Now and Then, un falso d'autore

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Fuori concorso: Now and Then (Lennon 1977 / McCartney 2023)


Ogni tanto mi manchi. Se definisco Now and Then un falso d'autore, non è per litigare (ok, voglio anche litigare, su internet un po' di pepe è necessario) né per esprimere un giudizio di valore su una canzone che comunque ho negli orecchi da tre giorni, ce n'è di peggio in giro (ma anche di meglio). Non perché voglia discutere se due Beatles superstiti siano ancora "i Beatles", e sulla narrazione che hanno impostato per convincerci di questo (la storia la sappiamo: i nastri li ha regalati Yoko Ono a Paul, quindi John sarebbe stato d'accordo; George a dire il vero 26 anni fa ha rifiutato di completare Now and Then, però una minuscola particina di chitarra deve averla lasciata incisa, ecc.). Nemmeno voglio prendere una posizione sulla tecnologia adoperata per ricostruire la voce di John Lennon: la differenza tra voce recuperata da un vecchio nastro e voce ricostruita facendo ascoltare a un'AI migliaia di minuti di voce di John e chiedendogli "questa come la canterebbe" ormai è più filosofica che interessante. Niente di tutto questo, o un po' di tutto questo, ma soprattutto sento la necessità di valorizzarla, questa canzone. Come pezzo dei Beatles autentici se ne finirebbe credo sotto la centesima posizione della Grande Classifica (quella messa assieme sul Post, ehm ehm, dal sottoscritto); come falso d'autore, viceversa, è molto più intrigante, perché alla fine cos'è un falso d'autore? Un esercizio di stile, per prima cosa. Un artista decide di imporsi come limite lo stile di un altro artista. 

Con Now and Then, Paul McCartney mette mano per la terza volta a un demo del suo antico compagno John Lennon. Nel primo episodio (Free as a Bird, 1995) aveva preso un ritornello di John e aveva aggiunto una sua strofa. Nel secondo (Real Love, 1996) non aveva aggiunto nulla. Nel terzo addirittura ha tolto qualcosa che John aveva composto: il ponte tra la strofa e il ritornello. Forse è questo l'indizio che cerchiamo per dimostrare che i Beatles originali non esistono più; quando ha composto la sua parte di Free as a Bird, Paul si sentiva ancora chiamato ad aggiungere qualcosa di creativo. Con Real Love già sembrava rassegnato a limitarsi a un restauro conservativo; con Now and Then invece si ritrova a dover eliminare quella parte lennoniana che non 'suona abbastanza Beatles', come fa un buon falsario, determinato ad autocensurare qualsiasi guizzo personale che minacci l'aderenza dell'opera allo stile che sta imitando. Il paradosso è che i Beatles, finché sono esistiti 'davvero', non hanno smesso di guizzare, senza troppo preoccuparsi di rispettare uno stile in continua evoluzione. Può darsi che Now and Then fili davvero meglio così, strofa-ritornello, strofa-ritornello, e poi uno stacco strumentale (effettivamente composto da Paul) che non esce dal seminato, anzi ne sviluppa le premesse. Certo, ha l'aria di una banalizzazione. Possiamo perfino immaginare che John avrebbe accettato il taglio proposto da Paul: nella storia della loro collaborazione ci sono anche casi in cui uno ha sforbiciato la canzone dell'altro. Dà comunque i brividi l'osservazione che nel ponte tagliato John cantasse "I don't want to use you or abuse you".


Quel che rende eccezionali i Beatles è proprio quello che rende discutibile un'operazione del genere, ovvero il fatto che non si siano mai riuniti davvero; che non abbiano mai avuto il tempo per diventare i falsari di sé stessi. Una sorte toccata a quasi tutti i loro compagni, e a tal proposito è fin troppo facile notare che qualche settimana fa è uscito un disco dei Rolling Stones. Ma se persino Jagger e Richards non hanno mai rinunciato del tutto ad aggiornarsi un po' (con risultati discutibili, ma umani), è lecito domandarsi: che musica farebbero oggi John e Paul, se il primo fosse vivo e il secondo non fosse preoccupato di dare al pubblico esattamente quello che il pubblico immagina di aspettarsi da lui e dall'amico fantasma? Prendi la strofa di Now and Then, così sospesa e irrisolta nella versione demo – dà veramente l'impressione che da qualche parte manchi un accordo. Un'incompiutezza assolutamente lennoniana, quel senso di vuoto che mi ha ricordato subito la prima sensazione provata davanti ad altre sue canzoni, Because, Across the Universe. È chiaro che da lì si può partire per imbastire la classica canzone beatlesiana; è chiaro che Paul si sentiva quasi obbligato, nel 1995 o nel 2023, a imbastire qualcosa del genere – ma se invece John si fosse detto ehi, facciamo una cosa alla Radiohead? Con una batteria campionata in stile Tomorrow Never Knows, con qualche synth buttato lì, perché no? 

Se John fosse stato vivo, se lo sarebbe potuto permettere; e quella strofa si presterebbe. Anche il ponte. Il ritornello no, è veramente un richiamo all'ordine del Canone Pop Beatlesiano (che alla fine forse ci ricorda più gli ELO o i tardi XTC che i Beatles): però insomma da uno spunto come Now and Then si poteva partire per fare qualcosa di molto diverso dalla solita canzone strofa-ritornello che il pubblico si aspetta dai Beatles. Ingiustamente, perché i Beatles quel pubblico lo spiazzavano spesso e volentieri: Paul non osa più e non possiamo fargliene una colpa: ormai è di guardia a un monumento. La colpa è nostra, come sempre: cosa ci aspettiamo da uno spettro, se non che dica esattamente quello che vogliamo che ci dica? Now and then I miss you. 

(È facile immaginare che si stia rivolgendo a Yoko, magari nella fase in cui si riconciliò con lei dopo il lost weekend. Ma è altrettanto facile, come in tante altre canzoni beatle, sovrapporre Paul a Yoko, e noi a Paul. Una delle prime cose che hanno capito quei due, quando erano ancora due ragazzini che improvvisavano pezzi in corriera, è che le canzoni devono parlare a tutti, devono parlare di tutti).


Il problema dei falsi è un falso problema. Se in casa tua c'è una riproduzione perfetta della Venere di Botticelli, in scala 1:1, tu e i tuoi ospiti possono vedere la Venere di Botticelli esattamente come se foste agli Uffizi. Se una canzone che imita i Beatles è bella come una canzone dei Beatles, che problema c'è se non l'hanno davvero scritta o incisa i Beatles, ma gli XTC? o i Rutles? gli Zombies? o Paul McCartney e Ringo col fantasma di John Lennon? (mentre il fantasma di George Harrison dalla cantina sibila "fuckin' rubbish", ma è sovrastato da una steel guitar ricostruita?) Se è una bella canzone – ma è una bella canzone? Eh, va' a capirlo. Coi Beatles di solito è facile, piacciono a tutti. Se però non sei sicuro che sia davvero dei Beatles, improvvisamente non sei più sicuro che ti piaccia. Se trovassi la Venere di Botticelli in scala 1:1, appesa nello spazio espositivo di un mobilificio, magari non ci faresti caso. L'hanno appena rubata dagli Uffizi e l'hanno messa lì: un nascondiglio perfetto, nessuno la degna di uno sguardo. Oppure l'hanno fatta dipingere a un'intelligenza artificiale col machine learning, ed è davvero uguale. E non interessa a nessuno, perché è solo una copia di Botticelli. Now and Then sembra veramente troppo una canzone dei Beatles. Il problema dei falsi è che devono somigliare ai veri. Questo limita molto le possibilità dei falsari, che a volte sono ottimi artisti – magari anche migliori degli autori degli originali. Oppure sono la stessa persona: capita a molti artisti di ridursi a diventare i falsari di sé stessi. Ai Beatles non era capitato – bella forza, stettero assieme soltanto una decina d'anni. Paul McCartney invece incide dischi da sessanta e probabilmente ha avuto tutto il tempo per rassegnarsi al fatto che una sola canzone incisa col fantasma di un vecchio amico verrà riprodotta e ascoltata milioni di volte più dei brani originali che continua a scrivere e incidere. 

Ti sta piacendo questo pezzo?
Lo sai che sulle canzoni dei Beatles ho scritto un libro intero?
Non muori dalla voglia di impossessartene

Now and Then, come ci è stato ricordato in questi giorni, avrebbe dovuto uscire nel terzo volume dell'Anthology, quindi 26 anni fa, ma qualcosa andò storto. La spiegazione fornita in questi giorni da McCartney, che tutti danno per buona perché ormai contraddire McCartney è come offendere Babbo Natale, è che la voce di Lennon era registrata troppo male; mescolata a un pianoforte fastidioso e troppo compressa. Ragion per cui la canzone fu archiviata, finché una tecnologia più avanzata ha consentito di ricostruire una voce lennoniana separata dal pianoforte. Non voglio dire che McCartney ci stia consapevolmente mentendo – non oserei mai – ma non sarebbe la prima volta che ci fornisce una versione pacificata della realtà. Anche i primi due abbozzi erano registrazioni casalinghe, un aspetto che i singoli del 1996 non cercavano affatto di occultare. Anzi al tempo a funzionare era proprio questa dialettica tra la voce sgranata e appannata di John e gli arrangiamenti nitidissimi della produzione di Jeff Lynne – due sbiadite foto in bianco e nero messe in evidenza da due cornici smaglianti. Il risultato alla fine, per quanto macabro, non era diversissimo da un restauro conservativo: il morto faceva musica coi vivi, ma l'ascoltatore non poteva nutrire nessun dubbio su cosa cantasse il morto e cosa avessero aggiunto i vivi. Può veramente darsi che il demo di Now and Then fosse di qualità inferiore (non apparteneva alle stesse sessioni), così come può darsi, per esempio, che McCartney abbia dovuto rinunciare a lavorarci perché Harrison si era stancato (non sappiamo se il suo "fuckin' rubbish", si riferisse all'abbozzo di Lennon, al suo stato di conservazione, o all'arrangiamento a cui stavano lavorando). Fu l'ultima volta che Paul e George provarono a incidere una cosa assieme. George non lavorava volentieri con Paul. 

Il passato non è una scala lineare: ci sono mesi che valgono decenni, e altri decenni che non sappiamo dove abbiamo buttato. Dà una certa vertigine constatare, ad esempio, che tra la pubblicazione di Now and Then e gli altri due brani postumi ci sono più anni di quelli intercorsi tra i due brani postumi e lo scioglimento dei Beatles. Nel frattempo non è cambiata semplicemente la tecnologia, ma anche il modo in cui (grazie alla tecnologia) possiamo interagire coi morti. Nel 1996 la voce sgranata di Lennon ci colpiva al cuore come una polaroid sbiadita recuperata dietro un armadio; un ricordo improvviso che per un attimo ci lasciava fantasticare su che musica avrebbero fatto i Beatles, se lui non fosse scomparso in quel modo così assurdo, se si fossero rimessi assieme. Nel 2023 ormai siamo assuefatti all'idea che Lennon sia ancora tra noi, come altri attori risuscitati in computer graphic: lo abbiamo visto al cinema in Yesterday, e ora lo sentiamo cantare, non più da un nastro gracchiante; si sente forte e chiaro, (perfino troppo chiaro: come fa notare Federico Pucci, Lennon di solito non lasciava la sua voce così diretta: la raddoppiava, la modificava). Il passo successivo, già adombrato in rete, è che si rimetta a scrivere canzoni. Forse in futuro Now and Then sarà considerata, più che l'ultima canzone dei Beatles vivi, la prima dei Beatles intelligenze artificiali. O magari l'anello di congiunzione tra le due fasi della loro carriera. Questo in parte potrebbe spiegare perché McCartney (e Ringo Starr) l'hanno voluta pubblicare – tanto prima o poi sarebbe uscita comunque, avranno pensato. Anche se la lasciassimo nel cassetto, prima o poi qualche nostro erede aprirà il cassetto, convocherà i nostri simulacri digitali e ce la farà suonare. Tanto vale farlo adesso, che siamo vivi. Magari per il resto del mondo non farà così tanta differenza; per noi sì. Come dar loro torto.

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Uno sguardo ardito e fiero che rincorre l'Aldilà

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Ma sul serio ti prendevamo sul serio?
9 settembre: Giovanni Lindo Ferretti, eremita punk, nato 70 anni fa – non è ancora un santo ma cominciamo a metterci avanti.

[2013] Giovanni Lindo Ferretti prende forse il nome da San Giovanni, che come lui perse la testa, o dall'Evangelista, che invecchiando appartato scrisse di rivelazioni e apocalissi con l'aria di chi la sa lunga e invece magari bastava variare il dosaggio; da Lindo, ovvero "pulito", perché seppe ripulirsi di tanta rumorosa malvagità diffusa negli anni della perdizione; e dai Ferri di cavallo, che lo sostennero nei terreni impervi quando più facile era ricadere nelle paludosi valli della concupiscenza.

GLF nacque, se Wikipedia non tira i pacchi, a Cerreto, in culo ai lupi, nel decennale del primo giorno della Resistenza antifascista; e fu buon figliolo e chierichetto e spesso deliziava i parrocchiani cantando gli inni a maggior gloria di Dio eccetera. Crescendo nell'appennino reggiano fu avviato sin dalla più tenera età alla professione maggiormente richiesta in quelle terre benedette da Dio, ovvero l'operatore psichiatrico, cioè psico-socio-assistenziale, cioè assisteva i matti in manicomio anche se non si può più chiamare manicomio e non è giusto chiamarli matti e però andateci voi sul Crinale, andateci, poi ditemi. Fu forse operando in quel settore strategico dell'economia reggiana che incrociò per la prima volta il demonio, che stese la sua ala sopra di lui e gli disse, Lindo, dam rèta, i matti che cerchi non sono qui, va' in stazione e prendi il primo treno per Berlino, amarcmand, Ovest. Lui obbedì ma in cuor suo temeva che una volta arrivato nell'avamposto della civiltà occidentale non si sarebbe trovato a suo agio per la mancanza di cavalli e l'inveterata tendenza dei nativi a parlare in tedesco. Ma non temere Lindo, gli disse il demonio, ti manderò un tizio che conosce il reggiano come te, puoi chiamarlo Zamboni, insieme passerete il Muro e scoprirete il fascino vintage dei colbacchi e della cartellonistica del socialismo reale con quindici anni di anticipo su tutti i potenziali competitors. Poi tornerete in Italia e trasferirete lo stesso tipo di ironia sull'Emilia oppressa dal giogo del Partito Comunista Più Grande d'Occidente. E così fu, e per anni GLF divenne il punto di riferimento di una generazione di sconquassati che non sempre andando a furiosa caccia di gomitate in mezzo alla pista percepivano l'ironia demoniaca di chi cantava Voglio rifugiarmi sotto il patto di Varsavia.

Fu forse lo stesso demonio a rendersene conto, nel mentre che l'Unione Sovietica liquidava il Comecon, e gli disse: Lindo, qui cominciano a mancare i punti di riferimento, basta pankeggiare contro tutti, qui tra un po' ci sarà fame di guru e tu hai la fisionomia giusta. Cosa devo quindi fare? Chiese GLF. Boh, rispose il demonio, prova a a prendere le cose più sul serio, riscopri i valori veri in cui crede la gente, che ne so, la Resistenza, la pace nel mondo, la natura incontaminata. "Posso metterci i cavalli?" chiese GLF. Va bene, perché no, se ci tieni, infilaci pure i cavalli, e il tramonto dell'Occidente. E mi raccomando, ieratico. "Cioè?"
"Eh, come faccio a spiegarti, hai presente Battiato quando ha cominciato a sedersi sul tappetino in mezzo al concerto?"
"Forte Battiato, posso metterci anche Battiato?"
"Certo, mi fa piacere se ti piace, è un altro mio cliente".

E fu così che GLF sempre più ieratico e assorbito da mistiche comunioni equine nelle luci crepuscolari dell’occidente in guerra sopravvisse al crollo del Muro, e un mattino d’agosto si svegliò e il suo disco era primo in classifica e Jovanotti voleva fare un tour con lui, perché lo sentiva profondamente affine e inoltre Madre Teresa gli aveva dato buca. Il suo gruppo poi si sbandò, ma ormai il marchio GLF poteva camminare sulle sue gambe: tutto andava per il meglio, dal punto di vista del demonio, quando finalmente il Signore si tolse i tappi dalle orecchie, percepì l’abominio e gli inviò un orribile male, che per qualche tempo lo tolse dalle scene. Ma quando i dottori lo guarirono, grande fu la sua riconoscenza nei confronti del Signore.

“No, aspetta”, dissero i medici. “Cosa c’entra il Signore? Ti abbiamo guarito noi”.
“Voi non siete che strumenti nelle Sue mani”.
“Ma vaffanculo, mai che succeda il contrario, fosse mai venuto uno oggettivamente guarito da Padre Pio a ringraziare noi dottori, no, sempre il contrario, noi salviamo la gente e Cristo passa all’incasso, ma che senso ha?”
“È un senso più grande di voi”.

Guarito così nel corpo e nell’anima, si fece eremita nei luoghi della sua infanzia, circondato dall’affetto dei suoi cavalli (il loro scalpitìo è l’unica musica che so apprezzare, confessava) e ogni tanto inviava a valle lettere accorate sullo sterminio degli embrioni e sul tramonto dei valori veri: motivo di scandalo e turbamento per tutti i vecchi panchettoni che avevano creduto in lui ai tempi in cui nemmeno lui credeva in sé stesso.

Di lui si ricordano diversi miracoli: i Marlene Kuntz in classifica, Mara Redeghieri che non stona per un disco intero e da Villa Minozzo diventa la voce di una generazione per quasi un quarto d’ora; e quella volta che invocando Benedetto XVI fece schiantare nella boscaglia una pala eolica che gli turbava la concentrazione: e agli ingegneri e ai “managers” sbigottiti che si domandavano: com’è possibile, dev’esser stato un inverno particolarmente rigido, diceva: ma che particolarmente e particolarmente, questo è l’Appennino, convertitevi e leggete Ratzinger:

l’inverno per sua natura può essere rigido e il vento furioso, saperlo è obbligatorio, invocarlo a propria discolpa equivale a reclamare doverosa punizione. Per la manifesta incapacità, l’incuria nel costruire, il risparmio sui materiali fino alla frode, posso solo rallegrarmi, avessero fatte le cose per bene sarebbe ancora lì e chissà per quanto. Più si incupisce il mondo tra crisi economica e inconsistenza politica, più risulta evidente che abbiamo costruito sulla sabbia e si persevera. L’ostentazione di buoni sentimenti e rettitudine morale non basta a penetrare un mistero che contempla il male, il dolore, la caducità dell’umano operare. D’altra parte chi lenisce la propria disillusione con cinismo ed arroganza non può cogliere quanto di bene, quanto di bellezza e meraviglia la vita offre, comunque, e per quanto possa considerarsi libero ed autosufficiente non fa che offrire il proprio legame al nulla, al senza senso; la religione del nichilismo.

E andava avanti così per cartelle e cartelle, fino a stancarsi lui per primo. GLF è patrono dei cavalli, dei punk, dei cavalli punk e dei cavalli islamici punk. Lo invocano gli atei devoti e i musicisti che non sanno suonare, insomma tutti quelli a cui serve faccia tosta e follia. Buon compleanno.
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Astrud Gilberto, punk prima di te

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La leggenda è talmente famosa che mi vergogno quasi a ripeterla, insomma nel 1963 Stan Getz vola a Rio perché ha sentito dire che laggiù è stato scoperto tutto un nuovo filone di musica che potrebbe essere quella del futuro (di tutti gli anni in cui ciò poteva succedere, è esattamente il 1963: i Beatles atterreranno negli USA l'anno dopo). Getz è un sax di buone speranze che si muove già in un mondo saturo di proposte musicali; qualche collega probabilmente si stava già lamentando che ormai tutta la musica buona era stata già composta e incisa, insomma alla fine le note sono sette, ecc. E in effetti quello che Getz trova a Rio è una musica strana e dissonante, anche se al nostro orecchio oggi non suona più così; ma se oggi noi non troviamo più così dissonante la bossanova è proprio perché Stan Getz ce l'ha portata, dopo essere andato a prenderla direttamente dalla spiaggia di Ipanema e dalla chitarra di Joao Gilberto che suonava quegli accordi che la prima volta che li vedi dici no, dev'esserci un errore di stampa, non si possono suonare queste corde insieme, ecco: anche la prima volta che i nostri nonni hanno ascoltato Garota de Ipanema avranno detto no, c'è qualcosa che non va, qualcuno sta stonando; probabilmente la ragazza. Invece per noi è normale. 

Noi bisogna dire che ormai ascoltiamo di tutto senza più battere ciglio; quando ci imbattiamo in un oggetto che suona più dissonante del solito, alziamo le spalle e pensiamo che sia roba dei giovani, e ci difendiamo ricordando che comunque abbiamo ascoltato anche di peggio, in certi casi continuiamo a farlo. Ultimamente in Italia c'è un ritorno della melodia ma camuffata da rap di strada (davvero, non hanno vergogna, ormai gli basta cominciare con eh, eh oh, uh, poi parte la base e potrebbero essere i Ricchi e Poveri). Il brano di Sanremo che si è ascoltato più in giro quest'anno lo ha scritto un rapper di Carpenedolo (BS) in pieno ritorno del rimosso, che nel caso suo e dei suoi ascoltatori è lo Zecchino d'Oro; era abbastanza prevedibile, per parecchi anni lo Zecchino ha prodotto musica migliore di Sanremo e chi ha avuto la fortuna di essere cresciuto in quegli anni probabilmente manterrà un certo debole per le melodie molto cantabili e i cori bianchi; però quand'è successo che abbiamo accettato le voci dei bambini nella musica leggera? Ogni luogo comune ci proviene da una tradizione, ogni tradizione ha iniziato con un'innovazione, e forse la madrina di tutti i bambini che fanno tenerezza perché suonano quasi stonato è stata Astrud Gilberto. La leggenda dice che Astrud cantò Garota de Ipanema quasi per caso, siccome Getz voleva inciderne una strofa in inglese e l'unica che sapesse l'inglese quel giorno, in sala d'incisione, era la moglie di Joao. Quest'ultimo, secondo la leggenda, non era affatto entusiasta dell'idea che Astrud impallasse la sua melodia con quella vocina simpatica ma non troppo educata. Oggi siamo abituati a considerare la lieve dissonanza della voce di Astrud una parte integrante di quell'universo musicale che chiamiamo bossanova; il fatto che Joao Gilberto non la pensasse così lo troviamo deliziosamente ironico, del resto capita a molti rivoluzionari di venire travolti dalla rivoluzione che scatenano; questo ci impedisce di credere ad altre versioni, come a quella della stessa Astrud secondo la quale fu proprio Joao a suggerire a Getz di farle cantare la parte inglese. In effetti è più probabile che la contrarietà di Joao fosse di natura economica, perché la versione di Garota che alla fine fu promossa negli USA era quella che ometteva la sua parte di cantato (in portoghese). Quindi meno royalties per lui; quanto ad Astrud, sappiamo che per la sua prestazione fu pagata 120$, e poteva andarle peggio, poteva incontrare i Pink Floyd. A quanto pare Getz continuò ad abusare di lei sia economicamente sia umanamente anche durante il successivo tour nordamericano, una circostanza che ogni tanto riscopro e ridimentico perché forse non mi piace sapere queste cose quando ascolto Garota de Ipanema. 

Gran parte delle leggende nascono per spiegare com'è nato qualcosa che prima non c'era. Quelle che funzionano di solito ci confortano sulla natura fortuita delle innovazioni. È abbastanza improbabile che Oldham si sia imbattuto per caso nei Beatles proprio mentre usciva dalla sala di registrazione dove gli Stones annaspavano senza trovare una canzone da incidere – proprio mentre Lennon e McCartney avevano in canna I Wanna Be Your Man. Ma è una bella storia, funziona, significa che gli Stones sono diventati famosi per un puro colpo di fortuna (e l'ha messa in giro il loro manager!) Così, a rifletterci bene, anche la leggenda di Garota è un po' sospetta. Io ho sempre voluto crederci, ho sempre dato per scontato che Astrud Gilberto sia stata la prima vera voce dissonante della musica brasiliana, ma in effetti che ne so? magari ce n'erano delle altre. Senz'altro lei ha cambiato tutto. Un po' prima dei Beatles (che erano dissonanti in un modo molto diverso), un po' dopo Dylan (più gracchiante che dissonante, ma comunque un prodotto di nicchia), ha mostrato agli americani che si poteva cantare in un modo diverso, meno formale, più familiare. Possiamo dire che è stata punk, Astrud Gilberto, in un momento in cui era punk sfondare nelle frequenze AM con una vocina. E osservare ancora una volta quanto rapidamente il punk si trasforma in maniera, in stereotipo: quanto presto le frequenze AM e FM si sono riempite di vocine che oggi non consideriamo nemmeno più dissonanti, non abbiamo più l'orecchio abbastanza allenato per farci caso. Se ogni innovazione è uno steccato che cede, col tempo ormai non dovrebbe più esserne rimasto uno solo, insomma già da una ventina d'anni dovremmo trovare ascoltabile e gradevole qualsiasi sequenza di rumori – e non è detto che non sia così, probabilmente è quello che penserebbe Mozart di noi se potesse ascoltarci, insomma che differenza c'è tra un pezzo noise e un frullatore in funzione, tra una base hip hop e un muratore col trapano, tra un pezzo trap e un ubriaco sotto casa stanotte che urla al telefono. Ma non è proprio così, quasi per ogni steccato che cede ce n'è un altro che rispunta un po' più dietro, spesso oltre l'orizzonte, per cui abbiamo sempre la sensazione che ormai si possa fare di tutto ma anche che alla fine si facciano sempre le solite cose. Non abbiamo idea di che regalo ci abbia fatto Astrud Gilberto, cantando quella canzone e tante altre. Per capire quanto sia stata punk, dobbiamo smettere di esserlo, ovvero farci una cultura musicale, approfondire il contesto, capire quanto era diverso il mondo in cui si è ritrovata per caso o per calcolo davanti a quel microfono. Poi certo, ci sarà sempre qualcuno che ti dice che la vera musica oltrepassa i generi, gli stili, le generazioni, se ne va dritta nell'iperuranio o tra le pure idee di Benedetto Croce. Non escludo che sia così, alla fine a chi è che non piace Garota de Ipanema? Ma trovo più conveniente illudermi del contrario, pensare che tanti anni passati ad ascoltare e a studiare abbiano fatto di me una persona più raffinata. Anche se questa raffinatezza mi serve per apprezzare l'esatto contrario; per capire quanto siano stati rivoluzionari dei ragazzini che il più delle volte non sapevano cosa stavano facendo, cosa stavano suonando, cosa stavano cantando. 

Perché poi alla fine la musica leggera è stata questa cosa, un mondo a parte in cui comandano i giovani. Non è che se invecchi sei per forza fuori; ma devi accettare che comandano loro. Astrud Gilberto ha continuato a far musica di ottimo livello, ma è rimasta per sempre legata a quel momento primigenio in cui ha insegnato al mondo come si canta la bossanova. È assolutamente normale: tutti gli artisti di quel settore hanno una carriera che comincia con un picco e poi una lenta discesa; quando hanno dato il Nobel a Dylan per la carriera, lui ha mandato Patti Smith a cantare una canzone scritta quando aveva vent'anni. Ne aveva già settanta e non ha mai smesso di scriverne; eppure ha scelto quella giusta. La musica leggera è un mondo alla rovescia, per viverci bisogna accettarlo. Oppure morire giovani. Io preferisco accettarlo.

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Un disco embrione

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(Discografia di Franco Battiato, #3)

Episodio precedente: Il periodo Polydor

Fetus (registrato entro il novembre 1971, pubblicato da Bla Bla nel gennaio 1972).

Il disco-embrione

Fetus è il disco con cui Franco Battiato decide di nascere: tutto quello che aveva tentato prima è rimosso, relegato in una condizione pre-natale. Altri artisti in quegli anni mutano bruscamente traiettoria, cambiando immagine pubblica e nome d'arte: Battiato mantiene il suo, ma cancella tutto quello che ha significato in quel momento. È difficile pensare che non ne fosse consapevole, ma la simbologia fetale che domina il disco sin dal titolo richiama questa sua condizione: l'artista è appena nato, è un embrione. In quanto tale contiene già tutte le potenzialità che svilupperà da lì in poi – l'elettronica, Bach, le ballate, la tarantella, i campionamenti – ma in una forma, va da sé, embrionale. Tra i solchi c'è anche qualche possibilità che Battiato scarterà subito: un po' d'improvvisazione quasi jazz e qualcosa che richiama il Bowie di quegli anni (convergenza evolutiva)?

Quando compone Fetus, Battiato ha alle spalle più di un lustro di esperienza da compositore e performer. Altri approfitterebbero della prima possibilità di incidere un 33 giri per mettere assieme un repertorio di canzoni accumulato negli anni. Battiato, che un po' di canzoni da parte ne aveva, con Fetus fa quasi tabula rasa. Il passato cantautoriale/canzonettistico non sparisce del tutto, ma è fatto a brandelli e riciclato in montaggi di mini-brani giustapposti. Fetus da questo punto di vista è il disco in cui la forma canzone viene sottoposta alle maggiori torsioni, al punto che nel secondo lato è davvero arbitrario decidere quando finisce un brano e ne comincia un altro. Il "concept" è ispirato al Mondo nuovo di Huxley, ma sviluppato in modo vago ed enigmatico, non dissimilmente a quanto succedeva nei concept album del periodo.  

Può darsi che Fetus sia invecchiato peggio di altri dischi di FB. Quando uscì, sorprese gli ascoltatori più smaliziati (tra cui a quanto pare Frank Zappa, a cui sarebbe sfuggito quel famoso "Battiato is a genius": la fonte però è Pino Massara). Persino negli anni più creativi del prog, Fetus suonava come qualcosa di strano e originale. Lo è tuttora, anche se forse come ascoltatori siamo meno disponibili a lasciarci sconvolgere dalle arcane incursioni del sintetizzatore VCS3, qualcosa che non si era ancora ascoltato neanche nei dischi inglesi e americani.

 

1972: Fetus (#98)

Non ero ancora nato che già sentivo il cuore che la mia vita nasceva senza amore. È abbastanza clamoroso che un autore apprezzato per le sue esuberanze lessicali esordisca proprio con la rima cuore / amore, e con una sintassi così incespicante – sarebbe stato sufficiente cantare "già sentivo in cuore" perché la frase filasse liscia: sì, ma Battiato non resiste, con la fatica che deve aver fatto a incidere su vinile nel 1972 un realistico battito di un cuore in anticipo su The Dark Side of the Moon, lui vuole proprio dirci che lo sente, sente "il" cuore (musicalmente la primissima frase somiglia già parecchio all'introduzione di Stranizza d'amuri).

Battiato, dicevamo, nasce con Fetus, e cioè con un'incertezza fondamentale: perché non si è mai capito con quale brano Fetus dovesse cominciare. Nella copertina della prima edizione si legge che il primo brano è l'omonimo Fetus: il disco inizierebbe dunque con il cuore pulsante. Si tratta però di un errore, perché a mettere il disco sul piatto si scopre che il primo brano è Energia, come è anche scritto sulla label: un inizio ancora più suggestivo, con le voci dei bambini di una scuola materna di Milano e le prime ipnotiche sequenze di note sintetizzate. La discrepanza tra la scaletta della copertina e quella del disco ci fa pensare che Battiato abbia cambiato idea all'ultimo momento, magari consigliato da un collaboratore che trovava l'attacco di Energia più appropriato. O forse ha prevalso la coerenza narrativa: Fetus racconta la storia di un embrione a cui comincia a battere il cuore, ma Energia risale a un livello ancora precedente: è una canzone, come dire, sulle emissioni spermatiche. La scelta di cominciare con Energia viene ribadita nella versione inglese, Foetus, che però resta inedita. Invece, quando nel 1998 Fetus viene finalmente ristampato su CD, la scaletta è di nuovo cambiata. Ora il primo brano è Fetus, il che farebbe pensare che chi ha curato la ristampa si sia sbrigativamente basato sulla scaletta della copertina del LP. Ma non è esattamente così, perché Energia, che sulla copertina stava al secondo posto, ora sta addirittura al quarto (tra Cariocinesi Fenomenologia), in una posizione che nella scaletta originale avrebbe potuto occupare l'ultimo brano del primo lato. Che Battiato avesse cambiato idea? A conoscerlo, è difficile immaginare che volesse ritoccare un disco per lui così remoto (e dal quale non attingeva più materiale nemmeno per i concerti). Nel frattempo, appunto, i suoni del VCS30 non sembravano più così fantascientifici, ma ormai modernariato, il che appannava un po' l'attacco di Energia; mentre il battito del cuore di Fetus faceva ancora il suo effetto – e Dark Side of the Moon continuava a vendere come il pane, per cui non è nemmeno impossibile che qualcuno abbia pensato di riconfezionare Fetus per renderlo un po' più pinkfloydiano. 

Nella seconda parte il brano diventa un campionario dei suoni che Battiato è riuscito a estrarre dal VCS3, il pioneristico sintetizzatore su cui era riuscito a mettere le mani, primo in Italia (e terzo nel mondo, a detta di Pino Massara). Sono suoni ancora molto suggestivi, anche se nel finale FB sembra dominato dalla volontà di stupire con effetti speciali. Entusiasmo puerile, più che comprensibile in un embrione. Prima dell'esplosione finale di suoni, compare il fraseggio che risentiremo più tardi in Energia.


1972: Energia (#130)

Più tardi Franco Battiato riuscirà ad accreditarsi presso il pubblico italiano come l'anti-macho, colui che non può essere sospettato non già di concupire, ma di consentire che qualche sua occasionale concupiscenza si tramuti in azione prevaricatrice o anche solo vagamente maliziosa nei confronti di una persona concupita. Proprio per questo è curioso che la sua carriera 'seria' cominci con un'affermazione incredibilmente bomberistica: "Ho avuto molte donne in vita mia, e in ogni camera ho lasciato qualche mia energia". Nientemeno. Ma appunto, solo a Franco Battiato poteva essere consentito di cantare una cosa del genere senza suggerire nessuna velleità da sex machine. 


Per Fetus provo qualcosa di molto particolare: è un disco del 1972, quando ero un feto anch'io, insomma siamo coetanei. Certi suoni di questo disco li sento in un modo particolare – solo certi dischi prog anni '70 mi danno questa sensazione, l'illusione di averli sentiti in un passato remotissimo e in bianco e nero. Potrebbe essere perfino successo, perché no? Potrei essere rimasto davanti al vecchio televisore con quattro tasti e senza telecomando mentre in Rai passava un'intervista al giovane Battiato inframezzata da suoni presi da Fetus. In particolare potrei avere ascoltato i primi secondi di Energia, che fino all'edizione in CD del 1998 era il primo brano del disco ed è qualcosa che a distanza di tanti anni mi dà ancora i brividi, il fraseggio ipnotico del sintetizzatore VCS3 che copre le voci dei "Bambini della Scuola Materna Istituto San Vincenzo di Milano". Nella mia memoria c'è appena l'ombra di un ricordo, è come se quei bambini che parlano li avessi visti giocare e guardare in camera mentre l'immagine si satura di luce come una foto troppo sviluppata. Potrei aver persino provato paura di fronte a una combinazione mai sentita prima di suoni e voci. 

La canzone vera e propria invece no, credo proprio di averla ascoltata già adulto. Tratta di un argomento che nel 1972 doveva suonare davvero scabroso – l'eiaculazione, e la vertigine che il maschio sperimenta quando ci riflette, cosa che avviene (quando avviene) sempre soltanto dopo, prima riflettere è impossibile. Ma dopo a volte ti coglie questo pensiero tremendo, che ti sei liberato in un colpo di migliaia di potenziali vite, diomio sono un mostro, ma che colpa ne ho, la natura è così. “Quanti figli dell’amore ho sprecato io / racchiusi in quattro mura ormai saranno spazzatura”. Di emissioni spermatiche metaforiche o reali Battiato continuerà a cantare per tutta la sua carriera, malgrado la rivendicata castità: in Mesopotamia "la prima goccia bianca che spavento", e come dimenticare l'incipit di Dieci stratagemmi, "eiacula precocemente l'impero" (viene il sospetto che persino il titolo del secondo album, Pollution, sia un tremendo gioco di parole). Ma già nel 1972 la sua concezione del liquido seminale come "energia" che non si dovrebbe sprecare si avvicina più alla trattatistica indù che al mondo morale cattolico. 


 

1971: Una cellula (#116)

Sarò una cellula tra i motori. Battiato ha inciso Fetus mentre era in servizio militare, anzi ricoverato all'ospedale militare perché fisicamente "incompatibile" alla vita in caserma (la sera evadeva saltando un cancello, probabilmente aveva corrotto una guardia o due). La cartolina lo ha sorpreso a metà di una delle sue metamorfosi più delicate, da aspirante cantautore ad artista di avanguardia. Il carattere peculiare di Fetus è proprio in questa natura stratificata: è un disco che vuole assolutamente essere un'opera prima, qualcosa di mai sentito e appena nato, eppure tra i motori smaglianti c'è ancora qualche cellula del vecchio organismo. Una cellula è uno dei brani che più somiglia a una canzone tradizionale: c'è la melodia accattivante, una progressione armonica ben riconoscibile, addirittura il ritornello. Poi, certo, il VCS3 suonato a tutto volume garantisce una carenatura sperimentale: ma dentro a cercare bene c'è ancora il vecchio Francesco Battiato. 

1972: Cariocinesi (#153)


Un nucleo si divide, l'errore lo interrompe. Il fascino particolare di certe opere prime risiede anche negli errori di percorso, in tutti gli esperimenti non riusciti e da lì in poi accantonati che ci fanno per un attimo immaginare che lo stesso artista avrebbe potuto prendere strade completamente diverse, ci è mancato pochissimo. Ad esempio Cariocinesi è un intermezzo jazz nel bel mezzo di Fetus – ok, è un jazz sui generis, una specie di swing con in evidenza il violino di Sergio Almangano, una batteria elettronica usata per la prima volta in un disco italiano e una chitarra ritmica forsennata. Non è certo il momento più innovativo di Fetus, ma è qualcosa di divertente che Battiato non tenterà (quasi) mai più: da lì in poi, pur percorrendo innumerevoli e apparentemente incompatibili universi musicali, dal jazz si terrà sempre a rispettosa distanza: anche nella fase della sua carriera più orientata all'improvvisazione, che sta per cominciare.

1972: Fenomenologia (#128)

Rispetto ai due dischi successivi, a Fetus manca un vero leitmotiv, ovvero ce n'è più di uno ma sono meno ricorrenti e riconoscibili. Del resto è un'opera prima, quel tipo di disco in cui ci sono sempre più idee del necessario: in seguito gli artisti imparano come economizzarle. E c'è ancora molta chitarra acustica, uno strumento che FB maneggia con più sicurezza del synth, per cui c'è questa curiosa inversione: quando si tratta di fare atmosfera, Battiato ricorre alla chitarra arpeggiata (qui all'inizio e alla fine del brano), mentre dal synth tira fuori i riff più rumorosi e in generale il baccano. Riflettendoci, forse una specie di leitmotiv sono le scale discendenti, suonate in momenti diversi sia con la chitarra (qui all'inizio) sia col synth. In Fenomenologia compare anche il primo ritornello mutuato dal lessico scientifico: qui FB mette in musica la formula geometrica della doppia spirale, ovvero "x1 = a*sen (ωt), x2 = a*sen (ωt + γ)".

1972: Meccanica (#126)


Nel secondo lato di Fetus distinguere le tracce comincia a essere complicato. Più di un brano è composto da movimenti diversi e giustapposti, che svelano l'aspetto più sperimentale nel puro senso della parola (FB sta veramente imparando a suonare il nuovissimo synth VCS3) tra cui si distinguono i primi tentativi di trovare un leitmotiv. In Meccanica debuttano alcuni stilemi del Battiato '70: ad esempio il momento in cui il riff elettronico si trasforma in una specie di tarantella. E soprattutto c'è il primo collage di oggetti trovati, anche questo ancora embrionale ma promettente: una discussione tra gli astronauti dell'Apollo 11 montata sul sottofondo dell'Aria sulla Quarta Corda di Bach, rallentata da Battiato (perché nella sua testa la sentiva "più lenta") appesantendo il disco con una peso. È un momento che doveva suonare particolarmente suggestivo agli ascoltatori del tempo, per una serie di effetti che forse oggi facciamo più fatica a percepire: non soltanto montaggi sonori di questo tipo sono diventati molto più semplici da realizzare e ascoltare, ma l'associazione tra spazio interplanetario e Aria sulla Quarta Corda è diventata un po' banale, dopo decenni di Quark e Superquark. A dire il vero quando Battiato incise Fetus, Piero Angela aveva già portato in tv la versione dell'Aria degli Swingle Singers da cui non si sarebbe mai più separato, in una trasmissione che non si chiamava ancora Quark ma Dimensione uomo (1971). È difficile che Battiato non conoscesse la trasmissione – ma magari l'aveva vista distrattamente, al bar, e il collegamento tra Bach e astronauti gli era rimasto impigliato nell'inconscio. E due anni prima, comunque, tutti sono andati al cinema a vedere e ascoltare 2001 Odissea nello spazio, con tutti quegli Strauss suonati nello spazio profondo.  

1972: Anafase  (#178)


In biologia l'anafase è "la terza fase della divisione del nucleo cellulare caratterizzata dalla scissione dei centromeri presenti nei cromosomi, dalla separazione dei due cromatidi che vi erano attaccati e dalla loro migrazione ai poli del fuso". Musicalmente, Anafase comincia come un brano cantautoriale per voce e chitarra che riprende sottilmente l'Aria sulla Quarta Corda che abbiamo intrasentito in Meccanica. È il momento più davidbowieano di tutto Fetus, anzi di tutta la carriera di Battiato: si respira la fragranza di quella miscela particolare tra ballata acustica e suggestioni cosmiche che ci obbligano a domandarci se non si tratti di una convergenza evolutiva: cioè Battiato stava per inventare Ziggy Stardust con qualche mese d'anticipo? o non piuttosto un'influenza diretta: possibile che Battiato conoscesse Bowie, negli anni in cui quest'ultimo, dopo il successo di Space Oddity, faticava a farsi conoscere anche in patria? Di Bowie, Battiato non aveva praticamente mai parlato: solo dopo la sua morte consegnò ai giornalisti un ricordo un po' confuso in cui ammetteva di aver amato "da pazzi" Space Oddity e non solo"Hunky Dory  i biondi capelli, una femminilità fotografica, alla Greta Garbo. Aveva già rinnegato il passato, per il futuro. Londra era una polveriera. La droga imperversava. Io volevo vedere e capire quello che capitava. La mia paura era di passare di fianco a una nuova moda che stava per arrivare. Non desideravo altro che locali..." Dunque Battiato potrebbe in effetti avere ascoltato già nel 1971 Hunky Dory, un disco che prima del successo di Ziggy Stardust (uscito sei mesi dopo Fetus) era sconosciuto anche a gran parte del pubblico inglese? Non so quanto questo sia compatibile col servizio militare che Battiato avrebbe assolto (faticosamente) proprio nel 1971. Del resto si tratta di un momento brevissimo, una strofa appena dopodiché la canzone prende una svolta completamente imprevista, lasciando spazio ai synth che stavolta dovrebbero suggerire una fase di quiete (forse l'ibernazione per un viaggio spaziale, dal testo si intuisce qualcosa del genere). È davvero come assistere alla terza fase della divisione del nucleo cellulare di FB: da un cantautore si separa l'avanguardista. Proprio nel momento in cui il cantautore poteva diventare il Bowie italiano... troppo tardi.  


1972: Mutazione (#183)

Fetus era anche, in qualche modo, un concept album, con una storia che aveva a che fare con un feto (o più di uno) e un viaggio interstellare. Nell'ultimo brano il feto si risveglia appunto dopo migliaia di anni e avverte le vibrazioni di non ulteriormente specificati "corpi di pietra" che stanno per arrivare. Potrebbero essere anche i "motori" di cui parlava all'inizio dell'album ("sarò una cellula / tra i motori") e quindi la storia tratterebbe di un eterno ritorno. Anche da un punto di vista musicale Mutazione è più simile a una canzone tradizionale e termina con un coro cantato sull'ennesima scala discendente – FB le usa tantissimo su Fetus, per scelta o perché gli vengono spontanee. È una soluzione un po' naif, ma ricordiamo sempre che è ancora poco più che un embrione. 



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Ieri notte un selezionatore umano di canzoni artificiali mi ha salvato la vita

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Da qualche parte leggo che un'Intelligenza Artificiale ha scritto un pezzo dei Beatles che fa piangere i fans. Ora io i fans li ho un po' bazzicati – avevo un libro da vendere – e pur trovandoci esperti dal gusto sopraffino come tu che stai leggendo, ho riscontrato una certa disponibilità alla lacrima. Comunque la curiosità ha facile gioco sulla voglia di lavorare: googlo il pezzo. Ne trovo uno che mi sembra familiare, il che avrebbe senso; le voci di McCartney e Lennon si alternano tra strofa e ritornello, come succedeva in Free as a Bird ma in pochissime altre canzoni del repertorio originale. Al netto delle voci, sembra un pezzo dei tardi XTC: ha un senso anche questo. Ho già in mente cosa scrivere: le AI non stanno facendo nulla che gli esseri umani non abbiano già realizzato dal 1970 in poi. Jeff Lynne, Andy Partridge, qualche Gallagher, che altro hanno ci hanno allestito per decenni se non falsi d'autore? E se tutti questi raffinati compositori non ci hanno soddisfatto, e neanche i Gallagher, che ci aspettiamo ora da un'AI? Una tale mancanza di personalità che le consentirebbe di non aggiungere assolutamente nulla di nuovo al blend degli unici ingredienti che desideriamo? È un desiderio che tradisce la natura maniacale di quello che ormai è un culto: la convinzione che ciò che hanno realizzato quattro, e solo loro, e solo tra il '62 e il '69 sia qualcosa di irripetibile e irripetuto. Un giudizio che è facile condividere se si ascolta solo il loro repertorio, magari ricomprandolo a ogni Natale reimpacchettato in un formato diverso. Il prezzo per alimentare il mito dei Beatles è ignorare quasi tutta la musica che sta attorno: quella che ascoltavano, che copiavano, e quella di chi li ascoltava e li copiava. Persino la musica che i Quattro hanno fatto poche settimane dopo essersi sciolti, ecco: abbiamo più voglia di ascoltare finta musica di un'AI che la musica vera che continua a fare, per dire Paul McCartney...

...E proprio mentre penso a questo, mi rendo conto che quella che sto ascoltando è, effettivamente, una canzone di McCartney, da uno di quei dischi degli ultimi anni che si ascoltano, si apprezzano e poi si dimenticano perché è uscito un altro cofanetto deluxe dei Beatles. L'AI in questo caso non c'entra un bel niente. L'unico aspetto artificiale è la contraffazione digitale della voce di Lennon, che lo sostituisce nel ritornello: insomma non si tratta di tecnologia AI ma di un ormai banale deepfake – ma il titolista che capitalizza sulla mia attenzione non può più scrivere "deepfake", nessuno clicca più i deepfake, adesso la parolina magica che tutti cliccano è "AI". Che è sempre meglio di quanto tutti dovevano dire metaverso. Sono stato vittima di un dirottatore di clic, la canzone 'alla Beatles' fatta da un'AI da qualche parte esiste davvero. 


Non è altrettanto orecchiabile. Somiglia un po' meno agli XTC, un po' più forse agli ELO; le voci di Lennon e McCartney non ripartiscono strofe e ritornelli perché davvero dal punto di vista statistico non avrebbe senso; una volta feci il conto, succede in cinque canzoni su duecento. Il che mi fa riflettere: se chiedi a un'AI di scrivere un pezzo di Lennon/McCartney, gli stai chiedendo di restare in un range di possibilità. L'AI si ascolta il repertorio e comincia a mettere in fila i suoni che si ascoltano più spesso; è chiaro che a cadere è la coda lunga dei suoni meno ricorrenti. Via il timpano, perché c'è solo in Every Little Thing; via probabilmente anche l'armonica dei primi singoli e l'hammond di Billy Preston; sono iconiche ma l'AI a questo livello ancora non lo sa. E l'accordo iniziale di A Hard Day's? Quello finale di A Day in the Life? Sono hapax, compaiono una volta sola in tutto il canone; se ragiona in banali termini di frequenza statistica, l'AI non li includerà. Così come certe progressioni bislacche che appaiono in una canzone sola di tutto il repertorio, per dire, Yesterday. È abbastanza facile obiettare che quello ci piaceva dei Beatles erano viceversa queste sorprese impreviste, e che quei singoli accordi e certi assoli completamente incongrui (In My Life! Penny Lane!) sono più importanti di dozzine di altre canzoni incise un po' a macchinetta – per dire è molto più probabile che l'AI indulga in sonorità country che non associamo così tanto ai Beatles, perché Beatles for Sale non lo ascoltiamo poi così spesso. Insomma alla fine anche da un'AI più competente, e un giorno lo sarà, non potremo che aspettarci un brano più banale dell'originale, mediocre nel senso più preciso del termine: e questo non perché l'automa non abbia un'"anima", ma perché la banalità, la mediocrità, era nelle istruzioni che gli abbiamo fornito. Il punto è che noi non vogliamo davvero che l'AI continui l'opera dei Beatles; noi vogliamo piuttosto che ci confermi che l'opera dei Beatles è insuperabile, anche dai computer con potenza di calcolo infinitamente superiore a quella che serviva per battere a scacchi Kasparov. 

A questo punto un ingegnere (che non amasse particolarmente i Beatles) potrebbe suggerirci una soluzione: la mediocrità sta nel fatto che avete infilato duecentocinquanta canzoni in un computer e gli avete chiesto di comporne una sola: è chiaro che l'abbia pescata nel mezzo. Ma fategliene scrivere un migliaio: a quel punto cosa succederebbe? La maggior parte sarebbero senz'altro mediocri; ma da qualche parte magari c'è una variazione di Blackbird col campanaccio di Drive My Car che supera gli originali. A questa soluzione obietto che... niente, non mi viene niente di sensato da obiettare. Potrebbe davvero funzionare, un sacco di capolavori non sono che variazioni di altre opere a cui aggiungono un imprevisto non-so-che. In effetti non so perché non abbiano già iniziato a produrre variazioni Goldberg a manetta. Ascoltandole, è chiaro che non le troverei superiori a quelle di Bach, ma semplicemente perché le ho già ascoltate e mi ci sono affezionato: è quel senso di familiarità che l'ascoltatore troppo spesso confonde col senso estetico. Qualcun altro potrebbe far notare che comunque, essendo finito il numero di informazioni che abbiamo fornito all'AI, non si potrebbe fare niente di veramente nuovo, ma questo non è vero per tutti i compositori in carne e ossa? Non partivano tutti da una cultura relativamente limitata, eppure in qualche modo non sono riusciti quasi tutti ad aggiungervi qualcosa? E questo 'qualcosa' quante volte non è stato un frutto del caso, un glitch, uno scherzo che il compositore non prendeva sul serio? Questi glitch, siamo sicuri che non potrebbe farli anche un'AI? Se gli diamo tutto Bach e aggiungiamo, che so, un pezzo di Afrika Bambaataa e una sirena dei pompieri, siamo sicuri che il risultato sarà al 100% derivativo, e che non troveremo almeno un 5% innovativo? Il problema forse in futuro sarà filtrare quel 5%.



Insomma il creativo del futuro me lo immagino molto meno operativo – ma è una tendenza che è cominciata secoli fa, una volta dovevi saper tenere pennello e scalpello in mano, oggi c'è gente che non sa dove si accende il computer con cui pure lavora. Suonerà sempre meno, di scolpire e dipingere ha già smesso. Quel che farà è guardare, ascoltare, filtrare. Il creativo del futuro sarà un critico: gli dai diecimila canzoni in stile Beatles+IntiIllimani e gli dici: hai un mese per trovare la prossima hit per il mercato peruviano. Ehi, potrebbe persino funzionare, voglio dire, ascoltare tutti i giorni canzoni su canzoni (perlopiù brutte) sembra davvero un mestiere. Noioso, ripetitivo, faticoso, relativamente remunerativo. Non è un mestiere che farei (ci metto anni per capire se una canzone mi piace), mi sembra quasi l'inferno in terra perché, tra le altre cose, mentre fai un lavoro del genere non puoi neanche metter su un disco decente; però potrebbe consentire a una contenuta classe di persone un reddito ed è quello che ci interessa, ne siete consapevoli? Che quando ci domandiamo se la tale cosa è Arte, la vera domanda che ci stiamo facendo è: riusciremo a farne un prodotto sostenibile, senza far crollare la domanda con un'esplosione dell'offerta? Che dietro a una questione estetica abbastanza oziosa c'è una ben più pressante questione economica? Perché se si trattasse semplicemente di valutare se il prodotto X è bello o no, la questione dell'autorialità sarebbe secondaria come lo era nel Medioevo. Un quadro è bello sia che lo dipinga un essere umano, sia che lo dipinga un'AI, no? In teoria sì, ma così come non vogliamo davvero altre canzoni dei Beatles, probabilmente non vogliamo nemmeno altri Caravaggio; e la prova è che chi è bravo come Caravaggio oggi si ritrova a disegnare sui marciapiedi coi pastelli. Può darsi che i motivi per cui adoriamo i Beatles e/o Caravaggio non siano prettamente estetici, ma abbiano più a che vedere con le narrazioni che abbiamo costruito intorno a determinati manufatti – il motivo per cui i brani incisi da Lennon e McCartney nel 1969 ci sembrano geniali, e quelli incisi dalle stesse persone nel 1971 quasi trascurabili. Così oltre ad ascoltare un sacco di robaccia tutta uguale per trovare il brano tra mille che ha quel quid imponderabile, l'artista del futuro probabilmente dovrà preoccuparsi di costruirci sopra una narrazione. All'inizio saranno storie simili a quelle che già ci raccontiamo – avremo qualche boyband che in teoria si scrive le canzoni da sola, può darsi che in Corea ci siano arrivati dieci anni fa. E poi pian piano accetteremo che l'artista ormai è diventato un filtro, e qualcuno ci racconterà che stava guidando a fari spenti nella notte quando bang! la centoventireesima variazione di God Only Knows ibridata con la Quinta di Mahler lo ha dissuaso dal suicidio.


Qualcuno potrebbe ulteriormente obiettare che anche questo mestiere di filtro lo saprebbe fare un'AI: probabilmente alla lunga sì, probabilmente qualsiasi cosa noi facciamo lo può fare una macchina, e meglio. Del resto non stiamo già usando algoritmi che ci suggeriscono le canzoni nuove da ascoltare, in base ai nostri gusti? Quindi sì, in linea di massima puoi prima dire a una macchina: scrivimi ottocento canzoni dei Beatles, e poi a un'altra macchina (ma magari alla stessa): ascoltale e seleziona quella che piacerà la prossima settimana ai boomer della Cornovaglia in base al meteo e all'andamento della borsa. In prospettiva, non vedo perché non dovrebbe andare a finire così. Potrei obiettare (ma quante obiezioni ci sono in questo pezzo) che la macchina tenderà sempre a scegliere il risultato mediocre, mentre quello che davvero vogliamo è la sorpresa, il glitch, la progressione di Happiness is a Warm Gun, l'accordo di A Hard Day's Night. Cioè che per quanto le macchine potranno diventare brave a capire cosa ci piace, noi riusciremo sempre a deluderle e a cambiare gusti all'improvviso, come i gatti con le crocchette, forse ci evolveremo nei gatti dei nostri appartamenti iperaccessoriati, i maggiordomi digitali passeranno il tempo a chiederci se vogliamo entrare o uscire e noi li faremo impazzire. La nostra spinta a costruire macchine che ci sostituiscano è pari alla nostra necessità di sentirci diversi da loro, originali, imprevedibili, indecifrabili. 

Nel 1956 su un giornaletto di fantascienza uscì un racconto di James Blish, A Work of Art. Racconta la seconda vita di Richard Strauss, che (spoiler alert) un giorno si sveglia in una clinica, in un corpo che non è il suo. Gli spiegano rapidamente che non è lo Strauss che crede di essere, ma una copia il più fedele possibile all'originale, realizzata da due "scultori della mente" nel 2161. Il nuovo Strauss trova naturale rimettersi a scrivere musica, e viene incoraggiato in tal senso. In capo a pochi mesi realizza un'opera che gli sembra la naturale evoluzione del suo stile. Ma la sera della prima, riascoltandosi, si rende conto che in quello che ha scritto non c'è nulla davvero di nuovo: sono solo vecchie soluzioni di Richard Strauss, rimescolate in una forma diversa. Però la gente applaude. Guardando meglio, Strauss si accorge che non applaudono lui, ma i due scultori della mente: l'opera che stanno apprezzando non è la musica, è lui. Quanto alla musica, non hanno il senso estetico necessario per capire quanto sia derivativa e deludente: è l'ultimo consolante pensiero dell'AI di Strauss, prima di essere spenta. 

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Il periodo Polydor e l'album perduto (1968/69)

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(Prosegue la discografia di Franco Battiato. 

L'episodio precedente: i primi singoli

L'album successivo: Fetus)

Nell'estate del 1968 "Franco Battiato" è un nome ormai ricorrente nei cartelloni delle balere milanesi: in classifica però non lo ha ancora visto nessuno. Dopo la deludente esperienza con la Jolly Records, è un'etichetta della Philips, la Polydor, a interessarsi alle sue proposte. Con la Polydor Battiato accantonerà i toni 'esistenzialisti' dei singoli Jolly e cercherà di accreditarsi come cantante confidenziale. È una scelta che ottiene subito un buon risultato (almeno il primo singolo, È l'amore, finalmente porta Battiato in radio) ma di cui in seguito si vergognerà profondamente – dovranno passare almeno trent'anni perché Battiato ritorni con Fleurs al genere confidenziale, accettando un passato da cui fino a quel momento si era ritratto con esibito fastidio. Anche in seguito, nessun brano del periodo Polydor è stato riabilitato, reinciso o interpretato dal vivo: al punto che si ha la sensazione, riascoltando queste canzonette, di fargli un torto. A imbarazzarlo, più che le canzoni in sé, doveva essere stata la posa da chansonnier che gli era capitato di assumere: una "maschera inutile" che gli aveva consentito di rimanere un po' sulla breccia, ma che col senno del poi andava liquidata come una perdita di tempo. 

In effetti gli esordi compositivi di Battiato (finalmente iscritto alla Siae) sono più frustranti di quelli di altri autori, che sin dalle prime prove dimostrano la propria identità: si fa davvero molta fatica a trovare Battiato in È l'amore o Sembrava una serata come tante. È come se nel 1968 Battiato non esistesse ancora: le canzoni che scrive col chitarrista Giorgio Logiri sono completamente funzionali al contesto in cui si è ritrovato. Sono scritte per passare alla radio o per essere suonate in balera. Per cercare l'autore Battiato dobbiamo ridurci a far caso agli inciampi, ai motivi per cui dopo il primo singolo gli altri brani in effetti in radio non passavano (e magari in balera facevano il vuoto); l'ingenuità dei testi, i vezzi stilistici (quei ritornelli rallentati), le incursioni rock di Logiri, che sogna il rock inglese ma deve anche suonare le mazurke. 

1968: È l'amore (#244) 

Guarda le sere che passo se non sei con me. Di fronte a È l'amore bisogna avere pazienza e ricordare che se in seguito abbiamo potuto godere di Battiato, del privilegio di ascoltarlo e di invecchiarci un po' assieme, lo dobbiamo anche a questa canzonetta senza visibili pretese, con la fisarmonica nel ritornello addirittura, e notate che era il 1968, il maggio parigino, le pantere nere alle Olimpiadi mostravano il pugno e Battiato cantava È l'amore su una base di fisarmonica, nella vita può capitare anche questo. È l'unico singolo che riuscì a mandare in classifica negli anni Sessanta (si parla di "centomila copia vendute"), sono numeri che oggi sembrano impossibili ma al tempo forse no. È quello che gli permise di tenere insieme un complesso, "il suo complesso", e andare avanti con le serate. Non è neanche una canzone così terribile, e tradisce già uno dei temi ossessivi che FB porterà con sé per tutta la carriera, l'associazione dell'amore alla stagionalità. Forse Battiato aveva già dimostrato di avere qualcosa da dire più interessante di "è l’amore che mi prende piano piano per la mano", però "mentre l’acqua dietro ai vetri già discende lentamente" prometteva bene. Il brano fu coverizzato sia in francese (Formidable) che in inglese (Winter Love). 


1968: Fumo di una sigaretta (Battiato/Logiri, #245) 

L'amore? È meglio se lo sognerai in cucina, l'amore. Il lato B di È l'amore mette a fuoco l'ambiguità della coppia Battiato/Logiri: il primo è ancora un cantante deciso a sfondare nell'ambito sentimentale (l'unico in cui sia immaginabile sfondare in Italia anche in quel 1968); il secondo è un chitarrista infatuato di Jimi Hendrix: una passione che sul lato A si deve per forza contenere, ma esplode poi nel lato B creando quest'ibrido abbastanza peculiare tra Sanremo e il rhythm'n'blues, struggimento d'amore e assoli distorti. Battiato è un ex innamorato deluso dell'amore che rifiuta le avances di una ragazzina – per la verità non le ha proprio rifiutate del tutto, un bacetto c'è stato ma è poca roba, non ti credere, torna a casa bimba, non hai idea. La chitarra dovrebbe sottolineare questo messaggio virile: l'amore è roba da adulti, ti devasta, stanne fuori. È difficile non riderci sopra, oggi, soprattutto pensando a quanto poco si sarebbero adattate ai Battiati successivi le pose sentimentali o machiste. E comunque la canzone non è che giri tantissimo, è una strana chimera che non poteva andare lontano. Ma ci voleva del coraggio, della disponibilità a sperimentare, e Battiato ce l'aveva.
 


1969: Bella ragazza (Battiato/Logiri, #242)

Bella ragazza Occhi d'or è il 45 giri con cui Battiato e Logiri dilapidano il capitale di credibilità acquisito con È l'amore. Accade qui per la prima volta quello che si ripeterà poi in diverse situazioni (ad esempio con Aries L'arca di Noè): appena FB capisce di aver trovato una formula che piace al pubblico, la butta via. In questo caso la dilapidazione avviene su due fronti: su quello testuale, Battiato riparte con la solita tritissima retorica degli amori stagionali – stavolta lui è al mare e lei non c'è, chiamiamola posizione dell'Azzurro rovesciato – e la porta avanti fino all'autoparodia: piove, lui è triste, pensa a lei e non riesce a divertirsi, ma poi nella seconda strofa finisce di piovere e lui ha già smesso di essere triste, insomma credevate che fosse amore ed era meteoropatia. Sul fronte degli arrangiamenti, Bella ragazza è un esempio tipico di cosa succede quando lasciate dei ragazzi volonterosi ma inesperti con un medio budget e un registratore otto piste: un'orgia sonora. Si parte con chitarre, violini e batteria (e un clap di mani riverberato) e si arriva coi fiati e sul finale c'è persino una specie di assolo di tastiera che ha già qualcosa di Fetus. Al centro compare quel vezzo compositivo che compromette ulteriormente la potenzialità commerciale del brano: Battiato rallenta il ritmo nel ritornello. Succederà anche in Vento caldo e non ha molto senso: ma forse è il primo tentativo di realizzare quella sospensione ritmica che riascolteremo poi in Summer On a Solitary Beach o nel Vento caldo dell'estate


1969: Occhi d'or (testo di Paolo Farnetti; musica di Federico Mompellio e Giorgio Logiri, #252)


Laggiù, tra deserti d'or, ho lasciato il cuor. La canzone più folle del Battiato anni '60 – l'unica che lascia presagire le bizzarrie del decennio successivo. Invece nulla di quanto aveva fatto fino a quel momento poteva preparare l'incauto ascoltatore a Occhi d'or, infida già dal titolo – chi sospetterebbe mai, voltando il 45 giri di una canzoncina orecchiabile come Bella ragazza, di incappare sul lato B in una deriva psichedelica del genere, un kolossal in technicolor? È incredibile pensare che Battiato non ne abbia scritto né testo né musica – ma per metterci la faccia e la voce ci voleva comunque un certo coraggio. A questo punto della sua traiettoria, FB è un cantante di medio successo (unicamente grazie al singolo È l'amore) ma soprattutto un onesto artigiano della canzonetta: le scrive, riesce a piazzarle anche all'estero (Bella ragazza avrà una traduzione in inglese, in francese e fiammingo), collabora con Gaber, Maurizio Arcieri, Daniela Ghibli. È il momento in cui forse puoi cominciare ad allargarti un po', a mostrare quello che saresti in grado di fare se non fossi incatenato al formato dei tre minuti. Questo tipo di sperimentazioni erano ammesse soltanto sui lati B, e in Occhi d'or Battiato e il compare Logiri sembrano voler condensare in un solo lato B decine di esperimenti. C'è una varietà di strumenti mai sentita prima (un gong?), un orientalismo che è ancora posticcio ma col senno di poi sappiamo quanto sia anticipatore; il coraggio già progressive di cambiare completamente ritmo a due minuti dall'inizio; e poi, due minuti dopo, cambiare tutto di nuovo con una coda che è copiata di pacca da Hey Jude. Che viaggio.


L'album perduto

Nell'aprile del 1969, pochi giorni dopo aver completato il singolo Bella ragazza / Occhi d'or, Battiato e Logiri entrano nella sala di registrazione della Philips in piazza Cavour a Milano per registrare un intero 33 giri con un'orchestra. Si tratta di un investimento inusuale per il mercato discografico del tempo, tanto che il dirigente che aveva dato il via libera (Maso Biggero) raccontò di essere stato rimproverato dai superiori per i soldi buttati via. Se fosse uscito, sarebbe stato uno dei primi 33 giri italiani a non essere concepiti come una semplice raccolta di singoli (anche se i brani sui due già incisi erano compresi), e avrebbe illuminato di una luce diversa gli esordi di Battiato, dimostrando che anche nel periodo più canzonettistico Battiato non aveva rinunciato alla sperimentazione. Potrebbe persino trattarsi del primo concept album italiano, se le canzoni – come sembra di poter dedurre dalla scaletta dei titoli – raccontano una storia, ovviamente d'amore. L'album però fu bocciato: a decidere che Battiato, dopo il successo non clamoroso di un unico singolo, non valesse l'investimento di un LP, fu Alain Trossat, il boss Philips del tempo: questo almeno a detta di Biggero. Il disco non è propriamente un incompiuto: i brani furono tutti registrati, ma mai incisi su LP. Lo stesso Logiri non li riascoltò mai. Non sappiamo nemmeno quale dovesse essere il titolo. Secondo il fonico Bruno Malasoma avrebbe potuto intitolarsi Mesopotamia o Iloponitnatsoc: due titoli veramente improbabili per il mercato discografico del tempo. 

Conservati nei forzieri della Philips, in seguito rilevata dalla Universal, i nastri furono ritrovati nel 2003 da Franco Zanetti, che sperava di poterli pubblicare in un cofanetto antologico: un progetto contro il quale Battiato si sarebbe opposto "fieramente". La circostanza è raccontata dallo stesso Zanetti in appendice al volume di Carla Spessato, Franco Battiato, Giunti 2021. Dell'album dunque conosciamo solo i brani che in seguito furono pubblicati su 45 giri o altre raccolte. Zanetti ha trovato diverse scalette e dà la sensazione di aver ascoltato tutte le canzoni tranne una misteriosa, Ciao Marlene, che in un primo momento avrebbe dovuto essere la traccia finale del lato B, ma "nessuno dei partecipanti ai lavori se ne ricorda". Potrebbe trattarsi semplicemente di un titolo provvisorio per Marciapiede, che in un'altra scaletta era intitolata La battona.  

È facile immaginare che la bocciatura del progetto sia stato uno dei motivi per cui Battiato nel 1969 decide di stracciare il contratto con la Polydor: da lui volevano soltanto dei singoli e a lui tutti questi singoli di successo non stavano riuscendo. In realtà lo strappo sarebbe avvenuto qualche mese dopo, magari in seguito all'insuccesso di Sembrava una serata come tante


1969: Gente (Bonoldi/Logiri, #246)

Una battuta forse involontaria che ho trovato su Youtube è "Gente è Iloponitnatsoc registrata al contrario", ok, è una battuta per battiatofili spinti; diciamo che Iloponitnatsoc – un frammento di Gente inciso al contrario – rischia davvero di essere relativamente più famoso di Gente, uno dei brani più anonimi che Battiato abbia inciso. La melodia era tutta di Logiri e Battiato stavolta si astenne anche dal partecipare con il testo. Quest'ultimo potrebbe essere il prodotto di un generatore di canzoni d'amore triste: le frasi che Giovanni Bonoldi mette assieme sono di una banalità che sconfina nel nonsense ("Quante notti da solo aspettando l’aurora: fino a domani estate sarà") Battiato le canta senza crederci troppo, suggerendo qua e là una sensazione di autosabotaggio. Il brano sarebbe poi finito sul lato B di Sembrava una serata come tante.

1969: Lume di candela (Battiato/Logiri)

Diverse canzoni dell'album perduto non possiamo semplicemente ascoltarle: non solo Battiato si è opposto fieramente alla pubblicazione, ma non sono state depositate alla Siae. Lume di candela però era depositata, perché già incisa da Daniela Ghibli, ex valletta di Settevoci, che malgrado il cognome evochi subito dune e venti del deserto così cari all'immaginario battiatesco, è nata a Velezzo Lomellina. La versione battiatesca invece fu pubblicata già negli anni Ottanta in un'antologia dell'Armando Curcio Editore. A orecchio non sembra un provino per la Ghibli, ma anzi suona arrangiata o almeno prodotta un po' meglio: segno che davvero per qualche giorno Battiato nella sala Cavour aveva potuto disporre di un budget di tutto rispetto. L'avesse incisa lui, sarebbe stata facilmente il suo migliore singolo del periodo Polydor: un bel pezzo italiano ma con qualche reminiscenza di Procol Harum, che in quel 1969 era il punto di arrivo di chi dal rock cercava di gettare il ponte verso qualcosa di più melodico. Insomma questo Logiri le canzoni stava imparando a scriverle, forse avrebbe dovuto continuare; e lo stesso Battiato qualche passo avanti con le parole lo stava facendo.  

1969: Iloponitnatsoc (Battiato/Logiri)

Il titolo è "Costantinopoli" al contrario, e la canzone è un frammento di Gente incisa al contrario. Tutto qui, e ben tre anni dopo che Napoleon XIV aveva pubblicato  aaaH-aH ,yawA eM ekaT ot gnimoC er 'yehT. Niente di pionieristico, insomma; però qualcosa di decisamente diverso da quanto Battiato avesse fatto fino a quel momento, e di più simile a quello che farà dal '72 in poi. Probabilmente si trattava di poco più di uno scherzo per aumentare il minutaggio del disco: secondo Logiri peraltro l'idea fu sua, non di Battiato. Il quale Battiato comunque non avrebbe più smesso di pasticciare coi nastri rovesciati. Il brano finì pubblicato, per ragioni imponderabili, su un'antologia della Philips, Hit Parade Vol. 2, una cosa che cominciava con gli Aphrodite's Child, passava per Israelites di Desmond Dekker e finiva con Oh Happy Day, per cui persino un Battiato rovesciato tutto sommato poteva starci.  

1969: Lacrime e pioggia (Pachelbel/Pallavicini/Papathanassiou)

Lacrime e pioggia è una cover di Rain and Tears degli Aphrodite's Child, il brano con cui la progressione Pachelbel entra ufficialmente a far parte della musica pop europea – il debito è talmente evidente che l'oscuro compositore è incluso nei credits accanto a Vangelis Papathanassiou. Quando Battiato ci si cimenta, erano probabilmente già nei negozi di dischi un paio di cover italiane con lo stesso testo di Pallavicini. Rispetto ai Trolls e ai Quelli, Battiato ha l'impudenza di dare maggior risalto alla sua prestazione vocale, ovvero di sfidare Demis Roussos nel suo campo! E pur essendo un confronto impari, non ne esce malaccio (forse è più ispirato dalla cover italiana di Dalida che da Roussos). Registrata probabilmente durante la lavorazione dell'album perduto, Lacrime e pioggia non compare però in nessuna delle scalette dell'album – segno che Battiato e Logiri pensavano a un disco organico, senza cover. Fu pubblicata per la prima volta nella raccolta pubblicata dalla Armando Curcio Editore nel 1982, quando il nome "Battiato" avrebbe venduto qualsiasi cosa. Nel 2008 poi Battiato si ricorderà degli Aphrodite's Child riprendendo It's Five O'Clock, neanche a farlo apposta un'altra Pachelbel. Ma era meglio questa.


1969: Sembrava una serata come tante (Battiato/Logiri, #254)

Non ti avrei detto sì: chiudiamola qui. Di Sembrava una serata su Youtube resiste la versione cantata dal vivo con l'orchestra alla "Mostra Internazionale di Musica Leggera di Venezia" che non doveva essere proprio un festival di secondo piano, visto che sul palco si aggirava Mike Bongiorno. Dovrebbe trattarsi della "sfortunata esibizione televisiva" citata da Fabio Zuffanti (2020) con "l'orchestra che sbaglia clamorosamente la tonalità", episodio che "spingerà il nostro a serie decisioni sul suo futuro musicale". Quel che è certo è che non c'è esattamente sintonia tra l'orchestra e il giovane cantante con basette e occhialoni alla Nicola Di Bari, così poco soddisfatto della sua esibizione da scappare dal palco proprio subito dopo aver cantato "chiudiamola qui", senza aspettare gli applausi. Sarebbe stato di parola: Sembrava una serata come tante è il suo ultimo tentativo di sfondare come cantante confidenziale (l'ultimissimo singolo per la Philips, Vento caldo, sarebbe uscito a contratto già stracciato). È l'episodio più simil-francese di questa sua prima carriera, ma è anche una dimostrazione del fatto che Battiato questi francesi li ammirava senza capirli bene: la canzone che gioca sulla disillusione dell'innamorato che si scopre tradito è un classico della linea Brel-Aznavour, richiede un approccio teatrale, il cantante deve trasformarsi in un patetico oggetto di derisione e Battiato questo non era proprio in grado di farlo, né nel 1969 né in seguito. Lo spiega proprio qui: "Se non avessi avuto l'orgoglio che c'è in me": appunto, per fare canzoni del genere bisogna rinnegare l'orgoglio. 

Dalla nostra distanza è facile capire che Battiato si stava infilando in un vicolo cieco: insomma, era già il 1969, l'anno di Woodstock, Tommy Abbey Road, e Battiato si ritrovava in abito scuro davanti a un'orchestra a cantare di splendide serate finite male, un chansonnier fuori tempo massimo, con questa mania di rallentare i ritornelli per dare rilievo a un'interpretazione enfatica che la sua voce non sempre riusciva a sostenere dal vivo – sul serio, vien da pensare: chiudiamola qui. Non fosse che.
Non fosse che in quello stesso 1969, in un altro festival della musica leggera, un ragazzo similmente riccioluto e non del tutto a suo agio con l'orchestra porta una canzone scritta da lui, con cambi di tempo e interpretazione un po' enfatica: la canzone era Un'avventura, non a tutti piacque, ma oggi nessuno pensa che Lucio Battisti avrebbe fatto meglio a chiuderla lì e a buttarsi sull'elettronica. 


1968: Vento caldo (#256)


Tra 1965 e 1968 Battiato le prova un po' tutte, accodandosi a più di una tendenza musicale. Vento caldo è il suo tentativo proto-prog, ed è uno dei mille brani che in quel periodo risentono del successo di A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum tentando di imitarne la formula: l'inserimento di melodie classiche nei brani pop. Se i Procol si erano limitati a ispirarsi a Bach, l'anno dopo gli Aphrodite's Child avevano fatto il botto copiando di pacca il Canone Pachelbel ed evidenziando i vantaggi economici del procedimento: i compositori classici non ti possono denunciare, non possono prendersi i diritti, non sono neanche iscritti alla Siae e incidentalmente hanno scritto un sacco di riff orecchiabili: bisogna essere fessi per non provare a scopiazzare qualcosa. Battiato fesso non è, ma ha comunque idee strane: è la prima volta che arrangia un brano e non vuole rispettare i 4/4 che per l'hit parade italiana sono ancora molto importanti e forse è ossessionato da un brano non così facilmente canzonettabile come il Concerto n.1 per pianoforte e orchestra di Ciaikovskij. Lo ritroveremo trent'anni più tardi in un brano di Ferro Battuto, ancora abbastanza incongruo – ma nel frattempo lo avremo memorizzato a causa di caroselli e pubblicità. Il testo è l'ennesima variazione su un tema che perseguitava ben più ossessivamente gli ascoltatori di canzonette: l'estate sta finendo. Anche Battiato in seguito ci regalerà variazioni esistenziali e metafisiche sul tema, ma qui siamo ancora al grado zero: l'estate sta finendo e ti devo lasciare. È anche un involontario commiato di FB alla Polydor, che lo fece uscire solo nel 1971 quando l'artista era ormai assorbito da altre avventure musicali. 

1969: Marciapiede (#251)

Quando ti ho conosciuta, un anno fa, solo per poche lire davi te: ora sei una signora, già si sa: eri sul marciapiede e sei con me. Con Marciapiede finisce, abbastanza ingloriosamente, l'avventura canzonettistica di Battiato: è il lato B del suo ultimo singolo (Vento caldo) ed è anche la prima canzone completamente firmata da lui. I lati B com'è noto servivano a sperimentare cose un po' meno formalizzate; qui invece la musica è abbastanza semplice, in compenso l'argomento è per i tempi piuttosto scandaloso: la storia di un amore che dovrebbe redimere una prostituta di strada – ma Battiato essendo già Battiato, l'amore è destinato a finire e la ragazza a tornare sul marciapiede. Un soggetto da cui Brel o Brassens avrebbero potuto trarre romanze in dieci strofe, purtroppo viene affrontato dal giovane paroliere con espressioni di una banalità sconfortante. Battiato, che nei dischi della maturità abbandonerà la metrica tradizionale, qui vi si muove impettito come in un colletto troppo inamidato, limitandosi alle rime tronche ("sa/già, te/me"). Sembra veramente crederci poco: e del resto racconta la storia dalla parte dell'innamorato che non ci crede più, nel momento in cui la passione cede il passo alla repulsione. Il disco non arrivò nemmeno nei negozi: Battiato aveva già rescisso il contratto con la Polygram, ne furono pubblicate soltanto copie promozionali per la stampa. Lui ci aveva anche provato, a innamorarsi della Canzonetta, ma troppo spesso aveva visto la Canzonetta baciare qualcun altro per continuare a illudersi sulla di lei moralità.



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Sanremo e il Grande Sonno

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Probabilmente non è Sanremo, sono io. Sanremo c'è sempre: a volte un po' meglio, più spesso peggio. Quest'anno non lo sopporto – e allora non guardarlo! Infatti non lo sto guardando – e allora come fai a dire che non lo sopporti? Il punto è proprio questo: quest'anno Sanremo mi aveva stancato una settimana prima che cominciasse. Succedeva nell'era di Pippo Baudo, quando comunque l'eventualità di restare a casa a guardarsi vecchi cantanti stonare brutte canzoni era fuori discussione. Negli ultimi anni, viceversa, avevo cominciato a registrare una specie di simpatia per la Kermesse, uno dei rari momenti in cui comunque ci trovavamo tutti davanti al televisore, compresi i giovani che non sanno da che parte si accende ma recuperavano i clippini su Youtube o altrove. Sanremo come l'unico ponte rimasto tra le generazioni – uno stringersi a coorte intorno a un ponte che in passato avevo sempre trovato architettonicamente discutibile e lo sarebbe tuttora, ma non c'è più scelta e non si tratta nemmeno di scegliere: si tratta di stare assieme, le canzoni servono anche a questo. Tutto giusto, e forse il motivo per cui Sanremo sta andando abbastanza bene è che la Rai lo ha capito. 

Ma non lo sopporto più lo stesso.

Questo Sanremo che passa il tempo a celebrare sé stesso in quanto Sanremo, prodotto e presentato da gente che passa il tempo a spiegare quant'è brava a produrre e presentare questo Sanremo che poi appena provi a guardarne un frammento, beh, com'è? Come vuoi che sia, è bruttino. La solita valanga di roba improvvisata lì per cinque ore perché, ce lo eravamo già spiegato qualche anno fa, siccome Sanremo è l'unica cosa che vedono tutti, l'idea è di concentrarci tutto quello che dovremmo sentire la necessità di guardare: Morandi, ma anche Albano e Ranieri! E la Ferragni, ma allora anche la Egonu! e la Costituzione? Ma allora anche la giornata del Ricordo, e Zelensky? Ma allora anche le donne iraniane, e il comico irriverente anche se è già l'una, e poi ah già quella trentina di canzoni in concorso. Questa idea che dobbiamo guardarci tutto per cinque ore al giorno per cinque giorni alla settimana e gratis, e soprattutto che questa mostruosità sia per la Rai assolutamente normale – ci scherzano persino sopra, cioè questa cosa che la gente abbia mediamente la sveglia alle sette del mattino li diverte! – del resto parliamo di gente che non trova più nulla di strano nell'arrivare all'una di notte con uno spettacolo per pensionati come Ballando con le stelle. Date un'occhiata alle conferenze stampa, che se togliete il tempo che passano i dirigenti a spiegare quanto sono bravi e quanto stanno battendo record su record (e a criticare chi osa non crederci) si riducono a una manciata di minuti. Stamattina il direttore di rete, mi pare, l'ha proprio spiegato: cioè questi numeri ce li dà la sezione marketing, capite, sono professionisti, come fate  a non fidarvi della sezione marketing? La sensazione è che Amadeus & co. si siano impegnati in questi anni non tanto a fare uno spettacolo piacevole (forse era impossibile) quanto a costruire un castello di dati che dimostri, dati alla mano, che Sanremo piace così com'è, del resto lo share all'una e mezzo è inoppugnabile. Almeno quando floppava ci si domandava cos'era andato storto: adesso è impossibile, adesso va tutto sempre bene, anzi ogni edizione va meglio dell'altra, è una cosa incredibile, infatti per esempio io non ci credo.



Credo che sia il risultato ormai paradossale della deriva della tv generalista, quello che succede se nell'algoritmo ti dimentichi di inserire la considerazione che gli spettatori li preferiresti svegli. Se l'algoritmo non lo sa, infallibilmente preferirà contenuti che li facciano addormentare all'istante, così non cambiano canale. Certo, dall'altra parte dovrebbero esserci esseri umani in grado di notare il problema, non tanto i dirigenti quanto gli inserzionisti. Ma finché saranno contenti di farsi pigliare per fondelli da un'azienda che allunga il brodo fino alle due del mattino, non credo che ci sarà nessuna speranza di avere uno show interessante e non quella valanga informe che è. Certo, a questo punto forse pagherei qualcosa se quando i dirigenti si vantano dello share ottenuto all'una d'un mercoledì, o addirittura quello di Fiorello alle due e mezza, qualcuno prendesse la parola e gli dicesse Ma share di cosa, che a quell'ora non fanno neanche più i film zozzi su Sky; share di cosa, dici che il 60% ha visto Fiorello? Cioè quattro su dieci erano svegli alle due e non guardavano Fiorello? Cioè quanto deve stargli sulle palle Fiorello a tutta 'sta gente, e a proposito cosa guardano? Il monoscopio su retecapri?



***

C'è stato negli ultimi anni, tra la gestione Baglioni e quella Amadeus, un momento in cui davvero Sanremo è tornato rilevante da un punto di vista culturale? O ce lo siamo sognati, e se sì, cosa ci ha fatto sognare?
Senza dubbio le canzonette hanno retto meglio di altre cose l'urto generazionale – insomma tra un cinquantenne e un teenager di oggi cosa altro può esserci in comune? Se hanno un device comune non è la tv; al massimo uno smartphone e usano app diverse. Su queste app le canzoni passano, altri contenuti no. Queste canzoni sono per lo più in lingua italiana, al punto che persino i giovani che preferirebbero ascoltare cose incomprensibili, ascoltano canzoni di cantanti italiani specializzati in cose incomprensibili. L'inglese non solo ha perso completamente quel fascino di lingua preclusa alle vecchie generazioni, ma non è più un'etichetta di qualità: di artisti in lingua inglese in classifica ce n'è sempre meno, e d'altro canto perché dovrebbero andarci? Parlo per me: gennaio è tradizionalmente il mese in cui recupero le uscite dell'anno precedente: in giro escono un po' di classifiche e di bilanci e quindi per un attimo ho la sensazione di orientarmi. In linea di massima continuo ad ascoltare cose anglosassoni, e malgrado la mia idiosincrasia per il rap, quest'anno sono perlopiù cose parlate. Musicalmente, non riesco a notare differenze tra quello che si ascoltava dieci anni fa – ma neanche quindici. La differenza la fanno i testi. Il risultato è che una barriera linguistica che nel 2000 praticamente non avvertivamo più – l'inglese delle canzoni ormai era per noi una seconda lingua – nel 2020 è tornato a essere una muraglia come ai tempi dei nostri nonni, e la Musica Italiana si è ritrovata, senza nemmeno averlo cercato più di tanto, padrona a casa sua. È normale che di questo fenomeno Sanremo cerchi di attribuirsi il merito: ma tutto quello che ha fatto per recuperare la sua centralità è stato resistere anche negli anni in cui i discografici ci mandavano gli scarti di magazzino. Per il resto anche i musicisti oggi stentano a trovare un modello di business: i dischi non vendono più, lo streaming è diventato cruciale per la compilazione delle classifiche, ma non crea tutti questi utili e non li divide equamente. Insomma siamo ancora in crisi, ma a questo punto lo siamo sempre stati e poi tutto sommato i momenti di crisi sono quelli in cui di solito ci si inventa qualcosa di nuovo. Ecco, se devo essere sincero quel qualcosa di nuovo non lo sto vedendo, non lo sto ascoltando – ma forse non ho neanche voglia di drizzare le antenne, e poi magari si tratterà di qualcosa per me incomprensibile o inascoltabile. E mi starebbe pure bene, se oltre a essere inascoltabile fosse finalmente qualcosa di diverso.   
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Sleep upon my shoulder as we creep

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Magari mi sbaglio, non perché io non conosca le donne. Cioè. È chiaro che le conosco poco, ma se per questo anche gli uomini. Comunque.

Non ho mai avuto forti opinioni su come si debbano far nascere i bambini. Buffo, no? Sembra che io ci tenga ad avere opinioni su tutto e invece sul parto (che a causa di un fatto molto triste è il tema del giorno) io un parere non ce l'ho, me ne sono sempre disinteressato. No, non è disinteresse, è proprio fastidio, insomma secondo me è orribile il modo in cui nascono i bambini. È come se la natura si opponesse alla cosa – cranio troppo grosso, uscita troppo piccola, è una violenza inaudita. Quando ne mostrano uno in un film mi chiudo gli occhi, per me un parto naturale è già Cronenberg e io non riesco proprio a guardarlo, Cronenberg. 

Però magari mi sbaglio e in generale preferisco non condividere questa cosa, che più che un'opinione è una fobia. La mia compagna invece aveva opinioni molto precise e nessuna reticenza a esprimerle: voleva l'epidurale e l'avrebbe avuta a ogni costo. In effetti ci costò un po', il che nella mia regione è abbastanza strano. È stata in parte pura sfortuna – se ricordo bene, un anno prima l'epidurale era mutuabile da qualche parte e qualche mese dopo lo divenne da qualche altra parte ancora, ma insomma io la pagai: e siccome me la fecero pagare poche ore dopo che avevo assistito al travaglio, la pagai senza battere ciglio, anzi spiaciuto di non aver potuto pagare di più ed evitato maggiore sofferenza. Eravamo nell'ospedale di una città che non conosco tanto: eravamo lì perché dopo esserci guardati un po' in giro, a lei era sembrata la situazione migliore. Ma il corso prenatale lo avevamo fatto al mio paese, e una lezione prevedeva proprio la visita all'ospedale locale. A noi non passava nemmeno per l'anticamera del cervello di far nascere qualcuno lì – era un periodo in cui la percentuale di nati morti in quel reparto era sinistramente alta – però a dare un'occhiata ci andammo lo stesso, per buona educazione.   

Adesso probabilmente è tutto cambiato (in meglio). Del resto è passato tantissimo tempo, non avete idea di quanto tempo è passato. È così tanto tempo che non riesco più a sollevarlo da terra – se penso a quanto l'ho tenuto in braccio, e sulle spalle, ma adesso è diventato troppo, è un mezzo quintale di tempo, è pazzesco. Non posso ricordarmi tutto, e purtroppo tendo a ricordarmi i dettagli più strambi, ad esempio in una sala, in mezzo a tutti i ferri del mestiere, forcipi, pinze, tenaglie, (no, sto esagerando) c'era uno stereo e questo cd di Antonella Ruggiero. 

(C'erano anche maniglie per appendersi al soffitto).

(Oppure alle pareti, non voglio esagerare, non lo so. Le maniglie me le ricordo).

C'era anche, se ricordo bene, una vasca per partorire nell'acqua – ma non c'era l'acqua calda perché in quel periodo avevano un problema al bollitore, ma tanto si poteva fare benissimo senza. E se ci pensate la visita poteva terminare lì, voglio dire, persino io che chiudo gli occhi nei film ogni volta che si rompono le acque, persino io l'ho sentito dire che bisogna portare l'acqua calda: non ho mai capito a cosa serva ma nei film c'è sempre e invece in quell'ospedale no, dicevano che non ce n'era così bisogno. Insomma, prima di entrare in quel reparto sapevo soltanto che negli ultimi mesi c'erano stati alcuni incidenti. Forse niente di statisticamente rilevante, ma insomma il reparto natalità andava un po' troppo spesso sul giornale. Dopo averlo visitato sapevo che non avevano l'acqua calda (e non la rimpiangevano), ed erano favorevoli a sistemi 'naturali' che prevedevano ad esempio l'appendersi alle pareti. E ascoltavano un cd di Antonella Ruggiero.

Ora si dà il caso che io quel cd di Antonella Ruggiero lo conoscessi.

È un bel disco – niente di incredibile, ma se vi piace la Ruggiero è necessario. Si chiama Big Band! perché lei canta standard da big band con una big band. Siccome è la Ruggiero, li canta benissimo, persino troppo bene. In particolare c'è una Caravan trascinantissima in cui lei non ci prova nemmeno a trattarla come una canzone, alla Ella Fitzgerald per intenderci: no, lei semplicemente urla per tutto il tempo. Gorgheggi, scat, tutto il repertorio, col volume a undici. È un brano fantastico.

È esattamente quello che metterei su uno stereo mentre sto torturando una persona. Lei urla, Antonella Ruggiero urla di più.

Lei piange, Antonella Ruggiero ride.

Lei dice basta, Antonella Ruggiero ricomincia.

Allora capite che non potevamo partorire lì, non era proprio cosa. 

Ma il punto è: perché era successa questa cosa? Perché un reparto che fino a qualche anno prima era un punto di riferimento in tutta la provincia era diventato un posto dove torturavano le persone, no anzi: un posto dove mostravano orgogliosi gli strumenti con cui le torturavano? Un posto dove non solo non ti davano l'epidurale, ma ti facevano capire che era sbagliato prenderla? Un posto dove si reagiva al dolore alzando il volume dello stereo? Cosa era successo ai dottori, agli ostetrici?

Magari mi sbaglio, e voi mi scriverete che sbaglio, ma questa ossessione per i parti dolorosi, questa idea che la maternità debba battezzarsi col sangue... non riesco a ricondurla al patriarcato. Perché non ci riesco? Non lo so, ma non ho mai sentito degli uomini parlare dei dolori del parto. Questo potrebbe anche non voler dire nulla, io coi maschi ci discuto sempre meno. Magari esistono cenacoli di tizi barbuti che si vantano dei dolori sofferti dalle reciproche partner. Può darsi: ma non ci credo. Forse proietto, ma secondo me alla maggior parte di noi il parto fa schifo e paura, e se ci fosse un modo per accelerare la cosa e renderla brevissima e indolore, non avremmo nessuna difficoltà ad accettarla. Magari mi sbaglio: ma la religione del Parto Doloroso è una tradizione tutta femminile. Forse è postmoderna e nasce come reazione a novità introdotte troppo velocemente; forse è l'affiorare di una corrente sotterranea antica quanto l'umanità: cose che le donne si ripetono tra loro da anziana nutrice a giovane levatrice, mentre gli uomini fanno altro e soprattutto pensano ad altro, a qualsiasi altra cosa tranne che a quella.

Certo, la violenza è parte della natura. Una parte molto rilevante. E così come per decine di migliaia di anni i giovani maschi hanno dovuto dimostrare di saperla infliggere, può darsi che per le giovani donne fosse un vantaggio evolutivo, saperla sopportare. Può anche darsi che i primi rimedi proposti dalla scienza medica avessero effetti collaterali che suscitavano sospetto e causavano un rifiuto. Ma oggi no. Oggi nessuno dovrebbe soffrire così tanto. Non c'è un vero motivo per soffrire così tanto. O se c'è, è il solito vecchio motivo economico, mascherato sotto l'ennesimo mito posticcio di un'età dell'oro in cui le donne urlavano e poi erano contente di avere urlato. 

Chi spaccia questo mito – negli ospedali, negli ambulatori, nei comprensori – sta dando una mano a torturare donne colpevoli di nulla, se non di aver voluto essere madri. È una cosa orribile, uno scandalo. Io la penso così. Magari mi sbaglio. Ma non riesco più ad ascoltare Caravan (la versione della Ruggiero).

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128. Di tanto in tanto un grido copriva le distanze

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Ed eccoci alla Finalissima della Gara delle canzoni di Franco Battiato, che ci ha tenuto compagnia per tutta l'estate, anzi dai giorni di maggio, e che finisce così all'improvviso com'è cominciata: del resto sono già tornate le piogge, presto riapriranno le scuole, cadranno foglie lungo i viali, e ancora un altro inverno che probabilmente non porterà la neve, ma in ogni caso a quel punto la Gara sarà solo un ricordo lontano, chi aveva vinto poi? Una di queste due:

1981: Summer on a Solitary Beach (Battiato/Pio, #7)

1981: Centro di gravità permanente (Battiato/Pio, #1)

Si vota qui – il tabellone

È il quarto derby della Voce del padrone, il disco che ha portato ai quarti cinque canzoni su sette (le due che non ce l'hanno fatta erano state eliminate da altri brani della Voce). Un disco che comincia con Summer on a Solitary Beach, la cui canzone più conosciuta è Centro di gravità permanente. Non era sinceramente la finale che mi aspettavo: pensavo che Cuccurucucù avesse una marcia in più. Ma è una finale abbastanza logica. Centro è sempre stato il brano favorito, e lo è diventato sempre di più quando si è capita la netta preferenza della giuria popolare per gli anni Ottanta, e in particolare per la Voce. Può darsi che insomma si ripeta quanto successo con il torneo delle canzoni dei Beatles, ovvero che il risultato sul campo confermi il pronostico del ranking, che in quel caso indicava A Day in the Life. Anche se il ranking dei Beatles era molto più 'tecnico', il risultato di una media delle classifiche delle testate musicali. E come nel caso dei Beatles, a guardarla da vicino questa Canzone Numero Uno non sembra così migliore di tutte le altre: vince ma non stravince. Ha solo quel qualcosa in più che fin qua l'ha fatta preferire a ogni altro pezzo che le si è parato davanti. Può darsi che quel Qualcosa In Più, in entrambi i casi, sia una certa ecletticità. A Day in the Life è di John, ma c'è anche un po' di Paul. È una ballata, ma è anche molto sperimentale. È in Sgt. Pepper, ma c'entra poco col concept del disco. È ironica e stralunata, ma anche straziante: un funerale sotto acidi. Centro di gravità permanente non somiglia in nessun modo ad A Day in the Life, ma per una singolare coincidenza manifesta un analogo eclettismo. Anch'essa sembra due canzoni in una; una strofa criptica, un ritornello di esibita cantabilità. C'è Gurdjieff e c'è il twist. La puoi ballare da bambino e ne puoi riscoprire i sottotesti da adolescente. E puoi trovare ridicoli i sottotesti da adulto e rimetterti a ballarla come da bambino (ma in senso ironico). 

Alla doppia e tripla chiave di lettura di Centro di gravità, si contrappone l'immediatezza di Summer on a Solitary Beach. Qui non ci sono ironie che tengono: c'è solo l'epifania di una spiaggia solitaria che Battiato evoca con sofisticata precisione. Se Centro è due canzoni in una, Summer è un mantra di due soli accordi ripetuti per cinque minuti: una fissità lievemente increspata da qualche variazione ritmica. Mi domando se non sia stata favorita, nella sua lunga ascesa al podio, dalla scelta di giocare alla Gara nei mesi estivi, quando il desiderio o la nostalgia di una spiaggia è più cocente: e d'altro canto avremmo potuto disputarla in qualsiasi altra stagione? Battiato è stato davvero il Cantante dell'Estate, Summer ne è la prova più vivida. È il risultato di un lungo studio di marine che Battiato aveva cominciato ad abbozzare ai tempi di Sulle corde di Aries, se non già coi suoi tentativi cantautoriali degli anni '60. Lo sguardo verso il mare, la tensione verso un orizzonte metafisico, si proietta già verso i temi dei decenni successivi. Sceglierete Centro di gravità se amate il Battiato ironico e soprattutto autoironico; voterete per Summer se lo preferite quando naufraga in cerca dell'assoluto. 

Si vota qui – il tabellone

Potete votare fino alla mezzanotte tra il 5 e il 6 settembre, dopodiché... la Gara sarà finita, tutto qui, non si vince niente, non so nemmeno se scriverò ancora un pezzo per segnalare il vincitore. Su Battiato, vi prevengo, ne scriverò altri nei prossimi mesi, per riorganizzare il materiale che ho scritto qui un po' per volta alla carlona in qualcosa di più sistematico. Lo so che sembra che io stia parlando di FB da una vita (e immagino che alcuni non ne possano più), eppure certe cose mi sembra di cominciare a capirle soltanto adesso. Vi ringrazio di avermi tenuto compagnia su facebook e su questo blog moribondo, mentre fuori proseguiva la guerra, finiva la scuola, prendevo il covid, guarivo, assistevo alla crisi di un governo e al suicidio programmato delle forze di centrosinistra, andavo al mare, tornavo, mi rimettevo a lavorare: ma almeno avevo qualcosa da scrivere tutti i giorni che non c'entrava quasi nulla con la guerra, col governo, coi fascisti, col covid, col mare – anzi no, col mare un po' c'entrava. Mi ha fatto bene, sul serio, e spero che ne abbia fatto un po' anche a voi. A presto. 

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127. Coppie di anziani che ballano

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Finale 3°-4° posto

Si vota qui – il tabellone

1979: L'era del cinghiale bianco (Battiato/Pio, #12)

1982: Voglio vederti danzare (Battiato/Pio, #3)

È andata così. Il più grande mistero della Gara resterà, per quanto mi riguarda, dove sono finiti almeno metà dei cento elettori che dovevano assolutamente mandare il Cinghiale in semifinale (eliminando così una favorita come Cuccurucucù), ma una volta che il Cinghiale è passato gli hanno fatto mancare il loro sostegno – non hanno votato per Centro di gravità: non hanno proprio votato. Forse erano più voti anti-Cuccurucucù che pro Cinghiale, ma insomma la corsa sorprendente dell'ultimo pezzo anni '70 finisce qui, alla finalina di consolazione. Forse sorprende di più il cedimento di Voglio vederti danzare, superata da Summer per una manciata di voti. Stabilire quale delle due canzoni meriti il podio è una questione ancora più fatua del solito, ma ormai siamo qui.   

Cos'hanno in comune i due brani? Un riff strumentale virtuosistico e trascinante – in effetti, se il Cinghiale è un po' un unicum della produzione di Battiato, con quel violino così in evidenza, Voglio vederti è il brano post-Cinghiale che più ce lo ricorda. I quattro album che cominciano col violino del Cinghiale e terminano col valzer di Voglio vederti rappresentano la fase più intensa della collaborazione con Giusto Pio (il cui contributo comincerà a ridimensionarsi a partire dal 1983), da cui il felice paradosso per cui i suoi dischi più pop, Battiato li ha scritti mentre collaborava con un violinista classico. 

Che cos'hanno di diverso? Potremmo dire che in Voglio vederti Battiato si ritrova alle prese con lo stesso problema dell'Era del cinghiale – un brano di quattro minuti che ha il suo punto di forza nel riff strumentale – ma grazie all'esperienza acquisita non commette lo stesso errore del Cinghiale, un rondò la cui prevedibilità degli elementi, dopo i primi ascolti, rischia di annoiare. In Voglio vederti FB la fa tutte per non annoiare l'ascoltatore: cambia la tonalità (sempre più in alto!), modifica la melodia della strofa, perfino il riff viene modificato, arabescato, man mano che la canzone va avanti: fino all'imprevedibile valzer finale. Ma ripeto, forse il fascino del Cinghiale sta nella sua meccanica prevedibilità. Voterete per il Cinghiale se mezzo secolo dopo ne siete ancora succubi; preferirete Voglio vederti danzare se il vostro Battiato preferito è quello che danza intorno al mondo. In ogni caso dovete votare a partire da oggi; il sondaggio scade la mezzanotte tra il 4 e il 5 settembre.   

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126. E nel pomeriggio, mentre il sole ci nutriva

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1981: Summer on a Solitary Beach (Battiato/Pio, #7)

1982: Voglio vederti danzare (Battiato/Pio, #3)

Benvenuti alla seconda semifinale della Gara delle canzoni di Franco Battiato (si vota qui), un po' più prevedibile della prima: entrambi i brani hanno vinto con un buon margine ai quarti, e in generale non si sono mai scontrati con brani di ranking superiore. Summer ha sconfitto As Tears Go By, Le sacre sinfonie del tempo, Shock in My Town, Tozeur, Gli uccelli; invece Voglio vederti danzare, che dopo la caduta della Cura era il brano col ranking più alto di tutto il lato destro del tabellone, si è trovata davanti Meccanica, Ermeneutica, Frammenti, Up Patriots Bandiera bianca, insomma questa semifinale se la sono largamente meritata entrambi. Chi vincerà? Non saprei proprio: certo, Voglio vederti gode di una popolarità largamente superiore anche presso un pubblico extra-battiatesco: ma non è certo il pubblico che continua a votare per la Gara, e che viceversa potrebbe, con deliberato snobismo, concentrare il voto sul brano un po' meno noto (che poi è comunque famosissimo, ma ha un titolo che non si lascia memorizzare: l'avesse chiamata Mare mare, sarebbe in tutte le playlist estive, e a Carboni non sarebbe rimasto che comporre I've Even Bought a Motocycle).  

Cos'hanno in comune i due brani? C'è un'ora di musica in tutto, che Battiato ha composto in una ventina di mesi tra 1980 e 1982, e che da sola sarebbe sufficiente a farcelo considerare uno dei più grandi autori della canzone italiana. Quest'ora comprende i due dischi usciti tra 1981 e 1982 – 14 brani in tutto: il primo è Summer on a Solitary Beach, l'ultimo Voglio vederti danzare: gli estremi della sezione aurea (e cominciano e finiscono con un sentore di valzer). Nel primo sta prendendo il sole al mare, nell'ultimo sta ballando: più pop di così non poteva essere, non sarà mai più (eppure, che differenza con tutti i sottoprodotti di generatori di canzonette estive successive, ma anche precedenti). C'è anche tutto il suo gusto per l'esotismo, che in Summer gli suggerisce una strofa in anglo-francese, e in Voglio vederti si scatena con radio Tirana e le cavigliere del Katakali. Con la musica si possono fare tante cose: in questi due brani FB ci vuole soprattutto mandare in un altro spaziotempo: un'estate infinita e remota (come sono tutte le estati già al primo settembre), o una balera romagnola, ma anche irlandese e tzigana o derviscia.  

Che cos'hanno di diverso? Se si considera che le hanno scritte gli stessi autori nel giro di pochi mesi, c'è da strabiliare per quanto siano diverse (e comunque straordinariamente efficaci). Summer è un brano di due accordi, i due accordi più simili e facili da mettere assieme, I e vi: l'unico espediente per contrastare la monotonia è la sospensione ritmica nel (primo) ritornello. La progressione di Voglio vederti danzare è un'allegra sarabanda di accordi, ripetuti in quattro tonalità diverse, e c'è in giro ancora gente che dice che Battiato non avesse una gran voce. Voterete Summer se nella vostra testa Battiato è quello che prende il sole in occhiali scuri su una sedia a dondolo; preferirete Voglio vederti danzare se lo vorreste veder danzare un'ultima volta con i dervisci tourneur o con le z******* del deserto. In ogni caso dovete votare a partire da oggi; il sondaggio scade la mezzanotte tra il 2 e il 3 settembre.   

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125. Non sopporto i cori russi

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1979: L'era del cinghiale bianco (Battiato/Pio, #12)

1982: Centro di gravità permanente (Battiato/Pio, #1)

Ed eccoci alla prima semifinale della Gara delle canzoni di Franco Battiato (si vota qui), con quella che forse è la sorpresa più grossa del torneo: in breve è successa questa cosa, che a mezzanotte di ieri L'era del cinghiale bianco aveva un voto in più di Cuccurucucù, e le regole sono le regole: quella che secondo me era la favorita (oltre che la mia preferita, dopo il tracollo di Stranizza d'amuri) rimane ai quarti, e il Cinghiale diventa la prima canzone del torneo a mandare a casa un brano della Voce del padrone. Ricordiamo che è solo un gioco – buffo, è da tanto che non lo scrivevo, coi Beatles dovevo farlo molto più spesso, il fatto è che fin qui non ci sono stati molti risultati imprevedibili. Da qui in poi invece mi aspetto di tutto, insomma un pezzo che ha battuto L'oceano di silenzioE ti vengo a cercare e Cuccuruccucù evidentemente ha abbastanza sostenitori da portare a casa il torneo. D'altra parte, Centro di gravità è la testa di serie numero uno – cioè il brano più ascoltato su Spotify, sì, ma ricordiamo che il secondo brano più ascoltato su Spotify (La cura) ci ha lasciato serenamente agli ottavi. Insomma io mi giocherei la tripla, un'espressione che i più giovani non capiranno, del resto perché i giovani dovrebbero venir qui? Fatevi il vostro torneo con la miglior canzone di... di Sfera Ebbasta. 

Cos'hanno in comune i due brani? Una certa schizofrenia strutturale, che prevede la giustapposizione di una strofa in minore, riflessiva, e un ritornello squillante e cantabile (anche se nel caso del Cinghiale non è cantato, bensì strumentale). Il fascino particolare sta proprio nella sensibile differenza tra strofa e ritornello, con una dinamica che risente ancora di una certa mentalità prog, ma al servizio di un progetto molto più pop: alla fine è il ritornello di entrambe che salta fuori dalla radio e ti si ficca in testa. Non è del tutto una coincidenza nemmeno che in una strofa di tutte e due le canzoni Battiato ritragga sé stesso mentre passeggia in una città di sera, a Tunisi o a Pechino: in entrambe le canzoni c'è un momento in cui si passeggia e un momento in cui ci si mette a ballare. Bisogna ammettere che in Centro il passaggio è più fluido, mentre nel Cinghiale è ancora meccanico (e forse troppo insistito: è una canzone che poteva durare un minuto in meno). A meno che parte del fascino del Cinghiale non risieda proprio in questa meccanicità inesorabile.   

Che cos'hanno di diverso? Il Cinghiale è (forse) il brano più esoterico, pieno di enigmi non risolti: Centro di gravità è il manifesto del Battiato popolare ed essoterico (con due s), quello che vuole smettere di stupire con enigmi e anzi conciarsi come una popstar per arrivare a più pubblico possibile. Nel Cinghiale Battiato trova una sua formula di new wave, nel Centro proclama che la new wave non gli piace – ma in generale non gli piace nulla di quello che sta facendo: i cori finto russi dei madrigalisti, la finzione rock di Patriots, e in generale tutta la musica che proviene dal blues e dall'Africa: non la sopporta. Vi capita mai di dire a voce alta che odiate il vostro mestiere? Sono momenti, poi passano. Voterete L'era del cinghiale bianco se vi piace il Battiato enigmatico che sta ancora cercando di capire come si vendono le canzoni al grande pubblico; voterete Centro di gravità permanente se lo preferite nel momento in cui ha capito come venderle, e se ne sta già un po' pentendo. In ogni caso dovete votare a partire da oggi; il sondaggio scade la mezzanotte tra il primo e il 2 settembre.   

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124. Al suono di cavigliere del Katakali

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1981: Bandiera bianca (Battiato/Pio, #6)

1982: Voglio vederti danzare (Battiato/Pio, #3)

Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato (si vota qui) – più precisamente al quarto quarto. Anche qui, come nel primo quarto, non sussistono più anomalie: è andato tutto proprio come previsto dal ranking, il che ci può lievemente sorprendere se ricordiamo quanto trascurabile fosse la metrica su cui suddetto ranking si basava: il numero di ascolti su Spotify. In effetti, non è così strano che Voglio vederti danzare sia il terzo brano più ascoltato, e che Bandiera bianca sia il sesto – a sorprendermi se mai è la sopravvivenza di quest'ultimo, senz'altro uno dei brani di Battiato che ha sempre goduto di maggior attenzione (specie radiofonica), ma da un punto di vista estetico, mi sento di dire, decisamente non tra le sue otto canzoni più belle. Anzi da alcune testimonianze traiamo il sospetto che Battiato l'avesse concepita come un pezzo di musica deliberatamente brutto, specchio dello spirito dei tempi che in quel periodo in particolare lo disgustava (non che in seguito gli sia mai apparso uno spirito dei tempi più  simpatico) (si è semplicemente addolcito lui, con l'età e soprattutto col successo); (uh com'è difficile restare giovani e severi quando i palazzetti si riempiono e le mamme ti abbracciano). Ricordiamo che nessuna canzone della Voce del padrone, fin qui, è mai stata battuta da una canzone che non fosse della Voce del padrone: l'exploit potrebbe riuscire stavolta a Voglio vederti danzare, che sopravanza Bandiera bianca nel ranking, nella popolarità, e poi in generale è proprio una canzone meglio, dai.     

Cos'hanno in comune i due brani? Entrambi furono le bandiere dei rispettivi album: in particolare Bandiera bianca fu l'unico singolo estratto dalla Voce, anche se fu in seguito superato in popolarità almeno da Centro di gravità e Cuccurucucù (le quali a quanto pare non uscirono su 45giri: ecco perché il 33 vendette come il pane). Neanche Voglio vederti danzare uscì come singolo, ma era di gran lunga il brano più radiofonico di quel lavoro non altrettanto vendibile che si chiamava L'arca di Noè. Entrambe si prendono, strana coincidenza, una licenza ritmica nel ritornello, dove il 4/4 va a farsi benedire proprio nel momento in cui il galateo radiofonico ci terrebbe di più. 

Che cos'hanno di diverso? C'è una certa complementarità, in effetti: Bandiera bianca è il brano più disarmonico dell'album più commerciale (ma servì proprio a cementare il carisma, il sintomatico mistero del personaggio); Voglio vederti danzare è il brano più compromissorio di un disco molto meno compromissorio. Diciamo che all'inizio del 1981 Battiato doveva ancora assumere un atteggiamento di altera alienità che alla fine del 1982 rischiava di danneggiarlo: Voglio vederti danzare significa anche Voglio rassicurare la Emi che anche questo disco lo vendiamo. La prima è un'indignata osservazione della miseria morale contemporanea, la seconda una rapita contemplazione della bellezza che l'umanità è in grado di sprigionare, quando danza (purché siano danze tradizionali e radicate nei rispettivi territori) (va bene qualsiasi territorio, dall'Irlanda alla Romagna all'Albania, purché non siano i ritmi angloamericani ormai egemoni anche nell'hit parade italiana). Voterete Bandiera se vi piace il Battiato/Savonarola che punta il dito sulle nequizie occidentali; voterete Voglio vederti danzare se lo preferite rapito dall'incanto per la danza e per le culture pre-industriali. In ogni caso dovete votare a partire da oggi; il sondaggio scade la mezzanotte del 31 agosto.   

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123. Con le regole assegnate a questa parte di universo

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1981: Summer on a Solitary Beach (Battiato/Pio, #7)

1981: Gli uccelli (Battiato/Pio, #15)

Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato (si vota qui) – a che punto siamo? Siamo ai quarti, in particolare nell'angolo in alto a destra del tabellone, quello che ha visto l'unico vero terremoto dei pronostici: la favorita del settore (La cura, secondo posto nel ranking) ha ceduto nei sedicesimi contro Segnali di vita, la quale poi negli ottavi ha ceduto il passo agli Uccelli, ed ecco spiegata la presenza tra le prime otto del brano col ranking più basso (Gli uccelli è appena quindicesima). Ha già partecipato a un derby della Voce del padrone, e oggi si ritrova invischiato nel secondo. Noto en passant che nessuna canzone della Voce, fin qui, è stata sconfitta da una canzone di un altro album.     

Cos'hanno in comune i due brani? Beh, sono stati scritti nello stesso periodo da due compositori al top della forma. Sono due brani che in qualsiasi momento uno li ritrovi, riescono immediatamente a creare un incanto particolare – questo è il motivo forse per cui cerchiamo di non ritrovarli troppo spesso, almeno io ho passato anni interi senza ascoltarli e da questo forse dipende anche quel senso di sorpresa che provo quando le ritrovo. Sono proprio ben fatte, con soluzioni di arrangiamento che sfidano il tempo: alcune davvero sofisticate (la complessità ritmica di Summer), altre di commovente semplicità artigianale (il rumore delle ali che si aprono negli Uccelli, ottenuto dispiegando un foglio di giornale). Non sono tra i brani più conosciuti dell'album, ma ne dimostrano la qualità media altissima.

Che cos'hanno di diverso? Da un punto di vista armonico, sono due canzoni agli antipodi: Summer è la dimostrazione di come si possa fare una canzone molto bella con due soli accordi; Gli uccelli contiene forse il maggior numero di accordi che Battiato abbia mai deciso di inserire in una canzone, con cambi di chiave mai banali che diventano, è stato già notato, il correlativo oggettivo dei voli imprevedibili degli uccelli. In effetti cosa c'è di più statico di un pomeriggio al sole, cosa c'è di più dinamico del volo dei pennuti; potrebbero essere due canzoni dedicate ai due elementi, Aria e Acqua (nel qual caso Sentimiento nuevo potrebbe essere il Fuoco e Centro di gravità la Terra).Voterete Summer se naufragar vi è dolce in un mare di memorie estive; voterete Gli uccelli se invidiate loro le ascese velocissime, codici di geometria esistenziali. In ogni caso dovete votare a partire da oggi; il sondaggio scade il mezzogiorno del 31 agosto.   

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122. Per carnevale suonavo sopra i carri in maschera

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1979: L'era del cinghiale bianco (Battiato/Pio, #12)

1981: Cuccurucucù (Battiato/Pio, #4)

Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato (si vota qui) – oggi con il secondo quarto, che vede un'indiscussa favorita battersi contro il più eccentrico dei brani superstiti. L'era del cinghiale bianco in effetti è il titolo più antico ancora in circolazione (gli altri stanno tutti in un sottile intervallo tra 1981 e 1983); addirittura non può essere considerato da un punto di vista cronologico "anni '80", anche se è la canzone con cui Battiato entra, piuttosto bruscamente, in un decennio nuovo e nella fase più popolare della sua carriera. L'era piacque subito, anche se all'inizio il bacino di ascolto era molto ristretto (fu Lucio Dalla a informare Battiato che i ragazzi lo cantavano in coro il ritornello in piazza Maggiore): è curioso perché apparentemente non contiene le caratteristiche del brano pop, che per fortuna in quegli anni erano ancora in fase di codifica; in compenso metteva in evidenza un virtuosismo violinistico negli anni in cui la gente li ascoltava volentieri.    

Cos'hanno in comune i due brani? Una certa sveltezza, che nell'Era si comunica attraverso il fraseggio violinistico di Pio: una delle doti che Battiato portava alla new wave era la disponibilità di questo ex orchestrale ad aprire cascate di note dovunque FB ne sentisse la necessità. Quanto a Cuccurucucù, il pop italiano non aveva mai pulsato così velocemente. Il dialogo sulle corde basse tra Radius e Donnarumma ci sommuove il sistema nervoso e ci predispone alla commozione che FB solletica pescando madeleines da una vecchia collezione di 45 giri. Sono anche due brani nostalgici, a modo loro.

Che cos'hanno di diverso? La nostalgia del Cinghiale è privata (nelle strofe) e politica (nel ritornello): Battiato ricorda certe vacanze d'antan in Nordafrica e auspica il ripristino di un'Era della Saggezza; tra questi due momenti non sembra esserci un vero collegamento, potrebbero essere due canzoni diverse separate dal segmento violinistico. Cuccurucucù è l'opera di un compositore pop assai più maturo e consapevole del mezzo: non c'è quasi un verso che non rientri nel concetto di fondo, e il concetto di fondo è che noi siamo la musica che suoniamo e ascoltiamo. Persino quel melodrammatico "da quando sei andata via non esisto più", se lo immagini riferito alla Musica, non suona più così esagerato. Voterete il Cinghiale se vi piace il Battiato più enigmatico, quello che non risolve i suoi indovinelli e lascia il campo aperto a un universo di suggestioni; voterete Cuccurucucù se da quando Battiato non c'è più avete sensazione di esistere un po' di meno. In ogni caso dovete votare a partire da oggi; il sondaggio scade la mezzanotte del 30 agosto.   

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121. Ancora un altro entusiasmo ti farà pulsare il cuore

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1981: Centro di gravità permanente (Battiato/Pio, #1)

1983: La stagione dell'amore (#8)

Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato – cominciamo oggi coi quarti di finale, e in particolare dal quarto più regolare. Tutti gli incidenti di percorso sono stati assorbiti e le due canzoni che si affrontano nell'angolo in alto a sinistra del tabellone sono esattamente quelle previste dal ranking: la #1 contro la #8. Ricordo che il ranking è interamente basato su una metrica non così rilevante, ovvero il numero di ascolti su Spotify – in fondo chi è che ascolta Battiato su Spotify? Eppure, almeno per un quarto, la metrica ci ha azzeccato, mettendo contro due brani separati da poco più di due anni: né si tratta di una grande coincidenza, visto che gli otto qualificati risulteranno tutti pubblicati tra il 1979 e il dicembre 1983: La stagione dell'amore è appunto il più recente. È anche l'unico del mazzo a non essere accreditato anche a Giusto Pio, probabilmente perché nella maggior parte dei casi il contributo di Pio era riferito all'arrangiamento e all'orchestrazione (il fatto che Battiato lo ritenesse un contributo così rilevante da accreditarlo co-autore è l'ennesima prova della sua generosità). La versione '83 della Stagione è uno dei casi in cui Battiato ritiene di non avere più bisogno di orchestrazioni, né di arrangiamenti che non siano quelli da lui composti sugli strumenti digitali che sta adoperando. È una decisione di cui, come abbiamo visto, si pentirà presto. 

Cos'hanno in comune i due brani? Più di quanto si possa intuire al primo ascolto. Una componente parodica, quasi ludica, che in Centro si sfoga nel ritornello (il più classico dei giri di Do, negli anni in cui a Sanremo era quasi obbligatorio) e nella Stagione dell'amore si esprime nel fraseggio della tastiera elettronica (i due famigerati accordi in levare, una trovata più Righeira che Battiato). E a un certo punto in entrambi i brani succede qualcosa di simile: una scala ascendente di accordi dal sapore vagamente 'disco' che in Centro fa da rampa tra il ritornello e la strofa ("Over and over again...": Re/Mib/Sol) mentre nella Stagione costituiscono l'inciso ("Ancora un altro entusiasmo...": Sib/Do/Re).

Che cos'hanno di diverso? Centro è una canzone sul mascheramento, sulla necessità di sembrare diversi da quello che si è (più accomodanti, più popolari); La stagione è il primo brano in cui FB si pone il problema dell'invecchiamento, anche solo per negarlo e per prometterci nuove estati di passione. Voterete Centro se vi siete affezionati al Battiato essoterico (con due s), quello che scende nell'arena del pop per farci parte del suo universo di insegnamenti preziosi che forse non meritiamo; voterete La stagione se lo considerate più un compagno di viaggio, uno che ci esortava a non guardare indietro, a vivere ogni istante come il più importante ecc.. In ogni caso dovete votare a partire da oggi; il sondaggio scade la mezzanotte del 29 agosto.   

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120. E avete voglia di mettervi profumi e deodoranti

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato – oggi col secondo derby della Voce del padrone: la canzone più arrabbiata contro la canzone più eccitata].

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1981: Bandiera bianca (Battiato/Pio, #6)

Mister Tamburino non ho voglia di scherzare: rimettiamoci la maglia, i tempi stanno per cambiare. La prima volta che ho sentito Mr Tambourine Man, io sapevo già che era una canzone importante perché l'aveva citata Battiato in Bandiera bianca. Ovvero non bisogna sottolineare che qualsiasi opera citazionistica degli adulti, i giovani negli anni dell'apprendistato la tratteranno comunque come un'enciclopedia. Pure Achille Lauro, pure i Maneskin, per voi sono rifritture di cose già sentite: per loro sono la porta di accesso alle stesse cose.

Bandiera bianca rientra in un insieme buffissimo di canzoni italiane ispirate da Dylan, ma che assolutamente non sono cover di Dylan, anzi ci assomigliano proprio poco. Questo insieme comprende [Se sei bello ti tirano le] Pietre di Ricky Gianco (ispirata a Rainy Day Women), Tropicana del Gruppo italiano (ispirata a Black Diamond Bay), forse Un'overdose d'amore di Zucchero (Shot of Love), ci metterei anche Buonanotte fiorellino di De Gregori la cui somiglianza con Winterlude è appunto più concettuale che melodica.  In quasi tutti questi casi, Dylan non è scopiazzato e nemmeno citato; è poco più di una reminiscenza (ancora più eccentrico il caso di Vedendo la foto di Bob Dylan di Pippo Franco). In Bandiera bianca Battiato sembra ricorrere a Dylan in un senso antifrastico, o almeno così l'ho sempre voluto intendere: è finita l'era dell'impegno politico, i tempi sono cambiati, siamo nel riflusso, sul ponte sventola bandiera bianca. C'è poi da aggiungere che il montaggio citazionista che Battiato sfoggia tra Patriots e La voce del padrone non è una pratica sconosciuta allo stesso Dylan, che vi ricorreva già ai tempi di Highway 61 e Blonde On Blonde: nel momento in cui si rimise a scrivere canzoni Battiato potrebbe essersi ispirato a certi frullati di parole di Dylan. E da Dylan Battiato potrebbe anche aver preso la disponibilità a cambiar pelle all'improvviso: da acustico a elettrico a country nel giro di sei anni, un esempio illustre di come ci si può reinventare continuamente e rimanere in qualche modo fedeli a sé stessi. Di Dylan ripescherà altri due titoli di successo in quella gita alla collezione di dischi in soffitta che è la coda di Cuccurucucù: Just Like a Woman e Like a Rolling Stone. E poi basta, non ne parlerà più, non lo citerà più. Tornerà sugli Stones e sui Doors nella sua versione di La musica muore; tornerà ai Beatles in Stati di gioia. Su Dylan non tornerà più.  

1981: Sentimiento nuevo (Battiato/Pio, #11)


Dopo averne letti un po' e dopo averci riflettuto bene, mi pare che i testi più utili per capire un po' di Battiato siano quelli di Fabio Zuffanti, a cui le mie glosse devono parecchio. Tra i battiatisti Zuffanti non solo è il più esperto da un punto di vista musicale, ma è anche quello che più si danna nella ricerca di significati per certi astrusi grumi di parole che lo stesso Battiato avrebbe avuto difficoltà a giustificare. E di solito è una ricerca fruttuosa – segnalo uno dei rari casi in cui mi trovo in disaccordo, ovvero secondo Zuffanti "il senso del possesso che fu prealessandrino" è un riferimento al "verso alessandrino", il doppio settenario che s'impose in Francia nel Cinquecento e divenne il verso standard del teatro francese nel secolo successivo. Ora, potrebbe anche avere ragione, ma per me è più semplice considerare "pre-alessandrino" nel senso di "pre-ellenista", ovvero precedente a quella precoce globalizzazione degli usi e dei costumi imposta da Alessandro e dai suoi successori. Considerando che tutte le pratiche erotiche menzionate nella canzone sono fiorite in terre conquistate da Alessandro (anche se lo "shivaismo tantrico", ammesso che esista, è nato ben dopo), Battiato a mio parere sta parlando di sensibilità sessuali classiche o arcaiche, e non di metriche rinascimentali. Sempre ricordando che la sua priorità era scrivere un testo abbastanza alla svelta per una canzone scritta all'ultimo momento. Che poi questo testo sia diventato uno dei suoi più famosi è cosa che, abbiamo visto, stupiva lui per primo.  

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119. Abbocchi sempre all'amo

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato – oggi la canzone che ha vinto il sedicesimo con più margine contro quella che l'ha spuntata per tre voti. E nessuna delle due (ormai è sorprendente) sta nella Voce del padrone].

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1980: Up Patriots to Arms (Battiato/Pio, #19)


Giusto per una manciata di voti, Up Patriots ha sconfitto Il re del mondo e devo prenderne atto proprio oggi, mentre tra le notizie c'è questa cosa di un partito postfascista che distribuisce nelle spiagge "la settimana enigmistica dei patrioti". Da cui potrebbe derivare l'ennesimo slancio di mani avanti: è vero, Battiato indulgeva nell'uso di termini che già ai tempi indicavano una certa destrorsità, come appunto "patria", però lo faceva in modo assolutamente ironico o comunque non ideologico (e magari persino inconsapevole); è vero, attingeva da un serbatoio culturale che ai tempi veniva etichettato "nuova destra", ma poi ci sono state destre talmente più nuove (o più vecchie) che oggi quella "nuova destra" è praticamente centrosinistra avanzato, insomma è più facile immaginare un Letta con un Adelphi in mano, di un Salvini. È vero, almeno una volta si è trovato a suonare a una festa di Alleanza Nazionale, ma non se ne stava rendendo conto e... ma perché sento l'esigenza di scrivere queste cose? Mi accorgo che sto reagendo da militante: Battiato è morto e io sto vegliando sul cadavere, cerco di spaventare gli avvoltoi, ma "io" chi sono? Non sarò per caso pure io uno sciacallo, uno che è geloso e lo vuole tutto per sé? Perché insisto tanto sulla componente postmoderna e fingo di non vedere che in Battiato c'è sempre stato tanto altro che non poteva piacermi? 

In parte lo faccio per rispetto del defunto, che in vita rifiutò qualsiasi etichettatura che sapesse di destra, anche perché in quegli anni poteva portargli soltanto dei danni: non è escluso per esempio che la famosa recensione di Manfredi sulla Stampa non gliene abbia portati (l'Arca vendette bene ma la metà del disco precedente). Rileggendo ci si accorge che a quei tempi "nuova destra" significava Calasso e Cacciari, insomma designava (dispregiativamente) una zona molto meno angusta di quella pattugliata oggi dai Marcello Veneziani di turno o dai ragazzini intelletto-dissidenti (non è che quella cricca particolare non esistesse già, ma nessuno vi avrebbe fatto affidamento, specie se di mestiere voleva vendere due o tremila dischi).

Però in quella zona culturale ci stava benissimo, meglio di qualsiasi altro cantautore e non soltanto perché citava René Guénon o Nietzsche. Battiato ci stava perché era un critico della modernità (come siamo tutti); un mitologo della propria infanzia (come siamo siamo tutti); e vedeva la Storia come una Caduta da uno stato di innocenza primigenio, e quando credi in questa cosa non puoi che avere in uggia ogni forma di progresso sociale. Se sei di buon umore la irridi, se sei di cattivo umore ti scappa l'invettiva accigliata, e a Battiato scappavano e non erano incidenti. Dietro gli stratagemmi avanguardistici covava un reazionario, e adesso cosa pretendo di fare? Separare l'avanguardia dalla reazione? Raccontarmi che ho smesso di ascoltare Battiato perché invecchiando questo suo aspetto diventava preponderante? Ma non è vero, e Battiato ho smesso di ascoltarlo per altri motivi. Il vero problema non ce l'ho col Battiato reazionario, ma col Battiato kitsch.


1982: Voglio vederti danzare (Battiato/Pio, #3)

Poiché Nevski ha trovato sul suo cammino Cuccurucucù e Radio Varsavia si è ritrovata La stagione dell'amore, questa sfida è anche l'estremo spareggio tra Patriots e L'arca di Noè, i due dischi liminari al capolavoro: bisogna decidere quale dei due porterà almeno un pezzo agli ottavi. 
Per quanto riguarda Voglio vederti, abbiamo avuto modo di notare nel brano il ritorno di quella cadenza che a partire dalla Voce (e almeno fino a Mondi lontanissimi) è una vera e propria segnatura di FB: Tonica, dominante, sopratonica (I-V-ii). Il motivo per cui FB è riuscito a infilarla in tante canzoni senza dare mai la sensazione di ripetersi sta nel fatto che non l'ha mai usata ossessivamente, ma sempre come punto di partenza per costruire qualcosa di diverso. Qui ad esempio completa il primo giro con la sopradominante, (vi) ("...nel deserto"): la stessa soluzione tornerà nell'Animale, ma con un esito diverso perché nel secondo giro ("Con candelabri in testa") Battiato decide di disfarsi di tutti gli accordi in minore, e optare per il più semplice e solare I-IV-V (Twist and shout!) che produce un senso di ascensione trionfale: "o come le balinesi nei giorni di festa". A questo punto siamo pronti per celebrare un ritornello che ci aspettiamo il più festoso possibile, e FB non ci delude, anzi ci apparecchia la progressione che in quegli anni stava diventando la più popolare in assoluto e forse lo è rimasta: il responsabile, almeno per l'Italia, potrebbe essere stato Bob Marley con No Woman No Cry. Si tratta insomma della I-V-vi-IV (la stessa anche di Nomadi, e che abbiamo sentito così mirabilmente variata negli Uccelli), che funziona bene da qualsiasi parte uno la cominci, ma in Voglio vederti danzare comincia forse dall'accordo meno intuitivo, il quarto ("E gira...") così da mimare il capogiro di chi sta realmente girando in tutta la stanza, ma soprattutto creare come la necessità che il giro si ripeta su sé stesso fino a un completamento che ci sfugge sempre. Del resto dopo due giri Battiato ingrana la marcia e salta di tonalità: espediente che nel brano ripete ben tre volte. Il risultato è un brano inimitabile, che per quanto prenda qualcosa da tanti altri, non somiglia davvero a nessuno. 

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118. Via, via, via da queste sponde

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[Buongiorno dalla Gara delle canzoni di Franco Battiato – oggi col derby dell'estate].

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1981: Summer on a Solitary Beach (Battiato/Pio, #7).

Battiato, un cantante per l'estate (ve lo sareste immaginato, un torneo come la Gara, in un'altra stagione?) Se non gli è successo, come alla collega Giuni Russo, di rimanere bloccato in una definizione del genere, è forse semplicemente perché dagli artisti di sesso maschile ci si aspettava una maggiore duttilità. E in effetti a guardar bene il catalogo, le stagioni le ha cantate tutte (anche se per l'inverno si è affidato a De André). Non c'è dubbio che però, delle quattro, l'estate sia stata il suo destino. La prima competizione in cui trovò successo: il Disco per l'Estate. L'argomento di tante sue canzonette del periodo (non necessariamente scritte da lui): ti devo lasciare per l'estate / ti devo lasciare perché è finita l'estate. La sua prima canzone autobiografica, Sequenze e frequenze; e dopo la fase sperimentale, il suo primo successo da autore: Il vento caldo dell'estate. (E il secondo: Un'estate al mare). (Il terzo non so se si possa definire successo: Cocco fresco cocco bello di Ombretta Colli). Persino i brani della Voce del padrone cominciarono a circolare intensamente nei mesi estivi del 1982, quando ormai FB aveva un altro album in canna. Quest'aura estiva era giustificata dal brano d'apertura, in cui Battiato riprendeva le atmosfere di Sequenze e frequenze (compresa l'irruzione finale del sax di Aries). È come se il successo, inseguito o conseguito, coincidesse con l'arrendersi all'estate, alle sue statiche epifanie.  


1984: I treni di Tozeur (Battiato/Cosentino/Pio, #10)

Potete ascoltare per decenni Tozeur – perlomeno a me è successo – senza far caso alla bislacchità di quel primo verso: le strade vedono passare i treni. Insomma non c'è anima viva che li guardi quei treni, nemmeno una lucertola, un insetto, nessuno: ma esiste un treno se nessuno lo guarda passare? Ma siccome il treno effettivamente esiste, stabiliamo che lo guardino passare le strade. Tutto questo, a cercare di spiegarlo, prende righe su righe di circonlocuzioni ridicole, mentre per anni il significato subliminale era penetrato con chiarezza: i treni passano e per strada non c'è nessuno. Battiato procede per immagini incongrue come miraggi nel deserto (le astronavi nelle chiese abbandonate, di nuovo, una delle cose più insensate e più suggestive che ha scritto).

Ripeterò un'altra cosa sul duetto: in un paio di occasioni, Battiato comincia un verso "i treni..." e Alice lo completa ("...di Tozeur"). Come se fosse un solo cantante. È un miraggio anche questo, volendo: e funziona quasi soltanto se la voce femminile è quella di Alice. 

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117. Lo spazio cosmico si sta ingrandendo

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[Arieccoci con la Gara delle canzoni di Franco Battiato – oggi col primo derby della Voce del padrone].

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1981: Gli uccelli (Battiato/Pio, #15)

Che La voce del padrone fosse l'album da battere, era chiaro sin dall'inizio. Quel che sinceramente non m'aspettavo è che portasse tutte e sette le sue canzoni agli ottavi (sì, sette canzoni su sedici sono della Voce del padrone). Compresa quella che Battiato aveva scritto 'brutta apposta' (Bandiera bianca). Compresa quella scritta all'ultimo momento per raggiungere la mezz'ora (Sentimiento nuevo). Compresa la canzone del disco meno ascoltata su Spotify (Segnali di vita), che oggi si batte con la seconda canzone meno ascoltata dell'album: Gli uccelli. Si tratta insomma teoricamente dei due pezzi più deboli della Voce del padrone e... sono due capolavori che Battiato ha raramente eguagliato, il vero fulcro di un album che tutti associano al citazionismo postmoderno (molto meno presente che in Patriots) e all'invettiva di Bandiera bianca, ma che contiene quasi per metà canzoni che di ironico non hanno niente e viceversa insistono sulle atmosfere, sulla contemplazione dell'universo e la speculazione sulle regole che lo reggono. Gli uccelli, ne abbiamo già parlato, potrebbe essere la canzone più "Battiato" in assoluto, in quanto sintesi quasi miracolosa di numerosi stilemi: l'orchestrazione liederistica, quel marchio di fabbrica che è la cadenza I-V-ii, le invenzioni lessicali pseudotecniche ma felicissime ("geometrie esistenziali"), la sensibilità per la natura e soprattutto per i cambiamenti di stagione: tutte queste cose Battiato le ripeterà tante volte nel corso della carriera, ma mai tutte assieme e così bene amalgamate.  


1981: Segnali di vita (Battiato/Pio, #31)

Abbiamo visto come dei brani della Voce, Segnali di vita fosse di gran lunga quello col ranking più basso, tanto da farci sospettare un boicottaggio di Spotify. Eppure proprio a Segnali di vita è riuscito l'exploit fin qui più eroico del torneo: sconfiggere La cura, il brano col ranking più alto (#2!) tra quelli non facenti parte della Voce del padrone. Il che non è che ci dica molto su Battiato: in compenso ci conferma che i giurati della Gara ragionano più per album che per canzoni di successo, e ritengono che il brano più in ombra dell'album migliore sia più riuscito del brano più popolare del resto della sua carriera (un commentatore da qualche parte proponeva di rifare il torneo escludendo i brani della Voce: non avrebbe senso ma forse sarebbe più combattuto e interessante).

In Segnali di vita Battiato guarda le stelle (oltre ai cortili), come i cantautori talvolta fanno e un giorno sarebbe interessante mettere insieme un po' di canzoni dove succede questa cosa – per dire, più o meno nello stesso periodo De Gregori guarda le stelle e vede i missili detonare bombe N. Dalla è molto meno pessimista e anche Battiato, qui e poi in Via Lattea, vede nel cielo stellato le possibilità per una nuova evoluzione. Poi col tempo ho l'impressione che l'universo in espansione sia diventato una prospettiva sempre più deprimente, un argomento sempre a portata di mano ogni volta che si vuole ribadire la nostra insignificanza (mi viene in mente San Lorenzo dei Cani, ma potrebbero esserci altri esempi). 

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116. Un'immagine divina di questa realtà

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato – oggi il primo successo pop contro il primo sermone del Maestro].

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1979: L'era del cinghiale bianco (Battiato/Pio, #12)

“Il cinghiale bianco indicava presso i Celti il sapere spirituale, la Conoscenza. Penso che sia venuto il momento di non perdere più tempo appresso ai problemi sociali ed economici, facendoli apparire come inesorabilmente oppressivi ed unici responsabili del nostro star male. Perdere tempo intorno alla dialettica servo-padrone ha il solo scopo di allontanare dai problemi ben più seri e fondamentali quali per esempio la comprensione dell’universo e della relazione nostra con esso”. A quanto pare il senso del ritornello è tutto qui (le strofe invece sono cartoline dalla Tunisia). Il '77 bolognese e il delitto Moro hanno segnato la fine di quell'"influenza cosmica" che secondo Battiato per dieci anni si era fatta sentire su diverse città italiane. Circola un'aria di rigetto per la politica (circola anche tanta eroina a prezzi di lancio), vuoi vedere che al Decennio dell'Impegno Politico non subentri il Decennio della Sapienza, il Decennio della Comprensione dell'Universo? Come avrebbe constatato nel '92 in Tecnica mista, il decennio in questione si sarebbe rivelato quello "della Discoteca". E vabbe'. In realtà i segni della discotechizzazione dell'universo giovanile nel 1979 si potevano già cogliere, e anzi lo stesso Battiato nell'Era qualcosa aveva colto: sotto i virtuosismi del violino c'è una cassa dritta, un incedere secco e spietato. Mentre auspicava l'avvento della Conoscenza, Battiato non disdegnava le lusinghe della Disco.  


1988: E ti vengo a cercare (#5)

È abbastanza significativo che dopo la clamorosa debacle della Cura, la canzone più recente in gara rimanga proprio E ti vengo a cercare, il brano che segna la definitiva consacrazione, ma diciamo pure monumentalizzazione di Franco Battiato, ormai maestro venerato dal Vaticano ai circoli postpunkettoni. Già: eppure da qui in poi nessuna canzone ce l'ha fatta fino agli ottavi. il Battiato museificato post Fisiognomica continuerà a produrre musica degnissima d'interesse, sorprendendo più di una volta pubblico e addetti ai lavori, ma senza raggiungere più i vertici qualitativi precedenti alla sua consacrazione. Questo almeno secondo la giuria popolare della Gara, quindi magari non significa niente; o che di quasi ogni artista la fase più interessante è quella ascendente. Quando ancora stai cercando di capire come maneggiare i tuoi strumenti, quando ti scappano mosse sbagliate ma che suggeriscono possibilità impreviste. E ti vengo a cercare è un brano che comunica viceversa una grande serenità e sicurezza dei propri mezzi (il modo in cui gioca sulla progressione IV-V-I, la cadenza della soddisfazione, della compiutezza, senza applicarla pedissequamente ma variandola con sapienza). Alla fine ci dice esattamente questo: io sono arrivato, ora tocca a voi venirmi a cercare. 

(Giusto una noterella sull'omonimo opus di Scanzi: un intero capitolo è dedicato a questo trauma terribile per un giornalista musicale, ovvero il momento in cui Battiato/Beatrice gli toglie il saluto; e il motivo di una simile onta, che Scanzi sta ancora cercando di lavare, è il fatto che aveva osato scrivere qualcosa di non assolutamente positivo su un film del Maestro, pensate! Il tormento, il rovello interiore del critico che si strugge perché un artista si è sentito offeso dalle sue recensioni, il livello del giornalismo italiano contemporaneo).

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115. E quando si trattava di parlare aspettavamo sempre con piacere

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato – oggi i balletti russi contro il twist, la canzone più lenta di Patriots contro la più veloce della Voce del padrone, se non di tutto il repertorio].

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1980: Prospettiva Nevski (Battiato/Pio, #13)

C'è già capitato di notare come Prospettiva abbia goduto di un successo postumo, come del resto tutto Patriots – i brani che per Battiato e la EMI aveva un senso promuovere con videoclip o ospitate tv erano Up Patriots e persino Venezia-Istanbul; quanto a Prospettiva, probabilmente non suonava abbastanza di rottura, abbastanza 'new wave', qualsiasi cosa volesse dire in quel momento: lo stesso Battiato non ne era sicuro e aveva inciso il brano solo grazie all'insistenza di Giusto Pio. Prospettiva in effetti è il brano più cantautoriale di Patriots, e non suona poi così diverso dalle cose che nel periodo facevano Venditti o De Gregori. I ritornelli ripetuti conferiscono al brano un sapore di ballata che è unico del repertorio di FB; l'arpeggio scolastico di pianoforte, che in Up Patriots creava uno straniamento, qui invece asseconda l'impianto memorialistico di una canzone che parla di studenti infreddoliti. Ha anche tantissime strofe, per essere una canzone di FB, da cui la necessità di movimentare un po' le cose aggiungendo volta per volta gli strumenti (tra cui spicca la chitarra di Radius). A Battiato in quel periodo non piaceva sentirsi chiamare cantautore; affermava di essere qualcosa di diverso, un musicista a tutto tondo; Prospettiva era quel tipo di canzone che forse immaginava cantata da qualche altro interprete, e in effetti la svolta ci fu quando la incise Alice.  

1981: Cuccurucucù (Battiato/Pio, #4)

L'ultima volta che ci siamo visti con Cuccurucucù stavo cercando una versione live per dimostrare come negli anni fosse diventato il vero momento 'rock'n'roll' dei suoi concerti, quando invece sono inciampato in quella che forse è la più antica registrazione (abusiva) di una Cuccurucucù live, e mi sono reso finalmente conto di una cosa: non è vero che Battiato l'abbia accelerata e indurita col tempo. Proprio il contrario. Cuccurucucù nasce velocissima, è probabilmente la canzone coi bpm più alti di tutto il suo repertorio – ma non mi stupirei se fosse la più veloce di tutto il pop d'autore italiano. Certo, direte voi, bastava mandare il Roland 808 al massimo e suonarci sopra. Beh, nel 1981 non è che fosse scontato. Non lo sarebbe neanche adesso – immaginatevi se qualche cantante se ne uscisse con una canzone dal ritmo altrettanto veloce. Il segreto del fascino particolare di Cuccurucucù potrebbe stare anche solo in questo: è un pezzo che manda in fibrillo l'ascoltatore. È una canzone che funzionò sin dal primo istante – lui stesso in un'intervista racconta il suo stupore nel sentire il pubblico cantare il ritornello di un brano che non aveva ancora inciso. Verso la fine degli Ottanta (nella fase in cui cantava seduto su un tappeto per buona parte del concerto) Battiato avrebbe sentito la necessità di rallentarla, producendone versioni che potremmo definire, con una parola che al tempo non si usava ancora, unplugged. Per poi riaccelerare di nuovo, quando decise di rimettersi a far casino. La stagione dell'amore viene e va.

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114. L'orgoglio di fantastiche operaie

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato – oggi con l'ottavo sulla carta più equilibrato: la #8 del ranking contro la #9].

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1982: Radio Varsavia (Battiato/Pio, #9)

A questo punto devo accettare l'evidenza: Radio Varsavia è uno dei classici di Franco Battiato. Per quanto io non sappia più di tanto spiegarmi la cosa. Non ho mai sentito nessuno cantarla (del resto non è così facile da cantare). Non mi risultano cover. Lo stesso Battiato non sembrava interessato a inciderne una versione dal vivo: tanto efficace era stato l'effetto di quel coro sovrapposto a un brano di orchestra campionato, irriproducibile in concerto. Un'ipotesi – da verificare – è che l'alto numero di ascolti su Spotify (è la nona canzone di FB più ascoltata in assoluto!) dipenda dalla sua inclusione nella colonna sonora di Chiamami col tuo nome di Guadagnino. Però a questo punto, se si trattasse soltanto di un'anomalia statistica, Radio Varsavia non sarebbe tra le sedici canzoni superstiti. Non avrebbe battuto Gente in progresso, Zai saman, Amore che vieni amore che vai, Lettera al governatore della Libia. Sarà per quel titolo così ben scelto – qualsiasi titolo suona meglio con la parola "radio" davanti, lo sanno bene i REM, Roger Waters, Patti Smith; e in quegli anni ogni capitale dell'Europa centro-orientale aveva un sex appeal difficile da spiegare ("Warsaw" era il primo nome dei Joy Division, abbandonato perché già preso). Anche l'ipotesi politica lascia molto perplessi, ovvero: non è escluso che negli anni a seguire qualcuno si sia messo ad ascoltare Radio Varsavia perché sembrava una canzone anticomunista. Ma per accettarla come tale non solo bisognerebbe fingere che non esistesse la quarta strofa sulle biciclette di Shangai: occorre anche aver attraversato gli Ottanta in una campana di vetro, o essere nati dopo. L'idea che con Radio Varsavia Battiato tirasse la saracinesca su un decennio di cantautori politicamente impegnati e allineati al marxismo è giusto una fantasia da elettore di Fratelliditalia: tutto quell'allineamento non c'era mai stato (riascoltatevi Sono solo canzonette), e peraltro il decennio era cominciato con Guccini che cantava Primavera di Praga, insomma tra sovietici e dissidenti i cantautori avevano sempre scelto i secondi con buona pace di Berlinguer (che in quegli anni si diceva protetto dagli euromissili); Battiato, che pure appariva diverso e nuovo sia per la musica che per le parole, in Radio Varsavia sembrava piuttosto per un attimo riallinearsi al modello gucciniano. Forse semplicemente Radio Varsavia piace perché è una grande canzone: perlomeno io l'ho sempre trovata tale. Ma non credevo di essere in così larga compagnia, ecco. Un po' mi dispiace, non lo nascondo.


1983: La stagione dell'amore (#8)

Orizzonti perduti è più o meno contemporaneo di Technopop, il disco fantasma dei Kraftwerk. All'inizio doveva chiamarsi Technicolor, ma quest'ultimo era un marchio registrato (Battiato aveva goduto di maggior tolleranza con La voce del padrone). Technopop non sarebbe mai uscito a causa di un terribile incidente capitato a Ralf Hütter in un periodo in cui forse si dedicava più al ciclismo che alla sua carriera musicale. Dopo qualche settimana di coma e altri mesi di riposo, nel momento in cui ripresero i nastri di Technopop, Hütter e i colleghi condivisero la sensazione che i suoni fossero improvvisamente datati – le tastiere che fino a pochi mesi prima sembravano fantascienza ora suonavano autoscontro-del-pomeriggio. Battiato non andava in bicicletta, prendeva tante multe per divieto di sosta, disertava probabilmente fiere e autoscontri, in quel periodo credeva davvero che il futuro della musica sarebbe stato più elettronico che acustico, più pop che sinfonico, e probabilmente non ascoltava abbastanza schifezze in radio per rendersi conto di quanto i suoni delle apparecchiature Roland stessero impregnando la musica dance più deteriore. Il risultato è che per capire l'errore che non fecero i Kraftwerk nel 1984, non c'è niente come ascoltare il disco che Battiato fece uscire nel dicembre 1983. Di cui La stagione dell'amore è il brano più famoso, ma anche uno dei pochi episodi (insieme alla Musica è stanca) in cui Battiato sembra consapevole della rapida obsolescenza dei suoni che sta mettendo assieme, e tentato dall'opzione autoironica. Ed è anche l'unico brano, come abbiamo visto, che negli anni verrà completamente riarrangiato. Anche Technopop, una volta riarrangiato, uscirà nel 1986 col titolo Electric Café: malgrado a quel punto i Kraftwerk fossero un monumento della musica elettronica, sarà il loro primo lavoro realizzato con strumenti digitali (e non suona comunque molto meglio di Orizzonti perduti). 

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113. Al mattino, improvviso, il sereno

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato – lo so che vorreste che non finisse mai, e invece oggi cominciano gli ottavi, con la sfida apparentemente più impari, ma arrivati a questo punto chissà].

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1974: Sequenze e frequenze (#144)


Delle sedici canzoni rimaste in lizza, Sequenze e frequenze è decisamente il pesce fuor d'acqua. Benché sia un po' presto per conoscerle tutte – qualche testa a testa è ancora in corso – dovrebbero essere quasi tutti brani compresi nelle prime venti posizioni del ranking; Sequenze e frequenze è la numero 144. Le altre provengono tutte dal decennio 1979-1988; Sequenze e frequenze è l'unico brano pre-Cinghiale. Nessuna dura più di cinque minuti; Sequenze dura un quarto d'ora. Sono tutti brani di pop italiano; Sequenze è un'altra cosa. Ormai la sua importanza esula dal suo ruolo (pur rilevantissimo): è l'unica a portare la bandiera di un Battiato diverso, prog o avanguardista che sia. Un dettaglio sul quale non ci siamo mai soffermati: il lessico è semplicissimo, quasi a grado zero (il termine più ricercato è "ammuffire"). Un segno che la purificazione di cui Battiato parla, riferendosi all'album Sulle corde di Aries, si possa intendere anche a livello linguistico: FB non ha più intenzione di stupirci con testi enigmatici o parole astruse. Niente più fantascienza distopica o miraggi di apocalisse. Solo il mare e la memoria.


1981: Centro di gravità permanente (Battiato/Pio, #1)

Gurdjieff mi ricorda istintivamente Marinetti. Ho controllato: è nato dieci anni prima. Lo stesso amore per i tappeti che ti portano la Persia in casa anche se stai a Milano, la stessa tensione verso orizzonti medio-orientali, anche se poi sono così confortevoli i caffè parigini. Gli stessi baffi, più o meno, la stessa pelata. Lo stesso gusto per le supercazzole pseudoscientifiche. Cosa accidenti significherebbe, in fin dei conti, "centro di gravità permanente"? Nella mia quasi totale incapacità di percepire i discorsi mistici (non è che non ci provo, è che di solito capisco solo una serie di enunciati che semplificandosi si riducono sempre a X=X, o Io=io) quello che mi colpisce non è tanto l'identificazione di uno stadio di maggiore consapevolezza di sé, che è quello che ti dice più o meno qualsiasi mistico quando ti parla di qualsiasi pratica, ma l'uso spensierato, diciamo così, di una terminologia scientifica che in quegli anni andava di moda. Einstein sta giustappunto rivoluzionando il nostro modo di concepire la gravità, e dal suo tavolino di caffè non è che Gurdjieff si preoccupi troppo del salto di paradigma tra campo di forze a curvatura dello spazio: quello che coglie al volo, da consumato venditore di tappeti, è che "gravità" è una parola interessante, nuova, e se cominci a parlare di "centro di gravità" la gente non ti scambierà per un vecchio guru ammuffito, bensì per un pensatore filosofo teosofo insomma uno che si tiene aggiornato. Come gli imbonitori che oggi piazzano qua e là un "quantico", come i filosofi postmoderni presi in castagna da Alan Sokal: il centro di gravità permanente è un "fashionable nonsense". Pochi anni dopo, anche Marinetti non è che ne capisca molto di automobili e aeroplani. Con la prima riesce quasi ad ammazzarsi finendo in un fosso per scansare un ciclista: il secondo non glielo fanno provare perché al primo aeroraduno italiano c'è spazio nell'abitacolo soltanto per un poeta e ovviamente tra il pubblico c'è D'Annunzio (pensate che invidia). Marinetti non ha ancora ben chiaro come la velocità cambierà il modo di fare poesia: quel che afferra, dalla sua casa di Milano piena di tappeti e souvenir egiziani, è che cominciare a parlare di automobili aeroplani e velocità lo farà sembrare molto, molto più avanti di D'Annunzio: e poi si vedrà, magari scoppia una guerra e al bagliore dei bombardamenti le cose diventeranno chiarissime. I Curie scoprono la radioattività e lui ritaglia articoli di giornaletti che suggeriscono che possa avere proprietà afrodisiache, ci scrive sopra persino un abbozzo di romanzo.

Quel che retrospettivamente ci spiazza, nei dischi cosiddetti postmoderni, è che Battiato sembra prendersi gioco anche di cose che invece sappiamo quanto prendesse sul serio. Quando canta "l'esoterismo di René Guenon", sembra liquidarlo come una sciocchezza, e invece è proprio da Guenon che prende il concetto di Re del mondo. Allo stesso tempo, come si fa a prendere sul serio "Cerco un centro di gravità permanente" cantato su un mellifluo giro di do. Proprio come i chitarristi da chiesa che esecra, Battiato ha deciso di diffondere la sua fede nel modo più pop possibile, senza tirarsi indietro di fronte al ridicolo: se Matteo Ricci si travestì da bonzo, lui può ben fingersi popstar. Qualcuno riderà, qualcuno crederà che è tutta una presa in giro. Tuttora io preferisco considerarla una presa in giro. 

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112. Le tue strane inibizioni che scatenano il piacere

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con l'ultimo sedicesimo. Erotismo contro folklore, bella lotta no? No, forse no].


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1981: Sentimiento nuevo (Battiato/Pio, #11)


In Sentimiento nuevo l'eros si fa parola. L'esuberanza lessicale (che la renderà una delle canzoni più famose e parodiate) è qualcosa di più di un rituale di corteggiamento; è già parte dell'atto sessuale. È abbastanza chiaro che Battiato è con una ragazza (perlomeno non è mai stato così chiaro e non lo sarà più fino all'era Sgalambro), ma allo stesso tempo è anche in una sua nuvola culturale, fatta di riti dionisiaci, shivaismo tantrico e quant'altro. Tutto questo, se uno si ferma a pensarci, è abbastanza buffo (e infatti la canzone si presta molto bene alla parodia), ma è anche assolutamente realistico: abbiamo tutti una nuvola del genere intorno a noi, quando ci accingiamo al sesso. La nuvola è fatta di scene che abbiamo immaginato, che abbiamo visto (sempre di più ora che la pornografia è una commodity), che abbiamo persino vissuto: scene che ci eccitano, o a volte ci spaventano, ci spronano o ci trattengono. La nuvola non ci impedisce necessariamente di notare che dall'altra parte esiste un partner – e infatti Battiato non se ne dimentica, anzi ci dialoga come ben poche volte nel suo repertorio. Ha strane inibizioni che "non fanno parte del sesso" anche se a veder bene "scatenano il piacere"; inoltre ha una voce che lo cattura come le Sirene avrebbero catturato un meno astuto Ulisse – riecco la nuvola culturale – e una pelle che è come un'oasi nel deserto. Lei nel frattempo magari si sta immaginando di farlo con Lawrence d'Arabia – a volte, se si fa sesso con persone con cui si condividono interessi, le nuvole coincidono così tanto che sembrano annullarsi.


1988: Veni l'autunnu (#86)

Battiato, se stasera non m'inganno, ha scritto quattro canzoni prevalentemente in siciliano: Stranizza d'amuri (1979), Veni l'autunnu (1988), Il cammino interminabile (2001) e 'U cuntu (2009); quindi più o meno una al decennio – comunque più delle canzoni composte in inglese (quelle per Echoes of Sufi Dances non contano). Insomma il siciliano è la sua seconda lingua di compositore. Meritevole di menzione è anche Caliti junku (2012) per lo più in italiano anche se il titolo è siculo (mentre Il cammino interminabile ha un titolo in italiano anche se per lo più è in siculo). Di tutte queste canzoni, solo Stranizza è interamente in dialetto: in tutte le altre c'è almeno un verso in un'altra lingua: nel Cammino l'italiano all'inizio, in Veni l'arabo alla fine, in 'U cuntu il latino. Più che un complesso di inferiorità, è una specie di tensione al plurilinguismo: Battiato vuole sempre ricordarci che il vernacolo è una libera scelta, e che se vuole può parlare qualsiasi altra lingua (magari male, ma può farlo: in Veni l'autunnu la dichiarazione d'amore alla Sicilia viene interrotta da una frase da corso di arabo livello principianti). Come spiega in Caliti junku: un proverbio siciliano potrebbe anche essere arabo o tibetano: l'uso del dialetto non dovrebbe distoglierci dal significato universale. Eppure almeno le prime due canzoni sono anche atti d'amore per la sua terra natale. Veni e Il cammino sono due curiosi patchwork di modi di dire tradizionali, e quindi sono anche i due brani più apparentemente folkloristici. 'U cuntu è un'elegia sulla fine della civiltà come Battiato ne ha cantate tante. Stranizza è una canzone d'amore come Battiato non ne aveva mai scritte (e non ne scriverà più), il che ci autorizza a pensare che il siculo gli serva anche come schermo. Ma a questo punto non si può non ipotizzare che una simile funzione di schermo non sia da estendere anche a Veni, in cui col pretesto del folklore Battiato scrive cose molto impegnative alla sua terra: Sicilia bella mia, Sicilia bella. Che strano e complicato sentimento, no non te le posso dire le mie pene, chissà se tu sei in grado di capire, non so nemmeno io perché ti voglio bene.  

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111. Nel fango affonda lo stivale dei maiali

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi col derby degli abusi di potere. Si sfidano oggi due invettive, ma anche due decenni l'un contro l'altro armati. Chi vincerà? Il primo sta già sventolando la bandiera di chi si arrende].

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1981: Bandiera bianca (Battiato/Pio, #6)

La cosa più sorprendente di questo sedicesimo di finale è che tra Bandiera bianca e Povera patria ci sono appena dieci anni – che almeno per chi è classe Pollution, come il sottoscritto, valgono venti se non trenta: Bandiera bianca la cantavamo alle elementari, Povera patria prima della maturità. Può darsi quindi che sia un mio errore prospettico a darmi la sensazione che Battiato abbia cambiato più pelli tra La voce del padrone e Come un cammello in una grondaia che da lì in poi. Sono due brani che risentono dello spirito dei tempi in cui sono stati composti, e a volte danno la sensazione di anticiparlo: l'ironia straniante di BB sta agli anni Ottanta come l'indignazione accigliata di PP ai Novanta. Ora, di solito quando parliamo di decenni non parliamo sul serio. Un decennio è un insieme arbitrario di anni, identificare questa o quella tendenza con un decennio è una semplificazione giornalistica che nessuno – nemmeno i giornalisti – prendono sul serio. Nessuno tranne Battiato. Lui a questa cosa dello Zeitgeist dei decenni sembra crederci davvero (del resto credeva agli oroscopi). È quello che possiamo dedurre da un passaggio di Tecnica mista sul tappeto in cui parlando di anni Settanta, Battiato spiega: "C'era un'influenza cosmica che si è fatta sentire su diverse città italiane. È durata circa un decennio. Poi tutto è sparito. In seguito è arrivato il decennio della discoteca. Adesso sembra che si sia entrati nel decennio dell'impegno. Così, avanti e indietro, come un balletto". Era il 1992, io stavo dando la maturità, e se l'avesse chiesto a me non mi sarei sentito in coscienza in grado di confermare questa cosa del "decennio dell'impegno". Sì, lo yuppismo anni Ottanta sembrava già morto e sepolto, c'era stato qualche movimento studentesco e la guerra del Golfo aveva stimolato un'ulteriore stagione di contestazioni. Evidentemente Battiato da queste rondini traeva l'impressione di una nuova Primavera dell'impegno politico. Non importa quanto poco ci stesse azzeccando, quanto il fatto che non voleva affatto presentarsi a mani vuote: Povera patria è un brano concepito tenendo conto delle "influenze cosmiche", come un regalo per una generazione che Battiato immaginava molto più arrabbiata e engagé di quanto poi dimostrò di essere. Il che prova che FB non è un rabdomante infallibile, e che noi come generazione abbiamo fatto pena (per fortuna le generazioni non esistono davvero, sono solo un insieme arbitrario di persone nate in un periodo x eccetera).


1991: Povera patria (#27)

"Quando qualcuno mi dice «con Povera patria sei stato profetico» mi viene da ridere. Quella canzone e quelle parole funzionavano quando le ho scritte, ma potevano andar bene nell’Antica Grecia, durante il Basso Impero Romano e anche in quello Alto. È una canzone che parla di una categoria umana immutabile, che, per mantenere la sua posizione di dominio sugli altri, usa la violenza, la falsità, ruba e manca di rispetto. Rappresenta un senso del potere malato. Appartengo alla categoria di quelli che non amano comandare, né essere comandati. In quella canzone parlavo di dittature tradizionali, che si vedevano, e purtroppo ce ne sono ancora. Ma sono davvero irreali i sistemi esoterici-materialistici che stanno governando le nostre vite attraverso il denaro". 

Secondo Paolo Jachia (Battiato Voglio vederti danzare, Ancora 2022), lo "stivale dei maiali" che affonda "nel fango" non è necessariamente l'Italia. Gli stivali potrebbero essere, suggerisce quelli sempre tirati a lucido dei generali golpisti, Perché no, e allo stesso tempo perché in una canzone intitolata "Povera patria" uno stivale non dovrebbe ricordarci la sagoma di suddetta patria? Nel tentativo di stemperare, per quanto possibile, i collegamenti di Povera patria con l'attualità italiana del periodo in cui è stata scritta, Jachia recupera la citazione qui sopra, tratta però da un'intervista di ben vent'anni dopo (su Sette, supplemento del Corriere della Sera, 2011). L'impressione è che lo stesso Battiato si adoperi per trovare una chiave che gli consenta di ri-attualizzare Povera patria, un brano che rischiava di essere indelebilmente associato a un periodo ormai lontano: le stragi di mafia, l'inchiesta Mani Pulite, e così via. Nel 2011 invece Battiato è molto più interessato alla speculazione finanziaria, alla dimensione virtuale se non fittizia del denaro: ne parlava anche in Dieci stratagemmi, ma quel che è interessante è che prima no, prima non ne aveva praticamente mai parlato.  

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110. La musica contemporanea mi butta giù

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[Coraggio patrioti, eccoci a uno snodo cruciale della Gara delle canzoni di Franco Battiato, con due brani suscettibili di innumerevoli interpretazioni, comprese alcune parecchio bizzarre].

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1979: Il re del mondo (Battiato/Pio, #51)

Un giorno in cielo fuochi di Bengala: la pace ritornò, ma il Re del mondo... ci tiene prigioniero il cuore. Non credo che a nessuno mai sia passata per il cervello l'idea di leggere Il re del mondo come una canzone antiatlantista: eppure sentite come filerebbe bene. Abbiamo perso la guerra: ci hanno raccontato che siamo in pace, ma la verità è che abbiamo perso, che siamo sudditi, che siamo schiavi del Re del mondo (l'imperialismo americano). E ora tutto ciò che facciamo è privo di autentico senso; la cosiddetta democrazia non è che un rito fittizio che officiamo per illuderci di avere un senso ("più diventa tutto inutile più credi che sia vero"), e distoglierci da una realtà che ci vede obiettivi strategici del prossimo conflitto nucleare, noi e i nostri ex camerati giapponesi che nelle metro hanno già le maschere a ossigeno. Solo nel "giorno della fine" recupereremo, bruciando, quella libertà che probabilmente non abbiamo mai meritato: e non ci servirà l'inglese. Una cosa curiosa di questa interpretazione, è che non è affatto forzata. Non richiede particolari torsioni del testo, non muove da rebus o sciarade, e soprattutto non ha bisogno di appoggiarsi a dati extratestuali. Anzi, il motivo per cui nessuno la prenderebbe mai sul serio è proprio il fatto che chi conosce Battiato non se lo immagina a intonare un lamento per la perdita della sovranità post-1945. Sono cose di cui non ha mai parlato; è molto più facile seguire le linee interpretative che lui stesso più volte ha additato, Guenon eccetera. Ma se conoscessimo soltanto la canzone, e nulla del suo autore, non avremmo molte difficoltà a riconoscere nel Re del mondo un'elegia sovranista. E se non possiamo credere che l'autore la intendesse consapevolmente in tal senso, nemmeno possiamo escludere che l'inconscio di Battiato (nato e cresciuto a pochi km da una delle più importanti basi Nato nel Mediterraneo) non abbia visto nella nostra condizione di italiani – occupati da più di mezzo secolo anche se facciamo finta di no – una metafora dell'illusorietà dell'esistenza. 


1980: Up Patriots to Arms (Battiato/Pio, #19)

A proposito di interpretazioni: ho sempre trovato buffo come tutti – almeno dai Disciplinatha in poi – abbiano preso sul serio un pezzo come Up Patriots to Arms che invece per me vuol dire, quasi letteralmente: armiamoci e partite. Ma se mi sbagliassi io? La mia chiave di lettura muove, in questo caso, dal contesto extratestuale: è l'alba degli Ottanta, anni di piombo e '77 stanno generando una crisi di rigetto ideologico, nessuno si aspetta che i cantanti invitino all'impegno, anzi tutto il contrario. Sono gli anni in cui slogan e simbologie politiche vengono completamente decontestualizzate: i punk inglesi si adornano di svastiche per puro sfregio, Battiato declama inni patriottici più o meno per la stessa ragione. Non sto dicendo che quello che canta in Up Patriots non abbia senso – ne ha molti – ma il senso non è la priorità: FB secondo me sta giocando a mettere insieme tutto quello che gli interessa, a vedere se montato in un certo senso funziona. A partire dall'inizio, la poesia araba letta col Tanhauser in sottofondo, perché? Perché sì: è un po' come fissare dei paletti, mi chiamo Battiato, spazio da Wagner alla poesia araba: se la cosa vi interessa possiamo proseguire. Questa è la mia lettura, ma potrebbe riflettere più le mie idee che quelle dell'autore. Per esempio seguendo qualche link sono cascato su un'interpretazione molto più raffinata, che nel verso "noi siamo delle lucciole che stanno nelle tenebre" riconosce la missione dei discepoli gurdjieffiani, "luci esoteriche che possono nel loro piccolo salvare il mondo". Io invece ci leggevo un'autodenuncia di meretricio, da parte di un artista di avanguardia che decideva di votarsi al pop da classifica. E se la mia interpretazione potrebbe essere la più vicina all'intento di Battiato nel 1980, può anche darsi che più tardi avrebbe preferito sottoscrivere l'altra. Quel che è certo è che ha continuato a cantarla per tutta la carriera, divertendosi molto, anche quando erano altri artisti a tirarla fuori.  

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109. Perché bella ragazza padovana ti vuoi fare una comune giù in Toscana

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi c'è Voglio vederti danzare contro un'altra canzone – anzi, contro i frammenti di un'altra canzone].

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1980: Frammenti (Battiato/Pio, #94)

È vero che Frammenti ha battuto Inneres Auge di un solo voto; è vero che, chiunque avesse vinto il testa a testa, si sarebbe trovato davanti un avversario insormontabile: è tutto vero ma è anche vero che malgrado tutto Frammenti è ancora qui: un brano che non fa nessuno sforzo di non sembrare un riempitivo (in un disco, peraltro, che non arriva ai 30 minuti); un brano in cui Battiato sembra aver messo il pilota automatico, lasciando i suoi turnisti a svagare con quello che ai turnisti più piace suonare: forse il rock'n'roll. Un testo che sembra fatto dei 'frammenti' avanzati dalle altre canzoni, un po' come E lasciatemi divertire di Palazzeschi era fatta con la "spazzatura delle altre poesie". Patriots è un disco che piace davvero al nostro pubblico votante, che agli highlights di dischi più recenti preferisce i riempitivi dei dischi anni Ottanta. Ferma restando la preminenza della Voce del padrone, Patriots è l'unico disco che si può vagamente accostarle, con cinque brani su sette ammessi ai sedicesimi. Sembra che quello che più ci piace sia il Battiato ancora vagamente non a fuoco, il Battiato che sta ancora cercando la formula esatta sia per esprimersi sia per vendere dischi (magari erano due formule diverse).  

1982: Voglio vederti danzare (Battiato/Pio, #3)

Abbiamo già suggerito di riconoscere, in alcune composizioni di Battiato, il trucco dell'asta del barbiere: ovvero la sensazione che la musica salga sempre più (di ritmo o di tono) mentre invece il baricentro non si sposta. In Voglio vederti danzare il trucco non c'è: la canzone sale davvero di quattro tonalità, dal Si bemolle della prima strofa al Mi di Nei ritmi ossessivi. Un tour de force che doveva renderla particolarmente impegnativa dal vivo (e forse spiega perché a un certo punto confluì in un medley, con una strofa in meno). Alla salita di tono corrisponde un senso di accelerazione che forse non riguarda i bpm (bisognerebbe avere la pazienza di cronometrare), ma si trasmette ad esempio nelle variazioni del riff, quella melodia fin troppo cantabile che quando si arriva a metà canzone diventa un pezzo di bravura. Ma torniamo alla progressione, perché quello che Battiato reitera su quattro chiavi diverse non è un giro di accordi qualsiasi, ma il più caratteristico tra quelli che ha adottato negli anni '80. Alla tonica (I: "Voglio vederti...") segue la dominante (V: "danzare") e quindi, ed è qui che riconoscete la firma di Battiato anche se siete stonati come campane, la sopratonica (ii: "come le zingare nel deserto"). Altri pezzi in cui troviamo I-V-ii: la coda di Cuccurucucù ("With a little help from my friends"), il ponte della Stagione dell'amore ("Se penso a come ho speso male il mio tempo che non tornerà"), la strofa dell'Animale ("Vivere non è difficile"): magari non tantissimi ma, come si vede, molto significativi. Se poi si osserva la parentela tra sopratonica (ii) e sottodominante (IV) (per i chitarristi da spiaggia: tra Do e La-, oppure tra Fa e Re-, che se ci pensate in un giro di Do sono quasi intercambiabili), al mazzetto va aggiunta senz'altro Sentimento nuevo e... Te lo leggo negli occhi. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo, in attesa che uno specialista si scomodi a smentirci: è una cadenza di sapore barocco, qualcosa che Battiato potrebbe avere ascoltato sin da bambino sull'organo di chiesa.

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108. Distese di sale e un ricordo di me

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi la Tunisia – che ha sconfitto l'Iraq ai trentaduesimi – se la gioca contro la Germania Est. Ma è anche il derby Milva/Alice].

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1982: Alexander Platz (Battiato, Cohen, Pio, #23)

In un'intervista che ovviamente stasera non trovo, qualcuno si arrischiò a chiedere a Battiato quale fosse la sua voce femminile ideale, tra quelle con cui aveva lavorato; invece di eludere saggiamente la domanda e spiegare che ogni voce ha le sue qualità bla bla, Battiato rispose secco: Milva. Ora, una risposta del genere potrebbe anche essere stata dettata dal calcolo di quanto sarebbe stato più difficile telefonare a lei piuttosto che ad Alice o Giuni Russo per chiedere immediatamente scusa – però è curioso che Battiato abbia citato, delle tre, quella che non ha mai duettato con lui (che io sappia) e l'unica che non gli debba il successo, la definitiva consacrazione: senza Battiato, Milva avrebbe venduto diversi dischi in meno, ma sarebbe tuttora Milva. 

Devo confessare una velata antipatia per Alexander Platz; non tanto per lo scippo ad Alfredo Cohen (che alla fine magari gli mise in tasca qualche soldo), non per lo sfondo un po' stereotipato, ma perché credo che abbia rubato la scena a tanti altri solchi di Milva e dintorni, probabilmente il disco più riuscito della factory Battiato-Pio-Radius, con suoni irresistibilmente affini a quelli della Voce del padrone, cui somiglia più che ad altri dischi di Milva (e ad altri dischi di FB). E mi dispiace sinceramente che Battiato abbia deciso di includere nel suo repertorio questa piuttosto che Poggibonsi (coi ricordi di guerra di Giusto Pio!), o Non sono Butterfly (non conosco Singapore; spiegami perché mai mi vuoi schiava per amore), o persino Aeroplani in cui si dimostra che in quegli anni Battiato e Pio avrebbero tirato fuori una hit anche musicando l'orario ferroviario; non lo fecero, ma misero in una canzone un tabellone degli aeroplani in partenza e funzionava. Certo, Alexander Platz era stato il singolo di successo; anche se quando FB lo riprese in Giubbe Rosse, sette anni dopo, era ormai un ricordo lontano. Anche Milva non smise di incidere canzoni di Battiato, ma la formula di quel disco del 1982 era andata persa e non è stata più recuperata. 


1984: I treni di Tozeur (Battiato, Cosentino, Pio, #10)

Se poi ci andate, a Tozeur, e ammirate i motivi di mattoni colorati che adornano il centro storico, sappiate che quando compose la canzone Battiato non li aveva ancora visti; cominciarono a posarli proprio nel 1984. Tozeur è effettivamente un capolinea della rete ferroviaria tunisina, ma i "treni" a cui ci si riferisce sono con tutta probabilità quelli turistici della Lézard Rouge, che coprono la tratta Métlaoui- Redeyef passando dalle gole del Selja, dove è possibile vedere le miniere abbandonate di fosfato (non di sale, ma "fosfato" non suonava così bene, e poi dalle foto sembra sale). Tozeur è una città antica, forse antichissima (il toponimo potrebbe avere un'origine egizia), sorta in un'oasi che ne ha fatto la capitale tunisina del dattero, e che negli ultimi anni ovviamente combatte la desertificazione, ma nelle gole del Selja il cambiamento climatico si è fatto sentire in modo più paradossale, con piogge torrenziali che nel 2009 per un anno hanno causato la sospensione del servizio ferroviario. 

È abbastanza chiaro come Battiato in Tozeur mescoli due scenari che sente particolarmente affini: il Nordafrica delle miniere di sale e una Sicilia rurale in cui tua madre mi vede e si ricorda di me. Poi c'è quel distico pazzesco sulle chiese abbandonate in cui si preparano rifugi e navi interstellari – non ero quindi l'unico al mondo a trovare le chiese simili ad astronavi, o forse ho cominciato a farlo ascoltando Tozeur? È che certe chiese hanno proprio profili che oggi diresti aerodinamici, non è così assurdo immaginarle decollare. Comunque questa idea che a sud si viva "a un'altra velocità", cioè un po' più lentamente, e che l'epitome di questa idea sia il trenino di Tozeur che va a vapore, va un po' in crisi quando scopri che il suddetto trenino va a vapore perché è un treno per turisti, su Tripadvisor addirittura lo consigliano "per grandi e piccini" – laddove se si tratta di andare a Tunisi o Sfax, probabilmente anche i tunisini gradiscono velocità più elevate. Vabbe'. Benché sia stata composta per l'Eurovision, Tozeur sembra pensata per la radiodiffusione estiva: non è propriamente un tormentone estivo, ma il modo in cui si aggancia al nostro vissuto suggerendoci immagini esotiche, persone che abbiamo conosciuto che forse sono al paese e incontrano i nostri genitori, mentre noi siamo ancora qui a sudare in città, vecchi treni scalcagnati che ci portavano in vacanza.

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107. Rozzi cibernetici signori degli anelli, orgoglio dei manicomi

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi una spiaggia solitaria sfida una città-formicaio].

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1981: Summer on a Solitary Beach (Battiato/Pio, #7)

Più scrivi e più scrivi scemenze, per esempio una volta devo aver scritto che Magic Shop coi suoi tre accordi era la progressione più semplice di tutto il catalogo di Battiato, ovvero mi ero dimenticato che Summer è tutta giocata su due accordi due: un Fa e un Re-, ovvero l'intervallo I-vi. Così semplice – banale, diciamolo – così ipnotico se recitato con calma (la parte strumentale di Wish You Were Here): Battiato non ha bisogno d'altro per mettere assieme un brano di grande efficacia. Alla fissità degli accordi corrisponde la staticità della scena: siamo soli davanti al mare, a ogni onda (Fa maggiore) segue una risacca (Re minore). Possiamo quindi aggiornare questa lista di Rick Beato, che all'inizio del video spiega cosa rende 'grande' una canzone di due accordi: ottime melodie ovviamente, ottimi arrangiamenti, ma soprattutto quando entra il ritornello "deve succedere qualcosa": e sappiamo che in questo caso succedono più cose. Il tre quarti incespica, il ritmo sembra sparire del tutto, e la melodia si scioglie in quello che al tempo era il ritornello più cantabile di Battiato (insieme a Cerco un centro): mare, mare, mare, voglio annegare. Tutto questo succede nello stesso disco in cui troviamo una delle progressioni più complesse e stratificate, Gli uccelli, a riprova della straordinaria duttilità a cui sono arrivati FB e Giusto Pio al loro terzo album pop. 


1998: Shock in My Town (Battiato/Pio, #26)

Al momento Shock in My Town è la più recente tra le trentadue superstiti – l'unica successiva all'Imboscata. Un primato del genere, meritato o meno, ha un suo senso: quando uscì, Shock sembrava in qualche modo un ritorno del 'vecchio' Battiato. Era un'impressione abbastanza superficiale, che più da un ascolto della musica o da una comprensione del testo muoveva dal dettaglio più vistoso: il ritornello in un inglese improbabile, più battiatese che comprensibile ai britannici; la bislacca rima "my town/velvet underground", l'accigliata denuncia dell'incipiente apocalisse; tutto questo 'faceva Battiato' e tanto bastava per convincere molti programmatori radiofonici: il che sorprese Battiato stesso, persuaso di avere scritto un brano più duro del solito e non un'autoparodia. Invece in un qualche modo Shock in My Town era la mossa che ci si aspettava da lui: un'invettiva contro la contemporaneità infiorettata di anglismi a capocchia. Shock in My Town, ad ascoltarla bene, non suonava affatto 'vecchio Battiato' ed esibiva uno dei testi in cui sembrava più facile separare lo Yan Sgalambro ("rozzi cibernetici signori degli anelli, orgoglio dei manicomi") dallo Yin Battiato ("Shock emozionali, sveglia Kundalini"). A meno che i due non stessero giocando a farsi il verso a vicenda, e conoscendoli potrebbe anche essere il caso. 

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106. Giochi di aperture alari che nascondono segreti

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[Questa è sempre la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi col derby del volo: seguiremo gli uccelli o le scie delle comete? Resteremo in questa parte di universo o andremo in avanguardia verso un altro sistema solare? È anche il sedicesimo più incerto, almeno guardando il ranking].

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1981: Gli uccelli (Battiato/Pio, #15)

Mi è già capitato di suggerire che Gli uccelli possa essere considerata la canzone perfetta di Battiato, quella che ne tiene assieme la maggior parte di idee musicali – oltre a essere una composizione mirabile e arrangiata da Dio, anzi da Pio (AHAHAH no ma scriveteli cento pezzi su Battiato senza mai fare questo gioco di parole, su provateci). Oggi potremmo concentrarci sul testo e notare come sia uno dei suoi migliori, con quelle perifrasi alate che da lì in poi abbiamo tutti deciso che fossero la quintessenza del suo stile, laddove lui non è che poi ne scrivesse tante e a un certo punto ha proprio deciso di rivolgersi ad altri. Battiato non si è mai trovato a suo agio con le parole – al contrario che con le note: si è definito più volte un musicista nato; non si è mai permesso di definirsi poeta e nemmeno paroliere. Pure, è abbastanza probabile che i suoi testi più ricordati e memorabili siano completamente farina del suo sacco. Non possiamo saperlo al cento per cento, ma ci basta constatare quanto sia stato generoso Battiato a condividere la firma del brano con chi ogni tanto lo aiutava: vedi le Aquile, che a ben vedere è un testo completamente suo, al massimo ispirato da una pagina di Fleur Jaeggy – la quale risulta coautrice, forse persino contro la sua volontà, visto che in seguito ha preferito usare uno pseudonimo. Stessa cosa è successa a Henri Thomasson, che ha collaborato a tre testi memorabili (Clamori, L'esodo, La musica è stanca) ma senza il suo vero nome – insomma più che la volontà dei collaboratori di dire "l'ho scritta io" sembra valere quella di Battiato di avvertire "non l'ho scritta io". Questa generosità, che a volte appare urgenza di schermirsi, ci induce a pensare che Gli uccelli l'abbia proprio scritta tutta lui, da "Volano..." a "...sistema solare". Ed è perfetta, la pietra di paragone che poi tutti hanno usato anche solo per cercare di parodizzarlo. Che Battiato, che non si è mai sentito a suo agio con le parole e che si è circondato per tutta la sua carriera pop di gente che in teoria le sapeva usare meglio; che Battiato, dicevo, sia stato il migliore paroliere di sé stesso è una circostanza abbastanza curiosa (che condivide col suo vicino di casa, Lucio Dalla).


 1985: No Time No Space (Battiato/Pio, #18)

Che cos'ha impedito a Franco Battiato – che a metà anni Ottanta rappresentava praticamente da solo una formula musicale assolutamente originale e di successo – di diventare un artista internazionale e cambiare non di poco la storia della musica pop? Se ci riflettete lo sapete già. La musica era ottima, anche confrontata agli standard anglosassoni del momento (il momento in cui USA e UK stabilivano definitivamente la loro egemonia nelle classifiche e nell'immaginario: Michael Jackson, Madonna, eccetera). La sua musica era esotica senza essere provinciale, del resto ce l'ha detto, lui è un provinciale dell'Orsa Minore. Il suo intellettualismo ambiguo avrebbe potuto funzionare, era una fase in cui c'era mercato anche per personaggi come David Byrne o David Sylvian, e Battiato dei tre forse faceva la musica meno cervellotica. Sotto tappeti sonori di ottima fattura covava una sensibilità musicale mediterranea, da qualche parte li sotto c'era un compositore che avrebbe potuto fare la differenza e mostrare al mondo meraviglie, e allora perché non successe? Inutile dare la colpa alla major, che ci provò eccome a piazzare Battiato nei mercati esteri (e in quelli latini un po' ci riuscì). Cos'è che impedì a Battiato di conquistare lo spazio interstellare? Lo sapete benissimo.
È l'inglese.
Battiato ha una pronuncia terrificante.
Ma soprattutto, Battiato non ne è consapevole, e non sorprende: il suo approccio alle lingue straniere è quello di qualsiasi intellettuale della sua generazione. Ne capisce parecchie, può snocciolare citazioni testuali un po' in tutte, alcune si capisce che le ha studiate bene (il suo francese ha quella legnosità scolastica), ma le ha studiate in un mondo in cui i viaggi di studio non esistevano, né serie coi sottotitoli. Alla fine le sue pronunce non sono peggiori di quelle di quasi tutti gli intellettuali italiani della sua generazione, che appunto erano intellettuali e imparavano le lingue sui libri, la pronuncia la lasciavano agli interpreti. Ho letto da qualche parte che per quanto Sciascia andasse spesso a Parigi (e potesse scrivere in un ottimo francese), nessuno laggiù l'ha mai sentito dire una sola parola.
La differenza fondamentale è che Sciascia si rendeva conto che il suo francese parlato era ridicolo: Battiato no. Quel che è peggio, è che nessuno lo avverte. La EMI gli fa cantare un disco intero in un inglese assurdo, lui esegue, la EMI stampa. Quindi sì, alla fine la colpa è della major, tanto più grave visto il precedente storico: otto anni prima Lucio Battisti aveva floppato, con Images, per gli stessi identici motivi; testi tradotti troppo letteralmente e dizione improponibile. Otto anni dopo la EMI propone anche a Battiato di trasferirsi un po' negli USA, ma lui a questo punto di fare la popstar si è già scocciato. Era stato un esperimento, era andato fin oltre le più rosee previsioni, sistemarsi si era sistemato, adesso avrebbe fatto altro. Probabilmente il compositore colto. (Le cose non sarebbero andate esattamente così).

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105. Le luci fanno ricordare le meccaniche celesti

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[Ci siamo, questa è la Gara delle canzoni e in particolare è la giornata in cui dobbiamo decidere chi ha vinto il match 81: Aria di rivoluzione o La cura? Ho scelto di non scegliere: passano entrambe il turno, ed eccoci al primo triello. Attenzione: sarà possibile votare per due canzoni (ovvero contro una canzone) e persino per tutte e tre, anche se riflettendoci non ha molto senso].

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1974: Aria di rivoluzione (#63)

La rivoluzione è rimandata. È anche colpa di facebook, social che rende molto facili e condivisibili i sondaggi, ma li amministra opacamente e senza molte spiegazioni. Ad esempio: non è possibile impostare una data di scadenza. Al tempo del torneo dei Beatles, in inverno, scoprimmo assieme che i sondaggi scadevano dopo una settimana. E tutto sommato funzionava. Stavolta a quanto pare no: senza avvertire, Zuckerberg ha deciso che i sondaggi restano aperti – fino a quando? Un mese, un anno, una civiltà? Lo sapremo solo quando lo sapremo, ma nel frattempo capite che un testa a testa come Aria di rivoluzione vs La gara rischia di essere falsato. Al momento in cui scrivo queste righe (un momento qualsiasi), la parità è assoluta e i voti sono quasi duecento: molti più del solito. C'è evidentemente gente che per sovvertire il pronostico (nettamente a favore della Cura) sta mobilitando amici, parenti, account di scorta. E mi domando: ma davvero amano così tanto Aria di rivoluzione? O non è piuttosto odio per la Cura? Certo, il match sembrava combinato apposta per mobilitare i battiatisti di lungo corso, quelli appassionati della sua discografia anni Settanta, contro i neobattiatisti saliti sulla carovana negli anni Novanta. Aria di rivoluzione forse è un brano più iconico che riuscito, in ogni caso è un raga anni '70 senza compromessi. Insieme a Sequenze e frequenze (così affine che nell'unica raccolta disponibile fino a tutti gli anni '80 i due brani comparivano incollati in un medley) forma lo sparuto contingente dei brani pre-Cinghiale arrivati ai sedicesimi. Battiato era il primo a sorprendersi quando scopriva ai concerti gente che la cantava, e che probabilmente era più giovane della canzone. Non so se abbia mai ricominciato a cantare "chi andrà alla fucilazione" ai concerti: per quanto fosse il fulcro del brano, era un verso che gli dava dei problemi.   


1981: Segnali di vita (Battiato/Pio, #31)

Segnali di vita è uno dei primi brani in cui Battiato si lascia sorprendere dall'ascoltatore immerso a qualcosa che sembra una meditazione, e uno dei pochi in cui l'oggetto della sua osservazione non è il mondo naturale, o un manufatto artistico, bensì le luci dei cortili e delle case: segnali di vita, appunto. Battiato sta osservando una città che brulica di vita. La osserva da lontano, come in un cannocchiale rovesciato; quanto basta per sentirla remota come le galassie che si allontanano e lo spazio cosmico che si sta espandendo. Ma è la vita: i rumori che fanno sottofondo per le stelle sono rumori di traffico e cucina. È un tipo di osservazione che dopo il ritorno in Sicilia non ritroveremo più. 


1996: La cura (Battiato/Sgalambro, #2) 

Come ampiamente prevedibile, La cura si sta rivelando la canzone più divisiva – quella che porta diversi elettori a coalizzarsi intorno a un brano abbastanza antico e astruso come Aria di Rivoluzione, pur di sbarazzarsi di un brano pure così apprezzato e ascoltato. La cura sembra rientrare in pieno in un genere specifico di hit che mi piace definire "colpi di coda": quando un cantautore sembra ormai diventato il monumento di sé stesso, associato a un canone di canzoni ormai fissato, ecco che se ne esce con un brano che diventa popolarissimo ma che proprio per questo motivo disgusta i fan di più lunga data. I quali a volte sembrano ignorare che il colpo di coda non tradisce affatto lo stile del cantautore che lo ha inciso, anzi a volte ne è un'epitome precisa e persino impietosa. È un colpo di coda, per esempio, Viva la mamma di Edoardo Bennato, Caruso di Dalla (oppure Attenti al lupo), Quattro amici al bar di Gino Paoli, Don Raffae' per De André, Cirano per Guccini, mentre faccio fatica a riconoscere il colpo di coda di De Gregori (La donna cannone?) o di Vasco Rossi (Sally?), quest'ultimo del resto irriducibile scodinzolatore. In ogni caso il colpo di coda si presta molto bene a essere la canzone più odiamata del repertorio. C'è gente che va ai concerti apposta per sentire quella e gente che in quel momento va al bar o in bagno. 

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104. La vita ci prendeva con strana frenesia

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[Questa è la 104ma puntata della Gara delle canzoni di Franco Battiato, il derby del ritorno al passato, quello delle leggende celtiche o quello dei treni a vapore].

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1979: L'era del cinghiale bianco (Battiato/Pio, #12)

Di tutti i testi di FB, forse quello del Cinghiale bianco è il più suscettibile di un'interpretazione esoterica: una spia del fatto che le parole potrebbero alludere ad altro è l'incongruenza di un riferimento alle tradizioni celtiche nel ritornello di un brano ambientato a Tunisi (quanto alla musica, non piega né sull'Irlanda né sul Nordafrica, anche se il violino potrebbe suggerire più la prima). In direzione esoterica si avventurano ad esempio, Jachia & Pareyson, che però non è che arrivino a conclusioni così rilevanti: gli studenti di Damasco potrebbero essere discepoli di un rito iniziatico (dervisci?), l'uomo di una certa età potrebbe essere un Grande Maestro (io che invece sono stato educato a diffidare dei vecchi che offrono cose ci vedevo sempre un adescatore), le sigarette turche preziosi insegnamenti, ecc. Del resto se fosse un testo a chiave sarebbe strano che avessimo già trovato la chiave: mi domando quanti estimatori di Battiato ne condividano la cultura così settoriale. Quel che davvero lascia perplessi è la tempistica: cioè possibile che Battiato abbia pensato a un testo esoterico proprio nel momento in cui decideva di prendere una strada essoterica, con due s? Il Cinghiale bianco è il suo primo tentativo di hit: che senso avrebbe avuto infilarci un testo a chiave comprensibile a pochissimi eletti? Non è più probabile che nel momento in cui si pone il problema di scrivere qualcosa di successo, Battiato non scelga di caricarlo di tutte le suggestioni che si trova davanti, preoccupandosi molto più dell'effetto che del senso delle cose che scrive? A volte i critici sottovalutano il fatto che i poeti (compresi i cantanti) prima ancora di veicolare un messaggio, hanno un testo da completare. Deve funzionare, deve stare in metro (quando FB comincerà davvero a dare importanza ai suoi messaggi, smetterà di preoccuparsi dei metri), deve suggerire all'ascoltatore qualcosa che lo incuriosisca oltre il primo ascolto: questo viene prima di tutto il resto. 


1980: Passaggi a livello (Battiato/Pio, #85)


Ho cercato qua, ho cercato là, ma non credo che nessuno sappia realmente perché Calasso ammonisca bambini e genitori dal Corriere della Sera. Per anni mi sono lasciato cullare dall'idea che il padre di Calasso, insigne giurista, avesse una rubrichetta alla Panebianco su cui dispensare ovvietà alla borghesia, ma guardando bene non risulta e non avrebbe molto senso. Adesso mi sono fatto questa idea che il giurista stia su una specie di veranda, nascosto dal lenzuolo del Corriere nella cui lettura è assorto, mentre i calassini stanno giocando nell'aja e ogni tanto il giurista si ricordi di loro e "dal Corriere della sera" li esorti a coprirsi, ché fa freddo. Forse si sarebbe potuto scrivere in modo più chiaro, ma il punto è che Battiato non è così abile a spiegarsi: ci prova, a volte ottiene immagini icastiche e indimenticabili, altre volte grovigli inestricabili, un po' come le AI generatrici d'immagini che vanno di moda adesso: Battiato è un generatore d'immagini non artificiale, ma comunque piuttosto artigianale. 

Abbiamo parlato altre volte di sensibilità crepuscolare, un concetto che probabilmente meriterebbe un approfondimento serio e una biblioteca universitaria aperta in agosto con quel vecchio studio di Sanguineti. Il crepuscolarismo è stato il primo movimento artistico che ha fatto i conti seri con l'obsolescenza dei manufatti artistici, elaborando strategie (culto della nostalgia, feticismo del cattivo gusto, ironia) così efficaci che Gozzano è tuttora il poeta più leggibile del secolo scorso, proprio lui che notava come D'Annunzio sapesse di vecchio già in vita. Tutti i riferimenti al passato per cui si sdilinquiva non li cogliamo più: la nostalgia per quel passato di piccole cose lo afferriamo al volo. Patriots è il disco crepuscolare di Battiato: qui affiorano i brandelli di poesie scolastiche e i quadretti di maniera. Anche gli slogan politici, quando compaiono, non sono che belle frasi di un tempo che fu, come quel "Salve, ricordo" iscritto su una noce di cocco.

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103. Emanciparsi dall'incubo delle passioni

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[Cosa può essere questa, se non la 103ma puntata della Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con la sfida tra le due due canzoni d'amore più rappresentative? Seguiteci per sfide ancora più lancinanti].


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1979: Stranizza d'amuri (Battiato/Pio, #28)

Penso che chi è arrivato fin qui possa concordare sul fatto che Stranizza è una canzone d'amore, che rispetta i criteri minimi della canzone d'amore, ovvero c'è un lui che ama una lei. Bene. Ora cercate un'altra canzone d'amore di Battiato. 

Curioso, no? Battiato ha scritto canzoni sull'amore, sia come pulsione (Sentimento Nuevo) sia come sentimento (La stagione dell'amore). Ma canzoni propriamente d'amore, dopo Stranizza, veramente poche (e prima di Stranizza, solo negli anni '60: il che ci autorizza a ipotizzare che un abbozzo di Stranizza fosse già nel repertorio fintotradizionale degli Ambulanti). Anche l'arrivo di Sgalambro nel reparto parole non cambierà sostanzialmente le cose: aumenteranno piuttosto le canzoni di disamore, genere che Battiato aveva già inaugurato col Mito dell'amore. Questa refrattarietà all'argomento, apparentemente bizzarra per un compositore di musica leggera, Battiato la condivide in realtà con buona parte dei cantautori 'impegnati' dei Settanta, un segno riconoscitivo del cui impegno era proprio l'insofferenza per l'argomento più trito del genere pop. Guccini, De André (primi singoli esclusi), De Gregori, canzoni d'amore ne scrivevano pochissime, il che conferiva una sensazione di eccezionalità alle pochissime che concedevano: Rimmel, Verranno a chiederti del nostro amore, Stranizza d'amuri. Alla fine è anche giusto così; nell'economia di un'esistenza, gli innamoramenti non sono poi così frequenti. Battiato ha forse cantato più spesso dell'eros e anche questo, nell'economia di un'esistenza, ha il suo senso. Così come ha senso che una delle sue rare canzoni d'amore sia una delle ultime (Le nostre anime). E un'altra sia tra le più belle in assoluto (Stranizza). L'ambientazione in tempo di guerra ci autorizza a sospettare che Battiato, magari inconsciamente, stia raccontando l'innamoramento dei suoi genitori. 


1988: E ti vengo a cercare (#5)

Anche solo per vederti o parlare. Com'è noto, E ti vengo è una canzone che può parlare di qualsiasi cosa uno voglia, dall'innamoramento all'estasi religiosa: è stata scritta con apposita ambiguità. Poi certo ci sono situazioni che sembrano più adatte di altre, ed è significativo il fatto che il testo si adatti così bene, ad esempio, a una delle relazioni più importanti della vita di Battiato, che però nel 1988 non era ancora cominciata: quella con Manlio Sgalambro. In lui FB ritrova le sue radici e una consonanza di temi e aspirazioni. Il che significa per lo meno che la relazione discepolo-maestro descritta nella canzone è per Battiato un aspetto cruciale dell'esistenza, tanto quanto lo è per gli altri cantautori l'innamoramento tra pari. Del resto è una costante della sua vita, attenzione, di adulto: perché da giovane non dava l'impressione di cercarsi maestri e di fidarsi di loro. Le cose cambiano, sul piano esistenziale forse con l'incontro con Thomasson, e su quello artistico senz'altro col folgorante incontro con Stockhausen. Da lì in poi Battiato non ha fatto che cercarsi maestri di musica, di lettere e di vita, e l'aspetto più curioso della sua traiettoria non è tanto come li abbia trovati, ma come sia riuscito a coinvolgerli in progetti artistici tanto imprevedibili: prende lezioni di piano da Ballista e gli fa incidere Za e L'Egitto; prende lezioni di violino da Giusto Pio e trasforma un orchestrale in pensione in uno dei compositori pop più importanti e affermati del secondo Novecento; incontra un possidente siciliano con l'hobby della filosofia e lo trasforma, a dispetto di ogni senso comune, nel suo guru. Per cui davvero, quella volta che rispose a Morgan che no, non si sentiva affatto padre, ma ancora figlio, Battiato non stava scherzando e non stava prendendo le distanze da Morgan in particolare, bensì da tutti noi che lo venivamo a cercare. 

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102. L'inverno con la mia generazione

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, oggi Eizenstein contro Ippocrate].

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1981: Prospettiva Nevski (Battiato/Pio, #13)

Poi nella vita ho fatto altro, ma se fossi restato in ambito accademico mi sarebbe piaciuto sviluppare il concetto di poesia come disagio linguistico, ovvero: i poeti molto spesso sono persone che fanno fatica a spiegarsi, quelle che noi poi cataloghiamo come figure retoriche nascono talvolta come convulsioni, incidenti, traumi. Non è che bisogna sempre medicalizzare tutto e diagnosticare disturbi dell'apprendimento o dislessie (anche se in certi casi sono patenti): a volte è gente che ha più urgenza di esprimersi che competenze grammaticali. Franco Battiato è un sincero appassionato di lingue che al primo esame universitario ha buttato i libri in un cestino ed è scappato via. Ha scritto testi straordinari che sono rimasti nella testa di milioni di persone, e a parte questo quasi niente. Con gli intervistatori si vantava di non scrivere lettere, nemmeno cartoline. Anche i suoi migliori testi sono pieni di cose che non tornano. Prospettiva Nevski è un caso tipico: lo stesso Battiato non era affatto convinto di aver scritto qualcosa di valido (fu Pio a rassicurarlo). In realtà è una composizione molto interessante, piena di immagini icastiche (il vento che disintegra i cumuli di neve), con errori di sintassi che non perdoniamo agli studenti delle primarie. E poi uno dei suoi classici tibicines, versi incompiuti, di solito sintagmi nominali che spetta alla nostra fantasia completare con un predicato: l'inverno con la mia generazione. L'inverno cosa? E anche quel "con", che senso ha? Qualsiasi altra preposizione filerebbe più spedita: l'inverno della mia generazione, l'inverno per la mia generazione, l'inverno sulla mia generazione, persino l'inverno tra la mia generazione. Con tutte le possibilità a disposizione, Battiato ha voluto costruire un complemento di unione che potrebbe essere un semplice refuso, una goffezza grammaticale, o un modo per suggerire un'idea difficile da mettere in versi: che l'inverno sia arrivato con la generazione del protagonista della canzone, un ragazzo cresciuto probabilmente nei duri anni post rivoluzione d'ottobre. È un mondo di ristrettezze, un imbrunire in cui occorre imparare a vedere l'alba. Non lo si potrebbe dire in effetti in meno parole: l'inverno con la mia generazione. 


1985: L'animale (#20)

Dentro me segni di fuoco e l'acqua che li spegne: se vuoi farli bruciare tu lasciali nell'aria oppure sulla terra. Secondo la teoria degli umori, sviluppata da Ippocrate e ripresa da Galeno, i caratteri dell'uomo dipendono dai quattro fluidi che corrispondono ai quattro elementi di Empedocle: alla terra è legata la bile nera (detta anche melancolia) che ha sede nella milza; all'acqua è legata la flemma, che ha sede nella testa; all'aria il sangue, che ha sede nel cuore; al fuoco la bile gialla (o collera) che ha sede nel fegato. Dunque cosa vuol dirci Battiato con questa strofa – a parte che continua a trovare valida una teoria completamente superata dalla scienza dopo il Rinascimento? Che soffre di sbalzi d'umore, scatti di collera (segni di fuoco) smorzati immediatamente da una flemmatica razionalità. Che dovrebbe imparare a incanalarli verso altre passioni: essere più sanguigno o malinconico. Ma è difficile, per via dell'animale che si porta dentro. E ora tocca a noi: possiamo apprezzare L'animale anche se non ne condividiamo i presupposti pseudoscientifici? Il fegato ci dice no, maledetto pazzo (cioè scherziamo? Siamo a un passo dal terrapiattismo), la milza non si pronuncia (tanto tutto è vanità), la testa ci dice che alla fine Battiato sta solo cercando di esprimere i suoi dissidi interiori, e questo sì, se ci interessa lo possiamo condividere; il cuore conferma che sì, L'animale ci interessa molto (il fegato brontola, ma sopporterà anche questa). 

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101. Le serenate all'istituto magistrale

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, oggi con due classiche di cui una è veramente molto più classica dell'altra].

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1981: Cuccurucucù (Battiato/Pio, #4)

Ahi ahi ahi ahi ahi cantava. Chi è che cantava? È ovvio, Francesco Battiato. È lui che faceva le serenate all'istituto magistrale nelle ore di ginnastica e religione (nella realtà le faceva in un liceo, ma quanto è crepuscolare ed efficace "istituto magistrale", per come sottende un pubblico di sognanti, aspiranti maestrine). È lui che cantava sui carri in maschera, è lui che per cantare ha indossato mille travestimenti, compreso il pellerossa con gli Osage Tribe. E cosa cantava? Per tante volte che ha raccontato come dai 18 ai 24 anni il suo lavoro sia stato la balera, non si è mai soffermato molto sul repertorio, che doveva variare molto col pubblico e col contesto. Il mare nel cassetto? Le mille bolle blu? Lady Madonna? Ruby Tuesday? Tre quarti dei ricordi appiccicati nel testo sono frasi di canzoni: evidentemente Cuccurucucù parla di questo. Di come canzoni e ricordi possano coincidere nella memoria di chi sin da ragazzino le ha cantare, per amore, per soldi e per piacere. Se siamo fatti di ricordi, siamo fatti di oggetti: di penne stilografiche, rasoi elettrici e soprattutto di dischi che girano. È questo che Battiato ci canta, prima di bloccarsi proprio come un vecchio disco su quell'ultimo like a rolling stone, stone, stone, stone, stone.


1983: Un'altra vita (Battiato/Pio, #29)

Un'altra vita fa parte del nucleo tematico di Orizzonti perduti, un disco piuttosto compatto. Scartando i due brani più eccentrici (il più amato, La stagione dell'amore e  e il più odiato: La musica è stanca), ne restano sei: tre di ambientazione siciliana (Zone depresseMal d'Africa, Campane tibetane) e tre milanese (Tramonto occidentale, Un'altra vita, Gente in progresso). I titoli sono alternati, dando la sensazione di un pendolarismo tra Sud e Nord, mal di vivere e memorie famigliari. Dei tre brani milanesi, Un'altra vita è il più cupo e rivela una vera e propria ossessione per il traffico urbano (qui descritto con toni assai più depressivi che in Temporary Road). E poi c'è la tv, le "storie di sottofondo", di cui Battiato non omette i titoli: Dallas e [Anche i] ricchi piangono. Faceva uno strano effetto sentirlo declamare non più titoli di canzoni del passato, ma brandelli del paesaggio linguistico presente, quello che noi ascoltatori condividevamo con lui sulle stesse guide tv. Per noi più giovani – che molte di quelle canzoni le avevamo sentite soltanto declamate da lui, sentirlo ora cantare di Dallas, Viks Vaporoub, e Idrolitina sembrava la fine della poesia, del mistero. Ora, con un po' di distanza, anche queste schegge sembrano aver trattenuto un po' d'incanto crepuscolare (se vi chiedete cos'è, è uno dei motivi per cui non riuscite mai a vuotare i vostri cassetti)..

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100. E i cittadini attoniti fingevano di non capire niente

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, oggi con una classica Bengasi-Varsavia].

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1982: Radio Varsavia (Battiato/Pio, #9)

I primi secondi dell'Arca di Noè sono meravigliosamente sospesi tra suoni antichi e nuovi. Il coro dei Madrigalisti processato o miscelato con i sample orchestrali del campionatore Fairlight – di lì a qualche anno le improvvise bordate d'orchestra sparate dal Fairlight diventeranno un luogo comune, pensate delle produzioni hip hop, ma qui suonano stranianti a quarant'anni di distanza, come lampi da una registrazione interrotta (ancora una volta uno strumento nuovissimo usato per ottenere effetti antichi). E intanto in sottofondo è partita quella pulsazione regolarissima di una batteria (o più probabilmente è il Roland TR 808) che ci fa pensare: dove abbiamo già sentito un inizio così? Dappertutto, cosa c'è di più standard di un secco 4/4 suonato dalla drum machine più venduta degli anni '80, sì, ma questo ritmo così secco, in un silenzio venato da lampi improvvisi di suono, dove l'aveva già sentito Battiato? Non è che non lo riteniamo incapace di inventarsi qualcosa del genere, ma in un qualche modo suona già sentito, ma appunto: sentito dove? L'Arca di Noè, dei dischi anni '80, è forse quello che contiene più sotterranei rimandi alla fase prog – anche se si tratta più di lapsus che di riferimenti espliciti. In un certo senso, anche Fetus cominciava con una pulsazione. E anche The Dark Side of the Moon, l'anno dopo (un disco di cui Battiato non mi pare parli mai, ma è improbabile che non l'abbia ascoltato) e non è poi così diverso, il 4/4 secco di Radio Varsavia, da quello di Breathe... Oppure: un altro disco di cui Battiato non parla mai è Smogmagica, il che è molto più comprensibile: non ne parlano volentieri nemmeno le Orme. Se però dovessi dire stamattina a cosa assomiglia di più l'inizio di Radio Varsavia, ecco, forse ad Amico di ieri: che è anche una di quelle canzoni che non sarebbe stato affatto strano trovare in un quarto o quinto volume di fleurs.


1989 (ma composta nel 1981 per Giuni Russo): Lettera al governatore della Libia (Battiato/Pio,  #105)

– Energie è un disco dallo strano destino. Quando l'anno successivo la Russo fece il botto con Un'estate al mare, l'album venne reimpacchettato con il nuovo singolo, da cui prese un nuovo nome. La stessa Giuni Russo avrebbe dovuto essere reimpacchettata come cantante di hit estive: un ruolo per il quale non si sentiva portata; né la contagiava l'euforia situazionista di Battiato e Pio che in quegli anni pur di far successo (e soldi!) avrebbero reimpacchettato pure Beethoven, anzi lo fecero. Tuttora, anche rifuggendo Un'estate al mare e cose come Alghero Limonata Cha Cha Cha, trovo impossibile ascoltare Giuni Russo in inverno. Anche solo in autunno. E in primavera mi sembrerebbe di rovinarmi l'estate, insomma Caterina Caselli con me ha vinto. Ma è solo colpa sua? Anche quando questo album si chiamava ancora Energie, non era già un disco così estivo e mediterraneo da non ammettere ascolti protratti oltre il 15 settembre? Non vi assale un odore di fichi d'india tostati dal sole anche solo alle prime note sirtakanti della Lettera, che pure è ambientata in autunno, ma quanti gradi potranno fare a Bengasi in autunno, ventotto all'ombra?

– Secondo Paolo Jachia e Alice Pareyson, Lettera è il primo brano in cui Battiato toccherebbe l'argomento reincarnazione: "Quell'idiota di Graziani" farà effettivamente "una brutta fine", se non in questa vita nella prossima. Secondo me Jachia e Pareyson a volte sovrainterpretano; è chiaro che Battiato si presta, coi suoi testi ellittici che è facile prendere per criptici, ma è un testo del 1981, Battiato non sarebbe tornato esplicitamente sull'argomento per altri dieci anni. Io credo che nell'economia del brano, il riferimento così diretto a Graziani sia dettato dalla necessità di prendere le distanze dal fascismo coloniale: se non ci fosse, il brano potrebbe anche essere inteso come una fantasia nostalgica. Ho scritto "se non ci fosse", ma in realtà fino al 1989 davvero non ci fu. La Russo non aveva voluto cantare quel verso, per paura che Ivan Graziani lo credesse riferito a lui. 

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99. Non si erano mai viste code tanto lunghe

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, oggi con due canzoni scritte nell'arco di pochissimi mesi eppure diversissime].

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1982: L'esodo (Battiato/Pio/Tramonti, #89).

In effetti, persino in una traiettoria artistica così complicata come quella di Franco Battiato, poche fratture sono percepibili come quella tra L'arca di Noè e Orizzonti perduti. Prendi proprio L'esodo, un brano in cui il synth la fa da padrone – ma suona ancora come il vecchio synth a valvole, vibrante, polveroso. Addirittura Zuffanti nel crescendo finale sente echi di Goutez et Comparez, ovvero dell'organo di Monreale. Passano pochi mesi e il nuovo sound digitale è quello patinato e smagliante del Roland MC-4. Quel che è buffo è che i vecchi synth hanno retto il tempo molto più dei Roland: che FB ha più volte sentito la necessità di riarrangiare La stagione dell'amore, mentre L'esodo difficilmente riusciremmo a immaginarla con una strumentazione diversa da quella del 1982. Ora, questo tipo di fratture che dipendevano molto di più dall'evoluzione tecnologica che non dalle volontà/necessità espressive dei musicisti, sono la cosa che rimpiango di più del mezzo secolo tra 1950 e 2000. Non ho davvero motivi per sostenere che sia stata l'età dell'oro della musica leggera. Può anche darsi che agli ascoltatori delle prossima generazioni non risulti quell'abbassamento qualitativo che per una bizzarra coincidenza nella nostra percezione corrisponde esattamente al momento in cui siamo diventati adulti. Ma la capacità di datare a colpo sicuro un brano tra '56 e '98, anche solo al primo ascolto – una competenza acquisita con tanto tempo e fatica e soldi distratti ad altre più utili discipline – ecco, quella mi manca. Dal 2000 in poi come fai? misuri la quantità di autotune? Un certo tipo di progresso sembra finito, e l'importante non era evidentemente il punto d'arrivo. 


1983: La stagione dell'amore (#8) 

Guerrera: Come vivi la prospettiva della vecchiaia, che rapporto hai con i vecchi?

Battiato: È una cosa che per il momento non capisco perché non sento di avere l'età che ho. D'altronde questa condizione riguarda molti individui, eppure ci sono alcuni che al contrario provano in un certo senso gusto a invecchiare troppo presto, salvo coloro ovviamente che soffrono di una qualche infermità. In ogni caso per quello che mi riguarda non esito ad annoverale la vecchiaia tra le categorie opinabili (da Guerrera, Battiato Another Link, Verdechiaro, Reggio Emilia, 2006). 

La stagione dell'amore è credo il primo brano in cui FB si pone il problema dell'invecchiamento, più o meno negandolo. In seguito negherà con decisione la realtà della morte ("noi non siamo mai nati e non siamo mai morti"). Nello stesso volume, a una pagina di distanza, Battiato spiega all'intervistatore che vuole andare a riposarsi un po', forse in Grecia: e mentre racconta delle sue esperienze sul monte Athos con Camisasca e Thomasson, ottantenne ma arzillissimo, Guerrera gli chiede bruscamente se si è mai innamorato in vacanza. Invece di mandarlo a quel paese, Battiato riesce a produrre una risposta seria: "La luce di certi occhi, la dolvezza di un viso, un particolare seducente possono attrarre. E per un attimo puoi davvero avvertire una corrente speciale destinata ad accendersi e subito spegnersi". Ma poi soggiunge: "Riposare significa anche non lasciarsi ossessionare dalle occasioni perdute. Non rimpiangerle mai". Insegnamento più che valido, anche se bisogna riconoscere che Battiato le sue Euridici si è voltato talvolta a guardarle. Non spesso, ma più frequentemente, man mano che invecchiava (pensiamo alle Nostre anime). Forse dovremmo fare come diceva, non come cantava. Non rimpiangere mai, niente e nessuno. Chi rimpiange invecchia. Siete pronti? Da oggi, niente più rimpianti. Sul serio. Facciamo che leggere e ascoltare tutto questo Battiato ci sia servito a qualcosa. 


Fuori concorso (canzoni che non hanno partecipato alla gara per questo o quest'altro motivo).

Accetta il consiglio (Battiato/Sgalambro, 2003)


Mentre andavo a riprendere la versione live 2003 della Stagione dell'amore (che alla fine è davvero la più spudoratamente irresistibile, coi cori del pubblico) mi sono ricordato che nello stesso CD c'è una traccia che ho escluso dal torneo perché ne avevo già 256 e questo in sostanza è Sgalambro che sgalambreggia in libertà mentre magari Battiato è al gabinetto – mi sembrava più interessante persino Soldier degli Springfield, me ne assumo la responsabilità. Forse sono i tre minuti in cui si intuisce di più che compagnone doveva essere: un piacione, un guitto, più a suo agio del padrone di casa quando si trattava di declamarsi al microfono. Una cosa curiosa è che si sta rivolgendo solo ai ventenni, che nei live del periodo non erano necessariamente la maggioranza. Anche lui dispensa consigli su come non invecchiare, tra cui ovviamente il più importante è non accettare nessun consiglio, ah, com'è paradossale professore.
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98. Ragazzi non giocate troppo spesso accanto agli ospedali

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, oggi con la canzone più lunga e antica ancora in lizza].

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Sequenze e frequenze (#144)

Nel momento in cui scrivo, mentre continua il testa a testa serrato tra Aria di Rivoluzione e La Cura, Sequenze ha buone probabilità di essere l'unico brano pre-Cinghiale nei 32 ammessi al terzo turno. Questo, se in parte è ingiusto nei confronti di un periodo in cui Battiato ha inciso e sperimentato molto, dall'altra conferma quanto Sequenze sia l'episodio più rappresentativo almeno di tutta la fase 1972-1975 (diciamo da Fetus a Gladiator), sospeso com'è tra l'anima prog e quella più avanguardistica che si esprime soprattutto nella lunga coda strumentale. Ma è anche la prima canzone in cui Battiato sperimenta il suo stile salmodiante: la prima in cui mette in gioco le memorie del suo passato, la prima in cui fissa il mare. Sulle corde di Aries è di gran lunga il disco più solare di quegli anni, ed è il primo di cui FB in seguito parlerà volentieri, come di un'esperienza purificatrice. E nonostante la percepibile distanza con Pollution, il synth è ancora in primo piano; la suite che occupava un lato intero dell'album era quasi un luogo comune del prog (tutti gli artisti che ascoltavamo negli anni '80, se andavi a cercare, nel decennio precedente avevano fatto un disco con almeno un pezzo lungo un intero lato; un pezzo che a riascoltarlo sembrava inspiegabile, completamente diverso da tutto quello che avevano fatto dopo, misterioso come un vecchio album di foto dei genitori pieno di gente sconosciuta coi baffi). 


Venezia-Istanbul (Battiato/Pio, #48)

Ecco un brano che mi sorprende di trovare ancora in gioco. Non ha neanche avuto un percorso così facile – ha buttato fuori Mesopotamia, Un vecchio cameriere, Ruby Tuesday. La sensazione è che i grandi elettori della Gara ragionino più per album che per canzoni singole, e anche ai singoli più rilevanti del Battiato pre o post-Ottanta preferiscano anche gli episodi meno noti dei dischi degli anni Ottanta. Patriots continua a essere uno dei dischi più amati: è un caso tipico di successo postumo, perché quando uscì vendette appena quarantamila copie (l'Hunky Dory di Battiato, in un certo senso).

Se parla di qualcosa, Venezia-Istanbul potrebbe parlare di relativismo culturale, un concetto di cui al tempo non si parlava parecchio (e anche adesso mi sa passato di moda). I pagani ammazzavano i cristiani, poi viceversa, il mondo va così (forse finisce qui). Spuntano qua e là tra le righe riferimenti all'omosessualità come pratica o tendenza: Socrate parlava spesso delle gioie dell'Amore, e nel petto degli alunni si affacciava quasi il cuore, tanto che gli offrivano anche il corpo, e poi i famosi "due abbracciati in un cinemino di periferia", che nel testo riportato in copertina sono specificati "uomini" tra parentesi: una precisazione a cui evidentemente Battiato teneva, ma che sui solchi del disco avrebbe pregiudicarne la diffusione radiofonica. Non era poi così facile parlare di queste cose in un disco nel 1980. Una riflesso equivoco ricade anche sulla passione di D'Annunzio per gli aeroplani e le bande legionarie, con quel commento sibillino: che scherzi gioca all'uomo la Natura.    


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97. Il cielo a volte, invece, ha qualche cosa d'infernale

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, che sembra non finisca mai e invece oggi cominciano i sedicesimi! Con una lotta abbastanza impari tra la favorita per ranking e una delle ultime superstiti degli anni Novanta].

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1981: Centro di gravità permanente (Battiato/Pio, #1).


Grazie a commentatori anonimi (che ringrazio), sono riuscito a identificare la vecchia bretone con un cappello, un ombrello di carta di riso e canna di bambù: dovrebbe proprio essere l'esploratrice (ma diciamo pure avventuriera) Alexandra David-Néel, teosofa, reincarnazione di qualche lama, che malgrado i numerosi e faticosi viaggi morì centenaria (quindi "vecchia"), non era bretone ma per un po' soggiornò a Mont-Saint-Michel (lo so che non è tecnicamente Bretagna, ma magari Battiato no), e spesso è raffigurata con gli ombrellini coloniali ma all'occorrenza riusciva a travestirsi da monaco tibetano per arrivare a Lhasa e restarci mesi prima di essere scoperta. Per campare s'improvvisò pure cantante lirica ad Hanoi; a Tunisi mentre studiava il Corano fece la direttrice artistica come Battiato a Catania, insomma un personaggio che FB non poteva non ammirare e che probabilmente introduce il tema del mascheramento. Però attenzione: mentre di Matteo Ricci è menzionato il travestimento da bonzo, della David-Néel si ricordano gli accessori coloniali, come a dire: è quello il travestimento, la David-Néel autentica era una monaca tibetana (ne adottò uno), se si vestiva da occidentale era per farsi accettare da noi europei, per far passare i suoi messaggi – proprio come FB si era travestito da avanguardista perché erano "i giorni di maggio" e la credibilità si guadagnava raccogliendo ortiche, mentre ora deve inforcare gli occhiali neri da popstar per volgarizzarci un po' di Gurdjieff; travestirsi da freejazzista, da punk, da artista new wave, infiocchettando le sue canzoni con i finti cori russi dei madrigalisti di Milano (negli anni in cui il Coro dell'Armata Rossa era una presenza fissa ai festival dell'Unità). Il fatto che non sopporti veramente nessuno di questi codici musicali è un'affermazione inversa a quella contenuta in Bandiera bianca, di preferire l'insalata a Beethoven: là Battiato è nel personaggio, qui lo sta svelando.   


1996: Strani giorni (Battiato/Sgalambro, #33)

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Battiato ha inciso più titoli negli anni Novanta che negli Ottanta. Lo stesso numero di album (sei), ma alcuni un po' più lunghi – probabilmente per venire incontro alla maggiorazione dei prezzi con l'imporsi dei CD, e qui ci si potrebbe domandare se la necessità di stiracchiare la propria ispirazione abbia giovato a Battiato dall'Imboscata in poi. Sia come sia, il giudizio del secondo turno del torneo è abbastanza reciso: solo tre brani degli anni '90 dovrebbero averlo passato. Strani giorni è una delle tre ed è la sola ad aver fatto fuori un pezzo degli '80, Chanson egocentrique. È anche una delle tre superstiti del catalogo di Sgalambro, che ne ha cofirmate una sessantina. 

Un'altra cosa che al terzo turno mi piacerebbe aver chiarito: chi tra i cantanti ha inciso il verso "Il cielo azzurro appare limpido e regale"? Nessuno mi pare sia ancora riuscito a trovare il riferimento. Sarebbe bello che fosse lo stesso Battiato, che del resto non ha mancato di associare il cielo alla divinità (vedi Lo spirito degli abissi), e che qui Sgalambro liquiderebbe come "uno dei tanti". Un altro buon candidato potrebbe essere Jim Morrison, visto che la canzone si chiama Strani giorni, e che alla fine è uno degli autori rock più citati da Battiato. Riferimenti morrisoniani nelle sue canzoni: "The end, my only friend" in Bandiera bianca; "strani giorni" in Strani giorni, "Come on baby light my fire" in La musica muore (solo nella sua versione: in quella originale di Camisasca non ci sono citazioni). Ok, sono solo tre, cioè è pari merito con Dylan e coi Beatles. Un fleur che avrei sentito volentieri è Light My Fire col sintetizzatore di Fetus. Non avrebbe avuto senso, dite. Vi ricordo che ha rifatto Hey Joe...

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96. Chi stranu e cumplicatu sintimentu

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[Questo è l'ultimo trentaduesimo di finale della Gara delle canzoni di Franco Battiato, con due canzoni che stanno appena a quattro anni di distanza, ma in mezzo c'è la Milano-Napoli e la Salerno-ReggioCalabria, e un oceano (di silenzio)].

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1984: Temporary Road (#107)

Vigilesse all'erta come teddy boys. Che La voce del padrone riuscisse a portare tutte le sue sette canzoni al secondo turno era abbastanza prevedibile. Che ci riuscisse anche Patriots, un po' più sorprendente. Ma che il disco con più superstiti in assoluto fosse Mondi lontanissimi (otto brani su nove) ecco, questo non me lo aspettavo. L'unico brano che non ce l'ha fatta è la povera Personal Computer, che ha questo punto mi fa pure tenerezza, perché lei no e Temporary Road sì? E possibile che Campane tibetane sia stata mandata a casa da quest'ultima, più che una canzone uno scherzo dettato dalle frustrazioni del traffico milanese e dalla necessità di portare in tv qualcosa di leggero? (i pezzi dell'Arca di Noè non si prestavano più di tanto). Poi bisogna dire che la melodia iniziale è proprio piacevole, anche se non sono del tutto sicuro che sia farina del suo sacco (sprecarla per un pezzo così?)

Quello di Mondi è un primato abbastanza discutibile, non solo perché "otto su nove" non suona come "sette su sette", ma anche perché un titolo (Il re del mondo) è in comproprietà col Cinghiale bianco, e in generale si tratta di un LP a metà strada tra l'album e la raccolta, con alcuni brani che il turno l'hanno passato nonostante la versione di Mondi (Tozeur, ad esempio, e la stessa Re del mondo). È un disco che somiglia molto alla lontana ai dischi che in quegli anni mandava fuori Dylan, con tante cose diverse messe assieme all'ultimo momento quando compariva all'orizzonte la scadenza contrattuale. Ci sono gli abbozzi 'spaziali' che ruotano già intorno all'opera Genesi, le tracce di un lavoro di riarrangiamento del suo catalogo che sta facendo per i mercati esteri (un progetto portato avanti con scarsa convinzione e una strumentazione che in tempi brevissimi sarebbe risultata datata: non è nemmeno del tutto colpa sua, tutti i suoni che produceva la Roland ci stancarono all'improvviso, come un giocattolo stanca il bambino). Battiato non è sicuro di voler continuare questa cosa della popstar, e nemmeno di voler restare a Milano. Per cui è abbastanza bizzarro che i brani di questo periodo di crisi alla fine ci piacciano di più di quelli composti in altri periodi assai più pacifici, in cui Battiato sapeva cosa voleva fare e dove voleva stare. O no? In realtà no, le cose migliori le fai ti escono quando sei sotto pressione e vorresti/dovresti fare qualcos'altro. È il motivo per cui esiste Milano, probabilmente. L'hanno proprio costruita apposta.


1988: Veni l'autunnu (#86).

Scura cchiù prestu. L'albiri perdunu i fogghi e accumincia a scola. Mi piace pensare che non sia un autunno qualsiasi, ma il primo che Battiato decide di passare in Sicilia: prima l'autunno era la stagione milanese per eccellenza ("Torneranno di nuovo le piogge, riapriranno le scuole, cadranno foglie lungo i viali...") La fine di una transumanza più che ventennale – che purtroppo coincide con il periodo creativo più interessante. Abbiamo già notato come il procedimento del collage (che però Battiato rifiutava di chiamare così) resista, da Fisiognomica in poi, solo nei rari brani in vernacolo siciliano che somigliano in questo a certe raccolte di modi di dire dialettali che dalle mie parti occupano uno scaffale apposito delle librerie, spesso il più vicino alla cassa. Per cui alla fine non è così semplice distinguere l'avanguardia dalle manifestazioni di folklore più ingenuo. Battiato ha nei confronti della cultura orale tradizionale un'ammirazione che lo colloca a colpo sicuro in un filone neoprimitivista che dobbiamo ancora formalizzare ma che a un certo punto in Italia è diventato una cosa importante: non ci sono solo personaggi mediatici alla Mauro Corona, c'è Ermanno Olmi, per dire, ma in un certo senso pure Pasolini, autori che Battiato non cita assolutamente mai ma con cui condivide una diffidenza per il progresso che forse è un tratto distintivo della nostra cultura nazionale: la rivoluzione industriale noi non l'abbiamo mai veramente accettata, è una cosa che viene da fuori e siamo convinti che prima o poi se ne dovrà andare. 

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95. Tutti i muscoli del corpo pronti per l'accoppiamento

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[Siete pronti al 95mo incontro della Gara delle canzoni di Franco Battiato?, oggi con una canzone scritta per tappare un buco che è una delle sue più ascoltate, e con Mal d'Africa che alla fine ha prevalso su Scalo a Grado per un voto appena, sì, il mio].

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1981: Sentimiento nuevo (#11)

"A volte capita di dover completare un lp. Hai scritto sei canzoni che ritieni riuscite e te ne manca una sola per arrivare alla conclusione. Allora non aspetti l’ispirazione, ti metti d’impegno e ne vieni a capo. Quando l'hai finita senti che non è una canzone riuscitissima, al livello delle altre. Poi esce il disco, e quella canzone, a cui tu avevi dato meno peso, ha un suo successo, forse proprio perché l'hai scritto con più superficialità. L'hai scritta in fretta, pensavi che fosse così-così, e invece è solo un po' leggera, e anche la leggerezza può essere un pregio. Ne ricordo una, inserita nell'lp La Voce del Padrone, che s'intitolava Il sentimiento nuevo: ebbe un grandissimo successo. Per me era stato un riempitivo divertente. L’avevo composta con una certa spensieratezza, ma anche con freschezza, era una cosettina leggera. Ma quando la cantavo, il pubblico rispondeva". La cosa più incredibile di questo passo di Tecnica mista su tappeto, per me, è che Battiato afferma candidamente che quando ha inciso La Voce aveva pronte sei canzoni. E basta. Non le ha scelte da una rosa, non ha dovuto selezionare le migliori, anzi gliene mancava persino una, l'ha scritta all'ultimo momento e gli è venuta meglio di interi dischi suoi. Per dire lo stato di grazia di quel 1981.

Anni passati ad ammirare il finale della Voce, l'eleganza di finire con un inno all'amore corporeo, come dire: avete ascoltato abbastanza musica, ora è tempo di darsi da fare – e invece niente, è l'ultimo brano semplicemente perché l'ha scritto per ultimo e lo considerava meno riuscito. 

(Tom Waits, parlando di In the Wee Small Hours, il primo vero LP 12 pollici americano, lo considerava anche il primo concept album perché "lo metti sul piatto dopo cena e alla fine sei esattamente dove dovresti essere". Ecco, non credo che nessuno abbia mai messo sul piatto La voce del padrone per lo stesso motivo, ma forse è un esperimento che andrebbe fatto).

Mi pare che Sentimiento sia l'unico titolo spagnolo del suo catalogo italiano. Battiato, com'è noto, amava sfoggiare lingue straniere con notevole sprezzo del ridicolo. Ogni lingua evoca una cultura abbastanza delimitata: l'inglese è la modernità, l'arabo le radici ancestrali, il tedesco la cultura europea, il greco antico la cultura classica, il francese le belle canzoni di una volta. Lo spagnolo non è associato a niente. Non è nemmeno una delle lingue che Battiato incontra nei suoi viaggi, come il portoghese o il mongolo; lo spagnolo è neutro. Forse non è una coincidenza che sia anche l'unica lingua – oltre all'italiano – in cui Battiato è riuscito a essere un interprete credibile.


1983: Mal d'Africa (#75) 

MIKE BONGIORNO: "È un po' come l'ultima cena, eh?"
FRANCO BATTIATO: "No, per carità!"

"Qualcuno", ammette Battiato in Tecnica mista, lo "considera uno dei pezzi più belli della mia carriera. In effetti, il testo soprattutto, ha qualcosa di toccante, di speciale". Non sapremo mai chi è quel qualcuno, ma in testa abbiamo tutti Pippo Baudo che per qualche settimana volle il video di Mal d'Africa come sigla finale di Domenica In, in quello slot preziosissimo dopo il termine di 90° Minuto. Sul rapporto tra Baudo e Battiato si potrebbe scrivere un libro, qui annoto soltanto il mio stupore per il fatto che Mal d'Africa fosse considerata la canzone-traino di Orizzonti perduti: non il singolo perché Battiato e/o la Emi non ritenevano che valesse la pena farne uscire, ma il brano da portare in tv, da Baudo o da Bongiorno. Il sospetto è che non fosse la canzone più accessibile, ma quella con cui Battiato si sentiva più a suo agio: con La stagione dell'amore avrebbe dovuto atteggiarsi a crooner, magari replicare dal vivo la buffa coreografia del videoclip. Mal d'Africa era meno catchy ma consentiva messe in scena come "l'ultima cena" di Superflash, un'idea semplicissima ma abbastanza efficace. E intanto si portava in tv un po' di vagheggiamento dei vecchi tempi preindustriali di grandi famiglie patriarcali al tavolo della domenica, qualcosa che sia Baudo sia Bongiorno non avevano ancora idea di quanto sarebbe piaciuto ai telespettatori. Nell'intervista Battiato riesce a rispondere a Bongiorno senza sembrare detestabile: spiega che oltre al nuovo disco ha in cantiere l'Eurofestival in coppia con Alice e poi un tour negli USA (Bongiorno ha il guizzo di specificare che non è un tour dedicato agli emigrati italofoni). Dalla Voce del padrone sono passati due anni, Battiato in mezzo ci ha messo altri due dischi diversissimi tra loro. Continua a sorprendere, non si ferma, sembra inarrestabile.

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94. Quanti perfetti e inutili buffoni

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con il trentaduesimo di finale più pesante, nel senso che la somma del ranking dei due brani è la più alta di tutti gli altri trentaduesimi – tenete conto che la somma minima di un trentaduesimo è 65; ebbene questo fa 27+219= 246, ed è tutta colpa della Convenzione].

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1972: La convenzione (#219)

Nella discografia di Battiato, La convenzione è sempre stata un brano a parte; per lunghe ere dimenticato, poi riscoperto e rivalutato magari oltre i suoi limiti. Situazione ribadita in questo torneo, di cui è l'unico brano sotto il #200 ad aver passato il turno. Quindi il brano superstite col ranking più basso, ma non solo: anche il più antico, visto che nessuna canzone dei '60 né di Fetus è riuscita ad arrivare fin qui. È anche il solo a non essere contenuto in nessun album ufficiale (Stage Door è un caso un po' particolare). Si tratta di un brano che sviluppa le premesse prog di Fetus in un senso più commerciale, preannunciando i temi di Pollution ma al contempo lasciandoci immaginare che Pollution avrebbe potuto essere un disco molto diverso e forse molto più venduto. È l'espressione di un personaggio di cui FB si disfa completamente interrompendo il tour di Pollution, e di cui negli anni Ottanta resistevano soltanto memorie inattendibili e foto inspiegabili – il singolo, come ogni cosa BlaBla, era fuori catalogo e introvabile. Ci vorrà il tour di Gommalacca, un mezzo secolo dopo, perché Battiato si decida a rispolverare un passato che non lo imbarazzava più. A questo punto succede però una delle cose più bizzarre della sua discografia, ovvero Pino Massara, ancora custode di un po' di materiale inedito di casa BlaBla, decide di ripubblicare il brano nel 2002 in un CD molto ambiguo, che sfruttando proprio il minimo ritorno d'interesse s'intitola La convenzione. Benché il nome più in evidenza sulla copertina sia "Franco Battiato", Massara non ha abbastanza materiale e così allunga il brodo con brani di Camisasca e Osage Tribe, in cui Battiato non sempre è presente. Una versione inedita di Stranizza d'amuri è retrodatata al 1975, magari per confondere gli avvocati della Emi; La convenzione è pubblicata nella versione del singolo promozionale per la stampa con una strofa bisbigliata in più, che oggi è quella che tutti possiamo trovare su Spotify; ma alla fine del CD viene allegata una "nuova versione 1997" che purtroppo su Youtube viene da molti scambiata per quella originale e non può francamente esserlo, con quell'arrangiamento vistosamente hard rock. Ma non può nemmeno essere una versione del 1997, visto che la traccia cantata è la stessa dell'originale 1972. E allora cos'è? Ha tutta l'aria di essere un Battiato remixato abusivamente, un Battiato taroccato messo in giro da Massara nel tentativo di ottenere qualcosa di trasmettibile in radio nel 2002, e nell'auspicio che il Battiato autentico sia troppo buono da mandargli gli avvocati (auspicio probabilmente avveratosi, visto che la versione è ancora in circolazione). Un Battiato alternativo, in un universo parallelo in cui si è lasciato macinare dalla macchina per il successo progettata da Massara e Gianni Sassi, e dopo qualche singolaccio come La convenzione sia rapidamente finito nel dimenticatoio insieme al Balletto di Bronzo o agli Osanna; salvo rispuntando ogni tanto con versioni riarrangiate degli stessi pezzi, come fanno le meteore per rimanere in orbita (vedi Cugini di campagna). Un Battiato di cui francamente non avevamo bisogno, anche se forse ce lo saremmo meritato. 


1991: Povera patria (#27)

A un certo punto, senza che lui facesse il minimo sforzo, le coordinate politico-ideologiche di Franco Battiato si sono di colpo chiarite. Non era ancora così nel 1991: la chiacchiera che fosse un cantante di destra, già smentita, non era così facilmente liquidabile. Anche solo per il ricorso alla parola "patria", che Battiato recuperava per la seconda volta dopo Patriots: si trattava di una parola ancora piuttosto pesante nei primi anni Novanta (forse più a nord che in meridione), che nessun cantautore di sinistra avrebbe mai usato in senso non ironico. Battiato sembrava apolitico, ma sdegnato; rispettava le istituzioni, ma diffidava degli uomini che le impersonavano; non faceva nessuno sforzo per non apparire elitario, e proprio per questo non lo si riusciva a liquidare come un esponente del progressismo urbano che Montanelli aveva insegnato a etichettare come "radical chic": a ben vedere restava un autodidatta con riferimenti assolutamente personali, assai lontani dalla sinistra tradizionale ma anche dalla destra (che poi tre anni prima dell'avvento di Berlusconi era ancora un ghetto ben poco invitante). Il punto è che Battiato, scusate se insisto, era già grillino, molto prima che a Grillo venisse in mente di fondare un movimento. Un cognitario sradicato della diaspora meridionale, sedotto dalla grande città ma tentato dal ritorno alla campagna; da sempre diffidente nei confronti della civiltà dei consumi e portato a vagheggiare di età dell'oro pre o post industriali. In Povera patria c'è tutto questo, compresa l'idea, ingenua ma potente, che il Cambiamento possa muovere da un grande processo di risveglio collettivo. Certo, "Cambierà, forse cambierà" suona molto più conciliante di "Svegliaaaaaa!" Ma l'idea di fondo non è molto diversa. 

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93. A Beethoven e Sinatra preferisco l'insalata

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, con due brani in cui Battiato entra esce in personaggi inutili]. 

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1981: Bandiera bianca (Battiato/Pio, #6)

Alla fine è notevole questa cosa, no? Che per trent'anni i giornalisti hanno continuato a chiedergli: ma davvero preferisci l'insalata a Beethoven, e lui ogni volta, pazientemente: no, scherzavo. Come se non fosse stato chiaro fin da subito – non è come chiedere oggi ai Kraftwerk superstiti: ma è vero che siete robot? O a Fortis se odia davvero i romani? E magari qualcuno glielo chiede ancora, i giornalisti sono tipi, come dire, prevedibili. 

In parte è persino responsabilità di Battiato, che il dispositivo ironico non lo ha usato sempre in modo coerente – prendi proprio Bandiera bianca. Forse non abbiamo davvero capito cosa intendesse fare con questa canzone che probabilmente all'inizio era uno dei suoi tentativi più radicali di scrivere qualcosa di brutto – più brutto di Up Patriots to Arms, che malgrado l'inflessione disco non gli era riuscita così male, meno brutto di La musica è stanca, che sarà il coronamento finale di questo tipo di sforzo punk: ma comunque brutto. Vedi la testimonianza di Eugenio Finardi: "Ricordo di essere entrato nello studio di Alberto Radius mentre Franco, Titti Denna, Giusto Pio e Filippo Destrieri si esaltavano cercando il suono "più brutto" per la iconica frase di Bandiera bianca..." Alla fine il suono peggiore che questi turnisti riescono a trovare è il riff suonato da Destrieri sull'organo Hammond, che poi Battiato riprende nel cantato, tutto giocato su un'oscillazione di un solo semitono. Variare di appena un semitono, in molti casi, significa steccare, e Battiato l'idea della stecca la suggerisce in tutte le strofe: e se non riesce comunque a produrre qualcosa di veramente dissonante, è perché è più forte di lui. Il riff è anche una parodia, non so quanto consapevole, della Bagatella n. 25 (Für Elise) di Beethoven, insomma della stessa Per Elisa che Battiato aveva appena evocato nel riff con cui Alice aveva espugnato Sanremo. È la stessa oscillazione tra bequadro e bemolle, ma ora ripetuta ossessivamente da uno studente che si rifiuti di imparare il resto, perché appunto, preferisce l'insalata. 

All'"immondizia musicale", dovrebbe corrispondere a livello di testo un'immondizia etica, ma così com'è incapace di stonare apposta, allo stesso modo Battiato non ce la fa ad apparire uno yuppie milanese tutto insalatine, occhiali da sole e menefreghismo. Certo, là fuori ci sono ancora brigatisti che sparano e liquidarli come "stupide galline che si azzuffano per niente" è abbastanza forte: ma troppo spesso sotto gli occhiali intravediamo il cipiglio del moralista incline all'invettiva ("quante squallide figure attraversano il paese..."). Per cui davvero è lecito domandarsi a ogni verso se Battiato stia scherzando o no, se sia nel personaggio o no – almeno era lecito domandarselo diciamo fino a tutto il 1982; vent'anni dopo solo un santo avrebbe trovato ancora una risposta simpatica alla domanda "preferisci l'insalata". Battiato era quel tipo di santo. 


1991: Lode all'inviolato (#70).

Il fatto che Lode all'inviolato sia passata al secondo turno mi consente se non altro di correggere tutte le fregnacce che ho scritto l'altra volta: parlavo di progressione ascendente, dove avevo le orecchie? Lode all'inviolato è una canzone che scende, anzi rotola in perpetuo. Quasi il contrario di Delenda Carthago, anch'essa costruita su quattro accordi ripetuti incessantemente. Ma mentre gli accordi di Delenda ascendono, incalzano, quelli della Lode prima scendono (La-, Sol, Fa), poi forse si rialzano (Sol), ma proprio quest'unica risalita della progressione è occultata all'orecchio dell'ascoltatore dalla scala discendente di note che in quel momento ha la funzione di ricondurlo al primo accordo della ruota. In certe canzoni di FB si ha la sensazione di crescere sempre più in alto anche se si rimane sui propri passi; qui l'esatto contrario, si può scendere all'infinito. Il che forse avvalora l'ardita ipotesi di qualche lettore: e se l'"inviolato" stavolta fosse il diavolo? Dopotutto lo sapeva bene Paganini che egli suona il violino (e nella Lode FB fa ampio uso di archi). Onestamente non penso il Battiato di Caffè de la Paix capace di tanta doppiezza, anche se per quanto mi riguarda non l'avrei disdegnata. È ormai un artista consacrato alla sua idea della verità (un'idea completamente diuturna, luminosa) che non ha difficoltà a parlare di quello in cui crede, rifiutando ogni tipo di ipocrisia e ironia – anche quel minimo sindacale con cui noi poveri mortali ci schermiamo in società. 

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Fuori concorso (canzoni che non hanno partecipato alla gara per questo o quest'altro motivo).

Lo spirito degli abissi (2015)

Lo sapete che tutta la Gara è falsata, sì? Avevo completamente rimosso Lo spirito degli abissi, giuro, non sapevo che esistesse e invece non è neanche un brano così nascosto: sta all'inizio del secondo CD delle Nostre anime – il cofanetto testamentario del 2015 e quindi può essere considerata la penultima uscita inedita di Franco Battiato. È un brano che rivela la stessa lieve sconnessione dell'altro inedito del cofanetto (Le nostre anime) e di qualche brano di Apriti Sesamo, la tendenza a cominciare un discorso e passare ad altro con una noncuranza che non dovrebbe più di tanto sorprenderci – Battiato non è mai stato un campione di consequenzialità – ma intanto la voce si è fatta più faticosa e accresce la sensazione che cominci a essere difficile, per lui, tenere un filo. La prima cosa che salta alle orecchie è il riferimento alla Grande Guerra, nel quasi centenario, descritta in termini junghiani come un episodio di possessione dell'inconscio collettivo ("Lo spirito degli abissi si impadronì del nostro destino"). Anche questo non sorprende affatto chi ricorda passate interviste in cui Battiato aveva evocato simili categorie per descrivere i cambiamenti di Zeitgeist negli anni Settanta e Ottanta. Più singolare è il richiamo alla preghiera ("Mi è ritornata voglia di pregare"), in un senso esplicitamente cristiano: ("seguendo la tenacia dei padri del deserto"): non una meditazione rivolta a sé, come Battiato ha spesso praticato, ma un desiderio di intercessione rivolto agli altri: Battiato vuole pregare "per quelli che hanno perso da tempo la loro via, per chi non riesce a sopportare i dolori dell'esistenza". A intervalli regolari, torna la memoria paradisiaca di un giardino invaso dal sole. È difficile ascoltare senza commuoversi un brano concepito probabilmente per essere l'ultimo. 


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92. L'impero della musica è giunto fino a noi carico di menzogne

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con molto più turpiloquio del solito, anche se Battiato poi nei dischi si autocensurava]. 

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1980: Up Patriots to Arms (Battiato/Pio, #19)

"Sono stato sempre assai poco geloso delle mie creazioni. Anni fa andai ad ascoltare un gruppo punk di Bologna [i Disciplinatha?] in un teatro milanese in Via Larga. Mi si avvicina il leader e fa: “Suoneremo una cover di Up patriots to arms, ti dispiace se cambiamo qualche parola?” “Ma cosa vuoi che me ne freghi?”. Detto fatto. Salgono sul palco e attaccano: “Mandiamole in pensione quelle facce di merda, ci hanno rotto i coglioni”.

Mi sono divertito più in quell’occasione che a cantare migliaia di volte l’originale”.

In linea di massima si nasce incendiari e si muore pompieri, poi ci sono casi particolari, ad es. Battiato ancora a 35 anni cantava "mandiamoli in pensione i direttori artistici, gli addetti alla cultura", a 67 si lasciava nominare assessore alla cultura della regione Sicilia "senza percepire compenso", a 68 si dimetteva dopo aver dichiarato "Queste troie che si trovano in Parlamento farebbero qualsiasi cosa. È una cosa inaccettabile, sarebbe meglio che aprissero un casino" (il problema politico, a quanto pare, non era l'equiparazione tra parlamentari e meretrici, ma il sessismo del termine "troie").

A riascoltarla con attenzione, la versione di Patriots è ancora molto fragile, sembra un demo (eppure la preferirò sempre alle successive, compresa quella di Echoes of Sufi Dances che ogni battiatista ascolta con dolore per via dell'introduzione). Il batterista ogni tanto è in anticipo. Il basso è spigoloso, new wave, con qualche sghiribizzo. Un pianoforte aggiunge una dimensione romantica completamente fuori contesto. Battiato canta in un falsetto molto alto, a conferma del fatto che abbia in mente una canzone disco – non necessariamente You Make Me Feel (Mighty Real) di Sylvester, anche se i ritornelli delle due canzoni sono intercambiabili. Come più tardi con La musica è stanca, Battiato non vuole solo denunciare il malcostume musicale: vuole anche commetterlo. Le pedane sono piene di scemi che si muovono, e Battiato sta iniziando a perfezionare i balletti che porterà in tv perché qualcosa deve pur fare mentre canta e lo inquadrano. Inoltre le panchine sono piene di gente che sta male: è il 1980, la prima dose d'eroina costa meno di un LP. 

 

1998: Stage Door (Battiato/Sgalambro, #174)

"Adesso arriva... [guarda il monitor], ah questa si chiama Stage Door, se qualche fanatico mi segue..." [qualche applauso].

Col tempo probabilmente Stage Door diventerà per i "fanatici" di Battiato quello che per i dylaniti è Blind Willie McTell – il brano prima escluso da un disco per ragioni incomprensibili, e che anche per questo motivo ormai è più famoso del disco stesso. La spiegazione più semplice è che Battiato abbia avuto pudore a incidere subito un brano che parla forse della sua depressione negli anni Settanta (anche se ne parla con accenti molto 'sgalambriani', per cui vale la pena di diffidare da una lettura troppo autobiografica). Di questo pudore però deve essersi pentito molto presto, visto che fece uscire due versioni diverse sia sul singolo di Shock in My Town che su quello del Ballo del potere, due singoli che secondo me non valgono Stage Door messi assieme. Ora, buttare una canzone come bonus di un singolo è peggio che lasciarla in un cassetto, secondo me – se avesse pazientato, sarebbe diventata il brano più forte di Ferro Battuto, e allora perché? Tutte le mie ipotesi su Stage Door partono da un punto fermo: è un brano che Battiato cantava dal vivo volentieri. Ecco perché non ha aspettato: l'ha incisa perché voleva cantarla dal vivo. 

C'è poi la questione dell'autocensura. La versione di Shock in My Town è bollata come "demo" ed è interessante questa cosa, che un demo casalingo di Battiato del 1998 suoni più professionale dell'arrangiamento definitivo di Up Patriots to Arms del 1980. Col tempo Battiato stava diventando veramente raffinato nelle sue produzioni casalinghe. Nel Ballo del potere compare di nuovo il demo, ma anche una versione più lavorata, senza l'inciso molto drammatico e... un po' sboccato ("Perché noi siamo liberi di fare quello che vogliamo, di uccidere, stuprare e rapinare e vomitare critiche insensate, parlare e dire solo sempre inutili cazzate"). Quando finalmente decide di pubblicare il brano in un album ufficiale, Inneres Auge, Battiato taglia di nuovo l'inciso. Da cui l'impressione, difficile da confutare, che FB volesse smussare gli angoli di una canzone un po' più personale ed emotiva del solito. Io però continuo a partire dallo stesso punto fermo: le esecuzioni dal vivo. Stage Door è un brano che funziona molto bene dal vivo, ma quell'inciso è piuttosto difficile, quasi più parlato che cantato, ma comunque richiede fiato, intonazione e sentimento. Durante il tour di Gommalacca, Battiato lo eseguiva (vedi il video qua sopra, con una prestazione veramente notevole): in seguito no, a un certo punto ha smesso. La versione di Inneres Auge non fa che ratificare una semplificazione che era già avvenuta nelle esecuzioni dal vivo. E a proposito, forse dovremmo domandarci perché Stage Door si chiami così. Io un'idea me la sono fatta, ma me la tengo per il prossimo turno (nel caso che passi Stage Door, altrimenti... me la terrò per me ahahahAHAH).

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91. E sulle biciclette verso casa, la vita ci sfiorò

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una sfida tutta anni Settanta]. 

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1973: Plancton (#142)


A questo punto ho letto Nove, ho letto Zuffanti, Pulcini, Boccadoro, Morgan, un minimo di battiatistica ormai ce l'ho presente. Nessuno parla davvero di Plancton, uno dei momenti più significativi della fase prog. Del resto è un brano di cui non risultano esecuzioni live dal '74 in poi. Plancton non ha goduto di seconde o terze vite, come Areknames o Propriedad Prohibida. Era una musica che aveva un senso in quella fase e muoveva corde che Battiato in seguito si è rifiutato di toccare. Plancton faceva paura, forse è per questo che nessuno ama parlarne. Un po' perché la paura è una fragilità; un po' perché è una delle cose che invecchia più facilmente – è probabile che il film dell'orrore che più vi terrorizza sia successivo al 1973. Per quel che mi riguarda, Plancton, come tutto il Battiato prog, mi ricorda le paure assurde che mi capitava di provare negli anni Settanta davanti a programmi televisivi che non capivo. A volte bastava uno stacco, una voce fuori campo un po' inquietante, qualche immagine a cui non riuscivo a dare un senso, o una sigla – come Propriedad Prohibida. Non credo di aver realmente ascoltato Pollution in quegli anni, ma quando l'ho recuperato vi ho trovato quel tipo di atmosfera, quella paura abissale e senza senso, la materia lattiginosa dei miei incubi infantili. Battiato questo tipo di cose le aveva rinnegate – quando nelle interviste insisteva sulla propria solarità, sul fatto di amare il giorno e non fidarsi della notte (e rinnegava la vita notturna della sua gioventù), credo che si riferisse anche a questo. 

Plancton è costruita per far paura, dopodiché certo, ascoltarla oggi può fare lo stesso effetto che riguardarsi Belfagor: ma il fatto che non funzioni più non significa che al tempo non funzionasse. Facevano paura i suoni del sintetizzatore, che sembrano davvero propagarsi attraverso l'acqua. Fa paura l'arpeggio di chitarra, fanno paura i cori riverberati. Fa paura il testo: le metamorfosi destano sempre in noi un orrore ancestrale, la diffidenza della preda nei confronti del mimetismo che spesso cela il predatore. Fa paura la tarantella finale, durante la quale immaginavo sempre la creatura affiorare e incappare in una tonnara selvaggia, durante una festa di paese. Su Youtube ho trovato il reperto di un'esecuzione live, che ci fa capire quanto suonasse prog il "Battiato Pollution"; al posto della tarantella finale c'è una versione hard rock di Meccanica. C'era d'aver paura, davvero. Anche Battiato deve averne avuta.  


1979: Il re del mondo (Battiato/Pio, #51)


Il re del mondo è una delle canzoni che Battiato ha cercato più spesso di riarrangiare, il che tradisce una certa insoddisfazione. Dopo la versione 'new wave' del Cinghiale Bianco (ma possiamo presumere che ce ne fosse una precedente nel demo che aveva lasciato insoddisfatti i discografici EMI), abbiamo quella elettronica di Mondi lontanissimi, che è poi la The King of the World del disco con cui cercava di esportare il suo repertorio nei Paesi anglosassoni, Echoes of Sufi Dances; e quella sinfonica di Unprotected, di cui allego più volentieri il video perché sullo spotiffo non lo troverete. Quando però nel 2015 pubblica il suo cofanetto 'testamentario', Le nostre anime, non sceglie nessuna delle tre versioni, bensì quella live del 2013 all'Arena di Verona, che è una specie di sintesi della versione Cinghiale e di quella sinfonica. L'elettronica del 1985 è completamente rinnegata. Insomma dobbiamo pensare che alla fine Battiato un arrangiamento soddisfacente lo avesse trovato, almeno dal vivo; quanto a me, non solo continuo a preferire la versione 1979, ma mi domando: come mai nessun autore di canzoni, quando prova a riarrangiarle, ottiene un risultato migliore del precedente? A me non viene in mente un solo caso. Questo è curioso, perché in teoria un autore, crescendo in esperienza, e portandosi con sé la canzone nei tour, dovrebbe essere sempre in grado di migliorarla un po': e invece non succede praticamente mai. Quando proprio ci si mettono di buzzo buono al massimo finiscono per comporre una canzone diversa (Don't Stand So Close to Me '86...) Ma in linea di massima non c'è un riarrangiamento a cui io non preferisca un brano originale. Questo potrebbe dipendere da me, e dal fatto che tendo ad affezionarmi alla prima versione che ascolto (la musica non essendo che un veicolo per le emozioni che per caso o per scelta le affidiamo, una spugna per le nostre memorie e i nostri sentimenti)... ma non è questo il caso, visto che ho ascoltato Il re del mondo dell'85 molto prima di incontrare quella del '79. E allora? 

È come se le canzoni pop avessero una ineludibile qualità effimera: come gli affreschi, possono durare per secoli, ma li devi fare in poche ore perché sennò l'intonaco si asciuga e dopo non c'è più niente da fare. Qualsiasi intervento sembrerà qualcosa di più o qualcosa di meno. Quel che è affascinante, nella versione del '79, è che senza quasi elettronica è già un congegno meccanico, correlativo oggettivo della subordinazione di ogni volontà umana ai disegni del Re del Mondo. Il passaggio dal prog alla new wave sta proprio nella legnosità con cui i turnisti (e che turnisti!) suonano impettiti le loro parti senza sgarrare. È già un congegno, ma se la Re del mondo dell'85 è un congegno di plastica, quella del 1979 è uno di quei meccanismi di legno che a guardarli funzionare ti lasciano ipnotizzato. 

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90. Che gran comodità le segretarie che parlano più lingue

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con la più giovane delle canzoni rimaste in gara]. 

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1980: Frammenti (Battiato/Pio, #94)

Pulcini: "Potremmo forse dire che all'inizio della tua carriera hai fatto dei collage con le musiche, e nell'età della canzone, non avendolo più fatto con le musiche, hai fatto i collage con le parole".

Battiato: "Solo che la differenza tra i due periodi è sostanziale. Nel periodo della canzone ci sono una consapevolezza e una lucidità di gran lunga superiori. Il gioco è molto più padroneggiato e non è sterile come nel periodo che lo precede. E non li definirei collage di testi – ciò che in letteratura e in poesia qualche volta è stato definito non-consequenzialità logica – quanto un fatto sintetico di un pensiero. È piuttosto un mondo in cui ogni frase non proviene da quella precedente, né conduce a quella successiva. Apparentemente sembrano collage, ma in effetti ogni frase è compiuta, e in sé finita: sono le frasi ad essere accostate come un collage".

(Questa è Tecnica mista su tappeto, 1991. Ci avete capito qualcosa? Io sinceramente non tanto. Nello stesso libro, Battiato si vanta di non scrivere mai, nemmeno cartoline: e infatti quasi tutto quello che sappiamo di lui lo deduciamo da interviste dove FB tante volte riesce a dribblare gli argomenti lasciando intervistatore e lettore un po' di stucco: insomma, le frasi sono accostate come un collage ma non è un collage, perché? Cos'è "un fatto sintetico di un pensiero"? L'unica cosa che forse ho capito è che Battiato, se pure riconosce una continuità tra i testi "frammentari" delle canzoni di Patriots e gli esperimenti sonori basati sul montaggio che aveva condotto da Ethika fon ethica a Coffee-Table Musik, considera le sue canzoni pop molto più consapevoli e meno "sterili". Nota che questo giudizio negativo nei confronti della sua produzione sperimentale non si estende all'altro filone di quegli anni, la musica minimale di Za e L'Egitto prima delle sabbie: quella, ancora negli anni Novanta, la considerava la sua produzione più 'alta'). 

Liriche a parte, Frammenti è frammentaria anche dal punto di vista musicale: una canzone lasciata a bella posta senza ritornello, che sembra inseguirlo per tre minuti e non lo trova.


2009: Inneres Auge (Battiato/Sgalambro, #30)

Uno dice: che male c'è a organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare primari e servitori dello Stato? Si parlava della necessità di contestualizzare, che stranamente si avverte più per le canzoni degli ultimi decenni che per quelle dei precedenti – il che forse non significa nient'altro che non un rincoglionimento mio, si sa che i ricordi recenti sono quelli che si slabbrano prima. Ad esempio: ero convinto che Inneres Auge fosse una voce dal sen fuggita a Battiato ai tempi dello scandalo Ruby, ma non è così, Ruby in quel periodo non era ancora stata fermata dalla polizia per furto e a quanto pare frequentava liberamente l'entourage di Berlusconi. A mia discolpa, devo dire che in quegli anni Berlusconi stava dando veramente del suo meglio per svagare giornalisti ed elettori (e su ditelo che era più divertente trovare in prima pagina le olgettine che siccità carestia e guerra), comunque lo scandalo in questione era il caso D'Addario, quello che è rimasto un po' in ombra, probabilmente perché la protagonista, a differenza di Noemi Letizia e Karima El Mahroug, era decisamente maggiorenne e professionista. Così che appunto, la reazione di molti quell'estate era sintonizzata su: che male c'è? Che il capo del governo avesse una vita sessuale esuberante ormai si sapeva, e ci si interrogava su quanto questo fosse politicamente rilevante. Anche l'argomento, da molti invocato (me compreso) della ricattabilità, lasciava un po' il tempo che trovava: che Berlusconi si intrattenesse con signore maggiorenni, davvero non sembrava più questo grande scoop. Battiato gioca invece la carta dell'economia: "perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti?" È un'affermazione che ai concerti strappava invariabilmente l'applauso, non solo perché è abbastanza raro che un cantautore dia del rincoglionito al capo del governo, ma anche in quanto riconduce la corruttibilità al malaffare: la D'Addario non era che una pedina di una questione di appalti che un intermediario voleva sbloccare. Con questo approccio, Battiato si candidava davvero a diventare il cantautore organico del Fatto Quotidiano e più in là del Movimento Cinque Stelle: gli mancò più il tempo che la volontà. A livello musicale, una spia di questa volontà di propaganda è nel ritmo, mai così dritto e volgare: perché evidentemente c'è un tempo per le sonate di Corelli, ma anche un tempo per sporcarsi le mani con la politica e gli scandali. 

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89. Tutte le macchine al potere gli uomini a pane ed acqua

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi per il vostro ludibrio si sfidano l'Ermeneutica e la Danza. Chi prevarrà? Avete qualche dubbio?] 

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1982: Voglio vederti danzare (Battiato/Pio, #3)

– Ok, è ancora il terzo brano più ascoltato su Spotify, ma Voglio vederti danzare  potrebbe nei prossimi anni diventare un ascolto difficile tanto quanto i Watussi di Vianello e per un motivo molto simile: contiene, ben due volte, una parola che oggi è ritenuta stigmatizzante. Da chi? beh per esempio dall’Ordine nazionale dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della stampa. "Questa indicazione prende atto della posizione dei diretti interessati, cioè di molte voci autorevoli di origine Rom, ma anche di associazioni che operano nel campo e di studiosi non Rom. “La parola zingaro è diventata offensiva, per cui essi stessi e i loro amici evitano di pronunciarla. Una volta non lo era…”, scrive Predrag Matvejevic, professore di letterature slave alla Sorbona di Parigi e all’Università La Sapienza di Roma" (la pagina è molto interessante ed esauriente, non la copio tutta ma consiglio di leggerla). 

– Non ho tantissima voglia di controllare, ma direi che VVD sia il brano più rappresentato su Mappiato (un sito che comunque andrebbe aggiornato: manca Tibet...)

– A rileggere Tecnica mista su tappeto l'impressione è che Battiato abbia concepito Voglio vederti danzare come punto di accesso dell'Arca di Noè, un disco che si presentava da subito più difficile della Voce del padrone ma doveva comunque mantenere un minimo di attese: da qui una certa ambivalenza di Battiato nelle interviste, che da una parte deve ostentare un sovrano distacco per l'enorme successo della Voce e dall'altra reagisce immediatamente quando qualcuno parla di flop per l'Arca: non è vero, vendette bene. Certo un po' meno, ma comunque bene. È in fondo la stessa ambivalenza di Voglio vederti, un brano che parla di danza e riti tribali ma decide di fare a meno della batteria. Una scelta apparentemente autolesionista, ma col tempo è lecito domandarsi se non sia stata proprio questa ricorrente tendenza a complicarsi la vita a evitare che il nome di Battiato rimanesse legato a una singola stagione.   


2004: Ermeneutica (Battiato/Sgalambro, #190).

– L'unico brano superstite di Dieci stratagemmi, e in generale uno dei due sopravvissuti di tutti gli anni Zero, è anche uno dei brani meno ascoltati su Spotify (190esimo posto...) e soprattutto uno dei più folli! Ok, gli è capitata la batteria facile, anche rispetto ad altri brani dello stesso disco molto più accessibili. Ma è un'occasione per esprimere un rimpianto: per quanto Battiato abbia osato molto negli ultimi anni della sua carriera, forse avremmo preferito che osasse ancora di più. Se ormai i grandi classici li aveva già scritti, poteva ancora scrivere cose bizzarre come Ermeneutica che avremmo ascoltato comunque più volentieri di certe divagazioni sulle stagioni o memorie amorose non facili da condividere, specie se a metterci le parole era Sgalambro. 

– Ermeneutica, l'ultima volta che ho controllato, significava "interpretazione", poi purtroppo ci si è messo in mezzo Heidegger e adesso in molti circoli significa "devi leggere Heidegger per capire". Io non posso leggerlo Heidagger perché... sono allergico. Giuro. Mi vengono le bolle. Devo mostrarvele? Ho le foto eh. Heidagger e le noccioline. Sgalambro ha appunto la faccia di uno che ha cercato di assumere Heidagger senza fare un rash test. 

Ermeneutica è chiaramente ispirata, se non proprio scatenata, dalla seconda Guerra del Golfo. Battiato alla fine della prima era stato ospite a Baghdad, per lui non era un conflitto astratto e lontano. Scrivo queste cose perché col tempo non è così facile recuperare i contesti, a volte ci si confonde, di guerre ce ne sono state più di una, ad esempio nel suo Franco Battiato (Speriling & Kupfer, 2020) a un certo punto Aldo Nove scrive che Tariq Aziz, braccio destro di Saddam Hussein, sarebbe stato "arrestato e ucciso dalle forze d'invasione americane" poco dopo il concerto del 1993. È scritto a pagina 169 ed è un dettaglio strano – se non altro perché nella nostra sezione del multiverso, Tariq Aziz risulta morto a 79 anni, nel 2015, per un attacco cardiaco, in una cella di Nassiryia. E ora giù la maschera Aldo Nove: dicci da che universo vieni.   

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88. Come ti trovi a Berlino Est?

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi tutto anni Ottanta: del resto più della metà dei brani passati al secondo turno sono di questo decennio]. 

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1988: Fisiognomica (#42)

Tra Mondi lontanissimi Fisiognomica ci sono tre anni che per me valgono venti. Battiato nel 1985 è il mio eroe pronto a partire per una missione extraplanetaria: quando torna nel 1988 è un parente lontano che si ascolta alle feste comandate con simpatia venata d'imbarazzo. Davvero, quando attacca con le sue teorie sulla fisiognomica non sai dove guardare, ti versi da bere, giochi col tovagliolo, ti versi di nuovo da bere. E però forse non sono soltanto io, forse è anche lui che in quegli anni compie una rivoluzione copernicana.
Più che la musica, è cambiata l'attitudine: Battiato ha smesso gli occhiali scuri, ci guarda senza ostilità e soprattutto si lascia guardare senza paura di svelare le sue fragilità. Lui capisce il destino delle persone dai tratti del volto, dice, beh un po' ci crediamo tutti, e allo stesso tempo non avremmo mai il coraggio di ammetterlo in una conversazione, cioè Lombroso davvero non si porta molto in società. La mia ipotesi è che mentre componeva le sue Genesi e i suoi Gilgamesh, Franco Compositore Colto Battiato a un certo punto si sia annoiato, si sia accorto che alla fine scrivere canzoni è un sistema di esprimersi altrettanto degno e molto più diretto. Per cui quando si rimette a scriverle gli è scesa la maschera da provocatore intellettuale: non è più qui per spremerci soldi e snobbarci mentre glieli diamo. È qui perché ha capito che gli piace stare qui: a 42 anni ha deciso che, siccome sa scrivere canzoni, vuole usarle per spiegare chi è (con tutti i rischi che questo comporta) e come si sente, e se qualcuno riderà di lui pazienza. Per cui davvero se vi piace la sincerità, la schiettezza, può darsi che il Battiato tra Fisiognomica Café de la Paix sia il vostro preferito. A me dice poco, ma è più colpa mia che sua (sì, lo preferivo postmoderno quando ci sfotteva col megafono).

1989*: Alexander Platz (Battiato/Cohen/Pio, #23) (*: ma composta nel 1982 per Milva, su un'aria già usata per Valery di Alfredo Cohen, 1977).

"Quando visitai Berlino Est rimasi affascinato dalla mancanza di pubblicità. Non c'era un manifesto in giro! Mi dava un grande senso di pulizia e di serietà. Nello stesso tempo ero impressionato dalla tristezza della gente e dal grigiore sociale. Dovendo scrivere la canzone pilota del disco di Milva, pensai subito a Alexander Platz. Milva, per un certo periodo, è stata un'artista più tedesca che italiana in quanto a popolarità. Era, ed è, veramente molto nota in Germania. La immaginai a Berlino Est: un'italiana che lavorava a Berlino Est e che non riusciva ad accettare l'idea del muro. Desiderava fuggire verso una vita diversa" (Tecnica mista su tappeto, 1992). (Lo riporto perché da qualche parte, non ricordo più dove, ho letto che Battiato non rinnegherebbe con Alexander Platz il tema di Valery di Alfredo Cohen, beh, a quanto pare no).

Alexander Platz credo illustri le luci e le ombre del Battiato paroliere – piccolo inciso: a rileggerle con il metro di oggi, tutte le canzoni dei cantautori Guccini escluso sembrano brevi – ormai pure i Måneskin devono scrivere testi di tre pagine. C'è stato un vero e proprio boom di eloquenza rispetto al quale un Dalla, persino un De Gregori ormai sembrano asciutti epigrafisti. Battiato è ancora più asciutto e lavora soprattutto per suggestioni, epifanie che a rileggerle a freddo ti rendi conto che non è che dicano molto. Ma funzionano. Per esempio: "E di colpo venne il mese di febbraio". Perché di colpo? Cosa rende il febbraio più improvviso del gennaio precedente? E allo stesso tempo ti fa entrare subito in un'atmosfera gelida, con quel passato remoto che ti dà assieme la distanza e la dinamicità (è un tempo verbale momentaneo, descrive azioni che si compiono all'improvviso). A quel punto ti aspetti che debba succedere qualcosa, in quel febbraio improvviso , e invece no, non succederà niente. "La bidella ritornava dalla scuola un po' più presto per aiutarmi". Per qual motivo al mondo una collaboratrice scolastica avrebbe dovuto venir meno ai suoi obblighi per aiutare te, che a proposito, chi sei? Un'insegnante? E allo stesso tempo basta la parola, "bidella", per evocare un particolare grigiore che è quello che serve alla canzone. Una curiosità: il testo della versione di Milva è tutto alla prima persona, Battiato nella sua versione canta alla terza persona solo la seconda strofa: cioè che la bidella potesse rientrare prima per aiutarlo non gli crea difficoltà, ma "mi piaceva spolverare, fare i letti, poi restarmene in disparte come vera principessa prigioniera del suo film che aspetta all'angolo come Marlene", questo no, da questo deve prendere le distanze. 

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87. Città nascoste di lingua persiana

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi col derby dell'esotismo. Chi vincerà tra Kurdistan e Algeria? Strade dell'est o ferrovie berbere? Da dove la fine?] 

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1979: Strade dell'est (Battiato/Pio, #55).


"Nell'Era del cinghiale bianco c'era sempre un misto di elettronico e acustico, in dosi uguali [???]. Queste canzoni sono state poi arrangiate in maniera diversa. Allora c'erano tutte le sonorità di moda negli anni Settanta: la chitarra elettrica, il basso, la batteria, il solito gruppo strumentale pop. Adesso le ho depurate, le ho rese più classiche. Mi sono accorto che alcuni brani sono ritornati a essere come forse erano in origine. Capita: scrivi una cosa, la arrangi; poi togli l'arrangiamento, e questa cosa ritorna com'era inizialmente. Queste canzoni, come Il re del mondo, sono forse più originali adesso, nella loro purezza classica, di come erano allora, un po' agghindate di questi suoni elettronici. Accade anche a Strade dell'est, che è più bella adesso che nella prima versione". Siccome Battiato queste cose le dice nel 1992 (Tecnica mista su tappeto), la Strade dell'est "classica" dovrebbe essere più o meno quella del live Unprotected, e che in effetti somiglia più alla versione demo pre-Radius che a quella incisa nel Cinghiale col power trio Radius-De Piscopo-Farmer. Anche se nel frattempo molta musica è passata sotto i ponti: la sequela interminabile di cinque minuti è diventata una cosa più rapida e snella di tre; il terzinato frenetico è lo stesso di altri brani misticheggianti del periodo (Mesopotamia, Caffè de la Paix). Ma insomma la canzone si è evoluta quasi ignorando la versione rock incisa nel 1979. Che invece credo che sia quella a cui siano affezionati molti ascoltatori di Battiato, per via di quel suono tardo-prog pre-new-wave che oggi è più esotico di un armonium sfiatato. 
Ancora una nota sul nominalismo di Battiato, ovvero la tendenza a interrompere le frasi prima di averle fornite di un predicato che sia. Cosa avrà mai voluto dire con "E Leningrado oggi"? Per qualche anno ho creduto che fosse l'inizio della frase che veniva dopo l'intermezzo strumentale: "di notte ancora ti può capitare di udire il suono di armonium sfiatati". Ma poi parla di curdi che offrono il petto a novene da mille anni, e questo non credo che potesse avvenire a Leningrado.  

1984: I treni di Tozeur (Battiato/Pio, #10)


– Il 1984 non è soltanto l'anno in cui Battiato e Alice portano I treni di Tozeur all'Eurovision; il 1984 è anche l'anno dell'unica vittoria di Albano e Romina a Sanremo con Ci sarà. Come talvolta succede, la vittoria non ricompensa il brano migliore o di maggior successo: a vincere, più che la canzone, è la coppia che da Felicità aveva fatto della canzone sanremese un sottogenere del pop italiano, qualcosa che riconosciamo ancora oggi a colpo sicuro, non solo in Italia. E ora il grande interrogativo:
– posta la definizione labranchiana di trash come "emulazione fallita di un modello alto", possiamo definire Albano e Romina il risultato trash di un'emulazione fallita di Battiato & Alice?
– o assumendo la definizione di midcult come riciclo piccolo-borghese delle tendenze artistiche genuine, non dobbiamo piuttosto definire Battiato & Alice come la versione midcult di Albano e Romina?
Decidete voi, ma nel frattempo nella vostra testa state già pensando a una versione dei Treni di Tozeur con Albano che attacca "E per un istante ritorna la voglia di rimanere a un'altra velocità".

– Era da parecchio che non guardavo il videoclip, non me lo ricordavo così peculiarmente emiliano-romagnolo: ai tempi non ci facevo caso, come il pesce non fa caso all'acqua. Il lato B del singolo è una composizione strumentale di Alice intitolata Le biciclette di Forlì: sembra una parodia, e invece in un certo senso è la stessa cosa; il sogno di una vita a una velocità inferiore. Erano i primi passi di quella sensibilità antimoderna che oggi ispira quei film in cui vanno tutti ad abitare in un casolare, mentre in tv è rappresentata da personaggi come Mauro Corona. A questo punto formulo l'ipotesi che citando la "Via Emilia" in Campane tibetane, Battiato stesse scrivendo con in mente Alice, o magari un altro duetto. 

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86. Un viaggio con la mescalina che finisce male

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[Questo, per chi non osa chiedere, è un altro episodio dell'interminabile Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una sfida tutta anni '90 che metterà a dura prova gli eventuali discepoli di Gurdjieff: choc emozionali contro Caffè de la Paix, mi sa che è un altro viaggio che finisce male]. 

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1993: Caffè de la Paix (#39)

– Ho dato un'occhiata su wiki, certo che questo Gurdjieff si trattava bene eh?, cioè non è esattamente come invitare qualcuno a pigliarsi un caffè al bar sottocasa. Come minimo è indizio di una tendenza a selezionare i discepoli in base al censo, per dire Gesù Cristo andava al porto a pigliarsi i pescatori, Gurdjieff aveva un target diverso.  

– Il torneo è lungo, l'estate torrida, comincio a sviluppare teorie dal nulla, ad esempio Caffè mi sembra parte di una famiglia di canzoni terzinate di cui farebbe parte, ad esempio, No Time No Space (ma molto più veloce) e in parte Mesopotamia, quest'ultima oscillante tra 3/4 e 4/4. Nella mia testa queste terzine frenetiche le ho sempre associate alla rotazione dei dervisci, ma perché poi? In realtà non ho la minima idea di che musica usino i dervisci; diciamo che il ritmo ternario mi suggerisce una rotazione incessante, ma appunto, la suggerisce a me. 

– Di queste tre Caffè è la più lenta ma è anche la più 'etnica', con la terzina sottolineata da quel suono che sinceramente non ho capito che strumento sia (probabilmente un synth), ma che le conferisce un'identità particolare, insomma Caffè non somiglia a niente se non a una canzone di Battiato, e non a qualsiasi canzone di Battiato, ma a un tipo di canzone tra i tardi '80 e i primi '90 che sta cercando una sua strada completamente personale alla world music. Ricerca assolutamente lodevole, se solo lo avesse portato da qualche parte, e invece temo che il senso di insoddisfazione che l'ascoltatore ricava da Caffè sia stato condiviso anche dall'autore. 


1998: Shock in my town (Battiato/Sgalambro, #26)

"Battiato, invece, quando sente qualcosa che funziona, sa da subito che quella è la cosa migliore che può fare. E che, da lì in poi, sarà solo una parabola discendente. La differenza di fondo tra me e lui è che lui dice: "Bata così". Io invece dico sempre: "Proviamone un'altra". E quel "proviamone un'altra" è puntualmente una cosa fallimentare. A un certo punto bisogna fermarsi. Questa voragine tra me e lui l'ho toccata con mano con Shock in My Town, quando Battiato ha chiesto a me di scrivere la parte di basso. [...] Ecco, quel pezzo è praticamente tutto basso. Io avevo fatto un sacco di riff, che mi sembravano tutti più o meno validi, ma lui ha scelto subito quello che poi sarebbe diventato il giro del pezzo. Se fosse stato per me avrei scelto il giro di basso sbagliato. O più probabilmente, mi sarei impantanato nel limbo delle possibilità, senza riuscire a decidermi". È un passo del Libro di Morgan (Io, l'amore, la musica, gli stronzi e Dio), firmato da Marco Castoldi, Einaudi 2014, e non chiedetemi perché ce l'ho in casa. 

In questo libro c'è tra gli altri un capitolo che si chiama Padri, un plurale abbastanza eufemistico perché il capitolo parla per dieci righe della morte del padre naturale e per altre cinque pagine, esclusivamente, di Franco Battiato. Al quale il buon Morgan a un certo punto chiede letteralmente di essere adottato, e nel capitolo è anche riportata la risposta: "Anni dopo, ho intervistato Battiato per una rivista [...] Mi ero preparato molto bene, avevo tutte le domande in testa. E guarda caso la prima era questa: "Ti sei mai visto come un padre?" [...] Risposta di Battiato: "Non mi sono mai sentito un padre. Sono ancora un figlio". 

È facile ridere di Morgan – nel libro lui stesso descrive il meccanismo mediatico che a un certo punto lo ha trasformato nel personaggio da cui è semplice e liberatorio prendere le distanze. Ma in fondo qui Morgan non fa che dare voce nel modo più spudorato a un desiderio che è stato comune a migliaia di persone: vedere in Battiato un padre saggio e infallibile, perlomeno un po' più saggio e un po' meno fallibile dei padri che ci siamo ritrovati in casa. A questa richiesta, Battiato pacatamente ma fermamente ha risposto: no. Gli errori di percorso, le esitazioni che Morgan non voleva o poteva vedere, noi qua sopra con pazienza le annotiamo, perché degli artisti è bello documentare non solo i completi successi, ma anche la fatica e gli innumerevoli errori che hanno dovuto commettere e risolvere per conseguirli. Prendi Shock in My Town: ha un sacco di cose che lasciano perplessi e la linea di basso, mi dicono, non è davvero un granché, magari Morgan ne aveva una migliore e Battiato non l'ha trovata. 

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85. Against the sea, le grand Hotel Seagull Magique

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[Sapete cos'è questa? È proprio la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con due canzoni cui Battiato nel 2015 diede una nuova sistemazione, non necessariamente migliore della precedente]. 

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1981: Summer on a Solitary Beach (Battiato/Pio, #7)

"Anche Summer on a Solitary Beach" mi sembrava bella appena l'avevo scritta (1992).

– In Summer a Battiato riesce finalmente quel trucco che aveva iniziato a provare nel 1968, di rallentare il tempo quando si passa dalla strofa al ritornello. Un'idea affatto originale che Battiato aveva perseguito con testardaggine con... risultati disastrosi per la sua carriera di canzonettista. Col senno del poi, era il primo indizio di una originalità compositiva che sfidava il buon senso (e il buon gusto?) In Summer invece il trucco funziona, forse proprio perché è un trucco: non è che il ritornello sia veramente più lento: è la sospensione del ritmo (come nel Vento caldo dell'estate) a darci questa sensazione. È come se ci fossimo immersi in un un mare che non ci fa più sentire la pulsazione terrestre: ma là fuori c'è ancora, e infatti quando riemergiamo la strofa riparte, e anche questo fa piacere. Il trucco è riuscito così bene che nel secondo ritornello Battiato si compiace di svelarcelo, facendoci sentire la batteria anche durante la strofa. A meno che non sia il Mix del 2015, quello dell'antologia Le vostre anime, in cui Battiato decide di eliminare il ritmo anche nel secondo ritornello, per quanto possibile. Ma taglia anche preziosi secondi della coda, perché Le nostre anime è pur sempre un cofanetto di CD, e nei cofanetti questa cosa accadeva invariabilmente, che si rubassero secondi dalle code – se c'è una cosa che non rimpiango, ecco, sono i cofanetti. 

– Ho controllato sullo Webster, pare che "solitary beach" non sia proprio un errore. Sì, "solitary" di solito è riferito a esseri animati o azioni, non a oggetti o luoghi, ma può anche essere un sinonimo di "desolate" o "unfrequented", e il primo esempio è proprio "a solitary seashore". Anche in italiano, non è molto frequente l'uso di "solitario" riferito a un luogo ma... c'è in Petrarca. E se c'è in Petrarca, la questione è chiusa. Persino quell'against the sea che ho sempre trovato tremendo forse, dico forse, è consentito dall'Oxford Dictionary. 

– "Sono nato in un paese di mare. A quattro anni nuotavo. Vivevamo in spiaggia dal mattino alla sera. Andavamo al mare anche in ottobre. Ora mi basta guardarlo. Anche se non lo frequento, lo devo avere sotto gli occhi. Da Milo lo vedo sempre" (1992). 

1991: Le sacre sinfonie del tempo (#59)

Io su Le sacre sinfonie ho un'ipotesi indimostrabile, che sia una hit mancata. Cioè, diciamo che è una hit che Battiato si ritrova tra i piedi in un momento in cui non vuole scriverne, è nel suo periodo Cammello-nella-grondaia, vuole solo intonare canti dolenti su dolci tappeti orchestrali, ma cosa succede se proprio in una fase del genere ti scappa invece di scrivere una potenziale hit con una melodia accattivante? Che invece di agghindarla con tutti gli ornamenti di una hit, le infili un saio di meditazione e speri che nessuno ne noti le forme comunque appariscenti. Come posso dimostrare questa cosa? I primi quaranta secondi sono un depistaggio completo: un'introduzione lentissima di archi che richiama alla mente l'Oceano di silenzio (e infatti nelle Nostre anime Battiato accosterà i due brani). A quel punto abbiamo già l'animo predisposto alla lagn... alla preghiera, e forse non ci accorgiamo che quando Battiato comincia a cantare, la melodia è davvero un po' più catchy di quanto non dovrebbe essere: archi e tastiere indugiano su una scala molto semplice. E alla fine funziona così bene che nel cofanetto Le nostre anime Battiato non tocca una virgola, ma si preoccupa piuttosto di adunare tutte le preghiere nella prima parte del sesto CD – sentite che scaletta: L'oceano di silenzio, Le sacre sinfonie del tempo, L'ombra della luce, Sui giardini della preesistenza, Lode all'inviolato, Haiku, Stati di gioia. Non cala già la palpebra solo a leggere i titoli? E mi domando se qualcuno è riuscito ad ascoltare davvero quel CD e a svegliarsi per raccontarlo.  

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84. Keep your feelings in memory

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[Potreste chiedervi cos'è questa, ebbene si tratta della Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con due canzoni che quando uscirono sembravano fantascienza, ognuna a suo modo, e che Battiato ha continuato a rimaneggiare fino agli ultimi anni]. 

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1974: Propriedad prohibida (#175)

Propriedad prohibida è stata, nel tempo, un brano di musica sperimentale, poi una sigletta televisiva, poi un ballabile techno.  

"Anzitutto cominciamo col dire che siamo tutti compositori, e che è proibita la proprietà acustica nel senso stretto del termine: se io, per esempio, scrivo un pezzo e lo sottopongo al tuo ascolto, dal momento che siamo diversi e molto anche (per interessi, per educazione, per neuroni eccetera eccetera) la mia musica, dentro il tuo io, cambia completamente. A questo punto sei tu il compositore, io ti ho fornito solamente il materiale sonoro, più o meno stimolante, ma le tue elaborazioni (almeno per adesso) sono diverse dalle mie". Questa concezione super-relativistica della musica, per cui siamo tutti compositori e il musicista è solo un tizio che raduna un po' di materiale e te lo mette in favore di orecchie, Battiato la esprime nel libretto allegato al 33 giri di Clic, che però sparirà dalla circolazione molto presto e Battiato non sentirà la necessità né di ristampare né di confermare: anzi quando nel 1992 Pulcini gli chiede conto in Tecnica mista su tappeto di quel brano di Clic che faceva da sigla televisiva, Battiato, che fino a quel momento non ha corretto degli evidenti errori dell'interlocutore su Aries – come se tutti questi vecchi dischi fossero ormai cose di poco conto – taglia la testa molto recisamente al toro: Propriedad era proprio una sigletta, tutto qui ("uno di quei tipici "stacchetti elettronici che abbiamo inventato agli inizi degli anni Settanta e che oggi hanno invaso tutto il mondo"). Non solo rinnega tutta la complessità di un brano che conteneva momenti per niente elettronici, ma introduce un paragone intrigante con "la musica sinfonica utilizzata nei film western. Apparentemente l'uso può sembrare scorretto. Eppure, se funziona, significa che qualcosa in quella musica giustificava quella certa utilizzazione. Non era una musica sinfonica dagli alti ideali, ma una musica violenta, tutta spari e cavalcate". 

Ricapitolando: gli "alti ideali" della musica sperimentale che Battiato tentava di fare nel 1974, non si sono infranti contro la loro irrealizzazione pratica. Tutto il contrario: è proprio quando Battiato ha visto la Rai impadronirsi di Propriedad prohibida e trasformarla così efficacemente in uno stacchetto televisivo, che ha intravisto il lato oscuro delle sue teorie. Un'utopia che si realizza è sempre deludente, e oggi noi ascoltiamo senza battere ciglio musica che negli anni '70 sarebbe sembrata avanguardia pura. È una cosa che lo stesso Battiato nota nel 1997. "Il primo posto in classifica dei Prodigy mi ha lasciato di stucco. Tre minuti di rumori assolutamente identici, senza nessun cambiamento, ossessione pura. Un disco che in Italia nessuna etichetta discografica avrebbe mai accettato di pubblicare. Qualcosa di simile ai miei lavori degli anni Settanta, con in più la ritmica, quel quid che oggi rende digeribile alle masse qualsiasi sperimentazione" (in Battiato. Niente è come sembra, 2017). Così, quando nel 2014 decide di riprendere in mano qualche vecchio pezzo elettronico, Propriedad diventa Proprietà proibita, un brano che dopo avere esibito l'accordo iniziale ormai iconico (come tale aveva fatto capolino anche nel 2008 in La musica muore) svela una ritmica ossessiva che evidentemente serve a rendere "digeribile alle masse" una musica che però 40 anni prima aveva il suo punto di forza proprio nell'ambiguità ritmica: come nota Boccadoro (2022), in Propriedad si realizzava "l'idea di musica a più velocità, teorizzata dal compositore americano Steve Reich, dove è l'ascoltatore a dover stabilire a quale di questi diversi livelli dare la propria attenzione". Per sopravvivere, Propriedad ha dovuto tradire sé stessa, come succede ad altre canzoni e a tante persone, se vivono abbastanza da sopravvivere ai loro ideali. 


1985: No Time No Space (#18)

Seguimmo per istinto le scie delle comete. Scusate, ho finalmente fatto due più due e capito quello che per alcuni di voi sarà stato ovvio dall'inizio, ovvero: la space opera adombrata da Battiato in Via Lattea e No Time No Space non è un progetto abortito. Essa esiste, ed è nientemeno che la prima opera del compositore Franco Battiato: la Genesi. Se l'avessi voluta ascoltare una seconda o terza volta mi sarebbe risultato evidente, diciamo che mi sono lasciato fuorviare dal titolo e mi sono dimenticato che non si tratta di un'opera sulla creazione del mondo, ma di un viaggio "metascientifico e allucinogeno" di quattro arcangeli inviati dagli Dei per salvare il genere umano da una decadenza quasi irreversibile "per ottenere così una nuova comprensione del mondo" (cito da... da Wikipedia). Con loro viaggiano alcuni Illuminati, tra cui un cantore che potrebbe benissimo essere la voce narrante dei due brani spaziali di Mondi lontanissimi. Ecco risolto il mistero, rimane soltanto da riascoltare la Genesi e controllare se in qualche modo somiglia a questi due brani, e forse un giorno lo farò (se NTNS passa il turno lo farò sicuramente). Succede probabilmente in questi casi quello che si verifica di nuovo tre anni dopo con Fisiognomica: mentre è assorbito dalla composizione di un lavoro più organico e complesso, Battiato si lascia sfuggire frammenti che assomigliano più a canzoni, e decide di inciderle a parte. Col tempo forse si rende conto che funzionavano meglio le canzoni che l'opera, perlomeno a un certo punto opere ha smesso di scriverne, mentre No Time No Space l'ha reincisa anche in Inneres Auge potenziando addirittura il groove, togliendo i violini straussiani che facevano così tanto melodramma, ma senza minimamente correggere l'inglese maccheronico, ormai assurto allo status di lingua autonoma, il battiatese. 

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83. Codici di geometria esistenziale

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con due canzoni molto belle tra cui decidere non sarà forse così difficile, ma abbastanza doloroso].

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1981: Gli uccelli (Battiato/Pio, #15)


Cioè che rende Gli uccelli una canzone diversa da tutte le altre – comprese quelle scritte per assomigliare agli Uccelli – è probabilmente la progressione armonica (oppure no, ma io ho il pallino delle progressioni, scusate, fossi stato un pessimo pianista forse avrei il pallino delle scale e perderei il tempo a dire quelle cose che dicono i fulminati modali, tipo "misolidia!" "ma anche un po' eolia!", "senti senti, questa è chiaramente la scala laodicea!", invece fui pessimo chitarrista ritmico, e quindi anche oggi vi intratterrò su una progressione). Come in Stranizza d'amuri, ma con più raffinatezza, scatta l'effetto "insegna del barbiere", ovvero abbiamo sempre la sensazione di salire e invece torniamo al punto di partenza. Il punto di partenza è in Mi minore: la prima progressione è molto semplice (Mi-Do, Sol, Re, sottolineata dagli archi nell'introduzione. Dopo due giri assistiamo a quel cambio così battiatesco da Re a La-, e dopo un attimo di sospensione a quello che in seguito identificheremo col ritornello strumentale (anche se all'inizio Battiato ci canticchia sopra), sulla famigerata progressione I-V-iv-IV partendo dal Sol, quindi Sol, Re, Mi-, Do. Dopo due giri così, un Mi maggiore che ci prende di sorpresa (si fa per dire, la conosciamo a memoria – però un po' ci sorprende lo stesso – in cui per la prima volta nella canzone Battiato usa il procedimento di trasformare un accordo da minore a maggiore, creando una sensazione di liberazione che qui è soltanto pregustata, perché l'introduzione è finita e la strofa parte subito col Mi minore: Volano gli uccelli volano. 

La progressione è di nuovo quella iniziale (Mi-, Do, Sol, Re); dopo due giri c'è la transazione già introdotta all'inizio, da Re a La- ("A questa parte di universo, al nostro..."): quello che invece non ci aspettavamo è che il La-, stavolta, diventi maggiore. Il passaggio da minore e maggiore è un avvenimento abbastanza singolare in una canzone pop, che a volte ci si tiene per la coda finale: qui invece arriva al termine della strofa ("...sistema solare). A questo punto entra la chitarra acustica, con accordi nuovi che fin qui non abbiamo sentito (possiamo considerarlo un ponte). Questo ponte sembra volare un po' più in alto ma in realtà rimane sulla stessa quota: ciò che è cambiato davvero è che se la strofa iniziava col Mi minore, il ponte inizia con un Mi maggiore: è il punto in cui è più facile steccare. Notate come questo passaggio al maggiore assecondi una rivelazione: gli uccelli "aprono le ali". Il ponte è anch'esso abbastanza semplice, giocato sull'intervallo di quinta, tra mi maggiore e si maggiore. Dopodiché, ed è il vero momento in cui la canzone prende il volo, ci si sposta sul tono: la sensazione è quella di un tipico cambio di tonalità, invece la progressione cambia e diventa la famigerata I-V-vi-IV, ma in Do (Do, Sol, La-, Fa), dopodiché Battiato approfitta ancora della possibilità di trasformare un minore in maggiore e dopo due giri di I-V-vi-IV ci regala un imprevisto la maggiore subito dopo "geometria esistenziale". È solo un gradino per spiccare un volo più in alto: un intervallo di quinta e siamo in Re, con cui riprende la famigerata I-V-vi-IV che però adesso fa Re, La, Si-, Sol (mentre i violini propongono il riff iniziale della canzone, che è il vero ritornello). Poi si torna in Re, ci aspetteremmo un altro giro e invece ancora un tono più in alto: a questo punto però dove siamo? Siamo al Mi maggiore: basta rifarlo in minore e siamo tornati alla strofa. Ecco qui. E anche se nel frattempo vi siete persi, capite che questo non è esattamente come attaccarsi a un giro e ripeterlo per tutta la canzone, magari alzandolo di tono per ottenere un facile effetto "wow": no, qui c'è una sapienza compositiva che Battiato forse non ha saputo più eguagliare. 

Ci sarà un'altra strofa (con l'ingresso di basso e batteria ad accrescere la sensazione che la canzone stia decollando, anche se alla fine accordi e melodia sono gli stessi), un altro ponte, un altro ritornello... e di nuovo un altra strofa. Qui Battiato ritiene di averne abbastanza, e siccome la strofa finisce col La maggiore, alza di nuovo di un torno e inserisce una coda strumentale (quella coi trilli un po' vivaldiani) che è sempre la famigerata I-V-iv-IV, ma stavolta in Sol, come nell'introduzione: Sol, Re, Mi-, Do. Per cui negli Uccelli torna questa progressione, se ho contato bene, in sei momenti diversi e in tre tonalità diverse, e mai con il banale salto di tonalità, espediente tipico della canzone pop. Non troverete molte altre canzoni dove succede questa cosa. Forse nessuna. 


1991: L'ombra della luce (#50)


Che anche la luce abbia un'ombra è un paradosso semplice e sublime e forse c'è bisogno di poeti un po' ingenui e incespicanti, come era FB, per notarlo. L'ombra della luce assomiglia a certi luoghi di raccoglimento e meditazione che nelle grandi città europee vengono adibiti in ospedali, aeroporti, stazioni, ecc.: luoghi aconfessionali dove ognuno, in teoria, può andare a pregare il Dio che vuole. È un'idea molto postmoderna ma anche un po' ingenua, che presume che alla fine tutti i culti si somiglino o che comunque abbia un senso identificare un minimo comune identificatore: ci sarà silenzio, perché molti culti lo richiedono ma soprattutto perché qualsiasi musica porterebbe una connotazione troppo marcata, e quindi il silenzio è meglio della musica: allo stesso tempo la penombra è meglio dei colori, visto che ogni religione ha i suoi: alcune detestano le immagini di Dio, quindi niente immagini in generale... proseguendo per questa strada si arriva più o meno a quella stanza spoglia e a quelle parole vuote in cui consiste la religiosità new age: L'ombra della luce ci si avvicina. Dopodiché, ripeto, ci vuole ispirazione per scrivere qualcosa del genere senza apparire ridicoli o invasati. "L'ho scritta in stato di meditazione e nell'arco di sei mesi. Ogni giorno cresceva, aumentava. È un caso raro, simile a Oceano di silenzio" (Tecnica mista su tappeto, 1992).

"Credo che la canzone L'ombra della luce sia la vetta della mia produzione. E non media, come l'ascolti è. Faccio un grande sforzo a raccontare cose delle quali di solito non parlo, ma è la mia vita. Non voglio dire di essere sereno, ma ho dedicato il mio tempo alla contemplazione, non potrei scrivere e comporre in uno stato di nevrosi". Quest'ultima è una citazione che si trova nel volume della Kaos edizioni Battiato. Niente è come sembra (a cura di Gianni Castiglioni, 2017), e siccome la citazione è datata "1992" molti credono che sia in Tecnica mista, ma io non l'ho trovata. 

Paolo Jachia in Voglio vederti danzare nota almeno nei versi "Ricordami, come sono infelice / lontano dalle tue leggi" qualche assonanza col Salmo 119

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82. È colpa dei pensieri associativi

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con il brano apparentemente più debole della Voce del padrone contro una delle rivelazioni del torneo, un outsider da Gommalacca].

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1981: Segnali di vita (Battiato/Pio, #31)

L’idea del pensiero automatico, o appunto associativo, pregna tutta la psicologia gurdjieffiana, collegandosi direttamente al concetto di presenza: la possibilità di essere qui e ora, liberi dalla prigionia del pensiero associativo e automatico. Mentre la psicanalisi cercava uno spiraglio verso l'inconscio attraverso i pensieri associativi, Gurdjieff suggerisce di coprirsi, di concentrarsi. Non poteva che godere di un grande successo postumo oggi che dichiariamo tutti un deficit di attenzione, ma può darsi che la sua non fosse una proposta così dissennata. Insomma Freud voleva scoperchiare l'inconscio così come gli europei della sua generazione pensavano di poter colonizzare il mondo preindustriale. Gurdjieff alla fine era più guardingo, la sua diffidenza armena è forse più facile da capire oggi che sentiamo di vivere tutti sul confine, in una linea d'ombra che può spostarsi da un momento all'altro. Mi sono sempre chiesto perché è così difficile da cantare Segnali di vita: perché sale molto in alto, ok, ma non era questo il mio problema, semplicemente una volta su due non azzeccavo la nota giusta e non mi succede praticamente mai con brani pop (Sting escluso). Oggi che finalmente riesco a concentrarmi abbastanza da dare un'occhiata agli accordi, ebbene, può darsi che il problema sia quell'alternanza tutt'altro che banale tra Re maggiore e Re minore. Non capita molto spesso di trovare nella progressione di una strofa lo stesso accordo in minore e maggiore (e non accostati, notate). Per chi canta è un tranello: tra l'accordo maggiore e quello minore c'è appena un semitono di differenza, ma come sa chiunque abbia messo la mano su una tastiera in vita sua, è proprio la differenza più piccola (un semitono) a garantirti le stecche più atroci. Mentre canti devi stare attento a mettere un diesis, poi un bequadro, poi un diesis, poi un altro bequadro, eh sì non è una cosa che succeda molto spesso in ambito pop.  

1998: La preda (Battiato/Sgalambro, #162)

"Cerca di stare immobile, non parlare" ecco non è proprio la prima cosa che direi a una partner per invitarla alla fornicazione, ma che ne so alla fine io di queste cose. La sensazione è proprio che Sgalambro copuli in un modo diverso, di solito uno pensa di arrivare all'estasi accelerando sempre più (maledetta educazione pornografica) e invece lui si immobilizza come ho visto fare una volta a due piovre in un documentario, piano... e poi c'è un lento rilascio. Bravo, ma non credo che ci proverò.

Che ci fa La preda ancora in giro? Beh, per appena due voti ha mandato a casa Segunda-Feira, in una batteria in cui nessuna delle due era testa di serie (quest'ultima era Del suo veloce volo, decisamente sopravvalutata dagli ascoltatori su Spotify, o magari c'è un sacco di estimatori di Antony/Anhoni curiosi di sentirla cantare in italiano). Per la prima volta mi trovo costretto a ripubblicare lo stesso video perché non riesco a trovare esibizioni dal vivo, evidentemente non la faceva in concerto, forse per la scabrosità del testo (per carità siamo tutti adulti ma appunto: siamo un po' troppo adulti, dopo i 50 cantare di sesso diventa imbarazzante). Con Shock in My Town l'ars amandi sgalambriana costituisce tutto quello che resta del contingente di Gommalacca, al quale possiamo aggiungere Stage Door che è dello stesso periodo ma per qualche pazzo motivo non ha voluto mettere in scaletta. Così alla fine la sfida con L'imboscata è ancora in parità: tre brani contro tre brani. Sono gli ultimi due dischi con un certo peso: Ferro Battuto è già completamente scomparso, di Dieci stratagemmi ne resta in lizza una sola. Mi rifugio in questi fattoidi perché non ho molto da dire sulla Preda, parlare di sesso si sa non è il mio forte (preferisco i fatti ahr ahr), e comunque più del sesso questo brano mi fa venire in mente altri dello stesso disco più meritevoli che non ce l'hanno fatta, ma i tornei sono così. Al primo turno ci sono ancora molte magagne, poi progressivamente quasi tutto si sistema, chi doveva prevalere prevale. È un sistema infallibile per trovare il n.1, ma già molto discutibile anche solo per identificare il n. 2. Comunque è solo un gioco. Non è assolutamente meglio del sesso, è solo più socializzabile on line.

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81. A quei tempi in Europa c'era un'altra guerra

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con un brano che senza volere parla del padre e un brano che senza spiegarlo parla della madre].

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1974: Aria di rivoluzione (#63)

La canzone che parla di rivoluzione – e ne parla in modo abbastanza ambiguo – comincia con un'evocazione indebita della figura del padre: l'"autista che guida il camion". Ogni volta che ne ha parlato (poco), Battiato ha sempre qualificato suo padre in quanto camionista, specificando di solito che trasportava botti di vino (Battiato non beveva vino), e che è emigrato in America, quando Battiato aveva "sei o sette anni", quindi nei primi anni Cinquanta. Dunque non può essere il personaggio di Aria di rivoluzione. E allo stesso tempo, perché evocare proprio un camionista. E perché proprio in Abissinia. Ipotizziamo che l'Africa, nei testi di Battiato, sia sempre una Sicilia potenziata, ancora più arcaica. Battiato sta immaginando suo padre negli anni, nei mesi precedenti alla sua nascita. È una fantasia che non va da nessuna parte ("si riunivano": chi? altri camionisti? Oppositori al regime) e così si interrompe bruscamente. Passa il tempo, sembra non cambi niente, c'è una generazione che vuole "nuovi valori". Qualcuno sarà fucilato. Anche qui, non si dice chi. Forse non si sa chi. Ma di tanti personaggi che poteva evocare, all'inizio di questa canzone Battiato ha evocato un camionista.

In Tecnica mista su tappeto c'è uno scambio che la prima volta che lo leggi è esilarante. La seconda dà un brivido, specie se nel frattempo abbiamo riascoltato Aria di rivoluzione

"Che rapporto hai con tuo padre?"

"Non ottimo. Dopo la sua morte è molto cambiato".


1996: La cura (Battiato/Sgalambro, #2)


Perché odio tanto La cura? Perché avevo deciso che Battiato finisce nel momento in cui adotta Sgalambro, e questo super-successo mi smentisce platealmente? Perché mi vanto di aver capito Battiato negli anni '80 e di avere riscoperto quello anni '70, e questi fan che sbavano per un pezzo dei secondi anni '90 mi piace liquidarli come poser? Perché ok, non è una brutta canzone, ma non è neanche questo capolavoro che tutti pensano? No, non credo.
Pensavo di odiare La cura perché pensavo che Battiato mi prendesse in giro. In un modo diverso dal solito, e per la prima volta (per me) fastidioso. Pensavo di odiare La cura perché non è una cura, come si odia l'omeopatia. Nessuno può superare le correnti gravitazionali, e men che meno per non farmi invecchiare. Nessuno può guarirmi da ogni malattia, Battiato cosa stai dicendo. Nessuno può farmi dono delle leggi del mondo e soprattutto, soprattutto, io non sono un essere speciale: chiunque lo dica vuole solo fregarmi, vendermi un abbonamento o scucirmi una sottoscrizione. 
Oppure è la mamma.
Ecco perché detesto La cura: perché è la canzone della mamma. Quella di Battiato era appena scomparsa. Battiato non l'ha scritta pensando a lei: l'ha scritta pensando in lei, figurandosi tutto quello che una madre vorrebbe fare per un figlio. Forse la canzone più materna di tutte l'ha scritta un uomo, scapolo per di più, che mai ha voluto avere figli ma qui miracolosamente mostra di aver capito cosa vorrebbe essere un genitore per suo figlio. Io detesto La cura perché è come sentire mia madre al telefono che ha paura che non mangio abbastanza: e negli  ultimi anni la detesto ancora di più perché vorrei anch'io proteggere qualcuno dalle paure e dagli sbalzi d'umore – ci fosse un tasto che si potesse premere per superare le famose correnti gravitazionali, un milione che si potesse pagare, un braccio, un occhio, un'anima, e invece le onde gravitazionali non s'increspano nemmeno, e m'incazzo perché ha perso un'altra borraccia di alluminio. Detesto La cura perché non riesco a essere felice come vorrebbe mia madre e non riesco a far crescere felice la mia prole. Nelle canzoni è sempre tutto così facile, gli scapoli le scrivono e poi dormono contenti, senza sensi di colpa. 

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80. I treni di una volta trasportavano le spie

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una delle ultime cover rimaste in gara].

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1980: Passaggi a livello (Battiato/Pio, #85)

Correvano veloci lungo le gallerie. Tra L'era del cinghiale bianco e L'arca di Noè, i brani conclusivi hanno in comune una tensione all'erotismo e al viaggio. Si comincia con Stranizza d'amuri (l'unica vera canzone d'amore del Cinghiale bianco, ma forse anche di tutti e quattro i dischi), si prosegue con Passaggi a livello col brio avventuroso di quella prima strofa, gli sposini che fanno l'amore con l'ausilio del motore; poi verrà il viaggio nella sessualità di Sentimento nuevo e quello nella coreografia di Voglio vederti danzare. I finali dei dischi di Battiato vogliono veramente essere finali, ascoltandoli non viene voglia di girare il disco e riascoltarlo da capo, ma piuttosto di spegnere tutto, aprire la porta e andarsene, conoscere gente, ballarci, e poi da cosa nasce cosa. La vita ci prende con strana frenesia. È un'abitudine che si interrompe bruscamente con Orizzonti perduti, che invece finisce con la promessa di un ritorno a casa.  


1999: Te lo leggo negli occhi (Bardotti/Endrigo, #21)

A questo punto del torneo Te lo leggo negli occhi è credo l'unica canzone superstite a non avere Battiato tra gli autori, e il dislivello di ranking con la contendente mi fa pensare che possa essere la sola ad avere una chance di arrivare al terzo turno. Da cui la domanda: cosa rende Te lo leggo negli occhi una canzone così piacevole per gli appassionati di Battiato, una canzone quasi battiatesca anche se non assomiglia apparentemente molto a quanto Battiato ha composto almeno dal 1970 in poi? Qui credo che siamo al nucleo di tutto il concetto dei Fleurs: soprattutto nella prima fase (che è la più interessante), Battiato si rifugia nelle cover non per mascherarsi, ma per potersi concedere delle possibilità, sia musicali che liriche, che a un cantautore del 1999 non sarebbero più concesse. Come l'innamorato postmoderno delle Postille al Nome della Rosa (e qui mi scuso perché davvero, sembra che io abbia letto solo due libri in tutta la mia vita ed entrambi di Eco, giuro che non è vero ma è vero che alla fine cito sempre quelli) (e non li cito neanche tutti, ma sempre gli stessi passaggi) come l'innamorato, dicevo, che per confessare il suo amore si ritrovi a pronunciare la frase "Come direbbe Liala, ti amo disperatamente": il citazionismo è necessario non per occultare, ma per veicolare un sentimento sincero. Battiato non può più scrivere canzoni d'amore spudorate come si scrivevano negli anni Sessanta (è anche discutibile che ci sia mai riuscito, ci vuole talento, Liala non si nasce), e allo stesso tempo vuole farlo e anche noi scopriamo di voler ascoltare questo materiale da lui. Una cosa che forse non ha nessuna importanza: la progressione di Te lo leggo negli occhi, nella strofa, è quasi sovrapponibile a quella di Sentimento nuevo. Può essere una coincidenza, ma nei miei anni di chitarrismo casuale mi ero un po' abituato a riconoscere una certa sequenza (I-V-IV-I, oppure I-V-ii) come "quella di Battiato". È una progressione con un sapore schiettamente continentale, in cui è abbastanza facile riconoscere una matrice barocca. Sono accordi che Battiato ha amato sin da bambino e che ritrova istintivamente in qualsiasi musica incontri. 

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79. Cosa avrei visto del mondo

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, con una sfida molto difficile: ma la vera sfida di ogni canzone è il Silenzio].

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1979: L'era del cinghiale bianco (Battiato/Pio, #12)

"Era il simbolo dell'autorità spirituale presso i Celti. Infatti nella canzone canto: "Spero che ritorni presto l'era del cinghiale bianco", per sottolineare il fatto che, fin da quando è caduto il mondo, vi è sempre stato il conflitto tra autorità spirituale e autorità temporale, per il predominio di una sull'altra. L'autorità temporale non ha mai accettato l'autorità spirituale e ciò ha provocato sempre questa caduta" (Tecnica mista su Tappeto, 1992, insomma la prossima volta che ascoltate L'era del cinghiale bianco, ricordate che il ritornello auspica il ripristino di una teocrazia. Per fortuna che la strofa parla d'altro).

Motivi per cui L'era del cinghiale, anche se è il primo tentativo di hit del Battiato anni '80, può essere ancora considerato un brano anni '70, una hit prog fuori tempo massimo.

– Banalmente, è del 1979.

– È l'unico vero brano di Battiato in cui assistiamo a qualcosa di simile, attenzione, solo di simile a un virtuosismo: un fraseggio di violino che magari per Giusto Pio era un normale sgranchirsi le dita, ma che è esibito come il riff di un pezzo prog.

– Misticismi celtici. E tra parentesi, è un peccato che Battiato non si sia spinto un po' più in là con la cultura celtica, perché c'è un universo musicale là in fondo.

– Violino in evidenza. Ne abbiamo già parlato: sono gli anni di Branduardi, del tour di De André con la PFM, ogni radio appena l'accendi per prima cosa ti fa sentire Samarcanda, poi magari il traffico e il meteo, ma prima ridere ridere ridere ancora ora la guerra paura non fa.  


1988: L'oceano di silenzio (#53)

Che la musica di FB sia propedeutica al silenzio è un paradosso che l'autore ha ribadito più volte. L'oceano di silenzio è forse il momento in cui Battiato affronta il paradosso più direttamente: deve descrivere il silenzio con la musica. Ci riesce? Suppongo di sì. Confesso di avere trovato in passato abbastanza irritante il ritornello col soprano che canta tedesco, una lingua che in Battiato spesso segnala l'insorgere di pretese intellettuali. Però alla fine suona bene, e non è così strano che sulla strada verso il Silenzio totale FB punti verso il Nord, l'Europa. Viene in mente l'episodio, descritto in Tecnica mista su tappeto, in cui Battiato racconta la sua partecipazione a un festival musicale in Turchia. Dopo ore di musica ritmicamente ossessiva, Battiato sentiva "la necessità di depurare l'ambiente" e quindi si fissa su un accordo e non si smuove. Passa qualche minuto, Battiato rialza la testa: dei 2500 spettatori non è rimasto nessuno. "Loro avevano interpretato quell'accordo come saluto della buonanotte e se ne erano andati. Credo che il loro codice sia il ritmo. Quel suono tenuto a lungo non fa parte del loro linguaggio: a loro non dice niente".  

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78. Sta frevi mi trasi 'nda lI'ossa

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, featuring Roberto "Juri" Camisasca].

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1979: Stranizza d'amuri (#28)


Franco Battiato, come tutti i veri boomer, è stato concepito durante la guerra. Se tutti noi passiamo la vita a ignorare accuratamente l'evidenza di essere il frutto di un atto sessuale commesso da due persone che abbiamo conosciuto solo in seguito, e che non amiamo associare a immagini sessuali, nei boomer oltre a un padre e una madre c'è da negare una guerra: non solo hanno fatto sesso, ma sotto le bombe, e magari avevano fretta, paura ecc. C'è chi a un certo punto accetta questa cosa e si mette a cantare solo di questo (Roger Waters il primo esempio). C'è chi lo fa senza accorgersene, ma insomma Stranizza d'amuri è una storia d'amore in tempi di guerra che Battiato ha scritto non si sa bene come e quando. L'ipotesi che sia un'evoluzione di Agnus, uno dei brani di Juke-Box, s'infrange quando nel 2002 Pino Massara riesce a pubblicare una strana raccolta in CD, La convenzione, magari approfittando del fatto che Battiato durante il tour di Gommalacca aveva rispolverato il suo vecchio singolo del 1972, La convenzione appunto. Il CD mette assieme senza troppi scrupoli materiale di Battiato, Camisasca e Osage Tribe, e sul finale un'inedita take di Stranizza d'amuri datata... 1975! Quindi sarebbe Agnus ad aver attinto da Stranizza d'amuri, e non viceversa. Secondo Zuffanti (2020) ciò è impossibile – e non posso che concordare, dal momento che al violino c'è già Giusto Pio: Battiato nel 1975 non lo conosceva. Ma anche postdatando la versione di almeno due anni (quindi 1977) qualcosa non torna. Bisogna ipotizzare che ancora prima del progetto Astra (quello di Adieu), e ben prima di incontrare Radius, Battiato e Pio avessero già messo un passo molto deciso in una direzione new wave (in un momento in cui collaboravano ancora con Massara). Ma bisognerebbe davvero riscrivere tutta la storia e non è nemmeno escluso che la versione contenuta nel CD non sia stata rimaneggiata in seguito da Massara per creare un falso d'autore (lo stesso CD contiene una versione hard rock della Convenzione completamente implausibile, benché divertente). 

C'è poi la questione del testo: Stranizza, qualcuno lo avrà notato, è in dialetto siciliano. In quanto canzone d'amore (e di guerra) non è molto compatibile con tutto il repertorio battiatesco da Fetus in poi – Cinghiale compreso. Quand'è che Battiato componeva canzoni in siciliano ambientate in un passato indistinto? Negli anni '60, quando si esibiva con Gregorio Alicata nel duo Gli ambulanti. Il repertorio consisteva in canzoni in siciliano scritte da FB e spacciate per tradizionali. Battiato non lo ha mai detto, ma sia Stranizza che Veni l'autunno potrebbero venire da lì (se non persino qualcosa del Cammino interminabile). Si tratterebbe insomma di una canzone dalla lunghissima incubazione. Se però si sente la versione del Cinghiale – magari dopo aver sentito quella della Convenzione – si capisce quanto sia fondamentale incubare, a volte.     


1988: Nomadi (Camisasca, #37)


A quante persone Battiato ha cambiato davvero la vita? Impossibile saperlo, tranne nel caso di Juri Camisasca, a cui Battiato ha cambiato persino il nome (prima si chiamava Roberto). Dà la vertigine pensare che si siano incontrati a servizio militare – sarebbe bastato un niente, un numero, una linea, e Camisasca non sarebbe mai stato Juri. Per un significativo paradosso, Nomadi, la canzone che segna il suo ritorno alla musica, è stata composta durante i dieci anni in cui Camisasca è stato confinato in un monastero: il nomadismo di cui si parla è quindi solo spirituale, intellettuale? Sì e no, pochi mesi dopo il successo di Nomadi (in Italia con Alice, in Spagna con Battiato) Camisasca ha abbandonato la clausura. Nomadi è uno dei casi più eclatanti di parodia battiatesca, tanto più interessante quanto completamente involontaria: in Fisiognomica era il brano che suonava più 'Battiato' di tutti, proprio perché non l'aveva scritto lui ma un volonterosissimo discepolo che non ha bisogno di alcuno sforzo per imitarne gli stilemi: gli vengono naturali. Quel che distingue un'ottima copia da un originale è proprio la necessità del copista di mantenersi aderente al modello, ad esempio Camisasca costruisce tutta la canzone su una progressione armonica che Battiato aveva effettivamente usato con risultati mirabili negli Uccelli o nella coda di Cuccurucucù, ma sempre alternandola con altre: Camisasca invece la adopera dall'inizio alla fine della composizione, il che forse suona un po' stucchevole all'ascoltatore di Battiato (perché appunto, è un Battiato alla massima potenza), ma intercetta la passione smodata degli ascoltatori di metà anni '80 per una progressione (I-V-vi-IV) che stava diventando ubiqua e non ci ha più abbandonato. 

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77. Dovrei cambiare l'oggetto dei miei desideri

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con due canzoni scritte completamente da lui].

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1985: Via Lattea (#60)


"Via Lattea è piena di simboli esoterici" (Tecnica mista su tappeto, 1992). Una cosa che mi sarebbe piaciuto che qualcuno chiedesse a Battiato con più insistenza: chi è il capitano del centro impressioni colto da esaurimento che venne presto mandato in esilio? Chi è così indegno di prepararsi al lungo viaggio in cui ci si perde? Mondi lontanissimi comincia in modo non troppo dissimile dall'Arca di Noè: un ritmo lento, ipnotico, su cui si riversano improvvisi lampi sinfonici: e un risveglio improvviso. Là i cittadini attoniti erano in pigiama, qua ci si alza che non è ancora l'alba. Stavolta l'orchestra non è campionata, Battiato ormai ha più in mente la musica classica che il pop. L'idea di un concept album sull'esplorazione spaziale probabilmente è naufragata dopo No Time No Space e si fatica a rimpiangerla: tutto un disco di riferimenti esoterici contrabbandati per space opera forse non lo avremmo digerito, Battiato per primo. Rimane un certo incanto temperato da un senso d'incompletezza, una storia interrotta sulla rampa di lancio. Del resto, se un giorno avremo esploratori interstellari, li vedremo partire così, magari riappariranno dall'altra parte della galassia ma sarà tra centinaia di anni e noi non ci saremo più.

1988: E ti vengo a cercare (#5)


Come ormai tutti sanno, E ti vengo a cercare è la canzone che passerà alla storia non tanto per essere stata eseguita davanti a Giovanni Paolo II, non tanto per essere stata ripresa da Lindo Ferretti (capirai che onore, nella stessa teca di Voulez-vous un rendez-vous tomorrow...) ma per aver dato il titolo a una monografia di Scanzi su Battiato. Una cosa che forse interessa più gli appassionati del primo che quelli del secondo, ma insomma anche questi ultimi potrebbero essere curiosi di sapere cosa dice Scanzi di questa canzone così importante da essere degna di intitolare un volume della sua prestigiosa bibliografia, ebbene:


I lettori di Barthes staranno già pensando Racine est Racine... agli altri spieghiamo: l'ineffabile, l'indicibile, è il trucco dei commentatori pigri. Questo salvo poche eccezioni – la prima che mi viene in mente è la fine del Paradiso di Dante, dove quest'ultimo ammette di non avere parole per descrivere quel che ha visto, ma siccome (1) quel che ha visto è Dio, non una canzone di quattro minuti, Dio; e soprattutto (2) prima di arrivare a Dio, Dante è comunque riuscito a parlare di cielo e terra per tre cantiche, possiamo accettare che a un certo punto si fermi e dica no, questo io veramente non riesco a dirvelo. Ma "oltre, troppo oltre" per una canzone, no. "Avanti, troppo avanti", manco fosse dodecafonia, ma sapete qual è il problema? Che Scanzi, prima di essere Scanzi, era un giornalista musicale. Cioè uno che di musica, in teoria, dovrebbe saper parlare, senza rifugiarsi nel "sublime" o nell'"oltre, troppo oltre". Ma appunto, in teoria. Io invece che giornalista musicale non ci tengo e non ci tesi mai, annoto che col tempo E ti vengo a cercare è diventata una canzone che parla di sé stessa: intercettando una grande voglia di trovare maestri di vita che poi è una costante da mezzo secolo, Battiato alla fine ha scritto la canzone che viene in mente a tutti i suoi fan quando hanno voglia di risentirlo, rileggerlo, rivederlo: di andarlo a cercare, appunto. Quel che bisogna concedergli è che non ha mai approfittato del suo status di Maestro, non  ha sedotto e abbandonato nessuno che si sappia, e non si è mai rifugiato in tautologie o proteste di ineffabilità. Le sei o sette cose che pensava di avere imparato sulla vita e l'universo, cercava di spiegarle senza chiedere più soldi di qualsiasi altro cantante di canzoni qualsiasi. "Chissà se Battiato lo ha mai capito davvero e fino in fondo", conclude Scanzi, "quanto in tanti avessero bisogno della sua presenza". Quanto in tanti? Maccheccazzo. Cioè gli sta dando del deficiente, ché non lo capiva fino in fondo? Uno che non stava mai fermo e ha fatto concerti fino a frantumarsi il femore, dopodiché ha continuato a incidere finché gli reggeva la voce? Ma vabbe'.

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76. E l'animale che mi porto dentro vuole te

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con il primo derby tra due canzoni dello stesso disco, Mondi lontanissimi. A tal proposito devo confessarvi di avere fatto qualche lieve ritocco al ranking – giusto qualche decina di punti qua e là – per scongiurare che si verificassero dei derby nel primo turno: Battiato ha pubblicato molti LP nella sua carriera e mi sembrava giusto che in ogni batteria ne fossero rappresentati almeno quattro. Questo a quanto pare sarà l'unico derby del secondo turno].

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1985: Risveglio di primavera (Battiato/Pio, #45)

"Se non ricordo male, Risveglio di primavera aveva un testo abbastanza interessante: storico e paesano. Si parla alle [?] danzatrici di flamenco. Torniamo sempre al movimento pelvico, alla danza con scuotimenti del bacino".
"Voglio raccontarti un aneddoto che può chiarire anche la mia idea della donna. In Occidente viviamo una vita in cui non c'è molta attrazione per un certo tipo di donna archetipica e sensuale. Fino a un certo punto almeno la pensavo così. Poi ebbi una folgorazione. Mi trovavo in Egitto con amici. Una sera siamo andati a vedere lo spettacolo delle cosiddette "zingare del deserto". Tutto quello che avevo criticato nei fans dei gruppi inglesi e americani, dalle braccia protese verso il palcoscenico, mi capitò di viverlo in prima persona. Sarà stato il modo che avevano di muovere le anche, o quella gestualità trascinante... Da allora sono diventato un ammiratore di quel genere di donna. L'ho sperimentato nella mia vita tante altre volte. Mi successe con una donna armena. Mi trovavo, se ben ricordo, in un ristorante georgiano. C'era un'orchestrina. Una donna che mangiava si alzò e cominciò a danzare. Mi fece morire! Mi è successo anche con donne giapponesi. Il mio ideale di donna è medio-orientale, ma anche dell'estremo oriente. Trovo la donna occidentale un po' troppo legnosa". (Tecnica mista su tappeto, 1992, chiedo scusa a tutte le donne occidentali). 

(Risveglio di primavera è uno dei quattro brani di Mondi lontanissimi a mantenere la firma di Giusto Pio. In un qualche modo si ha la sensazione che sia un brano più datato di altri, più legato a una fase che sta finendo). 


1985: L'animale (#20)

L'animale – brano scritto forse pensando a Giuni Russo – è una delle prime (e delle poche) canzoni italiane in cui un solitario fa il suo coming out: avrei voglia di dirti che è meglio se sto solo. Anche stavolta, Ferretti è arrivato secondo (sì, anche nel Battisti mogoliano c'è più di un sospetto, su questo uomo trasognato, insidiato da femmine di dubbia moralità che vogliono trascinarlo nelle vigne a copulare, ma c'è sempre il dubbio che Battisti ci stia ridendo sopra). È buffa questa cosa, no? Che abbiamo dovuto aspettare un cantautore diciamo a-cristiano, né cristiano né anticlericale, per ascoltare inni alla castità – purché temperati dalla consapevolezza che si tratta di una rinuncia molto difficile. L'animale è una bella canzone perché è orchestrata come un Lied ma si canta in coro ai concerti; perché prima di trascinarsi in una disquisizione un po' arcana sui quattro elementi, parla di cose che capiamo tutti al volo con parole che usiamo tutti i giorni: lo sappiamo bene che l'animale è quell'entità interiore che vuole tutto di noi e se lo prende, ma è geniale sottolineare che si prende anche i caffè, perché il caffè è quella piccola cosa quotidiana che tante volte vorremmo gustarci noi e invece lo mandiamo giù senza neanche accorgercene, maledetto, se l'è preso lui. 

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75. E avrei bisogno di tonnellate di idrogeno

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con due brani molto gurdjieffiani].

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1980: Prospettiva Nevski (Battiato/Pio, #13)

"Spesso nelle canzoni uso dei trucchetti "di sostituzione". Mi può succedere di raccontare una cosa in prima persona che in realtà non mi appartiene ed è invece ispirata a un racconto che mi hanno fatto. È un pretesto, un prestito, ma è molto più interessante che non averlo fatto in prima persona. I maestri sono le tante persone che, a un certo punto, ho conosciuto nel corso della vita. Sono presone che, a una certa età, hanno trovato la forza di ricominciare. Una donna che a settantacinque anni si diploma in clavicembalo è un maestro.
È difficile trovare "l'alba dentro l'imbrunire", però ci si può riuscire. L'alba è la gioventù, la capacità di cambiare, di evolvere, e l'imbrunire è la vecchiaia" (Tecnica mista su tappeto, 1992. Quindi, al netto di tutti i mascheramenti, Prospettiva Nevski avrebbe un messaggio non troppo diverso dalla Stagione dell'amore: ancora un altro entusiasmo deve tornare a farci pulsare il cuore. Non solo non nasciamo e non moriamo mai, ma in un qualche modo dovremmo riuscire a non invecchiare).

[Sull'impresario di Nižinskij]: "È una vicenda accaduta realmente, ma pare un racconto. Mi aveva appassionato l'idea di un impresario che delira d'amore per una stella che egli stesso ha creato. E quella stella declina quando s'incrina il loro amore. La fine dell'amore è la pazzia per lo stesso Nižinskij. Un amore omosessuale cieco. Lo stesso Djagilev non ha retto all'idea che Nižinskij si fosse sposato" 

1982: Clamori (Battiato/Pio/Tramonti, #52)

Clamori comincia con una specie di clarino computerizzato che suona una scala: Zuffanti (2020) suggerisce che sia un riferimento alla Legge dell'Ottava di Gurdjeff, e siccome il testo di Clamori è attribuito a "Tommaso Tramonti", ovvero Henri Thomasson, discepolo gurdjieffano, l'ipotesi è molto buona. Spero soltanto che la Legge dell'Ottava di Gurdjieff non sia proprio quella che ho capito io leggiucchiando qua e là su internet, perché la mia becera impressione è che il maestro si sia fatto un viaggio enorme su questa cosa che al Mi e al Si manchino i tasti neri, una lacuna che risuonerebbe a livello cosmico e causerebbe dei ritardi di vibrazione che influenzerebbero persino il nostro comportamento, ma possibile che nessuno abbia mai alzato la mano per dire scusi, maestro, ma è una questione puramente arbitraria, se ci fossimo messi d'accordo diversamente potevamo mettere i tasti neri in altre posizioni, alla fine i semitoni sono pur sempre 12, un tizio ha anche inventato un pianoforte senza tasti neri, pare che a modo suo sia anche più facile da suonare, il problema è che la lobby dei costruttori di organi e clavicembali coi tasti neri si è imposta nel Seicento e non si smuove, domina i conservatori di tutto il mondo e così... ehi, maestro? maestro? Ok, probabilmente sono troppo rompiballe per capire le sfumature iniziatiche. In compenso mi sono reso conto che la progressione armonica di Clamori è lontanamente imparentata con Cuccurucucù, mentre l'assolo finale (di synth e poi di sax, ma il sax ha un timbro felpato che ricorda il clarino computerizzato iniziale) è un passo di danza sulle note dell'Ottava che aggiunge un vago sapore di estremo oriente. 

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74. Su divani abbandonati a telecomandi in mano

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi intorno al quesito fondamentale: vivere o togliersi di mezzo? Battiato dopo qualche esitazione ha scelto di vivere, purché fuori Milano].

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1983: Un'altra vita (Battiato/Pio, #29)

Una cosa che nessuno mi sembra notare di Un'altra vita è quella nota pulsante a inizio strofa – in Inneres Auge decisamente un Re# – assomiglia davvero molto al Do altrettanto pulsante di voce sintetizzata con cui comincia Oh Superman di Laurie Anderson, il brano di musica sperimentale che per qualche ragione tuttora non trovata nel 1982 aveva ipnotizzato gli acquirenti britannici di dischi al punto che l'avevano mandata al primo posto in classifica. Non mi pare che Battiato ne parli mai; mi sembra improbabile che Battiato non la conoscesse e non sia stato anche lui in parte conquistato, se non ipnotizzato, da un brano che scende nell'uncanny valley tra la voce umana e la sintesi digitale. Non è soltanto Un'altra vita a portarne i segni: per più di dieci anni abbiamo avuto jingle e canzoni in cui tornava a un certo punto una nota pulsante e inquietante. In Un'altra vita sembra segnalare il momento in cui il disagio della civiltà viene alla superficie: nel giro di qualche battuta gli altri strumenti troveranno un modo per coprirlo, armonizzandoci intorno, perché vivere pure bisogna. Ma in sottofondo il disagio resta. 


1995: Breve invito a rinviare il suicidio (Battiato/Sgalambro, #164)

"Procurerò dunque di rispondervi, brevemente com'è decenza in queste cose. Capisco il vostro giovanile wertherismo. Ma rispondetemi: sino a che punto c'è causalità nel dolore? Ricordatevi, il dolore è una cosa passata. Il segno che resta nella coscienza mentre il corpo ha già dimenticato. Ascoltatemi, trattate i moti dell'animo come i moti dell'intestino. Un giorno bisognerà certo spararsi, ma per intanto viviamo" (se questo è veramente il brano di Anatol di Sgalambro da cui Battiato ha desunto il testo di Breve invito, bisogna concludere che S. qui più che co-autore è un ispiratore). Forse Breve invito è l'unica delle 64 canzoni sopravvissute di cui non riesco a ricordare la melodia. Le parole sì – questo è interessante, vale più o meno per tutte le canzoni dell'Ombrello e mi porta a pensare che l'Ombrello sia il disco in cui testi e musiche sembrano procedere in parallelo, senza scontrarsi ma anche senza amalgamarsi. In particolare il riff di tastiera è una follia che forse rimanda più al Battiato prog che al Battiato sperimentale; la si direbbe una sequenza di note casuali, non fosse che viene ripetuta fedelmente anche dall'orchestra sintetizzata. Breve invito è una delle canzoni col ranking più basso ad aver passato il turno (ma non la più bassa); le è capitata forse una batteria semplice, con due cover (Impressioni di settembre e L'addio, quest'ultima magari più meritevole).  

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73. L'ira funesta dei profughi afgani

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con due brani importanti con due code importanti. Fin qui tutti i brani della Voce del padrone e di Patriots hanno vinto contro tutti gli altri: stavolta no, uno solo può vincere, chi sarà? Seh vabbe' non è che accetterei scommesse].

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1980: Le aquile (Battiato/Pio/Jaeggy, #68)

"È una scrittrice e poetessa sublime. Il suo libro recente I beati anni del castigo ha avuto una accoglienza trionfale da parte della critica. Si è gridato al miracolo. Il suo stile assomiglia a quello che per un musicista è la musica pura. La sua letteratura è così illuminante, così ripulita da qualsiasi ridondanza. Ogni aggettivo è perfetto. Una bellezza di scrittura meditativa, pur non essendolo apparentemente". Battiato non ha parlato spesso di Fleur Jaeggy, ma quando lo ha fatto (Tecnica mista sul tappeto, 1992) ha espresso un entusiasmo da stamparci fascette editoriali per due o tre uscite. 

Una cosa particolare dei pezzi pop primi anni Ottanta è la coda. Non so esattamente come andò, ma a un certo punto tutti i compositori di canzonette decisero che ci stava bene la coda, così improvvisamente arrivarono queste lunghe code che sfumavano non prima di aver trasformato la canzone in qualcos'altro (che è poi la poesia particolare delle code: farti intravedere che la canzone potrebbe diventare qualcos'altro). Anche Battiato, tra le regole che aveva introiettato per "avere successo", c'era evidentemente questa cosa delle code soprattutto tra Patriots e L'arca di Noè, già in Orizzonti cominciano a sembrargli orpelli inutili. Una delle sue code migliori è quella delle Aquile, che poi a ben vedere è una riproposizione del ritornello, in cui Giusto Pio cambia completamente marcia al violino che aveva scandito velocissimo la strofa e Battiato intona i suoi canti "mantrici" (Zuffanti) uno dei rari momenti in cui riusciamo a riconoscere nel Battiato pop di quegli anni una traccia dei vocalismi bizzarri di Juke Box o di dischi ancora precedenti.


1981: Cuccurucucù (Battiato/Pio, #4)

"Penso sia una canzone dotata di una certa poesia" (Tecnica mista, 1992). Si parlava di code: nel caso di Cuccurucucù la coda diventa veramente un'altra canzone, segnalata dalla progressione I-V-vi-IV che ritorna qui per la seconda volta nella Voce del padrone dopo gli Uccelli: e come negli Uccelli, Battiato si guarda bene dall'usarla massicciamente, come stavano cominciando a fare un po' tutti (e come farà Camisasca in Nomadi), ma la alterna al secondo giro con una più struggente I-V-ii-ii. Quest'alternanza tra vi e ii, fa diesis minore e si minore, che si avverte già nell'introduzione vocale e prosegue nelle strofe, è credo quello che rende Cuccurucucù la canzone straziante che riesce a essere malgrado sia suonata a razzo e freddamente concepita per far sbracciare i trentenni in discoteca. Il fa diesis minore introduce la gravità, la tragedia del tempo che passa, l'ira funesta, Lady Madonna e Ruby Tuesday; il si minore la tempera con la dolcezza, le ore di ginnastica, le gesta erotiche di Squaw Pelle-di-Luna, il twist.  

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72. Carico di lussuria si presentò l'autunno di Bengasi

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una sfida insolita tra uno dei più antichi brani rimasti in lizza, contro un'autocover].

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1973: Areknames (#41)

Ogni tanto bisogna ricordare che mettere in gara le canzoni è cosa assurda, non solo perché le canzoni non sono biglie o automobiline (ma se mi trovassero a giocare con le mie biglie e le mie automobiline mi ricovererebbero), ma anche perché le canzoni col tempo cambiano, si evolvono, noi insistiamo ad ascoltarle nella versione originale ma nel frattempo loro sono diventate tutt'altro, ad esempio Areknames ai tempi del tour dell'Imboscata era diventata questa cosa che forse si chiama Canzone chimica e oltre all'immancabile Sgalambro che lancia lessemi a caso, ci mostra un Battiato chitarra solista che si diverte troppo, cioè è buffissimo, e pensare che non volevo andare ai concerti perché credevo di beccarmi un guru sul tappeto e intanto lui faceva queste cose, prendeva i brani più inquietanti del suo passato lacerato da crisi esistenziali e ci ballava sopra con la chitarra a tracolla, le canzoni sono questo, noi le vediamo sempre congelate nel momento in cui fioriscono ma loro nel frattempo sono diventate frutto, pianta, un sacco di altre cose. 


1988: Lettera al governatore della Libia (Battiato/Pio, #105)

Molto più di Mesopotamia Alexander Platz, Lettera si adattava al mood complessivo di Giubbe Rosse, un disco festoso e mediterraneo. Anche se la festosità di Lettera è quella di chi balla su una polveriera, qualcosa che dovremmo sentire sempre più congeniale. "Quell'idiota di Graziani" non avrebbe fatto una brutta fine tutto sommato: condannato nel 1949 a 19 anni di carcere, fu amnistiato nel 1950 e divenne presidente onorario del Movimento Sociale Italiano. Nel 2012 ad Affile hanno inaugurato un sacrario in suo onore. Nel 2017 il sindaco di Affile è stato condannato a otto mesi per apologia di fascismo, per via di questo sacrario. Nel 2019 la condanna è stata confermata in appello. Nel 2020 è stata cassata in cassazione. 

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71. L'ultimo appello è da dimenticare

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, un prolisso torneo di canzoni con cui attoniti fingiamo di non capire niente, mentre radio Varsavia dice che tutto va bene e che l'ultimo amore è da dimenticare].

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1982: Radio Varsavia (Battiato/Pio, #9)

Chi considerava Battiato un post-moderno, maestro della citazione «al di fuori del contesto» e seminatore ironico di codici non ideologici, dovrà ricredersi: questo disco è un manifesto serissimo. E veniamo cosi a dire «tutto il male possibile»: proprio perché dai solchi, pezzo dopo pezzo, viene fuori il «Battiato-pensiero», è bene dire una volta per tutte di che pensiero si tratta. È un vero Bignami di stimabilissima cultura da Nuova Destra, quella che alletta Cacciari e molti altri. Gli ammiccamenti si sprecano: si ritorna a parlare di «chi scappa in Occidente», degli appelli di «Radio Varsavia»; si mette in prima fila «l'imperialismo degli invasori russi» (davanti a inglesi e americani si intende) (Esodo), si apprezza da veri snob la nuova cultura penitenziale cattolica (Scalo a Grado); si affonda nel narcisismo della propria diversità modellando le proprie fantasie sessuali sulle movenze dei danzatori dervisci: la distinzione del linguaggio sembra voler far dire all'ascoltatore: «Euh! Ma com'è colto il Battiato». Gianfranco Manfredi, Sull’arca di Battiato c’è la cultura della nuova destra, "Tutto Libri" (supplemento della Stampa), 11 dicembre 1982. Alla fine non è che Manfredi avesse proprio tutti i torti – certo, fa sorridere che tipo di cultura sembrasse "nuova destra" nel 1982: ma cominciando il nuovo disco con un'istantanea dal golpe di Jaruzelski, Battiato giocava veramente con un fuoco a cui i cantautori non osavano più avvicinarsi. L'idea che nel collage postmoderno potesse rientrare anche la cronaca più recente e più drammatica faceva fatica a passare – forse è più semplice oggi, da una ragionevole distanza. L'altissima posizione di Radio Varsavia nel ranking non credo dipenda da ascoltatori di (nuova) destra: il brano è anche nella colonna sonora di un film di Guadagnino, forse sarà quello. 


1999: Amore che vieni, amore che vai (De André, #56)

Fa un po' strano che tra De André e Battiato alla fine vi fossero soltanto cinque anni di distanza: la sensazione è che il secondo abbia cominciato a brillare soltanto quando il primo cominciava a offuscarsi. In ogni caso, fino a Fleurs una convergenza tra i due sembrava impensabile: tutto li separava. Amore che vieni e La canzone dell'amore perduto ci hanno mostrato un punto di contatto che alla fine avremmo potuto trovare da solo, unendo i puntini: entrambi partono da radici europee che includono il repertorio classico, che sia il De André degli anni '60 che il Battiato dei Lied saccheggiano senza quel senso di deferenza che sembra necessario ostentare quando si ascolta la musica del passato. Per De André e Battiato (e per il Bennato di Dotti medici e sapienti), la classica può benissimo servire a far canzoni d'amore. Il fatto che Amore che vieni non sia esattamente una canzone d'amore, anzi, una riflessione sulla natura effimera di questo sentimento, non fa che renderla ancor più congeniale a Battiato. 

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Fuori concorso (canzoni che non hanno partecipato alla gara per questo o quest'altro motivo).

1972: Giorno d'estate (Genco Puro & co.)

Come spiega Battiato in questa intervista telefonica che ho molto faticosamente rintracciato (non è vero, c'è il link su wikipedia), il disco di Genco Puro & co. è quel che succede quando un'etichetta ha bisogno di tot uscite per motivi burocratici, sicché Pino Massara dice a Franco Battiato: prendi la sala di registrazione e fammi un disco in due giorni. Benché le maggiori incombenze ricadano su Riccardo Pirolli, tecnico del suono che si improvvisa per l'occasione cantautore, secondo l'opinione comune i due brani più convincenti sono quelli cantati da FB: Nebbia e Giorno d'estate. Alla vigilia di Pollution, Genco Puro è un Battiato anti-Pollution: solare, sereno. Anche il fedele synth che in Pollution pulsa l'ora della fine del mondo, qui riscopre certi fraseggi barocchi dei tempi delle canzonette. 

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70. Nelle vie calde la temperatura si alzerà

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, un futile torneo di canzoni con cui inganniamo il tempo mentre nelle vie calde la temperatura si alza, e Battiato ce l'aveva ben detto. E che siamo solo di passaggio].

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1982: L'esodo (Battiato/Pio/Tramonti, #89)

L'esodo probabilmente non vincerà la Gara; ma se invece succedesse, non sarebbe appropriato, nell'estate più calda di sempre e più fresca della prossima? Quando la incide, nel 1982, in un album che sembra voler deludere le aspettative, le correnti migratorie dal sud del mondo stanno ancora per lo più ignorando la penisola. Il muro di Berlino sembra ben saldo, la guerra fredda mantiene il pianeta a una temperatura ideologica costante, le distopie desertiche sono materiale per film di fantascienza a basso budget (anche Mad Max non è ancora mainstream). Battiato, vuoi per la frequentazione di Nordafrica e Levante, vuoi per un suo barometro interiore, ha già un'idea della Fine che molti intellettuali faticano ad accettare quarant'anni dopo, quarant'anni dopo. Nell'Esodo si incastrano mirabilmente tante idee con cui Battiato sembrava essersi trastullato in precedenza senza apparente costrutto: è l'ultima grande composizione per sintetizzatori a valvole, i violini e i cori sembrano già campionati. Io poi ci sento, malgrado tutto, qualcosa di triviale, di esibitamente commerciale: ci sento la disco, come se di questa fine del mondo Battiato volesse accreditarsi come DJ, se non come MC. Quel beffardo "mamma mia che festa" me lo immagino sul cartiglio di una totentanz medievale.   


1996: Di passaggio (Battiato/Sgalambro, #104). 

 

Ταὐτὸ τ΄ἔνι ζῶν καὶ τεθνηκὸς καὶ ἐγρηγορὸς καὶ καθεῦδον καὶ νέον. Non è fantastico questo greco, che malgrado milioni di italiani lo studino alla media superiore, basta copia-incollarne un po' per sembrare persone più colte? Essendo generosamente accreditato come coautore di praticamente tutti i brani originali di Battiato dal 1995 in poi, Sgalambro firma una sessantina di canzoni: un quarto di tutto il catalogo. Di queste, quante hanno passato il primo turno? Nove. Su 64 sono abbastanza poche – diciamo poco più della metà di quante statisticamente avrebbero dovuto essere. Ora, questa non è necessariamente più responsabilità dei testi di Sgalambro che di una certa flessione qualitativa della produzione musicale di Battiato, flessione occultata dalla quantità di materiale che continuava a pubblicare, comunque sempre più che dignitoso. Di passaggio è quasi il manifesto del Nuovo Battiato anni '90, quello che senza rinnegare la sua componente mistica (il testo sta tra Eraclito e l'Ecclesiaste) cerca di rinnovare l'immagine attraverso gli arrangiamenti; il paradosso è che questo rinnovamento, che ottenne un notevole riscontro commerciale, tutto sommato si poggia su ingredienti non così nuovi: qui soprattutto la chitarra di David Rhodes, un'aria più 'rock' che per un miraggio tutto italiano suonava in qualche modo più contemporanea dei tappeti digitali dell'Ombrello. È anche il brano in cui Battiato spreca un featuring del livello di Antonella Ruggiero per farle leggere un'epigramma di Callimaco sul suicidio di Cleombroto d'Ambracia. L'espediente di cantare gli stessi versi all'unisono non ottiene il sortilegio ermafrodita che avviene con Alice: la Ruggiero ha un timbro troppo diverso. L'epigramma è comunque interessante e ve lo riporto dalla mia edizione dei versi di Call... ok da wikipedia: "Dicendo «Addio sole!», Cleombroto d'Ambracia da un alto muro si gettò nell'Ade: non gli era capitato alcun male degno di morte; aveva solo letto uno scritto, quello di Platone sull'anima". Ecco quindi andateci piano a leggere Platone, e tutti gli scrittori di anima in generale: è un argomento pericoloso. 

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69. I desideri non invecchiano quasi mai

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, un futile torneo di canzoni con cui inganniamo il tempo mentre l'Italia s'inabissa come Atlantide – cosa resterà di noi? Del transito terrestre? Magari una o due belle canzoni].

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1983: La stagione dell'amore (#8)  


Riflettendoci, La stagione dell'amore potrebbe essere "la" canzone di Battiato. Che ne ha scritte di più popolari, ma non poi così tante di più, e soprattutto le altre canzoni sono famose per un arrangiamento, per un ritornello, per il lessico peculiare, per i toni d'invettiva, ecc. La stagione dell'amore non ha un lessico peculiare, non è famosa per l'arrangiamento ma nonostante l'arrangiamento – non posso dimostrarlo, ma credo che l'idea mentale che l'ascoltatore ha della Stagione dell'amore somiglia più alla versione live di Unprotected che a quella elettropop di Orizzonti perduti: anzi a una certa distanza la prima sembra una cover situazionista della seconda. La stagione dell'amore è famosa perché è una bella canzone con un bel testo, fine. Quando altre canzoni di Battiato avranno bisogno di essere contestualizzate per essere apprezzate, credo che La stagione dell'amore continuerà a piacere per un po' perché è fatta di cose semplici dosate con molta cura, cose che funzionano per secoli – l'accenno di 50's progression nella strofa, e poi quel passaggio dal Re al La- sul "Non rimpiangerle" che è in effetti una delle cose che rimpiango di più di Battiato, un salto di accordo che con me funziona sempre benissimo e ogni volta che funziona mi ricorda Battiato. Molto più curioso l'inserimento dell'inciso ("Ancora un altro entusiasmo...", che parte da un Si bemolle piuttosto inatteso ed è costruita attorno a una progressione I-II-III (Sib-Do-Re) che correggetemi se sbaglio, ma non è affatto tipica né nella tradizione melodica italiana, né nel rock e men che meno nella musica classica, ma ha un caratteristico sapore disco-music. Questa cosa a livello subliminale ci fa immaginare che il protagonista della canzone (una persona che non vuole accettare l'invecchiamento dei suoi desideri) si imbuchi in una discoteca per clientela un po' agée, se non proprio un nightclub, magari per scoprirvi che gli orizzonti perduti non ritornano mai. Il che contraddice meravigliosamente l'assunto di partenza: come ogni grande canzone, La stagione è un meccanismo ambiguo. 


1993: Atlantide (Battiato/Wieck, #72)


A volte mi domando se non sto influenzando il torneo, che in effetti fin qui vede una netta prevalenza del Battiato postmoderno che mi piace di più (1979-1985) a scapito di quello precedente e successivo. Può benissimo darsi (così come può darsi che io abbia semplicemente i gusti della maggior parte degli ascoltatori) ma ecco un'eccezione che conferma la regola: Atlantide in assoluto è uno dei suoi brani che capisco di meno, e che a ogni ascolto mi fa domandare: ma perché? Che bisogno c'era di incidere questa cosa? Su un accordo solo, Battiato perfeziona il suo stile salmodiante raccontando la storia di un continente perduto e terribile si insinua nell'ascoltatore razionalista il sospetto che per lui non sia una leggenda ma una cosa successa davvero. Lascia perplessi anche il video ufficiale, in cui Battiato anima i suoi ritratti con una tecnica digitale che anche nel 1993 non doveva apparire lo stato dell'arte, diciamo. 

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68. Facciamo un po' di largo con un'altra guerra

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi una delle poche cover sopravvissute si batte contro una rappresentante di uno dei due dischi – a sorpresa – più votati].

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1980: Venezia-Istambul (Battiato/Pio, #48)


Che scherzi gioca all'uomo la Natura. Sono ancora relativamente sbalordito dall'exploit di Patriots, che non ero nemmeno sicuro fosse uno degli album più popolari di Battiato e invece com'è come non è ha portato il 100% delle sue sette canzoni al secondo turno. Questo, ricordiamoci, è un fattoide (la Gara è un sondaggio a cui partecipano meno di cento persone in tutta FB): invece è un fatto che Patriots subito vendette quarantamila copie, e sembrava già un successo; poi arrivò La voce del padrone e ne vendette un milione. Patriots insomma è la camera di incubazione del successo, il momento fondamentale nella carriera di un artista in cui capisce cosa la gente vuole, ma attraverso un processo di tentativi ed errori di cui dovrebbero restare tracce – benché non sia poi così facile trovare tutti questi errori in Patriots. È anche il disco per il quale si può parlare di successo postumo, ovvero alcuni brani di Patriots la gente cominciò a capirli in seguito (Nevski il caso più classico) e probabilmente anche l'apparente cinismo di Venezia-Istambul nel 1980 doveva lasciare perplessi molti ascoltatori. È il disco dei montaggi postmoderni, ma riascoltandolo è anche quello in cui Battiato scopre, fin dal titolo, quanto sia efficace giocare col merchandising delle ideologie, tutti gli slogan e le spillette lasciati sul terreno da battaglie culturali che dopo l'improvviso ritiro delle parti in conflitto cominciavano a diventare incomprensibili. I Sex Pistols sfoggiavano le svastiche, Battiato chiamava i suoi patrioti alle armi e proponeva, con espressione ieratica, di far largo con un'altra guerra al Sol dell'avvenire. Questo un anno prima che i DAF cantassero Der Mussolini, due anni prima che i CCCP cantassero CCCP, insomma abbastanza presto.  

1999: Ruby Tuesday (Jagger/Richards, #17)


Dal 1999 in poi, Franco Battiato ha voluto essere anche un interprete, incidendo tre dischi di Fleurs a cui vanno aggiunte altre cover lasciate qua e là nella sua discografia. Su 256 brani, una buona quarantina erano reinterpretazioni; molte con un ranking insospettabilmente alto (il ranking, ricordo, è basato unicamente sul numero di ascolti sulla piattaforma Spotify): solo tre brani hanno resistito alla falce del primo turno: Ruby Tuesday, Amore che vieni amore che vai e Te lo leggo negli occhi. Tutti brani del primo Fleurs (poi ci sarebbe Nomadi, che a suo modo è una cover anch'essa).  Insomma il Battiato interprete piace molto di più agli utenti spotiffari che agli elettori della Gara. Questo a pensarci ha un senso: le cover funzionano molto bene su Spotify, che te le mostra ogni volta che cerchi il brano originale, stimolando la tua curiosità, per cui è probabile che qualche migliaio di ascolti siano arrivati da gente che Battiato lo conosce poco o nulla (si aggiunga che Ruby Tuesday è l'unica cover di Battiato che ha avuto una risonanza internazionale, quando fu inserita nella colonna sonora di Children of Men). Laddove un torneo di canzoni di Battiato seleziona soprattutto gente appassionata di Battiato, in linea di massima più compositore che interprete. Questo non toglie che Battiato sia stato un interprete veramente originale – forse l'unico italiano di sesso maschile a concepire negli ultimi trent'anni l'interpretazione come reinvenzione (ok, Mario Biondi mi sembra un campionato diverso), che Fleurs stia tra i suoi quattro o cinque dischi meglio riusciti in assoluto, e che la sua Ruby Tuesday non strameriti il suo diciassettesimo posto. Forse anche qualcosa di più. 


Fuori concorso (canzoni che non hanno partecipato alla gara per questo o quest'altro motivo).

1969: Lacrime e pioggia (Pachelbel/Pallavicini/Papathanassiou)

A proposito del Battiato interprete: questa me la sono proprio lasciata sfuggire. A mia discolpa, faceva parte del 33 giri abortito nel 1969 che Battiato non volle mai pubblicare, anche in seguito: in qualche fortuito modo fu rilevata dall'Armando Curcio Editore che nel 1982, quando Franco Battiato vendeva come il pane, mandò fuori un disco che se non è un bootleg poco davvero ci manca. Lacrime e pioggia è una cover di Rain and Tears degli Aphrodite's Child, il brano con cui la progressione Pachelbel entra ufficialmente a far parte della musica pop europea – il debito è talmente evidente che l'oscuro compositore è incluso nei credits accanto a Vangelis Papathanassiou. Quando Battiato ci si cimenta, erano probabilmente già nei negozi di dischi un paio di cover italiane con lo stesso testo di Pallavicini. Rispetto ai Trolls e ai Quelli(*), Battiato ha l'impudenza di dare maggior risalto alla sua prestazione vocale, ovvero di sfidare Demis Roussos nel suo campo! E pur essendo un confronto impari, non ne esce malaccio. Sarei tentato di considerarla la migliore cover italiana di Rain, o perlomeno se la gioca con Dalida (e forse è più ispirato da Dalida che da Roussos). Il brano era assolutamente nelle sue corde, e non si capisce davvero perché non abbia provato a inciderlo. Nel 2008 si ricorderà degli Aphrodite's Child riprendendo It's Five O'Clock, neanche a farlo apposta un'altra Pachelbel. Ma era meglio questa.

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67. L'animale più domestico e più stupido che c'è

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con due brani pregni di memorie dell'infanzia, ma non è una grande coincidenza, FB ci è tornato spesso, e mi domando se non mi potrei concedere a mia volta un'analoga digressione sui fatti miei, ad esempio sapete che per molti anni ho considerato la parte strumentale di Sequenze e frequenze come la coda di Aria di rivoluzione, perché così era stata sventatamente ritagliata nella cassettina di Feedback che ero riuscito a procurarmi? Una scelta che ancora oggi non riesco a capire, cioè nel momento in cui la BlaBla non ristampa più i vecchi dischi e la Ricordi ti chiede un'antologia con le cose più presentabili, tu tagli la parte cantata di Sequenze e frequenze? Per risparmiare cosa? Spazio per Rien ne va plus? Roba da matti. E inoltre: sapete qual è stata la prima canzone che ho cantato davanti a un pubblico? La domanda, mi rendo conto, sarebbe interessante solo se in seguito io avessi continuato a cantare davanti ad altri pubblici, ma comunque mio cugino grande aveva gli spartiti ufficiali di Patriots e siccome al tempo suonavo al massimo il flauto Yamaha (ma forse neanche quello) decise che io avrei cantato. Perché per esibirsi davanti ai parenti scelse proprio Arabian Song non lo so, forse era facile, la parte di tastiera intendo. La parte vocale non esattamente. Gli strumenti erano: tastiera Gem, violino, forse chitarra, ma solo due di questi tre, perché i miei cugini erano due e io cantavo soltanto, in un arabo traslitterato dallo spartito che tuttora ignoro cosa significhi, anche perché mica posso andare da un mio studente a chiedergli senti ma cosa si intende abitualmente per figgiabalù figgiabalì, come minimo nel frattempo gli ho offeso la patria, i parenti, la divinità. L'esibizione non so come andò, di solito dopo tre volte che cantavo una canzone diventavo rauco, e intonare "la mia classe fu allevata con il latte di una capra" mi lasciava perplesso. Però ancora oggi ricordo benissimo che gli orchestrali sono uguali in tutto il mondo, simili ai segnali orario delle radio, grazie cugino grande].

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1974: Sequenze e frequenze (#144)

Sequenza e frequenze per Battiato è un nuovo inizio, qualcosa di cui in seguito forse ebbe pudore e sentì la necessità di prendere le distanze – non solo in Feedback, ma anche nelle uscite in inglese, la parte iniziale era stata soppressa e la parte strumentale ricucita come coda di Aria di rivoluzione. Solo a partire da Giubbe rosse la maestra che dava ripetizioni viene rivendicata, e non è un caso che Giubbe sia anche il disco del ritorno in Sicilia. Vent'anni più tardi, al suo primo lungometraggio (Perdutoamor) vorrà ancora mostrarci un bambino che fissa il mare. Sicilia, infanzia, memorie, mare: Battiato non aveva mai parlato di queste cose prima di Sequenze e frequenze. Solo sei brani degli anni pre-cinghiale bianco hanno passato il turno: La convenzione, Areknames, Plancton, Sequenze e frequenze, Aria di rivoluzione e Propriedad prohibida. Il ranking non li aiutava: è un Battiato più famoso che ascoltato (e non è neanche così famoso). 


1981: Arabian Song (#80)

Qual è l'album di Battiato che è andato meglio al primo turno? Mi sembrava una domanda abbastanza scontata, e invece è successo questo: tutti i brani di Patriots hanno vinto le rispettive batterie, e quindi per ora La voce del padrone e Patriots sono affiancati in prima posizione. Nel frattempo ho controllato: il ritornello recita: "Ha detto il maestro del villaggio: è stata la montagna nella montagna [ma questo forse è un superlativo, come per dire la più grande di tutte le montagne]. La pace su di voi e su di te / Adesso io abito". Battiato ha più volte rivendicato la propria levantinità, affermando di riconoscere più facilmente nel Nordafrica o in Medio Oriente fisionomie simili a quelle dei suoi famigliari. È il motivo per cui l'arabo fa capolino spesso in canzoni di ambientazione siciliana (ad es. Veni l'autunno). Fa sorridere che si tratti di un arabo maccheronico, una spia del fatto che ogni radice è sempre una ricostruzione a posteriori. 

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66. Dalla pupilla viziosa delle nuvole

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con il confronto più equilibrato di tutti i trentaduesimi, e un brano fuori concorso]. 

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1984: Chanson egocentrique (Battiato/Messina/Tramonti, #32).

Chanson egocentrique alla fine è una delle poche canzoni battiatesche della prima metà degli anni Ottanta che abbiano un mood 'Europa, prima metà anni Ottanta', uno dei casi in cui Battiato potrebbe essersi veramente detto: cosa ascolta la gente in radio oggi? C'è una progressione tipica di quegli anni (ma è anche una riedizione di Areknames, è da lì che arriva quel senso di compimento autoipnotico quando alla fine del giro si ritorna su re maggiore). C'è anche una specie di rap in inglese/tedesco, molto trasognato, e credo che saremmo sulla pista sbagliata se pensassimo che si tratti di un addobbo finale: secondo me la canzone è cominciata così, da una serie di parole straniere compitate a caso. Non sarebbe la prima né l'ultima.  

(Intervallo autoreferenziale: un paio d'anni dopo cominciai a farmi insegnare gli accordi di chitarra, appena ne seppi tre cominciai a improvvisare canzoni in un inglese immaginario di cui molto mi vergognavo, il che non m'avrebbe impedito di continuare a salmodiare questi prisencolinensinainciusol privati fino a vent'anni suonati, che se penso ai miei coinquilini tuttora meco mi vergogno. Poi smisi perché ormai sapevo troppo inglese per non sentirmi ridicolo, però ecco, smisi anche progressivamente di comporre canzoni. Stacco).

Qualche mese fa mi sono messo a guardare 33 giri Italian Masters e ho scoperto che i più grandi cantautori italiani, anche insospettabili, facevano la stessa cosa: che insomma dai Settanta in poi l'inglese diventa la lingua mentale della musica (quella che nel Settecento era l'italiano, e bisogna immaginare i compositori tedeschi improvvisare versi con sillabe italiane a caso stile Bohemian Rapsody). Questo accade anche se nessuno l'inglese lo sa, anzi accade proprio perché nessuno ancora lo sa, è qualcosa di analogo alla fase della lallazione infantile (il momento in cui il bambino comincia ad articolare sillabe a caso senza necessariamente veicolare significati, soltanto per sperimentare la produzione di suoni).

Questo inglese immaginario è un idioletto privato che consente ai compositori di mettere insieme note e accordi, dopodiché, quando la musica più o meno è pronta, anche il testo comincia a prendere forma. Il passaggio dall'inglese immaginario all'italiano è molto brusco, perché le due lingue hanno veramente poco in comune dal punto di vista prosodico. A volte c'è una fase intermedia in cui il cantautore passa dal suo inglese immaginario a un inglese 'vero', lo scrivo tra apici perché non fidandosi (giustamente) della propria competenza linguistica, il cantautore non mette insieme le parole, ma incastra frasi inglesi che conosce già, dall'esiguo campionario di frasi che conosce: la maggior parte sono versi di altre canzoni (in Chanson Battiato riprende addirittura Prehistoric Sound degli Osage Tribe). Il citazionismo insomma non è sempre necessariamente una strizzata d'occhio all'ascoltatore medio-colto: a volte è l'unica soluzione per trovare qualcosa che suoni bene sulla melodia già composta. È una delicata fase di cristallizzazione in cui se ti capita di ripetere troppe volte una qualsiasi scemenza (che ne so, another race of vibration), non te ne liberi più, ormai fa parte della canzone, toglierla sarebbe come togliere una nota o un accordo. Il risultato è una macedonia che a volte trattiene un contenuto lirico, o perlomeno il cantautore ne è convinto e se è bravo riesce a convincere anche l'ascoltatore, purché non conosca troppo l'inglese 'vero'. Non ha senso e allo stesso tempo capiamo tutti cosa ci vuole dire, tranne ovviamente gli anglofoni che devono rimanerci come... voi come ci rimanete davanti a Bohemian Rhapsody? A me confesso dà un certo fastidio, non posso farci niente. 


1996: Strani giorni (Battiato/Sgalambro, #33).

Nulla si crea, nulla si distrugge, e forse dopo una certa età non si inventa neanche nulla di particolarmente nuovo. Quando mette assieme Strani giorni, FB sta semplicemente riscoprendo un procedimento di montaggio che aveva già usato in vari momenti della sua carriera – persino negli anni Sessanta ogni tanto gli capitava di 'montare' una canzone con pezzi di altre canzoni, penso a Occhi d'or – poi ovviamente c'è la fase collage, Ethika fon ethica, ma altri collage arrivano nel decennio successivo, ad esempio Temporary Road. Dunque perché questo procedimento, che fino a quel momento mi lasciava divertito e in certi casi persino ammirato, proprio a partire da Strani giorni mi risulta frastornante? È responsabilità di FB o è colpa mia? Può darsi che nel bel mezzo degli anni Novanta quello che Battiato aveva iniziato pionieristicamente a congegnare vent'anni prima fosse diventato un procedimento fin troppo banale: qualcosa che tra l'altro le tecnologie ormai consentivano di farsi in casa (e Battiato è stato il primo ad approfittarne: la sua musica dai Novanta in poi è particolarmente 'fatta in casa', anche se non sembra). Questo m'induce a considerazioni sulla futilità dell'arte contemporanea, ho appena letto di un tizio che ha denunciato Cattelan (l'artista) perché ha osato attaccare al muro una Banana col nastro adesivo, pare che lui l'abbia fatto qualche anno prima e quindi, a parte la questione della proprietà intellettuale (c'è gente che reclama il possesso dell'idea di attaccare frutta alla parete di una mostra d'arte) implica che l'opera di Cattelan sia molto meno interessante – e in effetti anche una copia perfetta della Gioconda dipinta nel 2020 non è meno interessante della Gioconda originale? Boh, viviamo in strani giorni. 


Fuori concorso (canzoni che non hanno partecipato alla gara per questo o quest'altro motivo).

1971: Prehistoric Sound (Conz / De Joy)

Prehistoric Sound è la versione inglese di Un falco del cielo, primo singolo degli Osage Tribe, che uscì con il lato A in italiano e il B, appunto, in inglese, con un testo molto diverso: niente più nativi americani, ma uomini preistorici intorno al fuoco "all'età dei dinosauri", questa cosa forse negli anni Settanta si poteva dire impunemente. Ma in linea di massima la versione inglese aveva questo vantaggio, ché non si capivano le parole e quindi sembrava più interessante. Questo singolo fu la prima collaborazione tra Battiato, Pino Massara e Gianni Sassi (la copertina del 45 giri era una bambola con la bocca insanguinata!), ma non è affatto chiaro quale sia stato il grado di coinvolgimento di FB: se è solo passato per dare una mano, anzi una voce a una band genovese che aveva già un suo stile e un suo suono (un suono che si metteva alle spalle il prog e viaggiava verso orizzonti più tribali, qualcuno avrà senz'altro fatto il nome di Adam and the Ants), oppure se per qualche tempo ha veramente pensato di essere il cantante del gruppo e magari ha persino collaborato alla canzone ("Ed De Joy" è uno pseudonimo di casa Bla Bla, lo usava Massara ma poteva adoperarlo anche Battiato). Il fatto che nel 1984 abbia ripreso una strofa di Prehistoric per lo scat in inglese in Chanson Egocentrique potrebbe far pensare che lo considerasse tutto sommato materiale suo – senonché, FB ha sempre usato anche il materiale degli altri con molta disinvoltura. 

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65. Una signora vende corpi astrali

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato; per la precisione è il primo trentaduesimo di finale della Gara delle canzoni di Franco Battiato, all'insegna dell'ambiguità: è giusto conciarsi da bonzi per entrare a corte degli imperatori? Ci stanno bene i budda sopra i comodini?]. 

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1979: Magic Shop (Battiato/Pio, #64)

Da un punto di vista armonico, Magic Shop potrebbe essere la canzone più semplice mai scritta da Battiato – tre accordi in maggiore, La Mi Re, sempre gli stessi – gli accordi di Baba O'Riley, di Sweet Jane, di Changing of the Guards; gli accordi su cui Vasco Rossi nel 1981 costruirà il suo impero. La progressione più epica del rock anni '70, nelle mani di Battiato e dell'incredibile gruppo convocato negli studi Radius, diventa un languido lamento: al posto del ritornello, Battiato vocalizza oscillando a volte di un tono a volte di un semitono, doppiato dalla chitarra di Radius: tanto basta per aggiungere quel tocco di querulità medio-orientale. Ma è il terzetto Radius-Farmer-Esposito a riuscire nell'impresa di non annoiare suonando più o meno la stessa cosa per più di tre minuti – un problema che in quei tardi anni '70 ancora Battiato non aveva cominciato a porsi. 


1981: Centro di gravità permanente (Battiato/Pio, #1)

È prassi, presso i commentatori di Battiato, ricordare che il gesuita Matteo Ricci (利玛窦) si vestì effettivamente come un bonzo nel tentativo di entrare a corte dell'imperatore Wan Li (万历). Le cose sono in realtà assai più complesse – tanto per cominciare, cos'è un bonzo? È un termine abbastanza vago, che spesso traduciamo come 'monaco' e si riferisce a figure di eremiti o predicatori buddisti. Ricci si vestì effettivamente come un bonzo, seguendo il principio del suo superiore, Alessandro Valignano: "farsi cinese con i cinesi". Quello che i battiatologi di solito non scrivono, del resto per arrivarci bisogna effettivamente sciropparsi certe storie dei gesuiti in cinque volumi, è che finché restò vestito come un bonzo Ricci non fece un solo metro in direzione della Città Proibita. Fu l'incontro con lo studioso Qu Taisu (瞿太素), molto incuriosito dalla matematica euclidea che Ricci insegnava, a mettere in moto le cose: Qu Taisu spiegò a Ricci che i bonzi non erano generalmente stimati dalla classe dirigente, che spesso li liquidava come parassiti e imbroglioni (se vogliamo cercare un parallelo con l'Europa, lo possiamo trovare in una certa retorica anti-frati che serpeggiava tra Medioevo e Riforma). Se Ricci voleva davvero entrare a corte, doveva vestirsi da intellettuale, viaggiare in lettiga ed enfatizzare le proprie conoscenze scientifiche, che ai mandarini potevano interessare. Tutto questo per dire che insomma, vestirsi da straccioni non è necessariamente la tecnica giusta, e Battiato ne sapeva qualcosa. Battiato negli anni Settanta si era conciato nelle maniere più inverosimili, e qualche gradino del palazzo dell'Impero era riuscito anche a scalarlo. Quello che gli aveva dato da fare, per tutti i Settanta, era la cattiva fede necessaria. Il dover calarsi in una parte – la grande scoperta di David Bowie, il recitare sul palco: ci ha messo un po' di anni ad accettare che era parte del mestiere. Se poi qualcuno ha un'ipotesi sensata sulla vecchia bretone vestita da giapponese, io sarei molto curioso. Non riesco a non pensare a The Kick Inside, il primo disco di Kate Bush uscito nel 1978 con una grafica finto-giapponese e una proposta che non poteva lasciare FB indifferente: poteva apprezzarla o detestarla, ma non restare indifferente (per quel poco che ho trovato, l'apprezzava e forse ne era un poco intimorito). Ma è sicuramente una falsa pista, e poi KB può anche passare per bretone, ma vecchia nel 1981 proprio no. 

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64. Lu santu è di marmuru e non sura

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[Questa è l'ultima giornata del primo turno della Gara delle canzoni di Franco Battiato – sembrava non dovesse finire mai, e invece le abbiamo ascoltate tutte e 256. Da qui in poi è tutta discesa. Grazie per l'attenzione].  

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1974: Nel cantiere di un’infanzia (#214)

Ho già accennato a quanto mi suonino ancestrali certi brani del Battiato primi anni Settanta, canzoni che hanno più o meno la mia età (e che non credo di aver ascoltato prima dei sedici anni) ma che in un qualche modo mi riportano a galla ricordi improbabili: Qui ad esempio a un certo punto i bambini si mettono a scandire una specie di coro che mi ricorda un ban come se ne intonavano sui pulmini della suola. Siccome mescola suoni elettronici a rumori d'infanzia, Nel cantiere è stata accostata a una delle composizioni più famose di Stockhausen, la Canzone della gioventù nella fornace. Bisogna almeno riconoscere all'allievo di non suonare derivativo. L'insistenza particolare per le registrazioni rovesciate – un trucchetto che ai tempi di Clic aveva perso qualsiasi crisma di novità, anche nella musica leggera – è un tic stilistico che Battiato si porterà con sé per tutta la carriera, da Iloponitnatsoc fino a Joe Patti, senza che forse abbiamo mai capito cosa quale senso Battiato desse all'operazione. 


1988: Veni l'autunnu (#86)

Su Veni l'autunnu ho un paio di ipotesi non dimostrabili. La progressione così tipicamente cantautorale  della strofa (c'è anche il caro vecchio IV-V-I) mi fa sospettare che possa essere addirittura l'unico brano sopravvissuto degli Ambulanti, il duo Alicata/Battiato che nei cabaret milanesi spacciava composizioni di Battiato per canti della tradizione siciliana medievale. I due riuscirono anche a firmare un contratto con un'etichetta discografica, poi stralciato appena il produttore ascoltò i brani. Ma era il repertorio che aveva incuriosito lo stesso Gaber, insomma qualcosa di interessante doveva esserci per forza ed è difficile pensare che Battiato non abbia mai riciclato niente. L'impostazione molto più 'romantica' della strofa mi suggerisce viceversa che Veni l'autunnu sia davvero un brano sfuggito a Battiato mentre cercava di comporre Gilgamesh, e in luogo di melodie ancestrali si accorgeva di trovarsi in mano di nuovo canzoni pop, quelle che in teoria aveva smesso di scrivere. Potrebbero essere vere entrambe le cose ma anche nessuna delle due. In Veni l'autunnu resiste, coperto da una patina vernacolare, il procedimento a collage tipico di Patriots: la canzone è una serie di proverbi e modi di dire ricuciti senza la pretesa di ricavarne un senso d'insieme. Forse era l'unico espediente per consentire a Battiato di scrivere qualcosa di così spudorato come: Sicilia bedda mia, Sicilia bedda. Poi, come spesso succede quando Battiato indulge nel regionalismo, arriva l'arabo che per lui è una specie di palinsesto da intravedere attraverso il vernacolo; ma il buffo è che arriva con una frase da corso per principianti: "Come ti chiami? Mi chiamo Khalifa e studio la lingua araba. Per ogni cosa c'è un tempo e una chiamata. Tutto e sogno tranne l'attesa annunziata". 


1998: Il ballo del potere (#43)

Fingi di riandare avanti con un salto, poi a sinistra con la finta che stai andando a destra. I pigmei e Ginevra Di Marco. Gli aborigeni e Andrea Pezzi. Antropologia e danza, avanguardia e quadriglia, rock e world music, Taijiquan e Beatles(*), in un momento particolare della storia della musica e del costume in cui sembrava stessero saltando tutti gli steccati. Che in un momento del genere il più coraggioso sulla piazza, ma diciamo pure il più folle, fosse l'ultracinquantenne Franco Battiato, non sembrava nemmeno così sorprendente. Il ballo del potere è un brano che confesso di non riascoltare volentieri, non so nemmeno cosa mi dia veramente fastidio (i riti di fertilità degli aborigeni? l'inglese di Andrea Pezzi? un insieme delle due cose?) ma alla fine forse il problema stavo diventando io, forse provavo lo stesso fastidio che dieci anni prima un adulto avrebbe provato davanti a una Temporary Road. Invece c'è sempre bisogno di folli nella musica e nel costume, e se Battiato si era stancato di fare il guru, se voleva movimentare la situazione, buon per lui. Ripensandoci, la cosa più 'anni '90' di tutte sono i cori etnici campionati. In ritardo sui Deep Forest, in anticipo su Moby, ma riascoltandoli alla fine funzionano.    

(*) A un certo punto si sente chiaramente Battiato cantare "Many times I’ve been alone, and many times I’ve cried..."


2001: Bist du bei mir (Battiato/Sgalambro, #171)

Don't play it anymore. Arrivo a Bist du bei mir con una certa stanchezza, insomma è da 64 giorni che glosso quattro canzoni al giorno – ok mi ero messo un po' avanti – ma poi sono finito un po' indietro – e insomma eccomi qui con l'ultimo brano su 256 e... ecco una roba di Sgalambro col titolo tedesco. Ahi. Il titolo è la citazione di un'aria di Gottfried Heinrich Stölzel (1718), che però è stata anche trovata in un quaderno di spartiti di una figlia di Johann Sebastian Bach, i due si conoscevano e potrebbero anche avere usato gli stessi appunti, è un dibattito interessante ma non c'entra molto con la canzone, visto che Battiato non cita davvero l'aria di Stölzel (o Bach). Ne approfitta però per alzarsi nel ritornello in un falsetto molto alto per lui, come a suggerire un'aria di soprano che non esiste. Insomma siamo nel terreno delle false citazioni, degli stucchi suggestivi ma rifatti a macchina, e dobbiamo accettare che Battiato è stato anche questo, e lo è stato per il tratto più lungo e celebrato della sua carriera: un artista da cui ci si aspettava una determinata dose di pretese culturali, da impacchettare in brevi canzoni 'di qualità'. Forse più pretese culturali di quante lui fosse in grado di erogare, da cui la scelta di affidarsi a questo tizio che a differenza di Battiato non sembra aver mai nutrito molti dubbi sulla qualità della propria erudizione: Manlio Sgalambro. Nota che la canzone non è neanche malaccio, sia dal punto di vista musicale (ma che bisogno c'era di evocare un compositore del Settecento?) né lirico, con quell'invito a giocare "sull'orlo di un precipizio": ma che bisogno c'era di tutto quel namedropping, di versi come  La luce abbagliò i miei sensi come in un quadro di Monet mentre l'estate insidiava il giovane Gesualdo? E però il pubblico da Battiato voleva proprio questo: sentirsi in un museo di cose non del tutto comprensibili ma culturalmente rilevanti. Quello che bisogna concedere a questo Battiato (e perfino a Sgalambro) è che questo ruolo che a un certo punto si sono trovati ricucito addosso, l'hanno interpretato almeno con una certa leggerezza che era merce rara già allora e oggi non è più in commercio. Ritrovare il video di Bist du bei mir, ad esempio, è una rivelazione, e mi regala l'ultima lacrimuccia di questi sessantaquattresimi di finale, mentre guardo Battiato che finge di ballare con la modella, poi finge di litigare con la modella, Elisabetta Sgarbi che si tiene Sgalambro sottobraccio, eccetera. Almeno si divertivano. Il mestiere era dispensare sapienza e cultura, ma era divertente, hanno cercato di farlo senza affliggere e annoiare troppo il prossimo, e ci sono quasi sempre riusciti. Grazie per l'attenzione e restate in contatto – si comincia subito coi trentaduesimi. 

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63. Nell'aria qualche cosa si fermò

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con diverse campane e altri suoni che si perdono in lontananza, come i boati che giungono al molo dalle navi].  

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1983: Temporary Road (#107)

Quella sera il pubblico di Sotto le stelle si aspettava probabilmente un'esecuzione di Cerco un centro Voglio vederti danzare. Quando Battiato comincia a canticchiare una specie di Lied su violini sintetici, l'entusiasmo è ancora alto: magari sta per cominciare una versione alternativa di Cuccurucucù. Il Lied invece prosegue per un buon minuto, e bisogna ricordare che siamo in tv, è il 1983, Battiato è un cantante da alta classifica e lo sarà ancora per qualche anno. Finalmente il batterista comincia a percuotere i suoi esagoni e la canzone diventa una specie di satira sul problema numero 1 degli italiani, il traffico ("Prendo sempre le multe / per divieto di sosta") con stralci di canzonette come ai tempi di Patriots ("solitario me ne vo per la città"). Poi Radius si mette a suonare la marcia turca di Mozart e Battiato ci canta sopra Fra Martino Campanaro. Il brano era stato presentato con il titolo Temporary Road, che ne rivelava il carattere occasionale, e per due anni avremmo continuato ad ascoltarlo in registrazioni radiofoniche abusive (a loro volta probabilmente ottenute da videoregistrazioni tv abusive), con l'introduzione un po' tagliata. A quel tempo il battiatismo non aveva ancora raggiunto il livello filologico tale da consentirci di sapere che una composizione intitolata Temporary Road avrebbe dovuto già essere pubblicata nel disco ormai irreperibile del 1975, Mme "le Gladiator", e che ad almeno un giornalista Battiato aveva parlato di un collage di canzoni di successo: Ruby Tuesday, Like a Rolling Stone... Quel progetto era evidentemente tramontato (per motivi di diritti?), Battiato aveva conservato i titoli per la coda di Cuccurucucù, e forse qualche frammento era finito nel brano del 1983: la marcia turca, appunto, Fra Martino, un Lied non meglio specificato e il verso beluino di Fred Flinstone, "Iabudabudà". Nel palinsesto Rai del periodo aveva tutta l'aria di una provocazione dadaista da parte di un cantante che nel 1983 non aveva ancora nessun disco da promuovere, e quando finalmente arrivò (a dicembre) non somigliava affatto a questo collage goliardico. Lo ritrovammo invece a sorpresa nel disco del 1985, Mondi lontanissimi, che per certi versi era anche una raccolta del materiale eterogeneo prodotto da Battiato al di fuori degli LP italiani in quei primi anni Ottanta: i duetti con Alice (ma registrati senza Alice), una Re del mondo con gli arrangiamenti dell'edizione americana, ecc. In mezzo a tutti questi brani però Temporary Road, con la sua commistione tra suoni orchestrali e brutalismo elettronico, si trovava miracolosamente al suo posto: tanto più che la sutura tra le due parti del pezzo ora veniva sottolineata da una scarica di batteria elettronica che è in assoluto il momento più tamarro mai inciso da Battiato. Spariva "fra Martino", sostituito da un'altra citazione sotterranea da un poemetto pre-crepuscolare ottocentesco (San Francesco del Deserto di Angiolo Orvieto!). Insomma Temporary Road è un brano a cavallo tra Patriots e Mondi lontanissimi, benché i due dischi non confinino tra loro. 


1983: Campane tibetane (Battiato/Pio, #150)

Le bronchiti coi vapori e il Vicks Vaporoub. Il particolare crepuscolarismo di Orizzonti perduti lo rende il disco di Battiato con il maggior numero di product placement involontari (c'è anche l'idrolitina). Non si sofferma mai forse la vostra nostalgia sulle etichette di prodotti consumati nell'infanzia? E non capita ai boomer di rimpiangere persino le belle bronchiti della nostra gioventù, mica come i giovani d'oggi smidollati con quegli aerosol di ultima generazione... Può essere una coincidenza ma Battiato si presenta al microfono con una voce un po' offuscata, probabilmente vuole tentare qualche vocalismo orientale ma la canzone non glielo consente del tutto e una delle peculiarità di Orizzonti è che sembra un disco registrato molto in fretta, buona la prima. È anche un disco brevissimo (28 minuti), che scivola rapido molto prima di annoiare – cosa che all'ennesima canzone sulle nostalgie d'infanzia potrebbe anche capitare, ma Battiato è stato più rapido di noi e ha già finito il disco. La Sicilia sognata stavolta presenta dettagli dissonanti che sono ovvi depistaggi: campane tibetane e addirittura la Via Emilia (ho controllato con google maps, ce n'è una anche a Catania ma non mi sembra così evocativa). E sul finale una delle rime siciliane più geniali di Battiato: i mobili in stile Impero / ritornerò. 


2000: L'ignoto (#235)


Come un branco di lupi che scende dagli altipiani ululando / o uno sciame di api accanite divoratrici di petali odoranti / precipitano roteando come massi da altissimi monti in rovina: / logoi dagli ultimi duemila anni. Che le api divorino i petali è una sineddoche abbastanza discutibile, e ciononostante a Battiato piaceva particolarmente questo attacco di Sgalambro, tratto da un "frammento di poema" chiama Opus postumissimum, se nel mio dipartimento di latino avessi osato coniare un superlativo del genere mi avrebbero stracciato il libretto ma questo non aggiunge nemmeno un grammo di insofferenza a quella che già nutrivo per il massimissimo vate talattico, giuro. Dicevo, a Battiato piaceva questo brano in cui la civiltà frana all'improvviso proprio nel momento in cui Sgalambro diventa anziano, che coincidenza vero? Pensa che succede all'80% degli intellettuali, questa cosa di situare la fine della civiltà intorno al loro sessantesimo anno di età, comunque troveremo la stessa preziosa citazione all'inizio di Inneres Auge e poi in un brano di Joe Patti's Experimental Group, intitolato perlappunto Come un branco di lupi. Ho già avuto modo di riconoscere in Campi magnetici una delle cose più interessanti composta da Battiato nel nuovo millennio e lo confermo, tanto più che in questo brano succedono cose che a questo punto abbiamo già sentito: violini digitali, versi di soprani (o del sopranista Simone Bartolini), irruzioni di sequencer, e così via. Mi resta soltanto il dubbio che sarebbe un disco ancora migliore senza le intrusioni di Sgalambro, senza il suo tormentone "i numeri non si possono amare" che gira e ti rigira alla fine è vieta retorica crociana. Poi ho controllato, il 2000 non è tecnicamente nuovo millennio ma soprattutto su Battiato.it Campi magnetici risulta nella sezione dedicata alla discografia classica: e quindi non avrei dovuto includere le tracce in questo torneo (dove peraltro nessuna aveva speranze di passare il primo turno). Non sono sicuro che sia sempre stato così e mi suona così strano che Battiato considerasse Campi magnetici musica classica e L'Egitto prima delle sabbie musica leggera. In ogni caso ormai il torneo è fatto, indietro non si torna, mi dispiace.

2008: (Sittin' on) the Dock of the Bay (Redding/Cropper, #22)

Watching the ships roll in / Then I watch 'em roll away again. Alla fine Sittin' on the Dock of the Bay parla di un tizio davanti al mare che guarda le navi sparire all'orizzonte. Non così diverso da Sequenze e frequenze. Per cui non è così strano che dovendo trovare un brano per un duetto, Battiato e la cantante jazz francese Anne Ducros riconoscano un minimo terreno comune nel grande successo (postumo) di Otis Redding. La Ducros poi può darsi che su Spotify sia più seguita di Battiato, il che spiegherebbe perché un brano senza infamia e senza lode, abbastanza fuori dalla comfort zone di quest'ultimo, sia in assoluto il suo ventiduesimo brano più ascoltato. Dalla mia distanza sembra più un atto di cortesia che una cover necessaria: tra le due voci non c'è il feeling che scatta quando il timbro di Battiato si imprime su quello di contralti come Alice. E soprattutto non ce lo riesco a vedere Franco Battiato, seduto su quel molo di quella baia. In un universo parallelo dove i Beatles non abbiano mai sfondato in Europa, e la musica pop continentale abbia proseguito sui binari già tracciati tra chanson française e ritmi latini, molti cantautori italiani non lo sono mai diventati (Dalla, Battisti) o hanno un repertorio completamente diverso. In quell'universo invece Battiato ha più o meno fatto gli stessi dischi, anche se la coda di Cuccurucucù contiene titoli diversi e le sue cover di Hey Joe e Ruby Tuesday non esistono. In questo senso Battiato è davvero il cantautore più 'bianco' che abbiamo avuto: con influenze molteplici che vanno dal Medio Oriente a Bach (con qualche occasionale ghiribizzo per l'estremo oriente), ma sostanzialmente alieno alla musica afroamericana. Se vogliamo è la risposta alla domanda: cosa sarebbe stata la canzone d'autore in Italia se avessimo continuato a ignorare i modelli americani? Una domanda che ha poco senso porsi, mi rendo conto. 

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62. L'odore di brillantina si impossessava di me

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una una delle sfide più difficili fin qui]. 

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1982: Scalo a Grado (Battiato/Pio, #54)

Ci si illumina d'immenso mostrando un poco la lingua al prete che dà l'ostia. Scalo a Grado è una delle più controverse canzoni di Battiato – anche se da fuori non lo si direbbe, insomma c'è Battiato che soggiorna in una zona per lui insolita (il Nordest, tra Grado e Pieve di Cadore: siccome è uno "scalo" lo immaginiamo proteso verso orienti più estremi). Gli capita di partecipare a una funzione cattolica e la descrive: la gente è fintamente assorta, i salmi sono stonati, ma tutto sommato ci si sente in Paradiso. Tutto qui e non mi ricordo di aver mai sentito un cattolico prendersela per un bozzetto che è in realtà estremamente familiare a chiunque vada a messa la domenica: anzi, era rasserenante sentire un cantante che parlava un poco di noi normaloni e non sempre di prostitute e detenuti, perché ben prima della trap anche i cantautori tendevano a concentrarsi su gente che la domenica si sveglia a mezzogiorno. Battiato invece era dei nostri, Battiato ogni tanto andava persino a messa, ma questo succedeva in quel momento particolare in cui i giornalisti lo aspettavano al varco: aveva venduto tantissimo per motivi che loro non avevano previsto né compreso, e ora dovevano assolutamente trovare una formula che lo spiegasse brevemente e che stesse in un titolo su tre colonne massimo. Per esempio Gianfranco Manfredi in un famoso articolo sulla Stampa ci informò che Battiato metteva nelle canzoni "la cultura della nuova destra", una frase che qualche anno prima avrebbe azzoppato cantautori ben più solidi (se uno va a rileggerlo scopre che nel 1982 la "nuova destra" erano Cacciari e Calasso, insomma bei tempi, P2 a parte). Letta da destra, Scalo a Grado può sembrare una condanna della religiosità postconciliare, dei suoi riti annacquati e scadenti: interpretazione che a me sembra forzata ma che ammetto si possa puntellare sulla strofa che dice "Il mio stile è vecchio [?] Come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore. Nel mio sangue non c'è acqua, ma fiele che ti potrà guarire". 

Ma la cosa più curiosa è che negli anni successivi mi è capitato più volte di leggere interpretazioni completamente opposte, da parte di atei che riconoscevano in Scalo a Grado una satira anti-cristiana: atei che in molti casi vissero come un tradimento il concerto di Battiato in Vaticano, la Messa Arcaica e in generale il grande ritorno dei temi mistici nelle sue canzoni dal 1988 in poi. A riprova che in ogni canzone ognuno trova quello che vuole trovare: quanto a Battiato, era abbastanza furbo per non smentire nessuna interpretazione. Così anch'io resto fedele alla mia: Scalo a Grado è un'ariosa domenica di aprile, la chitarra di Radius è un raggio di sole che filtra da vetrate istoriate un po' astratte, stile anni '70. E pensare che sull'altro lato c'era appena stata la fine del mondo. Che Battiato non fosse entusiasta delle liturgie postconciliari è molto probabile (in particolare, lo disse più volte, odiava le canzoni accompagnate con le chitarre). Ma che Scalo a Grado sia una condanna, o anche solo una satira meno che bonaria, la musica non me lo dice. Forse è la prima canzone in cui una manifestazione della modernità gli strappa quello sguardo indulgente che oggi è poi quello che tutti preferiscono ricordargli stampato in faccia. 


1983: Mal d'Africa (#75)

Dopo pranzo si andava a riposare, cullati dalle zanzariere e dai rumori di cucina. Dalle finestre un po' socchiuse spiragli contro il soffitto: e qualche cosa di astratto si impossessava di me. Mal d'Africa potrebbe essere la lirica più riuscita di Battiato, quella che meglio mette a fuoco il tema della nostalgia per una Sicilia rimasta ferma al tempo della sua infanzia: peccato per il ritornello, forse l'esempio migliore di inglese battiatesco, nel momento in cui smette di essere una semplice serie di sintagmi ritagliati da altre canzoni e cerca di scomporsi e riagglutinarsi, veicolando significati diversi da quelli della citazione originale. ("I can't live without you, on my own lies a photograph. Please come back and stand by me"). Mal d'Africa potrebbe essere una delle più belle canzoni di Battiato: peccato per l'arrangiamento sintetico – che comunque le conferisce parte del suo fascino, e ormai per noi orfani degli anni '80 suscita un analogo mal d'Africa: lo detestiamo e non riusciamo a farne a meno, se qualcuno riarrangiasse Orizzonti perduti con suoni più umani li troveremmo falsi. Tra l'altro è il punto di massima convergenza tra Battiato e i Pet Shop Boys. Battiato ha finalmente capito come gestire una vena crepuscolare (che aveva scoperto per la prima volta dieci anni prima, con Sequenze e frequenze). Da qui in poi le sue canzoni si popoleranno di ricordi, ma nessuno sarà icastico come il padre che si pettinava da una finestra di ringhiera, ("l'odore di brillantina si impossessava di me").


2001: Il cammino interminabile (Battiato/Sgalambro, #182)

Se vuoi conoscere i tuoi pensieri di ieri osserva il tuo corpo oggi. Se vuoi sapere come sarai domani osserva i tuoi pensieri di oggi. Beh, questa è profonda, non c'è che dire. Secondo Zuffanti (Franco Battiato, 2020) è una citazione dal Majjhima Nikaya dove però Buddha diceva qualcosa come "Se vuoi conoscere il tuo passato, osservati nel presente. Se vuoi conoscere il tuo futuro, allora osservati nel presente", che è comunque interessante (oltre che un po' lapalissiano), ma non sembra includere nella riflessione la dualità tra "corpo" e "pensieri", dove il primo è sempre la conseguenza dei secondi. Dopo aver gettato il sasso con questa affermazione, Battiato si diverte a confondere le acque con un collage di frasi in siciliano che non può non ricordare Veni l'autunno – ed è bizzarro che dopo tanti anni la tecnica compositiva di Goutez et comparez e Frammenti resista soltanto nelle rare composizioni nella lingua vernacolare. In un qualche modo forse Battiato vuole dirci di non essere che il momento di una storia che parte molto prima di lui, una storia che non si può conoscere o raccontare se non in modo frammentario. 


2004: Apparenza e realtà (Arcieri/Battiato/Sgalambro, #203)


Tempi tumultuosi e quindi resto confinato nella mia stanza. Onestamente, a 18 anni di distanza, non mi ricordo proprio cosa ci fosse di tumultuoso ai tempi di Dieci stratagemmi – la guerra in Iraq? Il Forum sociale? L'assassinio Biagi – ok, beh in effetti erano tempi tumultuosetti – certo, nulla in paragone a quanto abbiamo visto dal 2020 in poi. Apparenza e realtà è il brano più Krisma tra quelli composti a quattro mani con Maurizio Arcieri: non solo per l'irruzione di Cristina Moser, ma per i suoni davvero meno eterei del solito, addirittura danzerecci. Sospeso in mezzo a tanti espedienti ritmici, Battiato sembra un padrone di casa pentito di aver invitato gli amici: gli trema la voce, non si sente a suo agio. Il pezzo non è affatto male (si può ballare, davvero) ma abbiamo la sensazione che piaccia più a noi che a lui.

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61. Ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una canzone a rovescio, una canzone sulla polluzione, una canzone sul sesso, una canzone sul saperne fare a meno, col tempo]. 

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1969: Gente (Bonoldi/Logiri, #246)

Una battuta forse involontaria che ho trovato su Youtube è "Gente è Iloponitnatsoc registrata al contrario", ok, è una battuta per battiatofili spinti e forse voi ancora non lo siete (anche se state seguendo la sessantunesima puntata di un torneo di canzoni di Franco Battiato, io a questo punto una domanda me la farei). Insomma bisogna sapere che nel 1969, poco prima di licenziarsi dalla Polygram e troncare la sua carriera di canzonettista, Battiato aveva cercato di mettere assieme un 33 giri che avrebbe contenuto per lo più il materiale già uscito su singolo più alcuni inediti (poi pubblicati negli anni Ottanta dall'Armando Curcio Editore), il più strano dei quali è appunto Iloponitnatsoc. Il titolo è "Costantinopoli" al contrario, e la canzone è un frammento di Gente incisa al contrario. Tutto qui, e ben tre anni dopo che Napoleon XIV aveva pubblicato  aaaH-aH ,yawA eM ekaT ot gnimoC er 'yehT, quindi niente di incredibilmente pionieristico, però qualcosa di decisamente diverso da quanto Battiato avesse fatto fino a quel momento. Probabilmente si trattava di poco più di uno scherzo per aumentare il minutaggio del disco, ma è curioso il fatto che tra tutte le sue canzoni abbia scelto di invertire proprio Gente, una delle canzoni più anonime che abbia inciso. La melodia era tutta di Logiri e Battiato stavolta si astenne anche dal partecipare con il testo. Quest'ultimo potrebbe essere il prodotto di un generatore di canzoni d'amore triste: le frasi che Giovanni Bonoldi mette assieme sono di una banalità che sconfina nel nonsense ("Quante notti da solo aspettando l’aurora: fino a domani estate sarà") Battiato le canta senza crederci troppo, suggerendo qua e là una sensazione di autosabotaggio. È difficile, ascoltando Gente, non chiedersi: perché? Ecco, una sensazione simile l'ho avuta la prima volta che ho sentito Ignudi tra i nudisti di Elio e le Storie Tese: perché fare una canzone del genere? Una domanda in effetti abbastanza strana, non è che le canzoni debbano per forza avere un senso, ma Ignudi è come se ti chiedesse di averlo: succedono troppe cose strane che richiedono una spiegazione e alla fine l'ho trovata: Ignudi è il rovescio di un'altra canzone famosa. Con questo non voglio dire che Battiato abbia registrato Gente solo per ottenere, a rovescio, Iloponitnatsoc. Ma forse per un attimo ha sperato che ci credessimo, e in generale voleva dirci che una canzone del genere è più interessante a rovescio che dritta.


1972: Pollution (#118)

La portata di un condotto è il volume liquido che passa in una sua sezione nell'unità di tempo: e si ottiene moltiplicando la sezione perpendicolare per la velocità che avrai del liquido. A regime permanente la portata è costante attraverso una sezione del condotto. Io poi per anni ho creduto che FB si fosse iscritto a una cosa tipo ingegneria e cercasse un sistema per memorizzare gli enunciati o le formule – in effetti oggi Pollution potrebbe essere quel tipo di canzone che ti suggerisce youtube mentre stai ascoltando i pezzi di Lorenzo Baglioni e dei Supplenti Italiani (se non li conoscete ascoltate almeno le Leggi di Keplero). Un'altra suggestione che è impossibile scacciare è che questo disco sull'"inquinamento" (pollution in inglese) stia anche parlando di polluzioni, nel senso italiano del termine: non lo dice da nessuna parte ma in compenso ci parla della portata di un condotto in cui passa un liquido. Pollution costituisce insieme a Plancton il momento più riuscito del secondo omonimo album, e si adorna di un coretto senza parole ("na na na na na") che è la melodia più sfacciatamente Primi Anni Settanta incisa da Battiato – a riprova che nessuna nicchia sperimentale poteva salvarlo dallo Zeitgeist: per quanto si nascondesse e si travestisse, Battiato qualcosa di orecchiabile e cantabile non poteva fare a meno di registrarlo. Poi, certo, poteva cantarci su le sue solite cose assurde (che ai tempi non erano ancora così solite). Atomi dell'idrogeno, campi elettrici ioni-isofoto. Radio, litio-atomico, gas magnetico.


1981: Sentimiento nuevo (#11)

A Battiato mi iniziarono i miei cugini: uno un po' più grande (classe Iloponitnatsoc), uno appena un po' più piccolo (classe Aries). Dunque quando comprarono la cassettina della Voce del padrone, il più piccolo aveva sette anni e per qualche settimana il fratellone riuscì a nascondergli l'ultima traccia. Quando finalmente io e lui riuscimmo ad ascoltarla, forse non ci accorgemmo subito del perché. Probabilmente il cugino grande temeva che gli chiedessimo ragguagli sui desideri mitici di prostitute libiche. Soprattutto dopo averci detto che Segnali di vita era una canzone che esprimeva una cristianissima tensione verso l'assoluto. Uno o due anni più tardi, quando finalmente ebbi un flauto dolce, il cugino grande mi chiese: cosa ci vuoi suonare? Chiedimi qualsiasi aria, vedrai che so insegnartela. Voglio l'introduzione di Sentimiento nuevo, gli dissi. La mia canzone preferita a 10 anni parlava della lotta pornografica dei greci e dei latini. Perdonate l'aldonoveggiamento, ma Battiato è stato anche questo per la mia generazione. Un modo per cominciare a riflettere sul sesso – prima o poi dovevamo cominciare, e molti altri riferimenti non li avevamo. Qualche volta sui cigli della strada trovavamo riviste impiastricciate, ecco, Battiato ci mostrava possibilità diverse. Il sesso non doveva per forza essere sporco, furtivo, volgare. Complicato, questo sì, Sentimiento nuevo suggeriva che fosse abbastanza complicato. Probabilmente sarebbe servita una certa cultura per discernere i riferimenti, è chiaro che lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco non ce lo avrebbero insegnato insieme al flauto dolce. Ma bellissimo. Se La voce del padrone è l'equivalente musicale del Nome della Rosa – un bestseller concepito freddamente a tavolino da un cinico professionista che finisce per prenderci gusto – Sentimiento nuevo è la pagina in cui Adso giace con la pulzella senza nome, anzi la pagina in cui da anziano trascrive l'esperienza in un montaggio di citazioni letterarie sempre più concitate. Il preziosismo linguistico può servire a tante cose – troppo spesso serve a spaventare, a darsi un tono, a creare una distanza tra sé e il pubblico: in certi rari casi diventa un modo di esprimere l'eros sulla carta o in musica. Battiato sta facendo sesso col vocabolario, la sua esuberanza lessicale è già una tecnica di seduzione: il pettirosso gonfia gli addominali, il pavone fa la ruota, Battiato disquisisce di senso del possesso che fu prealessandrino. E cosa c'è di più bello di un pettirosso fiero del suo petto rosso, di un pavone che si pavoneggia, di Battiato che canta le sue cose astruse. La sua voce, come un'oasi del deserto, ancora mi cattura. Ed è ancora bellissimo, scusate, devo andare a suonare una frase introduttiva, torno subito (meraviglioso anche l'hammond finale, dolce e sfumato come l'assopimento postcoitale).


2002: Col tempo sai (Ferré, Defaye , Medali, Simontacchi, #139)

Col tempo tutto se ne va. Ogni cosa appassisce, io mi scopro a frugare in vetrine di morte quando il sabato sera la tenerezza rimane senza compagnia. Può darsi che dei grandi maestri francesi, Ferré fosse il più consono a Battiato ed è un peccato che quest'ultimo ne abbia ripreso una sola canzone (e proprio nel secondo volume dei Fleurs, quello in cui si compiace a movimentare le cose con arrangiamenti elettronici abbastanza sbrigativi). Col tempo sai è una canzone sulla fine dell'amore, di qualsiasi amore: anche di quello per chi ti diceva: Copriti, fa freddo (questo avrebbe davvero potuto scriverlo Battiato, che a Giuni Russo aveva fatto cantare "qui c'è umidità"); anche quell'amore scompare, sai? Quel "sai", a proposito, è una maledizione. Il francese ci illude: è una lingua così apparentemente simile alla nostra, ma appena proviamo a tradurre una canzone, ahi, scopriamo che tutti gli accenti sono fuori posto; il francese è una lingua tronca, l'italiano una lingua piana, tradurre versi brevi in musica diventa impossibile. Servono zeppe monosillabiche, parole di due o tre lettere che non dicono veramente niente, servono soltanto a tenere lo spazio per l'accento, e sono i sai, i mai, i già, i va', non ci puoi far niente, se traduci questa roba ti serve. Col tempo poi cominci a fregartene, tout va bien. Forse il brano più convincente di Fleurs 3, e tuttavia... basta ridare un'occhiata a un'interpretazione di Ferré per capire che c'è una dimensione teatrale, in queste canzoni, che a Battiato manca del tutto. Ma va bene lo stesso, col tempo va bene tutto. 

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60. Le emozionali imprese della specie

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[Questa, ridi e scherza, è la sessantesima giornata di Gara delle canzoni di Battiato. Da due mesi non facciamo altro che ascoltare Battiato, come va? Ho sentito dire che c'è una crisi di governo, povera patria]. 

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1965, 2008: E più ti amo (Amurri, Barrière, Ferrari, Pallavicini, #38)

"Ricordo bene quando venni ingaggiato la prima volta per quei dischi. Il maestro mi fece un provino di qualche secondo; cantai una sola strofa. "Basta, va bene!", e mi convocò per il giorno successivo in sala d'incisione. Mi presentai incosciente: era la prima volta che entravo in un posto del genere. Il pezzo era E più ti amo di Alain Barrière. Mi misi la cuffia. Il maestro mandò la base. Finii di cantare. Mi disse che andava bene. Per me era un successo. Quel giorno ho capito che cantare e fare musica sarebbe diventato il mio mestiere" (Tecnica miste su tappeto, 1992). 

Battiato non amava i suoi dischi degli anni Sessanta. Non gradiva che li ristampassero: si oppose con fermezza a una riedizione ragionata del 33 giri fantasma del 1969. Non li fece inserire nel suo sito ufficiale e non li reinterpretò mai, con una sola eccezione. Questa eccezione purtroppo è una canzone d'amore abbastanza ordinaria ma che per Battiato doveva avere avuto un'importanza fondamentale: con E più ti amo aveva capito che avrebbe potuto farcela. Avrebbe vissuto di musica. Non sarebbe stato facile (nel 1965, oltre a incidere questi flexi disc annessi alla Nuova Enigmistica Tascabile, li recapitava nelle edicole in quanto fattorino della stessa NET) ma sarebbe stato il suo mestiere. Battiato sostiene di "ricordare bene" la circostanza, ma a guardare le date il primo flexi a uscire sarebbe stato L'amore è partito, il 20 febbraio, mentre E più ti amo sarebbe uscito soltanto il 27 marzo (e come lato B). C'è però un altro dettaglio da non sottovalutare, ovvero: L'amore è partito è cantata abbastanza male; sembra difficile pensare che Battiato abbia vinto un ingaggio con una prova del genere. Laddove E più ti amo è veramente la dimostrazione che questo ragazzo sa cantare: non solo la voce è educata ed espressiva, ma si ha la sensazione che Battiato stia modulando il suo timbro per assomigliare il più possibile all'originale che sta imitando – ricordiamo che questi flexi disc sono imitazioni, la gente li portava a casa per avere una versione simile all'originale ma a prezzo scontato. Questo originale non è, come molti scrivono, Gino Paoli, ma lo stesso Alain Barrière che aveva inciso la canzone in un buon italiano con un'affascinante cadenza straniera: ecco, anche Battiato riesce a dare alla sua interpretazione un accento 'altro', e se non sembra un cantante francese, non sembra nemmeno del tutto italiano (ecco uno dei rari casi in cui la fonetica siciliana poteva risultare un vantaggio).

Quarantaquattro anni dopo, Battiato decide di reincidere la canzone nel suo terzo CD di cover, riconoscendo così per la prima volta la continuità sotterranea tra i suoi Fleurs e la precoce carriera d'interprete negli anni Sessanta. La nuova E più ti amo è uno degli episodi più interessanti di Fleurs 2 per come è strutturata: c'è un Battiato contemporaneo che suona la strofa, sull'ottava più bassa, che rapidamente si sviluppa e rivela al suo interno il Battiato giovane, sull'ottava alta, annunciato dalla gioiosa quintina di pianoforte che scampanellava nella versione del 1965 (quasi un campionamento). Come dire che dentro di noi, da qualche parte, c'è ancora il nostro io di vent'anni, anche se di solito preferiremmo che non si vedesse troppo. Perlomeno Battiato per molto tempo ha fatto di tutto per nasconderlo, e soltanto in questo caso ha deciso di esibirlo. Giusto il tempo di due ritornelli. 


1972: La convenzione (Albergoni/Battiato, #219)

Centinaia di anni fa l'uomo viveva sulla terra. Cronologicamente, La convenzione è a metà strada tra Fetus e Pollution, di cui forse anticipa la trama: nel 2000 è successo qualcosa ("la convenzione"), l'umanità si è sparsa sui pianeti e sotto gli oceani. In realtà questo singolo diverge da entrambi gli album in una direzione diversa che Battiato si rifiutò di prendere. Quando parliamo di fase prog, rischiamo un equivoco: negli anni in cui il prog era una nicchia di mercato in espansione, Battiato non era così prog. Avrebbe potuto essere molto più prog. Pino Massara, Gianni "Frankenstein" Sassi, lo avrebbero preferito molto più prog. Uno degli aspetti più curiosi del singolo è il packaging: un 45 giri con copertina apribile era un oggetto piuttosto raro. La BlaBla ci stava credendo molto, in questo Battiato prog, e non badava a spese (nel singolo era incluso persino lo spartito, che al tempo l'autore non sapeva leggere). Il brano è un robusto quattro quarti, la cosa più rock mai tentata fino a quel momento (e fino al Cinghiale Bianco) con uno sfoggio di sonorità che rischiamo di fraintendere: per quanto possano sembrare fuori le righe e avanguardistici, non erano molto diversi in questo caso dai suoni del prog da classifica – sì, in quegli anni il prog italiano arrivava in classifica. Quel che è davvero interessante non è il brano in sé, ma la distanza tra il brano e quelli che usciranno pochi mesi dopo su Pollution: una distanza che ci lascia capire quanto Battiato già nel 1973 fosse sospettoso nei confronti del carrozzone che Sassi e la BlaBla gli stavano montando addosso. La convenzione era l'idea che i suoi manager avevano di lui: lui nel frattempo stava già tentando qualcosa di diverso. Alla Convenzione Battiato tornerà, ed è indicativo, durante il tour di Gommalacca, forse per far fronte a un'esigenza di brani rock da proporre a un pubblico nuovo e non troppo smaliziato. Attenti poi a non cascare in un tranello di Youtube, che a volte smercia come La convenzione del 1973 una versione che è un vero e proprio falso storico, con batteria ancora più dritta e chitarra heavy metal. È la "versione 1997", il bonus dello strano CD uscito nel 2002 proprio col titolo La convenzione, un'antologia piuttosto spuria di brani di Camisasca, Osage Tribe e Battiato – uscita probabilmente all'insaputa di quest'ultimo.   


1998: Quello che fu (Battiato/Sgalambro, #166)

Retrospettivamente bisogna ammettere che Gommalacca è un disco in cui Battiato si prende rischi rari per un artista della sua età e con un pubblico già così consolidato. Certo, era pur sempre Battiato: il diritto a mettere nei solchi quello che gli pareva se lo era pazientemente conquistato. In Quello che fu cerca di operare una sintesi tra un certo suo stile salmodiante (lo sentiamo nell'introduzione elettronica) e il rock lento e tetragono dei CSI di Tabula Rasa Elettrificata, che a un certo punto si impossessa del brano e lo trasforma in un lungo incedere di due accordi scalpellati da una chitarra distorta. Anche il testo di Sgalambro è piegato in tal senso: Fu quello che fu è una tautologia di sapore ferrettiano, potrebbe stare nello stesso taccuino di chi c'è c'è e chi non c'è non c'è, chi è stato è stato e chi è stato non è. Forse per ottenere questo risultato Battiato ha sforbiciato qualche verso di troppo, così che Quello che fu diventa un esempio del suo peculiare anacoluto, la sua tendenza ad affastellare subordinate senza agganciarle a una principale: "Quel che deve ancora avvenire, il sorgere della città di Dio, l'emblema che ci fa forti e sicuri oppure pazzi e disperati". Forse quel che deve ancora avvenire è il sorgere della città di Dio, ma non è così chiaro e probabilmente non vuole esserlo. In questa struttura sferragliante Battiato non riesce a mantenere l'aplomb del sedicente allievo e si concede acuti inconsulti anche per lui. Ci voleva del coraggio. Lui l'aveva.

2007: Tiepido aprile (#91)


Pensieri leggeri si uniscono alle resine dei pini. Se dico che è il mio verso preferito di tutto il Vuoto, cosa dimostro? Una certa insofferenza per le tematiche spirituali che ormai erano il leitmotiv del disco? Battiato stava diventando per me quel tipo di conoscenza con cui preferisci discutere del clima, tutti gli altri argomenti ormai li conosci e preferite evitarli? Oppure mi sto lasciando catturare da un raro esempio di prosodia battiato/sgalambresca, un verso in cui gli accenti cadono dove devono cadere suggerendo ritmo e musica PenSIEri legGEri si uNIscono  alle REsine dei PIni. Addirittura più in là canta al siLENzio lonTAno delle NUvole. Basta davvero così poco per farmi contento? Tiepido aprile mi sembra di gran lunga il più bel momento di tutto il Vuoto. Particolarmente straziante risulta l'ascolto della versione della Royal Philarmonic Concert Orchestra, in Torneremo ancora.   

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59. Che non si parli più di dittature

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con Povera patria e altri tre brani su quant'è difficile vivere insieme a una persona (quale persona? Non si è mai saputo, non era così importante)]. 

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1978: Hiver (per soprano e pianoforte) (#230)


Il primo interminabile turno della Gara sta volgendo al termine e ho la sensazione di non aver ancora parlato di tante cose e persone, ad esempio Alide Maria Salvetta. Prima di Giuni Russo, prima di Alice, è stata la prima voce femminile a lasciarsi plasmare da Battiato, nei dischi del biennio 1977-78: Battiato e Juke-Box. Probabilmente il brano in cui lascia più il segno è questo Hiver, che stasera mi sembra anche il più interessante di tutta la non-colonna-sonora del Brunelleschi. Battiato la fa sussurrare e saltellare tra le ottave: il risultato forse dovrebbe ricordare la sensazione di solitudine che danno i suoni ovattati dalla neve. La canzone parla di un coinquilino che lasciava la finestra aperta mentre fuori nevicava: forse è il primissimo bozzetto milanese di Battiato.    


1991: Povera patria (#27)


Si può sperare che il mondo torni a quote più normali? Che possa contemplare il cielo e i fiori? Il testo di Povera patria sembra il tema di uno studente svogliato che voglia impressionare il prof con quella tipica retorica che si dà per scontato che piaccia ai prof, salvo che non avendo mai veramente prestato interesse a 'quella tipica retorica' (in classe gli arrivava come attraverso una campana di vetro) si ritrova a mimarla con esiti esilaranti – il mondo deve contemplare il cielo, ok, posso quasi capire, ma i fiori? Il mondo deve contemplare i fiori? Ma chi pensi che ci cascherà con questa roba? Tutti. Ci sono cascati tutti. Gli è bastato aprire con una tirata populista per mandare in classifica anche un disco altrimenti incommerciabile, alla fine è riuscito a piazzare 300mila copie di una cosa che per la metà è lui che canta arie di musica classica, che sagoma questo Franco Battiato. 

Con Povera patria si conclude la mutazione da Solito Stronzo a Venerato Maestro. Vien proprio da rimproverare questi governanti, questi perfetti e inutili buffoni: ma non vi vergognate ché avete fatto arrabbiare monsignor Battiato? Con tutto quello che ha da fare, con tutta l'arte che ha da esprimere, con tutti i Lied che deve intonare.

L'anno scorso all'improvviso tutti si sono messi a scrivere "cringe", e quando tutti intendo persino i miei studenti, che almeno hanno il buon motivo di non sapere con quante z si scrive "imbarazzante". Povera patria è il Battiato più cringe. Non è che non avesse già costeggiato pericolosamente l'imbarazzo (in Fisiognomica, ad esempio), ma è in Povera patria che lo abbraccia senza residuo pudore. Sembra quasi che si compiaccia a scrivere versi che oggi immaginiamo in fondo alla sezione commenti degli articoli on line del Fatto Quotidiano, ad es. "che non si parli più di dittature", cioè capite Battiato ha detto no alle dittature, e mica solo ad alcune eh? No a tutte! Ce lo vedo anche incollato su un fumetto apocrifo di Mafalda, e altre manifestazioni boomeristiche che oggi consideriamo giustamente barbarie, ma dobbiamo pure ricordare questo fatto incredibile, che Povera patria è del 1991. Fosse uscita nel 1992 sarebbe stata una speculazione su Tangentopoli e sulle stragi di mafia: ma nel 1991 era una trascrizione abbastanza fedele di come si sentiva la gente. "Non cambierà / non cambierà", "Sì cambierà, forse cambierà". Tutta l'Italia stava cantando questa cosa, tutta l'Italia stava aspettando Di Pietro più di quanto Israele attendesse un Messia. Battiato non era più il profeta scostante che parlava per enigmi: bensì il sacerdote che mostrava al popolo quel che il popolo pensa, con parole semplici e severe. 

1998: Vite parallele (Battiato/Sgalambro, #155)

Tu pretendi esclusività di sentimenti: non me ne volere, perché sono curioso, bugiardo e infedele. Gommalacca assomiglia a certi spettacoli itineranti con un sacco di figuranti che uno alla volta se ne vanno dalla scena, finché negli ultimi numeri non rimane solo il capocomico che finalmente si toglie dalla maschera (la maschera in certi casi è Sgalambro): eccolo qua, Franco Battiato. È bugiardo e infedele: meno male che lo dice lui perché nessuno da trent'anni ha più il coraggio di dirglielo. Sa (come noi) di vivere tra "miliardi di galassie" ("tocco l'infinito con le mani"), ma proprio come noi sembra più interessato a farsi toccare da qualche presenza più vicina e interessata. Si dice convinto che vivrà in eterno, ma questo non gli impedisce di temere "l'oblio, la dimenticanza". Crede nella reincarnazione, ma ammette di praticarla già, reincarnandosi un po' ogni giorno, vivendo "vite parallele, ciascuna con un centro, una speranza, la tenerezza di qualcuno". Viene in mente una cosa che diceva Camisasca in un'intervista qualche tempo fa: non fatene un santino. 


2012: Eri con me (Battiato/Sgalambro, #102)


Siamo detriti, relitti umani, trascinati da un fiume in piena. Eri con me è l'ultima canzone composta da Battiato per Alice. Purtroppo non regge il confronto con i brani degli anni Ottanta (in linea di massima tutte le composizioni di Apriti sesamo, benché non banali, eseguite con intensità e arrangiate con cura, danno la sensazione che Battiato non avesse più molte idee musicali da esprimere). Condivide la generale mestizia del lunghissimo appressamento della morte che Battiato stava raccontando, e presenta un ritornello enigmatico che potrebbe descrivere il rapporto tra due artisti che tutto sommato non hanno collaborato tantissimo, malgrado le scintille che facevano scoccare: eri con me, ma io non ero con te; sei con me, ma io non sono con te; ero con te, ma tu non eri con me. Rispetto alla versione eterea di Alice (che era uscita poco prima), Battiato realizza una canzone più rumorosa e vitalista, coi sintetizzatori e poi l'orchestra e poi basso chitarra e batteria. Più si avvicinava al Silenzio più sembrava aver voglia di far baccano. 

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58. Tornerà la moda dei vichinghi

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una batteria di canzoni da meditazione. Scegliete la vostra preferita come l'adepto si sceglie il tappetino, ohm].   

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1983: Tramonto occidentale (Battiato/Jaeggy, #59)

Friedrich Nietzsche era vegetariano: scrisse molte lettere a Wagner, ed io mi sento un po' un cannibale e non scrivo mai a nessuno. La decadenza è anche questo: quando cerchi di evocare il ciclo dei Nibelunghi e senza volere ti esce Semplice di Gianni Togni – rarissimo caso di plagio inconsapevole, perché davvero non riesco a immaginarmelo Battiato che pensa: adesso per ottenere il correlativo musicale della decadenza nel ritornello passo in maggiore e così l'ascoltatore si renderà conto che quella che sembrava un pezzo di sinfonia elettronica e apocalittica è in realtà Semplice di Gianni Togni (sia la canzone di Togni sia quella di Battiato devono poi qualcosa a Follow You Follow Me dei Genesis). Tra i tanti lamenti per la fine della civiltà che Battiato ha messo sui solchi, Tramonto occidentale si segnala perché è forse l'unico caso in cui il cantautore non osserva la decadenza da qualche astratto piedistallo, ma la vede procedere in sé stesso: è lui che non ha voglia di leggere o studiare, "solo passeggiare sempre avanti e indietro lungo il Corso o in Galleria". È lui che mentre constata che "la famiglia è in crisi da generazioni per mancanza di padri" ammette di essere un solitario, incapace di disciplina, e di divertirsi a osservare i suoi concittadini che sventolano le bandiere "fuori dalle macchine all'uscita dello stadio", con la voluttà di ingaglioffarsi che a volte prendeva Nanni Moretti nei film di quegli anni. È lui che non riesce nemmeno ad ammettere la dipendenza dal tabacco. Non so quanto questo aspetto di Tramonto occidentale – che me la rende molto più simpatica di tante altre sue canzoni sullo stesso tema – dipenda dal testo di partenza di Fleur Jaeggy: non lo so perché non ho idea dell'originale, nessun battiatologo per ora l'ha individuato, e abbiamo già visto che molto spesso Battiato interviene su testi già pubblicati, non necessariamente in versi, sforbiciandoli di molto. 


1991: Gestillte Sehnsucht (Brahms, #187)

Desiderio placato. La predilezione di Battiato per Johannes Brahms – più volte dichiarata nelle interviste – trova finalmente uno spazio per esprimersi nel 1991 sul secondo famigerato lato di Come un cammello in una grondaia: in questo caso oltre a cantare Battiato si prende cura anche dell'orchestrazione, purtroppo lasciandoci un senso di insoddisfazione: dopo aver giocato più volte nella sua carriera con Beethoven, Bach, Ciajkovskij, quando finalmente decide di affrontare Brahms si comporta forse in modo troppo rispettoso per ottenere qualcosa di memorabile. Non so se capiti anche voi qualche volta di svegliarsi con in testa una melodia che non è la solita canzone per l'estate, ma un brano di musica lirica o classica (dipende soprattutto da cosa si ascolta di giorno). Ecco, in questi casi a volte qualcosa ci frena, ci impedisce di canticchiare o fischiettare a cuor leggero quelle che alla fine sono comunque splendide melodie. È il rispetto che si deve alla musica colta, o forse quel senso di distanza che danno le voci impostate. Canticchiando il suo Brahms, Battiato intendeva soprattutto mostrarci che questa distanza è colmabile, abbattere il muro tra la musica fischiettabile e quella non fischiettabile. Non importa che la sua Gestillte Sehnsucht non sia la migliore Gestillte Sehnsucht (ci mancherebbe altro): l'importante è che si possa fare: il Cammello segnalava che lo steccato era caduto, avremmo potuto cantare qualsiasi musica del passato senza vergogna. Quel che è successo è purtroppo l'opposto di quello che auspicava Battiato, ovvero i cantanti d'opera si sono messi a fare dischi pop.  


1993: Lode all'inviolato (#70)

Ne abbiamo attraversate di tempeste. Me la sono cercata: l'altro giorno commentando Delenda Carthago scrivevo: bizzarra per gli standard battiateschi la scelta di impostare tutta la canzone su una progressione di quattro accordi ascendenti. Non avevo notato che in Lode all'inviolato succede più o meno la stessa cosa: Mi-, Fa, Sol, La-. A mia discolpa, la scala è parzialmente dissimulata dal fatto che la voce parte sul La-, dando la sensazione che la progressione cominci sull'accordo più alto. Tra questo e il Mi-, che è il più basso, si protende la scala naturale discendente suonata nell'introduzione dal pianoforte e poi dai violini. Musicalmente, Lode all'inviolato è poi tutta qui: un ciclo breve e quasi ipnotico sul quale Battiato è libero di salmodiare senza fissarsi su nessuna melodia. Persino se non capissimo le parole (e non è che le capiamo proprio tutte) avremmo comunque la sensazione di trovarci più davanti a una preghiera che a una canzone. Non solo una lode, ma anche (e soprattutto) una professione di fede: Battiato rifiuta il male, i "personaggi inutili" che ammette di avere indossato, e indica una via che attraverso la saggezza arriva alla gioia. Tutto molto mistico ma io in quegli anni ero convinto di averlo perso e rimpiangevo soprattutto i personaggi inutili che non indossava più. 


2004: Conforto alla vita (Battiato/Sgalambro, #198)

Ah, quanto fumo si levò che non fu fiamma. A volta Battiato in Dieci stratagemmi dà la sensazione di voler ripassare in alcuni punti meno noti del suo catalogo, come a dire: ricordatevi che facevo anche questo tipo di cose. Conforto alla vita ad esempio sembra, da lontano, uno di quei brani un po' salmodianti del periodo di Caffè de la Paix (vedi sopra Lode all'inviolato), quelli di cui nessuno parla male anche se quasi tutti preferiscono ascoltare qualcos'altro. È una somiglianza solo superficiale, in realtà tante cose sono cambiate, ad esempio la musica è ancora più libera e sfuggente e nel reparto parole c'è Sgalambro che a quanto pare sta maneggiando citazioni scelte da Johann Gottfried Herder, pensatore settecentesco in realtà interessantissimo e molto peculiare (inventò lo storicismo, chiacchierando con Goethe imbastì in sostanza la traccia per il romanticismo tedesco, nel tempo libero litigava su Kant sulla Ragion Pura) che però nelle sapienti mani del nostro filoffo talattico preferito diventa un Budda qualsiasi, un erogatore di massime aspirazionali ("Sii forte e sereno anche nei giorni dell'avverso fato", ok). 

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57. E sommersi soprattutto da immondizie musicali

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, che ne ha scritte più o meno 250. Qui trovate il tabellone aggiornato]. 

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1969: Marciapiede (#251)

Quando ti ho conosciuta, un anno fa, solo per poche lire davi te: ora sei una signora, già si sa: eri sul marciapiede e sei con me. Con Marciapiede finisce, abbastanza ingloriosamente, l'avventura canzonettistica di Battiato: è il lato B del suo ultimo singolo (Vento caldo) ed è anche la prima canzone completamente firmata da lui (che fino al 1967, ricordiamo, non poteva firmarle perché non iscritto alla Siae). I lati B com'è noto servivano a sperimentare cose un po' meno formalizzate; qui invece la musica è abbastanza semplice, in compenso l'argomento è per i tempi piuttosto scandaloso: la storia di un amore che dovrebbe redimere una prostituta di strada – ma Battiato essendo già Battiato, l'amore è destinato a finire e la ragazza a tornare sul marciapiede. Un soggetto da cui Brel o Brassens avrebbero potuto trarre romanze in dieci strofe, purtroppo viene affrontato dal giovane paroliere con espressioni di una banalità sconfortante. Battiato, che nei dischi della maturità abbandonerà la metrica tradizionale, qui vi si muove impettito come in un colletto troppo inamidato, limitandosi alle rime tronche ("sa/già, te/me"). Sembra veramente crederci poco: e del resto racconta la storia dalla parte dell'innamorato che non ci crede più, nel momento in cui la passione cede il passo alla repulsione. Il disco non arrivò nemmeno nei negozi: Battiato aveva già rescisso il contratto con la Polygram, ne furono pubblicate soltanto copie promozionali per la stampa. Lui ci aveva anche provato, a innamorarsi della Canzonetta, ma troppo spesso aveva visto la Canzonetta baciare qualcun altro per continuare a illudersi sulla di lei moralità.

1981: Bandiera bianca (#6)

Siete come sabbie mobili: tirate giù (uh uh uh). C'è un genere di canzone che gli italiani adorano, anche se non lo sanno. Chi lo sa preferisce mantenere il segreto, altrimenti poi gli italiani cominciano a perseguitarti perché vogliono sentire solo quelle. Guccini ha scritto ballate epiche, canzoni buffe, scorci esistenziali, poi una sera s'è incazzato con un critico e ha scritto l'Avvelenata, pentendosene probabilmente nel giro di poche ore, ma l'ha incisa ugualmente e tuttora gliela chiedono, c'è gente che gliela suonerà sulla tomba, salirà a Pavana apposta per rompere i coglioni alla salma. L'Avvelenata è un'invettiva. Gli italiani adorano le invettive, adorano il momento in cui al cantautore saltano i nervi e comincia a puntare il dito contro Alfredo, contro Vincenzo, ma meglio ancora contro di lui, contro gli italiani in generale. A chiunque riesca a capire la cosa è garantito più di un quarto d'ora di gloria, l'anno scorso è capitato ai Maneskin e qualche anno fa a Gabbani con una specie di frullato pseudobattiatesco, una combo Bandiera Bianca + Magic Shop.

Battiato dal canto suo non ci ha vinto Sanremo (lo ha vinto con una canzone di disamore sviluppata da un riff di Beethoven, a orecchio un'impresa più difficile), però forse il segreto della sua improvvisa esplosione nel 1981/82 è proprio l'arrivo in radio di Bandiera bianca, l'invettiva battiatesca per eccellenza. Una variazione sul tema di Up Patriots to Arms, ma la retorica patriottarda cede il passo a un senso di resa magistralmente recuperato da una lirica risorgimentale così brutta che fa piangere di commozione, L'ultima ora di Venezia di Giovanni Berchet. Non è una delle migliori canzoni di Battiato, ma nel suo genere credo sia un capolavoro: posso ascoltarla nel 2021 e pensare che stia parlando dei social network. Battiato inforca gli occhiali neri e, qualsiasi cosa stia davvero dicendo, non possiamo pensare che non stia fissando proprio noi. Come faceva nei primi anni Ottanta a benedire già il razzismo che non gli faceva guardare "quei programmi demenziali con tribune elettorali"?, cioè come faceva a sapere già che il talk show demenziale avrebbe invaso i palinsesti di network tv che nel 1981 nemmeno esistevano; e come faceva a sapere che solo il razzismo nei nostri stessi confronti ci avrebbe salvato dallo specchiarci ogni sera in un Ferrara o un Funari o un Giordano?

Molti suoi fan di qualsiasi età scoprono Battiato così: un predicatore col megafono, desolato dell'iniquità contemporanea. La sua più grande astuzia (che i Gabbani successivi non sempre comprenderanno) è non disperdere i suoi strali sul popolo bue, ma concentrarli su un non meglio precisato manipolo di individui, gli "squallidi figuri che attraversano il Paese". Ovviamente tutti abbiamo in mente qualcuno che rientra nell'insieme, e finché non si fanno nomi e cognomi possiamo andare tutti d'accordo e riconoscere in Battiato il nostro profeta. Per fortuna Battiato si era già stancato del ruolo, sia lodata sempre la sua scarsa applicazione in tal senso. Bandiera bianca è la sua Like a Rolling Stone: lo trasforma in un profeta e lo investe di una missione per la quale non si sente all'altezza: non dissimilmente da Dylan, passerà molti anni cercando di convincere il pubblico che lui non è quello lì, lui è un artista, al limite un mistico, ma non un predicatore. E alla fine, in uno dei momenti più opachi della sua carriera, cederà al pubblico che rischiava di dimenticarlo e inciderà Povera patria.

Quel che seguirà sarà meno interessante: più intrigante secondo me è capire come ha fatto Battiato nel 1981 ad azzeccare un brano atipico come Bandiera bianca, a capire che avrebbe funzionato. Qual era il suo modello? Ovviamente non posso che pensare a Gaber, che aveva passato gli anni Settanta in giro per i teatri a perfezionare invettive sempre più crudeli. Quando è moda è moda è del 1978: in quel periodo Gaber si era stancato del solito accompagnamento chitarra-basso-batteria e aveva chiesto a Battiato e Giusto Pio di curare gli arrangiamenti del suo spettacolo, Polli d'allevamento. Nel 1980 poi era uscito su un 12 pollici Io se fossi Dio, un quarto d'ora in cui Gaber sparava a zero su tutti, compreso chi una dose di pallottole l'aveva già presa non metaforicamente (sì, Aldo Moro). Io se fossi Dio è un'invettiva troppo precisa, che finisce per rovesciarsi su sé stessa e autodenunciare il delirio di onnipotenza dell'attore-cantante. Battiato impara molto da Gaber, ma anche dai suoi errori.

1988: Il mito dell'amore (#134)


Il mito dell'amore muore senza tante cortesie: ti accorgi che è finita da come cadi nell'insofferenza. Composta nel periodo in cui Battiato pensava che si sarebbe dedicato soprattutto alle opere, Il mito dell'amore è un'opera in miniatura: per la prima volta Battiato cerca di raccontare una storia con un inizio, un climax e una fine. Ci mette perfino il coro, proprio nel senso tragico del termine: una coscienza collettiva che commenta l'avvenuta e cerca di tirarne una morale. La sensazione degli ascoltatori di Fisiognomica, al tempo, è che Battiato avesse messo via le maschere: non solo quella di provocatore postmoderno, ma anche quella di memorialista crepuscolare. Il passato non era più un cassetto di ricordi da spolverare, ma una terra dolorosa di scelte difficili che FB rivendica: tra l'amore e la libertà ha scelto la seconda.  

1996: ...ein Tag aus dem Leben des kleinen Johannes (#123)

"Genug, Tony, Genug". Cos'è il Kitsch? Potrei citare due o tre definizioni di Apocalittici e integrati, oppure linkare un brano dall'Imboscata, provo a fare entrambe le cose ma non so se il montaggio funzionerà, al massimo creerò un Kitsch al quadrato.

"[Il brano] tende a proporsi come opera d'arte proprio perché ostentatamente impiega modi espressivi che, per tradizione, si è soliti vedere impiegati in opere d'arte riconosciute come tali dalla tradizione [quindi continuiamo a citare frasi tedesche che fa 100 punti intellettuale, ma relativamente facili da tradurre ed estratte da un libro ben riconoscibile che sta in tutte le buone biblioteche borghesi]. Il brano riportato è Kitsch non solo perché stimola effetti sentimentali, ma perché tende continuamente a suggerire l'idea che, godendo di questi effetti, il lettore stia perfezionando una esperienza estetica privilegiata..."

"...definiremo, in termini strutturali, il Kitsch come lo stilema avulso dal proprio contesto, inserito in un altro contesto la cui struttura generale non ha gli stessi caratteri di omogeneità e di necessità della struttura originaria [una pagina di Thomas Mann in un disco pop anni '90, con un solista mongolo in sottofondo e Ferretti che fa un atto di presenza completamente inutile], mentre il messaggio viene proposto – in grazie dell'indebita inserzione – come opera originale e capace di stimolare esperienze inedite..."

"Kitsch è l'opera che, per farsi giustificare la sua funzione di stimolatrice di effetti, si pavoneggia con le spoglie di altre esperienze, e si vende come arte senza riserve".

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56. Quel paese che ti somiglia tanto

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con un collage steampunk, una grande incompiuta, una versione di Baudelaire che fa un po' ridere e un'altra che assomiglia inopinatamente a Come on baby light my fire. Certo che non ci si annoia con le canzoni di Battiato]. 

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1974: Rien ne va plus: andante (#211)

Lo steampunk è "un filone della narrativa fantastica, e più nel dettaglio di quella fantascientifica, che introduce una tecnologia anacronistica all'interno di un'ambientazione storica". In un certo senso Rien ne va plus è il brano steampunk di Battiato: è una Ethika Fon ethica ambientata a fine Ottocento, quasi Nove, come se qualcuno al tempo avesse inventato un registratore di suoni decente e fosse andato in giro per i boulevard, intrufolandosi nel primo salotto che trovava per captare tracce sonore di concerti, lezioni di danza, applausi e risatine. Benché da nessuna parte vi sia un richiamo a Proust, è l'unico autore di quel periodo che Battiato ha mai citato: se si tratta di un omaggio, è davvero il meno retorico che gli potesse rendere. È un brano a cui Battiato deve aver lavorato molto (non era così facile montare dei rumori in quegli anni) per ottenere un risultato che ancora oggi possiamo scambiare per un'intercettazione ambientale: una specie di viaggio del tempo sonoro. Magari è il motivo per cui decise di includerlo nell'antologia Feedback, un disco della collezione economica Ricordi che per molto tempo sarebbe stato l'unico segno tangibile del Battiato anni '70 nei negozi di dischi.  

1998: Stage Door (Battiato/Sgalambro, #174)


A un giornalista Battiato dichiarò di aver lavorato per un anno e mezzo a Gommalacca, "dalle otto del mattino alle otto di sera". Tutto questo lavoro e poi non è nemmeno riuscito a finire Stage Door...
Gommalacca è un disco pieno di cose, ma in cui si notano anche le mancanze. Non c'è per esempio un brano di sicura presa come era stato La cura per il disco precedente. Certo, mica si può sempre scrivere un pezzo come La cura: e però riascoltando una delle versioni di Stage Door si ha la sensazione che sì, un brano del genere Battiato l'avrebbe potuto scrivere: i fondamenti li aveva già trovati, anche il ritornello che sarebbe piaciuto senz'altro. 

Sapessi che dolore l'esistenza
che vede nero dove nero non ce n'è.
Il fatto è che non posso più tornare indietro
che non riesco a vivere con te né senza di te.

Insomma nel 1998 Battiato aveva scritto la sua With or Without You. Su una progressione semplicissima, ipnotica (Re minore, Do, Si bemolle), un testo che alludeva ai suoi giorni più difficili (la depressione post Pollution?) con un testo che Aldo Nove considera "uno dei suoi testi autobiografici più intensi (forse il più intenso in assoluto)". C'era un successo sicuro, nascosto nell'involucro di Stage Door, ma Battiato non ha voluto tirarlo fuori. Si è fermato un po' prima; ha scartato il brano dalla scaletta dell'album e ha poi incluso due demo nel singolo di Shock in My Town (una canzone molto meno immediata di Stage Door). Perché l'ha fatto? Mi vengono in mente due ipotesi contrarie. La prima è che non voleva piacere troppo, che un successo come quello ottenuto con La cura lo indisponesse. I classici che scrivi sono le canzoni che ti definiscono, quelle che ti chiederanno sempre ai concerti, quelle che suoneranno in radio quando muori; Battiato forse sentiva di averne scritte abbastanza. L'altra ipotesi è che avesse paura di deludere il suo pubblico, di tradire una certa immagine che ormai si era costruito, di uomo saggio al di sopra del vincolo delle passioni. Il Super-Battiato di E ti vengo a cercare e della Cura, ecco: in Stage Door si rimette in discussione, ammette le proprie debolezze e forse persino le proprie ipocrisie, con affermazioni che nella prima versione colpivano per l'insolita crudezza. Non è un caso che quando decide di offrire una versione definitiva della canzone, undici anni dopo in Inneres Auge, Battiato tagli gran parte delle affermazioni più intense (provocando lo sdegno di Aldo Nove).

1999: Invito al viaggio (Battiato, Baudelaire, Sgalambro, #83)


Baudelaire è difficile da maneggiare. È un classico, ma è di quelli che bisognerebbe leggere la prima volta da adolescenti, così da potersi sciogliere un po' di nostalgia quando lo si riapre in seguito. Se non è successo (via, non succede quasi mai) bisogna addirittura fingersi adolescenti per apprezzare certe cose. Battiato, se proprio gli interessava L'invitation au voyage, avrebbe potuto riprendere la bella versione di Leo Ferré. Ma siamo negli ultimi minuti di Fleurs, quelli che a partire da Gommalacca sono consacrati agli esperimenti, e qui Battiato decide di affidarsi a una traduzione parziale di Sgalambro. Non solo, ma decide di fargliela recitare nei primi minuti della canzone. Ora, è chiaro che io sono prevenuto contro questo povero filosofo. Ce l'ho con lui per motivi che magari all'inizio erano oggettivi ma ormai hanno trasceso, ormai nella mia testa l'ho trasformato in un simbolo di tante cose che non mi piacciono e non gli perdono niente, neanche come pronuncia "cielo" (lo pronuncia col dittongo "ie"). Per cui magari è completamente colpa mia se mi metto a ridere quando declama "Ti invito al viaggio in quel paese che ti somiglia tanto", che è la cosa che d'ora in poi dirò a tutti quelli che mi offendono. Nessuna traduzione degli stessi due versi aveva mai suscitato in me una simile ilarità, e dire che non sono più adolescente da un pezzo. Ma forse da adolescente prendevo le cose più sul serio. Sicuramente Baudelaire più sul serio. Insomma qui io dovrei parlare di questa interessante composizione di Battiato in cui canta alcune strofe dell'Invitation au voyage, con una coda (che in Joe Patti diventerà un brano a sé) in cui l'illusorio paradiso del poeta viene denunciato come tale: la vera saggezza infatti è dire addio a quel paese felice. Dovrei parlare di questo, ma mi metto a ridere, per cui ci rinuncio. Sentitevi liberi di mandarmi a quel paese che mi somiglia. 

2008: Niente è come sembra (Battiato/Sgalambro, #46)

Rovinò lungo la china. Solo chi ha un destino rovina. Niente è come sembra è uno di quei singoli del tardo Battiato che somigliano a qualcosa ma non riesco a capire cosa (un altro esempio è Tutto l'universo ubbidisce all'amore). La sensazione è probabilmente causata dal fatto che assomigliano a 'tante' cose: il ritornello di Niente è come sembra in particolare è imbastito su quella cadenza IV-V-I tipica di così tanti brani che diventa ozioso isolarne uno: Il cielo è sempre più blu? Light My Fire? Quest'ultima, oltre al ritornello replicato tre volte, ha anche la strofa che comincia bizzarramente sull'accordo di sesta in minore, proprio come Niente è come sembra, il che forse spiega perché ogni volta che mi metto a pensare a cosa mi ricorda questo brano così traboccante di saggezza orientale, mi si piazza davanti Jim Morrison che si struscia la patta contro l'asta del microfono. Ma sono sicuro che c'è una canzone molto più somigliante – cercare i plagi musicali è come cercare la lettera rubata di Poe, è inutile frugare nei minimi angoli, è molto più probabile che si tratti di qualcosa di evidentissimo, qualcosa che ti sfugge proprio da tanto che è evidente. E forse alla fine l'ho trovata. Mi ha messo sulla pista giusta il brano finale dello stesso album, Stati di gioia, che negli ultimi secondi cita i Beatles: She loves you yeah yeah yeah. No, Niente è come sembra non assomiglia a She Loves You, neanche per sbaglio. Ma è una canzone che dice anche Niente è reale... ricorda qualcosa? Era Lennon a cantare "Nothing is real", in Strawberry Fields Forever. E anche in Strawberry nel ritornello compare la cadenza IV-V-I, anche se non è il momento in cui canta "Nothing is real" . Questa ipotesi, mi rendo conto, è inficiata dal fatto che prima di glossare le canzoni di Battiato ho passato due anni a glossare le canzoni dei Beatles e questo mi ha impedito di scoprire altri mondi musicali da cui magari Battiato ha preso la stessa cadenza. In fondo niente è come sembra. 

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55. Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia

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[Questa è la Gara, oggi molto difficile per me, con due tra i miei brani preferiti di Battiato e nessuno dei due è Up Patriots to Arms].

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1974: Da oriente a occidente (#147)

Padre, fammi partire. Tutto ciò che resta di un abbozzo di concept album su una civiltà che vive nel cono di un vulcano sopravvive nell'ultimo brano di Sulle corde di Aries, un pezzo che ancora una volta si inserisce felicemente nell'immaginario prog-rock dei primi anni '70 (mondi immaginari tra medioevo e futurismo, viaggi fantastici) ma tradisce anche il vissuto del cantautore emigrato al nord, qui impegnato in uno scontro immaginario col padre che resta un unicum nella sua produzione ("mi appare in sogno Venere, tu padre, che ne sai?"). Di solito non ci facciamo caso, ma l'Italia ha una sagoma in gran parte diagonale: quel viaggio che siamo portati a definire da sud a nord, è anche un viaggio da oriente a occidente. Probabilmente è il più riuscito tra i brani in cui la ricerca musicale di Battiato si rivolge a un passato ancestrale, qui più vicino al medioevo mediterraneo che all'Asia: non solo gli strumenti tradizionali (tabla, mandolino), ma anche e soprattutto il synth suona come un arcano strumento del passato. Poche canzoni cominciano con un verso bello quanto "riduci le stelle in polvere". 

1980: Up Patriots to Arms (#19)

Alla riscossa stupidi, che i fiumi sono in piena! Potete stare a galla! Può darsi che sia tutto dipeso da una mera congiuntura economica, ovvero: a fine anni Settanta la gente compra sempre più 33 giri. Più ne stampi più la gente li compra, stava succedendo in tutto l'Occidente. C'è mercato per tutto, per la disco e per il punk e per lo yacht rock e per qualsiasi cosa che ti venga in mente di proporre, bisogna farsi venire in mente idee alla svelta, qualsiasi idea, bisogna vegliare alla stazione perché in qualsiasi momento può passare quel treno carico di frutti. Alcuni passavano di lì per caso, sono saliti al volo e sono ancora lì dopo quarant'anni che non credono al culo che hanno avuto. Altri erano farabutti senza arte né parte, gente alla ricerca di soldi facili e non solo riuscirono a farli, ma incisero anche dischi decenti, talvolta geniali, era un periodo così (c'erano anche ottimi musicisti cresciuti negli anni del prog in grado di lasciare impronte indelebili negli arrangiamenti). Altri erano onesti lavoratori che dopo anni di gavetta, finalmente coglievano il frutto del loro meritato eccetera – altri avevano passato buona parte del decennio immersi in cose non chiare nemmeno a loro, avanguardie artistiche, meditazione e/o esoterismi e/o musica elettronica, e però se c'era un momento in cui persino loro avrebbero potuto mettersi sul mercato e far soldi, quello era il momento, e Franco Battiato lo azzeccò. 

Per questo Up Patriots to Arms mi fa un po' incazzare, come quando leggi i classici di qualche perduta età dell'oro e ti accorgi che non fanno che lamentarsi anche loro del tramonto dei costumi e dell'imbecillità dei giovani. Il Battiato che canta "la musica contemporanea mi butta giù" sta vivendo negli anni più vivaci della storia della musica italiana. Il momento in cui da avanguardista con velleità stockhauseniane si ritrova a sbancare le classifiche e vincere Sanremo (da autore) è lo stesso in cui Dalla da interprete diventa cantautore, De Andrè da cantautore assurge a nume tutelare della world music, Paolo Conte da autore si trasforma in uno spettacolo d'arte varia, Lucio Battisti anche lui si evolve in qualcosa che sinceramente devo ancora capire, De Gregori da cantautore duro e puro diventa l'autore della Donna Cannone, Vasco Rossi azzera il concetto di rock italiano, i Matia Bazar, gli Skiantos, Fossati, Bennato, Finardi, Giurato, insomma tra il 1978 e il 1984 succede qualcosa di incredibile e, mi dispiace, mai più successo. È un periodo straordinario non soltanto per la quantità di talento rilevato – anzi può darsi che in altri periodi ne sia stato scoperto di più, allo stato brado – ma per il modo in cui tantissimi artisti anche di punta decidono di stravolgere la propria carriera, ognuno per una serie di motivi non sempre e del tutto chiari ma alla fine può darsi che tutto sia dipeso da una mera congiuntura economica: da qualche parte c'era un enorme mucchio di soldi che poteva piovere sul primo che azzeccava una formula diversa. Non è che fosse proprio una gara a chi arrivava primo, ma alla boa del milione di copie in ogni caso arrivò primo Battiato, pochi mesi dopo aver chiamato alle armi contro l'imbecillità dilagante. In un certo senso Up Patriots è il brano più punk che ha scritto, se vogliamo riassumere l'attitudine punk nel mostrare il dito allo status quo; è anche il brano più new wave, che ha scritto, almeno nella versione del 1980. Ma a drizzare le antenne è anche il brano più disco, è da lì che viene quella progressione Sol-La-Si tutta in maggiore (che poi riprenderà nella Stagione dell'amore e, con una variante, sul finire del ritornello di Centro di gravità). È un Battiato che ci disprezza e nello stesso momento le sta provando tutte per piacerci, e allo stesso tempo se ne rende conto e si disprezza a sua volta. Per dirlo con parole sue (che non sono affatto sue, ma lo diventano nel suo più geniale cut-up): chi vi credete che noi siamo, con i capelli che portiamo? Noi siamo delle lucciole che stanno nelle tenebre. Molto prima che Sgalambro lo convincesse a usare in una canzone la parola "puttana", Battiato lo aveva chiarito a modo suo: chi credete che io sia, coi miei modi da profeta? Avanti patrioti, alzate le barricate. Armatevi e partite.


2000: The age of hermaphrodites (#238)

L'abisso originale, l'autonomia dell'infertile. The age of hermaphrodites è il brano di Campi magnetici che più facilmente si imprime nella memoria dell'ascoltatore. In parte per l'efficacia del collage rumorista della prima parte, con cori campionati e disturbi elettrostatici. In parte per la melodia centrale, che sorge dal silenzio del rumore come un carillon e ci ricorda per la prima volta che quello che stiamo ascoltando sarebbe un balletto. Nei sei minuti di The age ritroviamo sovrapposte le numerose incarnazioni del Battiato compositore, al punto che se qualcuno avesse solo sei minuti per spiegare che musica faceva Battiato quando non cantava, non si potrebbe consigliare una traccia più esauriente di questa. Ci si sente il rumorismo di Clic, i collage sonori di Za. i cori di Juke Box, il minimalismo dell'Egitto, persino una vaghissima traccia di quell'impulso alla tarantella che venava i primi dischi prog.  


2012: Caliti junku (Battiato/Sgalambro, #110)

Milioni di anni luce, la legge che esprime si illumina di cielo. Mindfulness, la forma è sostanza, la forma è sostanza, mentre il vento mi porta improvvise allegrie. 

Cosa sta dicendo?

Quello che sto per scrivere potrebbe essere sgradevole. Chi ha familiarità con l'alzheimer a volte ha questa sensazione, che più che una sindrome si tratti di un destino. C'è quel tipo di persona che per anni ti ha incantato per la sua intelligenza scoppiettante, per come sapeva passare da un aneddoto a un ricordo a una teoria scientifica a una canzone sempre tirando un filo che riusciva a non perdere mai, ecco, è orribile, proprio quel tipo di persona a un certo punto il filo lo smarrisce, o vede fili dappertutto, i racconti si ingarbugliano e il presente scompare. Può succedere molto, molto tempo prima che arrivi una diagnosi. Caliti junku parte dalla celeberrima aria Che farò senza Euridice di Christoph Willibald Gluck; Prosegue confrontando due proverbi; uno è per aspera ad astra, l'altro è cinese o tibetano ma potrebbe essere anche arabo o siciliano e dice così: chinati giunco, che passa la piena. Chinati giunco, da sera a mattina. Non è che tutto questo non abbia un senso. Non è che Battiato e Sgalambro non ci abbiano già abituato a spettacolari salti dal palo alla frasca. Battiato si è sempre espresso in modo frammentario e apodittico, ha sempre giocato a cortocircuitare i significati accostando manufatti culturali diversissimi. Cos'è cambiato quindi? Niente, o poco, appena una sensazione, o forse siamo cambiati noi, siamo diffidenti e abbiamo paura della nostra stessa diffidenza, abbiamo paura di voltarci e scoprire che Battiato non è più lucido, che Euridice non c'è più. Nella seconda strofa esplode tutto, e il brano diventa la cosa più rock di tutto Apriti Sesamo, con l'intervento di Chiara Vergati che canta all'unisono con Battiato, in inglese. Si lamentano dei tempi violenti. Rifugiamoci nella vuota essenza, dicono.

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54. Il giorno della fine non ti servirà l'inglese

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, dove scopriremo che Sgalambro disprezza le foreste, Battiato non esclude, in una vita precedente, di essere stato un mantello, Strauss in quattro quarti non è comunque ballabile e il re del mondo ci tiene prigioniero il cuore – di quest'ultima cosa avevate già più che un sospetto, credo]. 

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1979: Il re del mondo (Battiato/Pio, #51)

Un giorno in cielo fuochi di Bengala: la pace ritornò. È un ricordo? Battiato è nato un mese prima della Liberazione. La guerra, per la sua generazione, è un ricordo ancestrale, di figli della catastrofe,  molto spesso ricostruito a posteriori e rivissuto con uno strano senso di appartenenza. Battiato ha davvero sentito gli aerei angloamericani rombare sulla piana di Catania? Senz'altro li ha sentiti nel dopoguerra, Sigonella è vicinissima a Jonia. Quanto al "re del mondo", è una suggestione ripresa da René Guénon, nello stesso disco in cui Battiato aveva sentito la necessità di prendere le distanze dall'"esoterismo di René Guénon": l'ipotesi di un'autorità cosmica che regola le nostre vite e forse ci impedisce di godercele pienamente. 

Battiato andava molto orgoglioso del Re del mondo. Ancora anni dopo raccontava che "molti poeti" lo avevano chiamato per congratularsi per il distico iniziale: strano come il rombo degli aerei da caccia un tempo stonasse con il suono dei gerani sui balconi. Come aveva fatto questo ex cantante ex musicista sperimentale a uscirsene all'improvvisto con un testo tanto profondo e tanto riuscito? È più o meno lo stesso enigma che due anni prima aveva posto agli ascoltatori Lucio Dalla col suo primo disco da cantautore, Com'è profondo il mare. Sia Battiato che Dalla per molti anni avevano scritto ben poche parole: verso la fine dei Settanta all'improvviso si ritrovano autori di alcuni testi di grandissimo valore, senza capire bene come sia successo. "Io rispondevo che le frasi erano venute così, senza particolare rovello. Senza impegno metodologico". Che forse è anche il motivo per cui sia Dalla sia Battiato non riusciranno a replicare il miracolo: continueranno a scriversi i testi ma Dalla non supererà mai l'exploit di Corso Buenos Aires, e anche Battiato forse non ha più scritto qualcosa come "sulle biciclette verso casa la vita ci sfiorò". 

Una prova della predilezione di FB per il brano è la decisione di reinciderlo nel 1985 in Mondi lontanissimi, nella versione per tastiere Roland e orchestra che in quel periodo stava approntando per i dischi in inglese e spagnolo. La decisione lascia supporre che Battiato non condividesse del tutto le scelte operate nel 1979 dalle maestranze di Alberto Radius, chiamato dalla EMI per risollevare il destino commerciale dell'Era del cinghiale bianco. Eppure una delle ragioni del fascino del Re del mondo stava proprio nella linea di basso di Julius Farmer, obliqua e ipnotica, che nella versione del 1985 non si sente più. Le successive versioni live hanno parzialmente corretto l'errore, riconoscendo il contributo di Farmer. 


1995: Moto browniano (Battiato/Sgalambro, #206)

Stavo giusto riflettendo di come la battiatistica sia una branca del sapere in teoria già piuttosto sviluppata – in una buona biblioteca ci sono già abbastanza volumi da tenere una mensola, e continuano a uscirne, ad esempio quest'anno ne ha scritto uno Scanzi, il che fa riflettere, perché è stato un anno piuttosto ricco di avvenimenti ma lui comunque ha preferito uscire con un suo studio su Battiato (l'ho trovato in libreria e ho aperto su una pagina a caso. Parlava di Scanzi). E malgrado questo ho la sensazione che siamo ancora alla superficie, ad esempio si può essere veri battiatisti senza aver letto Gurdjeff? E Thomasson? E Sgalambro? No, non si può – e tuttavia la vita è così breve, la civiltà occidentale ha i giorni contati, nel giorno della fine avremo veramente bisogno di una battiatistica così sofisticata? Non lo so, ma a volte ho la sensazione di scrivere sciocchezze che nessuno comunque è abbastanza competente da correggermi. Per esempio, qui Battiato confessa: Provo sdegno verso alberi e fogliami, foreste onnipossenti. E già ci immaginiamo uno Sgalambro-Nonno-Simpson che alza il bastone sul povero boschetto innocente. Ma sarà tutta colpa del filosofo? Nel suo "aforisma" (perché lui scrive aforismi, capite, mica pensierini), in realtà Sgalambro scrive "Porto un certo sdegno verso alberi, verdi fogliami, foreste onnipossenti e festose". Ok, è simile, ma non è proprio la stessa cosa. E se gran parte dell'umorismo involontario che m'impedisce di ascoltare le canzoni di sgalambro non derivasse dalla prosa di costui, ma dalle scelte che Battiato compie sui suoi testi? Non lo so, non mi pare, ma per verificarlo dovrei veramente leggermi tutti quegli adelphini che francamente pure Nietszche impacchettato in quel modo m'indisponeva, non credo che ne sarei in grado. E temo che nemmeno Scanzi sia in grado. Quindi? Siamo veramente competenti per capire quel che cercavano di fare questi due matti con Moto browniano? No, forse no. Ci lasciamo sedurre dal titolo, ci pare che il modo di salmodiare di Battiato su un tema sfuggente non si allontani molto dal moto browniano delle particelle; rileviamo l'amore per i "paesaggi lunari, spugnosi, dove la massa pietrosa giace inerte", in anticipo su Tabula Rasa Elettrificata, insomma tra Sgalambro e Ferretti c'era una convergenza insospettabile. E Fabio Zuffanti nota verso il secondo minuto una scala che si sentiva anche nel terzo movimento del live del Telaio magnetico, ecco se dovete scegliervi un battiatologo direi che Zuffanti fin qui non teme rivali (di sicuro non teme Scanzi).        

1998: Il mantello e la spiga (Battiato/Sgalambro, #78)

E fosti pure un'ape delicata, il gentile mantello che coprì le spalle di qualcuno. No, aspetta, come sarebbe a dire il gentile mantello? Cioè adesso ci reincarniamo anche negli oggetti? Oppure era un mantello di pelliccia di un animale, ma quando è morto l'animale non funziona che l'anima si reincarna subito in qualcos'altro, un insetto o un filosofo talattico?, cioè capisco che non bisogna schiacciare la formica che potrebbe essere mio zio, ma adesso che faccio, devo stare attento anche ai mantelli e ai capi di vestiario in generale?

Non c'entra necessariamente molto, ma riascoltando Il mantello e la spiga mi viene in mente quella storia di Giovanni Lindo Ferretti che torna dalla Mongolia con tante idee per un disco etnico, poi va a vedere cosa stanno preparando i restanti CSI e li trova da qualche parte in una cascina o in una malga che stanno suonando del rock peso neanche fosse il '91, sicuramente non il '77, e sulle prime resta scettico, cioè secondo voi adesso io dovrei mettermi a urlare al microfono dei ritornelli rock? Ormai ci ho un'età. In effetti aveva già passato i 45 anni. Battiato ne aveva almeno dieci di più. Il mantello è uno dei tutto sommato pochi suoi brani che risentono chiaramente dell'influenza dei CSI, vuoi perché quella Tabula Rasa uscita l'anno prima gli era piaciuta molto, vuoi per una convergenza evolutiva che attraverso percorsi diversi portava artisti di generazioni diverse allo stesso punto, e il punto era un rock lento, sferragliante e monocorde. Certo, molti ci sono affezionati, più o meno quelli che avevano dai 25 anni in su in quel momento. Ed esclusivamente in Italia; globalmente la musica leggera stava prendendo altre direzioni, il rock si stava prendendo una grossa pausa tra il grunge e un ritorno di fiamma negli anni Zero. Battiato, che in tutta la sua carriera al rock si era concesso poco, era più aggiornato quando ascoltava i Prodigy o gli Underworld. Ma in Italia nel '97 i CSI si erano presi il primo posto in classifica (ok, in agosto), la causa o il primo effetto di un bizzarro anticiclone in cui si fece coinvolgere anche FB. Forse un equivoco: per tre o quattro anni abbiamo deciso che la musica del futuro non sarebbe poi suonata molto diversa da quella della nostra infanzia. Non aveva senso da nessun punto di vista, né commerciale né esistenziale né estetico. Una vague in controtempo che forse rifletteva la difficoltà di una generazione a uscire di casa: alla fine tutti i protagonisti avevano più di trent'anni. 

Fare il verso ai CSI, comunque, non era difficile: bastava salmodiare su una nota sola, rallentare il tempo e alzare il volume alla chitarra, Battiato ne era senza dubbio in grado. Lo stesso Sgalambro consegna un testo ferrettiano senza apparente sforzo – quel "Lascia tutto e seguiti" così lapidario anche se poi alla fine cosa vuol dire? Niente, quello che deve accadere accade, chi è stato è stato e chi non è non è, e così via. Sembrava saggezza, vabbe', eravamo giovani. No, non eravamo nemmeno così giovani. 

2002: Beim Schlafengehen (Richard Strauss, #179)

Può darsi che il primo volume di Fleurs sia stato uno di quei colpi di genio e fortuna così imprevisti che finiscono per danneggiarti. Dopo aver inciso con relativa rapidità e facilità uno dei suoi lavori migliori (e più venduti), Battiato potrebbe essersi fatto tentare dalla possibilità di riprovarci pochi anni dopo riducendo ulteriormente gli sforzi. In fondo che ci voleva? Basta scegliere nelle canzoni, cantarle con cura, e un disco si fa. Massima resa per minima spesa. Questo spiegherebbe come mai il secondo volume di Fleurs appaia un lavoro così sbrigativo, in cui si accumulano una serie di scelte che è difficile non definire sciatterie – che ci fa la drum machine in questo Lied, per esempio, cosa porta di interessante? Alla fine dell'album, quando come di consueto arrivano i brani più eccentrici, Battiato vuole dimostrare che anche Richard Strauss può funzionare con un bel quattro quarti ballabile? Se l'idea era trasformare completamente il Lied in un pezzo elettronico, magari techno, deve essersene stancato, lasciando il progetto a metà: sembra ancora un Lied, ma con questa traccia di batteria da discount che indispone dal primo secondo (e che no, non lo rende ballabile)    

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53. Le mie mani diventano squame!

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con quattro titoli in cinque lingue diverse e molto impero romano]. 

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1973: Plancton (#142)

I miei capelli diventano alghe! Amare Battiato, si fa presto a dire amare Battiato, ma a che punto? Al punto in cui ti mettevi a letto con la cassettina di Feedback nel walkman sotto le lenzuola e quando i capelli diventavano alghe ti venivano i brividi? Perché questo, per esempio, è amare Battiato. Pollution è il disco maggiormente combattuto tra le due anime dei primi '70, prog e sperimentale. La sperimentazione non si è ancora (del tutto) ammantata di quelle istanze metapsichiche e intellettualoidi che interverranno in seguito: è ancora basata sull'esplorazione di mezzi tecnici che Battiato sta imparando a manipolare. Il prog nel 1973 in Italia è già un genere codificato, con un suo mercato: non è (sempre) roba raffinata per palati fini, c'è un pubblico vuole essere suggestionato da testi fantascientifici e musiche arcane, è una musica che guarda al futuro ma si carica anche di una gran voglia di riscoprire gli incanti del passato, un'estetica pagana o medievalista che di lì a pochi anni trasformerà Angelo Branduardi in una recalcitrante rockstar da stadio. Battiato a Milano quest'aria la respira, molti anni dopo riprenderà con affetto Impressioni di settembre della PFM, che era il lato B di un altro pezzo di ambientazione medievale, La carrozza di Hans. Insomma l'idea di inserire sonorità arcane e patinate di antico in un disco fantascientifico come Pollution in quel periodo sembrava quasi ovvia ed è il felice paradosso che rende ancora straordinariamente ascoltabile il secondo lato di questo disco strambo: il synth non è un magico congegno che suona qualsiasi cosa tu pretendi, ma un strumento arcano a cui l'artigiano deve strappare faticosamente qualcosa di ascoltabile. Prima FB crea l'atmosfera con chitarre arpeggiate e voci riverberate; poi canta le due strofette inquietanti (che sono davvero la cosa più 'prog italiano' che ha scritto), e infine trasforma la canzone una ipnotica tarantella in cui strumenti tradizionali e sperimentali si sovrappongono senza mescolarsi. Se la riascolto in cuffia a tarda ora, un brivido tuttora mi coglie. 

1993: Delenda Carthago (#115)

Ecco una canzone di Battiato che avrebbe potuto assolutamente scrivere Sgalambro: e invece a quanto pare ai tempi di Caffè de la Paix i due ancora non si conoscevano. Eppure i legami tra questo disco e il successivo Ombrello sono talmente forti che non ci resta che considerare lo Sgalambro lirico una specie di evoluzione/involuzione del Battiato lirico. C'è già il riutilizzo del passato con funzionalità metaforiche (l'imperialismo Romano come figura di quello che Bush padre aveva guidato in Iraq nella prima guerra del Golfo); ma a distoglierci dal quattro complessivo c'è il gusto per i dettagli preziosi (il vino fruscia in calici screziati). Davvero, lo si direbbe un testo di Sgalambro, non fosse che quando Sgalambro di cimenterà con lo stesso argomento riuscirà a fare di peggio (vedi il brano qui sotto). Bizzarra per gli standard battiateschi la scelta di impostare tutta la canzone su una progressione di quattro accordi ascendenti, col risultato di farci aspettare per tre minuti una risoluzione che non arriva (i barbari?)


1996: Decline and Fall of the Roman Empire (Battiato/Sgalambro, #243)


Si diceva proprio ieri di come i barbari molto spesso non si rendano conto di essere tali, e si convincano di essere i difensori di un impero che in realtà li ha fatti entrare qualche anno prima per ovviare a emergenze che essi scambiano già per un'età dell'oro: si citava il grande generale Stilicone, che qui Sgalambro definisce perfido, e va bene Manlio, difendilo tu un mezzo impero senza commettere qualche perfidia. Ma soprattutto: ti credi più classico di lui? Non ti rendi conto che stai collezionando citazioni come un pastorello che metta assieme una montagnola di cocci d'anfora, cos'è che stai dicendo esattamente, come fanno le ciliegie di un giardino a "sprizzare il loro succo" sulla tua "faccia slavata", che razza di ciliegie si spruzzano autonomamente sui passanti, come fai a svicolare "per viuzze piene di profumi e unguenti" mentre leggi "l’Anatomia dell’urina di James Hart assieme al Vangelo secondo San Matteo", fammi capire, passeggi leggendo due libri alla volta, non è che ogni tanto vai a sbattere contro cesti di ciliegie e nemmeno te ne accorgi? "Qui a tre passi la decadenza avanza", tesoro, ma davvero non capisci che la decadenza sei tu? Decline and Fall, scritto in inglese perché fa più citazione colta, non è mai diventata una vera e propria canzone, ma per qualche motivo Battiato ha voluto comunque includerla nel singolo di Strani giorni in una versione demo fatta in casa che contiene una traccia di drum machine così approssimativa da risultare irresistibile, perché mentre sbagliare un fill con una batteria è normalissimo, per riuscire a sbagliare con una batteria programmata ci vuole dell'impegno, uno si domanda seriamente come Battiato ci sia riuscito. 

1999: La canzone dei vecchi amanti (La chanson des vieux amants, Brel/Jouannest, Del Prete, #14)


Ma c'è voluto del talento per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti. La canzone dei vecchi amanti è la quattordicesima più ascoltata di Battiato su streaming – la prima in assoluto tra le cover, tre posizioni sopra Ruby Tuesday. È insomma un brano che piace molto e che un sacco di gente va a riascoltarsi – non necessariamente battiatisti: mi sono fatto questa idea, che La canzone sia un brano trasversale che piace anche a chi FB non lo conosce o non lo apprezza. Viceversa chi è più abituato al Battiato classico può trovarsi a disagio, l'idea di due amanti che invecchiano assieme è l'opposto di quasi tutto il concetto di Fleurs (anche se Battiato e soprattutto Sgalambro non hanno evitato l'argomento, vedi ad esempio Tutto l'universo ubbidisce all'amore). È l'unica cover di Jacques Brel, il che se da un lato dispiace, dall'altro sembra inevitabile: le canzoni di Brel richiedono un tipo di esecuzione teatrale che non era nelle corde di FB (è il probabile motivo per cui si è tenuto a rispettosa distanza dal catalogo di Gaber). Anche in questa occasione, Battiato si trova davanti un originale in cui su un sottofondo di pianoforte e basso, la voce fa quasi tutto: sussurra, piange, declama, invoca, la voce di Brel riempie la canzone come un mattatore il palcoscenico. Battiato se ne guarda bene e si mantiene su un range più limitato: per riempire gli spazi vuoti coinvolge persino una fisarmonica (un bandoneon?) che accresce una certa sensazione di tango, che poi in Italia è davvero una musica per vecchi amanti. Questa necessità di smussare gli angoli lo porta a scegliere la traduzione di Del Prete, meno concreta rispetto a quella di Bardotti usata da Patty Pravo o Rossana Casale. Per fare un esempio, Bardotti cominciava così: "Ci sono stati giorni grigi, tanti anni insieme è la pazzia. Hai fatto già mille valigie ed io ti ho scritto mille addii", Del Prete invece: "Certo ci fu qualche tempesta, anni d'amore alla follia. Mille volte tu dicesti basta. Mille volte io me ne andai via". Niente valigie, niente pazzia, niente giorni grigi (che suona molto più concreto e deprimente di "qualche tempesta". È una versione più tenue, mettiamola così, meno vicina all'istrionismo di Brel, più affine al temperamento contemplativo di Battiato. E alla fine la sua versione è molto più ascoltata delle altre, quindi probabilmente aveva qualche ragione lui. Io ammetto di saltarla quasi sempre, che senso ha? Piuttosto riascolto Brel in purezza. Non mi ero neanche accorto che verso la fine Battiato passa al francese, oh mon amour.

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52. Hai mai veduto a Borgopanigale un'aurora simile alla boreale

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, ma anche delle canzoni di Manlio Sgalambro, di Giusto Pio, con qualche incursione occasionale delle canzoni di Jacques Dutronc, di Ennio Morricone, perfino delle canzoni di Maurizio Costanzo].  


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1967: Il mondo va così (Buffoli, Dutronc, Lanzmann, Pagani, #222)


Trecento milioni di carri armati, ed io che sto di qua. Col materasso di gomma piuma, col giradischi e il bagno di schiuma. Il mondo va così... Ma non finisce qui. 

Il mondo va così (da non confondere con Ecco com'è che va il mondo) è una delle cover più interessanti non solo del Battiato anni Sessanta, ma di Battiato in generale. Nel 1966 Jacques Dutronc aveva scalato le classifiche francesi a sorpresa con Et moi et moi et moi, una simpatica canzoncina di sapore boris-viannesco che esprimeva il senso di vertigine dei borghesi francesi della prima generazione postcoloniale: il mondo sta diventando immenso, i cinesi sono addirittura "settecento milioni", e noi e noi e noi con le nostre macchinine e i nostri cagnolini, che aspettiamo l'assegno a fine mese "comme un con de parisien". E qui si vede come sia più complicata di quel che sembra, l'arte di tradurre una canzone in un altra lingua: la canzone nasce dal senso di frustrazione di un ex impero che si riscopre al margine del mondo, ma noi italiani in quel margine ci siamo sempre stati (e se avevamo un impero lo abbiamo completamente rimosso). Un'altra cosa quasi impossibile da trasporre in italiano è l'attitudine di Dutronc, quel "ci penso e poi me ne dimentico, c'est la vie", non a caso blasé e nonchalance sono parole che non traduciamo. A questo punto un'opzione può essere: prendere la musica e scrivere un testo completamente diverso – si ottiene così ad esempio E voi e voi e voi di Gene Guglielmi. Herbert Pagani e Vittorio Buffoli optano per una soluzione diversa, che si adatta così tanto alla sensibilità di Battiato che viene da pensare che quest'ultimo abbia avuto qualche responsabilità  (anche se non poteva risultare autore perché non ancora iscritto alla Siae). Tutt'altro che blasé, Battiato assume lo stesso atteggiamento savonarolesco già intravisto nel primo singolo, La torre, con quel "non finisce qui" che a noi italiani ricorda facilmente il "Verrà un giorno" di fra Cristoforo. Perché alla fine il giorno viene: l'altra novità rilevante rispetto all'originale di Dutronc è la prospettiva apocalittica. È una sfumatura espressa non soltanto con le ultime parole del testo ("il mondo va così, forse finisce qui"), ma soprattutto con la musica: la canzone di Dutronc era statica, una serie di strofe ognuna uguale all'altra come i giorni del parigino medio. La versione di Battiato è incalzante come un mondo che ci sta cambiando sotto i piedi: il ritmo accelera, la tonalità sale, quando il livello si fa insostenibile un intermezzo swingeggiante riporta la canzone al punto di partenza, ma dura solo il tempo di prendere fiato. C'è già Franco Battiato, in questa canzone: c'è la sua vocazione a complicarsi la vita prendendo una filastrocca semplice e trasformandola in un'opera di due minuti, che troviamo in tutti i 45 giri degli anni Sessanta tranne nell'unico che riuscì a piazzare in classifica (È l'amore). C'è il dito puntato su una civiltà al tramonto, e l'ammissione di non potersi chiamare fuori. Nel frattempo i cinesi sono più o meno raddoppiati, e Il mondo va così suona ancora più attuale.


1980: Frammenti (Battiato/Pio, #94)

Perché, bella ragazza padovana, ti vuoi fare una comune giù in Toscana? A volte mi domando se Patriots non sia il disco fondamentale non dico per "capire Battiato" (il presupposto sarebbe che non c'è poi molto da capire), ma per interpretarlo in senso postmoderno. In Patriots Battiato gioca ancora allo scoperto, in seguito sarà più sgamato; però se conosci questo disco i successivi li ascolti in un modo diverso: sai di avere davanti un manipolatore, un interpolatore, uno che sta giocando. In Patriots ritorna quel procedimento di cut-up che aveva adottato a partire da Clic, quando i suoi dischi cominciarono a somigliare a un flusso di trasmissioni radiofoniche captate a caso, anche se stavolta il collage è confinato al livello testuale (la musica, nel caso di Frammenti, è il solido rock che Radius ha portato nel progetto con l'Era del cinghiale bianco, sporcato appena dai synth ancora analogici di Battiato). Tutto è citazione, brandello strappato da un palinsesto, che accanto ad brandelli lascia intendere barlumi di significato probabilmente illusori ("i cipressi che a Bolgheri alti e schietti vanno da San Guido in duplice filar hanno veduto una cavalla storna riportare colui che non ritorna"). La cultura è il più delle volte scolastica, c'è Proust ma più spesso Carducci ed è tutto mescolato a banalità colloquiali ("che gran comodità le segretarie che parlano più lingue"). Non è che Battiato non abbia niente da dire, ma è notevole come riesca a dirlo con le parole altrui, anche lise dall'uso.

1996: Memorie di Giulia (Battiato/Sgalambro, #163)

La mia memoria trae fuori i ricordi da un cappello, senza che io sappia perché questo e non quello. Memorie di Giulia è uno dei primi brani composti per L'imboscata (era già pronto nel maggio 1996, quando Battiato lo eseguì sul sagrato del Duomo di Noto). È uno dei più simili ai brani dell'Ombrello, ovvero la musica per quanto ispirata è concepita in funzione del testo di Sgalambro. Il quale testo, purtroppo, è terribile: la classica miscela sgalambriana di immagini un po' kitsch, vecchia scuola ma efficaci ("O memoria perché mi inganni, perché come se fossi vento mi butti questa polvere negli occhi") e comicità involontaria ("accarezzavo le tue ginocchia e il tuo semplice cuore era contento"). Il tutto rifacendosi a Leopardi, come se fosse facile, e in effetti è facile rifarsi a Leopardi e rendersi ridicoli. Probabilmente non è né il tempo né il luogo, ma prima o poi dovremo affrontare questo aspetto: Sgalambro è un cattivo poeta. Ce ne sono sempre stati, ma a volte mi domando se non sia inevitabile trovarne sempre di più, man mano che la tradizione letteraria diventa più pesante da portare sulle spalle, ovvero, mettetevi nei suoi panni: ti è morta un'amica adolescente. Ne vuoi parlare. Giusto, in effetti la poesia serve a questo. Il problema è appunto che in mezzo c'è Leopardi. Puoi far finta di non aver mai letto A Silvia? No, non puoi. Puoi citare Leopardi senza sembrare un piccione su un monumento? Nemmeno. E quindi che fai? La maggior parte di noi smette di scrivere poesie, è andata, ormai gli ultimi posti sono stati presi, Sereni, Zanzotto, Sanguineti, capolinea. Chi rimane? Gli ignoranti veri, gli imbecilli e gli incoscienti. Sgalambro non era affatto ignorante e nemmeno imbecille. Probabilmente Battiato amava la sua incoscienza. Dovrei amarla anch'io, ogni tanto ci provo. In attesa dei barbari che distruggano tutto e poi si può ricominciare da capo con la poesia, la musica, ecc. (Molti barbari non sanno di esserlo, credono anzi di essere sulla frontiera ad aspettarli, tipo Stilicone, o Baricco. O Sgalambro, appunto). 


2015: Se telefonando (Costanzo/De Chiara/Morricone, #35)

"Ho voluto rendere giustizia a quella canzone. Quando venne pubblicata io lavoravo in corso Vittorio Emanuele, a Milano. La sentii e ne rimasi sconvolto e affascinato. E fui molto deluso quando scoprii che era sparita dalle classifiche poco dopo essere entrata soltanto al quindicesimo posto. Una vera ingiustizia". Vedi come mille soddisfazioni nella vita non riusciranno mai a ripagarti di un singolo torto subito nella giovinezza? Voglio dire, come si fa nel 2015 a essere arrabbiati perché nel 1966 Se telefonando non aveva venduto molto? E non importa cos'è successo dopo – le mille volte che l'abbiamo sentita in radio e a techetechté, le ottocentomila cover tutte di successo (quella di Battiato sta tra i Delta Vu e Nek, e funziona come richiamo all'ordine: no, non è un ballabile, è un Lied, un capolavoro minimalista di tre note, una strofa e due ritornelli). Ma non importa, nel 1966 non piaceva abbastanza e questa cosa cinquant'anni dopo è ancora per Battiato una vergogna. Forse ogni uomo di successo continua a struggersi per una rabbia patita da ragazzino? Forse nello stesso Battiato, celebrato maestro, continuava a scalciare il fattorino che consegnava i pacchi di Nuova Enigmistica Tascabile, con allegato i 45 giri incisi da lui. 

(Se telefonando è un paradosso, una persona che grida a un'altra persona la sua impossibilità di comunicare con lui, l'istantanea di un pusillanime che non ha il coraggio di lasciare una persona neanche al telefono, una canzone che è impossibile non immaginare rivolta a sé stessi, perché la persona a cui è destinata non è previsto che l'ascolti. L'esatto opposto della protagonista di Insieme a te non ci sto più, che ti lascia col sorriso in faccia e vuole pure convincerti che non ti sta facendo male. Battiato ha cantato meglio Insieme a te, ma è più facile immaginarselo mentre non ti telefona e si strugge dentro). 

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51. E ciascuna ragion mi pare torto

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato. Oggi andiamo alla ricerca delle radici e troviamo, tra le altre cose, Bandiera Gialla, un lirico sodomita del Duecento, Alan Sorrenti e il Fatto Quotidiano]. 

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1967: Triste come me (Medini, Buffoli, Alicata, #227)

Triste come me è il lato B del secondo singolo di Battiato (Il mondo va così), l'ultimo con l'etichetta Jolly che malgrado il sostegno di Gaber questi dischi non riusciva proprio a venderli. È una delle canzoni meglio riuscite a FB negli anni Sessanta: abbandonato il maledettismo della Torre e delle Reazioni, non ancora abbracciato il sentimentalismo stagionale dei successivi 45 giri targati Philips, qui il cantante è semplicemente triste perché gli amici lo hanno tradito, e lo racconta in una canzone non troppo complicata che si gioca tutto sulla variazione dinamica tra strofa (in tre quarti) e un ritornello che 'esplode' (in 4/4): un trucco che Battiato continuerà a eseguire anche nei singoli successivi, ma con meno leggerezza. Peraltro non è detto che il brano sia suo: tra gli autori non è accreditato in quanto non ancora iscritto alla Siae. Chiunque l'abbia scritto probabilmente conosceva The Pied Piper di Crispin St. Peters (1966): questo almeno spiegherebbe come mai nel 1967, l'anno di Bandiera gialla (che era una cover di The Pied Piper) Battiato si ritrovi a cantare una canzone tematicamente tanto diversa e melodicamente così simile.

1999: Medievale (Battiato, Dietaiuti, Sgalambro, #99)

In qualsiasi album del periodo sgalambriano, Medievale sarebbe uno dei vertici. Probabilmente non sembrerebbe fuori posto nemmeno in quei dischi che sul sito ufficiale battiato.it vengono definiti "discografia classica", un Gilgamesh o un Telesio: ne condivide almeno uno stilema, la sovrapposizione di voce naturale e voce impostata (Battiato si fa doppiare dal sopranista Simone Bartolini). Seminascosto verso la fine di Fleurs, sembra un falso indizio: chi sta coverizzando Battiato stavolta? L'autore originale è un oscuro poeta fiorentino, Bondie Dietaiuti, contemporaneo di Dante e allievo dello stesso maestro: Brunetto Latini. Com'è noto Dante, pur mantenendo un grande rispetto per il maestro, lo colloca all'Inferno tra i sodomiti. Anche Bondie in Amor quando mi membra, sembra alludere all'amore per un ragazzo. La canzone comincia con una cornice idilliaca: Battiato è "sdraiato su un'amaca a prendere il sole leggendo un libro di poesia medievale". Il pianoforte segnala l'inizio della "poesia medievale", forse rivissuta in sogno. Tra le strofe di Dietaiuti, Sgalambro ne inserisce una sua, come un sussulto di veglia tra un sogno e l'altro. Per quanto eccentrica, Medievale contiene in nuce tutto il concetto di Fleurs, e in generale del Battiato liederista, insofferente per i compartimenti stagni della cultura e deciso a sfondarli. La lirica toscana del Duecento, la canzone napoletana dell'Ottocento, i Trenet, i Rolling Stones: tutto è puro a chi è puro, tutto suona bene e non troppo dissimile sull'amaca in cui Battiato medita o sonnecchia.  

2002: Le tue radici (Sorrenti, #158)

Può darsi che con Alan Sorrenti FB sentisse di avere una pendenza da saldare. Ai tempi della sua prima vera invettiva, Bandiera bianca, era riuscito a mantenersi nel vago, puntando il megafono contro "stupide galline", "idioti dell'orrore", "abusi di potere", "programmi demenziali con tribune elettorali", tutto un fondale indistinto di imbecillità in cui nessuno poteva riconoscersi. Nessuno tranne uno, e quest'uno era proprio il povero Alan. "Siamo figli delle stelle", cantava Battiato, "pronipoti di sua maestà il denaro" e la frecciata era chiarissima, la capivo persino io che avevo nove anni e alla radio ascoltavo solo il GR2 ma Siamo figli delle stelle la conoscevo e la trovavo un po' troppo commerciale persino io. (Chissà poi come potevo rendermene conto). (No sul serio, il fenomeno di repulsione nei confronti della discomusic è qualcosa che andrebbe studiato; negli USA ovviamente è diventata una manifestazione di razzismo, così come qualsiasi altro fenomeno, ma anche da noi a un certo punto quei violini e quei bassi sono diventati vecchi tutti d'un tratto e senza remissione, e deve essere successo in tempi rapidissimi, una stagione o al massimo due). La vita a volte è ironica, perché La voce del padrone avrebbe finito per vendere un milione di dischi ben prima di Figli delle stelle, dimostrando che il moralismo in Italia è un'industria più solida della disco. Sorrenti poi anche a causa di guai con la giustizia non sarebbe riuscito a staccarsi da quella pagina della storia della musica leggera che eravamo ansiosissimi di voltare (anche se poi la riapriamo spesso), una specie di Disco Stu in carne e ossa italiane. Ma prima del declino inglorioso, lui e Battiato avevano avuto due carriere parallele: entrambi avevano pubblicato una stupefacente opera prima nel 1972 (Sorrenti Aria, Battiato Fetus). Entrambi avevano picchiato il ferro finché era caldo: Battiato con Pollution, Sorrenti con Come un vecchio incensiere). Entrambi avevano avuto la sensazione di smarrirsi intorno al 1974; da questa crisi Sorrenti era uscito quasi per caso attraverso un corridoio stretto che portava alla carriera di artista pop di successo. Battiato aveva preso un corridoio più tortuoso, ma anche lui alla fine si era ritrovato lì. Nel momento in cui decide di pagare un tributo al collega/rivale, è chiaro che sarebbe stato più divertente vederlo cimentarsi proprio con Figli delle stelle, che in fondo ha un testo di cui FB avrebbe saputo rimarcare la dimensione mistica. Ma le pochissime cover che Battiato ha eseguito degli anni Settanta sono quasi esclusivamente canzoni dimenticate, tracce ormai cancellate di percorsi interrotti che forse avrebbero portato in un continente diverso che nessuno ha scoperto. La musica muore di Camisasca, La realtà non esiste di Rocchi, Le tue radici di Sorrenti, sono come i relitti che potrebbero attestare l'esistenza di un'Atlantide musicale, una civiltà di cantautori sapienziali affondata dal diluvio degli anni Ottanta. Purtroppo il relitto di Le tue radici viene dissepolto in Fleurs 3, un disco poco meditato in cui Battiato a volte si accontenta di realizzare una base e cantarci sopra. Sorrenti Le tue radici l'aveva incisa due volte: la prima in un singolo del 1975, ancora decisamente in formato cantautorale; la seconda più ritmata negli anni Ottanta (la cosiddetta "London Version"). Battiato sembra avere in mente l'intensità della prima, ma il ritmo della seconda. 

2009: Inneres Auge (#30)

La linea orizzontale ci spinge verso la materia. Quante volte dal suo appartamento milanese, o dalla sua amaca siciliana, questo signore apparentemente nelle nuvole è riuscito ad azzeccare lo Zeitgeist con precisione millimetrica? È un aspetto, questo, che rischia di non essere colto dall'ascoltatore postumo: il modo in cui Pollution prevedeva le ansie dei primi Settanta, Aria di rivoluzione sapeva già di anni di piombo, Bandiera bianca sventolava il segnale del Riflusso, Povera patria praticamente prevedeva Mani Pulite. Anche Inneres Auge, a riascoltarla oggi può fare l'effetto di un'accozzaglia di cose messe assieme nella speranza di intercettare un pubblico più vasto possibile; c'è l'escatologia sgalambriana ("Come un branco di lupi che scende dagli altipiani ululando..."), l'invettiva populista (quella che appare più datata, oggi che Berlusconi è un anziano politico tra i più ragionevoli del centrodestra), una tirata anti-denaro ("Di cosa vivrebbero ciarlatani e truffatori..."), una lezione di meditazione, un sereno auto-invito ad astrarsi dalle bruttezze della contemporaneità e a rifugiarsi nello studio di opere che ci riconcilino col Creato. Tutto questo cantato sulla cassa più dritta mai battuta in una canzone di Battiato – e c'è perfino l'autotune, Battiato nel 2009 usava già l'autotune, Sfera Ebbasta non aveva ancora la patente. 

È chiaro che il futuro storico della musica si gratterà il capo perplesso: cosa voleva fare Battiato con Inneres Auge? Si era rincoglionito, cominciava una cosa e poi si metteva a fare qualcos'altro, mentre alla consolle Pinaxa cercava di rendere il tutto commerciabile? A questo futuro storico potrebbe essere utile una nozione: Inneres Auge uscì nel 30 ottobre 2009, e per l'occasione Battiato rilasciò un'intervista al Fatto Quotidiano, un giornale che esisteva da appena un mese, il cui successo di vendite stava rendendo visibile un enorme bacino di lettori il cui odio per Berlusconi ormai era tracimato sugli oppositori politici di Berlusconi, colpevoli di non averlo fronteggiato né in parlamento né in piazza (né nei tribunali). Era una comunità transgenerazionale e transclassista che aspettava che qualcuno la trasformasse in un movimento di opinione: alla fine in mancanza di meglio si accodarono a Grillo, ma Battiato con Inneres Auge li aveva radiografati. Condividevano foschi scenari apocalittici; consideravano Berlusconi un parassita; covavano idee pseudoscientifiche sull'economia che avrebbero preso le forme dell'italexit e dei minibot; praticavano forme di spiritualità di matrice new age e conservavano un'idea della cultura come arcadia accessibile solo ai puri di spirito. Magari non ballavano tutti sulla cassa dritta, ma insomma Battiato, che si era tenuto a prudente distanza dalla politica per tutta la sua carriera, nel 2009 si trova senza preavviso in un movimento che ancora non ha un nome, e ne stila con Inneres Auge un manifesto di una precisione impressionante. 

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50. Eiacula precocemente l'impero

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[Questa è la cinquantesima giornata della Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con sarcofagie ed ermeneutiche. Portate pazienza, mangiate molta verdure, non uscite nelle ore più calde, ovvero sempre]. 

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1991: Plaisir d'amour (Martini, #67)

Il piacere d'amore non dura che un momento; la pena d'amore dura tutta la vita. Battiato raccontava di aver selezionato accuratamente e ponderatamente i quattro Lied sul secondo lato di Come un cammello... sarà anche vero per gli altri tre, ma Plaisir d'amour non credo che abbia fatto nemmeno cinque minuti di anticamera. Il pezzo di Martini era un suo pallino da sempre, credo che a un certo punto si senta anche in qualche collage degli anni Settanta (non riesco a ricordare dove); senz'altro lo riascoltiamo da un grammofono gracchiante durante Shakleton. Ma soprattutto Plaisir nel 1983 era diventato l'oggetto di uno dei pazzi esperimenti della ditta Battiato/Pio, che ne avevano arrangiato una versione completamente elettronica per Sibilla, la meno fortunata tra le artiste con cui lavorarono. Che Plaisir avesse potenzialità commerciali era un'ipotesi già abbozzata a inizio anni '60 dagli autori di Elvis, che ne avevano preso in prestito il ritornello per Can't Help Falling in Love

Eppure al festival di Fermo del 1991, quando Battiato la presenta in un'orchestrazione fortemente debitrice di quella romantica di Hector Berlioz, riesce a scandalizzare più di Elvis, più di Sibilla, semplicemente per la scelta di sostituirsi a un soprano o a un tenore con la propria voce "pop". È una scelta di cui è difficile misurare il coraggio, che va a mettere in discussione un assioma fondamentale della musica classica: se qualcuno canta, deve avere una voce impostata. Sì, ma storicamente l'arte di impostare le voci nasce dalla necessità di sovrastare l'orchestra in un teatro. Nel momento in cui anche i tenori superstar cantano microfonati negli stadi, quale necessità c'è di impostare ancora la voce in quei modi che al profano risultano così innaturali? Battiato non detesta affatto le voci impostate: le ha portate nel pop con gli interventi dei madrigalisti nella Voce del padrone; le ha utilizzate nelle sue opere e in Ferro Battuto lotterà per poter usare un campionamento della Callas, invano. Ma quello che per molti ascoltatori ormai è una questione identitaria (la musica classica richiede voci impostate), per lui non ha senso. Non solo non è un compositore classico convertitosi cantante pop, ma non è nemmeno il contrario: in fondo nella sua traiettoria l'approfondimento dei classici è venuto di pari passo con la scelta di comporre canzoni di successo, tra 1978 e 1979. Non sono due mondi inconciliabili: non sono nemmeno due mondi. Battiato pensa che il pubblico dei suoi concerti pop sia pronto per ascoltare qualche Lied sette-ottocentesco; non c'è poi tutta questa differenza. Non si tratta più di scopiazzare Beethoven, Wagner o Martini: si può mandarli in classifica, basta svecchiarli un po', ma neanche tanto (purtroppo le cose sono andate nel modo opposto: Beethoven e Martini in classifica non ci sono andati; in compenso le voci impostate sono tracimate nel pop: fenomeno sul quale Battiato non ha mai voluto esprimere un parere).  

2002: Sarcofagia (Battiato/Plutarco/Sgalambro, #195)

"Come può la vista sopportare l'uccisione di esseri che vengono sgozzati e fatti a pezzi? Non ripugna il gusto berne gli umori e il sangue? Le carni agli spiedi crude... E c'era come un suono di vacche. Non è mostruoso desiderare di cibarsi di un essere che ancora emette suoni?" I vegetariani ci odiano. La maggior parte non lo dà a vedere. Non sono più ragazzini, sanno che ostentare la loro repulsione nei nostri confronti sarebbe controproducente. Così ci sorridono e se siamo al ristorante a volte si scusano persino per le loro stravaganze – mentre ci maledicono in silenzio, noi carnivori cannibali, assassini di massa. Battiato negli anni Zero sembra ormai avere abbandonato le invettive: il personaggio pubblico che gli si è modellato addosso è quello di un amabile maestro di vita che rilascia interviste sempre più generose e sorridenti. Da qualche parte li sotto covava ancora l'antico disprezzatore dei nostri usi e costumi, ma per tirarlo fuori erano necessari espedienti tortuosi. Per esempio in Sarcofagia Sgalambro risale fino al Plutarco acerbo di Sul mangiare carne e ne dà una sua versione, ovviamente un po' sbilenca ("c'era come un suono di vacche"?) Il doppio schermo – Battiato che canta Sgalambro che cita Plutarco – consente a FB di esprimere con una certa franchezza lo schifo che gli facciamo noi carnivori. È il brano più 'rock' di Ferro battuto, ma sembra un'idea di rock più astratta di quella di Gommalacca, meno debitrice alle maestranze della scena alternativa italiana – che nel frattempo si stava sgonfiando. 

2004: Ermeneutica (Battiato/Sgalambro, #190) 

Gli stati servi si inchinano a quella scimmia di presidente. Quando si riascolta Ermeneutica bisogna sempre avere l'accortezza di ricordare che il presidente-scimmia era Bush Figlio, non il successivo. Sì in effetti è passato molto tempo, ed è passato con velocità variabili: certi dischi sembrano già molto lontani, mentre tutto sommato Dieci stratagemmi non dimostra i suoi diciottanni, mioddio, sono già trascorsi cinque mandati presidenziali negli USA. Quando uscì, Ermeneutica prometteva veramente bene. Era decisamente Battiato, ma sembrava il Battiato più pazzo e futurista da un sacco di tempo in qua. Per Fabio Zuffanti, che ormai posso dirlo, è il Battiatologo più preparato ed enciclopedico: si tratta del brano "musicalmente più complesso mai scritto da Battiato. Pressoché impossibile decifrare infatti la scansione ritmica che si muove su un tempo scomposto che accompagna un tema di sintetizzatore nel quale si staglia la voce del nostro". Il tema in questione è frastornante: sembra oscillare tra maggiore e minore senza riguardo per la nostra basica educazione musicale occidentale. Il testo, ispirato dalla Guerra infinita post 11 settembre, è uno spassionato compianto del tramonto della civiltà, né ci aspettavamo di meno da Sgalambro: ma due o tre immagini le azzecca. Forse Battiato avrebbe dovuto scrivere più follie del genere.


2012: Un irresistibile richiamo (Battiato/Sgalambro, #62)


Per poco, ma la testa di serie di questa batteria è un brano da Apriti Sesamo, che in un qualche modo risulta il sessantaduesimo più ascoltato su Spotify, il terzo più ascoltato di tutto l'album (il quale, ricordiamo, è l'ultimo album di inediti di Franco Battiato). È andato addirittura meglio del terzo singolo, Quando ero giovane. Perché è piaciuto così tanto? Per la combinazione non nuova ma sempre godibile di chitarra, pianoforte e archi? Per il testo dal sapore sapienziale, l'allusione (ormai familiare agli ascoltatori) alla reincarnazione, il rimpianto per un tempo magnifico "quando eravamo collegati, perfettamente, al luogo e alle persone che avevamo scelto, prima di nascere". Per i riferimenti a Teresa d'Avila? perlomeno tutti i battiatologi dicono che "il tuo cuore è come una pietra coperta di muschio, niente la corrompe" sia un riferimento a Teresa d'Avila, addirittura una citazione da Teresa d'Avila, e sarei felice di confermare la cosa se solo la trovassi scritta in qualche fonte che non fosse una glossa a questa canzone. Ma insomma perché è piaciuta tanto su Spotify questa canzone, rispetto alle altre del mazzo? Forse perché è in effetti una delle migliori?
O forse – terribile sospetto – perché è la prima in scaletta?
La gente dice: toh, l'ultimo album di Battiato.
Clicca sopra, ascolta una canzone, ah, ok, non male. 
Poi clicca altrove.

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49. E gira tutto intorno alla stanza

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi molto combattuta perché... ma a chi la racconto, oggi in lizza c'è Voglio vederti danzare e altre tre povere canzoni senza speranza]. 

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1969: Sembrava una serata come tante (Battiato/Logiri, #254)


Non ti avrei detto sì: chiudiamola qui. Di Sembrava una serata su Youtube resiste la versione cantata dal vivo con l'orchestra alla "Mostra Internazionale di Musica Leggera di Venezia" che non doveva essere proprio un festival di secondo piano, visto che sul palco si aggirava tra gli altri Mike Bongiorno. Non è detto che sia la "sfortunata esibizione televisiva" citata da Fabio Zuffanti (2020) con "l'orchestra che sbaglia clamorosamente la tonalità", episodio che "spingerà il nostro a serie decisioni sul suo futuro musicale". Quel che è certo è che non c'è esattamente sintonia tra l'orchestra e il giovane cantante con basette e occhialoni alla Nicola Di Bari, così poco soddisfatto della sua esibizione da scappare dal palco proprio subito dopo aver cantato "chiudiamola qui", senza aspettare gli applausi. Sarebbe stato di parola: Sembrava una serata come tante è il suo ultimo tentativo di sfondare come cantante confidenziale (l'ultimissimo singolo per la Philips, Vento caldo, sarebbe uscito a contratto già stracciato). È l'episodio più simil-francese di questa sua prima carriera, ma è anche una dimostrazione del fatto che Battiato questi francesi li ammirava senza capirli bene: la canzone che gioca sulla disillusione dell'innamorato che si scopre tradito è un classico della linea Brel-Aznavour, richiede un approccio teatrale, il cantante deve trasformarsi in un patetico oggetto di derisione e Battiato questo non era proprio in grado di farlo, né nel 1969 né in seguito. Lo spiega proprio qui: "Se non avessi avuto l'orgoglio che c'è in me": appunto, per fare canzoni del genere bisogna rinnegare l'orgoglio. 

Col senno del poi è facile capire che Battiato si stava infilando in un vicolo cieco – insomma era il 1969, l'anno di Woodstock, Tommy e Abbey Road, e Battiato si ritrovava in abito scuro davanti a un'orchestra a cantare di splendide serate finite male, un chansonnier fuori tempo massimo, con questa mania di rallentare i ritornelli per dare rilievo a un'interpretazione enfatica che la sua voce non sempre riusciva a sostenere dal vivo – sul serio, vien da pensare: chiudiamola qui. Non fosse che.
Non fosse che in quello stesso 1969, in un altro festival della musica leggera, un ragazzo similmente riccioluto e non del tutto a suo agio con l'orchestra porta una canzone scritta da lui, con cambi di tempo e interpretazione un po' enfatica: la canzone era Un'avventura, non a tutti piacque, ma oggi nessuno pensa che Lucio Battisti avrebbe fatto meglio a chiuderla lì e a buttarsi sull'elettronica. 

1972: Meccanica (#126)

Nel secondo lato di Fetus distinguere le tracce comincia a essere complicato. Più di un brano è composto da movimenti diversi e giustapposti, che svelano l'aspetto più sperimentale nel puro senso della parola (FB sta veramente imparando a suonare il nuovissimo synth VCS3) tra cui si distinguono i primi tentativi di trovare un leitmotiv. In Meccanica debuttano alcuni stilemi del Battiato '70: ad esempio il momento in cui il riff elettronico si trasforma in una specie di tarantella. E soprattutto c'è il primo collage di oggetti trovati, anche questo ancora embrionale ma promettente: una discussione tra astronauti montata sul sottofondo dell'Aria sulla Quarta Corda di Bach. La mia ipotesi è che ascoltando Fetus il cervello di qualche funzionario Rai abbia fatto una specie di clic, creando un'associazione inconscia tra il mondo della scienza a quell'Aria che per tutti noi italiani in seguito è diventata in effetti la Sigla di Quark di Piero Angela.


1982: Voglio vederti danzare (Battiato/Pio, #3)

La voce del padrone terminava con un brano che celebrava l'eros in tutte le sue forme; il disco successivo termina con la canzone che celebra la danza. Voglio vederti danzare è la terza canzone più ascoltata di Battiato, almeno su Spotify. È la canzone su cui poggia la fortuna commerciale dell'Arca di Noè (gli altri brani non passavano molto in radio; del resto non uscirono singoli); è un brano che parla di danza ma senza batteria, e nel ritornello si permette persino di sospendere i quattro quarti. Riascoltandola saltuariamente rimango sempre stupito di quanto sia tutto sommato minimale l'arrangiamento, che nella memoria invece è popolato di strumenti e di colpi di scena; può darsi che Voglio vederti avrebbe meritato un'orchestrazione più sontuosa, come quelle della Voce del padrone, e che abbia sofferto dell'insofferenza di Battiato che aveva per le mani una hit pulitissima e ha fatto quanto ha potuto per sporcarla, per mascherarla da pezzo etnico (prima che la world music andasse di moda), per dissuadere i dj dal trasmetterla in radio – come lo spaventi un dj? Di punto in bianco fai partire un valzer che non c'entra niente, se non c'è un valzer adatto lo fai scrivere a Giusto Pio. Voglio vederti danzare è Battiato che balla intorno al feticcio di sé stesso. Avremmo dovuto capirlo e bruciare il feticcio; invece ci siamo messi a ballare pure noi. A nostra parziale discolpa, un brano così cantabile Battiato non l'avrebbe più scritto – odio usare l'aggettivo solare, ma davvero qui Battiato ci sta mostrando un mondo in cui tutti ballano a modo loro. Come altro reagire, se non mettendosi a girare per tutta la stanza? Ci sarebbe stato poi tempo di vergognarci per le nostre piroette sudate, ma in fondo a tutto il nostro imbarazzo restava il segreto orgoglio di sapere che la vita è danza, e che se danzava Battiato anche noi potevamo. Grazie Battiato, sei stato il nostro eroe e il nostro ballerino preferito. 

[Tra persone educate non è consentito discutere del remix di Prezioso. Esso non è mai esistito, tra l'altro uno dei motivi per cui sono educate è che hanno paura di andare all'inferno. L'inferno se lo immaginano più o meno come il nostro mondo, ma non puoi spegnere la radio e il dj è Prezioso].  

2012: Apriti sesamo (#131)


Giunto a quella che molti indizi lasciano intendere sia la soglia estrema della sua carriera, Battiato si misura con qualcosa che non gli era mai riuscito in cinquant'anni: raccontare una storia, sì, come un cantautore qualsiasi. Ovviamente Battiato non è un cantautore qualsiasi e anche stavolta si terrà lontano dal modello del cantastorie, optando per lo stile più libero dei declamatori medio-orientali e creando un unicum non solo nella sua produzione, ma nella storia della musica italiana. La storia è proprio quella di Ali Babà e i quaranta ladroni, e sembra non trattenere nessun secondo significato sapienziale: se fin qui avevamo pensato che il titolo dell'album alludesse allo schiudersi del portone tra la vita e la morte, ora Battiato sembra volerci trattenere con un falso indizio: no, "Apriti sesamo" è proprio la parola magica che Ali Babà deve pronunciare per accedere alle ricchezze dei quaranta. E proprio sul più bello la novella si interrompe, perché la racconta Sherzarad e la notte che finisse una storia, il visir si stancherebbe di lei e la farebbe decapitare. Sherzarad in effetti è il totem di tutti noi che le storie non riusciamo mai a finirle e ci diciamo che è meglio così. Anche Battiato magari ha sperato di ingannare lo Spavento Supremo un giorno alla volta, un racconto alla volta, una canzone alla volta. 

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48. Viva la gioventù, che fortunatamente passa

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[Questa, cosa pensate che sia? Non siate paranoici, nessuno vi guarda, nessuno deduce il vostro destino dalla curva del vostro naso, nessuno stabilisce quale funzione avete nel mondo, se siate giovani animali notturni o anziani amanti della luce. Questa comunque è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, cosa pensavate che fosse? Avevate dei dubbi? E perché li avevate?] 

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1972: Paranoia (#215)


Un giorno usciremo per le strade, cambieremo i semafori e le luci. Offriremo cipolle agli amici, dormiremo insieme in calde stanze tutte rosa. Romperemo l'asfalto con dei giardini colorati! Paranoia è forse l'episodio che più si avvicina all'idea di Battiato che aveva il suo management tra 1972 e 1973: un personaggio enigmatico e fuori dalle righe che il pubblico dovrebbe seguire con la curiosità con cui si osserva una curva pericolosa in cui da un momento all'altro potrebbe verificarsi un incidente. A riascoltarla oggi, sembra completamente avulsa da quello che stava facendo Battiato sia immediatamente prima (Fetus), sia immediatamente dopo (Pollution), sia durante (La convenzione, di cui Paranoia era il lato B). Il punto è proprio questo: è esistito un Battiato diverso in quegli anni, che ha lasciato più tracce visive che sonore: è il Battiato conciato con la maschera d'argilla, il Battiato che fa a pezzi la croce di legno ai concerti, un'idea folle di rockstar che coincide cronologicamente con l'invenzione di Ziggy Stardust, soprattutto nel concetto: una rockstar inventata a tavolino, che si comporta come tale ed esorta il pubblico a trattarla come tale. Quanto alla musica, non la conosciamo più di tanto: sappiamo che era molto più violenta di quanto le tracce salvate su Pollution lascino immaginare, e non la troviamo incisa sui dischi perché Battiato a un certo punto ne provò una genuina repulsione, tale da fargli abbandonare il personaggio proprio quando cominciava a funzionare. "Man mano che il ritmo cresceva ci scatenavamo tutti, ed era qualcosa di spaventosamente incontrollabile. Non era solo la gente che si lanciava le sedia in testa. Una sera il tastierista saltò addosso al violinista. Un'altra io ero talmente preso che mi accorsi solo a fine serata che mi ero ustionato la schiena con un cavo elettrico". Paranoia da un punto di vista formale è molto meno innovativa anche dei brani di Fetus; alla fine è una progressione di tre accordi e i tre accordi sono quelli del finale scatenato di Occhi d'or, ovvero di Hey Jude. È una via italiana al glam rock: prima dell'ingresso finale del sintetizzatore, la componente avanguardista del brano poggia tutta sulla prestazione vocale di Battiato, che deve fare il matto e ci riesce, anche se con qualche rigidità. Questo approccio teatrale alla canzone è una cosa che Battiato da qui in poi eviterà attentamente di fare, anche quando gli capiterà di riprendere canzoni di cantanti-attori come Brel o Lauzi (mentre dal repertorio cantante-attore italiano per eccellenza, Gaber si terrà sempre a distanza malgrado la lunga amicizia). È qualcosa che lo ripugnava.   


1974: Ti sei mai chiesto quale funzione hai? (#170)


Certo Battiato che me lo sono chiesto – e a quest'ora mi sono anche risposto – ma grazie per la domanda. Quando scrivo che certe cose di Pollution soffrono l'età, mi riferisco ad esempio il finale, che nelle intenzioni doveva essere qualcosa di maestoso e solenne, una cantata di Bach rallentata (Laß fürstin laß noch einen strahl) accompagnato dal rumore di un pianto che in interviste successive Battiato definisce come "dirotto", "una premonizione del futuro dell'umanità, sui gravi disastri a cui saremo andati incontro". E nel 1973 poteva davvero suonare così (non male, l'idea di chiudere con un pianto un disco così liquido). Riascoltato più tardi, è difficile accettare che FB sia così mortalmente serio. Gli effetti del synth tradiscono una certa obsolescenza, il ricorso al solito Bach sembra un espediente per allungare il brodo di un disco interessante ma già piuttosto breve, il "pianto dirotto" sembra più un singhiozzo prolungato e artefatto, come se in vista de funerale dell'umanità FB si preparasse per il ruolo di prefica.

1988: Fisiognomica (#42)


Fisiognomica non dà solo il titolo all'album del 1988, ma contiene anche la chiave necessaria a capire la copertina. A un primo livello di lettura, si tratta semplicemente di una foto ritratto di Battiato bambino, prima che un incidente calcistico non gli conferisse la peculiare conformazione nasale che forse nella sua carriera di cantante ha avuto qualche importanza. (Questo in effetti è un buon argomento contro la fisiognomica: i nostri lineamenti non sono il nostro destino, se l'ambiente li può cambiare). A un livello più profondo, la copertina rimanda a un'altra che nel 1988 era completamente scomparsa dai negozi di dischi: Sulle corde di Aries. Non era così facile capirlo a quel tempo, ma Battiato stava temporaneamente tornando sui suoi passi: il nuovo disco cominciava con un ritmo di tabla che al tempo suonava abbastanza inedito, ma si rifaceva proprio al disco di 15 anni prima. La strofa di Fisiognomica è libera e salmodiante come quella di Sequenze e frequenze o No U Turn. Assomiglia anche un po' a un recitativo – Battiato in fondo ha appena finito di comporre la Genesi e quando si rimette a scrivere è convinto di lavorare a un'altra opera: non sa che quello che sta per venire fuori è un nuovo disco di canzoni. Un'altra cosa imprevista è la spiritualità della canzone, più ambigua del solito, che valse a Battiato un invito in Vaticano: nella strofa Battiato descrive con generosi vocalismi un'arte della divinazione basata sui tratti somatici; nel ritornello tutto improvvisamente si smorza, ai suoni orchestrali subentra un umile organetto e Battiato, su note più basse, riconosce che contro il dolore questo tipo di sapienza è vana: bisogna rivolgersi al Signore. "Credimi, siamo niente. Dei miseri ruscelli senza fonte". Se non è un'apertura al cristianesimo (e un tradimento del paganesimo), non fa nessuno sforzo per non sembrare tale.

2012: Quand'ero giovane (Battiato/Sgalambro, #87)


La notte non mi piace tanto; l'oscurità è ostile a chi ama la luce. Anche nei suoi momenti più ispirati, Apriti Sesamo lascia nell'ascoltatore il sospetto di trovarsi davanti a un'opera senile. Benché Sgalambro continui a essere accreditato in tutte le canzoni, Quand'ero giovane sembra essere completamente farina del sacco di Battiato, che a un certo punto sembra davvero perdere il filo del discorso: voleva parlarci delle sue esperienze giovanili, e invece si mette a lamentarsi della contemporaneità. ("Si accavallano i giorni come onde, ci sovrastano le cattive notizie in questi tempi di forti tentazioni, ci sommergono"). Il filo lo recupera dopo il memorabile ritornello ("Viva la gioventù che fortunatamente passa"), regalandoci due istantanee dal suo apprendistato milanese: le code di puttanieri "al parco Ravizza o al monumentale" ("Compravano sesso, e spesso diverso!") e "l'atmosfera eccezionale" delle balere "la domenica di pomeriggio", quando non era ancora subentrata l'angoscia per l'incipiente lunedì. Sembra più prosa che poesia, la voce è affaticata, la sensazione di ascoltare i ricordi su una panchina del parco è difficile da scacciare. Alla fine c'è un assolo di organo Hammond – quando mai avevamo sentito un Hammond in Battiato? Lo suona Carlo Boccadoro, verso la fine piglia a schiaffi la tastiera come aveva fatto Battiato nel duomo di Monreale.

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47. Quattro passi a piedi fino alla frontiera

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con un'improvvisazione nel duomo di Monreale, un secondo imbrunire, una passeggiata fino al muro di Berlino e altre nuvole nere, ma noi siamo pronti a ogni evenienza]

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1975: Canto fermo (#234)

Se ho capito bene il Cantus firmus è la melodia che viene usata come base per una composizione polifonica. Come tale a volte viene anteposta alla composizione, e in effetti sul secondo lago di Mme "Le Gladiator", il Canto fermo precede Orient Effects. Anche se di melodico ha ben poco; e del resto anche Orient non è che sia tutta questa polifonia. Si tratta di due parti dell'improvvisazione condotta da Battiato sul titanico organo del duomo di Monreale, prima che il canonico si spaventi e lo cacci via. In Canto fermo Battiato dà veramente la sensazione di voler provare i tasti per saggiare la potenza dello strumento di cui si è temporaneamente impadronito con l'inganno (si era fatto presentare da Camisasca come un compositore americano in vacanza nei luoghi della sua famiglia). Siccome in Canto fermo non succede nulla di diversissimo dalla composizione successiva, è impossibile scacciare il dubbio che si tratti di un brano appiccicato per tappare il buco lasciato da un'altra composizione che Battiato aveva preparato ma non è riuscito a incidere per motivi facili da intuire. Da un articolo pubblicato nel giugno del 1975 su "Nuovo Sound" sappiamo che si doveva chiamare Temporary Road e che era composta da un "collage di vecchi 45 giri degli anni '60 (Ruby Tuesday, Like a Rolling Stone ecc.) e da una chitarra basso filtrata al VCS3". Più che la Temporary Road pubblicata 10 anni dopo su Mondi lontanissimi sembra un'anticipazione di Cuccurucucù (del resto secondo "Nuovo Sound" il nuovo disco di Battiato si sarebbe chiamato CHI CHI RI CHI). Poi qualcuno deve avere spiegato a Battiato che ottenere i diritti per tutti quei proto-campionamenti sarebbe stato molto complicato; rimane l'enorme curiosità per un brano che chissà quanto assomigliava alla Cuccurucucù definitiva (probabilmente pochissimo) e che chissà se qualcuno conserva ancora. 

Invece ci tocca ascoltare Canto fermo. Cosa dire di Canto fermoCarlo Boccadoro ammette che all'inizio Battiato stia letteralmente prendendo a pugni le tastiere, ma ci sente comunque tracce di Ligieti e Messiaen, anticipazioni di Morton Feldman. Su Youtube i commentatori si dividono: chi lo trova geniale, chi sente i passi del gatto sulla tastiera, chi dice vergognatevi a parlare così del maestro Battiato, prima di capirlo bisogna studiare. Al che uno risponde: "Io sono organista da 27 anni; ciò non mi da competenza in musica organistica (anche se ho alle spalle diversi anni di studio); di "musicale" ci trovo veramente poco in un insieme di rumori come questo, tuttavia la musica è l'intreccio sonoro atto ad esprimere i propri sentimenti e stati d'animo. Probabilmente era un periodo difficile e complesso per Battiato..." Non saprei che altro aggiungere – ah, sì: il brano è dedicato a Riccardo Mondadori, figlio dell'editore Bruno, morto trentaquattrenne nel 1975 dopo anni complicati. "A lui la vita non è stata tolta, ma solo trasformata", scrive FB nelle note di copertina.


1988: Secondo imbrunire (#106)



Quel che diceva Saba sulla rima fiore/amore ("la più antica, difficile del mondo") vale in qualche misura anche per il ritornello del Secondo imbrunire, dove Battiato infila senza un plissé un "cuore" che "muore d'amore", e domando: qualcuno l'ha mai trovato melenso, fastidioso, melodrammatico? No, funziona. Secondo imbrunire è uno dei miei momenti preferiti di Fisiognomica, forse perché qui si riconoscono i legami sotterranei con l'altro disco crepuscolare, Orizzonti perduti: i bozzetti di vita siciliana nelle strofe e un ritornello estremamente cantabile (a patto di avere il falsetto educatissimo di FB), dove senza troppe cerimonie si introduce quel dissidio interiore che verrà ripreso solo parecchi anni più tardi: bisognerebbe vivere da soli, ma il "cuore" non si rassegna. Gli arrangiamenti sintetici di Orizzonti perduti, ora che sono stati sostituiti da una combinazione molto più giudiziosa di orchestra, basso chitarra e batteria, un po' li rimpiangiamo. 


1989: Alexander Platz (Battiato, Cohen, Pio, #23)


La storia di Alexander Platz è un po' più ambigua e complicata di quanto ci aspettiamo da Battiato, dall'idea romantica che ci siamo costruiti di lui in quanto artista ascetico disponibile a sperimentare ma non incline ai compromessi. Battiato è stato questo per buona parte dei Settanta e dai Novanta in poi, ma in mezzo ci sono stati gli Ottanta e qui il discorso è diverso: Battiato si comprometteva, altroché; fino a un certo punto ci stava anche prendendo gusto, in una voluttuosa dissipazione della propria integrità artistica che fu un fenomeno comune, all'improvviso le classifiche si riempirono di boomer che non volevano più cambiare il mondo ma farsi una villa al mare in tempi brevi (successe anche ai giornalisti, agli intellettuali, lo si chiamò "riflusso" ma lo stavano vivendo come un'ulteriore sfida; non si ribellavano più ai genitori ma alle regole che loro stessi avevano codificato a vent'anni, ai sé stessi genitori che non volevano più essere diventati). Alexander Platz, è noto, all'inizio si chiamava Valery ed era una canzone di Alfredo Cohen, cabarettista e pioniere dell'attivismo LGBT in Italia: un'elegia dedicata a un giovane transessuale. E qui potremmo salutare la splendida continuità di Battiato che nel 1977 scriveva le canzoni per Alfredo Cohen e nel 2014 faceva i concerti con Antony/Anohni, il tutto senza mai ergersi paladino di una causa non sua ma per la quale evidentemente simpatizzava ecc. ecc. Sì, sì, proprio così.
Però a guardar bene in entrambi i casi è successa la stessa cosa: così come nel 2014 si impossessa di un brano di Antony spogliandolo di ogni tematica LGBT, così nel 1982, quando Milva gli chiede una hit, Battiato senza nessuno scrupolo riprende la progressione di Valery e ci costruisce sopra una canzone che di tematiche LGBT non trattiene niente: addirittura, con un'astuzia che non sospettavamo in lui, decide di ambientarla a Berlino, perché sa che un ritornello in tedesco è quello che il pubblico si aspetta dal personaggio-Milva. Ci infila pure Lili Marlene, che non c'entra molto ma nel globo di vetro della nostra Germania mentale non può mai mancare. (L'idea per quel "Come ti trovi a Berlino est" potrebbe anche avergliela data A Berlino... va bene di Garbo, che nel 1981 apriva i suoi concerti). 
Il brano indugia nello strano fascino del socialismo reale – un mondo che Battiato aveva già evocato in Prospettiva Nevski, nella coeva Radio Varsavia, con la stessa fondamentale ambiguità di chi non ha la minima intenzione di completare le storie che mette in scena. È un mondo di stanchezza, di borse sotto gli occhi, e improvvisi lampi di bellezza rappresentati dalla musica classica: se nella prospettiva Nevski si poteva incontrare Stravinskij, qui a teatro fanno Schubert. Della visione originale di Cohen galleggia come un relitto quel "sì sì proprio così" sbandierato contro l'evidenza. Non è più l'autoaffermazione di un sex worker che insiste a non sentire i colpi dell'inverno; suona come un più modesto rincantucciarsi in una piega della Storia in attesa di tempi migliori che probabilmente non arriveranno. Battiato s'impossessa definitivamente del brano in Giubbe rosse, con un arrangiamento dal vivo più levigato perché la stagione della new wave elettronica nel 1989 è già finita, e un certo coraggio perché nel ritornello si sale di parecchio. 

1996: Splendide previsioni (Battiato/Jaeggy/Sgalambro, #151)


And I'm never in touch with your heart. È difficile riascoltare Splendide previsioni senza esprimere un rimpianto: cosa avrebbero potuto fare Franco Battiato e Antonella Ruggiero se si fossero incontrati veramente? Perché è chiaro che non è successo, voglio dire, in mezzo secolo hanno cantato assieme in appena due canzoni. In questa poi la Ruggiero non la senti quasi, paradossalmente in una canzone che ventila l'esistenza di un "punto altissimo, inaccessibile", lei si tiene ben lontana dagli acuti per cui è conosciuta. Si vede che non è scoccata la scintilla, mettiamola così. Battiato preferiva duettare con voci femminili dal registro più basso; le sue partner preferite sono Alice e Milva; Giuni Russo è un caso del tutto particolare. Peraltro alla Ruggiero capita di partecipare a una sessione particolarmente affollata, una canzone che è un porto di mare: c'è anche un'altra voce femminile ed è nientemeno che Carlotta Wieck, AKA Fleur Jaeggy, che declama una sua poesia in tedesco. Il testo in particolare è una zuppa di tanti ingredienti noti: oltre alla Jaeggy c'è la penna di Sgalambro, riconoscibile da certi versi in stile nonno Simpson che inveisce alle nuvole ("La gente vive senza più testa!"), ma anche il Battiato dell'inglese un po' improvvisato al microfono ("You and I will never die standing in the shadow of the night"). La canzone alla fine è confusa come il mondo che descrive: la specie è in mutazione, non sappiamo dove stiamo andando ma almeno sappiamo che ci stiamo andando, le proviamo tutte, gli stormi di temporali non ci spaventano. Ammetto che è una canzone a cui ripenso spesso, perché confusa com'è rimane un mio inno: le previsioni danno nuvole nere? Splendido, andiamo avanti, vediamo cosa succede, teniamoci pronti. 

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46. Ma l'uomo non è pietra di tungsteno

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi anche delle mutazioni di Franco Battiato, da feto avanguardista a interprete di Gino Paoli, passando per lo swing e le strade dell'est].

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1972: Mutazione (#183)

Fetus era anche, in qualche modo, un concept album, con una storia che aveva a che fare con un feto (o più di uno) e un viaggio interstellare. Nell'ultimo brano il feto si risveglia appunto dopo migliaia di anni e avverte le vibrazioni di non ulteriormente specificati "corpi di pietra" che stanno per arrivare. Potrebbero essere anche i "motori" di cui parlava all'inizio dell'album ("sarò una cellula / tra i motori") e quindi la storia tratterebbe di un eterno ritorno. Anche da un punto di vista musicale Mutazione è più simile a una canzone tradizionale e termina con un coro cantato sull'ennesima scala discendente – FB le usa tantissimo su Fetus, per scelta o perché gli vengono spontanee. È una soluzione un po' naif, ma ricordiamo sempre che è ancora poco più che un embrione. 


1979: Strade dell'est (Battiato/Pio, #55)

Ho scoperto soltanto in questi giorni che il condottiero citato in Strade dell'est, Mustafa Barzani, era morto appena sei mesi prima a Washnigton, dov'era scappato quando il regime dell'Ayatollah Khomeini (che per molti è santità) aveva ritirato l'appoggio ai guerriglieri del Kurdistan iracheno. Avevo sempre pensato che si trattasse di un personaggio storico, ma il Vicino Oriente evocato da Battiato non è passato, è presente (e futuro: "Da qui la fine" profetizza, dieci anni prima di Zai Saman). È la meta dei viaggi che Battiato improvvisava sui pullman che negli anni Settanta portavano i fricchettoni in India o in qualche altro esotico Altrove. Di Strade dell'est conosciamo un documento straordinario: la prima versione arrangiata da Battiato e Pio per quel demo che convinse i discografici dell'Emi a stravolgere il progetto, coinvolgendo Alberto Radius. È una canzone completamente diversa, affidata a strumenti che possono rimandare a un generico oriente. La ritmica avviata dal pianoforte è quella martellante, iperattiva, che Pio infondeva a brani come Adieu o L'era del cinghiale bianco. Radius, Tullio De Piscopo e Julius Farmer ripartono da zero, costruendo la base di quello che diventa il brano più rock del Cinghiale bianco. Solo il brio di De Piscopo ricorda vagamente un tam tam primordiale: il compito di evocare coi suoni l'oriente posa del tutto sui melismi della voce di Battiato, che cerca di ricordare l'inflessione di un muezzin. Radius invece ha in mente orizzonti molto più occidentali e pentatonici, e riesce persino a infilarci un assolo veramente poco orientale, ma siamo onesti: la sua Strade dell'est è molto più godibile della prima versione; e in generale la freschezza dei dischi pop di Battiato dal 1979 al 1982 deve molto ai suoi interventi, che nei dischi successivi saranno meno appariscenti ma sempre fondamentali. 


2001: Scherzo in minore (Battiato/Sgalambro, #202)

Ecco una canzone che mi ispira un'irrazionale diffidenza. Non è che non mi piaccia, anzi forse è questo il punto: ho la sensazione che potrebbe piacermi, che stia cercando di piacermi, e questo mi rende sospettoso. Battiato non prova mai a piacermi – che scherzo mi sta tirando? Ma è soprattutto il riff iniziale a lasciarmi sospettoso. Somiglia a qualcosa che a un certo punto deve avermi infastidito, ma non ricordo più esattamente cosa. Per quanto cerchi, mi viene in mente solo un brano che ha con Scherzo una somiglianza vaghissima: la cover di Sex Bomb a opera di Max Raabe & Das Palast Orchester, che nel 2001 era relativamente fresca di stampa, quella classica cosa che al primo ascolto dici ah, divertente, e al terzo basta, basta, per favore, vi dirò dov'è nascosto Bin Laden ma basta. Ora si dà il caso che in Italia diventò la colonna sonora di uno spot pubblicitario molto pervasivo, per cui andammo molto, molto oltre il terzo ascolto. Può darsi che Battiato avesse in mente uno "scherzo" del genere mentre campionava su una base hip-hop la leggendaria chitarra Django Reinhardt (a proposito, quando diventa "leggendario" Reinhardt? Accordi e disaccordi di Woody Allen è del 1999, in Italia arriva nel 2000). Sex Bomb probabilmente non c'entra nulla, ma a suo modo è il capostipite di una cosa che in quegli anni ci titillava gli orecchi e non era ancora diventata così pervasiva da suscitare repulsione: le cover lounge. Qui Battiato sembra voler realizzare una specie di remix un po' lounge un po' danzereccia di una sua classica canzone del periodo, con gli ormai canonici rimpianti d'amore sgalambriani che stavolta è davvero impossibile prendere sul serio ("Mi risvegliavi un'innocenza preadamitica"). FB fa effettivamente un paio di cose che non l'abbiamo mai sentito fare e che giustificano il titolo Scherzo: lo swing, addirittura lo scat verso la fine, ma anche la base un po' funky drummer è una cosa inedita per lui. Forse sta semplicemente giocando con luoghi comuni musicali tipici di quel periodo, con una giocosità che avremmo voluto vedere in lui più spesso (e che forse non abbiamo notato in altri episodi: mi viene in mente Le aquile non volano a stormi, una canzone realizzata smontando un brano di world music orientale molto vicino allo stereotipo del genere).


2002: Il cielo in una stanza (Paoli, #74)

Questo soffitto viola no, non esiste più (i soffitti viola, negli anni Cinquanta, erano plausibili solo nelle case di tolleranza: non è un segreto, chi poteva capire capiva già al tempo; una delle più riuscite canzoni d'amore italiane è dedicata a una prostituta). Abbiamo già visto come il secondo volume di Fleurs capovolga il metodo del primo: invece di trasformare le canzonette in Lied, ora si tratta di prendere canzoni già classiche e attualizzarle. Il rischio di trasformarsi in un Delta V dei boomer è scongiurato dal senso della misura che impedisce a Battiato di schiaffare una batteria su qualsiasi canzone gli venga in mente. Il cielo in una stanza è la canzone più facile, e quindi più difficile del repertorio di chiunque: è un giro di do senza ritornelli, il testo stesso impedisce al cantante di tirare il fiato più di tanto tra un verso e l'altro, è chiaro che dall'orchestra ci si aspetta un crescendo e anche Battiato lo organizza senza strafare. Poi, certo, parte la batteria: ma un po' più tardi, in coda. Et voilà, Il cielo in una stanza è stato attualizzato. Non di tanto. Ma senza grossi incidenti. Se ne sentiva il bisogno? No, ma è sempre una bella canzone. 

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45. La voglia di vivere a un'altra velocità

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con amori che vengono e vanno, attraverso automobili, treni e rotte interstellari, ih]. 

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1965: L'amore è partito (Cardile, #247)

I primi dischi della sua carriera, Battiato li incide per una rivista, la "Nuova Enigmistica Tascabile" che allegava al numero in uscita una versione tarocca di un singolo di successo, cantata da uno sconosciuto per risparmiare sui diritti. Battiato era, perlappunto, uno sconosciuto disposto a cantare per un pezzo di pane. "Ricordo bene quando venni ingaggiato la prima volta per quei dischi. Il maestro mi fece un provino di qualche secondo; cantai una sola strofa. 'Basta, va bene!', e mi convocò per il giorno successivo in sala d'incisione". La relativa facilità con cui viene scelto è per lui un'iniezione di fiducia che può lasciare perplessi, perché Battiato non ha mai cantato così male come in questo primissimo singolo del 1965, una roba da farsi ridare indietro i soldi dall'edicolante. Non ci sono spiegazioni, non ci sono scuse, Battiato si capisce che la voce ce l'avrebbe e persino il timbro giusto, vagamente 'genovese' tra un Lauzi e un Paoli (a meno che non gli avessero chiesto di imitare il cantante e autore autentico, Beppe Cardile). Epperò con questo timbro giusto Battiato qui a volte non azzecca l'intonazione, al giorno d'oggi una prestazione così non passerebbe alla prima audizione di un talent qualsiasi e questo mi dà la vertigine – chissà quanti enormi geni della musica stiamo buttando via perché steccano al primo provino, gente che vent'anni dopo magari ti combinerebbe un equivalente della Voce del padrone ma non lo sapremo mai perché invece dei flexi disc tarocchi allegati alle settimane enigmistiche tarocche abbiamo i talent, e ai talent alla prima stecca sei fuori. Viene da pensare che il motivo per cui Battiato ottenne il posto con relativa facilità è l'altra mansione che accettò contestualmente: il fattorino. In un colpo solo avevano trovato un ragazzo che incideva i dischi e che li consegnava nelle edicole. L'amore è partito è un giro di do che si distingue da altri cento per la curiosa prosopopea: l'Amore in questo caso è una vera e propria entità che ha abbandonato i due innamorati, rei di essersi comportati male nei suoi confronti, una cosa che non era venuta in mente credo neanche a Guido Cavalcanti, mentre Beppe Cardile la portò a Sanremo e oggi su Youtube lo salutano e gli scrivono "Hai avuto il privilegio di vivere degli anni bellissimi e l'onore aver scritto una canzone per il maestro Franco Battiato" e lui deve pure abbozzare.

 

1984: I treni di Tozeur (Battiato, Cosentino, Pio, #10)

L'Eurovision Song Contest è un contesto veramente strano. Si incontrano, una volta all'anno, pubblici che si conoscono solo per sentito dire. La necessità di trovare un linguaggio comune ha portato col tempo all'elaborazione di un peculiare cattivo gusto transeuropeo. Ogni Paese vi può contribuire con la rielaborazione degli stereotipi che lo riguardano – temprata magari dall'ironia, che ci aiuta a mandare giù il fatto che senza stereotipi ci conosceremmo ancora meno di quanto ci conosciamo. Ogni tanto poi atterra qualche marziano, ad esempio nel 1984 arrivarono Alice e Franco Battiato. Cantarono I treni di Tozeur e arrivarono quinti, raccattando dodici punti da Finlandia e Spagna (questi ultimi un'avvisaglia del discreto successo che Battiato sarebbe riuscito a ottenere coi suoi futuri dischi in castigliano). Può essere interessante cercare di mettersi nei panni dell'ascoltatore medio europeo, che da questi due cantanti non aveva nulla da aspettarsi, o al limite, visto che era un duetto di cantanti ed era il 1984, poteva aspettarsi una cosa sulla falsariga di Albano e Romina che quell'anno avevano vinto Sanremo con Ci sarà. (Se ci riflettete un attimo, Albano potrebbe cantare i Treni di Tozeur. È forse la canzone di Battiato più albanizzabile).

A riascoltare Tozeur con orecchie medio-europee, può sorprendere la combinazione di orchestra e suoni digitali (che rimanda inevitabilmente al Rondò Veneziano: un progetto discografico italiano d'esportazione). Quando attaccano i violini, Tozeur potrebbe sembrare un lontano epigono di quel rock sinfonico che era esploso a fine anni Sessanta – il periodo dell'apprendistato canzonettistico di Battiato: Procul Harum, Aphrodite's Child. Quel tipo di suono, codificatosi poi nel prog, in Gran Bretagna e in buona parte dell'Europa era stato spazzato via da punk e new wave; la musica elettronica era arrivata a quel punto e l'idea di mescolarla con la sinfonica poteva essere percepita come reazionaria. In Italia le cose erano andate un po' diversamente: le maestranze del prog erano rimaste saldamente in sella e avevano portato violini e mandole nei dischi dei cantautori, partecipando attivamente all'elaborazione di una via italiana alla new wave. Battiato, a fine anni Settanta, riemergendo dalla sua spelonca di avanguardista si era trovato in mezzo a tutto questo e aveva ben pensato di recuperare la sua vena romantica. È la vena che comincia a esprimersi coi fraseggi di violino di Adieu e L'era del cinghiale bianco, si palesa nella Prospettiva Nevski e prende le strade del Lied a partire dagli Uccelli. È un Battiato che vuole far coesistere Mozart (il coro a un certo punto canta un brano del Flauto magico) con i ritmi e i fraseggi dei sintetizzatori anni Ottanta: equilibrio difficilissimo che gli riesce coi Treni di Tozeur e poi a sprazzi nel disco dell'anno successivo, Mondi lontanissimi, dove I Treni viene ripresa con lo stesso arrangiamento, ma senza Alice. Questa seconda versione ha l'unico pregio di dimostrare quanto fosse importante la sua voce – ho letto qua e là che Battiato e Alice armonizzano: può darsi che in altre canzoni succeda, ma in linea di massima quello che fanno è cantare all'unisono, con due timbri complementari e paradossali: una voce femminile bassa e una voce maschile alta. Il risultato è un vero e proprio ermafrodito: un effetto che invano Battiato cercherà di ottenere duettando con altre voci femminili. Tutto questo, l'ascoltatore medio-europeo l'avrebbe forse liquidato scomodando qualche comoda categoria: ah gli italiani si sa, il bel canto, il melodramma, i violini.


1996: Amata solitudine (Battiato/Sgalambro, #119)

Amata solitudine racconta la storia di un litigio tra due partner nell'abitacolo di un'automobile; una situazione simile a quella descritta in Digging in the Dirt da Peter Gabriel, il che finalmente dimostrerebbe un'influenza di quest'ultimo su Battiato; il quale Battiato, dopo aver registrato Caffè della Paix negli studi di Gabriel, gli aveva anche preso in prestito il chitarrista, David Rhodes, proprio per l'Imboscata. Eppure no, anche Amata solitudine sembra immune da ogni petergabrielismo. Gabriel canta un testo semplice, essenziale, nel quale ci possiamo riconoscere tutti; Sgalambro ottiene costantemente l'effetto contrario, ci spiazza con un lessico che ci costringe a prendere le distanze e a simpatizzare con le donne che lo mollano. ("Ero in te come un argomento del tuo amore sillogistico, conclusione di un ragionamento. Ma mi piaceva essere così, avviluppato dai tuoi sensi artificiali". Perché artificiali? È un automa 'sta povera ragazza?) Musicalmente, Amata solitudine è il pezzo in cui Saturnino riesce a contrabbandare un po' di dub in un disco di Battiato. Un'imboscata nell'imboscata.


2001: La quiete dopo un addio (Battiato/Sgalambro, #138)

Per una coincidenza l'algoritmo ha messo contro un paio di testi di Sgalambro talmente simili che probabilmente li ho già confusi altre volte. Forse non è del tutto una coincidenza, forse Sgalambro tende a scrivere spesso le stesse cose – o più probabilmente Battiato tra le cose che Sgalambro gli proponeva finiva per scegliere invariabilmente le stesse cose, che somigliano sempre un po' a cose che Battiato aveva già scritto in precedenza (e di solito con più efficacia). Ad esempio il pallino di cominciare una canzone con una seconda persona plurale ("passammo l'estate su una spiaggia solitaria") che introduce in modo asciutto la presenza di una partner con cui Sgalambro divide una serie di responsabilità; "Vivevamo segregati a quel tempo" (anche "a quel tempo" è un tipico sgalambrismo, mi piacerebbe contare quante volte fa cantare a Battiato la stessa espressione). Altro tema di Battiato che ritorna fino a noia in Sgalambro è il susseguirsi delle stagioni, che dai tempi di Gente in progresso si è fatto sempre più incessante ("verrà un altro temporale e sarà di nuovo estate... verrà un nuovo temporale e finirà l'estate"). Non mancano anche le citazioni spiazzanti, che Battiato riusciva ad associare al registro della parodia, mentre Sgalambro sembra mortalmente serio quando tira fuori di sproposito un manzonismo come i "monti sorgenti dalle acque".

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44. Quando fui donna o prete di campagna

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[Questa è La Gara, oggi con percussioni pianistiche, nomadi felici, progressioni Pachelbel e l'unica apparizione a Sanremo]. 

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1978: Sud Afternoon (#218)

Sud Afternoon è il brano più enigmatico della fase minimale di Battiato. La stessa etichetta di 'minimale' comincia a stare stretta a quello che Battiato sta facendo: se Za e L'Egitto prima delle sabbie sono effettivamente costruite sulla reiterazione degli stessi accordi (Za) o delle stesse scale (L'Egitto), in Sud Afternoon di accordi ce n'è tantissimi, addirittura suonati su due pianoforti diversi da Antonio Ballista e Bruno Canino. Insieme i due riscoprono la tecnica medievale dell'Hoquetus, che prevede che gli strumenti suonino senza sovrapporsi: forse a Battiato stavolta interessa lo spazio che viene a crearsi tra i due accordi, come quello creato dai sussulti di una campana. È un'ipotesi. Carlo Boccadoro racconta nel suo libro la difficoltà di recuperare, trent'anni dopo, la partitura di quello che all'orecchio profano può sembrare una libera improvvisazione: tutt'altro. Dalla serie di fogli "scritti con grafia di chiarezza assiro-babilonese, in cui per di più molte sezioni erano segnate con triangoli e segni di vario tipo" che lo stesso Battiato avrebbe messo un po' di tempo a decifrare, emergeva una composizione lungamente meditata che richiedeva un'esecuzione scrupolosa e faticosa. "All'inizio di Sud afternoon bisogna suonare sui tasti e contemporaneamente sulle corde con un plettro da chitarra stando in piedi, piegati tra tastiera e cordiera. In questa scomoda posizione è facilissimo produrre accenti non scritti in partitura e Battiato era molto insistente sul fatto che tutto dovesse risultare leggerissimo, impalpabile ma allo stesso tempo assolutamente preciso". Quello che continua a mancare in Sud Afternoon è la melodia – benché ogni tanto qualche frase musicale sembri sfuggire dalle mani dei pianisti, il brano conserva fino alla fine un carattere percussivo. Malgrado abbia abbandonato da tempo i sintetizzatori, Battiato sembra aver mantenuto un approccio 'elettronico' e si aspetta dai pianoforti un tipo di pulsazione non molto dissimile da quella dei vecchi synth a valvole. 


1993: Caffè de la Paix (#39)


Nel corso di mezzo secolo di carriera attraverso generi musicali diversissimi, Battiato ha mantenuto un unico punto fermo (un centro di gravità): il mistico armeno Gurdjieff. Ed è singolare questa cosa, che pur avendone parlato in decine di canzoni e situazioni, non lo abbia mai citato esplicitamente. Il riferimento più preciso è probabilmente in Caffè de la Paix, eppure anche in questo caso si è più volte schermito coi giornalisti, affermando che si trattava di un caffè parigino dove si incontravano dei non meglio precisati "intellettuali". È come se Battiato avesse pudore di dichiarare la sua affiliazione più diretta ed evidente – e bisogna riconoscere che "Georges Ivanovič Gurdjieff" non è facile da cantare (ma Battiato ha cantato stringhe di sillabe anche più cacofoniche). Devo ammettere che questo atteggiamento mi ha sempre lasciato sospettoso: quando uscì Caffè de la Paix, in una fase di rinnovato entusiasmo per gli album dei cantautori che a inizio '90, con Guccini e De Andrè in gran rispolvero, vendevano come il pane, non credo di essere stato l'unico a farmi sviare dalla parola "Paix" e pensare che dopo il concerto di Bagdad Battiato intendesse continuare a navigare sull'ondata pacifista causata dalla Guerra del Golfo. Quando ho capito che si trattava di un riferimento al suo guru mi sono sentito lievemente ingannato, come quelli che si fanno trascinare da un amico a una festa che si rivela un evento di reclutamento per una setta. Battiato in effetti qui sta spiegando un po' di cose in cui crede – proseguendo una lunga professione di fede che è cominciata con Fisiognomica – però, certo, "vieni a prendere un tè" suona molto più affabile di "io credo nelle seguenti cose". Fin troppo affabile: FB sta simulando una discussione che nei fatti non c'è. Anche la domanda con cui termina la canzone, a ben vedere, è una bella immagine ma è soprattutto una domanda retorica ("Ancora oggi, le renne della tundra trasportano tribù di nomadi che percorrono migliaia di chilometri in un anno. E a vederli mi sembrano felici. Ti sembrano felici?"). Musicalmente, Caffè ci fece riprendere fiato dopo che il Cammello ci aveva dato la sensazione che Battiato non sarebbe mai più uscito dalla musica da camera. E invece eccolo qui con fior di strumentisti, etnici e occidentali (c'è anche un paio di futuri King Crimson).  
   


2007: I giorni della monotonia (Battiato/Sgalambro, #167)

Tra noi due ho scelto me. Dopo aver contribuito a rilanciare il festival, mandando Alice a espugnarlo con Per Elisa; dopo essersi mantenuto a prudenziale distanza per quei vent'anni in cui Sanremo era diventato il simbolo della musica italiana deteriore, alla fine Battiato accetta di esibirsi nel 2007, quando ormai ogni steccato sta saltando. Ci porta un brano tutt'altro che orecchiabile, una delle storie d'amore meno simpatetiche mai messe in musica: la storia di due amanti autoreclusi che scoprono di non avere niente in comune, e si baciano per non dover parlare e ascoltarsi. A Sanremo era un anno di rap sentimentali e ricattatori, vinse Cristicchi con un suicidio inventato per commuovere e Fabrizio Moro contro tutte le mafie. Sono quei momenti in cui rivaluti persino Sgalambro, che ha tanti difetti, è barocco e perfino melodrammatico, ma la lacrimuccia facile no, quella è proprio incapace di spremertela. 


2008: It's Five o'Clock (Papathanassiou/Francis, #90)

Dopo aver scoperto, in anticipo su quasi tutti, le potenzialità pop della progressione Pachelbel con Rain and Tears, il trio greco trapiantato in Francia noto come Aphrodite's Child rischiava di non riuscire più a scrollarselo di dosso. Il rischio di dover ricucinare per sempre la stessa pietanza fu una delle cause che portarono alla scissione della band: da una parte Vangelis voleva trasformarla in un progetto prog, dall'altra Demis Roussos non era affatto contrario a dare al pubblico quel che il pubblico chiedeva: infinite variazioni sulla Pachelbel, come questa It's Five o'Clock che alla terza nota sai già benissimo dove andrà a parare e tuttavia il ritornello ti spiazza lo stesso, quando lo canta Roussos, con quella capacità di alzare il volume del falsetto da uno a dieci in mezzo secondo. Battiato su una voce del genere non può contare (eppure la sua versione di Rain and Tears, incisa negli anni Sessanta ma mai pubblicata ai tempi, era di tutto rispetto). Non prova nemmeno a ricalcare la dinamica del brano originale. Si fa aiutare nel ritornello dalla cantante iraniana Sepideh Raissadat, che non riesce comunque a spostare il brano verso longitudini più orientali. Come si fa a capire quando un fleur non è uscito bene? Quando continui a pensare alla versione originale.  

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43. Tribù di suburbani, di aminoacidi

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[Questa è la Gara, oggi con shock emozionali, fulmini globulari, femminicidi, fughe in Messico, attese d'estate]. 

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1998: Shock in My Town (Battiato, Sgalambro, #26)


Shock in My Town
o la ami o la odi (io non posso proprio dire di amarla, mi dispiace). È il Battiato anni Novanta per eccellenza – benché il testo rimandi a esperienze vissute da Battiato molto prima: il senso di alienazione sofferto prima e durante il soggiorno newyorkese del 1973 (da lì l'immagine degli uomini "simili agli insetti"), il "viaggio con la mescalina che finisce male". Insomma nel momento in cui sente l'esigenza di svecchiarsi, di incontrare un pubblico più giovane, Battiato istintivamente ricorda di essere stato anch'egli giovane e un po' schizzato: non proprio impasticcato, ma almeno un brutto viaggio l'ha fatto pure lui. Il successo del brano, uno degli ultimi suoi a essere diventati iconici, può far dimenticare che alla sua uscita fu un azzardo: Battiato non era affatto sicuro che le radio lo avrebbero programmato – e in effetti la dinamica del brano, con l'esplosione del ritornello, è una vera sfida alla radiofonia contemporanea. Invece Shock in My Town funzionò, forse perché aggiornava agli anni Novanta un personaggio che il pubblico ama riconoscere in Battiato: un severo censore dei costumi, aduso a inframezzare le sue tirate con riferimenti a misticismi orientali ("sveglia Kundalini") e anglismi incongrui (l'inglese di Battiato non è fatto di parole, ma di frammenti di frasi, di solito versi di canzoni; in questo caso per fare una specie di rima con "my town" non trova di meglio che "Velvet Underground"). Shock in My Town può piacere perché in effetti è una sfida lanciata alla contemporaneità: Battiato vuole dimostrare di poter essere ancora interessante ma senza rinunciare a essere fastidioso. Può non piacere per la fondamentale ipocrisia dell'operazione – raggiungere i giovani proprio col messaggio che la gioventù d'oggi fa schifo – ma non facevano la stessa cosa i Sex Pistols, e gli stessi Velvet Underground, e Dylan, e un po' chiunque abbia abbinato musica leggera e moralismo? Shock in My Town è la Bandiera Bianca degli anni Novanta, il che ci permette di misurare con una certa precisione la decadenza non dei costumi, ma dei testi delle canzoni di Battiato: alle "stupide galline che si azzuffano per niente" sono subentrati i "neo-primitivi, rozzi cibernetici signori degli anelli, orgoglio dei manicomi": il severo censore somiglia sempre più a un anziano che inveisce dalla panchina – sarà colpa di Sgalambro? Eh ma è troppo facile dare sempre la colpa a Sgalambro. Battiato ha sempre giocato con le parole, ha sempre bluffato: forse il vero problema è che nel frattempo siamo cresciuti noi, e cose come le tribù di suburbani e di aminoacidi non possiamo più passargliele come gli passavamo i gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi.

  

2000: Fulmini Globulari (#231)

Campi Magnetici è del 2000: nello stesso anno Graham Hubler, degli U.S. Naval Research Laboratory di Washington, pubblica la sua teoria sul fenomeno dei fulmini globulari, che a tutt'oggi è la più accreditata: queste bolle di luce sarebbero plasma luminoso, ottenuto dalla miscela tra l'ossigeno e il silicio incandescente disperso nell'aria da un fulmine come scaricato a terra. Secondo altri studiosi i fulmini globulari potrebbero essere allucinazioni causate dai lampi di luce di un temporale. Insomma ne sappiamo ancora veramente poco. Fulmini globulari è il brano più rumorista del balletto; del resto è pur sempre quel Battiato che da bambino si lasciava incantare dall'effetto straniante delle scariche elettrostatiche sulle canzoni che passavano in radio. È lo stesso Battiato che qualche anno più tardi si presentava ai concerti con una radiolina e pretendeva di 'suonare' la modulazione di frequenza. Stavolta l'effetto è quasi invertito: sono le tempeste magnetiche a essere interrotte dall'irruzione della musica sinfonica, la quiete dopo la tempesta. Rimane il dubbio: il rumore con cui Battiato qui sta giocando, il frastuono delle frequenze radio, è quello tipico con cui siamo cresciuti ma che ormai è scomparso dalla nostra quotidianità, con l'affermarsi delle tecnologie digitali. Battiato nel 2000 lo riprende come un pop-artista fuori tempo massimo che ficchi le schermate grigio-cenere della tv analogica in una serigrafia; è ancora avanguardia o è modernariato, o è vintage?


2001: Hey Joe (Billy Roberts, #103)


Ma dove vai con quella pistola in mano. La versione corta è che in Ferro Battuto (2001) c'è un omaggio a Jimi Hendrix: Battiato avrebbe inciso Hey Joe in suo onore. La versione lunga richiederebbe una trattazione in più volumi perché Hey Joe è il classico esempio di canzone che non ha davvero scritto nessuno (al di là della complicata storia di chi ha registrato i diritti, che da sola occuperebbe uno dei volumi). Hey Joe si è scritta da sola o in un certo senso si è evoluta: la conosciamo perché ha funzionato meglio di tante altre canzoni da cui ha preso tutto, ma ricombinato secondo una formula giusta. Hendrix non è responsabile nemmeno di aver rallentato il brano: è vero, prima di lui era una cavalcata (vedi l'epica versione dei Love), ma un folksinger, Tim Rose, l'aveva rallentata pochi mesi prima e Hendrix aveva evidentemente preso da lui. Senz'altro la versione hendrixiana è la più iconica, ma ce ne sono altre memorabili, in particolare a metà anni '90 quella salsa di Willy DeVille furoreggiava, la usava Paolo Rossi in un numero di cabaret. Hey Joe mette insieme cose bizzarre che un autore professionista di canzoni non oserebbe accostare: è un call and response, quindi ha una radice gospel (il coro chiede, il cantante risponde) ma è virato nel blues più demoniaco (il coro chiede a Joe dov'è finita la sua donna, il cantante risponde che la vuole ammazzare, anzi l'ha già ammazzata, anzi scapperà in Messico dove presumibilmente ne ammazzerà altre). Però non è un blues, è un bizzarro giro di giostra sul circolo delle quinte: Do, Sol, Re, La, Mi, e poi resta in Mi, la ruota si blocca. Non ci sono molte canzoni fatte così, o se esistono Hey Joe se l'è mangiate, potremmo chiamarla Progressione Hey Joe, ma è davvero una progressione? È completamente ambigua, è una scala ma non riesci a capire se stiamo scendendo o stiamo salendo (gli strumenti potrebbero fare le due cose simultaneamente): sappiamo solo che dopo il Mi si torna al Do e la ruota ricomincia, questo dovrebbe confortarci ma non lo fa. È musica occidentale? Sì e no, gli intervalli di quinta sono universali, era credibile la salsa di DeVille ed è credibile Battiato che avvalendosi dei vocalizzi di Natacha Atlas decide di farla rai – anzi nell'occasione ci fa rimpiangere quel periodo orientaleggiante, prima che Sgalambro lo riportasse su percorsi più canonici e sinfonici. (Sono gli anni in cui Khaled si fa produrre da Don Was quei dischi pazzeschi, il rai sembra sul punto di diventare il nuovo reggae, poi si sgonfia tutto non ho capito perché, forse perché i ormai ragazzini preferiscono il rap un tanto al chilo). Però alla domanda: si scende o si sale?, Battiato almeno risponde chiaramente: non sembra avere dubbi sul fatto che il "Mexico" in questione sia una via senza ritorno, l'imbuto dell'inferno.

2007: Aspettando l'estate (#154)


 
Anche se non ci sei, tu sei sempre con me. Quando Sgalambro riesce a torcere il collo alla sua eloquenza; quando sceglie per spiegarsi le parole più semplici, più chiare, quando rinuncia a stupire con effetti speciali... niente, rimane pur sempre Sgalambro, nel bene e nel male e soprattutto nella mediocrità tra i due poli. Anzi forse è proprio nei momenti in cui si mette a nudo che capiamo il perché sia molto meglio che si agghindi di paroloni e immagini concettose. Il protagonista di questa canzone aspetta l'estate. L'estate vera o una metafora di una dimensione di felicità in cui rivedrà l'amata? Boh, entrambe. A un certo punto Battiato canta "all'ombra dell'ultimo sole": i battiatologi si affrettano a notare la citazione di De André. Ma è un po' come cantare Shock in my town / Velvet underground: non c'entra niente il pescatore di De André con l'attesa dell'estate di questa canzone, così come non c'entravano i Velvet con Shock in My Town. Non sono vere citazioni o omaggi, sono parole estrapolate dal contesto che riemergono nella memoria a medio termine dello scrittore nel momento in cui non sa cosa scrivere, non sa cosa cantare. La canzone non sarebbe affatto male: a incuriosire l'ascoltatore è la chitarra acustica, usata in un modo molto ritmico. Ma le parole non riescono a restare impresse. Battiato ha sempre amato cantare l'alternarsi delle stagioni, ma nel Vuoto a volte sembra parlarne come si parla del tempo quando si riceve un ospite e non si sa bene che altro dire.

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42. And even less for the tricolour flame

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con sacre sinfonie del tempo, lontananze d'azzurro, treni che fischiano nella sera e inni a Narayana]. 

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1991: Le sacre sinfonie del tempo (#58)

La testa di serie che non ti aspetti. Seminascosto in Come un cammello in una grondaia, uno di quei dischi di Battiato che per ascoltarli ci vorrebbe una certa concentrazione e questa è la scusa per cui alla fine non li ascolto mai, meno appariscente della title track o di Povera patria o dell'Ombra della luce, Le sacre sinfonie del tempo a riascoltarla è una canzone di grande valore, un Lied senza tempo e senza compiacimenti, una lirica in cui Battiato definisce con molta chiarezza alcuni punti fermi della sua personalissima fede nella trascendenza. Un brano che mi ero completamente dimenticato, mentre i battiatofili su spotify se ne intendono abbastanza da averlo portato tra i sessanta brani più ascoltati. Bravi battiatofili. La versione di Torneremo ancora, con la London Philarmonic Orchestra, è piuttosto straziante: è un Battiato in evidente affanno. Meglio, molto meglio la versione originale del 1991. 

1999: J'entends siffler le train (Plante/West, #71)

Que c'est triste un train qui siffle dans le soir. Dopo tanto parlare di Fleurs, potrei aver perso di vista il motivo principale per cui li ho apprezzati (molto più la prima raccolta che le due successive), e perché mi accorgo di apprezzarli più di qualsiasi altra manifestazione battiatesca del 1985 in poi: Battiato è un grande riscopritore di canzoni. In un periodo in cui era molto più difficile di adesso, un periodo in cui le discografie di interi artisti non erano a portata di clic; un'era buia senza youtube e shazam, Battiato ci ha fatto ascoltare e riascoltare brani che senza di lui non avremmo mai saputo trovare. Da cui un'enorme gratitudine nei suoi confronti, che passa quasi sempre sopra i relativi difetti di esecuzione – anche perché se cerchi l'interprete perfetto non ti metti certo ad ascoltare Battiato – e nonostante questo Battiato si è evidentemente sforzato, almeno nel primo volume, di conferire alla sua voce e ai suoi arrangiamenti una dimensione classica: non si trattava (come nel 90% delle cover) di personalizzare questi brani, ma di trovare la strategia migliore per far capire anche all'ascoltatore distratto e obliquo la loro potenza – Battiato sa di avere davanti un pubblico misto e in gran parte poco potenzialmente interessato a pezzi anni Cinquanta e Sessanta, e decide di lustrarli fino a farli risplendere come gioielli di una civiltà più nobile. Questo per esempio è il suo approccio a J'entends siffler le train, un brano che mi commuove ogni volta, non tanto per la bella canzone che effettivamente è; e nemmeno per aver abbandonato qualcuno alla stazione la sera, come gli ascoltatori francesi degli anni '60 che salutavano amici e figli e fidanzati che partivano per imbarcarsi in Algeria e Indocina e mandarono la versione di Richard Anthony al primo posto in classifica. Mi commuovo perché da qualche parte nella mia testa io la conoscevo già, questa canzone; chissà in che versione; forse addirittura in quella folk americana che precede la francese, 500 Miles (il brano è attribuito alla folksinger Hedy West, ma è uno di quei casi in cui la canzone probabilmente esisteva già). Mi commuovo perché Battiato me l'ha ritrovata, perché è riuscito a riaprire uno scrigno impolverato nella mia testa. Fleurs è anche questo, forse è soprattutto questo: un album di ricordi riscattato all'oblio. E ora riascolterò quel fischio per tutta la mia vita.

2001: Lontananze d'azzurro (Battiato, Sgalambro, #199)

Domani parto, cambio vita e altitudine. Ferro battuto è uno degli album più difficili da decifrare. Arriva al termine di un quinquennio in cui Battiato aveva fatto di tutto per agganciarsi alla contemporaneità musicale. Se in Ferro non ci riesce, la responsabilità è meno sua che della contemporaneità musicale, che alla boa del 2000 sembra aver smarrito la direzione. La scena alternativa italiana, in particolare, rompe le righe in modo abrupto: CSI sciolti, Bluvertigo sciolti, non è in assoluto una tragedia per la storia della musica, ma è quel piccolo mondo attraverso il quale Battiato manteneva collegamenti con l'attualità, che nel giro di poche stagioni viene smantellato. Nel frattempo col primo Fleurs FB ha cominciato a guardarsi anche indietro e la sensazione di fronte a episodi come Lontananze d'azzurro è proprio quella di ascoltare altri fleurs, vecchie canzoni sconosciute ripescate da chissà dove. Proprio nell'attimo stesso in cui Battiato proclama "voglio vivere il presente senza fine", la stessa progressione vecchio stile ci suggerisce che un presente vero e proprio non esista più: solo un immenso archivio di passati da cui ripescare, volta per volta, qualcosa che ci siamo abbastanza dimenticati da trovare di nuovo interessante.


2004: I'm That (#186)


The light which is in me is now ablaze in me. Probabilmente la canzone di Battiato più vicina all'universo del metal – non tanto per la presenza di Cristina Scabbia dei Lacuna Coil, ma perché alla fine se sopra i suoni rock abbastanza degli FSC aggiungi interventi orchestrali, riff magniloquenti, un testo ispirato a un oscuro poema orientalista di fine Settecento, alla fine l'aria si fa metallica per forza: un po' dispiace per la Scabbia, che con la voce che si trova potrebbe cantare qualsiasi cosa ma alla fine persino Franco Battiato se la chiama è per l'unico pezzo metal che ha composto in cinquant'anni. Il ricorso all'inglese, in teoria giustificato dalla necessità di non allontanarsi dalla fonte dell'ispirazione (l'Hymn to Narayana dell'orientalista William Jones), consente a Battiato di infilare nel brano una dichiarazione insolitamente esplicita, benché in negativo: "Non sono né musulmano né induista, né cristiano né buddista; non sono per il martello né per la falce, e ancora meno per la fiamma tricolore, perché sono un musicista". Solo questo oggi possiamo dirti... L'Excusatio non petita, si sa, implica un'accusatio manifesta: qualche anno prima Battiato si era ritrovato probabilmente per equivoco a cantare a una festa di paese organizzata da Alleanza Nazionale, e al di là della polemica (per la verità abbastanza contenuta), l'idea di essere associato alla "tricolour flame" ancora lo bruciava. E però questa dichiarazione di non appartenenza, che dà anche un senso al buffo titolo inglese ("io sono quello"), Battiato non riesce a pronunciarla, neanche in inglese che per lui è quasi sempre la lingua del mascheramento: la fa cantare alla Scabbia. 


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41. Mare mare mare voglio annegare

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con una canzone finta, una canzone metafisica per l'estate, una canzone su una puttana e una canzone dei Rolling Stones]

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1973: Love  (Conz, Battiato, Massara #250)

You, who are you? I need your love my baby. Tra i più enigmatici oggetti prodotti da Battiato in cinquant'anni c'è senz'altro questo singolo uscito per la BlaBla nel 1973 a nome Springfield: tanto da farci ipotizzare che fosse più un titolo da mettere in bilancio che un disco stampato per venderlo davvero a qualcuno. La musica richiama genericamente il pop-rock di qualche anno prima: se sul lato B Soldier somiglia comunque a una canzone compiuta, il lato A sembra rimasto a una fase di abbozzo: e allo stesso tempo contiene qualche vaga traccia della personalità del cantante che vi compare in forma anonima. Comincia in sordina, con un organo e una voce femminile i cui vocalizzi eccentrici ricordano quelli che Battiato farà cantare a Camisasca in Agnus. Anche la progressione all'inizio è la stessa, ovvero la 'scala infinita' di Stranizza d'amuri, e in effetti anche Love sembra costruita come un crescendo. Nel giro di meno di un minuto però a prendere il sopravvento sono le parole, di una banalità ipnotica che rasenta il nonsense, e che dirottano il brano in direzione Phil Spector: insomma il primo tentativo di Stranizza si trasforma all'improvviso in Be My Baby delle Ronettes. Ancora poche decine di secondi e il brano sfuma, lasciandoci ancora una volta davanti al mistero: perché? Non è che le canzoni in generale debbano avere un senso, ma Love ne è talmente priva che non riesci ad accettarlo, dev'essere un esperimento, un collaudo, una truffa, insomma dev'esserci sotto qualcosa che non sappiamo.

1981: Summer on a Solitary Beach (Battiato/Pio, #7)

Passammo l'estate su una spiaggia solitaria. Chissà se Battiato si rendeva conto, in quanto siciliano trapiantato in Lombardia, di quanto alle nostre latitudini suoni strano (e quindi evocativo) quel passato remoto, "passammo". Dev'essere successo molto tempo fa, e non è più ripetibile. Inoltre è un plurale, il che contraddice il concetto di solitudine evocato (maldestramente) dal titolo inglese. Battiato non era solo, sulla spiaggia: ma lo diventa davanti al mare ("portaMi lontano a naufragare"). La prima canzone della Voce del Padrone fa parte di un trittico con cui Battiato e Giusto Pio tra 1980 e 1981 s'impadroniscono del concetto di canzone per l'estate: un concetto che non sarebbe più stato lo stesso dopo Il vento caldo dell'estate, Un'estate al mare e Summer on a Solitary Beach. La spiaggia non sarebbe mai più stata un semplice luogo di svago e corteggiamento: piuttosto il luogo metafisico dove il sole ci nutre, i suoni annullano le distanze, il mare ci annulla. Tutto questo appare subito chiarissimo anche a noi bambini degli anni Ottanta, che inorridiamo ascoltando dalle radioline Abbronzatissima o Sei diventata nera come il carbon: quella non è la nostra spiaggia, è la spiaggia dei nostri genitori che chiacchierano coi vicini di ombrellone come in un grande cortile. La nostra spiaggia è diversa, è un silenzio fatto di rumori che ritroviamo sempre uguali a un anno di distanza, attutiti dalla sabbia e rifranti dal cemento degli stabilimenti; l'eco di un cinema all'aperto misto alla risacca e al richiamo del venditore di cocco. Non siamo venuti per divertirci, ma per trovarci davanti all'assoluto. Il sole ci nutre, il mare ci scioglie, Franco Battiato lo sa. Summer è la Sequenze e frequenze del nuovo decennio, salvo che ora i bambini davanti al mare siamo noi. C'è persino il sassofono, come in Aries, anche se molto più misurato. 



1996: Ecco com'è che va il mondo (Battiato/Sgalambro, #135)

 
Era la più grossa puttana che avessi mai visto. Nei primi anni di collaborazione con Sgalambro, Battiato sembra volersi affidare a lui anche per uscire da una certa comfort zone: un insieme tutto sommato abbastanza ristretto di parole, immagini e concetti che il pubblico ormai associava automaticamente al suo personaggio. Nella lirica di Sgalambro, Battiato può avere intravisto una via di uscita dagli stereotipi che si era cucito addosso. In certi casi tra L'ombrello e Gommalacca sembra che Battiato si diverta a cantare cose che nessuno si aspetterebbe da lui, ad esempio qui dice addirittura "puttana"! E cantata da qualsiasi altro cantante non ci avrebbe fatto alzare un sopracciglio. Ma Battiato che canta "puttana", beh, in effetti ci colpisce. Purtroppo qui non c'è molto di più, ovvero sì, la canzone non è male, è ben orchestrata, ben arrangiata... ma rimane in definitiva la canzone in cui Battiato dice, abbastanza gratuitamente, "puttana". Ecco com'è che va il mondo. 

2014: As Tears Go By (Jagger/Richards, #122)


La leggenda dice che As Tears Go By fu la prima canzone scritta da Keith Richards e Mick Jagger, e che il loro manager (Andrew Loog Oldham), deciso a fare dei due ragazzi gli anti Lennon/McCartney, li aveva chiusi a chiave in cucina e non avrebbe riaperto finché non avessero scritto una canzone, una qualsiasi canzone. In linea di massima non è il caso di credere a nessuna leggenda intorno ai Rolling Stones, ma è vero che As Tears Go By ha qualcosa di acerbo, quasi scolastico. Probabilmente è stata la sua relativa facilità a farlo scegliere per il duetto live di Antony e Battiato, nel concerto all'Arena di Verona nel 2014. Battiato lo canta con sicurezza, Antony può vocalizzare a piacere. In un certo senso è l'ultimo dei fleurs.

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40. Scendono inaspettatamente lacrime

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con il primo brano che molti abbiamo ascoltato, uno dei più lunghi che abbiamo sopportato, una delle cover più brutte che ha inciso e l'ultima canzone che ha pubblicato].


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1974: Propiedad prohibida (#175) 

Il primo Battiato in assoluto che la mia generazione ha ascoltato non è quello anni Sessanta (ai tempi introvabile), né quello di Fetus (anche quello ormai sepolto negli scaffali dei dischi degli zii fricchettoni), né quello pop della Voce del padrone che pure era l'unico Battiato di cui fossimo consapevoli. Il primo Battiato era rinchiuso in una gemma essenziale e inquietante di pochi secondi: la sigla di Tg2 dossier, un delirio optical da cui vedevamo occhieggiare, sempre più grande e deformato, il volto di un attore somigliante a Patrick McGoohan, il Prigioniero della serie inglese. La musica era un breve ritaglio di Propiedad prohibida, e anche se qualcuno ci avesse detto: ma lo sai che è di Franco Battiato?, in nessun modo al mondo saremmo riusciti a collegare l'autore di Bandiera bianca o Voglio vederti danzare a quel turbinio di note sintetiche. Il quale era appena un po' più inquietante della media di tutte le sigle e gli stacchetti che ascoltavamo in tv a cadenza settimanale e tuttora pulsano inestinguibili nella nostra memoria a lungo termine, brevissime cascate di note che inevitabilmente attivano nella nostra mente dei circuiti anche impolverati dai decenni.

Il primo Battiato che abbiamo ascoltato era anche l'ultimo Battiato pioniere elettronico: la prima volta che ci è dato ascoltarla, a un festival torinese del 1974, Propiedad è ancora una lunga improvvisazione per sintetizzatori e sequencer in cui Battiato dimostra di essere diventato un one-man band trascinante: non è che gli cadono proprio tutte le dita sui tasti giusti, ma è impressionante quanta sonorità riesce a mobilitare davanti al pubblico – e ci canta pure sopra. Siamo ancora in zona Sequenze e frequenze, è un brano ipnotico e potenzialmente interminabile e che malgrado tutte le suggestioni dell'Europa elettronica e dell'Asia ascetica, a un certo punto si trasforma in una tarantella: Battiato non può farci niente, è come se le sue mani dopo qualche minuto di improvvisazione lo riportassero là, ai ritmi ipnotici delle danze di paese. 

Quando Propriedad arriva in sala di incisione il mood è cambiato completamente: "Clic" è il disco della freddezza e del rigore, Battiato sta studiando Stockhausen e concepisce sempre di più la musica come esercizio. Le libere associazioni della versione dal vivo vengono fuse, sovrapposte in una multipista di pochi minuti: non solo, ma in qualche pista Battiato aggiunge ai sintetizzatori una specie di orchestra da camera: ancora minimale, forse solo una viola, un oboe e un violino, che subentra progressivamente ai sintetizzatori, finché verso i 3 minuti e 20 secondi non ci accorgiamo che il brano è diventato completamente acustico – è solo un breve istante, poi il sintetizzatore riconquista la scena. L'aspetto più affascinante di Propriedad è proprio questa stratificazione sonora, più complessa e concentrata che in Sequenze e frequenze, ottenuta alzando e abbassando il livello di tracce che non suonano esattamente allo stesso ritmo: i sintetizzatori vibrano ognuno a modo suo, l'orchestra paradossalmente è più quadrata e martellante, ma il vero compito di battere un tempo spetta alla percezione dell'ascoltatore. Questo rende abbastanza deludente l'ascolto della versione di Joe Patti's Experimental Group (chiamata in italiano, Proprietà proibita), che più di essere la definitiva, è una versione concepita per l'esibizione dal vivo: l'orchestra ovviamente non c'è più, in compenso c'è una bella cassa dritta a rassicurare gli ascoltatori sul fatto che sì, anche questa techno-prima-della-techno è ballabile. 


1977: Cafè-Table-Musik  (#210)

Proust, chiamò scherzosamente (?) dei suoi libri, "Coffee-table-books"... Questo pezzo… della regressione europea, è una specie di collage-orfico; pieno di sostituzioni, manipolazioni, citazioni false, o meglio: copie originali. Nel disco omonimo/anonimo del 1977, per la prima volta Battiato prova a spiegarsi nelle note di copertina. Non si può onestamente dire che ci riesca: anche la citazione di Proust (che non mi è dato rintracciare) chissà cosa doveva significare, sia per lo scrittore che per il musicista. Forse Proust voleva rivendicare una certa superficialità (o nascondercisi sotto); ma Battiato è proustiano in un modo che capisce solo lui. Un libro da coffee-table è più un complemento d'arredo che un oggetto letterario: che FB abbia deciso di incidere musica per ambienti, un anno prima che Brian Eno coni la definizione col suo Music For Airports? È difficile dire; in Cafè trovano spazio alcune delle idee che Battiato aveva messo in scena nello spettacolo Baby Sitter al Teatro Out Off di Milano. Se all'inizio sembra voler proseguire quel filone concreto inaugurato con Ethika Fon Ethica e sviluppato in Goutez et comparez, presto ci accorgiamo di avere a che fare con un oggetto molto più musicale. È vero, ci sono ancora incursioni rumoriste (perlopiù dialoghi nonsense tra il pianista Antonio Ballista e la cantante Alide Maria Salvetta), ma la maggior parte di Café è occupata da tre composizioni per pianoforte eseguite da Ballista, di stile minimale ma lontane dall'oltranza di Za che occupa l'altro lato del disco. È in effetti musica gradevole, che Battiato invano prova a problematizzare inframezzandola con interruzioni incongrue ("aranciate panini birra!"). 

 

2002: Ritornerai (Lauzi) (#82)

Uno degli episodi più sconcertanti dei Fleurs e in generale della discografia di Battiato – di tutte le canzoni che poteva prendere in prestito da Lauzi, proprio Ritornerai? Oddio in effetti ha anche ripreso Se tu sapessi, insomma si direbbe che di Lauzi a Battiato piaceva il lato manipolatorio. Non è proprio il modo migliore di ricordarlo: Lauzi ha anche scritto canzoni tenere e struggenti, ma FB ha preferito questa, in cui la donna viene messa davanti al suo destino: non poi vivere senza di me e io non ho nessuna intenzione di cambiare, resterò l'illuso di sempre, prendere o lasciare, e anche se mi lasci... ritornerai. Lauzi almeno la sua versione la sussurrava, su un bolero che suggeriva l'ossessività di un maschio illuso. Battiato, ci abbiamo già fatto caso, queste sfumature non le nota, non le trova interessanti: viene quasi da concludere che non sappia di cosa sta cantando. La possessività è un sentimento così poco connaturato in lui che non riesce nemmeno a fingerlo per tre minuti, e inoltre l'accompagnamento della sua Ritornerai sembra una presa in giro. I dischi di cover devono difendersi da quello che io definisco effetto karaoke, non saprei come altrimenti spiegarmi, salvo che nel primo volume Battiato non ci cascava mai e invece in Fleurs 3 ci sguazza. È quel che succede quando ti concentri sulla tua interpretazione e ti accontenti di arrangiamenti ordinari, ad esempio in Ritornerai sembra veramente il pianobarista con la base ritmica preselezionata. Non viene proprio voglia di ritornare ad ascoltarla.


2015: Le nostre anime (#47)


Abbiamo tutti una nostra Beatrice a cui pensiamo tutti i giorni, incuranti del fatto che lei nel frattempo si sia felicemente sposata e ormai anche i suoi figli, mentre i nipoti si laureano del tutto ignari della nostra macerazione quotidiana. Abbiamo tutti una Laura che ogni tanto incontriamo in sogno e ci dice che sì, avremmo dovuto metterci assieme, in effetti era la cosa giusta da fare e a questo punto ci vediamo di là. Abbiamo tutti una madonna Fiammetta che riflettendoci, praticamente stavamo già assieme, serviva solo un po' di coraggio, perché non l'hai avuto maledetto? Abbiamo tutti intorno al cuore queste due o tre donne immaginarie – ormai completamente sganciate dalle donne reali che vivono oggi negli stessi corpi – e perlopiù non ci caschiamo, ormai abbiamo abbastanza esperienza di vita di coppia per sapere che no, non saremmo stati felici né con l'una né con l'altra. Questo tipo di esperienza, questo antidoto ai ripensamenti, l'individuo Franco Battiato non l'ha voluta avere, per una scelta di vita non del tutto priva di rimpianti tardivi. Ciò lo ha reso più libero, più creativo, ma anche più vulnerabile alle donne immaginarie, ai fantasmi della memoria, ai desideri per loro natura inestinguibili. Le nostre anime parla di questo, in modo spudorato. È probabilmente l'ultimo brano che Battiato ha pubblicato consapevolmente, nell'omonimo cofanetto antologico del 2015. Ascoltarla senza superare la sensazione di imbarazzo è abbastanza difficile: addirittura impossibile se guardiamo il video, con Battiato che ascende al cielo in compagnia di Marinelli e Alba Rohrwacher, vestito con una giacca che gli aveva regalato il già defunto Arcieri. La voce è già tremante, le frasi sembrano un po' sconnesse – non c'è neanche più Sgalambro a fare da schermo – Battiato ci parla di reincarnazione perché ci crede davvero: dai desideri che continua a provare potrà dipendere il suo destino di anima immortale, che in questa vita ha scelto la solitudine, ma nella prossima chissà. Come reagire, cosa pensare. Niente. Scendono inaspettatamente lacrime. 

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39. I love you especially tonight

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[Probabilmente qualcuno ha già intuito che questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con martiri celesti, zone depresse, deprivazioni spaziotemporali e atti d'accusa nei confronti di imperialismi orientali].

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1978: Martyre celeste (per due violini) (#239)



Un brano di Juke-box che si intitola "Martirio": la faccio la battuta? Sono cinque minuti di violini che dialogano, legnosi e lagnosi, suonati da due apparenti automi che invece sono Battiato e il suo maestro di violino, Giusto Pio: mentre li ascoltiamo tutto potremmo immaginare tranne che questi due suonatori bislacchi stiano per diventare i Lennon/McCartney del primo spicchio degli anni Ottanta italiani. Sul serio, mancano tre anni al trionfo di Alice a Sanremo, al milione di copie della Voce del padrone, a Un'estate al mare, e questi sembrano completamente presi da esperimenti pencolanti sulla soglia dell'inascoltabilità. La faccio la battuta? Martyre celeste è un martirio soprattutto per l'ascoltatore, ah ah ah, scusate, non c'era verso di evitarla.


1983: Zone depresse (Battiato/Pio, #111)

Mi regali ancora timide erezioni. Che cosa carina da dire a una persona. O no? Nel dubbio non l'ho mai detto a nessuno, ma l'ho sempre trovato molto carino: qualcuno prima di Battiato aveva mai pensato di dirlo? Qualcuno aveva mai definito un'erezione "timida"? Che significa insieme: involontaria, ma anche spontanea, e comunque inoffensiva, introflessa, insomma un modo di rivendicare la propria corporeità maschile senza poter cadere in nessun sospetto di machismo che suona ancora notevole per il 2022, e Battiato ci arrivava serenamente nel 1983. Lui quei saggi ginnici davvero non riesce a toglierseli dalla mente, cinque anni dopo Stranizza d'amuri è ancora un chiodo fisso. Zone depresse è un pezzo esemplare di Orizzonti perduti, con tutti i pregi e i difetti: ritornello straordinariamente cantabile, strofa più sofisticata di quanto possa sembrare, inciso imprevisto che in realtà stava diventando uno standard delle canzoni del periodo, il cosiddetto "special" (stavolta c'è Battiato si atteggia a maestro di danza e urla comandi in francese), arrangiamenti visibilmente sintetici che creano un contrasto straniante coi contenuti nostalgici, questi ultimi affidati a bozzetti crepuscolari che Battiato quasi si compiace a guastare con allusioni all'irruzione della civiltà dei consumi: poi la fine un giorno arrivò per noi, dammi un po' di vino oh oh oh con l'idrolitina.  


1985: No Time No Space (#18)

Keep your feelings in memory. Mondi lontanissimi è uno di quei lavori in cui sotto gli arrangiamenti riesci a sentire la scadenza contrattuale. Si capisce che Battiato ha voglia di fare altro, che questa cosa di incidere tot canzonette all'anno gli risulta sempre meno divertente. In quel periodo sta lavorando a quella che presumibilmente sarà la sua prima opera di compositore maturo, la Genesi, il che lo spinge forse a ragionare in modo sinfonico anche in ambito pop. Tornano insomma i violini e suonano sempre più forte, sempre meno ironici, ormai sparano bordate alla Zaratustra e fanno sul serio. Quando usi l'orchestra in una canzone corri sempre il rischio di risultare enfatico o trombone e Battiato lo corre senza rimpianti. No Time No Space è il suo ritornello più arrogante, col suo inglese immaginario che o lo ami o lo odi. Il video enfatizza l'aspetto orchestrale (che al tempo rassicurò chi era rimasto sconcertato dai suoni digitali di Orizzonti perduti), con un notevole piano sequenza di un'esibizione con strumentisti acustici, orchestrali digitali e coro in cui a un certo punto lui si alza dal tappetino, si infila le scarpe e se ne va scocciato. "Non so perche' il suo modo di camminare verso le scale mi ha sempre commosso" (un commentatore su YouTube).


2008: Tibet (#146)

We can not excuse you for your behaviour. Magari di noi non resterà quasi niente, voglio dire: ormai nel grande calderone dell'umanità siamo una cultura abbastanza minuscola e forse anche più marginale di quanto ci rendiamo conto di essere. Ogni tanto quasi per caso fiorisce qualcosa di imprevisto e che anche il resto del mondo meriterebbe di conoscere (Franco Battiato, ad esempio), ma sono casi sempre più rari, la globalizzazione culturale non gioca a nostro favore. Inoltre l'Occidente è in contrazione, insomma magari tra un millennio la Storia del secolo XXI sarà raccontata perlopiù dal punto di vista dell'Asia, e la canzone più famosa di Franco Battiato sarà proprio Tibet: non per il suo valore musicale, ma perché comparirà in una piccola sottovoce della pagina "critici occidentali dell'imperialismo cinese", così come di tutta la cultura dei nativi americani resiste solo qualche rampogna di qualche capotribù contro i bianchi che avanzano. Più che un brano di protesta, Tibet è un brano di testimonianza: che può fare un cantante di una piccola cultura marginale, di fronte a a un'ingiustizia decennale? Può dire, con la lingua più chiara che può, che non lo accetta, che non perdona, che non dimentica. Per la prima volta l'inglese di Battiato non serve a nascondere significati ma a diffonderli il più possibile: Tibet non è rivolta a noi (che l'ascoltiamo magari con imbarazzo), ma all'Impero cinese, Battiato lo chiama proprio così e usa parole che crede possano, per quanto è possibile, colpirlo: The divine empire has fallen into dishonour. Se il prezzo da pagare è un'accusa di ingenuità, è un prezzo che Battiato ha sempre pagato con noncuranza. Tibet si era già sentita nell'edizione digitale di Fleurs 2 (su Itunes): ma la maggior parte del pubblico la ascolta per la prima volta l'anno successivo, quando va a rimpolpare Inneres Auge

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38. Che resta dunque di tutto ciò, ditemi un po'

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con Bowie, Gesualdo Bufalino, il mercato degli Dei e l'ombra della luce]. 

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1972: Anafase  (#178)

In biologia l'anafase è "la terza fase della divisione del nucleo cellulare caratterizzata dalla scissione dei centromeri presenti nei cromosomi, dalla separazione dei due cromatidi che vi erano attaccati e dalla loro migrazione ai poli del fuso". Musicalmente, Anafase comincia come un brano cantautoriale per voce e chitarra che riprende sottilmente l'Aria sulla Quarta Corda che abbiamo intrasentito in Meccanica. È il momento più davidbowieano di tutto Fetus, anzi di tutta la carriera di Battiato: si respira la fragranza di quella miscela particolare tra ballata acustica e suggestioni cosmiche che ci obbligano a domandarci se non si tratti di una convergenza evolutiva: cioè Battiato stava per inventare Ziggy Stardust con qualche mese d'anticipo? o non piuttosto un'influenza diretta: possibile che Battiato conoscesse Bowie, negli anni in cui quest'ultimo, dopo il successo di Space Oddity, faticava a farsi conoscere anche in patria? Di Bowie, Battiato non aveva praticamente mai parlato: solo dopo la sua morte consegnò ai giornalisti un ricordo un po' confuso in cui ammetteva di aver amato "da pazzi" Space Oddity e non solo. "Hunky Dory  i biondi capelli, una femminilità fotografica, alla Greta Garbo. Aveva già rinnegato il passato, per il futuro. Londra era una polveriera. La droga imperversava. Io volevo vedere e capire quello che capitava. La mia paura era di passare di fianco a una nuova moda che stava per arrivare. Non desideravo altro che locali..." Dunque Battiato potrebbe in effetti avere ascoltato già nel 1971 Hunky Dory, un disco che prima del successo di Ziggy Stardust (uscito sei mesi dopo Fetus) era sconosciuto anche a gran parte del pubblico inglese? Non so quanto questo sia compatibile col servizio militare che Battiato avrebbe assolto (faticosamente) proprio nel 1971. Del resto si tratta di un momento brevissimo, una strofa appena dopodiché la canzone prende una svolta completamente imprevista, lasciando spazio ai synth che stavolta dovrebbero suggerire una fase di quiete (forse l'ibernazione per un viaggio spaziale, dal testo si intuisce qualcosa del genere). È davvero come assistere alla terza fase della divisione del nucleo cellulare di FB: da un cantautore si separa l'avanguardista. Proprio nel momento in cui il cantautore poteva diventare il Bowie italiano... troppo tardi.  


1974: Il mercato degli dei (#207)

Il mercato degli dei completa la prima facciata di "Clic", e quindi è abbastanza naturale considerarlo una coda dell'unico brano cantato, No U Turn. È forse il primo in cui dalle nebbie sintetizzate emerge quello stile pianistico minimale che ritroveremo in purezza in Za e nell'Egitto prima delle sabbie. C'è una specie di melodia, o è un arpeggio? In ogni caso è qualcosa che il pianista cerca e non trova per tutta la canzone, mentre il synth crea una distanza, una profondità. Come nel caso di Ethika fon ethica, questi abbozzi di pochi minuti risultano più promettenti, e forse più interessanti, delle suites successive.   

1991: L'ombra della luce (#50)

E non abbandonarmi mai. L'ombra della luce è una supplica a un Ente non necessariamente supremo ma vigile e sollecito – un angelo custode? – qualcuno che comunque fa piacere invocare a intervalli regolari. È lo stesso approccio di E ti vengo a cercare: ma quella era ancora una canzone; questa è una preghiera. La differenza può sembrare piccola, ma di canzoni se ne scrivono tante: di preghiere ne resiste una al secolo. È difficilissimo scriverle senza sembrare invasati o apparire ridicoli: Battiato c'è riuscito e poi, per un po', non ha più ritenuto necessario scrivere testi. (L'ombra della luce è anche il negativo della Cura: qui Battiato chiede di non essere abbandonato; là ci prometterà di non abbandonarci). (Il problema è che se la richiesta può essere inoltrata in buona fede da un credente sincero, la risposta non può che arrivare da un manipolatore). (O da un Dio). (E siccome Battiato non è un Dio...) (o lo è?)

1999: Che cosa resta (Trenet, Chauliac, Bufalino, #79)

E tu perduta anima di ieri: perché sparisti? Chi ti rubò? Dimmelo un po'. Che cosa resta, oltre a essere il manifesto dei Fleurs, ne è anche l'atto fondativo: ed è molto bello che ad attendere alla nascita del nuovo Battiato Interprete sia stato un grande scrittore – Gesualdo Bufalino – con un gesto bizzarro e toccante: un fax. La storia la racconta Battiato stesso: un giorno riceve da Bufalino la traduzione di Que reste-t-il, un grande successo degli anni Quaranta per Charles Trenet, che la generazione di FB conosceva al massimo attraverso Baci rubati di Truffault (più tardi lo ascoltiamo nel finale della Terrazza di Scola, cantato appunto dai vecchi ruderi della generazione presessantottarda che presentono la fine). Il fax sarebbe stato inviato due anni prima della morte di Bufalino, quindi nel 1994: Battiato in quel periodo forse è immerso nei suoni digitali dell'Ombrello e la macchina da cucire e di questo Trenet tradotto in rima baciata non sa che farsene. Per amicizia realizza comunque una versione privata per pianoforte e voce, che non solo deve aver soddisfatto lo scrittore, ma riesce a riaccendere l'interesse di Battiato per le cover confidenziali, un genere che non frequentava dai tempi delle balere. Battiato ammetteva di essersi affezionato anche all'"ingenuità" di una traduzione che presumeva composta da un giovane Bufalino. Ma a guardarla bene è una versione finissima, che lo scrittore avrebbe potuto ritoccare per quarant'anni e che riesce veramente nell'impresa di renderci il senso del testo di Trenet (in certi punti superandolo) regalando alla letteratura italiana una canzone struggente su come il tempo devasti i nostri ricordi: "Rivedo un viso, mormoro un nome, ma non ricordo quando né come; penso a un villaggio dove non so se tornerò". Questi non sono versi di un poeta giovane. Nemmeno di un traduttore giovane. Battiato per l'occasione rispolvera l'espediente iniziale della voce che esce dal grammofono (come in Honey Pie), a ribadire che questo fleur è veramente più antico degli altri. 

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37. Voli imprevedibili ed ascese velocissime

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, con uno scontro doloroso che prefigura le difficoltà che incontreremo nei turni successivi: Gli uccelli contro Shakleton].

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1969: Bella ragazza (Battiato/Logiri, #242)

Bella ragazza / Occhi d'or è il 45 giri con cui Battiato e Logiri dilapidano il capitale di credibilità acquisito con È l'amore. Accade qui per la prima volta quello che si ripeterà poi in diverse situazioni (ad esempio con "Clic" e L'arca di Noè): appena FB capisce di aver trovato una formula che piace al pubblico, la butta via. In questo caso la dilapidazione avviene su due fronti: su quello testuale, Battiato riparte con la solita tritissima retorica degli amori stagionali – stavolta lui è al mare e lei non c'è, chiamiamola posizione dell'Azzurro rovesciato – e la porta avanti fino all'autoparodia: piove, lui è triste, pensa a lei e non riesce a divertirsi, ma poi nella seconda strofa finisce di piovere e lui ha già smesso di essere triste, insomma credevate che fosse amore ed era meteoropatia. Sul fronte degli arrangiamenti, Bella ragazza è un esempio tipico di cosa succede quando lasciate dei ragazzi volonterosi ma inesperti con un medio budget e un registratore otto piste: un'orgia sonora. Si parte con chitarre, violini e batteria (e un clap di mani riverberato) e si arriva coi fiati e sul finale c'è persino una specie di assolo di tastiera che ha già qualcosa di Fetus. Al centro compare quel vezzo compositivo che compromette ulteriormente la potenzialità commerciale del brano: Battiato rallenta il ritmo nel ritornello. Succederà anche in Vento caldo e non ha molto senso: ma forse è il primo tentativo di realizzare quella sospensione ritmica che riascolteremo poi in Summer On a Solitary Beach o nel Vento caldo dell'estate.  

1981: Gli uccelli (Battiato/Pio, #15)


Gli uccelli potrebbe semplicemente essere la canzone perfetta di Battiato. Immaginate un diagramma di Venn: in un insieme mettiamo i Lied di ispirazione romantica (anche se c'è persino qualcosa di vivaldiano nei gorgheggi finali). In un altro mettiamo la sperimentazione elettronica, che qui compare in dosi minime ma fondamentali. In un altro ancora, l'uso estroso dei linguaggi tecnici, che qui FB padroneggia (meglio di quanto padroneggerà mai Sgalambro): Gli uccelli è insieme criptica e chiarissima, le geometrie esistenziali non sapremmo come altro definirle ma abbiamo tutti capito cosa sono almeno una volta, ascoltando la canzone e guardando gli uccelli. In un insieme mettiamo la chitarra acustica, perché Battiato ha cominciato suonandola nei locali e Gli uccelli è la sola canzone della Voce del padrone in cui si sente, dopo il preludio di violini; è anche la canzone di Battiato che dà più soddisfazione ai chitarristi da spiaggia, con una progressione non banale che varia intorno al classico Do/Sol/La-/Fa (Camisasca ci scrisse tutta Nomadi, mentre Uccelli contiene anche un elegante cambio di tonalità). In un insieme mettiamo la vocalità, perché non è facile cantare gli Uccelli, se non sei Franco Battiato (lui per fortuna lo è). In un altro insieme mettiamo la meditazione/contemplazione, che negli anni dei dischi pop era stata temporaneamente rimossa dalla proposta musicale di FB, ma cova ancora in canzoni come questa o Segnali di vita, i tesori nascosti per quanto si possa nascondere qualcosa in un disco miliardario di mezz'ora come La voce del padrone. Possiamo persino tracciare un piccolo insieme di canzoni segnate dall'ossessione per la stagionalità – negli Uccelli c'è anche quella, perché migrano gli uccelli, migrano, con il cambio di stagione. Abbiamo tracciato tutto? No, alcune cose mancano o forse non riusciamo a vederle (le pretese culturali, il minimalismo), però non c'è una canzone che si trovi nell'intersezione di tanti insiemi come Gli uccelli. Il che non vuol dire che Battiato non abbia scritto canzoni migliori – oddio non me ne vengono in mente parecchie – ma forse a qualcuno che volesse capire in breve cos'è stato Battiato, Gli uccelli è la prima che dovremmo somministrare. Per quanto mi riguarda, Gli uccelli è una sorpresa infinita – in teoria la so a memoria, in pratica ogni volta che la riascolto rimango sbalordito: ma che roba è? Ma come ha fatto a scriverla, così, all'improvviso? La melodia è persino semplice, voglio dire – è stato Giusto Pio? Com'è che per anni questi due ci hanno fatto credere di essere avanguardisti spietati e intanto avevano in canna un colpo del genere? Con tutte le cose che mette insieme, è anche una canzone che fila in modo straordinariamente naturale, e alla fine parla anche di sé stessa: Battiato sembra comporla e cantarla con la stessa spontaneità miracolosa con cui gli uccelli migrano. Voli imprevedibili ed ascese velocissime: questo è Battiato. Non voglio dire che ascoltando Gli uccelli mi riconcilio col creato: ma di sicuro mi riconcilio con Franco Battiato e tutta la musica assurda che mi ha fatto ascoltare. Bisogna scrivere cento brutte canzoni per scriverne una buona, diceva Dylan: e Dylan di questa cosa s'intende molto. 


1998: Shakleton (Battiato/Sgalambro/Wieck, #143).



Una catastrofe psicocosmica. È abbastanza raro che un brano sia talmente migliore di tutto il resto del disco da rovinarlo. Shakleton è il pezzo che ci fa capire cosa avrebbe potuto fare Battiato con Gommalacca se invece di perdere tempo a collaborare con tutti questi giovinastri ancora presi col rock fosse rimasto per più tempo da solo nel suo studio di registrazione a lavorare sulle ritmiche e i campionamenti. Ce ne accorgiamo meglio oggi, con i Novanta ormai ben dietro le spalle: oggi che capiamo meglio cosa c'era di velleitario e ridondante nella scena alternativa italiana di quegli anni, e anche il fatto che Battiato rifaccia gli Underworld con qualche stagione di ritardo non dà più nessun fastidio, anche perché per quanto potesse essere in ritardo erano pur sempre gli Underworld: chi altri in Italia era stato in grado di tenersi al passo ai tempi come questo ex freak, ex cantautore, ex musicista colto, dal suo studiolo di Noto (CT)? Con un testo che sembra ritagliato da una Domenica del Corriere ("Ma il 30 Agosto 1916, il leggendario capitano compariva a salvarli").
Sinceramente quando ascolto Shakleton non riesco a separare l'ammirazione (è un grande pezzo, davvero) dal rimpianto: Battiato nel 1998 era in grado di fare cose del genere, perché non ha continuato? Oddio un po' ha continuato: Campi magnetici, Ode. Ma forse non ci ha creduto quanto ci poteva credere, in fondo ormai da lui la gente si aspettava strofe e ritornelli in segmenti di tre/quattro minuti e lui ci teneva anche a dare soddisfazione alla gente. Forse è più colpa nostra che sua, forse una scena italiana in grado di assorbire pezzi come questo non c'era. Shakleton è la promessa di un Quarto Battiato che non si è mai veramente realizzato (o forse era un quinto, ho perso il conto). Un artista coraggioso e innovativo a cui avremmo perdonato le ingenuità (Shackleton si scrive con la c) come garanzia di genuinità – in grado di estrarre suggestioni genuine anche a quella coppia di dinosauri che continua a portarsi dietro, Sgalambro e "Carlotta Wieck". Anche solo il modo in cui li tratta in Shakleton, come frammenti sonori campionati a un passo dal disperdersi nell'etere, dimostra un salto di qualità purtroppo in seguito rinnegato. Degna di nota anche la successiva incarnazione (L'isola elefante) nel Joe Patti Experimental Group. 


2012: Aurora  (#114)

Vento, tu che sei passato sul sobborgo / Ed hai abbeverato le colline assetate / Porta a me le cupe nuvole / Affinché le possa riempire d'acqua / Con le mie lacrime, uh.
Ora dirò una cosa che non ho mai sopportato di Battiato – oddio mai, diciamo da Fisiognomica in poi, perché prima il problema non si poneva. Per lui la prosodia non esiste. Il flow, i giovani lo chiamano flow. Chiamatelo come vi pare, tanto per FB non esiste. Lui è un versilibrista dentro. O forse ha questa sensibilità levantina per cui sì, vabbe', le sillabe, e che saranno mai... In occidente invece abbiamo questa simpatica convenzione, da migliaia di anni, che ogni sillaba vale una battuta. Nel medioevo si era molto rigorosi, poi ci siamo allentati, ma anche se accettiamo tutta una serie di eccezioni per tutta una serie di motivi, la nostra sensibilità ruota comunque intorno alla metrica sillabica. Persino le canzonette – persino la trap funziona così. Battiato invece non funziona così. Battiato ha rispettato qualche convenzione metrica nel periodo più pop, e poi ha iniziato a fregarsene allegramente – addirittura stringendo un sodalizio con un altro discutibile versilibrista siciliano, Manlio Sgalambro. Ora, lamentarsi che questi due non azzecchino un endecasillabo è mi rendo conto perfettamente inutile, come prendersela perché una caffettiera non faccia il succo d'arancia. È proprio un'altra cosa, se non ti piace ok. A me in linea di massima non piace ma devo ammettere che Battiato è riuscito a rendere credibili con la sua esecuzione vocale certe strofe che non avrei mai creduto cantabili. A volte però fa delle cose che mi lasciano fortemente perplesso. Per esempio qui mette in musica una poesia di Abd al-Jabbar ibn Muhammad ibn Hamdis, grande poeta siciliano del secolo XI, in una traduzione italiana dal verso ovviamente libero, e decide di cantarla su un 3/4. Come un tizio che si metta a cantare cose a caso, non ci azzecca in nessun modo, sembra una presa in giro. Se la voce non fosse quella di Battiato, sarebbe sicuramente una presa in giro. La poesia è bella. Perfino la musica non è affatto male, il ritmo trascina, la melodia è cantabile. Sarebbe cantabile, se ci fossero i versi adatti. Ma per Battiato il problema non si pone. Del resto ha fatto quel che gli è parso per tutta la vita e la gente ha smesso di criticarlo verso il 1987, per cui il minimo che gli potesse succedere un quarto di secolo dopo è comporre qualcosa di completamente insensato e inascoltabile. Non è nemmeno il caso di Aurora, che appunto, non è un disastro. È un tipico Battiato. Pare l'abbia incisa pure la Vanoni. Non so se ho voglia di ascoltarla. (Anche la Vanoni, che tipa) (no non lo faccio il torneo della Vanoni, non tentatemi) (cioè sarebbe divertente ma... no). 

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36. Qui da noi è lunedì soltanto

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con una canzone portoghese che non lo è, con una canzone tantrica che non lo è, un sonetto di Shakespeare che non lo è, una canzone di Antony che non lo è].

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1996: Segunda-feira  (Battiato/Sgalambro, #95)

Segunda-feira de Lisboa, che nome d'incanto: qui da noi è lunedì soltanto. Ecco, se ci pensate, è l'esatto contrario: "lunedì" è un nome evocativo, quanto meno evoca il nostro satellite – ma anche una brevissima fase in cui la scansione cristiano-giudaica della settimana ha convissuto con l'abitudine di intitolare i giorni alle divinità. Per contro, "segunda-feira" vuol pedestremente dire "secondo giorno", ed è il risultato di una riforma rigidamente monoteistica che si impose nell'occidente iberico nel VII secolo. Però certo, a un italiano suona meglio "segunda-feira": quanto meno non gli ricorda la sveglia alle sette. Questo è precisamente il tranello dell'esotismo, il fascino che proviamo non tanto per un Paese straniero ma per il fatto che non lo capiamo, non per la lingua ma per i suoni che non associamo ancora a veri significati. È una trappola in cui Sgalambro sembra progettato per cadere a piedi pari, con la sua passione barocca per i significanti vistosi e ridondanti (sempre qui, i nuotatori devono essere "ignudi", immagina che banalità, che vergogna, se fossero "nudi" soltanto). Lui del resto per sua ammissione in Portogallo non c'era stato: dettò il testo a Battiato al telefono. Battiato, da parte sua, intercetta per una singolare coincidenza quella metà degli anni Novanta in cui aleggiava anche in Italia una vaga ma persistente lusomania: i film di Wenders, i romanzi di Tabucchi, l'Expo del 1998, i Madredeus. E allo stesso tempo nemmeno ci prova, a fare qualcosa di musicalmente portoghese. È forse l'unico viaggio da cui Battiato non ha portato a casa suggestioni sonore.

1998: La preda (Battiato/Sgalambro, #162)

Battiato ha mostrato al mondo della musica italiana, tra le altre cose, un modo di cantare il sesso già liberato – non solo dai pudori tradizionali, ma anche dagli ammiccamenti che ci hanno costretto, dopo i decenni in cui non se ne poteva parlare, a parlarne in modo caricaturale e volgare. Battiato in un qualche modo è stato risparmiato da entrambe le tentazioni ed è riuscito a parlare del sesso come di un incantesimo bellissimo, quasi completamente deprivato dal senso del possesso (che come ci ha fatto notare "fu prealessandrino", cioè quando ce la pigliamo col cattolicesimo non scordiamoci che non è che l'erede di un palazzo già millenario). Detto questo, non è che ne ha parlato tantissimo, e così decide di tornare sull'argomento in Gommalacca, decisamente il suo disco più sesso droga rock'n'roll. Qui per esempio c'è Sgalambro caffeinomane che attacca così: "sto sempre sveglio, ho voglia di arditezze". La musica è solare, un po' storta e spigolosa, completamente diversa da ogni tipo di musica che un sound designer contemporaneo userebbe per alludere al sesso: nella strofa sembra scorrere come un carillon capriccioso – che la sessualità non sia anche questo, un perpetuo caricarci a molla e poi liberarci? I battiatologi ci spiegano che La preda è una descrizione del sesso tantrico. Il testo non autorizza una definizione tanto tecnica. La "preda" del titolo, più che il partner, sembra essere l'estasi, a cui si perviene trasformando "la furia in ebbrezza, in tenerezza" (ed ecco che il ritornello sospende la ritmica, vecchia soluzione a cui Battiato non si stanca di tornare, mentre alla sua voce si unisce quella di Ginevra Di Marco. Mi diverte, nella seconda strofa, le lenzuola si intreccino come "sacre bende di sacerdoti egiziani", a dire il vero le bende le mettevano alle mummie ma vabbe', sto a fare i puntini sulle i perché le scene di sesso coi cinquantenni m'imbarazzano. Anche adesso che sto a 49. Che altro dire? Tanta nostalgia per Sentimiento nuevo, quelli sì che erano orgasmi. Ma è anche giusto provare nuove cose, non si può continuare a eccitarsi sempre coi ricordi dei tempi migliori. 

2005: Come Away Death  (Quilter/Shakespeare, #223)

Sad true lover never find my grave. Nel 2005, su dichiarata pressione della casa discografica, Battiato pubblica il concerto del 17 febbraio a Firenze in formato audio e video, col titolo Un soffio al cuore di natura elettrica. I brani di repertorio sono più o meno i soliti più alcuni scelti dall'album uscito l'anno prima, Dieci stratagemmi. L'unico inedito è l'introduzione: per scaldarsi Battiato sceglie un Lied del compositore inglese Roger Quilter, su un testo di Shakespeare. Battiato lo definisce un sonetto ma dovrebbe essere un passo dalla Dodicesima notte: quel che è interessante è che è un'invocazione alla morte dagli accenti decisamente romantici, che Battiato accentua nella sua versione, mediante l'uso della voce naturale.   

2008: Del suo veloce volo (Battiato/Antony, #34) 


Del suo veloce volo è il più atipico dei Fleurs. È l'unico, tra quelli non inediti, a essere stato composto originalmente dopo gli anni Settanta del secolo scorso, anzi addirittura nel 2005: l'unico caso in cui Battiato riprende un artista/compositore nettamente più giovane di lui (Antony Hegarty, oggi Anohni). È anche l'unico caso in cui stravolge il testo, senza limitarsi a ritocchi formali (non sempre minimi, come nella Musica muore), ma abbandonando completamente lo spunto originale per raccontare una storia autobiografica su un amico di cui da ragazzino aveva previsto la morte prematura (forse leggendogli la mano, successe anche a me, che paura che mi venne, in effetti la mia linea della vita non parte neppure). È una scelta che può lasciare perplessi. L'originale, si capiva, era poco più di un'improvvisazione di Antony su un pattern ritmico e melodico abbastanza semplice. Battiato, che aveva scoperto Antony & the Johnstons al Traffic di Torino e li aveva invitati a casa sua a Noto, vede in questa improvvisazione una struttura e cerca di usarla per costruirci una sua canzone, con una sua storia. Tant'è che lo stesso Antony nel finale interviene, ma in lingua italiana (non che all'inizio si capisca, ma qualcuno prima o poi doveva vendicare l'accento inglese di FB). Ed è un fleur atipico anche per questo: il risultato finale non era mai stato tanto inferiore alla versione originale. Conviene piuttosto riascoltarla nella versione incisa dal vivo cinque anni dopo all'Arena di Verona, sempre con Antony ma con un migliore affiatamento: è il momento in cui forse si intuisce cosa FB aveva in mente. 

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35. Ti accorgi di come vola bassa la mia mente?

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, col primo brano del primo album, il brano meno ascoltato del disco più ascoltato, un balletto sui numeri e una canzone d'amore più tortuosa che tormentata]. 

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1972: Fetus (#98)

Non ero ancora nato che già sentivo il cuore che la mia vita nasceva senza amore. Fetus è la canzone con cui Franco Battiato decide di nascere, perlomeno artisticamente: tutto ciò che aveva tentato prima di Fetus è rimosso, cancellato (FB si è opposto più volte, per quanto gli è stato possibile, alla ripubblicazione delle canzoni del suo passato pre-Fetus). È abbastanza clamoroso che un autore apprezzato per le sue esuberanze lessicali esordisca proprio con la rima cuore / amore, e con una sintassi così incespicante – sarebbe stato sufficiente cantare "già sentivo in cuore" perché la frase filasse liscia: sì, ma Battiato non resiste, con la fatica che deve aver fatto a incidere su vinile nel 1972 un realistico battito di un cuore in anticipo su The Dark Side of the Moon, lui vuole proprio dirci che lo sente, sente "il" cuore (musicalmente la primissima frase somiglia già parecchio all'introduzione di Stranizza d'amuri).

Nella seconda parte il brano diventa un campionario dei suoni che Battiato è riuscito a estrarre dal VCS3, il pioneristico sintetizzatore su cui era riuscito a mettere le mani, primo in Italia (e terzo nel mondo, a detta di Pino Massara). Sono suoni ancora molto suggestivi, anche se nel finale FB sembra dominato dalla volontà di stupire con effetti speciali. Entusiasmo puerile, più che comprensibile in un embrione. Prima dell'esplosione finale di suoni, compare il fraseggio che risentiremo più tardi in Energia. A dire il vero nell'edizione sul vinile del 1972 il primo brano era proprio Energia. Anche nella versione inglese Energy è il primo pezzo in scaletta. Solo a partire dall'edizione CD del 1998 Fetus diventa la prima canzone dell'album omonimo. 


1981: Segnali di vita  (#31)


È colpa dei pensieri associativi se non riesco a stare adesso qui. È chiaro che se come criterio uno prende il numero di ascolti su Spotify, a essere favorite saranno le canzoni più antologizzate e, subito dopo, quelle presenti negli album più ascoltati. Questo fa sì per esempio che nelle prima sedici posizioni ci siano sei brani su sette della Voce del padrone, che almeno su streaming la fa veramente da padrone. Il settimo brano è Segnali di vita, una delle canzoni più belle di Franco Battiato, che però sta molto sotto tutte le altre (al 31esimo posto), tanto da farci dedurre che alcuni ascoltatori della Voce del padrone la skippino. Perché lo fanno? Forse è semplicemente il brano della Voce che non compare in altre playlist (ne esiste almeno una versione live, Roma 2016, dove Battiato dimostra perché non la eseguiva spesso: il ritornello è proprio complicato da cantare). Un'altra ipotesi è che Segnali di vita non s'intoni del tutto al mood del resto del disco: è una canzone contemplativa, forse è la prima che FB è riuscito a scrivere, un'anticipazione di quello che realizzerà nei decenni successivi. La tensione tra pop e meditazione si avverte soprattutto a livello ritmico: la batteria di Alfredo Golino dà al pezzo un groove molto caratteristico di cui Battiato decide di disfarsi nel ritornello (è lo stesso espediente di Summer on a solitary beach e Il vento caldo dell'estate). C'è persino un'avvisaglia di Lied nell'intermezzo orchestrale e nei vocalizzi di Marilyn Turner.  

2000: Corpi in movimento (#226)

Si pensi per esempio alle iterazioni elettrodinamiche tra un magnete e un conduttore. Quando il Maggio Fiorentino gli commissiona un balletto, Battiato si strappa di dosso decenni di cantautorismo e recupera il sé stesso rumorista di Pollution; è proprio lui, non è invecchiato di un giorno, in compenso si è fatto spiegare come si mixa al computer e si diverte un mondo. Persino le incursioni pensose di Sgalambro non stonano, in effetti quando legge un manuale di elettrodinamica di Einstein non può non ricordarci i vecchi tempi in cui Battiato guarniva le sue canzoni sperimentali con formule scientifiche (La portata di un condotto è il volume liquido che passa in una sua sezione nell'unità di tempo). Invece quando afferma perentorio "i numeri non si possono amare" ti sale l'anticrocianesimo, vorresti sbottare: perché te, invece, chi ti dovrebbe amare? Se non hai mai orgasmato comprendendo il teorema di Pitagora, che filosofo da discount sei? vien voglia di cominciare una storia con un numero irrazionale apposta per rompergli i coglioni, ehi Sgalambro, tra te e un Pi Greco io non avrei dubbi con chi uscire stasera. Ma poi alla fine si mette a cantare La Mer e lo perdoni, cioè non è cattivo, certe volte hai il sospetto che Battiato più che ispirarsi a lui lo stia sfoggiando come una specie di mascotte, il suo personale Mangoni.

2002: Se tu sapessi (Lauzi, #159)

Se tu sapessi come ti amo non cercheresti di dire parole che voglion dire io non ti amo: quello che è triste è che tu non lo sai. Eh? Bruno Lauzi non era mai stato così contorto. Se tu sapessi è un po' la Te lo leggo negli occhi del secondo volume dei Fleurs: dovrebbe essere una canzone d'amore disperata, Battiato la canta con molto rispetto per questo tipo di genere e di finalità ma è proprio quel suo modo di cantare, di mettere in evidenza le parole, che ci insinua una certa freddezza, un sospetto, la sensazione di stare assistendo a qualcosa di manipolatorio. E che Battiato queste canzoni d'amore con un fondo amaro e gelido se le vada a cercare con molta attenzione, con un setaccio che è in grado di trattenere il brano più straniante e concettoso tra cento che ne ha scritti un Lauzi, un Endrigo. Insomma qui se ho capito bene la tipa non sa nemmeno che le sue parole vogliono dire "non ti amo", cioè non sa quello che dice la poverina, per fortuna che c'è il cantautore a interpretare. Battiato, lo scopriremo l'anno successivo in Perduto amore, ha in mente soprattutto la versione di Salvatore Vinciguerra del 1964: la sua cover forse nasce dalla necessità di redimere la canzone dai melliflui vocalizzi del corregionale. Esisteva anche una versione molto più intima di Lauzi stesso, con una terza strofa che diceva: "Se tu sapessi quanto ti amo non troveresti più vuota la vita. Mi doneresti i tuoi Ti amo: quello che è triste è che tu non lo fai". Cioè è veramente triste che la tizia non dica Ti amo al cantante. Qui Vinciguerra cantava "sai" al posto di "fai": non riesco a capire quale delle due versioni mi infastidisca di più, Battiato taglia la testa al toro ed elimina la strofa completamente (ricantando le prime due daccapo).  

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34. Ho già sentito gridare chi andrà alla fucilazione

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, batteria n. 34: tra Rivoluzione e Fornicazione, Haiku e Lied]. 

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1974: Aria di rivoluzione  (#63)

Verso la metà dei Settanta la Rivoluzione doveva sembrare una specie di spada di Damocle: molti, non necessariamente di sinistra, davano per scontato che ci sarebbe stata, e che tutto quello che stavano dicendo e facendo sarebbe stato visto, in seguito, dal punto di vista della Rivoluzione. Questo spiega molti atteggiamenti che oggi possono lasciarci perplessi, e un generale ricorso a formule criptiche, ambigue, concepite da artisti che temevano un futuro tribunale rivoluzionario che alla fine nessuno ha convocato. In parte questo spiega anche Aria di rivoluzione, il primo brano in cui Battiato cerca presumibilmente di parlare dell'aria tesissima che tira nella sua città di adozione, ma nascondendosi dietro una cronologia confusa: il "camionista in Abissinia" è suo padre; se in Europa c'era "un'altra guerra" siamo nei Quaranta, ma la generazione che "vuole nuovi valori" è quella di FB, e i nomi dei personaggi da fucilare si scandivano ai cortei. E tutto questo ha un senso: bisognerebbe ricordare che secondo la legge dei Vent'anni, così come negli anni Ottanta si sognavano i Sessanta, così nei Sessanta la guerra partigiana era un'ossessione e una nostalgia, un racconto di zii e genitori, un passato troppo acerbo per essere normalizzato nelle scuole. Aries arriva nei negozi alla fine del 1973, pochi mesi prima delle stragi di Piazza della Loggia e del treno Italicus. Battiato si mantiene ambiguo: rivoluzione e fucilazione sono due facce di un destino che si deve compiere. Il tema dell'inciso è tutto fuorché battagliero: è un'aria triste che fa da trait d'union tra Sequenze e frequenze e Da oriente a occidente. In sottofondo si sente una lirica molto battagliera del cantautore comunista Wolf Biermann, ma è recitata con tono impassibile (e poi è in tedesco, nessuno capisce). Ai concerti è possibile che sentire cori di fan scandire senza nessuna ironia "chi andrà alla fucilazione" lo abbia genuinamente spaventato: fatto sta che quando a fine anni '80 riprende il brano per Giubbe rosse, decide di lasciare il canto sospeso, privando la canzone dell'ultimo verso (e costringendoci a ripeterlo mentalmente, una tortura sottile). 

1993: Haiku (Battiato/Soseki, #66)

Seduto sotto un albero a meditare mi vedevo immobile danzare con il tempo come un filo d'erba che si inchina alla brezza di maggio o alle sue intemperie. Haiku ha questo lieve difetto, che non è un haiku. O lo è? Se ne potrebbe discutere, ci sono convenzioni che in occidente diamo per scontate e invece in Giappone sono più elastiche, è un po' come il sushi che nasce fingerfood ma a Milano ci tengono a usare le bacchette. Il testo di Haiku è rielaborato da una poesia dal Guanciale d'erba di Natsume Soseki tradotta da Lydia Origlia (1906), che proprio quell'anno veniva pubblicato in Italia dall'Ottava (la casa editrice fondata e finanziata da Battiato). Al di là della delicata mossa promozionale, è una specie di Oceano di silenzio in versione orientale. Battiato vi era molto affezionato e la riprenderà in Inneres Auge: e siccome nell'antologia testamentaria Le nostre anime la versione scelta è quella di Inneres Auge (meno eterea, con l'orchestra), forse avrei dovuto inserire quest'ultima. Ma anch'io ho la mia idea stereotipata di Giappone e trovo molto più appropriata la versione originale, molto più... delicata, appunto (c'è una parola giapponese più precisa ma non voglio fingere di conoscere anche solo una parola di giapponese) (quanto al sushi, è anche vero che è il modo migliore per imparare a tenerle in mano, quelle bacchette maledette). 


1995: Fornicazione (Battiato/Sgalambro, #194)

Vorrei tra giaculatorie di versi spirare... E come pesce putrefatto putrefare. Wow. È strana questa cosa, no? Che malgrado tante analogie, alla fine non sia così difficile distinguere i testi di Sgalambro da quelli di Battiato. La vena lirica di Battiato non è mai stata abbondante (è un motivo per amarlo, in anni di rapper ipereloquenti): in quasi tutti i dischi ci sono parole non sue e non stonano mai, se non ci fossero i credit chi è che si accorgerebbe che le Aquile o Clamori o Nomadi non le ha scritte lui. Poi nel 1993 incontrerebbe Manlio Sgalambro per la prima volta, il che è curioso, dal momento che si tratta di un autore Adelphi che vive a Catania (ma non inverosimile), e dal 1995 dichiara che non scriverà più un testo in vita sua, tanto quelli del suo nuovo amico sono migliori. E non importa che sia forse l'unico al mondo a credere davvero a questa cosa: anche negli anni successivi, quando sensibilmente il contributo di Sgalambro si diraderà, continuerà a mantenere la doppia firma su tutto quello che canta. Come se oltre di un afflusso regolare di versi da musicare, Battiato sentisse il bisogno di un partner su cui scaricare la responsabilità. Nel caso dell'Ombrello, vuole concentrarsi sulla musica: girando l'Europa ha capito che c'è qualcosa che bolle in pentola, una nuova elettronica che si fonde con la world music e si sente in grado di provarci (non si sbagliava affatto, anzi forse avrebbe dovuto crederci un po' di più, anche dopo l'Ombrello). 

Battiato sceglie Sgalambro perché capisce di avere molto in comune con lui. La stessa inclinazione barocca per il rivestimento vistoso, l'idea che il tecnicismo lessicale non occulti il significato ma lo impreziosisca, ad esempio il sesso diventa la "fornicazione"; la stessa indifferenza per la prosodia (sono entrambi versilibristi, per cui chi canta deve ingegnarsi di infondere musicalità ai versi senza il sostegno della gabbia sillabica, una sensibilità orientalista può aiutare), gli stessi temi – alcuni ossessivi – le stesse pretese intellettuali, in Sgalambro un po' più sbandierate ma appunto: significa che Battiato ha trovato un paroliere con più pretese di lui o che ha trovato finalmente una maschera che gli consente di esprimerle con meno pudore? Perché una delle caratteristiche che ci fa riconoscere a colpo sicuro Sgalambro da Battiato è la spudoratezza. Battiato usa i rivestimenti per coprirsi, Sgalambro per esporsi. Lui vuole fornicare e putrefare – probabilmente tutti abbiamo talvolta voglia di fornicare e putrefare ma lui ha trovato un modo per dircelo. 

2007: Era l'inizio della primavera (Battiato/Čajkovskij/Sgalambro/Tolstoj, #191)

E noi stavamo bene. Era l'inizio della primavera è un lied di Čajkovskij con un breve testo di un Tolstoj che non è quello che tutti conoscono, ma un suo cugino di secondo grado – tradotto da Battiato e da Sgalambro. Il vuoto è un disco strano. Potrebbe raccontare una storia, forse ci prova, di sicuro non ci riesce. Ma non sarebbe stato difficile: ad esempio sarebbe bastato mettere in ordine cronologico i riferimenti stagionali, più frequenti del solito. Ad esempio, perché l'inizio della primavera deve venire dopo Tiepido aprile o I giorni della monotonia? Oltre alle stagioni, c'è un chiaro senso di incompletezza – è una canzone che si prepara a raccontare una storia ma poi non lo fa: la storia potrebbe proseguire in altre canzoni del disco ma anche no. Per farla durare un po' più a lungo, Battiato la fa ripetere in inglese da tre voci femminili (due armonizzano, un'altra credo sia un soprano). Può darsi che tutto questo sia voluto: che Il vuoto sia un album di ricordi destrutturati, da gustare l'uno dopo l'altro senza curarsi troppo della cronologia. Del resto nulla è reale, ricordiamo. Credo sia l'ultimo vero e proprio Lied inciso da Battiato. 

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33. Perché sei un essere speciale

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[Questa è la Gara, oggi con uno dei brani più famosi, uno dei brani più scabrosi, uno dei brani più inspiegabili e un brano di Claudio Rocchi: chiedi chi era Claudio Rocchi]. 

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1972: Energia (#130)

Dopo aver più volte dichiarato che Franco Battiato è riuscito ad accreditarsi presso il pubblico italiano come l'anti-macho, colui che non può essere sospettato non già di concupire, ma di consentire che qualche sua occasionale concupiscenza si tramuti in azione prevaricatrice o anche solo vagamente maliziosa nei confronti di una persona concupita, dobbiamo comunque riconoscere che la sua carriera 'seria' comincia con un'affermazione incredibilmente bomberistica: "Ho avuto molte donne in vita mia, e in ogni camera ho lasciato qualche mia energia". Nientemeno. Ma appunto, solo a Franco Battiato poteva essere consentito di cantare una cosa del genere senza suggerire nessuna velleità da sex machine. 

Buongiorno, mi chiamo Leonardo e per Fetus provo qualcosa di molto particolare: è un disco del 1972, quando ero un feto anch'io, insomma siamo coetanei. Certi suoni di questo disco li sento in un modo particolare – solo certi dischi prog anni '70 mi danno questa sensazione, l'illusione di averli sentiti in un passato remotissimo e in bianco e nero. Potrebbe essere perfino successo, perché no? Potrei essere rimasto davanti al vecchio televisore con quattro tasti e senza telecomando mentre in Rai passava un intervista al giovane Battiato inframezzata da suoni presi da Fetus. In particolare potrei avere ascoltato i primi secondi di Energia, che fino all'edizione in CD del 1998 era il primo brano del disco ed è qualcosa che a distanza di tanti anni mi dà ancora i brividi, il fraseggio ipnotico del sintetizzatore VCS3 che copre le voci dei "Bambini della Scuola Materna Istituto San Vincenzo di Milano". Nella mia memoria c'è appena l'ombra di un ricordo, è come se quei bambini che parlano li avessi visti giocare e guardare in camera mentre l'immagine si satura di luce come una foto troppo sviluppata. Potrei aver persino provato paura di fronte a una combinazione mai sentita prima di suoni e voci. 

La canzone vera e propria invece no, credo proprio di averla ascoltata già adulto. Tratta di un argomento che nel 1972 doveva suonare davvero scabroso – l'eiaculazione, e la vertigine che il maschio sperimenta quando ci riflette, cosa che avviene (quando avviene) sempre soltanto dopo, prima riflettere è impossibile. Ma dopo a volte ti coglie questo pensiero tremendo, che ti sei liberato in un colpo di migliaia di potenziali vite, diomio sono un mostro, ma che colpa ne ho, la natura è così. “Quanti figli dell’amore ho sprecato io / racchiusi in quattro mura ormai saranno spazzatura” (ormai, Battiato?) Di emissioni spermatiche metaforiche o reali Battiato continuerà a cantare per tutta la sua carriera, malgrado la rivendicata castità: in Mesopotamia "la prima goccia bianca che spavento", e come dimenticare l'incipit di Dieci stratagemmi, "eiacula precocemente l'impero" (viene il sospetto che persino il titolo del secondo album, Pollution, sia un tremendo gioco di parole). Ma già nel 1972 la sua concezione del liquido seminale come "energia" che non si dovrebbe sprecare si avvicina più alla trattatistica indù che al mondo morale cattolico. 

1973: Soldier (Battiato, Conz, Massara, #255)

I amma lika soldier, I've diedda lika soldier. Di tutti i dischi strani pubblicati da Battiato per ragioni che ci sfuggono, ecco, questo 45 giri del 1973 in assoluto è quello che ci sfugge più lontano – probabilmente ci manca un tassello, del resto che ne sappiamo di come funzionasse il mercato discografico in quei primi anni Settanta in cui era un settore in espansione (già facciamo fatica a immaginarcelo, un mercato in espansione). Per cui ascoltando Soldier o Love capita che mi distragga a immaginare i motivi per cui un disco così volutamente anonimo è stato composto, suonato e stampato, del tipo che la BlaBla doveva assolutamente farne uscire tot entro la tale scadenza e quindi si è montato un testo qualsiasi in inglese su una musica qualsiasi e l'hanno fatta cantare al primo che passava in sala d'incisione quel giorno, ed era Battiato. Oppure sentite questa: magari il nome "Springfield" era una proprietà intellettuale dell'etichetta e volevano denunziare qualcuno che stava usando lo stesso nome (i Buffalo Springfield?), e quindi hanno pubblicato un disco qualsiasi per dimostrare che gli Springfield esistevano (nei fatti nessuno sa esattamente chi siano, e se Battiato ne facesse parte o fosse un featuring). Cioè in altre industrie queste cose si fanno, magari si facevano anche nella musicale, quando valeva ancora la pena. Che altro dire. Non è affatto una brutta canzone, è orecchiabile, meno semplice di quel che può sembrare, ma buttata lì senza reale convinzione... Forse anche a causa della copertina, mi sembra un brano mimetico, cioè è chiaro che non è veramente un disco di rock anglosassone dei tardi '60 ma è altrettanto chiaro che vuole assomigliarci e ci riesce più o meno come la vespa somiglia all'ape. Uno degli indizi che potrebbe rivelare il mimetismo al cacciatore è l'inglese di FB, che qui lascia traspirare una sicilianità che in seguito non sentiremo mai più.    

1996: La cura (#2)

Onestamente pensavo che La cura fosse il brano di Battiato più ascoltato su Spotify. In realtà guardando bene c'è una versione di Centro di gravità con due milioni di ascolti in più, ma siamo comunque già sui 20 milioni, numeri che le altre canzoni del suo repertorio guardano da lontano. Non è difficile capire il perché: è la classica canzone che una persona può decidere di ascoltare all'improvviso, come altri si versano un bicchiere o mandano giù una pillola. È una canzone terapeutica, lo dice già il titolo. Battiato decide di scriverla mentre lavora al suo primo disco con la PolyGram: forse vuole dimostrare ai nuovi committenti che vale l'investimento, o a sé stesso che è ancora capace di tirar fuori una zampata da alta classifica, una canzone da ficcare nel nostro inconscio collettivo se vuole, non che in generale ne avrebbe voglia ma altroché se ne è capace. Dunque si mette a tavolino, con o senza Sgalambro, e si pone il problema: cosa vuole ascoltare la gente, davvero? Lascia perdere lo stile, il ritmo, lascia perdere tutto. Cosa vorrebbe sentirsi dire la gente, dal primo all'ultimo istante della vita (e soprattutto nel primo e nell'ultimo instante)? La gente vuole sentirsi amata, vuole sentirsi protetta, vuole sentirsi curata, vuole sentirsi speciale... perfetto: faremo una canzone così, e la gente l'ascolterà all'infinito. Ed è andata così.
È buffo che ci abbia pensato, tra tanti autori, proprio uno che ha deciso con molta autoconsapevolezza di non diventare mai un padre. Buffo ma appropriato, ripensando ai suoi vecchi dischi huxleyani, e a Fetus in particolare, che cominciava proprio con la nascita del Nuovo Individuo Alienato: "non ero ancora nato che già sentivo in cuore che la mia vita nasceva senza amore". Possiamo pensare che La Cura sia la risposta a Fetus: dobbiamo tornare a essere individui, dobbiamo tornare ad amarci, interrompere il percorso che ci sta portando a vivere come cellule tra i motori. Possiamo, ma mi è venuta in mente un'interpretazione più diabolica, in parte stimolata dal riff iniziale.
Battiato lo suona con una voce campionata, qualcosa che non mi pare avesse mai fatto nei suoi anni elettronici. Il campionamento vocale è uno strumento delicato, specie prima che i trapper ci ammorbassero con l'autotune si trovava in una specie di uncanny valley: non è un suono sintetico, non è un suono umano, sta in mezzo e come le cose che stanno in mezzo può ispirare una forte repulsione, l'allarme istintivo dell'essere umano di fronte a qualcuno che si sta travestendo da suo simile. Perché Battiato decide di usarlo proprio in questa canzone? Chi è che ci sta davvero dicendo Sei Un Essere Speciale? Ricordiamo che i bambini artificiali di Huxley crescevano ascoltando nastri registrati che li rassicuravano sul loro destino ("Son felice di essere un Beta!") Ecco, la Cura potrebbe essere un nastro del genere, forse noi stiamo galleggiando nel nostro brodo primordiale illusi da un software che con la voce di Battiato ci rassicura che tutto andrà bene. Perché siamo esseri speciali, ed Esso avrà cura di noi.

2013: La realtà non esiste (Claudio Rocchi, #127)

Quando stai mangiando una mela, tu e la mela siete parte di Dio. Durante il concerto all'Arena di Verona del 2013, mentre Antony prende fiato, Battiato presenta Alice e invece di intonare la solita Tozeur, l'orchestra attacca una canzone che la maggior parte del pubblico non ha probabilmente mai sentito: è un omaggio a Claudio Rocchi, morto pochi mesi prima: fondatore degli Stormy Six e del Re Nudo, cantautore rilevante e assai sottovalutato che persino Battiato in tre dischi di Fleurs si era dimenticato – malgrado una concezione del mondo davvero non dissimile, voglio dire, chi altri avrebbe potuto intitolare una canzone La realtà non esiste e versi come "Quando vivi sei un centro di ruota"? È una bella versione ed è bello che qualcuno abbia approfittato di un pubblico così vasto per ricordarlo. 

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32. Facevano l'amore con l'ausilio del motore

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con quattro canzoni frammentarie: frammenti di suoni, frammenti di culture, frammenti di storia, frammenti di Battiato medesimo].

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1974: Ethika fon Ethica (#213) 

Ho la sensazione che Ethika fon Ethica sia un brano molto caro a tutti i fan del Battiato anni Settanta – ho letto cose pazze, gente che fu cacciata da radio popolari per aver messo in onda una cosa che effettivamente bisognava essere matti per mettere in onda, cioè immagina di sintonizzarti in quel momento con una radio popolare e sentire un comizio di Mussolini, sentire Faccetta Nera, ed era il 1974. A volte mi è piaciuto considerare Ethika la Revolution 9 di Battiato, non solo perché si tratta in entrambi i casi di un collage sonoro, ma del punto estremo di una rivoluzione che FB stava portando avanti – salvo che Revolution 9 era il brano meno ascoltabile di quell'album, mentre Ethika forse è una delle cose più intellegibili di "Clic". In quel periodo Battiato stava distruggendo il personaggio pubblico che aveva interpretato nei primi due dischi sotto la regia di Gianni Sassi. Aveva sciolto il suo gruppo, ai concerti arrivava solo e indispettiva il pubblico suonando lunghi accordi per decine di minuti, oppure mettendo davanti al microfono una radiolina tascabile e giocando a sintonizzarla su stazioni diverse. Dalle improvvisazioni su 'un solo accordo' sta nascendo il Battiato minimale che porterà a Za e all'Egitto prima delle sabbie; dai giochi con la radiolina nasce Ethika e tutto il filone concreto fino a Coffee-Table Musik: ma la sensazione comune è che Ethika abbia qualcosa di più delle composizioni successive – banalmente, è più breve e concentrata: ci sono più idee in questi quattro minuti che in certi dischi che ha fatto dopo. Non è una semplice seduta di zapping radiofonico, anzi: tutti i frammenti sono scelti e montati con una certa attenzione, e alcuni episodi sono riuscitissimi, in altri dischi forse FB li avrebbe riprodotti per decine di minuti e invece durano pochi secondi (il brevissimo concerto di bisbigli!) Benché alcuni effetti sonori sin dall'inizio ci suggeriscono che Battiato stia sintonizzando una radio, l'etere che esplora ha qualche proprietà quadridimensionale: mette in contatto il presente dei fotoromanzi col passato degli stornelli e del fascismo.  

1980: Passaggi a livello (#85)

Good vibrations! Satisfaction! Sole mio! Cinderella! mit violino! Lux aeterna! Galileo! Douce France! Nietzsche-Lieder! Kurosawa! Meine Liebe! Mister Einstein On the Beach!


Patriots finisce con una scarica di fuochi artificiali. Battiato si è ormai impadronito del dispositivo postmoderno e riesce a farci passare qualsiasi cosa. Si comincia con un pianoforte che sussurra il tema di Happy Xmas (War Is Over) di John Lennon e Yoko Ono (a sua volta modellato su Stewball, un canto popolare forse di origine inglese ispirato a un cavallo da tiro, per cui forse ci potrebbe essere un collegamento con la carrozzella della seconda strofa) e si prosegue inglobando allegramente qualsiasi frammento Battiato voglia rilevare. La progressione, non è una coincidenza, è la stessa con cui terminava il disco precedente: I-V-VI, come in Stranizza d'amuri: l'ascesa infinita, la sensazione di elevazione che FB vuole imprimere nell'ascoltatore al termine dell'ascolto dei suoi primi due album pop. Il testo è il solito collage, segue un filo di associazioni che si interseca con altri discorsi come nei passaggi a livello: i treni di una volta, le carrozzelle di una volta, la vita in villeggiatura, i giochi nel cortile col freddo che fa (forse perché è Natale davvero, ma che sia Natale lo capiamo soltanto dal suggerimento subliminale del tema lennoniano). Nel frattempo ha citato Proust, non il solito Proust dell'elogio della cattiva musica, ma un passo dei Guermantes dove la musica si rivela uno strumento conoscitivo più potente dei viaggi. Il postmoderno non era mai stato così ballabile. 

2004: Odore di polvere da sparo (Arcieri, Battiato, #172) 

È vero / che sul Mar Nero / sul mare nero / le rose fioriscono tre volte? (Un giorno bisognerà ragionare su quelle rime, quei giochi di parole talmente sciocchi da risultare irresistibili e che si potrebbero definire mogoliani). In Odore di polvere da sparo è ancora più percettibile il tocco di Maurizio Arcieri: il 4/4 rigoroso, la strofa su un accordo solo per cui in qualsiasi momento puoi cantarci sopra black silk stockings, black silk stockings. Su questo tappeto diverso dal tipico Battiato (ma non dai tipici Krisma) FB spennella scene belliche più indistinti del solito – non si capisce veramente di che guerra stia parlando: l'odore di polvere e il mar Nero ci farebbero propendere per la guerra di Crimea, ma poi salta fuori Baku che è sul Caspio. Potrebbero essere i cannoni di uno Zar che viene a prendersela. "La parte sinistra di Baku, guardando il porto, è la vedetta". Se guardo il porto, la parte sinistra è quella occidentale, quindi Baku potrebbe essere il bastione dell'imperialismo europeo. C'è anche "una banda" che "accompagna le reliquie della santa", ad assecondare "gli impulsi religiosi dell'Occidente, accidente". Vabbe' non si capisce, io forse continuo a cantarci sopra black silk stockings, black silk stockings. 

2012: Passacaglia (#44)


Passacaglia è una canzone dell'ultimo album di inediti (Apriti Sesamo, 2012), ispirato alla Passacaglia della vita (Homo fugit velut umbra), brano erroneamente attribuito al compositore barocco Stefano Landi che lo ammetto, coi suoi reiterati "bisogna morire" è un pezzo che mi dà qualche discreto brivido. Credo che questo derivi soprattutto dallo straniamento di trovare in un testo seicentesco un'espressione che ci suona contemporanea: anche se è una percezione illusoria, anche se quel "bisogna" probabilmente nel Seicento aveva una sfumatura diversa da adesso. Con la rivisitazione di Battiato avviene l'esatto opposto, ovvero FB taglia proprio il "bisogna morire" (che pure è l'idea fissa intorno a cui gira tutto il disco) e lo sostituisce con versicoli finto-seicenteschi che m'indispongono: ("Non val fuggire / Si plachi l'ardire": notare il troncamento non giustificato dalla prosodia, ma solo dall'esigenza di non passare per italiano corrente). È un Battiato che canta le sue classiche cose da Battiato (orrore per la contemporaneità, nostalgia per le epifanie dell'infanzia), ma in modo ormai meccanico, su una musica altrettanto meccanica, come spesso risulta il barocco se lo lasci girare un po' troppo a vuoto ed è appunto il problema che il barocco condivide con l'elettronica, dopo un po' hai la sensazione di essere stato lasciato solo con un automa, un algoritmo che continuerà a produrre battiatismi casuali finché non ti sarai stancato e non spegnerai il dispositivo. Passacaglia è anche l'ultimo singolo inedito della discografia di FB (con un video che se non l'avesse firmato Pinaxa e non ci fosse il logo ufficiale della casa discografica sarebbe indistinguibile da una clip amatoriale su Youtube) il che spiega in parte il ranking molto alto (#44!) per una canzone che francamente sembra scritta da un generatore casuale di battiataggine. 

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31. Ti dico che nulla mi inquieta, ma tu mi dai sui nervi

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con un brano sull'agnello di Dio, un brano sull'amore che finirà, un brano su Auschwitz e un brano sulla morte, insomma è una tipica giornata della Gara delle canzoni di Franco Battiato]. 

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1978: Agnus (#236) 

Agnus Dei qui tollis peccata mundi, miserere dona eis requiem. E sempre sia lodato il funzionario Rai che bocciò la colonna sonora prodotta da Battiato per il film tv Brunelleschi: ci pensate, se l'avesse accettato forse FB si sarebbe accontentato di aver inciso Agnus e non avrebbe avuto voglia, pochi mesi dopo, di trasformarla in Stranizza d'amuri. A cui somiglia, bisogna avvertire, come un bruco alla farfalla: Agnus è un brano ancora orgogliosamente dissonante, in cui Battiato si avvale della voce di Camisasca come in seguito dei campionamenti di cantori mongoli o tibetani, cioè in sostanza di qualcosa che la musica dodecatonica occidentale non riesce a non registrare come stonato. La tensione tra il lamento dell'agnello di Camisasca e l'intervento del soprano Alide Maria Salvetta è anche una lotta tra dissonanza e musicalità, il suono del Battiato anni '80 che si dibatte per venire al mondo – in certi momenti i violini per un attimo accantonano gli arpeggi e sembrano già pronti a diventare un accompagnamento ritmico. Forse non c'è stato un parto musicale più lento e complicato di questo, ma ormai ci siamo.   


1999: Te lo leggo negli occhi (Endrigo/Bardotti, #21).

Finirà? Me l'hai detto tu. Ma non sei sincera. Metto qui un appunto che non saprei dove appoggiare, ovvero: Battiato ha avuto tutto il tempo della vita per omaggiare Gaber di una cover, ma non l'ha fatto. Ha coverizzato i Rolling Stones e Beethoven, Alan Sorrenti e Adamo, ma Gaber no. È abbastanza curioso che Battiato non abbia mai voluto riprendere altre canzoni dell'unico cantautore italiano che poteva rivaleggiare con lui per rifiuto della modernità e ampiezza della cavità nasale (e col quale collaborò parecchio). Lui alla domanda avrebbe risposto che naso a parte avevano vocalità diverse, ma questo non gli ha impedito di rifare De André... vabbe'. La cosa più vicina a un tributo a Gaber è forse appunto questa Te lo leggo negli occhi che Sergio Endrigo ha composto per il cantante Dino nel 1964 e che Gaber continuava a suonare nei bis fino agli anni '90, e aveva inciso nel 1967 in una versione che ancora più dell'originale gridava "Morricone!" Come si capisce quando una versione grida "Morricone!"? È soggettivo, ma spesso il contrabbasso fa una specie di schiocco che vi rimanda negli anni Sessanta anche se non ci siete mai stati, e qualche strumento da qualche parte fa la stessa serie di note per tutta la canzone – spesso sono tre, ma in Te lo leggo negli occhi sono addirittura due, il che fa a pugni con il ritmo terzinato ma è appunto questo fare a pugni che grida "Morricone!" (Il quale Morricone in realtà dirigeva l'orchestra di Dino nel 1964; ignoro se abbia anche sovrainteso all'incisione di Gaber, ma a quel punto forse morriconizzare le canzoni era diventata una pratica condivisa). Battiato di tutto questo morriconismo non sa che farsene: nel primo volume di Fleurs vuole andare all'essenza delle canzoni, sopprimere tutte le interferenze dettate dalle mode, dai periodi. Questo in effetti rende la sua Te lo leggo negli occhi la più educata, la meno tesa, e non escludo che nel futuro qualche musicologo avrà difficoltà a capire che Battiato è arrivato vent'anni dopo Gaber. Ci resta più attenzione per ascoltare il testo di Bardotti e scoprire quello che nel 1967 passava inosservato, ovvero che la voce cantante è quella di un manipolatore: vuoi dirmi di no, ma è solo paura, in realtà hai bisogno di me, te lo leggo negli occhi. Un Brel, forse anche un Tenco, sarebbero riusciti a far sentire l'ambiguità della situazione e ad autoridicolizzarsi; Gaber nel 1967 nemmeno ci prova (forse era troppo presto?), e se non ci prova Gaber, figurati Battiato.


2008: Il carmelo di Echt (Camisasca, #149) 

Dentro la clausura qualcuno che passava, selezionava gli angeli. A differenza dell'altro prestito da Camisasca (La musica muore), qui Battiato non cambia una sola parola, anzi sembra preoccupato di dare una versione il più corrispondente possibile a quella che l'amico aveva inciso in un album del 1991 ormai introvabile. Sarò cinico se lascio scritto che invece era proprio qui, invece, nella canzone dedicata a Edith Stein che valeva la pena di correggere qualcosa? Soprattutto quel distico così naif "E sopra un camion o una motocicletta che sia / ti portarono ad Auschwitz", che è proprio un esempio di quello che non si deve fare in poesia: perdersi dietro dettagli inutili facendo anche notare che sono inutili. Forse pesa su di me un'assuefazione, vent'anni di giornate della memoria e tutto il relativo merchandising, che dalla Vita è bella in poi può effettivamente indurre se non un senso di rigetto, ma almeno un germe di sospetto ogni volta che qualcuno si mette a cantare "Auschwitz!", come se bastasse questo per fare letteratura della memoria. Giova quindi sempre ricordare che Il carmelo di Echt è una canzone che viene prima di tutto questo, che Camisasca la incise quando era appena uscito da un monastero ed Edith Stein non era ancora stata canonizzata, e ci mise tutta la sua devozione e sì, la sua ingenuità: e che a Battiato quasi vent'anni dopo quell'ingenuità interessava ancora, era un fiore che gli premeva conservare. 

2012: La polvere del branco (#108) 

Ho voglia di appartarmi e di seguire la mia sorte, perché morire è come un sogno. Apriti sesamo è un disco sulla morte: anche quando sembra cambiare argomento va sempre a parare lì, ormai è un chiodo fisso e come dargli torto. Battiato ne parla con franchezza, senza artifici retorici e io ho appunto questo problema, che il Battiato più franco e scevro da artifici retorici è quello che mi risulta più indigesto. La canzone descrive con molta chiarezza lo stato d'animo dell'animale ferito che cerca un posto lontano per morire in pace e solitudine (forse anche per evitare pratiche di eutanasia troppo precipitose e brutali). Però è bello almeno quando dice: Ci crediamo liberi, ma siamo prigionieri, di case invadenti che ci abitano e ci rendono impotenti. 

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30. Come piombo pesa il cielo questa notte

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con tre brani finali di tre album diversi, e un altro che dà il titolo a un album]

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1988: L'oceano di silenzio (#53)

Cosa avrei visto del mondo senza questa luce che illumina i miei pensieri neri? L'oceano di silenzio chiude Fisiognomica con una preghiera. Battiato non aveva mai scritto una canzone così contemplativa ed è possibile che non ci sia più riuscito in seguito. Di fronte al Silenzio, Battiato usa poche parole molto semplici, o al limite le prende in prestito dalle Statue d'acqua di Fleur Jaeggy... ma stavolta tradotte in tedesco, forse per rinforzare una sensazione di Lied. In effetti ho dovuto controllare perché pensavo che l'aria del soprano fosse un prestito da qualche compositore, invece no, è di Battiato. Mica male però questo Battiato. L'oceano di silenzio è anche il momento in cui capisce che gli è possibile raggiungere certi livelli di intensità anche con la forma canzone, e spalanca la porta alla fase più mistica della sua produzione. 

1991: Come un cammello in una grondaia (#76) 


E cosa devono vedere ancora gli occhi e sopportare? I demoni feroci che fingono di pregare. Posto che l'espressione che dà il titolo alla canzone e all'album è presa dallo studioso persiano Al-Biruni (XII) secolo, che a quanto pare la usava per indicare l'incapacità della lingua persiana nell'esprimere concetti scientifici, rimane da capire perché la usi Battiato e in linea di massima cosa stia cercando di esprimere qui, ok, vuole ali per fuggire, ma da cosa? e devo confessare che l'espressione "onorata società" (anzi "illustre e onorata società") a volte mi ha fatto pensare a un'allusione alla mafia, che avrebbe reso il disco di Povera patria ancora più profetico, alla vigilia delle stragi del 1992. Battiato in effetti non ha mai parlato di mafia nelle sue canzoni. Non aveva nessuna remora a parlare del fenomeno, se intervistato: ma come artista non è mai andato più in là di quegli accenni agli "abusi di potere" che possono riferirsi a qualsiasi fenomeno di corruzione. Così la canzone potrebbe dare conto del fenomeno: Battiato saprebbe di vivere in una società violenta, ma denunziarla sarebbe un atto a suo modo violento, e siccome "lo so bene che dietro a ogni violenza esiste il male", rimane bloccato così nel suo mondo privato, come un cammello in una grondaia. Ipotesi ben lambiccata ma è più probabile che la canzone si riferisca alla Guerra del Golfo, in assoluto l'Argomento sulle bocche di tutti in quel 1991. Musicalmente, è amaro constatare come lo stile liederistico intravisto in Mondi lontanissimi e codificato nei momenti più intensi di Fisiognomica sia già decaduto a maniera: Battiato ormai si sente sicuro del mezzo e lo usa per sfogarsi senza troppo ritegno. 

2001: Il potere del canto (#204)


Si bagna come un prato. Si arrampica sugli alberi. Fa muovere il giroscopio. Spezza ogni inganno. Ha la forza di undici aquile. Fa smuovere il cuore al faraone. Questo è il testo del Potere del canto, ultima traccia dichiarata di Ferro Battuto (prima della ghost track Ode). Non ho la minima idea di cosa significhi e nessun testo mi è d'aiuto. Forse Battiato sta citando un autore che però fin qui nessuno ha rintracciato. La musica è abbastanza monocorde; FB che dà l'impressione di alternare rock ed elettronica come due polarità, qui le sovrappone. A guarnire il tutto i vocalizzi di Natacha Atlas. Un gran mescolone, se devo dirla fuori dai denti.

2004: La porta dello spavento supremo (Battiato, Sgalambro, Wieck, #181)

Quello che c'è, ciò che verrà, ciò che siamo stati e comunque andrà, tutto si dissolverà. A questo punto i battiatomani più incalliti hanno già sentito Sgalambro cantare in Fun Club (e nel bonus di Campi magnetici), ma sentirlo intonare l'ultima canzone dei Dieci stratagemmi regala comunque un momento di sorpresa. È una canzone sul dissolversi ed è coerentemente fatta di poche cose, quasi inconsistenti, come gli ultimi ricordi di un terminale. Finalmente – anche grazie a Fleur Jaeggy, che presta le parole con lo pseudonimo di Carlotta Wieck – Battiato ci confessa quello che personalmente sospettavo, ovvero: la morte gli fa paura, altroché. Sarà uno "spavento supremo", anche per lui. Tutto quel meditare, tutto quel ragionarci – una delle sue ultime produzioni è stato un documentario sulla morte con interviste a monaci tibetani – tutto questo negare il concetto, "noi non siamo mai nati e non siamo mai morti", ecc., tutto questo non lo affrancava dallo spavento supremo. Questo un poco mi consola. Non saprei esattamente perché, ma mi consola. 

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29. Pieni gli alberghi a Tunisi

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con una canzone che è impossibile prendere sul serio, una canzone che fu la prima che i discografici presero sul serio, un'altra in cui Battiato non si prendeva sul serio, e una cover di Bridge Over Troubled Water, sul serio] 

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1968: Fumo di una sigaretta (Battiato/Logiri, #245) 


L'amore? È meglio se lo sognerai in cucina, l'amore. Il lato B di È l'amore mette a fuoco l'ambiguità della coppia Battiato/Logiri: il primo è ancora un cantante deciso a sfondare nell'ambito sentimentale (l'unico in cui sia immaginabile sfondare in Italia anche in quel 1968); il secondo è un chitarrista infatuato di Jimi Hendrix: una passione che sul lato A si deve per forza contenere, ma esplode poi nel lato B creando quest'ibrido abbastanza peculiare tra Sanremo e il rhythm'n'blues, struggimento d'amore e assoli distorti. Battiato è un ex innamorato deluso dell'amore che rifiuta le avances di una ragazzina – per la verità non le ha proprio rifiutate del tutto, un bacetto c'è stato ma è poca roba, non ti credere, torna a casa bimba, non hai idea. La chitarra dovrebbe sottolineare questo messaggio virile: l'amore è roba da adulti, ti devasta, stanne fuori. È difficile non riderci sopra, oggi, soprattutto pensando a quanto si sarebbero adattate ai Battiati successivi le pose sentimentali o machiste. E comunque la canzone non è che giri tantissimo, è una strana chimera che non poteva andare lontano. Ma ci voleva del coraggio, della disponibilità a sperimentare, e Battiato ce l'aveva.  

1979: L'era del cinghiale bianco (#12) 

In un percorso artistico così ricco di svolte improvvise, L'era del cinghiale bianco resta la pietra miliare più rilevante. C'è un prima e c'è un dopo. Questo potrebbe indurci perfino a sopravvalutarla, perché se è vero che Battiato non aveva mai cantato una canzone del genere, è anche vero che quello che farà da lì in poi non sarà necessariamente un prosieguo dell'Era, che viceversa resta un episodio abbastanza isolato, anche nel disco a cui dà il nome. Mentre l'idea di costruire una canzone su un fraseggio di violino (all'inizio era un esercizio che Giusto Pio aveva impartito al suo allievo Franco Battiato) non era affatto così peregrina: il 1979 era il periodo di massima popolarità di Angelo Branduardi (nello stesso anno esce Cogli la prima mela), mentre il violino di Lucio Fabbri si imprimeva indelebilmente nei classici di De André incisi dal vivo con la PFM. Aggiungi che da due anni le radio non cessavano di suonare Samarcanda e capisci che uscire con un fraseggio di violino pop, nel 1979, era una mossa perfino sfacciata. Questo non significa che l'Era non sia un'ottima canzone, che dal vivo Battiato non ha mai smesso di eseguire – ma l'affetto che proviamo non deve impedirci di vederne i difetti, ad esempio: poteva durare tranquillamente un minuto in meno. Quel che conquista a distanza di anni è la naturalezza con cui la chitarra di Radius dialoga col violino, la scioltezza del cambio di tempo – possiamo chiamarla new wave italiana, ma ci sono ancora tanti debiti col progressive. E soprattutto l'improvvisa eclissi del ritmo, quando comincia la strofa e FB riesce a evocare, con pochi versi, tutto un mondo equivoco e suggestivo. 


1985: Personal computer (Battiato/Cosentino, #117)


Unu dui tri quattru. Mondi lontanissimi è anche il disco in cui Battiato sembra più spesso tentato dal non prendersi sul serio. Un impulso autoparodico che si era già manifestato nel pezzo più controverso del disco precedente (La musica è stanca), e che forse era già presente anche prima, salvo che è veramente difficile capire quando FB scherzi e quando faccia sul serio. In Personal computer (e in Temporary Road) dà proprio l'impressione di scherzare. Si comincia con un 4/4 smaccato per batteria elettronica; un soprano canta un esercizio, ma immediatamente il tempo si trasforma in una specie di bossanova smaccatamente sintetica, e Battiato comincia a snocciolare frasi sciolte sul male di vivere su una melodia medio-orientale. Una cosa che in seguito avrebbe fatto con molta serietà, qui sembra più dettata dalla volontà di giocare col personaggio Franco Battiato. Il ritornello sembra basato sulle esperienze dell'artista in tour ("quand'è notte nelle stanze d'albergo rumori di letto, sesso automatico"), che ricordano vagamente l'alienazione sessuale raccontata da Giorgio Gaber in È sabato (1972). I cori etnici, il risponditore automatico ("il sollecito è stato inviato / sulla linea dell'utente desiderato"), la conta in siculo: sono tutti rimandi a momenti diversi della ricerca di FB, ma qui sembrano infilati alla rinfusa per riderci sopra. Il problema è che il pubblico di FB non è molto disponibile a riderci sopra e La musica è stanca e Personal computer sono tra i pochi titoli ad attirare qualche critica non benevola dagli specializzati. Come se a FB fosse concesso fare di tutto, tranne prendersi in giro da solo. 


2008: Bridge Over Troubled Water (Paul Simon, #140) 

Sail on silver girl. Giunto al terzo volume dei suoi Fleurs, Battiato semplicemente canta quello che gli va di cantare, e se non vi piace pazienza. L'età sta allentando il pudore: basti pensare che se nel secondo volume non c'era una sola canzone in lingua inglese, ora ce ne sono tre, di cui almeno due mostri sacri. L'inglese di Battiato nel frattempo è un po' migliorato, ma non abbastanza da far passare liscia questa Bridge Over Troubled Water. Battiato vi si accosta con rispetto, ma è chiaro che non ha una particolare idea di come arrangiarla – del resto come si può migliorare la dinamica dell'arrangiamento originale, col canto che sembra cominciare sottovoce e gli strumenti che si aggiungono uno alla volta, e quel rullante riverberato che esplode? Battiato vuole solo cantarla, perché è una canzone che gli piace cantare. Forse si sente in debito: in fin dei conti, quando ha deciso di scrivere una canzone che sbancasse, gli è venuto qualcosa di concettualmente molto simile: ci sarò quando avrai bisogno, quando tutti gli amici mancheranno avrò cura di te. 


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28. Nei villaggi assolati e nei bassifondi dell'immensità

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi di poche parole: tre canzoni su quattro sono più o meno strumentali, e la quarta non l'ha scritta Battiato]. 

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1974: I cancelli della memoria (#165)

Quando uscì, Clic era il disco più difficile di Battiato: e se in seguito avrebbe fatto cose ancora meno ascoltabili, rimane oggi un oggetto abbastanza impenetrabile. I cancelli è il brano iniziale, una lunga introduzione a No U Turn: Battiato si prende tutto il tempo che gli serve per creare un'atmosfera inquietante. Le nostalgie e gli incanti di Sulle corde di Aries sono completamente accantonati: se c'è davvero una memoria al di là dei cancelli, è possibile che faccia paura. Un breve accenno di pianoforte a una romanza di Bela Bartok viene interrotto dal sorgere del ritmo forsennato di un sequencer che ci fa sospettare che FB stia mixando una serie di piste che non hanno quasi niente in comune, alzando e abbassando i volumi con una logica che ci sfugge. C'è una chitarra e un pianoforte che si concedono brevi fraseggi, e a un certo punto arrivano colpi di tom tom in controtempo che fanno il rumore di grosse gocce d'acqua sul parabrezza. Il sequencer cala, poi anche le gocce si diradano, resta ancora qualche accordo di organo. Non avrebbe sfigurato in un film dell'orrore italiano del periodo. 


1979: Luna indiana  (#92)

Tre minuti incantevoli dall'Era del cinghiale bianco che di indiano hanno assai poco (il toponimo è un evidente depistaggio) e invece potrebbero essere infilati tra gli spartiti di un compositore romantico di sonate per il chiaro di luna. L'unico vago richiamo alla contemporaneità è la tastiera elettronica di Danilo Lorenzini, che dialoga col pianoforte di Michele Fedrigotti: per il resto Luna indiana è un cedimento alla melodia veramente inatteso da parte del musicista sperimentale Franco Battiato. Forse è la prima volta che FB incide una musica semplicemente perché è piacevole all'ascolto. Anche i suoi vocalizzi in un orientalese fasullo non riescono a turbare l'incanto, né a rilevare segni di ironia. 


1988: Nomadi (Camisasca, #37)

Lungo il transito dell'apparente dualità. Quando Alice incise Nomadi, nel 1986, Juri Camisasca era già da quasi dieci anni in un monastero benedettino. L'anno successivo avrebbe ottenuto il permesso di uscirne temporaneamente per partecipare all'esecuzione della Genesi di Battiato, che lo voleva come voce narrante. Sempre nel 1987 Battiato sceglie di interpretare il brano per il suo primo album in lingua spagnola, che prenderà proprio il titolo di Nómadas. Il brano avrà un buon successo e segnerà l'inizio di una fortunata carriera ispanofona, per cui non è così strano che Battiato decida di inciderla anche in italiano su Fisiognomica. La sua Nómadas ricalcava nel ritornello il fraseggio vocale di Alice, per un pubblico spagnolo che non conoscendo Alice non avrebbe potuto fare il paragone: nella versione italiana Battiato lo accenna appena a mezza voce, lo dà per scontato. Rispetto alla versione spagnola i violini sembrano più alti degli interventi elettronici, non solo per differenziarsi dall'arrangiamento 'anni '80' di Alice ma per uniformare Nomadi al suono di Fisiognomica. E in più rispetto a Nómadas c'è l'assolo di chitarra del New Troll Ricky Belloni, che col suono di Fisiognomica davvero non ha molto a che vedere e in generale resta abbastanza sconcertante: una strizzata d'occhio ai trascorsi rock di Camisasca? Quest'ultimo nel 1988 lasciò il saio definitivamente.

2000: In Trance (#220)

I primi sette minuti di Campi magnetici mettono subito in chiaro che questo non è il solito Battiato. Archi sintetizzati, drum machine, cori etnici campionati, Sgalambro che recita sssibilando, gira tutto molto bene. E allo stesso tempo bisogna ammettere che questo suono così futurista non era affatto eccezionale per l'anno 2000: era l'elettronica 'intelligente' europea che si poteva sentire nei programmi radio di nicchia e nei club (dalle mie parti persino nei circoli Arci), e che divideva gli ascoltatori: da una parte chi la riteneva il suono nuovo dei tardi '90 e poi del Duemila; dall'altra chi non la trovava nemmeno così intelligente, voglio dire: tastiere, drum machine, voci campionate, non è che ci voglia un genio, metti un bambino davanti a un Macintosh con un software decente e qualcosa ti tira fuori, certo al primo tentativo non verrà fuori un Kruder & Dorfmeister, ma al terzo magari un Future Sound of London, chi lo sa. Non abbiamo mai fatto la prova. In compenso a un certo punto qualcuno ha fornito a un cinquantenne Franco Battiato un software decente, e il risultato desta ancora ammirazione. Questo forse dimostra la poliedricità, l'apertura mentale di FB. Oppure la relativa semplicità con cui si poteva produrre questa roba. 

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27. 'Ccu tuttu ca fora se mori

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con il brano che capisco di meno e quello che capisco di più]

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1973: Il silenzio del rumore / 31 dicembre 1999 - ore 9 (#156) 

Capire dove comincino e dove finiscano i brani di Pollution è un'impresa in cui credo abbia fallito lo stesso Battiato. Quando li ristampa per Ricordi, nella raccolta Feedback, taglia e cuce con molta disinvoltura. Anche su Spotify avevano cominciato a dividerli e poi a un certo punto hanno inserito una traccia di mezz'ora con tutto il disco, come dire: sbrogliatevi voi. Comunque Pollution inizia con un valzer di Strauss (Storielle del bosco viennese) che sembra registrato in un ristorante, tra rumori di piatti e posate, e FB che declama, con fare svagato "Il silenzio del rumore / Delle valvole a pressione / I cilindri del calore / Serbatoi di produzione / Anche il tuo spazio è su misura / Non hai forza per tentare / Di cambiare il tuo avvenire / Per paura di scoprire / Libertà che non vuoi avere / Ti sei mai chiesto / Quale funzione hai?". Poi parte un'intro per basso e synth che sembra suggerire un disco molto più duro del precedente (una violenza ancora piuttosto inaudita per il mercato discografico italiano), e infine un'esplosione che sarebbe già il secondo solco del disco, 31 dicembre 1999 - ore 9. Come dire: a che ora è la fine del mondo.   

1975: Orient effects (#229)  

Per quel che mi riguarda il brano più indecifrabile di Battiato, anche se la storia è spassosa. Deciso a suonare l'organo del duomo di Monreale, per vincere la diffidenza di un parroco, Battiato si fa presentare da Juri Camisasca e Gianfranco D'Adda come un musicista americano (di origini siciliane). Ottiene così il permesso di suonare e registrarsi, e ne approfitta per tre ore. Fantastico. Chissà che baccano è riuscito a fare in quelle tre ore. Non credo che la registrazione renda l'idea, voglio dire, gli organi suonano forte. Siamo in un periodo in cui Battiato si è stancato del suo modo di fare musica elettronica: nei concerti del periodo sconvolge le attese del pubblico (e parliamo di un pubblico che veniva per ascoltare il Battiato di Clic) improvvisando accordi dissonanti per ore. A Londra siccome è il primo a suonare in un festival (prima dei Tangerine Dream) lo scambiano per il tecnico del suono, dopo un po' lo cacciano a fischi. Orient effects non dev'essere molto lontano dal tipo di musica che sta facendo ma bisogna dire che se io lo trovo estremamente soporifero, altri battiatologi ci sentono tantissime cose. "In questi frammenti i ricordi si susseguono: torna il Franco bambino che si esercitava sull'organo della chiesa del paese, lo stupore, per la scoperta della musica, le domeniche in famiglia, i campi da calcio, le ripetizioni nel cortile, la voglia di restare e il desiderio di fuggire dalla terra natia. Tutto quello che Franco ha finora vissuto converge in questi dieci minuti..." Così Fabio Zuffanti (Franco Battiato, Arcana 2020). Io ci sento solo un po' di baccano. Mi dispiace. 

1979: Stranizza d'amuri (#28)

Man manu ca passo li jonna sta frevi mi trasi int'all'ossa. D'accordo, ho fatto questa cosa scema di selezionare 256 canzoni di Franco Battiato e metterle l'una contro l'altra, ma se dipendesse da me, chi vincerebbe? Stranamente non ho dubbi. 

Non li ho dall'anno scorso, quando ho scoperto che Battiato non c'era più e non sapevo come sentirmi. Allora ho preso tutti gli album che ho trovato su Spotify, dal più antico, e li ho ascoltati uno per uno senza interruzione. Molte cose le avevo dimenticate, altre mai ascoltate. Alcune belle sorprese, altre non mi hanno convinto nemmeno stavolta. Certo, quando dopo ore di sperimentalismi è cominciata L'era del cinghiale bianco, l'atmosfera è cambiata di colpo. E quando venti minuti dopo i mosconi ciabbulaunu, Tullio De Piscopo ha attaccato il vibrafono e mi sono messo a piangere. Non era previsto e non è spiegabile. Giorni dopo ho ricordato un vecchio quaderno di canzoni che portavo con me nella custodia della chitarra, canzoni che ero convinto che la gente avrebbe voluto sentire in corriera o attorno a un fuoco, e mi ricordo che ci avevo trascritto Stranizza d'amuri, basandomi unicamente sul mio orecchio e senza speranza di capirne il senso, con un simbolo diacritico inventato per l'occasione per dar conto della 't' palatale tipica della parlata siciliana. Non so quante volte sia realmente successo che io abbia suonato Stranizza in pubblico – sicuramente nessuno me la chiedeva, anche dopo averla sentita. Ma riesco ancora a suonare la linea di basso in 7/4. Stranizza è una canzone su due innamorati in tempo di guerra in cui forse Battiato intendeva far risuonare certe corde nostalgiche, ma come nei momenti migliori del Cinghiale bianco il salto di qualità è arrivato nello studio Radius con Julius Farmer al basso e De Piscopo alle percussioni (appena freschi di Faust'O) che ti inventano lì per lì senza strafare una new wave italiana: e allo stesso tempo è anche un brano profondamente battiatesco, già nell'aria ai tempi di Juke-box, costruito su un'allucinazione uditiva semplice ma di sicuro effetto che evoca un'ascesa infinita: un accordo ("Man manu ca passunu i jonna", un intervallo di quinta e quindi abbiamo la sensazione di salire ("sta frevi mi trasi 'nda ll'ossa"), un tono ancora più su ("'ccu tuttu ca fora c'è 'a guerra, mi sentu") e di nuovo un intervallo di quinta: ma a questo punto anche se siamo tornati all'accordo iniziale abbiamo la sensazione di aver salito una scala intera, e possiamo ricominciare da capo. L'allucinazione è favorita dall'ondulare degli archi, e dalle scale ascendenti tracciate dal basso. Il testo in dialetto si consente quel sentimentalismo che in italiano Battiato non poteva ancora permettersi. Probabilmente Battiato ha scritto canzoni migliori – sarebbe triste che nei 35 anni successivi di carriera non ci fosse riuscito. Ma Stranizza d'amuri è il mio campione.

1998: Auto da fé (Battiato/Sgalambro, #101)

A volte faccio un esame di coscienza, ripenso ai miei innamoramenti e mi rendo conto che dietro a tanti slanci c'era soprattutto un grande appetito sessuale che forse andrebbe soddisfatto senza coinvolgimenti sentimentali. Ecco. Questa cosa in sgalambrese suona: "Faccio un auto da fé dei miei innamoramenti / Voglio praticare il sesso senza sentimenti". Suona meglio?  Beh, perlomeno è più svelto. Alla fine l'importante è comunicare. Sempre. Lo sgalambrese è un linguaggio che indulge al preziosismo verbale, ma se riesce a esprimere un concetto o una sensazione in breve tempo e con precisione, perché no? Altre volte a infastidire non è tanto il lessico forbito, quanto la sproporzione tra la presunta originalità delle parole e la banalità del concetto che vuole coprire, cioè qui Sgalambro sta dicendo a una tizia "non sei tu, sono io", ma passa attraverso locuzioni come "È sceso il buio nelle nostre coscienze e ha reso apocrifa la nostra relazione". Tutto questo lasciava perplessi anche ai tempi dell'Ombrello e la macchina a cucire, ma adesso c'è anche il problema che Battiato è in una delle sue fasi rock, anzi nella fase più rock in assoluto, in Gommalacca vuole le chitarre distorte e ritmiche come vanno in quel periodo (se ne occupano i Blu Vertigo) e questo crea un corto circuito che Battiato nemmeno prevede – come infilare il povero Sgalambro in una giacca di pelle e montarlo su una motocicletta – perché davvero se c'è un mondo che gli sfugge completamente è quello del machismo: questo lo rendeva un uomo migliore di quasi tutti noi ma forse gli impediva di capire che cantare "Voglio praticare il sesso senza sentimenti" su una base rock a cinquant'anni passati rischiava seriamente di suonare ridicolo. 

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26. Noi, provinciali dell'Orsa Minore

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con un sassofonista matto, violini zaratustriani nello spazio, Raimondo Vianello, Sandra Mondaini, Charles Aznavour, Dino Buzzati].  


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1974: Aries (#188)

Stai ascoltando Sulle corde di Aries, il terzo difficile disco dell'artista avanguardista Franco Battiato che ultimamente ha cambiato immagine, rifiutando le mises fantascientifiche e provocatorie e cercando una musica diversa, meno dissonante e provocatoria e più evocativa. Proprio quando stavi pensando, beh, fantastica questa Sequenze e frequenze, ecco se devo trovarci un difetto, bisogna dire che non finisce davvero mai... ecco che finisce. Ma poi ricomincia, praticamente con gli stessi accordi, all'inizio del lato B. E proprio quando stai pensando: certo che questa musica ha qualcosa di particolare, è come se si fosse riconciliata con qualsiasi suono dell'universo, è come se fosse impossibile suonarci sopra qualcosa e stonare, davvero c'è qualche strumento che sta sparando note a caso da dieci minuti, in particolare su certe tastiere potrebbe esserci passato un gatto eppure tutto funziona, tutto si accorda, tutto è melodia... ecco, proprio quando stai cominciando a pensare a questo entra il sax e spacca tutto. Lo suona il sassofonista Gianni Bedori ma non è difficile capire perché nel disco si sia nascosto dietro lo pseudonimo di "Johnny Sax": all'inizio puoi ancora considerarlo un assolo jazz... certo, molto free jazz... veramente molto free... no vabbe' Johnny stai soffiando come un matto e pesti tasti a caso. È l'unico tratto realmente avanguardista di un disco che in linea di massima ha rinunciato a sconvolgere i suoi ascoltatori. Dopo aver composto Sequenze e frequenze, FB si è concesso anche il lusso di distruggerla. 


1985: Via Lattea (#60)

Tum, cià, tu-tum, sh-cià. A risentirla, Via Lattea, è veramente un viaggio. La promessa di un viaggio. Già ai tempi la cornice fantascientifica di Mondi lontanissimi risultava un po' pretestuosa (nella mia memoria non riesco a separare questo disco di Battiato con Saturno in copertina dal primo best seller di Isaac Asimov, L'orlo della Fondazione, che uscì in Italia su Urania proprio in quell'estate). Battiato in fondo non faceva che utilizzare lo stesso espediente di David Bowie più di dieci anni prima: evocare spazio e stelle per parlare dei nostri mondi interiori. Ma Bowie stava sfruttando l'ondata delle missioni lunari e di Odissea nello Spazio; Battiato poteva al limite contare sui lettori di Asimov (che in quegli anni erano comunque una discreta legione) e sul pubblico della serie storica di Star Trek, che le emittenti private italiane stavano programmando con vent'anni di ritardo. Era un immaginario già anticato, che non avrebbe resistito ancora molti anni ai nuovi franchise d'oltreoceano, agli zombie e agli elfi. Era comunque un immaginario condiviso al punto che certi luoghi comuni erano persino scontati, ovvero forse Battiato orchestrando Via Lattea non si rendeva nemmeno conto di parodizzare Also Sprach Zarathustra: il fatto è che vent'anni dopo il film di Kubrick lo spazio ci ispirava ancora quel tipo di sviolinate all'unisono. Quel che sorprende ancora oggi di Via Lattea è il mix per niente banale di orchestrazione zarathustriana e suoni elettronici – questi ultimi dosati con molta attenzione, dopo la full immersion di Orizzonti perduti. Era un suono originale, con tanti contrasti dinamici che sono l'esatto contrario di quello che di solito ci aspettiamo dalla 'musica da meditazione', forse un po' magniloquente ma non è invecchiato male. 


1999: Ed io tra di voi (testo italiano di Bardotti e Calabrese, musica di Charles Aznavour, #69)

È stata una magnifica serata. Sì, sì, una magnifica serata! No, Battiato questo finale non lo canta. E io qua sopra ho messo la sua versione, ma la tentazione di sostituirla con lo sketch di Vianello e Mondaini era fortissima – quello sketch è un capolavoro, è una farsa ma elegantissima, è fatto solo di sguardi e smorfie, fa ridere ma ci fa anche ascoltare una bella canzone. Piuttosto varrebbe la pena di domandarsi: perché una cosa che in Francia era talmente tipica da essere stereo-tipica, il lamento del maschio deluso, il triangolo amoroso visto dal vertice più patetico, in Italia quasi non esiste?, e anche se Aznavour cerca generosamente di importarla facendosi tradurre il testo in italiano, deve dimentare immediatamente una farsa? Moi dans mon coin, l'originale si chiama così, è anche un esempio di canzone teatrale come la intendono i francesi: una tragedia in tre minuti. Brel era il maestro di queste cose, ma anche Aznavour in questo caso ottiene un risultato incredibile con uno sforzo minimo (quando diceva "lui" voltava la testa a sinistra, quando diceva "tu" la voltava a destra, infine diceva "et moi" e abbassava appena appena lo sguardo sul proprio sfacelo interiore). Forse in Italia siamo troppo melodrammatici per apprezzare queste cose: anche ammettendo che da qualche parte esiste un uomo migliore, mica possiamo abbassare la testa eh no, dobbiamo urlare e pazziare, adesso siediti su quella seggiola ecc. ecc. Oppure, appunto, la buttiamo in farsa (scusami tanto se vuoi / signore chiedo scusa anche a lei). A Battiato la farsa non interessa e forse per questo motivo decide di recidere da questo fleur il finale parlato – che era il climax del numero di Aznavour, l'amarissima strizzata d'occhio con cui si congedava dai due amanti e dagli ascoltatori. Battiato non la sente nelle sue corde, la teatralità è una dimensione che non gli interessa. E dire che ha lavorato tanto con Gaber, eppure, mah, no, no, è comunque una magnifica versione di Moi dans mon coin. Sì, sì, una magnifica versione!


2004: Fortezza Bastiani (Battiato/Sgalambro, #197) 

"Ho camminato girando a vuoto senza nessuna direzione. Mi tiene immobile nei limiti l'ossessione dell'io!" A volte una canzone senza volere descrive sé stessa. A volte anche Battiato girava a vuoto, e proprio intorno a sé stesso: per essere un negatore dell'Io, non è che abbia parlato di molto altro per tanti dischi e tanti anni. Fortezza Bastiani a un certo punto avrebbe dovuto dare il titolo all'album (che poi si chiamerà Dieci stratagemmi: nel caso sarebbe stato il secondo consecutivo dopo Ferro Battuto a condividere con l'artista le iniziali: FB. La fortezza del titolo, malgrado la suggestione buzzatiana, è Franco Battiato medesimo, che si vorrebbe inespugnabile ma poi si accorge di essersi rinchiuso con sé stesso. Tutto lo smarrimento metafisico del capolavoro di Buzzati – la vita come veglia in attesa di un senso, anche solo di un segnale – a Battiato (e Sgalambro) sfugge: non è di questo che volevano parlare. 


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25. In silenzio soffro i danni del tempo

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con un mostro sacro e tre contendenti molto più insidiosi di quanto può sembrare].

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1969: Occhi d'or (testo di Paolo Farnetti; musica di Federico Mompellio e Giorgio Logiri, #252)

Laggiù, tra deserti d'or, ho lasciato il cuor. La canzone più folle del Battiato anni '60 – l'unica che lascia presagire le follie dei decenni successivi. Per contro, nulla di quanto aveva fatto fino a quel momento poteva preparare l'incauto ascoltatore a Occhi d'or, infida già dal titolo – chi sospetterebbe mai voltando il 45 giri di una canzoncina orecchiabile come Bella ragazza di incappare sul lato B in una deriva psichedelica del genere, un kolossal in technicolor? È incredibile pensare che Battiato non ne abbia scritto né testo né musica – ma per metterci la faccia e la voce ci voleva comunque un certo coraggio. A questo punto della sua traiettoria, FB è un cantante di medio successo (unicamente grazie al singolo È l'amore) ma soprattutto un onesto artigiano della canzonetta: le scrive, riesce a piazzarle anche all'estero (Bella ragazza avrà una traduzione in inglese, in francese e fiammingo), collabora con Gaber, Maurizio Arcieri, Daniela Ghibli. È il momento in cui forse puoi cominciare ad allargarti un po', a mostrare quello che saresti in grado di fare se non fossi incatenato al formato dei tre minuti. Questo tipo di sperimentazioni erano ammesse soltanto sui lati B, e in Occhi d'or Battiato e il compare Logiri sembrano voler condensare in un solo lato B decine di esperimenti. C'è una varietà di strumenti mai sentita prima (un gong?), un orientalismo che è ancora posticcio ma col senno di poi sappiamo quanto sia anticipatore; il coraggio già progressive di cambiare completamente ritmo a due minuti dall'inizio; e poi, due minuti dopo, cambiare tutto di nuovo con una coda che è copiata di pacca da Hey Jude. Che viaggio. 

1988: E ti vengo a cercare (#5)

"A Battia', te vole er Papa" (il funzionario EMI). 

E ti vengo a cercare è il brano che ha messo d'accordo Giovanni Lindo Ferretti e Karol Wojtyla (che poi avrebbero scoperto tante altre affinità). Non so se mi sono spiegato: è il brano di Battiato che fu scelto dal rappresentante di un movimento oscurantista che cercava affannosamente un rilancio, una credibilità pop: e inoltre piaceva anche a Wojtyla, che convocò Battiato e orchestra per un concerto in Sala Nervi. Ben 12 anni prima del Giubileo, di Dylan e di Bocelli, Battiato forse fu il primo cantante a suonare per il Santo Padre e a trarne un'incredibile impressione ("le mie parole della canzone dedicata a Dio acquistarono una dimensione nuova, inaspettata... Fu come uno squarcio del cielo"). 

La fondamentale tripartizione descritta da Alberto Arbasino nella traiettoria degli italiani contemporanei illustri (brillante promessa / solito stronzo / venerato maestro) andrebbe applicata con molta parsimonia: anche nel caso di Battiato, che pure sembra così esemplare. Battiato era stato una promessa davvero brillante, almeno coi suoi primi dischi alla Ricordi: poi si era eclissato in un universo sonoro completamente alieno e ne era riemerso intorno al 1980, come un Solito Stronzo determinato a spremere le tasche di tutti i consumatori di dischi. Portava occhiali scuri, cantava di magici orienti e fini del mondo e non c'era da credere a una parola. Questo secondo periodo si trascina almeno fino al 1985, quando Battiato mette in giro la voce che vuole concentrarsi sulla musica colta. Come un eremita che rinuncia a sé. Non è vero, non riesce a concentrarsi, la sua Genesi la scrive ma un rapimento mistico e sensuale lo riporta a comporre canzonette e ad arrangiarle come si conviene perché si sentano in radio. A un certo punto decide di accettarsi per quello che è, un autore di canzonette seppur di prestigio, ed è la mutazione finale: sin dal primo ascolto di Fisiognomica, è chiaro a tutti che Battiato ha buttato via gli occhiali scuri e ci guarda negli occhi, ci parla col suo cuore, delle cose che gli premono: è diventato un Maestro, e la venerazione può cominciare. È andata così? Meglio diffidare. In fondo erano ancora gli anni Ottanta. Si può smettere di essere stronzi in così poco tempo? E se Ti vengo a cercare fosse invece il capolavoro di uno straordinario paraculo, un tizio che senza neanche credere in Gesù Cristo riesce a imbucarsi con un pezzo pop in Sala Nervi? E in un disco dei CSI? E in Palombella rossa?

Lui stesso in seguito ha ammesso che si trattava di una canzone "volutamente ambigua", dove la tensione religiosa è descritta con parole che possono adattarsi anche a un amore più profano. Del resto "per chi ama sono divini anche una donna e un uomo, a seconda dei casi". Questo magari avrebbe funzionato con molti acquirenti: ma per conquistare un Wojtyla ci voleva qualcosa di più, e quel qualcosa è la citazione finale dalla Passione secondo Giovanni di Bach – sono passati appena tre anni da quando Battiato profanava Mozart e Beethoven a scopo divertimento: se adesso cita 'seriamente' Bach, dobbiamo crederci? Non è la profanazione definitiva, ben più sottile e subdola: usare Bach per travestirsi da prete? Persino il videoclip ribadiva il concetto, fermando la camera proprio davanti all'ingresso di una chiesa: E ti vengo a cercare nel 1988 poteva benissimo essere presa per la storia di una conversione al cristianesimo che col senno del poi non c'è mai stata, Battiato probabilmente l'aveva scritta pensando al solito Gurdjieff o qualche altro maestro sufi o vattelapesca, ma voleva venderla ai cattolici, ed è riuscito a infinocchiarne il capo, altro che Venerato Maestro, questo è ancora lo Stronzo, e Ti vengo a cercare è il suo capolavoro. Anche perché non è riuscito a piazzarla solo in Vaticano, ma perfino nel film di Nanni Moretti, ovvero nella coscienza di tutto il ceto-medio-boomer-riflessivo-di-sinistra che negli anni a venire gli avrebbe comprato più dischi dei cattolici. Anche se per farlo serviva una strategia completamente diversa: ebbene FB la scoprì in quell'occasione, forse fortuitamente, alludendo a non meglio precisati "parassiti senza dignità" che lo spingevano solo "a essere migliore con più volontà", il manifesto dell'antiberlusconismo quando Berlusconi era ancora un simpatico proprietario di canali tv. Sullo scorcio del decennio che l'aveva incoronato profeta postmoderno, Battiato fiuta l'aria e molto prima di chiunque altro capisce che davvero stavolta non è più tempo di scherzare, la gente non vuole più ironie ma preghiere, vuole essere migliore, vuole maestri: e lui è già pronto. Con una canzone sola mette d'accordo Moretti, Ferretti e Wojtyla, davvero tutti, chi mancava? (io, per esempio, ma è un dettaglio). 

2004: Le aquile non volano a stormi (testo di Manlio Sgalambro, musica di Yashima Kinimori, #133) 

Salta su un cavallo alato prima che l'incostanza offuschi lo splendore. L'ascoltatore che avesse appena giudicato Le aquile non volano a stormi come una delle canzoni più orecchiabili di Dieci stratagemmi potrebbe rimanere deluso scoprendo che qui Battiato si è limitato a cantare il testo di Sgalambro su un brano di un duo giapponese di world music, gli Yoshida Kyōdai (吉田兄弟, conosciuti in occidente come Yoshida Brothers). Ma è proprio ascoltando il brano originale che risalta l'abilità di Battiato nel manipolarlo – son tutti bravi a remixare pezzi techno e persino rock, ma qui ha veramente preso un brano da BuddaBar, lo ha campionato, ci ha messo la drum machine e persino la chitarra elettrica, insomma lo ha stravolto e allo stesso tempo è riuscito a portarne alla luce l'ossatura sacra sotto tutta la patina new age. E se non è stato Battiato, bravo Pinaxa, bravi tutti. Il match lo vincerà E ti vengo a cercare, ma io oggi il mio voto lo do alle Aquile non votano a stormi, perché mi sento un po' aquila anch'io evidentemente. Certo, mi dispiace un po' per la pazza Occhi d'or, e forse persino per... 


2008: Et maintenant (musica di Gilbert Bécaud, testo di Pierre Delanoë, #124) 


Toutes ces nuits, pour quoi, pour qui? In teoria il principio di Fleurs2 è lo stesso del primo volume, di quasi dieci anni prima: prendere una canzone, anche molto importante, e spogliarla degli elementi più contingenti, per trovarne l'anima immortale. E però forse non funziona con tutte le canzoni. In particolare non sembra funzionare con canzoni che Battiato magari ama molto, ma che non ha vissuto in prima persona. È il caso di Il avait 18 ans: se la canta Dalida, sta confessando di avere avuto una storia con un ragazzo che aveva la metà dei suoi anni; se la canta Battiato... non sta confessando niente in particolare. Da questo punto di vista Et maintenant dovrebbe scorrere più liscia: è una canzone che parla di come ci si sente quando si è stati lasciati – chi non è stato mai lasciato una volta nella vita? E dunque Battiato decide che il bolero ha fatto il suo tempo; che il crescendo furioso dell'originale non gli interessa, che Et maintenant può dire quello che ha da dire anche in punta di piedi, fino alla fine. Il che forse risponde alla nostra domanda: ecco chi non è mai stato lasciato una volta nella vita, ecco chi è che non si è mai visto davanti a un abisso di disperazione appena spalancato senza possibilità di aggirarlo: Franco Battiato, ecco chi. E hai fatto anche bene, guarda: hai risparmiato un sacco di tempo e di lacrime e sangue, il che ti ha consentito di scrivere e cantare tante canzoni in più, ma forse Et maintenant la dovevi lasciar stare. Non parla di te. Ci può pure essere una canzone al mondo che non parla di te, no? Tu hai un sacco di cose di cui parlare, i sufi, l'universo, la respirazione, davvero un sacco di cose. Lascia Et maintenant a questa valle di lacrime. 

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24. E intanto la mia vita fugge in diagonale

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[Questa è La Gara, oggi con un brano che ha vinto il premio Stockhausen, un brano che è andato a Saint Vincent Estate '85, un brano scartato da Gommalacca che è diventato la pietra d'angolo di altri due dischi, e un brano in cui canta Jim Kerr, ma voi magari nemmeno sapete chi è Jim Kerr, voi vi siete scordati di lui, miscredenti]. 

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1978: L'Egitto prima delle sabbie (#212)

Ed eccoci qua. Ho esitato a lungo prima di mettermi a scrivere ordinatamente di Battiato, perché? Perché per decenni interi ha fatto musica che non mi interessava? Niente che Spotify non possa curare in una settimana. Perché c'è già tanta gente che ne ha parlato? Tesoro, io ho scritto un libro pure sui Beatles. Perché ho in uggia i maestri di vita e la nostalgia per qualsiasi passato idealizzato o reale? Questo era un buon motivo per diffidare di Battiato, non per smettere di ascoltarlo. Perché ha passato anni a studiare pensatori di cui non so veramente nulla? Vabbe' c'è Wikipedia. No. 

Quello che mi spaventava davvero non era Gurdijeff, non era Sgalambro. Era l'Egitto. Quello prima delle sabbie. Quello che Battiato ha sempre considerato il suo capolavoro, e per me, con tutti gli sforzi, è... una scala ripetuta per un quarto d'ora. Che cosa faccio? Fingo di aver capito il sottile gioco di pedali e riverberi? O la leggo come la solita provocazione – come se dopo aver esordito nel 1972 con un feto avvolto in una carta da forno Battiato nel 1978 avesse ancora tutta questa voglia e necessità di provocarmi? No, di fronte all'Egitto devo arrendermi. O al limite accettare che non è 'musica' come la intendo io. L'Egitto è parte di un esperimento che Battiato fa sul proprio corpo – in un periodo di relativo isolamento dalla scena musicale e dalla società in generale – le risonanze dovrebbero indurre un rilassamento muscolare ecc. ecc. ecc. io non mi fido nemmeno degli osteopati con i diplomi incorniciati figurati se do retta a un autodidatta che poi alla fine queste cose le sperimentava da pochi anni. L'Egitto, spiega Battiato, "riempie la stanza di purezza" – mi fa venire in mente una ragazza che conoscevo che non faceva in tempo a prendere un treno che suo marito pagava i maghi perché le purificassero la casa, non la vedo da tanti anni ma spero che lo abbia lasciato. Oppure senti questa: le cassette pulisci-testine, magari le avete usate anche voi, sembravano musicassette come le altre (proprio come L'Egitto da fuori sembra un disco come tanti altri, ha pure una bella copertina disegnata dal pianista, Antonio Ballista), ma se le inserivi nel deck non facevano nessun rumore: servivano soltanto a purificare la testina, ecco forse la pretesa di capire L'Egitto è simile a quella di capire la musicalità di una cassetta pulisci-testina, cioè è un'idea stupida, non è musica da ascoltare, sono frequenze da far risuonare a scopi purificatori. Va bene. Per me il vero pregio dell'Egitto è che Battiato non è andato oltre – il sospetto è che si fosse stancato pure lui. 

1985: Risveglio di primavera (#45) 

I'm a stranger in the night! Una delle esibizioni più folli di FB è senz'altro quella in playback a Saint Vincent Estate 1985. Travestito da garibaldino, Battiato canta Risveglio di primavera accompagnato dal duo che sta cercando di lanciare, gli A'sciara (uno fa le piroette con una chitarra, l'altro suona l'arpa celtica! Ci mette proprio il cuore malgrado evidentemente non ci sia nessun'arpa celtica nel brano, questo era normale negli Ottanta). A questo punto della sua traiettoria, Battiato è un maestro della canzone pop postmoderna: in quanto tale potrebbe essere tentato a ripetere qualche formula già collaudata, anche solo per vedere se continua a funzionare. Sul piano testuale Risveglio riprende l'idea di Radio Varsavia: inquadrare subito un preciso riferimento storico e geografico (in questo caso l'epopea garibaldina, vista con l'occhio mezzo chiuso di un isolano sospettoso dei "movimenti prevedibili delle truppe in finte battaglie") per poi scantonare raccontando tutt'altro, ad esempio a un certo punto stiamo vedendo i bacini delle ragazze ballare il flamenco, relativamente tranquille perché la locanda è chiusa agli spagnoli e quindi nessuno verrà a fare il purista. Sul piano musicale Risveglio è una Cuccurucucù rallentata, più ballabile, e un riff di tastiera non lontanissimo dalle cose che si potevano ascoltare in radio nell'estate del 1985. Una volta ho letto da qualche parte che i dischi più datati della storia della musica sono tutti del 1985. Doveva essere una recensione di Empire Burlesque, non riesco più a trovarla. Ci sono vari motivi – il trionfo della batteria riverberata anni Ottanta, delle tastiere Roland – e poi in effetti un certo elettropop era alla fine della sua spinta propulsivaLo stesso Battiato, se insisteva su certe formule, è anche perché con la testa era già altrove – magari sugli spartiti della Genesi. Anche Risveglio si ritrova affibbiato un accompagnamento orchestrale perfino ridondante. Non è che Battiato non si diverta ancora a fare queste cose (nel video restaurato potete vederlo ghignare sottecchi) ma ormai ha una gran voglia di svegliarsi. 

1998: L'incantesimo (testo di Sgalambro, #84)

L'incantesimo di perdute esistenze che non saranno mai le speranze di presenze intorno a noi. Perché Sgalambro non è un gran poeta? Se ne potrebbe parlare a lungo ma insomma qui infila tre desinenze in -nze in tre versi, tanto varrebbe spezzare le unghie su una lavagna. Perché Battiato è uno straordinario interprete? Perché potreste ascoltare L'incantesimo una dozzina di volte – io oggi l'ho quasi fatto – senza farci nemmeno caso. Davvero, per notare la cacofonia ho dovuto leggere il testo sulla pagina. Battiato aveva il potere di trasformare in salmo qualsiasi scioglilingua. 

Una regola del torneo è che ogni canzone partecipa solo una volta anche se ne esistono diverse versioni. Di solito non è difficile capire quale sia la versione principale, ma L'incantesimo è l'eccezione: compare per la prima volta in un demo accluso nel singolo del Ballo del potere, ovvero a quel punto si trattava di uno scarto di Gommalacca, di cui condivide una certa teologia negativa ("amo quello che non è"). Nella demo ci sono solo un paio di tastiere, la drum machine e la voce di Battiato – eppure la canzone è già completa: le tastiere diventeranno archi (sintetizzati?) nella versione live di Last Summer Dance (2005), ma senza aggiungere molto incanto all'incantesimo. Anche la versione di Inneres auge (2009) contiene variazioni minimali (si sente più la chitarra). Alla fine L'incantesimo risulta più ascoltata della maggior parte dei brani del disco da cui fu esclusa, e forse se lo merita.  

2001: Running against the grain (testo di Sgalambro? #173) 

Certo che se in quello stesso 1985 in cui ascoltavo la cassettina di Mondi lontanissimi qualcuno mi avesse detto: hai presente Jim Kerr? Quello che fa "Hey hey hey hey" all'inizio di quella che tu ultimamente consideri la più bella canzone di tutti i tempi? Lo sai che un giorno canterà un pezzo di Battiato, con Battiato? Io come avrei reagito? Forse avrei detto: wow. Ma si diceva "wow" nel 1985? E forse comunque non l'avrei detto, forse avrei presagito la delusione. Franco Battiato e Jim Kerr nella stessa canzone, sul serio, e poi cosa? Pavarotti e gli U2? Samantha Fox e Sabrina Salerno? I Doors ma col cantante dei Cult? Quindici anni dopo, sia Battiato che Jim Kerr si sono ritirati in Sicilia e probabilmente il secondo vende meno dischi del primo: in compenso è proprietario di un albergo a Taormina. È un periodo in cui se vivi in Sicilia e fai il cantante un featuring con Battiato ti tocca, anche perché probabilmente la gente mormora, com'è che vivi qui e non hai ancora fatto un featuring con Franco? Che c'è, non vi stimate?  Battiato ne approfitta per produrre un brano introduttivo al nuovo disco molto più chitarroso del solito – forse ritiene che dopo l'exploit elettronico di Gommalacca sia ora di tornare su sonorità più rock e può darsi che nel 2001 non fosse un ragionamento sbagliato. Nei testi FB continua a rivendicare (con o senza Sgalambro) la sua orgogliosa natura di navigatore controcorrente, eppure Ferro Battuto dà l'impressione di un disco che per trovare un suono contemporaneo le prova tutte.

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23. Potendo poi rinascere, cambierei molte cose

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con un requiem pasquale, un Lied su un animale, il suono primordiale, e intanto la musica muore]. 

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1979: Pasqua etiope (#109) 

Kyrie Leison, Christe Leison (non suona quasi Hare Krishna?) In cinquant'anni di carriera, Battiato ha toccato piuttosto raramente l'argomento cristianesimo, e l'ha fatto quasi esclusivamente attraverso il linguaggio musicale (arrivando a comporre una Messa arcaica). Le preghiere che gli capita di citare (qui il Requiem) sono sempre quelle dei riti pre-Concilio Vaticano II: in particolare un anno prima di Pasqua etiope aveva composto un Agnus per la colonna sonora del film di Brunelleschi che una volta rifiutata divenne Juke-Box. Pasqua etiope riprende in parte le atmosfere di quel disco strano: scale pianistiche a profusione, un senso di liturgia un po' improvvisata lì per lì da suonatori ispirati ma estemporanei. Ma mentre i brani di Juke-Box sono un'imperterrita sfida all'orecchio, Pasqua etiope scivola che è un piacere, cullando l'ascoltatore in uno stato di grazia che Battiato non si concedeva più dai tempi di Sequenze e Frequenze. Anche il titolo aggiunge qualcosa di mellifluo e pittoresco – è abbastanza improbabile che i sacerdoti copti etiopi preghino in latino, ma tutto sembra ambientato in un villaggio postmoderno (postatomico?) dove le liturgie dovranno essere ricostruite partendo da frammenti, detriti, suggestioni. 


1985: L'animale (#20) 

Fingere, tu riesci a fingere quando ti trovi accanto a me. Mi dai sempre ragione, e avrei voglia di dirti che è meglio che sto solo. A metà degli anni Ottanta Battiato è in piena mutazione: si è stancato di fare la popstar, vorrebbe diventare il compositore colto che da dieci anni sospetta di essere, e invece sta per scoprirsi cantautore – con un certo iniziale disappunto. Capita così che il suo disco più raccogliticcio, quasi una raccolta di canzoni sparse qua e là durante quegli anni frenetici, termini con un capolavoro imprevisto. Scritta forse per Giuni Russo (che la inciderà appena trent'anni più tardi), parzialmente sconfessata dal suo autore che ha sempre negato una lettura autobiografica ("è una canzone presa in prestito dall'esperienza di altre persone"), L'animale a ben vedere mette a fuoco lo stesso dilemma di Tra sesso e castità ma con una semplicità più perentoria, un lessico castigato e basilare – anche nella seconda strofa, quando tira in ballo i quattro elementi, non dice nulla che i profani non possano capire al volo: "dentro di me segni di fuoco, e l'acqua che li spegne". L'arrangiamento 'da camera' lo rende il primo vero Lied battiatesco, oltre che probabilmente il meglio riuscito. È un brano irresistibile anche perché, malgrado la lucidità della voce cantante e tutta la compassatezza orchestrale che lo circonda, alla fine quello che sembra avere l'ultima parola è proprio l'Animale. E l'Animale che mi porto dentro vuole te. 

   

2000: Suoni primordiali (#237) 

Suoni primordiali è il lento smorzarsi di Campi magnetici, il balletto composto da Battiato per il Maggio fiorentino. Suoni primordiali consta in dieci minuti di note che si attraggono e distraggono, finendo per smorzarsi come una galassia che collassa nell'infinità del nulla. Non ha nessuna speranza di passare il turno e ci si potrebbe domandare anche che ci fa in un torneo di "canzoni" di Franco Battiato: cosa rimane qui, della forma canzone? Lo stesso si potrebbe dire anche per i brani del periodo 1976-1978: che senso ha includerli? Non perché non siano interessanti da ascoltare, ma perché sono persino più lontani dall'idea di canzone di altri componimenti che sono stati esclusi: le opere (GenesiGilgamesh, Telesio), la Messa arcaica, le colonne sonore, e a proposito: perché Benedetto Cellini no e Juke Box sì? Per una volta ho una risposta semplice: ho incluso tutti i brani che nel sito ufficiale di Franco Battiato compaiono alla voce "discografia leggera". Cosa poi ci sia di leggero nell'Egitto prima delle sabbie o in Za non saprei dirlo. Quanto a Campi magnetici, è pur vero che certi brani potresti selezionarli in un contesto di chill out e nessuno protesterebbe – anzi magari verrebbero a chiederti da che playlist IDM l'hai tirata fuori. Ma non è il caso di Suoni primordiali, il suono di un dissolvimento prima del finale a sorpresa con la guest star che nessuno osava immaginare: Manlio Sgalambro in carne e ossa che canta La Mer di Trenet (ecco quello in gara non l'ho messa, almeno l'avesse cantata Battiato) (no, non dà fastidio, fa quasi tenerezza, ma in gara non l'ho messa lo stesso).   

2008: La musica muore (Camisasca, #148) 

Sono anni che non cambia niente: tutto è chiuso in un sacco a pelo. La musica muore è un fleur atipico, uno dei rari casi in cui Battiato decide di manipolare sensibilmente il testo della canzone che reinterpreta – certo, con la complicità dell'autore e vecchio amico Juri Camisasca che interviene a metà brano. La musica muore era un epico singolo del 1975 che sembrava dare voce a un senso di delusione per il ristagno della cultura giovanile e musicale in quegli anni – può sembrarci strano oggi, ripensando a che dischi fantastici continuavano a uscire, ma era analoga alla sensazione provata da Battiato durante il suo primo viaggio a New York: musica troppo forte e già sentita, pubblico assente, instupidito da sostanze. Ma Camisasca sembrava volerne fare anche una questione privata: la fine della musica era anche la fine della sua musica, tanto che la seconda strofa descriveva una crisi dell'ispirazione "Le mie note cercano una madre che le copra con un bianco velo. Scivolando sopra la mia fronte se ne stanno andando senza far rumore. La musica muore!" A Battiato questa crisi non interessa (così come non interessa l'andamento motownesco dell'originale, con gli archi usati nel modo più soul possibile): cancella strofa e ritornello, sostituendoli con un collage di citazioni che non hanno più l'immediatezza icastica di Cuccurucucù. Sembrano piuttosto le diapositive sbiadite di un boomer che si lamenta che la musica non è più quella di una volta, e il fatto che abbia ragione non lo rende meno fastidioso, anche perché insomma, nonno: "Degli Stones amavo Satisfaction e dei Doors Come on, baby, light my fire. Ascoltavo Penny Lane per ore ed ore..." che gusti originali, eh? L'arrangiamento è etereo e insolitamente didascalico: quando cantano "concerti" si sente un assolo di chitarra, quando l'acqua ritorna "nel sacco a pelo" risentiamo per un istante l'inconfondibile synth di Propiedad prohibida, come un'istantanea da Parco Lambro: quando dicono "stop", la musica si ferma. È comunque uno dei momenti più ispirati di Fleurs 2, con un ipnotico finale a base di sassofoni, ma che lascia l'amaro in bocca: dopo aver passato trent'anni a provare tutte le strade musicali possibili, Battiato cede a un attimo di disperazione e confessa che sì, forse qualcosa è davvero finito verso il 1972.  

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22. Guerriglia nella jungla, ma sotto un tetto di paglia amore mio

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[Questa è la Gara delle canzoni di Battiato, oggi con una canzone sulla fine del mondo, una canzone sull'esistenza di Dio, una canzone sul perduto amore, una canzone su quanto sia tutto vanità]

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1982: Clamori (#52)

Il mondo è piccolo, il mondo è grande, e avrei bisogno di tonnellate di idrogeno. Quante volte di fronte a un verso ci siamo detti: puro Battiato. E quante volte ci sbagliavamo, ad esempio in questo caso l'autore è Henri Thomasson maestro gurdjeffiano di Battiato, sotto il bello pseudonimo di Tommaso Tramonti, più che appropriato dal momento che è di tramonto della civiltà che intende parlare. Nell'Arca di Noè è il paroliere di Clamori è l'Esodo, due 'puri Battiato'. Questo in parte potrebbe essere dovuto agli interventi condotti da FB sul testo originale (che nel caso delle Aquile rappresentano come abbiamo visto una completa riscrittura, per cui l'attribuzione a Fleur Jaeggy è più una dedica che uno scarico di responsabilità), in parte al fatto che lo 'stile Battiato' si presta molto bene a essere imitato (e parodizzato): ma in questo caso anche al fatto che Thomasson e Battiato parlano davvero la stessa lingua, che non è esattamente la nostra. Come l'Esodo, anche Clamori è un'apocalisse, ma il mood è molto diverso: niente più scene di massa, ma una languida devastazione capillare, che ci coinvolge tutti e parte dall'infinitamente piccolo. Siamo infestati di ragnatele, siamo infangati di cifre. I "computers" sono minuscoli, le mosche sono giganti e "sputano dati, dando il totale sui disoccupati". La fine sarà lunga e languida, come il marcire del frutto sull'albero. Clamori prosegue sul ritmo ipnotico e rallentato di Radio Varsavia, sfruttando molto astutamente la dinamica tra il ritmo in sottofondo e strumenti che compaiano e scompaiono all'improvviso, come lampi di luce o clamori, appunto, nel mondo moribondo. L'arca di Noè, che disco incredibile. 

1995: L'esistenza di Dio (testo di Manlio Sgalambro, #205) 

Ecco no guardate: un po' più sotto, qui vedrete esattamente com'è fatto Dio. Verso la fine, L'ombrello e la macchina da cucire comincia a mostrare una certa stanchezza: Battiato finisce le musiche e comincia a prenderle in prestito (qui dalla colonna sonora di Latcho Drom) ma non è completamente colpa sua. Lui aveva sempre inciso dischi compatti e molto brevi: mezz'ora e poco più. Questo non era ritenuto affatto un difetto, fino alla fine degli anni Ottanta, quando il supporto principale diventa il CD che i discografici decidono di apprezzare dell'80%. All'inizio sembrava una scelta dissennata, ma col senno del poi probabilmente sapevano che i supporti digitali avevano gli anni contati e stavano spremendo la vacca finché grassa. Ma Battiato in tutto questo? Battiato di tutto questo poteva anche non essersene accorto – nei primi '90 dà la sensazione di vivere sostanzialmente in un bel mondo di fatti suoi. Ha un suo prodotto, ha un pubblico che lo segue in qualsiasi svolta improvvisa, e continua a incidere dischi di mezz'ora. L'esigenza di rimpolpare un po' il contenuto per far sì che non sembri un furto all'acquirente si fa strada, se si fa strada, solo nel 1995 appunto con L'ombrello, che poi sarà l'ultimo disco in studio per la EMI. Nei dischi successivi Battiato comincerà a usare gli ultimi minuti dei CD per concedersi esperimenti e divagazioni che a volte diventano la cosa più interessante del prodotto. Nell'Ombrello invece prevale una sensazione di allungamento di brodo – prima Battiato declama su base tzigana una poesia di Sgalambro sulla vanità dei teologi che a rileggerla non è nemmeno così male, ma cantandola Battiato non riesce a segnalarne l'ironia. Restano ancora quattro minuti e FB sceglie di riempirli con un brano del Trattato dell'empietà di Sgalambro – salvo che per farlo risuonare più Filosofo li fa recitare a Helena Janeczek in tedesco, la lingua che più spesso nella produzione battiatesca segnala la Pretesa Culturale. No, sul serio, se uno non è fluente in tedesco perché dovrebbe fermarsi ad ascoltare una giaculatoria incomprensibile? La vera esperienza intellettuale è che in qualsiasi momento puoi decidere che tutto questo è insopportabilmente inutile, premere stop e mandare FB e Sgalambro a quel paese. 

2002: Perduto amore (De Lorenzo, Adamo, #77) 

A questo punto sono a un terzo del primo turno, di Fleurs ne ho già ascoltati una dozzina, me ne restano venti, che faccio? Mi gioco Proust? 

Mi gioco Proust. "Un certo ritornello insopportabile, che ogni orecchio ben nato e ben educato rifiuta all'istante di ascoltare, ha accolto in sé il tesoro di migliaia di anime, conserva il segreto di migliaia di vite, di cui fu la viva l'ispirazione, la consolazione sempre pronta, sempre aperta sul leggio del pianoforte, la grazia sognante e l'ideale. Certi arpeggi, una certa "ripresa" han fatto risuonare nell'anima di più di un innamorato o di un sognatore le armonie del paradiso o la voce stessa dell'amata..." Sì, certo, e non c'è bisogno di sottolineare quanto dev'essere stata importante questa canzone nemmeno così insopportabile di Adamo per Battiato, che appena è riuscito a fare un film autobiografico l'ha chiamato proprio Perdutoamor. È triste perciò constatare come la sua Perduto amore sia uno dei fleurs meno riusciti – quello che più esibisce i limiti del procedimento. Dopo essersi salvato per un disco intero dall'effetto karaoke, all'inizio del secondo Battiato ci casca in pieno: cos'è andato storto? È un problema del materiale di partenza? In effetti Perduto amore era una ballata piuttosto convenzionale, già un po' datata quando uscì (era il 1963, ma come a tutti gli italiani all'estero, al belga Salvatore Adamo il mercato chiedeva di interpretare un determinato stereotipo). Colpisce il fatto che Battiato, che nel primo disco ha saputo spogliare qualsiasi canzone della retorica inutile (arrivando a de-barocchizzare le canzoni di De Andrè), qui si lasci tentare dall'opzione opposta e trasformi un banale arpeggio di chitarra in una partitura per archi, appoggiati su una ritmica contemporanea e piuttosto convenzionale – base di karaoke, appunto.    

2007: Io chi sono? (testo di Manlio Sgalambro, #180) 

E siamo qui, ancora vivi, di nuovo qui, da tempo immemorabile. Qui non si impara niente: sempre gli stessi errori, inevitabilmente gli stessi orrori. Parlando d'altro, a voi piace il Qohelet? L'Ecclesiaste, intendo? A me sì, lo considero un capolavoro della letteratura mondiale, e una cosa che mi piace particolarmente del Qohelet è che è breve: dieci paginette di Bibbia. Dal momento che tutto è vanità, perché sprecarne di più? Chiunque l'abbia scritto, ci ha condensato tutto quello che aveva imparato in una vita di esperienze. Battiato per contro aveva questo problema, che ogni due o tre anni un disco doveva pur farlo e quindi le sue meditazioni sulla vacuità del tutto oltre un certo limite possono risultarci ripetitive, proprio perché alla fine se siamo qui e non impariamo niente è fatale che dopo un po' ci parliamo addosso a vuoto (con o senza Sgalambro). Questa sensazione di ridondanza è probabilmente un errore di prospettiva: magari anche il Qohelet all'inizio era una valigia di dodici papiri (mi piace pensare che sia il sequel del Cantico dei Cantici, la ragazza nigra sed formosa nel frattempo ha allattato dodici figli, tre son morti bambini, altri sei in guerra, due non gli rivolgono la parola, tutto è vanità), magari tra mille anni di Franco Battiato non resisteranno che cinque o sei canzoni e se una fosse Io chi sono, non risulterebbe estremamente profonda? Spero che nel caso resista la versione del Vuoto, ancora un po' elettronica, e non quella più disadorna incisa per la raccolta Le nostre anime (2015).

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21. Com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi con quattro canzoni scritte da lui: un amore che mi prende piano piano per la mano, una cellula fra i motori, un'alba dentro l'imbrunire, un tempo in alto e pieno di allegria]

1968: È l'amore (#244) 

Guarda le sere che passo se non sei con me. Di fronte a È l'amore bisogna avere pazienza e ricordare che se in seguito abbiamo potuto godere di Battiato, del privilegio di ascoltarlo e di invecchiarci un po' assieme, lo dobbiamo anche a questa canzonetta senza visibili pretese, con la fisarmonica nel ritornello addirittura, e notate che era il 1968, il maggio parigino, le pantere nere alle Olimpiadi mostravano il pugno e Battiato cantava È l'amore su una base di fisarmonica, nella vita può capitare anche questo. È l'unico singolo che riuscì a mandare in classifica negli anni Sessanta. È quello che gli permise di tenere insieme un complesso e andare avanti con le serate. Non è neanche una canzone così terribile, e tradisce già uno dei temi ossessivi che FB porterà con sé per tutta la carriera, l'associazione dell'amore alla stagionalità. Forse Battiato aveva già dimostrato di avere qualcosa da dire più interessante di "è l’amore che mi prende piano piano per la mano", però "mentre l’acqua dietro ai vetri già discende lentamente" prometteva bene. 

1971: Una cellula (#116)

Sarò una cellula tra i motori. Battiato ha inciso Fetus mentre era in servizio militare, anzi ricoverato all'ospedale militare perché fisicamente "incompatibile" alla vita in caserma (la sera evadeva saltando un cancello, probabilmente aveva corrotto una guardia o due). La cartolina lo ha sorpreso a metà di una delle sue metamorfosi più delicate, da aspirante cantautore ad artista di avanguardia. Il carattere peculiare di Fetus è proprio in questa natura stratificata: è un disco che vuole assolutamente essere un'opera prima, qualcosa di mai sentito e appena nato, eppure tra i motori smaglianti c'è ancora qualche cellula del vecchio organismo. Una cellula è uno dei brani che più somiglia a una canzone tradizionale: c'è la melodia accattivante, una progressione armonica ben riconoscibile, addirittura il ritornello. Poi, certo, il VCS3 suonato a tutto volume garantisce una carenatura sperimentale: ma dentro a cercare bene c'è ancora il vecchio Francesco Battiato.


1980: Prospettiva Nevski (#13) 

Prospettiva Nevskij non è sempre stata una delle più famose canzoni di Battiato: all'uscita su Patriots passò quasi inosservata, del resto a un primo ascolto poteva sembrare il pezzo più incongruo del disco, una ballata al pianoforte che al tempo poteva ricordare un Venditti o un Cocciante. Le cose cominciano a cambiare quando Alice la interpretò all'inizio di Gioielli rubati (1985), anche perché nel frattempo la percezione di Battiato stava cambiando: non più un provocatore in megafono ma (almeno a partire da Fisiognomica) un cantautore con un passato da rivendicare. Pochi anni dopo Tommaso Labranca ci regala in Cialtron Hescon quella pagina spietata in cui riconosce la grandezza di Battiato nel suo essere "al tempo stesso cialtrone e non-cialtrone", e come esempio di cialtronismo provinciale analizza con crudeltà proprio il testo di Prospettiva Nevski, definito "uno stornello popolaresco nascosto sotto uno strato di guano culturale". Labranca esagera, finge di non vedere la struttura frammentaria del testo creando una scenetta esilarante in cui tutto quello che Battiato racconta nella canzone succede nello stesso momento. Ma ha il merito di far notare che la Russia di Prospettiva è un mascheramento: "credevamo di essere in Russia e invece siamo nella piazza principale di Ramacca (CT, 9324 ab., 270 m slm)". Dà però per scontato che il mascheramento sia in cattiva fede, ovvero che Battiato voglia davvero spacciarci una Russia contraffatta: forse perché anche lui ormai è abituato ad ascoltarla estrapolata dal contesto di Patriots, un disco in cui i ricordi d'infanzia affiorano in ogni canzone e sono sempre ritagliati, decontestualizzati, mescolati ad altri luoghi comuni letterari o giornalistici. È un gioco che in Prospettiva si continua a giocare, ma forse su un livello più raffinato: siamo in provincia di Catania ma siamo anche in una steppa letteraria: Battiato racconta la sua infanzia ma la arreda con gli oggetti di scena dei romanzi russi che leggeva in quegli anni. Continua a ricordare quei benedetti "saggi ginnici", ma trasfigura l'oggetto del suo desiderio in Vaclav Fomič Nižinskij. Si meraviglia di esser cresciuto e di avere conosciuto compositori importanti come Stockhausen, ma lo trasfigura in Stravinskij. Oppure no, oppure sta raccontando davvero la vita di un personaggio ma non ci ha mai voluto dire chi (Pëtr Dem'janovič Uspenskij? Era russo e a San Pietroburgo fu allievo di Gurdjieff, Henri Thomasson, il maestro guedjieffiano di Battiato, tradusse la sua biografia in italiano). Sia come sia, Labranca non aveva tutti i torti: Battiato a volte è un mix inestricabile di Kitsch e non Kitsch, tale da farci dubitare che il Kitsch si possa del tutto escludere dai manufatti artistici. Prendi proprio Prospettiva Nevski: contiene uno dei più bei versi di Battiato ("com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire") e uno dei più agghiaccianti versi di Battiato ("un giorno sulla prospettiva Nevski per caso vi incontrai Igor Stravinskij": una rima ridicola, un errore di sintassi, un namedropping svergognato). È una canzone molto bella e ci si vergogna ad ascoltarla. Lo stesso Battiato aveva il sospetto di aver fatto una "cazzata": "Scrissi quella canzone tutta di seguito e poi la feci sentire a Giusto Pio: “Ma è bellissima”disse. Io ero scettico, cercavo di convincerlo: “Sicuro? A me sembra una cazzata”. Fui lui a spingermi a inciderla: fosse stato per me sarebbe finita nella spazzatura". 

1993: Sui giardini della preesistenza (#141) 

MALCOM PAGANI: Ha nostalgia di qualcosa?

FRANCO BATTIATO: La nostalgia non è un valore. Se la provassi non avrei scritto una canzone come “Sui giardini della preesistenza”.

Qualcosa non va. Che la nostalgia non sia un valore è un punto di vista coraggioso che mi propongo di fare mio. Ma che Battiato non ne provasse sembra difficile da sostenere. L'autore di Perdutoamor e Stranizza d'amuri e Sequenze e frequenze poteva davvero misconoscere l'importanza che aveva sempre avuto la nostalgia nei suoi procedimenti creativi? E perché invocare contro la nostalgia proprio "una canzone come Sui giardini della preesistenza", che evoca un sentimento di rimpianto per un'età dell'oro a monte della creazione? Chiaro, se sei convinto di essere un'anima immortale, in circolazione da prima dell'universo, il rimpianto per un passato di qualche anno fa deve sembrarti un'emozione piuttosto futile. Ma è quello che ha ispirato a Battiato le sua canzoni migliori e Nei giardini della preesistenza – mi dispiace – non è tra queste. La musica oscilla tra Lied e pop ma non riesce a evadere da una sensazione di già sentito. Forse ciò che rende Caffè de la Paix un disco meno interessante di altri è proprio il tentativo di arrivare a un sublime depurato di ogni nostalgia – ma appunto, se la togli cosa resta? Atlantide, Cartagine, il Terzo Occhio, l'Inviolato, tutta una mitologia personale che è ben più difficile da condividere. 

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20. Questa parvenza di vita ha reso antiquato il suicidio

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[Questa è la Gara delle Canzoni di Battiato, oggi con una tecnica speciale per dissuadere i suicidi, un pezzo sulle campane senza campane, un pezzo di Mogol, un pezzo della Premiata Forneria Marconi (è sempre lo stesso pezzo), un Addio per Giuni Russo]. Si vota qui   

1978: Campane (per soprano, violini e pianoforte) (#221) 


Su Spotify Juke-box non è nemmeno tra gli album, è nascosto nella sezione "singoli ed EP" benché non sia né l'uno né l'altro. È un disco difficile da ascoltare: la cronologia ci incoraggia a considerarlo un canto d'addio alla fase più avanguardista – salvo che, appunto, forse è solo un "episodio", una colonna sonora come ne avrebbe scritte anche in seguito. Certo se si prende come punto di riferimento L'era del cinghiale bianco, risulta quasi inascoltabile. Mentre rispetto all'Egitto prima delle sabbie rappresenta una compromissione, un ritorno a forme musicali che nel 1977-78 sembravano abolite. E c'è questa tensione, avvertibile in ogni pezzo, tra musicalità e dissonanza. Qui per esempio c'è un brano che si intitola Campane, dove non suona nessuna campana ma chi pesta il pianoforte sembra volerle mimare, suonando con insistenza un intervallo fastidioso che non sembra mai esattamente a tempo. Qualche violino in sottofondo sembra decisamente più melodioso e a un certo punto entra una vera orchestra e suona un vero accordo, convenzionale, piacevole: è come se la musica richiamasse a sé Battiato, dai, vieni, smettila di farmi il broncio – ma Battiato è testardo e continua a maltrattare il pianoforte, il ritorno all'ordine è rimandato. Ormai manca poco, comunque.

1995: Breve invito a rinviare il suicidio (testo di Sgalambro, #164)

"Va bene, hai ragione se ti vuoi ammazzare. Vivere è un'offesa che desta indignazione". Di solito io mi immagino un signore su un cornicione. Sta lì a fissare il vuoto, quand'ecco che da una finestra a pochi metri vediamo slanciarsi con un megafono... Manlio Sgalambro. Di tutte le persone che potevano mandare a dissuadere un suicida, per arcani motivi noti solo a Battiato, è stato scelto il filosofo Manlio Sgalambro. Saprà trovare le parole giuste? Miracolosamente stavolta sì: non c'è neanche un parolone, né un Grande Nome citato ad minchiam. Al suo posto troviamo un approccio molto pragmatico al problema: non hai tutti i torti, questa vita è inautentica, ma facciamo così: moriamo insieme ma di morte lenta. E per quanto lo svolgimento ceda un po' al gusto barocco per il paradosso (questa parvenza di vita non merita il suicidio, solo una vita migliore), non mi stupirei che a Sgalambro fosse capitato di applicarla con successo. Sto cominciando a pensare che L'ombrello e la macchina da cucire sia uno dei dischi più pazzi e artigianali di Battiato, fatto veramente in casa con tante idee commercialmente improponibili e due o tre tastiere suonate alla garibaldina.   

2002: Impressioni di settembre (Mussida, Mogol, Pagani, #36)

Quanto verde, tutto intorno e anche più in là. Perché il secondo volume di Fleurs (intitolato travellingwillburyanamente Fleurs 3) non è buono come il primo? Alcune ipotesi.

1. In realtà è buono come il primo, è solo che l'effetto sorpresa non c'è più, è l'ennesimo album di cover di un artista che abbiamo già capito si diverte a farle (e forse ha capito che è meglio farle quasi tutte in italiano).
2. Le trilogie, o le cominci con in testa un prospetto già chiaro, oppure va a finire che spari tutte le cartucce migliori nel primo episodio. C'è ottima roba in Fleurs 3, ma Adamo non è Endrigo e Leo Ferré – mi spiace per i compagni della mozione Leo Ferré – non è Jacques Brel.
3. Tutte le persone che hanno conosciuto Battiato un po' più direttamente stanno ripetendo una cosa: era un simpaticone, gli piaceva divertirsi, per carità non consideratelo un guru o uno snob. Prendiamo nota, ma può darsi che in certi dischi accada quel che si dice accada nei film: se ci si diverte troppo sul set, gli spettatori si divertiranno meno. Il primo Fleurs rendeva ogni canzone un oggetto prezioso con un'intensità quasi religiosa: era un'operazione che sfidava il Kitsch e lo vinceva. Qui invece prevale un atteggiamento più scanzonato, forse mutuato dal set del Fun Club di Sgalambro: Battiato canta per divertirsi e sta bene, ma non è detto che ci divertiremo noi ad ascoltarlo. Anche nel pezzo forse migliore, Impressioni di settembre, prevale un approccio dissacrante, Battiato decide che il riff più storico del prog italiano è un po' troppo lungo e lo taglia come gli va, gioca d'anticipo, lo stravolge, nel primo volume non l'avrebbe fatto..
4. In realtà era scarso anche il primo, è solo che l'effetto sorpresa non c'è più.


2008: L'addio (Battiato, Avalli, Di Martino, #93) 

Stavamo bene. Per orgoglio non dovevi lasciarmi andare via, lasciarmi andare via. Ammettiamo pure che il terzo volume di Fleurs sconfini nel pianobarismo: non è forse proprio questo a rendere sublime questa versione dell'Addio? Vecchia canzone scritta con Mino Di Martino (già nei Giganti) per Giuni Russo ai tempi in cui sapeva andare più in alto dei soprani, là dove la voce umana diventa indistinguibile dal trillo dei gabbiani. È passato molto tempo, quei gabbiani non trilleranno mai più, un anziano pianobarista approfitta del momento di stanca di una serata per ritornare sulla vecchia canzone d'addio – la canterebbe sottovoce, se si potesse cantare sottovoce un pezzo del genere. Chi la conosce piangerà, gli altri sbadigliando si avvieranno all'uscita.

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19. Non servono più eccitanti o ideologie

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[Questa è la Gara delle canzoni di Franco Battiato, oggi sospesa tra una Milano invivibile e una Sicilia assolata, tra Maria Callas ed Emma Bovary]

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1983: Un'altra vita (#29)

Sulle strade al mattino il troppo traffico mi sfianca; mi innervosiscono i semafori e gli stop. E la sera ritorno con malesseri speciali. Non servono tranquillanti o terapie: ci vuole un'altra vita. Quando l'ascoltammo per la prima volta, verso la fine di quel 1983, probabilmente la scambiammo per una delle tante desolate contemplazioni del male di vivere contemporaneo, un sottogenere a cui il Battiato pop ci aveva abituato sin dall'Era del cinghiale bianco. Non sapevamo che stavolta Battiato faceva sul serio (o faceva più sul serio del solito): che a sfiancarlo non era la contemporaneità in generale ma Milano in particolare, e che stava per andarsene sul serio: "un'altra vita" lo aspettava in Sicilia. Ci sfuggiva un dettaglio che si è chiarito col tempo: Orizzonti perduti non era il solito disco postmoderno e ironico. Era una cosa molto più intima e cantautoriale, con versi di una discorsività commovente (Certe volte anche con te e sai che ti voglio bene mi arrabbio inutilmente senza una vera ragione: sta parlando a sua madre?) Senonché di solito il cantautore ce lo immaginiamo con una chitarra in braccio o al pianoforte; Battiato invece si appoggia ai synth ma non sono più i complicati synth a valvole degli anni Settanta: sono le tastiere Roland del 1983 e non sono così dissimili da quelle che diversi ascoltatori di Battiato hanno in casa. Si verifica così per la prima volta nella storia della musica italiana il paradosso ben noto ai frequentatori delle scene indipendenti che potremmo definire "della musica da cameretta": tanto più personale quanto è prodotta con strumenti all'apparenza asettici – qui però manovrati con una maestria che lascia ammirati a cinquant'anni di distanza. Da notare che mentre Battiato si stancò quasi subito dell'arrangiamento digitale della Stagione dell'amore, quando riprese Un'altra vita in un un live molto tardo (Inneres Auge, 2009) non trovò praticamente nulla da cambiare. Nel frattempo anche "Dallas e i Ricchi piangono" erano diventati frammenti di modernariato come le mille bolle blu di Cuccurucucù, ma al tempo un inserto così prosaico potava infastidire come le unghie sulla lavagna. Oggi lo trovo un verso bellissimo: "sui divani abbandonati a telecomandi in mano storie di sottofondo: Dallas e I Ricchi Piangono".  


1989: Giubbe rosse (#100) 

Ritornare a sud per seguire il mio destino. È facile prendersela con Manlio Sgalambro, in effetti sembra che l'abbiano messo lì apposta, un catalizzatore di ostilità, un homunculus cresciuto nell'orto mistico di Calasso. Yoko Ono almeno è una donna, milita in due o tre minoranze, Sgalambro un possidente siciliano con l'hobby degli aforismi: si aggira per la discografia battiatesca col cartello Odiatemi e ci conviene farlo, perché altrimenti ci toccherebbe incolpare cose più scomode, ad esempio la Sicilia. Battiato non è più stato lo stesso, da quando è tornato. Battiato ha vissuto a Milano per 25 anni e sono stati 25 anni di lancinanti nostalgie ("ed era come un mal d'Africa"), 25 anni passati a evocare i demoni meridiani – chi meglio di lui ha cantato la transumanza turistica come un'esperienza di annullamento dell'io, chi ci ha fatto sentire di più il sale, lo iodio, mare mare mare voglio annegare, tutti quei dischi smaglianti di Giuni Russo che era più stagionale di Takeshi e Ketra, appena arrivava alla radio tu sentivi l'odore della sabbia e del coppertone. Tutta questa mediterraneità a Battiato saliva spontanea, finché viveva nelle nebbie confortevoli del nord. Poi un giorno ha deciso di tornare al vulcano, e magari è stata una coincidenza: ma poco dopo ha finito le parole. La partenza per Milano, Battiato l'aveva descritta con toni epici in Da oriente a occidente, un esperimento con strumenti medievali dove il suo synth suonava più ancestrale di tutti. Quindici anni dopo, Giubbe rosse (dal live omonimo) è una pagina di diario più eloquente del solito. Le immagini della Sicilia non sono più illuminazioni improvvise, non hanno più i contorni sgranati e i colori smarmellati dei ricordi, sono i sereni autoscatti appena sviluppati da un quarantenne che ci spiega chi è e cosa sta diventando. È ancora una buona canzone, eppure c'è un incanto particolare che è finito, e non tornerà più.

1998: Casta diva (#157)


Divinità dalla suprema voce. Supponiamo che l'arte, la musica in particolare, serva a suscitare emozioni in chi l'ascolta: questo si può ottenere in tanti modi. Una strategia primitiva, naive, può consistere nel descrivere l'emozione che l'artista prova e invitare l'ascoltatore a condividerla: Alcune delle migliori canzoni di Battiato fanno questo (ad es. Stranizza d'ammuri). Un artista più maturo cercherà di evocare l'emozione nell'ascoltatore senza definirla in partenza, allestendo tutti gli stimoli che messi assieme dovrebbero funzionare. Pensate per esempio alle Aquile: Fleur Jaeggy non scrive "commuoviti lettore perché a me è successo guardando camminare un'aquila", ovvero vuole arrivare esattamente lì, ma non esplicita nessuna emozione, sarebbe volgare: dissemina gli indizi, il vento che gonfia le vesti, le cavigliere ortopediche, e se il lettore è un po' attento e ha voglia di mettere insieme i pezzi ce la fa da solo, e alla fine parte dell'emozione è la soddisfazione di chi ha risolto un puzzle.

Il Kitsch è una terza opzione, che procede da un forte senso di insicurezza. L'autore Kitsch non sa come funziona bene questa storia delle emozioni: forse ne prova davanti a determinati manufatti artistici, ma non è sicuro di capire il perché, né si azzarda a smontare i manufatti per cercare di capirne il funzionamento: sa bene di non esserne capace. L'unica cosa di cui è sicuro è, poniamo, che la Callas quando canta lo commuove. Qualcun altro si domanderebbe: cosa rende la Callas più commovente? Potremmo confrontarla con altre soprano e capire. È sempre commovente o soltanto quando canta determinate arie? Il Kitsch-artista queste domande non se le fa perché non ha la fiducia in sé stesso necessaria per trovare risposte. Ha paura che a smontare la Callas poi smetterà di emozionarsi, quindi l'unica opzione possibile è citare la Callas.

Alla fine il Kitsch è la versione postmoderna del naif. Il naif condivide il suo struggimento d'amore dicendo: mi struggo per amore, emozionatevi con me. Il Kitsch-artista dice: la Callas mi spezza il cuore, emozionatevi con me. Il naif tiene un diario in cui esprime tutti i suoi sentimenti; il Kitsch-artista ha un catalogo, un Parnaso, un juke box coi Grandi Protagonisti del Novecento, il Kitsch-artista se non lo troviamo dopo un po' da Fabio Fazio è perché è diventato lui stesso Fabio Fazio. Che poi c'è qualcosa di male nel dichiarare i propri eroi, i propri maestri? Magari qualcuno che si sintonizza in quel momento prende nota, magari uno su cento va davvero ad ascoltare la Callas e alla fine all'emozione primaria ci può pure arrivare. Poi certo, possiamo criticare il Kitsch-artista, deprecare il suo lessico da marchettaro di eventi culturali, il suo debole per il sublime, se tiri fuori la Grecia ovviamente è "la Terra degli Dei", mica ce li avevano degli Dei gli altri popoli antichi, solo i Greci. Però occhio che siamo tutti Kitsch un paio di volte al giorno, se ci facciamo caso.

1998: Emma (testo di Manlio Sgalambro, #228) 



À la fin de Septembre, chargé d’humidité, je m’abandonne à mes pensées. Emma è un raro esempio di "lato B" battiatesco, uscito già in un periodo (1998) in cui l'espressione "lato B" non aveva più senso, mentre oggi i giovani sanno soltanto che è un modo di dire "culo", anche se non saprebbero dire il perché. La canzone esce sul CD singolo Il ballo del potere, col sottotitolo "demo" e in effetti di questo si tratta: del provino di una canzone che in quello stesso anno viene incisa da Patty Pravo. Abbiamo così l'occasione di capire forse come si presentano i provini delle canzoni che Battiato proponeva ai suoi interpreti, e di apprezzare la differenza col risultato finale, che è davvero notevole. FB si cimenta con un testo bilingue, laddove la Pravo preferirà farsi tradurre in italiano i versi in francese (senza che nella traduzione si perda nulla di particolarmente significativo: in certi casi il bilinguismo è solo un vezzo). FB si affida soprattutto alle tastiere, un po' perché è nella fase Gommalacca, un po' perché è il modo più efficace di comunicare le sue idee musicali: le suona con uno stile inconfondibile ma anche la versione di Pravo, molto normalizzata, trattiene in qualche modo lo stile Battiato. Il demo di Emma è interessante e ci fa rimpiangere di non poter ascoltarne altri: sarà esistito un demo di Per Elisa, di Un'estate al mare

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18. Avrete visto anche voi camminare le aquile

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[Questa è la Gara di canzoni di Battiato, anche se oggi per la prima volta si incontrano quattro brani di cui Battiato non ha scritto il testo – o quasi]

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1980: Le aquile (#68)


Il vento gonfiava le mie vesti: di veramente stabile? Non ho mai capito cosa significhi e se significhi qualcosa (però suona bene). Anche in questi giorni ho provato a capire se "stabile" può essere una marca di cavigliere ortopediche e non ho trovato risultati; in compenso ho scoperto finalmente, e mi vergogno del ritardo, che il testo delle Aquile *non* è una poesia di Fleur Jaeggy. Benché il testo le sia ufficialmente attribuito, il brano da cui sarebbe estrapolato è una prosa e somiglia solo vagamente al testo delle Aquile. Lo trovate per esempio qui, è un brano dalle Statue d'acqua. La Jaeggy poi avrebbe concesso a Battiato altri testi (Atlantide, Shackleton), ma a questo punto mi viene il dubbio che anche in questi casi si sia trattato più di un'ispirazione che di un testo pronto a essere messo in musica come li forniva invece Sgalambro (e anche nel suo caso, Battiato qualcosa modificava). Questo attenua la sensazione di snobismo che avevo sempre avvertito nel verso finale: no Battiato, io le aquile camminare non le ho mai viste, dovrei?

Anche dopo questa revisione, la lirica delle Aquile rimane sensibilmente diversa da quelle del resto di Patriots, che sembrano tutte più o meno prodotte da un generatore automatico di testi ironici postmoderni: niente cut and paste qui, niente namedropping: quella che Battiato vuole descrivere (ispirandosi alla Jaeggy) è un'esperienza epifanica, una rivelazione contenuta in un episodio del suo passato. È una corrente sotterranea della sua ispirazione che avevamo visto affiorare per la prima volta con Aries, e che a partire dall'Era del cinghiale bianco può scorrere indisturbata e regalarci alcune delle migliori canzoni del periodo, così come Le aquile è una delle migliori canzoni di Patriots. Il segreto del fascino non è tanto nell'epifania in sé, quanto nello scontro tra il sublime della rivelazione e i dettagli prosaici che la circondano, e che Battiato annota con un gusto crepuscolare (se non già montaliano): le cavigliere ortopediche, le ore in palestra. Musicalmente, è la cavalcata a cui il violino di Giusto Pio si allenava dai tempi di Adieu


1991: Oh Sweet Were the Hours (#196) 

E pur se furtivo, il sole d'autunno / è assai più prezioso del sole di giugno. L'ultima traccia di Come un cammello in una grondaia è un Lied di Beethoven, ma alla fine Lied vuol dire "canzone" e in particolare Oh Sweet Were the Hours è tratta dall'Opera 108, una raccolta di venticinque canzoni scozzesi. Perché oltre alle sinfonie e alle sonate che tutti sappiamo, Beethoven si era anche posto il problema di riscoprire e tramandare le tradizioni musicali popolari, da bravo romantico: i fratelli Grimm raccoglievano le fiabe, lui raccoglieva le canzoni. Duecento scarsi anni dopo, invitato a un festival di musica classica a Fermo, Battiato riprende il mano il Lied e con il coraggio spudorato del neofita ne scrive una nuova orchestrazione (quella di Beethoven era troppo intima, una cosa per pianoforte violino e violoncello, lui voleva più archi). Cosa gli stava dicendo il cervello? Se voleva dimostrare al pubblico di essere un musicista colto, una canzone scozzese su quant'è buono il vino non era la scelta migliore. Ha più senso il contrario: Battiato vuole giustificare a sé stesso il fatto che Gilgamesh non gli sta venendo un granché e alla fine tra la musica colta e le canzoni sta scegliendo queste ultime. Coi Lied del Cammello è come se Battiato spiegasse al suo Superego, lo vedi? Anche Wagner scriveva canzoni, anche Brahms, Beethoven addirittura le scopiazzava agli scozzesi avvinazzati: se le facevano loro, anche noi due possiamo. Da qui in poi i riferimenti alla musica romantica non serviranno più per spiazzare l'ascoltatore (come ai tempi di Per Elisa), ma per garantirgli di trovarsi di fronte a un'esperienza culturale con tutti i crismi. C'è una luce in fondo alla grondaia, ma purtroppo è una lampada Biedermeier. Franco Battiato sta per entrare nella sua fase Kitsch.

1995: Gesualdo da Venosa (#189)

Io, contemporaneo della fine del mondo non vedo il bagliore, né il buio che segue, né lo schianto, né il piagnisteo, ma la verità da miliardi di anni farsi lampo. Sotto gli stucchi Sgalambro non è poi così enigmatico, ovvero se qualcuno non si è fatto un po' di ossa con la vera poesia del '900 può anche spaventarsi ma davvero: qui dopo questa bella introduzione c'è un vero e proprio tropo della letteratura pop postmoderna, la "lista di Isaac": un elenco di manufatti artistici che rendono la vita degna di essere vissuta. Il rischio – se non si possiede la leggerezza del Woody Allen di Manhattan – è quello di apparire dei pretenziosi collezionisti di esperienze estetiche e Sgalambro ci casca in pieno: si parte col Concerto n, 4 in Do minore di Baldassarre Galuppi, si prosegue con Ornithology di Charlie Parker, si finisce con i madrigali di Gesualdo di Venosa, che certo ha ucciso la moglie, ma "cosa / importa?  Scocca la sua nota, dolce come rosa". Questa, se a qualcuno interessa, è l'opinione di Sgalambro su come si debba fruire delle opere d'arte dei femminicidi, un argomento che ci appassiona molto più oggi che nel 1995. Nell'Ombrello e la macchina da cucire Battiato sembra fin troppo contento di scaricare su Sgalambro l'incombenza delle liriche: lui è interessato ad altro, nel suo studio di casa si è rimesso a fare elettronica e (per fortuna) non ha intenzione di trasformare il namedropping di Sgalambro in una vera insalata musicale: niente Galuppi, niente Parker, niente Venosa, la canzone segue il pattern tipico dell'Ombrello, prima entra il solista, poi la sezione ritmica e il coro, e a volte, come in questo caso, il soprano Hiroko Saito aggiunge una coloritura estremo-orientale.


1999: Aria di neve (testo e musica di Sergio Endrigo, #61) 


Noi siamo qui, tra le cose di tutti i giorni, i giorni e i giorni grigi. Aria di neve è una delle canzoni più tristi mai scritte. Il testo descrive il disamoramento con una precisione agghiacciante e delle finezze inconsapevoli: la voce cantante si ammanta di oggettività, rinfaccia alla donna non tanto la sua freddezza ("Tu non ridi, non piangi, non parli più"), ma l'incapacità di prenderne atto ("E non sai dirmi perché"), finché nella seconda strofa si tradisce nel più patetico e maschile dei modi: lui avrebbe già scritto "più di mille canzoni nuove" per gli occhi di lei, peccato che lei non voglia cantarle. Impossibile non solidarizzare con questa poveretta che dovrebbe passare il tempo a cantare canzoni inedite sui suoi occhi. Un rapporto a senso unico, descritto con il lessico della canzone anni '50. Battiato si trova gran parte del lavoro già fatto: l'arrangiamento originale aveva già un andamento liederistico. Per svecchiare il brano è sufficiente attenuare l'accento melodrammatico del cantato. Il risultato fa venire i brividi e non sono di gioia. È pur sempre una canzone su quanto siano ridondanti gli inventori di canzoni.  

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17. Da quando sei andata via non esisto più

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[Questa è La Gara delle canzoni di Battiato, con una delle sfide più combattute fin qui: non solo tra Sesso e Castità, ma tra Sesso, Castità e Cuccurucucù. Chi vincerà?]

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1978: San Marco (#253) 


San Marco è una delle prime collaborazioni di Battiato con Giusto Pio, il lato B di quel pazzo singolo che i due fecero uscire nel 1978 per la Elektra (che in Italia era un'etichetta della Ricordi e forse aveva bisogno di rimpolpare il catalogo), attribuendolo a un fantomatico violinista aspirante popstar che nella copertina aveva le fattezze del figlio di Giusto Pio. Al tempo Battiato era anche l'allievo di Pio, e in San Marco si ha veramente l'impressione di assistere a una lezione: c'è un violinista competente, un pianista volonteroso ma incerto, e qualcuno tiene il tempo battendo il piede. Il testo è declamato da FB al megafono – lo stratagemma che tornerà in Bandiera bianca e che qui ha anche la funzione di dissimularne l'identità, perché Battiato in quel periodo è un brand di musica d'avanguardia, mentre questa roba è un'altra cosa, anche se a distanza è abbastanza difficile capire cosa sia. 
Come esperimento commerciale può lasciare perplessi ma bisogna sempre ricordare che era il 1978: i dischi si vendevano come il pane, più strani erano e più creavano nuove nicchie di mercato. Non v'immaginate la gente che è riuscita a stravendere dischi nel 1978. Se poi vi state domandando, ok, ma che nicchia di mercato si sarebbe dovuta aprire per un progetto musicale basato su un violino vagamente vivaldiano, una base ritmica più contemporanea e un'immagine associata alla Venezia della dolce decadenza settecentesca? ecco, magari non ci buttereste dieci euro in un progetto del genere e bisogna riconoscere che nemmeno Battiato e Pio ci stavano credendo troppo (tant'è che mandarono il figlio di Pio a suonare in tv in playback perché, per sua ammissione, non avrebbe chiesto un soldo), e però stiamo parlando del periodo in cui uno dei pochi artisti italiani a riempire i palazzetti europei era proprio un violinista, Angelo Branduardi; che pochi mesi dopo sarebbe uscito per esempio un pregevole album delle Orme ispirato proprio al Settecento veneziano, Florian, e prodotto da quel Gian Piero Reverberi che negli anni '60 aveva orchestrato i pezzi più barocchi di De André (quelli che molto più tardi Battiato avrebbe ripreso in Fleurs): il quale poi nel 1979, su insistenza del suo discografico che gli chiedeva di riempire una specifica nicchia di mercato, ("qualcosa che sia di facile ascolto ma di classe, dal sapore internazionale ma con un chiaro tocco italiano") cominciò a comporre musica finto-vivaldiana su ritmiche contemporanee, e a venderla con l'etichetta Rondò veneziano. Il primo singolo si chiamava proprio Rondò veneziano e aveva una linea di basso insistita molto simile ad Adieu, il lato A di San Marco; Berlusconi la scelse come sigla d'apertura delle trasmissioni di Canale 5. È senz'altro una coincidenza, ma il lato B di Rondò veneziano si chiamava San Marco, proprio come il lato B di Adieu. I Rondò esistono tuttora, anche se in Italia non vengono più a fare concerti (ma in Mitteleuropa sono ancora molto apprezzati) e hanno venduto qualcosa come trenta milioni di dischi: insomma a cercarla bene la nicchia c'era. Battiato e Pio la sondano quasi per caso, e poi vanno altrove (ma con l'Era del cinghiale bianco torneranno pericolosamente nei dintorni). 


1981: Cuccurucucù (#4)


Il mondo è grigio, il mondo è blu. Cuccurucucù è una delle canzoni più importanti della mia vita, ma questo non è così importante per Cuccurucucù – in effetti ciò che ha reso così centrale Cuccurucucù è la progressiva scoperta che non era stata scritta per me, che non mi riguardava, che era un patchwork di riferimenti che io non conoscevo. Troppo tardi: Cuccurucucù era scritta per gente che conosceva Le mille bolle blu di Mina e Il mare nel cassetto di Milva, canzoni che io avrei ascoltato solo molti anni più tardi associandole comunque indissolubilmente a Cuccurucucù e persino l'ira funesta del pelide Achille, e i profughi afgani in generale, per Battiato erano frammenti di cronaca e memoria scolastica da graffettare assieme in un collage postmoderno, mentre per me sono diventati il paesaggio semantico dove sono cresciuto, per me è Omero che cita Battiato, così come Paul McCartney e Bob Dylan, tutti saccheggiatori del Battiato primordiale. 
Mentre scriveva Cuccurucucù FB non aveva certo in mente me, ascoltatore di nove anni. Stava portando alle estreme conseguenze una poetica del frammento che era cominciata con i frastuoni di Clic e a partire da Patriots si era insinuata nelle canzoni pop solo a livello testuale. Continuando a comporre collage di versi di canzoni, poesie scolastiche, titoli di giornale, Battiato scopre, senza volerlo, il segreto per ipnotizzare i boomer. Cuccurucucù, è difficile capirlo oggi, è una pietra miliare: il 1981 è l'anno in cui i nati negli anni Quaranta cominciano a guardarsi indietro. Quel che vedono è perlopiù un album di foto slabbrate e oggetti desueti (le penne stilografiche, il rasoio elettrico), vecchie canzoni e una nostalgia assurda, che nessun medium ha ancora istituzionalizzato. Cuccurucucù arriva prima di Techetecheté, prima delle musicassette con Trenta Successi degli Anni Sessanta, prima dei gruppi di FB Noi Che Portavamo I Calzoncini Corti, Che Ne Sanno I Duemila e così via, Cuccurucucù è il preciso momento in cui gli anni Sessanta si impietriscono in un monumento in bianco e nero, ed è anche una canzone struggente anni Ottanta con un gioco di corde basse che riesce ancora ad agitarmi il sistema nervoso finché non entrano i Madrigalisti e sul si minore ho voglia di piangere, ma cosa volete saperne voi Duemila. 

2004: Tra sesso e castità (#125) 

Scorrono gli anni, nascosti dal fatto che c'è sempre molto da fare. Questo è un colpo basso, vero? Tra sesso e castità è uno dei brani più forti di Dieci stratagemmi, il disco probabilmente più interessante del tardo Battiato. Ha un testo che se non dice davvero niente di nuovo – il conflitto tra il desiderio e lo spirito, lo struggimento per un perduto amore e la necessità di astrarsi – lo dice proprio bene, con quell'ardimento lessicale che sulle labbra di chiunque altro suonerebbe ridicolo e invece sulle sue è necessario ("chissà perché avrò abdicato") e poi ha quel rivestimento rock che piace a noi giovani (del futuro). Quale bizzarria del destino, quale buco nell'algoritmo manda a sbattere un brano del genere contro un pezzo inaffondabile come Cuccurucucù? Allora, ecco, vi ricordo che l'algoritmo si basa sul ranking, e che quest'ultimo, in mancanza di altri dati, è basato esclusivamente sul numero di ascolti di Spotify. Capita dunque che mentre Cuccurucucù risulti la quarta canzone di Battiato più ascoltata dagli spotiffari (e non sorprende), Tra sesso e castità, che ai tempi dell'uscita ebbe un discreto airplay, si ritrovi alla... centoventicinquesima posizione. Sì, è abbastanza strano. Ingiusto, anche. Probabilmente Tra sesso si è ritrovata esclusa dalla heavy rotation che Spotify programma quando l'utente medio chiede brani a caso di Battiato. (Che c'entri la parola "sesso"? Gli algoritmi a volte sono bacchettoni). Ma in linea di massima il dato conferma una sensazione, ovvero che il tardo Battiato, per quanto celebrato dai media tradizionali e trattato con una certa deferenza persino dalle radio commerciali, alla fine fosse poco ascoltato. Non poco apprezzato: quando usciva con un disco nuovo eravamo tutti contenti e lo trovavamo sempre generalmente in forma. In particolare ammiravamo il coraggio con cui continuava a circondarsi di giovani (qui i padovani FSC) e a giocare con lo stereotipo che si era ritrovato addosso. Era ormai un rito applaudire fino a spellarsi le mani. E rimettersi quasi subito ad ascoltare la Voce del padrone.


2012: Il serpente (#132) 

Il denaro striscia come il serpente nelle città d'occidente. Così si celebra: ma da qualche parte un uomo nuovo sta nascendo. Apriti sesamo è un disco testamentario e soprattutto verso la fine si avverte quanto sia faticoso per FB doverci lasciare almeno una nota di speranza. Il serpente è uno dei brani più intimi dell'album – uno di quelli che FB potrebbe essersi composto e arrangiato in casa. Con voce tremante – e toccante – Battiato racconta una visione che purtroppo, come succede ai predicatori new age, assume colori e forme un po' naif ("Un raggio di luce attraversò un cielo nero e minaccioso andando a illuminare un albero di ciliegio in fiore").  

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16. E tu passavi appena le sottili dita sul prepuzio

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[Benvenuti alla Gara delle canzoni di Battiato, oggi col Battiato prog più bombastico, col Battiato avanguardista più minimale, col Battiato erotico più spinto, col Battiato interprete più ridondante].

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1973: Areknames  (#41)

Pianeta Terra: le nuove metamorfosi, frontiere della mente. Ami, se mancherà (il testo di Areknames, cantato al contrario, o perlomeno la parte che qualcuno è riuscito a decifrare). Areknames è il riff più bombastico del Battiato '70, il brano che che lo conduce a un bivio: ora che ha domato quella belva che è il VCS3, ora che è in grado di tirarne fuori riff orecchiabili e maestosi, cosa deve fare: diventare la star del prog italiano, la variante locale dei Pink Floyd, o continuare a spiazzare il pubblico sperimentando altre cose? Battiato prenderà la seconda strada senza esitazioni, e Pollution rimane paradossalmente sia il suo disco '70 più accessibile, sia il più datato: Areknames è veramente un brano che doveva avere un effetto potente ai concerti del periodo, ma che oggi soffre molto più di altri l'obsolescenza degli strumenti elettronici. A meno di non far parte di quel tipo di ascoltatore che, scoprendo Pollution almeno 15 anni più tardi, non lo apprezzava proprio a causa di questa obsolescenza, che conferiva ad Areknames, ristampato con tanto fruscio su una musicassetta Ricordi, il fascino dei reperti archeologici (per molto tempo devo aver pensato che fosse il nome di un faraone, e che Battiato stesse cantando in geroglifico o in caldeo).


1977:   (#216)

 è il primo lato di un disco che secondo alcuni si chiama proprio , e secondo altri Battiato, ed è forse il suo disco più... stavo per scrivere difficile, ma è poi così difficile capire un pezzo come ? Un pianista (Antonio Ballista) suona un accordo a intervalli regolari: lo suona così forte che si può dire stia percuotendo il pianoforte (che è anche questo: uno strumento a percussione). Lo suona in modo così metodico e regolare che ben presto quello che diventa più interessante non è il suono della percussione primaria, ma quello del rilascio, ovvero la vibrazione che rimane sui martelletti nel momento in cui Ballista stacca la mano dai tasti. A volte (di rado) cambia il tempo, a volte (di rado) cambia l'accordo. Battiato nelle note di copertina si spiega così: "Apparentemente povero. Quasi completamente formato da un accordo. Volutamente percussivo (non viene mai usato il pedale di destra), divide e sottrae risonanze, con una tecnica di rilascio. Ha bisogno di un ascolto che definirei meta analitico, a favore di una non spazialità atemporale". Quest'ultima cosa rimane un po' ostica, ma  non è un'opera enigmatica. FB non vuole stupirci, non vuole scioccarci, né prendere in giro le nostre attese di ascoltatori. Vuole soltanto far battere dei martelletti e sentire il suono che fanno quando si rilasciano. , se vuol dire qualcosa, probabilmente vuol dire: fine e inizio. Per molto tempo Battiato è andato in giro con un ritaglio di una rivista nel portafogli, un'intervista a Stockhausen in cui il compositore avanguardista faceva il nome di Battiato come di un giovane da tener d'occhio. Poi finalmente lo ha incontrato e qualcosa non è girato per il verso giusto: il maestro d'elezione ha scoperto che l'allievo non sapeva leggere una partitura. Battiato, che fino a quel momento aveva testardamente perseguito una carriera da autodidatta, decide di studiare solfeggio, armonia e composizione perché (gli aveva detto Stockhausen) non avrebbe potuto continuare a fare del "pop" a quarant'anni. In effetti  è il primo vero brano in cui Battiato non suona nulla: ma se l'esecuzione è demandata a Ballista, evidentemente esiste una partitura, una delle prime scritte da Battiato. Il minimalismo di  va incontro a un certo gusto del tempo – FB ha ascoltato Einstein on the Beach di Wilson e Glass alla Biennale del 1976 – ma è anche una scelta obbligata per un compositore che sta ancora imparando a comporre. La sua prima opera è poco più di una riga ritmata su una pagina bianca. 


2002: Come un sigillo (con Alice, testo di Manlio Sgalambro, #169) 

E tu passavi appena le sottili dita sul prepuzio, poi sfioravi il glande e i sensi celebravano il loro splendore. Ok, questo Battiato senza Sgalambro non l'avrebbe fatto: descrivere una sega nel modo più delicato possibile. E allo stesso tempo Sgalambro non sarebbe mai riuscito a rendere credibile la cosa, se a cantarla non fosse stato Battiato con quel timbro nasale e rapito che depura ogni verso dalle sue morbosità – Battiato è l'anti-macho per eccellenza, solo lui poteva essere protagonista di quel famoso aneddoto in cui Loredana Berté in aeroplano gli mostra le tette e lui: "Loredana, ti dirò la verità, sono bellissime", Battiato è libero di celebrare l'erotismo perché ha vinto in sé la concupiscenza, o almeno è riuscito a darci questa impressione. 

L'erotismo letterario poi molto spesso calca la mano, si dà per scontato che il sesso sia un'impresa muscolare e che la scrittura debba trattenere questo sforzo o mimarlo, laddove a volte sono proprio certe esperienze acerbe, e brevi, e delicate, a restare impresse per tutta la vita. Come un sigillo è l'unico brano inedito di Fleurs 3 e serve come trait d'union tra due brani che non si potrebbero immaginare più diversi: Sigillata con un bacio, da cui si riprende il tema del sigillo che però qui Sgalambro ricollega al Cantico dei Cantici di Re Salomone ("mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio") e Beim Schlafengehen, un Lied di Richard Strauss con testo di Herman Hesse. Il che ci autorizza una volta di più a usare per quest'area della produzione di Battiato col termine midcult: è lo stesso Battiato a porsi a metà tra una canzone per teenager su un amorazzo estivo e un Lied di Strauss. La cosa più interessante del brano è l'impasto delle voci di FB e Alice, che qui si dimostrano realmente complementari: a una voce maschile alta risponde una voce femminile bassa (in certi punti veramente Alice è il basso e Battiato il falsetto). Cantano perlopiù all'unisono, creando davanti all'ascoltatore l'illusione dell'ermafrodito platonico che rimpiange l'era in cui Zeus ancora non l'aveva spezzato. 

2008: Era d'estate (Endrigo-Bardotti, #88) 


Quando si arriva al terzo volume dei Fleurs (Fleurs 2) ci si trova sempre più di frequente a scacciare la sensazione che FB stia raschiando il barile dei ricordi: per carità, succede a tutti, e si continua comunque a pescare frammenti intriganti – in questo caso ecco un singolo del 1963 di Sergio Endrigo, musicalmente imbastito su un giro di do e liricamente centrato indovinate un po' su che dramma amoroso? Esatto, l'amore estivo che in autunno ahinoi finisce, non resta che scriverci una canzone, anche se forse qualcuno potrebbe averla già scritta, no? Vabbe' nel dubbio scriviamola anche noi, si saranno detti Endrigo e Bardotti. Battiato (che al tema dell'amore caduco e transumante è evidentemente legato) nel primo Fleurs aveva rispolverato Aria di neve e Te lo leggo negli occhi con esiti miracolosi: non c'è un vero motivo per cui lo stesso trattamento non renda la sua terza cover di Endrigo altrettanto memorabile. Il difetto sta nel materiale di partenza: Era l'estate è una canzone meno interessante, tutto qui. 

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15. L'abisso non mi chiama, sto sul ciglio

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[Benvenuti alla Gara, il più grande torneo di canzoni di Battiato mai disputato e mai disputabile, oggi con Brunelleschi, Rodolfo Graziani, Isidore Ducasse e Paolo Conte. Ma anche con Giusto Pio, Giuni Russo, Manlio Sgalambro e Caterina Caselli].

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1978: Su scale (per voce, coro e due pianoforti) (#233)

Su scale comincia con una cascata di scale pianistiche che ci ricordano due cose: (1) in quel periodo FB stava re-imparando la musica, nel senso che dopo l'incontro con Stockhausen aveva accettato di dover almeno capire come si legge uno spartito, farsi un minimo di cultura convenzionale e (2) Juke-box era nato come una colonna sonora di un film di Brunelleschi, per cui è inevitabile immaginare le "scale" non solo come quelle interminabili impartite agli studenti, ma come quelle delle ciclopiche impalcature di Santa Maria del Fiore, la prima sfida al cielo del Rinascimento. Nella seconda parte entrano le voci, e se quelle in sottofondo tutto sommato sembrano rispettare le convenzioni della musica occidentale, il solista è evidentemente in un altro mondo: si tratta forse del primo tentativo di Battiato di introdurre nella sua musica un tipo di vocalità orientale. 

FB non ha mai smesso di ricordare che Juke-box era da considerarsi una colonna sonora: persino nel suo sito internet, messo on line molti anni dopo, si legge a chiare lettere che l'album era nato per questo motivo. Qualcun altro avrebbe avuto tutto l'interesse a far passare il rifiuto sotto silenzio, ma per Battiato evidentemente l'unico senso dell'album era questo. 


1989: Lettera al governatore della Libia (con Giuni Russo, #105) 

Carico di lussuria si presentò l'autunno di Bengasi. La prima facciata di Giubbe rosse è anche un atlante del mondo battiatesco: al centro la Sicilia (Giubbe Rosse), a nord l'Europa (Alexander Platz), a est la Mesopotamia, al sud l'Africa coloniale che torna in tante canzoni di FB come una Sicilia aumentata, un luogo ambiguo di rimpianti e pulsioni inconfessabili. Sin dai tempi dell'autista dei camion in Abissinia di Aria di rivoluzione, figura evidentemente ispirata al padre, non è mai chiaro cosa voglia fare FB con questo album di ricordi non suoi, ricordi ereditati ai quali forse vorrebbe cambiare il significato. Lettera al governatore sembra il ricordo di una famiglia italiana che si trasferisce in un quartiere coloniale del capoluogo cirenaico aspirando al benessere della classe dominatrice, ma non può impedirsi di vedere la fragilità di tutto l'impianto. La versione di Giuni Russo del 1981 sprizza tuttora la vitalità di quel periodo particolare – la chitarra di Radius, il violino di Giusto Pio – la versione live del 1989 regge il confronto, anche perché la Russo è ancora dietro il microfono e può vocalizzare a piacere. 

1995: L'ombrello e la macchina da cucire (testo di Sgalambro, #152) 

Chiacchiero col vicino, lei non ha finezza: non sa sopportare l'ebbrezza. Sto riascoltando dopo anni L'ombrello e la macchina da cucire e devo dire che è una bella sorpresa, al tempo mi sembrava quasi  inascoltabile e invece le basi elettroniche hanno retto il tempo molto bene: anche l'impasto tipicamente battiatesco coi cori campionati da quell'opera (Il cavaliere dell'intelletto) che non ha mai voluto incidere. La nota dolente sono sempre i testi di Sgalambro, quell'insalata di riferimenti colti di seconda mano che in fondo anche Battiato sapeva fare, salvo che a Battiato riusciva meglio, va' a capire il perché: forse perché era chiaro sin dall'inizio che non faceva sul serio, laddove Sgalambro sembra persuaso che cominciare con una citazione del conte di Lautreamont e finire con Joyce sia una buona idea per realizzare un testo ispirato. E sono quasi tutti riferimenti di seconda mano, ovvero citazioni che sono già state citate da qualcuno e che il lettore midcult sapeva riconoscere anche prima dell'avvento di google: di solito era sufficiente una saltuaria frequentazione degli inserti culturali sui quotidiani. Invece "Che cena infame stasera, che pessimo vino" mi ricorda una frase molto simile che in Boris (il film) veniva usata come esempio di scuola di cattiva scrittura cinematografica – ecco, appunto. Devo capire se Battiato ha registrato anche una versione spagnola del disco perché probabilmente l'ascolterei con meno fastidio (ed è già la seconda volta dopo Piccolo pub che Manlio "filosofo" Sgalambro compare alticcio a un tavolino).


2002: Insieme a te non ci sto più (Conte-Pallavicini, #24) 


Chi se ne va, che male fa? Certe canzoni fanno giri lunghissimi, stancano tutti e non si sentono per anni interi per poi risorgere all'improvviso (e stancare tutti di nuovo). Questo per spiegare come Insieme a te non ci sto più nel 2002 fosse una scelta meno banale di adesso: certo, Nanni Moretti l'aveva già usata per due scene topiche sia in Bianca (dove si sentiva anche Scalo a Grado!) che nella Stanza del figlio, uscito appena un anno prima. Anche Arrivederci amore ciao, il romanzo di Massimo Carlotto, era fresco di stampa; il film omonimo sarebbe uscito solo cinque anni più tardi e solo a quel punto Caterina Caselli avrebbe vinto il David di Donatello per la migliore canzone originale. Quest'ultimo dettaglio non credo potesse impressionare più di tanto Paolo Conte, che però qualche anno dopo confessa a un giornalista che Insieme a te non ci sto più è la canzone di cui va più orgoglioso. Eppure non l'ha mai incisa; qualcuno sostiene di averlo sentito cantarla a un concerto ma non abbiamo prove. In compenso abbiamo una versione di Battiato che nel secondo volume di Fleurs (quello che si chiama Fleurs 3) sembra a volte tentato dall'operare in modo inverso: invece di trasformare ogni canzonaccia in musica da camera, prendere canzoni che sono già considerate classici e snellirle, modernizzarle, immaginarle adatte alla radiofonia contemporanea. È comunque un'operazione condotta con molto garbo e a volte a malapena percettibile (vedi qui le schitarrate di apertura, che ci fanno immaginare una versione molto più rock di quella che poi segue), ma è comunque meno interessante di quello che Battiato aveva tentato col primo volume di Fleurs, anche perché la sua idea di modernità radiofonica non è necessariamente la nostra e l'accenno di Ciao amore ciao ci lascia presagire un mash-up che per fortuna non si realizza. Detto questo, è bello che esista almeno una canzone di Battiato scritta da Paolo Conte (anche l'inverso non sarebbe male, ma è più difficile da immaginare). Dopo di lui l'hanno rifatta un po' tutti ma la sua resta la più ascoltabile – insieme con l'originale, incisa dalla Caselli con quella voce che Conte definiva "da lavandaia", la voce di una che ti lascia con un sorriso a trenta denti e devi anche essere contento che non ti morda. Non ti sto facendo male, vero? No, no, figurati, anzi.     
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14. Io t'ho amato sempre non t'...

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[Questa è la Gara, ovvero una gara di canzoni di Franco Battiato. Oggi in lizza quattro brani tra cui due di Fabrizio De André, uno degli artisti che ha più amato e interpretato].

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1995: Piccolo pub (testo di Manlio Sgalambro, #201)


"Nel '43, ero malato, vidi tutta la mia vita sudato, scorreva finita". Una cosa che tendo a dimenticare è che tra Sgalambro e Battiato c'erano pur sempre 21 anni di differenza, una generazione. Se la cosa si nota meno di quanto si potrebbe è anche perché dei due è spesso l'anziano a parlare più sboccato. È tipico associare Sgalambro a quel lessico barocco che però era un marchio di fabbrica del prodotto-Battiato molto prima che i due s'incontrassero – davvero, Battiato non aveva avuto bisogno di Sgalambro per cantare "codici di geometrie esistenziali" o "lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco". Né la lirica sgalambriana ha mai raggiunto quei livelli: in compenso dopo averlo incontrato Battiato ha incluso nel suo lessico termini come "puttana", oppure in questa canzone si è concesso una divagazione filosofica sulla pisciata nel bagno di un esercizio pubblico. "Birra e urina si scambiano le parti: la latrina è il tuo caveau. Liquido vitale scorre in entrambe". Sembrano veramente i pensieri sciolti di un filosofo alticcio alla terza pinta, che si congeda dagli amici dicendo "ci vedremo domani se la notte non fa il suo colpo stanotte": un po' ridondante ma espressivo – se FB non scegliesse di ripetere il verso tre volte nella canzone, dando una sensazione come di rincoglionimento (la musica però è buona). 


1999: Amore che vieni, amore che vai (De André, #56)



Il primo Fleurs è, tra le altre cose, un prodotto piazzato con un tempismo pauroso; certo, potrebbe anche essere successo per caso, ma è un fatto che le ceneri di Fabrizio De André erano ancora calde e milioni di italiani stavano giusto scoprendo di averlo sempre amato. Si erano messi a chiamarlo per nome, anzi "Faber", come l'amico-fragile che all'improvviso rimpiangevano. Terminava un processo di canonizzazione che era iniziato una decina d'anni prima, dalle Nuvole: perché fino a quel momento De André era sempre riuscito a eludere il passaggio da solito stronzo a venerato maestro. Pochi mesi dopo Battiato sceglie per il suo primo disco di cover due classici del De André più intimista (e meno controverso): giusto in tempo per prenotarne almeno uno per il concerto-tributo che si tiene a Genova il 12 marzo dell'anno successivo. Quando arriva sul palco Battiato insomma dovrebbe trovarsi in discesa: il brano lo conosce, lo ha appena inciso, e il pubblico lo ha già ascoltato nella sua versione: cosa può andare storto? Accade invece che a Battiato, un professionista con decenni di concerti alle spalle, si mozzi il fiato a metà di un verso, in un moto di commozione così spontaneo che il pubblico lo riconosce immediatamente (e applaude). Ed ecco un'altra ipotesi su Fleurs: invecchiando si diventa sentimentali, basta una vecchia canzone per spremerci una lacrima, la gente penserà che la colleghiamo a questo o quell'amore finito ma non è necessariamente così. A volte è la semplice verità del brano, così lucida che taglia: io ti ho amato sempre, non ti ho amato mai. L'amore è pensare per tutta la vita a una persona di cui non sai più niente da anni, a questo punto potresti persino telefonarle, non sarebbe certo molestia volerla sentire una volta in trent'anni ma ti rendi conto che no, in realtà tutto quello che vorresti dire a lei non lo vuoi dire alla lei di adesso, tutto questo amore che provi ha ormai ben poco a che fare con quella lei che risponderebbe al telefono, l'hai amata sempre, non l'hai amata mai, uno poi pensa che mentre piangiamo siamo buoni ma è il contrario, si è sempre soli con le proprie lacrime, è sempre e solo per noi stessi che piangiamo.   

2007: Stati di gioia  (#184)

"Era l'estate del '63, un pomeriggio assolato. Da un juke-box di un bar completamente vuoto: She loves you ye ye ye. Ommmm". È un tratto comune a molti della sua generazione: l'ascolto dei Beatles come uno choc primario, qualcosa che modifica per sempre la percezione. Succede a Bob Dylan (classe 1941) e succede a FB (1945). Il primo era già un folksinger affermato, il secondo un diciottenne che nella vita avrebbe suonato tutt'altro (ma lascia perplessi che i jukebox siciliani fossero già aggiornati alle novità inglesi). Eppure per entrambi – e tanti altri – i Beatles tracciano un solco. Posto che per apprezzare Stati di gioia conviene comunque ascoltare la versione studio del Vuoto, stavolta preferisco mostrare questo video di uno spettatore che è riuscito a inquadrare Battiato da vicino mentre la canta. Non per come la canta – il fiato cominciava a mancargli – ma perché, accidenti, è felice. È una persona che ha scoperto la gioia da ragazzino ed è riuscito a non dimenticarsene, a mettere insieme gli indizi finché non l'ha ritrovata, e quando l'ha ritrovata ha cercato di spiegare a tutti come si fa. Ha a che vedere con la meditazione ma anche con una canzoncina per teen-ager. Io non so nemmeno se mi piaccia, una canzone come Stati di gioia, e in generale sui suoi ultimi dischi sospendo il giudizio, era ancora bravo, ispirato? Era felice, questo importa. Forse a un certo punto non lo ascoltavamo nemmeno più: non importava cosa cantasse, l'importante era vederlo felice, saperlo felice. 


2009: Inverno (#73) 



Ma tu che vai, ma tu rimani. Negli anni Zero FB era diventato, a causa delle sue caratteristiche intrinseche, l'ospite ideale di Fabio Fazio: garantiva con la sua sola presenza uno spessore culturale, un'amabilità pop, e si teneva ancora molto lontano dalle polemiche politiche. A chi se non a lui quindi demandare il decennale della morte del solito Fabrizio De André – assurto nel frattempo all'empireo dei classici della letteratura. Battiato si presta al compito con generosità, confermando che l'unico De André che gli interessa interpretare è quello barocco delle collaborazioni con Gian Piero Reverberi e regalandoci una cover rispettosa ma non banale di un brano quasi dimenticato. Tutti morimmo a stento è un disco dallo strano destino: fu il LP più venduto in Italia nel 1968, probabilmente perché a quel tempo ascoltare pezzi di De André in radio era impossibile; in seguito snobbato anche dal suo autore. Battiato avrebbe potuto portare a casa la serata con la solita Amore che vieni, o La canzone dell'amore perduto: e invece sceglie una canzone che sotto la patina dell'orchestrazione nasconde una natura freddissima e inquietante: dopotutto è una visita a un cimitero, raccontata da un visitatore tentato di restarci. È perfetta per ricordare De André senza concessioni alla retorica, ed è perfetta per la voce ormai tremolante di FB che a quel cimitero si sente sempre più vicino. Una versione studio della sua interpretazione (meno tremolante) viene poi incisa in Inneres Auge

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13. Coatti nella convivenza affrontiamo il progresso

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[Questa è La Gara, una competizione di canzoni di Battiato, cioè tipo che siete in cima a una torre con quattro canzoni di Battiato e dovete buttarne giù tre. Meno divertente di quel che sembra, in effetti] 

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1967: La torre (#248)


BATTIATO: Siete degli ipocriti.

CASELLI: Ma chi è questo?

GABER: Io l'ho già visto. Sembra me con la barba e i baffi.

CASELLI: Esatto!

GABER: Ma insomma, si può sapere cosa vuoi tu?

BATTIATO: Cosa voglio? Sbattervi giù dalla torre!

La storia è ormai nota: quella sera a Diamoci del tu Caterina Caselli presentava un artista promettente, relativamente conosciuto per le canzoni che aveva scritto per l'Equipe '84, di taglio cantautorale, molto riconoscibili rispetto al resto del loro repertorio: Auschwitz, Dio è morto (quando sente i titoli il pubblico applaude). Si chiamava semplicemente Francesco, come oggi i concorrenti a X Factor, e la Caselli spiega che il suo genere è la "folksong". Ma nella stessa puntata anche Gaber, il copresentatore, aveva una sua giovane promessa da presentare: un giovanotto dinoccolato che per l'occasione deve rinunciare al suo nome di battesimo, dato che si chiamava Francesco pure lui. Da lì in poi si chiamerà Franco Battiato, anche per sua madre. A differenza dell'altro Francesco, Battiato non ha nessun titolo con cui impressionare il pubblico: gli unici dischi che ha inciso sono un paio di 45 giri di cover per una rivista enigmistica che li acclude al numero in edicola; Gaber l'ha scovato in un'osteria dove cantava canzoni siciliane spacciandole per medievali. La torre è un brano molto acerbo, che declina un certo atteggiamento scostante di marca esistenziale con un ritmo trascinante da marcetta, alla Anthony: insomma due tendenze di segno opposto, ma entrambe di provenienza francese, mescolate assieme nella speranza che funzionino e col senno del poi sembra abbastanza chiaro che no, non possono funzionare le lagne e le marcette nello stesso brano. Era un esperimento, in quegli anni le si provavano un po' tutte e anche un buco dell'acqua non era una tragedia. Battiato avrebbe potuto scomparire di lì a poco come centinaia di altri. Persino l'altro Francesco (Guccini) avrebbe potuto scomparire: malgrado gli applausi, il suo primo album da folksinger (per la Voce del padrone!) vendette 500 copie, oggi ci vai in top100 ma ai tempi erano pochissime. Conteneva tra l'altro un brano che sembra la parodia del Battiato della Torre, l'Asociale: "sono un tipo antisociale / non m'importa mai di niente / non m'importa del giudizio della gente... in un'isola deserta / voglio andare ad abitare / e nessuno mi potrà più disturbare". Cioè è davvero la stessa cosa che canta Battiato, ma senza marcette fuori luogo e con tanta ironia in più. Però il brano era già uscito su un 45 giri l'anno prima, quindi no, Guccini non stava prendendo in giro Battiato. Al massimo stava canzonando un atteggiamento, un mood che al tempo di Battiato era già un luogo comune.  


1982: Radio Varsavia (#9) 

L'ultimo appello è da dimenticare. Nel 1982 Battiato è letteralmente la Voce del padrone. Ha osato tanto, ha vinto il banco, ha venduto più dischi di tutti e ora può fare quel che vuole. Quel che vuole è prendere immediatamente le distanze da quel tipo di successo: gli artisti a volte fanno questo tipo di cose, all'inizio sembra un impulso autodistruttivo ma sulla media-lunga distanza ti impedisce di diventare schiavo di un trend o legato a un singolo momento della storia del costume. Il nuovo disco deve assolutamente suonare diverso dalla Voce del padrone, anche se tutto questo tempo per inventarsi cose nuove non c'è e quelle vecchie continuano a vendere e a farsi sentire in radio. Tutto questo sin dai primi subliminali istanti: La voce cominciava con un rumore di onde, L'arca col fruscio del vento nel deserto su cui incombe per un magico istante un suono di fine del mondo, forse un campionamento orchestrale del Fairlight sovrapposto a un coro dei Madrigalisti di Milano. La voce ti sparava subito un 5/4 disorientante: L'arca inchioda l'ascoltatore a un più tetragono 4/4. La voce cominciava col miraggio di un'estate infinita, l'arca con le istantanee notturne di qualcosa di un colpo di Stato: i volontari laici scendevano in pigiama per le scale per aiutare i disertori. Questa non è la Mesopotamia o Atlantide, questo è il colpo di Stato di Jaruzelski del 1981, è cronaca ancora fresca di stampa: qualcosa che i cantautori di quel periodo avevano imparato a rifuggire come la peste perché allontanava sia i clienti moderati che quelli radicali. E malgrado nella terza strofa FB rimescoli le carte cianciando di commercianti punici e di Abissinia, il senso è molto più chiaro del solito ed è ribadito alla quarta stanza: la Cina era lontana, l'entusiasmo per il movimento operaio non è più sostenibile, il comunismo ha smarrito la sua spinta propulsiva, se non nell'economia almeno nell'immaginario. Questo nel 1982 non era poi così facile da accettare: qualche anno prima Battisti si era guadagnato una nomea di cantante di destra per molto meno. La stessa nomea, puntualmente, piombò su FB, che da un punto di vista ideologico sembrava già compromesso: un lettore di Gurdjieff e Guenon, un frequentatore di Calasso, nel 1982 non poteva che appartenere alla "nuova destra". Forse anche per questo motivo l'Arca incassò molto meno, e se oggi Radio Varsavia sembra una canzone molto meno ambigua, ed è una delle sue più apprezzate (su Spotify è la nona canzone di Battiato più ascoltata in assoluto) è perché abbiamo accettato che il comunismo reale negli anni '80 era davvero una grondaia arrugginita pronta a cadere di schianto, inoltre abbiamo fatto la pace con le ambiguità ideologiche dei cantautori, e soprattutto un certo modo di abbellire le canzoni evocando souvenir delle ideologie del passato dopo Radio Varsavia ha fatto scuola: nello stesso 1982 dell'Arca di Noè compare in qualche negozio di dischi un oggetto strano, non si capisce se il gruppo si chiama CCCP o Fedeli alla linea. 


1983: Gente in progresso  (musica di Battiato e G. Pio, #120) 

Secondo Giulia Cavaliere, Orizzonti perduti è "l’album più profondamente milanese della storia della musica italiana" e io le credo. È senz'altro un disco sospeso tra sede e fuorisede, tra "il nord" e "giù", un presente frenetico e un passato idealizzato. Alla pendolarità geografica corrisponde quella stagionale e non è un caso che Gente in progresso, la canzone più milanese del mazzo, cominci in settembre e finisca in primavera: è il calendario della gente "che lavora per avere un mese all'anno di ferie". Il mantra Hare Krishna che spunta tra un ritornello e la strofa non sconfigge quella sensazione asettica, ambulatoriale, evocata dall'arrangiamento elettronico: più di un canto di liberazione sembra la litania di qualcuno che "nelle fabbriche, nei negozi, dietro a scrivanie" cerca di lenire l'alienazione con la meditazione. In tanti altri momenti della carriera di Battiato, Gente in progresso sarebbe diventato un classico. Ma nell'83/84 non fa nemmeno uscire un singolo, e poi comunque in tv vanno i videoclip della Stagione dell'amore e di Mal d'Africa. Negletta anche dalle scalette dei concerti, Gente in progresso resta uno dei migliori risultati del Battiato elettropop che riesce a insufflarci una sottile nostalgia anche per quei settembri dolceamari in cui proviamo ogni volta a programmare un anno migliore, prima che la pioggia e la routine prendano il sopravvento.   


1988: Zai saman (#137)

"Come una volta andiamo a visitare la famiglia, guarda com'è grande il ragazzo, guarda la gente come raccoglie i fiori" (traduzione del ritornello). In un disco complessivamente tranquillo e delicato come Fisiognomica (a un certo punto stava per chiamarsi L'Oceano di silenzio), Zai Saman è di gran lunga il momento più frastornante, quello in cui FB si alza dal tappeto di preghiera e ordina agli orchestrali: 1,2,3, casino. Gli orchestrali nel frattempo sono tutti cambiati e Zai Saman è forse il brano in cui più rimpiangiamo i vecchi, perché il nuovo casino non ha la brillantezza dei momenti più giocosi di Patriots o dell'Arca, e nemmeno di Mondi lontanissimi. Cambi di tempo, cambi di lingua, cori e chitarre in fiamme (ma i cori non sono più i Madrigalisti e si sente, le chitarre non sono più di Radius e si sente), ogni senso della misura è allegramento abolito e per almeno tre minuti sembriamo di nuovo in presenza del Battiato giocoso e scavezzacollo. Anche il testo non sa bene dove andare: un ricordo del passato, un ricordo dell'amore, o un compianto per la fine dell'occidente? E almeno stavolta lo ammette: sì, l'occidente soffocherà "per ingordigia e assurda sete di potere", ma dall'Oriente non aspettiamoci che "orde di fanatici".

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12. Non si erano mai viste code tanto grandi, tanto lunghe

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[Questa è La Gara, questo è un torneo di canzoni di Battiato. Qualcuno ne ha sentito il bisogno. Voi no? Cliccate altrove. Se invece volete votare, si vota qui]. 


1973: Beta (#40) 


Son felice di essere un Beta. Il mio giorno non è duro. Dentro il mare mi posso vestire, dai Gamma e dai Delta farmi ubbidire. Nel Mondo Nuovo Beta sono gli impiegati, il ceto medio che deve convincersi di essere felice (questa cosa che sia in Orwell sia in Huxley lo Stato sia totalitario nella misura in cui mesmerizza il ceto medio meriterebbe un ulteriore approfondimento, ma non è questa la sede). Per questo i Beta vengono condizionati sin dalla culla, anche mediante l'ascolto di nastri registrati che Battiato qui tenta di riprodurre – perché i Beta alla fine sono anche il target della musica leggera anni '70, una massa di sedicenti rivoluzionari che non vedono l'ora di infilarsi nella nicchia di un posto fisso. (Qualche anno più tardi, agli stessi Beta mezzi addormentati Battiato canterà, subdolamente: sei un essere speciale e io avrò cura di te). È interessante che la prima volta che Battiato mette per iscritto un mantra, questo consista in una serie di frasi mistificanti. Poi parte una improvvisazione intorno al tema di Areknames, con basso batteria e pianoforte e Battiato che fa versi inquietanti con l'eco, una cosa che potrebbe veramente stare in Ummagamma e nessuno noterebbe una grande differenza – nessuno è previsto che rimanga sveglio mentre ascolta Ummagamma e forse anche Beta era concepito da Battiato per addormentarci e continuare a ipnotizzarci subliminalmente. Fino al recitativo finale, una domanda che mi tormenta da ancora prima che l'ascoltassi: "Dentro di me vivono la mia identica vita dei microrganismi che non sanno di appartenere al mio corpo... Io a quale corpo appartengo?"


1982: L'esodo (testo di Tommaso Tramonti (Henri Thomasson) #89)

Fine dell'imperialismo degli invasori russi, e del colonialismo inglese e americano. Dalla prima volta che ho ascoltato quella canzone formarsi all'orizzonte del mio udito (attraverso le pareti che mi separavano dal ghettoblaster di mio cugino), spuntare come dalla nebbia di quell'accordo infinito di synth, L'esodo è stata la mia canzone. Di fini del mondo Battiato ne ha scritte tante, ma questa è la più precisa e contingente, questo è come il mondo potrebbe davvero finire: non con un bang ma con una coda immensa (moltitudini, moltitudini) che si perde nella polvere, nella nebbia, nell'accordo dell'armageddon. I madrigalisti di Milano sembrano sospesi sull'arrangiamento come gli angeli dell'apocalisse in un angolo del quadro. Mamma mia che festa. Mantengo la mia posizione: L'arca di Noè è il più grande disco di Franco Battiato. Non che questo avrà importanza, nel giorno della fine.


1996: Serial Killer (#168)

No non voglio farti del male, fratello mio, non credere perché ho un coltello in mano e tu mi vedi quest'arma a tracolla e le bombe che pendono dal mio vestito come bizzarri ornamenti, collane di scomparse tribù. Non avere paura perché porto il coltello tra i denti e agito il fucile come emblema virile. Non avere paura della mia trentotto che porto qui sul petto... Allora, Sgalambro, questo è ridicolo. Cioè lo so dove vuoi andare a parare, lo capisco, posso anche apprezzare l'idea complessiva, il finalino a sorpresa e a morale (Di questo invece devi avere paura: io sono un uomo come te), però questo personaggio di sogno col coltello, e le bombe che pendono, e il coltello tra i denti, e il fucile, se uno ha una fantasia un minimo visiva come se lo deve immaginare, se non come un bozzetto di Andrea Pazienza, ma di quelli disegnati col pennarello grosso per farsi una risata? Io veramente non ci riesco, non riesco a prenderti sul serio, e nemmeno a ridere quando scherzi, e tutti questi tuoi rimandi culturali che servono a far capire che non sei un signor nessuno, che hai studiato, a mettere in soggezione l'ascoltatore, cioè me? Cioè io dovrei nutrire soggezione perché se dici "sogno pomeridiano" soggiungi subito "di un fauno"? Ma per favore: e quel che mi fa più rabbia è che la musica qui c'è, Battiato sembra in forma, si capisce che vuole fare qualcosa di complesso ma popolare, tentare nuove strade ma ascoltabili, aggirare la dittatura contemporanea della dinamica schiacciata, cominciare piano, esplodere e smorzarsi, tutto molto interessante ma non riesco ad ascoltarlo, ti giuro, per vent'anni non sono riuscito ad ascoltare L'imboscata perché le tue poesie sono stuccatissimi specchietti per allodole e io non dico di essere un'aquila, neanche un falco, ma un'allodola no. Quanta musica buona ha buttato via FB cercando di musicare le tue cianfrusaglie, non ti perdonerò mai, non me lo spiegherò mai. Scusate.


2011: Svegliami domani (con Cinzia Fontana #217)

Uno degli episodi meno noti della carriera di Franco Battiato è questo featuring del 2011 con la cantautrice padovana Cinzia Fontana, che per l'occasione sfoggia nelle strofe un timbro rauco che non può ricordare quello di Alice. Più in generale siamo davanti a un caso da scuola di Battiato-exploitation, ovvero di un brano costruito per attirare l'ascoltatore di Battiato, con una serie di stilemi che lo faranno sentire a casa. È uno stratagemma a cui FB si presta con generosità ma la canzone ha comunque qualcosa che non va – un evidente sbilanciamento tra le strofe e il reiteratissimo ritornello. Sono canzoni che vale la pena di osservare, ogni tanto, per capire quant'è difficile ottenere quell'equilibrio che quando ascolti un Battiato sembra sempre così naturale e spontaneo. Dopodiché mi sono già pentito di averla inserita, ho scartato altre canzoni molto più battiatesche (anche se non attribuite ufficialmente a lui: niente Osage Tribe, niente Genco Puro); ho scartato Joe Patti perché pur essendo un esperimento interessante è troppo spesso un doppione di cose che Battiato aveva già fatto; ho scartato cose anche pregevoli che davvero era impossibile considerare canzoni: tutto Gilgamesh, tutta la Genesi, la Messa Arcaica, tutto Cellini, tutto Telesio, e però mi sono tenuto Campi magnetici e Juke Box e l'Egitto dopo le sabbie, perché? Non c'è un vero perché, bisognava arrivare a 256 pezzi, qualcosa è entrato qualcosa no. Svegliami domani non doveva entrare, siamo d'accordo, ma era su Spotify e se l'avessi tolta avrei dovuto ricalcolare le ultime 40 posizioni, rifare tutti i gironi, insomma è andata così. Tanto il turno non lo passa, no?

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11. Passano gli anni, i treni, i topi per le fogne, i pezzi in radio

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[Questa è sempre La Gara, una competizione di canzoni di Franco Battiato. Oggi abbiamo un jazz sperimentale per chitarra e violino, un rock postmoderno con Eraclito in sottofondo, una canzone d'amore barocca e un tappeto di suoni elettronici per un balletto. Poi è vero che certe volte Battiato dava la sensazione di ripetersi un po', però insomma, ecco, dai]. 

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1972: Cariocinesi (#153)

Un nucleo si divide, l'errore lo interrompe. Il fascino particolare di certe opere prime risiede anche negli errori di percorso, in tutti gli esperimenti non riusciti e da lì in poi accantonati che ci fanno per un attimo immaginare che lo stesso artista avrebbe potuto prendere strade completamente diverse, ci è mancato pochissimo. Ad esempio Cariocinesi è un intermezzo jazz nel bel mezzo di Fetus – ok, è un jazz sui generis, una specie di swing con un violino in evidenza, e una chitarra ritmica forsennata. Non è certo il momento più innovativo di Fetus, ma è qualcosa di divertente che Battiato non tenterà (quasi) mai più: da lì in poi, pur percorrendo innumerevoli e apparentemente incompatibili universi musicali, dal jazz si terrà sempre a rispettosa distanza: anche nella fase della sua carriera più orientata all'improvvisazione, che sta per cominciare.

1996: Di passaggio (con Manlio Sgalambro, #104)

Passa la gioventù, non te ne fare un vanto. Devo confessare di avere ingiustamente detestato Di passaggio quando uscì, per un motivo abbastanza sciocco, ovvero quella citazione di Eraclito piazzata lì da Sgalambro con la mano leggera di un liceale che cerca un frontespizio ad effetto per la sua tesina di quinta. Quant'ero geloso, no? Battiato aveva sempre ficcato riferimenti culturali di seconda mano nelle sue canzoni, e non ci avevo mai trovato niente di male, avevo sempre pensato che fosse un procedimento ironico. Ma appena compare il vocione di Sgalambro, l'alibi dell'ironia sembra crollare. A riascoltarla Di passaggio è una canzone trascinante, soprattutto grazie all'epica chitarra di David Rhodes, che conferisce una credibilità rock a un riff che grida: ouverture! (davvero, immaginatelo orchestrato per violini). Il ritornello spostato di un semitono ("Siamo solo di passaggio") ci ricorda che sotto a tutto questo rock'n'roll c'è sempre il tappeto di preghiera di un guru: Di passaggio è una delle sue prime meditazioni sulla caducità dell'esistenza (ne seguiranno molte altre negli anni a venire).  

1999: La canzone dell'amore perduto (Fabrizio De André, Georg Philipp Telemann, #25) 

Ricordi? Sbocciavano le viole. La canzone dell'amore perduto sembra fatta apposta per Fleurs – e questo magari è un suo limite, in una raccolta che funziona in parte anche grazie all'effetto sorpresa. In ognuno di queste canzoni, Battiato cerca qualcosa di fuori del tempo, la classicità: ma è più curioso vederlo mentre le trova in brani del repertorio pop o rock piuttosto che in una canzone che alla musica classica si rifaceva già in partenza. E in effetti qui la cura di Battiato sta nell'attenuare per quanto possibile il riferimento barocco dell'originale (l'originale era arrangiato da Gian Piero Reverberi, che più tardi avrebbe inventato il Rondò Veneziano, ovvero un altro esempio di commistione tra musica classica e pop che partì proprio nello stesso periodo in cui Battiato portava il violino di Giusto Pio in classifica, e che non poteva non avere presente, se non altro per scansarlo come la peste).   

2000: La corrente delle stelle (#232)

Campi Magnetici è un'uscita di Battiato che potreste esservi persi. Secondo Onda Rock è il suo "lavoro più inascoltabile", giudizio apparentemente ingeneroso se si pensa a quante cose davvero poco ascoltabili aveva realizzato nel suo periodo più oltranzista. Non solo Campi Magnetici non è una tortura per l'orecchio come Oriental Effects o Juke-box, ma in queste sere afose lo sto ascoltando più volentieri dei suoi dischi cantautorali dello stesso periodo: non dico sia migliore di Gommalacca o Ferro battuto, ma mi imbarazza meno tenerlo acceso mentre faccio altre cose. Il che ci pone più di un problema: è ancora musica d'avanguardia se la fruisco come muzak di sottofondo? E cosa è successo alle mie orecchie, quale bomba sonora li ha devastati nella jungla triphoppara degli anni Novanta perché esse possano trovare rassicurante un collage di suoni e rumori inquietanti? 

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10. E cominci a detestare i processi meccanici e i tuoi comportamenti

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[Non vorrei che pensaste che questo non è l'ennesimo episodio della Gara, un torneo di canzoni di Battiato, oggi tutte comprese in 12 intensi anni in cui Battiato ha cantato qualsiasi cosa, da Fleur Jaggey a Salvatore Di Giacomo al rai]. 



1993: Atlantide (testo di Carlotta Wieck, #72)

 
"Il suo re Atlante conosceva la dottrina della sfera gli astri la geometria, la cabala e l'alchimia". Cos'è questa roba? Di solito Fleur Jaeggy non si vergognava a prestare le sue liriche a Battiato, firmandole col suo vero nome (sì, Fleur Calasso Jaeggy è il suo vero nome). Il fatto che stavolta preferisca nascondersi dietro uno pseudonimo non promette molto bene, e in effetti il testo di Atlantide è poco più di una finta leggenda – se mi ricorda la caduta di Numenor è perché ho più dimestichezza con Tolkien che con altri pompierismi di area Adelphi. Però insomma questi Dei che si dividono il mondo, queste kitschissime cabale e alchimie mi ricordano inevitabilmente quel pezzo di Labranca su Calasso e il suo mondo: "Vede, vuole fare il raffinato e poi cade nella trappola del peggior Barocco brianzolo. Angeli, sindoni, mercuri alati… bleah. Prima o poi rischierà di scegliere qualche pagliaccio triste o qualche marina di Camogli all’alba". Anche a Battiato alla fine è capitato qualcosa del genere, che di raffinatezza in raffinatezza si è ritrovato a cantare canzonette da pianobar (ed è comunque un motivo per cui lo amiamo, avercene di pianobaristi come lui). Musicalmente Atlantide è meno banale ma non così memorabile: per sua ammissione c'è un po' di Stockhausen, un coro armeno, un soprano bulgaro "tutto mischiato insieme".   


 1999: Era de maggio (#57)



Battiato nella sua vita da performer non è che si sia tirato indietro. Ha suonato ai festival di Re Nudo, tenendo una nota sola per minuti e minuti in mezzo ai freak, ha suonato in Iraq e all'Eurovision ma se dovessi dire la cosa più coraggiosa che gli è capitato di fare, secondo me ha duettato in tv con Massimo Ranieri. E non una canzone qualsiasi, ma un classico della canzone napoletana, Era de maggio, già incisa in Fleurs. Il duetto in sé va come era prevedibile che andasse: Battiato non era nemmeno troppo in forma e Ranieri appena entra lo distrugge, che altro può fare Massimo Ranieri? Ma il contrasto può servire per farci capire cosa stava cercando di fare in Fleurs: essiccare le canzoni, strapparle al loro contesto specifico e metterle sotto vetro; nel caso di Era de maggio denapoletanizzarle, eliminando quell'enfasi teatrale che ha senso quando una canzone deve difendersi nei vichi, ma che rischia di distrarci dalla pura bellezza di un testo e una musica, che io in effetti senza Battiato probabilmente non avrei ascoltato. È in effetti lo stesso procedimento che porta Battiato a cantare Lied con la sua voce educata ma non impostata: i puristi non ci troveranno niente di interessante; chi non si era mai interessato scopre un mondo. 

2001: Personalità empirica (#185)

 

Quando non coincide più l'immagine che hai dite con quello che realmente sei. Prendiamo, non lo so, Personalità empirica: parte la drum machine e poi in una botta un Ciaikovskij da pianobar, i vocalizzi moreschi di Natacha Atlas e Sgalambro che sgalambra pensoso in sottofondo e in francese. E tutto questo in qualche modo suona credibile, suona Battiato, ma forse questo è proprio il problema: ormai possiamo aspettarci di tutto, se la seconda strofa la cantasse il Gatto Silvestro o Jim Kerr per noi sarebbe uguale, sarebbe comunque tipico Battiato. Se a partire da Clic il giovane B. aveva iniziato a constatare l'impossibilità di fare musica, a tagliarsi tutti i ponti alle spalle e a ritrovarsi davanti solo il Silenzio del rumore, un quarto di secolo dopo il problema è l'inverso: pezzo dopo pezzo, esperimento dopo esperimento, Battiato ormai si è creato un mondo in cui può fare letteralmente tutto quello che gli passa per la testa, un universo di possibilità: e paradossalmente è proprio questa possibilità infinita a non consentirgli più di evadere da sé stesso, perché tutto quello che tocca diventa comunque Battiato, un brand inconfondibile, una gabbia di ferro battuto. Sgalambro dice che vorrebbe abbandonare la propria personalità e lo capiamo, succede a tutti di non sopportare più le persone con cui si vive, succede anche a chi vive da solo e forse più spesso. Gli anni Zero sono stati disorientanti per tutti: tutto era diventato immediatamente disponibile, la musica del passato parcellizzata in mp3 suonava più smagliante che mai e anche campionarla non richiedeva più nessuna particolare abilità o gusto. Battiato può fare quello che vuole e quindi non sa più cosa fare: il rischio di farsi il verso da solo è fortissimo e lui lo vede pure, ma non può farci niente. 

2004: 23 coppie di cromosomi (#200)



L'inflazione che caccia nelle mani dell'individuo, in un gesto solo, miliardi di marchi, lasciandolo più
miserabile di prima, dimostra punto per punto che il denaro è un'allucinazione collettiva. Trent'anni e più dopo Sirena, Battiato e Maurizio Arcieri si ritrovano per Dieci stratagemmi: sono entrambi molto cambiati. Le loro collaborazioni in questo disco del 2004 non riescono a scrollarsi di dosso una sensazione di déja vu, come se per entrambi la priorità fosse mantenere una propria riconoscibilità: per esempio 23 coppie di cromosomi è un brano perlopiù elettronico che suonerebbe per qualche motivo un po' più Chrisma che Battiato (forse saranno i quattro quarti ben scanditi), non fosse per gli sgalambrismi declamati dallo stesso Battiato al microfono, che richiamano immediatamente Campi magnetici, o purtroppo ci fanno sentire quanto poco sia necessario riproporre tutto questo dopo l'exploit di Campi magnetici.

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9. Ne abbiamo avute di occasioni, perdendole

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[Benvenute e benvenuti alla Gara, questa interminabile competizione di canzoni di Battiato, con quattro tioli da quattro decenni diversi]

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1967: Le reazioni (#249)


Il lato B del singolo La torre, con cui il giovane Battiato si getta nella mischia del mercato musicale, forte di un contratto con la Jolly e di un amico in paradiso come Giorgio Gaber. È una delle prime canzoni di cui Battiato scrive testi e musiche (anche se alla Siae non risulta perché non era ancora iscritto), ma la sensazione è che più dei testi e delle musiche – non troppo memorabili – gli interessi costruire un personaggio, un ragazzo tormentato e scostante che vive l'amore come un'esperienza destabilizzante e forse preferirebbe farne a meno. Tutto questo non è soltanto autobiografico e anticipatore di tanta poetica battiatesca nei decenni a venire, ma nei secondi anni Sessanta si sposa a un'estetica esistenzialista che forse non era la più apprezzata dai giovani acquirenti di dischi, ma un suo mercato lo aveva: il campione di questo mood era Luigi Tenco, che proprio nel 1967 aveva deciso di chiamarsi fuori nel modo più assurdo possibile. Battiato ripartirebbe da lì, con arrangiamenti più aggiornati alle novità del rock inglese (non ho capito se c'è già Logiri alla chitarra, ma qualcuno comunque deve aver ascoltato se non Jimi Hendrix almeno gli Yardbirds). Il tutto ovviamente solo nel caso che al pubblico questo Giovane Arrabbiato piacesse, il che non accadde, anche se è difficile capire il motivo: quel che è sicuro è che persino Battiato accettò di ripiegare su tematiche più amorose e meno arrabbiate. 

1974: No U Turn (#136)


“Uomini di una certa età che la sera vanno in cerca di affetto nei parchi. Soffrono ansie e paure per false morali e ai loro figli le insegnano uguali. Egregio signor ministro, sei sicuro che i tuoi problemi sono uguali ai miei? Io so che la vita come nasce muore. A che ti serve l’abuso del potere?” Queste parole nascoste canta Battiato nella prima parte di No U Turn: un embrione di canzone che nel 1974 suonava ai concerti e che in Clic è incisa a rovescio: contiene, come si vede, due immagini che torneranno più volte nella sua produzione successiva: gli uomini che cercano l'amore nei parchi e gli "abusi di potere". Nella seconda parte, la prima seria introspezione della sua carriera, la confessione di una crisi esistenziale: "Per conoscere me e le mie verità io ho combattuto fantasmi di angosce con perdite di io. Per distruggere vecchie realtà ho galleggiato su mari di irrazionalità. Ho dormito per non morire buttando i miei miti di carta su cieli di schizofrenia". No U Turn è l'unica vera "canzone" di quel difficile lavoro che è il disco del 1974, Clic, e sarà l'ultima cantata da Battiato prima dell'Era del cinghiale bianco, cinque anni dopo. Di tutti i cavalli di battaglia del periodo Bla-Bla, è quella che si fa più fatica a catalogare: manca il riff orecchiabile di Areknames, manca l'incanto sospeso di Sequenze e frequenze, ma in generale tutte le concessioni all'orecchiabilità strappate con Aries sono qui rinnegate. Del resto non si torna indietro, No U Turn vuol dire questo (oppure vuol dire: non rovesciate il nastro, ahi, troppo tardi).

1983: La stagione dell'amore (#8)
 
I desideri non invecchiano quasi mai con l'età (quel "quasi" l'ho sempre trovato tremendo). Cosa ci si aspetta da un cantante pop, cosa deve fare se non soffrire con noi, farci capire che ha perso le stesse occasioni che abbiamo perduto noi, e ricordarci che comunque ci sarà sempre un altro entusiasmo che ci farà pulsare il cuore? Sulla carta, La stagione dell'amore è la canzone pop perfetta, non c'è una parola di troppo (forse quel "quasi"). Lo è anche dal vivo: è una di quelle manciate di canzoni che da subito il pubblico cominciò a cantare all'unisono, l'Albachiara di FB. Quanto alla versione da studio, riascoltarla è sempre un lieve choc, dato che tutta la distanza ironica che Battiato nel 1983 voleva mettere tra sé e la popstar che il pubblico vedeva in lui sta nell'arrangiamento elettronico, volutamente minimale e asettico, che già al tempo lasciava perplessi e oggi suona proprio pacchiano. Lo si capisce meglio dal video, dove FB ci delizia con una delle sue danze goffe che chiariscono che almeno per i discografici lui era il David Byrne italiano e ci si aspettava che facesse il matto più o meno nello stesso modo. Quei due sciocchi accordi in levare del Roland che ci perseguitano per tutta la canzone sono il messaggio di un artista sequestrato: aiutatemi, lo capite che io non voglio veramente cantare questa roba, che è tutta una farsa, sì? La EMI mi tiene prigioniero, fate qualcosa, non comprate i miei dischi e sputatemi addosso. Dieci anni dopo, nel live Unprotected, l'arrangiamento originale è completamente sconfessato: La stagione è diventato un Lied per orchestra. Altri dieci anni dopo, in Last Summer Dance (2003) finalmente ascoltiamo il pubblico cantare con Battiato dal primo all'ultimo verso. È sparita l'ironia, è sparito il postmoderno, è abbastanza sparita anche la necessità di nobilitare il brano con un'orchestrazione da camera. Quel che è rimasto è il capolavoro pop di un grande maestro e cantautore. Quindi è successo: qualcuno è riuscito a uscire vivo dagli anni Ottanta. Buon per lui.  

2002: Se mai (musica di Charlie Chaplin! testo in italiano di Calabrese, Gramitto Ricci, #121)

Quando approda nel canzoniere battiatesco, Se mai ha già avuto diverse vite. La musica è tra quelle che il regista Charlie Chaplin nella sua vasca da bagno canticchia al giovane collaboratore David Raksin, incaricato di trasformarla in uno score per il finale del suo film del 1936. Siccome il film è Tempi moderni, potrebbe anche averci messo il becco l'arrangiatore Alfred Newman, col quale però in quel periodo Chaplin stava litigando e alla fine nei titoli l'unico autore delle musiche risulta lui. Chaplin non è che avesse molte velleità da compositore, il che è ben strano, perché se sei il tipo di persona che si inventa un motivetto come Smile nella vasca forse a una carriera musicale ci dovresti pensare, d'accordo che sei già un grande regista e attore ma insomma da quel momento non abbiamo più smesso di canticchiare lo stesso motivetto, che vent'anni più tardi diventa una canzone confidenziale per Nat King Cole, con un testo in inglese che si ispira proprio allo struggente finale di Tempi Moderni: sei rimasta senza casa e previdenza sociale? Non hai prospettive e l'unico a darti una mano è un vagabondo matto? Vabbe', sorridi, stringi i denti e guarda l'avvenire. Ok. In Italia il brano non è ben chiaro quando sbarchi (forse già all'altezza di Bruno Martino, ma non ho prove), in realtà lo conosciamo già perché oltre ad aver visto e rivisto Tempi moderni in qualsiasi cinema parrocchiale, il tema era diventato ubiquo in radio e più tardi in tv. La versione che si fa notare è molto tarda, addirittura del 1967 e interpretata da Nicola Di Bari con quel furore soul che avevano certi interpreti italiani del periodo, in un tentativo interessante di svecchiare il brano che però fa un po' a pugni col ritmo del brano stesso. Il testo non c'entra quasi più nulla con l'originale (che poi originale non era), perché un paroliere, dovendo tradurre "Smile", ha deciso che quello che gli interessava davvero era il suono di quella S impura e ha optato per un "Se mai" che peraltro era anche già il titolo di un brano di Adamo (cantante che Battiato coverizza nello stesso disco), mettendo il dito su una delle più insanabili piaghe del parolismo italiano, ovvero l'inflazione di rime in -ai, comode ma come dire, tutti questi sai e dai e casomai oramai erano già un po' banali prima che Mogol li rendesse obbligatori. Trentacinque anni dopo, cosa vuole fare Battiato con questa canzone? Un omaggio a Chaplin o a Nat King Cole, o vuole emendare la foga fuori luogo di Nicola Di Bari? Quest'ultima in effetti è completamente cancellata, ma se state attenti credo che potreste sentire che Battiato attacca come attacca lui, in anticipo – salmodiando invece che vocalizzando, ma è la sua versione che ha in mente, non quella americana. E siccome aveva ragione quello scrittore che diceva che la vita è più simile alle canzonette che alla musica seria, il goffo testo italiano di Se mai mette a fuoco come pochi una certa poetica della distanza sentimentale che è quella che a Battiato interessa: anche se / c'è da troppo tempo ormai / il silenzio tra di noi / io ti penso ancora (sai).

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8. L'Etica è una vittima incosciente della Storia...

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[Questa, se vi eravate distratti, è La Gara: una competizione senza senso tra (quasi) tutte le canzoni di Franco Battiato. Stavolta c'è un invito pop-rock alla terza guerra mondiale, un brano scritto per Gianni Morandi, un Lied di Wagner, un quartetto di Haydn. Ma se si impegnava sapeva fare anche cose più diverse].

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1980: Venezia-Istanbul (#48)


...Ieri ho visto due [uomini(*)] che si tenevano abbracciati in un cinemino di periferia... e penso a come cambia in fretta la morale: un tempo si uccidevano i cristiani e poi questi ultimi con la scusa delle streghe ammazzavano i pagani. Ave Maria. Io poi mi sono sempre chiesto: ma non sarà un po' colpa di Battiato se sono poi cresciuto così, il germe del relativismo culturale non me l'avrà installato lui mentre cercava semplicemente di infilare qualche intellettualismo in una canzone pop, ché in quegli anni queste cose funzionavano? Ho trovato questo spezzone di programma tv (discoring?) in cui Battiato in giacca grigia la canta ieratico come il mosaico bizantino da cui sembra essere stato staccato a forza. Merita di essere visto per capire quanto potesse sembrare appena arrivato da un altro pianeta, da un pubblico che applaude il pianista quando partono chitarra e batteria, e soprattutto per quel secondo di completo imbarazzo dopo l'ultimo distico: E perché il sol dell'avvenire splenda ancora sulla terra facciamo un po' di largo con un'altra guerra. Era qui che bisognava applaudire, ma ci mettono un po' ad accettarlo. Venezia-Istanbul è meno famosa di Prospettiva Nevskij o Up Patriots, ma è il vero nucleo di quella pazza cometa che fu Patriots: una musica che combina assieme Lied e rock con disinvoltura, una lirica che è un capolavoro di Taglia e Incolla, uno dei rari casi in cui si avvera la profezia di Tristan Tzara: la lirica dadaista ottenuta estraendo ritagli di parole da un sacchetto "vi rassomiglierà". In questo caso Battiato mescola luoghi comuni del giornalese e del culturese ("D'Annunzio montò a cavallo con fanatismo futurista"), ancora intercettazioni radiofoniche ("una punta attacca verticalizzando l'area di rigore"), e appunti sparsi su Socrate e la Storia. Se è un gioco, è uno dei più sofisticati che FB abbia giocato. 

(*) sullo spartito c'è proprio scritto "uomini" tra parentesi, me lo ricordo benissimo, ce l'aveva mio cugino. 


1988: Mesopotamia (#81)

 

Nella discografia battiatese Mesopotamia rappresenta un unicum per vari motivi: è (credo) l'unica canzone incisa in spagnolo prima che in italiano (compare nella versione spagnola di Fisiognomica), ed è forse il solo caso in cui per capire esattamente che canzone avesse in testa bisogna proprio ascoltarlo cantare in spagnolo: quella incisa in italiano in Giubbe rosse è una buona versione live, ma la chitarra nel ritornello smarmella un po' la complessità ritmica del brano. Ah, e stavo dimenticando: è la canzone di Battiato che Gianni Morandi ha inciso in italiano prima di Battiato, sempre nel 1988 col titolo Cosa resterà di me e senza più i riferimenti ai tre fari della scostanza battiatesca, Majorana Landolfi e Benedetti Michelangeli, perché per quanto l'interpretazione di Morandi sia credibile, davvero quei tre nomi in bocca a lui sarebbero suonati strani. Al loro posto Battiato o chi per lui decide di farcire la canzone con quei due etti di battuto di lardo emiliano, "Mi piacciono le scelte passionali, quella saggezza pratica che si tramanda il popolo... quell'atmosfera che ritrovo ritornando qui in Emilia, figlio di un pensiero rosso e partigiano". Tutto questo succedeva in effetti in un disco veramente patrocinato dalla Regione Emilia-Romagna, quel Dalla Morandi che costituisce quindi il momento di massima vicinanza tra i due grandi innovatori della stagione più creativa della canzone d'autore in Italia: la stagione è il 1978-1984, i due innovatori sono (ovviamente) Battiato e Dalla, e il fatto che nemmeno l'uomo più conciliante dell'universo, Gianni Morandi, sia riuscito a farli lavorare assieme lascia capire quanto una collaborazione del genere fosse una specie di impossibilità fisica: i due si stimavano, addirittura a Milo divennero vicini di casa, ma non hanno mai pensato di incidere niente assieme. Forse l'universo sarebbe collassato. Forse più semplicemente sapevano che il risultato sarebbe stato deludente.  


1991: Schmerzen (Richard Wagner, Mathilde Wesendonck #176)

 

Come allora potrei lamentarmi: come, mio cuore, avvertirti pesante, se il sole stesso deve disperare, se anche a lui tocca tramontare? A cavallo tra Ottanta e Novanta, Battiato ha già più volte annunciato il suo ritiro dalla musica leggera. La sua scelta di completare il disco del 1991 con quattro Lied sembra confermare la decisione di astrarsi dalla contemporaneità musicale. E però guarda come è diabolico lo Zeitgeist: proprio in quello stesso 1991 Luciano Pavarotti collabora per la prima volta con un artista pop, Zucchero Fornaciari, onorando con la sua corpulenta voce il singolo Miserere. Mentre Pavarotti tenta di trovare una credibilità pop per la sua voce lirica (con risultati detestabili), Battiato va nella direzione inversa e decide di incidere dei Lied con la sua voce microfonata. Suppongo che per chi ha una cultura musicale classica si tratti di una mossa ancora più assurda di Pavarotti (che almeno distrugge il pop, non i classici del romanticismo). E però si vede che questa esigenza di mescolare ciò che era (considerato) Alto a ciò che era (considerato) Basso era sentita a entrambi i livelli – si sentiva che il mercato era pronto per un artista che unisse i due mondi e che presto si sarebbe incarnato in quel cantante di servizio che aveva inciso la prova di Miserere per farla sentire a Pavarotti, un tale Andrea Bocelli. E comunque dai, meglio un Lied cantato da Battiato che un intermezzo pavarottiano o bocelliano in un brano pop. Cioè è una bella lotta ma vince FB, dai.



1995: Un vecchio cameriere (testo di Battiato e Sgalambro, #209)


Un giorno amò: ora si fa il bucato, sognando il re che sarebbe stato. Battiato, lo abbiamo visto, per tutta la sua carriera non ha mai disdegnato di attingere al repertorio classico. Per affetto o per dileggio, con citazioni vistose o sotterranee, e in altri casi interpretazioni rigorose: le ha provate tutte ma fino al 1995 non si era mai spinto all'estremo di Un vecchio cameriere, che è copiato di pacca dall'Adagio del Quartetto per archi op. 64 n. 5 di Haydn: al punto che viene il sospetto che il testo di Sgalambro, qua e là perfino comprensibile, non sia che una serie di parole messe assieme con lo scopo di trasformare l'Adagio in una canzone. Il risultato lascia un po' perplessi, ma devo ammettere che è l'unico pezzo di Haydn che mi è rimasto in testa: come se il trucco per farmi capire e ricordare un po' di musica decente fosse registrarci sopra una lirica confusa sull'assurdità dell'esistenza. E chissà quante altre volte Battiato ha fatto lo stesso trucchetto senza avvertirci, chissà quanta musica del passato ha contrabbandato nei suoi dischi senza il minimo sospetto da parte dei critici musicali (vabbe' quella è gente convinta che l'intervallo di quinta sia il momento in cui i bambini dalle aule si riversano in cortile). 

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7. In quest'epoca di bassa fedeltà e altissimo volume

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[Questa è sempre La Cura, un infinito torneo di canzoni di Franco Battiato. Oggi che abbiamo? Una sonata per violino su una nota sola, un brano elettropop che demolisce l'elettropop, un lato B dei Rolling Stones, un lato B di Dalida]. 


1978: Telegrafi (per violino solo) (#240)  
Di cose ostiche all'ascolto Battiato ne ha incise parecchie e per vari motivi, ma qui siamo forse tra le prime dieci. Telegrafi consiste in sei minuti di Giusto Pio che maltratta il suo violino; comincia con una cascata di note che ricorda l'attacco a effetto di Adieu, ma abbastanza presto si fissa su una nota sola, com'è opportuno trattandosi di telegrafi. Il brano faceva parte di quella colonna sonora per il film tv Brunelleschi che fu rifiutata dai produttori Rai, e riascoltando Telegrafi non è difficile capire il perché. Ma non è neanche difficile immaginare un sottofondo così dissonante sulle immagini in bianco e nero di uno di quegli sceneggiati in costume anni Settanta sempre un po' sperimentali e inquietanti.

1983: La musica è stanca (#145) (testo di FB e Tommaso Tramonti)  
E quante cantanti di bella presenza che starebbero meglio a fare compagnia... in quegli ironici '80 bastava grattare appena un po' la patina postmoderna per scoprire in Battiato un arcigno castigatore dei costumi; dopodiché ci precipitavamo a rispalmargli la patina postmoderna che insomma era il vero motivo per cui lo amavamo. Orizzonti perduti disorientò parte dei fan di Battiato a causa degli arrangiamenti completamente elettronici – il che non sarebbe stato nemmeno una novità, se non fossero stati affidati a un sequencer (il Roland MC-4 microcomposer) che già in quegli anni era facile accostare all'europop da classifica più superficiale e danzereccio. Col tempo questo è diventato il segreto del fascino di Orizzoni perduti, un disco in cui la voce di Battiato è l'unico residuo di umanità in un paesaggio sintetico, ma in quel momento la mossa poteva lasciare perplessi: tanto più che nella più ritmata delle otto tracce FB se la prendeva proprio con la stupidità della musica contemporanea. "Brutta produzione, altissimo consumo, la musica è stanca, non ce la fa più". Con tanto di coretti accelerati "disco disco! telegatti!", contro cui si invoca un raga già probabilmente mongolico. È il brano più pazzoide di tutto il disco, una presa di distanze dalla soffusa malinconia degli altri sette, e contiene una sotterranea ammissione: più che la musica, è FB che è stanco di farla in questo modo. La EMI lo ha trasformato in un animale da alta classifica, ma lui non vede l'ora di cambiare pelle, di nuovo.  


1999: Ruby Tuesday (Jagger/Richards, #17)  
Dying all the time. La leggenda, raccontata per lo più da Marianne Faithfull, racconta che Keith Richards per comporre Ruby Tuesday non si fece aiutare da Mick Jagger (che pure è accreditato), ma dalla meteora degli Stones, Brian Jones. Che quindi nella sua breve esistenza avrebbe scritto una sola canzone, e che canzone. È solo una leggenda, ma forse serve a spiegare la stranezza di un brano che c'entra poco con tutto quello che gli Stones facevano e avrebbero fatto, e allo stesso tempo cattura molto bene una certa tristezza e un senso di vuoto che sta al centro del loro mito. Ruby Tuesday è quel tipo di brano che si presta molto bene a cover mediocri: comunque vada sarà sempre un'ottima canzone, ma è impossibile battere l'incanto dell'incompiutezza della versione originale, con quel coretto lievemente fuori di chiave. Battiato forse ci riesce, ed è uno dei risultati più notevoli di tutti i suoi Fleurs. In un certo senso la sua Ruby è il manifesto dei Fleurs: prendere una canzoncina di un gruppo di finti teppisti su una groupie poco seria e leggerla come un testo sacro, interpretarla come un Lied, con intensità, serietà, rispetto, trasporto, senza timore che la canzone non riesca a reggere tutta questa intensità religiosa, questo rispetto che è dovuto a una cosa sacra, perché in ogni cosa c'è qualcosa di sacro, forse – sicuramente c'è in Ruby Tuesday e Battiato ce l'ha mostrato. Persino il suo inglese, meno atroce che in passato ma comunque ingessato, stavolta ha un senso, sembra una di quelle lingue liturgiche uguali in tutto il mondo salvo per l'accento del sacerdote officiante. Alfonso Cuarón la scelse per una delle scene più toccanti di Children of Men


2008: Il venait d'avoir 18 ans (#112)
Fleurs è un bel gioco che forse è durato troppo. Il primo disco è un capolavoro, il secondo non lo è, il terzo boh, c'è sempre questo pericoloso effetto karaoke nell'aria. Ha a che vedere anche con la scelta delle canzoni: quelle del primo disco, s'intuiva, narravano un'educazione sentimentale ancor prima che musicale e non oltrepassavano gli anni Sessanta. Quando arriva al terzo volume (che s'intitola Fleurs2), Battiato sta sempre più sconfinando nei Settanta e raccontandoci qualcosa di meno chiaro: eravamo convinti che quegli anni li avesse passati a esplorare le potenzialità dei sintetizzatori e a registrare e montare rumori; ma ora salta fuori che ascoltava pure Dalida? è buffo. Il brano, certo, da un punto di vista musicale è senza tempo: come tutti i migliori fleurs battiateschi esiste indipendentemente dalla storia della musica che gli scorreva intorno. Ma è anche un brano eccezionalmente autobiografico, un parziale coming out per la cantante più famosa di Francia che a 40 anni racconta di avere avuto a 36 anni una relazione sessuale con un ragazzo diciottenne. Probabilmente le date non tornano, magari lei ne aveva un po' di meno e il ragazzo un po' di più, ma insomma l'età dell'innocenza è finita, qui c'è un'artista che fa spettacolo della propria vulnerabilità sessuale sottoponendosi al giudizio del pubblico (che solo in seguito avrebbe scoperto i lati più tragici della vicenda: Dalida era rimasta incinta, aveva abortito, le complicazioni dell'aborto l'avevano resa sterile). Tutto questo rende particolarmente drammatica la versione originale, e... abbastanza dimenticabile la versione battiatesca, che racconta la storia in terza persona. Verso la fine compare una cantante iraniana (Sepideh Raissadat) che riporta quella spezia mediorientale che Battiato sapeva dosare con estrema cura.     

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6. Gli orchestrali sono uguali in tutto il mondo, simili ai segnali orari delle radio

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[Benvenuti alLa Gara, un effimero torneo di canzoni di Battiato, che Battiato non avrebbe mai autorizzato ma così impara a lasciare questa ruota dolorosa che è l'esistenza sulla terra, tie'! no scusa maestro è che certe volte mi manchi così tanto].

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1980: Arabian Song (#80)

   

L'uomo è l'animale più domestico e più stupido che c'è. Battiato tra il 1980 e il 1982 è in stato di grazia. Dopo tanto penare in cerca di musiche inascoltabili, all'improvviso ha scoperto una formula che sulla carta non potrebbe mai funzionare, e invece gira che è un piacere – a volte persino a dispetto dello stesso artista, che le prova tutte per renderla meno orecchiabile: ad esempio ci canta un ritornello nella lingua meno pop che si possa nel 1980 immaginare, l'arabo (parole quasi a caso, lo stava appena imparando), mentre le strofe sono un collage di ricordi di un'infanzia in provincia ormai completamente strappati al contesto della nostalgia, ricopiati e assemblati a caso come i frammenti di poesie scolastiche e luoghi comuni che compongono gli altri testi di Patriots. L'insieme dovrebbe risultare freddo e cervellotico, non è escluso che Battiato avesse in testa una musica più astratta e impassibile tra Krautrock Nowave e Stockhausen, ma finché alla chitarra c'è Alberto Radius che si diverte così il risultato è completamente l'opposto: una musica felice, che proietta lampi di luce sia sul grigiore del passato grigio sia sulle inquietudini del futuro. Sarà anche così stupido l'uomo, ma che musica gli scappa, a volte.

1993: Ricerca sul terzo (177)

 

"Mi siedo alla maniera degli antichi Egizi". Parlare di meditazione non è facile. Si dà per scontato che serva molta pratica, e di conseguenza un linguaggio iniziatico. Battiato, che quando vuole sa nascondersi dietro miraggi lessicali, qui sceglie la via inversa e cerca di spiegare come fa lui, a meditare, nel modo più semplice possibile, con le parole più chiare a disposizione. Se è stato un guru, è stato il più simpatico, quello che si è fatto pagare meno e che ha saputo disfarsi di un orpello forse non previsto dai manuali orientali: lo snobismo. Hai veramente la sensazione che potresti sederti vicino a lui e imparare qualcosa. Nel mio caso non può funzionare perché la strumentazione (il sitar, la tabla) che dovrebbe evocare l'India, non può che farmi venire in mente... George Harrison. Ricerca sul terzo sembra veramente un omaggio a Within You Without You.    

1995: Tao (#208)  

250 milioni di spermatozoi! In un solo orgasmo! Un solo uomo può popolare la terra! Questa cosa che per i taoisti è fondamentale eiaculare il meno possibile io la scoprii molto prima che Battiato mi ragguagliasse, su un volume che si chiamava Tao dell'amore che in qualche modo riuscii a rintracciare in casa mia benché i miei genitori lo avessero nascosto ben bene. Non so che dire, mi sembra che la civiltà occidentale abbia preso la direzione opposta: nel dubbio eiaculiamo, e dopo le cose per un attimo ci sembrano più chiare, più distanti (ma dura pochissimo). L'ombrello e la macchina da cucire è un disco difficile da apprezzare. Il ritorno all'elettronica – in relativa sintonia coi trend internazionali del periodo – avviene attraverso un linguaggio così personale e solipsistico che a volte l'ascoltatore può sentirsi di troppo, cioè forse Battiato queste canzoni le ha scritte per essere lasciato solo (solo con Sgalambro?) Sono anche brani che sfiorano pericolosamente l'autoparodia; in effetti c'è molto del Battiato che ci piace canzonare. E il video, se è davvero il video ufficiale, non ha retto l'ingiuria del tempo, mettiamola così.

2019: Torneremo ancora (#49)

Finché non saremo liberi torneremo ancora, e ancora. L'ultima canzone incisa da Franco Battiato (e cantata con una fatica percepibile, e straziante) ha un titolo solo apparentemente di buon augurio – da un punto di vista buddista, "tornare ancora" è una maledizione: occorrerebbe liberarsi, sottrarsi da questo loop infernale che è l'esistenza, ma come si fa? Battiato ci ha provato per buona parte della sua vita, complicata dal fatto che per vivere doveva comunque fare il cantante e l'autore. Anche Torneremo ancora era stata scritta pensando ad Andrea Bocelli (su istigazione di Caterina Caselli), ma non è difficile capire perché la canzone fu respinta – perlomeno è più facile di immaginare il vocione di Bocelli scandire "La luce sta nell'essere luminosi, irraggia il cosmo intero" senza farlo sembrare un recitativo. Scritta con Juri Camisasca, incisa con la Royal Philarmonic Concert Orchestra durante il breve tour che Battiato fece con loro nel giugno 2017 (ma la canzone uscì due anni più tardi), Torneremo ancora chiude la traiettoria artistica di Battiato con l'ambiguità con cui si era aperta, quel dubbio sospeso tra Occidente e Oriente: è meglio vivere o togliere il disturbo? Battiato in teoria preferiva la seconda cosa: ce lo ha scritto tante volte, lo ribadisce anche qui, ma appunto, se era così ansioso di lasciarci perché ci ha messo così tanto? perché ha continuato a fare concerti finché non si è rotto un femore a 71 anni, perché ha continuato a incidere canzoni con l'ultimo filo di voce che gli era rimasto? E quindi ce l'ha fatta a liberarsi da ogni desiderio, a raggiungere il nirvana, o anche lui tornerà ancora?

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5. Vuoto di senso, senso di vuoto

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[Benvenuti alLa Gara, un torneo di canzoni di Battiato. Oggi per puro caso si scontrano tre canzoni di apertura di tre dischi diversi, più un singolo che Battiato non ha nemmeno firmato].

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1973: Sequenze e frequenze (#144) 

Ogni tanto passava una nave. Sequenze e frequenze tra breve compirà cinquant'anni ed è ancora un brano meraviglioso che comincia con una splendida lirica, semplice ed evocativa. Nella storia artistica di Battiato rappresenta una pietra miliare meno visibile di altre ma più profonda: la scoperta del proprio passato. Fin qui il Battiato '70 era un artista completamente proiettato in un futuro di suoni sintetizzati e inquietudini fantascientifiche. Per il suo pubblico deve essere stato un certo choc ascoltare le prime parole, scandite con un timbro insolitamente opaco: "La maestra in estate ci dava ripetizioni nel suo cortile. Io stavo sempre seduto sopra un muretto a guardare il mare". Maestre, ripetizioni, cortili, muretti, tutto un crepuscolarismo di ritorno che si manifesta qui per la prima volta e da cui Battiato non si separerà più. Da un punto di vista strumentale, si sviluppa l'intuizione intravista già in Plancton: sovrapporre agli strumenti moderni (synth e chitarre elettroniche preparate) altri tradizionali se non arcaici: vibrafono, tabla, mandolino, che dialogano assieme in una coda lunghissima (16 minuti, tutto il primo lato di Sulle corde di Aries).


1978: Adieu (#241)

Mon métier, faire le musicien. Di cose strane e non del tutto spiegabili Franco Battiato & Giusto Pio ne hanno fatte tante, ma forse nessuna eguaglia quella volta che si inventarono una popstar a tavolino, "Astra", e siccome nessuno dei due intendeva impersonarla... mandarono in tv a cantare e suonare in playback il figlio di Giusto, Stefano Pio. Come ricorda quest'ultimo, più che di nepotismo fu una questione di massima resa con minima spesa, "non costavo nulla: come figlio infatti, non era contemplato un mio pagamento". Il brano è interessantissimo per vari motivi: è l'anello di congiunzione tra dischi così apparentemente diversi come Juke-box e L'era del cinghiale bianco; è la conferma che Giusto Pio aveva preso nella vita di Battiato lo stesso posto che qualche anno prima aveva il sintetizzatore VCS3, un giocattolo da maltrattare fino alle estreme conseguenze: qui Pio suona 13 note al secondo (per la disperazione di suo figlio che davanti alla telecamera avrebbe dovuto mimare una prestazione del genere). È un tappeto di note a cascata che ricorda proprio i vecchi frequenziometri di Aries e Clic, a cui Battiato fa da contrappeso con un basso ostinatamente mononota e una melodia semplice e accattivante che in seguito si sarebbe pentito di avere sprecato per un progetto tanto estemporaneo: non solo gli capitò di riciclarla due volte per due interpreti diverse, Catherine Spaak (Canterai se canterò) e Milva (Una storia inventata), ma tutto sommato la vera erede di Adieu, quella che riprende anche l'accompagnamento frenetico del violino, è Le aquile, uno dei pezzi più forti di Patriots.

 

2007: Il vuoto (feat. MAB, #113) 

Il Battiato degli ultimi dieci anni di carriera è un commovente paradosso: tanto brontolone e querulo nei contenuti, quanto bonario e disponibile alle collaborazioni più improbabili. In questo caso per incidere l'ennesima variazione sul tema "alienazione urbana" si avvale del quartetto anglo-cagliaritano delle MAB: loro provvedono al rock (che per Battiato è la musica urbana), FB si lagna dei tempi che corrono, e a un certo punto salta anche fuori un tenore ad avvisare l'arrivo di nuovi dei non meglio specificati, insomma un pastrocchio di cose che se funzionano, se sono ascoltabili, è proprio perché a dispetto di tutto il suo orrore per i tempi che corrono Battiato nel 2007 si diverte ancora un mondo a cantare, a suonare e a far cantare e suonare la gente che ha intorno. Anche se in platea fosse rimasto solo il povero Sgalambro, vale sempre la pena di salire su quel palco, vale sempre la pena di abbracciarsi.  


2008: Tutto l'universo obbedisce all'amore (con Carmen Consoli, #16) 


Rara la vita in due, fatta di lievi gesti e affetti di giornata: consistenti o no, bisogna muoversi come ospiti pieni di premure, con delicata attenzione per non disturbare. Tutto l'universo obbedisce all'amore è l'ultimo grande pezzo pop di Franco Battiato. Al tempo passò quasi inosservato (ma potrei sbagliarmi, visto che su Spotify è il sedicesimo brano più ascoltato). Forse perché inaugurava l'ennesimo disco di cover – e in effetti Tutto l'universo dà la sensazione di essere in qualche modo una cover, anche se non è facile capire di cosa (Battiato ha ammesso che c'è qualcosa di Scarlatti). C'è un'aria barocca che è uno degli elementi ricorrenti di tutta la trilogia dei Fleurs: c'è una guest star, Carmen Consoli, che in quanto catanese un brano col Maestro Battiato prima o poi doveva inciderlo. Purtroppo le convenzioni dei featuring contemporanei richiedono un duetto, una situazione in cui la voce ospite sia riconoscibile e dialoghi con quella dell'ospitato: è molto più interessante invece sentirli cantare assieme, sulla stessa nota, un androgino asessuato che ragiona sul mistero e sulla tirannia universale dell'amore. 
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4. Un rumore di swing provenire dal Neolitico

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[Questa è sempre La Gara, un torneo di canzoni di Battiato di cui pochi (ma buoni) sentivano il bisogno. Che poi cos'è una canzone? Non è che Battiato abbia scritto solo canzoni. Per anni interi non ci cantava nemmeno. A un certo punto si era messo a fare collage di rumori ambientali, come fai a chiamarle canzoni? Come fai a metterle in gara contro melodie tradizionali del Medio Oriente? Così:]


1975: Goutez et comparez (#224)  
Goutez è la seconda suite di musica concreta battiatesca, dopo l'exploit di Ethika Fon Ethica dell'anno precedente. In quanto suite occupa tutto il primo lato di Mlle "le Gladiator", il disco del 1975, anche se alla fine non è così lunga – e addormenta meno dei pezzi sul secondo lato. Cos'è la musica concreta per Battiato? Lui a dire il vero questa definizione non l'ha mai usata, ma insomma è un collage di registrazioni per lo più radiofoniche o ambientali; come in Ethika, Battiato per tutto il tempo dà l'impressione di muovere l'enorme rotella argentata delle radio del tempo, catapultando l'ascoltatore senza diaframmi in mondi familiari e lontanissimi. C'è un brano di Marinetti, presentato da una presentatrice come un "operatore culturale, freak perduto". C'è Battiato che recita la spigolatrice di Sapri e ci prova con la presentatrice: dai, qui nessuno ci vede. ("Ma sei impazzito?") C'è musica di ogni età: un pezzo di Sanremo anni '50, la Gazza ladra e il Va' Pensiero, l'Internazionale, un coro alpino; c'è lo stesso Battiato tastierista verso la fine che irrompe improvvisando sull'organo della cattedrale di Monreale; non c'è niente di casuale nel collage, accostamenti e giustapposizioni sono tutte studiate a tavolino. In particolare FB si affida all'effetto spiazzante del silenzio che segue improvviso a un'esplosione di rumore – un silenzio nel quale l'improvviso affiorare di una voce ce la fa sembrare particolarmente vicina. Trucchetti che erano ben noti alle generazioni che giocavano con la rotella del tuner e che adesso si fa anche fatica a spiegare    

1982: La torre (#96)  
Da non confondere, mi raccomando, con La torre del 1967, una delle prime canzoni scritte e incise da Battiato, di cui comunque condivide e accentua quell'atteggiamento brontolone che negli anni della contestazione serviva a creare un personaggio anticonformista. Se è rimasto uno dei brani più noti dell'Arca di Noè (ho in mente ad esempio l'interpretazione dal vivo di Capossela), probabilmente è proprio perché prosegue quel tipo di invettiva che con Bandiera bianca aveva ottenuto uno straordinario successo. Un'altra cosa in comune con i pezzi della Voce del padrone è la sperimentazione ritmica, qualcosa che il Battiato successivo accantonerà, forse perché per inserire quelle maledette battute in più servono percussionisti umani, i sequencer non sono molto adatti. Anche il synth che squilla come trombetta di guerra rievoca le sperimentazioni dei '70. La torre è l'ultima tentazione della popstar Battiato, a cui il successo clamoroso della Voce del Padrone aveva dato la possibilità di ergersi a severo censore dei costumi. FB sembra già abusarne, additando alla pubblica indignazione "i presentatori, specie quelli creativi che giocano ai quiz elettronici", gli attori (a partire da "Nostra Signora dei Turchi"), e così via, ma il margine per non suonare un trombone comincia ad assottigliarsi pericolosamente. Avrebbe potuto continuare a scrivere roba del genere per altri vent'anni e gliel'avremmo comprata: avrebbe finito per scrivere moralismi paraculi alla Gabbani e ce lo saremmo fatto piacere. Invece si è stancato della cosa immediatamente, proprio in mezzo a questo pezzo, quando la strofa cede al ritornello e le percussioni si interrompono all'improvviso. "Si salverà chi non ha voglia di far niente..." Alla fine dalla torre si è gettato lui. 

1993: Fogh in Nakhal (canzone tradizionale irachena; #161)  
Sulle palme, lassù, non so se è la tua guancia che brilla o la luna. Io non voglio, ma la pena mi tormenta. L'insolente mi chiede: "Perché giallastro è il tuo viso?" Non ho nessuna malattia: soffro per quella persona bruna che m'imprigiona con i suoi dolci occhi. Nessuno sa chi ha scritto Fog el Nakhal: Battiato comincia a eseguirla nel suo tour mediorientale del 1992 e la porta anche al concerto di Bagdad. Il grosso vantaggio rispetto ad altre sue cover in lingue straniere è che non abbiamo la possibilità di valutare quanto sia approssimativo il suo accento (e a Bagdad erano troppo ospitali per lamentarsene). Malgrado sia un brano tradizionale, arrangiato con cautela e senza vistosi anacronismi, Fogh è il brano più orecchiabile di Caffè de la Paix, o perlomeno questa è sempre stata la mia sensazione. Se fossi un arabo forse la penserei diversamente. Ci penserò quando rinascerò arabo.  


1996: Strani giorni (#33)

Strani giorni è il singolo che anticipando di qualche giorno l'uscita dell'Imboscata, annunciò al mondo che Battiato aveva cambiato pelle, un'altra volta. L'effetto sorpresa stava soprattutto nelle chitarre di David Rhodes: giunto quasi alla vigilia dei suoi cinquant'anni (come avverte lui, "In 1949 I came to this planet"), il nuovo Franco Battiato si rimette all'improvviso a rockeggiare, cita i Doors, si circonda di giovinastri, commissiona un videoclip a Enrico Ghezzi che è caotico tanto quanto la canzone. I Novanta sono stati anche questo, un incessante rimescolamento di qualsiasi cosa venisse in mente a chiunque, swing e neolitico, Sgalambro e Jim Morrison, la parola d'ordine era contaminare (sì, ai tempi era una bella parola). Battiato, che tra confusione e silenzio ha oscillato durante tutta la sua carriera e che per la prima metà del decennio si era fatto sostanzialmente i fatti suoi, nel 1996 si risveglia e si accorge che sono tempi perfetti per quel che ha voglia di fare, e quel che ha voglia di fare è un po' di frastuono. Nel brano la sua voce e quella di Nicola Walker Smith si disturbano a vicenda, l'ascoltatore non riesce a concentrarsi. Nel singolo di vinile c'erano remix di Madaski e Casino Royale. Strani giorni, davvero. 

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2. Carine le piramidi d'Egitto

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[Benvenuti alLa Gara, un effimero torneo di canzoni di Battiato. Quest'ultimo in quasi 50 anni di carriera ha esplorato tantissimi universi musicali ma per quanto riguarda i contenuti a un certo punto si è fissato su alcuni temi, ad esempio il Lamento per la Crisi della Civiltà e l'Elegia. Oggi per esempio abbiamo due Lamenti contro due Elegie, vinca il migliore].

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1979: Magic Shop (#64)

C'è chi parte con un raga della sera e finisce per cantare la Paloma: che straordinaria autoprofezia. Franco Battiato è, tra le altre cose, un autodidatta che è riuscito a costruirsi un suo percorso verso la serenità interiore avventurandosi nei sentieri del misticismo battuti, in quegli stessi anni, da cialtroni incredibili e pericolosi. Come sia riuscito a saltarne fuori pulito, anzi completo, sia da un punto di vista artistico che da un punto di vista esistenziale, ha del miracoloso (tanti altri non ce l'hanno fatta, non è questo il luogo per confronti impietosi). Lui stesso ne era consapevole e in Magic Shop sta veramente camminando sul filo, additando impietosamente le degenerazioni di un mondo che conosce fin troppo bene ("i mantra e gli hare hare a mille lire"). È il battesimo di quell'approccio ambiguo che tempererà il suo moralismo negli anni Ottanta, anche se qui l'ironia non è ancora ben calibrata e lascia trapelare l'invettiva ("rubriche aperte sui peli del Papa!") Umberto Eco registra nel Pendolo di Foucault come in quel periodo le librerie milanesi stessero sostituendo l'angolo della sinistra extraparlamentare con quello del misticismo: è tutto un mercato e FB lo sa benissimo. Ma ha anche lui ha il suo disco da vendere... 

 

2006: The Game Is Over (#193) 

The Game Is Over è un brano del Vuoto in cui Battiato mette assieme, tra le altre cose, un motivo tradizionale mongolo campionato da Sounds of Mongolia (Egschiglen, 2001) e il contributo vocale e strumentistico delle MAB, un gruppo prog-grunge cagliaritano basato a Londra, il tutto sapientemente mixato da Pinaxa che in un qualche modo riesce a evitare che questi mescoloni di musiche diverse, un po' etniche un po' melodiche un po' dance non somiglino ai Deep Forest. Il brano parla, come quasi tutti i brani di Battiato dal 2000 in poi, della necessità di accostarsi alla Fine, un lungo addio che a riascoltarlo tutto in una volta in pochi giorni mette sgomento: laddove alla fine lui era abbastanza tranquillo, secondo me. 


2009: 'U cuntu (#192) 

'U sennu, stamu piddennu 'u sennu! Ti ni stai accuggennu, unni stamu jennu (a finiri)? 'U cuntu è il secondo dei due brani inediti di Inneres Auge, un disco che per la Universal avrebbe potuto essere l'ennesimo live ma Battiato a questo punto non ne poteva più, ci aveva anche ragione. È la solita meditazione sul declino della civiltà, eseguita senza tanti orpelli, metà in siciliano metà in latino: FB parte da solo con poco più di un organo e poi consegna la melodia al coro Junia Voces. Niente di straordinario ma sempre meglio del solito live.


2012. Testamento (#65) 

Si parlava appunto del genere elegiaco, così frequentato dal tardo FB che quando nel 2012 su Apriti Sesamo incide un Testamento, vien proprio voglia di commentare: un altro? In un certo senso è la Magic Shop degli anni Dieci, notarelle sparse di un mistico che ha fatto il possibile per non diventare un guru e ci è riuscito: Cristo nei vangeli parla di reincarnazione, l'odore che gli asparagi danno all'urina, vi lascio i miei esercizi di respirazione, noi non siamo mai nati e non siamo mai morti, e così via. Nell'ultimo Battiato si sentono echi di tutti i precedenti: in questo caso io ci sento un profumo di Patriots, ma forse sono io. Non ho mangiato asparagi.  

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1. Tra noi si scherzava a raccogliere ortiche

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[A un anno dall'apparente scomparsa del compositore e interprete Franco Battiato, sono felice di invitarvi alLa Gara, un inutile ed estenuante torneo in cui si sottoporranno al vostro giudizio le canzoni più diverse incise da Battiato nei suoi quasi 50 anni di carriera. Si vota su Facebook, qui, ma si può litigare anche qua sotto nei commenti. Oggi occorre scegliere tra queste quattro concorrenti:]


1968: Vento caldo (#256)


Tra 1965 e 1968 l'aspirante cantautore Francesco "Franco" Battiato le prova un po' tutte, accodandosi dietro più di una tendenza musicale. Vento caldo è il suo tentativo proto-prog, ed è uno dei mille brani che in quel periodo risentono del successo di A Whiter Shade of Pale dei Procul Harum tentando di imitarne la formula: l'inserimento di melodie classiche nei brani pop. Se i Procul si erano limitati a ispirarsi a Bach, l'anno dopo gli Aphrodite's Child avevano fatto il botto copiando di pacca il Canone Pachelbel ed evidenziando i vantaggi economici del procedimento: i compositori classici non ti possono denunciare, non possono prendersi i diritti, non sono neanche iscritti alla siae e incidentalmente hanno scritto un sacco di riff orecchiabili: bisogna essere fessi per non provare a scopiazzare qualcosa. Battiato fesso non è, ma ha comunque idee strane: è la prima volta che arrangia un brano e non vuole rispettare i 4/4 che per l'hit parade italiana sono ancora molto importanti e forse è ossessionato da un brano non così facilmente canzonettabile come il Concerto n.1 per pianoforte e orchestra di Ciaikovskij. Lo ritroveremo trent'anni più tardi in un brano di Ferro Battuto, ancora abbastanza incongruo – ma nel frattempo lo avremo memorizzato a causa di caroselli e pubblicità. Il testo è l'ennesima variazione su un tema che perseguitava ben più ossessivamente gli ascoltatori di canzonette: l'estate sta finendo. Anche Battiato in seguito ci regalerà variazioni esistenziali e metafisiche sul tema, ma per ora la situazione è molto più semplice: l'estate sta finendo e ti devo lasciare. È anche un involontario commiato di FB alla Polydor, che lo fece uscire solo nel 1971 quando l'artista era ormai assorbito da altre avventure musicali. 


1972: Fenomenologia (#128)

Un brano dal primo album del Battiato Sperimentale Anni '70, Fetus. Rispetto ai due dischi successivi, a Fetus manca un vero leitmotiv, ovvero ce n'è più di uno ma sono meno ricorrenti e riconoscibili. Del resto è un'opera prima, quel tipo di disco in cui ci sono sempre più idee del necessario: in seguito gli artisti imparano come economizzarle. E c'è ancora molta chitarra acustica, uno strumento che FB maneggia con più sicurezza del synth, per cui c'è questa curiosa inversione: quando si tratta di fare atmosfera, Battiato ricorre alla chitarra arpeggiata (qui all'inizio e alla fine del brano), mentre dal synth tira fuori i riff più rumorosi e in generale il baccano. Riflettendoci, forse una specie di leitmotiv sono le scale discendenti, suonate in momenti diversi sia con la chitarra (qui all'inizio) sia col synth. In Fenomenologia compare anche il primo ritornello mutuato dal lessico scientifico: qui FB mette in musica la formula geometrica della doppia spirale, ovvero "x1 = a*sen (ωt), x2 = a*sen (ωt + γ)".


1981: Centro di gravità permanente (#1)

Per organizzare questa cosa futile e assurda che è un torneo di canzoni di Franco Battiato, avrei bisogno di un ranking, ovvero una classifica che ci consenta di identificare le teste di serie e gli sparring partner, distinguere insomma le canzoni favorite da quelle che non hanno nessuna speranza ed evitare che due pezzi importanti si scontrino subito. Siccome una classifica del genere non esiste, siccome nessun critico musicale ha concepito l'idea insana di mettere in fila le canzoni incise da Battiato in mezzo secolo in cui ha suonato veramente di tutto, dal mandolino al sintetizzatore al tuner della radio alle polifonie mongole... ho deciso di usare come parametro il numero di ascolti su Spotify, dove di Battiato c'è quasi tutto. È una metrica abbastanza discutibile (molti ascoltatori di FB non lo ascoltano su Spotify) ma è l'unica che avevo. E il brano più ascoltato in assoluto di Battiato su Spotify è, a sorpresa, Centro di gravità permanente. Perché a sorpresa? Perché ero arciconvinto che fosse La cura. Forse speravo che fosse La cura, perché il primo brano del ranking è il brano da battere, la Juventus, il Real Madrid, e io in effetti La cura non lo sopporto: se perdesse nelle eliminatorie contro una serie di rumori random ne godrei. Invece Centro di gravità permanente è un gran pezzo, come faccio a tifare contro? Si trova nella stessa situazione di A Day in the Life nel torneo dei Beatles, e proprio come A Day è un brano che riesce a tenere assieme identità diverse e apparentemente contraddittorie: sperimentazione e giro di do, postmoderno e pop da classifica. Ha anche uno dei suoi testi più riusciti, con una serie di formule icastiche che ci sono rimaste in testa da allora: in particolare continua a colpirmi quel "tra noi si scherzava a raccogliere ortiche" che nel 1981 doveva suonare un bilancio su tutte le ortiche avanguardistiche raccolte e coltivate da FB nel decennio precedente. Ma i tempi stavano cambiando, era il momento di incassare. Centro di gravità permanente è veramente il centro di gravità della produzione battiatesca: tutto quello che ha fatto prima o dopo vi ruota intorno. 


1998: È stato molto bello (#129)

Un'altra estate sta finendo, ma stavolta è decisamente una stagione della vita. A un certo punto (è difficile capire quando) la tematica elegiaca è diventata per Battiato un appuntamento fisso, obbligato, anche un po' ridondante. Succede agli artisti che hanno la fortuna di invecchiare – prendi, che ne so, Bob Dylan: l'anno prima aveva inciso Not Dark Yet e chissà se si immaginava di avere ancora vent'anni e più di carriera davanti. Lo stesso Battiato, avesse saputo quante elegie avrebbe scritto in seguito, forse ne avrebbe scritte meno, ma come faceva a saperlo? E invecchiando di che altro doveva scrivere, di antichi amori? (lo ha fatto) Di decadenza dei costumi (Hai voglia). È stato molto bello è un brano quasi perfettamente aggiornato alle sonorità degli anni in cui è uscito; qualcosa di lento e ipnotico che si poteva mixare ai Massive Attack di Mezzanine senza perdere troppa faccia, con Battiato e Sgalambro che davanti al Mistero torcono le rispettive eloquenze, accontentandosi di parole semplici e assai pesanti: "io non invecchio, niente più mi imprigiona". "Non domandarmi dove porta la strada" (del resto dove volete che porti?) È notevole che un autore così spesso tentato di usare la lingua tedesca per suggerire un'aura di cultura, qui richiami il Faust di Goethe senza vantarsene, forse senza nemmeno accorgersene, con la nonchalance di chi non si sa se sta accennando al transito della sua vita terrena o a una cena con gli amici: è stato molto bello.  


– Votate il brano di oggi

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Il mio corpo è una moquette

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È buffo, è indicativo e imbarazzante: me ne sono reso conto oggi, quando per la prima volta ci ho pensato per più di cinque minuti. Il concetto di Raffaella Carrà – che per molti è indissolubilmente associato a un ombelico, a un caschetto, un sorriso – nel mio caso è legato a una sensazione di moquette. Con tutto quello che la moquette implica per un bambino: una sensazione di libertà e insieme di sicurezza, la possibilità di stendersi liberamente sul pavimento di una palestra mentale in cui deve essere cominciata una specie di educazione sessuale. Sensazione soprattutto tattile, e olfattiva. Quei grandi studi tv pieni di specchi mi sapevano di polvere – forse perché il tubo catodico attirava e ospitava ogni sorta di pulviscolo, ma è anche il profumo della moquette quando ci spremi il naso. Ma insomma io ero bambino, facevo al limite ginnastica correttiva, e questa affermava che il suo corpo era una moquette così accogliente da addormentarcisi. 

Col sesso del poi, una cosa piuttosto fetish, ma cantata con un'allegria sincera, contagiosa. In un periodo in cui la sessualità era associata ad atmosfere morbose (senza cercare troppo lontano basta pensare a Mina negli stessi anni '70, al tipo di smorfie quasi postribolari che doveva affettare in favore di telecamera per risultare sensuale). La Carrà no. Lei sorrideva e ti si srotolava sotto, ti dava l'idea che alla fine il sesso potesse anche essere una cosa simpatica e divertente da fare in compagnia. Poi non lo so quanto ciò mi abbia aiutato: stasera mi piace pensare che sì, molto. 

Raffaella Carrà non mi è stata sempre simpatica: le maestre costantemente sorridenti ed efficienti a una certa età risultano odiose. Ci si accorge quanto erano indispensabili quando se ne vanno in in pensione o all'estero e al loro posto arriva gente che magari s'impegna ma non sempre, non abbastanza, gente che quando sorride tirata ti fa paura, la Carrà non faceva paura mai. Il professionismo è l'ultima qualità che impari ad apprezzare, forse perché è un insieme equilibrato di tante qualità che non devono farsi notare, non devono rubare la scena. Finché c'è non te ne accorgi, poi non c'è più e ti manca. Nove anni fa, a un concerto di beneficienza per l'Emilia Romagna, Raffaella Carrà si mangiò il palco. Prima e dopo di lei artisti che in teoria in uno stadio avrebbero dovuto trovarsi più a loro agio, e invece per un motivo o per un altro non erano in serata. Lei non poteva non essere in serata, non esistevano motivi per cui sarebbe potuto succedere. Non esisteva una Carrà sottotono, non è mai stata prevista, non credo che nessuno di noi sarebbe riuscito a immaginarsela. Non c'è.  
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Dylan vive, Dylan sogna

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Rough and Rowdy Ways (2020)

Il disco precedente: Tempest;
(vedi anche Murder Most Foul).
Il disco successivo: chi lo sa.
 

Cavaliere Nero, Cavaliere Nero, dimmi quando e come,
se è mai stato il momento, fa' che sia adesso.
Lasciami andare, apri la porta,
la mia anima è angosciata, la mia mente è in guerra.
Non abbracciarmi, non lusingarmi, non fare il pagliaccio:
Prenderò una spada e ti taglierò il braccio.

Morire è già di per sé una faccenda penosa: ma immagina di essere una celebrità. Immagina tutti i necrologi e le retrospettive che dovrà leggersi il tuo fantasma prima di riposare, tutte quel fiume di lusinghe inutili e sassolini cavati da scarpe stagionate di cinquant'anni, immagina la rottura di coglioni. Finché sei vivo puoi semplicemente cambiare canale e non leggere il giornale, ma chissà se una volta morto funziona così, chissà se una volta abbandonato questo groviglio mortale ti lasciano il telecomando a portata di mano. Magari no, chi può dirlo con certezza, magari nell'Oltretomba ti tocca pure ascoltare i rilievi di Red Ronnie, t'immagini? Vien quasi voglia di non morire più. È questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga. Andate avanti voi, Dylan si ferma un altro po' a Key West, a guardare l'orizzonte. È una posa un po' scontata, indubbiamente: è più o meno quello che gli vediamo fare da Not Dark Yet in poi (un quarto di secolo fa, vertigine!), ma che altro può fare, finché non ripartono i concerti?

 

Il punto più a sud degli Stati Uniti (continentali), su un molo di Key West, in Florida. CC BY-SA 3.0

A un certo punto della vita, Dylan deve aver deciso che morire non gli interessava. Attraversatelo voi il Rubicone, quel fiume che per noi italiani profuma di Trebbiano e Sangiovese e per gli americani è rosso ("ruby") di sangue, il confine tra Roma e Gallie, tra Repubblica e Impero. Ogni volta che si è imbattuto nel Cavaliere Nero, Dylan ha sempre trovato un motivo per dire di no. Sul Glasco Turnpike, in moto a 25 anni; a fine Settanta, quando era ridiventato una rockstar inseguito da groupie, spacciatori e avvocati divorzisti, finché in un qualche corridoio d'albergo non s'imbatté in Gesù. A metà anni Ottanta, quando anche Gesù aveva preso le distanze dalla sua discografia e lui si aggirava sul palco come un pugile suonato e fradicio. A fine Novanta, quando una brutta istoplasmosi rischiò di fare di Time Out of Mind un disco postumo (e che gran disco postumo sarebbe stato). Quante volte Dylan se l'è visto davanti, il Cavaliere; quante volte si sarà sentito dire che era il momento buono, che è dovere delle Leggende morire relativamente presto e lasciare un bel cadavere, che lassù c'era già Jimi, Janis, Elvis, c'era John, insomma ancora un po' e rischi di perdere il posto. Finisci in seconda fila nel limbo delle rockstar, pensaci, hai presente dove ti misero in USA For Africa? Una cosa del genere ma per l'eternità. Non è meglio se muori prima dei tuoi critici più affezionati, quando è ancora in giro qualcuno che sappia scolpirti un monumento decente? E tutte le volte Dylan ha trovato un motivo per rispondere: grazie, no. Ho la mia vita, i miei dischi, i miei concerti, a posto così.

Come se fosse facile, e non una scelta quasi impossibile per un maschio adulto di una certa età e di un certo successo. Voglio dire, è più facile scrivere Blowing in the Wind o smettere di bere a cinquant'anni quando chiunque ti sia abbastanza vicino da farti un rilievo puoi licenziarlo in tronco? Quanta impressione fa riprendere in mano una biografia degli anni '90, come Jokerman, e ritrovare nelle pagine finali l'immagine di un rudere prossimo alla pensione. A un certo punto Dylan si è sbloccato, non abbiamo mai capito il perché e neanche lui è riuscito davvero a spiegarcelo: e sì che ci ha provato. Da fuori l'impressione è che lo abbia salvato la musica: i concerti soprattutto. Lui che si era già stancato di suonare dal vivo nel '66, dal 1987 è partito per fare un po' di date ed è come se non fosse più tornato a casa. Le stagioni si alternavano inesorabili, i presidenti si alternavano ogni quattro o otto anni, dichiaravano guerre e le dichiaravano vinte, e Dylan continuava a suonare. Quando a Stoccolma volevano consegnargli il Nobel, lui aveva delle date prenotate a Las Vegas e andò a Las Vegas, ché l'Accademia di Svezia mica ti paga le penali. Nulla lo avrebbe fermato, terremoti, uragani, epidemie. No, in realtà l'epidemia lo ha fermato, e a quel punto abbiamo cominciato a preoccuparci. Cosa farà Bob Dylan senza i suoi ottanta concerti all'anno? Reggerà la mancanza di stress, i pomeriggi vuoti ad ascoltare dischi che sa a memoria, a cominciare libri di cui si stanca a metà?

Qualche giorno fa qualcuno è riuscito a fargli una foto mentre entra in un bar e insomma, pare che un anno di Covid abbia fatto a Bob Dylan meno danni che a me. Quando ha smesso i concerti, si è rimesso a incidere canzoni, come fosse la cosa più naturale del mondo. Un filo di parole che sembrava tranciato netto otto anni fa, lui l'ha ripreso con apparente naturalezza e si è rimesso a raccontarci le sue serie di sogni, scombinati come i sogni sono sempre. Quelli dei vecchi forse sono un po' più elaborati perché contengono moltitudini: gli anziani devono smaltire più ricordi (i sogni a questo servono), e più cultura. Da un po' abbiamo scoperto che Chronicles I, un libro di memorie, era in realtà un libro di ritagli di altri libri. Ormai non c'è più una sola parola, nelle canzoni di Dylan, che non rimandi certamente a qualche altra canzone o poesia o testo. Quando Dylan nella strofa successiva spiega al Cavaliere Nero che "le dimensioni del tuo uccello non ti porteranno da nessuna parte" ("the size of your cock won't get you nowhere") Alessandro Carrera ci rimane un po' male, gli sembra una caduta di stile; poi però si mette a cercare finché non trova un il riferimento, e questo in parte lo consola: sarà anche una caduta, ma è una citazione da Giovenale, Satira IX, dai, ci può anche stare. Si capisce che in questo modo potremmo perdonare a Dylan qualsiasi testo senza capo né coda – non è in fondo quello che facciamo da sempre? I sogni vanno presi per quel che sono: mentre ci sei dentro credi che abbiano una trama coerente, ma quando ti svegli capisci che la verità si fa vedere solo a sprazzi, qua e là, senza avvisare e senza salutare. Se c'è un buon verso (e ce n'è parecchi), teniamocelo per detto e ringraziamo: che altro vorremmo chiedere al Sognatore, più coerenza strutturale, più trama? Per queste cose c'è Netflix. Magari My Own Version of You all'inizio era un vecchio film in bianco e nero, magari Dylan all'inizio era Frankenstein, se non direttamente il mostro di Frankenstein deciso a fabbricarsi una compagna. E già qualcosa si sta sfilacciando, la "mia versione di te" è diventata una "versione di me", e nel frattempo le parole per associazione ne hanno evocate altre e Dylan non sa più cosa sta raccontando, ma che importa, "mica mi perderò in dettagli insignificanti".

Non è un procedimento consapevole, è semplicemente il modo in cui un anziano pensa e sogna. Se si trova sulla spiaggia di Key West, il punto della Florida più vicino a Cuba, gli viene in mente il presidente McKinley, che Cuba la conquistò agli spagnoli e ai soldati americani (tra cui Theodore Roosvelt) che si imbarcavano da lì; e che McK fu assassinato nell'anno in cui le onde radio arrivarono negli USA; ma a quel punto gli vengono anche in mente Radio Luxembourg e le altre emittenti radio pirata che cambiarono la storia della musica (però in Europa); intanto McKinley è diventato un profeta e un pirata, magari anche per allitterazione; e il suo assassinio non può che condurre Dylan a rimuginare sul ben più traumatico assassinio di Kennedy. È tutta una serie di sogni, il profeta non può uscirne. Key West è un posto dove andare in attesa dell'immortalità.

Dal Vangelo di Giovanni, 21,21-23: Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: «Signore, e lui?». Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi». Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che rimanga finché io venga, che importa a te?».

Insomma Dylan è vivo e continua a scrivere buone canzoni, le solite elegie e i soliti bluesacci, con testi sconnessi ma non più del solito. Ma anche in caso contrario, che motivo avevamo di stare in pensiero per lui? In qualsiasi momento arrivasse il Cavaliere Nero, non sarà già abbondantemente in ritardo? ("I’ve already outlived my life by far", riconosce in Mother of the Muses). Chi può dire di aver vissuto una vita altrettanto avventurosa e ricca di soddisfazioni. quanti altri dischi/capolavori abbiamo il diritto di aspettarci da un ottantenne? Ok, eppure è in giro da così tanto tempo, il vecchio Bob, che ormai sembra ingiusto privarcene. Secondo un'antichissima leggenda – già attestata in Gv 21,21-23 – San Giovanni Evangelista in realtà non è mai morto; è ancora da qualche parte che aspetta di assistere al Secondo Avvento di Gesù nella gloria. Questo potrebbe spiegare come mai in My Own Version of You Dylan lo inserisca in una serie di pianisti celebri, tra Leon Russell e Liberace. I critici americani restano perplessi, ci informano che ai tempi di Giovanni Evangelista il pianoforte ancora non esisteva: grazie critici americani, se non ci foste voi. Ma se l'Apostolo Che Gesù Amava non fosse mai morto, dove potrebbe essersi nascosto per tutti questi secoli? Un tizio che a cent'anni scriveva l'Apocalisse, cosa potrebbe fare a duecento, cinquecento, eccetera? È lecito immaginare che abbia scritto qualche apocalisse in più. Appena ha potuto si è messo a imparare qualche strumento, di sicuro quando hanno inventato il pianoforte aveva già qualche secolo di esperienza con le tastiere occidentali, e anche la chitarra elettrica per lui sarà stata una robetta. Solo la voce l'ha sempre tradito per quel matusalemme che era. E così eccoti qua, Giovanni Apostolo. Come dobbiamo chiamarti? Ebreo errante, Robert Zimmerman, Jimmy Reed?

Abito in una strada che ha il nome di un santo, le donne nelle chiese hanno addosso cipria e fondotinta. Qui pregano ebrei, cattolici e musulmani, ma so riconoscere un protestante da un miglio. Arrivederci Jimmy Reed, Jimmy Reed, proprio te: dammi la cara vecchia religione, è quella di cui ho bisogno...

Un altro esempio di come Dylan può far impazzire gli esegeti americani, che qui insorgono: cosa c'entra Jimmy Reed con la "old time religion", cosa c'entra l'ubriacone autore di Bright Lights, Big City con Gesù? Sono domande che è inutile porre all'inconscio, e in particolare all'inconscio di Dylan dove da sempre "cristianesimo protestante" e "blues" sono corridoi paralleli e comunicanti. Se aggiungi che "religion" nei vecchi brani blues e folk può essere la magia nera (e quindi il blues), capisci come tutto possa significare sempre il contrario di tutto, e il senso vada cercato proprio in quell'opposizione. Dylan ha nostalgia del vecchio blues come della vecchia America protestante: tutto questo multiculturalismo che vede trionfare nel suo quartiere non è che lo scandalizzi, ma a volte lo stanca; ognuno idealizza la sua infanzia e ai suoi tempi le chiese erano ancora segregate e le cartolerie, vi ricordate? vendevano cartoline delle impiccagioni. Era un mondo di contrasti, ma erano contrasti che Dylan ancora riusciva a capire. Senz'altro la vecchia religione dei predicatori e la vecchia musica dei bluesmen non sono la stessa cosa, ma Dylan le rimpiange assieme, nello stesso sogno che è la stessa canzone. Ed è un rimpianto senza velleità apocalittiche, Dylan non le rivuole davvero indietro, sta soltanto intonando un addio, l'ennesimo. Che altro dovrebbe fare.

Questo pezzo è l'appendice di un lungo viaggio che intrapresi sul Post quattro anni fa: ogni settimana raccontavo un disco di Dylan, dal primo all'ultimo che a quel tempo era Tempest (sui dischi di cover confidenziali, chiedo scusa, non ho ancora trovato niente da scrivere). Quando è uscito Rough and Rowdy Ways non sapevo bene cosa dirne, ho preferito aspettare. Non sono molto bravo ad ascoltare i dischi nuovi, ci metto mesi a separare il grano dal loglio, nel frattempo qualcuno avrebbe deciso per me se era un capolavoro o un'opera senile; qualcuno mi avrebbe aiutato a risolvere gli indovinelli. Non è andata così. I critici per lo più lo hanno trovato buono, ma con accenti entusiasti che mi fanno dubitare della loro oggettività, e del resto come si fa a giudicare oggettivamente un disco di Dylan, che ormai è in una categoria a sé? La cosa più saggia è confrontarlo a Tempest, un disco meno compatto ma forse più avventuroso. Rough and Rowdy Ways in linea di massima è una raccolta di canzoni più riuscite, cantati con più raccoglimento da una voce che negli ultimi anni si è assestata – alla fine i dischi di cover sono stati un'ottima palestra – e non oscilla più pericolosamente tra il guaito e la tosse grassa. Dylan canta un po' meglio del solito, ma non è la prima volta che succede e non è la prima volta che ci fa rimpiangere certi brani assurdi che oggi non comporrebbe più, incisi con una voce a brandelli che oggi non ha più. Mancano i guizzi, insomma, gli alti e i bassi che ci tenevano svegli in altri dischi; è del tutto scomparso quello swing sui generis che aveva rianimato la sua carriera da "Love and Theft" in poi, insomma un brano come Duquesne Whistle nel nuovo disco non c'è e un po' lo rimpiango; non è che posso pretendere un'altra Visions of Johanna da un compositore ottantenne, ma un'altra Duquesne sì, non mi sarebbe dispiaciuta.

Dylan non è più lo scavezzacollo settantenne che le prova tutte, e quando gli va male scrive una litania interminabile come Tempest (la canzone), ma quando gli va bene azzecca un numero ipnotico e teatrale come Tin Angel. Sulla soglia degli ottant'anni sembra aver tirato i remi in barca: è ritornato ai vecchi blues in dodici battute ma se li fa cucinare dalla sua band più sporchi del solito, grezzi e chiassosi ("rough and rowdy"), con qualche incertezza ritmica che ci ricorda i suoi esordi elettrici. Tra un bluesaccio e l'altro una ballata: qua e là (soprattutto in Key West) si sente un'eco lontana delle atmosfere scoperte collaborando con Daniel Lanois. L'unico numero eccezionale è il finale, che nella versione CD sta su un disco a parte: l'interminabile elegia per Kennedy, Murder Most Foul, che uscì in anteprima l'anno scorso e di cui qui si è già parlato. E quindi? È un capolavoro questo Rough and Rowdy Way, o siamo tutti semplicemente inteneriti dallo spettacolo di un ex folksinger, ex rockstar, ex simbolo generazionale, che è sopravvissuto a ogni ondata che doveva travolgerlo, al punto che ormai gli perdoniamo qualsiasi caduta di stile, qualsiasi incoerenza e ripetizione, qualsiasi cosa ci canti, purché ci canti ancora?

Non saprei. Cioè è un buon disco, tutto sommato, però... mi lascia insoddisfatto, credo che in seguito lo considereremo un disco di transizione. Puoi sognare di meglio, vecchio Dylan, non fermarti. Ah, e buon compleanno.

Gli altri dischi di Bob Dylan: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 19621963: The Freewheelin’ Bob DylanBrandeis University 1963Live at Carnegie Hall 19631964: The Times They Are A-Changin’The Witmark Demos, Another Side of Bob DylanConcert at Philharmonic Hall1965: Bringing It All Back HomeNo Direction HomeHighway 61 Revisited1966: The Cutting Edge 1965-1966Blonde On BlondeLive 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert1967: The Basement TapesJohn Wesley Harding1969: Nashville Skyline1970: Self PortraitDylanNew MorningAnother Self Portrait1971: Greatest Hits II1973: Pat Garrett and Billy the Kid1974: Planet WavesBefore the Flood, 1975: Blood on the TracksDesireThe Rolling Thunder Revue1976Hard Rain1978: Street-LegalAt Budokan1979Slow Train Coming1980Saved1981Shot of Love1983Infidels1984Real Live1985Empire BurlesqueBiograph1986Knocked Out Loaded1987Down in the GrooveDylan and the Dead1988The Traveling Wilburys Vol. 11989Oh Mercy1990Under the Red SkyTraveling Wilburys Vol. 31991The Bootleg Series Vol 1-3 (Rare and Unreleased)1992Good As I Been to You1993World Gone Wrong, 1994MTV Unplugged1997Time Out of Mind2001“Love and Theft”2006: Modern Times2008Tell Tale Signs2009Together through LifeChristmas in the Heart2012Tempest2020: Murder Most Foul.

 

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C'è chi parte con il raga della sera

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Non vengo a fare il monumento a Battiato, non sono la persona adatta. Per forza di cose finirei per parlare di me, della cassettina della Prima Comunione con Cuccuruccuccù, del modo in cui i suoi pezzi mi arrivarono vibrando attraverso le pareti dalla camera di mio cugino, dal bambino che nell'estate '83 in una pensione di Pinarella intonava intonare efebicamente tutti i brani dell'Arca di Noè per un capannello di coetanei. E poi l'adolescenza, la scoperta del Battiato psichedelico di Fetus. E poi le docce fredde della prima giovinezza, lo scoprirsi traditi e quel che è peggio, traditi per Manlio Sgalambro. Non vengo a fare il monumento a Battiato anche perché vorrei distruggerlo, e usare i pezzi per fonderne uno a Giusto Pio, arrangiatore geniale inimitabile benché pluri-imitato. Ho amato Battiato come un bambino poteva amare la nazionale dell'82; ho detestato Battiato come un laureando serio non può che detestare tutto il Kitsch formato Adelphi. E poi, per tanti lunghissimi anni, Franco Battiato mi ha lasciato indifferente. Ecco, questo è il romanzo della mia vita ed è noioso.

Bisognerebbe invece parlare di Battiato ma c'è questo problema, che è stato tre o quattro artisti diversi e sono tutti interessanti. Il Battiato cantautore (in anticipo sui cantautori) che incuriosì Gaber, il Battiato artigiano del sintetizzatore, il Battiato concettuale a lezioni da Stockhausen, quello postmoderno degli anni Ottanta, e se finisse qui sarebbe già una storia notevole. Invece prosegue (io però preferirei fermarmi lì).  

Alla fine può darsi che sia tutto dipeso da una mera congiuntura economica, ovvero: a fine anni Settanta la gente compra sempre più 33 giri. Più ne stampi più la gente li compra, stava succedendo in tutto l'Occidente. C'è mercato per tutto, per la disco e per il punk e per lo yacht rock e per qualsiasi cosa che ti venga in mente di proporre, bisogna farsi venire in mente idee alla svelta, qualsiasi idea, bisogna vegliare alla stazione perché in qualsiasi momento può passare quel treno carico di frutti. Alcuni passavano di lì per caso, sono saliti al volo e sono ancora lì dopo quarant'anni che non credono al culo che hanno avuto. Altri erano farabutti senza arte né parte, gente alla ricerca di soldi facili e non solo riuscirono a farli, ma incisero anche dischi decenti, talvolta geniali, era un periodo così (c'erano anche ottimi musicisti cresciuti negli anni del prog in grado di lasciare impronte indelebili negli arrangiamenti). Altri erano onesti lavoratori che dopo anni di gavetta, finalmente coglievano il frutto del loro meritato eccetera – altri avevano passato buona parte del decennio immersi in cose non chiare nemmeno a loro, avanguardie artistiche, meditazione e/o esoterismi e/o musica elettronica, e però se c'era un momento in cui persino loro avrebbero potuto mettersi sul mercato e far soldi, quello era il momento, e Franco Battiato lo azzeccò. 

Il momento in cui da avanguardista con velleità stockhauseniane si ritrova a sbancare le classifiche e vincere Sanremo (da autore) è lo stesso in cui Dalla da interprete diventa cantautore, De Andrè da cantautore diventa il fondatore della world music, Paolo Conte da autore diventa uno spettacolo d'arte varia, Lucio Battisti anche lui diventa qualcosa che sinceramente devo ancora capire, Vasco Rossi azzera il concetto di rock italiano, gli Skiantos, Fossati, Bennato, Finardi, insomma tra il 1978 e il 1984 succede qualcosa di incredibile e, mi dispiace, mai più successo. È un periodo straordinario non soltanto per la quantità di talento rilevato – anzi può darsi che in altri periodi ne sia stato scoperto di più, allo stato brado – ma per il modo in cui tantissimi artisti anche di punta decidono di stravolgere la propria carriera, ognuno per una serie di motivi non sempre e del tutto chiari ma alla fine può darsi che tutto sia dipeso da una mera congiuntura economica: da qualche parte c'era un enorme mucchio di soldi che poteva piovere sul primo che azzeccava una formula diversa. Chi avrebbe azzeccato la frase (musicale) giusta, chi avrebbe venduto per primo il fatidico Milione di 33 Giri? I discografici avevano voglia di rischiare, puntarono su cavalli stranissimi e alla fine la gara la vinse Francesco "Franco" Battiato. Pensando a chi stava giocando in quel periodo viene la vertigine. Allo stesso tempo: c'è mai stata una vittoria altrettanto meritata? La voce del padrone è un disco che fa ancora paura, dal primo secondo all'ultimo non c'è niente che non funzioni. Melodico senza pudore ma senza mai scadere nel banale, sofisticato ma mai tronfio, sette tracce in mezz'ora e nessuna somiglia a quello che si ascoltava prima. Invece un sacco di cose che funzionano ancora oggi non esisterebbero senza La voce del padrone. Ho in mente tanti esempi che mi annoio al pensiero.

Viene spontaneo il paragone col Nome della rosa, non so se qualcun altro l'abbia già fatto. Stesso periodo, simili opportunità e considerazioni: il mercato dei best seller è in espansione, perché anche uno stimato semiologo non dovrebbe fermarsi un attimo e scriverne uno? Il rischio è irrisorio, la possibilità di sbancare è concreta. Ho letto tante cose su Battiato, lo stile il linguaggio eccetera, ma mi domando se la spiegazione più semplice non possa essere nella limpida definizione di postmoderno fornita da Eco nelle Postille al nome della rosa. Battiato vuole fare i soldi col Giro di Do (proprio come Eco vuol fare i soldi con una torbida detective story di monaci assassini). Bennato pochi anni prima col Gatto e la volpe ha preso il jackpot (è ancora lì che conta i soldi, Bennato), insomma sarà una sciocchezza ma perché non provarci, cosa abbiamo da perdere, l'integrità artistica? ah ah ah, ok, vai col Giro di Do. Battiato però non può più cantarlo impunemente: è costretto a ripescarlo, diceva Eco "con ironia, in modo non innocente".

Penso all'atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e che sappia che non può dirle "ti amo disperatamente", perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c'è una soluzione. Potrà dire: "Come direbbe Liala, ti amo disperatamente".  

Di solito si definisce l'ironia come l'espediente di dire una cosa affermando il contrario, procedimento spassoso ma di cui ormai conosciamo fin troppo bene le controindicazioni: un sacco di gente rischia di non capire male (cioè di prendere sul serio gli enunciati ironici). Per questo motivo il Poe dell'omonima legge suggeriva di corredare ogni affermazione ironica con un emoticon o qualche altro segnale prestabilito analogo alla strizzata d'occhio. L'ironia postmoderna però è quasi un'ironia al quadrato: per dire "ti amo" si dice in effetti "ti amo", però aggiungendo strizzate d'occhio a non finire, molto spesso sotto forma di sfoggi di cultura non richiesta. Perché alla fine, continua Eco, l'importante non è che i due conoscano Liala, ma che con la scusa di Liala riescano ancora a parlare d'amore. Battiato voleva scrivere canzoni da classifica e fare un sacco di soldi, ma doveva mobilitare tutto un apparato calassiano di aggettivi desueti, arcane antropologie, tecnicismi astrali, dopodiché il ritornello di Cerco un centro di gravità permanente è lo stesso giro di Do del Gatto alla volpe, e Battiato nel finale si spinge dove anche Edoardo Bennato non aveva osato, si mette a cantare "uacciu ari ari" e lui può farlo, perché è ironico, che grande invenzione questo postmoderno. 

Non c'è neanche più bisogno che tutti gli ascoltatori capiscano l'ironia: a molti di loro sfuggirà completamente, tanto è un Giro di Do, quelli lo avrebbero ballato comunque. Il peggio che poteva succedere è che prendessero sul serio i testi. Molti li hanno presi sul serio. Lo stesso Battiato non si è mai preoccupato di smentirli, apparendo sempre imperturbabile, come i veri mistici (ma anche i comici seri, alla Buster Keaton). Prospettiva Nevskij è un bozzetto o uno scherzo? Impossibile capirlo, però sta nello stesso disco di Frammenti, che è un cut-up di versi da sussidiario di Leopardi e Carducci e banalità da rotocalco ("che gran comodità le segretarie che parlano più lingue"). Ma cosa c'è di davvero ironico in Stranizza d'ammuri o Summer on a solitary beach? O è semplicemente un poeta spudorato che si è liberato del modernismo come ci si libera dei vestiti in un cespuglio, e non ha più pudore a cantare Mare mare mare voglio annegare / portami lontano a naufragare? Anche negli anni dei suoi successi postmoderni, a volte Battiato è semplicemente lirico e in questi casi, fateci caso, diventa subito molto più chiaro. "Da una finestra di ringhiera mio padre si pettinava; l'odore di brillantina si impossessava di me". Non c'è niente di enigmatico nella Stagione dell'amore, o nella stessa E ti vengo a cercare. Al massimo c'è quella vena di critico della modernità che con gli anni, è fatale, trasforma qualsiasi pioniere in un querulo laudator temporis acti. Lo si sentiva già nell'Era del cinghiale bianco, in Up Patriots to Arms e  Bandiera bianca, ma comincia a diventare preponderante con Povera patria. I tempi stavano per cambiare, si chiedeva agli artisti un maggiore impegno o perlomeno di non lasciar passare Mani Pulite fischiettando in un angolo.

Il Battiato che continuo ad amare ma scoprendo che mi costa fatica è proprio quello lirico, da Orizzonti perduti in poi. No Time No Space è il momento in cui comincio a trovarlo buffo: credo fosse l'estate del Live Aid, ormai un po' d'inglese lo masticavo e quell'"especially tonight" non potevo perdonarglielo, e dire che ancora per anni avrei continuato anch'io a comporre canzoni in un inglese immaginario, ma non è quello che ci si aspetta da un grande autore e intellettuale. 

Il Battiato che smetto di amare è quello post Fisiognomica, che alla fine è rimasto in scena per più tempo. È quello sgalambriano che si fa il verso da solo e (quel che è peggio) lo fa inconsapevolmente: lo sfoggio culturale non è più una scusa per farci digerire successi pop, ma viene ribadito per accreditare l'immagine del Maestro, il guru che dev'essere preso sul serio, Ferretti non vede l'ora di prenderlo sul serio, lui stesso finisce per prendersi sul serio. Mi fa più simpatia come interprete, ora le sue pronunce mi fanno tenerezza. Resta fino alla fine un personaggio simpatico e fedele a sé stesso, che avrei avuto dozzine di motivi per trovare tronfio o inconsistente e invece non è mai successo: non l'ho mai sentito dire qualcosa di sciocco. Mi spiace che non ci sia più, e continuo a pensare a che fortuna ho avuto di crescere in quella manciata d'anni in cui alle radio si sentiva Voglio vederti danzare, e anche se spegnevo la radio le pareti della stanza trasmettevano le vibrazioni di Radio Varsavia, irradiate dal ghettoblaster di mio cugino. È stata un'educazione incredibile, i giovani d'oggi non sanno quel che si sono persi (e non ho nessuna intenzione di raccontarglielo).

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Questa canzone fa impazzire i fascisti?

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C'è una canzone di Bruno Lauzi su una balalaika che nelle steppe si annoia a suonare sempre le solite fredde canzoni e alla fine riesce a convincere un suo amico Flauto ad assumerla nell'orchestra Bolscioi. Come a Balalaika riesca questa opera di convincimento, Lauzi non lo spiega, siccome è una canzone per bambini; ma da lì in poi pende sulla protagonista come un sospetto di scarsa serietà che le strofe successive non dissolvono. Una volta approdata su un palcoscenico internazionale, Balalaika non tarda a perdere la testa per un Mandolino che se la porta a Napoli: addio Bolscioi, addio mie steppe.

La musica ovviamente segue l'evoluzione della storia, senza neanche troppo affaticarsi: balalaike e mandolino non è che suonino tanto diversi. Che è forse il motivo per cui i russi, con la loro pur straordinaria cultura musicale, appena riuscirono a captare sulla tv sovietica il Festival di Sanremo impazzirono. È come se la melodia italiana fosse kryptonite per loro. Ma la musica russa, agli italiani, che effetto faceva?

Il ragazzo nicchiava, una fiera, tarchiata e grinning figura. Da intorno e sotto aumentarono le insistenze e quello allora intonò «Fischia il vento, infuria la bufera» nella versione russa, con una splendida voce di basso. Tutti erano calamitati a quel podio, anche gli azzurri, anche i civili, ad onta della oscura, istintiva ripugnanza per quella canzone così genuinamente, tremendamente russa. Ora il coro rosso la riprendeva, con una esasperazione fisica e vocale che risuonava come ciò che voleva essere ed intendere, la provocazione e la riduzione dei badogliani. L’antagonismo era al suo acme sotto il sole, il sudore si profondeva dalle nuche squadrate dei cantori. 


storiaminuta.altervista.org

Poi il coro si spense per risorgere immediatamente in un selvaggio applauso, cui si mischiò un selvaggio sibilare degli azzurri, ma come un puro contributo a quell’ubriacante clamore. Qualche badogliano propose di contrattaccare con una loro propria canzone, ma gli azzurri, anche la truppa, erano troppo nonchalants e poi quale canzone potevano opporre, con un minimo di parità, a quel travolgente e loro proprio canto rosso? Disse Johnny ad Ettore che aveva ritrovato appena fuori della cintura rossa: – Essi hanno una canzone, e basta. Noi ne abbiamo troppe e nessuna. Quella loro canzone è tremenda. È una vera e propria arma contro i fascisti che noi, dobbiamo ammettere, non abbiamo nella nostra armeria. Fa impazzire i fascisti, mi dicono, a solo sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone. 
(Fenoglio, Johnny).

Nell'estate '44 Johnny nelle Langhe ascolta ancora i partigiani della Garibaldi cantare Katyusha in russo. A cento km di distanza, nel savonese, la canzone ha già un suo testo in italiano, opera del comandante partigiano Felice Cascione. La canzone l'aveva portata dalla Russia un effettivo del Genio Pontieri, Giacomo Sibilla. Sulla musica che Sibilia aveva sentito cantare nelle retrovie dai ragazzi e dalle ragazze russe, Cascione aveva riadattato un testo scritto pochi mesi prima, quando ancora studiava medicina a Bologna. Il vento, la bufera, le scarpe rotte, tutto l'apparente realismo della composizione, Cascione lo stava immaginando, né avrebbe avuto molto tempo per goderselo: in febbraio era già morto in un conflitto a fuoco.



Per una meravigliosa coincidenza, la lirica russa comincia con un'immagine primaverile ("Meli e peri erano in fiore") e quella italiana col furore dell'inverno: fischia il vento, infuria la bufera. L'originale è una canzone d'amore, a modo suo: Katyusha è un'eroina tanto quanto il bel soldato, lui custodirà la patria tanto quanto lei custodirà il suo amore (il che è altrettanto eroico, evidentemente), insomma, tutti facciano il loro dovere e la vittoria non tarderà. Il che non impediva alle ragazze russe di cantarla agli italiani nelle retrovie. Fischia il vento sfoggia un romanticismo completamente diverso: il fiero partigiano è votato alla morte, non ha donne a casa che lo aspettano o comunque non deve pensarci, il che lo rende tremendamente sexy: ma le donne devono contentarsi di donargli un sospir. 

Fischia il vento è molto più cattiva dell'originale, e in effetti se da bambino il nonno ti faceva sentire la versione italiana, quando ascolti certe versioni orchestrali russe ci resti di sasso a scoprire che l'inno della Garibaldi, in madrepatria, è una specie di Fin che la barca va. È un fantastico equivoco: un alpino ascolta una languida canzone d'amore stalinista e la porta in Italia dove le stesse note, le stesse arcane sillabe sembrano talmente minacciose da far impazzire i fascisti al primo ascolto. Balalaika e mandolino magari non sono fatti per capirsi, ma in amore è anche bello fraintendersi.
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Lennon voleva vivere. Ci stava riuscendo.

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I posteri si domanderanno se John Lennon abbia veramente posato i piedi sulla nostra stessa terra. Dopotutto Edipo è un mito; Buddha e Gesù Cristo sono personaggi più leggendari che storici; ma un figlio di un marinaio nato sotto i bombardamenti, squartato emotivamente da un padre che lo vuole in Nuova Zelanda e una madre che lo affida alla sorella; cresciuto da donne, poi orfano; ragazzo terribile in pantaloni attillati; giovane padre, chitarrista cantante e compositore pop, idolo delle teenager e del suo manager omosessuale; tossicomane, poi artista concettuale, leader pacifista sotto inchiesta federale, poeta maledetto, avvistatore di Ufo, rockstar in congedo permanente, morto per mano di un fan? Nessun mitografo o evangelista o romanziere postmoderno sarebbe riuscito a inventarsi un personaggio così. Eppure, alla fine era soprattutto un ragazzo che diceva quel che provava, come noi evitiamo di fare il più delle volte perché proviamo cose orribili o anche solo imbarazzanti...
(Da Getting Better, un libro sulle canzoni dei Beatles che i lettori del Post hanno potuto osservare mentre si stava scrivendo).

8 dicembre: John Lennon, musicista, profeta e martire

Buongiorno a tutti, mi chiamo Leonardo e sono l'orgoglioso titolare di un blog sul Post in cui tratto i santi del calendario come se fossero rockstar e le rockstar come se fossero santi del calendario. Nell'imminenza del quarantennale dell'omicidio assurdo che ha concluso la storia dei Beatles, posso esimermi dallo scrivere un pezzo in cui definisco John Lennon un martire, una figura addirittura cristologica, il divo che muore per i peccati dei babyboomer? Ho anche un libro in uscita, tengo famiglia, eccetera. E allora perché esito? Cosa mi trattiene? È complicato.

O forse no. C'è che fino a un certo punto era abbastanza facile incasellare i morti illustri del rock, geni vittima della loro sregolatezza. Quasi sempre si tratta di droga, per cui il coccodrillo si scrive da solo: ha voluto vivere troppo intensamente, la candela più grande brucia più rapidamente ecc. ecc. Con Lennon questo appiglio non c'è. Di sostanze fu un appassionato sperimentatore, ma oltre a essere spesso tra i primi a farne uso, fu anche tra i primi a lasciarsene alle spalle. Di vivere intensamente gli era capitato per qualche anno e aveva capito abbastanza presto che non gli piaceva. Il che non significa che la sua morte sia più assurda di altre. È anzi molto facile darle un senso. Ma è più o meno il senso che voleva dargli il suo assassino. È possibile scrivere dell'omicidio di Lennon senza tributare un omaggio a quell'individuo, che alla fine voleva semplicemente scribacchiare il suo nome sul Libro del Novecento, a costo di farlo col sangue, e c'è riuscito?

Riguardando al passato di Lennon, la sua fine tragica non stupisce, sembra quasi ineluttabile: a stupire è la lentezza con cui si compie. Quindici anni prima, davanti a una giornalista che lo era andato a trovare nel suo villino fuori Londra, il ventenne all'apice della fama si era lasciato sfuggire che i Beatles stavano diventando più popolari di Gesù Cristo. Era quel classico tipo di battuta lennoniana, paradossale ma non troppo, che i lettori inglesi ormai si aspettavano da lui: in patria passò quasi inosservata. Quando qualche settimana fu ripresa dalla stampa americana, causò uno di quei fenomeni che oggi chiamiamo shitstorm, e che sì, scoppiavano anche nei beati giorni pre-social network. Negli USA la battuta doveva suonare tanto più insopportabile quanto nascondeva un germe di verità: anche nelle comunità rurali il cristianesimo stava declinando, soppiantato da un consumismo globalizzato di cui Lennon e colleghi erano i profeti più rassicuranti e subdoli. Il consumismo avrebbe unificato l'occidente, gettando radici anche in alcuni Paesi dell'estremo oriente dove Cristo non era mai attecchito. Lennon aveva detto una verità, improvvisando: forse non diversamente da Gesù di Nazareth quando aveva annunciato la distruzione del Tempio: e come Gesù, per aver detto la verità, doveva morire.

Una foto dei Beatles viene bruciata per protestare contro John Lennon che nel marzo del 1966 aveva detto alla rivista Evening Standard che i Beatles erano più famosi di Gesù. Alcune radio degli Stati Uniti si rifiutarono di passare la loro musica e vennero organizzati piccoli falò dei loro dischi e delle loro foto, come questo fatto da Chuck Smith, un ragazzino di 13 anni, a Fort Oglethorpe, in Georgia, il 12 agosto del 1966.

Come capita quasi sempre in questi casi, l'indignazione collettiva nasconde uno choc culturale: Lennon, che a quel punto vendeva molti più dischi in America che in Europa, credeva forse attraverso il r'n'r di aver capito la cultura americana, ma ne ignorava alcuni tabù. Scherzare su Gesù Cristo era concesso in Inghilterra: non nell'America profonda, dove furono segnalati roghi dei dischi dei Beatles. Malgrado le scuse pubbliche, recitate da un John sinceramente contrito, il tour americano si trasformò un incubo logistico: è il momento in cui il fanatismo suscitato dai Quattro svela il suo lato minaccioso. Brian Epstein si accorge che garantire la sicurezza dei Quattro in un'America ancora più armata di quella di oggi è praticamente impossibile. Prima o poi era scritto che un fan più scoppiato o deluso degli altri avrebbe estratto una pistola. Cosa che inevitabilmente successe: e se non fu subito ma ben quindici anni più tardi, fu soltanto per l'insospettabile testardaggine con cui Lennon scelse di sopravvivere, ogni volta che gli fu possibile scegliere tra diventare un mito e restare tra i vivi.

Due anni dopo, un Lennon già molto diverso, consumatore ormai abituale di LSD, ha un'illuminazione e la confessa immediatamente al vecchio amico Pete Shotton. "Penso di essere Gesù Cristo. No, aspetta, sono Gesù Cristo". All'inizio Pete crede a uno scherzo, ma Lennon è serio. Ha già calcolato mentalmente quanto gli resta da vivere: se Cristo è morto a 33 anni... "Mi uccideranno, sai? Ma ho ancora quattro anni, quindi devo fare cose". Lo stesso giorno convoca i colleghi a una riunione di emergenza. "Sono Gesù Cristo", avverte. "Sono tornato. Questo è quanto". Nessuno è molto sorpreso. "Va bene", risponde Ringo sospirando (o sbadigliando?) "Riunione aggiornata, andiamo a pranzo". Quella sera, per una delle coincidenze incredibili della sua biografia, Lennon invita Yoko Ono a casa sua. Si frequentavano già, ma quella notte è diversa. La passano a urlare: registrano Two Virgins. Non si lasceranno praticamente più.  


Come il Cristo dell'Ultima tentazione di Scorsese, che quando la croce è già allestita dice no, e si rifà una vita con Maria Maddalena: dopo aver flirtato con l'autodistruzione (e introdotto sin dal 1964 un argomento tabù come la morte nei testi di un gruppo pop da classifica), quando il destino comincia a bussare Lennon fa tutto quello che gli è consentito per eluderlo. Quando i concerti diventano troppo rischiosi, Lennon smette di farli. Il sodalizio affettivo e artistico con Yoko Ono gli consente di distruggere la sua immagine pubblica di beatle, emotivamente insostenibile. Trova asilo a New York, nell'America libertaria che forse si illudeva avrebbe trionfato sul Midwest rurale che lo aveva respinto, in quella palingenesi rivoluzionaria che a fine Sessanta tutti ritenevano imminente. Quando diventa chiaro che la rivoluzione non si fa, Lennon capisce di nuovo di essere troppo esposto (la FBI ha aperto un fascicolo su di lui) e rinuncia anche al suo status di artista rivoluzionario. Si prende, col consenso della moglie, una vacanza dalla vita: è il cosiddetto lost weekend, trascorso a bere e scopare come la rockstar decadente che dopotutto aveva il diritto di essere. Avrebbe potuto restarci secco così: sarebbe stata una fine che tutti avremmo percepito come inevitabile, e invece no; anche stavolta Lennon riesce a fare un passo più lungo. Torna da Yoko, e vive con lei gli anni tranquilli e misteriosi del buen ritiro nel Dakota Building, l'ultima tappa di una lunga fuga cominciata dieci anni prima. A quel punto Lennon non era più una rockstar, né un profeta, né un rivoluzionario, né un artista: forse per la prima volta nella sua vita un uomo libero, un casalingo con un figlio da crescere. Il tragico destino che aspettava il successore di Cristo sembrava essersi allontanato per sempre – e invece era lì, paziente, acquattato all'uscita. Sarebbe stato sufficiente cedere a un richiamo naturale: rimettersi a cantare, incidere un disco, promuoverlo sui giornali e fare tutte le cose banali che i cantanti fanno, come firmare gli autografi, perché dal passato arrivasse questa scheggia impazzita che si portava tutte le frustrazioni accumulate in quindici anni, con una pistola in mano.

   

Con la sua morte, Lennon suggella il mito dei Beatles, la band che col passare degli anni è diventato persino più grande dei gruppi rivali, anche perché non era più possibile nessuna vera reunion che ne appannasse il mito. Era qualcosa che confusamente i fan dei Beatles avevano iniziato a sospettare sin dal 1969, esorcizzando le notizie di una crisi interna con l'elaborazione collettiva di quella assurda leggenda metropolitana che immaginava Paul morto e rimpiazzato. Come se i Quattro fossero troppo legati al momento più felice della loro generazione per permettersi di invecchiare. Metter su famiglia, litigare, mandar fuori dischi inevitabilmente inferiori ai precedenti, invecchiare da comuni mortali: ci hanno comunque provato. Ci ha provato lo stesso Lennon, anche se per lui è sempre stato un po' più difficile che per gli altri. In questi giorni ho cercato di riascoltare Double Fantasy, un disco col quale è sempre difficile confrontarsi. Se da giovane a mettermi in imbarazzo era la nudità vocale di Yoko Ono, la sua spudoratezza (che in fondo aveva anticipato il punk, e nel 1980 non veniva che a reclamare ciò che era suo), ora mi rendo conto quanto sia molto più difficile da accettare la serenità di John, il suo entusiasmo per una nuova fase della vita in cui magari per un po' di tempo gli sarebbe riuscito di essere contemporaneamente un musicista e una persona felice. È un rimpianto che non trova consolazione, almeno per quanto mi riguarda.
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Nell'immensità di un rebus

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È tutto un complesso di cose – l'autunno, spotify, gli incentivi turistici della regione Piemonte – che ha fatto sì che mi sia riaccostato a Paolo Conte, dopo anni di colpevole snobberia. E ora che grazie allo streaming posso riascoltarlo tutto in fila, mi capita quel che mi è già successo con altri maestri: lo spettacolo di un'intera carriera artistica è irresistibile, dopo un po' ci si innamora e basta. I primi album ascoltati anni fa su una cassettina mi erano sembrati acerbi, ora li trovo geniali e necessari. Gli ultimi che presi a nolo mi parevano ridondanti, ora invece mi suonano perfetti, insomma Paolo Conte è un genio, grazie tante, lo sapevate già, lo sapevo anch'io ma per molto tempo non mi è interessato saperlo. Ma non parlo di lui, io parlo d'altro. 


Parlo di me. Quel che mi lascia davvero incredulo, è il ricordo che ritrovo tra i solchi, del me stesso che cercava di farsi piacere Paolo Conte milioni di anni fa. No, sul serio: ero un ragazzino. Ho ricordi precisi della gita scolastica in Baviera, io che con un certo imbarazzo vado a chiedere in prestito a un ragazzo di quinta la cassettina di Aguaplano da ascoltare con un walkman, ma perché. Cosa poteva dirmi Aguaplano a sedici anni, siamo seri, con tutta la musica che c'era in giro come potevo davvero interessarmi alle vicissitudini di un avvocato di Asti rimasto bloccato in un mondo tutto suo, una specie di solaio pieno di buone cose di gusto tutt'altro che pessimo, tutta una poetica propedeutica a un dignitoso invecchiare in provincia – e dieci minuti prima stavo ascoltando, boh, Disintegration? Out of Time? Non ha senso. Non ha nessun senso. E almeno fossi stato il solo, ma no, eravamo un bel gruppetto – sui sedili posteriori, questi ragazzi di quinta si erano messi a intonare Genova per Noi, così, per il gusto di farlo, lo scrivo qua sopra perché faccio fatica a crederci. Te li immagini i giovani d'oggi ad ascoltare Paolo Conte? E forse dovrebbero, voglio dire, non è che in giro ci sia un granché di più interessante. Né suona più datato di quanto non suonasse già allora. Ma davvero, salvo un Best of in vinile tutto il mio Conte di liceale sta in cassette registrate, come i Pink Floyd e i RHCP. Non era roba che ascoltavo io. Era quello che ascoltavamo in giro. 

Ecco, questo a distanza d'anni mi lascia perplesso più di ogni altra cosa. Cioè io mentre facevo le versioncine o cercavo di capire gli integrali ascoltavo Gli impermeabili, e sul serio pensavo di apprezzarla? Come facevo a capire versi come "Sono venuto a suonare e di nascosto a ballare"? Come facevo a commuovermi per l'"ultima donna", o per quella che avrebbe potuto entrare nella mia vita con una valigia di perplessità? Chi era Duke Ellington per me? è possibile che lo credessi davvero un grande boxeur. Che ne sapevo del mondo adulto in cui si sbaglia da professionisti? Son tutte cose che forse comincio a capire adesso, e son trent'anni – un rebus.

Oppure appunto un rebus, intravisto su una Settimana Enigmistica che mio padre lasciava sul tavolo della cucina con gli spaghetti da riscaldare, ma arrivavo che erano le due e li mandavo giù freddi, e i rebus quasi mai li risolvevo, ma quella Settimana avrebbe potuto essere di dieci, venti, trent'anni prima, e i disegni sarebbero stati uguali, e nulla mi avrebbe mai fatto del male. E nella pagina delle barzellette, per rinfrancare lo spirito tra un enigma e l'altro, avrei trovato uomini di mezza età con velleità galanti, a volte naufraghi su isole deserte con palme e bambù, luoghi pieni di virtù: e nulla sarebbe mai cambiato (e nulla mi sarebbe mai costato). 

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Mi piacerebbe riaccenderti

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1. A Day in the Life (Lennon-McCartney, Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, 1967).

Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band non è il miglior disco dei Beatles, a quanto pare. Benché molti critici continuino a preferirlo a Revolver, quando poi si tratta di mettere in fila le canzoni succede quello che avete visto: Revolver ha due brani nei primi cinque posti, Sgt. Pepper salva la faccia col primo posto, ma per trovarne un altro (Lucy) bisogna scendere fino alla trentaseiesima posizione. Se volessimo fare una classifica degli album per piazzamento medio (una cosa che avrebbe ancor meno senso di quello che abbiamo fatto fin qui), Sgt Pepper sarebbe superato non solo da Revolver ma persino dalla versione USA del Magical Mystery Tour, che però più che un album è una compilation. Il tutto ci autorizza a pensare che alla fine la superiorità di Sgt Pepper stia più nella confezione che nella qualità delle canzoni: il famoso Concetto. A Day in the Life non ne fa nemmeno parte: è una specie di bonus, ma che razza di bonus. Fu la prima canzone che incisero, in un momento in cui non sapevano ancora esattamente che disco volevano fare – a dire il vero non hanno mai saputo esattamente che disco volessero fare, ma dopo aver inciso A Day in the Life erano persuasi che comunque sarebbe stato un capolavoro.  

A Day in the Life è il brano migliore dei Beatles. Perlomeno è quello che risulta dalle classifiche pubblicate on line dalle testate specializzate. A Day è in testa alla classifica di Vulture.com, di Ultimate Classic Rock, di Rolling Stone, di Usa Today, di Mojo e di Time Out. Solo quegli irriverenti ragazzacci del New Musical Express hanno concepito il pensiero trasgressivo di inserirla al secondo posto (dietro a Strawberry Fields), come del resto Entertainment Weekly (dietro a A Hard Day's Night). Insomma, intorno a questa cosa abbastanza fatua di scegliere la migliore canzone dei Beatles – una trovata che si fa apposta per generare discussione, e quindi via libera ai pareri più strampalati, in teoria – in pratica c'è un consenso tra gli esperti che raramente troveremmo quando si tratta di giudicare cose più serie. Questo malgrado A Day non sia poi una scelta così scontata e soprattutto popolare: ho il sospetto che molti ascoltatori distratti, in grado di riconoscere dalle prime note Yesterday o persino Ticket to Ride, potrebbero non identificarla (anche se riconoscerebbero la voce di Lennon). A Day in the Life è un esperimento che mette assieme cose che visibilmente assieme all'inizio non stavano; è tutto fuorché una canzone perfetta; cosa la rende allora una risposta quasi obbligata alla domanda "La migliore canzone dei Beatles", almeno per i critici?

A Day è tante cose, ma di sicuro non è la solita canzoncina per teenager. Non è neanche uno di quei motivetti svenevoli con cui Paul voleva conquistare i loro genitori. I Beatles sono la band più popolare del mondo, ma A Day in the Life non è un pezzo popolare, anzi: mobilitare una mezza orchestra solo per farla esplodere in un crescendo è una mossa orgogliosamente impopolare. Siamo i Beatles, possiamo fare tutto, e ora faremo esplodere il giocattolo. Avanguardia. Chi sceglie A Day in the Life ci tiene a ribadire questa cosa: i Beatles sono stati anche avanguardia. E noi che li studiamo, noi che compiliamo le classifiche: noi siamo gente seria.

In A Day si materializza per la prima volta sui solchi l'immagine del Lennon maturo, quello che più spesso associamo ai brani più famosi della sua carriera solista. Può trattarsi di naturale maturazione, o forse ad affiorare è un John che è sempre esistito, ma che fin qui non aveva avuto spazio e tempo per esprimersi. Sappiamo che diverse sue canzoni erano nate 'lente' nella sua testa, e successivamente accelerate su insistenza dei colleghi a cui servivano brani veloci ed eccitanti. Non sappiamo come suonasse, per esempio, Help!, la prima volta che la suonò. Ma A Day in the Life comincia con una progressione molto simile. Non solo: fosse uscito Sgt. Pepper anche solo venti giorni prima, i Beatles avrebbero potuto legittimamente rivendicare di essere stati il primo gruppo rock a costruire un brano intorno alla progressione del secondo movimento della Suite orchestrale n. 3 in Re maggiore (BWV 1068), di Johann Sebastian Bach, meglio nota in Italia come Aria sulla IV corda e, ancor meglio, Sigla di Superquark.

Ma Sgt. Pepper uscì il 26 maggio, quando ormai da due settimane l'etere inglese era irradiato dal successo dei Procol Harum, A Whiter Shade of Pale: un brano tra l'altro molto apprezzato sia da McCartney sia da Lennon. Quest'ultimo che si sappia non ha mai rimarcato la somiglianza: a differenza di Matthew Fisher e Gary Brooker, i due tastieristi dei Procol Harum, Lennon non aveva la cultura musicale necessaria per rendersi conto del prestito: era arrivato a Bach da solo, da autodidatta. Era alla ricerca di un tono greve, per commentare un fatto tragico che poteva averlo scosso (“I read the news today, oh boy”): l'incidente stradale in cui era morto il ventunenne Tara Browne, nobile anglo-irlandese e irruente protagonista della Swinging London (“He blew his mind out in a car”). Tara era stato l'iniziatore di Paul McCartney all'uso dell'LSD; McCartney ha sempre negato che la canzone parlasse di lui, anche perché in caso contrario bisognerebbe accettare il fatto che davanti alla notizia “abbastanza triste” Lennon non riesca a trattenere una risata (“Well, I just had to laugh”). E però sappiamo dall'intervista del 1970 che una reazione così incongrua è esattamente quella che Lennon sperimentava quando “moriva qualcuno vicino a lui”. “C'è una specie di risolino isterico, hi hi, sono felice che non sia toccato a me, quel buffo sentimento quando muore qualcuno vicino a te”. Lennon in questo caso si riferiva a Brian Epstein: A Day in the Life fu suonata al suo funerale.

Tara Browne

La prima parte di A Day si lascia interpretare come un'ulteriore pagina del diario oblomoviano inaugurato con Nowhere Man e proseguito con I'm Only Sleeping; Lennon legge il giornale, si accorge di un lutto ma invece di piangere non riesce a soffocare un risolino. La vita prosegue come se niente fosse, Lennon si mette a guardare un film, forse in tv e sarebbe la prima volta che l'elettrodomestico compare in una canzone dei Beatles. La sezione di John si interrompe su quel “I'd love to turn you on” che è stato interpretato come riferimento al sesso o alla droga (“Vorrei eccitarti”), ma potrebbe anche inconsciamente significare: vorrei riaccenderti, se ci fosse un pulsante per rimetterti in vita io premerei “on”. A quel punto Lennon non sa più come andare avanti, e chiede aiuto a Paul. A Day in the Life è una buona scelta per i critici anche perché sia Paul sia John fanno esattamente quello che ci si aspetta da loro: John è lamentoso, visionario, ermetico; Paul nello stacco centrale mette in scena se stesso come Principio di Realtà, un rispettabile membro della società che si sveglia in un mondo che sembra per un attimo ri-diventato normale, anche se basta un tiro di fumo ("had a smoke") perché il Sogno irrompa di nuovo, urlando, dalla finestra.

Come scrivono su UCR: "Art Pop doesn't get better than this". A Day in the Life è un oggetto artistico, cosa che magari non sarebbe facile dire per I Want to Hold Your Hand. Più che ascoltarla forse dovremmo appenderla in soggiorno. I Beatles sono sempre stati artisti sperimentali, anche quando la loro arte era ondeggiare il caschetto e cantare “yeh-yeh”: hanno sempre tentato cose nuove, e delle loro innovazioni hanno fatto tesoro tutti. Ma è all'altezza di Sgt. Pepper che l'innovazione diventa uno spettacolo in sé. A Day non è più evoluzione, è un gesto di ribellione nei confronti della forma canzone, è un taglio di Fontana, un papier collé di Picasso: e come in quei casi si presta molto bene a diventare un feticcio, i critici vanno matti per questo genere di cose.

Tutto questo però si potrebbe benissimo dire anche per Tomorrow Never Knows, che però non è prima in nessuna lista. A Day in the Life invece è un'ottima scelta per il primo posto perché sembra contenere tutti i Beatles. Scegliendo A Day si riesce nell'impresa impossibile di tenere assieme sperimentazione e melodia, orchestrazione e urlo primordiale. A Day in the Life è anche, malgrado i giochi di parole di John, un pezzo serio, persino lugubre: tanto più rilevante in un disco di allegre buffonate come Sgt. Pepper. L'urlo di John tradisce un senso di tragedia che non ti saresti mai aspettato in un disco rock. E tutte queste cose i critici le apprezzano. Voi che non lo siete, siete liberi di continuare a preferire Yesterday, Yellow Submarine, perfino Obladì Obladà – non vi giudica nessuno. Di sicuro non io. Io cercavo solo una scusa per scrivere qualche pezzo sui Beatles. Spero di avervi acceso qualcosa (come lo tradurreste "turn you on")? Alla prossima.

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Nulla per cui impiccarsi

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2. Strawberry Fields Forever (Lennon-McCartney; singolo del 1967; poi nella versione USA di Magical Mystery Tour).



Let me take you down”. Nell'autunno del 1966, ad Almeria, John Lennon era perplesso. Stava impersonando il soldato semplice Gripweed nel nuovo film di Richard Lester, How I Won the War; per esigenze di copione aveva dovuto tagliarsi i capelli, quel casco di protezione che più di ogni altra fino a quel momento aveva distinto i membri dei Beatles dalle persone normali. Lennon, che sul set riusciva a mantenere un atteggiamento professionale, fuori dal set si sentiva a disagio; la parte della persona normale non gli riusciva. Lontano dagli altri tre Beatles per la prima volta dall'inizio della vita adulta, scopriva di non riuscire a comunicare. "Nessuno penso che sia sulla mia onda", scrisse in una canzone. "Voglio dire, devo essere troppo alto, o troppo basso". L'onda sarebbe poi diventata un albero. Il cancello in ferro battuto della villa che aveva affittato gli ricordava quello del giardino della Stazione dell'Esercito della Salvezza dove sgattaiolava da bambino per giocare tra i rampicanti. La zia Mimi ovviamente glielo proibiva. "Non mi impiccheranno per questo", rispondeva. In effetti, non c'è nulla per cui essere impiccati (“Nothing to get hung about”). 

Per essere una canzone ispirata dall'Lsd, Strawberry Fields trattiene pochissime immagini: è notevole da questo punto di vista il contrasto con l'immaginario particolarmente vivido di quel super8 a colori che è Penny Lane. Anche i riferimenti alla Liverpool dell'infanzia, il Concetto unificante del disco a cui avevano iniziato a lavorare, non sono sviluppati: più che evocare Strawberry Fields, Lennon si limita a nominarla. Certo, quel "forever" sfoggia l'ambiguità del miglior Lennon: è un augurio a seppellirsi nella memoria dell'infanzia? O forse ci sta dicendo che tutta la vita adulta è un'illusione, e che da quel campo di giochi non è mai uscito? È bastato quell'ermetico "forever" a rendere un giardino di Liverpool uno dei luoghi più evocativi della cultura pop. John non fornisce ulteriori immagini, non gli servono. Siamo convinti che una canzone psichedelica debba essere visionaria. Vecchio luogo comune della cultura pop: dove ci sono allucinogeni, immaginiamo colori violenti, illusioni ottiche, geometrie frattali e qualche oggetto retrò completamente decontestualizzato. Anche Lennon più tardi avrebbe sentito la necessità di evocare un immaginario del genere, con Lucy in the Sky. Ma nel 1966, quando comincia a lavorare alla nuova canzone, Lennon più che una visione vuole esprimere una confusione. La canzone a un certo punto s'intitola It's Not Too Bad e il testo, più che ispirato dall'Lsd, sembra la trascrizione di un soliloquio: un esercizio di scrittura automatica. Il metodo era ancora quello di She Said She Said: sballarsi e poi prendere appunti. Ma ai tempi di She Said She Said era a una festa coi suoi amici, in una situazione protetta e sotto controllo: quando Peter Fonda aveva iniziato a delirare John si era trovato addirittura a interpretare un principio di realtà. Ora invece era solo coi suoi pensieri e i suoi pensieri non si ricombinavano. John Lennon era un personaggio pubblico apprezzato da giornalisti e pubblico per le sue risposte pronte. In Strawberry Fields si leva la maschera: finalmente può balbettare, confondersi, contraddirsi, e ne approfitta senza vergogna: "I think, er, no, I mean, er, yes, but it's all wrong that is I think I disagree". Già in passato aveva tentato di mimare il parlato, usare gli intercalari in funzione ritmica ("My baby buys her things, you know; she buys her diamond rings, you know"). Ora ne vuole fare lo stesso senso del suo discorso. È un'idea estremamente coraggiosa, vista la situazione. 




 “It's getting hard to be someone, but it all works out”. La situazione è la solita: la Emi vuole un disco nuovo. Almeno un singolo. Sono passati ormai sei mesi dall'ultima uscita pubblica: come può resistere il pubblico, e soprattutto come possono sopravvivere i discografici senza un nuovo prodotto dei Beatles? Rientrato a Londra, Lennon ritrova i colleghi e si sente subito a casa. La canzone però stenta a prendere forma. La Emi insiste. Si delineano, nell'occasione, i punti di forza che stavano facendo di Paul McCartney il leader in pectore del gruppo. Quando si tratta di produrre un singolo, Paul ha sempre un'idea abbastanza precisa di quello che vuole ottenere. Questo lo porterà a entrare in frizione con gli altri tre e persino con George Martin: ma è un vantaggio concreto rispetto a John, che non sa sempre esattamente cosa vuole, e quando lo sa non sempre riesce a spiegarlo. La canzone del resto parla proprio di questo: John non sa cosa vuole. "È facile vivere con gli occhi chiusi, fraintendendo tutto ciò che vedi". Significa che preferisce tenerli chiusi, come in I'm Only Sleeping, o che ha intenzione di aprirli? Anche stavolta ognuno può interpretare come preferisce. Lennon però non riusciva a decidersi. Voleva un disco che suonasse diverso da tutto quello che si era sentito fino a quel momento: ovvero? Voleva un pezzo avantgarde come Tomorrow Never Knows, ma avrebbe anche voluto dare al brano un'atmosfera soffusa. Alla fine com'è noto George Martin e Geoff Emerick cucirono assieme due versioni incise a velocità e chiavi diverse: qualcosa che oggi sarebbe difficile da realizzare con la tecnologia digitale, in un qualche modo riuscirono a farlo funzionare con forbici e nastro. Il risultato è un miracolo che desta ammirazione ancora oggi. Lennon non ne era soddisfatto. Ancora nel 1980 era convinto di avere subito un boicottaggio inconsapevole, da parte di Paul e George Martin. 

 “Always, no, sometimes think it's me”. Comunque alla fine il disco uscì, e ottenne tutta l'attenzione che si meritava. I Beatles avevano sempre cercato di sorprendere con qualcosa di nuovo, ma stavolta la sensazione di molti è che avessero nettamente esagerato: si erano fatti crescere i baffi, e nei filmati promozionali sfoggiavano costumi colorati che facevano a pugni con l'iconografia consolidata. Come previsto Penny Lane fu la canzone più programmata in radio e Strawberry la più discussa. Lo status di doppio lato A penalizzò la performance nella classifica inglese, impedendo ai Beatles di accedere al primo posto. Ma l'errore più grave che George Martin non smise di rimproverarsi fu la scelta di escludere i due brani usciti sul singolo dall'album in lavorazione. A quel punto il progetto di un viaggio sentimentale nella Liverpool dell'infanzia fu accantonato, anche se ne restano tracce disseminate in tutto Sgt. Pepper.
 

That is you can't, you know, tune in”.
Nel catalogo di Lennon, Strawberry ha una posizione centrale, per la quantità di riferimenti che rimandano al passato, e di spunti che proiettano verso il futuro. L'arpeggio che Paul suona all'inizio sul mellotron appena comprato è un parente lontanissimo di quel vecchio brano che suonava alle feste degli studenti per imitare i chansonnier: intorno al quale su istigazione di John, Paul aveva poi composto Michelle. Nel momento in cui la canzone sembra partire per davvero – a fatica, come un meccanismo che ci mette un po' a ingranare – mentre Lennon canta "to Strawberry field", l'accordo è di nuovo quel minore settima che Paul McCartney aveva scoperto in un brano di Joan Baez e aveva usato in I'll Get You, in attesa di trovare una canzone abbastanza evocativa. Nella seconda parte della strofa gli accordi diventano più semplici e in un qualche modo marziali, forse reminiscenti di qualche inno dell'Esercito della Salvezza che John ascoltava dalla casa della zia. È il momento in cui Strawberry diventa quasi la parodia di un inno religioso: la cadenza è IV-V-I (Re, Mi, La), con qualche incursione finale del Fa#- (VI). È una cadenza che i Beatles usavano sin dai tempi di I Want to Hold Your Hand, ma che nel 1967 diventerà un cliché del rock: Light My Fire, I Can See for Miles, la stessa All You Need Is Love. Pochi anni più tardi, diventerà il nucleo del ritornello di Imagine, che di Strawberry è quasi la versione semplificata: sulla progressione di "that is I think I disagree", Lennon canterà "and the world will beat as one". Nel frattempo, un po' le idee se le era chiarite.
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Arrenditi al vuoto. Sta splendendo.

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3. Tomorrow Never Knows (Lennon-McCartney, Revolver, 1966).

Non è morire. Tutte le canzoni dei Beatles sono esperimenti. Alcuni cercavano di ricreare il passato, ma molti guardavano verso il futuro, indicavano la forma che la musica avrebbe potuto prendere di lì a un mese, a un anno, a un decennio. Presto o tardi si sono realizzate. Tutte.

Sono nato nell'anno 4 dalla Caduta, credo che a questo punto possa essere utile saperlo. Ne avevo sette quando morì Lennon: non ho ricordi. Per me i Beatles sono sempre stati parte del paesaggio, tanto che in molti casi è stato difficile distinguerli da tutto il resto. Tutto quello che loro avevano realizzato sfidando il mercato e il ridicolo, quando cominciai ad ascoltare dischi risultava abbastanza normale. Era normale urlare "aiuto" in un singolo di successo, invocare la morte o la mamma; non era così strano cambiare tempo o tonalità. Obladì Obladà era l'ennesimo ska bianco dalla melodia facile e un po' scema: e il fatto che fosse il primo era una curiosità da eruditi. Helter Skelter sembrava metallo pesante, ma in giro c'era metallo ben più pesante. Gli inserti barocchi ormai erano un luogo comune della disco music. Quando iniziai ad ascoltare i Beatles, diciamo nell'anno 20 dopo Sgt. Pepper, tutte le profezie si erano già realizzate.

Tranne una. Quel brano assurdo alla fine di Revolver, con la voce di Lennon che sembrava uscire dagli altoparlanti di una discarica invasa dai gabbiani (c'è un suono in Tomorrow che da ragazzino ero convinto fosse il campionamento di un gabbiano e non riesco a convincermi del contrario). Ecco, Tomorrow Never Knows era l'unica canzone che non somigliava ancora a niente. E non mi dispiaceva.

Suppongo sia il motivo per cui la troviamo così in alto. Tomorrow è l'unico brano che agli ascoltatori della mia generazione è stato concesso di ascoltare prima che anche il suo potenziale profetico si realizzasse. È stata l'unica dimostrazione in diretta di quella cosa che avevamo dovuto imparare su libri o su riviste, ovvero che le promesse dei Beatles presto o tardi si avverano. E Tomorrow, quando si avverò? Quando fu raggiunta dall'orizzonte degli eventi, quando smise di essere una canzone sul Domani e diventò, anche lei, una canzone sullo Ieri?

Penso che abbia avuto a che fare con l'affiorare della rave culture a metà anni Novanta: il momento in cui progetti come Chemical Brothers o Prodigy sono diventati improvvisamente mainstream. Così, proprio nel momento in cui i palchi dei festival inglesi gruppi come gli Oasis riproponevano una versione addomesticata dei Beatles, come le mascotte di una specie di parco a tema sulla Swinging London, nei club della stessa città l'ultima profezia lennoniana veniva dissigillata, interpretata, consumata. Verso la metà degli anni Novanta comporre musica nuova significava ricomporre loop e, sorpresa, i primi a immaginare la musica come un montaggio di loop erano stati proprio i Beatles durante le sessioni di Revolver – peraltro senza troppo crederci: era un ripiego rispetto all'idea originale di Lennon che avrebbe avuto un coro di migliaia di bonzi tibetani. Difficilmente avrebbe funzionato così bene.

Tomorrow Never Knows ha l'efficacia dei brani jungle più riusciti di trent'anni dopo, che però potevano contare su apparecchiature ormai digitali in grado di sovrapporre quantità illimitate di piste. Geoff Emerick e McCartney potevano contare soltanto su un registratore a quattro piste, e i nastri andavano montati a mano. Che non si sia trattato di un lavoro semplice lo dimostra anche solo il fatto che la grande stagione della sperimentazione coi loop e i nastri finisce qui: persino in brani in un brano ancora orgogliosamente avangarde come Strawberry Fields il loro impiego sarà meno appariscente. Da Sgt Pepper in poi i Beatles esploreranno altri territori, ma non torneranno più veramente su questi, che a noi posteri sembrano i più estremi. Che non bastasse semplicemente montare un po' di casino con due o tre trovate di scena e gridare all'avanguardia lo dimostra una prova di lavorazione ripresa su Anthology: senza i 'gabbiani' e soprattutto il groove allucinato di Ringo, Lennon può salmodiare tutte le profonde verità che vuole, il brano non decolla. Ringo non è campionato ma si comporta esattamente come se lo fosse: (davvero, quanto era intuitivo quel ragazzo?) Il suo groove è la versione drogata di Ticket to Ride: in Ticket Ringo fingeva di attardarsi a zoppicare, qui accelera all'improvviso accennando uno sgambetto. Lennon spulciando dal Libro Tibetano dei Morti ci chiede di rilassare la mente, ma la sua asserzione è messa in crisi già dall'arrangiamento. Come in She Said She Said, la sua primaria preoccupazione sembra essere garantirci che [drogarsi] non è morire: un po' troppo insistente per risultare convincente.

Tomorrow Never Knows è ancora un gran bell'ascolto, ma devo avvertire i più giovani che non suona più oltraggiosa come trent'anni fa: e chissà che razza di pugno nello stomaco doveva sembrare cinquant'anni prima. I Beatles non andarono più avanti di così: non in quella direzione, almeno. Anche la musica leggera, trent'anni dopo, sembrò suggerire questa sensazione: a fine anni Novanta anche i loop erano stati addomesticati. In seguito c'è stata ancora ottima musica ma nel giro di qualche anno i critici hanno cominciato a sentire la mancanza di qualcosa. Un'idea di suono nuova, qualcosa che non consistesse semplicemente nell'isolare e recuperare questo o quel dettaglio del passato. Sulle soglie degli anni Venti, la questione è rimasta aperta. Sembra che l'avvento della tecnologia digitale abbia reso tutto più semplice: comporre musica, arrangiarla, suonarla, apprezzarla... ma non inventarla. Siccome innovazione è semplicemente la manifestazione di un cambio di paradigma, un'ipotesi è che dal 1998 a oggi non sia cambiato nessun paradigma: i computer sono enormemente più potenti, ma sono ancora gli stessi computer. Le interfacce dei software per mixare le piste non sono nemmeno cambiate più di tanto. In compenso internet è diventato un archivio sterminato di ottima musica di un passato sempre più ingombrante; la nostalgia è diventata una commodity: chi si mette a comporre musica oggi non può più approfittare di quei vuoti di memoria che consentivano a Paul e John di creare nuova musica partendo da vecchi pezzi che non ricordavano di aver ascoltato. Se oggi un ragazzino si svegliasse con in mente una nuova Yesterday, Shazam entro colazione gliel'avrebbe già portata via. Sono tutte spiegazioni plausibili, al contrario di quella che propongo qui sotto.

Forse la musica è finita perché era tutta compresa nei Beatles. Come nel big bang, davvero. Ai miei tempi ormai rimaneva soltanto una stella da far esplodere: era Tomorrow Never Knows. Negli anni Novanta è andata anche lei, e ora? Ora magari con un po' di fortuna viviamo in un universo oscillante: tra un po' tutto collasserà e poi riesploderà di nuovo. Nel frattempo... Turn off your mind relax and float down stream.
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Nessuno è stato salvato

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4. Eleanor Rigby (Lennon-McCartney, Revolver, 1966).

Tutta questa gente sola, da dove salta fuori? A 29 anni Siddartha Gautama (in seguito conosciuto come Buddha, l'Illuminato), decise che avrebbe dato un'occhiata fuori dal suo giardino. Quando suo padre, il raja, lo seppe, fu colto da una grande tristezza, e dal presagio che ogni profezia si sarebbe avverata. Comunque mandò una pattuglia a ripulire le strade che il figlio avrebbe esplorato, con l'incarico di far sparire qualsiasi segno di corruzione fisica, malattia o vecchiezza: di radunare una claque di giovani ben vestiti e sorridenti, e di spargere petali di fiori. Tutto vano, giacché gli dei avevano deciso altrimenti: non aveva fatto che poche miglia in cocchio fuori dal recinto regale, che Siddartha si imbatté in un essere mostruoso, al punto da chiedere al conducente: "ma chi è quest'uomo con capelli bianchi e la mano aggrappata a un bastone, gli occhi nascosti dietro le rughe? È nato così o gli è successo un incidente?" Siddartha in effetti era cresciuto in un un palazzo separato dal mondo, un luogo di serenità e lusso dove non erano ammesse malattie e vecchiaia. Gli amici e i servi a cui capitava di ammalarsi o invecchiare venivano sostituiti nottetempo con amici e servi più giovani e sani, e così Siddartha Gautama era arrivato ben oltre la porta della giovinezza senza conoscere la malattia, la vecchiezza e la morte. Praticamente una rockstar.

Le quattro cose che vide Buddha nelle sue gite al di fuori dal recinto paterno:
un anziano, un malato, un cadavere e un asceta.
(Affresco in un tempio in Laos)

A 23 anni, Paul McCartney è il re di Londra, e Londra nel 1966 è la capitale del mondo giovanile. Di mestiere produce felicità, perciò intorno a sé può avere solo persone realizzate e felici. Se non sembri abbastanza realizzato e felice guardati in giro, prendi una pillola, fuma qualcosa: ridi. I suoi amici sono giovani, felici e realizzati e scrivono canzoni allegre e a volte un po' stonate ma ok. La sua ragazza è giovane, felice e realizzata gli fa ascoltare sempre cose nuove, ad esempio Vivaldi, forte questo Vivaldi. Ovunque va, trova giovani e giovanissimi emozionati dalla sola idea di condividere un po' di ossigeno con lui. Sembra un sogno, forse lo è, un recinto magico, l'illusione escogitata da un padre geloso per allontanare il più possibile la maturità, la sofferenza, la morte. Ma è tutto vano: Eleanor Rigby raccoglie il riso in una chiesa dove c'è stato un matrimonio. Da dove viene? Chi le ha permesso di entrare nel mondo di Paul? È comparsa per miracolo, come l'anziano creato dagli dei per perturbare la serenità di Siddartha Gautama.

Eleanor Rigby è la prima canzone in cui i Beatles ammettono la vecchiaia, e ne parlano col tono scandalizzato di chi un attimo prima nemmeno la prevedeva: tutta questa gente sola, ma a chi appartiene? In seguito Paul comincerà a premere per incidere quelle che John definiva "granny songs", canzoni della nonna: brani che trattano gli anziani con condiscendenza, se non rispetto. When I'm 64 è la prima: nel 1966 Paul l'aveva già composta ma non pensava di poterla incidere. Eleanor Rigby non è una granny song, tutto il contrario: lo smagliante arrangiamento vivaldiano non tragga in inganno. Paul ricorre agli archi per aumentare lo straniamento, farci sentire ancora di più la distanza con le tre scene che descrive. L'ottetto d'archi orchestrato con sicurezza da George Martin è come una cornice pregiata: all'interno un dramma in tre atti di squallore, solitudine e morte. L'atteggiamento condiscendente, crepuscolare che più spesso associamo a Paul qui è rovesciato con una spietatezza che ce lo fa rimpiangere. Non c'è nulla di commiserevole e crepuscolare nel raccogliere riso alla fine di un matrimonio: è un gesto squallido, racconta in un solo gesto una realtà di solitudine, invidia, miseria e disagio mentale. Per chi correggi i tuoi sermoni, padre McKenzie? Nessuno ti può ascoltare, nessuno sarà salvato. La vecchiaia è un peccato originale. Per chi rammendi i tuoi calzini?

L'inconscio è una bestia terribile. Dopo aver composto il primo quadretto, Paul non riusciva a venire a capo del secondo. Una voce interiore continuava a sussurrargli: "Father McCartney". E benché l'idea di mettere letteralmente il padre in una canzone sulla solitudine e la morte lo lasciasse perplesso, la voce continuava a insistere. Anche John Lennon, diabolico, trovava che "Father McCartney suonasse molto bene". Ringo aveva proposto di aggiungere "darning his socks", e Paul aveva accettato senza forse ricordare che dopo la morte di sua madre Jim McCartney aveva imparato, tra le altre cose, a cucire. "Ma che gli importa" (“What does he care”) è una frase che da adolescente Paul deve avere ripetuto milioni di volte, mentre il padre obiettava sull'acconciatura da teddy boy o sul taglio dei pantaloni. Alla fine l'unico sistema per togliere il nome del padre dal quadro fu cercarne uno simile sul dizionario: come incollare un volto su quello già disegnato. Jim McCartney aveva già quarant'anni quando Paul nacque; durante l'adolescenza doveva essergli sembrato molto più anziano e fuori dal tempo di quanto non fossero i genitori dei suoi amici; e anche più solo. Eleanor Rigby è una canzone insolitamente amara per Paul McCartney, cantata su un registro che esprime meno tristezza che sdegno. La vecchiaia è uno scandalo che Siddartha-Paul tollera a malincuore, qualcosa che non dovrebbe essere consentito. Eleanor non lascia nulla di sé, se non tracce di terra sporca che il padre McKenzie scuote dalle mani.
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Alcuni per sempre, non per il meglio

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5. In My Life (Lennon-McCartney, Rubber Soul, 1965).

1965 © David Bailey
There are places I remember. Comincia tutto così. La fase intermedia dell'epopea beatle, quella che va da Rubber Soul a Sgt. Pepper, la preferita dai critici. In My Life è il brano che in un qualche modo la inaugura: il primo in cui Lennon si guarda indietro ammette di avere un passato, ricordi, rimpianti. Due anni dopo, Sgt Pepper sarà ancora un tentativo di ambientare canzoni e personaggi in quei "posti", in un paesaggio sentimentale. Ma tutto era iniziato con In My Life, e In My Life all'inizio non era che uno scartafaccio di Lennon, una lunga lista di "posti" e nomi e circostanze, che non aveva le caratteristiche per diventare una canzone e non lo sarebbe diventata, senza l'intervento di Paul.

L'episodio ricorda da lontano quello raccontato da Dylan a proposito del testo di Like a Rolling Stone, che all'inizio era uno sfogo di pagine e pagine, trasformatosi in canzone attraverso un severo procedimento di sottrazione. In My Life è forse il caso più eclatante in cui le testimonianze dei due autori divergono: Lennon la reclamava come quasi completamente sua; McCartney ritiene di avere operato un intervento decisivo, ma afferma anche di essersi ispirato a Smokey Robinson, ovvero a uno degli autori più seminali per John. Quindi il John di In My Life potrebbe essere uno dei più estremi travestimenti di Paul. Il caso è così controverso che due anni fa un pool di ricercatori della Stanford University ha usato proprio In My Life per testare un metodo statistico di attribuzione, basato sulla frequenza con cui determinati stilemi musicali ricorrono nella produzione di Lennon e in quella di McCartney: la conclusione dell'esperimento è che ci sono 18 possibilità su mille che il brano sia stato scritto da Paul. Caso risolto? No, perché appunto, se Paul avesse voluto scrivere un brano alla John avrebbe proprio imitato gli stilemi che i computer della Stanford sono stati educati a riconoscere.

Quel che è sicuro è che il risultato finale è completamente de-liverpoolizzato: è un brano che parla di ricordi, ma non ricorda niente. Sostiene di rammentare dei "luoghi", ma non spiega quali siano. Ci sono persone vive e altre morte, ma non ha intenzione di presentarcele. Tutto l'immaginario audio-visivo che costituirà il fascino di Penny Lane, qui resta fuori del quadro. Al centro del quadro, un Lennon insolitamente eloquente ci intrattiene con un discorso che rasenta il grado zero della poesia: nessuna immagine insolita, anzi, nessuna immagine: una riflessione che viene spontaneo tradurre in prosa. Ci sono posti che mi ricordo, nella mia vita, anche se alcuni sono cambiati. Alcuni per sempre, non per il meglio: altri sono andati e altri sono rimasti. Ogni posto ha avuto un suo momento con persone e con cose che posso ricordare. Alcuni sono morti, altri sono vivi: nella mia vita li ho amati tutti. È chiaro che qui in fase di scrittura è intervenuta una forte censura, ma non dobbiamo per forza dare la colpa a Paul. John ha sempre privilegiato l'ambiguità, e fino all'incontro con Yoko Ono ha sempre evitato di appesantire le canzoni con riferimenti troppo personali. Si considerava pur sempre un "professional songwriter", uno che non scrive per fare spettacolo dei propri sentimenti, ma per descrivere quelli di tutti.

Anche in questo risiede la grandezza di In My Life: un brano che scarta l'opzione autoreferenziale ma aiuta ognuno di noi a riconciliarsi col proprio passato. È un brano che possiamo ascoltare nel momento in cui decidiamo di dedicarci alle persone che non ci sono più, o ai posti che sono cambiati. Sin dall'inizio ci accoglie con un riff elegante ma pacato. È scritto in un inglese basilare, che capiamo al primo ascolto e possiamo ripetere come se fosse nostro. Non parla di niente in particolare e parla di tutti noi. Inoltre è una canzone double-face, possiamo vestirla in due modi e ci sarà comoda ugualmente. Se ci soffermiamo sulla prima strofa, abbiamo deciso di vestire i panni del nostalgico. Se passiamo alla seconda, riveliamo una più matura e serena disponibilità ad affrontare presente e futuro: di tutti questi amici e amanti, non ce n'è uno che si possa paragonare a te. E tutte queste memorie perdono significato, se penso all'amore come a qualcosa di nuovo. E benché sappia che non perderò mai l'affetto per le persone e le cose che sono venute prima [che razza di paraculo!], e non smetterò mai di pensare a loro... nella mia vita, io amo più te. Così alla fine tra il crepuscolarismo di McCartney e il futurismo di Lennon, è il secondo a vincere. Anche se abbiamo la sensazione – più facile da condividere che da spiegare – che questo fosse uno dei casi in cui si erano scambiati le parti: che John avesse più voglia di ricordare e Paul più spinta a guardare avanti. Non cambia molto in fin dei conti: erano ancora quasi la stessa persona, quando John cantava In My Life.

Mi sarebbe piaciuto finire così, ma mancava un cenno sull'assolo di pianoforte accelerato, che per i tempi era un esperimento pionieristico in due direzioni speculari: quella avanguardistica (George Martin incidendo il pianoforte sul nastro rallentato s'inventa uno strumento) e quella classicheggiante, anzi baroccheggiante. Il problema è che così si rovina l'effetto finale... d'altro canto non succede un po' la stessa cosa anche con la canzone? Non introduce in un brano misurato, che vuole dire una cosa sulla memoria con le parole più semplici a disposizione, un dettaglio barocco completamente straniante, gratuito? Non è l'elemento dissonante che ti fa dubitare della sincerità di tutto l'insieme? No, evidentemente no, evidentemente a tutti piace In My Life proprio così com'è.
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Meglio meglio meglio meglio meglio meglio sììì

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6. Hey Jude (Lennon-McCartney, singolo del 1968).


Ehi Jude, non prendertela a male. Dopo il divorzio Cynthia Powell Lennon visse ancora per un po' nel villino a Weybridge con Julian, che nel 1967 aveva cinque anni: l'età di Please Please Me. Un giorno di giugno ricevettero una visita di Paul McCartney. "Io e Paul ogni tanto facevamo qualche giro assieme – più di quanto capitasse con papà. Eravamo molto amici e sembra che ci siano molte più foto di me e Paul che giochiamo assieme a quell'età, che foto di me e mio padre". Paul porta in dono una canzone per Julian – dice che gli è venuta in mente in macchina. Possiamo almanaccare su cosa Paul potrebbe avere ascoltato, durante quel tragitto in macchina – probabilmente nulla, ci vuole silenzio per immaginare una canzone. Oppure potrebbe essersi sintonizzato per un attimo su una frequenza che trasmetteva musica classica e catturato i primi secondi del Te Deum di John Ireland (malgrado il nome, è un compositore inglese del Novecento). Per poi cambiare stazione all'improvviso e incappare in un vecchio classico dei Drifters, Save the Last Dance For Me. O in Elvis Presley che cantava It's Now or Never, ovvero O Sole Mio. La canzone che Paul invece fa sentire a Cynthia e Julian sul pianoforte di casa si chiama Hey Jules ed è un invito a lasciarsi alle spalle un dolore. Probabilmente non contiene ancora il verso "the moment you let her under your skin", non molto adeguato al dramma di un bambino che sta vivendo la separazione dei genitori; sappiamo comunque che Cynthia si commuove. Julien scoprirà solo vent'anni più tardi che Paul McCartney ha scritto Hey Jude per lui. Sempre che sia così vero...

Prendi una canzone triste e falla migliore. Da altre testimonianze sappiamo in effetti che in quel periodo Paul sta facendo ascoltare questa canzone a tutti quelli che incontra. Durante un viaggio di lavoro gli capita di suonarla nel pub di paese nel Bedfordshire. La suona ai Bonzo Dog Band mentre sta lavorando al loro singolo (I'm the Urban Spaceman); ai futuri Badfinger nel primo giorno di prove. Bonzo e Badfinger sono della scuderia Apple, per cui non c'è il rischio che gli rubino il pezzo; ma a Paul capita di suonarlo anche durante una sessione dei Barron Knights, vecchi amici ma comunque concorrenti. Forse Paul voleva assicurarsi, come ai tempi di Yesterday, che la canzone non fosse già in circolazione. Oltre ai Drifters e all'attacco del Te Deum, nel bridge Paul riprende una progressione che aveva avuto modo di ammirare in un grande successo di qualche mese prima, A Whiter Shade of Pale dei Procul Harum – una progressione ripresa dalla cosiddetta Aria sulla IV corda di Bach, già adombrata da Lennon in A Day In the Life. È un buon bridge – in generale Bach non è uno che ti lascia a piedi – ma Paul sente che manca ancora qualcosa e aggiunge una breve frase da cantare all'unisono con gli strumenti: "Da da da da da, da da da..." Per la coda invece ha in mente un giro di tre accordi, su cui cantare un'altra breve frase in coro. Parte in Fa, cade un tono indietro (Mi bemolle), raggiunge il Si bemolle, ritorna in Fa. Quando il coro ripete il Na Na Na sul Mi bemolle, introduce una lieve dissonanza che si risolve trionfalmente col ritorno al punto di partenza ("so let it out and let it in"): è un trucco che a un bambino viene voglia di ripetere all'infinito. Paul sta cantando a quel bambino, o forse vuole essere quel bambino ("don't you know that it's just you"?) È un buon segno. Hey Jude diventa l'ennesima metacanzone: Paul prende un motivo vagamente triste, e lo trasforma qualcosa di migliore ("better, better, better, yeah!")

Fino a Hello Goodbye, Paul si era divertito a prendere canzoni semplici e aggiungere digressioni e abbellimenti, ottenendo oggetti pregiati ma che potevano risultare artefatti. Con Hey Jude il procedimento è capovolto: Paul parte da riferimenti colti, ma si dà da fare quanto possibile per occultarli, per semplificare il più possibile il quadro, rendendolo accessibile a tutti, praticabile da tutti. Tutti devono cantare Hey Jude, tutti devono sentire che la canzone parla di loro. A Whiter Shade of Pale comincia con un riff di organo che fa urlare "Bach" anche a chi non ha mai sentito un disco di musica classica. Con Hey Jude non ti succede: Paul non ha necessità di farsi bello coi riferimenti culturali, è passata la fase in cui ci teneva a mostrare che ascoltava Vivaldi. Di Bach non gli interessa la parrucca, ma quel senso di serenità che infonde la contemplazione degli ingranaggi musicali dell'universo, l'effetto che la musica barocca infonde all'ascoltatore. Hey Jude è la canzone della maturità: più che giusto che Paul si immagini di cantarla al figlio che non aveva avuto, ma John sì.


Un negozio distrutto durante la Notte dei cristalli,
10 novembre 1938 (OFF/AFP/Getty Images)

Tu sei stato fatto per trovarla. Strada facendo "Hey Jules" era diventato "Hey Jude" che secondo Paul, "suonava meglio". Ci si mette un po' a capire perché – Jude non è un nome molto usato, ma proprio per questo è più difficile associarlo a qualcuno. Addirittura può riferirsi a un uomo, "Jude", ma anche a una Judith. D'altro canto se un nome è poco usato un motivo c'è, e Paul senz'altro non rifletté abbastanza quando gli venne in mente di spennellare il nome del singolo in imminente uscita sulle vetrine della boutique Apple appena chiusa in Baker Street. La comunità ebraica protestò formalmente; qualcuno la infranse con una sassata, provvidenzialmente, prima che fossero scattate troppe foto. "Non avevo la minima idea che Jude volesse dire ebreo" spiegò poi Paul; eppure un po' di tedesco doveva masticarlo (ai tempi di Amburgo avrebbe potuto persino vedere qualche traccia di vernice sui vecchi intonachi, se a noi capita di vedere ancora il nero Credere Obbedire Combattere sotto la ritinteggiatura di su qualche muro storico). Una delle caratteristiche che rendono simili i due grandi singoli mccartneyani del 1968-69 è il riaffiorare di un immaginario cattolico che Paul aveva sepolto sotto tonnellate di rock'n'roll. Magari è una coincidenza, ma in Let It Be c'è una Madre Maria, mentre Hey Jude porta il nome del discepolo che tradì Gesù Cristo. Come Gesù, Paul deve accettare il tradimento, “secondo quanto stabilito”, Luca 22,22. Bisogna anche dire che ci sono due Giuda tra i discepoli: uno tradisce, l'altro è di buon cuore, tanto che viene soprannominato Taddeo o Lebbeo. È il patrono dei casi disperati. Gli è attribuita una Lettera del Nuovo Testamento, un invito alla Chiesa a non smarrire l'unità, a non disperdersi in sette, a non mollare la band per inseguire il miraggio di un idillio famigliare, (quest'ultima cosa me la sono appena inventata ma probabilmente tutta la lettera è apocrifa).

Allora qui ci sono Brian Jones, Yoko Ono, John Lennon e il figlio Julian, Eric Clapton e Roger Daltrey agli Internel Studios di Stonebridge Park, Wembley nel 1968 (Hulton Archive/Getty Images)

Ma non capisci che sei tu? A differenza di Martha, la cui canzone avrebbe potuto offendere qualche ragazza ignara di chiamarsi come il bobtail di Paul, o Julia, una canzone che indicava una persona precisa e unica al mondo (in realtà due persone), Jude deve essere chiunque. E in effetti, chiunque ci si è riconosciuto. Non solo Julian, ma persino il padre. Ancora nel 1980, John era convinto che Paul, "inconsciamente", stesse cantando a lui, di lui, per lui: "l'hai trovata, ora va' e prendila". Il buffo è che quando aveva provato a dirglielo, "Ehi, questo sono io", Paul aveva risposto: "no, sono io". È un momento delicato: John ha divorziato e sta con Yoko, Paul è stato lasciato pubblicamente da Jane Asher, ma non sta ancora uscendo con Linda. In quel periodo passa molto tempo con Francie Schwartz, l'aspirante scrittrice che Jane gli aveva trovato nel letto arrivando in Cavendish Avenue nel momento sbagliato, e che gli diede una mano a spennellare “Hey Jude” sulle vetrine. Paul a volte se la prende con se agli studi di Abbey Road, proprio come John fa con Yoko. E per un breve periodo, dormono tutti e quattro in Cavendish Avenue. Paul ha rotto con Jane, John con Cynthia. Entrambi sono un po' Giuda; nessuno dei due particolarmente Taddeo.

Perciò falla uscire e falla entrare. Paul è combattuto; vorrebbe andar d'accordo con tutti, andare a trovare Cynthia e Julian e ospitare John e Yoko, ma questa persona venuta dall'altra parte del mondo a portargli via il socio non può non spaventarlo. Secondo l'unica testimonianza di Francie Schwartz, un giorno Lennon trova un bigliettino di Paul che forse voleva essere divertente (“YOU AND YOUR JAP TART THINK YOU’RE HOT SHIT”) e invece lo manda nei matti: lui e Yoko faranno subito i bagagli. Lennon aveva la tendenza a ritenersi il centro dell'universo, ma bisogna ammettere che "you're waiting for someone to perform with" è uno di quei mccartneyismi disarmanti e rivelatori: chi fino a quel momento in una canzone aveva mai pensato di definire un rapporto a due come una "performance"? d'altro canto John si era appena messa con una performing artist. Paul in Yoko aveva riconosciuto qualcosa di cui fino a quel momento non sapeva nemmeno di avere bisogno: una compagna di vita e di lavoro. John l'aveva conosciuta – e a quel punto i Beatles per lui avevano perso gran parte del senso. Paul no, e forse per il bene del gruppo sarebbe stato meglio non conoscerla mai. Eppure a questo punto Paul sospettava di averne bisogno. Si trattava soltanto d'incontrarla: nel frattempo la canzone era pronta.
Oppure l'aveva già incontrata (qui nel 1967 a una conferenza stampa per Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band.
Non ti portare il mondo sulle spalle. Per uno dei soliti paradossi, la canzone che Paul voleva suonare nel modo più semplice possibile fu la prima che i Beatles registrarono su un'apparecchiatura a otto piste, ai Trident Studios. Il risultato fu un sovrappiù di agitazione di cui la band non aveva bisogno. Gli orchestrali furono particolarmente sgarbati, come non risultava succedesse ad Abbey Road. Stavolta la partitura era così semplice che forse risultò offensiva. Paul li esortava dicendo "li volete i soldi o no?" Per convincerli a battere le mani nel finale gli si dovette offrire uno straordinario. Paul ammette di essersi comportato da "boss" in quell'occasione. Del resto i Beatles erano un'industria: occorreva rassicurare la clientela affezionata e i potenziali investitori. L'ultimo singolo non era stato un successo eccezionale. La boutique era stata quasi uno scherzo, da un punto di vista beatle; un flop con un pessimo ritorno d'immagine da un punto di vista imprenditoriale. Il viaggio in India aveva fatto discutere; il divorzio di John fa discutere ancora oggi. Serviva un segnale potente e Paul sapeva bene che segnale gli si chiedeva: un singolo che rimettesse in chiaro chi era la band più importante del mondo. Dopo averla suonata in lungo e in largo a parenti e amici, Paul aveva chiarissima l'immagine che la canzone avrebbe avuto: e nella sua chiarissima immagine non era previsto un ruolo per la chitarra solista. Quando Harrison propose di entrare nella strofa con un contrappunto, Paul disse semplicemente di no e George, altrettanto semplicemente, se ne andò. I tentativi di Paul di salvare il gruppo lo stavano sgretolando dall'interno.

Better better better better better better aaaaah! La lunga coda di Hey Jude è un anti-jam: invece di sfrenare gli strumenti, tutto si ripete senza sensazionali variazioni. Solo le urla di Paul creano un diversivo, ma non sono nemmeno in evidenza. Una volta svanito l'effetto sorpresa, non ci sarebbe bisogno di proseguire: ma è come se la band non riuscisse a smettere. Ancora un altro giro, dai, che ci fa sentire bene. Dopo un po' dovrebbe sfumare. In effetti comincia a sfumare, ma è un trucco: va ancora avanti per due minuti, e in totale ne occupa quattro su sette (qualcuno ci ha voluto vedere la proporzione aurea). George Martin era perplesso: un singolo così lungo le radio non l'avrebbero suonato. "Lo suoneranno, se siamo noi". Qualcuno attribuisce a Hey Jude la responsabilità delle derive sinfoniche del rock anni '70, i dischi concepiti come lunghe suite quasi sempre strumentali. Hey Jude è un segno dei suoi tempi: c'è ancora qualcosa degli anni '50 (i Drifters), c'è quel gusto retrò della seconda metà degli anni '60 che aveva portato alla riscoperta delle progressioni barocche; c'è un'idea – lungamente accarezzata dai Beatles – di realizzare canzoni come mantra, mandala musicali senza inizio e senza fine. Un'idea che viene da oriente ma che Paul depura da ogni elemento esotico: un altro messaggio che vuole dare agli investitori è che le follie indiane sono finite.



Il momento in cui la fai entrare sottopelle. Il disco alla fine venne esattamente come doveva venire. Paul era così entusiasta che portò una copia provvisoria alla festa dei Rolling Stones per il lancio di Beggars' Banquet (secondo alcuni rovinandola). Quando i Beatles suonarono Hey Jude in uno studio televisivo, erano di nuovo tutti e quattro assieme: anche Ringo, dopo essersi preso due settimane di ferie, era di nuovo al suo posto. Lennon scherzava, scambiava con Paul cenni di intesa che tutti erano felici di vedere: prove tangibili che la canzone non gli dispiaceva e che i Beatles esistevano ancora. E allo stesso tempo era pur sempre John: dopo la breve presentazione di David Frost, un attimo prima che le telecamere stacchino per il break pubblicitario, lo sentiamo urlare fuori campo "IT'S NOW OR NEVER". Forse un riferimento alla rarità dell'evento (ora o mai più!), già sottolineata da Frost? (in effetti fu l'unica occasione per i telespettatori di vederli suonare assieme nel 1968 e nel 1969, anche se a parte Paul erano in playback). Oppure il presagio di un possibile scioglimento? Ma più semplicemente John aveva scoperto una delle fonti inconsce di Paul, e non resisteva all'impulso di rivelarla in diretta: se la prima parte del ritornello di Hey Jude ricorda il Te Deum di Ireland, la seconda parte suona molto simile a It's Now or Never, ovvero a O sole mio 

Il movimento che ti serve è sulla tua spalla. Mi è capitato spesso in questi mesi di esprimere riserve su tanti mccartneyismi: versi involuti, scritti alla svelta e mai più rivisti, che Paul non riusciva a nascondere sotto l'alibi del surrealismo come il più sfacciato compagno. Lo stesso Paul era consapevole di non avere sempre le migliori parole a portata di mano. Magari gli sarebbe servito un piccolo aiuto da parte di John, ma ecco: a John certi mccartneyismi piacevano. Forse lo rassicuravano sulla sua maggiore caratura di paroliere, o forse in certi casi riusciva a capire Paul molto meglio di Paul stesso, molto meglio di noi. "The movement you need is on your shoulder" è un mccartneyismo che Paul sentiva di dover cambiare ("suona come se avesse un pappagallo sulle spalla"), mentre per John era "il miglior verso della canzone". È anche possibile che scherzasse, o che volesse dirgli che il resto della canzone aveva persino meno senso. Il risultato fu che Paul mantenne il verso, e da quel momento, ogni volta che lo canta, dietro quella spalla sente John, e ogni volta si commuove. Non dovrebbe? Adesso lo sai che sono soltanto dei folli quelli che non lo fanno, rendendo il mondo un posto un po' più freddo.
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Tu sai se ci credo e come

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7. Something (Harrison, Abbey Road, 1969).

Quando si parla di Something risulta inevitabile citare Frank Sinatra, che la incise due volte e la considerava "una delle migliori canzoni degli ultimi 50 anni". Una volta, con inconsapevole malignità, la definì la migliore canzone di Lennon e McCartney, il che è buffo ma non del tutto falso: avrebbe mai potuto scrivere e incidere Something, George Harrison, senza l'esempio dei due colleghi e la sfida che gli ponevano?




In linea di massima tenderei a fidarmi del vecchio Frank, che da Cole Porter in poi ne ha cantate davvero tante. Neppure lui tuttavia è riuscito dove i più grandi interpreti hanno fallito, ovvero a imporre la sua Something su quella dei Beatles. Nessuno ce l'ha fatta – e ci hanno provato in tanti. Yesterday sta sul Guiness dei Primati come canzone più interpretata, e anche Something si difende molto bene. Ma le versioni più ascoltate restano quelle originali. Forse per qualche anno la With a Little Help di Joe Cocker è rimasta competitiva rispetto a quella cantata da Ringo. Ma sulla distanza i Beatles vincono sempre.

Se qualcuno avrebbe potuto farcela però era proprio Sinatra. Non solo era il cantante più famoso del mondo (scusa Elvis), ma aveva scelto un brano un po' meno beatlesiano di altri: un brano che lo stesso Harrison per molto tempo non credeva adatto ai Quattro. A differenza di While My Guitar, che era già praticamente pronta all'inizio dei lavori del Disco Bianco, Something ebbe un'incubazione più lunga. Harrison cominciò a sentirsela in testa durante le sessioni del Disco Bianco, e per qualche tempo sperimentò l'angoscia provata da McCartney con Yesterday: la canzone era già troppo ben formata per non essere già stata composta e suonata da qualcuno. In ogni caso, non sarebbe stato facile proporla agli altri Tre: in un primo momento Harrison pensava piuttosto di scrivere un brano per il suo protetto, Jackie Lomax. In seguito la propose a Joe Cocker. Ma ancora nel gennaio del 1969, quando si rivede con gli altri tre nei Twickenham Studios, il brano non è finito. George rimane bloccato per mesi sul verso "attracts me like..." (Lennon a un certo punto gli suggerisce; "a cauliflower": mi attira come un cavolfiore. Harrison ci ride sopra ma alla fine conserva la rima: "no other lover").

Forse è un segno di quanto credesse nella canzone, di una certa ritrosia a lasciarla andare del tutto. Una volta incise le canzoni, non ci puoi più fare niente: se una parola non ti piace, non c'è più modo di cambiarla. George lo scoprì proprio quando in concerto tentò di cambiare le parole di Something: non si può più, la gente protesta. E anche le note, se non sono proprio quelle giuste, una volta incise non ci sarà niente da fare: la gente vorrà sentire quelle. A George dava noia il fraseggio del basso di Paul, la sua solita smania per occupare tutto lo spazio che si sarebbe potuto lasciare al silenzio. Troppo tardi, nella testa di ogni beatleomane Something è perfetta così, con quel basso ingombrante.

A chi insisteva a chiedergli se la canzone fosse dedicata alla moglie Pattie, Harrison rispondeva: stavo pensando a Ray Charles. Dopo il breve riff introduttivo che sembra voler mettere a fuoco un'immagine, la strofa di Something si muove intorno allo stesso gioco sperimentato con successo in While My Guitar, la linea di basso discendente; si ferma per un intervallo drammatico "I don't want to leave her now, You know I believe and now" e poi cambia chiave, di nuovo con un basso discendente: "You're asking me, will my love grow?" Qui c'è quel salto di tempo che Harrison aveva già chiaro nel demo, che testimonia la stessa insofferenza nei confronti della forma canzone occidentale espressa in Here Comes the Sun: George ha voglia di venire al dunque. La seconda strofa è dedicata al suo migliore assolo: se la chitarra di Clapton in While My Guitar gemeva, in Something la chitarra di Harrison si anima, discute, si domanda che senso ha innamorarsi e infine si abbandona al sentimento, un attimo prima di riassestarsi la cravatta e riprendere il riff con cui si era presentata all'inizio.
Harrison riprende a cantare e se volessimo cominciare ad annoiarci, questo è il momento: ormai abbiamo sentito strofa, bridge e assolo, si sa che per convenzione le canzoni devono andare avanti ancora almeno per un altro bridge, anche se ormai quello che si doveva sentire si è sentito. Non abbiamo fatto in tempo a formulare questo pensiero che abbiamo di nuovo il riff davanti: ci saluta e ci congeda, la canzone è finita.


George ci ha risparmiato il secondo bridge: un piccolo regalo per aver creduto in lui. Forse ci ha lasciato insoddisfatti, ma forse è il motivo per cui stiamo già per rimetterci ad ascoltare Something. Un brano che forse condivide con Yesterday l'archetipo di partenza (Georgia On My Mind), ma sembra lasciato volutamente incompleto, con fessure e irregolarità che la fanno sembrare più fragile di quanto non sia davvero. Il motivo per cui poi per cinquant'anni tutti hanno riprovato a inciderla, e nessuno è riuscito a fare di meglio del fragile George forse risiede in questo: subiscono tutti la tentazione di correggerla, di stabilizzarla, di trasformarla in uno standard. Il che ha perfettamente senso e forse era anche l'intenzione iniziale di George, quando pensava di farla incidere a qualcun altro. Ma ciò che rende unica Something è proprio "il modo in cui si muove", quel tipo di bellezza che trae forza dalle sue imperfezioni. Come il sorriso di Pattie Boyd, con quella fessura tra i grandi incisivi centrali.
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Così ho acceso un fuoco

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9. Norwegian Wood (This Bird Has Flown) (Lennon-McCartney, Rubber Soul, 1965).

“Una volta ho avuto una ragazza, o forse dovrei dire che è lei che ha avuto me”. Norwegian Wood è una delle canzoni che hanno più diviso il fronte degli ermeneuti beatle. Il dibattito, per semplificare, verte su due punti che Lennon ha lasciato volutamente ambigui: il letto e il fuoco, l'adulterio e il crimine. Per una delle due scuole di pensiero, John viene attirato da una fan nel suo appartamento (i mobili in "legno norvegese" erano un classico degli appartamenti degli studenti), parlano fino alle due, poi lei decide di andare a letto. Lui protesta: non sono mica venuto qui per dormire nella vasca da bagno! Nella vasca o sul divano, in ogni caso quando si sveglia la ragazza è volata via come un'allodola, e allora per vendicarsi il protagonista dà fuoco all'appartamento. Il tutto raccontato con calma, con un sitar già ipnotico in sottofondo (è la sua prima apparizione in un brano beatle). Buono, eh, questo legno norvegese?


La seconda scuola di pensiero è meno drastica. John probabilmente riesce ad accedere al letto della ragazza; l'adulterio viene consumato; qualche ora più tardi si sveglia da solo (lei glielo aveva ben detto che lavorava al mattino), e si accende una sigaretta (o magari riattizza il fuoco in un camino). Buono questo legno norvegese. Ognuno è libero di scegliere la sua versione: l'ambiguità è programmatica. Il testo è costruito con un'astuzia che eleva improvvisamente John Lennon al rango di grande narratore e poeta: la frase allusiva che incornicia la storia ("isn't it good, Norwegian wood"?), il dettaglio del protagonista che si guarda intorno e non trova una sedia, una piccola delusione che ci prepara alla delusione più grande, adombrata ma non esplicitata. Con buona pace di chi preferisce il suo materiale surrealista o lisergico, o le sue pose da profeta/rivoluzionario, Norwegian Wood rimane uno dei suoi testi meglio congegnati. Fa sorridere il pensiero che un autore tanto devoto alla sincerità abbia dato il meglio di sé quando cercava un trucco per raccontare una sveltina senza che la moglie se ne accorgesse (o sentisse la necessità di accorgersene).

Lennon vuole vantarsi di avere una vita sessuale avventurosa, ma vuole anche darci la possibilità di credere che si tratti di una storia tutta matta su un tizio che dà fuoco ai mobili compatibili. Forse quel che gli premeva dissimulare non era tanto l'adulterio, quanto la sua iniziativa. Non sono stato io a farmela, è stata lei che si è fatta me: mi ha attratto con l'inganno, ha lasciato che le ore passassero, poi ha detto che se ne andava a letto e a quel punto non c'era altra possibilità, neanche un divano! Non potevo mica dormire nella vasca da bagno, no? L'inversione dei ruoli nel rapporto amoroso era un suo pallino sin dagli esordi: vedi in It Won't Be Long il fidanzato-casalingo che si strugge nell'attesa che l'amata faccia ritorno. Negli anni ruggenti della Beatlemania, passando da un letto d'albergo a un aeroplano a uno stadio a un altro letto d'albergo, il dubbio deve averli attraversati: sono io che mi sto facendo questa ragazza, sono io che sto approfittando della sua sconfinata ammirazione? O è lei che sta approfittando della mia ingenua golosità di giovane rockstar, è lei che sta prendendo appunti per la storia che racconterà alle amiche? Si sa che ogni storia è una storia a sé. Ma dopo Drive My Car in Norwegian Wood troviamo di nuovo una ragazza che prende l'iniziativa.

Il motivo per cui la seconda interpretazione risulta più credibile dipende soprattutto dalla musica, non drammatica ma evocativa, che suggerisce l'incanto di quegli incontri fortuiti che durano poche ore e ci lasciano un ricordo vivido per la vita. Certo, possiamo anche immaginare un Lennon completamente schizzato che aspira a pieni polmoni il profumo del legno mentre brucia, Norvegia, brucia! Ma la musica ce lo descrive più facilmente mentre fissa un soffitto di una cameretta sconosciuta, confuso tra i soprammobili e i trofei di una ragazza che in quel momento sta già pensando a qualcos'altro. Sono stato io ad averla, o è stata lei? E chi lo sa. Comunque niente male, questo legno norvegese.

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Gli ho detto Sì. Sì. Sì.

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10. She Loves You (Lennon-McCartney, singolo del 1963).

Pensavi di aver perso il tuo amore? Al quarto singolo, i Beatles sono già una macchina da guerra. Non fanno prigionieri, non hanno pietà di nessuno. In particolare non hanno pietà delle ragazzine. I loro brani sono bombe in un senso non metaforico: si propagano attraverso onde sonore, e interagiscono col sistema endocrino delle adolescenti causando svenimenti, orgasmi, crisi nervose. Li coordina un ingegnere spietato, Mr George Martin: è lui il responsabile di alcuni accorgimenti decisivi, ad esempio l'idea sfacciata di cominciare col ritornello, di modo che ormai non c'è più nessun preavviso, i Beatles come le V2: un attimo prima la ragazzina sta cercando una frequenza sulla radio, un attimo dopo She Loves You Yeah Yeah Yeah è a terra in un pozzo di lacrime e altri liquidi. Ma i veri geni del male sono i due giovani membri dello staff creativo, John Lennon e Paul McCartney: immaginateli mentre incrociano le chitarre e riflettono sul loro prossimo diabolico piano. Magari si stanno chiedendo: cosa possiamo cantare ancora che stracci il cuore a un adolescente? Quali sono le parole che a quindici anni ti avrebbero reso il ragazzo / la ragazza più felice del mondo? Qual è la frase che ti avrebbe alzato tre metri da terra, che ti avrebbe fatto vedere miliardi di colori in un film in bianco e nero? Esiste una formula del genere? Pensiamoci bene.
"Ti amo"?
"No, è troppo impegnativa a quell'età".
"Dici?"
"A sedici anni? Chi è che riesce a guardarti negli occhi mentre ti dice..."
"Aspetta. Cos'hai detto?"
"Che a quell'età nessuno ti dice Ti amo negli occhi. Al massimo..."
"Te lo mandano a dire".
"Già, ti mandano un amico"
"O un'amica. Oddio".
"Stai pensando anche tu?"
"Sì".
"...quello che sto pensando io?"
"Sìììì".
"Lei ti ama?"
"Sìììì".
"Dillo di nuovo".
"Sì".
"Lei ti ama".
"Sì. Sì. Sì".
"Lei ti ama".
"Sì. Sì. Sì, Sììììììììììì".


She Loves You (Yeah, Yeah Yeah) è una bomba. Suona anche un po' come una bomba, qualche manopola quel giorno ad Abbey Road non era girata nel verso giusto, i suoni sono smarmellati in un muro del suono accidentale ma comunque efficace, caldo: ti dà la sensazione di sentirla su una vecchia radio anche se stai ascoltando la versione rimasterizzata su un Hi-fi. Non ti dà il tempo di ragionare: è una ragazza che nel parcheggio della scuola sbuca dal nulla e ti avverte che la sua amica è ancora innamorata di te. Sì. Sì. Sì. Pensavi di averla persa, ma ieri l'ho vista e mi ha spiegato cosa devo dire, dunque, ha detto che ti ama, e questo non può essere un male; anzi, dovresti esserne felice, no? Lo sai che dipende da te, io trovo che sarebbe giusto. L'orgoglio può far male anche a te, dai, scusati con lei, perché lei... ti ama. Sì cazzo sì, mi ama. Nulla è perduto, tutto ancora possibile. Tra qualche anno saremo tutti un po' più grandi, anche i Beatles non potranno evitarlo. Scusarsi diventerà sempre più difficile, e i rapporti un casino: bisognerà imparare a discutere, a vivere accanto, un inferno. Loro continueranno a fare il possibile per procurarti la tua dose di dopamina. Ti canteranno che tutto quello di cui hai bisogno e l'amore; di prendere una canzone triste e farne un inno alla gioia; ti ricorderanno che dopo la notte il sole risorge sempre. Ma la gioia pura, svergognata, di quel mattino che in un parcheggio ti hanno avvisato che Lei Ti Ama, Sì, Sì, Sì, quella tutti gli strumenti esotici al mondo e tutte le tonalità più bizzarre non l'avrebbero potuta replicare. Con un amore del genere, dovresti essere felice. Se non siete esplosi in quel momento, non c'è probabilmente nulla al mondo che possa farvi esplodere. Magari è persino un vantaggio: in tal caso buon per voi.
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