Crepuscolo del preside sceriffo

Permalink
[Questo pezzo è uscito lunedì su TheVision]. Il preside-sceriffo ha i giorni contati. In realtà non ha mai fatto in tempo ad appuntarsi la stella sul petto e appoggiare gli speroni sulla scrivania. L'Italia non è mai stata quel tipo di Far West, e ormai è tardi per cominciare.

Fuor di metafora: la chiamata diretta non esiste più. Il neoministro dell'istruzione Marco Bussetti ha firmato a fine giugno coi sindacati una bozza d'accordo che ne prevede il superamento. È una misura importante soprattutto da un punto di vista simbolico, perché i margini di autonomia del dirigente erano già stati più volte ridimensionati. Agli sceriffi la legge del West consentiva di radunare uno squadrone di civili (una "posse") per dare la caccia ai ladri di cavalli. Ai presidi, le bozze originali della Buona Scuola davano la facoltà di assumere direttamente gli insegnanti, ma già tre anni fa i legislatori avevano corretto il tiro, istituendo un "comitato di valutazione", nominato da docenti e genitori.

Più tardi aveva preso piede l'espressione "chiamata per competenze", e su questo i reduci renziani insistono ancora: non bisognerebbe chiamarla "chiamata diretta", ma "chiamata per competenze", ovvero il preside avrebbe scelto, sì, con una certa discrezionalità, indubbiamente: ma sulla base delle "competenze" dei candidati, certificate dal curriculum. Ma "chiamata per curriculum" sarebbe forse suonata male, mentre il termine passpartout "competenza" negli ultimi anni si è dilatato fino a diventare un paravento dietro al quale nascondere qualsiasi magagna. In questo caso il termine si riferiva a un misterioso quid che rende certi insegnanti più adatti a certe scuole, in base a parametri che non si potrebbero misurare coi concorsi nazionali. Soltanto i presidi, e i loro collaboratori, sarebbero stati in grado di saggiare la "competenza" dei candidati all'insegnamento, previa lettura del curriculum.

Come si leggeva in una delle slide che presentavano la Buona Scuola: "i presidi potranno formare la loro squadra". Più che un preside-sceriffo, un preside-manager sportivo, che gestendo sapientemente il proprio budget seleziona una rosa in base alla propria conoscenza del territorio, e al proprio fiuto didattico. In che modo poi i presidi avessero improvvisamente maturato competenze manageriali e didattiche non era affatto chiaro – la sensazione è che Renzi e co., nel momento in cui avevano deciso di occuparsi del complicato mondo della scuola, si fossero seduti al tavolo delle trattative chiedendo: chi comanda qui? I presidi? Bene, allora diamo tutti i poteri ai presidi, ecco fatto, era facile. Renzi li paragonava anche ai sindaci, e questa è l'immagine che chiarisce le altre: così come i sindaci avrebbero salvato il Paese (Renzi in testa, futuro Sindaco d'Italia), così i presidi avrebbero salvato la scuola. Bastava fidarsi di loro.

Su questa linea i difensori della Buona Scuola non cedono: i dirigenti scolastici avrebbero saputo individuare i meriti e le eccellenze molto meglio di qualsiasi concorso statale. Un paradosso ben curioso, visto che i presidi stessi vengono selezionati in base a concorsi statali. Ma tant'è; il preside era la figura più simile a quella del sindaco, dell'allenatore, del manager: il renzismo non poteva che fare affidamento su di lui. Questa mentalità manageriale, benché posata su basi teoriche malferme, garantì a Renzi l'appoggio di fior di opinionisti liberali, sempre pronti a ribadire che "la meritocrazia è di sinistra"; in compenso gli alienò le simpatie di molti insegnanti, ma non si può piacere a tutti. La concezione aziendalista della scuola non è una novità: nel decennio scorso è stata portata avanti senza remore da più di un ministro di area berlusconiana (Letizia Moratti, Maria Stella Gelmini). Vederla ripresa orgogliosamente da un governo di centrosinistra alla fine non stupiva neanche più tanto.


Anche quando lo stesso Renzi si rese conto di aver sbagliato qualcosa nel suo approccio... (continua su TheVision).
Comments (4)

La CEI vuole i tuoi soldi per le sue scuole

Permalink
Immagina di essere il sindaco di una città che ha qualche problema con il traffico. Una mattina irrompe nel tuo ufficio un tale, dicendo che ha un’idea che risolverà i tuoi problemi. Lo conosci, ha messo su un servizio di minibus in alcuni quartieri – è stato anche accusato di discriminazione perché assume solo determinate categorie di autisti. Ma insomma, che vuole? “I miei bus hanno qualche problema”, dice, “non sono abbastanza competitivi”. Come se fosse un tuo problema di sindaco. Gli suggerisci di abbassare le tariffe. “Non ce la faccio”, ammette lui, “ma ho un’altra idea. Perché non calare le tasse ai cittadini che scelgono di usare i miei bus invece che i vostri?” Tu ti domandi se hai capito bene. “Sì, hai capito bene! In questo modo darai ai cittadini il vero diritto di scegliere, e io riuscirò a riempire i miei veicoli.” Tu gli fai notare che se lui riempie i suoi, quelli del servizio pubblico si svuoteranno. “Meglio così, no? In questo modo potrai togliere alcune tratte, licenziare qualche autista e risparmiare un sacco di soldi! Ci stai?”

Se il tizio vi sembra un matto, spero che non siate devoti cattolici. Perché è più o meno quello che la Conferenza Episcopale Italiana sta chiedendo da anni: siccome la scuola statale ha dei problemi lo Stato dovrebbe finanziare le scuole paritarie cattoliche. Così finalmente potrebbero essere competitive – nel senso che potrebbero sottrarre alle scuole statali una maggiore fetta di utenti. In questo modo, secondo tanti vescovi e insigni personaggi, lo Stato risparmierebbe. E non poco: miliardi di euro! Proprio così. Chiedono soldi allo Stato per far risparmiare lo Stato. Paradossale, vero? Ma non potrebbero fare diversamente. L’articolo 33 della Costituzione parla chiaro: ai privati è garantito “il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione”, ma… “senza oneri per lo Stato”. Quindi l’unico sistema per scucire un po’ di soldi dal Ministero è dimostrare che buttandoli a pioggia sugli istituti paritari, lo Stato ne risparmierà. E per quanto possa essere difficile convincere qualcuno a risparmiare dei soldi regalandoteli, i cattolici non hanno mai smesso di provarci (continua su TheVision).




È tempo di conoscere suor Anna Monia Alfieri, presidente della federazione di scuole cattoliche Fidae Lombardia, e portavoce di chi in Italia lotta per il diritto di iscrivere i figli alle scuole paritarie. Un mese fa ha ottenuto un grande successo: ha presentato il suo nuovo piano, il Costo Standard di Sostenibilità, alla ministra dell’istruzione Fedeli, che lo ha trovato interessante (e non c’è dubbio che lo sia). Si tratta in effetti di una specie di rivoluzione copernicana: fino a questo momento le famiglie che ritengono giusto iscrivere i propri figli alle paritarie hanno dovuto pagare una retta, che mediamente oscilla tra 2000 e i 4000€ all’anno (a cui lo Stato aggiunge il Buono Scuola, una mancetta di 500€). Questa cosa – che una famiglia debba pagare una retta – per suor Alfieri è sommamente iniquo, dal momento che la stessa famiglia paga le tasse, e che parte di quelle tasse servono a pagare la scuola pubblica a tutti gli altri studenti. Secondo suor Alfieri chi paga la retta non dovrebbe pagare le tasse. Semplice.

Si potrebbe obiettare che la scuola pubblica è tale proprio perché la paghiamo tutti: e non paghiamo solo per i nostri figli, ma anche per i figli degli altri (la paghiamo anche dopo che i nostri figli si diplomano. La paga anche chi figli non ne ha proprio). Suor Alfieri ci risponderebbe probabilmente che questo è un modo vetusto di vedere la cosa pubblica, e che il futuro è la sussidiarietà: dove non arriva il pubblico con le sue scuole costose (costose?) può arrivare il privato più agile e snello. Anche se non è esattamente quello che sta succedendo.

Per ora, anzi, il contrario. Gli iscritti alle paritarie in cinque anni sono crollati del 13%. Un effetto della crisi (che però in teoria è finita) e della denatalità (ma per fortuna aumentano gli studenti stranieri, anche nelle paritarie). Per Suor Alfieri, si tratta dell’effetto di una vera e propria ingiustizia sociale. “Il sistema italiano è classista”, dice, perché “impedisce ai più poveri di iscrivere i figli in scuole non statali”. In effetti queste scuole non statali non solo costano parecchio di più alle famiglie, ma non garantiscono affatto risultati migliori, come continuano a mostrare le rilevazioni OSCE-PISA. Che senso ha pagare una retta per una scuola mediamente meno buona di quella che lo Stato ti fornisce gratis? E così, specie negli anni di crisi, gli studenti si sono progressivamente allontanati dalla scuola paritaria. Questo per suor Alfieri e tanti altri cattolici è un’ingiustizia: lo Stato dovrebbe aiutare le famiglie che vorrebbero scegliere le paritarie ma non possono permetterselo. E ci risparmierebbe! Sì, ma come?

Ricordiamo che lo Stato spende già per l’educazione meno di ogni altro Paese dell’Europa occidentale (Irlanda esclusa). Eppure sono già 6400€ a studente. Come fanno le scuole paritarie a spendere migliaia di euro in meno? Il sospetto è che si appoggino alle infrastrutture delle curie, che possiedono un po’ dappertutto in Italia immobili di pregio (su cui non pagano l’IMU); che gli ordini religiosi possano fornire un po’ di manodopera non pagatissima; e che in generale gli insegnanti abbiano stipendi inferiori ai colleghi statali che, ricordiamolo per l’ennesima volta, sono tra i meno pagati d’Europa.

Se le cose stanno così non sorprende poi molto che i risultati di queste scuole siano per ora inferiori a quelli delle scuole pubbliche: quello che in Italia sia pubblico che privato stentano a capire è che se vuoi un’educazione di qualità, ci devi investire soldi seri; attirare insegnanti bravi o formarli con cura; per ora invece abbiamo una corsa al risparmio che non è nemmeno destinata a rallentare, anzi: nei prossimi anni potremmo assistere a un’impennata, uno straordinario testa a testa tra poveri, una gara a chi taglia di più - anche grazie agli sforzi di suor Anna Maria Alfieri e al suo Costo Standard di Sostenibilità. Di che si tratta?

Dell’ennesimo tentativo di eludere l’articolo 33, però bisogna ammettere che stavolta l’approccio è davvero scientifico. Suor Alfieri ha messo assieme un pool di economisti che due anni fa hanno pubblicato uno studio serio, con tante tabelle e numeri. Invece di preoccuparsi di quanto costano le scuole adesso, si sono domandati: quanto dovrebbero costare? Quanto dovrebbe spendere la collettività per mandare un bambino alla scuola dell’infanzia (3201€ all’anno), alla scuola primaria (3395€), alle medie (4390€), al liceo (dipende: ad esempio al biennio scientifico 4300€), a un istituto tecnologico e così via? Le cifre variano poi a seconda di diversi fattori (tra cui le eventuali difficoltà economiche della famiglia, la presenza nella classe di un alunno disabile, ecc.). Sono tabelle davvero bellissime - le ho guardate e riguardate sperando di trovare un grosso buco da qualche parte, ma fin qui non l’ho trovato. Sembra che suor Alfieri e i suoi abbiano davvero calcolato tutto: lo stipendio medio dell’insegnante (non bassissimo), quello del dirigente e del suo staff; i bidelli; le utenze, le visite d’istruzione, i progetti di integrazione, il sostegno eccetera. Grazie a queste tabelle, oggi sappiamo qual è il Costo Standard di Sostenibilità di uno studente, ovvero quanto costa mandarlo a scuola. Indovinate? Costa meno di quello che spende oggi lo Stato: ma non un po’ meno: qualcosa come “dai 2,8 ai 7 miliardi” di meno, all’anno! Insomma è suor Alfieri ad aver scoperto un buco enorme in cui la scuola pubblica italiana ogni anno riversa un sacco di soldi. Ma sarà così? Senz’altro degli sprechi ci sono, ma in tanti casi lo Stato spende di più perché non si trova davanti quella situazione ottimale che è descritta dalle tabelle del libro. Lo Stato spende anche per scuole disagiate, nelle periferie o nelle montagne, magari poco frequentate ma necessarie. Per scuole di città allocate in edifici storici più difficili da riscaldare (per i quali a volte lo Stato paga l’affitto). Non è che spenda tantissimo (rispetto alla media europea), e magari non spende sempre in modo oculato, ma non può certo competere con un’idea di scuola astratta che per ora si trova soltanto nelle tabelle del libro, con tot alunni egualmente distribuiti su tot classi in tot corsi.

Invece suor Maria è convinta che la scuola pubblica, già vittima di tagli straordinari nello scorso decennio, debba essere messa in competizione con altre scuole che, sulla carta, costano persino meno (ma per ora non ottengono risultati migliori). Una volta individuato il Costo Standard non ci sarà più bisogno di buoni scuola: saranno le famiglie a scegliere. Se vogliono andare alla scuola paritaria, pagheranno il Costo Standard direttamente alla paritaria, ma – attenti al trucco – non pagheranno l’equivalente in tasse. È il modello della sanità, ci spiegano: dove non arriva il servizio pubblico, ci pensano i privati. Sussidiarietà! A dire il vero fin qui tutto sommato è il pubblico che è arrivato dappertutto, dai più remoti paesini alle isole – e se nelle cliniche cattoliche è più difficile trovare chirurghi che praticano l’aborto, il sospetto è che anche nelle scuole cattoliche non sarà così facile trovare insegnanti che spiegano come l’aborto sia un diritto - e cosa sia il testamento biologico, e le unioni civili anche tra persone dello stesso sesso (gli insegnanti gay non sembrano avere vita facile nelle scuole cattoliche), e tante altre cose che fanno parte del mondo in cui viviamo ma vanno contro quelli che i cattolici definiscono “valori non negoziabili”.

Non è così strano che la CEI voglia difendere questi valori nelle sue scuole – non si capisce però perché lo debba fare a spese dei contribuenti italiani, tutto qui. Perché quello che la CEI, per bocca di suor Alfieri, ci sta proponendo, è di usare i soldi delle tasse di tutti per pagare un biglietto dell’autobus a chi vuole andare sull’autobus privato. Un autobus guidato da un autista che non è selezionato meglio di quello pubblico, né è meglio pagato; ma almeno arriva più in orario? Oggi no, domani – se lo paghiamo tutti un po’ di più – chissà.


Comments (7)

Il gender non esiste; la scuola privata non dovrebbe

Permalink
Col tempo, se sei un uomo e l'umanità un po' t'interessa, cominci ad apprezzare le bugie per la quantità di cose vere che ci dicono su chi le racconta, e soprattutto su chi se le beve. Il mito del Gender, per fare un esempio, non c'è dubbio che sia un'invenzione, in gran parte magari costruita a tavolino - e forse non sarebbe complicato nemmeno risalire al tavolino in questione. Ma la forza dei miti non sta in chi li inventa, bensì in chi decide di accoglierli: nelle migliaia (milioni?) di persone a cui puoi evidentemente raccontare che in un asilo pubblico si faccia lezione di masturbazione, senza che nessuno faccia un plissé. Come i genitori che a Rignano Flaminio (perdonatemi, mi tornano in mente sempre le stesse cose), nel 2006 si sentirono raccontare che le maestre della scuola d'infanzia aderivano a una setta pedofila e durante il giorno portavano i loro figli col pulmino in un castello dove venivano seviziati - e trovarono l'idea assolutamente plausibile. Cosa c'è nella testa di queste persone, che non ritengo meno capiente e complessa della mia?

Un'enorme diffidenza per l'istituzione scolastica, senz'altro. Ma non è che una faccia della medaglia. Proviamo a voltarla. Dall'altra parte c'è una mostruosa fede nella scuola, nel suo potere di plasmare il fanciullo e il giovinetto, addirittura di farne un maschio o una femmina o altro. Se tu pensi che la scuola possa fare di tuo figlio un gay, la prima cosa che mi viene in mente è che sei pazzo - ma la metto da parte. La seconda cosa è che tu hai già paura che tuo figlio lo sia, e vabbe'. La terza è che stai riconoscendo a me insegnante un potere enorme. Posso creare omosessuali dal niente. Basta decidere che alla terza ora, invece del solito trattato di Campoformio, ci mettiamo a discutere di "amicizia e amore con il partner dello stesso sesso", ed ecco all'improvviso allignare la torbida perversione iridescente là dove fino a un momento prima c'era solo un po' di curiosità per le imprese di Bonaparte - e nessuna pulsione, naturalmente, i ragazzi non avrebbero pulsioni finché non premiamo noi i pulsanti. È chiaro che se davvero fossimo così potenti, saremmo già riusciti a farci pagare un po' di più, in fin dei conti abbiamo in ostaggio tutti i pre-puberi d'Italia cinque ore al giorno. Ecco, il punto è che ci credono. Migliaia, forse milioni di italiani ritengono che noi abbiamo in ostaggio i loro figli, e che possiamo in qualsiasi momento premere un pulsante e omosessualizzarli, transessualizzarli, trasformarli in consumatori seriali di contraccettivi e pillole abortive. Noi.

Che a pena riusciamo a insegnare l'italiano.
Questa per dire dirige un istituto comprensivo - scuole medie,
elementari, d'infanzia - chi le impedirà di selezionare insegnanti anti-gender?
Certo non Renzi.

A questo punto basta rovesciare il mito per trovarne la ratio: chi crede (o vuol credere) che all'asilo si insegna masturbazione precoce, crede o vuol credere altresì che all'asilo queste cose si potrebbero reprimere. Si dovrebbero reprimere. Non all'asilo pubblico, naturalmente: occorrerà procurarsene uno con personale opportunamente specializzato. Chi paventa moduli educativi sulla "scoperta del proprio corpo e dei propri genitali" da quattro a sei anni, considererà necessario che una scuola come si deve crei una barriera tra il seienne e il suo corpo, e soprattutto i suoi genitali. Chi trova scandalo in una lezione sul "diritto all'aborto" riterrà opportuno che una scuola insegni ai figli il contrario, cioè che l'aborto non è un diritto: e così via. Ecco: chi chiede sgravi fiscali o buoni scuola allo Stato invocando la "libertà di educazione", la "libertà di scelta educativa delle famiglie", a volte ha in mente questo. Magari non tutti. Ma alcuni sì. Vorrebbero un asilo che mettesse delle barriere tra i loro candidi bambini e i loro incontrollabili genitali; preferirebbero una scuola che creasse veri Maschi e vere Femmine, ancor prima che buoni cittadini - cittadini di che, poi? Prima viene la famiglia, e la famiglia sa cos'è bene per i propri bambini. Lo sa per definizione.

Qui devo confessare una cosa. Mi è capitato spesso di affermare polemicamente che la scuola privata mi va bene, purché sia privata davvero, vale a dire pagata da chi ci vuole mandare i propri bambini. Si tratta di una manovra retorica che è un classico di questo blog: usare il liberismo contro i liberali, il cattolicesimo contro i cattolici, il marxismo contro i marxisti ecc. Funziona sempre, ma resta una mossa insincera. Cioè alla fine non è vero che le scuole private mi vanno bene. Prendi l'imam che ha parlato al Family Day, beccandosi gli applausi dei buoni cattolici. Io non voglio che lui, con la scusa della "libertà di scelta" iscriva le sue eventuali figlie a una madrasa. Preferirei che le iscrivesse a una buona scuola pubblica, dove sentiranno magari parlare di contraccettivi e aborto, ma anche di Mirandolina e Gertrude. La stessa cosa vale per i genitori cattolici che l'hanno applaudito. Perché ci tengono tanto che i loro figli/figlie vadano a una scuola privata? Per l'ampio parcheggio, o perché il preside può licenziare un insegnante se anche solo sospetta che sia omosessuale? eccetera. Non credo che né la scuola né la famiglia possano trasformare un eterosessuale in un gay o viceversa - ma credo che possano causare un bel po' di sofferenza, e rovinare un bel po' di vite se ci provano. Una scuola che ci provasse, finanziata anche interamente da un gruppo di famiglie che ci credesse, per me andrebbe chiusa d'ufficio. Anzi aperta, nel senso in cui Lutero e Robespierre aprivano i conventi. Fuori tutti - non è che fuori sia il paradiso, anzi. C'è una società mediamente violente e omofoba, ma è l'unica che abbiamo, e sta a tutti migliorarla. Chi cerca di difendersi alzando una siepe intorno al proprio giardino (e magari chiedendoti pure un obolo per innaffiarla) non ci è di aiuto. E poi chi lo sa cosa succede davvero oltre quelle siepi, in quei giardini.
Comments (13)

No, non mi hai dimostrato che la scuola privata mi fa risparmiare

Permalink
Su un blog può capitare di essere più superficiali del necessario, per fretta o per stanchezza o per tattica. In un pezzo di qualche giorno fa mi chiedevo se davvero la scuola privata facesse risparmiare lo Stato e quindi i contribuenti; domandavo ai sostenitori di questa tesi dove avessero preso i loro numeri, e nel frattempo, prendendoli per buoni, rovesciavo completamente le loro argomentazioni: se davvero i buoni scuola costano così poco e fanno risparmiare così tanto, eliminarli del tutto farebbe risparmiare allo Stato ancor di più. Dunque - se i numeri sono quelli - aboliamoli! Si trattava di una tesi paradossale, buttata lì per far uscire allo scoperto i fan dei buoni scuola. Siccome il tutto parte da una loro affermazione (i buoni scuola fanno risparmiare), spetterebbe a loro dimostrarla. In precedenza li avevo visti bellicosi e mi aspettavo di ritrovarmeli a tiro in breve tempo.

Non si è più fatto vivo nessuno.

In realtà no, qualcuno ha voluto commentare, da Praga addirittura. L'intervento di Butta.org è molto interessante, ma purtroppo muove da un equivoco. Butta se l'è presa perché ho usato la parola "dimostrare", che in ambito scientifico ha un significato molto rigoroso, mentre la mia dimostrazione di rigoroso non aveva nulla. È vero, era una cosa molto cialtrona. Il mio pezzo, mi fa sapere, non reggerebbe la peer review di una rivista di economia. Credo anch'io. Mi sembra però che Butta non abbia colto l'aspetto paradossale e polemico della questione: ovviamente non sono un economista, ma anche se ne fossi capace io non potrei dimostrare che i buoni scuola fanno risparmiare, perché non ho i dati e non voglio cercarli: non spetta a me. Io sono quello scettico che deve essere convinto.

Butta, per esempio, se ci crede, potrebbe cercare i dati e offrire una dimostrazione.

E infatti ci prova.

Ma la peer review se la sogna. Anche il suo paper è eccezionalmente povero di dati: dovendo pur partire da qualche numero, anche solo per stabilire quanto può costare una scuola privata in Italia, decide di andare su un sito a caso e prendere una retta a caso. È un po' come se per stabilire quanti polli mangia un italiano alla settimana, Butta decidesse di prendere un italiano a caso e chiederglielo: sospetto che esistano sistemi più affidabili di rilevazione statistica, più o meno da Trilussa in poi, ma lo scienziato è lui, saprà pure quel che fa. Nel frattempo però ha perso completamente di vista la mia argomentazione: io non mi preoccupavo di sapere quanto costi effettivamente una scuola privata in Italia (non spetta a me l'onere della prova!), ma mi domandavo quanto dovrebbe costare. E siccome ho il dato MIUR delle scuole pubbliche - 5000€ ca. - e ho buoni motivi per ritenere che la scuola pubblica costi molto poco, parto dall'assunto che una scuola privata di scarsa qualità, per non essere una truffa ai danni dell'utente, dovrebbe costare più o meno cinquemila euro.

"Sì, ciao", risponde Butta.

Lui lo sa che le scuole private costano meno (ne ha presa una a caso).

Ma temo che non abbia capito. Sono anch'io abbastanza sicuro che mediamente costano meno. Ma mi domando il perché. Già le pubbliche costano pochino. Come fanno le private a essere così convenienti?

Lui sa anche il perché: ad esempio, pagano meno gli insegnanti.

Grazie, Butta, non è che non ci fossimo arrivati. Il problema è che gli insegnanti statali sono già pagati poco rispetto a una media europea. Quindi se gli insegnanti delle scuole private sono pagati ancora meno, si può tranquillamente dire che sono sottopagati: il che è ingiusto non solo nei loro confronti, ma anche rispetto ai clienti della scuola - gli studenti - che infatti in media hanno risultati inferiori ai loro compagni che frequentano le pubbliche. Tanto più che le dimensioni massicce e capillari della rete pubblica le consentono di distribuire le risorse con un'efficienza che piccoli enti privati non possono permettersi (ad esempio: se in due scuole pubbliche avanza una mezza cattedra, la scuola pubblica può spalmare un docente su due sedi; due scuole private pagherebbero di più. Per tacere delle forniture). Come possono le scuole private costare in medie mille o duemila euro in meno (prendendo per buono il dato che Butta ha estrapolato da una scuola a caso su tutto il territorio nazionale) e offrire lo stesso servizio di una scuola pubblica? O il servizio è inferiore - e i dati sembrano dirci questo - o... c'è qualche altra possibilità?

Certo che c'è. È lì che vanno a parare tutti i difensori della scuola privata, invariabilmente. Gli sprechi.

La scuola pubblica sarebbe piena di sprechi.

Fonte?

Quando ero a scuola io c'era un bidello che non faceva un cazzo.

Grazie per la testimonianza. Ma pensavo che avessi delle cifre, non so, statistiche sull'assenteismo... no, il metodo è sempre lo stesso. Si prende un campione molto ristretto (Butta) e gli si chiede come gli è andata.

Non gli è andata tanto bene. C'era questo bidello (ma quanti bidelli lavoravano nelle scuole in cui è passato Butta? Decine, centinaia, lui conosce un caso solo?) e inoltre ha conosciuto un insegnante che non sapeva insegnare.

Uh, sapessi io.

Ma vedi, è un po' il problema di tutti quelli che parlano di scuola.
Comments (8)

Ma chi vi si inculca

Permalink

Solo un arguto calembour per farvi sapere che c'era un mio pezzo sull'Unita.it anche oggi:

Le scrivo innanzitutto per confortarLa, perché sono convinto che questa storia dei cattivi maestri che inculcano gli studenti innocenti non sia una semplice trovata da propaganda: no, Lei un po' in questa cosa ci crede. Probabilmente ci immagina uno per uno, nelle nostre aule, il lunedì mattina, mentre parliamo male di lei e del suo governo agli studenti... (continua laggiù, ma potete commentarlo anche qui sotto).

Egregio Presidente Berlusconi, sono un insegnante della Scuola Media pubblica. Le scrivo innanzitutto per confortarLa, perché sono convinto che questa storia dei cattivi maestri che inculcano gli studenti innocenti non sia una semplice trovata da propaganda: no, Lei un po' in questa cosa ci crede. Probabilmente ci immagina uno per uno, nelle nostre aule, il lunedì mattina, mentre parliamo male di lei e del suo governo agli studenti. Egregio Presidente, insomma, può anche darsi che in qualche aula della Repubblica ci siano insegnanti che si comportano così. In fondo l'Italia è grande e le scuole sono tante, e un professore che invece di fare lezione perde tempo a criticare Berlusconi ci sarà, come c'è quello che commenta i risultati delle partite o si lamenta del mal di testa. Vorrei però che mi credesse se le dico che sono trascurabili minoranze, delle quali non si deve assolutamente preoccupare perché, se non lo sa, è proprio il professore antiberlusconiano a creare lo studente berlusconiano del futuro. È una cosa automatica, creda a me che avevo una professoressa bravissima, disponibile e gentile, con l'unico difetto di militare in Comunione e Liberazione: e vede dove sono andato a finire? All'Unità, appunto. Ma in generale, si è mai chiesto a che scuole fossero andati i nostri Padri Costituenti, per diventare così tanto antifascisti? Alla scuola dei fascisti, esatto. Per cui egregio Presidente, davvero, di solito non siamo così fessi da criticarLa in classe: e se lo facciamo, è tanto di guadagnato per Lei. In generale però abbiamo altro di meglio da fare, davvero. Non so se ha mai dato un'occhiata ai programmi. Lei non ha idea a quante cose ci sono da fare, quanti argomenti da approfondire, lontani dall'attualità politica. Il problema è che a un certo punto i ragazzini in questa attualità ci sguazzano, si nutrono davanti ai telegiornali, e poi si fanno domande, e sono abituati a pretendere le risposte da noi. Ecco, Presidente, vorrei che si mettesse un po' nei panni di un insegnante che a scuola vorrebbe parlare di Gandhi, o di Rosso Malpelo, o della Triplice Intesa, mentre gli studenti gli domandano cos'è il Bunga Bunga. Si fidi: quando nel programma c'è l'Inferno dantesco o il crollo dell'Impero Romano, il Bunga Bunga è davvero l'ultima cosa di cui vorremmo parlare. C'è tanto di meglio in cielo, in terra, persino nella nostra filosofia. Questo è un po' il motivo per cui preferirei che al suo posto ci fosse un politico un po' più noioso, uno di quelli che in tv ci finisce soltanto quando spiega un decreto legge. Di solito nessuno mi chiede niente sui decreti legge. Per fortuna. Niente di personale, eh, ma Lei ha trasformato il dibattito politico in una rissa tra tifoserie, e ormai entrando nelle aule il grido “viva Berlusconi” o “abbasso Berlusconi” ha un po' la stessa profondità ideologica di quando sentivi urlare “viva Inter” o “abbasso Juve”. Sarà pure che il campionato è diventato un po' noioso, ultimamente. Egregio Presidente,sono un insegnante tra tanti, che lavora nella scuola pubblica ma non ha nulla, davvero, contro la scuola privata: sono convinto che chiunque debba esser libero di mandare i propri figli alla scuola che preferisce. Anche i cattolici. Purché non lo facciano a spese mie. Invece non capisco, e nessuno è ancora riuscito a spiegarmi, perché devo contribuire ai buoni scuola, perché devo finanziare io con le mie tasse la scuola privata dei cattolici. Non possono pagarsela loro? Dicono che hanno bisogno di un rimborso, perché i loro figli non usufruiscono dei servizi della scuola pubblica. È un po' come se io pretendessi un rimborso perché preferisco andare a scuola in macchina anziché in autobus. Ma l'autobus fa bene a tutti, anche a chi prendendo la macchina troverà meno coda ai semafori. E una scuola pubblica bella, efficiente, con un personale qualificato, è un'ottima cosa per tutti: anche per chi liberamente decide di non usarla, o per chi non ha figli ma ha comunque bisogno di bravi medici, bravi ingegneri, persone competenti che abbiano fatto studi seri. Vede, Presidente, io non so esattamente quando sia nato questo equivoco, per cui le tasse sono diventate per molti un semplice ticket da scambiare con un servizio. Ma io non pago le tasse per mio figlio, io le dovrei pagare per la collettività nella quale mio figlio si troverà a vivere. E non posso pagare per la scuola cattolica, la scuola musulmana, la scuola buddista. Posso pagare per una scuola sola e voglio che sia il più possibile adatta a tutti. Se poi qualcuno ne desidera una migliore, se la paghi coi soldi suoi. Infondo le sto chiedendo anch'io di tagliarmi le tasse, dopotutto: quella parte che pago e finisce in buoni scuola, mentre un ente privato che non mi rappresenta (la Chiesa cattolica) continua a godere di sgravi fiscali. La trova una posizione così tanto ideologica? Si rassicuri, non ne sto parlando in classe. Ne parlo con Lei. Coi miei studenti ho di meglio, davvero, da fare. 

Distinti saluti, suo Leonardo. 
Comments (7)

Sono come noi - ma si sentono meglio

Permalink
Quelli che Malpensano

Avete sentito dire anche voi che Alitalia perde un milione di euro al giorno? Bene, ora un piccolo quiz: indovinate chi paga.
E per favore, non rispondete “gli italiani”: troppo facile. Ma li sapreste isolare a colpo sicuro la razza di italiani che pagherà i debiti Alitalia? Per esempio, in una fila alle Poste, sapreste riconoscere quelli che pagheranno i debiti Alitalia da quelli che invece no?
Un piccolo test. Vi presento due persone e dovete dirmi chi dei due è della razza di quelli che pagano. Vedrete che non sarà così difficile.

Arnolfo Brembani, classe '63, nato e cresciuto a Varese, è il titolare di una piccola industria. Non vola parecchio, perché l'unico Paese estero che frequenta è il Canton Ticino, dove ogni tanto porta qualche dane' che nelle banche italiane ammuffirebbe, e ce li porta in Maserati (un regalo di Tremonti Bis).

Waseem Ahmad, classe '74, nato a Lahore (Punjab) è cresciuto anche lui a Varese, dove fa il benzinaio. Regolare. Anche lui non vola parecchio: una volta ogni due anni va a trovare i nonni in Pakistan. Se può, evita Alitalia, perché è un po' cara.

Già così è abbastanza facile, ma vi do un aiutino:

Waseem Ahmad, benzinaio, paga le tasse. Tutte. In quanto benzinaio regolare, non potrebbe fare altrimenti.
Arnolfo Brembani, imprenditore, quando può evitare di pagarle lo fa. Ultimamente questa storia del Liechtenstin, come si chiama, Liechtenstein, gli sta un po' turbando la digestione, ma lui stringe i denti (e non solo) e non vede l'ora che torni Tremonti Tris col Grande Condono.

Non si è capito? Ok, un altro aiutino.

Arnolfo Brembani, imprenditore varesotto, vota Lega Nord.
Waseem Ahmad, benzinaio regolare di nazionalità pakistana, in Italia da 9 anni, non vota. Non ne ha il diritto.

Direi che adesso è chiaro: quando Alitalia sarà salvata, a chi è che chiederanno una mano per pagare il conto? A chi è che alleggeriranno il portafoglio? Daaai, che è facile.

Un ultimo dettaglio, che forse non c'entra nulla:
Il giorno dopo aver votato per salvare Alitalia, Brembani si fermerà a fare il pieno alla stazione dove lavora Ahmad.
Quest'ultimo, un po' emozionato dall'idea di dover servire un pilota Maserati, si sbaglierà a dare il resto.
Quando Brembani, mica nato ieri, glielo farà notare, Ahmad si correggerà immediatamente, ripetendo più volte l'espressione “mi-dispiace-signore”. Brembani replicherà con un sobrio Tornatene a ca' tua, negher di merda, e poi via, verso Lugano Bella.
Che forza, il Nord. Come si fa a nascere altrove?
Bisogna essere dei gran pirla.
Comments (28)

Permalink
Noi vagamente intuiamo che la nostra vita potrebbe cambiare ogni giorno, compreso domani, 10 gennaio ’03.
Ma per ora è molto più plausibile che si tratterà di un giorno come un altro. I giornali parleranno di Cofferati che replica a Fassino, e in tv Fassino ri-replicherà a Cofferati. Qualcuno, in mancanza di migliori argomenti, proporrà una riforma costituzionale a caso. Magari Berlusconi racconterà una barzelletta, di cui ci ricorderemo per mesi. Ci sarà qualche morto in Cisgiordania e qualche altra calamità nel resto del mondo. E la vita continuerà, senza pretese.
O forse no.

Per noi cittadini europei il 10 gennaio ’03 è il termine ultimo per dare il proprio parere sulla privatizzazione indiscriminata dei servizi pubblici. Lo sapevate? No, scommetto di no.

Magari qualche giorno fa avete sentito dire che è stato liberalizzato il riscaldamento, e non aveva l’aria della notizia che vi cambia la vita. D’ora in poi le società del gas sono libere di farsi la concorrenza per scaldarvi la casa. Caleranno le tariffe? Forse (quanto avete risparmiato in bolletta da quando hanno privatizzato la Telecom?).
E forse taglieranno i costi, licenzieranno qualche tecnico per assumere precari, smetteranno di servire quel paesino di montagna perché è uno spreco, e gli sprechi si tagliano: è l’economia.
O forse no. Non è che tutte le privatizzazioni debbano finire per forza come le ferrovie britanniche, ma è giusto chiedersi: chi ha deciso di liberalizzarci il gas? Siamo stati noi italiani? I nostri rappresentanti in Parlamento? Ma ce ne avevano parlato?

No. Non tanto. I nostri politici sanno quello che c’interessa: in primo luogo, i dibattiti sulle riforme, i premierati e i presidenzialismi. Poi le grandi opere: la quarta corsia dell’Autosole, per non sollevare l’accelleratore da casello a casello. Il ponte sullo Stretto. E così via. Il gas… non è un argomento che appassiona gli italiani. Del resto per il gas (e la luce, e tante altre cose), il parlamento si attiene alle direttive della Commissione Europea.
La Commissione Europea, dal canto suo, si attiene alle indicazioni del WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Quanto al WTO, non è ben chiaro a chi si attenga. È un’istituzione internazionale di dubbia democraticità, nata nel 1994, che non ha mai fatto mistero di voler liberalizzare il mercato dei servizi. Per “Servizi” intendiamo Luce, acqua, istruzione, sanità, trasporti, e altri 160 settori economici che insieme valgono un terzo del commercio mondiale, più di un migliaio di miliardi di fatturato.
Un bel bocconcino, da immettere nel Mercato Globale, proprio adesso che langue. A chi giova? A noi cittadini-utenti? Forse, chissà. Ma sicuramente gioverà alle multinazionali (64 tra le prime 100 multinazionali nel mondo si occupano di servizi).

Finora la liberalizzazione globale dei servizi non c’è stata, per una serie d’impedimenti, tra i quali il malcontento popolare. Forse vi ricordate solo le vetrine rotte, ma a Seattle si protestava proprio contro i disegni del WTO.
Sono passati quattro anni, ormai, dal naufragio del famigerato Accordo Multilaterale degli Investimenti (MAI). I vertici WTO non si svolgono più in città affollate, i delegati preferiscono posticini appartati, come Doha (Qatar).
È in questi rifugi fortificati, al riparo dai teppisti e dei giornalisti (che senza teppisti non si scomodano) che dalle ceneri del MAI è nato il GATS.

In italiano GATS si direbbe Agcs: accordo generale sul commercio dei servizi. È una trattativa complessa, che parte nel 2000 e dovrebbe terminare nel 2004. Ogni membro del WTO ha la possibilità di chiedere qualcosa, ma alla fine dovrà concedere qualcos’altro. Al grande round l’Italia non partecipa da sola, ma fa squadra con l’Unione Europea.
Bene. E cosa chiede l’Unione Europea agli altri Paesi? Qualcuno lo sa? E chi l'ha deciso?
Ma soprattutto: cosa ha intenzione di concedere?

Credo che in quanto cittadino europeo dovrei essere al corrente di queste cose. Di più: dovrei aver partecipato alla decisione, perché l’Europa è una democrazia. È stato così? Qualcuno ha chiesto il mio parere?
La risposta è sì: qualcuno ha richiesto il mio parere.
Dal novembre scorso la Commissione Europea ha sottoposto al “pubblico” un cospicuo documento intitolato RICHIESTE DEI MEMBRI DELL'Organizzazione Mondiale del Commercio alla Commissione Europea E AI SUOI STATI MEMBRI RELATIVE AD UN MIGLIORE ACCESSO AL MERCATO PER I SERVIZI. Dove? Ma che domande, su internet! Di modo che tutti possano accedere più facilmente.
In cima Pasqual Lamy, Commissario al Commercio, si presenta:

Da quando sono entrato in carica, nel 1999, ho sempre cercato di operare all'insegna della trasparenza e di mantenere un dialogo permanente con tutte le parti interessate su tutte le questioni, più o meno fondate, sollevate dalla liberalizzazione del commercio […] Vi invito pertanto ad esaminare attentamente il presente documento e a comunicarci i Vostri commenti in proposito entro il 10 gennaio 2003.
Ma a chi sta parlando, Lamy? Chi sono le “parti interessate”? I cittadini d’Europa, i loro rappresentanti politici, la società civile, le ONG? Lamy non s’indirizza a nessuno. Curioso lapsus. (Nella versione inglese, le “parti interessate” sono gli stakeholders, “soci azionisti”).

Beh, in ogni caso non abbiamo scuse. Avevamo due mesi di tempo per leggere le 58 pagine di richieste e comunicare le nostre valutazioni a Lamy. Perché non le abbiamo notate? Forse perché i giornali parlavano di presidenzialismo e di Byron Moreno?

Chi ha avuto il tempo, ha notato qualche lacuna. Una macroscopica: mancano le richieste formulate dall’UE agli altri Paesi: sono 109. Non abbiamo il diritto di sapere quello che vogliamo, oltre a quello a cui dobbiamo rinunciare?

Il GATS è una cosa seria. Rivoluzionerà il rapporto tra pubblico e privato. Il modello è il mercato comune di Canada, USA e Messico, dove le imprese private possono citare in giudizio i governi che si attentino a privilegiare il loro servizio pubblico rispetto a un concorrente privato. Statisticamente, la giustizia dà torto al governo. Recentemente L’UPS ha denunciato le Poste Canadesi (teste Ralph Nader).

Ora vi chiedo una cortesia. Parliamoci chiaro: io non l’ho letto, il dossier di Lamy. Forse non ne sarei in grado nemmeno avendo il tempo. Ma ho la sensazione che quel tempo non ci sia stato concesso, e trovo che questo sia molto grave. Anche se fossi un fan sfegatato delle liberalizzazioni.
Per questo scriverò una mail a Lamy, manifestando il mio disappunto, e vi chiedo di fare lo stesso. Qui trovate un testo già pronto.

Poi potremo tornare alla nostra vita quotidiana, a Fassino che si lamenta perché tutti gli remano contro (nel frattempo due esponenti del suo partito fanno passare un emendamento che obbliga i Comuni a privatizzare gli acquedotti).
Torneremo a parlare di quanto sarebbe bello avere un presidente eletto dal popolo invece che dal parlamento -- come se cambiasse qualcosa, quando l'agenda dei nostri politici la compila il WTO.

E così il 10 gennaio passerà, come passano tanti altri giorni, senza cambiarci la vita.O forse sì. Non lo sapremo mai -- ma togliamoci il pensiero.
Comments (1)

Permalink
Freude schöner Gotterfunken, Tochter als Elysium
Wir betreten feuertrunken


Licenza sperimentale
Un saluto alla Pizia e ai suoi convitati: mi sarebbe veramente piaciuto esserci, ma non sto ancora molto bene. Mi è dispiaciuto molto. Anche perché è tempo di sfatare alcune storie sul fatto che non esisto, che sono un'intelligenza artificiale, ecc.… Non solo esisto, ma sono anche uno sfigato qualunque, tranquillizzatevi. Nei primi tempi avevo anche una foto: l'ho tolta quando le cose sono iniziate a farsi un po' più serie (ma soprattutto perché ero stanco di ricevere mail da lettrici assatanate).

Ora, proprio quando ormai avevo rinunciato a mettere i fatti miei su questo sito, un pezzo di Madame Defarge mi costringe a tornare sull'argomento, per precisare un paio di cose. Madame è sempre molto cara, sed magis amica est veritas. E quindi: non è vero che io sono uscito con 60/60 alla maturità. Il voto esatto non me lo ricordo, ricordo che cinque miei compagni lo presero, ma io no, e che me ne sarebbe anche interessato poco, se non che in un'altra classe lo prese anche la mia ragazza di quel tempo, maledetta secchiona.
Ma la cosa veramente importante, l'unica che tengo a sottolineare, è che quella scuola non è, non fu mai un liceo classico. Noi, quei fighetti dei liceali classici, ce li mangiavamo nell'intervallo tra la terza e la quarta ora. E per vari motivi, tutti buoni:

I liceali classici (quegli sfaticati), fanno 25-28 ore alla settimana: noi ne facevamo dieci di più.

I liceali classici (quegli ignoranti), dopo aver inutilmente cercato di imparare un po' di lingua straniera nel biennio, rinunciano, e si rassegnano a diventare quella classe dirigente cialtrona e incapace di comunicare con le altre classi dirigenti che conosciamo bene. Noi abbiamo studiato, per tre anni, tre lingue straniere, per quindici ore alla settimana. Tanto che, se non avessi avuto i miei cali di pressione tra la quinta e la sesta ora, io a quest'ora potrei anche leggere Goethe in lingua originale, alcuni miei compagni lo fanno. Io mi limito a canticchiare l'Inno alla Gioia in lingua originale, in certe occasioni. È il mio inno. Sarà l'inno dei vostri figli. Voialtri arrangiatevi con Mameli.

I liceali classici (quegli idioti) sono fortunati se quando escono dal loro liceo idiota sanno contare fino a cento, senza servirsi delle dita delle mani e dei piedi. Noi (complice anche un prof convinto di trovarsi in uno scientifico) uscimmo con nozioni ben assestate di calcolo integrale. E io so di aver sostenuto un'interrogazione alla lavagna sulla teoria della relatività. Non mi ricordo più nulla, ma so che per un momento della mia vita (lo stesso momento in cui studiavo Schiller a memoria, scrivevo tesine su Gozzano e recitavo Beckett) ho svolto un'equazione alla lavagna fino ad arrivare alla formula E=(mc)2, e ne sarò fiero fin che campo. Il nostro prof invece no, ce l'aveva con noi perché eravamo testoni e non aveva fatto in tempo a spiegarci i quanti.

Del resto la mia (notevole) cultura si definisce così: la differenza tra quello che ho imparato lì e quello che ho disimparato successivamente all'università.
Se mai posso perciò fregiarmi di qualcosa nella vita, insomma, e di avere studiato al L. A. Muratori sperimentale di Modena a cavallo tra Ottanta e i Novanta, in una classe di ignorantoni provinciali che al momento buono stracciò tutti i record e portò a casa cinque sessanta – tra i quali io non c'ero. Del resto tra quelli che portarono a casa il voto più basso ce n'è uno che adesso lavora per Rai3. Ha anche intervistato Borrelli, una sera. Un altro è stato per un po' al marketing della nota ditta di scarpe globalizzate. Poi chi altro c'è… una promessa della lusofonia… e tanta altra gente che al momento buono spunterà.
Sì, sono orgoglioso della mia Licenza Sperimentale – che è anche una licenza di guardare le vostre maturità classiche dall'alto in basso, stupidi ignoranti polli di batteria che non siete altro. Avete incontrato molti latini nella vostra vita adulta? Li avete intrattenuti con qualche sapido epigramma in esametri? Bravi. Ora scusate, vado a guardarmi un po' di tv francese, perché l'italiana non la reggo.

Ma se insisto sul LAM sperimentale non è per nostalgia, è per un motivo più serio. Quella scuola, decisamente sopra gli standard era ed è pubblica. Non era il solito parcheggio per figli di avvocati a base di Cesare e Cicerone. Non era un votificio. Era la scuola migliore di Modena e potevano andarci tutti (il problema magari era restarci). Mi sono sempre chiesto se Letizia Moratti, la piccola giovane broker, sarebbe sopravvissuta a un'interrogazione sul calcolo integrale. O su Schiller. Non lo sapremo mai. Di sicuro nella nostra classe se non si lasciava fotocopiare le versioni di latino non se la sarebbe filata nessuno. Avrebbe imparato a calare un po' le arie, la Letizia. E sarebbe stata magari una Ministra migliore.
Ma è troppo tardi. Dopo una certa età le cellule del cervello non si rinnovano più. (le cellule dei cervelli, intendo, che hanno subito 5 anni di Classico…)
Comments