La blatta

Permalink

Dicono che l'intestino sia un po' il nuovo cervello e devo ammettere che a volte è proprio quando mi viene in mente di scrivere qualcosa, nel cuore della notte, che l'intestino mi avverte di avere altri progetti, più urgenti. Così invece di mettere giù qualche pensierino fondamentale sulla questione ucraina eccomi in bagno: ho appena acceso la luce, mi sono appena seduto, quando la mia visione periferica mi manda un allarme, ha intercettato una macchia in movimento, qualcosa di nero si muove nel bianco delle piastrelle – ah, è un coleottero. Non proprio uno scarafaggio, no, diciamo una blatta, ma in confidenza, c'è qualcosa di più orrendo di un enorme insetto marrone scuro che spunta all'improvviso dall'ombra sotto al tuo gabinetto? Una presenza aliena in casa tua, nello spazio più intimo e segreto – lì dove ogni uomo siede indifeso – ma da dove arrivano? capissi finalmente da dove arrivano. È la prima della stagione – c'è chi dice che salgono dagli scarichi ma credo sia una superstizione, dovrebbero essere impermeabili per passare. E però la razionalità è una patina sottile, per il mio intestino ad esempio quello è un orribile mostro che sorge dalla fogna per portarmi l'orrore in casa. 

Si è immobilizzato contro il battiscopa, è una cosa che fanno. Non so quanto ci vedano, ma di sicuro percepiscono la luce e benché non abbiano un volto, nulla di ciò a cui di solito noi umani ci affidiamo per cercare di decifrare le emozioni delle altre creature viventi, ho sempre trovato qualcosa di molto espressivo nel modo in cui all'improvviso si immobilizzano: è come se dicessimo, ops, tu non mi hai visto vero? Diciamo che non mi hai visto. Non sono qui in effetti, se anche credevi di avermi visto ti sei sbagliato, sono una macchia qualsiasi. Non hai nessun interesse a schiacciarmi. Lo sai quanto schifo faccio, se mi schiacci, sì?


E un'altra idea che mi sono messo in testa è che la forma che hanno preso da millenni a questa parte serva principalmente a questo, perché in nessun modo quella specie di corazza bombata che hanno li risparmia dallo schiacciamento: anzi li rende più appariscenti e schifosi ma forse hanno deciso di investire proprio in questo, ogni specie si specializza in qualcosa e loro si sono perfezionati nell'arte di fare più schifo possibile quando li schiacci. Le cimici, bisogna ammetterlo hanno avuto un'idea migliore: se schiacciate puzzano. Le blatte fanno semplicemente schifo. Un po' funziona: io per esempio odio calpestarle, e inoltre sono venuto a sedermi qui per un altro motivo. 

E però finché quella macchia continuerà a fissarmi il mio intestino non riuscirà a riflettere come dovrebbe. Non c'è solo lo schifo, l'alieno è lì in un angolo e mi guarda, il mio schifo è sopportabile, la sua paura un po' meno. Quella blatta è davanti al suo destino – quanto mi costa accelerarlo? Strapperò un cospicuo lembo di carta igienica e glielo poserò sopra: non vedrò la sua corazza flettersi e sprizzare fuori la polpa schifosa. 

Non faccio in tempo a pensarlo che la blatta è partita, è come se ci capissimo al volo. Cammina rasente al battiscopa con quelle sei zampine orribili, non ci può essere solidarietà tra mammiferi e mostri invertebrati a sei zampe, siamo venuti al mondo per farci la guerra. A una zampina posteriore rimane intrappolato un batuffolo di polvere. Dove credi di scappare mostro delle fogne?, ecco, ora ti cancello col bianco della carta. Non è vero, la intravedo ancora, e noto che appena ha sentito la carta addosso si è calmata, forse crede di avere trovato un rifugio quando ormai disperava, ed è bello che questo sia il suo ultimo pensiero: un po' di speranza, di sollievo, e poi più niente, non avrà il tempo per accorgersi che è morta: imprimo sulla carta igienica un rapido colpo di ciabatta. 

Forse troppo rapido, perché voglio la blatta morta ma nemmeno una piccola striscia sul pavimento. Dovrei esserci riuscito ma non controllerò. L'intestino reclama le sue ragioni, ora può liberarsi senza più sentirsi osservato e temuto. Nessun senso di colpa: tra uomini e blatte nessuna pace è possibile, nessun negoziato è in corso. La nostra vita è la loro morte. Non ho fatto che difendere la mia proprietà e la mia famiglia. È tempo di azionare lo sciacquone, ma prima devo raccogliere il cadavere: ho infatti intenzione di liberarmene con lo stesso strumento. 

È ancora viva. 

La parte posteriore ha preso una botta mortale, ma tre zampine funzionano ancora e trascinano la carcassa il più lontano possibile da me. Ora succede questa cosa orribile, per cui un insetto senza volto, dalla forma repellente, che finché passeggiava sano sulle mie piastrelle mi risultava un alieno, adesso che si trascina moribondo mi appare così familiare. C'è qualcosa di universale nel modo in cui si comporta, qualcosa che mi sembra di aver visto in centinaia di film: un ferito senza speranza che continua a strisciare, sa di non avere scampo ma non ce la fa a morire fermo. Nella sua condizione la morte dovrebbe essere un sollievo ma gli esseri viventi sono fatti così, siamo tutti fatti così, fratello, ne abbiamo orrore, è l'istinto che ci tiene in vita e che ci allena alle sofferenze più indicibili che io senza goderne ti ho inflitto, e ora devo ucciderti, scusami, io non volevo – cioè, certo che volevo ucciderti, ma nel modo più pulito e indolore possibile, la tua sofferenza io non l'ho cercata, puoi credermi? Non potevo lasciarti andare via ma non volevo che tu patissi e guarda che casino ho fatto, e tu non puoi nemmeno perdonarmi. E con che faccia chiederò io al mio carnefice, quando sarà il momento, un po' di pietà e di pulizia, un velo bianco sugli occhi, un colpo secco spietato e pietoso.

Comments (10)

Filosofi e altri roditori, 1

Permalink


Non che sia molto importante, non che possa cambiare più di tanto il senso del discorso, però nel suo ultimo comunicato Giorgio Agamben ha commesso un curioso lapsus: ci ha paragonato ai lemming (lui veramente scrive lemmings). Siccome siamo in tanti a leggere ormai (non siamo mai stati così tanti, e provenienti da milieu culturali tanto diversi) è stato tanto generoso da includere la definizione. "I lemmings (scrive) sono dei piccoli roditori, lunghi circa 15 centimetri, che vivono nelle tundre dell’Europa e dell’Asia settentrionali. Questa specie ha la particolarità di intraprendere improvvisamente senza alcun motivo apparente delle migrazioni collettive che terminano con un suicidio in massa nelle acque del mare". Agamben aggiunge che "l’enigma che questo comportamento ha posto agli zoologi è così singolare che essi, dopo aver tentato di fornire spiegazioni che si sono rivelate insufficienti, hanno preferito rimuoverlo".

Lemming, votati all'autosterminio, forse guidati da una pulsione di morte; zoologi che si pongono un enigma e poi lo rimuovono. Materiale potente per chi ha bisogno di metafore. C'è il piccolo problema, ecco, veramente piccolo, mi vergogno quasi di farlo notare, che è quasi tutto falso: i lemming non intraprendono "improvvisamente senza alcun motivo apparente delle migrazioni collettive che terminano con un suicidio di massa". Si tratta di una leggenda urbana così vecchia e così confutata che quando l'ho letta mi sono sentito in pena. E poi mi sono chiesto: ma come fa Agamben, persona di straordinaria cultura, a credere a una cosa del genere? 

Domanda mal posta; al massimo avrei dovuto chiedermi: come faccio io, persona dalla cultura molto meno straordinaria, a sapere che è una leggenda urbana? Di sicuro non sono in grado di confutarla di persona, di certo non sono andato nelle tundre a controllare: quindi da cosa deriva tutta questa mia sicumera? Bella domanda, in effetti non ne ho idea, non ricordo. So solo che da trent'anni ogni volta che sento parlare di lemming che si suicidano (non spesso), subito sento soggiungere che non è proprio così, che è una vecchia credenza che nasce da un comportamento dei lemming solo apparentemente irrazionale: essendo mammiferi infestanti, in un habitat poco generoso di risorse, ogni tanto si risolvono a migrare all'improvviso, attraversando luoghi che non conoscono, gettandosi in crepacci che non vedono e cercando di attraversare corsi d'acqua di cui fraintendono la larghezza. Non lo fanno per ammazzarsi, ma per sopravvivere: arte in cui magari non eccellono (ma chi siamo noi per giudicare?) Se per un pezzo abbiamo creduto il contrario è soprattutto grazie a un documentario tv della Disney - uno di quelli pioneristici che per ottenere scene apparentemente realistiche si prendeva molte licenze. La puntata dei lemming in questo senso fu proverbiale: gli esemplari di lemming furono letteralmente spinti nei crepacci per fornire ai telespettatori e a noi ancora più di mezzo secolo dopo una metafora tanto seducente quanto artefatta. Potenza dello Zeitgeist, quando in piena Guerra Fredda l'idea che una specie animale corresse volontariamente all'autosterminio doveva risultare irresistibile alle fantasie di chi viveva in attesa di un terzo e definitivo conflitto mondiale. 

E tuttavia i lemming veri non corrono al suicidio, c'è scritto persino in una delle più fondamentali pagine di Wikipedia (List of common misconceptions): e rieccoci alla contrapposizione già descritta con una brutale allegoria nel pezzo precedente: da una parte un miliardo di primati non molto intelligenti ma cocciuti che si costruisce un sapere collettivo che fa acqua da tutte le parti, ma un po' di conoscenza la trattiene (Wikipedia è forse il caso più esemplare); dall'altra il savio filosofo, discendente da tutta una schiatta di savi filosofi che ha una cultura settoriale imbattibile ma poi ci scivola su una delle most common misconceptions. 

A parte questo la cosa non avrebbe molta importanza: Agamben ha preso una cantonata su una curiosità zoologica, ma non è questo il lapsus di cui volevo parlare all'inizio. Non è nemmeno una gran cantonata, in fondo; senz'altro la mancata propensione suicidiaria dei lemming non inficia la riflessione di Agamben: i lemming non gli fornivano una prova e nemmeno un indizio, bensì... già, cosa? Nella retorica antica e medievale si chiamavano exempla, servivano a vivacizzare il discorso (non a puntellarlo su dati reali), e non infrequentemente si basavano sul mondo animale, perché chi ascolta la predica è sempre un bambino dentro: i paroloni dopo un po' lo addormentano, gli animali invece gli danno una sveglia e gli fanno correre la fantasia. Agamben usa i lemming come i predicatori medievali usavano gli unicorni, probabilmente già sospettando che i leggendari equini non fossero così fessi da farsi catturare nel momento in cui posavano il capo sul grembo di una vergine: sono favolette, exempla, non dati naturali, ma luoghi comuni letterari. Del resto lo scrive pure Agamben, che i lemming di cui sta parlando sono quelli descritti da uno scrittore e non uno qualsiasi: Primo Levi, che ai roditori dedicò un breve racconto del 1971, Verso Occidente. 

Il racconto di Levi è un esperimento mentale, tipico esempio di quell'hard science fiction che in Italia purtroppo ebbe pochi esponenti, e nessuno probabilmente del suo livello: immaginiamo che esista una specie vivente che vuole morire. Da cosa potrebbe dipendere una simile pulsione? Chimico di formazione, Levi ipotizza che al sangue dei roditori manchi un composto organico (un alcol), e immagina che la stessa carenza alcolica sia condivisa da un popolo amazzonico in via di estinzione. Questo popolo non solo prevede una forma molto codificata di suicidio tribale, ma si distingue per un'altra fondamentale caratteristica: non ha sviluppato credenze religiose. Da qui forse si capisce meglio cosa abbia solleticato la fantasia di Agamben: la specie suicida e soprattutto il popolo amazzonico sembrano evocare l'idea che tanto gli sta a cuore della "nuda vita":

Gli esseri umani non possono vivere se non si danno per la loro vita delle ragioni e delle giustificazioni, che in ogni tempo hanno preso la forma di religioni, di miti, di fedi politiche, di filosofie e di ideali di ogni specie. Queste giustificazioni sembrano oggi – almeno nella parte dell’umanità più ricca e tecnologizzata – cadute e gli uomini si trovano forse per la prima volta ridotti alla loro pura sopravvivenza biologica, che, a quanto pare, si rivelano incapaci di accettare. Solo questo può spiegare perché, invece di assumere il semplice, amabile fatto di vivere gli uni accanto agli altri, si sia sentito il bisogno di istaurare [sic] un implacabile terrore sanitario, in cui la vita senza più giustificazioni ideali è minacciata e punita a ogni istante da malattie e morte.

Qui c'è in nuce tutto il pensiero di Agamben sull'epidemia. Pensiero come si vede basato su un'ipotesi apocalittica: la "parte dell'umanità più ricca e tecnologizzata" avrebbe perso qualcosa che tutto il resto dell'umanità ha sempre avuto. Questo qualcosa non è l'alcol immaginato da Levi, ma è comunque alla base di tutto ciò che ispira "religioni, miti, fedi politiche, filosofie e ideali". Tutto questo non c'è più e quindi non abbiamo più voglia di vivere. 

Una cosa interessante di questo pensiero è come contraddica praticamente tutto quello che possiamo vedere intorno a noi, su internet ma anche solo alla finestra; religioni, miti, fedi politiche, ve n'è ovunque e benché sia vero che sembrano sempre declinare, di solito è per lasciare lo spazio a nuove religioni, miti, fedi politiche: insomma una grande vivacità che si può anche definire come "crisi", ma con cautela perché lo storico lo sa, che se una civiltà in media dura 500 anni, di solito si comincia a parlare di crisi già verso il cinquantesimo. Per Agamben invece tutto sta finendo: ci stiamo riducendo a una pura sopravvivenza biologica che però non accettiamo - e anche qui, basta dare un'occhiata fuori per restare perplessi: lo stesso modo in cui abbiamo affrontato la pandemia ci potrebbe mostrare quanto siamo tutti attaccati alla vita. Chi ha sperato sin dall'inizio in tutte le misure adottate, dal distanziamento ai vaccini, lo ha fatto perché voleva vivere: ma anche chi ha osteggiato sin dall'inizio lockdown, e vaccini, anche chi ha completamente negato l'emergenza, lo ha fatto in nome della sua esigenza di vivere una vita più piena possibile. Perlomeno è questa la sensazione complessiva che nel mio piccolo mi sembra di poter trarre da questi venti mesi in cui tutti intorno a me mi sono sembrati molto attaccati a qualsiasi vita gli capitasse di vivere: alcuni sacrificando la propria libertà e barricandosi in casa, altri viceversa mettendo a repentaglio la sicurezza altrui in nome del proprio benessere. Di fronte a un quadro del genere, se proprio volessi cercare un significato unitario, io vi leggerei un collettiva, commovente ostinazione a vivere malgrado tutto; il filosofo il contrario: non ne abbiamo più voglia, al punto che l'unico sistema è terrorizzarci con malattie che evidentemente sono più politiche che reali. 

Buffo, anche se avessimo davanti un'orda di lemming, vedremmo esattamente l'opposto: lui una colonna di roditori diretta verso lo sterminio, io una massa di animaletti che in una situazione che non conosce cerca di destreggiarsi come può, combina ovvi disastri che scarica sugli individui, ed errore dopo errore traccia la sua strada verso una salvezza non predestinata, ma nemmeno impossibile... (continua)

Comments (6)

Muccioli, il nostro Tiger King

Permalink

Evidentemente non sono l'unico che in una sera di queste vacanze si è lasciato sfuggire una mezza proposta: cominciamo a vedere SanPa? e – stacco – cinque ore dopo era ancora lì sul divano con la scimmia addosso. SanPa è per prima cosa un meccanismo che funziona, facendo quello che l'onesta narrativa deve fare: scovare un dilemma etico, illustrarlo con tutti gli effetti e gli affetti disponibili, e lasciare che siano gli spettatori a sbrogliarlo, ognuno per sé. Che è quello che sta succedendo in questi giorni: ognuno ha sentito forte e chiara la domanda (quanta violenza possiamo tollerare da chi ci sta salvando?), ognuno si è sentito pungolato e ha una risposta da condividere. Onore agli autori: avrebbero potuto limitarsi a confezionare un racconto a tesi e invece sono stati capaci di quello scatto in più, che è poi quello che ha reso SanPa un'opera interessante anche per chi come me dalle narrazioni su San Patrignano si era sempre tenuto a prudenziale distanza. 

In effetti una parte non trascurabile delle cinque ore l'ho trascorsa a domandarmi dov'ero negli anni in cui Vincenzo Muccioli compariva onnipresente in tv, e il dibattito sulle sostanze era un dibattito su San Patrignano. Quante volte devo aver cambiato canale per riuscire a non vederlo quasi mai, quanta attenzione devo avere messo a scansarlo? Non vivevo nella stessa regione, non avevo attraversato (a testa bassa e in linea retta) le stesse piazze devastate dall'eroina? Da qui il sospetto che il successo di Muccioli sia stato anche il risultato di tante affannate rimozioni come la mia: un po' prima che i film di Romero diventassero mainstream, noi i zombie in strada li avevamo visti e in alcuni di loro avevamo riconosciuto fisionomie di amici e parenti. Per non vedere più quelle scene, per il privilegio di distogliere lo sguardo avremmo fatto carte false a chiunque, ed è letteralmente così: Muccioli era un signor chiunque, un figlio di albergatori romagnoli con un podere che aveva riconvertito ad allevamento di cani. Tra tanti dettagli che non conoscevo, è stato per me quello illuminante: San Patrignano è fungata senza che nessuno la immaginasse (compreso il suo fondatore, che da un certo momento in poi appare in balia degli eventi, ma probabilmente lo era da sempre). È il frutto spontaneo di quel fenomeno enorme e rimosso che fu l'invasione dell'eroina: le piazze d'Italia si riempirono all'improvviso di scoppiati, e gli scoppiati, chi li conosce lo sa, se dopo un po' si mettono in cerca di un cane. 

Cosa cerchi nel cane l'eroinomane non è chiaro, non so se esistano studi; forse un'ancora di salvezza – un cane ti impone un minimo di disciplina – di certo un po' di protezione, di affetto da una bestia ben disposta a barattarlo per una scodella, e forse un segreto senso di affinità: il cane ha bisogno dell'uomo come l'uomo ha bisogno dell'ero. Magari esagero i miei ricordi di universitario in Piazza Verdi, dove gli scoppiati hanno mantenuto un presidio (ormai un parco a tema storico); eppure, di tutti i posti in cui avrebbe potuto nascere, la comunità di recupero dall'eroina più grande d'Europa spuntò proprio nel possedimento di un allevatore di cani. Senza nessuna competenza specifica (anzi qualche opinione scientificamente già discutibile nel 1978), senza competenze terapeutiche e ovviamente senza metadone, Muccioli in un primo momento probabilmente si avvalse di un repertorio da imbonitore di provincia: lo spiritismo, le stimmate, l'agopuntura. E già questo bastò a conquistare almeno un paio di esponenti del ceto imprenditoriale milanese: per dire che l'incultura che ha portato una parte non trascurabile del sistema Paese a dare credito a fantasiosi ignoranti come Bossi e Grillo non è accidentale, e non ha radici soltanto proletarie, anzi.

Ma ciò che aveva ipnotizzato un paio di Moratti non sarebbe bastato a tener buoni centinaia di tossicodipendenti: se Mucciolì ci riuscì non fu col raggio cristico o imponendo mani sanguinanti. L'incantesimo che funzionò probabilmente era più semplice e profondo: Muccioli li guardava negli occhi, li abbracciava, li accarezzava, li amava, e quando facevano i capricci li metteva alla catena. In sostanza Muccioli non aveva mai smesso di allevare dei cani – tant'è che quando cominciarono ad arrivare i soldi veri, piuttosto che in terapeuti competenti preferì investirli in bovini e cavalli. Dal suo punto di vista era tutto logico e conseguente: le bestie amano stare in compagnia. Peccato che fosse il punto di vista di un allevatore e non di un terapeuta, ma appunto, peccato per chi? C'è molta gente tuttora pronta a giurare che il metodo Muccioli funzionasse meglio di qualsiasi altro, in questi giorni li avrete sentiti scodinzolare. Il più grottesco è ancora una volta Red Ronnie, che senza che nessuno glielo chiedesse lo ha messo in chiaro: io sono un animale, non chiedetemi una spiegazione razionale. La grandezza di Muccioli non si può spiegare a parole, è qualcosa che si fiuta, o magari una di quelle note a bassissima frequenza. 


Quel che Muccioli aveva capito delle dipendenze era in effetti abbastanza difficile da verbalizzare: forse che a chi si appende una scimmia al collo è inutile liberare il collo, andrà a cercarsi un'altra scimmia: che i tossicodipendenti sono tossici, ma soprattutto dipendenti. Se gli togli l'eroina devi proporre alla svelta un altro collare, una comunità, uno scopo: Muccioli questa cosa era convinto di poterla fornire, e molti non aspettavano che di lasciarsi convincere. I cani poi si sa che sotto millenni di istinto servile covano ancora una mentalità di branco: poche cose sanno fare bene come tenere in ordine un gregge. Per Muccioli era normale pensare di poter delegare ai vecchi ex tossici la gestione dei nuovi: questo poi implicava una crescita quasi esponenziale della struttura, il che del resto avrebbe dimostrano nient'altro che il successo dell'impresa; certo, servivano agganci a livello anche politico, il che trasformò rapidamente Muccioli da allevatore a lobbista, mentre la comunità continuava a crescere rapida e spontanea, grazie alla sollecitudine di tanti amici dell'uomo ansiosi di far bene e meritare l'affetto del padrone. Ogni tanto succedeva un guaio: tutto sommato pochi, per un branco ormai autogestito.

Così SanPa alla fine mi ha ricordato l'altra docufiction che si impose durante il primo lockdown, Tiger King: in fondo si tratta sempre di allevatori un po' mitomani attirati in un circuito che li acclama ma in realtà pretende da loro il lavoro sporco: se i turisti vogliono foto coi tigrotti, chi si preoccuperà di gestirli quando crescono e farli scomparire quando diventano troppi? E noi che volevamo vivere le nostre piazze come turisti, negli anni di Muccioli, alla fine cosa pretendevamo da lui: che prendesse centinaia di zombie e li guarisse con la bacchetta magica? Non l'aveva e lo sapevamo. Ci contentavamo che ce li tenesse lontani, con recinti e catene se necessario. Che abbia tolto la scimmia a centinaia di ragazzi è innegabile: che fosse l'unico, o il più bravo, discutibile: ma sarebbe disonesto pretendere da lui una consapevolezza che non poteva avere. Lui voleva allevare animali, la società gli aveva mandato i tossici, lui si era arrangiato. C'era chi negli stessi anni finanziava la ricerca sulle dipendenze, chi mandava avanti i Sert, chi tentava strade alternative non necessariamente più efficaci, ma meno violente: i Moratti preferirono finanziare un allevatore. Rai e Mediaset elessero un allevatore a esperto dell'argomento. I politici si fecero dettare la legge sulle tossicodipendenze da un allevatore. È andata così, e ce lo stavamo dimenticando. SanPa ce l'ha fatto ricordare: meno male.

Comments (8)

In realtà Otto sta in giardino

Permalink
Nessun cucciolo reale o immaginario è stato molestato in questo problema di geometria.



Comments (3)

Il santo a quattro zampe

Permalink
26 agosto - San Guinefort, cane, vittima del suo padrone (XIII secolo).

guinefort cartolina[2013] "Oggi è san bastardino", diceva l'anno scorso Luca Laurenti in uno spot contro l'abbandono dei cani in autostrada. È un gioco di parole abbastanza insulso; eppure per una bizzarra coincidenza il cosiddetto "esodo estivo" coincide più o meno con la Canicola latina, grosso modo il periodo tra il 24 luglio e il 26 agosto in cui Sirio, la stella più brillante del Cane Maggiore (e del firmamento) sorge nel cielo boreale appena prima dell'alba. L'associazione tra Sirio e il migliore amico dell'uomo è antichissima, o perlomeno si è diffusa in popoli e culture assai distanti: pellerossa nordamericani, cinesi, inuit. Anche per i latini "Canicula", cucciolotto, era un sinonimo di Sirio. In seguito divenne sinonimo di afa, siccità, vacanze al mare, abbandono degli animali domestici. Il cane è probabilmente il primo animale che abbiamo addomesticato, più o meno trentamila anni fa, dopo che per qualche tempo branchi di canidi avevano cominciato a vivere nei pressi degli insediamenti umani, offrendo un servizio di allarme contro le incursioni dei grossi predatori in cambio di qualche buon osso da rosicchiare: e magari davano una mano anche a scacciare topi e bisce. Nella grotta di Chauvet, dipartimento dell'Ardèche, Francia meridionale, ci sono tracce di un cane e di un bambino che camminano assieme 28.000 anni fa. Così è abbastanza appropriato che l'unico animale a essere stato venerato (abusivamente) come santo sia un cane: San Guinefort, un levriero vissuto plausibilmente nel XIII secolo a Villars-les-Dombes. Siamo ancora nella valle del Rodano, a non troppi chilometri dalla grotta di Chauvet; e anche stavolta accanto al cane c'è un bambino.

GuinefortLa storia, anzi leggenda, c'è stata tramandata da Stefano di Borbone, l'inquisitore domenicano che decise di stroncarne il culto. Un giorno il castellano tornando a casa non trova il figliolino nella culla, ma tracce di sangue dappertutto e soprattutto addosso al cane. Folle d'ira, lo trafigge con la spada: il levriero non offre resistenza al suo padrone, ma proprio mentre esala l'ultimo guaito il castellano ode il pianto flebile del neonato: è sotto il letto, illeso! E in mano ha... che schifo... una vipera morsicata. Dunque è andata così: una vipera voleva mordere il bambino, il prode levriero Guinefort aveva ingaggiato contro di lui una lotta sanguinosa, vincendola: ma poi era arrivato il padrone e non aveva capito niente, povero Guinefort. Il castellano lo seppellì con tutti gli onori, sotto un cespuglio al quale vennero presto attribuite guarigioni miracolose. Ai tempi dare una sepoltura di un certo rilievo a un animale domestico era più discutibile di oggi, e forse questo contribuì alla diffusione della storia. Che ha tutta l'aria di una leggenda, perché diciamolo: quanto sangue puoi perdere mentre ti azzuffi con una vipera? Mica ti stacca la carne a morsi. Magari fu tutta un'invenzione del castellano che voleva coprire la sua infamia: chissà, magari lo aveva trafitto perché voleva andare in villeggiatura in Borgogna e non sapeva a chi affidarlo. San Guinefort guariva le patologie infantili: chi aveva un bambino malato deponeva un ex voto presso l'antico cespuglio. L'inquisitore non ci mise molto a fiutare l'idolatria: fece sradicare il cespuglio, riesumare e bruciare i resti del levriero, chiudere il sito al pubblico. A chi vi si recava venivano requisite tutte le proprietà.

Ma in zona non smisero mai di invocare San Guinefort. Per evitare guai con l'inquisizione lo rivestirono di panni umani, approfittando dell'omonimia con altri santi Guineforti, tra i quali uno originario della Scozia e sepolto a Pavia. La Chiesa romana ribadì la sua condanna negli anni trenta del secolo scorso, il che significa che nel 1930 qualcuno ancora invocava il santo cane. La cui storia magari vi ricorda qualcosa, ma cosa? Pensateci bene...

Esatto, Beverly Hills Chihuahua 2! Bravi!
bhc2No, scherzo, e spero che vi sia venuto in mente prima Lilly e il Vagabondo: la sequenza del ratto. È una scena piuttosto violenta ed esplicita - come del resto tutto il film, il primo capolavoro disneyano del dopoguerra. Già al tempo la Disney si stava ponendo il problema di offrire a un pubblico spaccato in due (bambini e genitori) un prodotto leggibile su due livelli, e Lady and the Tramp rappresenta uno dei risultati più estremi. Il Ratto nella versione finale è veramente orrendo, lontano anni luce dall'immagine paffuta dei topi di cartoon dei tempi. Il Vagabondo, senza tanti complimenti, lo uccide.

Non è il primo personaggio disneyano che uccide un animale - chiedete a Bambi - ma il Vagabondo è un personaggio positivo. Ed è un maledetto sciupafemmine. Tutti si ricordano la scena iconica dello spaghetto, ma ce n'è un'altra formidabile in cui si svegliano insieme il mattino dopo nella tana di lui, ed è chiaro a ogni spettatore adulto (e anche a qualche bambino) che hanno passato la notte a fare sesso. Due personaggi dinsneyani! Sesso! Senza prima sposarsi! Anzi al primo appuntamento! Sesso con un vagabondo sciupafemmine e assassino! E Walt Disney diede il via libera a tutto ciò. Erano tempi diversi.

Lady and the Tramp

Ieri non sapevo come finire il pezzo e così me ne sono andato a letto. Mi ha svegliato un cane con un uggiolìo così triste e umano che l'ho subito riconosciuto. Qualche cagnetta dev'essere andata in calore, proprio nella notte della levata eliaca di Sirio - la festa di San Guinefort Cane, e dell'altro santo mezzo cane, Cristoforo. Io non è che me ne intenda molto di canidi, ho dato un'occhiata su internet e so che vanno in estro due volte all'anno (il lupo una volta sola), ma non so se ci vadano tutti proprio adesso. Però le classiche cagnare estive me le ricordo. Curiosamente mi davano noia anche da bambino, quando in fondo svegliarsi nel bel mezzo della notte non doveva essere un così grosso problema. Ma una volta c'era un bastardino disperato che continuava a uggiolare tutta notte, l'avrei ammazzato. Decisi di ammazzarlo davvero.

Era un botolo tranquillo, e siccome pensava solo al sesso, era facile avvicinarlo. Io e mio cugino gli allacciammo una corda al collo e lo portammo verso il fiume. Stavamo andando a buttare un cane nel fiume. Lo stavamo facendo davvero. Non avevamo mai ucciso qualcosa di più grosso di una mosca, e adesso avremmo ucciso un cane bastardo. Camminavamo a ritroso su una strada che avevano percorso i nostri progenitori trentamila anni fa, non lo sapevamo. Non sapevamo neanche che cosa tremenda fosse essere sessualmente eccitati tutto il tempo, non avere nient'altro in testa. Non potevamo provare nessuna solidarietà, era una settimana che guaiva tutte le notti, lo volevamo morto. Lui per la verità era abbastanza contento del diversivo, ci seguiva docilmente. Passammo l'argine, arrivammo in riva al fiume, lo slegammo e afferrammo per le zampe, lo buttammo giù.

Lui da principio ci rimase un po' male - mi ricordo la sua smorfia di canina sorpresa - ma poi zampettò nell'acqua stagna e arrivò dall'altra parte, scrollandosi e godendosi l'improvviso refrigerio. A fine luglio il Secchia era un rigagnolo, non lo avevamo calcolato. Non ci avresti annegato una biscia. "Guardalo, sta meglio di noi", disse mio cugino. Io mi misi a ridere, o forse no.

Forse ci misi qualche anno a riderci su. Stavo per ammazzare un cane, lo stavo facendo davvero. San Guinefort, se puoi perdonami. Proteggi i miei piccolini dalle bisce e dai topi e dalle cazzate che combina papà. Nelle lunghe notti di desiderio, che nessuno mai mi metta un cappio al collo e mi porti più in là di dove voglio andare. Non dico che non lo meriterei. Dico solo: pietà.
Comments

Vita da gatto, un film da cani

Permalink
Una vita da gatto (Nine Lives, Barry Sonnenfeld, 2016)

Perché la maggior parte della gente cerca di comportarsi bene? Ok, qualcuno pensa di andare in paradiso. Qualcuno spera di lasciare un buon ricordo. Qualcuno proprio per fare il cattivo non è tagliato (ci vuole coraggio, ambizione, inventiva, è complicato). Ma la maggior parte della gente, perché non si comporta male tutto il tempo? Probabilmente credono nella metempsicosi: sperano di reincarnarsi nei gatti d'appartamento. Che altro chiedere dalla vita? Per dire che anche dietro a un film apparentemente inutile come Una vita da gatto c'è un'importante figura dell'inconscio collettivo: il sogno di finire come Kevin Spacey, palazzinaro di New York, troppo preso dalla sua carriera per vedere le esigenze di moglie e figlia bla bla bla bla, che una sera cade dal suo grattacielo e si risveglia nel corpo del gatto di famiglia. Scoprirà che non sono tutte rose e fiori e gomitoli di lana.

Perché l'Europa Corps non fa dei bei film, invece di farli brutti? Non è una domanda così peregrina. Nine Lives aveva un budget di 30 milioni di dollari (il triplo di Big Game): sono pochi? Se puoi scritturare Kevin Spacey, Christopher Walken e Jessica Gardner, e alla regia Barry Sonnenfield (La famiglia Addams, Men in Black); se hai abbastanza computer-grafica da riuscire ad animare un gatto che sembra vero, perché non riesci a costruirci non dico un capolavoro, ma un film abbastanza carino? Coi film d'azione forse è più facile - no, non mi riferisco a Lucy, Lucy è un episodio imperdonabile. Però finché è azione puoi sempre spararle grosse, magari non centri il bersaglio ma un effetto lo ottieni lo stesso, e anche un po' di ridicolo involontario non guasta mai (vedi il ciclo di Taken). Nine Lives invece vorrebbe essere un film per le famiglie: una cosa molto più delicata. Lo hanno scritto in cinque, senza mai azzeccare il tono. Si capisce che l'idea della trasformazione in gatto non è partita da un autore - qualcuno che avesse veramente voglia di dire qualcosa sui gatti d'appartamento, sul loro modo di essere e non essere parte della famiglia - ma dal reparto effetti speciali: ehi, guarda qui, siamo riusciti ad animare un gatto che sembra vero. Facciamoci un film, come quelle vecchie pellicole della Disney in cui a Dean Jones succedevano le cose più strane - in uno si trasformò effettivamente nel cane di famiglia. Perfetto, che problema c'è?

C'è che i gatti non sono cani, per esempio (continua interessantissimo su +eventi!) Immaginare un gatto che si strugge per cercare di dimostrare la propria umanità è faticoso. In generale, è faticoso immaginare un gatto che si strugge. Se sogniamo tutti di reincarnarci in felini è proprio perché sappiamo che quando finalmente ci arriveremo non ci fregherà più nulla di nulla - il nirvana. Gatto-Spacey invece si dà un sacco da fare, deve salvare la sua azienda, finire in qualche video buffo su youtube, creare quei simpatici casini domestici che fanno gli animali, e scoprire tante cose importanti sulla propria famiglia. Addirittura a un certo punto cerca di aiutare sua figlia coi compiti - ma un gatto che fa i compiti non è un gatto. Non fa nemmeno ridere. Nine Lives è un film che mette meccanicamente assieme tante cose che in teoria potevano fare un film, ma non ci riesce. Resta un'accozzaglia di cose messe lì. Negli USA è uscito il 5 agosto 2016, una delle date più terribili della storia del cinema mondiale (uscì anche Suicide Squad). Nine Lives non è altrettanto brutto, ma dimostra che il cinema americano non è un'alchimia così semplice. Anche con buoni attori americani, con un veterano americano alla regia, con un concetto tipico dei film per famiglie americane, il risultato è inferiore alla somma degli addendi. Lo trovate al Cityplex di Alba (19:00); al Vittoria di Bra (20:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:15, 17:20, 20:15, 22:30); al Fiamma di Cuneo (18:10, 21:10); ai Portici di Fossano (20:00); all'Italia di Saluzzo (20:00); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
Comments (4)

La vita segreta (non troppo originale) degli animali

Permalink
Pets - Vita da animali (The Secret Life of Pets)

MORTE AL GENERE UMANO!
Cosa fanno i nostri animali mentre noi non siamo in casa? Cosa volete che facciano: perlopiù dormono, mangiano, litigano, scappano di casa, vanno alle feste, complottano contro il genere umano, guidano missioni suicide contro convogli di accalappiacani, e poi tornano a casa in tempo per scodinzolare quando apriamo il portone.

Pets è il sesto film della Illumination Entertainment - se contiamo anche il primo Cattivissimo me (2010), che era ancora un prodotto della francese Mac Guff, acquisita di lì a poco. L'Illumination ha l'esclusiva per i film di animazione della Universal e grazie ai Minions è diventata una delle più grandi realtà dell'animazione digitale: più grande della branca animazione della Fox, da cui proviene il fondatore (Chris Meledandri lavorò ai primi due Era glaciale), più grande della Dreamworks che forse Meledandri si comprerà. Più in altro c'è solo la Disney/Pixar, ma per ora più che competere sembra che la Illumination si contenti di imitare. Gru e i Minions almeno avevano una loro identità, magari non originalissima, ma tra tanti prodotti in 3d si facevano riconoscere; Pets non prova neanche per un istante a sembrare diverso da quel che promette nei trailer: una rifrittura di concetti e luoghi pixariani e disneyani.

Che poi non si capisce come vada a finire:
diventa vegetariano?
Meledandri è molto bravo a mantenere bassi i budget e stavolta non ha speso molto nemmeno per l'idea (continua su +eventi!): facciamo Toy Story con gli animali, al posto del cowboy e dell'astronauta mettiamo due bastardini che prima litigano e poi diventano amici inseparabili. Mettiamoci anche un cattivo dolce e insospettabile, come in Toy Story 3. Un predatore che cerca di vincere i propri istinti, come lo squalo di Nemo. C'è persino il siparietto lisergico, come in Dumbo e nel Good Dinosaur; il tutto senza foga citazionista: semplicemente si prendono cose che si sa che funzioneranno bene, e si usano ancora una volta, senza pretese di originalità ma nemmeno troppi  ammiccamenti. Neanche il successo straordinario dei Minions ha fatto venire a Meledandri la voglia di rischiare un po', e il risultato è un altro boom al botteghino: un film che incasserà più di Zootopia, raccontando situazioni simili (una comunità di animali che convive nella diversità) con molta meno fantasia.



Quanto sia meccanico l'approccio lo si vede bene nel momento in cui il film si ritrova all'improvviso in una situazione 'alla Up': da qualche parte nella grande città c'è una piccola casa col giardino, dentro forse c'è ancora un anziano signore che aspetta uno dei personaggi. Una scena del genere, in un Pixar autentico, sarebbe stato un colpo al cuore: il classico momento dei lacrimoni. Qui niente. Viene persino pronunciata la parola speciale, "morte" - una parola che in un prodotto per bambini deve essere usata con una cautela - ma non ci si ferma a riflettere, men che meno a piangere: è solo uno snodo qualsiasi della trama, lo spunto per un battibecco in attesa dell'ennesimo inseguimento. Verrebbe da dire che per i bambini magari è meglio così, il pathos di certi film della Pixar è inadatto a loro - ma poi c'è una scena d'azione eccessivamente intensa, in cui i personaggi praticamente annegano, roba che gli stessi bambini potrebbero sognarsi di notte. Non è una questione di budget, non è un problema di rendering: è proprio che manca il cuore. Ma c'è un sacco di animaletti buffi, e sta piacendo a tutti. Al Vittoria di Bra (alle 20:00 in 3d, alle 22:20 in 2d); al Fiamma di Cuneo (alle 21:00); al Multilanghe di Dogliani (alle 21:30 in 2d) e ai Portici di Fossano (alle 18:30 in 2d).
Comments

I procioni in semifinale

Permalink
Ciao, sul serio vuoi eliminarmi?
Benvenuti al primo appuntamento di oggi con La grande gara degli spunti! È il tempo di ritrovare i terzi morbidissimi e pulitissimi semifinalisti. A chi li dà morti e sepolti da secoli, loro mostrano i denti e le vibrisse del dito medio. Hanno avuto facilmente ragione dell'Ultimo Uomo nella Galassia, hanno prevalso dopo due sfide contro l'assassino seriale delle sue ex, hanno spazzato via le Scie Chimiche, e ora sono qua, per la gioia di grandi e piccini. Salutate i vostri pelosi amici dallo spazio profondo, i simpatici Procioni!

Abstract
Il pianeta dei Procioni orbita intorno a una stella a mille anni luce dal nostro - orbitava, perché una perturbazione negli sciami tachionici ci lascia intendere che più o meno novecento anni fa fu distrutto. Nel frattempo siamo riusciti a decifrare le loro trasmissioni (grazie alle istruzioni che loro stessi avevano mandato), e ora le stiamo guardando cercando di capire come funzionava la loro società. Mentre l'umanità si divide tra chi li ama e li crede portatori di una saggezza superiore e chi propone di armarsi, gli studiosi cercano di tenere la barra al centro. Non sono né più pacifici né più violenti di noi; sono diversi. Combattono guerre rituali per evitare la sovrappopolazione; vanno in amore una volta all'anno, e in tutto il resto del tempo concepiscono solo amicizie tra individui dello stesso sesso. Gli attori delle loro telenovelas sono pelosissimi e melodrammatici. Recitano nudi, si amano vestiti. Non sanno che stanno per scomparire dall'universo. Forse non ce la stanno raccontando giusta, ma con un po' di pazienza dovremmo capire tutto. La pazienza purtroppo non è il nostro forte.


Sembra interessante. Dove si possono recuperare altri frammenti della storia?
La fine del mondo (dei procioni)
Cosa ci insegnano i procioni
Le domande più frequenti sul mondo dei procioni


Quando mi è venuta in mente?
È lo spunto più antico tra i semifinalisti - ho un file del 2010, ma l'idea è più vecchia, credo mi sia venuta quando pubblicarono le prime foto di un qualche esoplaneta. Però non c'erano i procioni; c'era solo l'idea di un mondo che ci manda le sue trasmissioni tv anche se nel frattempo ha smesso di esistere. I procioni mi sono venuti in mente all'ultimo momento, credo sia una suggestione di un vecchio racconto (Cordwainer Smith?) Buffo, perché ho la sensazione che quello che abbia davvero spinto lo spunto fin qui siano le foto dei procioni. Non si resiste ai procioni. Il libro parlerebbe anche di questo: la fatica degli umani a resistere alla loro morbidezza. Cioè, in teoria costituiscono una sfida e una minaccia, in pratica aaawwwww.

Quanto è originale?
Sento forte l'influsso della Stella di Arthur Clarke - e di Clarke in generale, penso anche a History Lesson. Poi quel racconto che non riesco più a trovare di Cordwainer Smith, il padre di tutti i furry. No, non sono un furry. Però ai procioni non si resiste - insomma, hanno le mani. Con le vibrisse.

Potenziale commerciale?
Chi lo sa. Ai furry manca ancora una bibbia.

Che senso avrebbe?
Riflettere su com'è strano l'universo - se mai incontreremo qualcuno, saranno immagini in differita di migliaia di anni. Usare una razza diversa per riflettere su com'è strana l'umanità. Immaginare anche l'effetto emozionale di un'eventuale scoperta del genere sull'umanità: cosa succede quando scopriamo di non essere più soli? Cosa succede poi quando scopriamo che invece siamo soli, in compagnia di fantasmi di un passato remoto? Ecc.

Mi farò dei nemici?
Molti fisici - questa cosa degli sciami tachionici, non credo che la manderanno giù. E vabbe'.


Cosa dovrei studiare?
Ecco, non saprei. Il comportamento dei procioni, sicuramente. Qualche lingua dalla grammatica assurda (mandarino?) Crittografia - come diavolo abbiamo fatto a decifrare le trasmissioni? E tante altre cose.

Dimensioni?
C'è da descrivere un mondo intero, come si fa. Per dire, dopo un po' gli uomini cominciano a sospettare che tanti edifici ciclopici e molto antichi non siano stati costruiti dai procionidi, ma da qualche altra razza intelligente (spiegherebbe il perché hanno completamente sterminato gli orsi). Cioè davvero si può allungare a piacere.

Eventuali sequel?
Dipende da come va a finire.

Contro chi gioca in semifinale?
Contro Copernico

Per chi tifo?
Copernico è più facile, i Procioni... come si fa a non voler bene ai procioni.


Comments (27)

Cosa ci insegnano i procioni

Permalink
Come tutti i procio-linguisti (e più in generale i procio-studiosi, e i procio-divulgatori, e tutto l'indotto umanistico e scientifico che ruotava intorno al Pianeta dei Procioni), Aron aveva grosse difficoltà a mascherare il disprezzo che provava per i cosiddetti "procionidi terrestri", quei gruppi di svitati che dopo aver visto un documentario di troppo erano andati a vivere nei boschi in piccole comunità di soli maschi o sole femmine - fatta eccezione ovviamente per quelle quattro settimane tra marzo e aprile, dedicate al corteggiamento e all'accoppiamento. Aron non riusciva nemmeno a individuare l'aspetto più paradossale: che le istruzioni per la vita in armonia con la natura provenissero da trasmissioni inviate e captate con le tecnologie più sofisticate a disposizione? o che una specie vivente dedita al genocidio fosse percepita come più "naturale" soltanto perché viveva tra gli alberi?

(Questo pezzo prosegue lo spunto della Fine del mondo dei procioni, e ovviamente partecipa alla Grande Gara degli Spunti. Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

"Non hai mai pensato che è anche colpa nostra?", le aveva detto Sara un giorno. "In fondo non sono che vittime della procio-mania. Quella cosa che ci dà da vivere".
"Noi non viviamo di procio-mania. Noi studiamo i linguaggi dei procioni".
"Certo, e per farlo servono computer dall'enorme potenza di calcolo, e specialisti ben pagati, e tutto questo lo pagano gli sponsor che vogliono vendere il prossimo film 3d ambientato nel mondo dei procioni".
"Sara..."
"La soap dei procioni sta andando fortissimo - anche se non abbiamo ancora capito chi è il buono e chi è il cattivo - ammesso che ci siano - i peluche autorizzati dall'Agenzia Spaziale sono già pezzi da collezione, e ci sono ragazzini che da cinque anni in qua non fanno che sentir parlare di procioni, procioni, procioni. Ti sorprende che una piccola parte di loro comincino ad arrampicarsi sugli alberi? Tra un po' ci arrampicheremo tutti. Hai visto i progetti della nuova torre di Berlino?"
"Prima o poi si renderanno conto che i procioni sono come noi".
"Non sono come noi".
"È vero. Ma non sono né meglio né peggio. Sono violenti, devastatori, hanno un forte senso del branco ma nessuno scrupolo per gli estranei".
"Bene, e ora dimmi qualcosa che li differenzi dai sapiens".
"Sin da quando abbiamo cominciato a capire qualcosa della loro Storia, abbiamo cercato di combattere il luogo comune di specie-in-armonia-con-la-natura. Abbiamo raccontato di come abbiano sterminato un'altra razza intelligente nel continente inferiore".
"Probabilmente noi abbiamo fatto la stessa cosa coi Neanderthal".
"Loro lo hanno fatto con armi batteriologiche".
"Allora è la stessa cosa che noi abbiamo fatto agli Incas".
"Non abbiamo usato armi batteriologiche contro gli Incas... non consapevolmente".
"Hanno iniziato a usare armi batteriologiche più o meno quando noi cominciavamo a perfezionare le catapulte, non puoi fare un paragone con..."
"Sei tu che hai iniziato a fare paragoni".
"Va bene. Fare paragoni è sempre sbagliato".
"Sempre".
"Perché abbiamo iniziato?"
"Non riesco a capire come sia passata l'idea dei procionidi in sintonia con la natura. Hanno devastato più habitat di quanto non abbiamo fatto noi".
"Ma vivono ancora sugli alberi, mentre noi siamo scesi".
"Tutto qui?"
"Certo che no. Hanno quella pelliccia adorabile, e quel mese all'anno in cui pensano soltanto al sesso. Tutte cose di cui eravamo convinti fosse necessario liberarsi, per diventare civili. Loro ci hanno dimostrato che non è vero. Si può fondare una civiltà senza scendere dagli alberi, senza perdere i peli, senza rinunciare alla stagione dell'amore".
"Hanno cacciato gli orsi fino all'estinzione. E manco li mangiano".
"Erano comunque pericolosi. Piuttosto ci sarebbe da domandarsi perché noi non abbiamo fatto la stessa cosa".
"Perché abbiamo sviluppato il concetto di biodiversità, mentre loro..."
"Loro si sono stabilizzati sul miliardo di abitanti, su un pianeta un po' più piccolo della Terra, forse è una strategia più ecologica della nostra".
"Il loro modo di stabilizzarsi è massacrarsi tutti gli autunni".
"Anche lì, ci sarebbe da domandarsi perché non facciamo la stessa cosa".
"Sei seria?"
"Forse non stiamo distruggendo il pianeta perché facciamo troppe guerre, ma perché non ne facciamo abbastanza. Ci hai mai pensato?"
"Ok, non sei seria".

Se sei un furry, o non hai il coraggio di ammetterlo a te stesso, ma hai quello per votare Cosa ci insegnano i procioni, che oggi se la vede con Qualcuno continua a uccidere le mie ex, non hai che da mettere Mi piace su facebook, o esprimerti nei commenti. Grazie per l'attenzione e arrivederci al prossimo spunto.
Comments (28)

PAZZESCO: queste scimmie fanno di tutto. Scrivono anche i film!

Permalink
È più colpa mia che tua - abbiamo troppe cose in comune.
Apes Revolution (Ma il titolo originale è Dawn of the Planet of the Apes), Matt Reeves, 2014.

Un tempo qui era tutto dell'uomo. Ma uomo cattivo, uomo pasticciare con virus ed esplosivi, uomo uccidere uomo, uomo tramontare. Futuro è scimmia. Scimmia non uccide scimmia. Se proprio non necessario, diciamo.

È insolitamente difficile scrivere una specie di recensione dell'ultimo capitolo della saga che mi terrorizzava da bambino nei lunghi pomeriggi del palinsesto estivo rai, scimmie parlanti e scenari postnucleari. È oggettivamente impossibile scriverne una migliore di quella di Gundam sui 400 calci, tanto per cominciare. Poi c'è il problema che il film è piaciuto a tutti, proprio a tutti, mentre e a me, mah, non tanto. E invece avrebbe dovuto piacermi. Quando ha battuto i Transformers ai botteghini, avrei dovuto scrivere un peana entusiasta in onore di Matt Reeves e degli altri sconosciuti di Hollywood che qualche anno fa hanno preso una saga accantonata per 25 anni e poi umiliata da un remake devastante, e l'hanno riavviata con 'pochi' milioni di dollari e tanta passione per il cinema d'avventura fatto bene. Prendi questa, Michael Bay. Un cantico, avrei dovuto sciogliere, a questo western con scimmie più espressive degli uomini, puri mascheroni amplifica-sentimenti, animali fatti di rabbia e orgoglio e amor paterno e invidia e perfidia, più umani dell'umano, agli antipodi di quei robottoni cromati barocchi e inespressivi. E invece guardate qui che cinema si può fare, con un po' di sana apocalisse batteriologica anni '70, due-location-due ma ben costruite, e tanto sentimento: tanta rabbia, tanto orgoglio e amor paterno eccetera. Avrei dovuto scrivere di questo, e di quanto mi sia piaciuto questo film. Se mi fosse piaciuto.

Ma non mi è piaciuto così tanto (continua su +eventi!)

Chi è la scimmia adesso?
Che è la peggior cosa che mi possa succedere: quando una cosa dovrebbe piacermi, e invece no. Magari è colpa mia. Anzi, sicuramente. È un film per giovani adulti, non per me; a loro la trama non sembrerà così prevedibile. Non soffriranno le caratterizzazioni tagliate con l'accetta, quelle che purtroppo consentono dopo cinque minuti di girato di prevedere quale scimmia litigherà con l'altra, e che il primogenito dubiterà del padre ma poi lo aiuterà nel momento più critico - mentre tra gli umani ce n'è uno che fuma, e sai già quanto sia sacrificabile; ne vedi un altro paio e sai già che tra tre quarti d'ora si punteranno le armi a vicenda perché uno vuole sterminare le scimmie e l'altro adottarle. Se fosse per questo, non me la prenderei. Non obietterei anche al fatto che il film giochi con la mia cattiva coscienza di spettatore, che razionalmente vorrebbe che umani e scimmie non si massacrassero a vicenda, e d'altra parte è venuto al cinema proprio per vedere un film in cui umani e scimmie si danno battaglia saltando in aria e rubandosi i carri armati. Sono cose che ho perdonato a film più sgangherati di questo. Il problema è che Dawn of the Planet fa sul serio. Vuole essere preso sul serio, senza ammiccamenti. E invece ha una trama che fa acqua un po' dappertutto. Un re-scimmia che ogni tanto si domanda che ne è stato degli umani, possibile che non ci siano più? Dieci inverni senza avvistamenti. Poi ne incontrano uno nel bosco, lo seguono albero per albero e scoprono che a qualche migliaio di alberi di distanza c'è ancora San Francisco. Non lo sapevano? Non era mai venuto in mente al re-scimmia di dare un'occhiata?

Poi c'è Koba, un personaggio fantastico. Il più intelligente tra le scimmie - in effetti pare sia un bonobo. Ha una bassissima opinione degli umani, sviluppata negli anni in cui è stato cavia di laboratorio. E malgrado il suo odio tanto sbandierato, è il più umano di tutti: sa mentire, uccidere a sangue freddo, recitare, manipolare: tutte cose che le scimmie ancora non fanno. Lui sì. Koba è un'invenzione felicissima. Ma proprio per questo, forse, si poteva evitare di trasformarlo in una superscimmia in grado di espugnare un carro armato a mani nude, uno che sa maneggiare con precisione il primo fucile che maneggia in vita sua - il virus gli ha fatto pure crescere il pollice opponibile? Va bene l'esplicito omaggio western, ma c'è un limite alla verosimiglianza anche in un film sui primati che rubano i fucili e in tre ore imparano come maneggiarli. La cosa fa tanto più male quanto più la messa in scena è ben curata, gli effetti speciali ben calibrati, eccetera. È come se avessero fatto scrivere la storia alla scimmia del team. Con tutto il rispetto per le scimmie, che hanno un luminoso futuro davanti. Però forse non è ancora il momento di far scrivere a loro i film.

Un ultimo appunto - assolutamente pretestuoso. Perché le scimmie, che hanno già un linguaggio dei segni perfettamente funzionale, dovrebbero imparare a parlare l'inglese, se per loro è faticoso e comunque gli umani non ci sono più? Perché dal prossimo film in poi lo parleranno correttamente, ok, lo so - ma al di là della necessità narrativa, che senso ha imparare faticosamente la lingua morta di una razza imperialista ormai tramontata? È un po', come si dice, un non sequitur, non trovate?

Apes Revolution è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:40; in 3d al Multisala Impero di Bra alle 20:10 e alle 22:30.
Comments (4)

Questo animale era estinto... E OGGI VIVE! Leggi come è stato possibile!!!

Permalink
L'unico quagga mai fotografato è allo zoo di Londra.
(C'è dibattito sulle strisce, che sembrano diverse
da quelle del nuovo quagga).
12 agosto 1883 - muore nello zoo di Amsterdam l'ultimo quagga

Il quagga, l'avessi visto impagliato in un museo a Basilea o Berlino, lo descriverei come uno strano somaro marroncino che ha provato a truccarsi da zebra, ma non aveva abbastanza strisce per coprirsi il sedere. Un ibrido insomma, un cavallo inzebrato. Invece era una sottospecie di zebra a tutti gli effetti, lo abbiamo capito finalmente esaminando il dna preso da un esemplare impagliato. La forma di questi ultimi aveva messo fuori strada gli studiosi, forse a causa dell'abitudine dei vecchi tassidermisti a usare ossa di altri equini per riempire le lacune. Il quagga viveva nelle praterie della provincia del Capo e del Libero Stato di Orange, quello fondato dai boeri di origine olandese che cercavano terra libera alla larga dei nuovi coloni inglesi. Lo sterminio dei quagga è probabilmente opera loro. Qualche migliaio di chilometri più a est, alle Mauritius, un paio di secoli prima, i marinai olandesi si erano anche cucinati le ultime uova del dodo. Si potrebbe qui giocare sulla singolare coincidenza, e buttar lì la considerazione che se gli olandesi avessero più considerazione per la natura, non esisterebbero nemmeno: al posto dei loro bei campi di tulipani ci sarebbe un mare grigio e inutile. Se il dodo ci teneva a sopravvivere poteva anche imparare a nascondere le uova.
Comments (19)

Lo zoo di Cinzia

Permalink
Lo zoo di Cinzia (1999)

Cosa c'è che non va con Pitone?
È affettuoso, ed è un simpaticone.
Ma al commiato notturno, lo so,
se ti stringe anche un po'
sembra voglia ridurti a un boccone.

E di Granchio che cosa mi dici?
eravate, voi due, buoni amici;
ma anche Granchio le amiche le
stringe, ma ha solo le chele
e oramai ha anche solo nemici.

Non ti resta che uscire col Gallo:
se non altro sa tenerti in ballo.
Certo ha modi da professionista,
da collezionista,
ed al collo un cornetto in corallo.

A proposito, ha chiamato il Rospo,
perché ha già prenotato in quel posto.
Basta un bacio ed è convinto che
gli apriranno il privé
(ma tu non sei in città, gli ho risposto).
Comments

Il Santo Cane

Permalink
guinefort cartolina
25 luglio - San Guinefort, cane, vittima del suo padrone (XIII secolo).

"Oggi è san bastardino", diceva l'anno scorso Luca Laurenti in uno spot contro l'abbandono dei cani in autostrada. È un gioco di parole abbastanza insulso; eppure per una bizzarra coincidenza il cosiddetto "esodo estivo" coincide più o meno con la Canicola latina, grosso modo il periodo tra il 24 luglio e il 26 agosto in cui Sirio, la stella più brillante del Cane Maggiore (e del firmamento) sorge nel cielo boreale appena prima dell'alba. L'associazione tra Sirio e il migliore amico dell'uomo è antichissima, o perlomeno si è diffusa in popoli e culture assai distanti: pellerossa nordamericani, cinesi, inuit. Anche per i latini "Canicula", cucciolotto, era un sinonimo di Sirio. In seguito divenne sinonimo di afa, siccità, vacanze al mare, abbandono degli animali domestici. Il cane è probabilmente il primo animale che abbiamo addomesticato, più o meno trentamila anni fa, dopo che per qualche tempo branchi di canidi avevano cominciato a vivere nei pressi degli insediamenti umani, offrendo un servizio di allarme contro le incursioni dei grossi predatori in cambio di qualche buon osso da rosicchiare: e magari davano una mano anche a scacciare topi e bisce. Nella grotta di Chauvet, dipartimento dell'Ardèche, Francia meridionale, ci sono tracce di un cane e di un bambino che camminano assieme 28.000 anni fa. Così è abbastanza appropriato che l'unico animale a essere stato venerato (abusivamente) come santo sia un cane: San Guinefort, un levriero vissuto plausibilmente nel XIII secolo a Villars-les-Dombes. Siamo ancora nella valle del Rodano, a non troppi chilometri dalla grotta di Chauvet; e anche stavolta accanto al cane c'è un bambino.

Guinefort
La storia, anzi leggenda, c'è stata tramandata da Stefano di Borbone, l'inquisitore domenicano che decise di stroncarne il culto. Un giorno il castellano tornando a casa non trova il figliolino nella culla, ma tracce di sangue dappertutto e soprattutto addosso al cane. Folle d'ira, lo trafigge con la spada: il levriero non offre resistenza al suo padrone, ma proprio mentre esala l'ultimo guaito il castellano ode il pianto flebile del neonato: è sotto il letto, illeso! E in mano ha... che schifo... una vipera morsicata. Dunque è andata così: una vipera voleva mordere il bambino, il prode levriero Guinefort aveva ingaggiato contro di lui una lotta sanguinosa, vincendola: ma poi era arrivato il padrone e non aveva capito niente, povero Guinefort. Il castellano lo seppellì con tutti gli onori, sotto un cespuglio al quale vennero presto attribuite guarigioni miracolose. Ai tempi dare una sepoltura di un certo rilievo a un animale domestico era più discutibile di oggi, e forse questo contribuì alla diffusione della storia. Che ha tutta l'aria di una leggenda, perché diciamolo: quanto sangue puoi perdere mentre ti azzuffi con una vipera? Mica ti stacca la carne a morsi. Magari fu tutta un'invenzione del castellano che voleva coprire la sua infamia: chissà, magari lo aveva trafitto perché voleva andare in villeggiatura in Borgogna e non sapeva a chi affidarlo. San Guinefort guariva le patologie infantili: chi aveva un bambino malato deponeva un ex voto presso l'antico cespuglio. L'inquisitore non ci mise molto a fiutare l'idolatria: fece sradicare il cespuglio, riesumare e bruciare i resti del levriero, chiudere il sito al pubblico. A chi vi si recava venivano requisite tutte le proprietà.

Ma in zona non smisero mai di invocare San Guinefort. Per evitare guai con l'inquisizione lo rivestirono di panni umani, approfittando dell'omonimia con altri santi Guineforti, tra i quali uno originario della Scozia e sepolto a Pavia. La Chiesa romana ribadì la sua condanna negli anni trenta del secolo scorso, il che significa che nel 1930 qualcuno ancora invocava il santo cane. La cui storia magari vi ricorda qualcosa, ma cosa? Pensateci bene... (continua sul Post)
Comments (3)

Ed invece venne il cervo

Permalink
C'è una strana storia che racconta Mattia Feltri, di Putin e Berlusconi che scannano un cervo (o meglio: Vlad lo scanna e Silvio sviene). Ma cosa significa?



Ho una teoria (#96). Sull'Unità. E si commenta là. Buona mitopoiesi.


C'è una strana storia che mi è tornata in mente in questi giorni, anche se potrebbe non essere vera, anzi credo proprio che non lo sia. Chiamiamola leggenda. La leggenda vuole Vladimir Putin e Silvio Berlusconi a spasso per la taiga, soli, senza testimoni o interpreti, in un freddo mattino russo. D'un tratto, mentre discutono in qualche misteriosa lingua comune, Putin estrae l'arma di precisione e abbatte qualcosa o qualcuno. Vanno a vedere cos'è: è un cervo. La leggenda descrive quindi Putin sventrare con una lama affilata e pochi gesti esperti l'animale, estrarne il cuore ancora caldo e porgerlo al Presidente del Consiglio, che a quel punto sbianca e forse sviene, come in fondo sarebbe potuto succedere anche a noi.

La leggenda la raccontò qualche mese fa sulla Stampa Mattia Feltri, senza spiegare da che fonte l'avrebbe ottenuta – del resto come si vede la vicenda non prevede terzi testimoni: in scena ci sono solo Vlad, Silvio e un cervo che nemmeno li vede arrivare. È una storia davvero suggestiva, ma negli ultimi tempi forse tra bunga bunga e telefonate ai latitanti di aneddotica sul nostro presidente ne abbiamo avuta fin troppa. Forse era destino che un episodio così ambiguo, di non immediata interpretazione venisse presto dimenticato: anch'io dopo qualche mese non ero nemmeno più sicuro di averlo letto davvero. Per fortuna c'è internet, che in pochi secondi me l'ha confermato: non me l'ero sognata, la leggenda del cuore di cervo esiste. Ma cosa significa?

A prima vista la leggenda parla dell'umanità di Silvio Berlusconi, descritta in contrasto con la ferinità del suo collega autocrate russo. Quest'ultimo è descritto più o meno come lui stesso ama presentarsi ai media: un uomo pronto a tutto, energico, dai riflessi pronti e duttile come un agente segreto: non sa solo ammazzare un cervo al primo colpo, ma è anche in grado di macellarlo seduta stante. Invece Berlusconi no. Berlusconi è disposto a seguire il suo collega ovunque, per amicizia e per ragion di Stato, ma è ancora un essere umano, con le sue debolezze. Feltri probabilmente aveva in mente qualcosa del genere quando sceglie di mettere la storia per iscritto.

Più in profondità c'è la simbologia dell'animale, che nelle culture indeuropee è spesso associato ai cicli stagionali di morte e rinascita. Possiamo immaginare come il pensiero di assicurarsi un nuovo ciclo di potere debba assillare i due vecchi cacciatori. Putin sembra già aver trovato una soluzione, annunciando che succederà al suo successore designato Medvedev – un Crono che mangia i suoi figli. Berlusconi, che non ha mai trovato un Medvedev, un figlio buono da mangiare, ha molte più difficoltà, e forse il dono del cuore allude a questo. Ma il cuore a sua volta porta con se altri garbugli di significato: per le antiche culture dei cacciatori era la sede dei sentimenti (e Putin la strappa via), del coraggio (e Putin la offre a Berlusconi). Sia come sia, la leggenda emette un giudizio: Berlusconi non è pronto, Berlusconi non è adatto. Ma a cosa?

Ecco la mia teoria. Nei boschi Putin ha voluto mostrarsi a Berlusconi per quello che è: un assassino svelto, spietato e competente. Questo significa essere tiranni, e questo Berlusconi non è mai riuscito ad accettarlo. Quando il suo capitolo sarà finalmente finito, avremo a disposizione infinite etichette per lui: lo chiameremo corruttore e forse ladro. Arriveremo a dire che fu un capitano d'industria senza scrupoli, ma sarà solo una metafora: non era un capitano vero, e scrupoli ne aveva, anche per i suoi nemici. L'enorme amore che nutriva per sé stesso finiva per rifrangersi su ogni oggetto vicino e lontano, impedendogli di odiare davvero qualcosa o qualcuno con la determinazione dei tiranni. Dovremo ammettere che aveva tanti difetti, ma non era un violento – fosse stato un violento, forse avremmo avuto quel regime che si è annunciato per vent'anni ma è sempre rimasto nell'aria, un progetto irrealizzabile, come il Ponte sullo Stretto.

Non era un violento, ma nel suo mestiere di presidente e ministro degli esteri ha preteso di trattare coi violenti senza scrupoli come Gheddafi, come Putin. Forse lo sorreggeva l'idea di aver trattato con successo, anni prima, con qualche capetto mafioso – ma un tiranno gioca in una serie diversa, e forse Putin, nel linguaggio dei simboli, ha voluto farglielo notare: tu, piccolo italiano che ogni tanto vieni a trovarmi, e dici di essere mio amico, ma hai capito di che amici ti devi circondare? Siamo assassini, è così che ci conquistiamo il futuro. Noi ogni giorno ci svegliamo con le mani lorde di nuovo sangue: perciò non stimiamo per forza lo straniero che col suo sorriso da venditore ce le viene a baciare.http://leonardo.blogspot.com


Comments

Ognibene ippopotamo in Kenya

Permalink
(1996)

Esso è la prima delle opere di Dio;
il suo creatore lo ha fornito di difesa.

Giobbe 40,19

– I primi ad accorgersene sono gli avvoltoi.

Visto da una buona distanza in verticale, sembra trattarsi di un salsicciotto intriso in una densa salsa di fango. È Ognibene, che si prende cura del suo stagno. Poche settimane fa si trattava di una vasta laguna: oggi non è che una polla di melma che lo contiene a malapena. Domani, se il caldo non cesserà - e perché dovrebbe? la stagione arida è al suo culmine - sarà forse una tomba d'argilla screpolata. Ognibene ne è consapevole: diciamo pure che ne è sicuro, ora che ha sentito l'ombra nervosa degli avvoltoi danzargli sul capo. Eppure non è vecchio: il pensiero della morte dovrebbe investirlo di indignazione. Se solo non facesse così caldo, troppo caldo per pensare a qualsiasi cosa... E poi il giorno è fatto per dormire, pensa Ognibene. Se mi riuscisse di prender sonno, tutto sarebbe più semplice.

Di tanti piccoli lacchè che lo servivano e lo adoravano, non ne è rimasto che uno. È un uccelletto dal piumaggio nero, che si ostina ancora a cercar parassiti sulla crosta fangosa che copre la poderosa schiena del gigante. "Bel Dio mi sono scelto - penserà, a modo suo - un Dio che si lascia morire di siccità! A pochi voli di distanza da qui c'è il fiume: un grande fiume in giorni lontani, oggi non più che un rigagnolo, è vero: ma pur sempre un corso d'acqua limpida... laggiù gli Dei meno testardi si stringono ormai muso contro muso per conservare un posto al fresco: ma non il mio, il mio preferisce difendere il suo regno: e domani sarà cibo da avvoltoi - guardali, lassù - e da iene".


Dal canto suo Ognibene sbuffa, defeca. Un tempo questa era una gioia - nel tempo, intendi, della stagione dolce e dell'acqua limpida, quando sulla scia di feci che il gigante sparge qua e là, scodinzolando, accorrono nugoli di pesciolini festosi e variopinti. Anche per loro Ognibene è senz'altro un Dio, terribile nella sua maestosa apparizione (Signore delle correnti, Portatore di cibo, Essere immenso che trascende, con la sua mole, i limiti liquidi dell'universo). E invece, oggi: splunf, ploch, tutto questo ben di Dio buttato via. Ognibene sprofonda nei suoi stessi rifiuti.

Certo, non la si direbbe una fine dignitosa. Eppure se Ognibene resta qui è per pura coerenza. Se tu hai dei principi, se tu hai dei valori - e quale valore più grande del territorio, per un ippopotamo? - non puoi decidere di averli soltanto nove mesi all'anno, quando ti fa più comodo. D'accordo, se egli sapesse essere più elastico nel praticare i suoi valori, avrebbe più possibilità di resistere. D'accordo, probabilmente sono gli ippopotami più elastici a salvarsi, non quelli più fedeli e coerenti alle proprie convinzioni. Ma francamente - pensa Ognibene - non vedo proprio che senso avrebbe vivere, senza qualcosa di sacro. Lascio volentieri sopravvivere chi ne sente l'esigenza. Io preferisco rimanere fedele a me stesso, ai miei valori.

(Approvano dall'alto gli avvoltoi. Finalmente qualcuno che ha valori).

Si scuote da una fantasticheria il gigante, per reimmergersi immediatamente nei suoi pensieri - e nel fango, senza riuscire per altro a coprirsi interamente. L'uccelletto scatta in volo per evitare d'infangarsi. Se solo si decidesse, questo pigro Dio. Forse ce la fa ancora ad alzarsi. Ma non gli do un altro sole. E sono già troppo buono. Ah, non so nemmeno perché sto qui a perdere il mio tempo. Questo qui morirà annegato nella sua merda. Non mi merita.


Ognibene, lo ascolti, il tuo ultimo devoto fedele? Ognibene è in dormiveglia; cerca forse di andarsene senza disturbare nessuno. Se gli riuscisse, tra un pigro pensiero e l'altro, di smettere di respirare senza volere, se per distrazione le narici aperte a fior d'acqua non scendessero un po', otturandosi di fango una volta per tutte... Forse, pensa lui, se mi perdo tra i ricordi...

– Ma se poi finalmente prende sonno, il suo primo sogno è il Grande. Un'ombra soltanto, in realtà, un'idea vaga di una perdita, la sensazione di una promessa fatta: e non aspettatevi qualcosa di più preciso, dai sogni di un ippopotamo.

Il Grande, dunque - ma forse soltanto quattro denti grigi, enormi, spaventosi, tra i quali il destro superiore è quello orribilmente scheggiato, chissà in quale battaglia con chissà quale malcapitato rivale. Più d'ogni cosa il Grande è terribile per quel dente anomalo, che Madre Natura non gli provvide affatto: se lo procurò lui, da solo, come trofeo d'odio e di potenza. (C'è mai stato un animale più perfido dell'ippopotamo? L'unico che attenti alla vita del suo simile...). Quel dente spaccato, acuminato, può aprire squarci fatali nella più robusta delle corazze: ma quel giorno memorabile Ognibene a dire il vero aveva ancora la scorza rosea e delicata di un ragazzino che ha appena abbandonato le madri per andare a cercarsi un territorio. E che, per un misto d'ignoranza e sbadataggine, non ha fatto caso a certi chiari confini segnati sulla spiaggetta sabbiosa della laguna (due monumentali escrementi neri): insomma, immaginate il giovane ippopotamo più sprovveduto al mondo ritagliarsi il suo spazio nel bel mezzo della giurisdizione del maschio dominante più grande e feroce. Su chi scommettereste?

Ognibene beatamente ignaro oziava, naso ed occhi a fior d'acqua, godendosi la sua prima giornata di maturità, quando vide emergere d'un tratto la bocca già spalancata pronta al combattimento: quella bocca enorme, vecchia, rugosa, la porta franata di una galleria infernale: quella bocca e quei denti che il nostro eroe sogna da allora ad ogni sonno inquieto.

Il tempo di un barrito, ed il piccolo è già in fuga sott'acqua, veloce come nemmeno lui si sarebbe sognato di nuotare. Il Grande, che non vuole averla subito vinta, lo insegue: ma perde distanza. Ognibene ha muscoli scattanti e adrenalina. Ma lo spavento lo ha fatto immergere senza quasi il tempo di prender fiato, e il Grande, vecchia volpe, questo lo sa. A Ognibene basterebbe alzare un poco il muso per succhiare a fior d'acqua tutta l'aria di cui ha bisogno: questo è quello che farebbe qualsiasi ippopotamo ragionevole. Ma Ognibene, inesperto e in preda al panico, non farà così, ed il Grande lo sa benissimo. Piuttosto, non appena la sua fuga disordinata non lo porterà vicino a riva, vorrà fermarsi e alzare il muso intero, per assicurarsi di essere salvo. Orbene, è lì che il Grande corre ad attendere il piccino per spaventarlo di nuovo a morte, emergendo dall'acqua all'improvviso con le fauci spalancate.

Ognibene ora è in trappola: il Grande lo ha chiuso contro la riva del fiume. Certo, la fuga e l'inseguimento potrebbero continuare in campo asciutto: ma lì la mole del Grande è persino più temibile. Del resto per un ippopotamo la fuga equivale alla resa: ma che può fare ancora chi si è già arreso incondizionatamente? Ognibene non lo sa, non ha nemmeno tutto questo tempo per riflettere: dopo tutto, è solo un ippopotamo. L'istinto, in questi casi, può tirare strani scherzi. Di nuovo di fronte ai quattro denti orribili, Ognibene di scatto abbassa il capo nell'acqua, in apparente segno di riverenza: ma poi immediatamente lo risolleva in alto, le mascelle spalancate a sprizzare ettolitri d'acqua sul muso del Grande. Che affronto!

Il nostro eroe forse non lo sa (egli del resto non ha fatto che ripetere d'istinto la mossa di tante allegre battaglie vinte coi cugini all'asilo), ma ha commesso un atto di straordinaria impudenza. Spruzzare acqua sul muso dell'avversario, equivale, nella retorica marziale degli ippopotami, a una dimostrazione di potenza, al più teatrale dei segni di sfida. (Esiste forse in natura un animale più civile dell'ippopotamo, che combatte le sue guerre con la retorica, e non con la violenza? Ma d'altro canto, vi è al mondo una creatura più ipocrita di questa, che nasconde dietro gesti rituali il proprio istintivo odio verso il prossimo?) Il Grande, che forse in gioventù ha sfigurato dei rivali per molto meno, rimane interdetto. Sono anni che nessuno osa più spruzzarlo. Di solito tutto quello che deve fare è mostrare un po' i denti, e tutti scappano. Certo, ogni tanto si trova l'imbecille che è convinto di essere il più forte, insomma il classico attaccabrighe a caccia di cicatrici: e il Grande li incontra sempre volentieri questi qui, è sempre felice di poterli accontentare. Sì, perché la crosta dell'ippopotamo si rimargina in fretta, ma il segno dello sfregio resta: e un paio di segni è quello che ci vuole per crescere un po', sanguini per un paio di giorni ed intanto impari alcune cose, metti giudizio, insomma. È questo ciò che vuole il giovane Ognibene? Il Grande esita, strano per lui. Ognibene ha ricacciato il muso giù, nell'acqua, imbarazzato. Mamma mia l'ho fatta grossa, penserà. Il Grande lo guarda a bocca chiusa.

Perché ti risparmiò, Ognibene? Perché ti lasciò andare, senza neppure lasciarti un segno? Certo suona assurdo interrogarsi sui pensieri di un ippopotamo. Blasfemo, anche. Eppure: cosa gli passò per la testa in quel momento? Forse valutò che, per farti pagare l'affronto occorreva dissanguarti, magari ucciderti, e quel pomeriggio non aveva voglia? Forse non ti considerò nemmeno, pensò che trionfare su uno sfidante così inetto era un'infamia. O magari ti prese in simpatia per quel gesto folle, riconoscendo nella tua sfacciataggine quella delle sue prime batoste... Più probabilmente ti riconobbe per un bambino allontanatosi per sbaglio dall'asilo, le cui spruzzate non vanno prese sul serio perché si sa come sono i bambini. Fatto sta che rinunciò. Diede un grugnito, a bocca chiusa, e ti voltò le spalle. Bastò il grugnito a farti scappar via, a terra.

Questo, Ognibene, il tuo primo, fallimentare debutto in società. Oltre la laguna, sul greto del fiume, le mamme del tuo asilo ti riaccolsero come se nulla fosse successo. (Vi è in natura creatura più amorevole dell'ippopotamo, vi è una madre più generosa di quella che assiste a turno a tutti i cuccioli, e li riaccoglie tra sé quando essi, delusi dalla vita adulta, vogliono tornare?) Soltanto il Grande era stato testimone del tuo fallimento. Il Grande? Se tutti gli adulti erano come lui, tu potevi ben dire addio alla speranza di crescere mai...

– Invece crebbe, Ognibene: non ci mise un giorno e nemmeno una stagione; ci vollero altre prove, ed altri fallimenti, ma alla fine crebbe. Chi l'avrebbe immaginato, eppure succede a molti. Venne il giorno della vittoria, il giorno in cui altri chinarono il capo davanti a lui, e - ci credereste? Ognibene, che tanto aveva sognato quel giorno, disperando che arrivasse mai, ora non ci trovò nulla di particolare: lo considerò una cosa ovvia, una cosa dovuta. Ora era un maschio dominante, e i maschi dominanti hanno sempre la meglio, non c'è nemmeno da gloriarsene. Così, di lì a pochi anni, Ognibene divenne un protagonista. Le femmine lo cercavano volentieri, perché lui era socievole e generoso quanto bastava, e gli altri maschi si tenevano ad una rispettosa distanza. Prima che tornasse per la ventesima volta la stagione arida, Ognibene era già uno dei padri più richiesti e prolifici, e portava sulla pelle i segni del suo coraggio: proprio in quel periodo trovò anche modo, in una rissa, di scheggiarsi un dente. Sempre in quell'estate gli capitò, per la seconda ed ultima volta, d'incontrare il Grande.

Non saprei dirvi se lo riconobbe - del resto ora il più grande era lui. Inoltre era notte - luna piena - ora di pascolo, e l'istinto portava il nostro eroe affamato su sentieri nuovi, eppure in un qualche modo familiari. C'era odore di rivale in giro, ma Ognibene era tranquillo: la zona era piena di germogli. Dove passa un ippopotamo, non può esserci tanta abbondanza: allora, o il rivale è ammalato, o è morto addirittura. In ogni caso che si facesse vivo lui, se ci teneva: Ognibene non aveva paura di nessuno.

Non aveva tutti i torti. La stagione arida è sempre il momento critico, per gli ippopotami: gli specchi d'acqua si contraggono in polle di fango, e la maggior parte degli inquilini delle lagune scendono al fiume: là in pochi metri si addensano decine di ippopotami, e sono naturalmente risse a non finire. Poco cibo, poca acqua, nervi tesi: se passi l'estate hai passato il peggio. Ma accade a volte che alcuni tra i maschi dominanti rifiutino la promiscuità del fiume. Si sa, quando non fai che pensare al territorio, questo comincia a diventare un'ossessione. Così, talvolta, il territorio finisce per farti da tomba, quando al culmine della stagione il fango si asciuga fino a chiuderti in una morsa di creta secca.

Ognibene probabilmente non rammentò che il sentiero, sul quale un curioso istinto lo guidava, era quello percorso con trepidazione anni prima, nella prima libera uscita della giovinezza. E che la laguna, niente più di una polla di fango ora, era stato il teatro della sua prima battaglia. Fu lì, alla luce della luna che Ognibene lo vide: un vecchio conservatore prigioniero della sua testardaggine. Le crepe della sua corazza si confondevano con le screpolature dell'argilla. Cercò in un qualche modo di comunicare con lui? Provò ad aiutarlo, a dissuaderlo dall'assurdità del suo gesto? Anche se ne fosse stato in un qualche modo capace, Ognibene era arrivato troppo tardi. Non trovò di meglio che rimanere lì, perplesso, a vedere come se ne va un Grande. (Vi è al modo creatura più pietosa dell'ippopotamo, che veglia sulla sofferenza e sulla morte dei suoi simili?) Forse fu là in tempo per vederlo chiudere gli occhi: in ogni caso arrivò prima dei coccodrilli.

Ne passò un paio, mezz'ora dopo: gente coriacea, messasi in viaggio apposta dal fiume per quel salsicciotto cotto alla creta. Del resto bisogna capirli, l'Estate è dura per tutti.

Ognibene ha sempre odiato i coccodrilli: il suo più grande spavento di bambino fu il giorno che un finto tronco galleggiante, rasente la riva, non sollevò all'improvviso due spaventose tenaglie a pochi metri dal cucciolo: non fosse stato per sua madre, sempre all'erta, le avventure di Ognibene Ippopotamo sarebbero terminate lì. Ecco cosa le aveva insegnato d'importante sua madre buonanima: tutti temono i coccodrilli, ma i coccodrilli temono gli ippopotami. Quando vide che ringhiare a bocca aperta non li teneva lontani, Ognibene partì alla carica. Senza darci troppo dentro, o li avrebbe raggiunti: mentre invece il suo scopo era semplicemente allontanarli. Andò avanti per quasi duecento metri, poi li perse di vista e tornò indietro: c'era il rischio che quei rettili lo avessero aggirato. E poi...

(Si era appena voltato verso la tomba del Grande, quando udì il primo latrato). Ecco, arrivavano le iene.

I coccodrilli, le iene, e prima dell'alba sarebbero arrivati anche alcuni avvoltoi: ma a quell'ora Ognibene aveva già abbandonato la sua veglia funebre, distrutto. I coccodrilli li avrebbe sempre tenuti lontani, ma le iene sono terribili, col loro maledetto gioco di squadra. Prima o poi Ognibene era dovuto cascare in un loro tranello, depistato da una iena mentre l'altra affondava i canini nella schiena del Grande. Poi, non c'era stato più nulla da fare: gli spazzini, confortati dal successo e allettati dall'odore del sangue, erano tornati all'attacco ancora e ancora. Alla fine il branco era talmente numeroso che Ognibene fu praticamente ridotto alla fuga. Tornando nello stesso luogo, la sera successiva, vide le costole del Grande emergere dall'argilla; le iene se ne erano andate, mentre alcuni coccodrilli stazionavano: li mise in rotta. La notte seguente andò allo stesso modo. La quarta notte Ognibene non trovò nessuno: brucò erba e germogli tutt'intorno, e si chiese cosa ci faceva lì: non era suo territorio, e non era nemmeno un posto particolarmente felice.

Tre notti dopo scese la prima pioggia, improvvisa e tanto attesa. Dalle parti del Grande si rifecero vivi gli spazzini: cercavano altri resti della carcassa sotto l'argilla. Ognibene non li degnò d'uno sguardo. Passava di lì spesso, tutto sommato il posto gli piaceva; forse gli ricordava qualcosa (Cosa?) Col tempo, finì per eleggere la laguna (ora una vasta e dolce laguna, feconda di piante acquatiche e pesci) a capitale del suo territorio. Vi è forse creatura più felice dell'ippopotamo nella stagione delle piogge? La Natura lo ha provvisto di tutto, e nessun altro animale osa averlo per nemico. Soddisfatto della sua nuova e, il giovane ippopotamo dimenticò il Grande (solo i suoi denti orribili tornavano a visitarlo ad ogni sogno inquieto): o meglio, dimenticò che il Grande fosse mai stato qualcun altro se non lui.

– Perciò, nell'ultima tua stagione arida, Ognibene, quando da tempo la tua mole e i tuoi canini dominano incontrastati (ma le femmine negli ultimi anni, non gradendo il tuo pessimo umore, ti hanno decisamente emarginato), non ti resta che recitare la tua fine ingloriosa e coerente, nella morsa fangosa delle tue convinzioni. È un copione che già sai, anche se non ricordi il padre da cui l'hai appreso: ma in questa vita è il tuo copione. È già notte, notte di luna piena sull'altipiano: l'ultimo uccello nero ti ha lasciato da un pezzo. Difficile per un ippopotamo dormire di notte: e gli strilli di questi avvoltoi poi, sono una tale noia... forse con una buona spinta ce la faresti ancora a sollevarti; sei molto più forte di quanto non si creda; e fuori di lì c'è ancora qualcosa da brucare: nessuno può darti noia, tu sei il Grande. Ma il fatto è che non vuoi.
Ora, che male c'è in fondo se un ippopotamo preferisce morire, per coerenza, o pigrizia, o qualsiasi altro motivo? Esso è sempre un dono: da vivo mantiene pesci e uccelli, da morto satolla coccodrilli e iene. Se non lo molesti non ti darà fastidio: e nessuno lo molesta, gli stessi leoni e le pantere se ne guardano bene. La natura gli ha dato tutto. Chi non ha avversari degni, deve saper decidere la sua fine da solo. E così Ognibene: il più potente, il più grande, la prima delle opere di Dio.



******* FINE DELLE 21 NOTTI *******

Grazie per la pazienza
Comments (7)

Razza di parassita

Permalink
(1998)

Sono fermamente convinto che di esemplari come Mimmo ce ne siano ancora, da qualche parte. Certo, gli spazi disponibili per quelli come lui si devono essere ristretti, con la precarietà e tutto quanto. Quando lo incontrai – ehi, parliamo di quasi vent'anni fa – i contratti a progetto erano quasi fantascienza, il posto fisso una cosa data per scontata, e quelli come Mimmo erano in qualche misura tollerati. Finché non davano fastidio a nessuno. Anzi, probabilmente la presenza di Mimmo a qualcuno conveniva. Sì, ne sono convinto, non avrebbe potuto prosperare per tanto tempo senza la complicità di un dirigente. Un parassita più grosso di lui?

Io ero giovane, ero lì per uno stage. Da solo non avrei mai saputo distinguere Mimmo dagli altri. Dalla cravatta, sempre dello stesso colore? Non badavo alle cravatte (ero giovane). Mi pare che d'estate anche lui di adeguasse al clima, che portasse qualcosa di più leggero o colorato. Ma nelle altre stagioni la sua uniforme era la giacca e la cravatta, rigorosamente blu. Oggi forse il venerdì casual gli darebbe qualche difficoltà. Ma probabilmente sarebbe in grado di adattarsi.

Di carattere? Un tipo piuttosto taciturno. Certo, se lo salutavi ricambiava il tuo saluto. A voce? No, solo con un cenno del capo: non lo avevo mai sentito parlare. E dove lavorava? Aveva un cubicolo al sesto piano, come tutti gli impiegati di terzo livello: però non stava alle Politiche Giovanili, come me e Arci. Noi, vedendolo spesso passare per il nostro corridoio (curioso, però, non averlo mai incontrato in ascensore), davamo per scontato che fosse uno dei 'ragazzi' dell'ufficio Relazioni col Pubblico: uno dei tanti imboscati storici in quel favoloso reparto di cui si raccontava che si lavorasse al dieci per cento, e che fosse pieno di nipoti e di amanti di Assessori. Finché durante un rinfresco, un compleanno o una laurea o non so, Arci non si portò nello sgabuzzino una dell'URP, con la quale poi ebbe una storia importante, per una settimana. Da lei apprese, primo, che alle Relazioni pensavano la stessa cosa di noi delle Politiche Giovanili; secondo, che Mimmo non era loro collega, non sapevano nemmeno bene chi fosse. Il suo ufficio era relativamente più piccolo degli altri: schiacciato in un angolo cieco del sesto piano, fuori dalle abituali rotte di transito, dove il neon, difettoso, sfrigolava bagliori a intermittenza. Per arrivare fin lì bisognava avere qualcosa da dire proprio a Mimmo: una pratica da affidargli, un parere da chiedergli, ma appunto, nessuno aveva nulla da dire o da chiedere a Mimmo; nessuno lavorava con lui, e questo significava che Mimmo non aveva nessun vero lavoro, nessuna vera mansione.

“Chissà come è riuscito a ficcarsi laggiù” si domandava il mio collega. "Magari era lì anche prima dell'ultima razionalizzazione. C'era un archivio là in fondo. Va' a sapere, quando si sono spostati a pian terreno lui ha fatto finta di niente, e nessuno si è ricordato di lui. E da allora è laggiù che non fa un accidenti dalla mattina alla sera, ti rendi conto?
“Almeno lui non disturba, Arci”.

Mi davo parecchio da fare in quel periodo (ero giovane). Credevo in tante cose: nella pubblica amministrazione, nel mondo del lavoro in generale, persino negli stage gratuiti, e non mi costava nessuna fatica, perché credevo in me stesso. Ad Arci invece sembrava già non interessasse nulla, né l'opportunità di svolgere al meglio un lavoro di responsabilità, né la necessità di progettare una carriera. Vivacchiava. La settimana precedente l'aveva riempita romanzandomi la sua tresca con la tizia delle Relazioni Pubbliche: poi la storia aveva annoiato persino lui, e ora non trovava più niente di meglio di Mimmo per seccarmi.

“Alla fine lui è l'unico vero professionista qui dentro, pensaci. Se ne sta lì da anni e nessuno lo nota, nessuno lo disturba. Stamattina ho chiesto a un tizio giù in archivio, e all'inizio non si ricordava di nessun Mimmo. Poi gli ho spiegato la posizione dell'ufficio, e alla fine, salta fuori che uno simile c'era qui già a quei tempi, e ti parlo di dieci-dodici anni fa…”
“Simile in che senso?”
Già, che voleva dire? Erano tutti simili a lui. Giacca, cravatta e poche chiacchiere. Tranne Arci, che proprio per questo secondo me non sarebbe durato. Questione di mesi, pensavo, forse di settimane…al primo scossone, alla prima muta stagionale…
Mi sbagliavo, Mimmo se ne andò per primo.

Andò così: un lunedì mattina il neon malfunzionante dell'angolo cieco rifiutò di accendersi. Fu chiamato l'addetto manutenzione, il quale, mentre montava il pezzo nuovo, rimase colpito dall'odore che proveniva dal cubicolo dietro lo sgabuzzino delle scope. Senza motivo si era spaventato, e aveva cercato nel corridoio qualcuno che andasse a mettere il naso in quella cella al posto suo. E chi aveva trovato? Arci naturalmente, in pausa sigaretta già alle nove del mattino. Davanti alla possibilità di mettere finalmente il naso nei misteriosi affari di Mimmo non aveva esitato un attimo ed era corso a forzare la porta del suo ufficio…

Cinque minuti più tardi era passato da me. Sorrideva con la sua smorfia solita, ma era piuttosto pallido. "Se hai un attimo, vorrei che tu vedessi una cosa".
“Avrei da fare…sicuro che è importante?”
“Sicuro? Non lo so. Può anche darsi che non sia nulla, in effetti. Anzi, se ora vieni anche tu, e mi dici che non vedi nulla, tanto meglio. Vorrebbe dire che sono impazzito, eh eh. Ma preferirei”.
“C'è qualcosa che non va?"
“Mimmo”.
“Cos'ha Mimmo?”.
“Ha fatto le uova”.

Nella sua cella non c'era più – non c'era mai stato. C'eravamo aspettati l'ufficio di un imboscato, poster sconci e riviste nel cassetto della scrivania? Non c'era nemmeno la scrivania. Sul pavimento, accatastati in maniera balorda, pezzi di cartone e vecchie scartoffie rosicchiate: se avessimo cercato lì dentro avremmo senz'altro trovato vecchie pratiche nostre, ormai date per disperse. Ma avevamo orrore anche solo a toccare. Ancora più della paura, era quell'odore a paralizzarci.

Non era un odore disgustoso, ma troppo pungente e alieno. Gli odori che noi mammiferi non sopportiamo sono per lo più quelli di escrementi e carne putrida; ma quell'odore non aveva nulla a che fare con la carne: era qualcosa di dolciastro. Proveniva da quell'ammasso nero che ingombrava il pavimento: qualcosa di simile a un enorme scarafaggio con una specie di proboscide, e dalla corazza nera, con riflessi bluastri, che marciva in mezzo alla stanza. Era grande all'incirca come Arci… o come me. E un po' mi assomigliava.

"E dire che me l'avevano detto giù all'archivio, che anche loro una volta avevano trovato un affare così: ma io credevo che mi prendessero in giro. Guarda qui". Vincendo la repulsione, col coraggio sbruffone di un bambino che ispeziona un topo morto, il mio collega spostò la proboscide piatta e sottile che per giorni innumerevoli, mentre strisciava lungo i corridoi, avevamo scambiato per una cravatta. Sopra c'era una cartilagine dalla tinta rosastra, la cosa più orribile che ho mai visto in vita mia: una perfetta imitazione della faccia di un uomo.

"Secondo me si nutre rosicchiando le pratiche. E l'inchiostro della stampante: vedi?" intorno alla proboscide c'era una spessa farina nera. "E anche il gas del neon, per questo funzionava sempre male".

In seguito ho letto dei libri, mi sono fatto una cultura. Ho imparato che nella jungla indonesiana, dove abitano le specie di formiche più organizzate e devastanti, vive anche un ragno che ha la forma di due piccole formiche, una che trascina l'altra. Forse, su miliardi e miliardi di casi, accade anche che qualche formica operaia degni la sua apparente collega di una seconda occhiata. Come reagirà, questa formica su un miliardo, scoprendo d'un tratto di vivere circondata da mostri suoi simili? Io e il mio collega passammo il resto della mattinata a cacciare le piccole larve che avevamo scoperto a formicolare in un angolo della stanza. Da lontano sembravano mosconi senz'ali: ma osservandoli da vicino potevi accorgerti che portavano la giacca e la cravatta, e avevano un volto inespressivo e un po' pallido. Schiacciarli ci avrebbe fatto troppa impressione, così di solito li caricavamo sul lembo di una pratica e li andavamo a buttare nel gabinetto. E per tutto il tempo mi toccò sentire i balbettii di Arci che continuava a ripetere, tra l'estasi e l'orrore: “Che razza di parassiti. Professionisti. Che razza di parassiti professionisti...”

FINE
*******
"Beh, Taddei, che dire. Vedo che anche tu saccheggi i classici. Ma almeno D.A. Wollheim non è più tra i viventi. O pensavi non lo conoscessi?"
"Mia signora, ho avuto così poco tempo..."
"Bla bla bla, chissà che lagna devi essere sul luogo del lavoro. Qualcun altro ha qualcosa da dire?"
Prese allora la parola il Prof. Esso. 
"Mia signora", disse, "più che un plagio credo che un racconto del genere possa essere considerato un omaggio..."
"Cos'è, vuoi cercare di farti perdonare la sua quasi eliminazione? Non è un buon segno, sai Taddei? Il professore di solito se la prende coi più forti. Se mostra di apprezzarti, evidentemente non ti considera un avversario all'altezza. Del resto, lo vedremo domani sera. E ora via, che domani alle sette comincia il corso prematrimoniale intensivo. Sì, sono una ragazza all'antica"...
Comments (1)

Sono schizzato e mi piaccio così

Permalink
(2008-9)
Ciao, sono il tuo telegiornale delle Tredici! La tua finestra sul mondo! Peccato che il mondo faccia schifo. No, sto scherzando, è tutto molto divertente.

Nei primi dieci minuti ci saranno interviste a dei politici presi per strada che si rimbeccano. Questo è effettivamente molto noioso, ma il Direttore sostiene che c'è una legge che lo costringe, e che comunque se un giorno sbagliasse il minutaggio licenzierebbero lui la moglie e i discendenti fino alla settima generazione. Ehi, sembra che a qualcuno sia successo davvero.

Apprezza almeno lo sforzo: anche se i politici che parlano sono quasi sempre le stesse mezze calze, i miei operatori si sforzano di trovare ogni giorno un'inquadratura diversa. Così almeno ti mostriamo un po' di Città Eterna a ora di pranzo; e poi anche loro riescono più spontanei, più naturali. Le loro dichiarazioni sembrano estorte a forza dopo ore di pedinamenti, e questo se vuoi è paradossale, perché la loro mansione di Portavoce consiste appunto in questo: uscire da Montecitorio, sparare una cazzata anche breve che comunque taglieremo, e andarsene per i fatti loro. Bella vita, eh?
No, in realtà dev'essere frustrante.

Vengo alle buone notizie. E' da un po' che ti parlo della nuova influenza, ebbene, pare che non ci sia nulla da temere, infatti l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha annunciato che si tratterà di un'ORRIBILE PANDEMIA. Moriranno appena MIGLIAIA DI PERSONE VACCINIAMOCI TUTTI SUBITO, VACCINIAMOCI PRESTO COSA FAI LI' VECCHIETTO, CORRI A VACCINARTI. Insomma, l'allarme è praticamente PANDEMIA! rientrato. PANDEMIA! Basta così, speriamo sia passato un PANDEMIA! messaggio rassicurante.

Ecco, finalmente siamo arrivati alla Cronaca, che poi è quello che m'interessa (no, in realtà non me ne frega niente). Dunque. C'è un tale in un quartiere di una città che ha ucciso un bambino. Pare gli sia saltato alla gola. L'assassino è uno straniero originario dell'... dell'Anatolia. Notizia tremenda, eh. C'è davvero da aver paura ad andare in giro, con tutte queste brutte facce... Stacco. Pare che in Italia ci sia un'emergenza razzismo. Lo dice una ricerca di un'università. Pazzesco, ma ti rendi conto! Il razzismo! In Italia! La ricerca dice che i mass media tendono a dare risalto ai crimini commessi da stranieri bla bla bla... a questo punto ti saresti già annoiato, quindi ho montato si seguito l'intervista a uno psicologo che l'anno scorso ha detto ai nostri microfoni che razzismo è brutto, razzismo non si fa. Poi c'è un incidente sull'autostrada, il conducente è positivo al palloncino, vergogna!

Ok, e veniamo all'Orribile Processo. Di' la verità, cominciavi a temere che non te ne avrei parlato, eh? Oggi pare che l'Imputata Bionda abbia scambiato uno sguardo con l'Imputato Scuro. Forse era uno Sguardo d'Intesa, ma potrebbe anche essere uno Sguardo di Disapprovazione, in effetti l'unica sarebbe fartelo vedere, ma in quel momento il cameraman s'era distratto, comunque fidati. È tutto? Sì, perché le deposizioni erano noiosissime e noi non vogliamo farti cambiare canale, soprattutto adesso che tra tre minuti c'è la pubblicità. E quindi... beh, abbiamo pensato di approfondire mostrandoti la fila di gente che c'è fuori! Una fila di gente che vorrebbe entrare a vedere l'Orribile Processo, non lo trovi morboso? Abbiamo attaccato la dichiarazione di un vip che lo trova morboso. Oddio, vip... in realtà è un poeta di cui nessuno conosce un verso, ma ha una raccomandazione di ferro della Congregazione Opere Mariane. E poi abbiamo intervistato i vecchietti in fila. Sono sempre morbosi, i vecchietti.
No, in realtà mi stanno simpatici.

A questo punto, senza nessun preavviso, comincia lo spezzone preferito dai bambini e dalla quota cacciatori della Lega: gli animali! I nostri piccoli grandi amici! Purtroppo non riusciamo più a mostrarti l'orso Knut, si è mangiato gli ultimi tre cameramen che si sono avvicinati. Pensavamo di farti vedere un cucciolo di foca orfano allattato a biberon, ma all'ultimo momento c'è arrivata un'agenzia: in un quartiere di una città un bambino è stato morso alla gola da un cane! Sì, vabbè, povero bambino, ma il cane? Vogliamo parlare del povero cane? Quale sarà il suo futuro? I cani come sapete sono buoni di default, e se per caso a uno scappa di sgozzare un bambino, chissà che infanzia di privazioni e crudeltà si porta dietro. Poi i bambini, diciamolo, certe volte non sanno veramente trattare i cani. Schizzano da tutte le parti, li eccitano... vogliamo un po' parlare della responsabilità di chi non li addestra?

Sì, lo so, è la stessa notizia di prima. Mi sono accorto che ad essere saltato alla gola del bambino è stato un "pastore dell'Anatolia”, embè? No, ma se tu leggi un'agenzia con scritto “pastore dell'Anatolia”, pensi prima a un cane o a una persona?
Come? Ma certo che funziona così:

straniero sgozza bambino = colpa straniero;
cane sgozza bambino = colpa bambino. 

Lo trovi strano? Non è affatto strano. È molto semplice: nel consiglio di amministrazione abbiamo tre padroni di cani e nessuno straniero. Adesso però veniamo alle cose serie. Pubblicità.

Automobili grosse, automobili veloci, bevande alcoliche, aperitivi alcolici, digestivi alcolici, gomme da masticare che pagano gli art director direttamente in psicofarmaci, compagnie telefoniche che cercano di strapparsi i clienti esausti, succhi di nulla al gusto di qualcosa che rafforzano, ah ah ah, le tue difese immunitarie, no scusa, ah ah ah, ma sul serio ti bevi tutta questa roba? E la prossima volta cosa ti venderemo? La polverina che scioglie le calorie? Certo, come no, abbiamo brevettato una sostanza che infrange le leggi della Termodinamica e invece di usarla per possedere il mondo te la vendiamo sotto le feste di Natale a prezzi modici!

Fine del momento serio.
Costume e Società. Allarme dei medici: la gente prende troppi antibiotici! Ma ogni antibiotico non fa che selezionare batteri più forti, e andando avanti così tra qualche anno i batteri diventeranno... chissà poi se era così interessante questa notizia, mah. Nel frattempo comunque ti abbiamo mostrato tre minuti di gente che starnutisce e tossisce sotto la pioggia e un sacco di pilloline dai colori sgargianti; speriamo che sia passato il messaggio giusto. Ah, dimenticavo: PANDEMIA!

E poi c'è il super-mega-concorso che sta facendo perdere il sonno agli italiani, che spendono un sacco di soldi per vincere il super-mega-jack-pot. Abbiamo intervistato uno psicologo che dice di stare attenti, che uno rischia di perdersi tutti i risparmi, giocando a questo super-mega-concorso con il super-mega-jack-pot. Che sciocchi, eh, questi italiani che... ma ti ho già detto che c'è un super-mega-jack-pot? No, sai, non vorrei mai venir meno al dovere di cronaca. Dunque, dicevamo, mi raccomando, non dilapidate i vostri risparmi per vincere questo SUPER-MEGA-JACK-POT. Così lo vincerà qualcun altro. Magari proprio dal tabacchino sotto casa tua, perché chi lo sa, in fondo potrebbe avercela lui, la scheda che vince il SUPER-MEGA-JACK-POT.

A grande richiesta: cucina! Che ne pensi della trippa? Lo so, è repellente, ma oggi ho deciso che la trippa è sexy, e ho qui le foto di uno chef superstellato che fa una trippa fantastica, la farcisce, la frigge, la impana, poi butta via la trippa e serve tutto il resto e guarda che roba, guarda! magari è immangiabile, ma guarda che colori, che contrasto, che saturazione, col montaggio serrato sulla preparazione, c'è dell'arte qui, e mentre mi guardi manda giù pure la tua pasta scotta, con un bicchier di vino che fa bene, dicono i medici.

E adesso che c'è... ah, già, modelle. C'è rimasta la marchetta alle ultime due case di moda importanti, poi se Dio vuole la stagione Primaveraestate è finita. Siccome però notizie da abbinare agli outfit non ne abbiamo, pensavamo di risolvere anche stavolta il problema così: mostriamo solo le modelle più ossute e intervistiamo uno psicologo che dice che l'anoressia è un problema. Quindi beccati altri due minuti di modelle ossute... Ehi, ma hai visto che bel pellicciotto quella lì... ah, è foca? Però. Proprio bella, eh. Certo, ne dovresti perdere di chili per entrarci. Però col nuovo prodotto che scioglie le calorie, chissà.

E questo è tutto. Ciao dal tuo Telegiornale, la tua finestra del mondo.
Sì, lo so, sono schizzato. E mi piaccio così.
No, non è vero, mi faccio schifo.

FINE

*******

"Sono perplessa", confessò la pensosa Verola. "Anche questo mi pare un racconto in senso molto, molto, molto lato. Si direbbe che l'argomento che vi ho proposto non consenta un normale sviluppo narrativo. Oppure ho invitato una mezza dozzina di deficienti, anche questo è possibile. Prof. Esso, ce la fai a portarci qualcosa di passabile domani?"
"Non dovrebbe essere così difficile, mia signora".
"Ecco, appunto. A domattina allora, e mi raccomando, domattina puntuali a pilates".
Comments

Adriano è un Celenterato

Permalink
(ATTENZIONE: questo è il pezzo più spocchioso che io abbia mai scritto. Forse è il pezzo più spocchioso che sia mai stato scritto da un essere senziente. Io ve l'ho detto.)

I celenterati sono un tipo di animali acquatici caratterizzati da una struttura molto semplice. In sostanza il loro corpo è un sacco (munito di tentacoli) che all'interno funziona da apparato gastrico. Per far entrare il nutrimento nel sacco, e per espellere ciò che non riescono ad assorbire, i celenterati dispongono di un unico orifizio (insomma, sì, bocca e culo per loro è la stessa cosa). I celenterati ancorati ai fondali si chiamano polipi; quelli che si muovono con le correnti sono chiamati meduse; quello che si muove sui giornali e nella tv italiana si chiama Adriano.


Ho una teoria #46: Adriano è un Celenterato. Si legge sull'unità.it, ovviamente, e si commenta qui.

L'Homo Celentanus è una forma primitiva di homo televisivus che si diffuse in maniera indisturbata nell'etere tra il pleistocene e la prima metà degli anni Ottanta. Il segreto del suo successo era la sua semplicità: come gli altri esemplari della famiglia dei celenterati (polipi e meduse), i celentani sono in pratica composti da un sacco (in greco celenteron) circondato da tentacoli, che funge da apparato digerente. L'unica apertura nel sacco serve a introiettare il nutrimento e a espellere gli escrementi. Il celenteron ovviamente è uno stomaco primitivo, che può nutrirsi soltanto di informazioni molto semplici, o masticate in precedenza da qualche animale più grosso, come il minzolino o il mimun.

L'analisi delle deiezioni del celentanus è stata croce e delizia di generazioni di tele-zoologi. Se in passato l'animaletto ha goduto dei suoi momenti di sovraesposizione, in cui ci si precipitava ad analizzare qualsiasi schifezza gli uscisse dalla bocca, oggi viceversa si rischia di snobbarlo. Ed è un peccato, perché esso ha ancora qualche cosa da insegnarci. In questo senso il documento pubblicato lunedì scorso dal dottor De Bortoli merita un'analisi meno frettolosa di quelle lette in giro.

Abbiamo spiegato che il celentanus si nutre esclusivamente di informazioni semplici: servizi dei telegiornali e titoli dei quotidiani. Tutto ciò che v'è di più complesso (in pratica il 90% delle informazioni in cui nuotiamo), il celentanus nemmeno lo vede. Egli è immerso nella stessa complessità in cui siamo immersi noi, ma è sensibile soltanto a stimoli estremamente basici e violenti. Per questo noi organismi complessi possiamo ricorrere al celentanus per capire, in tanto caos, quali sono le informazioni che hanno realmente 'forato' l'attenzione anche degli animaletti primitivi. Particolarmente degne d'interesse sono le deiezioni che il celentanus ha dedicato a Gianfranco Fini.

Noi creature complesse a questo punto disponiamo di un'enorme mole di dati riguardo la svolta di Fini. Abbiamo quantità di pareri e contropareri; anche sul caso-Montecarlo, i giornali e internet ci forniscono l'imbarazzo della scelta. Per contro, di tutta questa faccenda, il celentanus ha trattenuto soltanto i cinque minuti di "dignitosissimo" videomessaggio di Fini agli italiani. Senza avere nessuna idea chiara dei motivi che hanno portato Fini alla rottura con Berlusconi; della complessa guerriglia in corso nel centrodestra; dell'intricata vicenda immobiliare, il celentanus ha capito soltanto che il protagonista del video "ha dato l'impressione di essere attualmente l'unico Leader in grado di dialogare e mettere insieme, sulla via della LIBERTÀ e della DEMOCRAZIA, quello che di BUONO c'è, qua e là nei vari movimenti e partiti". La reazione del celentanus ci dà la possibilità di capire come un breve e "dignitoso" videomessaggio sia stato molto più efficace di quaranta giorni di prime pagine strillate sul Giornale. Fini non avrà convinto tutti, ma i celenterati li ha convinti; e non sono pochi.

Altrettanto interessante è la reazione del celentanus al fenomeno "Masi". Nelle ultime settimane noi organismi complessi abbiamo accumulato nei confronti di Masi diverse lagnanze, per come sta gestendo i rapporti con professionisti come Santoro o Fazio, e personaggi popolari come Saviano. A questo punto perfino un organismo semplice come il celentanus capisce che c'è qualcosa che non va. Ma ad attirare la sua attenzione non è, per esempio, la questione dei compensi (troppo complessa), bensì un dettaglio che a molti di noi potrebbe persino essere passato inosservato: gli applausi. Il celentanus stronca violentemente Masi, chiamandolo"DITTATORE generale della Rai" non perché di fatto boicotti i programmi di qualità, ma perché"addirittura vuole selezionare il numero degli applausi imponendo un pericoloso COPRIFUOCO sulle espressioni che deve avere il pubblico in sala". A noi creature complesse di solito i battimani danno fastidio: sono come le sottolineature nei libri dei bambini, servono ad attirare un'attenzione che gli adulti dovrebbero essere in grado di mettere a fuoco da soli. Viceversa, il celentanus ne ha bisogno per capire quello che vede: probabilmente non è in grado di giudicare la validità di un'affermazione non applaudita. Per lui gli applausi sono una questione di vita o di morte, o meglio: di democrazia o dittatura.

Da qui il celentanus parte per cercare di spiegare cos'è per lui la democrazia (tentativo lodevole e perfino commovente, da parte di un sacco gastrico appena provvisto di qualche tentacolo). Democrazia sarebbe dunque una condizione, un regime o per meglio dire un programma, in cui tutti possono applaudire quanto gli pare. A questa riflessione si mescolano però anche frammenti di cronaca nera che hanno turbato la digestione del celentanus - così come tutti noi. Si noti questo esemplare di deiezione, in cui il tentativo di spiegare a sé stesso cos'è la democrazia si mescola in modo inestricabile a osservazioni sull'omicidio Scazzi, producendo un disperato ma affascinante nonsense: la povera ragazzina sarebbe stata uccisa dallo zio per... difetto di democrazia?

"Ma chi è il vero democratico? Non conosco esattamente la definizione di questa parola [il celentanus, in quanto diblastero, non è in grado di consultare un vocabolario, ndb] e non saprei dire il perché, ma tutto mi fa pensare che il vero democratico ha il senso della misura in ogni sua manifestazione. Nella trasparenza, nell'onestà, nella forza e nell'essere sinceri anche quando la verità ti può danneggiare. Alla fine risulta molto più dannoso occultare che confessare. Pensando all'orribile tragedia di cui tanto si parla in questi giorni, si dice che lo zio di Sarah l'abbia uccisa per nascondere gli abusi su si lei. Certo sarebbe stata grande la vergogna e l'umiliazione che avrebbe subito se avesse ammesso. Però Sarah sarebbe viva e lo zio non si sarebbe macchiato di un delitto così grave. E allora forse democrazia, per come la intendo io, significa anche non aver paura di ammettere."

Il celentanus è un organismo timido, che esce poco e comunica anche meno: sbaglia tuttavia chi lo ritiene inoffensivo. Il documento del dott. De Bortoli si conclude infatti con un violento attacco ad un'altra creatura dell'etere televisivo, l'Homo Sgarbi: una specie molto più aggressiva che si diffuse nel medesimo habitat in un'era di poco successiva, di fatto ponendo fine al dominio incontrastato del celentanus, che sopravvisse soltanto in alcune nicchie protette. Di fronte all'immagine reiterata dell'H. Sgarbi, l'animaletto smette ogni tentativo di simulare una posa riflessiva, e sbotta in una reazione velenosa e istintiva ("ma VAFFANCULO Sgarbi, adesso ci hai proprio rotto i COGLIONI!!!"), a cui seguono oscure minacce ("Poi non piangere se in televisione non ti invita più nessuno. Stai pur certo che dopo anche Paragone ti molla, non credere..." Non è dato sapere chi sia questo "Paragone", anche se secondo alcuni esperti si tratterebbe di una livida creatura delle oscurità televisive, in onda a ore tardissime, in presenza della quale anche il fitoplancton cambierebbe canale). Il dott. De Bortoli è stato molto criticato per aver pubblicato questo interessante documento senza censure. Io dico che ha fatto bene: le creature della natura vanno mostrate per quello che sono, senza pretese di addomesticarle. Fu lo stesso De Bortoli a mostrarci la via, diversi anni fa, pubblicando in presa diretta le parolacce e gli sbrodolamenti senili dell'Oriana Fallacis. Molti lo criticarono anche allora, ma l'interesse naturalistico del documento era indubbio... e poi, evidentemente, un pubblico per questa robaccia c'è. (http://leonardo.blogspot.com)
Comments

ἔνθα δ' ἀνὴρ ἐνίαυε πελώριος, ὅς ῥα τὰ μῆλα

Permalink
La terra dei ciclopi

Adesso forse possiamo dircelo senza scandalo: non sarebbe un Paese migliore, l'Italia, se portasse agli stranieri in attesa di giudizio lo stesso rispetto che offre ai cani rognosi che uccidono donne e bambini?

Ora, è normale che un uomo che stupra e uccide sia più odioso ai suoi simili di un animale selvaggio. Ma com'è che il signore che applaude il linciaggio del primo rumeno intravisto nel luogo di uno stupro è spesso lo stesso pronto a ribadire che l'animale assassino non va abbattuto ma capito, che è vittima di una politica dissennata che provoca il randagismo, e che quindi la colpa alla lunga tocca sempre all'uomo? Il che non è nemmeno sbagliato, in una prospettiva razionale; ma com'è che siete razionali solo quando vi toccano gli animali?

Perché bisogna sempre fare uno sforzo di capire l'animale, anche quando è rabbioso e ringhia? Perché uno sforzo simile non se lo meriterebbe anche lo straniero povero e non integrato? Forse che anche lui non è un po' vittima di un sistema che non funziona, di circostanze sfavorevoli? No, lui no, lui è una bestia feroce. Va interrogato finché non lo ammette.

Ricordiamoci che nessuna delle due emergenze (randagismo e stupri) è un'emergenza vera: gli stupri non sono in aumento, e i cani italiani mordono meno di quelli svizzeri. Sono entrambe fenomeni mediatici, che procedono da fatti orribili e poi, telegiornale dopo telegiornale, diventano qualcosa di più: messaggi in codice, facilmente decifrabili, che ci annunciano che nessuno è al sicuro. Va bene. Ma poi dovreste spiegarci perché l'emergenza rumeni funziona meglio di quella dei cani. Perché nel secondo caso ci sarà sempre un esperto che fa da contraltare, e che ci spiega che in fondo in fondo il cane non è cattivo e non va abbattuto indiscriminatamente; mentre quando è l'ora di linciare il rumeno un esperto del genere non c'è, non si trova, e anche se si trovasse probabilmente non riusciremmo ad ascoltarlo, ci farebbe troppa rabbia.
Invece l'avvocato dei cani riesce sempre a toccare qualche corda giusta, anche nel cuore di chi ai cani è allergico, come me. Se chiudo gli occhi me lo immagino in camicia di fustagno e cappello di paglia, mentre sentenzia: più conosco gli omini, più voglio bene alle bestie. Questa non è la solita lagna animalista o politically correct, la gente così divora tegami di mezze maniche al sugo di cinghiale. È la saggezza contadina, forse, o forse qualcosa di più antico, di quando eravamo poco più di bestie anche noi: pastori.

Viene in mente Omero, che della nostra terra aveva vaghe nozioni, e dei suoi abitanti forti pregiudizi: mostri deformi e pelosi, in grado di badare agli animali e poco più, incapaci della più elementare forma di civiltà: il rispetto per gli ospiti. Quando l'uomo greco, civile e curioso, arriva sulle nostre spiagge e s'infila nella nostra grotta per scambiare un dono, noi lo facciamo a pezzi e lo mangiamo crudo. Le uniche creature che trattiamo con pietà, persino con tenerezza, sono le nostre greggi, e perfino l'astuto Ulisse deve ricoprirsi di un montone per rimediare da noi una carezza. Forse davvero i ciclopi siamo noi.
Comments (33)

chi fa sempre divertire i grandi ed i piccin?

Permalink
In questi giorni invidio un po' chi non ha visto Ratatouille e può fare la fila al botteghino per vederlo la prima volta. Chi torna a casa poi se vuole può finalmente leggere cosa ne avevo scritto io (so che c'è gente che - giustamente - questi pezzi preferisce leggerli dopo la prima visione). Così lo re-incollo qui.
E questo cos'è? Non ci sono già stati abbastanza cartoni con il gatto e il topo? (I manager della MGM ad Hanna e Barbera, nel 1940).

Una delle principali differenze tra la realtà e l’animazione è il topo. Il topo di cartone è istintivamente simpatico: canta, balla e si fa beffe dei grandi. Il topo vero è una bestia orrenda, un parassita e un untore. Questa differenza, che abbiamo tutti afferrato in età prescolare, è uno dei grandi misteri della cinematografia. Perché Disney, tra una varietà infinita di animali esotici e da cortile, si fissò sul topo? Perché Mickey il Topo ha fatto il botto e Felix il Gatto no? Nel Trecento i ratti sui bastimenti che venivano da Oriente portarono un’epidemia di peste che dimezzò la popolazione europea: la salvezza fu un nuovo animale domestico importato dall’Africa, il gatto. Eppure i bambini tifano per Jerry e contro Tom.
E non i bambini di oggi, disinfettati ai limiti della sterilità, che di topi ne vedono solo sullo schermo piccolo o grande. I bambini degli anni '40 che in mezzo ai topi ci vivevano, in case con buchi nel battiscopa e rumori in cantina. Al cinema ridevano (grandi e piccoli) per il topo di cartone; poi rincasavano e controllavano le trappole.
Magari il tifo per il topo era il primo accenno di ribellione del piccolo di casa: una specie di solidarietà tra le piccole creature sempre affamate. Ci saranno stati bambini che di nascosto portavano briciole al roditore. Credo che uno dei passaggi cruciali della pre-adolescenza sia quando ti accorgi che Jerry non è poi così simpatico, anzi, a ben vedere è uno stronzo, e cominci a tifare per il suo avversario frustrato. Fine della solidarietà tra le piccole creature: diventi grande, cominci ad avere paura dei germi e a sviluppare il senso della proprietà: giù le mani dalle nostre provviste, parassita!
Cosa c’è nella stanza 101? (Winston del Grande Fratello)

Ratatouille è un film piuttosto strano, anche per la media della Pixar. Per quanto la consociata della Disney rifugga le trame scontate, tutti i suoi film mantengono un sano contenuto morale, di quelli che si possono condensare in due righe e che mettono d’accordo grandi e bambini (i grandi devono lasciare lo scetticismo nel vestibolo, s’intende): per esempio Mosters & co. dimostra che la fantasia vince sempre sulla paura, Nemo ricorda ai genitori che i figli devono imparare a nuotare da soli, proprio perché il mondo è vasto e alieno come l’oceano; Cars insegna a grandi e piccini il valore dei rapporti umani, che trionfa sulla grande competitività universale. E così via. Anche Ratatouille ha una morale e un lieto fine, ma zoppicano. Sembrano appicicati per contratto.

Tutto ciò per dire che davanti a Ratatouille si sta a bocca aperta per l’esperienza della visione che dà, quasi travolgente. È su questa sensazione di realismo cartoonesco che poi si muove l’amore per i personaggi (Secondavisione)

Il film (che è bellissimo, se non avete la fobia dei topi, ed è andato meglio in Francia che negli USA) non è americano al 100%. L’idea è di Jan Pinkava, britannico d’origine boema, già premio Oscar per un corto. Gli uomini della Pixar devono averne apprezzato soprattutto il senso della sfida: dopo aver creato con Cars un mondo cromato e arrugginito, in cui l’automobile è Natura, i canyon hanno le sagome di vecchie cadillac e le nuvole sono strisce di pneumatici, stavolta si trattava di stravolgere uno degli archetipi dell’animazione: il Topo. Togliere al Topo il cravattino di Jerry e le braghette di Mickey. De-antropomorfizzarlo, riportarlo alla natura, alla sua condizione di scroccone purulento. E poi rimettersi nel suo punto di vista: il punto di vista di un animale braccato, per il quale anche una vecchia zia borgognona è un orco sterminatore, e la sua vecchia spingarda lancia razzi Terra-Aria.

È ingiusto, ma è normale: ai bambini piacciono gli animali piccoli, vispi e birichini.

L’altra scommessa era il cibo. L’ultima frontiera del digitale è rendere l’organico coi pixel: le croste croccanti, il verde delle muffe, il ribollire di una salsa. E dopo avere programmato cibo vero e ratti veri, farli interagire in un film per bambini. Trasformare un’orda di ratti sporchi e scrocconi nel personale di un ristorante francese: una sfida impossibile, salvo che nulla è impossibile per gli uomini della Pixar. La morale del film è la sfida stessa: non tutti hanno talento, ma se ce l’hai puoi fare qualsiasi cosa. Puro calvinismo: la fede è un dono che sposta le montagne. Rémy è il ratto aspirante chef, che per cucinare deve servirsi dello sguattero Linguini: il modo in cui impara a guidare il suo strumento umano, tirandogli i capelli per condizionarne i movimenti, è una stupenda metafora del mestiere dell’animatore (e di qualunque arte o mestiere): migliaia di tentativi e ore di lavoro, anche solo per affettare un tubero. Ma se hai talento puoi solo farcela, e infatti Rémy ce la farà. Titoli, fine.

Ecco, questa è la crosta croccante del film. Quello che c’è dentro, però, è un po’ meno dolciastro: come se qualche spezia europea fosse riuscita a salvarsi anche dopo che Pinkava ha lasciato la Pixar e il progetto è passato a Brad Bird. Il retrogusto amaro si percepisce soprattutto nelle prime sequenze: più tardi, quando si avventurerà in quel mondo pieno di coltelli, carrelli e altre insidie, sarà impossibile non prendere le parti del Piccolo chef. Ma all’inizio della storia Rémy non è necessariamente un personaggio simpatico. È il figlio del Capo di un branco accampato nel solaio di una casa di campagna. Il suo fiuto straordinario lo rende prezioso per la sopravvivenza della “famiglia”, grazie alla sua capacità di riconoscere il cibo avvelenato. Per il resto, il padre e i fratelli non hanno la minima considerazione per le sue capacità. Per il padre il cibo è solo carburante, ai fini dell’unica missione di vita: sopravvivere, malgrado gli umani. Di fronte a questi orchi enormi, che massacrano i ratti senza pietà, la famiglia non ha altra scelta che scappare e mangiare, mangiare e scappare, senza dividersi mai.
È una vita che Remy non sopporta. A lui piace il mondo degli uomini: gli odori della dispensa, i programmi di cucina, i libri di ricette. Sarà la sua imprudenza a causare la fuga in città della famiglia. In città del resto la vita dei ratti non è molto diversa: la famiglia è sempre la famiglia, e il cibo è sempre carburante. Ma non per Remy. Lui passerà definitivamente dalla parte dei nemici, degli assassini, degli uomini.
REMY: Prima o poi il piccolo deve lasciare il nido
IL PADRE: Noi siamo ratti! Non lasciamo il nido! Lo facciamo più grande!

Ecco la polpa europea. Rémy è un migrante, come Fievel: ma se Fievel sbarca in America era l’epopea nostalgica degli emigranti europei negli USA, Ratatouille racconta l’emigrazione e l’inurbazione con tutta l’ambiguità dei problemi irrisolti di oggi. Gli emigranti hanno due vie (le hanno sempre avute): o si ghettizzano, cristallizzando i costumi e i valori della società di provenienza e isolandosi in un mondo percepito come ostile, o si integrano. Ma integrarsi significa spezzare le radici, tradire la razza. Non ci riescono tutti, e nemmeno Rémy, che pure tratta i suoi simili veramente con la puzza sotto il naso. In Africa i tipi come Rémy li chiamano noir blanchi, neri imbiancati: eppure anche lui preferisce non tagliarsi del tutto i ponti alle spalle: nottetempo scivola nella dispensa del ristorante che lo ha accolto, e ruba un po’ di roba buona per il fratello. La cosa gli scappa naturalmente di mano, proprio come succede quando la tua famiglia esce dal medioevo e viene a bussare nel tuo superattico per chiederti un favore: il problema di Rémy è lo stesso problema di Michael Corleone, è il problema di tutti gli onorati membri della società che hanno ancora qualche legame con le Famiglie.

Ma non ci sono gatti in America! E ti regalano il formaggio! (Fievel sbarca in America)

Verso i tre quarti il film, per quanto divertente, sembra proiettato verso un finale tragico: Rémy ha servito gli umani senza riuscire a integrarsi veramente, e intanto la Famiglia che fa affidamento su di lui è sempre più numerosa, sempre più affamata. Poi c’è il finale, appicicato un po’ così, che non racconto: dico solo che è incredibile la sfacciataggine con cui pretende di salvare capra e cavoli, Famiglia e civiltà. Quando le cose al mondo non stanno così, decisamente: uomini e ratti non possono convivere nello stesso ristorante. È una cosa che semplicemente non succede, nella realtà.
Tutti in coro noi cantiamo viva Topolin. Topolin, Topolin, viva Topolin, (Full Metal Jacket)

D’altro canto è un cartone animato, e nei cartoni animati i topi sono simpatici e la fanno franca. Detto questo, qui propongo il mio finale: dopo decenni di clandestinità Remy riesce a imporsi come un cuoco degno del genere umano, apre un ristorante a Duisberg, e una sera tutti i suoi parenti vengono sterminati nel parcheggio da una banda di roditori concorrenti. Perché la vita è dura, se nasci ratto. Rémy lo diceva già all’inizio. Nei film americani poi ti raccontano che anche il ratto può crescere, scoprire i suoi talenti, tradire i famigliari e poi ritrovarli, diventare famoso e apprezzato. Ma gli europei hanno abbastanza Storia da parte per concludere che non è quasi mai vero. E questo è tutto, gente.
Comments (14)

chi fa sempre divertire i grandi ed i piccin?

Permalink
Una delle principali differenze tra la realtà e l’animazione è il topo. Il topo di cartone è istintivamente simpatico: canta, balla e si fa beffe dei grandi. Il topo vero è una bestia orrenda, un parassita e un untore. Questa differenza, che abbiamo tutti afferrato in età prescolare, è uno dei grandi misteri dell'umanità. Perché Disney, tra una varietà infinita di animali esotici e da cortile, si fissò sul topo? Perché Mickey il Topo ha fatto il botto e Felix il Gatto no? Nel Trecento i ratti sui bastimenti che venivano da Oriente portarono un’epidemia di peste che dimezzò la popolazione europea: la salvezza fu un nuovo animale domestico importato dall’Africa, il gatto. Eppure i bambini tifano per Jerry e contro Tom.

Cosa c’è nella stanza 101? (Winston del Grande Fratello)

E non i bambini di oggi, disinfettati ai limiti della sterilità, che di topi ne vedono solo sullo schermo piccolo o grande. I bambini degli anni '40 che in mezzo ai topi ci vivevano, in case con buchi nel battiscopa e rumori in cantina. Al cinema ridevano (grandi e piccoli) per il topo di cartone; poi rincasavano e controllavano le trappole. Magari il tifo per il topo era il primo accenno di ribellione del piccolo di casa: una specie di solidarietà tra le piccole creature sempre affamate. Ci saranno stati bambini che di nascosto portavano briciole al roditore. Credo che uno dei passaggi cruciali della pre-adolescenza sia quando ti accorgi che Jerry non è poi così simpatico, anzi, a ben vedere è uno stronzo, e cominci a tifare per il suo avversario frustrato. Fine della solidarietà tra le piccole creature: diventi grande, cominci ad avere paura dei germi e a sviluppare il senso della proprietà: giù le mani dalle nostre provviste, parassita!

E questo cos'è? Non ci sono già stati abbastanza cartoni con il gatto e il topo? (I manager della MGM ad Hanna e Barbera, nel 1940).

Ratatouille è un film piuttosto strano, anche per la media della Pixar. Per quanto la consociata della Disney rifugga le trame scontate, tutti i suoi film mantengono un sano contenuto morale, di quelli che si possono condensare in due righe e che mettono d’accordo grandi e bambini (i grandi devono lasciare lo scetticismo nel vestibolo, s’intende): per esempio Mosters & co. dimostra che la fantasia vince sempre sulla paura, Nemo ricorda ai genitori che i figli devono imparare a nuotare da soli, proprio perché il mondo è vasto e alieno come l’oceano; Cars insegna a grandi e piccini il valore dei rapporti umani, che trionfa sulla grande competitività universale. E così via. Anche Ratatouille ha una morale e un lieto fine, ma zoppicano. Sembrano appicicati per contratto.

Tutto ciò per dire che davanti a Ratatouille si sta a bocca aperta per l’esperienza della visione che dà, quasi travolgente. È su questa sensazione di realismo cartoonesco che poi si muove l’amore per i personaggi (Secondavisione)

Il film (che è bellissimo, se non avete la fobia dei topi, ed è andato meglio in Francia che negli USA) non è americano al 100%. L’idea è di Jan Pinkava, britannico d’origine boema, già premio Oscar per un corto. Gli uomini della Pixar devono averne apprezzato soprattutto il senso della sfida: dopo aver creato con Cars un mondo cromato e arrugginito, in cui l’automobile è Natura, i canyon hanno le sagome di vecchie cadillac e le nuvole sono strisce di pneumatici, stavolta si trattava di stravolgere uno degli archetipi dell’animazione: il Topo. Togliere al Topo il cravattino di Jerry e le braghette di Mickey. De-antropomorfizzarlo, riportarlo alla natura, alla sua condizione di scroccone purulento. E poi rimettersi nel suo punto di vista: il punto di vista di un animale braccato, per il quale anche una vecchia zia borgognona è un orco sterminatore, e la sua vecchia spingarda lancia razzi Terra-Aria.
L’altra scommessa era il cibo. L’ultima frontiera del digitale è rendere l’organico coi pixel: le croste croccanti, il verde delle muffe, il ribollire di una salsa. E dopo avere programmato cibo vero e ratti veri, farli interagire in un film per bambini. Trasformare un’orda di ratti sporchi e scrocconi nel personale di un ristorante francese: una sfida impossibile, salvo che nulla è impossibile per gli uomini della Pixar. La morale del film è la sfida stessa: non tutti hanno talento, ma se ce l’hai puoi fare qualsiasi cosa. Puro calvinismo: la fede è un dono che sposta le montagne. Rémy è il ratto aspirante chef, che per cucinare deve servirsi dello sguattero Linguini: il modo in cui impara a guidare il suo strumento umano, tirandogli i capelli per condizionarne i movimenti, è una stupenda metafora del mestiere dell’animatore (e di qualunque arte o mestiere): migliaia di tentativi e ore di lavoro, anche solo per affettare un tubero. Ma se hai talento puoi solo farcela, e infatti Rémy ce la farà. Titoli, fine.

È ingiusto, ma è normale: ai bambini piacciono gli animali piccoli, vispi e birichini.

Ecco, questa è la crosta croccante del film. Quello che c’è dentro, però, è un po’ meno dolciastro: come se qualche spezia europea fosse riuscita a salvarsi anche dopo che Pinkava ha lasciato la Pixar e il progetto è passato a Brad Bird. Il retrogusto amaro si percepisce soprattutto nelle prime sequenza: più tardi, quando si avventurerà in quel mondo pieno di coltelli, carrelli e altre insidie, sarà impossibile non prendere le parti del Piccolo chef. Ma all’inizio della storia Remy non è necessariamente un personaggio simpatico. È il figlio del Capo di un branco accampato nel solaio di una casa di campagna. Il suo fiuto straordinario lo rende prezioso per la sopravvivenza della “famiglia”, grazie alla sua capacità di riconoscere il cibo avvelenato. Per il resto, il padre e i fratelli non hanno la minima considerazione per le sue capacità. Per il padre il cibo è solo carburante, ai fini dell’unica missione di vita: sopravvivere, malgrado gli umani. Di fronte a questi orchi enormi, che massacrano i ratti senza pietà, la famiglia non ha altra scelta che scappare e mangiare, mangiare e scappare, senza dividersi mai.

REMY: Prima o poi il piccolo deve lasciare il nido
IL PADRE: Noi siamo ratti! Non lasciamo il nido! Lo facciamo più grande!

È una vita che Remy non sopporta. A lui piace il mondo degli uomini: gli odori della dispensa, i programmi di cucina, i libri di ricette. Sarà la sua imprudenza a causare la fuga in città della famiglia. In città del resto la vita dei ratti non è molto diversa: la famiglia è sempre la famiglia, e il cibo è sempre carburante. Ma non per Remy. Lui passerà definitivamente dalla parte dei nemici, degli assassini, degli uomini.

Ecco la polpa europea. Remy è un migrante, come Fievel: ma se Fievel sbarca in America era l’epopea nostalgica degli emigranti europei negli USA, Ratatouille racconta l’emigrazione e l’inurbazione con tutta l’ambiguità dei problemi irrisolti di oggi. Gli emigranti hanno due vie (le hanno sempre avute): o si ghettizzano, cristallizzando i costumi e i valori della società di provenienza e isolandosi in un mondo percepito come ostile, o si integrano. Ma integrarsi significa spezzare le radici, tradire la razza. Non ci riescono tutti, e nemmeno Remy, che pure tratta i suoi simili veramente con la puzza sotto il naso. In Africa i tipi come Remy li chiamano noir blanchi, neri imbiancati: eppure anche lui preferisce non tagliarsi del tutto i ponti alle spalle: nottetempo scivola nella dispensa del ristorante che lo ha accolto, e ruba un po’ di roba buona per il fratello. La cosa gli scappa naturalmente di mano, proprio come succede quando la tua famiglia esce dal medioevo e viene a bussare nel tuo superattico per chiederti un favore: il problema di Remy è lo stesso problema di Michael Corleone, è il problema di tutti gli onorati membri della società che hanno ancora qualche legame con le Famiglie.

Ma non ci sono gatti in America! E ti regalano il formaggio! (Fievel sbarca in America)

Verso i tre quarti il film, per quanto divertente, sembra proiettato verso un finale tragico: Remy ha servito gli umani senza riuscire a integrarsi veramente, e intanto la Famiglia che fa affidamento su di lui è sempre più numerosa, sempre più affamata. Poi c’è il finale, appicicato un po’ così, che non racconto: dico solo che è incredibile la sfacciataggine con cui pretende di salvare capra e cavoli, Famiglia e carriera. Quando le cose al mondo non stanno così, decisamente: uomini e ratti non possono convivere nello stesso ristorante. È una cosa che semplicemente non succede, nella realtà.

Tutti in coro noi cantiamo viva Topolin. Topolin, Topolin, viva Topolin, (Full Metal Jacket)

D’altro canto è un cartone animato, e nei cartoni animati i topi sono simpatici e la fanno franca. Detto questo, qui propongo il mio finale: dopo decenni di clandestinità Remy riesce a imporsi come un cuoco degno del genere umano, apre un ristorante a Duisberg, e una sera tutti i suoi parenti vengono sterminati nel parcheggio da una banda di roditori concorrenti. Perché la vita è dura, se nasci ratto. Remy lo diceva già all’inizio del film. Nei film americani poi ti raccontano che anche il ratto può crescere, scoprire i suoi talenti, tradire i famigliari e poi ritrovarli, diventare famoso e apprezzato. Ma gli europei hanno abbastanza Storia da parte per concludere che non è quasi mai vero. E questo è tutto, gente.
Comments (24)

vivono tra noi

Permalink

Amare i bambini


Noi siamo persone normali, persone buone. Abbiamo chi un cane, chi un gatto, chi almeno un canarino. E molti di noi hanno bambini. Sono belli, i bambini. Teneri, senza colpe. Sono angeli. Noi amiamo i bambini.
E questo ci riempie di angoscia, perché sono indifesi, i bambini. Se potessimo tenerli sempre con noi – ma non è possibile. Ogni tanto dobbiamo lasciarli andare fuori.
Fuori ci sono altre persone. Sembrano normali, come noi, ma non sono normali. Hanno un cane, hanno un gatto, come noi, ma sono mostri. Sono pedofili. Sono organizzati. Hanno libri e siti internet.
Adescano i nostri bambini. Li drogano, coi tranquillanti. Li costringono a fare cose che noi non riusciamo neanche immaginare. Davanti a una telecamera li molestano. Gli rubano l’infanzia e la felicità per sempre.
In una casa come la nostra c’è una stanza buia, in cui torturano i nostri bambini. Fuori i pulmini girano indisturbati, nel traffico pigro di metà mattina. Bidelli e benzinai sono d’accordo. Insegnanti e medici, custodi, obiettori, avvocati, preti. Non ti puoi fidare di nessuno.

I bambini di questo non parlano. Non esistono, alla loro età, le parole, per l’orrore che hanno dentro. Vorrebbero dimenticare.
Per salvarli dai pedofili, noi non li facciamo più uscire. Per aiutarli a non dimenticare, li chiudiamo in una stanza, e cominciamo con le domande. Quello che devono dirci, lo abbiamo già sentito da altri, a cui è successa la stessa cosa. Perché noi ci teniamo informati, sui libri e i siti internet.
Loro all’inizio non vogliono dire niente. Allora insistiamo. Li tempestiamo di domande.
Può durare un paio d’ore o un paio di giorni. A volte occorre abbassare la luce, e minacciarli. È durissimo ascoltarli quando ancora non vogliono parlare. È odioso riprenderli con una telecamera. Ma è l’amore che ci fa resistere, è l’amore che ci costringe a farli parlare. E alla fine l’amore vince sempre.
Arriva il momento in cui parlano. È terribile starli ad ascoltare, ma tutto quello che dicono di solito coincide. E non sono invenzioni. Tutti i racconti coincidono. Come potrebbero, bambini così piccoli, inventarsi dettagli così orribili. E sono sempre gli stessi! Chi può in buona fede pensare a un’invenzione? I bambini non mentono mai. Sono angeli.
Dopo aver parlato sono sempre molto scossi. Fanno fatica a uscire. A volte dobbiamo dargli tranquillanti, perché ciò che hanno ricordato, ciò che hanno vissuto in quella stanza buia è orribile. Resterà con loro per tutta la vita.
Ora però abbiamo il loro racconto. Lo metteremo su internet. Faremo girare anche il video, è giusto che tutti vedano, che tutti sappiano. Perché ci sono persone cattive là fuori.
Persone che torturano i bambini. Che mettono i video on line. Ci sono i mostri. Il mondo deve saperlo. E glielo dobbiamo dire noi.
Bisogna che tutti stiano attenti. Fuori c’è gente cattiva. Torturano i bambini. Dicono di amarli, ma sono i mostri.
Fuori i pulmini girano indisturbati, nel traffico pigro di metà mattina. Vigili e carabinieri sono d’accordo. Giornalisti e psicologi, giudici e magistrati. Di chi ti puoi fidare.
Comments (13)

salvare le api, fottersi dei panda

Permalink
Achtung Knut

Voi popolo della pausa-pranzo v’immaginate che la Star assoluta del Tg2 delle Tredici sia, boh, Annamaria Franzoni? Il Principe William? Schifani? Macché. Chiedete a noi casalinghi cosa succede a premere il centro del telecomando all’una e venti: più forte del gossip, più forte della cronaca nera, più persistente dei portavoce di Montecitorio, c’è solo lui: Knut, l’orsetto bianco dello Zoo di Berlino.

(Lo so che voi gente còlta pensate subito al film di droga e poi agli U2: ma ci sono anche gli animali, allo Zoo di Berlino).

Altroché se ce n’è. A centinaia: ma adesso tutti vengono a guardare Knut. È bianco, morbido, tanto carino. Le nascite di orsi bianchi in cattività sono piuttosto rare. Knut in effetti è raro, ma non è unico: aveva un fratello gemello. Il punto è che la madre, dopo il parto, scelse di salvarne soltanto uno e scelse l’altro, che poi morì. E Knut? Sarebbe morto anche lui. È la natura, dicono. Natura? Che natura, è lo Zoo di Berlino. Dal momento che accetti di mettere in gabbia un animale, dal momento in cui scegli che un animale in gabbia è uno spettacolo, è inutile che ti poni il problema se l’animale si comporti in modo “naturale” o no. È lo stesso disagio del reality: metti in gabbia un tale e poi gli chiedi d’essere spontaneo. Perché le bestie dovrebbero essere spontanee? Naturali?

Insomma: che lo abbia fatto perché la Natura, matrigna, glielo ha ordinato, o perché l’Umanità, matrigna al quadrato, l’ha incattivita in una gabbia, fatto sta che l’Orsa Maggiore lo aveva ignorato, il povero Knut. Tanta malvagità materna è stata la sua fortuna, perché così il personale dello Zoo ha potuto adottarlo. E già dalle prime foto col piccolo Knut al biberon, si poteva intuire che era nata una stella. Bianca.
Ultimamente l’affare s’è ingrossato. Mentre il Principe William, per andare sul tg2, ha bisogno come minimo di ballare in pubblico con una sbarba, a Knut basta negarsi per occupare una striscia di tre minuti: il giorno che non si è fatto vedere, il tg2 ci ha fatto un servizio con tanto di riprese dei bambini che facevano la fila per non vederlo. È a causa del caldo, ha detto il giornalista. Perché anche il tg2 si preoccupa del riscaldamento globale.
Ma voi avete idea di che fonte di notizie sia un orsetto bianco? Pensate alla questione etica: è giusto salvare un orsetto che non si potrà re-inserire nella natura? Sì, no, mah. Minacce di morte a Knut dice il Bild: i soliti ecoterroristi? "Knut sarà morto a mezzogiorno". Macché, Knut è vivo e ingrassa. Anzi, rischia la bulimia. E così via, all’infinito.

Non saprei dire quand’è iniziata esattamente la conversione animalista del Tg2 delle Tredici. A un certo punto ricordo che Costume e Società si stava allargando ben oltre il primo stacco pubblicitario. Poi, lentalmente, gradualmente, gli animali si sono scavati una nicchia tra il nuovo imperdibile film della “sempre affascinante” Sharon Stone e la collezione Primavera-Estate (il grimaldello forse è stato Bruno, l’orso “naturale” che sconfinando in Germania e s’è fatto ammazzare. Non era affatto carino, lui: sgozzava il bestiame e causava incidenti stradali). Di questa svolta nessuno, che io sappia, si è lamentato: del resto non è che levando un po’ di gossip e mettendo due coccodrilli ed un ourang-outang tu ledi il servizio pubblico.

Inoltre gli animali piacciono, sono sempre piaciuti. Puoi mostrarli mentre si ammazzano, e nessuno griderà allo snuff. Puoi farli vedere mentre ci danno dentro, e nessuno griderà al porno. Non c’è nulla di più estremo di un documentario, e puoi mostrarlo anche ai bambini. Il tg2 in effetti si è specializzato negli animali pacioccosi, come i panda. Quest’anno torno presto a casa, e mentre apparecchio mi ascolto il tg2 e mi faccio una cultura sui panda. Voi avete mai pensato seriamente a cos’è un panda?
Un panda è un orsetto che si nutre esclusivamente di un tipo di germoglio di un esclusivo tipo di bacca, che naturalmente sta scomparendo. Un’altra caratteristica dei panda è che sono un po’ refrattari all’accoppiamento: non solo in cattività, dove cercano di invogliarli proiettando filmini di altri panda che si accoppiano (con risultati scarsi), ma anche au nature; perché, evidentemente, ai panda il sesso non piace.

A questo punto a me viene da fare due più due. A voi non viene? I simpatici orsetti (1) non mangiano e (2) non si riproducono. E rischiano l'estinzione? Io direi che la stanno cercando con tutte le forze; che sono disposti a qualsiasi sacrificio pur di ottenerla; e chissà, può anche darsi che abbiano ragione loro. La sopravvivenza dei panda non è un problema dei panda, ma degli uomini. Se riuscissimo a capire quello che ci dicono coi loro occhioni, probabilmente li sentiremmo grugnare: “Piantala di salvarmi: non hai letto Charles Darwin? Sono un perdente, perché non mi uccidi? Perché vuoi fare sopravvivere la mia specie in un mondo che evidentemente non m’interessa?
“Perché sei tanto, tanto cariiiiino”.
Questo è un problema tuo, non mio. Io non mi sento carino, è la selezione naturale che ha premiato quelli che avevano un manto un po’ bianco e un po’ nero, così. La stessa selezione naturale però mi sta facendo fuori, e vuoi sapere una cosa? A me sta bene. Per favore. Ci sono tante bestie importanti da salvare. I passeri. Le api. Se muoiono le api, muore tutto. Cambia il logo di quel cazzo di wwf, togli la mia faccia e metti le api”.
“Le api non sono carine. Tu sei tanto cariiiiiino! Fatti abbracciare!”
T’ammazzo. Se t’avvicini t’ammazzo. Giuro. Stupido uomo”.

Ci estingueremo anche noi, non per mancanza di risorse, ma probabilmente per un problema di priorità. Abbiamo le risorse per salvare l’orsetto dello zoo di Berlino, ma non per salvare le api e gli esseri umani. Ma se invece in qualche modo sopravvivessimo altri cento, mille anni, in che natura vivremmo?

Io la natura non so cosa sia. Quand’ero bambino un giorno sentii dire da mio padre “noi di campagna”, e rimasi interdetto. Fino a otto anni non mi ero conto di vivere in campagna. Vedevo canali dritti come fusi, e boschi di pioppi ordinati come denti di spazzola. Tutto era umanizzato, ma risaliva a un tempo in cui l’umanità era un po’ rigida, efficientista, cartesiana.

Tempi finiti. Se l’uomo sarà vivo tra mille anni, probabilmente vivrà in un mondo di animali super-pacioccosi, con occhioni graaandi e pellicce foooolte. Che c’è successo? Siccome siamo intelligenti, a modo nostro, abbiamo abolito la selezione naturale e l’abbiamo sostituita con la selezione dell’animale più pacioccoso. Il futuro è di Knut, tutto bello bianco, un amoooore. E dei panda. E dei koala. E delle lontre che si tengono per mano.

Gli ultimi uomini vivranno in accampamenti fortificati dispersi in prati verde smeraldo, con fiori sgargianti tutto l’anno che non danno mai pollini sgradevoli, e passeranno il tempo a difendersi con spade e lance aguzze dagli assalti di enormi peluche che chiedono coccole, coccole, coccole in continuazione. I figli di Knut. E voi Figli dell’uomo, attenti. Andateci piano, con l'affetto.

(i pezzi su Uccelli e api sono stati segnalati da Cragno; le lontre da Wittgenstein)
Comments (14)

- no pigeons

Permalink
Uccelli e no

Invece, sapete cosa non c’è, qui, di cui non si sente affatto la mancanza? Gli stramaledetti piccioni! Niente gugu, niente flapflap, niente odore di merda, niente! I Padri Pellegrini li hanno lasciati a casa! E han fatto bene.
Ci ho messo un po’ a rendermene conto. Di solito non guardo gli uccelli. Non li guardo perché sono sempre i soliti grassi e puzzolenti pennuti grigi che mai appresero ad atterrare sugli alberi, un particolare che Darwin si è guardato bene di approfondire. In confronto a loro i polli hanno un’aria intelligente.

Qui invece non smettevo di fare a caso ai volatili.
Ci sono i pettirossi. Una specie di merlo ma col petto rosso pure lui. I rondoni. I passeri di città, quelli con le macchie sul collo, che quando ero bambino c’erano in effetti anche nella mia città, ma poi li ho visti sempre meno, soppiantati immagino dai grossi bombardieri grigiopuzzolenti. Finché non mi sono reso conto che la differenza è tutta qui. No pigeons, ha-cha-cha-cha. Niente macchie bianche sulle cadillac (devo ancora vedere una cadillac).

Io sono uno storico abitatore di sottotetti, il mio odio per i piccioni è etnico, totalizzante. E magari per gli americani di qui si tratta di un pennuto raro e simpatico, da fissare con la stessa aria scema con cui io fisso gli scoiattoli. Non vedono l’ora di venire a Piazza San Marco e nutrirli di costoso granturco. Vagli a spiegare che sono loro i veri ratti alati, B52 del guano, vettori di quanto al mondo v’è di più fetuso.

Una volta ero a Edimburgo. Stavo accompagnando in vacanza una comitiva di ragazzini francesi quasi tutti musulmani, compreso uno che in realtà era vietnamita. Era il suo modo per farsi accettare (non funzionava). Era una bella giornata – ricorderò sempre Edimburgo come una città soleggiata – e picnicando nel parco, io mi misi a spiegare al vietnamita musulmano francese che provava ad acciuffare i piccioni che era impossibile riuscirci, perché lui ha gli occhi sui lati della testa, e quindi ti vede anche se gli arrivi da dietro, lo vedi? (gli dicevo), lo vedi? (e intanto inseguivo un pennuto rognoso), non li beccherai mai! E credevo in questo modo di assolvere un ruolo educativo.

Quando da un cespuglio spunta fuori una signora, e io non so come, ma capisco subito che lei è inglese, forse dall’accento? Davvero avevo un orecchio così buono? O forse semplicemente perché in due sillabe si era già precisata come una monumentale stronza?

“Ma non si vergogna! Ho visto tutto, sa!”
“Eh? Mi scusi, io stavo soltanto…”
“Ho visto bene cosa stava facendo! Ho visto bene! Lei stava insegnando a questo ragazzino come dare la caccia a queste amorose creature! E’ una vergogna!”
“Ma no, in effetti stavo solo spiegando che…”
“E magari lei si considera un educatore! Sono inorridita! Torturare questi graziosi pennuti!”

La signora non faceva che assecondare il suo zelo animalista. Non sapeva che in quel momento stava rappresentando un’intera nazione. Non sapeva che nel cervello, indubbiamente un po’ razzista, del suo interlocutore, in quel momento la cellula cerebrale che conteneva l’input “inglesi” stava per accogliere per sempre l’input “non sanno distinguere un bell’uccello da un contenitore alato di merda”.

D’altro canto, lei rincasando a Newcastle probabilmente ha concluso che gli italiani sono la feccia della terra. Importunano i piccioni nei parchi.
O mi ha preso per un francese. E magari non era neanche inglese, era di Cork.
L’Europa è così complicata, vista da qui.
Comments (6)