nella versione greca seguono due lunghe preghiere di Mardocheo ed Ester, aggiunte probabilmente da un ebreo di Alessandria, forse un po' impensierito dallo spirito laico del libro - uno dei due della Bibbia in cui non viene mai nominato Dio (l'altro è il Cantico dei Cantici). E tuttavia anche le due poesie ottengono un effetto narrativo, perché dopo tante accorate invocazioni, quando al terzo giorno Ester depone i vestiti di sacco e si leva la cenere dal capo e si veste da principessa, è un po' come in quel film in cui la Mangano da suora si trasforma improvvisamente in ballerina: ecco, adesso sì che non è più una reginetta slavata, adesso sì che è sexy. La vediamo procedere nel corridoio, rosea nel volto, ma col cuore stretto dalla paura: sta andando al supplizio. Quando il re la vedrà, le guardie verranno a coprirle il capo e l'ammazzeranno. La sua unica speranza è che il re stesso stenda lo scettro verso di lei. Il re è seduto sul trono, "tutto splendente di oro e di pietre preziose, e aveva un aspetto terribile" (continua sul Post...)
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Com'è andata a Moria

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25 marzo - Sant'Isacco, millenni fa, a momenti vittima sacrificale, poi patriarca.

La porta si aprì lenta:
mio padre venne a prendermi,
io avevo nove anni. 


Stava innanzi a me, così alto:
i suoi occhi azzurri ardevano,
la sua voce era di ghiaccio.


***

Anche Isacco è tra di noi, Dio sa che ci stia a fare. A proposito di Dio: stiamo tutti attenti a non nominarlo in sua presenza. Non ci è nemmeno chiaro il perché, ma abbiamo tutti paura che una volta o l'altra dia di matto, e lo capiremmo benissimo, peraltro in famiglia non sarebbe il primo caso, vero? Ma sarebbe il più giustificabile - cioè, mettetevi nei suoi panni. Avete nove anni, e vostro padre sbrocca, entra nella vostra stanza e comincia con quei discorsi assurdi

“Ho avuto una visione, 
e tu conosci la forza della mia fede: 
devo fare quello che mi è stato detto”


Aveva nove anni, D*osanto. Chi non sarebbe impazzito. Io sarei impazzito. Tu saresti impazzito. Siamo tutti impazziti prima o poi. Gli antropologi prima o poi se ne accorgeranno. Siamo povere scimmiette con un cervello super-sviluppato che ci preme dappertutto la scatola cranica, e poi ci è cresciuto quel pollice reversibile che possiamo usare per tantissime cose che la nostra fantasia psicotica ci mostra di notte, ad es.: sacrificare i figli per smettere di avere gli incubi. Isacco queste cose le sa, è per questo che tace secondo me. Isacco non vuole più averci a che fare, sta in un angolo, mangia quaglie per lo più. Nessuno lo invita a giocare al tavolo di Matteo. Neanche una partitella a freccette con Sebastiano, niente. Tiene la testa bassa, in millemila anni nessuno gli ha dato una seria occhiata al collo. Insomma come siano andate davvero le cose nessuno lo sa. Bisognerebbe avere la faccia tosta di sedercisi davanti e dire: Isacco, figlio di Abramo, padre di Giacobbe anche se preferivi suo fratello, com'è andata davvero sul monte?
Poi gli alberi si fecero più radi, 
il lago un piccolo specchio, 
e ci fermammo a bere del vino: 
Gettò via la bottiglia vuota, 
(dopo un minuto la sentii infrangersi) 
e mise le sue mani sulle mie. 

Mi sembrò di vedere un’aquila, 
ma avrebbe potuto essere un avvoltoio, 
non ho mai saputo decidermi. 

Quindi mio padre innalzò un altare; 
mi guardò una volta appena, 
sapeva che non sarei fuggito.

Fin qui tutto bene... (continua sul Post...)
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Il Paese più strano del mondo

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Ieri pomeriggio, mentre leggevo qualche pezzo sui bombardamenti tra Gaza e Israele, ho fatto una cosa che di solito preferisco evitare. Ho controllato quanta gente stesse morendo, in quelle stesse ore, qualche centinaio di chilometri più a nord, in Siria. Mi sono bastati pochi secondi per scoprirlo: 101 vittime nella giornata di ieri, tra cui sei bambini. Non so se qualche telegiornale ne abbia parlato. Non credo che nessuno vi abbia sottoposto via facebook le eventuali immagini delle vittime straziate dai bombardamenti. E tuttavia anche quelli sono bombardamenti, anche quelle sono vittime, e la Siria non è in nessun modo più lontana a noi della Striscia di Gaza. In realtà non avevamo bisogno dei fatti tragici di questi giorni per renderci conto che Israele e Palestina ci interessano di più, ci hanno sempre interessato di più di qualsiasi conflitto regionale. Resta comunque lo stupore, che forse vale la pena di coltivare: Damasco e Gerusalemme distano quanto Milano e Bologna. In poco più di duecento chilometri si combattono due guerre: una richiama fotografi e giornalisti da tutto il mondo, l'altra non se la fila nessuno. Perché?

Ci sono tanti motivi. Alcuni perfino comprensibili. L'inerzia, tanto per cominciare: le guerre vanno e vengono, ma i bombardamenti tra Gaza e Israele sono da troppo tempo, ormai, un appuntamento fisso. È una storia che conosciamo già, o almeno crediamo di conoscere; gli attori in campo sono vecchie conoscenze, Hamas e Likud parole entrate nel nostro vocabolario dieci o vent'anni fa che ormai non abbiamo più paura a usare, anche a sproposito; viceversa quel che accade in Siria è il classico esempio di matassa geopolitica che diventerà chiara solo quando si sbroglierà in un senso o nell'altro, e nel frattempo non vogliamo farci fregare. Magari ci scotta un po' la fiducia che abbiamo riposto nelle primavere arabe di un anno fa. In fondo siamo occidentali, tendiamo a identificarci e a empatizzare con una classe media che in queste dittature medio-orientali non necessariamente c'è, e anche quando c'è (in Egitto o in Tunisia) e tenta di contribuire alla rivoluzione, si ritrova presto o tardi a fare il vaso di coccio tra esercito e fondamentalismo islamico. Israele è diverso (continua sull'Unita.it, H1t#154).

Israele sembra davvero più vicino, per cultura più che per geografia. È una democrazia, come i suoi difensori non si stancano di ripetere; una potenza industriale; la sua storia è intrecciata con quella europea, dalla quale del resto le nostre discussioni faticano a districarsi, per cui si può prevedere con precisione quasi statistica che qualcuno tirerà fuori nazismo e shoah a sproposito (stavolta Odifreddi, ma poteva essere chiunque, è un riflesso automatico). Eppure anni di infiniti battibecchi mediatici dovrebbero averci insegnato, se non altro, che paragonare israeliani e nazisti è sempre un suicidio retorico: oltre a essere una chiave di lettura piuttosto banale e brutale (i nipoti degli oppressi che diventano oppressori, ecc.) è soprattutto fuorviante, visto che Israele non sta sterminando i palestinesi. Il che non toglie che quello che sta facendo non possa essere considerato profondamente ingiusto, ma appunto: cosa sta facendo? Lo stillicidio con cui si porta avanti il conflitto è in realtà qualcosa di profondamente nuovo, che non ha precedenti nel Novecento. Non lo capiremo finché continueremo a discutere di ghetti o lager, più per mancanza di fantasia (e necessità, forse, di rifarci a un assoluto morale).
Potrà sembrare strano ai cacciatori di antisemitismo in servizio permanente, ma uno dei motivi per cui Israele ci interessa di più, è che in Israele in qualche modo abbiamo creduto di poterci identificare, proiettando sugli israeliani sensi di colpa che poi non si capisce davvero perché avrebbero dovuto condividere. Ma siamo occidentali, è più forte di noi: in quel piccolo Paese c’è una classe media, che dai film e dai romanzi non sembrava troppo diversa dalla nostra. Israele ci sembrava percorso e minacciato da ideologie e sentimenti che riteniamo familiari: nazionalismo, antisemitismo, fondamentalismo religioso, islamofobia. Tutte queste cose crediamo di riconoscerle, e ci danno una sensazione di familiarità che forse è semplicemente sbagliata. Forse dovremmo semplicemente accettare, dopo più di un mezzo secolo di conflitti e occupazione militare, che gli israeliani non sono come noi. Hanno vissuto guerre molto diverse dalle nostre, in condizioni veramente peculiari. Una potenza nucleare grande quanto una regione italiana, una sottile striscia di terra minacciata da altre strisce altrettanto sottili (e dall’Iran), forse è qualcosa di ancora più alieno della Siria. Questo non significa che non debba interessarci, ma non c’è motivo per considerarlo più vicino di altri conflitti, che ci sembrano lontani e non lo sono.
Forse ci servirebbero occhi nuovi, per smettere di guardare al conflitto israelo-palestinese come all’ultima guerra coloniale (o addirittura all’ultima delle crociate). Basterebbe poco, magari constatare che l’unico vero sconfitto in questi anni è stato qualsiasi progetto alternativo allo status quo: come se occorresse bombardare un po’ tutto, ogni quattro anni, affinché nulla cambi davvero. Potrebbe anche essere l’esempio di un nuovo tipo di guerra di bassa intensità, tra società economicamente progredite e sacche di sottosviluppo, funzionali alla conservazione del potere da una parte e dall’altra della barricata. Un modello di guerra radicalmente nuovo, radicalmente diverso da quelle che siamo soliti descrivere (anche quando descriviamo la Palestina) ma che, via via che la distanza tra ricchi e poveri della terra si accorcia, si potrebbe persino esportare. http://leonardo.blogspot.com


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Striscia, il futuro

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La verità è che siamo pigri. Non è nemmeno colpa nostra. Siamo cresciuti in un mondo in espansione, tutto stava andando per il meglio e nessuno sentiva l'esigenza di frustarci se sbagliavamo le coniugazioni. L'importante era essere felici, trovare la nostra strada, la nostra creatività, e poi c'era posto per tutti e saremmo tutti diventati artisti scienziati ballerini in tv. Così siamo cresciuti effettivamente molto espansivi e pieni di idee, di intuizioni e altre cazzatine, ma come dire, ci manca un po' il mordente.

Anche quando arrivò la globalizzazione, i nostri genitori non si spaventarono più di tanto, all'inizio la consideravano soprattutto come una globalizzazione di manovali colf badanti e puttane, tutti mestieri che intendevano evitare ai figli, e tanto meglio se il prezzo di quel tipo di prestazioni crollava. Che dall'altra parte del mondo ci fosse gente disposta a sanguinare nelle fabbriche e sui libri per fotterci la competitività; che dall'altra parte del mondo ci fosse un altro mondo intero più giovane e disposto a tutto; che nel 2012 persino gli operatori dei call center cominciassero a tradire un accento bengalese: questo proprio non lo potevano immaginare, e invece.

Ora vallo a spiegare alla Seconda Erre, che se non imparano sul serio gli irregolari della seconda coniugazione, da qualche parte del delta del Gange c'è un tizio in uno scantinato che li sta studiando meglio di loro, e che tra dieci anni gli fregherà il telelavoro. È un discorso che non capiscono, anche perché per farglielo è inevitabile usare qualche irregolare della seconda coniugazione. Sono piccoli, non pensano al futuro, o meglio ci pensano perché fanno tanti disegnini, sono tutti piccoli Matt Groening che a scuola disegnava solo coniglietti e poi ha inventato i Simpson ed è diventato ricco e questo è un grosso argomento contro il divieto di fare disegnini in classe. Quanto a reintrodurre il frustino, il consiglio d'istituto non capirebbe. Quindi che si fa.

Una volta si facevano le guerre, più o meno una generazione sì una no aveva la sua bella guerra, bella per modo di dire, in realtà quasi sempre orrenda: una generazione la faceva, quella successiva se la faceva raccontare, e per quaranta cinquant'anni avevi risolto un po' di problemi occupazionali, formativi, per tacere delle enormi opportunità industriali e urbanistiche. Non è mica un deficiente l'essere umano, parlo in generale: se ha sempre fatto delle guerre si vede che ci si trovava bene. Meglio che i lemming con quella storia delle estinzioni di massa, che tra parentesi è una leggenda urbana. Ma a un certo punto questa cosa di fare guerre sempre più tecnologicamente avanzate ci è un po' scappata di mano, sono state scoperte reazioni a catena che potrebbero estinguere la specie, così adesso almeno in Europa non si può più, e te ne accorgi dalla gioventù che dopo sessant'anni ti ritrovi tra i piedi. Per carità quasi tutti simpatici, e poi che bei denti, e che guance paffute, quanti progressi nell'alimentazione e nell'igiene. Soltanto un po', come dire, smidollati. Ma non è mica colpa nostra. Cosa ne sapevamo.

Tutto questo per dire che se siete venuti qua cercando un un pezzo che stigmatizzasse gli scontri nelle manifestazioni, le guerriglie più o meno giovanili, ormai rituali, sganciate da qualsiasi percorso di causa-effetto... ripassate magari tra qualche anno, non sono ancora così rincoglionito (anche se prometto bene). Mi dispiace certo che vada a finire sempre così, ma questo istinto a giocare alla guerra lo capisco. È evidente che in Italia - ma in Europa in generale - è sfruttato ancora male, canalizzato in eventi calcistici o sindacali che in fondo non c'entrano nulla. Altrove hanno capito come fare, altrove sono stati più furbi. Forse è genetica, ma secondo me è soprattutto necessità.

E allora forse dovremmo smetterla di chiedere la pace in Medio Oriente come se noi avessimo qualcosa da insegnare al Medio Oriente - quando forse a questo punto è il contrario: è il Medio Oriente che ci mostra la via, è il litigioso Medio Oriente il futuro dell'Europa e magari, dai, del mondo. Forse nel futuro avremo tutti diritto a una nostra Striscia di Gaza a quaranta-cinquanta km dalle nostre case: un recinto pieno di uomini cattivi che ci tirano i razzi e ci distruggono pollai o asili nido. Lo si alleva con molta attenzione, isolandolo il più possibile da qualsiasi contatto con la realtà, e poi ogni quattro anni si organizza una guerra, ma mica una cosa tragica stile Novecento, una cosa molto più tranquilla, una spedizione punitiva, si va nel pollaio e si rompono le uova, e arrivederci al prossimo bisestile: olimpiadi, elezioni americane, bombardamento nella striscia. Tenersi una Striscia sotto casa presenta tutta una serie di vantaggi da non sottovalutare: certo, sporca un po', ma è relativamente piccola, e soprattutto, per quanto sia cattiva, alla fine vinci sempre tu (vincere è importante). E ai giovani altro che SCO, ai giovani puoi far fare il servizio militare come ai vecchi tempi, e vedrai che anche la scuola la prenderanno meno sottogamba, coi cattivoni alle porte di casa. Studiate ragazzi, e studiate cose utili, e studiatele sul serio. Non vorrete mica diventare la Striscia di qualcun altro?
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Scherzando col Magog sbagliato

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10 aprile - Sant'Ezechiele, profeta (620-550 aC circa).

[Il prezzo si legge intero e ampliato qui] Si parlava di Maya. A me non fanno nessuna impressione. Invece, sapete cos'è che mi dà qualche brivido? Il profeta Ezechiele. C'è poco da scherzare. Stiamo parlando di uno degli scrittori più influenti della storia. Ebrei, musulmani e cristiani di tutte le confessioni lo venerano come uomo di Dio; persino gli ufologi lo apprezzano molto per quella pagina in cui si ritrova al cospetto della gloria divina su una specie di carro alato che è la cosa più simile a un'astronave aliena che sia possibile trovare nella Bibbia; non solo, ma persino il processo di pace in Medio Oriente (e quindi nel mondo intero) dipende non in minima parte dall'interpretazione di alcuni suoi versetti oscuri - non sto scherzando, e non è il solito complotto rettiliano, è tutto alla luce del sole purtroppo.

È curioso, ma non del tutto inappropriato, che a tanta fama Ezechiele sia arrivato senza essere un grande scrittore: lo schiaccia soprattutto il confronto con gli altri due profeti maggiori della Bibbia, Isaia e Geremia, che lo precedono nel canone biblico. A Ezechiele manca l'afflato lirico del primo, e il pathos rancoroso del secondo; ma forse è proprio per compensare le sue carenze stilistiche che è costretto lavorare con gli effetti speciali, inventando un nuovo stile visionario e teatrale a base di mostri, oggetti volanti, battaglie titaniche, morti che risuscitano... già qualche esegeta ebreo storceva il naso, considerandolo un contadino al cospetto del nobile Isaia, eppure le sue allucinazioni avranno un enorme successo. Postumo, ovviamente, perché i grandi profeti biblici in vita sono quasi sempre inascoltati e sbeffeggiati. Nemmeno l'aver azzeccato la caduta di Gerusalemme e la deportazione nella Babilonia di Nabucodonosor II gli guadagnerà la stima dei contemporanei. Con Ezechiele però comincia la letteratura apocalittica, quella che descrive un futuro imminente o remoto a base di visioni allegoriche e oscure. Alle sue macchine volanti e alle sue battaglie finali si ispireranno gli autori del Libro di Daniele e dell'Apocalisse di San Giovanni. Ma il contributo di Ezechiele alla storia del mondo non si conclude certo lì.

Siamo nei primi mesi del 2003. L'invasione angloamericana dell'Iraq è ormai data per certa: si tratta soltanto di definire i dettagli, capire chi abbia voglia di dare una mano (Berlusconi, in quel momento, pochissima). Jacques Chirac è all'Eliseo che sbriga le sue faccende quando gli passano il telefono più importante che hanno, non so se all'Eliseo ci siano i telefoni colorati come una volta alla Casa Bianca, ma è un dettaglio che ci possiamo anche inventare e non farà sembrare la storia meno verosimile. Insomma, dall'altra parte del filo c'è George W. Bush. Chirac quando prende in mano la cornetta si immagina già cosa il tizio più potente del mondo vorrebbe da lui: l'appoggio francese alla Coalizione dei Volenterosi. E tuttavia Bush riesce ugualmente a sorprenderlo. Le Président non riesce a capire di cosa stia parlando: non è un problema linguistico, c'è senz'altro un interprete in mezzo, ma i ragionamenti di Bush sono talmente sconnessi che farfuglia anche l'interprete. Ci sono due tizi, Gog e Magog, operativi in Medio Oriente... una profezia biblica si sta per compiere e una nuova era sta per giungere, et toute cette sorte de conneries. Chirac si mantiene sul vago, le faremo sapere, e poi chiama il suo staff: si può sapere chi sono questi Gog e Magog, e perché io non ne sapevo niente? Che figure mi fate fare in società? (Continua sul Post...)
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La meretrice nel deserto

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Qui è ancora vestita.
1° aprile - Santa Maria d'Egitto (IV-V sec.), ex meretrice e patrona delle medesime.

Mettete a letto i bambini. Siamo nella Giordania del V secolo, ormai gli anni ruggenti dei martiri sono finiti, adesso vanno di moda gli eremiti. Gente che va nel deserto e ci resta per anni senza mangiare niente: la gente ne va matta, molti attraversano il Giordano alla ricerca di questi anoressici modelli di perfezione. Tra questi cercatori vi è un monaco palestinese, Zosimo (o Zozima), già stimato e riverito da tutti per la saggezza e la rettitudine. Un giorno una voce gli ha detto: Zosimo, o Zozima che dir si voglia, ma chi ti credi di essere, un Santo? Ma va', va', attraversa il Giordano se vuoi vedere quelli che fanno sul serio. Zosimo obbedisce, e si inoltra nel deserto alla ricerca di qualche "santo padre antico solitario". Dopo venti giorni di nulla, gli appare da lontano un'ombra, un miraggio, si direbbe... una donna, una vecchietta dai capelli d'argento e dalla pelle secca. Zosimo si mette a correre verso di lei, ma la donna gli sfugge. "Perché mi fuggi? Ti prego, fermati, parlami". "Zosimo, abbi pazienza, non vedi che sono nuda? Se vuoi che io parli con te, gettami il tuo palio, acciocché possa coprirmi". Accidenti, pensa Zosimo, questa sa persino come mi chiamo, è una santa seria. E adesso cosa fa? Si è inginocchiata a oriente, ma... per san Girolamo, sta volando! Ehi, ma siamo sicuri che non è un'allucinazione? Dopotutto è da venti giorni che vago nel deserto praticamente senza mangiare né...

"Zosimo, o Zozima che dir si voglia, non dubitare. Io non sono un'allucinazione o uno spirito maligno, ma una femmina peccatrice. Vuoi conoscere la mia storia? A dire il vero ho paura che ascoltandola fuggirai da me, non potendo il tuo cuore reggere tanta iniquità: ma se proprio insisti..."

Flashback! Quarantasette anni prima, su un dock di Alessandria d'Egitto, una donnaccia si accosta a un gruppo di dieci marinai: ehi belli, ve ne salpate di già? Che peccato, e dove andate? Portiamo un carico di pellegrini a Gerusalemme, sai, il Santo Sepolcro. "Ah, ecco cos'era tutto questo movimento in giro, i pellegrini. Sentite, ma mi portereste con voi?" "Se hai il denaro per il naviglio, volentieri". "Il denaro non ce l'ho, ma una volta a bordo sarò io il vostro naviglio, ah ah". Dice proprio così. Qualcuno dei marinai si allontana schifato, qualcun altro sorride magari perché l'ha riconosciuta: costei è Maria d'Egitto, non è una come tutte le altre. Lei, per dirla col poeta, lo faceva per passione:
Diciassette anni fui meritrice pubblica e sì disonesta e libidinosa che non m’inducea a ciò cupidità o necessità di guadagno, come suole addivenire a molte, ma solo cupidità di quella misera dilettazione; in tanto ch’io m’andava profferendo impudicamente e non volea altro prezzo da’ miei corruttori, reputandomi a prezzo e a soddisfazione solo la corruzione della lussuria: onde gli giuochi, l’ebrietadi, e altre cose lascive e induttive a quel peccato, io riputava guadagno; e spesse volte rinunziava al guadagno e ai doni per trovare più corruttori, sicché nullo si scusasse e lasciasse di peccare con meco per non avere che darmi; e questo non faceva io perch’io fossi ricca, ma avvegnach’io fossi indigente, sommo mio disiderio e diletto era stare in risi e in giuochi e in disonesti conviti e ‘n corruzione continova.
Piccola parentesi dotta. La vita di Maria d'Egitto ci arriva in tre versioni. La prima è di san Sofronio, patriarca di Gerusalemme tra sesto e settimo secolo, ed è forte il sospetto che se la sia inventata lui (e complimenti patriarca per la fervida fantasia). La seconda è un riassuntino di una nostra vecchia conoscenza, Jacopo di Varazze (o da Varagine). Varazze è un po' il Moccia del Medioevo, nel senso che come scrittore non lo si direbbe veramente un granché, un compilatore senza particolari abilità: senonché doveva avere intuito qualcosa che ancora non abbiamo capito, perché la sua Legenda Aurea divenne presto un best seller e lo rimase per tutto il medioevo, quel millennio famoso in cui i libri non li mettevano in vetrina, ma li ricopiavano a mano, se necessario raschiando via l'inchiostro di altri libri magari più interessanti. Ecco, fa un po' piangere il cuore che di tante opere celebri dell'era antica non ci restino che brandelli, e di una compilazione tutto sommato banalotta come la Legenda Aurea ci siano arrivate più di millequattrocento copie manoscritte. Cioè, almeno le teenager che leggono Moccia non stanno raschiando via Nabokov o Proust, anche se in un certo senso sì, lo stanno facendo. La terza versione è quella che sto citando, ed è già in volgare: avete notato come scorre bene, malgrado la patina medioevale? Perché è di Domenico Cavalca, un domenicano del Due-Trecento che scriveva benissimo. La vita di Maria Egiziaca è considerata il suo capolavoro: Gianfranco Contini la riporta nella sua antologia della Letteratura italiana delle origini, che è dove l'avete letta voi, popolo di laureati in lettere. Ma probabilmente non c'era bisogno di ricordarvelo, probabilmente di quel mattone è l'unica pagina che vi rammentavate, dopotutto Maria è la cosa più hard che succede nella letteratura italiana fino al Boccaccio, ma forse anche dopo. Diciamo fino a D'Annunzio. Ma forse anche dopo. Pasolini? Boh. (Continua...)
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Dove comincia il tuo naso?

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Non è una domanda retorica, sul serio, dove? Per colpa di Facci, e di Vauro, e di Peppino Caldarola, mi è capitato di passare alcuni preziosi minuti della mia vita a contemplare foto di Fiamma Nirenstein per capire che naso avesse veramente. Senza neanche riuscirci, peraltro.


Vi sembra un bel modo di prepararsi al Giorno della Memoria? A me non sembra un bel modo. Vauro e il naso di Fiamma si legge sulla nuova, fiammante, Unita.it, e si commenta laggiù, possibilmente senza fare troppo gli antisemiti che ci ho famiglia, grazie.

In occasione del dodicesimo Giorno della Memoria è scoppiata una polemica, su quotidiani e blog, a proposito di un naso, per la precisione il naso della deputata Fiamma Nirenstein. La cosa, benché abbastanza delirante, è meno buffa di quanto possa sembrare, anzi per certi versi è mortalmente seria. Ci sono anche 25000 euro in ballo. Cercherò di raccontarla senza offendere nessuno, ma credo sia difficilissimo (qui c’è un buon riassunto di Filippo Facci).
In principio ci fu una vignetta che Vauro Senesi pubblicò sul Manifesto il 13 febbraio 2008: si era in piena campagna elettorale e la filoisraeliana Nirenstein aveva annunciato che si sarebbe candidata con il Popolo della Libertà: lo stesso partito di postfascisti come Alemanno o Giorgia Meloni, o di semplici nostalgici come Ciarrapico. Vauro commenta la notizia disegnando il mostro Fiamma-Frankenstein, che riprende le fattezze della Nirenstein, e sul vestito porta tre simboli: la stella di David, il fascio littorio, e il logo del PdL. Non è senz’altro la vignetta meglio riuscita di Vauro, ma il significato sembra chiaro. Io, perlomeno, ci vedevo un’allegoria del PdL: un mostro composto con pezzi di corpi che non avevano nulla in comune: il fascismo e Israele.
La Nirenstein la comprese in un altro modo, e protestò indignata per  “l’immancabile attacco demonizzante e disumanizzante”, “piuttosto prevedibile nell’uso che fa degli stereotipi, gli stessi che portano a raffigurare i soldati israeliani con la stella di Davide e la svastica”. Insomma, Vauro l’aveva dipinta come un mostro col fascio littorio perché ebrea, fine. Sono polemiche e semplificazioni inevitabili durante una campagna elettorale. Otto mesi dopo, quando sia la Nirenstein che Ciarrapico sedevano già in Parlamento (e avevano già avuto modo di litigare), un giornalista già amico di Vauro, Peppino Caldarola,scrive un trafiletto satirico sul Riformista in cui immagina una riunione di redazione di Annozero. Tra le varie battute, nessuna particolarmente esilarante, scrive questa:
Vauro non accetta di censurare la vignetta, che ha fatto tanto ridere Gino Strada, in cui chiama Fiamma Nirenstein “sporca ebrea”. 
No, non fa ridere. Ma non meritava nemmeno una multa di 25.000 euro. Invece capita che Vauro decida di querelare Caldarola: lui infatti non ha mai chiamato Fiamma Nirenstein Sporca Eccetera. E su questo non ci piove, ma è abbastanza chiaro che Caldarola scherzava: nello stesso pezzo scriveva “Marco Travaglio non vuole tornare dalla Transilvania dove era andato a trovare suo nonno il conte Dracula”. Quattro anni dopo capita che un giudice dia ragione a Vauro e infligga a Caldarola e al suo ex direttore Polito una multa spropositata. Caldarola la prende male: sul suo blog scrive di preferire il carcere; ma soprattutto dimostra dopo quatto anni e un processo di non avere ancora capito il senso della vignetta.
Al punto che comincio a domandarmi se non ho capito male io. Per il giornalista la vignetta contiene due indizi di flagrante antisemitismo: la stella di David e il naso di Fiamma-Frankenstein. Sulla stella Caldarola non ha dubbi: “È il simbolo della malvagità nazista”. Per me era un semplice richiamo all’identità da sempre rivendicata dalla Nirenstein. Ovviamente non si può guardarlo e non pensare ai deportati, ma appunto: si può rivendicare la difesa di Israele e militare nello stesso partito di Ciarrapico e di Alessandra Mussolini?
Ma il vero problema è il naso. Quello disegnato da Vauro, scrive Caldarola, è adunco. Casomai lo ignorassimo, “il naso adunco è la tipica rappresentazione che si dà degli ebrei” nelle vignette antisemite. Ergo, Vauro è antisemita. Ora, basta confrontare una qualsiasi vignetta di accertato antisemitismo per notare una certa differenza: di solito la forma del naso assume dimensioni caricaturali. Viceversa, nella vignetta di Vauro le dimensioni del naso non risultano particolarmente esagerate.  La mia sensazione – ma a questo punto potrei sbagliarmi, per favore non mandatemi gli ispettori – è che Vauro non abbia particolarmente calcato la mano nel disegnare un naso che ha qualche somiglianza con quello della Nirenstein. È un disegnatore satirico, che ha a disposizione pochi tratti e un solo colore per rendere una fisionomia: se deve disegnare un nero lo colora di nero, è razzismo? Il suo Arafat aveva il labbro sporgente e sproporzionato, è islamofobia? Può essere interessante anche confrontare la sua vignetta con quelle che un altro autore satirico ha dedicato alla Nirenstein, Stefano Disegni: se non altro perché Disegni è uno dei disegnatori satirici meno caricaturisti in circolazione: eppure anche la sua Fiamma ha un naso simile, come mai? Forse è antisemita anche Disegni? Oppure quello è semplicemente il suo naso? La stessa idea è venuta a molti commentatori sul blog di Caldarola, che gli hanno scritto in sintesi: guarda che ti sbagli, guarda che Vauro lo ha disegnato così perché lei ha davvero un naso più o meno così. Lui ha reagito dando dell’antisemita a tutti quanti. Pare che sia sufficiente questo, nel 2012, per prendersi un’accusa di antisemitismo: manifestare un’opinione sul naso di Fiamma Nirenstein.
Al punto che – dopo aver visionato una ventina di foto, di tre quarti e di profilo – ho deciso di gettare la spugna. Non ho la minima idea di che forma abbia il naso di Fiamma Nirenstein, anche se mi piace raffigurarmela con un nasino alla francese. Però anche scrivendo così, lascio intendere che se la Nirenstein non avesse un naso alla francese, se avesse un naso un po’ più pronunciato, mi piacerebbe meno… allarme antisemitismo! No, meglio tornare all’affermazione precedente: non ho la minima idea di che naso abbia l’onorevole Nirenstein.  Mi dispiace che Caldarola in quattro anni non sia riuscito a capire una vignetta che a me tutto sommato sembrava semplice; mi dispiace che Vauro lo abbia querelato, proprio lui che dovrebbe saper riconoscere uno scherzo, anche di dubbio gusto. Mi piacerebbe vivere in un mondo migliore, dove fosse possibile scherzare un po’ su tutto, compreso le barbe di alcuni profeti e le forme dei nasi di alcuni gruppi etnici, ma evidentemente non è così, e non sta nemmeno migliorando. http://leonardo.blogspot.com

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I diabolici Agit-Prof

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È probabile che, dopo tante battaglie vinte e pareggiate, ormai l'anonimato on line abbia perso la guerra. E siccome la Storia la scriveranno i vincitori, diranno cose terribili di noi ex-anonimi. In sostanza, eravamo un esercito di rosiconi in pigiama che usavano internet per infamare le persone normali. E alcuni di noi erano veramente così. Però. Vi va di ascoltare l'altra campana, per una volta? Potrebbe essere l'ultima.

Il motivo per cui ho cercato per tanti anni di restare anonimo, lo trovavate ieri in homepage sulla Repubblica. No, non ci sono io (grazie al cielo): però avrei potuto benissimo essere io, mi è andata bene. Invece c'è un'altra persona, con un nome e un cognome, che insegna in una scuola e ha il torto imperdonabile di scrivere le proprie opinioni su un blog. E siccome questo non costituisce ancora reato, il giornalista Marco Pasqua calca la mano, e si inventa che questa persona sia una negazionista, una che non crede allo sterminio degli ebrei. Non che sia vero. Basta leggere il suo blog. Ma Pasqua il blog non lo linca: virgoletta un sacco di citazioni, ma non rimanda alla fonte. Chi ha davvero voglia di verificare, cercherà. Per tutti gli altri Barbara Albertoni resterà una negazionista. C'è scritto in homepage sulla Repubblica, “La prof negazionista del Manzoni”, sarà vero, no? Perché nel pezzo si legge che tiene lezioni negazioniste al liceo Manzoni, no?

No. Nel pezzo c'è solo un mosaico di citazioni prese da un blog (e nessuna di queste nega l'evidenza dello sterminio degli ebrei). Nessun riferimento alle lezioni della professoressa Albertoni. Soltanto, verso la fine del pezzo, un “chissà”:

“E chissà se alcuni di questi concetti riescano a insinuarsi nelle sue lezioni”.

Già, chissà se si insinuano. Non lo sapremo mai.

Perché per saperlo ci servirebbe un giornalista vero. Uno che muova il culo e vada a intervistare gli studenti: è vero che la vostra prof è negazionista? Che discorsi vi fa? Sapete che ha un blog? Lo leggete? Eh, ma sarebbe faticoso.Virgolettare frasi qua e là da un blog è molto più semplice. Accusare un nome e cognome di negazionismo, facilissimo. Rovinare la reputazione a un dipendente pubblico: come fare due più due. Ho trovato sul blog che scrivi nel tempo libero delle frasette che non condivido. Questo mi fa pensare che tu non sappia fare il tuo mestiere. Lo scriverò su un quotidiano ad ampia diffusione nazionale...

L'Albertoni l'ha presa bene, buon per lei: non so come avrei reagito al suo posto. Quel che è sicuro è che avrei benissimo potuto essere al suo posto. Non importa ora quali opinioni abbia in comune con lei e quali no. Un bel giorno qualcuno decide che sono un negazionista, o un terrorista, o un pedofilo, e lo scrive sul giornale. Non è vero? Al limite qualche mese dopo ci sarà un trafiletto di rettifica a pagina trenta. Nel frattempo toccherà a me giustificarmi. Col dirigente, coi ragazzi, coi genitori, con gli ispettori del Ministero, con quelli del Comune: me la sbriglio io, del resto è colpa mia. Ho osato avere opinioni personali e scriverle, nel mio tempo libero, su un blog pubblico. Non si fa. Le opinioni vanno lasciate a quelli che sono pagati per scriverle. Hanno un albo, hanno l'assistenza legale, hanno uno stipendio, hanno un nome e un cognome. Possono permetterselo, loro. La libertà di opinione è roba per loro.

Non per noi. Oltre a non poter avere opinioni a scuola, sarebbe meglio che non ne manifestassimo nemmeno nel tempo libero. Perché, c'è differenza? Alla fine anche Pasqua, come l'onorevole Innominabile e gli amici della sua commissione anti-libri-di-testo-comunisti, sembra persuaso che la scuola sia una formidabile macchina di propaganda. Ma da quand'è che tutti questi signori non mettono il loro vero piede in una vera scuola? Fingiamo per un istante che sia tutto vero: che i libri di testo siano tutti approvati da una commissione congiunta Hamas - Quarta Internazionale, e che gli insegnanti di ogni ordine siano tutti affiliati a questa organizzazione comunista antisemita clandestina: anche in questo caso, non meriteremmo di essere giudicati per i risultati? E vi risulta che stiamo producendo una generazione di comunisti filopalestinesi? Forse varrebbe la pena di tenerci così, faziosi come siamo.

Però, davvero, secondo voi la scuola funziona così? Cioè: credete davvero che abbiamo tutto questo tempo per parlare di Intifada, di camere a gas, di Togliatti e Berlusconi? Avete mai dato un'occhiata agli orari, ai programmi? Avete un'idea di quante classi arrivano davvero a leggiucchiare le ultime cento pagine del testo di Storia? Ma lo avete capito che tutte quelle faziosissime frasi su Berlusconi e Togliatti non le leggerà nessuno; che quei capitoli arriveranno intonsi al macero; che ha già del miracoloso se un ragazzino di terza liceo è in grado di trovarla su una carta, la Palestina?

Ma mettiamo anche il caso estremo di un insegnante che decide di affrontare proprio quegli argomenti, e di affrontarli nel modo più fazioso possibile. L'avete mai conosciuto, un insegnante così? E vi ha mai convinto di qualcosa? Io non credo che l'Albertoni faccia propaganda antisemita nelle sue classi; ma penso che qualora cominciasse a farla, molti suoi studenti si convertirebbero all'ebraismo semplicemente per contraddirla. La scuola italiana è refrattaria alla propaganda: l'insegnante medio lo sa, e non ha davvero nessun interesse a mescolare le sue opinioni col suo mestiere.

Certo, ci saranno anche insegnanti faziosi e poco professionali. Ma non li si riconosce dai blog. Chi apre un blog molto spesso sta cercando proprio una valvola di sfogo, un posto confortevole dove gestire le proprie opinioni, lontano dalla classe e dal mestiere quotidiano: che non è quello di catechizzare classi di discepoli adoranti.

Le opinioni sono cose personali. Chi le esprime, si scopre. I ragazzi lo sanno, e ci provano sempre, a chiederti per chi tifi o per chi voti. Non è che siamo tutti delle cime, noi insegnanti, ma non siamo nemmeno tutti così fessi da scoprirci davanti a venticinque ragazzi che non vedono l'ora di metterti in discussione. È una banale questione di sopravvivenza: chi fa questo mestiere di solito conosce la differenza tra un'informazione e un'opinione. Non si può dire la stessa cosa di tanti giornalisti.

Poscritto. Mentre cercavo di buttar giù questa paginetta senza mandare al diavolo un'intera categoria di nomi-cognomi, ho appreso che Vittorio Arrigoni è stato rapito. Arrigoni è ben più di un “blogger”: ma quando i giornalisti se ne sono andati da Gaza, lui è rimasto là, e aveva un blog. Sono sempre i migliori che si ficcano nei guai. Mi unisco alla preghiera dei palestinesi che lo vogliono vivo e libero.
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Più di mille parole

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La guerra delle cartoline

C'è una foto incredibile di Rina Castelnuovo che è sepolta da mesi tra i miei bookmark. Ogni tanto ci passo sopra col mouse e sovrappensiero la riapro. Allora accade ogni volta la stessa cosa: mi dico “ma questa è straordinaria! Perché non l'ho mai pubblicata?” e decido di farlo seduta stante. Invece non faccio in tempo ad aprire la pagina che i dubbi hanno già preso il sopravvento. Tranne forse stavolta. (In ogni caso vale la pena di avvertire: questo pezzo non ha molto a che fare con la strage al largo di Gaza. È tutto un pezzo su quella fotografia, e soprattutto sull'opportunità di pubblicarla o no. Una questione piuttosto astratta e privata, mentre fuori si scannano, certo).

+ La foto è già un po' famosa, o meriterebbe di esserlo. Pubblicata su Internazionale, è arrivata al mio portatile al termine di una tortuosa catena di link. Il ragazzo è di origine europea o americana, la donna è una palestinese. Da come curva le spalle dà l'impressione di avere una certa età. Siamo a Hebron, la città dei patriarchi, la più sacra agli ebrei dopo Gerusalemme. Ma non è in Israele; è in Cisgiordania, territorio occupato. Il ragazzino che lancia il vino non è, propriamente, un israeliano: è un colono ebreo. Per parte dell'opinione pubblica israeliana (e persino italiana), è un eroe assediato dai terroristi, che difende con la sua sola presenza le radici ebraiche di Hebron. Questa foto mostra una realtà diversa, una quotidianità di provocazione e arroganza che combacia con altre testimonianze (le reti tese sopra il mercato palestinese per proteggere le bancarelle dai rifiuti lanciati dai coloni). Pubblicarla sul mio sito avrebbe semplicemente un valore di testimonianza: meglio di qualsiasi mio lenzuolo di parole, questa foto mostra a chi non vuol vedere da che parte stiano la prepotenza e la sopportazione.

- D'altro canto, è solo una foto. Qualche filoisraeliano la vedrà e ne posterà una di segno contrario, magari un palestinese che brucia la bandiera azzurra (oooodio!) o la sagoma di Hitler su una baracca di Gaza (iiiiiislamoonazismo!) E andremo avanti così, rinfacciandoci cartoline dalle due sponde dell'inferno. Ma ho sempre pensato che non abbia senso. Forse perché non so fotografare, ma ho sempre rifiutato il giochino: in particolare mi hanno sempre fatto ribrezzo gli avvoltoi che postano i bambini morti dalla loro parte, per convincere sé stessi e gli altri di stare dalla parte giusta. Come se non fossero morti bambini da entrambe le parti. Le foto sono disoneste perché ritagliano un fatto e ti costringono a provare emozioni per quel singolo bambino morto, per quella signora che probabilmente prova per l'odore del vino la stessa repulsione viscerale che io provo per alimenti alieni alla mia cultura: non abbiamo bisogno, io e lei, di consultare il nostro libro sacro per sapere che ci fanno schifo: ci viene da vomitare e basta, siamo fatti così, voi la chiamate Cultura ma noi non l'abbiamo scelta, se ci innaffiano con quella roba ci sentiamo pieni di vergogna e temiamo che nemmeno annegandoci la puzza ne verrebbe via... Ecco, vedete, mi sono immedesimato. Ma da qualche parte c'è un palestinese che tira una pietra a un soldato di leva israeliano, non dovrebbe farmi male la testa anche per lui? A questo modo emotivo di appassionarsi a una guerra ho sempre preferito un approccio pragmatico e crudo: volete parlarmi di bimbi morti? Contiamoli. Vediamo se ne ha fatti più Piombo Fuso o più i razzi Qassam. Poi decideremo per chi emozionarci. Ma se pubblico questa foto, io mi arrendo alle emozioni, all'empatia, alla propaganda che si nutre di cartoline...

+ D'altro canto, questa foto è una bomba. Non teme il confronto. Nessun palestinese odiatore calpestante vessilli in fiamme reggerà mai una foto del genere. Qui non c'è nessun pietismo, la signora è di spalle, e sono le spalle più dignitose che ho mai visto nella mia vita, probabilmente perché dietro di loro sono libero di immaginare il volto che voglio, e ovviamente non farò che prendere mia madre o mia nonna con tutta la loro dignità, e abbronzarle appena un po'. Quant'è bianca, invece, la faccia del colono. Giù la maschera: questa è la faccia dell'imperialismo bianco. Lo stupid white boy, il turista anglosassone tronfio e cretino da generazioni, che segna il territorio col suo bricco di tavernello. Fa la cosa più bianca e imperialista che si possa immaginare: sporca, riempie il mondo di rifiuti. Un mondo povero, ma dignitoso, deve diventare la sua discarica. A Hebron i coloni fanno la guerra coi rifiuti: quello che l'Uomo Bianco riconosce ormai come una vergogna nella sua madrepatria (l'attitudine a lordare) nelle colonie d'oltremare è rivendicato come un preciso diritto politico: hai dei fondi di bicchiere? Li puoi usare per rendere un po' più difficile la vita dei palestinesi. Che foto incredibile.

- E mentre me lo dico capisco che c'è qualcosa che non va. Il mio buonumore. Là fuori si scannano, amici o nemici, ma io ho trovato una foto che darà forza ai miei amici, e farà stridere i denti ai miei nemici. Ma è questo che voglio? Nel mio blog io parlo di scuola, tv, qualche film un po' di musica, e di Palestina: ma saltuariamente: solo quando un massacro la riporta in prima pagina. Perché lo faccio? Perché un giorno promisi qualcosa a qualcuno? Credo davvero che ci sia qualcuno là fuori ancora da convincere, qualcuno disponibile a cambiare idea? O voglio semplicemente far bella figura col mio blog, attirare l'attenzione del migliaio di persone non particolarmente influenti che bazzicano? E se fossi davvero tutto qui, una persona superficiale che tra fare qualcosa di concreto e chiacchierare a vanvera ha scelto una volta per sempre la seconda?

- Ma se chiacchiere devono essere, almeno siano farina del mio sacco. Questa foto non è mia. Se la usassi, la ruberei. Certo, si è già fatta un bel giro su internet. Ma il mio non è un sito di segnalazioni; è un sito di contenuti. In gran parte, testuali. Le immagini sono quasi tutte rubate, e servono solo ad alleggerire o a fornire qualche pezza d'appoggio – ma una foto così non sarà mai un corredo di niente. È uno scoop, è un editoriale fatto e finito. Potrei versarci sopra la mia solita colata di parole, ma sento che sarebbe disonesto: qualsiasi parola mia accanto brillerebbe di luce riflessa. Non potrei neanche sporcarla, distorcerla, sfuocarla, come faccio spesso con le immagini che rubo, per sentirmi meno ladro.

- Per di più adesso c'è la questione della pubblicità. Non se n'è accorto praticamente nessuno, ma da qualche settimana a questa parte il mio sito ha uno spazio pubblicitario. Non è una rivoluzione, in dieci anni su Blogger è successo di tutto: nei primissimi tempi ho vaghi ricordi di enormi banner con loghi e suonerie, e una scimmietta a cui dovevi sparare per vincere gettoni d'oro. La novità è che ora qualche centesimo mi arriva in tasca. Quanti? Pochi. Non abbastanza per mettermi a inventarmi espedienti per attirare lettori... ma pubblicare una foto del genere, così potenzialmente controversa, non sarebbe esattamente un espediente? Voglio rubare il lavoro di una fotografa professionista? Voglio usare la tragedia palestinese per attirare clic sul mio sito e centesimi nelle mie tasche? Non mi sembra di essere così gretto, ma di fatto lo diventerò.

+ Insomma, come vedete alla fine ho scelto. Ho messo tutti i pro e i contro sulla bilancia, e poi ho rotto i piattini. La foto è una bomba, pubblicarla è sleale, e probabilmente io sono una patetica persona che ruba cartoline e specula un piattino di lenticchie su enormi tragedie, e pensa di coprirsi dietro lenzuoli di metadiscorsi. Tutto questo è vero, ma è anche poco rilevante di fronte all'immensità dell'universo, alla profondità dell'odio, e alla rabbia muta di quelle spalle, che credono di dover sopportare all'infinito, e invece (grazie a una fotografa israeliana) faranno il giro del mondo. E il giro del mondo oggi passa per di qui, semplicemente. Non me lo merito: chi se ne frega. Guardate la foto, le mille parole che ci ho messo intorno valgono ancora meno del solito.
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Ho una teoria #3

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Gli israeliani sono esseri umani come noi. Quando sono feriti, sanguinano. Quando li si diffama, si indignano. Come fa chiunque, come faremmo noi (continua sull'Unità.it) (non sul cartaceo).

Ho una teoria: gli israeliani sono esseri umani come noi. Quando sono feriti, sanguinano. Quando li si diffama, si indignano. Come fa chiunque, come faremmo noi.

Ai primi di settembre un'ondata di indignazione israeliana investì la Svezia
. Il più diffuso tabloid svedese, l’Aftonbladet, aveva ripreso la vecchia storia di Bilal Ghanan, un guerrigliero palestinese diciannovenne a cui gli israeliani, col pretesto di un’autopsia, avrebbero asportato alcuni organi per effettuare trapianti. Il cronista Donald Boström, testimone oculare delle esequie, non poteva però fornire alcuna prova concreta: soltanto i dubbi dei famigliari (perché praticare un’autopsia sulla vittima di un conflitto a fuoco?) e le macabre dicerie che sono moneta corrente nei teatri di guerra civile. L’episodio, che risaliva al 1992, si trovava inserito con una certa forzatura in un articolo (qui nella versione inglese) che partiva da un recentissimo scandalo scoppiato nel New Jersey, dove un rabbino newyorkeseaveva confessato il suo coinvolgimento in un traffico internazionale di organi (ma nel suo caso si trattava di reni, ceduti a quanto pare da israeliani consenzienti). 

L’Aftonbladet fu accusato di rimettere in circolo le leggende calunniose medievali sugli ebrei 'ladri di sangue'
. A infiammare ulteriormente l’opinione pubblica israeliana (si parlò di boicottare i punti vendita Ikea) fu l'atteggiamento del governo svedese, che non ritenne necessario prendere le distanze dal quotidiano, come richiesto dal primo ministro israeliano Netanyahu: tutto questo proprio mentre la Svezia deteneva la Presidenza di turno dell’Unione Europea. Dalla parte di Netanyahu si schierava invece il governo italiano: col ministro Frattini, che a Stoccolma accusava l’Aftonbladet di promuovere indirettamente “sentimenti di antisemitismo”; con Fiamma Nirenstein, Vicepresidente Commisione Esteri della Camera, che si diceva “stupefatta” del fatto che il Ministro degli Esteri svedese “ignorasse l’occasione per una ferma condanna nei confronti dell’antisemitismo”.

Era la fine dell’estate, e sui quotidiani italiani andava forte il caso Boffo: la vicenda scivolò in secondo piano e ce ne scordammo presto. Anche per questo, forse, è passato quasi del tutto inosservato il colpo di scena delle ultime settimane. Cos’è successo? In breve: Israele ha ammesso di avere asportato organi post-mortem a cittadini israeliani e a palestinesi dei Territori Occupati, senza chiedere il permesso ai famigliari, durante tutti gli anni ‘90 (The Huffington Post). Quindi l’Aftonbladet aveva ragione? Solo in parte, dal momento che l’articolo incriminato arrivava a suggerire che Bilal Ghanan potesse essere stato ucciso da soldati israeliani col deliberato intento di asportarne gli organi. Questo Boström non può provarlo (né ha mai preteso di poterlo fare). 

L’ammissione è venuta dall’anatomo-patologo Jehuda Hiss
, direttore dell'Istituto di Medicina legale Abu Kabir, in un’intervista trasmessa la settimana scorsa dall’israeliano Channel 2 TV. Il servizio è del 2000, e non era mai stato divulgato: l’intervistatrice (la ricercatrice statunitense Nancy Sheppard-Hughes) ha deciso di renderlo noto anche per sgravare Hiss dall’accusa più infamante, quella di accanimento razziale nei confronti delle salme palestinesi. In realtà Hiss non applicava nessuna distinzione razziale o politica: gli abusi perpetrati nel suo istituto riguardano infatti 125 cadaveri di israeliani e (in minoranza) palestinesi, morti per cause naturali, per incidenti o per intifada, a cui furono asportate ossa, valvole cardiache, cornee e lembi di pelle senza il consenso dei famigliari (o in certi casi addirittura contro la volontà di questi ultimi). Le uniche preoccupazioni erano pratiche: Hiss ha ammesso, per esempio, che le cornee venivano asportate solo quando i dottori avevano la certezza che la famiglia non avrebbe riaperto gli occhi del defunto.

Dopo la messa in onda dell’intervista l’esercito israeliano ha ammesso che questi abusi sono stati effettivamente commessi fino a dieci anni fa, in un momento in cui le normative in materia, a detta del Ministro della Salute, “non erano chiare”. A tutt’oggi la storia degli organi rubati alla salma di Bilal Ghanan rimane una diceria senza prove, ma se l’Aftonbladet non l’avesse divulgata, forse le ammissioni di Hiss e dell’esercito israeliano non ci sarebbero mai state. (E i rappresentanti del governo italiano che accusarono neanche troppo indirettamente la Svezia di fomentare l’antisemitismo europeo? Non pervenuti).

…ho una teoria, dicevo. Gli israeliani sono esseri umani, esattamente come noi. Se li ferisci, sanguinano. Ma se li curi possono guarire. Non credo che sia necessario essere antisemita per considerare immorale il comportamento di Hiss (personaggio estremamente controverso, che lavora tuttora nell'Istituto Abu Kabir, anche se ha dovuto dimettersi dall'incarico direttivo). Eppure il fatto che oggi qualche cittadino israeliano viva portando in sé una libbra di carne palestinese è in qualche misura suggestivo. Siamo della stessa carne, e in fondo lo sappiamo: nessuna guerra, per quanto lunga e senza quartiere, può farcelo dimenticare.

(Un grazie a Mazzetta, senza il quale questo pezzo non sarebbe stato possibile. E buon anno a tutti).
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Mite agnello redentor

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Che toglie i peccati del mondo

Al mondo siamo sei, massimo sette miliardi, ciascuno con i suoi problemi: ciò che tutti ci consola è la possibilità di prendercela con chi è messo peggio di noi.
Di solito si tratta di islamici.
Gli islamici sono appena un miliardo, e se date un'occhiata al planisfero vi rendete conto che stanno proprio in mezzo, di modo che di solito le prendono un po' da tutti; e probabilmente se le meritano. Un po' per quel colore della pelle che non è bianco né nero, è... ambiguo; e poi quel profeta ultimo arrivato che nessuno ha visto in faccia, quelle usanze demodé, insomma con gli islamici vai sul sicuro: tu intanto dàgli addosso, ché un motivo si trova sempre.

E tuttavia, è inevitabile che a furia di prenderle diventino un po' nervosi. Fortunatamente in mezzo a tutto quel miliardo di islamici (che visto da vicino fa un po' spavento, dico, un miliardo! Tutto insieme!) c'è una nazione minuscola di cinque milioni di ebrei; si chiama Israele, e quando gli islamici vogliono sfogarsi possono sempre cominciare una guerra santa. Le fanno spesso nei giorni di festa, vecchio scherzo che funziona sempre.

Col tempo tuttavia anche i cinque milioni di israeliani hanno cominciato a seccarsi. E certo, in mezzo a un miliardo di islamici possono sembrarti pochi, ma visti un po' da vicino, son pur sempre cinque milioni... però non sono sparsi in modo omogeneo; infatti all'interno del loro Stato c'è un territorio che non è proprio uno Stato, dove vive un altro popolo: si chiamano palestinesi, e quando Israele è nervoso corre a mazzolarli, è una gran valvola di sfogo.

I palestinesi però sono un popolo fiero, e quando hanno iniziato a prenderne troppe dall'esterno, si sono guardati dentro, chiedendosi: c'è qualcuno più piccolo di noi che possiamo a nostra volta mazzolare, al fine di sbollire la nostra troppo giusta ira? In effetti qualcuno c'è: nel bel mezzo dei territori dove vivono milioni di palestinesi (e visti da vicino sono tanti!) c'è... ma sì, c'è ancora qualche piccolo villaggio superaccessoriato dove alloggiano coloni ebrei, alcune centinaia. E quindi questi palestinesi cominciano a tirare razzi ai coloni ebrei.

I quali non è che sopportino sempre pazientemente. Per esempio c'è questo insediamento di coloni a pochi km. da Betlemme, dove vive Jesse, che di mestiere fa il pastore. Allora, quando un razzo
palestinese atterra nella fattoria di Jesse, a pochi metri dal lettino della figlia, cosa fa Jesse? Entra nel recinto delle sue pecore e si mette a prenderle a calci: poi sta meglio. In pratica è come se tutta la rabbia e la frustrazione dell'umanità andassero a finire nel recinto delle pecore di Jesse.

Ma l'umanità non è la fine di tutto: infatti anche le pecore di Jesse non è che accettino pazientemente la loro missione purificatrice. Appena Jesse se n'è andato, cominciano le discussioni: pee-e-rché le pre-e-endiamo se-e-empre? Cosa abbiamo fatto di male? C'è chi dice che è colpa dei loro pe-e-eccati.
Altre rispondono, ma quali pe-e-eccati? Non facciamo niente di male, siamo tutte fedeli al nostro montone (anche pe-e-rché è l'unico del villaggio), al sabato ci asteniamo dall'erba grassa, e quindi?
Forse si tratta di un pe-e-eccato originale, siccome la prima pecora nel Paradiso Terrestre brucò dall'aiuola del Be-e-ene e del Male, benché il Signore gliel'avesse espressamente....
“Son tutte balle”, dice a un certo punto una del mucchio. “Non esiste nessun peccato originale: sapete cosa esiste invece? La pecora nera, che ci rovina la reputazione a tutte quante”.

Le pecore si voltano verso Azazel, l'agnello dal manto un po' più scuro delle altre, che in effetti qualche zoccolata se la merita, anche solo per quest'ambiguità cromatica... e poi sta sempre zitto, non si sa mai a cosa pensa... insomma, la circondano, loro sono tante, lui è solo, e dopo un po' il suo manto grigio comincia a screziarsi di rosso sangue, l'agnello nero crolla in un angolo, e il morale del gregge è di nuovo alto.

Azazel guarirà - non è mica la prima volta che le prende, né sarà l'ultima. Si tratta ora di capire a chi tocca dopo di lei: a chi passerà inconsapevolmente il fardello di tutto il male, tutto il dolore, tutta la frustrazione dell'umanità. Potrebbe pestare un agnellino, o pianificare lo sterminio di una specie d'insetti, qualsiasi cosa. In fondo non è che un anello di una catena infinita che va dalle nebulose agli organismi unicellulari: ovunque ti guardi è pieno di entità più grandi che ti circondano e te la fanno pagare per qualcosa che viene da fuori, e adesso tocca ad Azazel.

Azazel invece non fa niente, non gli interessa. Non è che non gli dispiaccia essere odiata dai suoi simili, però non abbastanza da rifarsi contro qualcuno più piccolo di lei. Può darsi che sia una regola universale, però Azazel non la rispetta, si chiama fuori. Così il fardello di tutto l'odio, tutta la sofferenza dell'umanità, finisce lì: in un recinto a poche miglia di Betlemme.

Quando Gesù Cristo tornerà, a giudicare i vivi e i morti, non credo che la tirerà per le lunghe. Ci guarderà tutti quanti, scrollerà la testa e dirà: scusate il disturbo, dov'è l'agnello Azazel? Ero venuto per lui. Se lo caricherà sulle spalle e se ne tornerà al Padre suo, lasciandoci qui, alle nostre contese sempre molto interessanti. Perché in fondo non ci meritiamo un inferno peggiore di questo.

(Era uno dei Post sotto l'albero 2009. Lì ce ne sono senz'altro di più allegri. Buon Natale a tutti!)
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sofismi su Israele, 9-10

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9. Attacco all'Antisemita

Il sillogismo è abbastanza noto: gli israeliani sono ebrei; tu ce l'hai con loro; quindi ce l'hai con loro perché sono ebrei. Non li odi perché bombardano, non li odi perché espropriano, non li odi perché segregano; li odieresti anche se non facessero nulla di tutto ciò, perché il vero motivo per cui li odi è che sono ebrei.
Smontare questo sofisma non è affatto facile, sapete? In realtà l'unica dimostrazione empirica richiederebbe la collaborazione degli israeliani: se smettessero anche solo per un breve tempo di espropriare, bombardare, segregare, a quel punto sarebbe più facile distinguere chi critica Israele per queste cose dagli antisemiti tout court.

Da un punto di vista logico, l'antisemitismo di un critico di Israele si smonta in un attimo, grazie a quel famoso rasoio di Occam: se l'esercito di Israele fa cose oggettivamente odiose (ad es. bombardare scuole disarmate); se il governo gliele ordina; se il popolo le sostiene, non c'è affatto bisogno di inventarsi un astratto “odio per gli ebrei” che giustifichi le mie critiche: entia non sunt multiplicanda. Da un punto di vista logico.
I guai cominciano quando si passa alla comunicazione. Occorre criticare Israele senza suggerire nessun tipo di odio razziale. Beh, non è facile. Diciamo anche che è maledettamente difficile.
Ci sono motivi contingenti: un critico di Israele, oggi, si trova schiacciato tra quelli che hanno tutto l'interesse a fraintendere quello che dici e ad affibbiarti patenti di antisemitismo, e quelli che sono antisemiti davvero (e non sono mica pochi): gruppetti neofascisti che tentano insolite accozzaglie rosso-brune, teppisti che dopo anni di svastiche hanno imparato a disegnare la Stella di David, semplici provocatori... e musulmani. I musulmani, in realtà, non sai mai cosa stiano gridando alle manifestazioni, ma è sufficiente inneggiare Hamas per associarsi a un movimento che (lo abbiamo visto) assume tratti antisemiti.

Giusto per complicare la situazione, nell'ultimo decennio ha preso piede la definizione di “antisemitismo di sinistra”, una vera e propria piaga che ammorberebbe la coscienza di generazioni, denunciata da cronisti coraggiosi, come Piero Citati:

Quanto agli antisemiti di sinistra, sono talmente tanti che non oso nemmeno nominarli.


E si capisce, il coraggio uno non se lo può dare – poi però l'omertà diventa un peso insostenibile, ed ecco la preziosa testimonianza

Ricordo soltanto una giovane, non so se casariniana o carusiana o agnolettiana, che proclamava ad alta voce: «Quelli che non ha ucciso Hitler, li ammazzeremo noi».

Da far accapponare la pelle, la giovinetta di sinistra che si augura ad alta voce di terminare l'opera di Hitler; soprattutto considerando il numero di vittime che il terrorismo casariniano-carusiano-agnolettiano ha fatto in questi anni dieci anni di lotta armata senza quartiere. Il pezzo di Citati, pubblicato nel torrido agosto 2006 mentre i carabinieri partivano per andare a mettere una pezza in Libano, e salutato da molti come un formidabile j'accuse nei confronti del nuovo strisciante odio etnico, esemplifica un po' l'atteggiamento dei nostri intellettuali di fronte al fenomeno: è una cosa terribile, gli antisemiti di sinistra sono tanti che non si possono nemmeno nominare, fanno cose orribili, per esempio... una ragazzina ha detto una scemenza. Dove? Mah, a una manifestazione. Citati, lei va alle manifestazioni col taccuino e si scrive le frasi? O gliel'hanno raccontata? O l'ha vista in tv? Ma è sicura che fosse di sinistra quella ragazzina? Ha una minima idea di come si vestano quelle di sinistra? Ma pensate che qualcuno gli abbia fatto anche solo una di queste domande, a Piero Citati?

Di antisemitismo di sinistra si è cominciato a parlare parecchio più o meno nel 2003, con la pubblicazione di un controverso dossier commissionato dall'Unione Europea (in un primo momento annunciato in ambienti neoconservatori come un tuonante atto d'accusa contro gruppi di sinistra: quando poi lo abbiamo letto abbiamo scoperto quello che sapevamo già, e cioè che in Italia i responsabili di aggressioni e atti vandalici contro gli ebrei sono quasi tutti esponenti di movimenti o tifoserie di destra).
Quel dossier non mi ha mai convinto, forse perché definiva Informazione Corretta un sito web “imparziale nel giudizio” (dai, con tutta la più buona volontà...): però è un documento utile per capire cosa si intende per “antisemitismo di sinistra”. Un concetto che io trovo una contraddizione in termini: se uno è antisemita crede nelle razze pure e impure, per cui non può essere di sinistra; se uno è di sinistra, come fa a dire o fare cose antisemite? Può dirle per sbaglio?

Il sito Web Che fare?, appartenente ai gruppi
dell'estrema sinistra, riporta elementi antisionisti, del fondamentalismo filoarabo e antiamericani, oltre a ricorrenti stereotipi contro gli ebrei, utilizzati in passato e attualmente: le lobby ebraiche, il rapporto con la Massoneria, il complotto internazionale, il potere economico mondiale in mano agli ebrei, ebrei circoncisi con il marchio del dollaro sono tutti esempi di slogan più e più volte ripetuti.

Siete avvertiti: se usate questo repertorio, siete antisemiti. Secondo me tutto sommato ci può stare: l'unica mia perplessità è legata alle “lobby ebraiche”. Se dico che negli Usa esiste una lobby che cerca di mantenere il governo su posizioni filo-israeliane, affermo una cosa antisemita?

Ma poi, ha senso farsi domande del genere? Tanto ci sarà sempre qualcuno che capirà male, e qualcuno che farà di tutto per capire male. Io alla fine della fiera sono solo un blog. Posso fare tutti gli sforzi che voglio per criticare Israele nel modo più politically correct possibile; poi succede come alla Fiera del Libro di Torino: arriva Vattimo, dice due scemenze sui Savi di Sion, et voilà! Ecco squalificato tutto il movimento filopalestinese italiano. Perché? Che ci sia un complotto internazionale, una lobby massonica che paga Vattimo per dire la prima sciocchezza che gli frulla in testa e sputtanarci tutti quanti? No, le cose sono più semplici: un professore universitario in pensione è abituato a gettare le sue piccole o grandi Verità su un pubblico di laureandi, dottorandi, assistenti e altri yesmen; non è minimamente abituato a soppesare tutto quello che dice per evitare fraintendimenti pericolosi: e quindi cade nel primo tranello che trova, e se non ce ne sono se li fabbrica da solo.


10. Attacco al nazista, o Sillogismo del Gran Muftì.

Sillogismo: i palestinesi sono nemici di Israele: gli israeliani sono ebrei; i nazisti li sterminavano: i palestinesi sono nazisti! E sei nazista anche tu che li difendi.
Possibile che qualcuno scriva veramente roba del genere? Sì, lo fanno. E si credono pure astuti, perché sanno una cosa che tu non sai: come si scrive “Gran Muftì”.

Per “Gran Muftì” si intende in realtà Mohammad Amin al-Husayni, leader nazionalista prima panarabo e poi palestinese, che dal 1921 al 1948 fu effettivamente Gran Muftì (autorità giuridico-religiosa islamica) di Gerusalemme. Al-Husayni capeggiò la rivolta araba degli Anni Trenta, quando i kibbutz ebraici erano presi di mira dai cecchini palestinesi. Ma fece uccidere anche parecchi arabi, rei di non sostenere una linea più morbida con gli ebrei, o semplicemente perché parteggiavano per fazioni avversarie alla sua. Nel frattempo tesseva relazioni diplomatiche con Italia e Germania, nella speranza di far fronte comune contro inglesi ed ebrei. L'occasione venne nel 1941, quando quattro generali filo-Asse fecero un golpe in Iraq. Ma andò male: gli inglesi si ripresero Iraq e Palestina, e al-Husayni scappò in Germania, diventando definitivamente un uomo del Reich. La sua mansione specifica fu organizzare le SS musulmane in Bosnia, una cosa che mi riempie di stupore ogni volta che la rileggo: c'erano SS musulmane in Bosnia. Se non bastasse a qualificarlo come nazista, molti studiosi ritengono che abbia partecipato attivamente allo sterminio degli ebrei. Alla fine della guerra scappò in Svizzera, e nel 1948 era di nuovo il leader palestinese durante la guerra che non a caso i palestinesi chiamano Catastrofe. Arafat continuò a considerarlo (in mancanza di meglio?) un eroe della causa palestinese, e fino a un certo punto lasciò intendere di essere suo nipote. Ma in generale Al-Husayni ha reso davvero un servizio catastrofico alla sua causa: ha diviso i palestinesi, facendo guerra anche a molti di loro, e ha procurato loro quella fama di nazismo che filtra la legge di Godwin. Ovvero: in una discussione sulla questione israelo-palestinese citare Hitler è ammesso, perché in una determinata situazione storica i palestinesi (alcuni) si sono alleati dei nazisti in chiave anti-ebraica. Questo è incontrovertibile, malgrado anche la studiosa israeliana Idith Zertal abbia riconosciuto che “la demonizzazione del Gran Muftì serve a ingigantire la minaccia-Arafat”. Per demonizzazione s'intende quello che ha osservato lo storico americano Peter Novick (trad. mia):
Il Muftì è stato per molti versi un personaggio riprovevole, ma una sua partecipazione significativa all'Olocausto, sostenuta più volte nel dopoguerra, non è mai stata sufficientemente comprovata. Questo non ha trattenuto i curatori dei quattro volumi dell'Enciclopedia dell'Olocausto dal dargli un ruolo di primissimo piano. L'articolo sul Muftì è due volte più lungo di quelli su Goebbels e Goering, più lungo di quelli di Himmler e Heydrich, più di quello su Eichmann... di tutte le voci biografiche, è superato in lunghezza (di poco) solo da quello su Hitler.
Se Al-Husayni è tanto popolare, è perché si presta alla perfezione al ruolo di padre dell'"islamofascismo", un ibrido che andava per la maggiore anche in Iraq, finché non ci siamo messi a mercanteggiare la pace con i mullah.
Dunque, tecnicamente, chi cita il Gran Muftì segna un punto per Israele: era un alleato di Hitler. Parte del popolo palestinese, in un periodo della sua storia, è stato alleato di Hitler, persino complice di Hitler. Quanto ne possano sapere di Hitler a Gaza o nei campi profughi, è irrilevante: gli eredi di un popolo che sessant'anni fa ha collaborato con Hitler devono continuare a pagare per il loro errore. Quindi gli israeliani han ben ragione di bombardare loro – ehi, aspetta, ma a quel punto avrebbero il diritto di bombardare anche noi, che con Hitler abbiamo collaborato un po' di più. E i tedeschi. E perché no, i giapponesi. E... sì, vabbè, ma perché darsi tanta pena? I palestinesi sono dietro casa, son comodi, facciamo che il Male Assoluto se lo espiano loro.

(Continua, ma il più è fatto)
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sofismi su Israele, 6-8

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Prima di continuare coi sofismi, vorrei rispondere a chi ha commentato "cose chiare e sensate. Ma chi lo va a spiegare alla "casalinga di voghera"?

Ecco, per una volta credo che la famosa casalinga sia vittima di un pregiudizio. La immagino davanti a un tg qualsiasi mentre scuote la testa, piange per le vittime e biasima i bombardatori. Non riesco a immaginarmela mentre mi fa un'equazione Kissinger o rilascia patenti di antisemitismo. Questi sofismi non sono pane per i suoi denti. Sono invenzioni intellettuali, concepite e collaudate da intellettuali per convincere altre persone che su internet o sui giornali cercano di farsi un'idea approfondita. È per questo che mi fanno paura. Non pretendo che la casalinga di Voghera debba farsi un'idea anche solo vaga di tutto quello che è successo dal '48 a oggi; ma perché giornalisti e ministri devono raccontarmi balle? E devono essere per forza balle così inverosimili?

6. Sofisma del matrimonio gay
Questo è di conio recente, ma ha già riscosso un certo successo. Come fai a mettere sullo stesso piano un movimento oscurantista come Hamas e un Paese laico come Israele, dicono, un Paese dove i gay si possono sposare?

Non so cosa ne pensino i gay, ma io trovo un po' fastidioso l'uso del “matrimonio gay” come cartina di tornasole della laicità di una nazione. Peraltro, non è nemmeno vero che i gay si possano sposare legalmente: la giurisdizione israeliana riconosce semplicemente la validità di matrimoni gay contratti in altri Paesi. Ma chi ha a cuore l'etichetta laica di Israele dovrebbe lasciare perdere l'argomento “matrimonio” in generale: sposarsi in Israele è una faccenda complicata. Il matrimonio civile non esiste: i matrimoni religiosi si possono contrarre soltanto tra membri della stessa comunità religiosa, secondo il sistema dei Millet ereditato dalla legislazione ottomana, che a quei tempi era veramente all'avanguardia in fatto di pluralismo religioso, ma oggi segna un po' il passo dei tempi – soprattutto a confronto con quelle democrazie laiche e occidentali alle quali si paragona spesso Israele.
Quindi: i cristiani si possono sposare coi cristiani, i musulmani coi musulmani, i drusi coi drusi, gli ebrei con gli ebrei – ma anche così è troppo facile, in realtà non tutti gli ebrei israeliani hanno diritto di contrarre matrimonio con ebrei ortodossi o di discendenza sacerdotale (i kohen). Anche i figli illegittimi sono sottoposti ad alcune limitazioni. Su tutto questo ha giurisdizione il Gran Rabbinato, che a partire dal 1947 ha negoziato con il primo governo di Ben Gurion un accordo tra Stato e religione affine ai nostri concordati. Con la differenza (non mi pare da poco) che in Italia ci si può sposare anche al di fuori della Chiesa, e con qualcuno che in una chiesa non ci è entrato nemmeno per battezzarsi. Siete ancora sicuri che Israele sia un Paese così laico?

È vero che la situazione è bilanciata dalla prontezza coi cui Israele riconosce i matrimoni civili contratti all'estero: tanto che nel 2000 si è calcolato che uno sposo/a israeliano su dieci ha sconfinato per celebrare il suo matrimonio (Cipro è la tappa preferita). Tra questi, anche quelli contratti tra persone dello stesso sesso. Quanto questo renda Israele un Paese laico, decidetelo voi.

Naturalmente non penso che nessun gay, messo di fronte all'alternativa se vivere a Tel Aviv o Gaza, nutrirebbe molti dubbi (come se i gay di Gaza avessero davvero questa scelta; e come se la loro priorità in questo momento fosse il matrimonio, e non il pane e le medicine); e tuttavia non credo che la tolleranza sia un valore assoluto piovuto dal cielo, che gli israeliani hanno e i palestinesi no; ritengo che dipenda fortemente da una serie di parametri tra i quali, fondamentali, la cultura e il benessere. Dove c'è benessere e cultura di solito i gay se la passano molto meglio. Ma la cultura e il benessere di Tel Aviv e in generale di Israele sono in parte basati sullo sfruttamento delle risorse di Gaza e della Cisgiordania. Troppo comodo accusare i palestinesi di oscurantismo a pancia piena.

E comunque nemmeno il benessere israeliano si può dare per scontato. Il Paese si dibatte in una crisi economica decennale, la corruzione è endemica, e la militarizzazione del conflitto è anche una risposta a queste tensioni. Israele non è il Paese laico che molti credono, ma non è nemmeno una teocrazia di fanatici. Eppure chi ha visto almeno una volta i coloni di Hebron o gli ortodossi di Mea Sharim sa che l'integralismo ebraico esiste, è già una forza elettorale con cui i governi devono fare i conti, e ha margini di crescita.


7. Sofisma benaltrista, o dell'"indignazione selettiva"
Prima o poi arriva quello che ti chiede: perché parli solo di Israele? Dov'eri quando uccidevano i cristiani nel Darfour? I Tutsi in Ruanda? I palestinesi, però in Giordania? Com'è che salti fuori sempre e solo quando si tratta di Israele? Pacifista a senso unico! Indignato selettivo! Ecc.

Questo è un sofisma solo in parte. È vero che il conflitto israelo-palestinese ha una copertura diversa dagli altri. È vero che ha sempre coinvolto noi italiani più che altri. Ci sono ragioni storiche e culturali perché questo avviene (una vicinanza particolare con la cultura araba, un senso di colpa nei confronti della nostra comunità ebraica, ecc.); ciò non toglie chi si ricorda delle guerre soltanto quando le fa Israele possa risultare fastidioso. Resta tuttavia un argomento ad personam: anche se parlassi solo di Israele, non merito di essere giudicato per quello che dico in quel momento? Di quanti conflitti devo aver parlato prima di avere il diritto di parlare di quello di Israele? O il senso è che devo stare zitto e lasciar parlare i professionisti? In pratica non si deve parlare di Israele su un blog, a meno che non sia un blog di politica estera.

(Ora rispondo per me:) Questo non è un blog di politica estera. È un sito un po' generalista con qualche interesse un po' più specifico: il movimento dei movimenti (quando si muoveva), la scuola italiana, il pd, i fatti miei. Di solito cerco di scrivere cose originali, e difficilmente potrei concepirne di originali su Darfour e Tibet. Raramente mi metto a scrivere di guerre e di stragi. Ma in tutta coscienza, se dopodomani gli uzbeki cominciassero a bombardare i kazaki a tappeto, e su internet e su blog e quotidiani io trovassi una lunga serie di complimenti ai saggi uzbeki che hanno fatto bene a bombardare i kazaki che li minacciavano nella loro stessa esistenza... probabilmente m'interesserei alla storia, la studierei, cercherei di capire perché il mio giudizio sulla vicenda mi sembra tanto diverso da quello degli altri, e alla fine ne scriverei. Ovvero: non è Israele il punto qui. Se volete sapere cosa succede in Israele leggete Haaretz, leggete il Guardian. Il punto qui è come gli italiani parlano di Israele. Ne parlano in un modo stranissimo, che m'incuriosisce e un po' mi spaventa, quando semplicemente non mi fa arrabbiare. Di questo sto parlando: della guerra no, non ho molto da dire, così come non avevo molto da dire sul Darfour.

8. Sofisma dei bambini morti
Questo è proprio passato di moda, per un motivo semplice. 
Si tratta di una forma particolare della mozione degli affetti in virtù della quale quando tu stai cercando di spiegare le ragioni di un conflitto, qualcuno ti replica postando la foto dell'ultima vittima delle autobombe – meglio in tenera età, e fotografata a cadavere non ancora ricomposto – con una didascalia che di solito dice: guarda cosa fanno i porci che tu difendi! Guarda! Guarda! E li difendi ancora? Allora Guarda ancora un po'! Guarda! Guarda! E forse un giorno capirai.

Io in realtà non ho mai capito perché la foto dovesse essere più convincente della semplice notizia: insomma, se sento alla radio che un autobomba ha straziato due bambine, dovrei essere abbastanza adulto da capire la gravità della cosa senza bisogno di un'immagine, no? Se dopo una notizia del genere non mi converto immediatamente alla Guerra al Terrore e continuo a concepire il conflitto israelo-palestinese come un fenomeno complesso, cosa potrà fare di più una foto sgranata?

Questa strana tendenza toccò il suo apice quando Al Zarqawi fece inquadrare il povero Nick Berg mentre lo decapitava, producendo il primo vero snuff video che ebbe un discreto successo in tv. Ebbene, in quell'occasione molti stimati opinionisti si comportarono come quel tuo amico delle medie che ti teneva la testa mentre ti faceva vedere Non aprite quella porta in vhs: Guarda! Devi guardare! Sennò non capisci! Sennò non sei uomo. Ricordo Antonio Polito:
Consigliamo a tutti di guardare il video della decapitazione dell'ostaggio americano, che circola su Internet. Bisogna guardare in faccia l'orrore, anche se non è degno dell'umanità degli occhi che lo guardano. Quella testa mozzata a fatica, con tutto il lavorio fisico che comporta, e il tempo che ci vuole, e l'abisso in cui sprofonda un po' alla volta, nella più odiosa delle torture, la vittima, è in fin dei conti la ragione per cui l'Occidente è in guerra con il terrorismo islamico.
[...]Pacifisti e antiamericani guardino quel video, poi decidano qual è il problema del mondo. 

Insomma, finché i pacifisti e gli antiamericani non avessero visto lo snuff, non avrebbero capito. Inutile ragionare. Bisogna guardare. Tutto, fino in fondo. Se non guardi sei una checc... no, volevo dire, se non guardi non puoi capire il problema del mondo.
Era il 2004: sulla tv in chiaro andavano forte i realities e le teste mozzate. In seguito entrambi i generi hanno perso molto smalto, e oggi è difficile trovare un morticino utilizzato a mo' di argomento. Forse anche perché i morticini di questi giorni sono tutti palestinesi, e quindi non sono convincenti: l'argomento funziona solo con le vittime israeliane e occidentali.
Detto questo, qualche foto di morticino qua e là l'ho vista – per esempio su beppegrillo.it. Io non le mostro: hanno senz'altro un valore documentario, ma non le considero un argomento. Mi piace pensare di avere a che fare con interlocutori che riescono a provare pietà per una persona senza bisogno di vederla martoriata in digitale.

(Ne avrei ancora parecchi, ma se preferite la pianto qui)
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5 sofismi su Israele

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Io non credo che ci sia nulla di male nel voler difendere Israele in una discussione. Il problema è il come. Tanti sedicenti avvocati della causa di Israele portano avanti i loro ragionamenti con una serie di argomenti fallaci (o sofismi) che mi fanno rabbrividire, e che finiscono per ottenere il risultato opposto: rendermi più sospettoso nei confronti degli israeliani. Molti dei quali resterebbero sconvolti, credo, leggendo certe castronerie con cui li si difende qui da noi. A volte sembra che il conflitto israelo-palestinese abbia una logica tutta sua, che funziona solo dal Giordano al mare, e che se provassimo ad applicare altrove (anche da noi) provocherebbe caos e distruzione nel giro di pochi minuti.

Col tempo ho finito per riconoscere alcuni di questi sofismi da lontano; tanto che a un certo punto ho pensato di fare cosa utile mettendoli in una lista, con tanto di sottolink. Sarà un pezzo un po' lungo, ma ne vale la pena se può risparmiarci lunghe e sterili discussioni in futuro. Un'avvertenza per gli studiosi di logica e retorica: in questo pezzo molte definizioni sono usate in modo popolare e improprio. Anche i sofismi, per esempio, non sono proprio tutti sofismi (alcuni credo siano tropi). Confido nel vostro perdono.

1. Mozione degli affetti.
Si parla di Israele e a un certo punto qualcuno sbotta: “se non sei israeliano non puoi capire”; oppure “se non hai amici israeliani non puoi capire”, o “se non sei stato laggiù”, “se non ti è morto nessuno in un bar”, “se non ti è mai piombato un razzo in casa”, “se non hai mai dovuto mandare i figli su autobus separati”, ecc. ecc.
Purtroppo l'affetto è un'arma a doppio taglio: chi scrive queste cose molto spesso mostra lacrime sincere. Ma non si rende conto (o finge di non sapere) che da qualche parte ci sono anche amici di palestinesi, e parenti delle loro vittime; forse che non sanguinano anche loro, eccetera?
Io diffido terribilmente dalla mozione degli affetti, che portata alle estreme conclusioni significa questo: solo le persone coinvolte davvero in una guerra o in un crimine hanno il diritto di parlarne. Sembra una cosa di buonsenso, e infatti lo era: al tempo dei regni barbarici. Ma persino i Barbari a un certo punto si sono resi conto che la giustizia non spetta alle vittime o ai parenti delle loro vittime, bensì a qualcuno che, proprio perché non è stato toccato negli affetti, può decidere con serenità e oggettività. Così è rinato il diritto. Oggi chi metterebbe il parente di una vittima nella giuria che giudica un presunto assassino? Sì, molti giornalisti italiani lo farebbero. Ma ogni volta che qualcuno ne parla, è come se proponesse una momentanea regressione al medioevo. Grazie, no. Paradossalmente, israeliani e palestinesi sono le persone meno in grado di discutere della loro guerra con oggettività e serenità. La loro rabbia e la loro disperazione sono comprensibili. Ma non ha senso scimmiottarle in una discussione.

2. Sofisma del "meno peggio"
“Sì, certo, Israele ha molti difetti, ma... non puoi metterla sullo stesso piano di Hamas”.
Non c'è dubbio che Israele sia meno peggio di Hamas. E figurarsi, io sono sempre stato un patito della formula del “meno peggio”. Ho sempre votato per il meno peggio e lavorato per il meno peggio. Ma attenzione: la tattica del meno peggio funziona solo a patto che il meno peggio di oggi sia peggiore di quello di domani. In Israele accade il contrario: ogni guerra aumenta il divario tra vittime israeliane e vittime palestinesi. Quello che era nato come conflitto tra popoli è diventato guerra di religione.
Il “meno peggio” diventa un sofisma quando viene usato per giustificare qualsiasi cosa: Israele può ammazzare cento palestinesi per ogni sua vittima perché... “è meno peggio”? Sicuri che lo sia ancora? Cosa dovrebbe fare, esattamente, per non esserlo più? Israele non si può criticare finché si macchierà di azioni appena appena meno peggio di quelle di Hamas?
Il sofisma del meno peggio è tra quelli che hanno senso solo se riferiti a Israele; prendi Arafat, ad esempio. Non c'è mai stato dubbio che fosse un interlocutore “meno peggio” di Hamas. E allora perché gli israeliani non hanno accettato di fare la pace con lui? Perché con lui la regola non valeva: era un palestinese.

3. Sofisma del “cratere”
Una variante del precedente, che ho letto anche di recente nei commenti. L'argomentazione più o meno è questa: “è vero che Israele sta facendo cose orribili, ma queste cose non sono niente rispetto a quelle che potrebbe fare grazie al suo potenziale militare”, (variante: “sono niente rispetto a quelle che col suo potenziale militare faremmo noi”). Da cui l'immagine dell'israeliano che si torce le mani perché potrebbe fare di Gaza un cratere in pochi secondi, e invece è costretto a sminarla casa per casa. Questo tipo di logica funziona solo nel conflitto arabo-israeliano: è una cosa folle. Qualsiasi strage può essere perdonata (ma solo agli israeliani) o almeno relativizzata, perché loro potrebbero farne anche di peggio. Ed effettivamente ne fanno sempre di peggio, ma finché non si arriva al cratere è ok.
Ma questa è esattamente la logica che porta al cratere.

4. Sofisma di UDdelMO
Non è un discepolo di Abelardo, ma una sigla che sta per "Unica Democrazia del Medio Oriente". Che sarebbe Israele, come notano i suoi fans un giorno sì e l'altro pure.
Ma scusate, e la Turchia? E non hanno avuto elezioni regolari i palestinesi? Ma anche se fosse: il fatto che gli israeliani abbiano un governo eletto democraticamente li autorizza a fare di Gaza quel che vogliono? La democrazia non è un valore assoluto: è solo un sistema di governo – il meno peggio, secondo qualcuno. Non è il governo dei buoni o dei bravi: è il governo dei più. È normale che difenda gli interessi dei più, in modo non necessariamente virtuoso o efficace.
Ciò che è buono per la maggioranza degli israeliani non è necessariamente giusto. Anche una maggioranza può avere torto. Già gli antichi avevano notato che in situazioni di emergenza la democrazia può essere controproducente: l'attuale crisi di Gaza non ci sarebbe stata se i partiti al governo a Gerusalemme non avessero sentito la necessità di mostrare al loro elettorato che sanno rispondere a Hamas colpo su colpo. Perché quando si dice che Israele sia una democrazia, si finge di non sapere quanti difetti abbiano le democrazie: necessità di compiacere piccoli partitini anche xenofobi, politiche clientelari, demagogia, corruzione (un avvicendamento tra Olmert e Netanyahu non è proprio il massimo che una democrazia possa augurarsi)...

Quando si passa alla Striscia di Gaza, il sofisma della democrazia viene totalmente capovolto. Ovvero: siccome la maggioranza dei palestinesi di Gaza ha votato per Hamas, sono tutti responsabili e quindi si meritano i bombardamenti. Ho capito bene? La democrazia dà a Israele il diritto di bombardare e a Gaza il diritto di prendersi le bombe. Uno che tentasse di argomentare il contrario (Hamas ha il diritto di bombardare perché ha vinto le elezioni, e se con un Qassam uccide un bimbo israeliano è ok, perché suo padre ha votato per Olmert) quanti punti antisemitismo totalizzerebbe? Non so, ma direi parecchi.

5. Sofisma della morte potenziale, o equazione Kissinger.
Questa andava molto forte ai tempi della Seconda Intifada. Già allora si diceva che i palestinesi “minacciassero l'esistenza dello Stato d'Israele”: poi però bastava contare le vittime per scoprire che morivano più dei loro nemici. Strano modo d'impostare un genocidio.
E tuttavia qualcuno non ha rinunciato a valorizzare le cifre dei caduti nel modo più filoisraeliano possibile. L'esempio classico (ma in Italia si leggevano cose del genere tutti i giorni sul Foglio) è quello di Henry Kissinger, che un giorno invece di dire “i palestinesi hanno fatto cinquanta morti israeliani in 3 giorni” affermò “gli attacchi suicidi hanno ucciso l'equivalente di 2500 americani in tre giorni”. Per ottenere una cifra di "2500 americani" Kissinger aveva moltiplicato le vittime degli attentati (50) per la popolazione degli USA (250 milioni) e diviso il tutto per la popolazione d'Israele (5 milioni). E si capisce che “l'equivalente di 2500 americani” suona peggio di “50 israeliani”; il problema è che non ne erano morti 2500, ne erano morti 50, c'è differenza. O no?
Chi decide di ragionare come Kissinger, grosso modo la pensa così: Israele è piccola e quindi ogni perdita è immensamente più preziosa. Anche questo ragionamento funziona solo con Israele: nessuno si sognerebbe mai di chiamare un morto palestinese “l'equivalente di 50 morti americani”.
L'equazione Kissinger contraddice anche il postulato dell'uguaglianza degli uomini, e lo sostituisce con un altro: tutte le nazioni, piccoli e grandi, hanno un tot di dignità che va diviso per il numero di abitanti. Il Liechtenstein, per esempio, ha trentamila abitanti: se ne ammazzi uno, ammazzi l'equivalente di diecimila cittadini americani: genocidio! Molto meglio sparare a un cinese, che è l'equivalente di un quarto di cittadino americano (una banale amputazione). Sì, sto scherzando. Ma c'è gente che queste cose le afferma davvero, in tutta serietà, senza accorgersene.

Oggi l'equazione Kissinger non va più per la maggiore, ma continuo a leggere conti stranissimi. Per esempio, siccome i Qassam facevano relativamente poche vittime (dico poche rispetto all'ecatombe che ne è seguita), invece di scrivere “Hamas questa settimana ha fatto due vittime”, mi è capitato di leggere: “Hamas sta prendendo a bersaglio duecentomila israeliani”, o addirittura “Hamas ha sotto tiro il dieci per cento della popolazione di Israele”. Coi Qassam. Così si sovrappone ad arte il numero dei veri caduti col numero dei caduti che i palestinesi potrebbero fare se avessero infinite munizioni e infinito tempo a disposizione. Naturalmente questa logica è applicabile soltanto ai nemici di Israele.

Continua...
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(e non del tutto sbagliate)

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Otto idee su Hamas, non del tutto giuste

1. È Hamas che ha rotto la tregua
Le tregue sono fatte per rompersi, per definizione. In particolare quella stabilita tra Hamas e Israele non è stata rotta: è stata rispettata (male) da entrambe le parti fino alla scadenza prevista. Dopodiché né Hamas né Israele hanno proposto di rinnovarla, e i bombardamenti sono ripresi: a quel punto i razzi di Hamas hanno fatto una mezza dozzina di morti, gli elicotteri israeliani più di quattrocento. Chi sostiene che l'operazione “Piombo fuso” è stata lanciata da Israele soltanto dopo che Hamas aveva ripreso le ostilità, racconta una versione più filoisraeliana dello stesso Israele: Barak, il Ministro della Difesa, ha ammesso che l'operazione è stata pianificata sei mesi fa. Del resto il tempismo è perfetto per mettere davanti a un fatto compiuto il Presidente Obama, che arriverà alla Casa Bianca solo a fine mese: se per allora la questione Hamas fosse archiviata, nessuno si lamenterà troppo del sangue sparso.

2. Hamas considera i civili israeliani dei bersagli e i civili palestinesi degli ostaggi

Sì; ma Israele non è da meno, e le cifre del bombardamento della scorsa settimana lo dimostrano. Chi ha un minimo di dimestichezza col conflitto israelo-palestinese dal '48 a oggi, e soprattutto dall'inizio della Prima Intifada negli anni Ottanta, sa che questa è una guerra civile, in cui il coinvolgimento di civili da entrambe le parti non è un un effetto collaterale, ma il senso del conflitto. Non si fronteggiano due eserciti, ma due popoli e (almeno dagli anni Novanta) due religioni. Non è una guerra fatta soltanto di combattimenti e attentati; è fatta di espropriazioni di terra e acqua, di insediamenti di popolazione, di demolizioni e di recinzioni. Il confine tra eserciti regolari e bande armate era molto sfumato sin dalla guerra del 1948, e lo è rimasto fino a oggi: da entrambe le parti. In particolare l'uso che Israele fa dei coloni nei Territori Occupati è un simbolo di questa ambiguità: i coloni sono civili che girano armati ed espropriano le risorse dei palestinesi. Perché Hamas non avrebbe dovuto considerarli obiettivi militari, alla stessa stregua di quei ragazzini che indossano l'uniforme dell'esercito? Mesi fa Hamas propose di non bombardare più bersagli civili se Israele avesse fatto lo stesso. Probabilmente era un bluff: in ogni caso Israele non lo andò a vedere.

3. Hamas vuole cancellare lo Stato di Israele dalle carte
.
Sì, perché lo considera l'“entità sionista”, uno Stato costituito sull'identità etnico-religiosa ebraica. Il piano di Hamas per la Palestina è speculare: uno Stato costituito sull'identità etnico-religiosa islamica. Il che ci pone un problema, o almeno lo pone a me: per quel che ho capito, infatti, Israele è veramente uno Stato costituito sull'identità etnico-religiosa ebraica – che invece di stemperarsi, negli ultimi anni è diventata più forte. Dunque perché fondare uno Stato ebraico in Palestina è ammissibile, e fondarne uno islamico no? Di solito le risposte che leggo sono le seguenti:
  • perché gli ebrei meritavano un risarcimento per la Shoah (sì, ma perché a spese dei palestinesi? Non ci toccherà poi di risarcire questi ultimi a spese di qualcun altro ancora?);
  • perché il mondo è pieno di Stati islamici, mentre uno Stato ebraico mancava (sì, ma io preferirei fare a meno di tutti gli Stati fondati su criteri etnico-religiosi, perché ritengo che il destino di Stati siffatti sia la guerra religiosa ed etnica per l'accaparramento delle risorse);
  • perché Israele è disposto ad accettare anche cittadini arabi (ma non tutti, perché nel giro di una generazione diventerebbero la maggioranza: questo è il motivo per cui Sharon si ritirò da Gaza); in ogni caso anche i membri di Hamas prevedono di accettare cittadini di fede ebraica nel loro futuro Stato Islamico;
  • perché Israele è disposto alla creazione di uno Stato Palestinese, ma Hamas non vuole scendere a patti. Questo è falso due volte; non è vero (1) che Hamas non abbia mai voluto scendere a patti: ci sono esponenti di Hamas che si sono detti favorevoli alla spartizione secondo i confini del '67. Se Israele avesse veramente voluto arrivare a una soluzione, avrebbe dialogato con loro, e non lo ha fatto. Ma in generale, non è vero (2) che i governi israeliani siano disposti alla nascita di uno Stato Palestinese, altrimenti quello Stato sarebbe già stato proclamato ai tempi di Arafat. Ma Arafat non andava bene; poi non è andato bene Abu Mazen; e sicuramente non poteva andare bene Hamas. I governanti di Israele sono riusciti a procrastinare la nascita dello Stato di Palestina per tutti questi anni, e nulla m'impedisce di pensare che il loro obiettivo sia di proseguire quest'opera di proscrastinazione all'infinito. Naturalmente spero di sbagliarmi, ma questa vecchia intervista al braccio destro di Sharon continua a sembrarmi attuale.
4. Hamas è antisemita
Sì. Le dichiarazioni antisemite da parte degli esponenti di Hamas si sono sprecate: non le linco perché sono veramente le più facili da trovare in rete. Anche lo Statuto ne contiene parecchi: ma chissà se i ragazzini perdono tempo a leggerlo. Anche perché è un documento contraddittorio: in certi passi sembra suggerire la necessità di eliminare tutti gli Ebrei (ma solo alla fine dei tempi), in altri si rifà al concetto di tolleranza coranica che è stato alla base della convivenza più o meno pacifica tra musulmani ed ebrei di Palestina per 13 secoli.
Perché quest'ambiguità? Perché Hamas è un movimento religioso, che si rifà a un Testo Sacro, e i Testi Sacri sono ambigui: anche nella Bibbia si legge forte e chiaro di un Dio sterminatore dei nemici di Israele, e perfino il messaggio evangelico contiene l'idea che tutto il mondo debba essere cristianizzato prima della fine dei tempi.

5. Hamas vuole sterminare gli ebrei di Israele.
No. La prospettiva del genocidio (oltre a essere oggettivamente ridicola, per l'evidente sproporzione dei mezzi), per quanto ho potuto leggere non è contemplata dagli esponenti di Hamas. La loro idea di togliere dalla cartina lo Stato di Israele, non implica lo sterminio degli ebrei che lo popolano. Si veda lo Statuto (art. 31):

Il Movimento di Resistenza Islamico è un movimento umanistico. Si occupa dei diritti umani, e si impegna a mantenere la tolleranza islamica nei confronti dei seguaci di altre religioni. È ostile solo a coloro che mostrano ostilità nei riguardi dell’islam, si mettono di traverso al suo cammino per arrestarlo o ostacolano i suoi sforzi. All’ombra dell’islam, è possibile ai seguaci delle tre religioni – islam, cristianesimo ed ebraismo – coesistere in pace e sicurezza. Anzi, pace e sicurezza sono possibili solo all’ombra dell’islam, e la storia antica e quella recente sono le migliori testimoni di questa verità. [...] L’islam concede a ciascuno i suoi diritti, e impedisce l’aggressione contro i diritti degli altri.

E la dichiarazione di Khalid Mish'al all'indomani della vittoria elettorale a Gaza (gennaio 2006, traduzione mia):

Il nostro messaggio agli israeliani è questo: noi non vi combattiamo perché appartenete a una certa fede o cultura. Gli ebrei hanno vissuto nel mondo musulmano per 13 secoli in pace e armonia; sono per la nostra religione "il popolo del Libro", che hanno un'alleanza con Dio e col suo messaggero Maometto (sia lodato) che deve essere protetta e rispettata. Il nostro conflitto contro di voi non è religioso, ma politico. Non abbiamo problemi con gli ebrei che non ci hanno attaccato, ma solo con quelli che sono arrivati nella nostra terra e si sono imposti con la forza, distruggendo la nostra società e bendendo il nostro popolo.
Noi non riconosceremo mai il diritto di nessun potere di derubare la nostra terra e negare i nostri diritti nazionali. Non riconosceremo mai la legittimità di uno Stato sionista creato sul nostro suolo per espiare i peccati o di qualcun altro, o per risolvere i problemi altrui. Ma se volete accettare i principi di una tregua a lungo termine, noi siamo pronti a negoziarne i termini. Hamas tende una mano di pace a coloro che sono realmente interessati a una pace basata sulla giustizia.

Chi sostiene la tesi di Hamas genocida, oltre ai deliri antisemiti di diversi esponenti, si rifà all'Articolo 7 dello Statuto, dove si cita un Hadith di Maometto:

Il Profeta – le preghiere e la pace di Allah siano con Lui – dichiarò: “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo; ma l’albero di Cedro non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei
.

La guerra tra ebrei e musulmani, quindi, è destinata a durare fino all'ultimo giorno (ecco perché Hamas non può parlare di "pace" con Israele, ma solo di "tregua a lungo termine"), quando si salveranno soltanto gli ebrei dietro all'albero del cedro. Hamas però non è un movimento millenarista, non intende accelerare la fine dei tempi, e nel frattempo è disposta ad accogliere cittadini ebraici in una Palestina islamica, secondo i precetti di tolleranza previsti dal Corano.

6. Hamas è finanziata dall'Iran
Sì, quasi pubblicamente. Quando l'Europa ha bloccato i finanziamenti alla Striscia di Gaza, l'Iran si è fatto avanti. In realtà però Gaza è un recinto chiuso su tre lati da Israele e per il quarto dall'Egitto di Mubarak, che ha già fatto capire che non muoverà un dito per aiutare un movimento fondamentalista come Hamas. E quindi le possibilità concrete di ricevere rifornimenti di munizioni dall'Iran, attraverso i cunicoli scavati sotto il passo di Rafah, sono comunque molto limitate, e Hamas continua a fare la guerra coi Qassam e i vecchi Katiuscia. C'è una grande differenza tra le limitate capacità militari di Hamas e quelle degli Hezbollah libanesi, quelli sì riforniti abbondantemente dagli iraniani, che due anni fa seppero tener testa all'esercito israeliano.
Dunque sì, l'Iran per quanto può aiuterà, ma non è che possa molto. E allora perché si insiste tanto sulla sua complicità? Perché proprio l'Iran e non tutti i finanziatori occulti che dagli Stati arabi pompano denaro nelle casse di Hamas via fratellanza musulmana? Perché qualcuno ha deciso che il prossimo nemico è l'Iran, e quindi ora bisogna concentrarsi sul concetto di Ahmadinejad cattivo. Esattamente come sei anni fa era indispensabile focalizzarsi sul concetto di Armi di Distruzione di Massa. Quella era una grande bugia, mentre “Ahmadinejad cattivo” è solo una mezza verità: è assai probabile che finanzi e armi Hamas, ma non in modo determinante.

7. I palestinesi che hanno votato per Hamas sapevano cosa facevano. ...E quindi, mi par di capire, non si fa peccato a sterminarli. Ah, il fardello dell'uomo bianco.
I palestinesi, in particolare quelli che hanno passato la loro vita confinati nella Striscia di Gaza, sono giovanissimi, per la stragrande maggioranza disoccupati e poveri, e non possono disporre dei mezzi che in una democrazia occidentale consentono o dovrebbero consentire agli elettori di formare un giudizio equilibrato. Ci vuole un'ingenuità terribile per sovrapporre le dinamiche di una democrazia occidentale a quelle dell'universo concentrazionario di Gaza. Hamas ha vinto perché, in una situazione d'emergenza dove si vive alla giornata, ha dimostrato di avere capi meno corrotti, e soprattutto più risorse da distribuire, rispetto ad Al Fatah. Israele poteva in quell'occasione dimostrarsi pronto a una pace generosa con Al Fatah; questo forse avrebbe potuto far pendere la bilancia della simpatia popolare sul partito laico; ma i suoi governanti hanno deciso altrimenti. Del resto la trasformazione di un popolo in un movimento islamico con la certificazione internazionale di terrorismo ha portato agli israeliani almeno un vantaggio: oggi si bombarda Gaza a cuore più leggero rispetto a qualche anno fa.

8. Tu scrivi queste cose perché sei un sostenitore di Hamas
No, in nessun modo. Le poche iniziative di solidarietà per il popolo palestinese a cui ho partecipato erano organizzate col sostegno dell'OLP e dell'ANP. Nello stesso periodo ho visto chi, in Italia e in Palestina, lavorava per screditare la leadership di Arafat e per consegnare il voto dei giovani palestinesi a Hamas. Credo che la vittoria elettorale di Hamas a Gaza sia stata per quest'ultima la sciagura definitiva. Ma sui blog e perfino su alcuni quotidiani italiani ho letto tante castronerie e facili semplificazioni, al punto che a volte ho la sensazione che gli israeliani siano più equilibrati.
Il conflitto israelo-palestinese è di una complessità strabiliante, e credo che molti blog si siano fatti filo-israeliani per reazione a tutta questa complessità: ci si aspetta sempre che un leader israeliano estragga lo spadone con cui va reciso virilmente il nodo gordiano e risolto una volta per tutte il problema, e nel frattempo si riempie qualche paginetta web con appassionate apologie di strage che tra 50 anni i loro nipoti magari leggeranno dicendosi: eccola qui, la banalità del male.
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Certi Hussein sono più uguali di altri

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Trova l'errore

“Se qualcuno tirasse razzi nella casa dove le mie figlie dormono di notte, farei qualsiasi cosa per impedirglielo”.

Questo lo ha detto Barack Obama, quest'estate. E in quel momento era uguale a tutti noi. Chi non farebbe qualsiasi cosa per salvare le figlie.

Ma poi ha aggiunto: “...e mi aspetto che Israele faccia la stessa cosa”, perché era a Sderot, Israele, dove arrivano i razzi di Hamas che non precipitano prima sui palestinesi stessi: e aveva un elettorato ebraico da conquistare in casa, oltre a quel fastidioso secondo nome, Hussein, da far dimenticare; per cui è comprensibile, perfino perdonabile, che Obama abbia detto così.

E tuttavia in quel momento ha smesso di essere tutti noi, per concentrarsi su alcuni: gli israeliani. Con tutti i loro meriti e le loro colpe su cui non voglio annoiarvi stasera. Stasera vorrei solo riproporvi la stessa bellissima frase da un'angolazione appena diversa. Sentite:

“Se qualcuno tirasse razzi nella casa dove le mie figlie dormono di notte, farei qualsiasi cosa per impedirglielo”

Fin qui è uguale, e sacrosanto. Ma adesso provo ad aggiungere:

“...e mi aspetto che i palestinesi facciano la stessa cosa”.

Incredibile, no? La stessa frase: se leggi “Israele” ti votano Uomo più Potente del Mondo; se leggi “i palestinesi”, rischi una denuncia per apologia di terrorismo.

Mettiti nei panni di un palestinese qualsiasi, della stessa età di Obama, con due figlie come lui. Possiamo anche dargli lo stesso nome, Hussein. E quindi, Hussein, se qualcuno tirasse razzi alle tue bambine, tu avresti il diritto di fare qualsiasi cosa? Evidentemente no.

In effetti, c'è ben poco che potresti fare: la striscia di Gaza è una trappola di 50 chilometri per otto, chiusa su tre lati da Israele e dall'Egitto sul quarto, con la più alta densità di popolazione al mondo. Se uno Stato potente pianifica di bombardarti (Barak ha ammesso che il piano del bombardamento è di sei mesi fa), in modo massiccio, nell'ora in cui le tue figlie escono da scuola, tu cosa puoi fare? Hussein Obama farebbe qualsiasi cosa, ma tu, Hussein Qualunque?

Tu te la dovresti prendere con Hamas, certo, che ha contribuito a fare della Striscia di Gaza il recinto dei polli dei politici israeliani: quelli che in campagna elettorale vengono poi a mostrare quanto son bravi a tirarvi il collo. Ecco, sì, da occidentale abbastanza informato mi sento di dirtelo: dovresti prenderla con Hamas, Hussein.
Ma tu non mi puoi mica sentire, non ci sono giornali né luce né telefono; tutte cose che forse ti renderebbero più facile informarti e capire il gioco che Hamas e israeliani fanno con la tua pelle; e anche ammesso che tu l'abbia capito ugualmente, forse la guerra civile contro Hamas l'hai già combattuta e persa l'anno scorso, perché eri dell'Olp; e in ogni caso prendertela contro chi governa la tua disperazione servirà in qualche modo a mantenere più sicure le tue figlie? No, al contrario. E allora? Hussein Obama farebbe qualsiasi cosa, ma tu?

Tu non ne hai diritto. Gli israeliani possono buttare bombe nel recinto e ammazzarne altri trecento, tanto siete più di un milione: questo probabilmente rientra ancora nel “qualsiasi cosa” previsto da Obama. E tu?
Tu corri verso casa a perdifiato perché ti hanno detto che la scuola è andata a fuoco; sul portone ti inginocchi e ringrazi il Dio misericordioso, perché le hai sentite da dentro, sono salve anche stavolta: ed entrando la preghiera appena mandata giù ti si blocca nello stomaco, perché le sorprendi in camera mentre si stanno provando una pettorina, di quelle che hai visto altre cento volte, quelle da riempire di esplosivi.

E non farci la predica, papà Hussein. Se dobbiamo morire, almeno sia per difenderti. Lo sai che per te faremmo qualsiasi cosa.

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Questo non è un muro

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...ricapitolando:

- prima dice che Gerusalemme è indivisibile. E' un punto di vista.

- Poi lascia intendere che si potrebbe anche dividere. Anche questo è un punto di vista.

- Poi infiamma i berlinesi (tipi volubili) con un commovente discorso in cui propone di Tirare Giù I Muri. Ma proprio Tutti. Che per carità, è un punto di vista fantastico.

Mi resta la curiosità: tra Gerusalemme-Palestina e Gerusalemme-Israele cosa crede che ci metteranno, una bella aiola fiorita?

(Quello nella foto comunque non è un muro; infatti la denominazione corretta è: barriera difensiva).
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O pace o deserto

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Apro Repubblica e leggo:

Obama ai palestinesi: sarà pace


E subito penso: wow, forte Obama. Poi leggo meglio:

Obama ai palestinesi: sarà pace
'Israele, Gerusalemme capitale'

E comincio a pormi il problema. Perché, ecco, magari il lettore medio di Repubblica non lo sa (e non ha il dovere di saperlo - anzi forse ha il diritto di non saperlo già), ma quelle due frasi lì non potrebbero stare insieme. E' come se la prima dicesse: Bianco, e la seconda: Nero. In effetti la prima dice: "Pace". La seconda magari non ne ha l'aria, ma dice: "Guerra". Mi dispiace, davvero, non credo che Obama sia una cattiva persona, ma dice così.

A questo punto bisogna spiegare cosa c'è di sbagliato nell'indicare Gerusalemme Capitale. Gerusalemme è già la capitale di Israele, no? Non proprio. Cioè: per gli israeliani sì. Gerusalemme è la capitale israeliana "complete and united" per legge, dal 1980. Ma l'Onu, che per la città aveva altri piani, considera quella legge una violazione del diritto internazionale. Di fatto, le ambasciate risiedono a Tel Aviv. Nessun Paese membro dell'Onu, a parte Israele, riconosce alla città santa lo status di capitale israeliana. Nemmeno gli Stati Uniti di George Malvagio Bush. Finché un giorno arriva Obama. Incontra i palestinesi. E gli dice quel che ha detto. Chissà i salti di gioia a Ramallah.

Ma poi l'avrà detto davvero? E' estate, fa caldo, può darsi che l'istintivo entusiasmo per Obama abbia giocato un brutto tiro all'articolista, vediamo. Scorro l'articolo e ci capisco meno di prima. E sono uno che un po' di Medio Oriente lo mastico, figuratevi il lettore digiuno. Giudicate voi.
Sul futuro di Gerusalemme il senatore dell'Illinois ha però precisato: "Quello di capitale è uno status finale che dovrà essere deciso dai negoziati e in accordo con i palestinesi. La comunità internazionale, inclusi gli Usa, non riconosce la rivendicazione israeliana di Gerusalemme come sua 'eterna e indivisa capitale'"
Se ho capito bene: Capitale sì, Unita e Indivisibile no. Ecco, questo rappresenta una cauta apertura alla Palestina, o almeno ad Al Fatah, che ha sempre reclamato Gerusalemme Est come capitale del futuro Stato palestinese. La dichiarazione è importante soprattutto se si confronta con una di Obama di inizio giugno, in cui Gerusalemme era considerata non solo capitale israeliana, ma anche unita e indivisibile. A questo livello, un palestinese moderato come Abu Mazen può ritenersi persino ottimista per il solo fatto che Obama sia andato a trovarlo a Ramallah - anche perché l'alternativa è un McCain che con i palestinesi nemmeno ci vuole parlare; poi bisognerebbe anche verificare quanti palestinesi ancora si sentano rappresentati da un moderato come Abu Mazen, dopo vent'anni di prese in giro: ma è un altro discorso.
Torniamo alla dichiarazione di Obama. Ce la leggo soltanto io, tra le righe, una certa arroganza? Da una parte il candidato sa già dove vuole arrivare: Gerusalemme Centro agli israeliani, e Ger. est ai palestinesi. Però, attenzione, quello è solo lo "status finale" a cui arrivare dopo tanti negoziati. Come a dire: discutete pure, basta che alla fine si arrivi alla conclusione che ho proposto io. In pratica si chiede ad Abu Mazen (e solo a lui: se Hamas vince di nuovo le elezioni, ciccia) di star seduto, stringer la mano al premier israeliano di turno e sorridere per altri 2-3 anni, per arrivare a un risultato che magari i consulenti di Obama hanno già messo nero su bianco in un dossier.

D'altro canto è abbastanza ingenuo leggere una dichiarazione così dal punto di vista dei palestinesi. In questo momento piacere ad Abu Mazen è l'ultimo problema di Obama. Il dieci per cento dell'elettorato americano dà l'impressione di credere alle storie che lo dipingono come un musulmano travestito da cristiano. In una situazione del genere un viaggio in Israele gli serve soprattutto per mettere una solida pietra sui pettegolezzi, per farsi inquadrare con la quippah in testa, per rassicurare gli israeliani, e soprattutto gli americani che a Israele ci tengono. Che poi ci possa scappare una cauta apertura ad Abu Mazen, è quasi miracoloso. Insomma, la dichiarazione di Obama vuol dir poco, ma poco è meglio di niente.

Forse, più che la dichiarazione, il problema è l'articolo che ci sta intorno; e ancora più dell'articolo, il titolo che ci sta sopra. Quando si critica il messianismo di Obama, si intendono casi come questi: non c'è un politico al mondo che a proposito della Palestina non si sia riempito la bocca della parola "pace". Ma se lo dice Obama, sembra che "pace" da parola debba diventare al più presto realtà. Obama dice "pace", e improvvisamente i palestinesi smettono di avere motivi per farsi esplodere o dirottare i bulldozer. Conta poco o niente che la "pace" proposta da Obama risulti alla maggior parte degli abitanti dei Territori un ultimatum inaccettabile; l'importante è accreditare Obama come uomo nuovo in possesso di soluzioni. Anche se a ben vedere sono soluzioni che rischiano di sorpassare a destra quelle di Bush. Ma Bush è il passato: Obama è il nuovo, e ciò che è nuovo è buono.
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PornoGeoPolitica

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Verso il Romistan

Se poi mi chiedete del mio amico Arci – in effetti è parecchio che non se ne sente parlare – beh, se la passa alla grande. Una qualche agenzia interinale ha mandato per sbaglio il suo curriculum di inventore pazzo e psicotico all'Ufficio del Personale di una superpotenza mondiale, una a caso, e adesso è da qualche parte in un ufficio con l'aria condizionata a cospirare contro la Pace Universale. Valà che sotto sotto lo invidiate.

“Signori, bando ai preamboli. L'oggetto di questa riunione è il solito: si tratta di scatenare un conflitto regionale che faccia perdere tempo e risorse ai nostri competitori, magari attraverso la strumentalizzazione di qualche minoranza etnica indifesa. Mi pare che tocchi al sig. Arci”.
“Signori, signore, grazie sin d'ora per l'attenzione. La mia proposta di azione prevede il coinvolgimento dei Rom, un'etnia di origine indiana che vive in molti Paesi europei, talvolta ancora in stato seminomade. Vedi slide. I Rom sono stati oggetto di vari tentativi di assimilizzazione forzata e veri e propri pogrom, dal medioevo fino alla seconda guerra mondiale, quando i nazisti ne sterminarono mezzo milione. Oggi sono un'etnia in via di integrazione in tutti i Paesi dell'Europa occidentale, tranne l'Italia”.
“L'Italia è in Europa Occidentale?”
“Ancora per qualche tempo, sì. In Italia vive una cospicua minoranza Rom, che non ha i diritti civili e vive in condizioni di miseria senza paragoni. La loro aspettativa media di vita è quasi la metà di quella degli italiani autoctoni. Gran parte dei bambini non frequenta la scuola”.
“Ma chi l'avrebbe detto... voglio dire... gli italiani sembrano brave persone”.
“L'errore storico è precisamente questo: fare affidamento su un'astratta idea di “bontà” invece che su normative concrete. Gli italiani non sono un popolo feroce, ma non si sono mai preoccupati di dare la cittadinanza a chi vive sul proprio suolo. Ci sono Rom di terza o quarta generazione che non sono ancora cittadini: non hanno diritti, e nemmeno doveri. Il sospetto è che siano più utili come capri espiatori che come cittadini”.
“Ho capito: quando c'è crisi si fa la caccia al Rom. Come da noi, giù in....”
“In effetti i tempi sembrano maturi. Man mano che l'Italia scivola in una crisi strutturale, le leggende urbane sui Rom aumentano, propalate ad arte anche dalla stampa. Qualche campo nomadi brucia già e a Bruxelles qualche eurodeputato ha proposto di creare il reato di associazione famigliare Rom – o qualcosa del genere. Le mie proiezioni danno i primi pogrom seri tra 14 mesi solari”.
“Va bene, ma noi cosa c'entriamo? Mica operiamo per salvare i derelitti, noi”.
“Ci stavo giusto arrivando. Il problema dei Rom in Italia presenta connotati molto interessanti. I Rom si definiscono una nazione, ma in pratica sono apolidi. Alcuni dei loro rappresentanti si battono per trasformare questo paradosso in uno status giuridico. La mia proposta è di lanciare sul tavolo della trattativa una proposta ben più radicale: il Focolare Nazionale Rom”.
“FNR suona malissimo”.
“La sigla la possiamo cambiare. Ma insomma, la sostanza è la seguente: dopo le prime vere stragi, previste più o meno per l'estate '09, alcuni intellettuali Rom – opportunamente istruiti da noi – dovrebbero cominciare a diffondere l'idea che i Rom abbiano il diritto a un loro Stato, come tutti gli altri popoli sovrani”.
“Comincio a capire”.
“Questa idea affascinerà molti italiani, specie se hanno ancora le mani sporche di sangue dello zingaro sottocasa. In un colpo solo si liberano sia dei superstiti che dei sensi di colpa”.
“Geniale. Bisognava pensarci prima. Però...”
“Dove la mettiamo questa nazione? Ci ho pensato già io. In Italia assolutamente no, ci mancherebbe. Più lontano è meglio è”.
“Eh, ma non è mica tanto semplice. Bisogna cercare un posto con acqua e terra per milioni di persone, ma disabitato... non credo ce ne siano”.
“Signori, a volte mi pare che dimentichiate di essere persone fondamentalmente malvagie. Chi ha detto che occorre trovare un posto fertile? Una distesa di sassi andrà bene ugualmente, basta vendergliela come terra del latte e del miele”.
“Già, giusto”.
“E non è nemmeno necessario che sia disabitata – basta spazzare via quelli che ci abitano già. Ovviamente venderemo armi sia ai Rom che ai loro ospiti, per fair play”.
“Mi piace, mi piace”.
“Insomma, l'ideale è una terra aspra, già contesa tra qualche nazione importante, e con qualche risorsa che potrebbe interessare anche a noi che possiamo pagare in armi. Una terra così, concorderete, non è così difficile da trovare. Ma non bisogna dimenticare l'aspetto culturale – dev'essere un posto in cui i Rom siano già stati, magari qualche migliaio di anni fa, di modo che possa essere venduta come “la culla dei Rom”. Anche questo non è così difficile, visto che sono stati praticamente dappertutto. La mia proposta, comunque, è il Kashmir. Per almeno quattro motivi”.
“Numero uno...”
“I Rom provengono dall'India settentrionale. Pare che Rom derivi dal sanscrito ड़ोमब, pensate. Il Kashmir è più o meno da quelle parti. Qualche ritocco alle enciclopedie on line e ai libri sacri, e vedrete che non sarà difficile ribattezzare i Rom come “Popolo dei Kashmir”. Oppure potremmo ribattezzare il Kashmir: che ne dite di Romistan? Vabbè, a questi dettagli ci pensiamo dopo”.
“Numero due...”
“Risorse naturali. La seconda riserva d'acqua dolce mondiale. Non c'è bisogno che vi dica quanto sarà importante l'acqua nei prossimi cinquant'anni. Se la nazione che rappresentiamo diventa l'avvocato dei Rom in sede internazionale, buona parte di quell'acqua sarà nostra”.
“Per tacere della lana pregiata. Numero Tre...”
“Proprio a causa dell'acqua, e per patetiche beghe di irredentismo e rivincite a cricket, il Kashmir è oggi una terra già contesa da due potenze regionali nostre concorrenti, l'India e il Pakistan. Entrambe sono potenze nucleari, quindi sarà un atto umanitario offrire alla Nazione Rom del Kashmir la bomba atomica. Et voilà, ecco che per motivi umanitari abbiamo piazzato una nostra piazzaforte atomica in mezzo all'Asia”.
“Ma insomma, davvero lei si aspetta che India e Pakistan ci diano una striscia di Kashmir per un'altra etnia?”
“Bisognerà operare con una certa prudenza, all'inizio. Per esempio: si va dai pakistani (o dagli indiani, a scelta) con la proposta di ottenere dal Consiglio di Sicurezza Onu tutto il Kashmir... se accettano di ospitare il Focolare Nazionale Rom (capite anche voi che all'inizio “focolare” suona meglio). I pakistani, che al momento ne occupano solo 1/3, accettano, sperando di ottenere dall'Onu che l'India ceda gli altri 2/3. Questo potrebbe anche non accadere mai, ma nel frattempo cominciano ad arrivare i Rom, armati da noi e dagli italiani che hanno tanti sensi di colpa e armi da vendere”.
“Ma non hanno l'aria di un popolo bellicoso”.
“Gli insegneremo. Insomma, da cosa nasce cosa, a un dato momento i Rom iniziano a sparacchiare agli autoctoni. Gli autoctoni rispondono – è guerriglia. A questo punto i Rom dichiarano unilateralmente lo Stato del Romistan, noi lo riconosciamo, gli italiani pure... il gioco è fatto”.
“Ma non è un po' temerario... voglio dire... creando una piccola nazione su base etnica in una regione schiacciata tra due potenze regionali... non rischiamo di creare uno stato di guerriglia permanente?”
“Questa era il Motivo Numero Quattro, appunto”.
“Rimane da risolvere il problema di quelli che nel Kashmir ci abitano già”.
“Ma signori, noi non siamo qui per risolvere i problemi, noi siamo qui per trasformarli in problemi nuovi, più adatti al Nuovo Millennio. Gli abitanti del Kashmir oggi si sentono un po' indiani un po' pakistani – quando il Romistan avrà firmato la pace separata con entrambe le nazioni, non saranno né paki né indù. Non saranno più nulla. Potranno essere assimilati dai Rom”.
“E sei Rom non volessero?”
“Nascerà un altro minuscolo movimento nazionalista, per la gioia dei venditori di spillette, di foulard e di armi. Continueranno a fare la loro guerricciola per 60 anni, emozionando qualche intellettuale europeo, e alla fine magari otterranno qualche striscia di terra anche loro. Oppure li trapiantiamo tutti in un'altra regione ricca di risorse interessanti – non so, la Cecenia – e il gioco continua. Che ne dite?”
“Mah. Non credo di avere mai sentito una proposta geopolitica più insensata e criminale di questa. Dico, è incredibile”.
“Troppo buono”.
“Voglio dire, com'è che nessuno ci ha mai pensato prima?”
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Israele va alla Fiera

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L'ospite difficile

Invitato come Ospite d'Onore presso la fiera del libro di una città al di là del mare, lo Stato d'Israele ebbe qualche difficoltà a prenotare un volo in business. Siccome i posti sul corridoio (che tradizionalmente prediligeva) erano già tutti prenotati, si rassegnò a un posto con il finestrino, perché in fin dei conti lo Stato d'Israele nei casi di difficoltà si comporta esattamente come chiunque altro: si adatta.
Però a tutto c'è un limite, e decisamente quel signore barbuto e sudato che a pochi minuti dal decollo si piantò davanti a lui blaterando insulti incomprensibili lo stava oltrepassando. Dai suoi insulti, e dai mugugni dei vicini passeggeri che sembravano capirlo, lo Stato d'Israele intuì che lo volevano far fuori, come al solito. Per fortuna era già accorsa un'hostess biondina, che con qualche imbarazzo spiegò che si era trattato di un increscioso caso di overbooking: insomma, la stessa poltroncina era stata venduta a due clienti diversi.
“Io però l'ho comprata prima”, azzardò lo Stato d'Israele.
In un inglese stentato il signore barbuto obiettò che questo era tutto da dimostrare, e che comunque in quella poltroncina si era seduto prima lui, anche se poi era dovuto alzarsi per andare ad allungare il bagaglio a mano ai suoi cugini che sedevano qualche fila più dietro.
Insomma, sono circondato, constatò lo Stato d'Israele: ma se pensano di avere a che fare con un rinunciatario, si sbagliano e non di poco... “Gli affari privati del signore non m'interessano: io questo posto l'ho comprato, mi appartiene, e non mi sposterete di qui con le cannonate”. Questo fiero discorso sembrava aver fatto il suo effetto sulla hostess, senonché il barbuto reagì semplicemente ripetendolo con una foga un po' barbara e riprovevole: anche lui aveva comprato quel posto, quindi apparteneva anche a lui, e anche lui non si sarebbe smosso a cannonate, tanto più che non era solo, ma viaggiava in compagnia!
Questo riferimento neanche tanto velato alla condizione di solitudine dello Stato d'Israele non ottenne l'effetto desiderato: invece di perdersi d'animo, lo Stato reagì invertendo l'argomento.
“In effetti ho notato che viaggiate in compagnia. Quanti siete?”
“Quindici. E non cederemo”.
“Lo vede, signora hostess? Loro hanno dunque il diritto di avere quindici posti, e io neanche uno? Dico, se questa non è prepotenza, se non è prevaricazione, cos'è? Lungi da me richiamare i tristi fantasmi del mio passato, ma...”

Appena ebbe sentito l'espressione tristi fantasmi del passato, l'hostess si volatilizzò spiegando che andava a parlarne col comandante, e nessuno la vide più in quella corsia per tutta la durata nel viaggio. Ne arrivò invece un'altra, un po' più energica, che non volendo perdere altro tempo (l'aereo era già sulla pista) convinse più o meno bruscamente il passeggero barbuto ad accomodarsi un momento nella classe turistica, in attesa che fossero ultimate le procedure di decollo. Lo Stato d'Israele festeggiò silenziosamente un'altra vittoria della sua proverbiale ostinazione, e non appena l'aereo ebbe completato la virata, celebrò la conquista della business concedendosi una meritata pennichella.
“Ma guarda che maleducato, questo bianco! A momenti il suo schienale mi arriva alle ginocchia”.

La frase penetrò il cuore sensibile dello Stato d'Israele come una lama nel burro. Bianco? Lo avevano chiamato bianco! Se solo avessero saputo la sua storia... tutti quegli anni in cui i bianchi gli avevano dato la caccia... e adesso il bianco era lui? Che razza di ingiustizia era questa? Forse era meglio far finta di niente... ah, no! Il passato aveva dimostrato cosa succede a far finta di niente anche solo per dieci o vent'anni! No, bisognava reagire alle provocazioni: colpo su colpo.
“Mi scusi, sono lo Stato d'Israele”.
“Non me ne frega niente”.
“Il suo tono è piuttosto irrispettoso”.
“Lo schienale del suo sedile sulle mie ginocchia lo è altrettanto”.
“Ma è un mio diritto abbassare lo schienale! Se solo avesse dato un occhiata all'opuscolo...”
“Sì, sì... prima si prende il posto di mio zio, e poi...”
“Ecco, ho capito. Il problema non è che ho abbassato lo schienale...”
“Veramente sì. Non riesco a stendere le gambe”.
“No, il vero problema è che non sono suo zio! A suo zio lo avrebbe lasciato fare, vero?”
“Io e mio zio c'intendiamo, ma non è questo il punto”.
“Il punto è precisamente questo. Lei riconosce a mio zio un diritto che non riconosce a me. Per lei io ho meno diritti di suo zio, sono un passeggero di serie B. È così che stanno le cose?”
“Al massimo è lei che ha trattato mio zio come un passeggero di serie B. Perché gli ha rubato il posto?”
“Io non ho rubato assolutamente niente! Moderi i termini! Questo posto è mio. L'ho acquistato prima di suo zio!”

Nel frattempo, in classe turistica, la hostess stava cercando di spiegare al famoso zio che il suo usurpatore, lo Stato d'Israele, non era sostanzialmente cattivo.
“Ha vissuto braccato per anni e anni, con l'incubo di essere eliminato”.
“Ma questo non gli dà diritto a prendere il mio posto e...”
“Bisogna capirlo”.
“Veramente lo capite tutti benissimo. Sono io che non parlo bene la vostra lingua. Perché nessuno fa un po' di fatica per capire me? Pensa che riuscirà a trovarmi un altro posto di là?”
“Senta, le farò una confidenza: la nostra business non è un granché. I sedili hanno il velluto spelacchiato, e cigolano alle vibrazioni. Qui in turistica potrebbe persino trovarsi meglio..”
“Ma ho tutta la famiglia di là... Se la turistica è così bella, perché non ci viene il tizio bianco? Tra l'altro in mezzo ai miei parenti non deve passarsela così bene”.

In effetti il viaggio si stava rivelando un incubo. Lo Stato d'Israele aveva già da tempo abbandonato ogni speranza di dormire un po' – ma non per questo aveva rialzato lo schienale: ormai era una questione di principio. Nelle ore seguenti fu un continuo litigio per queste e altre misere questioni di principio, che culminarono col passaggio del carrello bevande. Lo Stato d'Israele era praticamente astemio, ma si concedette ugualmente un'abbondante razione di vodka quando si rese conto che la comitiva di barbuti non poteva toccare alcol per via di certe loro ottuse superstizioni. A quel punto però, già un po' alticcio, venne quasi alle mani con un ragazzino che da due file dietro lo stava bersagliando con piccole palline di cibo non koscher.
“Ma si vergogni! Mettere le mani addosso a un bambino!”
“Vergognatevi voi, ad allevare figli così maleducati”.

Anche stavolta avevano ragione entrambi; purtroppo una ragione, divisa per due, è uguale a due torti. È una regola aritmetica che vale soprattutto negli ambienti ristretti (carlinghe di aeroplani, condomini, marciapiedi e piste ciclabili, strisce fertili tra il deserto e il mare). I barbuti finsero di redarguire il bambino; quel che fecero in realtà fu piazzare lui e il suo cuginetto di otto anni nella posizione strategica migliore per continuare i lanci; lanci che lo Stato d'Israele sopportò stoicamente, limitandosi a proferire qualche minaccia ogni tanto, in attesa che la razione di proiettili immondi finisse. Ma non finiva mai! Quelli continuavano! Chi li riforniva? Lo Stato ebbe un brivido: i quindici parenti dello Zio barbuto stavano mettendo insieme i loro rifiuti affinché i monelli potessero disporre di una riserva illimitata! Una dozzina di adulti regrediti a monelli! In pratica, di tutte le strategie di resistenza, aveva vinto quella più infantile! A un certo punto, con la coda dell'occhio, allo Stato d'Israele parve di vedere che anche un passeggero non barbuto, un bianco come lui, stava porgendo il suo vassoio ai ragazzini con aria divertita! Ma quindi era vero, ce l'avevano tutti con lui! Possibile? Fortuna che l'aeroplano era pressurizzato, altrimenti non avrebbero esitato a buttarlo fuori! Ma cosa aveva fatto di male, a parte aver fatto valere i suoi diritti? Perché doveva sempre pagare lui per tutti gli errori?

“Mi scusi...”
Si riscosse dal momentaneo torpore. Era lo Zio. Era venuto in Business a vendicarsi! Lo Stato si alzò di scatto, ma ebbe un lieve capogiro.
“No, no, vengo solo a dire che... io non credo che il posto è suo, però... quello che succede adesso qui mi vergogna molto. La mia famiglia mi vergogna molto. Si comportano tutti da ragazzini”.
“E lei li rimproveri”.
“L'ho già fatto. Non mi ascoltano. Dicono che sono debole”.
“Non hanno il senso del rispetto”.
“Perché mi hanno visto cedere. Mi hanno visto lasciare il posto a lei e adesso non mi considerano più il capofamiglia. Danno tutti retta a quell'idiota di mio fratello, due file indietro a destra, lo vede?”
“Il tizio con la barbetta corta?”
“Un fanatico vero. Dice che bisogna aprire il portellone e buttarla giù”.
“Mio dio, ma siete pazzi!”
“Tranquillo, crede che lo faranno? Non sanno nemmeno che non si può aprire il portello. È solo una scena per far vedere che è... come si dice... intransigente. Perché vede, noi siamo fatti così: se cediamo su una cosa, perdiamo tutto il rispetto. Io ho ceduto il posto e ho ceduto il rispetto. Può capire questa cosa?”
Lo Stato d'Israele la capiva molto bene, ma non lo disse.
“Ora vorrei stringere la mano a lei, ma i miei parenti...”
“Capisco. Fa lo stesso”.
“Mi dispiace ancora per tutto”.
“Non importa, tra pochi minuti siamo arrivati”.

Certe volte lo Stato d'Israele ha la sensazione di impazzire: insomma, possibile che tutti ce l'abbiano davvero con lui? Altre volte pensa che non è lui a essere pazzo, anzi, lui è uno Stato tutto sommato razionale. È il mondo che è pazzo e continua a prendersela con lui per i motivi più futili e assurdi. Poi razionalmente si rende conto che questo è un classico pensiero da soggetto paranoide, e si riscuote. È il problema di chi vive un po' isolato: alla lunga si rimane un po' impigliati dentro i fili dei soliti pensieri che si annodano e si rincorrono.
Nei prossimi giorni lo Stato d'Israele è ospite a Torino: se passate di lì, ascoltatelo: e almeno salutatelo, anche da parte mia.
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Masters of fotti-e-chiagni

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L'ospite indecente

Una cosa che farei, se avessi costanza, è istituire il premio chiagni-e-fotti della settimana. Quindici giorni fa il candidato unico era il povero Joseph Ratzinger, ingiustamente emarginato dai professori della Sapienza e costretto a riparare su una diretta domenicale in mondovisione; la settimana scorsa avrebbe vinto a man bassa Totò Cuffaro, anche lui arbitrariamente escluso da una trasmissione, anzi da un processo tv, (conta nulla che fosse stato invitato, e che avesse deciso di non presentarsi, che in quella trasmissione fosse dato ampio spazio a un compagno di partito che lo difendeva a testa alta, e che in Italia ci siano almeno altri 5 canali nazionali a cui Cuffaro può rivolgersi per replicare). Tutta gente a cui viene negato il sacrosanto diritto di esprimersi, insomma. E questa settimana? Beh, anche questa settimana un candidato ce l'avrei. Si tratta tuttavia di un pezzo grosso, un maestro del chiagniefotti, uno che ne ha insegnato l'arte un po' a tutti, insomma, qualcuno avrà capito che sto parlando proprio di Lui: lo Stato d'Israele. Ma non abbiate paura. Al massimo accendete i rivelatori di antisemitismo, vediamo se bippano e quanto.

Personalmente sono contrario al boicottaggio contro la Fiera del Libro di Torino, che ha invitato lo Stato d'Israele come ospite d'onore. Non per le motivazioni serie espresse qui e là sul Manifesto e la Stampa, che onestamente non mi sono neanche preso la briga di leggere. La distinzione, cara a Bertinotti e al suo Partito, tra Stato d'Israele e governo d'Israele, la capisco benissimo... ma purtroppo mi sono antipatici entrambi; non ho nulla contro gli scrittori israeliani, invece, molti dei quali sono senz'altro validissimi: io in effetti se fossi stato una Fiera del Libro avrei invitato loro, e non lo Stato che non rappresentano.

In generale, poi, l'idea di invitare uno Stato come ospite di onore mi fa sorridere – cos'è esattamente uno Stato? Come fa ad andare a Torino? Stavo pensando già di scriverci un raccontino buffo, con lo Stato d'Israele che sale sull'aereo, e dopo il decollo abbassa subito lo schienale sulle ginocchia della Giordania, ruba la bottiglietta d'acqua della Palestina, s'impossessa del bagaglio a mano del Libano, ecc. ecc.... poi mi sono reso conto che per essere obiettivo avrei dovuto anche far litigare gli altri passeggeri, con l'America che fa lo steward, la Nato in cabina di comando, e man mano che si allargava la metafora diventava sempre più pesante; non solo non avrei fatto ridere nessuno, ma in compenso sarei finito nell'homepage di qualche forum neonazista, o peggio ancora, da Rolli – alla larga.

Invece, leggendo Lia ho scoperto una cosa a cui i quotidiani non hanno dato molto risalto, mi pare (ma onestamente ho cercato poco), e cioè che fino a qualche mese fa l'ospite d'onore avrebbe dovuto essere l'Egitto. Per carità, l'idea dello Stato d'Egitto ospite d'onore mi fa sorridere quanto lo Stato d'Israele, tanto più che anche l'Egitto le sue belle magagne ce l'ha. Il punto è che dietro queste ospitate c'è tutta una dinamica diplomatica che ignoravo: qualche mese fa era stata l'Italia ad essere ospite d'onore alla fiera del Cairo. Lo scambio di favori era talmente implicito che sul sito della casa editrice istituzionale egiziana si parlava dell'Egitto come del “guest of honour in the Turin Book Fair 2008”. Ora, è vero che solo gli stupidi non cambiano idea, ma un voltafaccia internazionale è una cosa che potendo si dovrebbe evitare. Per noi probabilmente cambia poco, ma per gli egiziani (e per gli arabi in generale) no. Tanto più che il famoso anniversario della nascita d'Israele è una ricorrenza che divide più che unire – e continuerà a dividerci finché non ci sarà una vera pace, bisogna dirlo. Ecco, tirare un bidone allo Stato d'Egitto per fare posto allo Stato d'Israele non mi sembra un atto di pace. Piuttosto un atto di guerriglia... ma no, guerriglia è ancora parola troppo nobile, diciamo piuttosto guerretta, la guerricciola di chi confonde la pace con la pigrizia, e di conseguenza si adatta quasi sempre alla pace del più forte.

Detto questo – e guadagnata un'altra discreta quota di punti antisemitismo – ribadisco la mia posizione contraria al boicottaggio. Non per simpatia per gli scrittori – che mi dovrebbero essere simpatici o antipatici per le loro idee, e non per la scritta che hanno sul passaporto (vale per gli israeliani come per gli statunitensi e gli uruguagi). No, per un motivo più terra-terra: vorrei evitare l'effetto-Ratzinger. Per quel poco che conosco il Signor Israele, so che basterebbe un buu! di troppo per farlo stare davvero a casa. E da lì in poi il piagnisteo degli organi di stampa e tv contro la lobby islamo-fascista-de-sinistra che tresca con Ahmadinejad e impedisce al Sig. Israele di recarsi alle libere Fiere del Libro sarebbe intollerabile. Perché credetemi, il Papa e Cuffaro sono pagliacci al confronto. Nessuno fotte e chiagne come Mr. I. Per quel che mi riguarda, vada a Torino, si prenda il suo stand – e anche quello del Libano, già che c'è, giuro che non interverrò. Ho già guadagnato abbastanza punti antisemitismo per vincere un servizio di posate con il logo della Wehrmacht, cosa posso pretendere in più dalla vita?
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contiene sconvolgenti rivelazioni

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Cadendo, dalle nuvole a terra

In Italia la stampa fa mediamente schifo, e si sa; i blog sono solo diari adolescenziali, e quindi uno come fa per tenersi aggiornato? Di solito ci si abbona a Internazionale. C'è il meglio della stampa estera, giornalisti che vivono nel mondo vero e non nell'isoletta di Corona e Briatore, eccetera.

Sull'ultimo numero di Internazionale ho trovato un fondo di Paul Kennedy che mi ha discretamente sconvolto. E' anche on line, così potete farvene un'idea da soli. Kennedy parla di numeri. Ammette che "i dotti editoriali pieni di statistiche invitano anche il lettore più attento a girare pagina. Ma ci sono alcuni articoli pieni di dati che a mio avviso meritano un'attenta riflessione". Kennedy ne cita due che lo hanno addirittura "turbato". Sentiamo.

Il primo è un articolo del Financial Times che documenta la crescita demografica nella striscia di Gaza. "Tra il 1950 e il 2007 la popolazione di Gaza è passata da 240mila a quasi un milione e mezzo di abitanti, a causa dell'alto tasso di natalità delle famiglie palestinesi". Se gli statunitensi fossero cresciuti allo stesso ritmo, adesso sarebbero quasi un miliardo. Questo significa che "ci sono molti più giovani arabi (frustrati, arrabbiati e disoccupati) che giovani israeliani, e il loro numero sta crescendo così rapidamente da renderli incontrollabili. Se questo è vero, allora tutte le missioni di pace degli Stati Uniti o dell'Unione europea potrebbero essere inutili". Pensa un po'.

Il secondo è un pezzo del "Catholic Worker" che già nel titolo censisce la popolazione carcerata USA: "2.193.798 e continuano ad aumentare". Sono raddoppiati in meno di un decennio. Nessun Paese ha così tanta gente in carcere (nemmeno la Cina). Gli europei ne hanno sette volte in meno, in proporzione alla popolazione. Di fronte a queste cifre Kennedy ammette di rimanere confuso.

Io invece mi sono spaventato. E non tanto per la crescita demografica di Gaza, né perché gli americani stanno per avere un carcerato ogni cento abitanti. Mi sono spaventato perché Kennedy è un professore di storia di Yale, che scrive saggi di politica internazionale e ha una sua proposta per riformare l'Onu, e in questo editoriale sta lettteralmente cadendo dalle nuvole. Voglio dire, davvero là fuori c'è qualcuno che ancora non sa che la Striscia di Gaza sta scoppiando perché il tasso di crescita dei palestinesi è uno dei più grandi al mondo? Davvero un intellettuale USA può ignorare che il suo sistema economico e sociale poggia saldamente sul network di prigioni più strutturato e accogliente del mondo? Come fanno a presentare questi dati come novità sconvolgenti, come fanno a non saperle già? E se Kennedy, che sta a Yale, queste cose le ha imparate la settimana scorsa, come si spiega che io, vivendo nell'isoletta di Lele Mora e Materazzi, le so già?

Chi me le ha insegnate? Nemmeno me lo ricordo. Sono cose che mi sembra di conoscere da sempre; tanto che al limite mi aspettavo di leggere su Internazionale un pezzo che le smentisse come leggende urbane. Magari un fondo muffito di Sandro Viola sui ragazzini della prima Intifada. Magari uno di quei reportage di Marco D'Eramo dagli USA, che prendevo con le molle perché erano stampati sul Manifesto, e adesso sta a vedere che il Manifesto guardava più in là. Insomma, salta fuori che anche nell'edicola Italia ci si può fare una cultura.

Si tratta di quei semplici dati che tanti anni fa mi hanno fatto prendere una parte piuttosto che un'altra: se non sapessi che gli americani attingono dalla criminalità reclusa come da un enorme bacino di lavoro sottopagato, magari potrei essere un filoamericano anch'io. Se non sapessi che in Palestina tra qualche anno ci saranno più che palestinesi che israeliani, forse griderei forza Israele anch'io. E invece sapevo queste cose, perché le ho lette da qualche parte e non ho mai trovato nessuno che le smentisse. E non solo le sapevo, ma a un certo punto le davo persino per scontate, le consideravo banalità su cui non soffermarsi, come il due più due.

Ora mi viene il sospetto: ma quelli che mi hanno accusato, prendendosi anche sul serio, di essere antiamericano o antisemita, queste cose le sapevano? Io ero convinto di sì. Ero convinto che le sapesse anche Camillo, anche se magari non ci insisteva troppo. Eppure capita che negli USA un opinionista di area liberal le trovi sconvolgenti. Figurati i neocon, i neodem, i neolib e tutti gli altri.

Ora, qui non si tratta di sentirsi più intelligenti di un prof di Storia che sta a Yale. Per carità. L'intelligenza non c'entra molto con l'accesso alle informazioni: quello che mi schianta è che io, dei prof di Yale, degli opinionisti liberal, della grande stampa americana e internazionale, sotto sotto mi fidavo. Speravo di trovarci un centro di gravità, un brandello di oggettività nel marasma globale. E' abbastanza terrorizzante accorgersi che a volte ne sanno meno di me. Anche perché io, onestamente, non ne so molto.

Ha anche a vedere con la crisi dei trent'anni. Non importa quanto complesso stesse diventando il mondo: fin qui avevo sempre contato sull'esistenza di uomini con la barba grigia in grado di assorbire informazioni e restituire analisi di saggezza. Ma da qui in poi il rischio di imbattersi in rincoglioniti con l'aria da guru aumenta a ritmo esponenziale.

Ormai il mondo è roba nostra, ne rispondiamo noi. E' un'idea che mi spaventa, più di Gaza e Guantanamo. Mi dà le vertigini, o piuttosto l'impressione di precipitare dalle nuvole a un mondo dove ci si aspetta seriamente che io sappia quel che accade. Vien voglia di chiudersi nella stanza, rileggersi i fumetti.
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- giorno dispari

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Superpotenza dei giorni pari

Piccolo test, di una domanda sola.
Per voi Israele è:
1. Un piccolo Paese accerchiato, minacciato nella sua esistenza, che ha bisogno di aiuto
2. Una potenza mondiale che può risolvere i suoi problemi da sola.

Se avete risposto 1, siete amici di Israele, seriamente preoccupati per la sua esistenza. E non c’è niente di male, anzi.
Se avete risposto 2, siete altrettanto amici di Israele, altrettanto preoccupati per la sua esistenza, e continua a non esserci niente di male.
Ma se lunedì rispondete 1, martedì 2, mercoledì 1, giovedì 2, per quanto amici di Israele, avete qualcosa che non va.

Comunque siete in buona compagnia. Non c’è niente di male a sostenere Israele, ma Israele vuole essere sostenuto sì o no? Il lunedì, il mercoledì, il venerdì gli israeliani si sentono isolati dalla comunità internazionale (USA a parte, naturalmente). Non avranno tutti i torti, ma la sensazione è che martedì, giovedì e sabato Israele dalla comunità internazionale voglia soltanto sentirsi dire “fa quel che vuoi, ne hai il diritto”. Magari ne ha pure il diritto – ma ne ha le forze?

Spesso, a discutere con amici di Israele, s’incoccia in questo argomento. Israele è forte. Israele ‘potrebbe risolvere’ il problema, ‘se solo volesse’, se solo ‘ripagasse i nemici della loro stessa moneta’, ecc. Dunque Israele è una potenza che potrebbe rivoltare il Medio Oriente come un calzino, ma non lo fa perché ha una sua etica, una struttura democratica ecc.

Questo da un certo punto di vista è vero: Israele ha la Bomba, i suoi nemici (ancora) no.
Ma lasciamo stare l’Apocalisse (che comunque è uno scenario). Fermiamoci a questi giorni. Il bilancio delle vittime mi sembra parlar chiaro: Israele ha tutta la potenza di tiro che vuole. Ma riuscirà a debellare gli Hezbollah? Difficile. Perché dovrebbe riuscire a fare ora quello che non è riuscito a fare in vent’anni?

L’ironia è che Hezbollah non esisteva ancora 24 anni fa, quando Israele invase il Libano meridionale per liberarsi definitivamente dell’OLP di Arafat, che di fatto lo controllava. Il bacino di reclutamento – la comunità libanese sciita – in quel periodo era assai poco sensibile agli argomenti di Arafat e soci. Per gli sciiti l’OLP era un gruppo di sunniti, estremisti politici (vedi i vari Fronti di liberazione della Palestina annessi), e soprattutto intrusi. Finché non sono arrivati altri intrusi – gli israeliani. Solo a quel punto gli sciiti hanno cominciato a organizzarsi in milizie. Questo è il bel risultato di un’occupazione decennale: non solo Israele non è riuscita a liberarsi dell’OLP, ma in compenso nel Libano del sud si è procurata un nuovo nemico, oltretutto molto meno velleitario e pasticcione.

Ma se Israele fosse la Potenza che pretende di essere nei giorni pari, anche Hezbollah sarebbe un ricordo lontano. Al contrario, Hezbollah si vanta coi suoi d’essere l’unica milizia che abbia vinto una guerra contro gli israeliani – la guerra di liberazione del Libano meridionale, appunto, culminata nel ritiro israeliano del 2000. Ma gli israeliani (e i loro amici) si rendono conto di averla persa? Come si spiegano, alla luce dei fatti di oggi, il loro precipitoso ritiro? Cosa aveva in mente quella vecchia volpe di Barak?

Non si sa. Nei giorni dispari, però, è lecito formulare questa teoria: forse non aveva in mente nulla. Forse gli israeliani si sono ritirati perché non ce la facevano più, semplicemente. Sono un piccolo Paese in crisi economica, con troppi nemici, troppi fronti esterni e interni, e ogni tanto cedono. Sarebbe come dire che Israele ogni tanto perde le guerre, e questo è vietato ammetterlo. Nei giorni pari.

Avete presente la classica mamma italiana, costantemente indaffarata, sempre lesta a lagnarsi perché nessuno l’aiuta in casa, e tuttavia assolutamente refrattaria a qualsiasi tentativo di aiutarla veramente? Perché in realtà non è assolutamente l’aiuto che cerca, ma il diritto a lagnarsi perché nessuno l’aiuta?

Se dico che Israele è un po’ così, quanti punti antisemitismo guadagno?
Ebbene, la mamma ogni tanto va aiutata realmente. Non può fare qualunque cosa sempre bene. Non può sempre avere i riflessi di una ventenne e il giudizio di una cinquantenne. Non è perfetta, anche se è la vostra mamma.
E anche Israele: ogni tanto va aiutato. Va difeso. Dagli Hezbollah – che lo minacciano nella sua esistenza – e da sé stesso. Dagli enormi pasticci che combina, e che paga sempre con interessi di sangue.
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- help i'm a rock #357

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Io, in realtà, non volevo. Ha insistito lui:
la prossima volta che l'orrido sito dice che qui si scrivono "cazzate", faccia degli esempi. Dove? Come? Quando?
E va bene. Hai scritto una cazzata, Camillo.
Quando?
Ieri, 26 gennaio.
Dove?
Ma sul Foglio, naturalmente, la prestigiosa joint venture tra Veronica Lario e noi umili contribuenti.
Come?
Diciamo che ti sei lasciato un po' trasportare. Succede agli ideologi, e tu, volente o nolente, quello sei. Quando la realtà ti delude, te ne fai un'altra su misura.
Per esempio, in questo pezzo hai scritto che i palestinesi hanno votato a Gaza. Proprio così. L'ho letto e l'ho riletto, e mi sembra proprio che di Cisgiordania non parli. Se abitassi in cima al mondo, e il mio unico contatto con i miei simili fosse il quotidiano mio e di Veronica (e se fossi uno che si fida di quel che scrivi), dovrei dedurne che l'altro ieri i palestinesi hanno votato solo a Gaza.
Ora, io non sottovaluto affatto l'importanza di Gaza: in quella strisciolina di costa un tempo ridente vive più di un milione di palestinesi. Però la maggioranza sta altrove: in Cisgiordania. E a Gerusalemme est. E hanno votato pure loro. L'hanno detto tutti i telegiornali, e tu li guardi i telegiornali, sì? No? L'avrà detto anche la Gazzetta di Los Angeles e il Corriere di Tulsa, Oklahoma. Insomma, è una notizia di dominio pubblico. Ma tu nel tuo articolo parli solo di Gaza. E io mi sono chiesto il perché. Cos'ha Gaza che, per dire, Hebron non ha? O Gerico ? O Gerusalemme est?
L'unica differenza che mi è venuta in mente è che Gaza è stata sgomberata dai coloni, e il resto dei Territori no. Come se tu volessi istituire un rapporto di causa-effetto tra le due cose – ah, furbetto!
L’ultimo rifugio di quelli che dall’11 settembre 2001 a oggi non-ne-hanno-azzeccata-una è un nostalgico “si stava meglio quando si stava peggio”. I palestinesi votano a Gaza? Un disastro, signora mia. La democrazia per gli arabi? Una pia illusione di quei pasticcioni degli americani. Trattandosi di ex territorio occupato da Israele, i nostalgici che scrivono sui giornali non arrivano a rimpiangere i carri armati con la stella di David. Restano però più che scettici sul futuro democratico dei popoli arabi, quasi fossero “unfit”, incapaci di vivere senza un bel dittatorone coi baffi che li educhi e li bastoni per benino.
Chissà chi saranno poi questi signori "non-ne-azzecco-una". Di sicuro è gente poco informata. Visto che i palestinesi stanno facendo elezioni democratiche da dieci anni. Dieci, esatto. Le prime elezioni presidenziali e legislative dell'autorità palestinese ebbero luogo il 20 gennaio 1996. È vero che furono boicottate da Hamas, dalla Jihad e da gruppi meno importanti ma storici, come il FPLP e il FDLP. Ma è anche vero che la partecipazione fu massiccia per gli standard medio-orientali: il 73% in Cisgiordania e l'86% nella Striscia di Gaza. Ci furono brogli? No, secondo i 650 osservatori internazionali sotto la responsabilità dell'Unione europea (c'era anche Jimmy Carter). È probabile che Camillo non si fidi di loro.
È probabile che si trovi più d'accordo con Joel Mowbray del National Review, secondo cui Arafat vinse le elezioni presidenziali del 1996 troncando il dibattito interno nella sua coalizione (rifiutò i risultati delle primarie dell'OLP), e occupando massicciamente i media. Ma è davvero il caso di fare così gli schizzinosi? Dobbiamo escludere dal mondo democratico tutti i paesi in cui un leader di coalizione blocca il dibattito interno e occupa massicciamente i media? Meglio di no, per ora, eh? Se ne riparla in aprile.

Badate bene: non è che Camillo contesti le elezioni del 1996; non ne parla proprio. Sembra che non siano mai esistite. Del resto Israele è "l'unica democrazia del Medio Oriente", no? La Palestina non conta, la Palestina non è neanche uno Stato.
Scorriamo il suo pezzo ancora un poco.
Quando, mannaggia a Bush e a Sharon, si è formata una nuova leadership palestinese, Israele si è ritirata dai territori, si è cominciato a parlare concretamente di Stato palestinese e a Kabul, Baghdad e Gaza si è votato veramente, gli editorialisti accigliati hanno convenuto che nella regione si sarebbero aperti foschi scenari teocratici.
Così giovane, e già così revisionista. La "nuova leadership palestinese" si sarebbe formata grazie a Bush e a Sharon. Camillo probabilmente allude a quella fase farsesca della roadmap in cui Bush decretò che Arafat era corrotto e che quindi doveva nominare un Primo Ministro, e che quel primo ministro doveva essere Abu Mazen. Forse che chiese d'indire le elezioni, Bush? No. Non c'era bisogno di elezioni, era sufficiente che il corrotto Arafat nominasse l'immacolato Abu Mazen. Si esporta così, la democrazia: a colpi di diktat. Funzionò?
Funzionò quattro mesi: isolato da Hamas, Jihad e dallo stesso Arafat, si dimise in ottobre (si era insediato in marzo), accusando Israele e gli USA di non avergli dato quel sostegno che si aspettava almeno da loro. Questo fu il concreto contributo di Sharon e Bush alla creazione della "nuova leadership palestinese" (tra parentesi, Abu Mazen è una degnissima persona, ma di "nuovo" non ha poi molto: è del '35 ed è stato uno dei padri fondatori di Al Fatah nel '57).

Però alla fine è chiaro quel che Camillo intende, no? La democrazia in Medio Oriente si può fare, a patto che lo voglia Bush. A patto che lo sottoscriva Sharon. Insomma, purché sia d'esportazione! La democrazia fatta in casa non ci piace. Al punto che se i palestinesi votano, per la terza volta in dieci anni (l'anno scorso ci sono state le presidenziali e le ha vinte proprio Abu Mazen), lui si trova a dover fingere che la vera novità siano le elezioni a Gaza. E perché solo a Gaza? Ma perché è l'unica strisciolina di terra da cui Sharon ha avuto la buona creanza di ritirarsi. Un ritiro unilaterale, senza nessun progetto comprensibile dietro. Ma per Camillo tutto ha un senso: muore Arafat, Sharon si ritira, e i palestinesi possono finalmente votare. Tutto sta andando per il meglio, nel migliore dei mondi eccetera.
Ma ora le forze democratiche mediorientali hanno l’opportunità di avere un impatto reale nel futuro dei loro paesi, un’eventualità che non avrebbero mai avuto se Saddam, Arafat e il mullah Omar fossero rimasti al potere.
In definitiva sì, credo sia il caso di dirlo: stai scrivendo cazzate, Camillo. Io non ho mai nutrito eccessiva simpatia per Arafat; ma infilarlo in un elenco tra Saddam Hussein e il mullah Omar è fare violenza alla complessità delle cose. Non era Arafat a impedire lo sviluppo democratico della Palestina. Era una cosa che si chiama occupazione. Militare. Dei territori occupati. Dura da quarant'anni, ormai, e rende oggettivamente difficile qualsiasi transizione verso la democrazia. Ieri spingeva i palestinesi tra le braccia di un rais corrotto. Oggi li porta ad abbracciare il credo di Hamas. Quella che poteva essere la culla del laicismo arabo è diventata la prima regione del Medio Oriente dove i Fratelli Musulmani vanno al potere con elezioni regolari. Che bel risultato, per Bush.
Secondo solo a quanto avvenuto in Iraq: tre anni di guerra e guerriglia per mandare al potere gli ayatollah. Ora, in franchezza, sei assolutamente sicuro che Bush stia esportando la democrazia, Camillo? Non è che stia piuttosto contribuendo a seminare un bel po' di fondamentalismo religioso? Una cosa di cui si sentiva il bisogno.

E tu ti congratuli. Si congratula anche Mahmoud Ahmadinejad. Avrete qualcosa in comune.
Sì, ma cosa? Beh, una certa impostazione ideologica, forse. Quando la realtà non vi piace, la cambiate. Certo, è peggio lui che pasticcia con l'uranio. Tu in fondo le spari solo grosse su un giornale. Che però è anche il mio giornale, ricorda (e di Veronica).
Forse dovresti trattarci con più rispetto.

(E a tal proposito: ma i permalink, ci fanno proprio così schifo?)
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(Questa serie di post, che annoiano tutti, nascono da uno scrupolo: a un certo punto mi sono chiesto se, oltre a rivendicare il diritto di criticare Israele e la politica di Sharon, io fossi in grado davvero di criticare Israele e la politica di Sharon: citando fatti e date, senza le solite scappatoie da blog di opinione. È una gran fatica, ma ogni tanto qualcuno la deve fare. Perché è vero, un sacco di gente non sa di cosa sta parlando: e allora è tempo che chi qualcosa la sa informi gli altri. Che senso ha continuare a palleggiarsi degli "Sharon boia" e degli "Antisemita!" come se avessimo vent'anni – io non li ho più, vent'anni. E i ventenni ignoranti di adesso mi spaventano.

Questo non significa che dobbiamo smettere di scrivere battute su Sharon, se ce ne vengono in mente. E' solo che ogni tanto bisogna spiegare ai nuovi di cosa si parla: illustrare il perché quello che ad alcuni sembra un eroe e uomo di pace è ritenuto da altri un boia o un assassino. Tutto qui).

I disastri di Ariel Sharon (seconda parte)

1. La strage di Qibya.
2. Quel che disse Ben Gurion
3. Il passo di Mitla
4. "Immaginate di dover prendere la collina X..."
5. Eroe di guerra.

6. Nasce il Likud
Nel 1974 il nostro uomo compie il passaggio definitivo dalla vita militare a quella politica.
La traiettoria politica di Sharon, apparentemente, la conosciamo tutti: da caparbio promotore degli insediamenti nei Territori (1977-2003) a coraggioso artefice del ritiro dei coloni dagli insediamenti stessi (2003-2006). È una visione piuttosto schematica dell'uomo e della sua psicologia: come se dopo l'irruenza della gioventù, la cocciutaggine dell'età adulta s'intenerisse con la vecchiaia (secondo il vecchio luogo comune: battaglieri a vent'anni, moderati a sessanta…) Le cose per la verità sono più complicate. Per esempio, il primo incarico politico Sharon lo ottiene in un governo laburista: consigliere speciale di sicurezza nel primo gabinetto Rabin (1974-1977). Pochi sanno (e nemmeno io sapevo) che in un primo tempo "Sharon meditava di formare un partito con i pacifisti…
parlò dello Stato di Palestina, e prima che a destra nessuno avesse nemmeno il coraggio di pronunciare quella parola, lui era pronto a stringere un accordo. Quello che voglio dire è che sapeva come muoversi in tutte le direzioni almeno dal punto di vista retorico."
La testimonianza dello storico israeliano Avishai Margalit ci restituisce l'immagine di un politico più smaliziato e disinvolto. Resta da capire cosa porti in pochi anni Sharon dalle avances nei confronti dei pacifisti alla fondazione del Likud (1973), il blocco di centro-destra capeggiato da Menahem Begin che considera i Territori Occupati nel 1967 "Terra di Israele liberata". Forse l'ostinazione opposta e speculare dell'OLP di Arafat, che continuava la sua guerriglia dal Libano, rifiutando ogni progetto di spartizione tra il fiume Giordano e il mare (non già perché voleva cacciare gli israeliani, come qualcuno oggi pensa e dice, ma perché il programma di Al Fatah prevedeva la creazione di uno Stato unico, multietnico e non confessionale, in cui arabi ed ebrei avrebbero dovuto vivere con pari diritti e dignità: lo so, a dirlo oggi sembra fantascienza). Potrebbe anche trattarsi di una questione di opportunità: alla prova dei fatti Sharon sperimenta che il pacifismo in politica non paga, e si butta a destra. Quando il Likud va al potere, Begin lo nomina Ministro dell'Agricoltura. È un dicastero fondamentale, perché ha la delega sugli insediamenti.


7. La guerra della terra e dell'acqua
Gli "insediamenti" sono villaggi creati dagli israeliani (e in alcuni casi diventate vere città) nei territori occupati dopo la Guerra dei Sei Giorni (1967): Gaza e la Cisgiordania. Fino al 1977 erano sorte per lo più in zone scarsamente popolate ma strategicamente rilevanti. La 'colonizzazione' vera e propria dei Territori inizia con l'avvento del Likud al potere. L'obiettivo è rendere i milioni di palestinesi, residenti e profughi a Gaza e in Cisgiordania, una minoranza, circondata da una rete di città e strade israeliane. Come avverte, a chiare lettere, il presidente della commissione per l'insediamento dell'Organizzazione sionista mondiale, Matityahu Drobless: "diviene necessario effettuare una corsa contro il tempo.
[…] le terre demaniali e le terre incolte di Giudea e Samaria devono essere immediatamente confiscate al fine di colonizzare le zone entro e attorno i centri di residenza delle minoranze per ridurre al minimo il pericolo di un nuovo Stato arabo su questi territori. Non deve esserci il minimo dubbio sulla nostra intenzione di tenerci per sempre la Giudea e la Samaria" (citato da Baron, I palestinesi (2000), pag. 369).
"Giudea e Samaria" è il nome biblico per la Cisgiordania. I progetti di colonizzazione avanzati da Drobless riprendono le idee avanzate da Sharon e costituiscono il proseguimento della guerra (della sua guerra) con altri mezzi. Il principio fondamentale è lo stesso: non c'è miglior difesa dell'attacco, non c'è migliore strategia di quella che consiste nel mettere il nemico di fronte a un fatto compiuto. Così, mentre Begin temporeggia e tratta la pace separata con l'Egitto, Sharon permette ai coloni d'impadronirsi della risorsa fondamentale: l'acqua. Dal 1967 le autorità militari hanno proibito ai palestinesi dei Territori di creare, possedere o fare funzionare una installazione idraulica esistente senza l'autorizzazione del comandante della regione. In compenso i coloni dei Territori hanno il permesso di trivellare i pozzi nei loro insediamenti. Del resto nel 1980 Sharon ammette che due terzi dell'acqua nelle tubature israeliane proviene dalle alture del Golan e della Cisgiordania. Nel 1982 il governo 'nazionalizza' l'acqua palestinese, affidandola alla compagnia idrica israeliana.
Quello che rende disastrosa questa strategia di accerchiamento è che paradossalmente ha funzionato, rendendo nei fatti impossibile la creazione di uno Stato palestinese dotato, almeno in Cisgiordania, di una contiguità territoriale. Come ben sa chi ha guardato una cartina del futuro Stato palestinese secondo Camp David, Oslo, o la Road Map. Ma se i palestinesi hanno perso terre e acqua, gli israeliani non hanno vinto la battaglia demografica: in pratica Israele si è dissanguata (nel 1982 l'insediamento di una famiglia di coloni costava a Israele e all'Organizzazione sionista mondiale 120.000 $) per creare colonie di ostaggi, nelle quali la sindrome di accerchiamento ha favorito lo sviluppo di una società alternativa, spesso ispirata all'ebraismo più ortodosso: refrattaria a qualsiasi idea di pace coi palestinesi, pronta ad accusare i fratelli israeliani di tradimento, come si è visto quest'estate. Un bel disastro. E chi lo ha combinato? Dovendo fare un solo nome, io direi… ma è solo una mia opinione, andiamo avanti.

8. Gli attentati del 2 giugno 1980
Fino al 1977 Israele aveva combattuto molte guerre: alcune contro eserciti regolari, altre asimmetriche e 'sporche', contro nemici non riconosciuti, fedayn e terroristi (del resto il terrorismo era stato praticato anche da fazioni israeliane, come l'Irgun di Begin).
Con la colonizzazione dei Territori, la guerra diventa demografica. Può sembrare un progresso: non si tratta più di respingere un nemico, ma di circondarlo; non di sopprimerlo, ma di essere più prolifico di lui. In realtà è probabilmente il più grande disastro commesso da Sharon: l'aver posto le premesse per la nascita di una generazione di israeliani nelle colonie, cresciuti nel culto della terra degli antenati e, inevitabilmente, nell'odio per "gli usurpatori" palestinesi. I coloni sono, naturalmente, 'costretti' a difendersi da soli: nella pratica formano una milizia paramilitare permanente (in compenso sono spesso esentati dal servizio militare, il che li allontana ancora di più dall'esperienza di vita dei loro connazionali). Con la colonizzazione dei territori il conflitto israelo-palestinese diventa definitivamente una guerra civile: non più un Esercito regolare contro un Fronte di liberazione, ma coloni coi fucili e i palestinesi con le pietre (all'inizio; e con le bombe, in seguito). Una metastasi sociale che complicherà le cose sia all'Esercito israeliano che all'OLP. Forse Sharon non aveva previsto tutto questo.
In ogni caso si tratta di un processo che egli ha contribuito più di altri ad avviare. Nel 1980, durante un duro confronto tra le autorità israeliane e i sindaci palestinesi (accusati di essere "direttamente responsabili della sovversione in Cisgiordania"), Sharon parla di non meglio precisati "mezzi non convenzionali" da adoperare per normalizzare i Territori. Il 2 giugno il sindaco di Nablus (da poco scarcerato) perde due gambe in un'esplosione, dopo aver messo in moto la sua auto. Pressappoco alla stessa ora anche il sindaco di Ramallah ha un incidente analogo (perde una gamba). Il sindaco di el-Bireh, informato, dà un'occhiata alla sua auto nel garage e vi trova una terza carica esplosiva. Per il quotidiano israeliano Haaretz "è praticamente sicuro che si tratti di opera di ebrei" (Baron, op. cit., pag. 377). Nel 1982 quattro importanti esponenti della colonia di Kyriat Arba vengono arrestati per detenzione di esplosivi: due di loro sono processati in Israele per aver occultato documenti utili sull'inchiesta relativa agli attentati del 2 giugno. Nessuno, naturalmente, si permette di attribuire una qualche responsabilità morale a Sharon. Che nel frattempo è già lontano, a Beirut, alle prese con nuovi disastri… (Continua)
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Sta scritto: fortunato il popolo che non ha bisogno di eroi. E scalognato oltre misura il popolo, aggiungo io, che dovendo ricorrere agli eroi non trovi di meglio che Ariel Sharon.

Non vengo a seppellirlo, grazie al cielo. Mi trovo per la verità in un paradosso piuttosto imbarazzante, per il figurante che dovrebbe giocare il ruolo di "blog filopalestinese": se un anno fa mi sentivo sollevato per la fine dell'agonia di Arafat (che sembrava perlomeno sbloccare la situazione), oggi mi trovo a dovere esprimere una sincera preoccupazione per le condizioni di salute del suo eterno nemico. Mi consolo pensando che molti palestinesi devono pensarla come me, perlomeno i più anziani – mi spavento ricordandomi che la Palestina è una nazione giovane. Una non-nazione, pardon.

Il suo ex avversario politico Barak, intervistato ieri sulla Repubblica, sostiene che la Storia ricorderà Sharon per quello che ha fatto negli ultimi due anni. È difficile crederlo, dal momento che le azioni effettivamente compiute da Sharon dal 2004 a oggi (in buona o cattiva fede, per ora non importa) non sono che un tentativo estremo di portare Israele fuori da un inferno che lui stesso ha contribuito a edificare, forse più di ogni altro cittadino israeliano. Queste naturalmente sono opinioni di parte. Quelli che citerò qui di seguito, però, sono fatti. Accaduti realmente, e verificati per quanto possibile. Se qualcuno meglio informato ha da propormi correzioni o integrazioni, lo ringrazio sin d'ora. Ma per favore, non usate i commenti per affermare la vostra contrarietà ai fatti. Neanche io sono d'accordo con i fatti, per quel che serve.

Sono stato molto incerto sul titolo da adoperare. "Crimini di Ariel Sharon" mi suonava un po' falso. Senza dubbio l'uomo ha commesso diversi crimini, riconosciuti anche da Israele; nondimeno bisogna tener conto di azioni odiose che definire "crimini" è esagerato e inesatto; per esempio, radere al suolo un villaggio con 69 civili è un crimine, senz'altro; incitare i coloni ad atti di terrorismo contro i palestinesi è ancora un crimine, forse; ma presentarsi sulla spianata delle Moschee per una passeggiata dopo il fallimento di Camp David non è un crimine, quanto piuttosto… un disastro. Ecco.

I disastri di Ariel Sharon, 1953-2003

1. La strage di Qibya
2. Quel che disse Ben Gurion
3. Il passo di Mitla
4. "Immaginate di voler prendere la collina X…"
5. Eroe di guerra

La strage di Qibya
La guerra di Ariel Sharon contro i civili palestinesi comincia nel 1953. Già comandante di Brigata durante la guerra del 1948, viene richiamato in servizio con il grado di Maggiore e la responsabilità del primo reparto israeliano di forze speciali. Si chiama Unità 101 ed è stata creata per risolvere il problema – ancora attuale – dell'infiltrazione dei palestinesi attraverso i confini.
Il 12/10/1953, in seguito all'eccidio di una madre israeliana e dei suoi figli, il ministro della Difesa Lavon ordina una rappresaglia contro il villaggio di Qibya. L'Unità 101 rade al suolo l'intero villaggio: la moschea, il pozzo, la scuola, 45 abitazioni. Nel corso dell'operazione muoiono 69 civili palestinesi. Gli altri 2700 "decidono" di evacuare Qibya. L'operazione viene condannata dagli USA, e dalla stessa opinione pubblica israeliana; la risoluzione 101 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la censura duramente; in un primo tempo il governo respinge ogni addebito e attribuisce la strage ai coloni esasperati.
Sharon sostiene di aver capito troppo tardi che molti abitanti di Qibya erano rimasti nascosti nelle loro case durante l'operazione. L'ispettore ONU giunto in loco il giorno dopo è di un diverso parere: i fori di pallottola sulle porte e la posizione dei cadaveri (sulle soglie delle case), indicherebbero che alle vittime fu interdetta la fuga.
Secondo Benny Morris, storico israeliano, Sharon ricevette quel giorno ordini per impartire una punizione più esemplare del solito. Non è chiaro da chi, dato che la direttiva dello Stato Maggiore prevedeva una 'semplice' rappresaglia. In seguito all'episodio Israele rinuncia ufficialmente a colpire obiettivi civili. Due anni dopo l'Unità 101 viene sciolta – o meglio, confluisce in una brigata di paracadutisti.
Nella sua autobiografia, Sharon, benché dispiaciuto per la strage, la considera come la prova dell'efficienza raggiunta dall'esercito nel respingere le infiltrazioni. E in effetti in quegli anni ci fu una drastica riduzione degli attentati ai civili israeliani (una media di 150 morti all'anno tra 1951 e 1953).

Quel che disse Ben Gurion
In un'intervista televisiva, Sharon ha raccontato che dopo il raid di Qibya incontrò (per la prima volta) Ben Gurion, che lo sostenne dicendogli: "Non importa quello che il mondo dice di Israele. L'unica cosa che importa è che noi possiamo resistere qui, sulla terra dei nostri antenati. E se non mostriamo agli arabi che c'è un prezzo salato da pagare per chi uccide un ebreo, non sopravvivremo".
È un tipo di logica che conduce alla decimazione – certo, è indimostrabile che Ben Gurion abbia pronunciato veramente queste parole. Ai tempi della lotta per l'indipendenza, il leader laburista aveva manifestato contrarietà per gli atti di terrorismo sui civili. Il discorso invece rispecchia abbastanza fedelmente la futura carriera politica e militare di Sharon. Ecco un altro piccolo grande disastro di Sharon (in buona fede o no): aver messo la legge del taglione e delle rappresaglie in bocca di uno dei padri fondatori di Israele.

Il passo di Mitla
Se riesce difficile credere a uno Sharon "che esegue gli ordini", è perché l'obbedienza non è mai stato il suo forte. Lo dimostra nel 1956, quando la sua brigata di paracadutisti è inviata nel Sinai, nel corso delle operazioni che precedono la crisi del Canale di Suez. Il comandante Sharon ha 28 anni ed è ansioso di mettersi in mostra. Chiede più volte al comando il permesso di entrare nel passo di Mitla, da cui teme possano attaccare gli egiziani: permesso negato. Alla fine riesce ad ottenere di mandare una squadra in perlustrazione: un loro veicolo ha una panne e cade sotto il fuoco nemico. A questo punto Sharon ordina l'attacco e riesce a conquistare il passo di Mitla: una quarantina di effettivi israeliani cadono in una delle più inutili battaglie della storia militare israeliana (il ritiro egiziano era previsto di lì a poco). Sharon è criticato da superiori e sottoposti; il suo vice, Yitzhak Hoffi (futuro generale e capo del Mossad) dichiara ai servizi segreti che Sharon soffre di paranoia e necessita di cure psichiatriche. Il capo di Stato Maggiore, Moshe Dayan, furioso, lo allontana dall'esercito e lo spedisce per un anno in un'accademia militare inglese. È un periodo difficile; la moglie gli muore in un incidente d'auto, forse dopo aver scoperto la relazione di Sharon con la sorella (che poi sposerà). Ma questi sono disastri privati; forse non dovrebbero interessarci.

"Immaginate di voler prendere la collina X…"
Restiamo invece al disastro di Mitla, che è poi l'applicazione di una famosa dottrina strategica di Sharon. Secondo la testimonianza di un paracadutista, Sharon la descriveva così ai suoi sottoposti:
"Immaginate di voler prendere la collina X, ma il governo vi autorizza a prendere solo la collina Y. Voi, naturalmente, prendete la collina Y, poi mandate un reparto in ricognizione alla collina X, per assicurarvi che "sia tutto a posto". Il reparto "cade sotto il fuoco nemico" della collina X, voi notificate al governo che il reparto è in pericolo e chiedete l'autorizzazione per soccorrerlo. E così, finalmente, potete attaccare e prendere pure la collina X".
In realtà a Mitla Sharon sembrò essersi giocato la carriera. Ma "il gioco delle due colline" anticipa già l'atteggiamento del movimento dei coloni: ricognizione, provocazione, richiesta di aiuto, guerra aperta, insediamento; ricognizione, provocazione, richiesta di aiuto, guerra aperta, insediamento. Così, all'infinito.

Eroe di guerra
Riammesso nei ranghi dell'esercito sotto Rabin, Sharon riscatta del tutto la sua immagine con la guerra dei Sei Giorni (1967), durante la quale conduce l'avanzata-lampo più fulminante della Storia d'Israele, sempre nel Sinai. Più controverso il suo ruolo nella guerra dello Yom Kippur (1973): subentrato a un generale sollevato dall'incarico (Sharon si era congedato da poco), riesce avventurosamente ad attraversare il Mar Rosso e stabilire una testa di ponte in Africa; disobbedisce una volta ancora agli ordini, ma salva agli occhi di molti connazionali l'onore di una guerra che per la prima volta Israele ha rischiato di perdere. Una celebre foto lo ritrae accanto a Moshe Dayan che passa in rassegna le truppe nei pressi del Canale di Suez: alla benda nera del grande generale, Sharon può accostare la sua bandana insanguinata. Un simbolico passaggio di consegne: Israele ha un nuovo eroico condottiero. Col senno del poi, è un disastro anche questo. Ma per il momento, è una vittoria. (Continua)
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- 2025

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Il Kamikaze di Via Nomentana

[...]

Caro Leonardo,
hai capito cosa ti chiedo di fare?
E hai capito perché lo sto chiedendo a te?

Non schermirti, ti prego. Non ti abbiamo scelto a caso. Non sei il classico prescelto da trilogia hollywoodiana. Sei semplicemente uno sfigato che ha qualche esperienza nel settore. Non è la prima volta che ti fai esplodere, non è vero? Non la prima volta che ci provi, perlomeno.

Come faccio a saperlo?
Beh, io lo so.
Non è una risposta, dici.
Lo so.

Hai ancora dubbi? E allora ascoltami:

Verso la fine del 2005, nella penisola che nomavasi Italia, ad alcuni liberi pensatori cominciavano a girar le palle...

Da vent'anni costoro puntavano la loro carriera su questo o quel cavallo, nel grande ippodromo delle idee – e da vent'anni non avevano ancora azzeccato un piazzamento.
In una sala scommesse un po' più seria sarebbero già stati allontanati, ma l'Italia è evidentemente una bisca di quart'ordine, dove si fa credito sulla parola, o sulla faccia, o sul cognome; sicché questi continuavano imperterriti a giocare, sempre inseguendo la vincita clamorosa che avrebbe riscattato il cumulo di debiti. Proviamo a ricapitolare:

– avevano puntato sull'uomo nuovo, decisionista e di sinistra, senza tanti fronzoli moralistici: Bettino Craxi. Era finita molto male.

– avevano sperato nel libero mercato, bella speranza! Complimenti! Quanti bei soldi bruciati sul Nasdaq, bravi! E che astuti, geniali, a spellarsi le mani quando la Cina entrò nel WTO, che grande idea! Dopo qualche tempo, pur continuando a professarsi liberali, smisero di parlarne.

– nel frattempo avevano anche puntato sull'imprenditore nuovo, decisionista e anticomunista: Silvio Berlusconi. Pensavano: di politica sa nulla, avrà bisogno di noi. Si misero a libro paga, ottennero quotidiani e ministeri.
…Ma in capo a tre mesi dalla presa del potere era chiaro che non contavano niente. SB pensava solo a SB, ai suoi condoni e alle sue prescrizioni, al massimo alla formazione del Milan. Le dotte analisi sociopolitiche le dava da leggere alla moglie.

– allora avevano alzato lo sguardo: non c'è un padrone più grande (e più fesso) che ci possa adottare? Nessuno sembrava più grande e fesso di George Bush II, e loro accorsero scodinzolando. Guerra al terrorismo! Togliamo il burqa alle madri afgane! Saddam Hussein produce armi di distruzione di massa, è una vergogna! Esportiamo la democrazia! Giù le mani da Israele e dal nostro stile di vita!
…Ma si era tutto impantanato tra Tigri ed Eufrate, in quella guerra assurda che George Bush I aveva troppo saggiamente evitato. E benché non si potesse negare che Afganistan e Iraq fossero stati, in qualche modo, 'liberati', sul piano mediatico nel 2005 la battaglia era chiaramente persa. 2000 vittime americane (e 40 italiane) erano sufficienti a rendere il boccone per sempre indigesto. Si stavano defilando tutti: persino Berlusconi avvertiva di essere sempre stato contro la guerra. Persino Pannella.

– allora, ormai piuttosto nervosi per via degli uragani, si erano giocati il tutto e per tutto sulla carta dell'identità religiosa. Trascendendo dal Neoconismo al Teoconismo, avevano trovato il loro Dio, incarnato nell'essere perfetto e incorruttibile: l'Embrione. E sulle prime – complice un Papa morto di fresco – la cosa sembrava poter funzionare. Avevano persino vinto un referendum, senza partecipare (impossibile, lo so, ma è così). Avevano iniziato a tirar bordate contro il relativismo laico. Avevano festeggiato le detrazioni fiscali alla Chiesa. Erano pronti a inneggiare alla chiusura delle frontiere, delle moschee, dei campi nomadi. Tutto era pronto, occorreva solo un piccolo aiuto per saltare il fosso. Una catarsi. Un botto – insomma, non sono abbastanza chiaro?

Un attentato, perdio!


Un attentato kamikaze a Roma, Milano, Napoli o Torino, che ci voleva? Perché gli spagnoli gli inglesi gli indonesiani sì e noi no?
Apposta, a guerra fatta, eravamo andati ad appollaiarci a Nassiryia – o credevate che ci fossimo andati ad aprire le scuole e addestrare la polizia? Qualche anima bella l'avrà creduto. O che fosse per il petrolio? Qualche cronista addentro l'avrà pensato. Illusi! Macché scuole, macché petrolio! Era una provocazione bella e buona, uno sputo all'Islam, in diretta dalla ridente penisola nel bel mezzo del mediterraneo. L'Italia reclamava il suo piccolo undici settembre nazionale! La sua festa del "nulla sarà mai più come prima!" La sua pearl harbour in sedicesimo, il suo piccolo incendio del Reichstag! E non ci voleva mica tanto, no? Ci si accontentava di poche centinaia di morti, a Trastevere o in Galleria, per sedersi al tavolo dei vincitori…

Nell'estate del 2005 tutto era pronto. Ma niente. Cioè, quasi niente, appena una strage a Sharm el Sheik, colonia italiana d'oltremare. A sentire i servizi, la penisola pullulava tuttavia di alqaedisti in sonno, eppure nessuno si sognava di farsi esplodere qui. Ed era un bel guaio, per certi opinionisti nostrani, che sull'attentato si giocavano l'ultima fiche della loro carriera. Berlusconi stava per tramontare (così sembrava, almeno) e li avrebbe trascinati con sé. Dovevano agire. Entrare anche a gamba tesa, se necessario.

Ormai ogni scusa veniva buona per provocare. Per esempio: gli elettori iraniani, che forse si percepivano accerchiato dai contingenti angloamericani in Iraq e Afganistan, avevano espresso a sorpresa un presidente ultra-integralista. Uno di quegli effetti indesiderati dell'esportazione violenta di democrazia… bene, qualche mese dopo il neo-eletto presidente islamico annunciò a un congresso di studenti che Israele andava tolto dalla cartina. La solita boutade, niente di nuovo. Certo, l'Iran stava diventando una potenza nucleare – d'altro canto Israele lo era già da un pezzo. Certo, Israele si era appena ritirato da Gaza (che senso ha minacciare un ladro proprio quando dopo quarant'anni inizia a restituirti i cocci di casa tua?) Insomma, quel che aveva detto il presidente iraniano era molto grave, come tutto quello che succedeva in medio oriente da diversi anni. Ma in Italia – solo in Italia – divenne un fatto d'interesse nazionale, perché un quotidiano liberale, pochissimo letto, ma finanziato dallo Stato, decise d'indire una manifestazione di solidarietà a Israele. Lodevole iniziativa, no?
E tutti avevano aderito: da destra, da sinistra, dal centro; tutti a sventolare stelle di David azzurre in campo bianco, per la gioia dei telespettatori di Al Jazeera in mondovisione. Così, benché non si aspettasse milioni di persone in strada, il direttore del piccolo quotidiano poteva a ragione fregarsi le mani: era riuscito a far dire all'Italia intera: "cucù, siamo qui, siamo in mezzo al mediterraneo, e siamo filo-israeliani". Se gli alquaedisti in sonno non si svegliavano quel giorno, non si sarebbero svegliati mai. O no?

E se ora mi rivolgo a te, è perché lo so.
Quella sera di vent'anni fa – stai cristallizzando il ricordo giusto or ora – tu eri a Roma, barbuto e abbronzato, con una pettorina esplosiva e forse una kefiah.
Forse che non c'eri?

"Arci…"
"Sì?"
"Mi sa che stiamo facendo una cazzata ".
"Non ti preoccupare. Inspira ed espira, su. Ricorda l'addestramento".
"Ma che addestramento, Arci, dai. Andiam via. Ho paura".
"Sssst. È tardi. Inspira ed espira".
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Tu dirai: Andrò contro una terra indifesa,
assalirò genti tranquille che si tengono sicure,
che abitano tutte in luoghi senza mura,
che non hanno né sbarre né porte,
per depredare, saccheggiare,
metter la mano su rovine ora ripopolate
e sopra un popolo che si è riunito dalle nazioni,
dedito agli armenti e ai propri affari,
che abita al centro della terra.

(Ezechiele 38,11-12)


Arriva Gog

Caro Leonardo,
certe volte Taddei mi fa veram innervosire. Voglio dire, dormire per vent'anni potrà anche essere stata un'esperienza spiacevole; ma non ti dà automaticam il permesso di giudicare il mondo e dividerlo in buoni e cattivi. Anzi, in colpevoli (noi) e innocenti (lui, perché dormiva). Secondo lui dovremmo passare il tempo a provare vergogna per qsti anni disastrosi. Come se viverli da svegli non fosse già stato abbastanza avvilente.

Per esempio, la Palestina. Non fa che chiedermi della Palestina (e so che chiede anche in Facoltà: prima o poi scoppia un casino); ma non appena tento una spiegazione, lui perde la calma.
"Ma come fai a parlarne così, con tanto distacco…"
"…"
"Si vede che non te ne fotte niente, eh? Come a tutti del resto. E allora vedi che ho ragione: peggio dei nazisti. Siete stati peggio dei fottuti nazisti. Sei milioni…"
"Dodici".
"Dodici milioni di persone, e tu me ne parli così, come se fosse una battaglia navale del Settecento. Hai assistito alla più grande tragedia dell'umanità e fai finte di niente".
"Non faccio finta di niente, ma cerca di capire. È passato del tempo, sono successe tante cose…"
"Tante cose? Che cazzo vuol dire Sono successe tante cose? Dodici milioni di persone sterminate nello spazio di un mattino!"
"È terribile, lo so":
"E ne parli come se fosse un incidente in autostrada. Ma non provi nessuna vergogna? Non ti senti in qualche modo responsabile?"
"No, onestam no. Se mi sentissi anche per una minima percentuale responsabile, credo che impazzirei. È una cosa troppo grande per essere condivisa".
"È un meccanismo di rimozione".
"No, è proprio che non sono colpevole".
"Perché sono stati gli iraniani – Ma io dico che è proprio grazie a gente come te che regimi come l'Iran hanno potuto…"
"Alt. Chi ti ha detto che è stato l'Iran?"
"L'ho letto sul Supernet".
"Aspetta un attimo. È vero che gli iraniani avevano in programma un attacco nucleare preventivo. Ma non sapremo mai come sono andate veram le cose".
"Perfetto, li difendi pure. La sera prima programmano un attacco nucleare, la mattina dopo Israele è distrutto. E secondo te può trattarsi di una coincidenza. Dodici milioni di israeliani assassinati, e tu…"
"Non dodici: sei".
"Lo hai detto tu che erano dodici!"
"Dodici milioni di morti: sei milioni di israeliani, sei milioni di palestinesi. Ti dimentichi sempre di loro. Ma quel mattino anche la Palestina è diventata un lago d'acqua morta. E la terza città santa dell'Islam è radioattiva. È improbabile che l'Iran mirasse a qsto".
"Perché no? Un governo di pazzi integralisti sospinti dall'odio… Desiderosi di aumentare la tensione con l'Occidente…"
"…E così spazzano via la Palestina dalle cartine. No, è più sensata la tesi dell'errore umano. La vera cazzata fu permettere a un Paese a elevato rischio sismico come l'Iran di metter su impianti nucleari. A un certo punto un microsisma nel Caspio fa scattare un allarme radioattivo: un generale fesso crede che sia un attacco israeliano e va in panico; scatta il contrattacco nucleare, che secondo i piani doveva centrare solo gli obiettivi militari, con precisione chirurgica".
"Come no".
"Ma i missili iraniani sono roba sovietica di terza mano, sballano le traiettorie e colpiscono la Palestina a casaccio. Qsta è una prima teoria".
"Mi meraviglia che tu non abbia dato colpa agli americani, già che c'eri".
"Ecco, qsta è una seconda teoria. Gli usastri".
"Non ci credo. Esiste anche una teoria del genere?"
"Sì, ed è molto interessante. Si basa sul principio secondo cui le profezie tendono nei tempi lunghi a realizzarsi, non in quanto autentiche rivelazioni divine, ma perché stimolano gli uomini a comportarsi in modo da avverarle…E abbiamo allora le cosiddette «profezie che si autoavverano»…"
"Self-fulfilling prophecies. E allora?"
"Ora, come sai, in seguito alla storica Rapture – le misteriose sparizioni avvenute su suolo usastro – una setta di cristiani protestanti che predicava la prossima fine dei tempi aveva ottenuto la maggioranza al Congresso. Qsta setta era convinta che l'Apocalisse sarebbe stata annunciata da una serie di segni, tra cui l'invasione di Israele da parte di un misterioso Og, re di Magog. È un passo del libro di Ezechiele, nella Bibbia. Lo conosco bene perché se ne parla nel libro che sto spiegando a lezione".
"Ne ho sentito parlare. Ma cosa…"
"In realtà era da decenni che qsta setta protestante si adoperava affinché la profezia si avverasse. Per prima cosa, i protestanti erano diventati i migliori amici dello Stato d'Israele, sostenendolo politicam ed economicam – perché senza Israele, non si sarebbe mai avverata nessuna profezia, mi segui? Niente Israele, niente profezia, niente Apocalisse, niente Gerusalemme celeste, niente di niente".
"Sì, ma…"
"Non solo, ma inconsapevolm gli usastri – appoggiando uno Stato di etnia e religione ebraica nel centro del Medio Oriente – avevano creato anche le premesse perché si formasse una robusta alleanza anti-israeliana nella regione. Che guarda caso è proprio qllo previsto dal profeta Ezechiele. "La Persia, l'Etiopia e Put, con scudi ed elmi…" sto citando a memoria. La Persia sarebbe l'Iran, l'Etiopia in realtà il Sudan, un altro cosiddetto «Stato Canaglia»… e Put indicherebbe il despota russo, che si chiamava Putin, non so se te lo ricordi…"
"Come se fosse ieri".
"Già, dimenticavo. Anche se nella realtà russi e sudanesi hanno respinto ogni addebito: la guerra l'hanno fatta gli iraniani, più o meno da soli, e non si è trattata di un'invasione, ma di un bombardamento – e soprattutto, Dio si è ben guardato dal fermare Gog all'ultimo momento, come aveva promesso al profeta Ezechiele. La responsabilità degli usastri sarebbe quella di aver messo Israele in una situazione in cui avrebbe avuto bisogno di un intervento divino, che alla fine però non c'è stato. E qsta è una seconda teoria".
"Ripugnante".
"Ah, ma c'è di peggio. C'è chi sostiene che Dio non abbia affatto mentito al profeta, e che abbia realizzato tutto ciò che gli aveva promesso. I sostenitori di qsta tesi sottolineano l'attacco del capitolo 39… Aspetta un attimo… qui:

Eccomi contro di te, Gog, principe capo di Mesech e di Tubal.
Io ti sospingerò e ti condurrò
e dagli estremi confini del settentrione ti farò salire
e ti condurrò sui monti d'Israele.
Spezzerò l'arco nella tua mano sinistra
e farò cadere le frecce dalla tua mano destra.
Tu cadrai sui monti d'Israele
con tutte le tue schiere e i popoli che sono con te:
ti ho destinato in pasto agli uccelli rapaci
d'ogni specie e alle bestie selvatiche.
Tu sarai abbattuto in aperta campagna, perché io l'ho detto.
Oracolo del Signore Dio.
Manderò un fuoco su Magòg
e sopra quelli che abitano tranquilli le isole:
sapranno che io sono il Signore".
.

"E questo cosa vorrebbe dire?"
"Non è chiaro, ma secondo alcuni in realtà Gog rappresenta proprio il moderno Stato d'Israele: Dio ha permesso che si riformasse grazie a gente venuta "dagli estremi confini del settentrione"… sai, la massiccia immigrazione russa… poi, quando Israele si accinge ad attaccare preventivam l'Iran, è sempre Dio a «spezzare il suo arco»".
"Ma non è stato l'Iran a colpire per primo?"
"Forse. E secondo altri, è stato Dio a fare esplodere le testate israeliane a terra".
"E perché lo avrebbe fatto?"
"E che ne so. Dio è Dio, e soprattutto qllo dell'Antico Testamento, non va molto per il sottile"
"Sono stronzate, Mac. La verità è che un regime islamofascista ha compiuto un atto senza precedenti contro Israele…"
"E la Palestina. Ti scordi sempre la Palestina".
"…e la colpa è anche di quelli come te, che con la loro indifferenza hanno permesso che l'unica democrazia del Medio Oriente rimanesse isolata e…"
"No, aspetta. Io sarò anche indifferente, ma gli israeliani non avevano bisogno del mio aiuto. Si sono isolati da soli".
"Lo vedi. Lo vedi. La gente come te non cambia mai. Dopo vent'anni ragioni ancora in quel modo. E allora dillo. Dillo che secondo te se la sono cercata".
"Non lo dico".
"Ma lo pensi!"

Qnto mi fa incazzare.
Tanto più che magari ha ragione.
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Aggregatore della Domenica

(perché effettivamente, io, non ho qualcosa di interessante da dire tutti i giorni).

Gli italiani sono un popolo strano: hanno biblioteche aperte al pubblico, spesso gratuite, e non pagano il copyright agli autori. E molte funzionano anche bene, come la Delfini (ma a Modena ce ne sono tante belle).
L’Unione Europea non poteva reggere questo scempio. (Vedi Mantellini). La Biblioteca Civica di Cologno Monzese promuove una petizione telematica.

***

Domani si parlerà, di Israele e kamikaze, kamikaze e Israele. Questo pezzo di Adriano Sofri di due settimane fa (su Repubblica), salvato da Blogoltre, non c'entra in senso stretto con l'ultimo attentato. Mi pare prezioso perché rielabora – a suo modo – tante cose diverse (le posizioni di Benny Morris, la questione demografica in Palestina, i migranti in Europa) e… non conclude. Questo credo sia l’unico approccio maturo alla questione israelo-palestinese: quello tragico. Non ci sono facili soluzioni all’orizzonte: non ci sono strette di mano che risolvono tutto, né muri di cemento o filo spinato che risolvono tutto, né ritorno dei profughi, né bottoni da premere.

(In particolare la “barriera difensiva” crea una serie di problemi senza fine. Su Indymedia, un episodio tragico e la protesta di una suora).

***

Guantanamo. Negli ultimi giorni un paio di notizie un po' troppo disinvolte sul recinto più famoso del mondo hanno riacceso una polemica tra vari blog che qui volentieri vi risparmio. Anche perché rischio di voler passare per un guantanamologo e non lo sono.
Alla fine della partita, i punti saldi sono:
(1) Guantanamo fa a pugni col diritto internazionale, e questo non è bene, da parte della superpotenza che del diritto internazionale vorrebbe essere garante;
(2) Le notizie da Guantanamo vanno prese con le molle: i carcerieri hanno tutto l'interesse a mostrarci che le cose vanno bene e che i ragazzi ingrassano (tutti gli animali in cattività ingrassano). Camillo, insomma, è solo l'ultimo anello di una filiera di notizie scremate ad arte (è anche l'anello che tiene meno - ma questa è solo una mia opinione). Forse non varrebbe la pena di discuterne, ma Il pezzo di Pfaall è anche bello da leggere.
(Qui Paferrobyday recensisce "Guantanamo" di Bonini (via Brodo).

***

Qualcosa di più allegro, adesso. Venerdì scorso ero depresso. Volevo scrivere un post sulla mia frustrazione, ma il mio sosia automatico mi ha battuto in velocità. E in sincerità. Sono un po' perplesso.

Right now I am obsolete. I see how my talent has been turned away from its goal and I feel like I am missing out on so much. Oh well, I rejected all the little disappointments...[...] It's like nailing jelly to a wall but that hurts. I'm sure I've said this before.

***

"Ciao, come va?"
"Al solito, stressato, frustrato, stanco, e tu?"
"Non mi lamento: stanco, stressato, frustrato. Andiamo al cinema?"
"Cosa danno?"
"C'è il film sul mobbing".
"Ah, bene. Altrimenti?"
"C'è quello sull'anoressia che dicono che è bello".
"Non so, cosa dici?"
"E se ci sparassimo?"
"Siamo pure pacifisti".
"Aggià".

(Scottanti rivelazioni! Lo "psicologo della mutua" del film di Garrone è Giulio Mozzi!)

***

Stile Cronaca Vera: Gli nascondono i libri di Freud, e cercandoli trova le riviste porno del padre...
Se pensate che la vostra educazione sentimentale non sia stata abbastanza deviante, provate con quella di Clutcher

***

Volete fare ironia sugli statistici (e la storiella dei polli di Trilussa non la reggete più)? Questa è cinica al punto giusto (o foise un po' più in là del punto giusto).

***

L'hanno poi trovato, poi, il Tesoro dei Tanzi? Secondo il misterioso Sbancor un vero tesoro non esiste. E vabbè, Sbancor ne ha dette tante. Però se Caravita (Network Games, e nei ritagli Sole 24 Ore) conferma parola per parola, beh, io mi fido (belli anche gli ultimi post su India e Cina).

***

Ma guarda che ora è già.
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Io sono un colluso, 2. (Continua da ieri)
Riassunto delle puntate precedenti. Il nostro eroe, arrestato con l'accusa di Incoerenza, è finalmente di fronte alle proprie responsabilità. Con quanti dittatori assassini ha collaborato? Da quanti capi di Stato corrotti ha accettato i dolciumi?

"Se non ha capito glielo ripeto. Ha mai accettato dolciumi da un capo di Stato corrotto?”
“Aspetti… un attimo”.
“Dov'era la notte del 31 dicembre 2001?”
“Un attimo. Ho mangiato i dolcetti di Arafat! Ma non è un dittatore! È stato democraticamente…”
“E chi ha parlato di dittatore? Ho detto: capo di Stato corrotto. Non le risulta?”
“Certo che mi risulta! Said lo dice da anni. E allora?”
“Avresti potuto lincarlo, questo Said. A leggere il suo blog, sembra che i palestinesi siano tutti bravi e buoni e prigionieri nei Territori. Non le risultava, la corruzione dell'Autorità Nazionale Palestinese, la notte del 31 dicembre 2001?”
“Ero in comitiva. Mica potevo piantar grane”.
“Anche solo aprire la bocca. Per i dolcetti l’ha aperta”.
“Avevo fame, abbiamo cenato all’una del mattino”.
“Il discorso le è piaciuto?”
“È stato imbarazzante. Lì per lì ho pensato all’alzheimer. Continuava a dire “Peace” e “my country” a ripetizione. Poi mi sono detto: cosa pretendo? Cosa pretendiamo da un ex guerrigliero sotto assedio?"
“Cosa pensa di lui? Lo preferisce ad Abu Mazen?”
“No, un attimo, io questa cosa non la capisco. Abbiamo detto coerenza? Va bene, coerenza. Vogliamo la democrazia in Medio Oriente? Arafat è stato eletto democraticamente. Se c’è stato qualche broglio, beh, sono cose che capitano anche in Florida. Se c’è stata corruzione e collusione col terrorismo, sono cose che sono capitate anche a Tel Aviv. Si ricorda di Sabra e Shatila? Sharon lasciò campò libero ai falangisti libanesi, che fecero un massacro. Se lui può farsi eleggere democraticamente, non vedo perché Arafat…”
"Crede che rinfacciarsi i misfatti del passato possa portare in un qualche modo alla pace? Non trova che qualcuno dovrebbe smetterla per primo, e riconoscere unilateralmente le proprie responsabilità?"
"S-sì, ma non vedo perché devono essere i palestinesi".
Stringe le spalle "Forse perché sono i più deboli. Quindi li mangerebbe di nuovo, quei dolcetti?”
“Erano pure buoni”.
“Li mangerebbe?”
“Io faccio sempre onore agli ospiti, è la mia cultura. La civiltà contadina. E' una civiltà occidentale”.
“È solo un maledetto ingordo. Va bene”.
Scribacchia qualcosa su un incartamento, poi lo straccia e lo butta via. Sbuffa.
“È ancora qui? Può andare”.
“Dove?”
“Secondo lei? L’uscita è in fondo a destra”.
“Ma… sono libero?”
“Secondo lei? Crede che possiamo trattenerla perché ha venduto del rum e mangiato dei dolcetti? Roba che neanche Orwell. Si tolga dai piedi”.
Forse è un trucco, forse in fondo a destra c’è la stanza 101. Del resto altre uscite non ci sono, quindi…
"Ma mi lasci dire una cosa, la sua generazione è una grande delusione".
"Eh?"
"Siete una mandria di perfettini che sfilate per il mondo coi vostri buoni sentimenti. Mai una vera compromissione con un regime dittatoriale, mai uno slogan veramente violento, mai un incitamento alla lotta armata. Non c'è uno solo di voi che abbia veramente le palle. Mi sono divertito di più quando indagavo sulle Orsoline. Vada, vada".
Non so perché, ma mi dispiace di averlo deluso.
“Scusi un attimo…”
“Che c’è ancora?”
“Continuerà a leggermi?”
Sbuffa. Preferirebbe di no, è chiaro. “Secondo lei?”
“Comunque cercherò di essere più coerente, in futuro”.
“Le conviene, davvero. Addio”.
“Allora io vado, eh?
“Ho giusto detto Addio”.
“Addio”.
Fuori è una bella giornata di maggio. Il polline mi fa starnutire. E mi pizzicano gli occhi. Mah.
Sembrava tanto una brava persona.
Certo che è terribile, questa sindrome di Rejkiavik (o era Copenaghen?)
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(Continua da ieri)

Allora feci proprio la cosa che non si deve assolutamente fare, cioè mollai le manine dei miei compagni e scappai: dove? Di qua, di là, ma sempre guardando in alto, per cui inciampai. Caddi per terra mentre cadeva il fumogeno (molto lontano). E mi feci male, stupidamente, perché caddi sulla strada di terra mettendo avanti le mani, e se avete giocato a pallone da bambini su un cortile di ghiaino potete immaginarvi quanto sia stupido e quanto faccia male. Ho ancora i segni sulle nocche del pugno, come se avessi dato un pugno a un felino selvatico.
Mi rialzai subito, rassicurai che non mi ero fatto niente, però ero tutto bagnato. Cadendo, avevo spappolato il limone che tenevo in tasca. Pantaloni bagnati e mano sanguinante: a 48 ore dalla partenza ero già lo zimbello della spedizione.
Il gas iniziava a farci tossire. E Marcella piangeva. Fin qui normale. Ma Marcella stava anche coprendosi di chiazze rosse.
“Marcella, non è che sei allergica a qualcosa, per caso”.
“Sì”.
“A cosa?”
“A varie cose”.
“Ah”.
Gli italiani si tenevano per mano, tranquilli. Dalla collina stava scendendo un inglese. Ancorché ridicolo, io ero comunque l’interprete.
“Che sta dicendo?”
“Dice che cerca volontari per andarsi a sedere contro il carro armato, laggiù”.
E Marcella, gli occhi rossi: “Ci andiamo?”
“Eh?”

Ci ritrovammo davanti a questo carro armato, col mitra che spuntava dalla feritoia, mentre un tizio da un blindo (un tipo non proprio brillante) insisteva a tirarci fumogeni controvento. C’erano due inglesi con buffe tute di plastica: ci avevano spiegato che se ci cadeva un fumogeno tra le gambe dovevamo cercare di passarlo a loro, che erano allenati a respingerli. Ci sedevamo, scattavamo foto, al lancio dei fumogeni indietreggevamo, e cercavamo di respingerli a calci. Marcella piangeva.
“Marcella, tu non stai tanto bene, forse è meglio se ce ne andiamo…”
“No, no, restiamo qui”.
Ogni tanto qualche palestinese passava, con la borsa della spesa o con un carrettino. Passava di fianco al tank, di fianco al blindo, in mezzo a noi, salutava, sorrideva, proseguiva. Una volta passato, la piccola battaglia ricominciava (come bambini in un cortile, che interrompono giochi e finzioni al passare degli adulti).
E mi ricordo questa cosa: a un certo punto un fumogeno arrivò addosso a uno degli inglesi ‘specalisti’, e questi lo afferrò al volo, con una mano, rilanciandolo subito al mittente. Forse non era inglese, forse era un americano, certe prese s’imparano col baseball.

Verso ora di pranzo gli israeliani ripartirono, e allora ripartimmo anche noi. Io ero pieno di dubbi. A cosa avevo partecipato? A una battaglia? se sì, non mi ero comportato molto onorevolmente. (M’infastidiva dover tornare dall’unica battaglia della mia vita coi pantaloni bagnati, seppure di limone). Se no, perché eravamo rimasti lì? Il posto di blocco era aperto già prima di noi. Non avevamo corso un rischio inutile, innervosendo gli israeliani, esponendo alla loro vendetta i palestinesi? Noi nel giro di una settimana ce ne saremmo andati; i ragazzini che avevano infierito sul posto di blocco restavano lì. Non era un po’ troppo comodo, questo atteggiamento da tuta bianca in vacanza?
E una sola certezza: gli inglesi (o gli americani) sono matti. Raccogliere i fumogeni al volo. Ma come ha fatto? Io se vedo un fumogeno a cinquanta metri su di me, me la squaglio.
“Va meglio, Marcella?”
“Secondo me dovevamo restare di più”.
“Ma cos’altro potevamo fare”.
“Non lo so. Però secondo me dovevamo restare di più”.

Venerdì scorso un altro pacifista ha “incrociato la traiettoria” di un proiettile israeliano. È il terzo in meno di un mese. È un altro segno che la vita degli Occidentali non è più sacra, che non non possono più giocare agli eroi, affrontare i carri armati a mani nude. Bin Laden ha annunciato al mondo questa verità, George W. Bush l’ha compresa, Ariel Sharon si adegua.
Tom Harindal era impegnato ad aiutare un gruppo di bambini palestinesi ad attraversare una strada esposta al fuoco. Pare che avesse una lunga esperienza di interposizione pacifica, in Palestina, in Giordania e in Iraq. Pensando a lui mi è venuto in mente quell’inglese (o era un americano?) che raccoglieva i fumogeni al volo. Mi serve pensare che forse l’ho conosciuto; mi aiuta a ricordare che la Palestina esiste, che Israele esiste, che la strada tra Ramallah e Bir Zeit ha continuato a esistere anche quando me ne sono andato, forse per non tornare mai più. Tom Harindal è morto, come avrei potuto morire io, o Marcella, quel giorno.
Ma attenzione, non vi chiedo d’indignarvi perché hanno ucciso Rachel Corrie e Tom Harindal, e ferito gravemente Brian Avery. Vi chiedo di pensare che nello stesso mese scarso hanno perso la vita 70 palestinesi, e non tutti erano terroristi. Alcuni erano bambini.

Con chi ha questo punto ha già la replica pronta, che anche gli israeliani muoiono negli attentati, vorrei condividere una riflessione: nemmeno la legge del taglione prevedeva punizioni più gravi del danno arrecato: come si può vendicare una strage con una strage ancora maggiore? Come si può distruggere la casa dei famigliari di un kamikaze? Su quale libro è stato scritto che la colpa del padre non deve cadere sul figlio?
Per voi questa è la guerra tra una democrazia e il fanatismo religioso. Per noi è solo una guerra tra poveri. Poveri ambiziosi e poveri disperati, che scambiano un Eden per un deserto, che si uccidono per il controllo di una sorgente o di una strada.

Gli interpositori pacifici non sono fiancheggiatori dei terroristi: è il contrario. Hanno cercato, in questi anni, di aiutare un popolo accecato di rabbia a praticare forme di resistenza non violenta. Non hanno mai messo in dubbio che Israele fosse una democrazia, anche se in crisi: o non si sarebbero presentati a mani nude davanti ai tank dell’esercito.
Hanno avuto fiducia nell’opinione pubblica israeliana e internazionale; hanno messo a disposizione i loro corpi, le loro vite che fino a qualche mese fa erano così preziose, e ora vengono sacrificate senza che nessuno ai piani alti abbia il coraggio di dire niente.
Oggi Sharon si dice pronto alla pace: non è la prima volta che ne parla, non è la prima volta che accenna a un vago “ritiro dai territori” rifiutandosi di scendere nei dettagli, non è la prima volta che cerca di regalare deserto in cambio di sorgenti. Si può discutere la pace con un ladro e un assassino? Io voglio credere di sì. Se ho creduto che si potesse contenere Saddam Hussein, non vedo perché non si dovrebbe dare una chance ad Ariel Sharon.
Ma quando si farà, questa pace (se si farà), io vorrei che accanto ai nomi dei gloriosi pacificatori del Medio Oriente, Sharon, Bush e Blair, ci si ricordasse di quegli inglesi e di quegli americani che hanno avuto la fantasia di credere alla pace e alla libertà quando sembravano impossibili, e che hanno pagato la loro fantasia con la vita. Tom Harindal, Rachel Corrie. Se un giorno ci saranno strade libere, tra Palestina e Israele, e i poveri un po’ meno poveri e un po’ più indaffarati saranno liberi di percorrerle senza più blocchi, vorrei che due di queste strade portassero il vostro nome. Per quanto ingenuo, per quanto pazzo, il vostro Occidente è l’unico al quale sono fiero di appartenere.
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Ho tirato giù un posto di blocco israeliano (e cosa c’è di male)
Per ricordare Tom Horindal: prima parte

Quando mi sono trovato davanti ai carri armati, io, non mi sono comportato tanto bene.
Del resto non volevo neanche andarci. Tutta colpa di Marcella.

“Il 27 dicembre del 2001 gli studenti di Ramallah che rientravano dalle vacanze di Natale trovarono un posto di blocco sulla strada per l’università di Bir Zeit, e allora…”
”Che palle, nonno, sempre la stessa storia…”
“Zitti, che è importante”.

Il 27 dicembre 2001 gli studenti di Ramallah chiesero alla delegazione di Action For Peace di fare opera di interposizione a quel posto di blocco l’indomani. Quella sera stavo giusto tornando dopo il mio primo pellegrinaggio alla città vecchia, assai fiero di aver rintracciato l’albergo da solo, dopo essermi alienato dai compagni in un internet cafè. Nella hall Marcella stava leggendo sulla lavagna il programma del giorno successivo: c’era un cambiamento. Un gruppo, invece di andare a Nabius, come previsto, si sarebbe recato al posto di blocco tra Ramallah e Bir Zeit. Quest’ultima era un’operazione delicata; c’era il concreto rischio di dover fronteggiare l’esercito israeliano, perciò servivano persone con una certa esperienza, un certo coraggio, una certa determinazione. Insomma, non si stava parlando di me.
Però Marcella si voltò e mi chiese: “Andiamo a Ramallah, domani?”
“Eh?”

Prima che pensiate male, l’antefatto: io e Marcella ci eravamo presentati il giorno prima, alla stazione di Modena. A Modena ci si conosce tutti di faccia, ma a parte la faccia, io non la conoscevo. Conoscevo invece il suo ragazzo, il quale, salutandoci, “Mi raccomando” aveva detto, “attento che non si metta nei guai”. Sono cose che a trent’anni si dicono per scherzo. E poi, anche senza conoscere molto di più della sua faccia, non credevo che Marcella potesse mai mettersi nei guai. Ha un volto molto buono, un’aria serafica, non credo di averla mai vista scandire uno slogan a un corteo. Però il 28 dicembre 2000 voleva andare a Ramallah, e io mica potevo dirle di andare da sola, quindi…

“Si marcia in fila indiana fino al posto di blocco, poi ci si piazza ai bordi e si cerca di far passare i palestinesi. È probabile che tirino fumogeni, ma la cosa a cui dovete stare attenti sono le bombe assordanti: oggi me ne hanno tirata una, mi sembra di aver perso l’uso di un orecchio. Mah, speriamo mi passi. Guai a dividersi. Guai a scappare. Solo chi scappa si mette in pericolo. L’importante è restare uniti. Domande?”
“Ehm… e se caricano?”
“L’importante è restare uniti”.

La periferia di Ramallah è una città finta, un cantiere abbandonato: qualcuno aveva pensato che dopo Camp David ai palestinesi sarebbe piaciuto venire ad abitare in un appartamento nel centro più dinamico della Palestina, a 15 minuti d’auto da Gerusalemme. Ma Camp David era un bluff, coi posti di blocco i 15 minuti sono diventati tre ore, i palestinesi non hanno più potuto lavorare in Israele, quegli appartamenti erano stati abbandonati a metà, quando li ho visti, la mattina del 28 dicembre 2001. I rappresentanti degli studenti ci erano venuti incontro con una buona notizia: gli israeliani avevano lasciato il posto di blocco. Sapevano di certo che eravamo diretti lì, e non volevano avere delle noie.
D’altro canto noi ormai lì c’eravamo. Iniziammo a marciare in fila indiana, con le nostre ridicole pettorine bianche con la scritta “Italian Delegation”. Noi italiani eravamo il grosso della spedizione: l’età media era sopra i quaranta. I francesi erano molti meno, e facevano molta più confusione (più di una volta ci avrebbero messo nei guai). Inglesi e americani si sentivano poco, ma – come stavo per rendermi conto – erano i più pazzi. Qualcuno distribuiva limoni, questi famosi limoni che dovrebbero fare da antidoto ai fumogeni, anche se nessuno sa mai dirti come. Io, per non saper leggere né scrivere, me ne ero messo in tasca uno. Marcella marciava davanti a me.
“Tutto bene?”
“Sì, perché?”

Giunti al posto di blocco ci piazzammo lì, due file di pacifisti mano nella mano. In mezzo la gente passava. La maggior parte non erano studenti, ma donne con bambini, operai, ragazzini. E c’era anche qualche testa calda, ovviamente. Il posto di blocco, in cemento, era stato abbandonato: buttarlo giù era una tentazione troppo forte (d’altronde era un posto di blocco con la bandiera israeliana in un territorio amministrato dall’Autonomia Palestinese). Ma siccome sulla collina c’era un blindo israeliano, armato di videocamera, bisognava evitare che qualche ragazzino del posto si lasciasse inquadrare mentre distruggeva qualcosa. I ragazzini finiscono in carcere anche per meno.
“Lasciate, è meglio se lo distruggiamo noi”
Lì si videro attempati padri di famiglia, con la bandiera della pace a mò di mantello, metter mano a travi e spranghe e buttar giù quello che potevano. (Ma io e Marcella continuavamo a tenerci per mano, salvo quando ci capitava di scattare una foto). Ma la cosa non poteva che eccitare ancor di più i palestinesi, che a un certo punto attaccarono la guardina, buttandola giù a spallate e dandole fuoco. A quel punto, da sopra la collina, iniziarono a spuntare altri blindi e un carro armato. E noi continuavamo a tenerci per mano, come bambini.

Partì un fumogeno, lo vedemmo salire, salire, e poi scendere, a pochi metri da noi. Continuammo a tenerci per mano.
Ne partì un altro, io lo vidi salire, e mentre scendeva cercai di calcolare dove sarebbe finito, ed ebbi la sensazione precisa che sarebbe finito su di me. (Continua)
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Notizie e tentazioni

La notizia è che la guerra sta andando male, da qualunque lato la si voglia vedere.
La tentazione è: (Sorrisino) “Vedete! Noi l’avevamo detto!”.
È una tentazione alla quale io resisto abbastanza facilmente (le immagini di questi giorni troncherebbero il sorrisino a chiunque), ma Barenghi?

Barenghi è il direttore del Manifesto, un quotidiano che spesso predica ai convertiti, specie in prima pagina. E in prima pagina venerdì scriveva:

Ma quando discutiamo con noi stessi, quando ci guardiamo allo specchio, le cose stanno diversamente: una parte di noi, nel senso di una parte di ognuno di noi, pensa e spera che gli iracheni resistano (per quanto nessuno a sinistra potrebbe mai identificarsi con il loro regime), che gli americani paghino cara la loro guerra, che il sacrificio di migliaia di soldati o civili possa servire a bloccare il progetto che l'amministrazione Bush sta cercando di praticare da un anno e mezzo in qua.

Una parte di noi, quella certa parte di noi, se c’è, di solito se ne sta ben ricantucciata dentro di noi, per la paura che le altre parti di noi la prendano a sberle. È precisamente la parte di noi che sogghigna a ogni notizia di strage di mercato o di marines sperduti nel deserto. È quella parte di noi – profondamente stupida – che ogni volta che vede grande confusione sotto il cielo pensa che la situazione sia eccellente, e la palingenesi rivoluzionaria alle porte. È la parte di me (spero irrisoria), che se qualcuno riuscisse a localizzarmi in una zona fisica (un dito dei piedi, un etto del cervello, una piega dell’intestino), io sarei disposto a farmela asportare, perché non si può essere così idioti, anche solo in una recondita parte di noi.

Alla fine Barenghi (sempre allo specchio) si chiede, amletico: E allora come speriamo che sia questa guerra, lunga o breve?.
La risposta è molto semplice: non speriamo niente. La politica non si fa con la speranza. La guerra, figurarsi. I belligeranti, delle nostre speranze, non sanno che farsene.
(A meno che non siamo convinti che i nostri auspici possano modificare il corso degli eventi, ma in tal caso siamo cristiani e questi auspici si chiamano preghiere. Nulla di male, basta riconoscerlo).

Fine invettiva. Consigli per gli acquisti:
l’ultimo numero di Internazionale è molto bello. Passi il titolo di copertina (“War Blog”), ma ci trovate tante cose che credete di aver già letto in settimana navigando su Internet, e invece avete solo fatto finta, perché erano scritte in piccolo e in inglese. Per esempio, il blog di Raed, da Baghdad, tradotto in italiano. Un pezzo di Seymour Hersh su una delle tante bufale pre-belliche: un presunto traffico di uranio dal Niger all’Iraq. Doveva essere una delle prove del rinnovato interesse di Saddam Hussein per le armi atomiche, ma le pezze d’appoggio erano smaccatamente false, come hanno ammesso a mezza voce anche i servizi americani.

La redazione di Leonardo, che la sa sempre un po’ più lunga, è venuta in possesso di uno di questi documenti riservati. Si tratta di un’e-mail inviata all’indirizzo di posta elettronica saddam@hussein.ir Ne citiamo le prime righe:

Sir,

URGENT BUSINESS RELATIONSHIP

First, I must solicit your confidence in this transaction,
which is of mutual benefit. This is by virtue of it's nature
of being utterly confidential.I am sure and have confidence
of your ability, and reliability to prosecute a transaction
of this great magnitude.

We are top Officials of the Federal Government Uranium
review Panel who are interested in importation of goods into
our country with tons of uranium which are presently trapped in
Niger. In order to commence this business,we need your
assistance to enable us transfer funds into your
account.


Secondo me non c’è cascato. (Qui la spiegazione).


Bambini internazionali

Ma soprattutto, su Internazionale di questa settimana c’è una buona traduzione delle e-mail di Rachel Corrie. Rachel Corrie era una ragazza americana di 23 anni, sensibile, coraggiosa e intelligente. Ed è morta il 16 marzo in Palestina, schiacciata da un bulldozer israeliano. Poi è scoppiata una guerra, e non se n’è più parlato. Ma dobbiamo cercare di vedere le cose in prospettiva: dopo questa guerra ce ne saranno altre, e sempre crederemo di assistere a svolte cruciali, e sempre ci dimenticheremo della guerra precedente. Ma se avremo dei figli, loro non ci chiederanno se c’è stato prima il Kossovo o l’Iraq o l’Afganistan o il Vietnam. Ci chiederanno se abbiamo sentito parlare di Rachel Corrie, se abbiamo pianto per lei, e se abbiamo ancora quella vecchia rivista con le sue lettere. Credo. Spero.

Ho pensato che in fondo siamo tutti bambini curiosi di altri bambini: bambini egiziani che strillano a una strana signora che passeggia sul sentiero dei carri armati. Bambini palestinesi presi di mira dai carri armati quando si affacciano dal muro per guardare quello che succede. Bambini internazionali in piedi davanti ai carri con striscioni. Bambini israeliani nei carri, anonimi, che a volte urlano, a volte salutano, molti obbligati a essere lì, molti semplicemente aggressivi, pronti a sparare sulle case appena noi ce saremo andati...
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Un altro ragazzo si è tolto la vita all’accademia militare di Modena. Si chiama Ermir Haxhiaj, era albanese, aveva 19 anni. È il secondo suicidio in due mesi, il quarto in sei anni. I graduati insistono che si tratta di pura fatalità. Il padre del ragazzo invece accusa gli insegnanti di discriminazione.
Sull’accademia di Modena ho già scritto un pezzo , un mese fa, e non saprei cosa aggiungere.


Coccodrilli di guerra
Invece vorrei far presente una cosa che in questi giorni mi sta spaventando: mi sono reso conto che questo sito è un interminabile officio funebre, una galleria di coccodrilli.
Sono sceso in fondo alla pagina, e ho iniziato a contare i morti del mese, da Alberto Sordi fino al povero Ermir. Sono troppi.
D’altro canto, quando muore un attore importante, un cantante celebre, una ragazza schiacciata da un bulldozer, sembra impossibile non parlarne. I morti reclamano spazio, proprio loro che ormai non possono più essere aiutati: muovono i ricordi, scuotono le coscienze, fanno arrabbiare e commuovono. I morti – mi sto rendendo conto – sono un argomento molto comodo. Se vuoi fare indignare un lettore, o fargli spendere una lacrima, non c’è nulla di meglio di una prece in prima pagina.

E c’è di più – c’è di peggio: nelle nostre quotidiane battaglie di idee, i morti sono armi. Armi improprie, non convenzionali, micidiali. Rachel Corrie è morta, non esiste più. Perché ho messo la sua foto sul mio sito? Per commuovermi, per sentirmi buono. E perché il sorriso di Rachel Corrie è un colpo basso a chi non è d’accordo con me, a chi difende i carri armati israeliani.
Forse non avrei dovuto mettere quella foto. Forse non è giusto sventolare i morti come bandiere, gettarli addosso al nemico come armi.
C’è qualcosa di molto sbagliato in me, se la prima reazione al lutto del mattino è “Vedete che avevo ragione”. All’accademia si uccide un altro cadetto: “Vedete che avevo ragione? Lì dentro c’è del marcio”. Accoltellano un giovane disobbediente: “Vedete che avevo ragione? I neofascisti sono pericolosi”.
Potrò avere tutte le ragioni del mondo, ma ho perso la mia battaglia se ho trasformato i morti in argomenti, se non riconosco più in loro degli esseri umani, come me, che ieri respiravano e stamattina non esistono più.

Ho pensato a tutto questo dopo aver visto, su icapperi, un banner spaventoso, dedicato ai pacifisti, che mostra foto di vittime del regime iracheno, in gran parte bambini. “In Iraq in migliaia non possono camminare: Saddam ha dato loro “la pace”… Voi marciate per la vostra pace, voi marciate per la pace di Saddam. Ecco il prezzo della vostra pace. Io non posso permetterlo. Io non voglio pagare. È tutto vostro”.

Ora, qui c’è qualcosa di più del pessimo gusto. Innanzitutto c’è l’idea che i milioni di pacifisti del 15 febbraio siano poveri ingenui, che non abbiano mai sentito parlare dei crimini di Saddam Hussein: altrimenti non potrebbero non invocare l’invasione immediata dell’Iraq.
L’autore del banner non ha nessuna intenzione di ‘educare’ i pacifisti: essendo loro ingenui e ignoranti, l’unica cosa da fare è stordirli con una caterva impressionante di foto di bambini morti e feriti, possibilmente con il viso in primo piano e gli occhi sbarrati. Non è citata nessuna fonte per le immagini (sono curdi? Sciiti? A che anno risalgono le foto?).
Quei bambini morti non hanno una storia da raccontare. Sono soltanto un’arma di persuasione, una bandiera di civiltà (civiltà?).

Naturalmente si potrebbe obiettare in milioni di modi: che i pacifisti non sono filo-Hussein, perché Hussein non è pacifista; che i crimini del regime iracheno sono noti da sempre, e che è molto sospetta quest’improvvisa fregola di vendicare gli eccidi al gas nervino commessi più di dieci anni fa. Ma tutto questo non ha la forza del volto di un bambino che non esiste più.
E allora cosa facciamo? Alla fine qualcuno si metterà a cercare foto di bambini uccisi dai missili americani o israeliani, in Iraq, in Afganistan o in Palestina: e ci farà anche lui il suo bello, commovente, scioccante banner animato. E la battaglia per le idee continuerà così, a colpi di foto di bambini morti.

Andrà davvero così? Dipende da noi. Siamo così affezionati alle nostre idee, da rinunciare alla nostra umanità per difenderle?
Domani inizia la guerra, e i morti – come succede in questi casi – smetteranno di avere un volto: diventeranno numeri. Io prometto che ci andrò piano, coi coccodrilli, e non innalzerò più nessuna foto di morto come bandiera, e non userò nessun corpo di morto come arma. Voi fate pure quello che vi pare, siamo su internet. Buona fortuna.
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So thanks for allowing me to not feel like a complete polyanna when I tentatively tell people here that many people in the United States do not support the policies of our government, and that we are learning from global examples how to resist... (Rachel Corrie)

Perché in questa foto ha un sorriso gentile, simile a quello che abbiamo visto in altre ragazze che abbiamo salutato, e a cui abbiamo consigliato prudenza, che non sempre si può sfidare i carri armati a mani nude e spuntarla; perché in definitiva il suo volto assomiglia al nostro, è un volto pulito, senza rabbia e senza povertà, ci pesa troppo la morte di Rachel Corrie, ricoperta di sabbia e schiacciata da un bulldozer.
Ci pesa più della morte degli altri due palestinesi di oggi: ma quella è routine, e poi quella gente sembra predestinata alla miseria e alla violenza.
Rachel Corrie no. Veniva da Olimpia, Washington, USA, e qualcuno ben informato avrà già concluso che poteva benissimo starsene a casa sua, invece di ostacolare i democratici bulldozer d’Israele.

Da una lettera scopriamo che era bionda, ma nei campi preferiva teneva i capelli coperti per non urtare nessuno; che era vegetariana, ma che le era stata promessa una pastasciutta, uno di questi giorni. E che di solito parlava lentamente, con ricercata tranquillità. In questa foto però la troviamo sorpresa in un accesso d’ira, mentre brucia una rudimentale bandiera israeliana: un gesto che a un palestinese costerebbe probabilmente il carcere, ma che un cittadino occidentale pensa ancora di poter fare, nei Territori. Un gesto che qualcuno disapproverà, che qualcuno giudicherà antisemita, ma in tutta franchezza, signori: per voi Rachel Corrie era una pericolosa agitatrice? Merita di essere morta così?

Voi liberi pensatori, che difendete Israele perché è una democrazia e non un califfato, probabilmente siete dispiaciuti quanto me di questa ragazza forse un po’ troppo idealista, e pensate che ci dev’essere stato un errore, un incidente, una svista del conducente, e che un’inchiesta chiarirà le colpe e le responsabilità.
Posso rispondervi con un nome? Raffaele Ciriello.
Vi ricordate chi era Raffaele Ciriello? Un reporter italiano senza contratto fisso, che mentre fotografava l’avanzata dell’esercito a Ramallah fu colpito in petto da una democratica pallottola, partita da un democratico carro armato. È successo appena un anno fa, il tredici marzo.
Nei giorni successivi si sollevò un polverone, poi in Italia fu ucciso Marco Biagi e i giornali si misero a parlare d’altro. Nel frattempo i responsabili dell’esercito israeliano avevano dichiarato che la responsabilità era del reporter, che si trovava là dove l’esercito aveva consigliato di non restare. Perché c’è pur sempre una guerra, in Palestina, e in guerra, evidentemente, l’esercito democratico d’Israele si considera autorizzato a far fuoco sui giornalisti stranieri, se si trovano dove non dovrebbero trovarsi.

Ed eccoci qui, alla vigilia di una guerra. Una guerra che, come tutti sanno, si combatte per portare più democrazia nel Medio Oriente, dove ce n’è poca. E io, che sono italiano, occidentale, etnicamente affine a Rachel Corrie, anche se molto meno testardo e coraggioso, mi permetto di dire che a me non interessa affatto estendere la democrazia nel Medio Oriente; che anzi, se dipendesse da me la ridurrei. Vorrei che l’unica democrazia del Medio Oriente, che occupa da più di quarant’anni territori non suoi, opprimendone gli abitanti, fosse commissariata; che le fosse impedito di nuocere ancora a sé stessa e agli altri. Perché i crimini non sono meno odiosi quando sono commessi da un regime democratico, anzi.

La democrazia non è Baywatch, signori, la democrazia non è quel simpatico teatrino, riedizione televisiva dei panem e circenses, che piace tanto qui da noi: la democrazia è una cosa seria, nasce nel sangue e nel sacrificio, cresce lentamente e a volte degenera all’improvviso. La democrazia è una condivisione del potere e delle responsabilità. La responsabilità della morte di Rachel Corrie ricade sul governo che ha autorizzato la demolizione di quel villaggio, e sul popolo che l’ha votato.

Quanto ai crimini dei terroristi palestinesi, essi sono odiosi, e non possono essere giustificati. Ma non sono stati autorizzati dall’assemblea di un popolo. Sono opera di gruppi fondamentalisti che prosperano nel vuoto di potere e nella miseria dei Territori. Invece di favorire la nascita di una leadership palestinese, Israele ha fatto di tutto per ostacolarla, imprigionando ed eliminando i leader emergenti, lasciando il vecchio e screditato Arafat praticamente solo.

Oggi sentiamo che il liberatore del Medio Oriente, George W. Bush, promette la nascita di un nuovo Stato Palestinese. A tale scopo, ha chiesto ad Ariel Sharon che non siano più costruiti insediamenti nei Territori. Gli israeliani hanno avuto a disposizione un paio di anni per costruire nuovi insediamenti e fare tabula rasa dei villaggi palestinesi scomodi: ma ora basta, perdiana. Queste ruspe che ancora demoliscono case (e occasionalmente schiacciano qualche uomo o donna o attivista) sono le ultime. Poi si traccerà un nuovo confine, e i palestinesi dovranno accontentarsi di quello che gli israeliani non hanno già preso: il deserto e un paio di bidonvilles. L’acqua e la benzina, dovranno comprarla dagli israeliani.
Naturalmente diranno di no, perché non basta mettere un cartello davanti a un campo profughi per trasformarlo in uno Stato Palestinese. E ancora una volta, i signori bene informati di tutto il mondo scuoteranno la testa: ma come sono testardi questi palestinesi, ma cos’è che vogliono ancora? Quante guerre devono perdere per rassegnarsi a scomparire?

E ci saranno ancora ragazze ingenue o testarde come Rachel Corrie, o giornalisti inegnui e imprudenti come Raffaele Ciriello? Io ho paura di sì, che ci saranno. Anche se preferirei di no. Se questo è il prezzo della democrazia, io propongo di farne a meno, per ora.
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Nel conflitto in corso tra palestinesi e israeliani, come in tutte le guerre attuali, muoiono pochi soldati (cioè gente che per scelta o per mestiere mette in conto anche di essere ammazzata) e tanti bambini, donne, civili (cioè gente che non aveva messo in conto di morire dilaniato da una bomba o colpito da un proiettile). Ecco, oggi la guerra la fanno gli armati, ma non fra di loro, bensì a discapito dei disarmati. Questa dovrebbe essere la spirale da rompere, prima ancora della spirale dell'odio. Giuste o ingiuste le guerre le facciano gli armati, assumendosi la responsabilità di uccidersi tra di loro, in nome di dio, della patria o di qualsiasi altra ragione.


Assassini oggettivi

Michele Marziani non ha tutti i torti: una guerra civile è molto più orrenda di una guerra tra professionisti. Ma Michele Marziani non ha tutte le ragioni: non è giusto lasciare la guerra ai soli militari, non è così facile separare i civili indifesi e gli assassini.
Il caso di Israele è l’esempio più eclatante. I soldati della Israeli Defence Force non sono “gente che per scelta o per mestiere mette in conto anche di essere ammazzata”. Sono i giovani e le giovani di Israele, molti dei quali in servizio di leva. Non necessariamente condividono le vedute del governo in carica, anche se – in quanto militari – il loro mestiere consiste nell’eseguire gli ordini.
E i civili? Cosa significa “essere civili” per un cittadino israeliano? Nella maggior parte dei casi, significa vivere nel terrore di un attentato.
Ma sono civili, per esempio, i 400 coloni insediati nel centro di Hebron, che un tempo era città palestinese? Certo, loro non si sporcano le mani di sangue (anche se girano armati). Sono perfino esentati dal servizio militare. E sono protetti da 2500 effettivi dell’esercito, come se la città si assediasse da sola.

Mettiamo ora che noi – vi chiedo un grosso sforzo di fantasia – mettiamo che noi fossimo giovani palestinesi, cresciuti in un campo profughi di Gaza o della Cisgiordania, e che avessimo l’insana idea di voler combattere per l’indipendenza del nostro Paese. Mettendo in conto di essere ammazzati, è chiaro.
Dovremmo arruolarci in un esercito, e qui cominciano i problemi, perché in Palestina l’esercito non c’è.
Potremmo farci assumere dalla polizia di Arafat, ma istintivamente non ci fidiamo di quel capobanda che è sulle foto di tutti i giornali e che in tanti anni non è riuscito a fare uscire dai campi profughi i nostri padri e le nostre madri.
Molto più probabilmente ci rivolgeremmo a qualche Mullah che ci conosce, che nel campo si fa rispettare, che non si macchia di compromessi col nemico, che in questi anni ha già aiutato la nostra famiglia.
Il Mullah prenderebbe nota del nostro nome e cognome, e poi, un bel giorno, si farebbe vivo con una pettorina di esplosivo e ci ordinerebbe di esplodere in un dato posto, a maggior gloria di Dio. Promettendoci – in più – una buona pensione per la nostra famiglia, che vive nella miseria. Noi cosa faremmo?
Non abbiamo lavoro, non abbiamo prospettive, non abbiamo educazione; abbiamo la rabbia di un’occupazione militare che è più vecchia di noi. Ci propongono di morire come eroi, raggiungere rapidamente il paradiso e allo stesso tempo garantire il mantenimento dei nostri cari che restano quaggiù. Potremmo davvero dire di no?

E il giorno che, aggirati i posti di blocco, ci ritrovassimo in una città israeliana pronti a esplodere, come faremmo a decidere chi uccidere e chi no? Dovremmo avere pietà di un ragazzo o di una ragazza soltanto perché in quel momento non indossa la casacca verde? Dovremmo avere pietà dei bambini, quando uno di quei bambini potrebbe crescere e diventare Sharon? E forse che Sharon ha avuto pietà dei nostri?

Ma noi (fortunatamente) non viviamo in un campo profughi di Gaza e della Cisgiordania. Noi (fortunatamente) non siamo cittadini di Haifa o Tel Aviv. Stiamo dall’altra parte del mare e, anche se facciamo il possibile per tenerci informati, guardiamo tutto da un curioso punto di vista, che chiamiamo Oggettività.
Crediamo che oggettivamente si possano tirare delle righe, in Palestina. Non solo tra i Due Popoli e i Due Stati, ma anche tra i civili e i militari, e tra i militari e i terroristi. Per noi il colono di Hebron, che tiene in ostaggio un’intera città, è un civile innocente, mentre il ragazzo di Tel Aviv vestito di verde al posto di blocco ha il dovere di morire per difenderlo.
Per noi il ragazzo di Gaza con la pettorina è un terrorista, mentre chi l’ha lasciato crescere in quell’inferno è un civile innocente.

Di più. Noi siamo convinti che tutto sommato ci possano essere anche guerre giuste, finché si combattono molto lontano da qui, e finché a combatterle sono assassini regolarmente iscritti a eserciti regolari. Eppure lo sappiamo che nei processi per omicidio si condanna anche il mandante.
E il mandante non siamo forse noi, quando abbiamo deciso che il nostro petrolio, la nostra sicurezza, il nostro stile di vita non erano in discussione?
Certo, noi non ci sporchiamo le mani. Stiamo dall’altra parte del mondo e valutiamo i pro e i contro con oggettività. Nel frattempo abbiamo abolito il servizio di leva. Così, d’ora in poi, gli assassini regolari saranno soltanto quelli che non si possono permettere qualche professione più appagante. Magari saranno gli emigrati arabi, curdi, albanesi. E noi li manderemo a combattere in Arabia, in Kurdistan, in Albania, con le mostrine dei nostri eserciti.

Insomma, noi non siamo così migliori di quei coloni di Hebron. E in fondo la guerra in Palestina non è che la prova generale della grande guerra delle Civiltà. Ma non c’è da aver paura: la combatteranno altri per noi. L’essenziale è tenere lontani i soldati dai civili, cioè da noi, che siamo persone responsabili e oggettive. Mentre loro – i soldati – se vanno in giro per il mondo a uccidersi, in fondo è il mestiere che si sono scelti, no?
Oggettivamente.

(Io con chi sto? Io sto con tutti i giovani dei campi profughi che non aderiscono ad Hamas, non aderiscono alla Jihad, non si mettono pettorine: sono tanti, anche se non vanno sui telegiornali. E sto con i giovani dell’esercito israeliano che hanno rifiutato di prestare servizio nei Territori Occupati. Per ora sono 525).
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Ingenuità
Se si pianta il seme della democrazia in Iraq, l'intera regione ne uscirà rivoluzionata, sostiene la dottrina Bush. Ci sarà, dicono, un virtuoso effetto domino. Questa è la nuova politica estera americana…

Ma i pacifisti sono ingenui? Alcuni sì, senza dubbio. Però non significa che abbiano il monopolio dell’ingenuità.
Prendi un “idealista conservatore”, Christian Rocca. In un lungo articolo sul Foglio spiega, dati alla mano, che il petrolio iracheno farebbe soltanto fallire i petrolieri texani. Il vero motivo per cui vale la pena bombardare l’Iraq è la democrazia…

In Iran la guerra rivoluzionaria è già in atto. La società civile (che in Iran c'è) è in rivolta, le manifestazioni contro il regime non si contano più, la partecipazione è incredibile, gli operai scioperano, i ragazzi scendono in piazza per il diritto di potersi tenere per mano. Più di metà della popolazione ha un'età inferiore ai 25 anni. Non ne possono più delle imposizioni dei mullah e della polizia religiosa, vogliono uscire per strada, divertirsi come i coetanei occidentali. Il programma tv più popolare è Baywatch, trasmesso via satellite dalla California.
Il regime crollerà. Questo si pensa a Washington. Specie se cadrà Saddam. Il destino di Iran e Iraq è comune. Non è immaginabile che il popolo iraniano tolleri ancora le imposizioni degli ayatollah, se la libertà arrivasse a Baghdad. L'effetto domino riguarderebbe anche la Siria, l'Arabia Saudita e di conseguenza aiuterà una soluzione pacifica della questione palestinese. E così, a cascata, la caduta di Teheran toglierà fiato agli Hezbollah in Libano. Anche la Siria, dipendente dal petrolio iracheno, sarebbe costretta a cambiare, a liberare il Libano, a lasciare in pace Israele, a chiudere i ponti con il terrorismo. Sembra Risiko, ma è la nuova politica americana.


Stasera è troppo tardi per definire il mio ingenuo concetto di “democrazia” o “libertà” (Sospetto che abbia comunque più a che fare con il concetto di responsabilità individuale e collettiva che con Baywatch). M’interessava però annotare quello di Rocca: per lui la libertà, la democrazia, consistono nel poter manifestare la propria simpatia per l’alleato americano e tenersi mano nella mano. Per ottenere questa svolta democratica in un Paese è sufficiente bombardare il Paese confinante.

Sarà probabilmente la mia ingenuità, ma non capisco in che modo il regime iraniano dovrebbe cadere, quando si troverà accerchiato tra tre protettorati americani (Afganistan, Iraq e Kuwait). Storicamente, in queste situazioni i regimi diventano ancor più autoritari e soffocano ogni tipo di dissenso interno. Ma probabilmente baywatch è più forte di ogni repressione.

Sarà ancora la mia ingenuità, ma io non capisco in che modo l’Iraq, una volta bombardato, si trasformerà di colpo in una libera democrazia, con cittadini sorridenti pronti a entrare nelle urne per votare un governo filo-americano. È andata così in Afganistan? (qualcuno ha capito com'è andata?) E se invece i fondamentalisti religiosi vincessero le elezioni, come in Algeria? A quel punto un Iraq democratico avrebbe diritto a dotarsi di armi di distruzioni di massa, come l’altra gloriosa democrazia del medio oriente, Israele?

E a proposito: nella regione c’è un popolo che cerca disperatamente di autogovernarsi attraverso forme di rappresentanza democratiche: sono i palestinesi. Certo, il fatto di vivere in un territorio occupato militarmente e vessato economicamente li rende fin troppo sensibili ai richiami del terrorismo: ma si tratta più di disperazione che di fanatismo religioso.

Forse sono troppo ingenuo a suggerire che ancor più di Saddam Hussein, ancor più di Osama Bin Laden, è la questione Palestinese il maggior motivo di frustrazione degli arabi nei confronti degli occidentali? E allora perché invece di seminare democrazia tramite bombardamenti in un terreno refrattario come l’Iraq, gli USA non si degnano di curare quell’esile pianticella che è l’Autorità Palestinese? Basterebbe così poco: ordinare il ritiro immediato dai Territori Occupati, e l’abbattimento della Grande Muraglia di Sharon. Perché non lo fanno? Non lo so. Non capisco.
È perché sono ingenuo.
Un povero, ingenuo pacifista.
Ho tanto da imparare.
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Febbraio è un mese mite, a Bassora. Verso le sei, quando le ombre si allungano sul deserto, le microspie trasmettono ai satelliti il frinire delle cicale dell’Eufrate, e i sospiri di un uomo coi baffi, su un terrazzo che volge a meridione.
“Saddam, per l’ennesima volta, ti vuoi togliere da lì?”
“Bah…”
“Quante volte te l’ho detto, che c’è un satellite spia in orbita proprio sul patio? Ma tu mi ascolti quando parlo?”
“Lasciami perdere, Tareq. Per il satellite sono solo un uomo coi baffi, capirai. Apposta ho fatto crescere i baffi a tuttti gli iracheni…”
“Ma Capo, si può sapere cos’hai? Sembri distratto e scostante”.
“Ma no, è che certe volte uno si chiede: a che serve tutto questo? Non sarebbe meglio se non avessimo nemmeno cominciato?”
“Questo indubbiamente, tuttavia…”
”Sai, ieri sera ho visto qualcosa che mi ha fatto pensare… stavo guardando la tv italiana…”.
“Capo! Ma non ti vergogni? Non hai letto il Financial Times?”
“Beh, c’era un corteo a Roma, una manifestazione democratica, figurati, contro la guerra”.
“Ah, sì, ne ho sentito parlare. È una loro usanza”.
“Così pare. Beh, ho visto una cosa che mi ha fatto male, sul serio, mi ha colpito nel profondo. C’era una ragazzina – una poco di buono, hai presente il genere, capelli sciolti – con uno striscione: Saddam Vattene!"
“E te la prendi per così poco? Per lo striscione di una scostumata?”
“Lo so, ti sembrerà strano, ma… mi ha fatto pensare. Voglio dire: uno combatte la madre delle battaglie contro gli USA, per poi sentirsi dire da una qualsiasi pacifista: “Vattene”. Non è ingiusto? Io sono molto più antiamericano di tutti loro”.
“Capisco, però…”
“Per loro è comodo fare gli antiamericani. Vanno in corteo, saltano, ballano, tante grazie. Ma io? Altro che canti e balli. È da dieci anni che mando gente a morire contro gli americani. Credo che mi si dovrebbe usare più rispetto”.
“Sai com’è, questi europei…”
“Ok, d’accordo, non sono il Che, sono solo un vecchio coi baffi, ma almeno una maglietta potrebbero farmela. E invece mi fanno gli striscioni contro. Sono profondamente offeso”.
“Ma andiamo, Saddam…”
“Così sto pensando di dimettermi”.
“Eh?”
“Ma sì, sono stanco. Mollo tutto. Anzi, mi fai un favore? Mi chiami Putin è mi chiedi se è ancora valida quell’offerta per la dacia nel Caucaso…”
“Ma non vuoi pensarci su un momento?”
“Ci ho già pensato fin troppo. Quello striscione è stata l’ultima goccia. Basta. Non gioco più. Me ne vado”.

***

Perché i pacifisti italiani non scrivono anche Saddam vattene sui loro striscioni? Se lo chiedeva Adriano Sofri sulla Repubblica due domeniche fa. La proposta è rimbalzata qua e là, io qui dico la mia.
Rispetto chi vuole portare in corteo uno slogan del genere: Saddam Hussein è un pericoloso dittatore, e non ho nessuna simpatia per lui. Tuttavia.
Qui bisogna intenderci su cos’è una manifestazione. È un atto politico o è la manifestazione di un’identità?
Noi manifestiamo per cercare di cambiare le cose o soltanto per mostrare agli altri (e a noi stessi) le cose in cui crediamo?
A che serve scrivere su uno striscione “Saddam vattene?” Può uno striscione del genere influire in qualche modo sulle decisioni del dittatore iracheno? Mi sembra quantomeno improbabile.
E allora perché dovrei scrivere “Saddam vattene?” Per una questione di identità. Per annunciare agli altri (e a me stesso), che io sono anche contro di lui.
Ma in che senso sono contro? In che modo posso agire contro di lui pacificamente? Io sono solo un manifestante. La diplomazia della buonuscita – ammesso che sia una cosa seria – non spetta a me. Se Saddam Hussein si ritirerà da solo, ne sarò felice, ma il mio striscione non ha nessun potere di cambiare le cose. È cartone sprecato.
Di più. Potrebbe essere un sottile espediente per sgravarmi la coscienza. Ma io non voglio sgravarmela.

Ora che la Terza Guerra Mondiale è iniziata da un po’, certe ingenuità non sono più concesse.
Si può essere a favore della guerra, con buoni argomenti, purché ci si ricordi che di guerra si tratta: non di un intervento umanitario o chirurgico, non di polizia internazionale, non di libertà duratura: di guerra. Per liberare l’Iraq da Saddam (ottima cosa). E per accaparrarsi tutto il petrolio che c’è la sotto. Con migliaia di vittime civili. Con l’uranio impoverito. Coi valorosi combattenti che tornano a casa, impazziscono o muoiono di qualche sindrome. Chi vuole la guerra deve sapere tutto questo, e assumersene le responsabilità.

Ma anche chi vuole la pace ha responsabilità da assumersi. L’Iraq è un Paese alla fame, straziato dall’embargo che (a differenza della guerra tradizionale) fa le sue vittime tra i più deboli, tormentato da un dittatore che non sembra così ansioso di volersi disarmare. Chi ora sventola la bandiera della Pace deve sapere che difficilmente, in tempi brevi, tutto questo potrà cambiare. Che anche la Pace avrà i suoi morti.

Le opzioni sono queste, e tutti siamo liberi di scegliere.
Oppure – grazie a Dio – siamo liberi di non scegliere, e di rimanere in mezzo, coi nostri dubbi.
Quello che invece, a mio parere, non dovrebbe esserci concesso, è stare nel medesimo momento sulle due sponde del problema: manifestare allo stesso tempo contro la guerra e contro Saddam, chiedere che sia scacciato senza colpo ferire. No, non possiamo. Non è realistico. Non ha nulla a che vedere con la politica. È – ripeto – una pura manifestazione d’identità. E come tale, a me non interessa. Anche perché è banale: siamo tutti contro la guerra, siamo tutti contro i tiranni. Sai la novità. C’è bisogno di metterlo per iscritto?

Questo vale per tanti altri casi:
“Perché manifestate contro Israele e non contro Hamas?”
Perché Hamas non è nemmeno un interlocutore. Credete che a un martire di Al-Aqsa possa fregare qualcosa, se in quel momento in quel bar di Tel Aviv insieme agli israeliani c’è un manifestante italiano? Assolutamente niente. Tira la spoletta e manda tutti quanti all’inferno.
Ma Israele, se è davvero, come sostiene, l’“unica democrazia del Medio Oriente”, deve accettare che si possa manifestare pacificamente contro le sue politiche. La democrazia non è la dittatura della maggioranza: è l’assunzione collettiva della responsabilità.
Un missile su Gaza può fare le stesse vittime di un autobomba a Tel Aviv, ma mentre non ho nessuna speranza di poter fermare l’autobomba, ho ancora qualche remota (sempre più remota) speranza di non far decollare il missile. Perciò mi sento più responsabile del missile che dell’autobomba. È chiaro?
(Più chiaro di così stanotte non ce la faccio, mi dispiace).
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Sullo sciopero non ho molto da dire. C’era molta gente ed è piovuto.

Il carro armato dei vincitori

Stavo pensando invece a quello che ho sentito al telegiornale, sapete, quelle cose che ti bloccherebbero lo stomaco, se non fosse assuefatto sin dalla più tenerà età a digerire al suono dei bombardamenti e degli spot dei pannolini. Si parlava di un bambino estratto dalle macerie della sua casa dopo qualche giorno: accanto a lui i cadaveri dei genitori. Un terremoto?
No, Tsahal.
“L’esercito più democratico del mondo”, ho letto da qualche parte. Del resto Israele è “l’unica democrazia del Medio Oriente”, no? (A proposito, un premio a chi mi scova la Costituzione democratica dello Stato d’Israele).
Qualcuno dovrebbe spiegare agli israeliani che la democrazia consiste in un’assunzione di responsabilità. E in caso di strage o genocidio, la democrazia è un’aggravante.

Per esempio: quando parliamo delle leggi razziali nel ‘38, noi italiani ci aggrappiamo disperatamente al fatto che il fascismo era una dittatura, priva di un autentico consenso popolare (e c’è anche chi sostiene il contrario). Allo stesso tempo, tra qualche anno forse anche gli israeliani preferiranno pensare a Sharon come a un feroce dittatore. Beh, non lo era. Era il leader democraticamente eletto dell’unica democrazia del Medio Oriente. Aveva l’appoggio della maggioranza degli israeliani e di una parte rilevante dell’opinione pubblica occidentale.

"Perché i pacifisti non fanno gli scudi umani nei bar di Tel Aviv", si chiedono? A parte che i pacifisti ci andrebbero anche, nei bar, ma ultimamente non superano le celle di detenzione dell'aeroporto (dove vengono pestati nella maniera più democratica del mondo), il motivo è semplice, ed è il seguente: contro un kamikaze non c'è scudo umano che tenga. Signori equidistanti, un minimo di buon senso. Un ragazzetto di Hamas che ha deciso di farsi la pelle per attirare l'attenzione sulla questione palestinese si farebbe qualche scrupolo a coinvolgere nel suo massacro un turista-pacifista europeo? Perché dovrebbe? Anzi. Più che scudo umano, sarebbe un incentivo.

I pacifisti non sostengono il terrorismo palestinese. I pacifisti, col terrorismo palestinese, non cercano neanche di ragionare. Motivato o no dalla disperazione, il fanatismo non è un interlocutore. Israele sì. Quando andiamo davanti ai carri armati di Tsahal, noi stiamo scommettendo proprio sulla democrazia di Tsahal e di Israele. Quando gli agenti aeroportuali ci pestano e ci respingono, stanno dimostrando che la nostra fiducia è mal riposta.

E L’Israel Day. Ora premesso che in Italia c’è libertà di manifestazione e libertà di pensiero io mi chiedo: ma con di tutte le settimane che Dio manda sulla terra, per dimostrare la solidarietà a Israele, Ferrara e soci, dovevano proprio scegliere la settimana in cui si compiva la pagina forse più nera di Tsahal, l’eccidio di Jenin? Questi signori, oltre a scrivere i giornali, potrebbero anche leggerli ogni tanto: la strage era largamente annunciata. Passeranno alla storia per quelli che, nei giorni di Jenin, manifestavano perché “era minacciata l’esistenza stessa d’Israele”!

Ma cos'è Israele? Quella specie di oasi di democrazia nel Medio Oriente di cui parlano Ferrara e Lerner, quello Stato senza il quale ci sentiremmo tutti più antisemiti? Come non vedere che la creazione di Israele rispondeva proprio all'esigenza di tanti antisemiti europei di non trovarsi più gli ebrei tra i piedi? Come non vedere che Israele è uno dei pochissimi (forse l'unico) Stato fondato su base etnica (qualunque ebreo da ogni parte del mondo può ottenere la cittadinanza e ricevere incentivi per metter su casa nei Territori Occupati): un anacronismo spaventoso? Come non vedere che la guerra di Palestina è la prova generale del Grande Conflitto delle Civiltà, che i nostri figli d'origine europea e d'origine araba combatteranno nelle nostre città? Com'è possibile non vedere tutto questo? Soltanto per mettersi, una volta in più, sul carro (armato) dei vincitori?
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L'equazione Kissinger

Come si contano i morti? Non è una domanda da poco. Di solito una vittima pesa più del suo assassino, e un bambino vale sempre più di un adulto. Le convenzioni internazionali (per quel che valgono) prevedono poi che un civile valga più di un militare. Tutto questo ha un valore molto relativo nella Terra Santa, la terra dei paradossi. È più grave l'assassinio di un civile o un militare? Merita più pietà una ragazzina di leva che muore in un agguato, o un 'civile' colono di Hebron o di Gaza che fa tirassegno sulle case dei dirimpettai palestinesi? In ogni caso i palestinesi non hanno il diritto di avere un esercito, quindi o sono tutti civili o tutti terroristi.
Come si contano i morti? Evocata, la Fallaci sostiene che qualcuno "fa la tara" alle vittime degli attentati. È un'accusa grave, ma a chi è rivolta? Può citare un episodio? Ha in mente qualcuno?

La tara sui morti. Nella sua brutalità, quest'espressione mi ha colpito. Ho pensato alla fortuna di essere italiano: da noi la questura fa la tara solo ai manifestanti. E poi ho pensato a Kissinger, e a questa frase di un'intervista di 15 giorni fa, sulla Repubblica (copyright Cnn). L'ex segretario di Stato americano biasimava l'ossessione di Sharon per Arafat:

Credo che gli israeliani così facendo stiano distogliendo l'attenzione dagli attacchi suicidi, che hanno ucciso l'equivalente di 2500 americani in tre giorni, fatte le debite proporzioni.

Eh?
Sulla Questione Palestinese c'è molta letteratura. Decine di personaggi – esperti o no, coinvolti o no, di parte o meno – che ogni giorno dispensano la loro opinione. Nel frastuono generale capita di cogliere ogni tanto una frase al volo, che non si dimentica, tanto è enorme. Cosa vuol dire che in tre giorni i terroristi palestinesi hanno ucciso "l'equivalente di 2500 americani"? Quali sarebbero "le debite proporzioni"? Kissinger non le spiega. Le dà per scontate.

Ora io, senza voler passare per nessun motivo al mondo come sostenitore di Hamas, mi sento di negare con fermezza che in Israele o nei Territori Occupati ci siano mai state 2500 vittime di attentati in tre giorni. Non sono nemmeno sicuro che i palestinesi abbiano ucciso 2500 israeliani dall'inizio dell'Intifada, per cui "la debita proporzione" di Kissinger la trovo tutt'altro che scontata. Per l'americano Kissinger, insomma, un morto israeliano vale molti morti americani. Ma quanti, esattamente? E perché? Qual è la "debita proporzione"?
Ci ho pensato un po' su, e ho costruito la seguente teoria: Kissinger, da bravo americano, ragiona in termini di percentuali. E cioè: per lui tutti i popoli sono uguali (e questo gli fa onore), e valgono, diciamo, cento. Ora, fingiamo che esista un piccolo popolo di sole cento persone. Mettiamo che io ne uccida uno, perché mi sta antipatico. Vengo catturato in flagrante e processato per omicidio. Fin qui tutto bene. Ma interviene il premio Nobel per la pace Henry Kissinger e dice: un momento. Quest'uomo non ha ucciso un altro uomo. Ha ucciso l'uno per cento della popolazione di questo Stato. È come se avesse ucciso l'uno per cento della popolazione degli Stati Uniti. Vale a dire (gli americani sono 250 milioni) due milioni e mezzo di americani. Di conseguenza chiedo che venga processato per genocidio, come minimo.

Credo che in quei giorni si potessero contare una cinquantina di vittime degli attentati. Una cifra spaventosa. Che diviene ancor più spaventosa a contarla con l'unità di misura kissingeriana, il "cittadino americano". Ho fatto dei calcoli. Per ottenere una cifra di "2500 americani" Kissinger deve aver moltiplicato le vittime degli attentati (50) per la popolazione degli USA (250 milioni) e diviso il tutto per la popolazione d'Israele (5 milioni). Il risultato è impeccabile, da un punto di vista matematico, ma è delirante. Devo aver delirato anch'io, mentre lo ricostruivo. Armeggiavo con la penna su un foglio e mi dicevo, dio mio, ma sto davvero moltiplicando morti e vivi in questo modo? Milioni di morti e migliaia di vivi? Perché Sono pazzo? No, sto cercando di capire il modo in cui Kissinger conta i morti. Un perfezionamento dell'"occhio per occhio" biblico (si, Miss Fallaci, sta scritto nella Bibbia, non nel Corano): un occhio israeliano secondo lui vale 50 occhi americani. Ma se n'è reso conto qualcuno? L'intervistatore della CNN? Il traduttore di Repubblica? Un lettore? Ci ha fatto caso qualcuno? Nessun americano si è sentito di protestare? Questo qui si spaccia per esperto di geopolitica e fa calcoli del genere, magari con un foglio e una matita, come me. Li faceva anche quando lavorava per la Casa Bianca? E adesso per chi lavora?

A questo punto, perché dover sempre ragionare in termini di americani? Prendiamo i cinesi. Sono più o meno un miliardo. Mi aspetto di sentir dire qualche esperto di geopolitica (al di sopra delle parti, beninteso), che i terroristi hanno ucciso l'equivalente di diecimila cinesi, "facendo le debite proporzioni". Oppure prendiamo il principato di Monaco. Trentamila abitanti. Sconsiglio di torcere un capello a chiunque di loro. Equivarrebbe a torcere un capello a ottomila cittadini USA, in base all'equazione Kissinger (un altro motivo per tenersi caro Pavarotti).

E i palestinesi? Come la mettiamo coi morti palestinesi?
La mettiamo male, perché non si sa quanti siano. Per esempio, a Jenin gli israeliani sostengono di averne seppellito solo "qualche decina", ed erano "tutti armati". Per i palestinesi sono molti di più: forse cinquecento. Ma facciamo la tara anche alle vittime di Jenin, che essendo armate sono senz'altro terroristi (mentre i coloni che girano armati per il centro di Hebron sono pacifici cittadini). Mettiamo che "qualche decina" siano 50: quanto valgono, in base all'equazione Kissinger, cinquanta morti palestinesi?
Se si calcola tre milioni di palestinesi nei Territori (approssimazione per eccesso, ma ragionevole, se ce n'è un milione e duecentomila solo nella striscia di Gaza), la debita proporzione dà 4166,6 periodico (controllate anche voi). Facciamo quattromila. L'equivalente di quattromila cittadini americani è morto e sepolto a Jenin. Quasi le Twin Towers. Nota: abbiamo i dati forniti dall'esercito israeliano, che non è tenuto a dire la verità (sarebbe piuttosto stupefacente che la dicesse). Ma anche così l'equazione Kissinger darebbe ragione ad Arafat. A meno che non sia applicabile ai morti palestinesi, ma solo agli israeliani. Quindi anche la matematica non sarebbe uguale per tutti? Questo Mr. Kissinger, sospettato di crimini contro l'umanità, non lo dice.

Insomma, hai voglia a fare la tara. I morti palestinesi sono più di quelli israeliani. E se i civili contano di più, anche i civili morti palestinesi sono più dei civili israeliani. Per una ragazzina israeliana morta in discoteca possono esserci due o tre ragazzini palestinesi che forse avrebbero preferito esserci anche loro, in discoteca, ma non ce ne sono nei Territori. Se decidiamo che ogni vita umana ha il medesimo valore (idea familiare in quella regione, da duemila anni almeno), piangeremo sia per gli israeliani che per i palestinesi, ma per questi ultimi dovremo piangere più tempo. Se diciamo che lo Stato d'Israele è minacciato, dobbiamo anche dire che è minacciata l'esistenza stessa del popolo palestinese. E trarre la conseguenza: da che parte stiamo? Perché è ipocrita, in questa colossale disparità di mezzi, dirsi imparziali: è solo un modo lambiccato e tipicamente italiano di infilarsi sul carro dei vincitori, quali che siano. (Israele vince? Ed ecco un'affollata schiera di opinionisti sentire l'improvviso bisogno di riconoscere a Israele il diritto all'esistenza. Purtroppo Israele questo diritto se lo è preso anni fa, senza chiedere opinioni alla crema del giornalismo italiano). Io non sono imparziale. Io sto coi perdenti. Le ragioni dei vincitori non m'interessano. Tanto i vincitori hanno i mezzi sufficienti a farsi sentire. I perdenti invece hanno bisogno di aiuto. Non dico che i loro morti valgono di più – non faccio equazioni, io, non sono un esperto di geopolitica e non lavorerò mai per la Casa Bianca. Dico solo che i loro morti sono di più. Vediamo chi smentisce questo.
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Eugène Delacroix: Giacobbe lotta con l'angeloIn difesa di Sodoma, II
Continua da ieri
E infatti:

Il secondo motivo è legato allo schieramento di destra, il quale minaccia che nel giorno dello smantellamento delle colonie anche i suoi sostenitori agiranno secondo la propria coscienza rifiutando di collaborare con gli ordini del governo in carica e cercando addirittura di ostacolarne i propositi. E' quindi assolutamente impossibile accettare ora il rifiuto degli ufficiali della sinistra perché ciò legittimerebbe anche l'eventuale rifiuto dei militanti della destra. Il giorno della separazione fra i due popoli, allorché sarà necessario sgomberare le colonie, il governo si troverà a sostenere un esame improbo, violento al punto da rasentare la guerra civile. I sostenitori della pace dovranno perciò presentarsi a tale esame con le mani pulite e dire alla destra e ai coloni: noi siamo stati fedeli alla democrazia anche quando questa agiva contro i nostri principi, ora tocca a voi accettare le decisioni della maggioranza.

Questo è un punto cruciale, non solo per Israele, ma anche per noi italiani. Cosa intendiamo quando usiamo la parola "democrazia"?. Per noi (in teoria), la democrazia è il regime in cui tutti i cittadini hanno pari diritti. Per Yehoshua si tratta più semplicemente del governo della maggioranza. Se la maggioranza decide di sgomberare le colonie, sgomberare le colonie è giusto: finché, però, la maggioranza sostiene Sharon, le colonie restano occupate, anzi, crescono, vanno difese con la forza, e chi si rifiuta di difenderle commette un diritto di Lesa Democrazia.
Yehoshua non sembra capire che esistono Leggi al di sopra delle maggioranze: secondo queste Leggi (che in questo caso sono risoluzioni dell'Onu) l'occupazione dei territori è illegale. Perciò rifiutarsi di invadere i Territori è giusto, mentre opporsi allo smantellamento delle colonie è sbagliato. Non importa se la maggioranza di Israele la pensa in un modo diverso: la maggioranza degli israeliani sbaglia, e quella manciata di obiettori ha ragione.
Anche in Italia, a volte, capita che un Presidente del Consiglio indagato cerchi di cambiare alcune leggi per evitare una sentenza sfavorevole, e i suoi avvocati dichiarino che dopotutto è un suo diritto: è stato eletto dalla maggioranza degli italiani… Quegli avvocati, come Yehoshua, hanno una visione distorta della democrazia e della legalità.
Anche in Germania (e mi dispiace, ma qui il paragone regge davvero) è capitato che negli anni Trenta un partito dichiaratamente xenofobo e antisemita ottenesse la maggioranza in parlamento: questo può giustificare i crimini contro l'umanità commessi dai nazisti, ordinati dai loro governanti ed eseguiti dai loro sottoposti? Naturalmente no.
Ma anche Sharon ha ordinato e sta ordinando ai suoi sottoposti di commettere crimini contro il popolo palestinese. Il fatto che dietro di sé abbia il consenso della maggioranza del popolo israeliano non è un'attenuante, anzi, è una vergogna per tutta Israele, così come avere dato il proprio consenso al regime nazista è un'onta per tutto il popolo tedesco. Lo sappiamo già: a guerra finita, centinaia di semplici esecutori si scuseranno dicendo che loro in fondo non erano d'accordo, non si rendevano conto, "eseguivano gli ordini": bene, il giusto, in questi casi, è colui che si rifiuta di "eseguire gli ordini". I refusnik, che per Yehoshua minacciano la "fragile" democrazia israeliana per noi sono gli unici veri difensori della civiltà d'Israele. Ma c'è un terzo argomento:

Il terzo motivo è legato al tipo di lotta in atto tra noi e i palestinesi. Quando gli ufficiali e i soldati sostengono di dover assumere un atteggiamento brutale e disumano contro la popolazione civile ai posti di blocco e nel corso dei pattugliamenti delle vie cittadine, hanno ragione solo in parte. Infatti tali comportamenti inclementi nei confronti di cittadini innocenti sono mirati a intercettare guerriglieri palestinesi che non vogliono soltanto liberarsi, giustamente, dal giogo dell'occupazione israeliana, ma anche scacciare gli israeliani da tutta la regione. La nostra quindi non è una lotta solo per mantenere gli insediamenti e l'occupazione ma anche per difendere il diritto stesso alla nostra esistenza.

Qui il ragionamento di Yehoshua tocca le vette dell'assurdità. Un guerrigliero palestinese vuole liberarsi dal giogo dell'occupazione: quindi è un patriota. Ma allo stesso tempo potrebbe anche voler scacciare gli israeliani dalla regione: quindi è un terrorista. Come sciogliere questo nodo inestricabile di motivazioni? Nella solita salomonica maniera: nel dubbio, sparate. Sparate a loro, alle loro case e alle loro famiglie, malgrado la Bibbia dica chiaramente che le colpe del padre non dovrebbero ricadere sui figli.
Questa logica contorta non può essere ritorta contro Yehoshua e il suo popolo? Sharon vuole difendere i suoi connazionali: quindi è un patriota. Ma vuole anche scacciare i palestinesi dalle loro terre: quindi è un violento conquistatore. Yehoshua stesso ammette che "Tutto si confonde e nella stessa azione offensiva possono coesistere elementi di conquista coloniale a fianco del diritto elementare di difesa dello Stato". E a questo punto, se tutto si confonde, cosa dovrebbe fare la comunità internazionale? Nel dubbio potrebbe anche bombardare, come ha fatto in Iraq (Saddam Hussein invase il Kuwait indipendente) e in Serbia (Milosevic voleva eliminare la comunità albanese in Kossovo). Naturalmente questo non accadrà: ed è meglio così. Ma la logica è più o meno la stessa. In maniera pacata e apparentemente ragionevole, Yehoshua ci ha spiegato che, siccome qualsiasi combattente palestinese potrebbe essere un terrorista, tutti i combattenti palestinesi devono essere trattati come terroristi. E chi abita nelle loro case è complice dei terroristi. Non male, per un intellettuale pacifista israeliano.

Torniamo ad Abramo. Ricordate? Dio gli aveva appena promesso di farlo padre di una grande nazione. Le grandi nazioni hanno bisogno di spazio vitale, e quegli svergognati sodomiti e gomorrei occupavano le fertili sponde del Giordano. Perché darsi pena per loro? Un altro avrebbe incitato Dio a ridurle in polvere. Abramo no. Perché? Non è chiaro. I patriarchi della Bibbia sono strani personaggi, astuti, violenti, passionali, ma anche capaci di slanci improvvisi e indecifrabili. Abramo, noto soprattutto per la sua cieca obbedienza agli ordini di Dio, qui mostra un temperamento tutt'altro che remissivo. Pur di salvare i sodomiti (suoi potenziali nemici) si arrischia in una estenuante trattativa col Dio a cui deve tutto, un Dio notoriamente geloso e irascibile. Perché lo fa? Per un sentimento di giustizia superiore a ogni cosa. Superiore alle ragioni dei popoli e persino a quelle di Dio. Non importa quel che fa la maggioranza dei sodomiti: persino Dio non ha il diritto di torcere un capello all'uomo giusto.
Qui Abramo meriterebbe il nomignolo appioppato a suo nipote, "Israele", che significa "colui che ha combattuto contro Dio e contro gli uomini, e ha vinto" (Gn 32,29). Vincere contro gli uomini non è un'impresa eccezionale, ma vincere contro Dio, ottenere la sua misericordia, è qualcosa di miracoloso, di rivoluzionario. Se ne rendono conto i figli di Abramo sparsi nel mondo, gli ebrei, i musulmani, i cristiani? Se ne rendono conto gli israeliani, che per stanare i terroristi sparano alle ambulanze della mezzaluna rossa? La maggior parte no, non se ne rende conto. Ma qualcuno c'è, qualcuno che nel fragore della guerra intercede per Sodoma, per il nemico. Non sono tanti, certo. Ma a Dio ne bastavano dieci. Anche noi, facciamoceli bastare. Condanniamo Israele, ma non odiamolo.
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In difesa di Sodoma

La Genesi (capitolo 18) racconta la fine di Sodoma e Gomorra, le città nella valle del Giordano che Dio volle distruggere a causa dei loro peccati, e di come prima di procedere alla distruzione Dio stesso – in via del tutto eccezionale -– fece tappa da Abramo, che offrì per l'occasione focacce di fior di farina. Allora Dio annunciò che Abramo sarebbe stato padre di una grande nazione "in cui saranno benedette tutte le nazioni della terra" (18,18), ma anche la fine delle due città vicine: "il grido contro di loro è molto grande, e il loro peccato è molto grave"(18,20).

Abramo, che è un brav'uomo (e poi a Sodoma ha parenti), fa quel che può per salvare le città. La sua arringa è ben congegnata. Il patriarca parte da un assurdo: mettiamo, dice, che a Sodoma ci siano cinquanta giusti. "E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lungi da te il far morire il giusto con l'empio! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?" Dio accusa il colpo, e si fa strappare una concessione non da poco. "Se a Sodoma troverò cinquanta giusti, per riguardo a loro perdonerò tutta la città" (18,24-26).

Stabilita così la legge del perdono, a Abramo non resta che proseguire in discesa: "Mettiamo", prosegue, che ce ne siano solo 45: vuoi distruggere una città intera per cinque giusti in più o in meno?" E Dio abbassa la soglia a 45. "E se fossero solo quaranta, trenta, venti?" Fino alla manfrina finale: "Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola; forse là si di giusti se ne troveranno solo dieci". E il Signore: "Non la distruggerò per riguardo a quei dieci" (18,32). Dopodiché si dilegua, prima di concedere ulteriori ribassi. Sodoma, è noto, sarà distrutta ugualmente: ma da allora il popolo di Abramo sa che bastano dieci giusti a salvare una città. Anche noi, teniamocelo per detto.

Prima di accusare Israele (il moderno Israele) di genocidio o quant'altro, sarà opportuno verificare se non ci sia almeno una manciata di giusti, a Gerusalemme ovest o a Tel Aviv, che si siano opposti alla guerra. Non li troveremo tra i laburisti al governo, i cosiddetti 'laici' che non hanno mai veramente ostacolato l'occupazione dei territori. Piuttosto vorremmo cercarli tra gli intellettuali: forse che non ci sono intellettuali pacifisti in Israele? Anzi, abbondano. C'è Yehoshua, per esempio, che sulla Stampa è tradotto un giorno sì e l'altro no: Yehoshua che per esempio ieri bacchettava severamente l'intellettuale portoghese Saramago, reo di aver paragonato Ramallah ad Auschwitz e gli israeliani ai nazisti: in questo modo non si calmano gli animi, anzi, si incitano i terroristi a massacrarci, dice. Per poi chiedersi: perché gli europei continuano a insistere con questo assurdo paragone coi nazisti? Forse per esorcizzare il loro proprio passato, quello sì nazista, o almeno collaborazionista. È un'ipotesi molto interessante, e molto sottile. I rastrellamenti, i prigionieri marchiati con inchiostro indelebile, i campi profughi dove i libri sono vietati e sotterrati (Dheishe), la guerra lampo dei tank (in tedesco si dice Blitzkrieg) la propaganda nazionalista e razziale, la sopraffazione, sono altre possibili spiegazioni (molto meno sottili), che a Yehoshua per ora non vengono in mente.

Yehoshua non potrebbe essere chiamato in difesa di Sodoma? Yehoshua è tutto meno che un fanatico; ha firmato a suo tempo un appello di intellettuali israeliani per la pace; vorrebbe che i laburisti lasciassero il governo e appoggiassero il ritiro unilaterale dai territori occupati. Yehoshua è senz'altro in buona fede quando si proclama intellettuale pacifista; ma proprio questa buona fede è drammatica. Ecco un brillante scrittore che vive in Israele, e che ha modo di guardarsi attorno e ragionare. I suoi ragionamenti, che a Tel Aviv sanno di buon senso, a Betlemme suonano già deliranti: e altrettanto deliranti suonano in Italia, a me almeno. Ho ancora in mente l'articolo di un mese fa (segnalato da Frederic) in cui criticava il manifesto degli obiettori di coscienza. Quella manciata di militari che rifiutano di intervenire nei Territori: alcuni di loro (una decina) attualmente sono incarcerati. Che cosa può avere il pacifista Yehoshua contro di loro?

Vorrei ora spiegare ai lettori italiani le ragioni di questo mio atteggiamento. Il concetto di governo è estremamente nuovo nella storia ebraica. Durante tutto il periodo della diaspora gli ebrei hanno vissuto in un contesto esistenziale libero da ogni imposizione da parte dei loro connazionali. Gli israeliti potevano discutere fra loro, litigare, ma nessuna autorità o governo ebraico li poteva costringere a determinate azioni o comportamenti. Essi erano sudditi di un potere «gentile» ma affrancati da qualsiasi sovranità ebraica. E' possibile dunque affermare che la vita ebraica nella diaspora fosse sostanzialmente anarchica. Il prezzo pagato per tale anarchia, in termini di sterminio e di assimilazione, è noto a tutti. La creazione dello Stato di Israele ha cambiato radicalmente questa situazione. Gli ebrei si sono liberati dal potere straniero per creare una propria sovranità in un regime democratico. La democrazia israeliana non è perfetta, è vero, come molte al mondo, ma è pur sempre garantita da elezioni libere e dal rispetto della libertà di parola e di stampa. Qualunque lesione del tessuto di questa giovane e fragile democrazia (fragile non tanto per il pericolo dell'imposizione di un regime totalitario ma per il rischio di precipitare nell'anarchia), quale il rifiuto di adempiere all'obbligo militare, è quindi pericolosa e non va incoraggiata.

Per Yehoshua, insomma, gli israeliani sono ancora ragazzini che devono abituarsi al concetto di "sovranità", guai a sgarrare, l'obiezione di coscienza è un lusso di nazioni più mature, come l'Italia. Nessun lettore italiano, immagino, si è preso la briga di spiegargli che la Repubblica italiana e lo Stato d'Israele hanno più o meno la stessa età: del resto anche da noi esistono intellettuali pronti a spiegarci che passiamo col rosso perché ancora non ci fidiamo dell'Autorità costituita. Per Yehoshua Israele è dunque continuamente sul punto di cadere in una non meglio definita anarchia. È un'idea plausibile? Ci sono precedenti storici? Sì. In anarchia vivevano gli israeliti giunti alla Terra Promessa dopo la fuga dell'Egitto. È un lungo periodo oscuro, di guerre, faide e lotte tra tribù, narrato nella Bibbia e precisamente nel Libro dei Giudici: ogni tanto nel testo compare questo versetto a mo' di spiegazione: "a quel tempo Israele non aveva ancora un re". Il finale (21,25) è ancor più eloquente: "a quel tempo Israele non aveva ancora un re: ognuno faceva quel che gli pareva meglio". E infatti Israele era lacerato da guerre intestine, ed esposto agli attacchi di Filistei, Amorrei, ecc.. È chiaro che Yehoshua non ha più ragione per temere Filistei e compagnia. Teme però "lo sterminio", malgrado Israele sia un membro riconosciuto della comunità internazionale, e "l'assimilazione": assimilazione con chi? Forse con gli otto milioni di profughi palestinesi che chiedono di rientrare nella loro Patria, e che col loro maggiore tasso di natalità minacciano la 'purezza' dei cinque milioni di israeliani. Per questo, oggi come ai tempi di David e Salomone, "Israele deve avere un re". Questo re si chiama democrazia. Imperfetta, "è vero": ma guai a chi la mette in discussione. E infatti:

(la tirata contro Yehoshua continua domani perché è veramente troppo pesante)
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Forse non sapete che l'esercito israeliano manda in onda video porno sulla tv palestinese. Una volta occupata la tv palestinese a Ramallah, i militari israeliani si devono essere posti il problema di cosa proiettare. I Dieci Comandamenti? Ben Hur? Le scene di giovani spensierati sulla spiaggia di Tel Aviv con cui ci ha deliziato anche oggi il TG2? Pare invece che i militari di tutto il mondo reagiscano nello stesso modo agli stessi stimoli: porno, con tanto di pubblicità per le hotline. Quelli registrati in casa per pudore. Alle proteste di un'avvocatessa palestinese i portavoce dell'esercito hanno risposto che "i soldati non sapevano che tutta Ramallah stesse guardando". Beh, certo. Ieri era una bella giornata di primavera, come si vede nella foto qui accanto. L'ideale per fare due passi. Perché mai i palestinesi sarebbero dovuti restare in casa a guardare la tv?
La notizia è dell'Ha'aretz, "la più autorevole testata israeliana", tanto autorevole che certe notiziole di poco conto come questa nella versione inglese non le pubblica. Ci ha pensato Indymedia Israele.

Forse non sapete che la chiesa della Natività – quella in cui ormai 200 miliziani palestinesi si tengono stretti a quella manciata di giornalisti che sono la loro unica speranza di vita – è la chiesa più antica del mondo. Nel senso che è quella che sopravvive da più tempo, da Costantino il Grande, direi. Qualche sito romano e perfino bolognese può rivaleggiare in antichità, ma la Natività è l'unica chiesa consacrata a essere sopravvissuta all'invasione araba (anche il S. Sepolcro, in un certo senso, ma il Sepolcro non è propriamente una chiesa, è un guazzabuglio di altari e santuari). Sopravviverà agli israeliani? Non ce l'ha fatta la moschea eretta dall'altra parte della piazza, testimone di secoli di convivenza pacifica che sono pure trascorsi in questa terra. Gli israeliani non fanno passare i pompieri palestinesi, pompieri terroristi. Noi, che condividiamo la preoccupazione del nostro Presidente per i Luoghi Santi, siamo in apprensione. Lì dentro stanno al buio per paura dei puntatori israeliani. Tutto così moderno, e così orribilmente simile a certe cronache medievali in cui gli ultimi ribelli si asserragliano nella chiesa, e i sacerdoti fanno da intermediari.

Peraltro non è detto che i salesiani siano così super partes: per ora rifiutano ostinatamente di lasciare la chiesa sorta sulla grotte dove (forse) nacque Gesù e (più probabilmente) Girolamo tradusse il Vangelo. I salesiani… non so se faccio bene a dirlo, ma di loro ricordo soprattutto un frate pacioccone, che parlava bene italiano ma con un accento indecifrabile, e posava volentieri per le foto sul chiostro (il chiostro in cui ora i miliziani calcolano le ore che gli restano da vivere). Serafico, come si conviene, ci aveva accolto dicendo tuttavia: "Vedete che succede? Hitler non ha fatto abbastanza per questa gente". La frase ci aveva gelato. Un'orribile bestemmia antisemita, ma anche il tipico sfogo di un signore qualsiasi dopo tre ore di fila a un posto di blocco. Alcuni avevano protestato, io mi ero fatto da parte, e forse nella foto non sono venuto. Stavo dando un occhio al chiostro, cercando anche lì qualcosa da salvare, da sistemare in una memoria organizzata e coerente, magari una traccia di speranza, in uno dei più antichi tempi della speranza del mondo. Ma anche lì non ho trovato niente. Solo rabbia e disperazione, un frate pacioccone che invoca Hitler, e mezz'ora dopo, nelle strade che ora sono tombe all'aria aperta, un bimbo di tre anni difendersi con pugni ben assestati da un compagnuccio di cinque o sei. Mi domando dove siano ora – ma dove vuoi che siano, sono lì. Se pure avessero una cantina in cui nascondersi, c'è una cantina a prova dei mortai? E comunque dovranno uscire a cercare il cibo che non c'è. Del resto sono anni che si preparano, giocando con fucili di legno. E poi la loro vita non dev'essere qualcosa di così prezioso di cui preoccuparsi. I loro padri sono i martiri che brandiscono i fucili sui manifesti incollati a ogni muro.

Elisa? Magari qualcuno leggendo il grande Defarge si sarà messo in pensiero. Elisa è a Gerusalemme, che in questo momento è uno dei luoghi più sicuri della Palestina. Sono fiero di lei, di Sonia Morgantini, di tutti gli italiani e i francesi e gli altri a Dheishe, Ramallah, Betlemme, e di quei matti che tuttora partono e partiranno -- anche se alla fine in tv mandano in onda solo Bertinotti. Io sto qui, correggo compiti, do un occhio a internet, mi sento un poco un verme, ma non conta, e poi è nulla in confronto a come mi sentirò in futuro, a come ci sentiremo tutti, se la Pace non vince su quel Piave che è la Palestina, se da quella porta stretta (la porta dell'umiltà) la guerra dilaga. E la guerra dilaga.
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fuori mi prendono mira e io qui dentro a fare la soubrette"Insomma, sono in due: perché nei messaggi non parlano mai l'una dell'altra?"
"Forse perché non sono nello stesso gruppo".
"O forse perché si stanno sulle palle".
"Ehm, speriamo".
"Era una battuta per sdrammatizzare?"
"Era una battuta per sdrammatizzare. E al cellulare hai provato?"
"Staccato"
"Avrà finito le batterie".
"Magari le ha prestate ad Arafat".
"Era una battuta".
"Sì. Dico, t'immagini la scena? Yasser, scusa, che modello usi? What kind of phone? Ehi... ragazzi, un po' di silenzio. Non è che qualcuno ha un caricatore per un Panarola del 1995?"
"Non può essere vero tutto questo. Cioè, l'altra sera ci bevevamo una birra assieme e adesso è in guerra. In guerra."
"Io vorrei essere là".
"Io me la farei sotto".
"Anch'io, non c'entra".
Notizie dal mediacenter di Gerusalemme


dalla Palestina:
Subject: Colpevoli di essere palestinesi....!!!
Date: Mon, 1 Apr 2002 00:56:22 +0200

Cari amici e amiche,

noi tutti e tutte siamo stati condannati alla pena capitale da Israele. Siamo colpevoli di essere Paelstinesi. Siamo colpevoli di difendere le nostre case, i nostri bambini, le nostre scuole, le nostre vite e il nostro presidente. Siamo stati tutti e tutte condannati alla pena capitale da Sharon e dal suo governo. Senza processo, senza difesa, senza neppure un'ultima confessione o un ultimo desiderio.

Saremo giustiziati con un colpo alla testa. Non fa differenza il sesso o l'età. Vecchi o giovani, uomini o donne, siete tutti colpevoli. E se non morirete subito, i soldati israeliani si assicureranno che moriate dissanguati. A nessuna ambulanza è permesso aiutare chi è stato giustiziato.

A Ramallah, i soldati israeliani hanno già giustiziato trenta o più Palestinesi. Li hanno colpiti alla testa o al cuore, poco importa. E' difficile sbagliare: in quanto giustizieri, dovete stare solo a un paio di metri di distanza. Più ne giustiziate, più lunga sarà la vostra licenza. Dovete tenere a mente quanti ne avete giustiziati, se non volete perdere il premio finale. Potete anche scattare una foto alla vostra vittima, per essere sicuri di ricordare.

Molti soldati israeliani portano con sé le loro cineprese e riprendono le loro vittime palestinesi. I bei ricordi meritano di essere ripresi e conservati, non vi pare?

L'esercito israeliano ha bisogno di tutto l'aiuto possibile perché in Cisgiordania e nella strisica di Gaza restano ancora 3.499.070 palestinesi, che sono anch'essi colpevoli.


Marina Barham, anch'essa colpevole
INAD Theatre - Beit Jala


Dall'Italia
Oggetto: TELEFONARE A FARNESINA 06 36915551

Telefonate alla Farnesina 31-March-2002 17:18

Appello da Geruslemme
autore: - lingua: It
Appello dai pacifisti italiani da Gerusalemme: questo è il numero dell'unità di crisi della Farnesina, che dovrebbe seguire la vicenda dei cittadini italiani all'estero: visto il disinteresse per il pericolo che corrono gli ormai oltre venti italiani a Ramallah, chiusi in albergo e circondati dai carri armati, mentre tutto interno si spara e gli israeliani danno la caccia a ogni palestinese che abbia un incarico dell'Anp, prima di tutti Bargouti, nonché i trentacinque a Deheishe, nei pressi di Betlemme, dove sembra che un attacco di carri sia imminente, si invitano tutti a telefonare, chiedendo notizie di amici e parenti in Palestina. Il numero è: 06 36915551.
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ci sono pochi, pochissimi motivi per andare fieri di essere italiani. Ad esempio:

Beh, buona Pasqua.
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Un altro venerdì santo, in Palestina

Subject: COMUNICATO DA RAMALLAH
Date: Fri, 29 Mar 2002 14:18:49 +0100

Se volete essere aggiornati sulla situazione in Palestina e sulle sorti degli italiani che si trovano là (tra l'altro non stanno tutti a Gerusalemme e c'è anche un gruppo di 35 persone che si trova in un campo profughi), potete consultare il sito di Radio Onda Rossa (87,9 FM (http://www.ondarossa.info) o ascoltare le radio del circuito Radio Gap (www.radiogap.net). Dalle 18,30 alle 19 c'è uno spazio quotidiano dedicato e durante il giorno vengono passate altre notizie. Ciao Silvia

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RAMALLAH 29 marzo 2002

Vi giro, tradotto, l'appello che ho appena ricevuto dal Palestinian Monitor, organo di stampa del PNGO (coordinamento delle ONG palestinesi) con sede a Ramallah. Il messaggio arriva da un'indirizzo privato perché in questo momento nessuno può raggiungere gli uffici. E' urgente la nostra
mobilitazione. Come indicato da Sveva, l'appuntamento per Roma è a Piazza San Marco, ore 17,30. Silvia Macchi


ISRAELE DICHIARA GUERRA AI PALESTINESI
I PACIFISTI STRANIERI MANIFESTANO OGGI AL CHECK POINT DI AL-RAM

L'esercito israeliano ha completamente invaso Ramallah, compreso il quartier generale dell'Autorità Palestinese, con più di 150 carri armati ed altri mezzi militari. Il governo di Israele ha annunciato che intende occupare le aree della Cisgiordania che ad oggi sono sotto il controllo dell'Autorità
Palestinese, ripristinando così uno stato di completa occupazione militare, ed ha dichiarato guerra ai Palestinesi.
L'esercito israeliano ha occupato le abitazioni di Ramallah e sta procedendo ad una perquisizione casa per casa. In questo momento il problema principale per la popolazione è l'impossibilità di accedere ai servizi sanitari. Finora (7,30 del 29 marzo) sono stati uccisi 4 Palestinesi e abbiamo notizia di almeno 10 feriti - è probabile che siano di più - che sono senza cure
poiché i carri armati bloccano il passaggio delle ambulanze e del personale medico.
Alcuni pacifisti stranieri - Inglesi, Francesi, Svizzeri, Italiani e Americani - ora sono a Ramallah. Ieri le autorità israeliane hanno impedito ad altri trecento di entrare a Ramallah ed oggi questi tenteranno di nuovo di raggiungere la città da Gerusalemme. La stampa è invitata ad essere
presente alla manifestazione dei pacifisti stranieri che si terrà oggi, alle 8.30, al checkpoint di al-Ram.
La dichiarazione di guerra del governo israeliano nei confronti dei Palestinesi e la completa occupazione militare dei territori palestinesi non potrà che aggravare la crisi in atto, che ha le sue radici nella più lunga occupazione militare dell'era moderna. Chiediamo alla comunità
internazionale di intervenire con la massima urgenza per fermare le atrocità dell'esercito israeliano e per fare pressione sul governo israeliano affinché permetta di muoversi liberamente alle ambulanze e al personale medico.

Per ulteriori informazioni contattare il Palestine Monitor al numero
00972-52-396196.


Io sono un po' in pensiero per Goretta e per Elisa (dove sei?)
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CRISI UMANITARIA NEGLI OSPEDALI
APPELLO URGENTE :The Palestinian Society for the Protection of Human Rights & the Environment "LAW"
INTERVENGA SUBITO LA COMUNITA' INTERNAZIONALE

Uno dei principi basilari del diritto umanitario internazionale riguarda l'obbligo per gli Stati di assicurare l'accesso alle cure mediche per qualsiasi ferito, compresa la sua evacuazione se necessario, la protezione degli ospedali civili e del personale medico, il trasporto medico e garanzia dei rifornimenti sanitari.
E' per questo che il sistematico impedimento ai soccorsi medici, da parte delle forze di sicurezza israeliane sin dall'inizio dell'escalation, cominciato all'attacco al campo di rifugiati di Balata, il 28 febbraio, è in chiara violazione del diritto umanitario internazionale.
Un piu' recente esempio di violazione della neutralità dei soccorsi è la situazione a Ramallah dove l'accesso alle cure mediche viene ostacolato in diversi modi.
Dopo l'attacco al personale medico sulle ambulanze durante gli ultimi giorni, il PCRS ha deciso di coordinare ogni movimento con l'esercito israeliano; questo ha portato a ritardi che vanno dai 30 minuti alle 2 ore. In caso di feriti gravi, dove il tempo è un fattore assolutamente cruciale, i ritardi possono causare un aggravamento delle condizioni del paziente.·
Nonostante il preventivo coordinamento con le autorità israeliane, le ambulanze sono state ugualmente colpite. Per esempio, ieri alle 17,15, una jeep dell'ICRC di scorta a un'ambulanza della PRCS è stata colpita da tre proiettili
Da quel momento la PRCS ha sospeso tutti i movimenti fino a quando l'autorità israeliana non garantirà la sicurezza delle sue ambulanze. Ieri notte, la PRCS ha registrato 19 chiamate da Ramallah e Al Bireh, che non hanno ricevuto risposta.
A causa delle limitazioni di spostamento e degli attacchi al personale medico e alle ambulanze, feriti e morti non possono essere evacuati. Per esempio, ieri attorno alle 22, Shefa Ratha Tawil, 56 anni, un'abitante di Al Bireh la cui casa era stata circondata dai carri armati, ha avuto un attacco di cuore. I familiari hanno chiamato un'ambulanza, ma quando è arrivata sul posto le è stato vietato il passaggio. Attorno alle 24, la donna è morta.
Fino alle 12 di oggi non è stata permessa alcuna evacuazione dei corpi.
A causa della chiusura e del coprifuoco imposto a Ramallah, gli ospedali non possono ricevere rifornimento sanitari nè di cibo. Per esempio, l'amministrazione dell'ospedale di Ramallah ha detto che hanno urgente bisogno di ossigeno. Alle 15 di oggi LAW ha assicurato che all'UNRWA e alla OCRC sarà permesso di trasportare ossigeno, cibo e acqua per l'ospedale. Tuttavia, fonti dell'ospedale hanno detto alla LAW che la quantità di ossigeno autorizzato per il trasporto sarà consumato nel giro di sei ore. Ieri, quando uno degli autisti dell'ambulanza dell'ospedale, Hani Hamadi, ha tentato di portare rifornimenti sanitari e cibo all'ospedale, è stato costretto a tornare indietro dopo che la sua ambulanza è stata colpita.
Sono stati attaccati gli ospedali. Per esempio, il Ramallah Government Hospital ha subito la distruzione delle tubature dell'acqua. Di conseguenza, manca l'acqua da ieri Anche le linee telefoniche sono state interrotte.
Da oggi alle 11, l'esercito israeliano ha proibito l'evacuazione dei feriti al Ramallah Government Hospital, che è l'ospedale piu' grande e importante della città. Per questa ragione, alcuni pazienti sono stati trasportati all'Arab Medical Care Hospital, che si trova al centro della città ed è meno equipaggiato. Al momento in cui scriviamo(15,30), la LAW ha ricevuto notizie di 32 persone ferite a Ramallah solo nella giornata di oggi, 9 delle quali in condizioni gravi.
Poichè l'Arab Medical Care Hospital non ha sufficienti chirurgi e equipe medica, come gli anestesisti, l'equipe medica del Ramallah Government Hospital e dello Sheikh Zayed Hospital hanno tentato di fornire assistenza, ma l'esercito israeliano ha sbarrato loro la strada pribendo l'ingresso all'Arab Medical Care Hospital.
Di fronte alla crisi umanitaria negli ospedali , inclusi Ramallah e Al Bireh, la LAW sollecita con urgenza l'intervento della comunità internazionalen in particolare degli Stati Uniti e degli Stati membri dell'Unione Europea, perchè Israele dia garanzia di non ostacolare i soccorsi medici per tutti coloro che ne hanno bisogno e che gli attacchi agli ospedali, alle ambulanze e al personale medico cessino immediatamente.
Inoltre, la LAW sollecita la comunità internazionale ad aprire un'inchiesta e a procedere contro ogni azione di attacco alle ambulanze , alle equipe mediche e alle istituzioni che provochino la morte o il grave ferimento, per determinare se si tratti di atti deliberati. Ogni attacco deliberato costituisce una grave violazione della IV Convenzione di Ginevra ed è per questo un crimine di guerra.

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Associazione per la Pace
Gruppo Palestina
Via Salaria, 89 00198 Roma
Tel. +39 - 068841958
La pace non è solo l’assenza della guerra, è una virtù, uno stato della mente,
una disposizione alla benevolenza, confidenza, giustizia.
*********************
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Mea Shearim

La mia guida, se mi ricordo bene, ne parlava così: probably the most reluctant tourist attraction in the world, "forse la più riluttante attrazione turistica del mondo". Girava infatti voce che li accogliessero a pietrate, i turisti, a Mea Shearim. Io non ero sicuro di volerci dare un'occhiata. Eravamo stati tutto il giorno nel quartiere arabo della città vecchia, dove dopo una settimana ormai la gente ci conosceva e ci voleva bene. Non che smettessero di volerci rifilare kefie di cotone leggero stampate ad Honk Kong; la mattina una bimba di otto anni davanti alla Città di David aveva provato a sfilarmi il portafoglio; questo non significa che non ci volessero bene, ma la fame è brutta, la città sotto assedio da più di un anno, e noi gli unici turisti utili da mesi (e poi ovunque andavamo, in pullman, la gente sorrideva e ci salutava col segno della Vittoria). Non mi ero mai sentito così amato e non mi ero mai sentito così ricco, per cui, ovviamente, non mi ero mai sentito così in colpa: e tutto questo senza nemmeno dare un'occhiata alla faccia innocente del nemico, a Mea Shearim.

Alla fine ci siamo andati, dopo il tramonto, giusto per vedere. All'inizio non ci fidavamo nemmeno a chiedere la direzione: dopo un po' abbiamo sentito un bambino che diceva qualcosa, un balcone che sbatteva, e abbiamo pensato: "ci hanno avvistato"; dopo un altro po' abbiamo visto lo striscione sospeso sulla strada e abbiamo capito di essere lì.

Gli striscioni stanno forse dove una volta stavano le porte del quartiere: Mea Shearim penso significhi "cento porte". Una porta può essere aperta o chiusa, Mea Shearim potrebbe essere il nome di un quartiere ospitale. Invece è "la più riluttante attrazione turistica del mondo". Ora, è vero che in molti casi i turisti non sono che dei rompicoglioni che, oltre alla pretesa di vedere il mondo, hanno anche quella di trovarlo sempre comodo come lo vogliono loro. In fondo, sugli striscioni c'è soltanto scritto (in quello stile piuttosto brusco che mi sembra tipico degli israeliani, o è già un pregiudizio?) di non vestire in maniera indecorosa per la loro religione. Se avessimo letto la stessa scritta nel suq non avremmo trovato niente da ridire, perbacco, siamo in casa loro. Ma nel suq ormai ci sentivamo un po' a casa anche noi (e non era vero): qui invece ci sentivamo in pericolo, non fosse perché tutti vestivano in nero, tranne noi. E non era solo il problema. Le donne coi pantaloni, per esempio, avrebbero potuto giustificare una sassaiola? Lo striscione sembrava ammettere la possibilità, e io prestai la mia eterna giacca arancione alla signora che ci accompagnava, che tirò su il cappuccio e si mise a camminare come un rapper (certe signore non finiscono nelle Tute Bianche per niente).

Tra le persone in nero c'erano, forse, quelli che ci avevano accolto alla prima manifestazione con dei cartelli di questo tenore: "Palestinians in Jordan", "Stop fascist arab occupation of Israel", e gridandoci "You are terrorist". O forse no. L'impressione è che gli abitanti di Mea Shearim vivano nel loro mondo e si facciano i fatti loro. Mi piacerebbe sapere se è addirittura vero quello che ho sentito dire (se ne sentono tante), che in un Paese dove tutti, senza distinzione di sesso, sono chiamati al servizio militare (che comporta il quotidiano rischio della vita), loro ne siano esentati. Troppo puri per le armi.

Questo mi fa ricordare un'altra cosa: che anche se il loro eterno gingillarsi col grilletto del mitragliatore mi dava ai nervi, anche se ai posti di blocco ci hanno fatto dannare, anche se tirano giù le case dei palestinesi con le granate, io non sono mai riuscito a odiare i militari israeliani. Di solito sono ragazzini, sono nati nell'odio e nell'odio vivono e muoiono tutti i giorni, ma qualcuno gli ha mai chiesto cosa ne pensano di Sharon?
Ma con gli ortodossi è diverso.
Sin dall'aeroporto, ammettiamolo, detestavamo gli ortodossi. Saranno gli abiti? Ma gli abiti dei palestinesi, o di qualunque altro popolo, non ci danno la stessa sensazione. Il problema è che un ortodosso assomiglia terribilmente (anche nel modo di vestire) a un occidentale. E quello che noi perdoniamo a ogni popolo esotico, non lo tolleriamo in chi sotto sotto consideriamo uguale a noi. Anche quella sera giocavamo a "Vai avanti tu, che sembri ebreo", e ognuno aveva la sua idea sul perché lui non assomigliasse a un ebreo, mentre un altro sì. Come si fa a distinguere un ebreo? Semplice, e insieme difficile: l'ebreo è quello che ci somiglia.

Signora, le piace la foto del ragazzino palestinese che tira sassi contro un carro armato (a causa della foto magari il ragazzo è stato in galera due anni)? Sì? Lo vedrebbe suo figlio con lo stesso sasso in mano, a una manifestazione? Eh, ma che domande. No. Ecco, pensi a suo figlio vestito di nero con una bombetta e due buffi ricciolini, che mi tira un sasso perché passo in maniche corte e con la telecamera a tracolla. Non lo trova spaventoso? Questa è la sensazione che ti dà Mea Shearim.

Chi ha avuto la pazienza di leggere fin qua si sta chiedendo: insomma, ti dispiace o no di dieci nove morti (compresa una bambina) che non avevano fatto niente di male, uscivano dalla sinagoga? Sì, mi dispiace. Purtroppo il numero delle vittime di oggi è ancora maggiore, anche se sono tutti palestinesi (e quasi tutti civili, e 4 bambini). Forse fare il turista in guerra serve a questo: a dare un luogo, un nome, un ricordo, a quello che senti ogni giorno al telegiornale. Anche se ormai non alzo più il volume quando sento che parlano di Ramallah, Hebron, Gaza: ma le immagini le riconosco, quei paesaggi, quei volti li ho conosciuti, ora posso stare in pena per loro, anche se non capisco in che modo questo possa essere d'aiuto.

Mi dispiace per il popolo palestinese, che ormai ha scelto la strada del sacrificio, e non so quanto noi occidentali saremo in grado di dissuaderli (visto che le nostre grandi trovate occidentali, i caschi blu, gli interventi umanitari, questa volta non si possono usare).
Mi dispiace per il popolo israeliano, che in questa guerra non perde solo la vita, ma anche la propria Storia. Un popolo nato dai ghetti che lasciato libero si rinchiude, per sua spontanea volontà, in un ghetto al centro del mondo, che noi dovremmo difendere. Ma da chi? Io credo che Israele dovrebbe essere difeso da sé stesso. La pazzia in cui sta cadendo, noi occidentali la conosciamo bene, e proprio per questo non la dovremmo più tollerare, anzi, dovremmo lottare affinché non contagiasse di nuovo il mondo.

Una volta entrati a Mea Shearim, non riuscivamo più a uscirne. Un tassista a cui demmo il nome dell'hotel scosse la testa: lui nel nostro quartiere non ci andava, probabilmente non ci era mai stato in vita sua. Un altro che alla fine ci prese su era scuro di carnagione, e lungo tutto il tragitto ci chiedemmo (in dialetto) se fosse palestinese o israeliano. La targa, l'accento dell'inglese, la musica alla radio, nessun elemento sembrava sufficiente. Ma all'arrivo ci chiese i soldi e ci diede il resto contato, e tutti i dubbi si dissiparono: israeliano.
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naso da pugile piace alle ragazze

Tra i vari effetti negativi che ha indubbiamente il tenere un blog (sindrome di Celentano, stress da contatore, paranoia da referrer, cazzeggio compulsivo…), ce n’è uno positivo, e cioè: scrivere in pubblico ti costringe a fare i conti coi tuoi limiti. E questo è importante.
Se guardo dietro di me, vedo un signorino che si credeva assai informato e intelligente, appena un anno fa. Oggi non sono più così sicuro sul mio grado di intelligenza o di informazione. Mi accorgo sempre più che vado avanti per istinto. E mi accorgo anche che va benissimo così.

Un anno fa avevo teorie da spiegare al mondo. Oggi va grassa se mi riesce di metter su un pezzo divertente ogni tanto. Nel frattempo le cose diventano sempre più intricate e incomprensibili. Siccome non posso bermele tutte (da Bush che si strozza con un salatino ai complotti delle toghe rosse alla gloriosa missione italiana in Afghanistan, a Berlusconi grande mediatore europeo), non mi resta che andare a naso, e pazienza se a volte lo sbatterò contro il muro. Che poi la verginità l’ho persa molti anni fa, e non la rimpiango neanche.

Così, a naso, direi che Borrelli ha ragione a protestare e Taormina deve aver imparato da certi suoi clienti l’arte della minaccia. Così, a naso direi che, piuttosto che per un banale match di football, è più facile strozzarsi davanti a un rapporto sullo scandalo Enron. Così, a naso, direi che i Dieci Piccoli Italiani in Afghanistan ci stanno coprendo di ridicolo, e che a questo punto gli italiani dovrebbero farsi tutti pacifisti gandhiani per un semplice questione di decoro. Così, a naso direi che l’articolo 18 è una trincea più simbolica che reale, una specie di Linea Rossa, perché tanto i nuovi imprenditori aprono una ditta nuova ogni dieci dipendenti.

Così, a naso, direi che Israele sta vivendo un incubo dal quale lui solo può decidere di svegliarsi. Dopo mesi di blocchi in tutti i territori, come può un 'martire di Al Aqsa' entrare in un locale di Tel Aviv e fare fuoco? E allora a che serve tenere sotto sequestro tutto il popolo palestinese? Togliere i blocchi. Riprendere il dialogo con Arafat. L’incubo non finirà, ci saranno ancora morti inutili, il tunnel della pace è lungo e stretto, ma ha una via di uscita. Il tunnel dell’odio è cieco.

Queste cose io le dico a naso. E magari dico un sacco di cazzate, e i posteri rideranno di me (tanto sarò morto). Oppure io stesso riderò di me, quando tra qualche anno, dopo aver studiato con attenzione ogni questione, concluderò che Berlusconi, Bush e Sharon sono stati tre formidabili statisti, e io ero il solito giovane accecato dalle ideologie. A quel punto, però, spero che mi offriranno qualcosa, una sottosegreteria, una rubrica sul Foglio, una striscia in tv, perché nessuno si converte gratis, neanche San Paolo.

Nel frattempo, io, a naso, decido volta per volta da che parte stare, e se mi sbaglio, tanto peggio per me. E tanto meglio per chi sta dall’altra parte. Quelli li posso anche capire.
Faccio più fatica a capire, invece, quelli che si tirano fuori da gioco, come se non li riguardasse. Come se fossero i giudici – non alla maniera di Borrelli, no, infatti loro giudicano anche Borrelli, che “dovrebbe fare il suo mestiere”.

Gli italiani sono fatti così. Hanno una soglia d’indignazione molto bassa, che scatta subito, dopodiché può succedere qualsiasi porcheria, loro ormai sono indignati. E a quel punto non c’è più niente da fare. Un po’ come i cani, che se gli punti il dito loro guardano il dito, il meccanismo indignatore scatta sempre di fronte al messaggero piuttosto che al messaggio. Non scandalizza che esista una rete pedofila in Italia, scandalizza che Gad Lerner ne parli in prima serata. Non scandalizza che Berlusconi cambi legge per salvare i suoi amici inquisiti: scandalizzano i magistrati che denunciano la situazione.

Voi, che finché non si processa (e si condanna, evidentemente) un D’Alema o un Rutelli non ha senso processare Berlusconi. Così, per par condicio. Quanto siete garantisti. Quanto siete equilibrati. Voi il naso di sicuro non ve lo rompete da nessuna parte. Lo tenete ben alto a fiutare da che parte tira il vento, e così, impalati sull’attenti, ci fate anche la figura di uomini tutti d’un pezzo. Beh, che posso dire, bravi. Qualcosa però ve lo perdete. Che cosa esattamente non lo so, però qualcosa. Il naso da pugile, forse. A certe ragazze piace.
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tra le tante cose che ho scoperto di non essere, nel 2001: ho scoperto che non sono un giornalista (non sarei capace, per esempio, di mettere in mano sassi a bambini palestinesi davanti a una postazione militare israeliana), non sono necessariamente un pacifista, non sono un esperto di medio oriente, anzi non sono un esperto di niente, ma soprattutto, decisamente, non sono un fotografo.

Al massimo posso essere capace di raccogliere qualche buon link, tutto qui.
Corrispondenze dalla Palestina, di Tactical Media Crew
Indymedia Israele
Il vicolo cieco di Israele, di Edward Said (da Znet.it)
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Sono tornato e sto bene. E' bello tornare a casa.
Cioè, sarebbe bello, ma non c'è nessuno e il riscaldamento l'avevo proprio spento, per cui si gela. Sarà una lunga notte, e domattina devo prendere un autobus (quanti euro fa un biglietto?)
Per una settimana non ho scritto niente, n i e n t e. Adesso ho come un tappo in testa, e non so come e quando salterà. Questo viaggio è stata una piccola cosa, ma per quanto piccola comunque molto, davvero molto più grande di me.
Buon 2002 a tutti.
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