Dante a scuola non è obbligatorio
26-05-2024, 14:00antisemitismo, Dante, Islam, italianistica, razzismiPermalink– L'insegnante di una scuola media trevigiana ha esentato due studenti musulmani dallo studio della Divina Commedia. In una riga, la notizia è questa. Sembra inventata apposta per discuterne, a lungo, e invano, in attesa di qualche altro spunto altrettanto pruriginoso. Quel che segue è un tentativo di segnalare i rami secchi della discussione, quelli che non porteranno da nessuna parte e che, se potessi farlo, andrei personalmente a segare ovunque spunteranno, sui media e sulle piattaforme sociali.
– La scuola media (secondaria di primo grado) è un luogo che tutti crediamo di conoscere e che invece nessuno sa com'è fatta. Non lo so nemmeno io che ci lavoro dentro, per via che ogni scuola riflette una situazione molto particolare, che cambia in fretta. Faccio fatica a capire cosa succede in altri corsi della mia stessa scuola, per cui non credo di poter farmi facilmente un'idea di quale sia la situazione che ha portato in un altro quartiere di un'altra città un insegnante a porsi il problema, a confrontarsi coi genitori e a prendere una determinata decisione. Prima di esprimere un giudizio dovrei come minimo parlarne con lui, sentire il suo parere – e possibilmente anche quello di altri osservatori diretti. I giornalisti dovrebbero fare questo, secondo me: andare a cercare insegnanti, studenti, genitori in grado di restituirci almeno un pezzo del contesto; invece salta fuori che dal tavolino di casa devono aizzare le vostre paure e suggerirvi che l'occidente è minacciato da fanatici che non vogliono leggere l'Inferno di Dante (e in compenso a quanto pare leggeranno qualche pagina in più del Decameron, non esattamente un testo di propaganda islamica).
– Una parte del contesto che ci sfugge, e che è cruciale, è il grado di alfabetizzazione degli studenti in questione. Ai giornalisti sembra sufficiente ricordare che sono musulmani, come se tutti gli studenti musulmani italiani (centinaia di migliaia) arrivassero allo stesso livello di conoscenza della lingua italiana nel medesimo momento: e invece no, abbiamo musulmani nati in Italia e perfettamente integrati già alla scuola primaria, abbiamo altri musulmani nati in Italia ma che non parlano italiano in casa, e altri appena arrivati che non parlano nemmeno la stessa lingua di altri musulmani nella stessa classe. L'Inferno è scritto in un italiano del Duecento che crea difficoltà anche agli italofoni laureati. Certo, puoi sostituirlo con una parafrasi. Se proprio t'interessa il contenuto, più della forma. Ma è da qualche secolo che abbiamo deciso esattamente il contrario: se togli il contenuto dalla forma, ti restano le elucubrazioni bassomedievali di un tizio che vagheggiava un Impero universale, che riteneva giusto che i non credenti fossero torturati per l'eternità, il cui poema consiste in una colossale lista dei Buoni e Cattivi stilata da lui, con tanto di premi per i buoni e torture per i Cattivi. Se proprio insisti a insegnare la Commedia a un ragazzino che non sa ancora bene l'italiano, devi semplificare di molto il messaggio, fino al punto che il messaggio potrebbe ridursi davvero a questo: se t'innamori vai all'inferno, se sei musulmano vai all'inferno, se mangi i tuoi figli vai all'inferno. A quel punto meglio leggere Boccaccio, davvero. O Baricco, e non lo dico da estimatore.
– Quello che ha fatto, l'insegnante aveva tutto il diritto di farlo. Dante alle medie non è obbligatorio; mi domando se lo sia mai stato. Ricorderemo ai lettori increduli, per l'ennesima volta, che "i programmi scolastici" non esistono; ove per "programmi scolastici" si voglia intendere un canone di testi e autori obbligatori nella scuola dell'obbligo. Non è che un canone italiano non esista, e non abbia contorni perfino troppo definiti (Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso, eccetera): ma non si è imposto per legge o circolare ministeriale. In caso contrario immaginatevi cosa starebbe succedendo oggi, con questo governo.
– Non solo è possibile completare serenamente il primo ciclo di istruzione senza aver mai aperto una pagina di Dante, ma non è affatto escluso che sia meglio così: perlomeno se lo chiedi a un insegnante del secondo ciclo, in nove casi su dieci ti scongiurerà di lasciar perdere Dante, lasciar perdere Manzoni e tutta la Storia della letteratura; che insomma sarebbe meglio che a dodici anni i ragazzi imparassero l'italiano su testi più adatti alla loro età. È un punto di vista che sostanzialmente condivido, anche se poi nelle mie classi di solito apro Dante, persino Petrarca, persino Ariosto – ma sempre sentendomi un po' in colpa, come l'insegnante che preferisce parlare delle proprie passioni che delle cose che più appassionerebbero i ragazzi. Diciamo che per un'ora alla settimana preferisco parlare di cose che conosco e che frequento bene, piuttosto di cose che i ragazzi farebbero meglio a scoprire da soli. Diciamo anche che mi fido di me, della mia capacità di introdurre Dante senza correre il rischio che qualche ragazzino trattenga le informazioni sbagliate e racconti in casa che la terra è al centro dell'universo, e ancora più al centro c'è Lucifero che divora i peccatori. E che forse mi sbaglio, perché di ragazzini ne ho avuti tanti e mica tutti li ho capiti, mica tutti potevano capire me.– Malgrado l'infosfera faccia il possibile per convincerci che ogni notizia sia davvero "nuova", per tenerci in un eterno presente in cui il nostro stile di vita è perennemente minacciato, perennemente sul punto di cedere a un'improvvisa avanzata islamica e/o woke, noi dell'opportunità di studiare Dante discutiamo da decenni e non sto esagerando: ho in archivio un pezzo del 2012, scritto meglio di questo perché era per l'Unita.it. Piccola curiosità: a quel tempo a sollecitare la discussione era Gherush 92, un "Comitato per i diritti umani" di evidente ispirazione ebraica: e infatti in quel caso la Commedia era definita un testo antisemita. Invece qualche mese fa, durante la campagna femminista #unite #rompiamoilsilenzio, due scrittrici pensarono che fosse il caso di denunciare "il sessismo, i pregiudizi di genere" nei manuali di Storia della letteratura, ma anche nella Storia della letteratura tout court, Commedia inclusa. Un intervento che al tempo mi lasciò perplesso, se non altro perché a ogni capoverso le stesse autrici sembravano pregare di non essere prese troppo sul serio: "Certo" scrivevano proprio dopo aver accusato Dante di sessismo, "la realtà dei testi e del loro contesto sarebbe più complicata di così, ma quello che rimane..." ecco, il problema è sempre questo: io posso anche provare a introdurre la Commedia ai dodicenni come l'oggetto complesso che è, ma cosa rimane?
– Ogni volta che qualcuno vi stuzzica un senso di indignazione minacciando la cancellazione della Commedia, fate questo test: trovate irritante un musulmano che non vuole studiare Dante? E se fossero gli ebrei di Gherush 92, vi irriterebbe ugualmente? E se fosse un collettivo di femministe? Il test potrebbe aiutarvi a capire il vostro contesto: cosa sareste disposti a rinunciare pur di salvare il fondamentale studio di Dante? Nel 90% dei casi temo si tratti della convivenza con la comunità islamica, una delle minoranze numericamente più importanti in Italia, che non ha rappresentanza giuridica e fiscale, i cui membri vengono trattati da ospiti temporanei benché spesso siano cresciuti qui e la Costituzione preveda che abbiano gli stessi diritti di Ernesto Galli della Loggia che crede che difendere l'Occidente e lo sterminio di Gaza sia la stessa cosa. Perché non abbiamo un simile fanatico musulmano a scrivere fanatismi analoghi su un'altra colonnina dello stesso quotidiano? Lo so che è una domanda retorica, ma vi rendete conto che un musulmano avrebbe lo stesso diritto costituzionale di GdL di intrattenerci con analoghe scemenze, che magari intercetterebbero un pubblico più vasto dei liberaloidi fulminati sulla via di Gerusalemme? Ce la fate ad accettare che i musulmani non sono ospiti ingrati; che hanno lo stesso diritto di vivere qui che avete voi, e che ci resteranno?– Chi parla di cancel culture, nel 90% dei casi esagera. Non siamo negli USA, non stiamo togliendo Dante dalle biblioteche scolastiche – e anche negli USA, non stanno tutti togliendo Mark Twain dalle biblioteche scolastiche. Chi sollecita a turno queste discussioni non vuole cancellare: vuole modificare il contesto che per amor di polemica finge di ignorare. Gerush 92 non voleva impedirci di studiare Dante, ma chiedeva al ministero di "inserire i necessari commenti e chiarimenti", come se nei manuali non ci fossero già: in controluce si stava proponendo come autorità in grado di suggerire questi "commenti": stava lottando per conquistare una visibilità e un'autorità. Le femministe non smettono di ricordarci che non vogliono cancellare Dante o Ariosto: ma vogliono dettare le condizioni; non solo denunciare il contesto, ma metterci sopra una bandierina. "La cancel culture si propaga attraverso prove di forza. Si individua un obiettivo e si martella finché l'obiettivo diventa indifendibile. Non ha così tanta importanza cosa abbia realmente detto o fatto l'obiettivo".
– L'unico ramo probabilmente non secco di questa discussione è la domanda che lascia in sospeso. I musulmani non vogliono leggere Dante? Ok, non è che abbiano tutti i torti. Gli ebrei trovano Dante antisemita? Eh, dagli torto. Le femministe lo trovano discutibile? Hanno decine di motivi per farlo. E noi? Perché pensiamo che valga ancora la pena di leggerlo, a scuola e altrove? Io risposte qua e là ne ho già date: ovviamente riguardano me, e al massimo i miei poveri studenti. Ognuno deve trovare le sue.
Dante potrebbe offendervi, attenzione
26-01-2024, 03:17Dante, essere donna oggi, italianistica, scuolaPermalinkVorrei riflettere su un piano diverso: cosa porta persone non stupide, non incolte, scrittrici, laureate, a produrre un tipo di testo del genere, una specie di parodia in cui una serie di autori e personaggi di epoche molto lontane dalla nostra vengono fotografati nella situazione che possa apparire più scorretta a un lettore contemporaneo? E cosa porta centinaia di lettori altrettanto colti e sensibili ad apprezzare il testo? Potrebbe essere semplicemente una pagina divertente e scritta bene, ma credo che ci sia di più: è una di quelle pagine che prima o poi su internet qualcuno doveva scrivere, come se troppo forte fosse l'esigenza di certi lettori di leggerla. Che tipo di lettori?
Nel pezzo c'è una "doverosa precisazione" in cui spiegano che non vogliono assolutamente cancellare Dante o Ariosto – ci mancherebbe – ma promuovere "uno sforzo di consapevolezza": il che poi implica che questa consapevolezza sui manuali non ci sia, e che a scuola gli insegnanti non si sforzino in tal senso. Questa è una delle cose che mi ha fatto più arrabbiare (cioè secondo voi esorto i ragazzini a trattare le coetanee come le trattava Nastagio degli Onesti?), ma effettivamente se vado a controllare nei manuali per la scuola media, non è che trabocchino di avvertenze sul fatto che Dante e Ariosto vivessero in epoche diverse con morali molto diverse che potrebbero risultare offensive ai giovani lettori. Quel tipo di disclaimer che la Disney sta mettendo su certi vecchi film, ecco, nei libri di scuola ancora non ci sono, è come se li dessimo per scontati perché insomma, Disney+ è alla portata del telecomando di qualsiasi bambino, mentre Dante deve per forza passare attraverso la mediazione di un insegnante. Insomma tutto dipende dall'insegnante e non posso escludere che ne esistano di quelli che approfittano dell'episodio di Paolo e Francesca per esortare i giovani alla continenza. Voglio sperare che non siano in tanti. Forse alla fine avevo torto ad arrabbiarmi così tanto, perché a loro modo le autrici segnalavano un problema: manuali e insegnanti dovrebbero essere più attenti a fornire, per ogni autore, il contesto storico. E però.
E però non mi pare che le autrici stiano chiedendo questo tipo di contestualizzazione. Anzi il loro "sforzo di consapevolezza" va verso l'esatto opposto: personaggi e autori vengono strappati dai rispettivi contesti storici e trattati da contemporanei (altrimenti come faremmo a scandalizzarcene?): ci viene proposto di riconoscere in Orlando il Vasco Rossi di Colpa d'Alfredo, in Leopardi un incel.
Il mio fastidio forse nasce da qui: ho un problema con chi ostenta intolleranza per il passato, come se non fosse la terra più straniera di tutte. A Dante credo si debba lo stesso rispetto che dobbiamo all'indigeno dell'Amazzonia: non gli spieghiamo che i suoi usi e i suoi costumi sono sbagliati; anche quando ci ripugnano dobbiamo accettare che sono il risultato di un adattamento al suo ambiente, di una civiltà la cui complessità potrebbe sfuggirci. Se leggiamo Dante, tra le altre cose è per imparare cose su di lui e sul mondo in cui ha vissuto; un mondo interessante anche solo perché era diverso dal nostro. Di sicuro non leggiamo Dante per spiegargli che si sbaglia, e che avrebbe dovuto comportarsi come ci comportiamo noi. Né per sentirci migliori di lui. O lo facciamo?
Mettiamola così. È noto che da quando su internet siamo tutti diventati i promoter di noi stessi, l'esigenza di esibire le nostre virtù è cresciuta in modo geometrico. Dobbiamo tutti dimostrare di essere in grado di sconfiggere le ingiustizie, o almeno di segnalarle; e siccome non sempre la cronaca ci provvede di ingiustizie fresche di giornata (e comunque la gara a chi le segnala per primo è molto serrata) ripiegare sui libri di Storia diventa un'alternativa comoda e a costi irrisori. Praticamente tutto quello che è successo prima del 2018 è discutibile, qualsiasi manuale è già un libro nero dei crimini dell'uomo bianco. Razzismi, prevaricazioni, femminicidi a ogni pagina. Prima o poi qualcuno doveva denunciare il sessismo di Boccaccio o di Petrarca, era inevitabile: e infatti non è stato evitato. Ovviamente non per cancellarli, no. Per far discutere, questo sì. Creare un po' di attenzione – e chi sono io per giudicare, davvero.
Si tratta di una mossa facile, ma forse più pericolosa di quel che sembra, perché... ma lo avete capito chi c'è là fuori?
Ci sono gli studenti.
Quelli veri, quelli giovani. Voi siete woke per modo di dire: eravate svegli/sveglie anche venti anni fa. Siete andati tutti a scuola, e per quanto possa essere stato mediocre il vostro insegnante, difficilmente vi ha minacciato di andare all'inferno se commettevate adulterio perché l'Inferno dantesco lo prevedeva. Questa cosa che scrittori di epoche diverse risentano di sistemi di valori molto diversi, l'avete sempre saputa. Fingere all'improvviso di accorgersene, di dover denunciare le pagine più tossiche, può far nascere un'accesa discussione, che è il motivo per cui si scrivono le cose. Ma accendere una discussione del genere in un ambiente dove passano gli studenti, è come lanciare fuochi artificiali a un benzinaio. Voi non volete veramente cancellare Dante e Ariosto, ho capito. Magari gli volete ancora un po' di bene, a quei due. Volete solo provocare una conversazione. Ma là fuori non c'è gente che vuole conversare: c'è gente che vuole leggere meno, o leggere altre cose, più attuali, più facili. Loro Dante e Ariosto non li hanno ancora letti, e se c'è in giro una clausola per non leggerli più, perché non dovrebbero attaccarcisi?
E non perché siano giovinastri deficienti tutti droga play e netflix – o forse sì, ma la loro ansia cancellatoria ha ragioni molto più serie delle vostre. Tutti gli organismi viventi tendono a minimizzare gli sforzi, e gli studenti sono organismi molto viventi. Potrebbe essere uno dei motivi per cui negli ultimi anni la prima domanda che si fa un giovane lettore davanti a un testo non è più "cosa sta cercando di dirmi questo testo", ma "c'è qualcosa in questo testo che potrebbe offendere me? o qualche altra minoranza sensibile?" Perché se c'è qualcosa, anche solo una parola, il problema è finito: il testo si cancella e si passa ad altro. Io capisco ormai che la parola con la N non sia più presentabile, ma immaginate di leggere una pagina dell'Autobiografia di Malcolm X a una classe che sonnecchia, quand'ecco che echeggia la parola con la N e li vedi svegliarsi di botto, scandalizzati: ehi, ma cosa stiamo leggendo? In realtà niente, non hanno letto niente. Hanno sentito solo la parola N risuonare nel silenzio. Hanno antenne per queste cose, che non percepiscono ciò che noi percepiamo con gli altri cinque sensi. L'indignazione è il sesto senso: riescono a indignarsi per quel che c'è scritto su un libro senza neanche averlo aperto, a volte appena dopo averlo intravisto dalla vetrina della libreria, sono incredibili.
Non ditemi che un po' non li invidiate. Una certa cultura cancellatoria può anche nascere dall'ansia che i giovani provano di fronte allo scibile umano: quanti libri bisognerebbe leggere prima di capirci qualcosa, non possiamo cominciare a buttarne via un po'? (continua)
I classici sono tossici?
22-01-2024, 01:18Dante, essere donna oggi, italianistica, scuolaPermalink(Premessa sul Post è comparsa una Storia tossica della letteratura italiana, che malgrado il titolo intrigante non è scritta da un tossico appassionato di letteratura italiana, e nemmeno è intossicante in sé. Si tratta invece di un atto di accusa contro la letteratura italiana per come la presenterebbero le antologie scolastiche, dove "il sessismo, i pregiudizi di genere, le vittimizzazioni secondarie" sarebbero "una costante". È una lettura molto avvilente per chi quelle antologie le ha lette davvero, alcune le ha amate, molte ne ha usate, insomma per chi a scuola ci lavora. Ma da che pulpito parlo? Ecco, qua sotto spiego da che pulpito; si vedrà che non è un granché).
Forse perché cresciuto in una casa dove libri ce n'erano, non tantissimi e non buonissimi, ma nemmeno così pochi, ho sin dall'inizio concepito la lettura come una sfida: i grandi non credono che io sia in grado di leggere 'sti tomazzi, io invece ci provo e (mica sempre) ci riesco. Con gli anni mi è rimasta questa tensione agonistica, per cui se devo scegliere cosa leggere, mediamente cerco ancora tomazzi che rappresentino una sfida, quelle robe che restano incomplete anche dopo duemila pagine, roba così. (Da giovane mi sono laureato in letteratura su un tizio che non sapeva letteralmente scrivere, per cui si arrangiava con le macchie d'inchiostro). Per contro gli scrittori viventi non mi dicono quasi mai molto: le rare volte in cui ci incoccio mi sale appunto quella tensione agonistica per cui una voce nel mio cervello comincia a dirmi: ah ma questo l'avrei scritto pure io (col terribile corollario: e perché non l'ho scritto?) e mi guasta un po' il piacere della lettura, ragion per cui preferisco continuare a leggere libri freak o non leggere proprio.
C'è il problema che nel frattempo mi sono trovato un posto nella scuola pubblica, di modo che il mio preciso mestiere sarebbe convincere i ragazzini a leggere: la mia missione, anche. Questo credo sia il mio più grande imbarazzo professionale: non il fatto che sono un disastro a compilare il registro o che ci metto secoli a correggere i compiti e millenni a consegnare i programmi; tutta questa disastrosità scompare di fronte al fatto che dovrei far leggere i miei studenti e mah, probabilmente sono la persona sbagliata per farlo.
C'è da dire che nulla è così cambiato rispetto a quando ero giovane io come la letteratura per ragazzi; negli anni Settanta/Ottanta c'erano classici consolidati che erano parte del paesaggio, Verne, Stevenson, Dickens, Twain, coi quali mi ero trovato abbastanza bene proprio perché li avevo affrontati presto con quella famosa tensione agonistica che diventava indispensabile quando si cercava di capire storie ambientate ancora nell'Ottocento senza ancora avere tanti strumenti culturali. E per quanto ogni tanto io ci provi, a suggerire libri così, mi rendo conto che tutto è troppo cambiato.
La letteratura per ragazzi è esplosa, dagli anni Novanta in poi; è il segmento di mercato più interessante e funziona in un modo tutto suo che faccio fatica a capire. Quel che ho capito è che il fatto stesso che la scuola sproni gli studenti a leggere ha prodotto un vero e proprio sottogenere di libri fatti apposta per essere consigliati dagli insegnanti. Ce n'è per tutti i gusti e per tutti i problemi: se vuoi parlare di bullismo c'è uno, dieci, centomila libri sul bullismo (a occhio ne vedo uno nuovo ogni volta che passo in libreria), se vuoi parlare di mafia c'è il libro che spiega ai giovani la mafia, la disabilità, la shoah, il terrorismo, la guerra in Ucraina, persino quell'altra guerra che Zuck preferirebbe non nominassi, ecc. Tutta roba che dovrei consigliare, e a volte lo faccio; purché non mi si chieda di leggerne. Non è il mio genere, ecco, ogni volta che sfoglio trovo tutto un po' troppo semplice, ma è semplice per me e ormai si è assodato che io sono il tipo di lettore sbagliato. In generale mi fido dei colleghi.
Ciò detto, ho notato che alla fine anche a me capita di discutere in classe di bullismo, di mafia, di disabilità, di terrorismo e di tutto il resto; e mi capita soprattutto nell'ora più strana della settimana, l'ora di letteratura. Un'ora che alle medie non è previsto che ci sia, alcuni colleghi legittimamente ne fanno a meno (altri invece ne fanno due o tre a settimana, sì, facciamo un po' quel che ci pare). È comunque prevista da tutti i manuali scolastici, che ormai la mettono in un volume a parte, e come molte cose previste dai manuali scolastici ha sorpassato quasi indenne tutte le riforme dal '68 in poi; nel primo anno c'è ancora la mitologia, Omero, Virgilio, i cicli carolingi e bretoni; dal secondo ci si cimenta con la storia della letteratura italiana senza risparmiarsi nemmeno Sao ke kelle terre; si legge un po' di Dante, avendo tempo pure Petrarca e un molto ripulito Boccaccio. Nel terzo anno si arriva ai giorni nostri passando dai Promessi Sposi – tutto questo con gran scorno dei colleghi delle superiori che continuano a ripeterci di lasciar perdere, non ne vale la pena, poi arrivano che odiano già Dante e i Promessi Sposi, vogliamo essere noi a far loro odiare Dante e i Promessi Sposi, sennò che ci stiamo a fare. Devo dire che li capisco; ogni tanto penso a mio padre che mollò l'Avviamento perché c'era un maestro che insisteva col latino e a Sozzigalli (MO), nel mentre che cominciava a ragionare col fratello di mettere su un'officina di autoriparazioni, mio padre non vedeva l'esigenza di perfezionare le declinazioni – a volte mi sembra di essere quel maestro, che perde tempo a far recitare Dante ad alunni che stanno riflettendo se valga la pena di mettere su un'analoga autofficina quando tornano in Pakistan. Non credo che l'insegnamento della letteratura sia indispensabile nella scuola secondaria di primo grado; anch'io ricordo di averne fatta pochissima e forse è il motivo per cui in seguito la letteratura italiana mi sembrò un terreno vergine e appassionante; l'unico motivo per cui insisto a farla è che sennò qualche genitore si lamenterebbe – no, aspetta, allora ci sono due motivi; il secondo motivo per cui insisto a farla è che è meglio insegnare una cosa che conosci che ti piace che altre cose che non conosci molto o che t'annoiano – no, aspetta, allora di motivi ce ne sono tre; il terzo motivo è che l'ora di letteratura è quella in cui alla fine riusciamo a parlare di qualsiasi cosa, compreso il problema del giorno.
Ovvero: c'è stato quel momento in cui si parlava dappertutto di violenza di genere, e non è che si potesse far finta di niente – anche perché dal ministero ci chiedevano il Minuto di Silenzio – e a quel punto probabilmente avrei dovuto cercare un brano nell'antologia che parlasse di violenza di genere, in quel modo semplice e piano in cui ne parlano tutti i testi di quell'antologia che mi fa morire di noia; e se non c'era (in effetti non ne ho trovato) avrei potuto cercare qualche brano in uno dei libri per ragazzi di adesso, e fotocopiarlo, senonché ci hanno chiuso la fotocopiatrice del plesso (giuro), per cui meglio di no. Mentre ci riflettevo, è arrivata l'ora di letteratura in cui di legge di Paolo e Francesca (cioè del femminicidio più famoso della letteratura italiana, e di un fatto di cronaca che aveva intrigato tutte le corti del Duecento) e così abbiamo avuto l'occasione di ragionare su quel verso tremendo, Amor che a nullo amato amar perdona, e sull'idea terribile che sottende: la pretesa che l'Amore del cuore eletto debba essere necessariamente contraccambiato; abbiamo riflettuto sul fatto che questa idea, che rifletteva il modo di sentire della sua generazione, Dante la mette in bocca a un'anima dannata che sta cercando inutilmente di alleviare la sua colpa, o di spostarla su qualcun altro, proprio come tu che appena ti faccio notare che non si lanciano le palline di gomma mi punti il dito sul compagno che te l'ha appena lanciata e fossi io Dante vi manderei anche voi due all'inferno assieme, abbracciati per l'eternità a lanciarvi quella pallina, e vediamo se la troviamo divertente.
Abbiamo parlato di possessività, abbiamo notato quanto Dante sia imbarazzato e sgomento durante l'episodio, perché l'altro colpevole su cui punta il dito Francesca è proprio la Letteratura, e Dante da giovane leggeva e scriveva precisamente le cose che hanno portato Francesca a conoscere i dubbiosi disiri; insomma come oggi si dà la colpa alla trap, nel Duecento si dava la colpa al Dolce Stilnovo e il primo ad ammettere che qualche colpa l'arte potrebbe avercela è proprio Dante Alighieri, Francesca è un rimorso che morsica al punto che non gli resta che svenire. E poi ovviamente abbiamo parlato di quanto ancora oggi sia forte questa idea della possessività – se io ti amo devi riamarmi, prima o poi lo farai – e di quanto alligni in noi stessi. Ma anche del fatto che oggi nessuno ti manderebbe all'inferno per un bacio o poco più, e che alla fine chi uccide 'per amore' Dante lo manda in un luogo assai più freddo e terribile dell'inferno (Caina attende chi a vita ci spense): ovvero, nel Trecento questo poeta aveva sulla questione idee più avanzate di quelle che avevamo fino a una generazione fa, quando a un marito che uccide per corna ancora si riconoscevano le attenuanti 'd'onore'.
Abbiamo parlato di tutto questo leggendo una ventina di versi di un poeta di sette secoli fa, la letteratura italiana ci consente questo. Dante, Boccaccio, Manzoni, Leopardi, sono autori che non mi stanco di rileggere in classe e ogni volta mi sembra di trovarci qualcosa di nuovo, mi sembra di trovare un parola interessante sul problema di cui stanno parlando tutti. Probabilmente è un'illusione scaturita dalla mia attitudine di lettore intensivo: leggo pochi testi, ma li leggo tanto e alla fine mi sembra di trovarci di tutto, una pareidolia culturale. Probabilmente qualsiasi testo abbastanza complesso è in grado di illuderci della stessa cosa; già con le Avventure di Pinocchio le possibilità sembrano infinite. E però ci sono anche altri libri che queste possibilità non ce le danno; ne ho visti in giro, non saprei definirli, ma ho la sensazione che molti di questi libri sia possibile trovarli negli scaffali della letteratura per ragazzi; libri che ti parlano in modo molto semplice di mafia, ma di mafia e basta; di guerra, ma solo di una guerra; di bullismo, ma come se fosse l'unico problema al mondo; di terrorismo, ma appena cambia il terrorismo non ti dicono più niente di utile, sono già da buttare via. Magari mi sbaglio, magari la mia diffidenza è basata soltanto sulla stanchezza... (continua)
Dante è un reazionario (e non l'abbiamo mai preso sul serio)
16-01-2023, 08:20Dante, italianisticaPermalinkÈ così strano che qualcuno definisca Dante come un pensatore di destra, conservatore se non proprio reazionario? Spero proprio di no, insomma Dante reazionario lo scrisse Edoardo Sanguineti, poeta sperimentale, dantista di prim'ordine e veterocomunista orgoglioso. Ma insomma basta dare un'occhiata a quello che scrive – e non sempre solo a come lo scrive. Il Dante della Commedia e della Monarchia è un uomo che nel mezzo del cammino della sua vita ha maturato una profonda diffidenza per la civiltà comunale in cui è cresciuto, e che cerca una soluzione in un ritorno all'ordine cosmico e politico. L'idea che ci fosse un qualche ordine cosmico-politico a cui tornare era di destra anche nel dibattito del 1300, Dante non è soltanto reazionario rispetto a noi (capirai): Dante è reazionario anche rispetto a gran parte dei suoi contemporanei, che vivono in un mondo molto più dinamico di quello a cui Dante guarda con nostalgia.
È così strano che se un sacco di gente se la prenda, se definisci Dante di destra? Purtroppo no: c'è questa concezione che siccome la poesia di Dante è un patrimonio culturale inestimabile, dovrebbe far parte di un canone condiviso e imparziale: i grandi scrittori non sarebbero di sinistra o di destra, sarebbero oltre. Balzac monarchico? Non va detto, lo vogliamo leggere anche noi democratici. Tolstoj pacifista? Ehm, bisogna contestualizzare. Ma contestualizzare cosa. Questa concezione, abbastanza sciocca quale che sia lo scrittore a cui è riferita, lo è particolarmente nel caso di uno scrittore come Dante, il cui capolavoro è la versione più elaborata mai concepita di una lista dei buoni (in Paradiso) e dei cattivi (all'Inferno). No, Dante non trovava tutti simpatici e non è previsto che sia simpatico a tutti.
È così strano che a sinistra qualcuno insorga e cerchi motivi per appropriarsi di Dante? No, anche perché le nuove generazioni hanno un'intransigenza che a volte un poco spaventa, e si domandano seriamente se si possa guardare un quadro di Caravaggio per via che ha ucciso una persona. Con Dante la questione è più spinosa: anche ammesso che non abbia ucciso nessuno (in battaglia ci è andato) quello che ci allontana da lui non è qualche dettaglio della vita extra-artistica, ma è proprio l'ideologia portante del suo capolavoro. Insomma bisogna fare qualcosa prima che il monumento davanti a Santa Croce finisca imbrattato e gli studenti chiedano la rimozione della Commedia dai programmi finché non sarà ammesso in Paradiso Brunetto Latini o qualsiasi altro rappresentante della comunità LGBT+. La cultura in fondo è battaglia culturale, lotta per l'egemonia.
Ma bisogna essere bravi. Da qualche parte ieri ho letto che Dante è di sinistra perché... perché è un migrante: è un anacronismo che non mi convince, certo, lo so, da che pulpito parlo. Per quel che mi riguarda, il modo migliore di trovare interessante Dante 'da sinistra' mi è sempre sembrato quello di concentrarmi sui significanti – non su cosa dice, ma su come lo dice. Più che perder tempo a cercare un Dante femminista perché fa parlare le donne (sì, ma perlopiù angelicate), io continuo a preferire il Dante auerbachiano, il Dante della realtà rappresentata: quello sì che è rivoluzionario, inconsapevolmente progressista e all'avanguardia tuttora. Non importa quanto desiderasse tornare all'Impero feudale: Alighieri quando mostra Ugolino che si morde le mani sta fondando il realismo moderno. Questo è il modo in cui mi approprio di Dante io. Anche se.
Anche se forse me la sto raccontando. Ce la stiamo tutti raccontando da secoli, un colossale equivoco che se Dante potesse guardarci dalla cornice dei Superbi, ne resterebbe sbalordito: dopo essersi fatto il giro dell'universo che si è fatto, e dopo essersi industriato a renderlo interessante, intellegibile, verisimile... noi come abbiamo reagito? Abbiamo preso sul serio i suoi serissimi ammonimenti? No, l'abbiamo preso per un poeta. Il che sarà pur vero, insomma è scritto in endecasillabi e con un'ispirazione poetica innegabile – ma quella era la semplice veste con cui un letterato manda in giro le sue idee.
Questo per me rimane il punto irrisolto, anche se considerata la quantità di studi dantistici che ci sono al mondo suppongo che da qualche parte qualcuno ci abbia già scritto più di un saggio, anzi biblioteche intere di saggi sull'argomento: perché non abbiamo mai davvero preso sul serio Dante? Perché sin dall'inizio non abbiamo creduto davvero che fosse stato all'inferno, e poi nel purgatorio, e poi in cielo? E abbiamo creduto a libri assai meno ispirati. Quanto a realismo, la Commedia batte tranquillamente qualsiasi libro della Bibbia, eppure la Bibbia per molti è ancora verità, qualcosa in cui credere. Alla Commedia non credevano nemmeno i primi lettori di Dante. Non è veramente strana questa cosa? Un visionario che descrive minuziosamente l'oltremondo con un realismo e un'attenzione alla continuity che poi non abbiamo più visto per secoli, mettendo all'inferno tutti quelli che non gli garbano (compresi diversi papi), come ha fatto a passare per poeta e non per profeta (e quindi per eretico)?
Dante si è salvato perché più che profezia sembrava letteratura: ma che differenza c'è? E soprattutto, non è che abbiamo inventato la categoria di letteratura proprio a partire da Dante, forse proprio per salvarlo concentrandoci sui significanti, perché se avessimo dovuto prendere sul serio i significati... c'era da bruciarlo subito?
Inferno XXXIII 1-78 (lettura notturna e spudorata)
25-03-2020, 21:58Dante, italianistica, poesiaPermalinkPurgatorio VI, 127-135
13-02-2014, 18:09Dante, governo Letta, Pd, RenziPermalinkdi questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l'arco;
ma il popol tuo l'ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: "I' mi sobbarco".
(Il PD ha tanti problemi: uno abbastanza trascurabile è il citazionismo ginnasiale che assale chiunque salga su quel palchetto, come se uno spettro di Veltroni vi aleggiasse sopra irrassegnabile: per dire oggi abbiamo avuto l'Attimo fuggente, Karl Kraus e altri incarti di cioccolatini di incerta attribuzione. E Dante. Civati ha citato il quinto canto dell'Inferno. Secondo me c'è andato vicino: ha solo sbagliato cantica. Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma [censura]).
e lascia pur grattar dov'è la rogna
19-03-2012, 11:00antisemitismo, Dante, ho una teoria, Islam, italianistica, scuolaPermalink"Vengono insegnati testi antisemiti, sia nella forma che nel contenuto, sia nel lessico che nella sostanza, senza che vi sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo. Un esempio emblematico è la Divina Commedia, caposaldo della letteratura italiana". (Dal documento "Via la Divina Commedia dalle scuole" del comitato per i diritti umani Gherush 92).Li hanno criticati in tanti, ma in realtà quelli di Gherush92 hanno capito tutto: in effetti io quando spiego l'Inferno di Dante in classe gliela metto giù proprio così. “È tutto vero”, dico ai miei pupilli, “lui c'è stato e la sua è una testimonianza oculare: se vi comportate male ci andrete, se fate la spia finirete conficcati per l'eternità in una calotta glaciale sotterranea al centro dell'universo (perché la Terra, vi rammento, è al centro dell'Universo, circondata da nove cieli di cristallo concentrici, e da Dio primo motore immobile); se nell'intervallo seminate la zizzania andrete nello stesso girone di Maometto e vi fate sbudellare tutti i giorni da un demonio preposto”. O pensavate che la spiegassi diversamente?
“Ma prof mi scusi, come fa la terra a essere al centro dell'universo se deve girare intorno al sole che è nella zona periferica di una galassia tra tante?”
“Chi è che ti ha raccontato queste cose?”
“La prof di scienze”.
“La prof di scienze sta seminando zizzania” (continua sull'Unità, H1t#117)
Qui vorrei cercare di spiegare che il Signore degli Anelli mi è piaciuto, ma mi ha anche derubato di qualcosa.
Credo che gli amanti di Tolkien non potessero ragionevolmente aspettarsi una riduzione cinematografica migliore di quella di Jackson. Non si tratta solo di fedeltà al testo: se è per questo di tradimenti ce ne sono, e parecchi. Ma è un film realizzato con molto amore, e l’amore si vede anche nei tradimenti.
Il problema è forse un altro: è un film realizzato fin troppo bene. Senza scomodare scenografie ed effetti speciali, guardiamo solo il casting. Frodo è Frodo, Bilbo è Bilbo, Gollum è Gollum. A un anno e più di distanza, mi sembra di avere sempre immaginato gli hobbit coi volti dei loro attori, tanto bene sono stati scelti. Eppure, quando ancora il film non c’era, io devo aver avuto un altro Gollum in mente. Ma com’era fatto il mio Gollum? Non me lo ricordo più. Il Gollum del film si è perfettamente sovrapposto a quello della mia immaginazione.
È davvero così? Da qualche parte ho ancora il megatascabile Rusconi (Rusconi era l’ex funzionario Rizzoli che pubblicava le cose non all’altezza del grande gruppo editoriale: i pettegolezzi sui Savoia e il Signore degli Anelli). Apro a caso. C’è Sam Gamgee che spia gli orchetti. (Mi piace sentire gli orchetti parlare: per una volta Tolkien ci fa sentire l’altra campana). Il dialogo alla tana di Shelob copre un paio di pagine: nel film sono solo un paio di battute. Gli orchetti assumono una personalità un po’ più complessa. Ma Sam Gamgee? Non c’è niente da fare: nella mia mente ha il volto dell’attore. Per forza. Come potrebbe averne uno diverso?
Vale per quasi tutti i personaggi: elfi, nani, uomini: che volto avevo dato a Galadriel? Troppo tardi. Ormai ha quel nasone. E mi sembra che non potrebbe avere mai avere avuto un naso diverso. L’immaginazione è una cosa fluttuante, ma ora i volti degli elfi e dei nani sono fissati per sempre. Tutto quel che riesco a ricordare è che Aragorn, per me, doveva essere sbarbato. Un’idea abbastanza stupida: è chiaro che Jackson a queste cose ci ha pensato molto più di me. Ma allora è questo il Cinema? Delegare la propria fantasia a dei professionisti?
Per fare un esempio che è solo il primo che mi viene in mente, se mi capita di riaprire il Nome della Rosa, non penso a Sean Connery. Sean Connery e Guglielmo, per me, sono due volti diversi. Il primo è un attore coinvolto in un film in costume medievale; il secondo è il protagonista di un romanzo che mi era molto piaciuto. In questo caso sono riuscito a salvare la mia fantasia. Forse anche perché il film non era un granché – ma il Signore degli Anelli di Jackson è bello. Questo è il problema.
Di solito le riduzioni cinematografiche sono deludenti. Devono essere deludenti. Le andiamo a vedere per curiosità: per vedere la reinterpretazione di una cosa che abbiamo amato. Non per farci cancellare la fantasia.
Prendi Shelob. Si può immaginare qualcosa di più orrido di Shelob? Anche nella mia immaginazione, avevo probabilmente lavorato di chiaroscuro. Ma Jackson fa cinema, e il cinema è l’arte delle luci. Se c’è Shelob, lui ce la deve mostrare tutta.
La sensazione di trovarsi sotto l’addome di Shelob è qualcosa da provare, se non siete cardiopatici: ma per quanto possa essere ben realizzato e credibile, un mostro cinematografico resta un mostro cinematografico, parente di Gozzilla e King Kong. Può fare schifo, e in effetti ne fa parecchio, ma una volta messo totalmente in luce, non fa più veramente paura. Ed ecco un altro pezzo della mia fantasia che s’invola: l’orrore per Shelob.
Più infernale di Shelob, c’era solo (mi sembrava di ricordare) la lenta agonia di Frodo verso Monte Fato. Gli inganni di Gollum, l’angoscia di Sam. E tutto questo nel film c’è. Pensavo che fosse la parte più mistica del libro, che altrimenti sarebbe solo una lunga fiaba dove il Bene vince contro il Male. Mentre inventando l’anello, e mettendolo al collo di una creatura fragile ma determinata, Tolkien rendeva tutto molto più interessante: l’idea del male come fardello da portare con sé, il percorso di purificazione, il tradimento sempre in agguato (sia di sé stessi che degli altri), e un sacco di altre cose.
E tutto queste cose, nel film, c’erano? Insomma.
Forse c’erano, ma – naturalmente – un po’ semplificate. O no?
Vado a riguardare le pagine. No, non è colpa del cinema. Il libro la fa abbastanza semplice: Sam, Frodo e Gollum si fanno strada verso il monte Fato. Ero io che tendevo a farla complicata. Perché dopo aver letto il libro, secoli fa, avevo continuato a fantasticarci su, e crescendo la fantasia era cresciuta con me: avevo trasformato l’Anello in un simbolo dell’ambizione, dell’invidia, perfino della dipendenza. Tutte belle cose, che forse J.R.R. Tolkien aveva previsto; ma non erano nel libro: erano nello spazio tra il libro e la mia immaginazione (si chiama con-testo).
In questo spazio delicato, soggetto a periodiche scosse di assestamento, ora è passato il bulldozer di Jackson. Niente sarà come prima.
Tutto, in compenso, sarà più colorato (perché Jackson ha più colori di quanti avrei potuto mettercene io), più luminoso, persino più filologicamente corretto: ma non cambierà più. Frodo sarà sempre Frodo. E il mio Frodo sarà uguale a quello di chiunque altro.
Beh, almeno io ho avuto anni e anni di tempo per lavorare di fantasia, ma i bambini? Quelli che guarderanno il film prima di leggere il libro? Per loro il lavoro di fantasia è finito ancora prima di cominciare. Forse bisognerebbe vietare il film ai minori di anni venti. L’immaginazione è una cosa importante.
Ora vi aspettate la conclusione apocalittica: il cinema è la morte dell’immaginazione, meglio leggersi un buon libro, ecc., ecc. Le cose non sono così semplici. L’effetto di sovrapposizione tra fantasia e immagine che ho descritto per il Signore degli Anelli esisteva già molto prima che i fratelli Lumière si mettessero al lavoro. Da sempre le arti visive insidiano la fantasia di chi legge o ascolta le storie.
Credo che sia stato Giampaolo Dossena una volta ad avvertire: guardate che molti di noi, quando credono di pensare a Dante, in realtà stanno immaginando Gustave Doré. Le sue incisioni hanno segnato la fantasia di generazioni di lettori. Quando pensate a Dante, Virgilio, Farinata, il Conte dell’Ugolino, come ve li immaginate? Probabilmente in bianco e nero (mentre Dante è decisamente un poeta a colori). Forse Doré ci ha aiutato ad appassionarci di Dante. Ma ci ha anche impedito di sintonizzare la nostra privata fantasia su quella di un poeta visionario di sette secoli fa.
Ed è proprio Doré che mi è venuto in mente a un certo punto, quando sul paesaggio infernale di Monte Fato, da uno squarcio di luce arrivano le aquile (e il demonio che è in te bisbiglia: ma non potevano portare Frodo sul posto all’inizio della storia, così si faceva prima? In effetti. Ma tutte le narrazioni hanno la loro uscita di servizio, nascosta ai visitatori). Almeno Doré era un incisore. Nel chiaroscuro restava ancora qualche margine per la fantasia. Ma il cinema è l’arte di illuminare le cose: non c’è spazio per il chiaroscuro. E la nostra fantasia, una volta messa sotto un riflettore, si congela – quando non scompare per sempre.
Per sempre? Siamo sicuri? In fondo quella di Jackson non è che ‘una’ versione visiva del Signore degli Anelli. Oggi si fa fatica a crederlo, ma può darsi che un giorno sembrerà una versione sorpassata, come già il cartoon di venti anni fa. Un giorno forse il profilo di Aragorn, le prodezze da surfista di Legolas, il nasone di Galadriel, sembreranno anacronismi, segni del tempo, “uh, si vede che è un film vecchio, che buffi”. Il libro, invece, resterà. La scrittura è più debole dell’immagine, ma nel lungo periodo si conserva meglio.
Almeno spero.
Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell’anime per la ripulitura della terra.
Non è solo per fare il bastan contrario – o forse sì – ma il fatto è che ultimamente sono un po’ stanco di sentire gente che odia la guerra. Specie quelli molto più idealisti, realisti, intelligenti e informati di me, che odiano la guerra più di me ma sono convinti che a questo punto sia necessaria, per poter arrivare più rapidi alla pace.
Ecco, dopo mesi e mesi di discorsi su quanto sia brutta e ineluttabile la guerra, mi vien voglia di andare a cercare quel pezzo in cui un giornalista italiano dichiarava francamente e senza vergogna di amarla, questa benedetta guerra. Ma chi era? E dove scriveva? E quand’è che l’abbiamo letto? Come facciamo a ricordarcelo così bene?
Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sudore nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre. […]
È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria. I fratelli son sempre buoni ad ammazzare i fratelli! I civili son pronti a tornar selvaggi, gli uomini non rinnegano le madri belve.
Il giornalista si chiama Giovanni Papini (Firenze 1881-1957). Scriveva su una piccola rivista fiorentina, “Lacerba”, da lui fondata nel 1913 e sotterrata nel 1915, che ebbe un certo successo. A volte viene considerato un futurista: in realtà Papini e Marinetti non sono mai andati molto d’accordo, ma pescavano nello stesso bacino di malumori che sarebbe poi fermentato nelle trincee della Grande Guerra, dando luogo a quel singolare fenomeno politico italiano, il fascismo.
Però Marinetti, che di solito viene ricordato per aver scritto “Guerra, sola igiene del mondo”, non sarebbe mai stato capace di scrivere righe asciutte e feroci come queste:
C’è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutare la vita.
Non è un caso che in quasi tutte le antologie di letteratura italiana per la scuola superiore ci sia una foto di Marinetti, ma questa pagina di Papini. Volendo dare un esempio di letteratura francamente, schiettamente bellicista, i compilatori delle nostre antologie scolastiche (tutti comunisti, com’è noto) finiscono invariabilmente per ritagliare questo editoriale di Lacerba, datato primo ottobre 1914. E questo il motivo per cui ce la ricordiamo bene: in mezzo a tante letture soporifere, Papini ha uno stile che ti dà la sveglia. Senti qui:
Non si rinfaccino […] le lacrime delle mamme. A cosa possono servire le madri, dopo una certa età, se non a piangere. E quando furono ingravidate non piansero: bisogna pagare anche il piacere.
Ah, se sentisse il Ministro Martino…
E chissà che qualcuna di quelle madri lacrimose non abbia maltrattato e maledetto il figliolo prima che i manifesti lo chiamassero al campo. Lasciamole piangere: dopo pianto si sta meglio.
Papini di recente è finito anche al cinema, in una brevissima scena di Un viaggio chiamato amore: è in un caffè di Firenze con dei sottufficiali di passaggio, che declama un suo articolo. Indovinate quale.
C’è una linea fiorentina che forse non risale fino a Dante Alighieri, ma sicuramente a Machiavelli: una scia brillante di scrittori che non sempre (anzi, quasi mai) diventano classici della letteratura, ma conoscono un buon successo presso i loro contemporanei. Perché? Per due motivi. Primo: cercano di scrivere come parlano, un lusso che fino a poco tempo fa solo un fiorentino poteva permettersi. Secondo: dicono cose enormi, micidiali. Machiavelli scriveva saggi su come ammazzare gli avversari politici, con tanto di esempi documentati. Papini spiega che la guerra ha tutta una serie di ricadute positive in vari settori, l’agricoltura, per esempio:
I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz’altra spesa di concio. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove s’ammucchiano i fanti tedeschi e che grosse patate si caveranno in Galizia quest’altro anno!
Nel Novecento Papini è il primo interprete di questa scia. Dopo di lui la fiaccola passa a Maccari e a qualche altro strapaesano, ma c’è meno gusto a fare i gradassi quando il gradasso in capo è a Palazzo Chigi. Finché, dopo la seconda guerra la fiaccola viene afferrata da Montanelli, che la impugna con sicurezza, ma la normalizza, la imborghesisce. Ed essa languisce con lui.
Quando Montanelli muore (nell’estate del 2001), l’Italia resta senza il suo grillo parlante toscano, per alcuni mesi. Finché l’undici settembre, in un attico di New York un’anziana signora di Firenze perde la testa, scrivendo torrenti di insulti. Il Corriere della Sera glieli pubblica, senza cambiare una virgola. E gli italiani impazziscono, si rubano il Corriere dalle mani, corrono in copisteria per fotocopiarlo. Gli italiani hanno un bisogno disperato di toscanacci maldicenti.
E il fuoco degli scorridori e il dirutamento dei mortai fanno piazza pulita fra le vecchie case e le vecchie cose. Quei villaggi sudici che i soldatacci incendiarono saranno rifatti più belli e più igienici.
È fin troppo evidente quanto abbiamo perso nel passaggio da Papini alla Fallaci. Senza bisogno di scrivere Cazzo e Fottiti, come il peggio scrittore pulp, Papini resta oggi molto più osceno di quanto non sia mai riuscita a essere la povera signora. A proposito, io della Rabbia e dell’Orgoglio già non ricordo più niente. Mentre questo Amiamo la guerra, veramente, non me lo levo dalla testa.
È scritto bene, diciamolo. Papini è uno dei pochi scrittori italiani che sia veramente riuscito a campare con quello che scriveva. Ma ogni settimana doveva inventarsene una più grossa. Noi ricordiamo solo “Amiamo la guerra”, ma da un numero all’altro Papini doveva consigliare di chiudere le scuole, abolire il senato, picchiare le donne, i bambini e i cani. E quando i futuristi vennero da Milano a fargli i complimenti, lui per un po’ se li tenne cari, poi non ci fu niente da fare: si mise a insultare anche i futuristi. Doveva farlo: era il suo mestiere. Aveva moglie e figlie, tante figlie da mantenere.
Era un polemista, ma non uno qualsiasi: era l’inventore della moderna polemica giornalistica: stringata, ma linguacciuta, razionale ma vendicativa. Oggi ne abbiamo fin sopra i capelli, ma negli anni Dieci c’era solo lui; i suoi colleghi erano rimasti alla retorica dell’Ottocento. E ogni settimana lui li tirava giù, metodicamente, a colpi di temperino. I suoi lazzi e insulti a quel tempo erano un nuovo stile di giornalismo: oggi li chiameremmo satira. Perché, in fin dei conti, avete creduto che Papini parlasse sul serio?
E rimarrano anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche e troppi castelli per gli abbrutimenti e i rapimenti e i rompimenti dei professori. Dopo il passo dei barbari nasce un’arte nuova fra le rovine e ogni guerra di sterminio mette capo a una moda diversa.
Può darsi che Papini si sentisse un po’ barbaro. Della sua famiglia era stato il primo a studiare, e l’ultimo a patire la fame. Aveva la foga rabbiosa tipica degli autodidatti: il suo libro di critica filosofica (una specie di Simulator, appena un po’ più serio) si chiamava Stroncature.
Ma non era uno stupido. Ce n’erano tanti, come lui, che scrivevano o dipingevano roboanti odi alla guerra: Marinetti, Boccioni, Soffici, Carrà… Finirono tutti al fronte, e dal fronte all’ospedale, e chi tornò a casa (Boccioni non tornò) scrisse poi cose molto più tranquille.
Papini – che probabilmente vedeva un po’ più lontano – preferì saltare un passaggio, e a guerra appena scoppiata si convertì al cattolicesimo, senza passare dal fronte. Evitando così un inutile perdita di tempo (e di sangue).
Ora che lo sappiamo, proviamo a rileggere “Amiamo la guerra”. Curioso: a differenza di tutti i suoi colleghi interventisti, Papini non s’immagina mai di dover combattere la sua amata guerra. Il suo è il più smaccato “armiamoci e partite”. Che la facciano gli altri, la guerra igenica: che si tolgano pure di mezzo.
Chi odia l’umanità – e come non si può non odiarla anche compiangendola? – si trova in questi giorni nel suo centro di felicità. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l’odio e lo consola. “Avevo ragione di non stimare gli uomini, e perciò sono contento che ne spariscano parecchi”.
E veniamo a noi. Dicevo che ultimamente sono un po’ stanco di sentire persone molto più idealiste, realiste, intelligenti e informate di me, che odiano la guerra più di me, ma sono convinti che sia necessaria. E mi viene da dire: signori, se proprio ne siete convinti, andateci. E levatevi un po’ dai coglioni.
Ma credo che loro scuoterebbero la testa, scettici: “non siamo noi che dobbiamo andarci, sciocco, noi saremmo d’intralcio. Lasciamo lavorare chi conosce il mestiere”.
Senza dubbio. Però, permettete: io non m’intendo di geopolitica, ma non volendo combattere, e non essendo tagliato per farlo, non oserei chiamare qualcun altro a far la guerra in vece mia. Non si fa. Non è fine. Chi è in grado di combattere combatta, chi non ne è capace stia zitto e attento. Tutti questi applausi d’incoraggiamento sono indecenti.Tanto si sa che voi resterete a casa, davanti alle vostre confortevoli finestre sul mondo. Sempre pronti a convertirvi al dio di turno, a seconda della convenienza.
E allora ditelo, che sotto sotto la guerra vi piace (purché la facciano gli altri): fa un sacco di spazio, e concima i terreni. E l’economia riparte. Coraggio. Ditelo. Non mi farete più schifo di quanto non mi facciate già. Non mi piace la retorica dei buoni sentimenti, preferisco la schiettezza di chi scrive come parla e parlando dice quello che pensa. La schiettezza di Giovanni Papini:
Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerrà e spaventosa – e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi.
Buon principio di quaresima a tutti. Sì, oggi è il mercoledì delle ceneri e cercherò di essere in tema.
Venerdì scorso si parlava dei classici italiani all'estero. Mi è venuta in mente una cosa da mostrare.
"THROUGH ME ONE'S LET INTO THE CITY OF SORROW,
THROUGH ME ONE'S LET INTO EVERLASTING PAIN,
THROUGH ME ONE JOINS THE THRONGS THAT LOST THEIR MORROW.
JUSTICE MOV'D MY HIGH MAKER, NOT DISDAIN;
BY DIVINE POWER WAS I MADE, AND BY
SUPERNAL WISDOM AND FIRST LOVE SOV'REIGN.
NO THINGS WERE MADE, ERE CREATED WAS I,
IF NOT ETERNAL, AND ETERNAL I LAST:
LAY DOWN ALL HOPE, YE WHO STEP IN, AND CRY".
My eyes upon these dark-hu'd words ran fast
That high above a door were hewn in writ;
So "Hard" I said "on me their sense is cast".
Può piacere o non piacere (a me piace), ma credo sia comunque facilmente riconoscibile. È il principio del terzo canto dell'Inferno, tradotto in inglese. Fin qui nulla di straordinario. La traduzione rispetta però tutti i vincoli metrici dell'originale: la rima è concatenata e il verso è il pentametro giambico (il verso inglese più simile all''endecasillabo dantesco). E già questo sarebbe un exploit notevole. Infine: il folle (italiano) che ha fatto questo non si è limitato a quattro quartine, ma ha tradotto l'intera Commedia, Hell, Purgatory e Paradise, tutto.
È un'altra incredibile produzione wordtheque! Non ci contattano soltanto pazzi pericolosi, ma anche pazzi a loro modo ammirevoli, come questo ingegner Fanelli di Firenze, ex maestranza Enel, autore di svariate pubblicazioni di idraulica, che nel tempo libero si diletta di architettura, computer graphics, e traduce Dante verso per verso. Senza gridare al miracolo, come tanti autori di romanzi di sicuro successo.
The power of Dante’s language, dichiara, is so irresistible that sometimes, somehow, it can suddenly shine through this opaque screen. When it does, it gives the rash craftsman an exhilarating thrill. I hope that these few shafts of light can also break through to some of the readers (if any).
Io non ho la competenza né il tempo per verificare se l'inglese di Fanelli funzioni, ma mi piace pensare di sì. Tanta pazienza e modestia meritano menzione. Fate girare la notizia. Avete amici anglofoni che vorrebbero leggere Dante? Creiamo un piccolo caso net-editoriale... Let's go down, boys, let's go hell!
Cosa sanno gli europei della letteratura italiana?
Intervista a uno spagnolo e una francese ventitreenni, ad alto grado di scolarità (laurea breve). "Ditemi quello che vi viene in mente sull'argomento, non abbiate paura di essere imprecisi".
Prima di tutto c'è Dante, anzi, Dante Alighieri, un autore teatrale del Cinquecento, che ha scritto la Divina Commedia, un testo piuttosto breve che parla… vediamo, "dell'uomo… del suo cielo… del suo inferno" ("C'è anche una spirale da qualche parte", bisbigliano in dissolvenza).
Poi c'è Machiavello, autore del Prince, in cui parla di Borgia, uno statista malvagio e senza scrupoli, insomma, machiavellico. Sei-Settecento.
Seguono poi due nomi del Novecento; Italo Calvino e Umberto Eco. Ma siccome l'esperimento riguardava soltanto la letteratura fino all'Ottocento (la cultura scolastica), andiamo oltre (bisogna dire che per un breve attimo Calvino è scivolato nell'Ottocento).
Arriviamo così a "uno scrittore di poesie erotiche che aveva una casa a Pescara, inizia con la a". Dopo molto penare, mi rendo conto che si tratta di D'Annunzio – nelle altre lingue la particella non fa parte del cognome. "Ma ha scritto poesie erotiche, no?" Certo che le ha scritte.
Poi c'è il silenzio, che provo a sbloccare suggerendo un… "Petrarca?".
"Ah, Petrarca, certo. Ma era un romano, no?" [Nel senso di latino].
"Nooo, è dell'Ottocento".
Vi siete divertiti? Spaventati? Sentiti soli in un'Europa troppo grande che non sa niente di voi, della vostra preziosa cultura? Chiedetevi però cosa sanno i vostri amici con un'educazione non letteraria, o cosa sapete voi stessi, mettiamo, della storia letteraria castigliana.
Il gioco partiva dall'idea che ciascuno di noi, per il solo fatto di vivere continuamente esposto a messaggi, deve per forza trattenere nozioni, benché imprecise. Dovendo iniziare un breve corso sulla cultura italiana, mi piacerebbe partire da queste nozioni confuse e inconsapevoli piuttosto che da due tabule rase. Scoprire che in fondo si sa già qualcosa è rassicurante; scoprire quanto poco in realtà si sa è stimolante; correggere e approfondire una nozione, invece di apprenderla da zero, dovrebbe comportare un minimo risparmio di energia mentale
Infine, il gioco dà preziose informazioni all'istruttore, che può servirsene immediatamente per correggere il tiro.
In questo caso abbiamo una lezione interessante sulla percezione dell'Italia all'estero: ed è consolante, in fondo, che l'"inferno dantesco" e il "machiavellico Borgia" abbiano così poco a che fare cogli spaghetti e i mandolini.