Pio, l'uomo che sanguina
23-09-2023, 17:20repliche, santiPermalink![]() |
Cattelan, non sei nessuno |
"Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirmi personalmente puro da questa contaminazione che da ben 40 anni circa ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili".Quella bobina fu una nuova fonte di guai per padre Pio di Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, che aveva già passato i suoi brutti momenti durante i pontificati di Benedetto XV e Pio XI - quest'ultimo, in particolare, era stato a un passo dal sospenderlo dal sacerdozio e deportarlo in qualche convento lontano dalla sua claque. Ma questo avveniva nel Ventennio, quando l'umile servo di Dio si limitava ad amministrare i sacramenti e guarire qualche pellegrino (o gerarca) di passaggio, e non possedeva ancora la totalità delle azioni dell'ospedale più grande del meridione, una deroga generosamente concessa da Pio XII al suo voto di povertà. Il Padre Pio su cui indagherà nel 1960 il Sant'Uffizio è già un fenomeno mediatico, tenuto vivo dall'attenzione costante dei rotocalchi, che il Vaticano non riesce più a manovrare.
L'ispezione sollecitata da Giovanni XXIII farà luce su molti aspetti discutibili dell'organizzazione che si era stretta intorno al frate, ma non svelerà nessun "immenso inganno", come pure il Papa si era augurato. Del resto a quel punto il cappuccino andava per i 75, sanguinava ininterrottamente da quaranta, e per immaginarlo mentre si intratteneva carnalmente con le sue beghine preferite ci voleva la fantasia morbosa ma un po' astratta di un alto prelato. Qualche mese dopo, un colloquio con l'arcivescovo di Manfredonia (la diocesi di cui fa parte San Giovanni Rotondo) avrebbe rasserenato l'animo del pontefice:
“Don Andrea, sono i suoi fratelli che l’accusano. E poi… quelle donne, quelle registrazioni… Hanno perfino inciso i baci”. Poi il Santo Padre tacque per l’angustia e il turbamento. Monsignor Cesarano, con un fremito che gli attraversava l’anima e il corpo, tentò di spiegare: “Per carità, non si tratta di baci peccaminosi. Posso spiegarti cosa succede quando accompagno mia sorella da Padre Pio?” “Dimmi”. E monsignor Cesarano raccontò al Santo Padre che quando sua sorella incontrava Padre Pio e riusciva a prendergli la mano, gliela baciava e ribaciava, tenendola ben stretta, malgrado le vive rimostranze nel timore di sentire un ulteriore male per via delle stigmate. Il buon Papa Giovanni alzò lo sguardo al cielo ed esclamò: “Sia lodato Dio! Che conforto che mi hai dato. Che sollievo!Questo episodio, raccontato da un confratello di Padre Pio, ha il profumo e la consistenza di una storiella nata tra la canonica e la sacrestia, gli unici ambienti dove suona ancora un po' credibile scambiare il rumore di un baciamano per quello di un rapporto sessuale completo. D'altro canto qualcuno doveva pure raccontarla: qualcuno prima o poi doveva trovare un lieto fine per quella storia inquietante che metteva il Papa Buono contro il più venerato santo italiano del Novecento. Più probabilmente Roncalli si portò i suoi dubbi nella tomba monumentale che lo aspettava di lì a tre anni; il suo successore, Paolo VI, aveva di Padre Pio un ben diverso concetto. Non solo lo aveva conosciuto, ma era stato uno degli artefici della fortuna di San Giovanni Rotondo, quando al termine della guerra era riuscito a dirottare sull'erigenda Casa sollievo della sofferenza una somma ingente stanziata dagli USA per le emergenze sanitarie del dopoguerra. Con lui in Vaticano, Pio da Petrelcina poté vivere i suoi ultimi anni sulla terra in relativa serenità. Verso la fine le stimmate sembrarono progressivamente sparire, tanto che in punto di morte non se ne vedevano nemmeno le cicatrici. Cionondimeno il cadavere fu esposto coi guanti, per evitare malintesi o speculazioni.
Forse Padre Pio ha sofferto per tutta la vita. Le sue incredibili ipertermie (fino ai 48°), che facevano impazzire i termometri degli ospedali, dovevano plausibilmente causargli deliri e allucinazioni, che la fantasia di un ragazzo cresciuto tra la campagna e il convento non poteva che popolare con gli elementi del suo scarno paesaggio simbolico: madonne e chiodi, ferite e angeli. Forse davvero nell’agosto del 1918 il fraticello un po’ renitente alla leva vide un angelo che lo trafisse e lo trasverberò, colmandolo di vergogna. Le piaghe a mani, piedi e costato avrebbe potuto benissimo procurarsele in un delirio, questo lo ammettono anche i suoi più accaniti detrattori. In seguito il carrozzone miracolistico che gli era cresciuto spontaneo intorno, senza che lui avesse i mezzi intellettuali per ostacolarlo, lo avrebbe in un qualche modo costretto a mantenere aperte quelle ferite di cui lui stesso fraintendeva l’origine: da cui la necessità di approvvigionarsi di acido fenico o di veratrina, mediante biglietti clandestini che comunque il Vaticano aveva intercettato già nei primi anni Venti. E anche di questo inganno, ormai necessario per evitare non solo la propria rovina, ma uno scandalo mondiale per la Chiesa, forse Padre Pio ha intimamente sofferto per quarant’anni, mentre pellegrini da due continenti facevano la coda per baciare le sue piaghe.
Forse Padre Pio era un po’ ottuso. È la conclusione implicita di molti osservatori scesi apposta a San Giovanni per conoscerlo. Nessuno, nemmeno il più scettico, avanza dubbi seri sulla condotta irreprensibile del frate (ci sarebbero volute le cimici del 1960, un tentativo abbastanza patetico, vista l’età ormai avanzata). Ma quasi tutti lasciano intendere che egli si ritrovasse succube di qualcosa molto più grande di lui. Per padre Agostino Gemelli, il poliedrico intellettuale di lì a poco fondatore e rettore della Cattolica, si trattava di “un uomo a ristretto campo della coscienza, abbassamento della tensione psichica, ideazione monotona, abulia”, insomma un isterico da manuale (e Gemelli aveva appena scritto un manuale sui soldati che cercavano di evitare il fronte della Grande Guerra mediante fenomeni di autolesionismo). Anche i meglio disposti non possono non notare il ruvido accento, il latino zoppicante con cui continuò a dir messa anche dopo il Concilio (un’altra deroga, di Paolo VI), la sua incurante ignoranza delle cose del mondo. Forse davvero Padre Pio non era bene in grado di capire cosa gli stava succedendo intorno.
Ma c’è anche l’ipotesi inversa: che questo fraticello ignorante fosse molto più astuto di tutti i suoi ispettori. Abbastanza furbo da sopravvivere a due guerre mondiali e a cinque papi, tre dei quali indagarono su di lui decisi a spostarlo da San Giovanni (e non ci riuscirono); in grado di resistere per tutta la vita all’attenzione asfissiante di un entourage di maneggioni che lo trascinò in qualche affare sballato e fallimentare, senza scalfirne la reputazione; capace di uscire candido come una rosa dal disastro del fascismo, a cui benedì i gagliardetti finché gli convenne. In mezzo a tutto questo, Padre Pio riuscì a intestarsi uno degli ospedali più grandi del mezzogiorno, parecchi anni prima che anche la sua nemesi, Padre Gemelli, avesse il suo. Una bella rivincita sul vecchio positivista che era sceso nella sua tana pretendendo di misurarne il “campo della coscienza”. Se mai nei primi anni gli fosse sfuggita (come assicura il suo biografo più zelante e maneggione, Emanuele Brunatto) qualche parola critica nei confronti della Chiesa, Pio fu abbastanza astuto da nasconderla, anche prima che il Vaticano si comprasse l’intera tiratura del volume di Brunatto; di modo che non esiste oggi, in un infinito corpus di agiografie, più che un accenno al pensiero del Santo. Così che sembra quasi che Pio non avesse un pensiero, che non parlasse. Senz’altro non era per ascoltarlo che milioni di persone arrivavano lì. Pio, più che parlare, ascoltava. Il suo mestiere quotidiano era sedersi nel confessionale e ascoltare le suppliche di centinaia di persone al giorno. Il miracolo non sarebbe consistito tanto nel riuscire a esaudirne qualcuno, ma nel capirli tutti.

Non so perché, ma ci vedrei bene un monomarca Cavalli.
Padre Pio viene spesso accostato a Teresa di Calcutta, non solo in quanto esponente di una santità postmoderna che ha avuto il suo instancabile propagatore in Giovanni Paolo II; più spesso si tratta di un accostamento di icone, sulla stessa parete o mensola della cucina. In comune i due santi hanno il paesaggio di origine, lo scabro retroterra mediterraneo; una povertà praticata per tutta la vita, e poco altro. Teresa carambolò per il mondo su aerei a reazione, propagandando il suo francescanesimo radicale, abbracciando lebbrosi senza mai tentare di guarirne uno. Pio non propagò nessun particolare messaggio; non si spostò mai dal suo piccolo convento, ma lentamente riuscì a costruirci di fianco un enorme ospedale a regola d’arte. Ma la sua cella rimase la stessa: non gli si può imputare la deriva speculativa di San Giovanni, il flop degli alberghi (ce ne sono troppi, per un’utenza di pellegrini che preferisce il mordi-e-fuggi e raramente si ferma la notte), la chiesa gigante di Renzo Piano, con la sua cripta placcata d’oro per la quale gli storici dell’arte del futuro dovranno forse coniare una nuova categoria, l’Arte Tamarra. I cattolici, anche quelli più progressisti di Pio da Petrelcina, credono nella resurrezione dei corpi. Devono dunque presupporre che Pio si sveglierà intravedendo, oltre la maschera in silicone che ne protegge il corpo in momentanea putrefazione, il più farlocco dei cieli dorati. Avrà nuove mani per alzarle al cielo, nuovi piedi per inseguire i suoi confratelli e prenderli a calci nei secoli dei secoli, nuove orecchie per non ascoltare le loro ragioni: in fondo è solo una leggerissima foglia d’oro, ottenuta dalla fusione di tutti gli ex voto che non si sapeva più dove appendere e tutti assieme erano veramente brutti e inquietanti da guardare. E tuttavia era oro, aveva un prezzo, si poteva vendere e reinvestire in flebo, cateteri, siringhe monouso, in sollievo dalla sofferenza. Teresa nei suoi lazzaretti non accettava ascensori e frigoriferi. Francesco “Pio” Forgione mi riesce, malgrado tutto l’arredo barocco, più umano e simpatico. Ma forse è un problema mio.

Io credo nella corruzione dei corpi, li vedo ogni giorno disfarsi e soffrire, e ogni giorno passa nella fatica di distogliere lo sguardo. Una vita come la visse padre Pio, tutta trascorsa seduta davanti allo spettacolo del dolore e alla sofferenza, mi sembra l’inferno in terra. Non escludo che possa essere stato un imbroglione, un guitto di provincia. Non è affatto inverosimile che le tecniche simulatorie adottate durante la Grande Guerra per evitare il fronte lo abbiano aiutato a costruirsi l’immagine di santo stigmatizzato che poi è riuscito a rivendere per quarant’anni a un pubblico sempre più moderno e sempre più arcaico. Questo dovrebbe spingermi a un giudizio morale molto netto, ma non sono un giudice che giudica, e men che meno un prete che assolve. Sono una persona mediamente onesta, che senza aver fatto nulla di straordinariamente cattivo nella vita, non ha nemmeno fatto nulla di particolarmente buono. Non posso non riconoscere che coi suoi trucchi da fureria e da baraccone, coi suoi maneggi non necessariamente puliti, padre Pio ha fatto infinitamente di più per l’umanità – se l’umanità consiste nella sofferenza, nella comprensione della sofferenza, nel tentativo disperato e caparbio di ridurla, anche solo un malato alla volta, una stilla di sangue alla volta, un posto letto alla volta, in questa impresa padre Pio ci ha messo la vita e non si è fermato di fronte a nulla. Senza moralismi il più delle volte utili solo a distogliere lo sguardo; senza troppi discorsi in generale. A un santo non saprei veramente che altro chiedere.
Roberto, inquisitore e gentiluomo
17-09-2023, 02:35Chiesa, repliche, santiPermalink[2013] Gli anglicani, lo abbiamo visto, festeggiano San Thomas More, che fu decapitato per non aver accettato lo scisma anglicano. È un po’ come se i cattolici il 17 febbraio festeggiassero Giordano Bruno. Non lo fanno, non sono altrettanto sportivi. Invece il 17 settembre festeggiano San Roberto Bellarmino, il suo più celebre inquisitore. E tuttavia.
E tuttavia le cose non sono così semplici – le cose non sono mai semplici. Quando viene coinvolto dal lungo processo a Bruno, Bellarmino ha 55 anni e non ha decisamente il profilo del tetro cacciatore di streghe che ci piacerebbe assegnargli. È uno dei pochi che ha la formazione culturale necessaria per leggere davvero gli astrusi libri di Bruno e capire se in tanta torrenziale produzione di parole ci sia qualcosa di eretico o no. In fondo il filosofo e il suo inquisitore si somigliano. Sono nati entrambi negli anni Quaranta, mentre il concilio di Trento muoveva i primi passi. Sono entrambi studenti brillanti e precoci: Bruno presso gli odiati domenicani (di cui si metterà e si toglierà l’abito a seconda della situazione), Roberto coi gesuiti. Sono due viaggiatori in un secolo sedentario: Bruno schizza per l’Europa alla ricerca di una cattedra sicura, riuscendo a farsi interdire dai pastori di tutte le confessioni religiose possibili. Roberto comincia la sua carriera di predicatore anti-protestante, “martello degli eretici”, a Gand (oggi Belgio), terra di frontiera. Sono due grafomani, proprio nel momento in cui scrivere libri in Italia diventa davvero pericoloso; e prima che finisse nei guai, anche Roberto aveva rischiato.
Era successo nel 1590. Roberto si trovava in missione nella Francia sconvolta dalla guerra di religione. Lo avvertono di non sbrigarsi a tornare a Roma: l’amato Papa Sisto V sta valutando la possibilità di mettere all’Indice dei Libri Proibiti il suo best seller, avrete indovinato, le Disputationes de controversiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos. Ma come? Lo stesso Sisto non aveva tanto gradito la dedica dell’opera monumentale, una sorta di enciclopedia ragionata di tutte le eresie possibili, classificate senza troppo furore polemico? Sì, ma si vede che in seguito oltre ad apprezzare si era pure messo a leggere; trovando riferimenti al potere temporale del pontefice che non gli erano piaciuti. Bellarmino si era arrischiato a definire questo potere come “indiretto”, e tanto gli bastava per finire in disgrazia. A salvarlo fu una vera e propria moria di papi, che tra il 1590 e il 1592 falciò Sisto V e i suoi tre immediati successori (Urbano VII, dopo soli 13 giorni; Gregorio XIV, Innocenzo IX). Al termine di questo conclave permanente forse nessuno si ricordava più del caso Bellarmino, e all’orizzonte c’erano ben altre gatte da pelare. Prima di morire Sisto V – uno dei pontefici più risoluti e decisionisti della Storia – aveva voluto licenziare le bozze della nuova versione della Vulgata, la Bibbia in latino. Peccato che fossero piene di errori. In seguito una commissione aveva provveduto a correggere, ma ormai la versione vecchia era stata stampata, e ritirarla sarebbe stato imbarazzante: significava ammettere che un Papa si era sbagliato. Fu il gesuita Roberto Bellarmino a trovare una soluzione abbastanza elegante: anche la nuova versione sarebbe stata attribuita a Sisto. Una prefazione avrebbe spiegato che la decisione di pubblicare una nuova versione riveduta e corretta era stata presa dallo stesso papa che aveva fatto pubblicare la versione piena di errori. Questa era quasi una bugia: chi avrebbe avuto la faccia tosta e l’autorevolezza per firmare una prefazione del genere? Roberto Bellarmino, ovviamente, intellettuale di respiro europeo, stimato anche dagli avversari protestanti. Con Clemente VII, Bellarmino divenne rettore del Collegio romano. Lo zuccotto da cardinale stava per arrivare. In mezzo però ci fu il penoso caso di Bruno.
Quando lo incontrò, il filosofo aveva cinquant’anni ed era recluso da sei. L’opinione più condivisa è che Bellarmino avrebbe preferito salvarlo: questo fa un po’ a pugni con lo sviluppo del processo, in cui Bruno fino a un certo punto sembra orientato a salvarsi la pelle abiurando a qualsiasi cosa, salvo impuntarsi in un secondo momento, e ritrattare ogni abiura. In realtà non è affatto chiaro come andarono le cose (degli atti non restano che i sommari); non sappiamo nemmeno se fu torturato o no. Ciò che è sicuro è l’esito del processo, che andò ancora per le lunghe e si concluse nel 1600 con un rogo in Campo de’ Fiori. In seguito Giovanni Paolo II se ne è rammaricato: quattrocento anni dopo, meglio tardi che ancora più tardi.
In quel primo processo bisogna ammettere che la Chiesa non ci fa una figura così pessima, anche grazie a Bellarmino: è vero, la teoria eliocentrica viene per la prima volta definita come eresia, in quanto esplicitamente negata dalle Scritture; tuttavia è ancora ammissibile parlarne come di un’ipotesi matematica: il vecchio trucco che aveva permesso a Copernico di pubblicare la sua teoria senza incorrere in nessuna condanna. Mentre Galileo pretendeva di fornire delle dimostrazioni, delle prove, di un presunto moto della terra intorno al sole: Copernico si era limitato a far notare che, in teoria, se la terra girasse intorno al sole, i calcoli verrebbero meglio.
“Perché il dire, che supposto che la Terra si muova e il Sole sia fermo si salvano tutte le apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il Sole stia nel centro del mondo e solo si rivolti in sé stesso senza correre dall’oriente all’occidente, e che la Terra stia nel terzo cielo e giri con somma velocità intorno al Sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare i filosofi e theologici scolastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante”.Così Bellarmino a un fiancheggiatore di Galilei, Paolo Antonio Foscarini. E se si trovassero le prove che la terra si muove? In quel caso, sostiene il gesuita, “bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo”. Ma questo appunto era quello che Galileo pretendeva di fare, e che lo avrebbe messo davvero nei guai: spiegare la Bibbia ai preti. Bellarmino prova la manovra opposta: impartisce agli scienziati copernicani una lezione di metodo. Dite che la terra gira? Ipotesi interessante, ma… avete le prove? Dov’è la vostra “dimostratione”?
“Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata: né è l’istesso dimostrare che supposto ch’il sole stia nel centro e la terra nel cielo, si salvino le apparenze, e dimostrare che in verità il sole stia nel centro e la terra nel cielo; perché la prima dimostratione credo che ci possa essere, ma della seconda ho grandissimo dubbio, et in caso di dubbio non si dee lasciare la Scrittura Santa esposta da’ Santi Padri”.Galilei si arrende (non che abbia già molte alternative): insegnerà l’eliocentrismo solo come una teoria. È abbastanza avveduto da farsi firmare dallo stesso Bellarmino una dichiarazione, dove è messo nero su bianco che non ha pronunciato nessuna abiura e non gli è stata impartita nessuna penitenza. Si è trattato di un semplice richiamo, un cartellino giallo: ricordati che ai tuoi allievi stai raccontando una teoria, non la verità. È più o meno quello che i bellarmini di oggi vorrebbero ricordare agli insegnanti: mi raccomando, quella di Darwin è pur sempre una teoria, finché non trovare una prova… già, ma cos’è una prova? Quanti anelli mancanti servono a dimostrare che i nostri progenitori vivevano sugli alberi? E che tipo di prove sarebbero servite a Galilei? Lui nel ’16 era convinto di averle già: osservazioni sulle maree; oggi sappiamo che almeno su quello si sbagliava, le maree non sono causate dalla rivoluzione intorno al sole. E quindi? Aveva ragione Bellarmino?
Più prudente di Bruno, Galilei era comunque incapace di darla vinta al relativismo. Presto o tardi si sarebbe rimesso nei guai. Ci mise altri quindici anni, e nel mezzo ci mise il Saggiatore e il Dialogo sopra i massimi sistemi. Quando alla fine si consegnò all’Inquisizione, gli misero sotto il naso un foglio firmato dal cardinale Bellarmino, in cui allo scienziato veniva formalmente intimato di non insegnare più l’eliocentrismo: era un falso, la lettera originale diceva ben altro – ma Bellarmino non era più vivo per smentire. Se n’era andato nel 1621.
Per farlo santo ci vollero tre secoli. I suoi devoti, soprattutto a Capua, ci tenevano molto: aveva lasciato un buon ricordo. Ma anche tantissime dispute per iscritto, e in fondo è statistico: più scrivi più alte sono le possibilità di pestare i piedi a qualcuno che ti sopravvive. La sua concezione del potere temporale della Chiesa, che già a Sisto V non piaceva, in seguito fu considerata troppo filo-papale. Alla fine diventò beato nel 1923, santo nel 1930, dottore della Chiesa nel 1931. Ma Galileo nel frattempo era stato proclamato l’iniziatore della scienza moderna, e Bruno il martire della libertà di pensiero. Bellarmino rimarrà alla storia come l’inquisitore che invece di torturarli preferiva farli ragionare. Il poliziotto buono, che a un certo punto entra in cella, ti offre una sigaretta e la sua solidarietà: eddai, Giordano, che te ne frega della pluralità dei mondi, ce ne sarà pure uno in cui bruci come uno stregone, ma perché dev’essere proprio questo? Sputa sui tuoi libri, puoi sempre scriverne altri. Eddai Galileo, questa storia della terra e del sole… ma sei sicuro? Come fai a sapere di essere sicuro? Come posso crederti? Mettiti nei miei panni: come faccio? Cosa puoi aver visto con un tubo e due lenti? È solo una teoria, ce ne sono tante, magari la tua è più elegante, te lo concedo, ma perché ci vuoi impedire di credere nelle nostre? Vuoi farlo tu il padreterno? Vuoi condannarci tu? San Roberto Bellarmino è patrono di Capua, di Cincinnati (Ohio), e di tutti gli inquisitori che ti lasciano intendere che in fondo ci credono meno di te.
La scelta di Teresa
09-08-2023, 00:00cristianesimo, ebraismo, memoria del 900, nazismo, santiPermalinkVenite a prendervi il Perdono (ad Assisi)
01-08-2023, 07:00Chiesa, pontefici, santiPermalink2 agosto: Perdono di Assisi
Ludmiła Pilecka, CC BY 3.0, via Wikimedia Commons |
Mentre il Beato Francesco, fatto l'inchino, usciva dal palazzo, il papa, vedendolo allontanarsi, chiamandolo disse: "O semplicione dove vai? Quale prova porti tu di tale Indulgenza?". E il Beato Francesco rispose: "Per me è sufficiente la vostra parola. Se è opera di Dio, tocca a Lui renderla manifesta. Di tale Indulgenza non voglio altro istrumento, ma solo che la Vergine Maria sia la carta, Cristo sia il notaio e gli Angeli siano i testimoni".
Priscilla e Aquila, i santi del futuro
08-07-2023, 01:16Chiesa, famiglie, santiPermalink8 luglio: Aquila e Priscilla (I secolo), collaboratori di Paolo apostolo
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Vi tengo d'occhio, uomini |
Aquila e Priscilla sono due santi con un grande potenziale ancora non sfruttato, secondo me. Per cominciare sono una coppia: marito e moglie. Ci sono altre coppie tra i santi, ma non così tante e non in una posizione così importante. Nei sei passi in cui sono nominati nel Nuovo Testamento (e sono tanti: certi apostoli godono di minore visibilità) compaiono sempre assieme, e da secoli gli studiosi si lambiccano per capire come mai di solito Aquila, il marito, venga nominato dopo di Priscilla: quel che è chiaro è che qualsiasi cosa decidono di fare, la decidono assieme e la fanno assieme. E fanno cose importantissime: ospitano Paolo di Tarso, forse si fanno convertire da lui, gli danno un lavoro, gli salvano, per sua ammissione, "la testa". Sono una coppia di imprenditori e viaggiano molto, per affari o perché questa cosa che ancora non si chiama cristianesimo è molto instabile e a volte li costringe a cambiare città: quando Paolo li incontra, sono appena stati espulsi da Roma per decreto imperiale, in quanto giudei. Ma probabilmente non sono entrambi giudei: lo è Aquila, ma Priscilla ha un nome veramente molto romano (forse è un vezzeggiativo: Paolo nelle lettere la chiama "Prisca"). Sono quindi la prima coppia multietnica del Nuovo Testamento, se non l'unica, e dimostrano anche in questo un dinamismo sociale che non sospetteremmo, se non avessimo appunto il Nuovo Testamento, uno dei pochi documenti a parlarci di questa classe media di professionisti completamente ignorata dalla storiografia ufficiale e snobbata dalla letteratura.
La santa tirata per i capelli
04-07-2023, 20:08santiPermalink![]() |
Wikipedia spiega che questo è un santino di Alberto Boccali. Prima della guerra credo che sarebbe stato considerato indecente. |
(Come ho iniziato a) capire Nerone
30-06-2023, 01:13catastrofi, Chiesa, cristianesimo, Roma, santi, StoriaPermalink30 giugno: Primi martiri della Chiesa di Roma (64)
Col tempo purtroppo cominci a capire chiunque, perfino Nerone. Il quale Nerone, è possibilissimo che non abbia gestito al meglio il grande incendio del 64; del resto era fuori città quando fu appiccato, e anche una volta accorso non è che potesse fare miracoli. Il fuoco dilagava in dieci quartieri su quattordici, comportandosi in modi imprevisti che i Romani non avevano mai avuto occasione di osservare. Non c'era mai stato un incendio così grande in città, e la città stessa non era mai stata così grande. Col tempo ho cominciato a capire come reagiscono le persone di fronte a fenomeni che non hanno mai avuto occasione di osservare: improvvisano. Trasformano i sospetti in realtà indiscutibili, confondono i sintomi con le cause, se durante un'alluvione vedono il fiume in piena portare tanti tronchi decidono subito che l'alluvione è colpa dei tronchi, perché il Potere non pulisce i fiumi dai tronchi? È chiaro che il Potere è in combutta coi tronchi per causare alluvioni che poi costano un sacco di soldi allo stesso Potere, ma se lo fa ci sarà un motivo. Piove per mesi? È colpa degli aeroplani che lasciano le scie, chi li ha messi in cielo tutti quegli aeroplani, eh? Le epidemie sono sparse dal Potere in virtù del malvagio protocollo Tachipirina E Vigile Attesa. I terremoti si potrebbero prevedere, ma il Potere non lo vuole, insomma il Potere passerebbe il tempo a tramare alle nostre spalle, e non un complotto solo ma tanti complotti diversi, come se ogni mattina si svegliasse indeciso sulla sfiga da somministrarci: che faccio stavolta, gli mando un'inondazione, un terremoto, un'epidemia?
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Una pagina del Laurenziano 68,2 |
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Leone l'incoronatore
12-06-2023, 02:10pontefici, santi, StoriaPermalink12 giugno: San Leone III Papa (dal 795 all'816), l'incoronatore di Carlo Magno
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Sorpresa! |
Non c'è aneddoto tramandato dai manuali scolastici che, a guardarlo un po' da vicino, non mostri qualcosa di completamente diverso. Può darsi che abbiate letto, al tempo, che Carlo Magno fu incoronato Sacro Romano Imperatore nella notte di Natale dell'anno 800, da un papa che in quell'occasione gli fece una sorpresa. Del resto che Carlo non fosse informato – e neanche troppo entusiasta – della nuova corona lo riferiscono sia le fonti pontificie che quelle carolinge, e quindi perché non crederci?
Perché, semplicemente, non è realistico che un sovrano che è già l'uomo potente d'Europa, una notte di Natale, si lasci appoggiare un'altra corona in testa a sua insaputa. Certo, le fonti pontificie hanno tutto l'interesse a ribadire che fu un'iniziativa del papa, visto che da quel momento si stabilisce il principio che il Sacro Romano Imperatore sarà incoronato a Roma; e anche i cronisti di corte, da Eginardo in poi, avevano buon gioco a raccontare di un monarca poco interessato all'ennesima corona, magari pure infastidito di doversi sobbarcare anche il retaggio di quegli imperatori che benché si definissero romani, a Roma non si vedevano da quasi quattro secoli. Ma davvero possiamo credere che fosse una decisione autonoma del papa? E a proposito, che papa era, che margini di iniziativa poteva avere, rispetto al suo imperiale protettore?
Nessuno. Leone III, a quel punto della sua carriera, era una pedina di Carlo Magno, al quale doveva non solo la sua carica, ma anche la vita. Avrebbe fatto tutto quello che Carlo gli chiedeva; difficilmente gli avrebbe messo in testa una corona che Carlo non voleva. Facciamo un passo indietro.
Leone a quel punto era papa da cinque anni, l'ultimo dei quali piuttosto turbolento. Era succeduto ad Adriano, il papa che alleandosi con i Franchi contro i Longobardi, e sollecitando l'intervento di Carlo nella penisola, aveva reso in sostanza quest'ultimo il signore di tutta l'Italia fino a Roma. I possedimenti longobardi in Italia settentrionale e centrale erano stati incamerati da Carlo; quanto a Roma, teoricamente era ancora un ducato dipendente dall'Impero Romano (quello con capitale Costantinopoli), ma in pratica era il papa a essere considerato la massima autorità in città. Più che normale che la carica facesse gola alle famiglie più importanti; e tuttavia questo non impedì l'elezione all'unanimità di Leone, un cardinale di origini umili o comunque oscure che aveva fatto carriera nella cancelleria del Laterano. Qualcuno evidentemente in città non era così contento, e così nell'aprile del 799, mentre si recava in un monastero per attendere a una funzione religiosa, Leone fu rapito da due patrizi. Uno dei due, Pascale, era nipote di Adriano, e con tutta probabilità credeva che il Soglio spettasse a lui; non voleva però uccidere per forza Leone, si sarebbe contentato di cavargli gli occhi o mozzargli la lingua, mutilazioni che forse pensava fossero sufficienti per far decadere un papa dal suo ruolo. A quanto pare però non ci riuscì e la scelta di non ucciderlo sul posto si sarebbe rivelata un grave errore, perché in un qualche modo Leone riuscì a evadere dalla cella dove era rinchiuso (calandosi con una corda), riparando prima in Vaticano e poi, scortato da un messo imperiale, a Paderborn, Sassonia, dove Carlo teneva corte in quel periodo. Una scelta arrischiata perché gli attentatori, per quanto dalle cronache non sembrassero così organizzati, erano comunque convinti di avere Carlo dalla loro, forse in forza del buon rapporto che quest'ultimo aveva avuto con Adriano. E se l'attentato fosse riuscito, se Leone fosse stato tolto di mezzo senza che Carlo avesse avuto da ridire, probabilmente Leone sarebbe stato liquidato come un usurpatore, un antipapa; radiato dal canone dei pontefici, e oggi non ne parleremmo più. Invece Leone ebbe la buona idea di recarsi direttamente da Carlo, e forse in quell'occasione fece conoscenza con la sua eminenza grigia, Alcuino di York.
Alcuino è il più probabile responsabile delle scelte che furono prese allora, e che portarono alla nascita di un nuovo impero. A Paderborn non era arrivato soltanto Leone, ma anche i congiurati erano riusciti a recapitare dei messaggi in cui cercavano di far sentire la loro campana. A Leone venivano attribuiti comportamenti scandalosi i cui dettagli sono stati poi omessi dalle cronache, dato che la Storia la scrivono sempre i vincitori. Carlo si ritrovava quindi a dover giudicare la condotta di un pontefice, una grana che forse avrebbe evitato. Alcuino nell'occasione gli raccomandò la massima prudenza: in quanto detentore di un potere che derivava direttamente da Dio, il papa non poteva essere giudicato da nessun'autorità superiore a lui, ovvero da nessuno se non da Dio. Liquidare il papa fuggitivo sarebbe sembrato un atto di prevaricazione; Carlo decise di scendere a Roma a dirimere la questione.
A Roma si tenne un vero e proprio processo, che dimostra come il diritto romano aveva ormai ceduto il passo all'ordalia medievale. Gli accusatori del papa poterono riferire le loro accuse, ma non portarono prove; in compenso Leone giurò solennemente sul vangelo di essere innocente. Si trattava in sostanza di una versione ecclesiastica del giudizio di Dio; solo Dio aveva un'autorità superiore a quella di Leone, solo lui avrebbe potuto punirlo incenerendolo se giurava il falso. Leone giurò e non fu incenerito, quindi era innocente e poteva continuare a essere papa. I suoi rapitori invece furono condannati a morte; pena che Leone commutò subito in ergastolo perché avevano ancora troppi amici in città. Leone invece aveva un solo grande protettore: Carlo, che per rimetterlo sul Soglio era venuto fino a Roma, interrompendo chissà quale guerra di conquista o massacro di Avari. È abbastanza chiaro che Leone avrebbe fatto qualsiasi cosa gli chiedeva.
Nel frattempo anche a Costantinopoli non è che stessero fermi ad aspettare; Irene d'Atene, la basilissa che per anni aveva regnato come reggente del figlio Costantino VI; quando questo aveva finalmente raggiunto la maggiore età, aveva tramato per prendergli il posto e siccome anche lei non era un mostro invece di ucciderlo si era accontentato di farlo accecare – senonché, come spesso succedeva in questi casi, Costantino era comunque morto poco dopo a causa delle ferite. A quel punto Irene si era proclamata basileus, avete capito bene, al maschile: le basilisse erano le mogli o le madri dell'imperatore, ma Irene non si considerava più né madre né vedova né reggente: l'imperatore era lei, punto, forse aa Meloni pensava a questo precedente quando ha chiesto di farsi chiamare Signor Presidente der Consiglio, ma non tergiversiamo. Un imperatore donna non si era ancora esattamente visto, e questo forse diede ad Alcuino o ad altri l'idea per il regalo da fare a Carlo nella notte di Natale dell'anno 800; facciamo proclamare dal tuo papa che d'ora in poi l'imperatore sei tu, che ne pensi? Se Carlo fosse stato contrario, difficilmente ne staremmo parlando oggi. Nella pratica si trattava di un escamotage per dichiarare che Roma non dipendeva più da Costantinopoli, bensì da un altro imperatore che di romano aveva ancora meno, ma che di fatto la controllava già da anni.
Anche nelle beghe teologiche, Leone si trovò a barcamenarsi in una situazione in cui la priorità dei nuovi padroni carolingi era isolare Roma da Costantinopoli. Per questo motivo Carlo aveva fatto penare non poco Adriano ai tempi della questione iconoclastica; ora invece la tensione tra oriente e occidente aveva messo a fuoco la questione che poi sarà quella dello scisma definitivo, duecento anni dopo: il filioque. In molte chiese occidentali (non a Roma) il Credo niceno veniva recitato durante la messa, il che dava l'occasione a tutti i fedeli di ribadire che lo Spirito procede "dal padre e dal figlio". Questo nella versione latina: quella greca è un po' diversa, manca una congiunzione, insomma sembra che lo Spirito proceda solo dal padre. Come ammetteranno diversi teologi nei secoli successivi, si tratta di una questione fondamentale soltanto se si ha molta voglia di litigare. I carolingi evidentemente ne avevano; Carlo convocò un sinodo ad Aquisgrana che stabilì che il Credo latino con il suo bel filioque andava recitato in tutte le messe. Leone ratificò il decreto, ma solo per le chiese di rito latino; non che i greci gli avrebbero dato retta, ma voleva evitare di rompere con loro: a Roma ancora per più di un secolo si continuò a omettere il filioque.
Alla morte di Carlo, nell'814, forse Leone rischiò di essere vittima di un secondo attentato; stavolta non ebbe bisogno di sollecitare i messi del nuovo imperatore (Ludovico), che quando arrivarono trovarono la situazione già normalizzata. Leone sarebbe morto due anni dopo Carlo; in generale non è ricordato come un grande papa. Fu beatificato solo nel Seicento, e canonizzato nel secolo successivo. Addirittura negli anni Sessanta il suo nome era stato espunto dal Martirologio romano; poi è stato reinserito. Non è considerato patrono di nulla in particolare, ma se quando cercano di farvi fuori voi scappate dal vostro boss, Leone sa come vi sentite in quel momento.
L'apostolo dietro le quinte
11-06-2023, 02:55Bibbia, Chiesa, cristianesimo, santiPermalink11 giugno: San Barnaba, apostolo e fundraiser (I secolo)
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Paolo e Barnaba a Listra vengono scambiati per Hermes e Zeus (Nicolaes Pietersz) |
Barnaba è quel tipo di personaggio che vive tra le righe: in un libro non vengono quasi mai nominati, eppure senza di loro la trama non andrebbe avanti. Il libro in questo caso sono gli Atti degli Apostoli di Luca evangelista, in cui Barnaba viene nominato una ventina di volte, che non sono poi così poche. È uno dei rari personaggi che compare sia nella prima parte (ambientata a Gerusalemme, racconta la nascita di una setta basata sulla fede negli insegnamenti e nella resurrezione di Gesù di Nazareth), sia nella seconda, quella che racconta dei viaggi e della predicazione di Paolo di Tarso. Barnaba è il trait d'union: fu uno dei primi aderenti (e contribuenti) della comunità di Gerusalemme, e poi fu il mentore e il compagno di Paolo nei suoi primi viaggi. Di lui non viene riportato nessun discorso diretto: a differenza di Pietro e di Paolo, non è davvero importante quello che dice. L'importante è sempre quello che fa: le persone e le comunità che sceglie di appoggiare, nonché i soldi; sin dalla prima volta in cui compare, Barnaba si trova coinvolto in questioni di soldi. L'ipotesi è che l'economia fosse il suo campo specifico: altri parlavano, Barnaba decideva quanti soldi raccogliere, quanti soldi riscuotere. Pietro e Paolo erano star, Barnaba il loro procuratore? È solo un'ipotesi perché Luca, quando si parla di soldi, si muove sempre un po' a disagio e tende a riportare ricostruzioni improbabili. Altri avrebbero semplicemente rimosso l'argomento; in fondo se stai raccontando la nascita di un culto a chi vuoi che interessi l'economia? E invece a noi, duemila anni dopo, un po' interessa.
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La lettera agli Ebrei, attribuita da Tertulliano a Barnaba |
Quando nelle sue lettere Paolo parla di queste raccolte fondi, lo fa con un certo disagio – più che comprensibile in un teologo che preferirebbe parlare di argomenti più alti. Si capisce che le ritiene necessarie, che non può esimersi dal sollecitarle, ma anche che non vorrebbe essere preso per il destinatario delle offerte o peggio, per un mero riscossore. Può darsi che a occuparsi più concretamente delle collette fosse il suo collega Barnaba, e questo spiegherebbe il senso del suo soprannome: l'"esortazione" riguarderebbe l'invito evangelico a donare tutto ai poveri, o almeno qualcosa (a proposito: ricordate che mestiere faceva Matteo-Levi prima di incontrare Gesù? Il riscossore, esatto).
San Giusto sui monti profumati
28-05-2023, 00:00Bibbia, leggere, santiPermalink28 maggio: San Giusto di Urgell, glossatore cattolico di poesie d'amore
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Biblioteca universitaria di Bologna |
Il santo che non sbatteva le uova
16-05-2023, 18:08santiPermalink17 maggio: San Pasquale Baylon (1540-1592), che non inventò lo zabaion
La gloria degli uomini è in molti casi una sciocchezza, un equivoco, una parola capita male da gente che non capisce molto in generale. Avrete sentito di quella politica che ha dato un'intervista di quattro pagine su tanti temi, e alla fine le hanno chiesto come abbina i colori e ha detto mah, mi dà dei consigli un'armocromista, ecco, fine, l'unica cosa che la gente ha letto è armocromista, e continueranno a menarsela con l'armocromia finché non trovano qualcosa di più sciocco, uno dice vabbe', è la propaganda politica, un agone senza scrupoli – no macché, la gente fa così da sempre, capisce male una cosa, se la lega al dito e decide di ricordarsi quella singola cosa; non importa cosa abbiate fatto di bene o di male perché tanto si ricorderanno di voi per una cazzata che avete detto ma in realtà intendevate un'altra cosa, oppure nemmeno l'avete detta: così come Maria Antonietta non ha mai detto Che mangino brioches, Galileo non ha mai detto Eppur si muove, Voltaire potendo avrebbe ammazzato un sacco di gesuiti per le loro sciocche opinioni, e lo stesso Brecht, non cominciamo nemmeno con Brecht, se la gente sapesse cosa scriveva davvero ammutolirebbe di schianto – parliamo piuttosto di San Pasquale Baylon.
Mattia è il tredicesimo
13-05-2023, 16:49Chiesa, pontefici, santiPermalink14 maggio: San Mattia, il tredicesimo apostolo
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Paris Bordon, la Pentecoste |
Secondo gli Atti degli Apostoli (il sequel del Vangelo di Luca), la prima decisione che Pietro prende da solo, immediatamente dopo l'Ascensione di Gesù, è ripristinare il numero degli apostoli: Gesù ne aveva scelti dodici, e siccome Giuda dopo aver tradito si era ammazzato, bisognava eleggere un suo sostituto. A voler essere pignoli, anche il tradimento di Giuda era stato voluto da Dio, ma Pietro non ha tutti i torti: undici è veramente un numero scomodo (un numero primo), laddove il dodici ha proprietà che lo hanno reso da sempre molto popolare; parliamo del numero più basso ad avere sei divisori, quattro dei quali sono anche i primi quattro numeri naturali. Non è un caso che sia le ore della parte solare del giorno, sia i mesi dell'anno, siano dodici in molte culture. È il primo numero che puoi dividere per due, per tre e per quattro, e ancora non hai a che fare con resti e con virgole.
Gengolfo il magnifico
11-05-2023, 00:00santiPermalink11 maggio: San Gengolfo martire (VIII secolo), patrono dei mariti traditi
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Che elmo elegante, benché le protuberanze non si capisce a cosa... no, niente. |
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Saint Gingolph è un ridente paesino diviso a metà dalla frontiera franco-svizzera, dove almeno secondo Wikipedia avviene questo incredibile fenomeno che il lago è in discesa. |
La più saggia lava i piatti
10-05-2023, 00:38repliche, santiPermalink[2013]. Capita a tutti i supplenti l’esperienza di una classe antipatica – entri e sono già lì che litigano, è tutto un alzare le mani per dimostrare di saperne di più, o un puntarla sul compagno perché È Stato Lui. In queste classi, tipicamente, c’è sempre una tizia in un angolino che si nasconde: non partecipa al chiasso, mostra di sentirsi a disagio quanto te, magari è molto brava, oppure non capisce nemmeno l’italiano, è quasi impossibile capirlo. Il più delle volte, se fai una domanda, non risponde; se lo fa è un miracolo, al supplente vien voglia di darle dieci sulla fiducia, non vedete che ha capito più cose lei di tutti quanti qui dentro? Siamo tutti un po’ individualisti noi supplenti, tra il branco e la pecora nera tifiamo sempre un po’ per la seconda; finché non ci affidano una classe vera e ci accorgiamo di quanto sia meno faticoso e più conveniente gestire un branco ordinato. Ma veniamo alla santa del giorno, Isidora o Isadora detta la Stolta; e a Pitrim, il suo scopritore.
Pitrim è il solito eremita nel solito deserto egiziano, che un giorno ha una visione: Pitrim, vuoi vedere una Santa? Una Santa seria? recati al monastero di Tabenna, là c’è una monaca che è un vero modello di perfezione: la riconoscerai perché ha uno straccio in testa. Pitrim si reca dunque a Tabenna, dove le monache lo ricevono con tutti gli onori, evidentemente era un asceta sopra ogni sospetto. Nessuna però sembra corrispondere al modello di perfezione previsto, al punto che Pitrim comincia a chiedersi se non gli stiano nascondendo qualcosa. Siete sicuri che non mi state nascondendo nessuna monaca? Ne sto cercando una che – mi ha detto la visione – si sta avvicinando con le sue azioni e soprattutto la sua pazienza alla Passione di Gesù. Me le avete mostrate proprio tutte? Fratello, sì, praticamente tutte. Come sarebbe a dire “praticamente”? Mah, ci sarebbero le minorate, o (come si dice in questo secolo) le indemoniate, adesso non ci dirai che ti vuoi mettere a ispezionare la virtù delle indemoniate… per esempio ce n’è una impiegata in cucina, Isidora si chiama, pensa, che non vuole nemmeno mettersi il velo, si copre i capelli con lo straccio per asciugare le pentole… Bingo! È lei! Portatemela subito! Ma fratello, abbi pazienza, è una matta… la chiamiamo Isidora la scema… Portatemela ho detto! Ma è magrissima, scoppierà uno scandalo, penseranno tutti che le trattiamo male e invece no, è lei che non vuol mangiare, l’unica cosa che ingerisce è la risciacquatura dei piatti, ci abbiamo provato in tutti i modi a nutrirla con la forza, ma niente da fare… Portatemela! È lei la più santa di tutti qua dentro! Non vedete sopra il suo straccio un’aureola? No, non vediamo niente, ma se lo dici tu…
Scoppia subito l’Isidoramania – il deserto egiziano è una polveriera di misticismo, basta una scintilla perché tutti si mettano in viaggio a vedere la nuova santa di riferimento. Isidora ha passato tutta la vita a nascondersi, e tutta questa popolarità la regge malissimo: dopo qualche tempo scompare. Nel deserto, dicono. Come dire: potrebbe essere dappertutto. La leggenda di Isidora è tutta qui, una specie di fiaba di Cenerentola formato collegio di monachelle. Magari è nata effettivamente così, un modo di riadattare la fiaba a un pubblico di bambine come la Gertrude dei promessi sposi – quelle già segnate dalla nascita, che giocavano con bambole vestite da suorine, le Barbie modello Badessa. Un asceta al posto del Principe, un’aureola d’oro al posto della scarpina di cristallo, perché no.
La leggenda mette a fuoco l’annosa polemica tra cenobitismo e ascetismo, vita comunitaria e vita solitaria; visti dal monastero, gli asceti sono tutti mezzi matti dediti a pratiche folli e devianti. Per l’asceta è l’esatto contrario: i monasteri sono luoghi di mediocrità e squallore dove la sguattera è più vicina a Cristo della madre badessa. La lotta tra asceti e cenobiti proseguirà sotterranea lungo tutta la storia della Chiesa: anche se in occidente sembra che i secondi si siano imposti da subito, gli asceti non sono mai veramente spariti. Si sono infiltrati: ma è facile riconoscerli, sono quelli che persino in un istituto concentrazionario come un monastero del Cinquecento si lamentano perché la cucina è troppo buona e le consorelle ricevono troppe visite: Teresa d’Avila che lotta per scalzare le carmelitane, Matteo da Bascio che si lamenta perché il saio dei frati minori non è abbastanza ruvido, eccetera.
Gente così è sempre esistita, il che ci porta a ipotizzare che anche un Pitrim possa essere esistito – magari non in Egitto, magari non nel quarto secolo – ma da qualche parte nascosta nelle pieghe del tempo. A immaginarsi la scena non ci vuole tantissima fantasia. Un ospite che arriva in un monastero: si aspetta di trovarci tanta ospitale santità nonché una certa pia deferenza, e invece sono tutte fredde e antipatiche, si credono tutte di essere chissachì, adesso ve lo faccio vedere io. Fatemi vedere la più malmessa di tutte – è lei? La sguattera? È una deficiente? Lo dite voi che è una deficiente, io ho le visioni e vi dico che è la più vicina a Gesù Cristo di tutte quante. E adesso me ne vado, ciao, è suonata la campanella.
E la povera Isidora resta lì, a gestirsi una santità appioppata all’improvviso. Magari soffriva di anoressia o di qualche altro disturbo alimentare più insolito (picacismo?) Le monache che prima la respingevano perché indemoniata ora la invidiano – non è necessariamente un progresso. Non sorprende che abbia fatto perdere le tracce, nel deserto o in un altro monastero. Ma potrebbero semplicemente averle cambiato nome e cella per difenderla dai curiosi. Nel frattempo qualche consorella si sarà messa a bere la risciacquatura dei piatti per mostrare di non essere da meno, e così via. Nel frattempo Pitrim è ancora in giro a scambiar matti per poeti, scemi per santi, anoressiche per modelle. Ogni tanto suona una campanella, magari la prossima è per voi.
Che fine ha fatto Domitilla
06-05-2023, 22:09Chiesa, cristianesimo, Roma, santi, StoriaPermalink7 maggio: Santa Flavia Domitilla (I secolo), nobildonna in disgrazia
L'abate recalcitrante
22-03-2023, 23:54santiPermalink23 marzo: San Gualtiero di Pontoise (1030-1095), abate recalcitrante
Gualtiero, di origine piccarda, era l'abate del monastero di Pontoise, e il tratto che risulta più evidente dalle sue succinte biografie è che non morisse veramente dalla voglia di fare l'abate; perlomeno nel monastero di Pontoise.
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Vabbe' non sarà Cluny, ma non è neanche una spelonca sulla Maiella, per dire |
La sua prima fuga è nel 1072, quando si presenta come se niente fosse all'abbazia di Cluny e chiede di entrare come monaco semplice. Cluny nell'XI secolo era la capitale del monachesimo occidentale: Gualtiero vi incontra Ugo di Cluny, nientemeno che il mediatore tra l'imperatore Enrico VI e papa Gregorio VII, insomma il regista di Canossa. Negli stessi anni stava raccogliendo fondi per trasformare l'abbazia nella chiesa più maestosa di Francia e del mondo. Gualtiero preferiva essere un suo umile sottoposto nella grande Cluny che un uomo di responsabilità nella relativamente piccola Pontoise, e io un po' lo capisco, voi no?
Ugo accoglie Gualtiero, ma quando i monaci di Pontoise scoprono che sta lì gli ordina di tornare al suo posto, e a Gualtiero non resta che obbedire. Non sappiamo esattamente per quale motivo avesse litigato coi suoi monaci, ma la sua vicinanza a Ugo ci fa sospettare che Gualtiero tendesse a interpretare il suo ruolo con un'intransigenza che era lo spirito stesso della riforma gregoriana, ma che forse è più facile portare avanti se sei privo di responsabilità e non ti tocca ogni giorno avere a che fare con sottoposti che ti boicottano. Fatto sta che Gualtiero dopo qualche anno scappa di nuovo, e ai suoi confratelli tocca cercarlo fino in Turenna, dove un pellegrino lo riconosce nel saio di un eremita che coi suoi saggi consigli stava cominciando ad attirare gente dai villaggi intorno a Tours.
Invece di tornare a Pontoise, Gualtiero stavolta decide di portare il suo problema a Roma, dove chiede al papa in persona di essere sollevato dal suo incarico. A Roma c'è ancora Gregorio VII che gli dice papale papale che se scappa un'altra volta da Pontoise, lo scomunica.
A Gualtiero non resta che tornare a Pontoise, dove tutto sommato non deve aver lasciato un brutto ricordo – anche solo il fatto che ogni volta che spariva i suoi confratelli si mettevano a cercarlo dappertutto, rifletteteci: se il vostro capo sparisse, lo andreste a cercare di monastero in monastero? Persino in Turenna?
Dopodiché è probabile che avesse un caratterino: litigò con tutto il sinodo di Parigi perché non sollevavano da un incarico un prete che aveva una concubina. Riuscì a infastidire pure il re di Francia denunciando il modo sbarazzino con cui quest'ultimo continuava a vendere cariche ecclesiastiche benché un imperatore di Germania fosse già stato messo in ginocchio, a Canossa, per lo stesso motivo. Insomma era un gregoriano duro e puro, ma probabilmente è più facile esserlo quando non devi gestire un'abbazia intera e non ti tocca cedere a compromessi continui che alla lunga mettono in crisi le tue convinzioni.
Comunque ce l'ha fatta, è diventato santo – se Dio ha il senso dell'umorismo che a volte gli sospetto, in paradiso gli ha fatto trovare la copia identica del monastero di Pontoise, con dentro gli stessi monaci, e gli ha detto: pensavamo di nominarti abate, che ne pensi? A noi sembra proprio l'incarico giusto per te. Poi ogni tanto li chiamano dall'inferno, ehi, è di nuovo scappato quel monaco, venitevelo a prendere. Dà lezioni ai diavoli su come si affliggono correttamente le anime, prende tutto troppo sul serio, è un tormento.
Il frate cancellato
14-03-2023, 02:18santiPermalink14 marzo: Beato Filippo Longo (XIII sec.), presidente delle suore clarisse
A Filippo Longo capitò di essere il settimo seguace di Francesco d'Assisi, quando era ancora una banda di mistici scalzi e potenzialmente sovversivi; poi di fare carriera prendendo ordini da un papa, e dirigendo un ordine femminile; e poi all'improvviso fu cancellato, come se non fosse mai esistito: al punto che è quasi per caso che conosciamo il suo nome oltre a un soprannome ("Longo") che gli deriverebbe dalla sua statura. Non sappiamo da dove venisse (comunque un posto qualsiasi, un borgo ai piedi del Subasio o di Rieti o del contado di Perugia, o di Teramo: nessuna città importante reclama Filippo Longo).
Secondo Tommaso da Celano, primo biografo di Francesco, Filippo pur non avendo fatto studi particolari era un oratore particolarmente capace ("il Signore [gli] aveva toccato e purificato le labbra con il carbone ardente, così che parlava di Dio con mirabile dolcezza"). Forse è il motivo per cui Francesco lo portava con sé quando si reca a San Damiano a incontrare Chiara: affinché nessuno osasse sollevare il benché minimo sospetto su questi incontri, gli serviva un testimone convincente che potesse riferire i contenuti delle discussioni tra i due santi e garantirne l'ortodossia.
In seguito Francesco parte per la Terrasanta e quando torna scopre che la predilezione di Filippo per Chiara e le sue consorelle si è trasformata in un vero e proprio incarico amministrativo: Filippo è diventato "primo Confessore, Visitatore, Correttore, e Presidente" delle suore che ancora non si chiamano clarisse ma monache di San Damiano. A conferirgli una tale autorità non poteva che essere stato il cardinale Ugolino dei Conti di Segni, il grande sponsor di Francesco e Chiara presso la curia di Roma.
Francesco, che probabilmente senza Ugolino avrebbe rischiato più di un processo per eresia, questo tentativo neanche troppo velato di trasformare il suo movimento di poveri in un ordine gerarchico manovrato dalla curia non lo digeriva così bene. Lo si capisce da piccoli episodi come questo, riportato da Tommaso da Celano nella sua seconda biografia: appena scopre che Filippo ha fatto carriera come capo delle clarisse, lo destituisce immediatamente dichiarando: "I miei frati proprio per questo sono chiamati Minori, perché non presumano di diventare maggiori". Può darsi che semplicemente Francesco ritenesse Chiara e le sue sodali in grado di governarsi da sole. Filippo abbozza, ma Francesco è già malato e muore nel giro di qualche anno (1226); pochi mesi dopo Ugolino diventa papa Gregorio IX e rimette Filippo al suo posto di confessore e presidente delle clarisse.
Sono gli anni in cui i francescani si dividono tra un'ala più oltranzista che vuole ritornare all'esempio del fondatore, e una maggioranza 'conventuale' ormai organizzata come un ordine religioso. Filippo dà la sensazione di essere uno dei tanti operatori di questa normalizzazione, ma come spesso accade c'è sempre qualcuno più normalizzatore di te che a un certo punto ti fa le scarpe e non è nemmeno escluso che a un certo punto Filippo sia caduto in disgrazia. Il suo nome viene citato tra i testimoni oculari consultati dai tre frati che nel 1246 stilano la "lettera di Greccio", un documento che accompagna una raccolta di testimonianze inedite su Francesco, finora ignorate dalle biografie. Questi tentativi di raffigurare un Francesco diverso da quello ufficiale vengono completamente fermati nel 1263, quando al Capitolo Generale di Pisa l'ordine francescano stabilisce di distruggere tutte le biografie del santo e sostituirle con l'unica omologata, la Legenda Maior compilata per l'occasione da Bonaventura di Bagnoregio, ministro generale dell'ordine.
Bonaventura di Filippo Longo non fa menzione. Come se non fosse mai esistito: e se l'opera di cancellazione prevista dai francescani fosse stata completa, oggi non sapremmo nulla di lui. E in ogni caso non ne sappiamo molto. Secondo lo storico seicentesco Ludovico Jacobilli, specializzato in santi di Umbria e dintorni, i superiori lo avrebbero trasferito in Alvernia, dalle parti di Clermont-Ferrand, dove avrebbe continuato a stupire gli ascoltatori con le sue doti oratorie davvero innate, se anche il passaggio da Italia a Francia non le aveva appannate. Lo stesso Jacobilli ammette che altri cronisti lo danno per morto molto più vicino ad Assisi, ovvero a Perugia: e sepolto in uno dei convento di suore che dirigeva; il che forse era ammissibile prima di un'ulteriore normalizzazione degli ordini maschili e femminili: ma già ai tempi di Jacobilli risultava troppo difficile da accettare.
Tre cappuccini in Etiopia
03-03-2023, 00:43razzismi, santiPermalink3 marzo: beati Liberato Weiss, Samuele Marzorati e Michele Pio Fasoli da Zerbo
Premesso che una svista può capitare a tutti, alla voce "Samuele Marzorati e Michele Pio Fasoli da Zerbo" del sito ufficiale del Dicastero delle Cause dei Santi si legge ciò:
"Lungo i secoli vi sono stati tanti tentativi dei missionari cattolici di poter penetrare nei territori a religione musulmana per poter portare il Vangelo anche lì, ma gli sforzi si sono dimostrati in buona parte inefficaci, vista la intolleranza religiosa che ha sempre distinto il sempre presente estremismo arabo".
Il... sempre presente estremismo arabo?
È un testo tratto da una paginetta del sito Santiebeati, che a sua volta riprende la scheda di Antonio Borrelli, giornalista del Giornale. Quest'ultimo mentre la stilava doveva essersi distratto un poco: non solo perché mentre parlava di "estremismo arabo" si stava dimenticando quel millennio in cui ad esempio in Egitto gli arabi cristiani (copti) hanno convissuto coi musulmani; non solo perché "estremismo arabo" è proprio un'espressione che storicamente può avere un senso solo a partire dal secolo scorso, quando nasce appunto il nazionalismo arabo, ma soprattutto perché... né Samuele Marzorati né Michele Pio Fasoli sono stati martirizzati da arabi o da musulmani in generale.
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Il castello del negus Fasilides, nella fortezza di Fasil Ghebbi, a Gondar |
A uccidere a pietrate i due frati cappuccini, assieme al confratello bavarese Liberat Weiss, sono stati gli etiopi, che con gli arabi non hanno etnicamente molto a che spartire (oserei dire che siamo più simili noi italiani, agli arabi, di loro) e soprattutto non sono musulmani: perlomeno quelli che hanno lapidato i tre frati erano cristiani, ancorché di confessione miafisita, come i copti egiziani e gran parte degli etiopi al tempo. Lo si legge nelle altre due schede dedicate ai frati da Santiebeati, e nell'omelia pronunciata da Papa Giovanni Paolo II e riportata sempre su Causesanti.va.
All'inizio del Settecento la Congregazione De Propaganda Fide decide di riannodare i rapporti con i cristiani di Etiopia, completamente interrotti da qualche decennio. Forse ricevono persino un invito dall'ultimo dei grandi Negus della dinastia salomonide, Iyasu I il Grande, che stava cercando di aprire l'Etiopia al mondo, allacciando anche rapporti con la corte di Luigi XIV e la Compagnia delle Indie Occidentali. Detto questo, l'impero del Negus non è dietro l'angolo: la penetrazione coloniale europea inizierà 150 anni più tardi, la via del deserto è quasi del tutto sconosciuta ai bianchi e i cappuccini che si offrono volontari sanno benissimo che gli ultimi sei confratelli giunti in Etiopia erano stati martirizzati nel 1669. Quel che non possono sapere è che il viaggio sarà lentissimo, estenuante: i primi sei volontari (tra cui Liberat Weiss e il pavese Michele Pio) giungono nel gennaio del 1705 al Cairo dove si aggregano a una carovana che risale il corso del Nilo: direzione Gondar, capitale etiope.
Nessun "estremista arabo" li ostacola, ma giunti all'altezza di Al Dabbah (Sudan), sono informati che Iyasu non è più imperatore: alla morte della sua concubina preferita si è ritirato a vita privata e un figlio, per essere sicuro di succedergli, lo ha fatto ammazzare. Ne deriva una guerra di successione che blocca il viaggio per tre anni. Alcuni frati, sfiduciati, cominciano a tornare indietro: il capospedizione, Giuseppe da Gerusalemme, si ammala di qualcosa (com'era frequentissimo tra gli europei prima della diffusione del chinino) e muore. Alla fine anche Michele e Liberati tornano al Cairo, dove però ricevono l'ordine di riprovare a raggiungere Gondar via mare, anche perché nel frattempo la situazione in Etiopia sembra essersi calmata.
Ai due si aggrega il varesino Samuele Marzorati, reduce da un'esperienza missionaria non fortunata nell'isola di Socotra. I tre arrivano finalmente a Gondar nel 1711, dopo sette anni, giusto per scoprire che il nuovo re Yostos, per quanto ospitale, non intende autorizzarli a predicare una confessione religiosa diversa da quella miafisita. Probabilmente pesa ancora, nei confronti dei frati cappuccini, il ricordo delle guerre religiose del secolo precedente. Nel 1631 i gesuiti, dopo aver convertito il Negus Susenyot, avevano tentato la cattolicizzazione forzata di tutti i sudditi. Ne era seguita una guerra al termine della quale Susenyot, dopo aver massacrato in battaglia ottomila ribelli refrattari al cattolicesimo, aveva deciso di fare un passo indietro. Da lì in poi il cattolicesimo aveva perso gran parte del suo appeal in Etiopia: i frati che venivano da nord erano visti come sovvertitori di una tradizione millenaria, e in effetti lo erano.
A Liberat, Michele e Samuele viene chiesto di trasferirsi nel Tigré, dove si per qualche tempo tirano a campare curando i malati. Liberat improvvisa anche un'attività di orafo: ma la loro permanenza in Etiopia dipende dalla benevolenza di un re dal trono vacillante. Nel 1716 si ammala: è ancora in agonia mentre in un'altra ala del palazzo viene incoronato il nuovo Negus, Dawit III. Quest'ultimo convoca i tre frati a Gondar e offre loro la possibilità di convertirsi al miafisitismo etiope. È il momento che aspettavano da anni: per i missionari il martirio è sempre un'opzione. Forse in certi casi è persino una liberazione, quando da anni vivi in un territorio ostile e sei educato a pensare che il tuo sangue versato potrebbe, in qualche modo, cambiare le cose per chi verrà dopo di te. Così davanti a una corte di sacerdoti etiopi, Liberat Michele e Samuele testimoniano la loro fede, senza trascurare di accusare i loro accusatori di eresia. La condanna a morte viene eseguita il 3 marzo, per lapidazione. Cristiani uccidono cristiani: non è la prima volta, non sarà l'ultima. Si racconta che un monaco abbia minacciato i presenti: chi non tira almeno cinque pietre è un nemico della Vergine Maria. Gli estremisti arabi, come si vede, non c'entrano molto.
Amen, dissero le pietre
02-03-2023, 02:42blog, santiPermalinkIl samurai nell'inferno di Unzen
28-02-2023, 00:56santiPermalink28 febbraio: martiri dell'inferno di Unzen (28/2/1627)
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https://peterlamphotography.com /2018/03/24/the-hells-of-unzen/ |
Mi piacerebbe essere sicuro che i testimoni abbiano esagerato: documentare la persecuzione anticristiana dello shogunato era oggettivamente difficile; e siccome oggi la memoria interrotta del Kirishitan è soprattutto una questione turistica, preferisco coltivare il sospetto che una certa insistenza sulla crudeltà dei boia e sull'eroismo delle vittime sia quello che il pubblico internazionale vuole sentirsi raccontare: il Giappone piace estremo. Altrimenti non è facile capire le ragioni di una crudeltà che sorpassava la necessità di eliminare il culto che lo shogunato percepiva come un fattore di disgregazione e di apertura al mondo esterno (si sbagliava?)
Il 28 febbraio del 1627 il samurai Paolo Uchibori viene condotto con altri 14 cristiani presso il vulcano. Il giorno prima Uchibori è stato costretto a vedere i suoi figli morire annegati, dopo che le guardie dello shogun avevano loro mozzato le dita delle mani, una alla volta. Quando il primo dei prigionieri, a comando, salta dentro il vulcano, Paolo ammonisce gli altri: fatevi spingere, un buon cristiano non deve dare l'impressione di suicidarsi. Il rifiuto del suicidio rituale è il tratto che forse più distingueva i samurai cristiani, anche quando combattevano al servizio dello Shogun.
Paolo viene soppresso per ultimo, nel modo più doloroso: viene infatti calato nel fango ardente a testa in giù. Per tre volte viene risollevato dallo stagno tossico, per verificare se non ha deciso di pentirsi; per tre volte ripete: Sia gloria al santissimo sacramento. Amen. L'ipotesi estrema è che il cristianesimo portato nell'arcipelago da francescani e gesuiti, con le sue cupe storie di martiri, abbia risvegliato una inclinazione alla violenza che nell'arcipelago era stata mitigata da altre culture (il buddismo?)
Un angelo chiamato Gabriele
27-02-2023, 00:47malattia, santiPermalink27 febbraio: San Gabriele dell'Addolorata (1838-1862)
Se me la sentissi di scherzare sulla vita di un ragazzo tisico morto a 24 anni, potrei chiamare Gabriele dell'Addolorata il poster boy dei passionisti, e in effetti l'ho appena fatto.L'episodio che ho in mente è l'incontro di Gemma Galgani coi padri passionisti, mezzo secolo dopo la morte di Gabriele: Gemma ha appena undici anni ed è reduce da un'esperienza non esaltante in un convento di visitandine. Se decide di fidarsi dei Padri, è perché riconosce il loro abito; l'ha visto nelle illustrazioni del libro che le ha regalato la maestra e da cui non si è separata nei giorni più dolorosi della malattia: la biografia di San Gabriele.
I Padri sono persone autorevoli, adulte: ispirano deferenza e Gemma ci metterà un po' a trovare un confessore con cui aprirsi. Gabriele invece è un ragazzo, dal volto e dal nome angelico, che porta lo stesso abito e reca un messaggio neanche troppo implicito: morire giovani non è così male, si arriva in paradiso in forma e là si può stare in compagnia.
Gabriele diventerà l'amico immaginario di Gemma: il suo angelo custode e il visitatore notturno più assiduo (più di Gesù e del diavolo); quello con cui può scherzare e che la può bonariamente minacciare. L'Ottocento è stato il secolo della tubercolosi, una malattia che con vari nomi ci perseguitava dalla preistoria, ma che nel secolo romantico diventa una specie di status symbol. Le donne tisiche ispirano poesie e romanzi, da Leopardi a Dumas figlio; quelle sane si truccano per sembrare un po' più smorte, fragili e sexy.
La tubercolosi porta anche nei calendari cattolici qualche bambino (Domenico Savio, il ragazzo-manifesto dei Salesiani) e bei ragazzi come Gabriele (al secolo Francesco Possenti, nato ad Assisi, entrato nei passionisti a 18 anni dopo aver sentito una chiamata della Madonna e dopo perso la sorella maggiore a causa del colera). La tbc insomma nell'Ottocento contribuisce a svecchiare l'immagine del paradiso e a trasformarlo in un posto più desiderabile per altri giovani destinati a morti precoci, almeno fino alla scoperta degli antibiotici, all'invenzione dello pneumotorace, all'introduzione dei vaccini. E ciononostante le fiction sentimentali coi ragazzini malati continuano a funzionare. Nel frattempo la tbc non smette di impensierirci, tanto più che alcune varianti risultano resistenti agli antibiotici.
La barbuta crocifissa
19-02-2023, 23:31arti figurative, miti, omofobie, santiPermalink20 febbraio: Santa Paola la barbuta, leggenda di Avila
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Crocefisso di Santa Wilgefortis Museo diocesano di Graz By Gugganij - Own work, CC BY-SA 3.0 |
Una donna con la barba, quindi, è considerata più forte di una donna senza, ancorché indesiderabile. Che i digiuni scombinati intrapresi da alcune mistiche nei conventi potessero causare squilibri ormonali con annesse complicazioni tricologiche non è del tutto implausibile, ma la leggenda non sembra alludere a questo, né agli ermafroditi degli antichi miti (nessuna vergine barbuta risale a prima del 1200). La vergine barbuta potrebbe invece essere una di quelle leggende che nascono da un equivoco iconografico, ovvero in quelle situazioni in cui a un certo punto alcuni fedeli si trovano davanti un'immagine sacra che non riescono bene a spiegarsi: in questo caso una donna barbuta e crocefissa. Ma chi avrebbe mai crocefisso una donna barbuta, e perché?
Il Volto Santo di Lucca Di Joanbanjo - Opera propria, CC BY-SA 3.0 |
In questo caso l'equivoco potrebbe essere stato generato dalla circolazione di souvenir – sì, anche nel medioevo li fabbricavano e vendevano, ma nella maggior parte dei casi si trattava di riproduzioni di immagini sacre molto famose. Ad esempio i pellegrini che transitavano da Lucca (ed erano molti) avrebbero molto facilmente riportato a casa una piccola copia del Volto Santo, il crocefisso che è il vero simbolo della città, dall'origine piuttosto misteriosa. Secondo i lucchesi risaliva ai tempi di Gesù, e non era stato scolpito da mano umana: si tratterebbe invece di un'immagine acheropita, una copia 3D del corpo di Cristo ritrovata da San Nicodemo e in seguito salpata dalla Palestina su una nave senza marinai, e ritrovata presso il porto di Luni dai lucchesi. Per molto tempo abbiamo pensato che la leggenda coprisse un'origine orientale del crocefisso, che però resta tutta da dimostrare: lo stile è meno bizantino di quanto vorrebbe sembrare, e faceva propendere i critici per un rifacimento medievale di un oggetto più antico andato perduto. Nel 2020 un esame col carbonio14 ha messo in crisi questa ricostruzione: a quanto pare il Volto Santo è davvero un oggetto molto antico, risalente più o meno all'800. Può darsi che a quei tempi e in quei luoghi fosse normale scolpire un crocefisso completamente vestito dalla testa ai piedi, con una tunica dalle maniche lunghe: non ci sono rimasti molti crocefissi dello stesso periodo, mentre alcune immagini posteriori abbastanza simili sembrano proprio basate sul Volto di Lucca, che già prima del 1000 era diventato un'immagine molto famosa e diffusa. Perlomeno da questa parte delle Alpi, dove una riproduzione del Volto sarebbe stata facilmente interpretata come un crocefisso 'alla lucchese'.
Nel resto d'Europa invece questa immagine, emersa dalle tasche di qualche pellegrino, lasciava perplessi: la tunica sembrava più adatta a un corpo femminile. Questo avrebbe stimolato il fiorire di leggende, tra cui si sarebbe imposta quella della figlia cristiana di un re pagano che non volendo sposare il suo promesso sposo (pagano) avrebbe pregato fino ad ottenere da Cristo quella barba necessaria a sventare il matrimonio – per essere poi crocefissa dal padre deluso e disgustato. Messa in questi termini, la storia ha avuto un discreto successo fino al Cinquecento, quando le forme più estrose della religiosità popolare sono state messe al bando sia dalla riforma protestante che dalla controriforma cattolica: anche se Vilgefortis (invocata anche contro i mariti violenti) ha resistito in qualche martirologio fino al Concilio Vaticano II, e ad Avila Santa Paola si venera ancora.
Beato il pittore (che sa stare al suo posto)
18-02-2023, 01:07arti figurative, santiPermalink18 febbraio: Beato Giovanni da Fiesole, meglio noto come Beato Angelico, pittore e frate domenicano (1387-1455).
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Dettaglio della Crocefissione, convento di San Marco (Firenze) |
Secondo il meccanismo sociale noto come principio di Peter, se premiamo le persone competenti con una promozione, presto o tardi le porteremo a un livello in cui non saranno più competenti: a quel punto, se non li degradiamo con altrettanta prontezza (ma è molto difficile che accada), gli incompetenti resteranno lì, e in breve tempo tutta la nostra struttura sarà composta di gente sbagliata nel posto sbagliato. Giovanni da Fiesole seppe riconoscere il livello di incompetenza nel momento in cui stava per oltrepassarlo, insomma ebbe l'accortezza di restare al suo posto: la sua competenza, sin da ragazzo, era stata la pittura, e la pittura fu tutta la sua vita. Questo è più o meno quello che ci racconta Vasari, partendo forse dall'osservazione che se aveva davvero dipinto tutte le opere che gli venivano attribuite, l'Angelico doveva essere stato un lavoratore instancabile ("Lavorò tante cose questo padre, che sono per le case de’ cittadini di Firenze, che io resto qualche volta maravigliato, come tanto e tanto bene potesse, eziandio in molti anni, condurre perfettamente un uomo solo"). Eppure.
Eppure sappiamo che fra Giovanni non era solo il Maestro Beato Angelico. Nel 1450 sarebbe diventato priore del suo convento a Fiesole (subentrando a un fratello defunto). Già in precedenza aveva accettato incarichi amministrativi – quel tipo di accolli che un artista puro dovrebbe rifuggire come la peste. E la stessa generosa offerta che declinò, della cattedra arcivescovile di una capitale come Firenze, dimostra l'alta considerazione del papa per un uomo che conosceva di persona e che evidentemente doveva mostrare altre doti oltre a quella, indiscutibile, per la pittura. È possibile che già intorno al 1440 l'Angelico (ormai conosciuto ben oltre i confini della Toscana) più che un pittore fosse diventato il direttore artistico del suo brand: la rapidità con la quale completa uno dei suoi lavori più famosi e titanici, il ciclo di affreschi del nuovo convento domenicano di San Marco a Firenze, ci fa supporre che a realizzarli sia stata una vera e propria squadra di collaboratori, in grado di replicare lo stile del Maestro (il quale magari interveniva direttamente nei punti decisivi, come i volti che negli affreschi calamitano l'attenzione e sembrano tanto più moderni degli sfondi in cui sono immersi).
È la stessa squadra che una volta trasferitasi a Roma, riesce durante un intervallo di poche settimane a Orvieto a decorare una buona parte della cappella di San Brizio (che poi Signorelli completerà con quegli straordinari affreschi sulla fine del mondo). Professionisti rapidi che procurano all'ordine domenicano appalti prestigiosi e remunerativi. Lo stile sviluppato dal loro leader è precisamente quello che i committenti religiosi dovevano preferire: una via intermedia tra le eleganze tardo-gotiche di Gentile da Fabriano e la rivoluzione realista di Masaccio: panorami naturali ma non troppo, che non distraggano dalla gentilezza delle figure in primo piano, piacevoli – annota Vasari – ma mai sensuali.
Dopodiché non è nemmeno impossibile che fra Giovanni piangesse tutte le volte che dipingeva una crocifissione, come raccontano: la religiosità che emanano le sue composizioni è innegabile, e unita alla sua fama di frate modesto e pio fece sì che l'arte di Beato Angelico diventasse un modello per la pittura sacra, in contrapposizione a quella di altri maestri del primo rinascimento dallo stile più mondano, che un confratello della generazione successiva, Girolamo Savonarola, avrebbe fatto bruciare nel rogo purificatore in Piazza della Signoria; ma le opere di Giovanni a quanto pare non furono toccate. Chiamato "Angelico" già dai contemporanei, e "Beato" dai primi biografi, fra Giovanni è stato ufficialmente beatificato assai più tardi, nel 1982 da Giovanni Paolo II, che contestualmente l'ha nominato patrono degli artisti.
Tutti debunker a Martiropoli
16-02-2023, 00:00santiPermalink16 febbraio: San Maruta (IV-V sec.), vescovo di Mayferkqat, non so se mi sono spiegato.
Di Maruta, vescovo della città siriana di Mayferkqat, che fu inviato da Giovanni Crisostomo presso lo scià di Persia Yazdgard I acciocché ponesse termine alle persecuzioni sasanidi nei confronti dei cristiani, non ho tutto questo tempo di parlare. Accenno solo a quel simpatico aneddoto secondo il quale, siccome lo scià si stava affezionando a Maruta, che essendo non solo un sant'uomo ma anche medico aveva curato con un certo successo la sua emicrania, un giorno, nel tempio zoroastriano, durante la celebrazione, un uomo misterioso apparve allo scià dicendo: fate uscire dal tempio colui che presta credito a un sacerdote cristiano! Yazdgard ne sarebbe rimasto molto impressionato, perché i re orientali in queste leggende sono sempre impressionabilissimi: Maruta, invece, non fece una piega ma chiese di poter ispezionare il tempio e ci trovò una botola da cui evidentemente era comparso l'uomo misterioso.
Guarito così dallo spavento, (e infuriato coi sacerdoti zoroastriani che pensavano di poterlo fare fesso) Yazdgard si sarebbe ancora più convinto della serietà di Maruta, e avrebbe avviato una politica di tolleranza religiosa e di alleanza coi Romani d'oriente che effettivamente risulta dalle cronache. Tutto grazie a una banale operazione di debunking, molto simile a quelle messe in atto dal profeta Daniele con Nabucodonsor. I nemici di Daniele sono i sacerdoti del dio Bal, quelli di Maruta sono gli zoroastriani, ma il succo è lo stesso: il profeta conquista la propria credibilità dimostrando che i prodigi degli altri dèi sono trucchetti messi in atto da un clero di imbroglioni.
In effetti è molto più semplice dimostrare la falsità delle credenze altrui che la fondatezza delle proprie, e quindi non troverai mai tanti debunker come nei pressi di una istituzione religiosa: l'idea è che dopo averti dimostrato che tutto quello che sai è falso, non ti resterà che fidarti di loro. È una tecnica tipica dei truffatori di strada: prima fingono di sventare il trucco di un compare ai tuoi danni, e dopo avere conquistato la tua fiducia ti fottono. Maruta è a tutt'oggi considerato patrono della Persia, cioè dell'Iran: dai suoi viaggi tra Ctesifonte e Bisanzio riportò nella sua città tante reliquie che per un po' prese il nome di Martiropoli, però ora non ho molto tempo per raccontare la sua storia, scusate, ho visto il video di un tizio che dimostra come sia impossibile guadagnare migliaia di euro al giorno con le cripto, è tutto uno schema di Ponzi, mentre invece il suo sistema è molto più modesto, al massimo metti via qualche centinaia di euro al giorno, però bisogna darsi da fare, insomma ciao.
Un'africana in Veneto
08-02-2023, 01:32razzismi, santiPermalink8 febbraio: Santa Giuseppina Bakhita (1869-1947)
Il rapporto tra santità e pelle nera è uno dei più bizzarri e forse meriterebbe di essere studiato meglio: in un continente in cui la nobiltà è associata (almeno a partire dall'Alto Medioevo) a carnagione chiara e capelli biondi, la santità assume attributi opposti molto più spesso di quanto sembrerebbe. Hanno la pelle scura le icone bizantine (forse perché annerite dal fumo delle candele); le statue di vescovi risalenti all'antichità, come Zeno a Verona. Hanno il colore del bronzo certe statue del monaco siciliano San Calogero, che quando vengono portate in processione brillano al sole e sembrano sudare; e proprio in Sicilia, nel basso medioevo nasce il fenomeno dei santi neri, frati di origine africana (a volte schiavi liberati) che vengono venerati in vita e dai quali la gente sembra che si aspetti i miracoli, finché a furia di insistere i miracoli non arrivano. Il caso di Giuseppina Bakhita è molto più recente, ma non così diverso: anche Giuseppina è diventata famosa senza averlo desiderato, semplicemente perché il colore della pelle richiamava l'attenzione di fedeli e curiosi ("Tuti i vole védarme: son propio na bestia rara!") In un mondo senza immagini fotografiche a colori, Giuseppina mostrava agli abitanti di Schio che sì, i neri esistevano: se poi apriva la bocca per parlare la sorpresa era doppia, perché Giuseppina parlava in dialetto veneto.Giuseppina deve la sua fama a un libro della canossiana laica Ida Zanolini, Storia meravigliosa: Giuseppina Bakhita, che negli anni Trenta ebbe un buon successo e fu una specie di italica Capanna dello Zio Tom; un racconto che ha senz'altro il pregio di mettere a fuoco gli orrori dello schiavismo, ma anche di confortare il lettore sul fatto che molti uomini bianchi lo avversino, in particolare gli illuminati esponenti della borghesia coloniale italiana. Come Callisto Legnani, console italiano a Khartoum, che comprava i bambini vittime della tratta per restituirle alle famiglie. Questa ragazzina che riscatta nel 1882, però, non può essere restituita perché non si ricorda nemmeno come si chiamava: il nuovo nome ("Fortunata"), glielo hanno dato i predoni. Potrebbe avere tredici anni. Probabilmente viene da un villaggio del Darfour: ricorda di avere avuto molti fratelli che forse sono stati fatti prigionieri anche loro; ha già cambiato padrone più volte; è stata al servizio di un generale turco che l'ha fatta tatuare; il tatuaggio successivamente è stato abraso e forse trattato col sale per creare una cicatrice permanente. Tutte queste cose le sappiamo dal libro della Zanolini: Giuseppina non ne parlava volentieri e a volte sosteneva che la storia era esagerata – può darsi che la Zanolini volesse condensare nel personaggio di Bakhita le sofferenze inflitte a più bambine, e documentate da altre fonti: così come può darsi che Bakhita avesse maturato una certa insofferenza per chi continuava a chiederle particolari riguardo i traumi della sua infanzia.
La ragazza resta per due anni al servizio del console – i biografi si affrettano a precisare che non era più considerata una schiava, ma comunque era una minore che svolgeva mansioni di servitù. La differenza che Bakhita percepisce è che non viene più picchiata e tanto basta perché sia la stessa Bakhita a chiedere a Legnani di portarla con lei, quando lascia Khartoum nel 1884 durante la rivolta del Mahdi. Ai Legnani si aggrega durante il viaggio un'altra famiglia italiana, gli albergatori Michieli. Giunti a Genova, il console cede Bakhita ai Michieli, che hanno una figlia che si trova bene con lei. Sono i Michieli a portare Bakhita in Veneto (a Mirano): tre anni dopo, quando ripartono per l'Africa, lasciano la figlia in un collegio canossiano di Venezia. Bakhita resta con lei, in qualità di catecumena, perché non è nemmeno battezzata e di cristianesimo ancora non sa quasi nulla. Quando intorno al 1889 la signora Michieli torna a prendere la figlia, Bakhita prende l'unica vera decisione della sua vita: non vuole tornare in Africa, preferisce restare nel convento delle canossiane. La Michieli ricorre ai legali, così che a un tribunale tocca sancire che la schiavitù in Italia non esiste: Bakhita è libera di restare nel convento.
Nel 1890 viene battezzata Giuseppina Margherita Fortunata: sei anni dopo prende i primi voti. Nel 1893 è trasferita nel convento di Schio dove passerà quasi tutto il resto di una vita tutto sommato abbastanza tranquilla, scandita dalle normali mansioni di una suora canossiana: in cucina, in sagrestia, anche in infermeria quando durante la Prima Guerra Mondiale il convento diventa un ospedale delle retrovie. La situazione cambia quando nel 1902 Giuseppina viene spostata in portineria, diventando il volto che le canossiane di Schio offrono al mondo esterno: è un volto sorridente, ma davvero inusuale, che richiama perfino scolaresche in visita d'istruzione. I concittadini la chiamano Madre Moreta e se non si aspettano da lei espliciti miracoli (una portinaia nera a Schio è già un piccolo miracolo), comunque in un qualche modo reclamano che un volto così diverso dal solito si carichi di un senso, renda testimonianza su un continente lontano che forse Giuseppina non ricordava volentieri.
Le canossiane decidono di scriverci un libro, che si ristampa varie volte e che più che a raccontare la sua lagrimevole storia serve a sensibilizzare il pubblico sulla necessità di sostenere le opere missionarie: una canossiana di ritorno dalla Cina la porta con sé in un tour di conferenze in tutt'Italia, che fanno il pieno di pubblico perché sul palco c'è anche la suora nera, che non parla molto (il dialetto veneto in effetti rovina un po' l'effetto esotico), ma insomma, è nera. Non una cosa che si vede tutti i giorni – e a differenza che al circo, alle conferenze missionarie non si paga il biglietto. Il gusto per l'esotico del resto è quello che porta migliaia di giovani volontari in Abissinia, dove a sentire le canzoni è pieno di faccette nere che non vedono l'ora di sorridere ai liberatori. Nel 1936 Giuseppina accompagna a Roma una delegazione di missionarie che prima di partire per Addis Abeba vanno a salutare Mussolini. Le faccette nere però, ora che sono suddite dell'impero, fanno meno tenerezza. Anzi occorre scongiurare che i soldati contraggano matrimoni misti: si è appena scoperto che l'italianità è una razza che va difesa dalle impurità. Può essere solo una coincidenza, ma proprio nel 1837 Giuseppina viene spostata dal convento di Schio e si ritrova in Lombardia, a Vimercate. Anche lì però viene collocata in portineria: si vede che era una portinaia veramente brava, o che alle canossiane non dispiaceva quel particolare tipo di attenzione che attirava. Nel 1939, malata, ottiene di tornare a Schio dove si spegne l'otto febbraio del 1947.
Giuseppina è stata beatificata nel 1992. Non ha fondato conventi né scritto meditazioni; stava in portineria, sorrideva e nemmeno faceva i miracoli, almeno in vita. Quello necessario alla sua canonizzazione lo ha fatto a una signora brasiliana diabetica, a cui stavano per amputare le gambe. Chissà quante sante e quante beate avrà invocato: Bakhita ha funzionato, e così al termine di un processo abbastanza rapido è stata canonizzata da Giovanni Paolo II. Di sé stessa diceva: "Mi son on povero gnoco, come i gha fato a tegnerme in convento?"
San Gilberto di Limerick (oh!)
04-02-2023, 02:01anglistica, poesia, santiPermalink4 febbraio: San Gilberto vescovo di Limerick (XII secolo)
C'era a quei tempi un presule in Irlanda
che trovava la sua Chiesa esecranda,
con riti problematici
e diciamolo, scismatici,
scandalizzanti il presule d'Irlanda.
Quest'uomo, che chiamavano Gilberto,
affrontava i suoi avversari a volto aperto:
"L'unica Chiesa sana",
dicea, "è la gregoriana:
le altre sono eretiche, vi avverto".
Alla riforma di Papa Gregorio
si riferiva (credo sia notorio)
che uniformò la Chiesa:
ben meritoria impresa
in cui si cimentò Papa Gregorio.
Gilberto fu seguace suo e buon chierico,
ma poiché egli era vescovo a Limerick (oh!)
per lui ho scritto una sciocca
insensata filastrocca,
che è cosa invero indegna di un buon chierico.
Si fosse egli chiamato Arnolfo, o Ambrogio,
non dico che avrei scritto un buon elogio:
però ci avrei provato;
né è colpa del prelato
se Arnolfo non chiamavasi, né Ambrogio.
La colpa in parte cade su Edward Lear
che queste strofe scrisse a non finir:
"limerick" le chiamò,
perché io non lo so:
non credo lo sapesse neanche Lear.
Brigida e il barile senza fine
01-02-2023, 09:34repliche, santiPermalink(2013) Appena dico “Santa Brigida”, vi sento già sbuffare: “Massì, lo sappiamo, patrona di Svezia e d’Europa: ebbe otto figli, fondò una settantina di monasteri e riempì otto volumi di visioni estatiche”. Tutto questo è vero e anche di più, ma si tratta di Brigitta di Uppland, 23 luglio. Il primo febbraio ricorre un’altra Santa Brigida, quella di Kildare (Irlanda). Perché l’Irlanda non è solo San Patrizio, sapete.
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E sai cosa bevi |
Brigida forse era figlia di un capotribù e di una schiava convertita da Patrizio, forse no; forse esisteva già sotto forma di Brighid, importante divinità celtica, a cui erano dedicate alcune fontane sacre che poi passarono in blocco al cristianesimo quando questo espugnò anche l’Irlanda e Brighid si rassegnò a vestire i panni da badessa, riuscendo però nella trattativa a spuntare qualcosina di più: un pallio. Siccome non siete dei lettori qualunque, ma siete i lettori della rubrica dei Santi sul Post, non c’è bisogno di spiegarvi cosa sia il pallio e quanto sia straordinario che Brigitta ne vestisse uno. Solo i vescovi portano il pallio, e i vescovi, di solito, anzi sempre, sono maschi. Invece Brigitta lo portava, e lo portarono tutte le badesse che si succedettero a lei nella guida del monastero di Kildare (che forse all’inizio ospitava monaci di ambo i sessi, ancorché segregati; ma il boss era una donna). La cosa andò avanti per 500 anni, al punto che qualcuno cominciò a chiedersi il perché, e nacquero divertenti spiegazioni: si narra ad esempio che Brigitta fosse stata ordinata badessa da un vescovo molto anziano, che forse aveva sbagliato formula e invece di chiamarla “badessa” l’aveva chiamata “vescovo”: ma un ordine sacerdotale è una cosa seria, indissolubile, come il matrimonio; se per dire un prete molto anziano e presbite ti sposa per errore con un’acquasantiera, tu e l’acquasantiera restate marito e moglie per l’eternità – oppure vi appellate alla Sacra Rota, che in un caso del genere non avrebbe molte difficoltà ad annullare il sacramento – ma nel caso di Brigida nessuno si era appellato e così la badessa avrebbe ottenuto la dignità di vescovo, unica donna al mondo, per lei e per le sue success… le sue successoress… buffo, in italiano non c’è una parola per le donne che succedono ad altre donne in un ruolo di responsabilità. Curiosa lacuna.
Brigida è simpatica. Faceva miracoli molto semplici e di sicura presa: ottenne lo spazio per un convento stendendo il suo velo su un campo. Il proprietario le aveva detto che le avrebbe dato solo la terra coperta dal suo velo ma Brigida riuscì ovviamente a dilatarlo fino ad ottenere un bel lotto fabbricabile. Non ebbe particolari visioni estatiche, e di monasteri ne fondò assai meno dell’omonima principessa di Svezia – ma nell’isola ancora si parla di quella volta che nel Meath “spillò birra da un solo barile per diciotto chiese, in quantità tale che bastò dal Giovedì Santo alla fine del tempo pasquale” (Breviario di Aberdeen). Perciò gli irlandesi la ricordano con una preghiera che dice:
I would like a great lake of beer
for the King of Kings.
I would like to be watching Heaven’s family
drinking it through all eternity.
(Vorrei un lago di birra
per il Re dei Re.
Vorrei guardare la famiglia celeste
che ne beve per l’eternità)
Questa visione del paradiso come un pub dove la famiglia degli angeli e dei santi trinca per l’eternità, la dobbiamo a Santa Brigida di Kildare, che Dio l’abbia in gloria. E quando il giorno verrà, che si apriranno le saracinesche del cielo, fa che sia Santa Brigida ad attenderci al bancone celeste. E se la Madonna vorrà offrirci il vino di Cana, noi le diremo: “Tuo figlio ci ha messo l’acqua”, ma solo per scherzo, e Brigida spinerà una scura anche per lei, e i protestanti sciacqueranno i bicchieri in cucina, dove sarà pianto e stridore di piatti in eterno nei secoli dei secoli, amen.
La monaca antipatica
30-01-2023, 01:40santiPermalink30 gennaio: Santa Giacinta Marescotti (1585-1640), monaca antipatica
Se il destino dell'uomo è il suo carattere, non si può dire che Giacinta Marescotti partisse avvantaggiata. Ognuno ha la sua croce: può essere una malattia o una condizione sociale. In molti casi la santità coincide con l'eroica sopportazione di questa condizione. Giacinta era nobile e bella, ma una croce comunque l'aveva: meno visibile di altre, più imbarazzante da condividere, ma comunque nota a tutti i biografi che non possono fare a meno di rilevarla: Giacinta era insopportabile."Mostravasi tanto ritrosa e acerba che da pochi era amata e da molti fuggita" (Francesco Maria de Amatis), "cupa, intrattabile, grave alla famiglia" (un'altra biografia citata da Alfredo Cattabiani). Sarebbe stato proprio questo carattere difficile ad alienarle la simpatia del padre nel momento fatale in cui il marchese Paolo Capizucchi fece capire che era interessato a imparentarsi coi Marescotti. Paolo a Giacinta piaceva, ma il padre decise che Capizucchi si sarebbe fidanzato con la sorellina Ortensia, mentre Giacinta sarebbe tornata dalle suore del convento di San Bernardino, dov'era andata a scuola (ma ci era resistita un anno appena). I biografi fanno balenare il sospetto che la decisione del padre dipendesse dal cattivo carattere di lei; tuttavia il suo nome secolare (Clarice, "di Chiara") tradiva già il proposito dei genitori di sbolognarla alle clarisse – proprio come la Gertrude di Manzoni, che era stata chiamata così perché il nome suonava adatto al chiostro.
Nel chiostro Clarice ci entra a vent'anni, non come suora clarissa, ma come terziaria francescana: non prende dunque il voto di clausura, può ricevere visite, ma deve pur sempre vivere nel convento, seppure in un bilocale al piano nobile finemente arredato. La famiglia le passa 40 scudi l'anno, che in un convento di Viterbo sono più che sufficienti a fare una bella vita: ma che bella vita si può fare in un convento a Viterbo? Respinta dalla famiglia, isolata dal mondo, Giacinta non può nemmeno contare sulla solidarietà delle consorelle, che in effetti non sono sue consorelle. A questo punto della storia il romanziere farebbe irrompere un Egidio o qualche altra complicazione peccaminosa, ma a Giacinta non succede nemmeno questo, è come se nemmeno Satana la sopportasse. A trent'anni si ammala – è un brutto momento, nel giro di pochi mesi le erano morti la madre, un fratello e la cara sorella Ortensia.
Giacinta si mette a letto; un frate predicatore che sale per confessarla, Antonio Bianchetti, vede i bei mobili e se ne va sdegnato esclamando "Il Paradiso non è fatto per le persone superbe e vanitose". È uno choc, o se preferite, la vocazione: Giacinta decide di cambiare stile. Rinnega i bei mobili e i vestiti, sceglie una cella spoglia in cui si incatena a un letto di di assi di legno, ma non può rinnegare il suo carattere: insopportabile era prima e insopportabile resta. I suoi eroici atti di penitenza innervosiscono le clarisse, che la penitenza la fanno per tutta la vita e non sopportano la sua ansia di recuperare il tempo perduto, con gesti teatrali più adatti a una leggenda di santi che a un convento vero: una volta che per chiedere perdono si inginocchia per baciare il sandalo di una sorella, si prende un calcio in faccia.
Col tempo la situazione migliora – non è affatto chiaro il perché: d'altronde siamo stati quasi tutti ragazzini insopportabili, e poi a un certo punto cosa ci è successo? Niente di speciale, la vita ci ha preso a schiaffi, ma nemmeno tanti. Forse Giacinta comprende che la santità si può conquistare anche con le opere di bene, e che di bene con quei 40 scudi al mese se ne può fare parecchio. Fondamentale sembra essere stato l'incontro con Francesco Pacini, ex soldato di ventura (anche lui un carattere difficile) che racconta di essersi convertito grazie alle assidue preghiere di Giacinta. Pacini e la Marescotti fondano due confraternite dedite all'assistenza di poveri e malati, i Sacconi e gli Oblati di Maria. L'immagine di Giacinta migliora al punto che quando muore (a 53 anni) i concittadini vogliono a tutti i costi ritagliarne un lembo delle sue vesti per averne una reliquia, e le clarisse devono rivestirla tre volte. Insomma anche per gli antipatici c'è speranza – certo bisogna lavorarci molto, più coi fatti che con le parole.
Il santo parricida e matricida
29-01-2023, 09:04famiglie, miti, santiPermalink29 gennaio: San Giuliano l'Ospedaliere, parricida e matricida
Vi è mai capitato, tornando a casa tardi ragazzini, di pensare: quelli adesso mi ammazzano, mi aspettano dietro la porta e me ne danno finché – per cui girate la chiave nel modo più lento possibile, come ladri nella casa dei vostri genitori, ma dietro la porta non c'è nessuno, nessuno nemmeno in cucina, nessuno in salotto a sonnecchiare davanti alla tv, nessuno da nessuna parte e questo non era mai successo, al punto che vi spaventate e aprite pure la porta di camera loro, dov'è giusto che fossero, ma non era giusto per voi trovarli lì. Questa cosa, se ci riflettete, non ha senso: che i vostri genitori dividano un letto e un'intesa sessuale non solo è giusto, ma è il motivo stesso per cui voi siete al mondo a domandarvi: perché? Perché ciò che mi ha dato la vita mi mette tanto a disagio?
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Masolino da Panicale |
Al giovane Giuliano, nobile cacciatore, un cervo ormai braccato avrebbe detto: Come osi inseguirmi, tu che ucciderai il padre e la madre? Sconvolto, Giuliano avrebbe abbandonato i genitori e la terra d'origine, non si sa nemmeno quale (in alcune versioni Ath, oggi in Belgio), peregrinando per monti e per valli fino a far carriera alla corte di un principe che ne apprezzava le corti cavalleresche, sposare una vedova e intitolarsi il di lei castello. Un mattino molto presto, tornando stanco da un viaggio di lavoro, Giuliano entra nella sua camera e nella penombra trova nel letto una persona in più. Già sicuro di avere scoperto un tradimento della moglie, non perde tempo ad accendere una candela e ammazza a fil di spada i due dormienti. Il lettore a questo punto ha già capito, ma Giuliano no: immaginate il suo sbigottimento quando uscendo dal castello vede giungergli incontro la moglie tutta contenta: hai visto chi ti è venuto a trovare? I tuoi genitori che ti hanno cercato in lungo e in largo perché li avevi abbandonati senza spiegare il motivo! Siccome erano molto stanchi li ho accomodati nella nostra camera e me ne sono venuta alla prima messa del mattino... ma perché sei così pallido? Giuliano, devastato dal compiersi del suo destino, decide su due piedi di abbandonare ogni suo avere e mendicare per il mondo. La moglie, che almeno secondo Iacopo di Varazze conosceva la profezia e (chioso io) forse un po' si sentiva colpevole di non aver allestito la camera degli ospiti, decide di accompagnarlo. Nelle loro peregrinazioni arrivano a un grande fiume che secondo gli abitanti di Macerata è il Potenza, ma più facilmente l'autore aveva in mente i grandi fiumi tra Reno e Senna, dove fondano un ospedale per i pellegrini che arrivavano lì dopo un guado evidentemente molto difficile. Molti anni dopo, quando un pellegrino assiderato bussa alla porta, Giuliano non esita a ospitarlo nel suo letto malgrado mostri i sintomi della lebbra. Si tratta in realtà di un angelo ben camuffato che annuncia a Giuliano e consorte il perdono di dio: la coppia morirà pochi giorni dopo. Si direbbe che per tornare nella grazia di Dio, Giuliano, che non aveva tollerato i genitori nel proprio letto, abbia dovuto accogliere nello stesso letto la malattia più orribile alla vista, il disfacimento della pelle e della carne. Non aveva accettato chi gli aveva dato la vita, doveva accettare chi gli dava la morte. È una storia ben strana e non sappiamo chi l'ha inventata.
La paginetta su questo Santo che Iacopo di Varazze infila nella sua Legenda aurea, in mezzo alle biografie di altri vescovi e martiri recanti lo stesso nome, diventa così popolare da 'mangiarsi' gli altri Giuliani – compreso ad esempio il patrono di Macerata, che nei primi secoli era un omonimo martire istriano. È una leggenda spuntata all'improvviso nel tardo medioevo (non se ne trovano tracce prima del XIII secolo), che sicuramente ricorda il mito di Edipo, ma sposta l'attenzione dal tabù dell'incesto al senso di disagio che possiamo provare nel sorprendere i nostri genitori a letto assieme. Flaubert troverà la leggenda su una vetrata della Cattedrale di Rouen e ci scriverà quel capolavoro di novella. Giuliano è un santo troppo leggendario per risultare nel Martirologio romano: la più comprensiva Bibliotheca Sanctorum lo ricorda il 29 gennaio, riprendendo la tradizione attestata da Iacopo di Varazze; a Macerata festeggiano il 31 agosto, prima di tornare al lavoro.
La barella accanto
22-01-2023, 22:28santiPermalink23 gennaio – Beata Benedetta Bianchi Porro (Forlì 1936 – Sirmione 1964), sofferente
Questa vorrebbe essere una pagina divertente, ma ridere dei santi non è quasi mai giusto. Al limite si può sorridere su quelli antichi, ormai ridotti a leggende – anche se sotto tutte le leggende c'è quasi sempre qualcuno che ha sofferto davvero. Quanto ai più recenti, ridere sembra proprio la cosa più sbagliata da fare, ed ecco la mia confessione: leggendo una biografia di Benedetta Bianchi Porro mi è successo, mi sono messo a ridere.
È stato solo un istante, ma non ne vado fiero. Probabilmente si trattava di una risata nervosa, perché la storia della vita di Benedetta Bianchi Porro è straziante – lo stesso Dickens avrebbe avuto qualche esitazione a concentrare tante sfighe su un solo personaggio letterario. Infatti BBP non è un personaggio: è esistita davvero, e ha sofferto davvero, più di quanto ritengo che una persona possa soffrire. Ancora neonata contrae la poliomielite, che le deforma la schiena e le lascia una gamba più corta dell'altra. Però ne guarisce, il che forse le infonde quella fiducia nella scienza che la spinge dopo il liceo a iscriversi a medicina – anche se a partire dai 13 anni ha cominciato a perdere l'udito. A 20 anni invece un'ulcera della cornea le indebolisce sensibilmente la vista. È il dopoguerra, una disabile che vuole laurearsi e diventare medica non può contare sulla sensibilità degli insegnanti, alcuni dei quali a quanto pare la trattano in modo sprezzante. Benedetta insiste, e studiando arriva ad autodiagnosticarsi il morbo di Recklinghausen. È una neurofibromatosi, una malattia rara con possibili complicanze oculistiche, ortopediche, neurologiche: tutto combacia col quadro sintomatologico di Benedetta (e gli specialisti lo confermeranno). È curabile? Benedetta ci prova – i giornalisti di oggi direbbero che "combatte" – ma a ogni operazione chirurgica la situazione sembra peggiorare e nel 1959 Benedetta, dopo un intervento al midollo, rimane paralizzata.
A questo punto Benedetta è a letto, quasi completamente sorda, quasi completamente cieca, quasi completamente immobile. Le biografie ci dicono che pensa sempre più a Gesù e la cosa non sorprende. Ce n'è una in particolare che ci informa di un primo viaggio a Lourdes, ed è da questa che riporto la seguente frase:
"Nel 1962 la portano a Lourdes, alla ricerca di un miracolo. Che avviene, ma per la malata coricata sulla barella accanto".
Ecco, ripeto, non ne vado fiero, ma a questo punto mi sono messo a ridere.
È stata una risata breve e nervosa, perché alla fine cosa c'è da ridere in una ragazza di 26 anni, deformata da una malattia contratta alla nascita, che nella sua breve vita ha fatto in tempo ad acquisire abbastanza conoscenza da capire di dover morire di lì a poco, ma non rapidamente: diventando giorno dopo giorno sempre più sorda, sempre più cieca, sempre più rigida: cosa c'è da ridere se un giorno si ritrova su una barella a Lourdes, a pregare senza poter muovere nemmeno le labbra, e se il miracolo le passa di fianco? Benedetta ha creduto nella medicina, e la medicina le ha solo spiegato di cosa soffriva e quanto ancora avrebbe sofferto; ha creduto in Dio, ma Dio guarisce un po' a casaccio, a quanto pare. Ho riso di tutto questo perché sono un essere umano e come tale cerco di trovare il senso al dolore, e più cerco e meno lo trovo, così a volte ne rido. Due anni dopo Benedetta ha smesso di soffrire, circondata dall'affetto di persone che nella sua sofferenza trovavano una specie di speranza. Nel 1986, una madre che ha letto da qualche parte la stessa storia che ho letto io, le dedica una novena di preghiera perché ha un figlio in coma: il ragazzo si sveglia, tanta sofferenza per un attimo sembra avere un senso. Benedetta Bianchi Porro è stata beatificata nel 2019.
Edoardo il Confessore
05-01-2023, 02:22santiPermalink5 gennaio: Edoardo il Confessore (1002-1066), re d'Inghilterra
Per chi è già re, la via per la santità è relativamente semplice: fondare un ricco monastero – nel caso di Edoardo, l'abbazia di Westminster – può essere determinante. Non solo i monaci continueranno a ricordarsi di te nelle loro preghiere, ma avranno tutto l'interesse a difendere la tua figura storica e a garantire sulla tua vita e i tuoi miracoli. Poi ci sono i parenti, tanto disposti a onorare la tua memoria da morto quanto diffidavano della tua figura da vivo: alcuni davvero non vedono l'ora che tu te ne vada in paradiso.
Edoardo non è il primo santo in famiglia: già uno zio omonimo veniva venerato come "martire" perché era stato fatto uccidere dalla matrigna nel 978. Il termine "confessore" nel medioevo veniva appioppato ai santi che pur difendendo la fede ("confessando") non ne morivano di morte violenta, evento tutt'altro che infrequente nel mestiere di monarca. Erano, tanto per cambiare, tempi complicati, che vedevano l'Inghilterra sospesa tra due centri di potere: Danimarca e Normandia. Edoardo è figlio di Etelredo II detto il Malconsigliato, che aveva rinunciato a invadere la Normandia per sposare Emma, sorella del duca di Normandia e soprannominata "la gemma dei Normanni", si presume per l'avvenente bellezza. A Emma sarebbe capitato di sposare due re, generarne altri due, e fare da matrigna da altri due ancora. L'inizio della carriera di regina però non fu promettente: i Danesi invadono l'Inghilterra ed Etelredo, piuttosto di combattere, decide di scappare con tutta la famiglia dal cognato normanno. Non sappiamo se fu questa scelta a valergli il soprannome di Malconsigliato: fatto sta che Edoardo, undicenne, ne avrebbe trascorsi altri venticinque in questa specie di esilio, che a guardarlo dal nostro punto di vista tanto esilio non era, visto che almeno la madre doveva trovarsi più a suo agio da quella parte della Manica. Lo stesso Edoardo fa carriera e forse per qualche tempo diventa tutor del figlio del duca, il piccolo Guglielmo che poi conosceremo come il Conquistatore. Nel 1016 a Emma, rimasta vedova, viene proposto di sposare un nuovo re d'Inghilterra: Canuto I, il figlio dell'invasore danese che aveva fatto scappare il primo marito. Come dire di no? Ma Canuto è anche re di Danimarca, anzi fa già abbastanza fatica a regnare laggiù su alleati vichinghi piuttosto irrequieti, e l'Inghilterra resta in balia delle famiglie rivali. Quando anche Canuto muore, nel 1035, Edoardo e il fratello Alfredo provano a sbarcare nell'isola, ma non hanno fortuna: Alfredo in particolare viene catturato dal conte del Wessex che lo fa accecare per renderlo inadatto al trono: Alfredo muore poco dopo a causa delle ferite. Edoardo è già scappato in Normandia. La fortuna gira in suo favore nel 1041, quando l'Inghilterra ormai è controllata da Canuto II, figlio di Emma e Canuto. Il fratellastro di Edoardo regna sull'isola col pugno di ferro, ma non ha eredi e rischia di venire travolto da una congiura di palazzo o una rivolta popolare o entrambe le cose: propone quindi a Edoardo di co-regnare con lui. A Edoardo basta poco per essere amato dai nuovi sudditi: tanto per cominciare non è danese come gli ultimi conquistatori, né ha dovuto alzare le tasse per combatterli o per rimettere in riga qualche nobile riottoso.
Canuto muore l'anno dopo in Danimarca durante un matrimonio di parenti, forse per un ictus (a 24 anni!): Edoardo, che pare non fosse un cattivo combattente, si ritrova re incontrastato di tutta l'Inghilterra senza avere vinto una sola battaglia e capisce forse nell'occasione che le guerre, meno si combattono, meglio è. Ovviamente non riuscì a farne del tutto a meno, ma riuscì a ridurle al minimo, addirittura sposando la figlia di uno dei suoi peggiori nemici, il conte del Wessex che aveva accecato e ucciso suo fratello. L'unione non lasciò figli, il che permise poi ai monaci di Westminster di ricamare la leggenda di un matrimonio 'bianco' contratto per necessità politica ma non consumato. Ma persino la mancanza di un erede diretto, che in una monarchia è spesso visto come indizio di fragilità, Edoardo riuscì forse a trasformarla in un vantaggio, se davvero promise a Guglielmo di Normandia di succedergli al trono. L'alleanza coi Normanni, in una fase in cui i Vichinghi erano presi dalle loro beghe, lo rese così sicuro in politica estera da consentirgli di smantellare del tutto la flotta che suo padre aveva istituito per difendersi dalle incursioni danesi (e che decisamente non aveva funzionato). Alla sicurezza nel Mare del Nord avrebbero provveduto i Cinque Porti, cinque municipalità affacciate sul mare a cui Edoardo offrì in cambio speciali privilegi. Anche grazie a questa decisione riuscì ad abolire le tasse per il mantenimento dell'esercito.
Dai documenti che ci restano, non risulta che Edoardo fosse particolarmente munifico nei confronti della Chiesa: la decisione di istituire un'abbazia a Westminster viene ricondotta a un voto che Guglielmo avrebbe fatto durante la sua giovinezza in Normandia, di recarsi in pellegrinaggio a Roma se mai un giorno fosse riuscito a tornare nella natia Inghilterra. Nell'isola, come si è visto, c'era tornato; dopo di che aveva scoperto di non avere poi tutta questa voglia di lasciarla di nuovo: né poteva fidarsi troppo di nobili e parenti. Sarebbe stato un papa (non è chiaro quale, anche a Roma erano tempi turbolenti) a suggerirgli di destinare il budget previsto per il viaggio all'erezione di una chiesa che sarebbe diventata il pantheon dei re inglesi. Quando fu eretta era la prima costruzione in stile romanico dell'isola (due secoli dopo fu completamente rifatta alla moda gotica). Edoardo fece appena in tempo a presenziare alla sua consacrazione: morì in quel 1066 così importante per la storia della sua nazione. Alla sua morte il trono fu reclamato sia da Guglielmo di Normandia (figlio dello zio), sia da Aroldo, figlio del suocero conte di Wessex (sempre quello che aveva accecato il fratello di Edoardo). Come sia andata a finire lo sapete perché lo avete letto sui libri di storia, e anche nel caso non sapeste leggere è più o meno tutto disegnato sugli arazzi di Bayeux. Guglielmo, benché molto diverso dallo zio per temperamento e per politica, fu probabilmente il primo a capire quanto fosse importante insistere sulla santità del re di cui si professava erede. Edoardo era una figura di re pacifico e autorevole, nato in Inghilterra, cacciato da invasori malvagi che per lungo tempo gli avevano impedito di tornarvi: tutto quello che Guglielmo non era, ma che gli inglesi avrebbero desiderato. Canonizzato nel secolo successivo, per qualche tempo fu considerato il protettore dell'Isola, finché i cavalieri di ritorno dalle Crociate non imposero la figura più guerresca di San Giorgio. È ancora il protettore dei matrimoni difficili, dei monarchi in generale e in particolare della famiglia reale inglese, che sembra averne spesso bisogno.
Il figlio di Dio e i suoi antenati
23-12-2022, 12:50Cristo, santiPermalink24 dicembre: Santi antenati di Gesù
La vigilia del Natale, il martirologio romano celebra gli antenati di Gesù, un concetto abbastanza problematico dal momento che Gesù è considerato, già alla fine del primo secolo, il figlio diretto di Dio. Nozione difficile da conciliare col fatto che le Scritture conservino non una, ma ben due liste di antenati di Gesù: non solo, ma le due liste (una nel vangelo di Matteo, l'altra in Luca) non coincidono.
Matteo all'inizio del suo Vangelo provvede una lista che va in ordine cronologico da Abramo a Giuseppe, "lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo" (ma una variante antica recita proprio "Giuseppe generò Gesù"). Matteo, ex ragioniere col pallino dell'ordine, si ingegna a far tornare i conti anche con gli antenati, che devono essere un numero multiplo di sette: 14 antenati da Abramo a re Davide, 14 antenati da Davide alla deportazione di Babilonia che per qualche motivo è esclusa dal conteggio, 14 dal ritorno da Babilonia a Gesù. I conti in realtà non tornano (qualche nome si è forse perso in traduzione), ma quel che importa davvero è che la figura di Gesù viene solidamente conficcata nel "tronco di Iesse", il capostipite della dinastia dei re di Israele e di Giuda, che Matteo aveva trovato nell'Antico Testamento, anche se forse nella versione che consultava mancava qualche nome. Questo secondo la promessa solenne che Dio aveva fatto a Davide, figlio di Iesse: il tuo trono sarà stabile per sempre. Gesù quindi è davvero il re dei Giudei, il Messia promesso dai profeti.
Questa catena di discendenti e promesse da mantenere è oggettivamente difficile da conciliare col fatto che pochi versetti dopo Giuseppe appaia un semplice padre putativo, messo dall'angelo davanti a un fatto compiuto: la sua fidanzata è già incinta a causa dello Spirito Santo. Secoli di commentatori hanno rilevato che comunque da un punto di vista legale Giuseppe, riconoscendo il Messia, ne diventa il padre a tutti gli effetti; rimane nel lettore una sensazione di compromesso, come se Matteo volesse tenere il piede in due scarpe: ai cristiani garantisce l'eccezionalità di Gesù, figlio di Dio; agli ebrei ribadisce che si tratta del Messia di stirpe davidica.
Matteo è così scrupoloso da riportare anche quattro antenate donne (Tamar, Raab, Rut, Betsabea): ha suscitato molte discussioni il fatto che tutte e quattro siano personaggi irregolari, per le origini o per il comportamento (Raab è una prostituta, Tamar si finge tale per necessità, Rut non è ebrea di nascita, Betsabea è sedotta da Davide quando è già moglie di un suo generale). Matteo forse voleva ricordarci che la grazia di Dio può emendare qualsiasi peccato o difetto? Più probabilmente Matteo inserisce queste quattro donne perché sono le uniche che trova nelle Scritture, dove in effetti le donne irreprensibili non lasciano quasi traccia.
La lista di Luca è molto diversa, al punto che non si può escludere che abbia una funzione polemica nei confronti di quella stilata da Matteo – ammesso che Luca la conoscesse. È una lista a ritroso, parte da Gesù, "figlio, come si credeva, di Giuseppe" (quel "come si credeva" mette tutto un po' tra parentesi) e risale di generazione in generazione ben oltre Abramo, fino al primo uomo Adamo, "figlio di Dio", segno che per Luca Gesù, molto più che il Messia ebraico, è il redentore dell'umanità intera. Luca non nega la discendenza da Davide, ma la sua insofferenza per i signori e i nobili lo porta a strapparlo dal ramo del di lui primogenito Salomone, e includerlo invece tra gli eredi di un oscuro fratello di Salomone, Nathan. Da lì in poi quella di Luca è una lista di uomini di cui nulla sappiamo tranne il nome, con qualche occasionale sprazzo di luce (Zorobabele, il leader dei rimpatriati dall'esilio a Babilonia, che compariva anche nella lista di Matteo). Proprio per questo suona in qualche modo più vera, come se Luca l'avesse ripresa da qualche famigliare che sapeva recitarla a memoria: un altro indizio di verosimiglianza è la presenza di nomi ripetuti (tra cui lo stesso "Gesù"), che esistono in tutte le famiglie del mondo tranne in quella descritta nella lista di Matteo.
Per gli altri due evangelisti omologati, il problema degli antenati di Gesù proprio non si pone. Marco (forse il più antico) comincia col battesimo di Gesù, già adulto, nel Giordano, quasi a confermare la tesi degli adozionisti, che credevano che Gesù fosse nato uomo e fosse diventato figlio di Dio in un secondo momento: col battesimo, appunto. Per Giovanni (senz'altro il più tardo), Gesù è il Verbo di Dio fatto carne: un concetto abbastanza complesso, più neoplatonico che cristiano, ma di fronte al quale l'esistenza di antenati "nella carne" è taciuta come fanno sempre i filosofi coi dettagli che non si adattano alle loro formulazioni. Nei secoli successivi, il successo della visione giovannea creerà qualche imbarazzo ai lettori cristiani dei vangeli: insomma, Gesù è figlio diretto di Dio o è erede della stirpe di Davide? Ogni tentativo di conciliare le due idee si denunciava in quanto macchinoso. Per qualche tempo serpeggiò anche l'idea che Gesù fosse erede di Davide da parte di madre: il che non si può escludere a priori, ma sia Luca sia Matteo mostrano una tradizione patrilineare.
(Buon Natale e buone feste a tutti: nel 2023 mi troverete tutti i giorni sulla pagina fb del Catalogo dei Santi ribelli, e un po' più spesso anche qui, spero).
Uomini, profeti e me
28-10-2022, 10:50santi, segnalazioniPermalinkUn paio di segnalazioni, ché Ognissanti si avvicina e io avrei un libro in promozione:
– È uscita una mia intervista su Credere (la rivista settimanale d'attualità per vivere la gioia del Vangelo), edizioni Paoline. Che se ci pensate è notevole. C'è anche una foto mia decente, visto il materiale di partenza (se ricordo bene quando me l'hanno scattata avevo il covid). Probabilmente è la foto più sexy che mi pubblicheranno mai ed è uscita su Credere, la rivista settimanale d'attualità per vivere la gioia del Vangelo.
– Domani (sabato mattina) alle 9:30 dovrei essere ospite telefonico di Uomini e profeti, prestigiosa trasmissione di Rai Radio 3. A presto e buon Halloween (sì, è sempre la stessa festa).
I santi ribelli a Faenza il 23 settembre!
13-09-2022, 19:55autoreferenziali, santi, segnalazioniPermalink
Buonasera a tutte e tutti, solo una breve segnalazione: sono stato invitato dalla redazione del Post a Talk, nell'ambito del quale avrò il privilegio, ma diciamo pure il piacere, di presentare a Faenza il Catalogo dei santi ribelli con Laura Tonini venerdì 23 settembre alle ore 18 nel cortile piccolo. È un evento a iscrizione e quindi... sì, potreste persino non trovare posto se non vi prenotate (diciamo che è un'eventualità) (non lo so quanto sia piccolo il cortile piccolo). Finisce tutto alle 19 perché poi ci sono Concita De Gregorio ed Erica Mou quindi non è che possiamo prendercela comoda.
Detto questo... ma poi chi ha vinto la Gara? Ebbene si tratta di Summer on a Solitary Beach: vittoria non banale ma sostanzialmente appropriata a un torneo così estivo. Questo il podio:
1. Summer on a Solitary Beach (Battiato/Pio, #7)
2. Centro di gravità permanente (Battiato/Pio, #1)
3. Voglio vederti danzare (Battiato/Pio, #3)
E così l'Era del cinghiale bianco, dopo la soddisfazione di aver azzannato Cuccurucucù, rimane al quarto posto. Grazie a tutti per la partecipazione e la compagnia.
Ps: lo so che succedono tante cose nel mondo (guerre, elezioni), e mi piacerebbe pure scriverne, ma cose non banali che per adesso non mi vengono (e settembre comunque per me è un mese durissimo). Il blog ritornerà, prima o poi ritorna sempre.
Il catalogo dei santi ribelli è in libreria, e voi?
19-07-2022, 16:52autoreferenziali, santi, segnalazioniPermalinkSembra proprio che stia facendo finta che non sia già uscito questo libro a cui lavoro alla fine da più di dieci anni. Non è esattamente così: volevo solo aspettare un'occasione buona, l'uscita di un articolo o di un'intervista che però non stanno uscendo perché, perché, non so neanche più perché. Bisogna avere pazienza con questo libro, è sempre stato difficile da portare in giro. Adesso comunque basta, lo lancio da qui con un articolo che mi hanno appena segato, in effetti a rileggerlo non è che ti fa correre in libreria con gli euro in mano ma vabbe', voi potete anche andarci con calma, magari nelle ore meno calde che ormai non saprei neanche quali sarebbero.
Dieci anni in Paradiso
01-11-2021, 10:16anniversari, autoreferenziali, feste, santiPermalink1° novembre – Tutti i Santi
A chi di voi legge abbastanza abitualmente il Post, può capitare ogni tanto di trovare in prima pagina un pezzo sul santo cattolico del giorno. Di solito li firmo io, e non parlano necessariamente del santo del giorno. A volte non è proprio il santo cattolico - a volte non è nemmeno un santo - a volte non parlano proprio di niente in particolare, ma insomma ormai sono una tradizione, da quand'è che sul Post escono questi pezzi? Da dieci anni. Auguri! Cioè in realtà il blog dedicato aprì dieci anni e quasi un mese fa (il primo pezzo era dedicato a Santa Teresina del Bambin Gesù), ma credo abbia più senso festeggiare nel giorno dedicato a tutti i Santi. Come passano in fretta dieci anni, ultimamente.
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Santi agiografati sul Post per secolo dopo Cristo. |
L'idea era molto più antica (ho degli appunti che risalgono al 2002) e ispirata, credeteci o no, all'oroscopo di Internazionale, sì quello di Bob Brezsny che in realtà credo di avere smesso di seguire proprio verso il 2002 quando ho capito, e mi ci è voluto pure un po', che non era ironico, che ci credeva davvero. Ma insomma il concetto era simile: decostruire una delle classiche rubriche da quotidiano, usarla come cavallo da Troia per scrivere tutto quello che mi andava. Ovviamente i santi non hanno l'appeal dell'oroscopo, ma non bisogna sottovalutare che ogni giorno è l'onomastico di qualcuno - certo, è un discorso che funziona finché si dedicano pezzi a Francesco o a Teresa, non ad Agabo o a Gwynllyw. In ogni caso il nome più gettonato fin qui è Giovanni: Giovanni Bosco, Giovanni Nepomuceno, Giovanni decollato, Giovanni da Copertino, Giovanni Paolo II, Giovanni Damasceno, Giovanni Evangelista e non dimentichiamo che anche Francesco d'Assisi in realtà si chiamava Giovanni (c'è anche un pezzo su Giovanni Lindo Ferretti, che però non è ancora esattamente un santo, anzi spero lo diventi il più tardi possibile). Tra i nomi femminili probabilmente vince Maria, non solo perché alla madre di Dio sono già stati dedicati nove pezzi, ma anche grazie a Maria Maddalena, Maria Goretti, Maria Egiziaca, Marguerite-Marie Alacoque e perché no? Jean-Marie Vianney.
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Provenienza geografica (se i confini fossero sempre stati quelli del 2021). |
Ho messo un link al primo pezzo ma è molto difficile che funzioni - come notano gli esperti, Internet come archivio è una frana. In particolare dopo due o tre anni il Post fece un restyling generale e non vorrei che sembrasse una critica, insomma lo so che sono cose inevitabili, ma i link più vecchi non funzionano più e alcuni pezzi sono visibili solo parzialmente, perché erano divisi in pagine. A volte penso che dovrei mettere a posto tutto, un pezzo alla volta. Altre volte penso che si farebbe prima a ripartire da capo. Ho cominciato entrambe le cose e mi sono interrotto entrambe le volte. Sul mio vecchio blog personale ho ricopiato quasi tutti i pezzi, ovviamente modificando le cose di cui mi vergognavo di più e a volte smontando e rimontando cose qua e là e ora il risultato è che in giro per il web ora ci sono due o tre versioni dello stesso pezzo. Una cosa molto medievale, tutto sommato.
Ho detto medievale? Quando ho cominciato ero convinto che avrei parlato soprattutto di Medioevo, ma a quanto pare non è stato così. Anche se la media di tutti i pezzi (inclusi quelli dedicati ai patriarchi e ai profeti della Bibbia, la cui datazione è abbastanza incerta) mi dà come risultato il 745 dC, i secoli più visitati in assoluto sono il primo (una ventina di pezzi è dedicata a personaggi del Nuovo Testamento) e il terzo, il secolo ruggente dei martiri. Il personaggio più antico sarebbe Isacco: quello più recente, sia per età che per canonizzazione, Giovanni Paolo II, non a caso soprannominato "Santo subito". Il secolo medievale più frequentato è il Duecento, grazie agli ordini mendicanti. C'è un altro picco più difficile da interpretare nel Cinquecento. La contemporaneità (Otto e Novecento) si difende bene: una ventina di santi su... a proposito, quanti santi abbiamo coperto fin qui?
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Santi per cittadinanza, un grafico che non ha moltissimo senso. |
Il conto è difficile. Occorre detrarre i pezzi in cui davvero il santo era un mero pretesto, e i casi in cui ho voluto trattare da santo un personaggio che non lo è, o un santo che la stessa Chiesa ha riconosciuto come mai esistito (Simonino). Ma è capitato anche il contrario, ovvero che uscisse sul Post un pezzo su una santa che ancora non lo era (Angela da Foligno) e qualche anno dopo lo è diventata. Al netto di ciò il conteggio dice 10243, a cui bisogna evidentemente detrarre le diecimila vergini che secondo la leggenda sarebbero state martirizzate con Sant'Orsola (ma è probabile che si tratti di un errore di traduzione). Se evitiamo di contare anche i 40 martiri di Sebastea e i 26 compagni di Paolo Miki (questi ultimi purtroppo furono crocefissi davvero in Giappone, non è una leggenda) si arriva al comunque ragguardevole totale di 178: a questo punto l'obiettivo di farne almeno 365 non sembra poi così lontano. Speriamo che i prossimi dieci anni non scorrano ancora più veloci. Abbiamo 60 martiri (più i 40 di Sebastea), 42 vergini, 35 vescovi, 113 eremiti, sette monaci (per lo più benedettini), sedici frati (con una netta preponderanza dei francescani), 19 religiose, soltanto quattro gesuiti, 13 personaggi dell'Antico Testamento tra cui sette profeti; 14 teologi, 5 apostoli; l'unica categoria che si può dire chiusa è quella degli evangelisti, quattro su quattro.
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Santi italiani per regione |
Da dove vengono i Santi di cui qui si è parlato? Qui il conto è complicato dal fatto che in duemila e più anni i confini sono cambiati e di molto, al punto che una delle nazioni più rappresentate sarebbe la Turchia: che però al tempo dei dieci santi in questione non si chiamava ancora così, dato che i turchi vivevano altrove. In ogni caso, se decidiamo di applicare arbitrariamente i confini di oggi a tutti i santi di tutte le epoche, scopriamo che un terzo del totale proviene dalla cosiddetta Italia. All'interno di quest'ultima, il Lazio è decisamente la regione più venerata, e in generale metà dei Santi proviene dal centro, tra Toscana e Abruzzo. La seconda nazione contemporanea, con un quinto del totale, sarebbe Israele, e non sorprende: al terzo la Francia, al quarto appunto la Turchia. Se invece proviamo ad assegnare a ogni santo la cittadinanza che gli sarebbe spettata alla nascita... entriamo in un ginepraio di questioni oziose; diciamo che prevale la nazionalità ebraica, da Isacco a San Pietro, sempre con un quinto del totale: al secondo posto l'Impero Romano classico, quello che crolla ufficialmente nel 476. Ma è un dato che non dice un granché. Più rilevante contare i santi per sesso: risulta che tre su quattro sono maschi, e se probabilmente sul calendario il rapporto è appena un po' meno sbilanciato in loro favore, mi sembra incredibile aver dedicato 42 pezzi a delle sante, insomma a delle donne: mai me ne sarei creduto capace. A proposito di sessi bisogna rilevare che anche in una categoria come quella dei santi, che non si segnala certo per fluidità, i casi di ambiguità sono meno infrequenti di quel che si potrebbe pensare: abbiamo almeno tre santi rivendicati come patroni dalla comunità LGBT (Sebastiano, Sergio e Bacco) oltre a tre crossdresser, se includiamo nella categoria oltre a Marina e Vitaliano anche Giovanna d'Arco, dato il peso che la scelta di vestire abiti maschili ebbe nella sua incriminazione.
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Non riapriamo l'annoso dibattito |
Colgo l'occasione per ringraziare tutti quelli che hanno letto fin qui e scusarmi per tutte le volte che mi avete chiesto qualcosa e non vi ho risposto per ignavia o sbadataggine: prometto che d'ora in poi sarò più sollecito ecc. Ringrazio i redattori del Post, che mi hanno corretto tante cose, e il peraltro direttore che mi ha sempre lasciato libero di scrivere qualsiasi sciocchezza: un onore che ho ripagato scrivendone molte, e molte ancora spero di scriverne. Certo, lo sappiamo tutti, Brezsny è su un altro livello, ma si fa quel che si può. Alla prossima.
Sergio e Bacco: santi, sposi e gay?
07-10-2021, 02:36omofobie, santiPermalink7 ottobre: Santi Sergio e Bacco, martiri e patroni dei matrimoni gay
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Robert Lentz, 1994 Icona per il gay pride di Chicago |
Si sa che le torture delle storie di martiri si assomigliano un po' tutte, per via che gli agiografi si leggevano tra loro e si copiavano spesso. Di santi frustati e bastonati ce n'è tanti, ma di santi costretti a vestirsi da donna ci sono solo questi due graduati dell'esercito, la cui amicizia fraterna è spesso sottolineata nelle icone da un altro elemento inusuale: le due aureole appaiono intrecciate. Del resto è lo stesso Bacco, apparendo a Sergio la notte prima del martirio, a dare l'impressione di non poter salire in cielo senza di lui, tradendo una certa fretta che il sacrificio si completi. Insomma Sergio e Bacco – che in Oriente diventarono santi molto popolari dopo il quarto secolo – sembrano comportarsi come una coppia. Prima qualcuno avrebbe avanzato l'ipotesi: e se fossero quel tipo di coppia? E se questa fosse stata la loro vera colpa, taciuta dagli agiografi ma rivelata indirettamente dal bizzarro castigo escogitato dall'imperatore: la parata in vesti femminili, una parodia del matrimonio?
Santo Sergio (basilica di San Demetrio a Tessalonica) |
L'ipotesi di Boswell è stata più volte smontata, anche da studiosi che riconoscono il valore pionieristico delle sue ricerche: e però non è difficile capire perché sia stata abbracciata da molti militanti LGBT. Per Foucault, semplificando brutalmente, l'omosessualità come la intendiamo oggi è un costrutto sociale: esiste finché esiste la nostra società, che è tutt'altro che una società ideale. Per Boswell l'omosessualità è qualcosa di più vicino a un dato di natura: ne sono esistiti in qualsiasi società, e hanno sempre variamente cercato di ottenere un riconoscimento della loro condizione e delle loro relazioni. Per quanto labili siano le prove, la teoria ha il pregio di venire incontro alle aspirazioni di tanti desiderosi di conciliare la propria omosessualità con la fede cristiana; magari è solo una leggenda, ma non più di qualsiasi altra leggenda di santi: esiste perché qualcuno ne ha sentito il bisogno. Nel 1996 un pittore frate francescano (e gay), Robert Lentz, dipinse per il gay pride di Chicago un'icona dei Santi Sergio e Bacco che divenne immediatamente il pezzo più riprodotto del suo catalogo. I due santi di Lentz sono trentenni di aspetto atletico, com'è lecito del resto immaginare due ufficiali dell'esercito, ma molto diversi da quelli tramandati dall'iconografia bizantina, che invece ne sottolineava gli aspetti quasi femminei.
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Il Cameo "Rothschild": ritratto di Onorio e moglie e (in seguito) di Bacco e Sergio |
A un certo punto gli stessi bizantini potrebbero aver cambiato paradigma e avuto problemi a interpretare le loro vecchie icone (magari tra una crisi iconoclastica e l'altra): capita così che a Costantinopoli un cameo che in origine raffigurava probabilmente l'imperatore Onorio e sua moglie venga ridedicato a Bacco – la figura maschile – e a Sergio: a quest'ultimo tocca la figura in precedenza femminile, più piccola. Chi incise i nomi dei due santi sul cameo forse aveva ancora più difficoltà di noi a riconoscere la sessualità di un personaggio che, pur ornato di orecchini, sfoggiava capelli insolitamente corti: oppure non ebbe altra scelta, se voleva salvare il cameo doveva trasformarlo in un'immagine di santi, e una coppia di santi maschio e femmina non esisteva, non era prevista. E siccome molte storie di santi non nascono prima delle immagini, ma per spiegare le immagini (vedi San Nicola), non è escluso che l'episodio del mascheramento dei sue santi sia stato inventato da un agiografo proprio per spiegare come mai in un mosaico o in un affresco i due venivano raffigurati in uno stile che già nel V secolo poteva sembrare troppo femminile.
Giona: ti sembra il caso di prendertela così?
20-09-2021, 17:54apocalittici e integrati, Bibbia, santiPermalink21 settembre – Giona, profeta suo malgrado
La Bibbia, letterariamente parlandone, non è che sia questo capolavoro: ma quello che la rende più verosimile di tanti altri libri è l'incoerenza. Bel paradosso. Non c'è dubbio che Iliade e Odissea siano più armoniche – e se poi parliamo di coerenza narrativa, Il Signore degli anelli lascia piste a tutte e tre. Ma se in giro nessuno crede più all'esistenza di Achille o Ulisse, e nessuno ha mai per un attimo preso sul serio l'esistenza di Sauron, è proprio perché si vede benissimo che sono storie con un inizio, una fine, e quasi sempre una morale. La Bibbia, beh, non proprio. La Bibbia è evidentemente una raccolta di libri scritti da mani diversissime, rivisti da traduttori e compilatori che avevano idee talvolta opposte, e messi assieme da editori che avevano criteri ancora diversi, e a fare tutto questo potrebbe esserci voluto un millennio: per cui alla fine più che una storia è uno scrigno pieno di roba che per quanto stia lì da secoli lascia sempre questa impressione di materiale raccolto alla benemeglio da qualcuno che stava scappando da un incendio, un'alluvione, una scorreria dei Caldei. Se apri l'Iliade trovi sempre duelli e litigi; se apri la Bibbia puoi trovare a distanze di poche pagine teorie sulla creazione, pagine di censimenti, storiacce di donne e predoni, dibattiti sul senso della vita, poesie d'amore, cronache storiche, profeti preoccupati dalla corruzione dei costumi, e il Libro di Giona: il quale potrebbe essere anche solo una presa in giro.
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Dio parla con Giona, seduto fuori dalla città di Ninive, salterio armeno del XVII secolo, immagine di dominio pubblico |
"Libro" poi si fa per dire, sono tre o quattro paginette, ma è come se mettessero tra virgolette tutto il resto della Bibbia: e se fosse tutto uno scherzo, di Dio o di chi racconta? I cristiani lo piazzarono verso la fine dell'Antico Testamento, perché Giona sembra il profeta più vicino a una certa concezione di Gesù, e Gesù stesso a chi gli chiedeva un "segno" aveva accennato al "segno di Giona" (Matteo 12,40): così come il profeta era rimasto nel ventre di un pesce per tre giorni e tre notti, così dopo tre giorni Gesù sarebbe riemerso dal mondo dei morti. Nella Bibbia ebraica invece la storia di Giona appartiene al libro dei Profeti Minori, di cui Giona sembra però una parodia. Mentre tutti gli altri libri profetici contengono, non sorprende, profezie, quello di Giona sin dalla seconda riga dimostra al lettore che vuole essere qualcosa di diverso: un racconto. C'è da dire che l'ipotetico del lettore della Bibbia a questo punto di profezie dovrebbe averne lette centinaia, per cui dopo aver ammirato lo stile di Isaia, la verve di Geremia, la visionarietà di Ezechiele, potrebbe essere subentrata una certa stanchezza – alla fine si tratta perlopiù di ammonizioni nei confronti di uno o più popoli che non amano Dio come dovrebbero; minacce, lamenti, prefigurazioni di sventura, non è che non ci siano variazioni sul tema ma insomma la canzone è quella.
Il libro di Giona parte appunto da questa saturazione. È una specie di pausa riflessiva organizzata da qualcuno che potrebbe essere vissuto anche parecchio più tardi e che questi profeti li conosceva bene, forse li leggeva di mestiere. In Giona le profezie sono date per scontate, stanno in due righe: quello che interessa all'autore è il contesto: come si comporta il profeta che le deve enunciare, e il pubblico che le ascolta? O meglio: come ci aspettiamo che si comportino? Ipotizziamo che si comportassero in un modo diverso: cosa succederebbe? E se il profeta non avesse voglia di fare il profeta? E se il popolo, che per definizione non ascolta mai il profeta e non si pente dei propri peccati, decidesse invece di farlo? Il libro di Giona è questo: un piccolo grande What If, un esperimento mentale e narrativo. Sarà anche per questo che a differenza di tutti i cartigli profetici che lo circondano, ci suona più contemporaneo. Gli altri profeti si lamentano, minacciano, vaticinano: l'autore di Giona racconta una storia e sorride.
1,1 Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: «Alzati, va' a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me». 1,2 Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore.
Vedete, bastano davvero i primi due versetti. Il primo sembra in tutto e per tutto il classico incipit del profeta minore: il Signore parla a un Tale figlio di un altro Tale e gli ordina di andare presso la tal città di peccatori, che sta per essere distrutta come Sodoma, Gerico, Babilonia... a questo punto lo sappiamo bene cosa succede alle città che continuano a dispiacere a Dio malgrado gli avvertimenti I nomi sono presi da altri libri della Bibbia, il che tradisce l'intento narrativo: un profeta di nome Giona è brevemente menzionato nel Secondo Libro dei Re (dovrebbe essere vissuto nel IX secolo aC), mentre Ninive era stata una capitale dell'impero Assiro. Il secondo versetto spiazza tutto l'impianto, perché stavolta il profeta in questione disobbedisce: Dio gli ha dato una missione, Giona preferisce di no. Fin qui i profeti hanno sempre detto di sì al Signore, però con dubbi e timori che ci autorizzano a pensare che dire di sì al Signore sia qualcosa di faticoso, di eroico: ma l'eroismo implica una libera scelta. Se chi dice di sì al Signore è un profeta, una persona eccezionale, ne consegue che non possiamo essere tutti eccezionali, e che dunque a un uomo non eccezionale dovrebbe essere concesso rifiutarsi a Dio. Perlomeno Giona decide di scappare; il che è buffo, dato che il Signore è dappertutto.
Ma perché Giona non vuole obbedire? Non è subito chiaro, il che ha alimentato interpretazioni molto diverse, compresa quella nazionalista: Giona non vorrebbe convertire i Niniviti perché sono nemici degli Ebrei, e non tollererebbe l'idea che Dio per mezzo suo dia loro una possibilità di redimersi. È un'idea di San Girolamo, che Martin Lutero riprende in chiave antisemita: Giona rappresenterebbe l'ebreo geloso del suo Dio e dell'esclusiva alleanza che ha stretto col suo popolo. E però da nessuna parte nel piccolo libro si legge che gli Assiri stessero attaccando Israele: certo, da altri libri sappiamo che è storicamente accaduto, del resto tutti gli altri popoli nella Bibbia ci stanno apposta per attaccare e opprimere Israele. Ma l'autore non spende una sola parola per accreditare questa interpretazione: Giona non sembra avere a cuore il suo popolo o qualcun altro a parte sé stesso. È un uomo solo a cui Dio affida una missione, e che non la vuole. Può l'uomo rifiutare questo a Dio? Esiste insomma il libero arbitrio? L'autore di Giona non sembra crederci troppo: il profeta riesce a imbarcarsi, ma la nave va incontro a una furiosa tempesta. I marinai capiscono subito che un Dio ce l'ha con loro, e per riconoscere quale tirano a sorte. Viene ovviamente estratto Giona, che capisce di non avere scampo e propone di essere buttato in mare. I marinai non accettano subito l'idea: ma siccome la tempesta non cessa, si rassegnano (non dopo aver pregato il Dio di Giona perché li perdoni, loro in fondo non fanno che quello che è richiesto dalla divinità o dall'autore del racconto). Il sacrificio funziona: il mare si calma, Giona va a fondo ma Dio manda un enorme pesce a inghiottirlo.
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Giona viene buttato a mare, Catacomba di Priscilla, foto di dominio pubblico |
Nel ventre del pesce Giona intona un canto di speranza che è il vertice lirico del libro: "Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce". Giona sembra avere imparato la lezione: una volta rigurgitato dal pesce sull'asciutto, riceve di nuovo dal Signore l'ordine di servizio e si reca ubbidiente a Ninive.
La città è un incubo kafkiano, troppo grande per essere vera: per percorrerla tutta servono tre giorni di cammino, insomma Los Angeles, e Giona deve attraversarla continuando ad annunciare il preavviso di Dio: "Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta". Quante possibilità ci sono che i Niniviti lo ascoltino? Se abbiamo già letto un po' di Profeti lo sappiamo: nessuna. La punizione è troppo solenne, i peccati evidentemente troppo gravi, la popolazione immensa, Giona è un uomo solo, e di malavoglia. Non possono salvarsi, è troppo tardi.
Ma se invece decidessero di ascoltare il Signore? Perché per la prima volta in tutto l'Antico Testamento, l'autore sceglie di percorrere questa via. I Niniviti si pentono tutti, dal primo all'ultimo e persino gli animali; lo stesso re smonta dal trono e si affretta a emanare un editto in cui impone a cittadini (e persino gli animali) di astenersi dal cibo, vestire di sacco ed espiare i gravi peccati che, tra l'altro, nessuno ha ancora spiegato quali siano, sono soltanto un mcGuffin per fare andare avanti la storia. Del resto, se Dio ha mandato Giona, significa appunto che voleva dare ai Niniviti un'ultima possibilità; se i Niniviti approfittano della possibilità, Dio non può che "pentirsi del male che aveva minacciato di far loro" e revocare la distruzione. Tutto è bene quel che finisce bene – salvo che Giona preferirebbe di no. È offeso a morte.
Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu indispettito. Pregò il Signore: "Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!"
Che senso ha una scenata del genere? Se lo domanda persino Dio: "Ti sembra giusto essere sdegnato così?" Una spiegazione è sempre quella nazionalista: i Niniviti sono nemici degli Israeliti e per averli salvati Giona si sente ora un traditore dei suoi... ma non convince. Forse Giona è scontento perché il libero arbitrio sembra andare in una sola direzione: Giona non era libero di sottrarsi alla missione, mentre i Niniviti sembrano liberi di sottrarsi col proprio pentimento a una catastrofe che Dio aveva già predisposto per loro. Oppure, semplicemente, a Giona l'idea di una catastrofe non dispiaceva. In effetti anche dopo il perdono di Dio, che cosa fa? Esattamente quello che ci aspetteremmo dal classico profeta di sventura: esce dalle mura e resta a una prudente distanza, a osservare se per caso non arriva un terremoto o un diluvio o un fulmine. E intanto chiede a Dio la morte.
Questa posa querula e accigliata è la definitiva presa in giro dell'atteggiamento convenzionale del profeta: l'autore di Giona li conosce bene e forse ha cominciato a domandarsi se sotto le loro barbe non covi una certa ipocrisia. È davvero così affranto, il profeta-tipo, di vedere il popolo andare in malora? Non ci sta provando gusto, perché questo lo rassicura del suo essere migliore? E questo compiacimento interiore, la sicurezza di avere ragione mentre il popolo sguazza nel torto, sarà cosa davvero gradita a Dio? Lo stesso Dio, da che parte dovrebbe stare: col profeta che si sente l'unico uomo giusto, o con un popolo peccatore che riconoscesse i suoi errori?
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Giona e la balena, di Pieter Lastman, riproduzione di dominio pubblico (non lo sta inghiottendo, lo sta rigurgitando). |
Dio ha salvato una città, anche grazie al lavoro di Giona: ma Giona avrebbe preferito di no. È stanco, ha la sensazione di avere lavorato molto senza ottenere quello che per un profeta è lecito attendersi: un bel disastro da contemplare sdegnato all'orizzonte. Fa anche un po' caldo, Giona cerca di ripararsi ma non c'è molta frasca nel deserto. Dio allora fa crescere per lui una pianta – non sappiamo di che specie, perché il suo nome, kikayon, compare solo qui in tutta la Bibbia. Spesso è tradotta come il ricino, ma non è così importante. L'importante è che questa pianta dà a Giona un po' di sollievo, addirittura di gioia. Allora Dio la uccide.
Sembra veramente che Dio se la prenda soltanto con Giona: tutti gli altri meritano il suo perdono, che siano marinai pagani o Niniviti peccatori. Solo Giona viene sempre tormentato, e quando ricomincia a lagnarsene, Dio ha la faccia tosta di chiederglielo: ma ti sembra il caso di lamentarti per una semplice pianta di ricino? Giona conferma di sì, che è sdegnato al punto di morirne: solo allora Dio gli svela di essere non essere che il protagonista di una parabola, un brontolone ideato apposta per servirGli su un piatto d'argento la risposta finale.
«Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?»
L'Antico Testamento sta per cedere il passo al Nuovo: il Dio che nei primi libri sembrava una presenza terribile, gelosa e vendicativa sembra diventato un altro, una persona talvolta imprevedibile ma di buon senso, disponibile a rivedere le sue decisioni, più affezionato ai peccatori che a chi fa loro tutto il tempo la morale. Ama persino gli animali, il Libro finisce con questa precisazione che sembra un'inezia e non lo è: anche loro si sono pentiti, anche loro meritano il perdono. Tutti lo meritano, persino Giona che dovrebbe scendere dal suo piedistallo e capire che Dio sta facendo per Ninive quello che ha fatto per lui quando era nel pesce: offrire una seconda possibilità. Se i primi autori della Bibbia avevano chiaramente un rapporto complesso con padri autoritari e bizzosi, si intuisce che i tempi sono cambiati, i padri si sono addolciti o comunque si sente in giro la necessità di padri buoni, misericordiosi, persino un po' ironici, padri che abbiano creato il mondo perché questo li rendeva felici, come l'ombra ci rende felici quando siamo nel deserto.
Non sappiamo se Giona abbia imparato la lezione: l'importante è che l'abbia intesa il lettore. Subito dopo comincia il Libro di Michea, un altro rotolo di furenti minacce per le genti di Samaria e Gerusalemme che non ascoltano la Parola del Signore. Insomma è stata solo una pausa di riflessione. Molto utile, per me almeno. Spero anche per voi.
Gesù e i suoi fichi
23-08-2021, 16:47Bibbia, Cristo, santiPermalink24 agosto - San Natanaele apostolo
Natanaele (in ebraico Dio ci ha dato) è un apostolo di Gesù, perlomeno nel vangelo di Giovanni; nelle liste degli altri vangeli non compare, ma è tradizionalmente identificato con Bartolomeo. Natanaele è di Betsaida come gli apostoli Pietro, Andrea e Filippo: quando quest'ultimo comincia a parlargli del nuovo messia arrivato in paese ("Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge e i profeti: Gesù da Nazaret, figlio di Giuseppe", Gv 1,45), Natanaele risponde sprezzante: da Nazaret non può venire niente di buono. Nazaret era in Galilea, Betsaida nella regione del Golan, entrambe zone molti periferiche per la mentalità giudaica del tempo, centrata sulla città del Tempio, Gerusalemme. Gesù però appena incontra Natanaele reagisce nel modo opposto: lo saluta come un "vero israelita in cui non c'è frode" (1,47). Natanaele perplesso domanda: come fai a conoscermi? La risposta è sibillina: "Prima ancora che Filippo ti chiamasse, ti ho visto sotto il fico" (1,48). Noi lettori non ci capiamo molto: cos'era successo di particolare sotto quel fico? Qualcosa di importante, perché Natanaele reagisce esclamando: "Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele" (1,49).
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Santi Giovanni e Bartolomeo (Dosso Dossi) (nessun fico rilevato) |
I miracoli del quarto vangelo sono un po' diversi dagli altri. Giovanni (se davvero fu lui l'autore) li chiama "segni" e li considera momenti fondamentali in cui Gesù si manifesta come Messia davanti a testimoni credibili. Alcuni studiosi pensano che l'evangelista abbia rielaborato una fonte precedente, il cosiddetto "vangelo dei segni", che avrebbe contenuto alcuni dei miracoli più spettacolari (le nozze di Cana, la resurrezione di Lazzaro). Accanto a questi però ci sono piccoli segni come il riconoscimento di Natanaele, che è il primo miracolo in assoluto e somiglia molto a quello che accadrà più tardi con la Samaritana: Gesù rivela al testimone qualcosa che soltanto lui può sapere. Di fronte a questo riconoscimento, le riserve del testimone crollano di schianto: non possono sussistere dubbi, Gesù è il Messia. Alla professione di fede di Natanaele, Gesù reagisce minimizzando: il meglio deve ancora arrivare. Credi in me solo perché ti ho detto che ti ho visto sotto il fico? "Tu vedrai cose maggiori di queste. In verità, in verità vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo" (1,50-51). Il primo capitolo finisce così, promettendo effetti speciali e un lieto fine spettacolare, e sappiamo che l'evangelista manterrà. Ma il piccolo interrogativo iniziale non sarà mai risolto: cosa era successo a Natanaele sotto il fico? Cosa sapeva Gesù di lui, che noi forse ignoreremo per sempre?
Il fico è decisamente l'albero più enigmatico dei vangeli. Addirittura è l'unica creatura che Gesù maledice, in uno degli episodi più controversi, Marco 11,12-14. Il giorno prima Gesù è entrato trionfalmente in Gerusalemme: ma siccome ha preso alloggio in un villaggio fuori dalle mura, Betania, ogni giorno gli tocca rientrare, scortato dagli apostoli. La mattina seguente, mentre rientra a Gerusalemme, si scopre affamato e "veduto di lontano un fico", cerca se tra le foglie per caso non ci sia un frutto. Il fico, si sa, è un albero generoso: anche molto prima della stagione, e molto dopo, se si ha pazienza qualcosa si trova. Eppure Gesù in quel singolo fico "non trovò niente altro che foglie", del resto Marco ha cura di annotare che non era ancora stagione. Spazientito, Gesù maledice il fico: "Nessuno mangi mai più frutto da te!" Entrato in città, Gesù manifesta in modo ancora più plateale il suo malumore: si reca nel Tempio e ne scaccia i mercanti con grande scandalo dei farisei (ma la folla sembra ammirarlo). L'indomani, ripassando sulla stessa strada, Pietro fa notare al maestro che il fico maledetto si è seccato. Gesù ne approfitta per spiegare che la fede in Dio può tutto, anche spostare le montagne. Gli apostoli di Marco sono i più perplessi dei quattro vangeli, e in questo caso la loro perplessità è la nostra: se Gesù era in grado di seccare un albero (e spostare una montagna), perché non ha semplicemente trovato un frutto di fico quando gli serviva?
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Odifreddi is for boys, Bertrand Russell is for gentlemen (foto del 1954, pubblico dominio). |
La maledizione del fico è l'unico vero miracolo eseguito da Gesù con un fine punitivo; in tutti gli altri casi Gesù guarisce, resuscita, salva, riconosce, provvede di beni di prima necessità (o voluttuari, nel caso delle nozze di Cana). Solo in questo caso punisce un essere vivente, il che provocò l'indignazione, tra gli altri di Bertrand Russell che ne parla in Perché non sono cristiano. Per Russell l'episodio dimostrerebbe una certa inferiorità morale dell'uomo Gesù rispetto ad altri maestri dell'umanità come Buddha e, ehm, Socrate. A riprova che la morale è molto meno stabile di quanto si creda; Socrate che per Russell era un uomo più retto di Gesù, oggi si ritroverebbe di nuovo nei guai con le autorità per quel problemino coi minori che già impensieriva gli ateniesi. Oltre a sovrapporre all'episodio del fico una sensibilità ecologica completamente sconosciuta al primo secolo, Russell rifiuta qualsiasi lettura simbolica dell'episodio; inoltre sembra aver voluto trovare il passo evangelico in cui Gesù sembra più capriccioso e vendicativo. Non sorprende che si tratti del Gesù di Marco, il più arrabbiato e il meno conciliante con gli apostoli.
Quel che lascia perplessi i lettori di ogni epoca è che Marco afferma chiaramente che non si trattava della stagione dei fichi, insomma quel che Gesù chiedeva alla pianta era anch'esso un miracolo: o forse è la pianta l'unica, tra le creature di Dio, che rifiuta la grazia di Gesù, il quale può seccarla ma non vuole compiere il prodigio opposto: renderla rigogliosa di frutti se lei non li vuole. Il simbolismo abbastanza ovvio per i lettori del Vangelo (ma non per Russell) è col popolo di Israele, che i profeti avevano più volte descritto come un albero da frutto, una vite o un fico. Gesù dunque sembra voler fornire agli apostoli una parabola mimata, nello stile tipico soprattutto del profeta Ezechiele: gli apostoli dovrebbero imparare qualcosa non dalle parole, ma dalle azioni del Maestro. L'albero di fichi è Gerusalemme: Gesù vi ha cercato invano qualcosa di buono, ma non è evidentemente ancora tempo; non resta che mandare tutto all'aria; non a caso Marco prosegue con la cacciata dei mercanti che porterà i farisei a decidere la morte di Gesù.
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Ramo, frutto, seme e fiore del fico, da Wikipedia |
Lo stesso episodio torna in Matteo, molto più stringato (21,18-22) malgrado degli evangelisti Matteo sia il più critico nei confronti del popolo ebraico dal quale pure proveniva. Matteo omette il riferimento alla stagione: nel suo racconto il fico si secca immediatamente dopo la maledizione, e gli apostoli se ne sorprendono subito. Ed eccoci all'eterno dilemma su quale sia il primo vangelo: è Marco che prende da Matteo o viceversa? È Matteo che attenua l'episodio di Marco, ne stempera la lettura antiebraica concentrandosi piuttosto sull'aspetto prodigioso? O viceversa è Marco che legge di un piccolo miracolo in Matteo e decide di trasformarlo in una metafora storico-religiosa?
Sia come sia, né il racconto di Marco né quello di Matteo convincono Luca, che in un Gesù maledicente le piante si rifiuta di credere. Luca non capisce la profezia mimata (che del resto è un unicum in tutti i vangeli) e decide di trasformare l'intero episodio in una parabola (13,6-9): non è più Gesù a cercare i fichi, ma un "padrone" ("Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò"). Ma nemmeno a questo padrone l'ambientalista Luca concede di uccidere la pianta: intercede in suo favore il "vignaiolo": "Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l'avvenire; se no, lo taglierai". Il padrone accetta la proposta; il fico per il momento è salvo. Il che oltre a introdurre un dualismo tra un Dio-padrone stanco di essere tradito e un Cristo-vignaiolo incline all'intercessione, conferma terribilmente i miei sospetti su Luca, l'evangelista mansueto come il bue, quello che cerca in ogni atto o detto di Cristo la pietà, la dolcezza. Il che sarebbe magnifico; non fosse che quando questa pietà e questa dolcezza non le trova, Luca se le inventa. Trasformare in una parabola un episodio della vita di Gesù, attestato in due vangeli (uno dei quali Luca conosceva sicuramente) dimostra una certa disinvoltura con le fonti: a Luca non interessa più se il Cristo originale stava emettendo una sentenza nei confronti di un popolo. Luca ha deciso che il suo Cristo sarà misericordioso: i valori che vuole trasmettere vengono prima della fedeltà ai testi originali.
La maledizione del fico, già completamente stemperata in Luca, scompare in Giovanni: il quarto vangelo del resto è il più diverso dei quattro. Può darsi che l'episodio di Natanaele ne sia un'ulteriore rielaborazione: senz'altro è l'unico passo in cui un fico riveste qualche importanza, e come la maledizione descritta da Marco e Matteo, mantiene un'irrisolvibile ambiguità: cos'è successo sotto il fico? Ora che sappiamo che l'albero può rappresentare il popolo di Israele, possiamo meglio inquadrare il saluto di Gesù al nuovo apostolo: "Ecco un vero israelita in cui non c'è frode". La situazione di Marco e Matteo apparirebbe capovolta: Gesù ha controllato l'albero e ha scoperto almeno un frutto senza difetto. Dunque Israele non merita la distruzione - certo, per autorizzare un'interpretazione del genere, Giovanni deve tenere il fico più distante possibile da Gerusalemme, che al momento della composizione del quarto vangelo era già stata rasa al suolo dai Romani. Sappiamo che il testo è l'espressione di comunità cristiane-ebraiche dell'Asia Minore (Efeso e dintorni) che a differenza dei lettori degli altri tre vangeli avevano mantenuto forti legami con la religione originaria e festeggiavano la Pasqua nella data prevista dalla religione ebraica. Due secoli più tardi, un esegeta proveniente dallo stesso ambito culturale, Afraate il Siriaco, collegherà la maledizione del fico all'episodio della Genesi in cui Adamo, dopo aver peccato disobbedendo a Dio, usa foglie di fico per nascondere la sua oscenità. Seccando il fico, Gesù avrebbe annunciato l'espiazione del peccato originale: dopo di lui non ci sarebbe stata più vergogna, né più bisogno di nascondersi. Tornando a Giovanni, il suo Natanaele forse serve ad affermare il concetto: Dio ci ha dato ancora un frutto; non si è scordato del suo albero prediletto, Israele; non lo ha trovato sterile, non lo ha maledetto, non lo ha seccato.
C'è un'ultima leggenda a cui non si può non accennare parlando di fichi e di Gesù: a un fico si sarebbe impiccato Giuda, il traditore, secondo una tradizione antica ma non attestata nei vangeli ufficiali. Oltre alla simbologia ormai chiarita (il frutto del tradimento penzola dall'albero maledetto), può trattarsi di un tentativo dei primi interpreti di mettere d'accordo due versioni diverse e ugualmente attendibili: secondo Matteo, Giuda si impicca per disperazione quando si rende conto che i farisei hanno intenzione di consegnare Gesù ai Romani per farlo condannare a morte (27,1-10). Luca però ha sentito una versione diversa, e negli Atti degli Apostoli la mette in bocca a Pietro (1,18): "Egli dunque acquistò un campo con il salario della sua iniquità; poi, essendosi precipitato, gli si squarciò il ventre, e tutte le sue interiora si sparsero". Come conciliare un Giuda impiccato con un Giuda squarciato dopo una caduta? Una possibilità è che Giuda avesse scelto per impiccarsi un albero che non avrebbe retto il suo peso: una pianta dai rami fragili, come il fico o un suo parente subtropicale, il sicomoro, che ha rami più spessi ma ugualmente soggetti a spezzarsi con poco sforzo. L'albero in questo caso è già simbolo di qualcos'altro: fragilità, incapacità di tenere fede alla promessa data (anche di reggere il peso della colpa), ipocrisia.
Zaccheo, l'esattore buono
20-08-2021, 10:12Bibbia, Cristo, santiPermalink20 agosto ─ San Zaccheo pubblicano (I secolo)
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Scendi che devi offrirmi un pranzo |
Zaccheo è il pubblicano che si arrampica su un sicomoro, a Gerico, per riuscire a vedere Gesù che è appena entrato in città circondato dalla folla. In mezzo a tanti curiosi, Gesù lo riconosce e lo chiama per nome: "scendi subito, Zaccheo, perché oggi devo fermarmi a casa tua". L'episodio è attestato soltanto nel vangelo di Luca (19,1-10). E qui devo confessare una cosa: sto perdendo un po' la mia fiducia in Luca, man mano che invecchio. Fu il primo evangelista di cui abbozzai un profilo, all'inizio di questa cosa: ne ero entusiasta, era il mio evangelista preferito quasi da sempre (vabbe', la cotta giovanile per Giovanni è uno scotto inevitabile, è un po' come i Pink Floyd). Luca è un vero cronista, scrivevo, Luca fa le ricerche e cerca di organizzare il materiale, di non annoiare il lettore con dettagli inutili. Ma avvertivo anche che Luca è un liberal, con un'attenzione particolare per i deboli, gli oppressi e le donne: un tratto incredibilmente moderno, così moderno che a un certo punto ha cominciato a insospettirmi: è come se Luca riuscisse a trovare in ogni situazione l'angolazione perfetta per me. La santa più importante della cristianità, Maria, è un personaggio di Luca: è lui che racconta l'episodio dell'annunciazione (Matteo fa parlare l'angelo a Giuseppe); e lui che le mette in bocca le sublimi parole del Magnificat. Luca fa dire al suo Gesù: "beati i poveri". Non "beati i poveri in ispirito", come Matteo, no: per Luca devono essere beati i poveri, è di loro il Regno dei Cieli: un luogo dove evidentemente è previsto un minimo di giustizia sociale, Matteo non si poneva il problema, Luca lo inventa. Luca è l'evangelista che sente il bisogno di correggere la parabola dei talenti di Matteo, livellando completamente il budget concesso ai servi: i talenti diventano "mine", dal valore molto più modesto, e il padrone prima di partire li divide tra i servi in parti uguali, modificando così il significato di quella paginetta del vangelo che pare fosse l'unica a interessare davvero Margaret Thatcher. Ma come fa insomma Luca a conoscermi così bene?
La spiegazione più semplice è che Luca mi conosca perché è lui che mi ha fatto così. L'attenzione per i deboli, l'interesse per le figure femminili che si sforza di far uscire dal cono d'ombra, il sogno della comunione dei beni prospettato negli Atti degli Apostoli, non sono cose moderne che riconosco in Luca: sono cose che Luca ha descritto, ed è anche grazie a lui che duemila anni dopo ne parliamo ancora. Ma le ha descritte dal vero o le ha proprio inventate? Quanto Cristo c'è davvero nel vangelo di Luca, quanto Luca c'è nel Cristo che ci piace?
Insomma dieci anni dopo non lo definirei più uno scrupoloso cronista. Che sia un liberal invece non c'è dubbio, è una cosa che traspare ad ogni confronto con gli altri tre autori e soprattutto con quello dei tre che aveva una vera ossessione per il denaro, al punto che tradizionalmente è identificato con Matteo, l'apostolo che faceva lo stesso mestiere di Zaccheo: ed è una coincidenza molto curiosa. L'episodio di Zaccheo è uno dei non pochissimi esempi in cui Luca sembra non volersi accontentare di quello che gli hanno raccontato su Gesù: come se l'episodio della conversione del pubblicano Matteo non lo convincesse del tutto. Luca la conosce, l'ha riportata (anche se chiama Matteo "Levi", come del resto fa l'altro evangelista Marco), però è come se l'obiezione dei Farisei ("Perché mangiate e bevete con quelli delle tasse e con persone di cattiva reputazione?" lo mettesse in imbarazzo. Eppure il suo Gesù ha la risposta pronta: "Quelli che stanno bene non hanno bisogno del medico; invece ne hanno bisogno i malati. Io non sono venuto a chiamare quelli che si credono giusti, ma quelli che si sentono peccatori, perché cambino vita". Tutto giusto, ma è come se Luca sentisse che non basta, perché il suo Levi dopotutto è una comparsa, non torna più: come può essere sicuro il lettore che la vita l'abbia cambiata davvero? Così, per questa esigenza più didattica che biografica che Luca ha di essere chiaro, di non alimentare dubbi nel suo lettore, ecco che decide di far incontrare al suo Gesù un altro esattore, che la vita l'ha già cambiata: il piccolo Zaccheo, che è un pubblicano, certo, ma il meno esoso di tutti: come spiega al Salvatore a pranzo, "io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto".
Possiamo immaginare le obiezioni che avrebbe mosso Matteo, che il denaro lo conosceva in modo meno astratto di Luca: un pubblicano che desse metà del suo gettito ai poveri, quanto ci metterebbe a fallire? E chissà come erano delicati gli occupanti Romani con i rei di insolvenza. Oppure dovrebbe alzare le tasse a tutti, altra cosa rischiosa e in fin dei conti insostenibile. Cosa significa poi "se ho frodato, restituisco quattro volte tanto": truffi i tuoi debitori e poi ti penti subito? Gesù invece approva tutto: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa, poiché anche questo è figlio d'Abramo", e subito dopo racconta la parabola delle mine. Insomma l'episodio di Zaccheo è uno dei tanti in cui Luca sembra non volersi accontentare di quello che gli hanno raccontato su Gesù: sembra volerlo interpretare, spiegare, conciliare con una sua idea di Cristo che poi ha avuto una straordinaria fortuna e tutto sommato è anche la mia idea: e però corrisponde molto di più alle idee di Luca che a quello che su di lui raccontano gli altri tre evangelisti. Questa cosa che Gesù frequentasse la feccia della società, come gli esattori, lo infastidiva: l'unico modo per farla rientrare nel suo quadro di Gesù era immaginare un pubblicano diverso da tutti gli altri, un campione di onestà e generosità.
Zaccheo è l'esattore generoso: molto più raro di una prostituta virtuosa, per cui ammetto di fare un po' più fatica a credere che Gesù l'abbia incontrato davvero. Poi, siccome si arrampica sul sicomoro che è un parente subtropicale del fico, potrebbe essere stato ripreso da Giovanni per creare la figura di Natanaele. Ma di quanto siano importanti (e ambigui) i fichi nei vangeli riparleremo presto.
Cinque leggende per sette fratelli
18-07-2021, 01:44ebraismo, miti, santiPermalink18 luglio – Santa Sinforosa e i suoi sette figli martiri (II secolo), leggenda
Sette figlioli sette, di pane e miele, a chi li do? Il 18 luglio si celebra il martirio di Sinforosa e dei suoi sette figli, ma io non ci credo molto: sette figli? Tutti martiri? Ma andiamo. Racconta un anonimo agiografo che l'imperatore Adriano voleva inaugurare una bella villa a Tivoli, ma l'oracolo gli disse: ma cosa pensi di inaugurare, non lo sai che la vedova Sinforosa e i suoi sette figli ogni giorno ci tormentano invocando il loro Dio? Convincila a sacrificare, allora sì che faremo tutto quello che vuoi.
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Felicita e i suoi sette figli (non li sta sgozzando in una volta sola: li esibisce con orgoglio accanto alla spada, che è il simbolo del martirio). Dalle Cronache di Norimberga. |
Adriano non perse tempo ad arrestare i figli con la madre, che però di sacrificare ai falsi dei non voleva saperne. La torturarono, e niente: allora la buttarono nell'Aniene con una pietra al collo, magari presso la pittoresca cascata. E i fratelli? Adriano fece innalzare sette pali intorno al tempio di Ercole Vincitore, e siccome non capita tutti i giorni di avere sette vittime consanguinee, ne volle approfittare per uccidere tutti in un modo diverso: a Crescente fece tagliare la gola, a Giuliano pugnalare il petto, a Nemesio il cuore, a Primitivo l'ombelico, a Giustino la schiena, a Stratteo il fianco, mentre Eugenio fu segato in due. I corpi furono gettati in una fossa che divenne nota come la fossa dei sette biothanatos, parola greca che veniva usata sia per i suicidi che per i cristiani che sceglievano il martirio. Qualcuno però andò a recuperare i corpi e li seppellì sulla Tiburtina, a otto miglia da Roma. Il corpo della madre invece sarebbe stato sepolto fuori dalle mura di Tivoli. Così dice la leggenda, e io non credo a una parola: sette figli?
Il Martirologio geronimiano (che malgrado il nome non fu scritto da Girolamo) conferma che erano sette, ma li chiama con nomi diversi. Invece ricorda sette fratelli che di nome fanno proprio Crescente, Giuliano, Nemesio, Primitivo, Giustino, Stratteo ed Eugenio, ma il 27 giugno. Può darsi che qualcuno a un certo punto si sia confuso. Può darsi che i sette non siano i figli di Sinforosa, che Sinforosa non abbia mai avuto sette figli (ognuno dei quali potrebbe rappresentare una patologia riguardante una parte del corpo, come secoli più tardi i quattordici ausiliatori). Può darsi che non sia nemmeno mai esistita, tanto è simile la sua storia a quella più diffusa di Santa Felicita.
Santa Felicita (da non confondere con la serva di Perpetua) era una ricca vedova romana che fu accusata di cristianesimo ai tempi di Antonino Pio (il successore di Adriano). Siccome il prefetto non riusciva a farla confessare, decise di arrestare i figli Gennaro, Felice, Filippo, Silano, Alessandro, Vitale e Marziale, e di ucciderli ognuno con un supplizio diverso, finché non avrebbe ceduto. Non cedette e fu uccisa anche lei. Fu sepolta coi figli in una basilica sulla Salaria, e in suo onore furono dedicate chiese e monasteri ai Sette Fratelli o ai Sette Frati... ma probabilmente è un falso anche questo. Sette fratelli, sul serio? Condannati a morte da un imperatore famoso per la sua tolleranza (come del resto Adriano)? È una favola, e come tutte le favole assomiglia a un'altra. Per una volta sappiamo anche quale, e forse abbiamo addirittura il nome dell'autore. Giasone di Cirene.
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Antonio Ciseri, Il martirio dei Maccabei (1863). |
«Figlio, abbi pietà di me che ti ho portato in seno nove mesi, che ti ho allattato per tre anni, ti ho allevato, ti ho condotto a questa età e ti ho dato il nutrimento. Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti; tale è anche l'origine del genere umano. Non temere questo carnefice ma, mostrandoti degno dei tuoi fratelli, accetta la morte, perché io ti possa riavere insieme con i tuoi fratelli nel giorno della misericordia».
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I sette fratelli Govoni |
Il figlio non se lo fa ripetere due volte e ottiene un martirio persino più doloroso dei fratelli maggiori; dopodiché Antioco, folle di rabbia, uccide anche la madre. Un episodio del genere, scritto evidentemente per spronare gli ebrei a resistere contro i prevaricatori, non poteva che esaltare i lettori cristiani dei secoli delle persecuzioni. A un certo punto la Chiesa di Roma rivendica di custodire le spoglie dei "Sette Santi Maccabei", in San Pietro in Vincoli. Probabilmente la gemmazione di nuove leggende sui sette fratelli nasce da qui, e dal fatto che molto spesso i racconti non si diffondevano in forma scritta e nemmeno orale, ma attraverso le immagini; sicché talvolta un predicatore poteva trovarsi sulle pareti o sulle vetrate la storia di sette fratelli morti ammazzati, e se non conosceva la storia dei Maccabei gli toccava improvvisare, magari ambientando la storia in una cornice più locale e interessante per gli ascoltatori, come nel caso di Tivoli. Alla fine gli elementi sono gli stessi: un imperatore stronzo, sette fratelli uccisi male, una madre che assiste e muore pure lei... e non è che dobbiamo crederci per forza. Se l'agiografo di Santa Sinforosa ha copiato quello di Santa Felicita che ha copiato il compendiatore di Giasone di Cirene, anche Giasone potrebbe avere ripreso la leggenda da qualche parte. Ormai lo abbiamo capito, no? Dove c'è un tiranno malvagio e sette fratelli uccisi, meglio diffidare.
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La famiglia Cervi |
Mettiamo che tra qualche secolo ci sia ancora qualche storico curioso del nostro. Su che libri potrà mettere le mani? Probabilmente uno di quelli stampati in più copie, che ne so, il Sangue dei vinti di Giampaolo Pansa. Da bravo studioso non prenderà tutto per oro colato; ad esempio quando Pansa parla dei sette fratelli Govoni trucidati dagli uomini della Garibaldi ad Argelato, penserà: ma questo è un calco, figurati. Sette fratelli pestati a morte in una volta sola? Non la bevo, è chiaro che l'autore si è ispirato a una leggenda pre-esistente. Magari a quella dei Cervi, i sette fratelli di Campi Rossi di Gattatico, fucilati a Reggio Emilia. Oppure ai sette figli di Santa Sinforosa, o di Santa Felicita, o ai sette santi Maccabei (che non erano nemmeno Maccabei, ammesso che siano esistiti, e probabilmente no). Se c'è una cosa che ogni storico coscienzioso dovrebbe sapere, è che la mitologia può ispirarsi alla realtà, non il contrario: e quindi se mai sette fratelli furono uccisi, questo deve essere successo tantissimo tempo fa, di sicuro non al tempo dei nostri nonni. Sette fratelli? Impossibile.
(In un documento della sezione fascista di Reggio Emilia c'è scritto proprio così: sotto la lista dei Cervi, un appunto: Sette fratelli? col punto interrogativo e sottolineato in rosso. Come a dire: ma davvero lo abbiamo fatto? Siamo noi la leggenda, siamo noi Adriano, Antonino, Antioco Epifane? Forse chi lo scrisse per un momento sentì che la realtà gli cedeva intorno, che la fantasia prendeva il sopravvento coi suoi demoni invisibili, inguardabili; e ne ebbe vertigine).
Bonaventura, il cancellatore di San Francesco
15-07-2021, 19:27santiPermalink15 luglio – San Bonaventura da Bagnoregio (1220 ca – 1274): filosofo, teologo, reinventore di Francesco d'Assisi.
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Francesco riceve le stimmate, Basilica Superiore di Assisi (comunemente attribuito a Giotto e alla sua officina). |
Buongiorno dalla rubrica ufficiosa dei Santi del Post, che ridi e scherza sta per compiere dieci anni! Anche se nell'estate del 2011 mi stavo già preparando, alla fine cominciai ai primi di ottobre, sbattendo immediatamente nella ricorrenza del santo più difficile di tutti: Francesco d'Assisi. E siccome su di lui sono state scritte biblioteche di libri che non avevo letto, me la cavai buttandomi sulla cultura pop (il rifugio accogliente di ogni rubrichista ignorante): San Francesco scrissi, "è uno di quei personaggi così popolari che ormai mille narrazioni diverse ne hanno levigato l'immagine fino a farla diventare una superficie specchiante", insomma anche se avessi provato a guardarlo avrei soltanto visto una copia angelicata di me stesso, in particolare la copia angelicata del me stesso cresciuto negli anni Ottanta col materiale agiografico del decennio precedente: Zeffirelli, Forza venite gente e così via. La sfangai così, ma mi rimase il dubbio e forse è rimasto anche voi: chi era davvero Francesco, prima di diventare uno specchio dei nostri slanci mistici e dei nostri sensi di colpa?
Dieci anni dopo e qualche ottimo libro in mezzo, ancora non l'ho capito. Anzi forse ho capito che è una domanda che ci tormenta da ottocento anni, e se a questo punto non abbiamo trovato risposte soddisfacenti forse dobbiamo arrenderci: noi non conosceremo mai Francesco. Molte cose che sappiamo su di lui, che diamo quasi per scontate, sono il frutto di elaborazioni postume anche molto sofisticate. Non solo, ma molte cose che non sapremo mai di lui sono state cancellate deliberatamente, proprio nel momento cruciale in cui i testimoni oculari stavano scomparendo. Il principale responsabile di questa cancellazione è un nome illustre (e santo): Bonaventura da Bagnoregio, teologo e filosofo di primo livello. È a lui, frate francescano, che Dante mette in bocca nel Paradiso un elogio a San Domenico; una compensazione per l'elogio di San Francesco che aveva fatto recitare al domenicano Tommaso d'Aquino nel canto precedente.
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Il XIII non è né un secolo buio, né appartiene alla fase oscurantista in cui la Chiesa cattolica rientrerà con la Controriforma. Non esisteva ancora un Indice dei Libri Proibiti, anche perché i libri si copiavano ancora a mano e la circolazione era molto più faticosa (e controllabile). Non è che non si cancellassero anche allora, anzi succedeva assai spesso proprio perché il materiale su cui venivano trascritti, la pergamena, era relativamente costoso: il più delle volte non si cancellavano per occultare argomenti spiacevoli, ma perché serviva pergamena per scrivere cose più utili. E poi ogni tanto qualche rogo di libri si faceva, di solito quando un concilio sanciva che il tal predicatore era un eretico: nel 1140 per esempio era toccato ad Arnaldo da Brescia e a Pietro Abelardo. L'esempio di quest'ultimo doveva essere ben chiaro a Bonaventura, che due secoli dopo insegnava nella stessa università. Eliminare la circolazione dei testi non autorizzati significava liquidare come eretica ogni altra versione di Francesco, e rendere l'Ordine responsabile dell'unico Francesco accettabile. Ma quanto doveva essere diverso il Francesco originale, per rendere necessaria agli occhi attenti di Bonaventura un'operazione così drastica? Ecco, non possiamo saperlo.
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Stigmatizzazione di Francesco (Giotto, Pala del Louvre). |
Dagli indizi che siamo riusciti a recuperare intuiamo che il Francesco storico, negli ultimi anni, si era ormai separato dall'Ordine la cui fondazione gli veniva pure attribuita, ma in cui non riusciva più a riconoscersi. Sin dai difficili esordi Francesco aveva pensato a un gruppetto di laici itineranti, lavoratori e predicatori ma senza libri che non fossero il Vangelo; già negli ultimi anni della sua vita aveva osservato con perplessità la crescita del fenomeno: aveva visto schiere di frati entrare nelle scuole, benedetti da cardinali e papi che premevano per farli entrare nelle università, dove avrebbero recuperato il terreno perso nei confronti degli insegnanti laici. Nel processo non poteva che essersi perso l'ideale di povertà radicale che aveva portato il giovane di Assisi a ribellarsi alla sua famiglia e alle autorità. Può anche darsi che Francesco fosse un predicatore escatologico, come altri prima e dopo di lui: un uomo venuto ad annunciare la fine del mondo e la conseguente vanità di tutti i beni materiali; in quel caso la censura di Bonaventura dovette funzionare molto bene, perché non ci è rimasta una sola parola sua o dei biografi che autorizzi un'ipotesi del genere: e ciononostante l'idea che Francesco annunziasse la fine dei tempi continuava a circolare e stimolava narrazioni alternative, che di lì a poco avrebbero portato alla nascita di una corrente rigorista, i cosiddetti francescani spirituali.
Può persino darsi – ma non abbiamo vere prove – che negli ultimi anni di vita Francesco fosse un sorvegliato speciale, guardato a vista dai fratelli che lo accudivano: può darsi che questi ultimi fossero interiormente scissi tra l'affetto che provavano nei suoi confronti e la necessità di evitare che Francesco dicesse o facesse in presenza di altri testimoni qualcosa di sconveniente, qualcosa di eretico. Dopotutto era il Folle di Dio: chi lo conosceva bene sapeva quanto fosse caratterialmente predisposto a gesti inconsulti e soggetto a sbalzi d'umore. Lui stesso sapeva di avere bisogno di aiuto. Non tutto quello che gli succedeva si poteva spiegare facilmente, né raccontare a chicchessia.
Francesco morì nella piccola chiesa della Porziuncola, la sera del 3 ottobre 1226, dopo mesi o anni di agonia. Furono i confratelli che si presero cura delle spoglie a scoprire cinque piaghe che il moribondo aveva nascosto fino alla fine: alle mani, ai piedi e al costato. Frate Leone, uno dei più intimi, provò la sensazione di avere davanti "un uomo crocefisso appena deposto dalla croce". Spettò a frate Elia, vicario generale dell'Ordine, comunicare la notizia dell'"incredibile miracolo" in una lettera circolare: "Non molto tempo prima della morte, il fratello e padre nostro apparve crocifisso, portando nel suo corpo le cinque piaghe che sono veramente le stimmate di Cristo".
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Stigmatizzazione di Francesco (Giotto, Cappella Bardi). Per la prima volta Francesco è sorpreso dal serafino alle spalle: in questo modo le piaghe non corrispondono più in modo speculare, ma diretto: la mano destra nella mano destra, eccetera. |
Il miracolo, che dopo tante riproposizioni medievali e moderne oggi potrebbe avere un po' stuccato il pubblico, era al tempo così nuovo e di difficile interpretazione che la testimonianza di Elia non fu presa in esame nel processo di canonizzazione. Nessun santo, prima di Francesco, aveva mostrato sul suo corpo le ferite di Cristo: fino a quel momento nessun lettore aveva immaginato, leggendo la lettera di San Paolo ai Galati (6,17: "io porto le stimmate di Gesù nel mio corpo") che l'apostolo non parlasse in senso figurato. Lo stesso Francesco, da vivo, si era ben guardato di esibire le piaghe che una volta morto cambieranno più volte forma e significato. Frate Elia aveva parlato di "punture di chiodi": un paio d'anni dopo nella prima biografia ufficiale Tommaso da Celano sente la necessità di correggerlo: "non i fori causati dai chiodi, ma i chiodi stessi formati dalla carne": le piaghe sarebbero escrescenze.
Tommaso forse voleva allontanare il lettore dal sospetto che Francesco, in una fase in cui il trasporto mistico si alternava a fasi di prostrazione, non si fosse autoinferto quelle ferite con chiodi veri. Un brutale tentativo di imitazione di Cristo che non ne avrebbe più denunciato la santità, ma la follia (e l'eresia). Tommaso non aveva visto il corpo di Francesco, ma sapeva molto meglio di noi che i miracoli medievali non lasciavano cicatrici: quindi decise che dovevano essere escrescenze. Le escrescenze però aprono la porta a un dubbio diverso: anni prima, quando non era ancora un modello di vita ma una scheggia impazzita della Chiesa, Francesco aveva trascorso diverso tempo in un lebbrosario, assistendo i malati con più entusiasmo che esperienza. E se in quell'occasione avesse contratto la lebbra? Questo avrebbe spiegato le piaghe, la ritrosia di Francesco sull'argomento e la sua agonia. Ma avrebbe mai potuto morire di lebbra il santo fondatore dei Frati Minori? Dopo aver praticato tante guarigioni miracolose, sarebbe morto di un morbo contratto durante il suo apostolato?
Persino il più grande sostenitore di Francesco e del suo ordine, Ugolino dei Conti di Segni, mantenne per molto tempo un atteggiamento scettico. Da cardinale, Ugolino era stato il grande sponsor dei francescani presso la curia romana; per primo aveva intravisto la potenzialità di un piccolo movimento di laici appassionati della povertà. Rapidamente lo aveva plasmato in qualcosa di profondamente diverso, qualcosa che avrebbe attirato intellettuali come Antonio da Padova e lo stesso Bonaventura. Pochi mesi dopo la morte di Francesco, Ugolino era stato eletto papa, col nome di Gregorio IX. La rapidità con cui portò a termine in pochi mesi il processo di canonizzazione di Francesco non esprimeva soltanto gratitudine: in una fase in cui il ricordo di Francesco era ancora vivo, soprattutto nell'Italia centrale, Gregorio/Ugolino sentiva la necessità di ribadire che fino all'ultimo Francesco era rimasto fedele alla vera Chiesa e all'Ordine che aveva fondato: che i suoi comportamenti, anche i più bizzarri, potevano tutti essere ricondotti alla variegata casistica prevista dalle leggende dei Santi. Francesco era stato in vari momenti della sua vita un mistico, un taumaturgo, un eremita, un predicatore, un missionario, un aspirante martire: come prima di lui vi erano stati mistici, taumaturghi, eremiti, predicatori, martiri. Le stimmate invece erano una cosa nuova e Gregorio ci mise dieci anni prima di menzionarle in un testo ufficiale. Alla fine giustificò la sua esitazione con un miracolo: Francesco gli sarebbe apparso in sogno, porgendogli una fiala del suo sangue affinché non dubitasse più. Dovette poi tornare spesso sull'argomento, ammonendo gli scettici che evidentemente non si rassegnavano: persino tra i francescani c'era chi trovava l'episodio in un qualche modo sacrilego. Ci furono stimmate cancellate dai dipinti, e monaci condannati per aver dubitato pubblicamente del miracolo. Tutto sommato la venerazione per le stimmate di Francesco si impose più faticosamente di quella per le analoghe ferite di Pio da Pietrelcina, rilevate in un secolo apparentemente più razionale. A fornire la descrizione finale del miracolo, quella omologata su cui poi si baseranno tutte le successive sarà proprio Bonaventura. Quest'ultimo potrà poi contare su un interprete figurativo d'eccezione: Giotto da Bondone.
Sulla falsariga del primo resoconto di Tommaso da Celano, Bonaventura collega la comparsa delle stimmate a un'apparizione angelica. Sul monte della Verna, durante un momento difficile, Francesco era stato visitato e confortato da una creatura a sei ali: un serafino. I serafini, spiegava Isaia, usano due ali per volare, e le restanti per coprire la testa e il resto del corpo. Sono gli angeli più vicini a Dio, e come Dio non possono essere visti direttamente dall'uomo. Tommaso aveva accennato a una relazione di causa ed effetto tra il serafino e le stimmate; Bonaventura va oltre. Il suo particolare pensiero teologico lo autorizza a vedere nel serafino una manifestazione del Cristo: sotto le ali, l'angelo nasconde il corpo di Cristo e le sue ferite, che durante l'apparizione si riproducono miracolosamente sul corpo sofferente del santo, "come il sigillo nella cera". È un'immagine che chiarisce finalmente la natura delle stimmate: non cicatrici di chiodi, non escrescenze carnose, ma impronte di un miracolo. L'idea sarà poi resa dai pittori attraverso la raffigurazione di raggi luminosi, secondo una iconografia che parte dalle Storie di San Francesco sulle pareti della Basilica Superiore di Assisi. Se anche non fosse stato Giotto a dirigerne i lavori, certo fu lui a riprendere e perfezionare la scena nella tavola dipinta per la chiesa di San Francesco a Pisa (oggi al Louvre) e in quella per la Cappella Bardi della chiesa di Santa Croce a Firenze. È un'interpretazione coraggiosa, che da parte di una fonte meno titolata e autorevole avrebbe potuto destare più di un sospetto di eresia: Francesco sofferente come nuovo Cristo, o immagine specchiata del Redentore. Con le parole di Chiara Frugoni (Vita di un uomo: Francesco D'Assisi, 1995):Facendo assumere alle stimmate il marchio divino, Bonaventura rese quella perfezione irraggiungibile: da una parte, Francesco rimaneva il santo da venerare, e sempre di più, perché portava nella sua carne le ferite di Cristo, ma dall'altra, proprio per questo motivo, i frati non erano obbligati ad imitare il fondatore, a rimanere fedeli alle sue scomode parole, al suo progetto di vita cristiana. La santità di Francesco era diventata inaccessibile e inimitabile. I frati, pur continuando a tributare un'estrema devozione a Francesco, dovevano seguire altri modelli, copiare la condotta di vita di altri uomini dalle virtù più semplici e accomodanti. Quella di Bonaventura fu un'operazione politica dettata dalla necessità di fare cessare le discordie, ma che mutò profondamente l'eredità di Francesco.
Sul calendario San Bonaventura si festeggia il 15 luglio, anniversario della sua morte, a Lione, nel 1274. Fu canonizzato nel 1482 e proclamato Dottore della Chiesa nel 1588. È patrono dei facchini e dei fattorini, non ho la minima idea del perché; dei teologi e dei tessitori, forse per l'abilità mostrata a disfare il textum della vita di Francesco e ritesserlo da capo, in una foggia più adatta al suo secolo: sotto la quale si cela qualcosa che cerchiamo di indovinare da allora, inutilmente.
Marina e l'invidia del saio
17-06-2021, 23:38omofobie, repliche, santiPermalinkNon so di chi sia, è convenzionale ma è la rappresentazione più androgina che ho trovato. |
L'episodio un po’ boccaccesco fece il giro del mediterraneo e ci è arrivato in dozzine di versioni diverse. In sostanza, il giovane Marino/Marina, già stimato da tutti i confratelli per la rettitudine e le virtù eccetera, viene inviato da qualche parte insieme con una delegazione di monaci. Nella locanda dove pernottano, un soldato giunto nottetempo stupra la figlia dell’oste. Quando i genitori se ne accorgono è troppo tardi, il soldato è già tornato alla tenebra donde è venuto, e la fanciulla è disonorata per sempre. L’unica è incolpare qualcun altro; in questo sono fortunati, perché Marino, l’irreprensibile Marino, denunciato davanti al suo superiore, non osa difendersi. Anzi, a un certo punto confessa la sua impossibile colpa. In questo possiamo ravvedere il masochismo tipico del folle di Dio, che decide di caricarsi delle colpe degli altri, ma anche un atteggiamento più prosaico: Marino aveva ben altro da temere che un’accusa di violenza sessuale, robetta. Al risarcimento ci avrebbe pensato il monastero. Quello che rischiava veramente, Marino/a, era il rogo per travestitismo: indossare indumenti non confacenti al proprio sesso era peccato mortale, e mille anni dopo sarebbe stato ancora il cardine di tutto il processo-farsa a Giovanna d’Arco. Marina insomma è una peccatrice, che diventa santa proprio in quanto peccatrice: una contraddizione che si spiega soltanto se immaginiamo la sua storia all’incrocio tra due civiltà diverse.
Il Vangelo di Tommaso prometteva il Regno dei Cieli a “ogni donna che si farà uomo” – ma fu escluso abbastanza presto dai testi canonici. Quando la storia di Marina comincia a diffondersi nel Mediterraneo, il cristianesimo è già una cultura egemone che aspira prima d’ogni cosa all’ordine: donne e uomini se ne stiano al loro posto. Ma il nocciolo della storia contiene ancora l’anima del cristianesimo degli inizi, una setta di folli che in attesa di una fine imminente avevano abolito la proprietà e le differenze di ceto e di genere. Marina nel frattempo deve abbandonare il monastero, ma pazienza: basta trasferirsi lì nei pressi, vivere rettamente e aver pazienza, prima o poi l'avrebbero riaccolto/a – figurati se lo bandiscono a vita per uno stupro, uno stupro solo? figurati.
Nove mesi dopo, la sorpresa.
Marino/a si trova un fagotto davanti alla porta di casa. Non le resta che improvvisarsi padre. Con che latte? Qui le versioni divergono: chi s’immagina una miracolosa montata lattea nella vergine-monaco, chi suggerisce che il latte glielo portassero i pastori. Preferisco quest’ultima: mi lascia il sospetto che una storia del genere possa essere capitata davvero. Marina cresce il figlio non suo come un padre, avviandolo ovviamente alla carriera monacale; e ovviamente se lo porta con sé quando i confratelli decidono di riammetterlo, a tre anni dal fattaccio. Continuerà a mostrarsi un esempio di rettitudine e virtù per il resto della sua esistenza; il suo segreto sarà scoperto soltanto quando i monaci ne spoglieranno il cadavere per pulirlo. Questo aspetto della storia a un certo punto divenne un po’ scabroso (monaci scoprono vagina in un cadavere), sicché nacque la variante del biglietto: prima di morire Marina avrebbe lasciato scritto: “sono una donna, ciao, non fate troppi pettegolezzi”, o qualcosa del genere. Noi ovviamente preferiamo la scena in cui i monaci si trovano davanti alla vagina di un cadavere:
“Ehi, aspetta, ma l'affare dov'è?”
“Non capisco. Forse è molto piccolo”.
“Pure pare lo sapesse usare”.
“Zitto! Cerca bene, dev’esserci”.
“Ma succede così quando muori? Ti si ritira?”
“Miracolo!”
“Ma sta’ zitto! Questa è una vagina”.
“Che cosa?”
“È una vagina, ti dico”.
“Fratello, non può essere!”
“Invece è così”.
“Io non sarei così sicuro, fratello, di quel che hai visto da ragazzino in un bordello a Tessalonica”.
“Ehi, ritira quello che hai detto”.
Segue rissa. Per cercare di disbrigare il bandolo, i monaci tornano alla locanda fatale. L’oste cade dalle nuvole; la figlia invece confessa durante una crisi isterica, o come si diceva allora, esorcismo. San Marina è patrona delle gravidanze difficili, dei genitori non standard, e si invoca per far sgorgare l’acqua o il latte. Il nome l’ha resa molto popolare tra i marinai, i monaci del mare, anche loro spesso inclini a favoleggiare di fanciulle travestite, compresse in abiti da mozzo. Dopo il crollo dell’Impero Bizantino, Venezia ne volle a tutti i costi le spoglie e le trovò, ma non fu sempre un’ospite all’altezza.
La figlia di San Pietro, o forse no
30-05-2021, 18:17pontefici, Roma, santiPermalink31 maggio – Santa Petronilla martire, I secolo
Di tanti santi non ci resta che un nome sul muro. È comunque notevole quante storie siamo riusciti a inventarci, con quel nome e poco altro. L'esempio limite sono sempre le undicimila vergini di Sant'Orsola, nate tutte e undicimila da un errore di trascrizione; quanto a Santa Petronilla, a un certo punto si ritrovò su altari importanti semplicemente perché il suo nome ricordava quello di Pietro: e in seguito, per lo stesso motivo, fu accantonata. Sic transit gloria coeli.
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L'affresco della matrona, nella Catacomba di Domitilla. |
Il nome Petronella mart[yr] si legge in quello che forse è il più antico affresco cristiano che si sia conservato, risalente al IV secolo, presso la Catacomba di Domitilla, sulla via Ardeatina. Petronilla è raffigurata mentre indica alla matrona Santa Veneranda una pergamena (le Scritture?) e forse la conduce in cielo. Tutto qui. "Petronella" però è un nome curioso. L'origine non è difficile da rintracciare: la gens Petronia era una delle più importanti famiglie Romane nel periodo repubblicano e imperiale. Oggi la ricordiamo soprattutto per quello scrittore sconcio, ma fior di senatori e latifondisti hanno portato il nome Petronius. Prima che ironizziate sulla scarsa fantasia di uno di questi Petroni che avrebbe chiamato sua figlia "Petronilla", cioè piccola Petronia, vi devo rammentare che non funzionava così, cioè i Romani non davano un vero nome alle loro figlie – o forse lo davano, ma era talmente privato che non veniva mai divulgato agli estranei, né registrato dai documenti, e quindi non lo conosciamo. In società le donne venivano chiamate col femminile del nome gentilizio del padre, che in periodo imperiale assume spesso la forma diminutiva: per cui se nascevi figlia di un Domizio eri Domitilla; se invece ti dava la vita un Petronio, eri Petronilla e stop. Se poi avevi sorelle, per distinguerti potevano chiamarti "Prima", "Secunda", "Tertia", a seconda dell'ordine dell'arrivo. Possiamo trovare l'usanza un po' barbara (in realtà furono i barbari ad abolire l'usanza), ma senz'altro ha risparmiato a generazioni di genitori quei nove mesi di discussioni. Di Santa Petronilla, assente dai più antichi martirologi, si conosceva insomma soltanto la famiglia d'origine, e nient'altro: ma a partire dal V secolo anche questo dettaglio fu rimosso, in favore di un'ipotesi più suggestiva accreditata a partire dalla Passione dei martiri Nereo e Achilleo: che il nome "Petronilla" cioè non discendesse da "Petronio", bensì da "Pietro", il primo tra gli apostoli nonché fondatore della Chiesa di Roma. Proprio a Roma, mentre esercitava il suo apostolato, Pietro avrebbe avuto una figlia, che sarebbe morta martire come lui. Ovviamente non ci sono prove, ma se è per questo anche quelle che collegano Pietro Apostolo a Roma sono molto labili.
Ne abbiamo già discusso: non c'è un solo versetto del Nuovo Testamento che affermi esplicitamente un passaggio di Pietro a Roma. Viceversa è proprio Pietro a concludere la sua Prima Lettera porgendo i suoi saluti da Babilonia. "Babilonia" ai tempi di Pietro era ancora uno dei nomi di una città reale, ovvero Seleucia-Ctesifonte sul fiume Tigri; per estensione poteva indicare tutta la regione mesopotamica, dove davvero Pietro potrebbe essersi spinto dopo dopo il suo soggiorno ad Antiochia di Siria, questo sì attestato dagli Atti degli Apostoli. E allo stesso tempo "Babilonia" potrebbe essere un riferimento in codice a Roma in quanto tronfia capitale del peccato, immediatamente decifrabile per tutti i cristiani e appassionati lettori di Isaia. Così almeno hanno voluto leggerlo nei secoli successivi i cristiani romani e in generale tutti gli autori a cui premeva insistere sul primato petrino. Certo, è curioso che Luca, l'autore degli Atti, a un certo punto abbandoni completamente Pietro e si concentri soltanto su Paolo di Tarso, che nel finale del libro arriva a Roma ed è messo agli arresti domiciliari. Se in quel periodo anche Pietro fosse già stato a Roma, Luca ce lo avrebbe detto: a meno che Pietro non fosse in quel periodo un clandestino, un ricercato, ed è possibile anche questo.
Comunque tutte le successive avventure di Pietro nell'Urbe sono contenute in testi che già la Chiesa dei primi secoli liquidava come apocrifi. La presenza di Pietro a Roma era però necessaria per giustificare il principio del primato del vescovo di Roma su tutti gli altri presuli della cristianità: ogni indizio in tal senso era prezioso. Si può immaginare quanto avrebbero apprezzato, i successori di Pietro, una sola iscrizione di epoca imperiale recante il nome dell'Apostolo: ma non la trovarono. In compenso trovarono una Petronella mart.: meglio che niente.
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L'antica Basilica di San Pietro in un'incisione rinascimentale: il primo edificio a pianta circolare dall'alto era la Cappella di Santa Petronilla, già mausoleo di Onorio. |
La necessità di accostare Petronilla a tanto padre portò alla produzione di ulteriori leggende in cui San Pietro guariva la figlia da questo o quel male. Nell'ottavo secolo papa Stefano II decide che Petronilla deve riposare nei pressi del padre, sulla cui supposta tomba già in epoca costantiniana era sorta l'Antica Basilica. La traslazione viene effettivamente ordinata dal successore, papa Paolo I: le ossa attribuite a Petronilla martire vengono spostate dalla catacomba a un edificio che sorgeva a fianco della Basilica. Si trattava dell'ultimo mausoleo imperiale di Roma, quello dell'imperatore Onorio (V secolo), da lì in poi conosciuto come Cappella di Santa Petronilla.
Nel frattempo sta finendo l'ottavo secolo. Il papato deve scegliere da che parte stare tra Franchi e Longobardi, e questi ultimi danno meno affidamento, anche solo perché a Roma li conoscono meglio. Quando Carlo non-ancora-Magno arriva a Roma la prima volta, papa Adriano lo porta in visita anche alla tomba di Petronilla, la cui cappella viene ora dedicata ai re Franchi. È un piccolo gesto di enorme significato: il regno dei Franchi è adottato come un figlio dalla Chiesa, così come Petronilla è figlia di Pietro. E siccome sulla tomba di Petronilla pare fosse inciso un delfino, questo simbolo entrerebbe a far parte dell'araldica imperiale, dove sarebbe stato associato soprattutto alla contea di Vienne sul Rodano, dal XIV secolo in poi destinata all'erede al trono di Francia, conosciuto fino all'Ottocento come il "Delfino".
Petronilla insomma ha le carte in regola per diventare la patrona di uno dei più importanti regni della cristianità: e invece dal decimo secolo in poi la sua fama si eclissa. Nessun re Franco e poi francese viene effettivamente tumulato nella cappella; il nome "Petronilla" resiste ancora in quanto associato all'edificio, finché nel Rinascimento gli umanisti non decidono che doveva trattarsi di un antico Tempio di Apollo e non cominciano a chiamarlo così. Nel 1519 viene comunque demolito senza troppi rimpianti per far spazio al complesso architettonico della nuova Basilica. Nel frattempo Petronilla era tornata a essere poco più di un nome inconsueto su qualche antico documento. Cos'era successo? In breve, l'idea che Pietro avesse avuto una figlia era ormai diventata imbarazzante.
La cosa in sé non era scandalosa: nei vangeli di Marco e Luca, Gesù guarisce la suocera di Pietro, che quindi come minimo era sposato. Nella sua Prima Lettera, proprio mentre saluta da Babilonia, Pietro cita un Marco come "suo figlio", quindi non era impossibile che ne avesse avuto altri. Impossibile no, ma poco edificante per i suoi successori che dall'Anno Mille in poi insistono sempre di più sul celibato sacerdotale. È una fase in cui papi importanti come Leone IX e Gregorio VII cercano di recuperare la credibilità di un clero sempre più corrotto. I mali del secolo si chiamano simonia e nicolaismo: il primo è la compravendita di titoli ecclesiastici, molto ricercati dalle nobili famiglie che dovevano piazzare i figli non primogeniti esclusi dall'asse ereditario. Il risultato è che molti seggi vescovili anche importanti erano occupati da figli di papà non esattamente portati al sacerdozio, con una conseguente rilassatezza dei costumi che è facile immaginare. Eppure il nicolaismo era una piaga anche peggiore, e consisteva nell'abitudine dei sacerdoti a prendere concubine o addirittura a sposarsi, lasciando dunque eredi, malgrado già da secoli vescovi e padri della Chiesa lo sconsigliassero fortemente, quando non lo vietavano proprio. Questi divieti venivano troppo spesso ignorati e i preti continuavano a far figli a cui spesso cercavano di intestare parte dei propri benefici, il che minava alle fondamenta tutta l'istituzione.
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Gregorio VII, al secolo Ildebrando di Soana |
Non si trattava tanto di una questione di castità (i sacerdoti non fanno voto di castità, ma appunto di celibato): a scandalizzare i laici di ogni classe sociale era il modo in cui questi chierici sposati amministravano i beni della Chiesa, badando più agli interessi famigliari che a quelli della diocesi o della parrocchia. Gregorio VII reagì alla questione con intransigenza, pretendendo che i vescovi rispettassero e facessero rispettare il principio: con il suo papato, la Chiesa fece un passo definitivo verso la trasformazione in quella gerarchia di celibi che è tuttora, un'enorme organizzazione che assorbe benefici e donazioni in ogni continente senza doverne mai cedere una parte a nessun erede legale. Ma a quel punto l'idea che il primo degli Apostoli e il primo dei Pontefici romani avesse avuto una figlia diventava scomoda da gestire. Di questa Petronilla nulla di certo si sapeva, tranne che aveva il nome del padre e in virtù di questo si era meritata una cappella tutta sua di fianco alla Basilica più importante: non un buon esempio per una Chiesa che volesse respingere il nicolaismo e il nepotismo. Già in qualche leggenda più tarda Petronilla è soltanto una figlia adottiva, o una convertita che assume il nome dell'Apostolo in modo non dissimile da come gli schiavi affrancati derivavano il loro nome da quello dell'ex padrone che li aveva liberati. La stessa Francia si dota col tempo di Santi più blasonati e storicamente attestabili come Re Luigi IX o Giovanna d'Arco. Quest'ultima rischia per un soffio di sovrapporsi a lei anche nel calendario, dove Petronilla è festeggiata nell'ultimo giorno di maggio. Giovanna invece fu bruciata a Rouen il giorno prima, il 30 maggio del 1431.
Il terzo (o il quarto?) segreto di Fatima
12-05-2021, 22:10madonne, pontefici, repliche, santiPermalink![]() |
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13 maggio - Madonna di Fatima.
[2012]. 31 anni fa oggi, a Piazza San Pietro Mehmet Ali Ağca sta per sparare il terzo colpo (o il quarto), quando una suora e un addetto alla sicurezza del Vaticano lo atterrano. Stacco. Dieci giorni prima, un monaco trappista dirotta un Boeing 737 in Normandia e minaccia di dar fuoco all'aeroplano se non gli viene rivelato il Terzo Segreto di Fatima. Stacco. Il Papa Buono dietro una scrivania tiene in mano una busta. C'è scritto, in portoghese: per ordine di Nostra Signora aprire nel 1960. La mano trema. Stacco. Una folla radunata in un villaggio: siamo nell'ottobre 1917, quindi le immagini sono in bianco e nero, tranne che all'improvviso il sole esplode in una supernova arcobaleno. Stacco. Karol Wojtyla parla dal balcone, la sua voce fuori campo annuncia: "gli oceani annegheranno intere sezioni della terra... da un momento all'altro milioni di persone periranno... però non abbiate paura". Dissolvenza incrociata: la statua della Madonna di Fatima, zoom sulla corona, una voce fuori campo: "Perché il Papa non ci volle consegnare la terza pallottola? Oggi magari sapremmo che Ağca non era il solo killer". Zoom sulla corona dorata, ehi, ma quella... sembra proprio una pallottola! Dissolvenza incrociata. Un uomo in bianco sale su una montagna cosparsa di cadaveri, dispensando benedizioni con fare allucinato. Una voce simile a quella di Joseph Ratzinger, fuori campo, dice: "Chi leggerà con attenzione... resterà presumibilmente deluso o meravigliato". Titolo: IL QUARTO SEGRETO DI FATIMA. PERCHÉ LA CHIESA NON VUOLE RIVELARLO? Ecco. Io una puntata di Voyager sulla Madonna di Fatima la lancerei così. E voi probabilmente avreste già cambiato canale da un pezzo. Va bene, ricominciamo.
Il terzo segreto di Fatima è stata l'apocalisse Maya della mia generazione - il solo nominarlo causava a preadolescenti di educazione cattolica autentici brividi di terrore. Considerate le coincidenze: Ali Ağca (in seguito preferì accreditarsi come "Gesù Cristo il Messia") sceglie per sparare a Papa Wojtyla, di tutti i giorni possibili, il 13 maggio, anniversario della prima apparizione della Madonna ai bambini di Fatima. Un anno dopo (12/5/1982) il Papa, salvo per miracolo, si trova appunto a Fatima, quando il sacerdote spagnolo don Juan María Fernández y Krohn tenta di trafiggerlo con una baionetta. Per don Juan, Wojtyla era un agente di Mosca. Per molti ancora oggi l'uomo di Mosca era Ali Ağca - con o senza intermediazione bulgara. I russi, ma anche la CIA, i Lupi Grigi, i cardinali invidiosi, qualsiasi ente tirato in ballo da Cristo-Ağca nelle settecento versioni che ha fornito. Tutte dotate di qualche grammo di verosimiglianza: i Lupi Grigi erano terroristi laici, senza pregiudiziali, che per soldi potevano far lavoretti per chiunque. Per conto loro avevano messo su un fiorente traffico di stupefacenti che li aveva messi in contatto con tutte le criminalità organizzate d'Europa.
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Suor Letizia, quella che ha buttato giù il Lupo Grigio. Alla grande, sorella. |
La guerra fredda, nella sua fase finale: il rush della corsa agli armamenti, gli euromissili sepolti sotto le nostre biolche di onesti coltivatori padani, puntati anche verso la Bulgaria. Per chi cresceva negli anni Ottanta, l'apocalisse nucleare era un'opzione. Non dico che ci pensavi tutti i giorni, ma ci pensavi. A scuola ti mostravano The Day After. A catechismo ti parlavano della Madonna di Fatima. Dei meravigliosi doni che aveva fatto ai tre pastorelli portoghesi: per esempio, aveva mostrato loro l'inferno. E consegnato informazioni riservate sulla fine del mondo, con una speciale attenzione per l'Unione Sovietica. Poi li aveva richiamati a sé, due su tre, facendoli morire ancora bambini durante un'epidemia, in modo piuttosto doloroso. La terza viveva semisepolta in qualche convento iberico, e conservava l'immagine specchiata di cose di là da venire.
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Lucia dos Santos (dieci anni) tra Jacinta Marto (7) e Francisco Marto (10), al tempo delle apparizioni (1917). Francisco sarebbe morto di spagnola nel 1918, Jacinta due anni dopo. |
Però la cosa che davvero mi agghiacciava era il matto che aveva dirottato il Boeing 737. Si era cosparso di benzina ed era andato a trovare i piloti con un accendino in mano. All'inizio aveva chiesto di farsi scaricare in Iran - era un volo Dublino-Londra, figuratevi, il posto più vicino all'Iran a disposizione era il primo aeroporto di qua dalla Manica. Quando atterra, ai negoziatori chiede che gli sia rivelato il Terzo Segreto, quello che solo pochi alti prelati conoscono. Dieci ore dopo i francesi mandano le teste di cuoio. È facile immaginare che nel frattempo fosse stata consultata la Santa Sede, la quale doveva aver risposto: meglio di no. Cosa c'era di così orribile in quelle quattro paginette scritte a mano, da rischiare piuttosto l'esplosione di un Boeing 737 pieno di passeggeri? È chiaro che un ragazzino di quell'età si fa subito venire in mente cose tremende. Poi crescendo uno all'apocalisse smette di pensarci tutto il tempo - si diventa razionali, direte voi - in realtà no, il contrario, a un certo punto gli ormoni cominciano a pompare e dei dieci anni successivi ho vaghi ricordi, mi sembra di aver pensato al sesso tutto il tempo. Quando hai 16, 17 anni, anche se ti dicono "fine del mondo", tu non pensi più agli euromissili e al segreto di Fatima, tu pensi Dai, è la volta che si scopa. Cioè, se non stavolta vuol proprio dire che mai.
Questa fase diciamo endocrinosofica della mia esistenza era già in gran parte terminata quando nel 2000 fu finalmente svelato il segreto che mi aveva terrorizzato da bimbo. Come aveva previsto Joseph Ratzinger (allora prefetto della Congregazione per la Difesa della Fede) rimasi deluso. Ma neanche tanto, in fondo è come vedere Belfagor da adulti, o ritrovare lo scivolo altissimo che ti terrorizzava all'asilo, in tutti i suoi due metri di orrido splendore. Tutti i brividi che hai provato ti lasciano giusto una punta di malinconia, come sentire il freddo sotto un'antica otturazione. Ormai sei grande, se ti dicono "fine del mondo" pensi Dai, allora stasera non correggo i compiti... Il terzo segreto di Fatima è il seguente.
Dopo le due parti che già ho esposto, abbiamo visto al lato sinistro di Nostra Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui: l'Angelo indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: Penitenza, Penitenza, Penitenza! E vedemmo in una luce immensa che è Dio: “qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti” un Vescovo vestito di Bianco, “abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre”. Vari altri Vescovi, Sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c'era una grande Croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo, con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i Vescovi Sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni. Sotto i due bracci della Croce c'erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio.
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Chissà poi perché tanta paura. |
Tutto qui? Tutto qui. Per carità, c'è di che stare in ansia: massacri, martiri, un Papa assassinato, innaffiatoi di sangue. E allora perché non fa più paura? Perché, dopo anni di speculazioni, appena lo abbiamo letto ce lo siamo dimenticato? Forse perché nel frattempo siamo cresciuti. O forse non fa più paura proprio perché adesso lo conosciamo; la cosa veramente terrorizzante era quella busta chiusa, quell'avvertimento: non aprire prima del 1960. Un segreto ben custodito fa paura, una profezia divulgata dopo pochi minuti suona già falsa come l'oroscopo di ieri. Fu Umberto Eco il primo a far notare che il "segreto" era un collage di immagini dall'Apocalisse di San Giovanni: e in fondo, notava lo stesso Eco, Ratzinger con molto tatto aveva scritto la stessa cosa. Sopra Ratzinger però c'era Wojtyla, e Wojtyla aveva fatto incastonare la terza pallottola di Ağca nella corona della Madonna di Fatima. Un modo per sottrarla alle attenzioni degli inquirenti? Forse, però se davvero avesse voluto occultarla, non avrebbe scelto una posizione così in vista. Prima o poi qualcuno andrà lì con qualche strumento di ultima generazione e riuscirà a capire se la pallottola è uscita o no dalla pistola di Ağca. E se avesse avuto un complice? Cambia qualcosa? C'è un mafioso che a Borsellino ha detto di aver seppellito la sera stessa un terrorista turco in un orto fuori Milano, che due compagni avevano prelevato a Roma per ordine di un mafioso bulgaro per fargli poi fare "la fine dell'asino", che "si usa fino a che serve, dopo, quando non serve più, si uccide!" Salvo che il cadavere non si è mai trovato. C'è che in cella ci si annoia e allora si leggono i classici, ognuno il suo: San Giovanni per suor Lucia, Mario Puzo per il mafioso, e fuori c'è sempre qualcuno vuole sapere se hai studiato e ogni tanto ti fa interrogare.
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La pallottola è nella corona, dicono. |
I tre segreti di Fatima sono in realtà un'unica rivelazione che suor Lucia ebbe il 13 luglio 1917, a dieci anni, durante il terzo degli incontri con la Signora di bianco vestita. Quando su invito dei superiori decise di metterli per iscritto ne aveva quasi quaranta. Il sole rotante e tutti i prodigi di quegli anni dovevano essere ormai un ricordo al di là della nostalgia, come lo scivolo dell'asilo o Belfagor, o la paura degli euromissili. È impossibile per me parlare di queste cose senza mescolare i labili ricordi originali con tutto quello che ho letto e ascoltato e visto negli anni successivi - tutta la cultura che ho ammucchiato sopra i miei choc d'infanzia. Belfagor, per dire, non sono nemmeno sicuro di averlo visto. Qualsiasi cosa suor Lucia vide veramente, non è rimasta indenne dal contatto dei libri che ha letto negli anni del convento - del resto era stata la stessa Signora a ordinarle di studiare. Suor Lucia infatti ha studiato, e si vede. Il primo segreto - la visione dell'inferno - è Teresa d'Avila. Il secondo segreto, col quale la Madonna di Fatima si dà alla politica internazionale prevedendo con tre mesi d'anticipo la rivoluzione d'Ottobre e chiedendo la consacrazione della Russia al suo Sacro Cuore - è Santa Margherita Maria Alacoque, roba da intenditori. La veggente francese nel Seicento aveva disperatamente tentato di raggiungere il Re Sole per chiedergli la consacrazione della Francia intera a una cosa che a quel tempo non si capiva ancora bene cosa fosse, una pompa cardiaca raffigurata in modo ormai anatomicamente corretto, sormontata da una croce e aggrovigliata da una corona di spine: il Sacro Cuore di Gesù che sanguina per i peccati dei francesi. Il Re Sole non aveva mai dato udienza e così Gesù dopo un secolo aveva mandato la Rivoluzione Francese. Sostituisci alla Francia la Russia zarista, il cuore di Maria al cuore di Gesù, e il Secondo Segreto si scrive da solo. Comunque:
Avete visto l'inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarle, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato. Se faranno quel che vi dirò, molte anime si salveranno e avranno pace. La guerra sta per finire; ma se non smetteranno di offendere Dio, durante il Pontificato di Pio XI ne comincerà un'altra ancora peggiore. Quando vedrete una notte illuminata da una luce sconosciuta, sappiate che è il grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre. Per impedirla, verrò a chiedere la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati. Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, promovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa.
Immaginare una guerra "ancora peggiore" della prima mondiale non doveva essere così difficile, nel 1941. La "notte illuminata da una luce sconosciuta", lo affermava Lucia stessa, era un riferimento all'eccezionale aurora boreale nella notte tra il 25 e il 26 gennaio 1938. Tuttavia la veggente, con tutto che s'impegna, non è un'esperta di geopolitica e commette un errore imbarazzante, che in seguito cercherà di emendare. Dal suo convento del profondo Portogallo salazarista probabilmente la guerra in corso le sembra davvero un'iniziativa della Russia demoniaca contro il mondo: la Storia però la scrivono i vincitori, e noi oggi abbiamo di quella guerra un'opinione ben diversa, che vorremmo condivisa anche dalla Madonna di Fatima. E infatti più tardi, molto più tardi, suor Lucia scriverà che il secondo segreto riguardava
lo scoppio di una guerra atea, contro la fede, contro Dio, contro il popolo di Dio. Una guerra che voleva sterminare il giudaismo da dove provenivano Gesù Cristo, la Madonna e gli Apostoli che ci hanno trasmesso la parola di Dio ed il dono della fede, della speranza e della carità, popolo eletto da Dio, scelto fin dal principio: "la salvezza viene dai giudei".
Sono parole commoventi, soprattutto nei confronti dei giudei, salutati come il popolo eletto. Magari se le avesse messe per iscritto nel 1941 - e non in un documento pubblicato postumo nel 2005 - Pio XII avrebbe avuto qualche motivazione in più per contrastare il genocidio in atto. Invece, purtroppo, il secondo segreto di Fatima racconta di una seconda guerra mondiale scatenata dalla Russia e non fa nessun cenno al genocidio degli ebrei. Il fatto è che con le profezie bisogna andarci piano, anche quando sono divulgate post eventum, e la Congregazione della Fede lo sa. Suor Lucia aveva già toppato col secondo segreto, quante possibilità c'erano che ci azzeccasse col terzo? Probabilmente la busta chiusa "da aprire solo dopo il 1960" se ne sarebbe rimasta in un archivio per sempre, e a parte qualche ufologo flippato tutti ce ne saremmo dimenticati presto - se Ali Ağca, di tutti i giorni del calendario, non avesse scelto proprio quel 13 maggio. Wojtyla era già devotissimo alla Madonna prima, dal 14 in poi fu Tutto Suo. Nel corso di pochi anni i due veggenti morti bambini furono canonizzati, la Russia fu consacrata al Sacro Cuore di Maria secondo le indicazioni di Suor Lucia; la corona della Madonna di Fatima si adornò di una pallottola; e Wojtyla divenne il papa più famoso di tutti i tempi, con uno slogan ("non abbiate paura") che a me a dire la verità ha sempre fatto un po' paura.
Non metto in discussione la trovata geniale: quando Wojtyla si mise a dire che bisognava Varcare la Soglia della Speranza, molta gente in giro per il mondo non si ricordava neanche più cosa fosse quel peso sullo stomaco, quella morsa alle tempie: ecco cos'era, finalmente qualcuno non aveva paura di ricordarcelo: avevamo paura. Vivevamo nella paura, e ci era così familiare che ormai la davamo per scontata come una tabe ereditaria, io da bambino guardavo il cielo e ogni scia chimica per me era un potenziale SS20 con testata innescata. Wojtyla non mi ha mai veramente convinto, però posso capire quanta forza potesse avere un messaggio del genere: non abbiate paura. Ma perché non dovevamo averne? Su questo il Santo Padre non era mica tanto chiaro, al punto da farmi pensare al genere di persone che gridano "niente panico" alla folla. Per esempio, il personale di volo durante un disastro. Forse il "non abbiate paura" di Wojtyla era esattamente questo, un professionale "niente panico" rivolto ai passeggeri di un mondo che stava precipitando nelle fiamme della terza guerra mondiale: non abbiate paura, tanto andrà così e non c'è nulla che possiate fare.
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Il quadro raffigurante il Terzo Segreto approvato da suor Lucia. |
C'è un'intervista tedesca, pubblicata nell'ottobre del 1981 (dopo l'attentato) ma che sarebbe stata rilasciata nel 1980 (prima dell'attentato): il perché ci sia voluto un anno a pubblicarla non lo so. Comunque in quest'intervista un Giovanni Paolo di fresca nomina commette un'imprudenza che in seguito non ripeterà più: richiesto di parlare del Terzo Segreto, spiega: "Se c'è un messaggio in cui si dice che gli oceani annegheranno intere sezioni della terra, e che da un momento all'altro milioni di persone periranno... non c'è veramente nessun motivo di voler pubblicare questo messaggio. Molti vogliono conoscerlo per pura curiosità, o per il gusto del sensazionalismo, ma dimenticano che "sapere" implica anche per loro una responsabilità. È pericoloso soddisfare una curiosità se sei convinto che non possiamo fare nulla per una catastrofe che è stata predetta". La traduzione dall'inglese è mia, miei i corsivi: sono veramente contento di non aver mai letto a 12 anni questa intervista in cui il mio Papa, miracolosamente sopravvissuto a un attentato, diceva papale papale che se sei convinto che l'aereo è spacciato e non puoi farci nulla, è inutile mettersi a soddisfare le morbose curiosità dei passeggeri. Negli anni successivi anche il più prudente Ratzinger confermò il carattere apocalittico della rivelazione. Però quando nel 2000 Wojtyla decise di divulgarlo, Ratzinger lo scrisse: molti si sentiranno delusi. "Nessun grande mistero viene svelato; il velo del futuro non viene squarciato".
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Alla fine è la stessa delusione che ti assale alla fine di un film horror: la locandina ti terrorizzava, pensavi che non avresti retto la visione... poi a un certo punto le luci si accendono, ti guardi intorno, hai perso un'ora e mezza per vedere cinque fotogrammi imbrattati di sangue finto e qualche maschera di gomma, e in tasca hai diecimila lire in meno. La delusione di vedere Belfagor da grandi: ma come faceva a far paura? E lo scivolo dell'asilo, eccetera. Molti non ci stanno. Non è vero. Questo non è il vero scivolo, è stato sostituito. Questo non è il vero film di paura che mi avevano detto gli amici, l'avrà censurato qualcuno, maledetta censura. Questo non è il vero Belfagor, andate a cercare negli archivi Rai perché quello vero mi faceva venire gli incubi. C'è un complotto, un'organizzazione segreta che modifica l'arredamento degli asili e censura i film e sostituisce gli sceneggiati francesi nelle teche Rai. E il terzo segreto di Fatima non è il vero terzo segreto. È stato censurato, sostituito. Quello vero fa ancora paura. Quello vero è davvero indicibile. Questo tipo di voci comincia a girare già nel 2000, facendo sdegnare un giornalista di provata fede come Antonio Socci. Però col tempo il dubbio di insinua in lui come un tarlo. Possibile che sia tutto qui, il terrore della mia infanzia? E come si spiega quella vecchia intervista a Wojtyla? E quella frase al termine del Secondo Segreto, "In Portogallo si conserverà sempre il dogma della fede, ecc.", che non è ripresa all'inizio del Terzo? E il foglietto originale, non era in quattro facciate? Perché quello pubblicato sembra un foglio solo. Eccetera. Tutto sembra portare verso una sola conclusione: Ratzinger e Wojtyla hanno truccato le carte. Esasperati dal dover sempre rispondere alle stesse domande sul Terzo Segreto, a un certo punto ne hanno "divulgato" una parte, ma non quella fondamentale. Così, insomma, il segreto della nostra infanzia è salvo! E possiamo anche cominciare a terrorizzare i nostri figli, se ne abbiamo.
Peraltro io sono abbastanza d'accordo - non su terrorizzare i nostri figli, no, ma sul fatto che il testo del terzo segreto abbia subito un robusto lavoro di editing. La frase con cui probabilmente iniziava, "in Portogallo si conserverà sempre il dogma della fede", è lessicalmente infelice: la fede non è propriamente "un" dogma, e di "dogmi di fede" ne esistono tanti. Insomma, suor Lucia faceva quel che poteva, ma era una veggente, non una teologa omologata. Che gusto c'è a dirigere la Chiesa cattolica se non puoi rieditare le profezie dei tuoi fedeli? E c'è un'altra possibilità, alla quale Socci e i gli altri fatimiti complottardi non hanno pensato - probabilmente perché non sono programmati per farlo. Forse il terzo segreto autentico rimane indicibile per il semplice motivo che non si è realizzato - così come non si era realizzato il secondo. Mettiamo che fosse una profezia di fine di mondo, come ai veggenti piace fare. Mettiamo che Wojtyla, dopo tre pallottole e un attacco alla baionetta, fosse incline a crederci, mentre invece Ratzinger no. A me viene già in mente la data perfetta: il 13 maggio dell'anno che più di tutti da bambino mi terrorizzava: il 2000. Quei due a un certo punto si saran detti: se il mondo deve proprio finire nei termini verbalizzati da suor Lucia, non diciamolo a nessuno, tanto è inutile. Ma se quel giorno non succede niente, prepariamoci un piano B. Il 13/5/2000 il mondo non è effettivamente finito: lo stesso giorno però Wojtyla ha beatificato Francisco e Jacinta Marto, e ha divulgato il terzo segreto cattolicamente corretto.
Nella sua versione del 2000, il Segreto è inattaccabile: parla di una futura persecuzione del clero cattolico, forse in parte già iniziata. Nessuno pensa più alla terza guerra mondiale, ormai, tutti hanno in mente l'offensiva laica mondiale contro il diritto alla vita, la sana famiglia eterosessuale eccetera. Ratzinger stesso lascia intendere che la Chiesa potrebbe essere punita per i propri peccati, per la "sporcizia" che il pontefice ha esplicitamente stigmatizzato, alla terza o quarantesima accusa di coprire i preti pedofili. In sostanza il terzo segreto può significare qualsiasi cosa, come una quartina ben tornita di Nostradamus, o l'oroscopo di domani. E anche questa idea che non tutto sia stato detto, che da qualche parte ci sia un quarto segreto... a suo modo torna utile. Pensate quando saremo a gennaio 2013, e nessuno potrà più rivendersi la profezia Maya: l'industria della fine del mondo avrà bisogno di qualche nuovo spunto. Magari Giacobbo ci sta già lavorando. Ecco, magari tra sei mesi fateci caso, se su Voyager o Mistero non passa un filmato simile a quello che vi ho raccontato io all'inizio. E se lo vedete - se la mia profezia si avvera - voi non cambiate canale, ma ditelo subito ai vostri bambini, che il terzo o il quarto segreto di Fatima non vogliono dire nulla, che è solo una favola riciclata in mancanza di meglio da gente che vuole venderti un libro o un altro film sulla fine del mondo. Diteglielo subito, non aspettate che siano i bambini a chiedervelo, perché i bambini a volte si vergognano, non vi dicono niente, hanno degli incubi per anni, se li tengono per sé. Lo scivolo dell'asilo ci mette decenni a rimpicciolire, Belfagor è ancora da qualche parte nell'ombra dietro un comodino, e sotto le nostre case di onesti coltivatori, dormono pazienti gli euromissili, per svegliarli basterebbe premere un pulsante. Ma va tutto bene, non c'è nulla di cui aver paura. Accendete la luce, diteglielo, dategli un bacio.
Hai mai visto il mio ippopotamo?
10-05-2021, 08:00Bibbia, repliche, santiPermalink![]() |
Ci conosciamo? |
La trama la sapete, no? No? Cioè l'Odissea sì, i promessi sposi sì, e Giobbe no? C'è qualcosa che non va nella nostra educazione. Poi per carità, Omero è ok, ma non è che ti capiti così spesso di organizzare massacri di Proci, né di volerti sposare contro la volontà di un signore feudale; mentre un'imprecazione alla Giobbe prima o poi sfugge a tutti, e l'Unica Domanda ce la poniamo più o meno tutti i giorni. Per dire, negli ultimi tre anni gli americani lo hanno riciclato in un paio di film, entrambi molto apprezzati (A Serious Man e The Tree of Life). Certo, se la mettiamo su questo piano i fumetti della Marvel battono Giobbe 5 a 2, ma per un prodotto di nicchia non è comunque un risultato da buttar via. La trama, dicevamo.
Nel paese di Uz (deserto del Negev?) Giobbe è un uomo giusto che fa tutto quello che deve fare un buon ebreo. (Il fatto che non sia identificato come un ebreo secondo alcuni è un modo per evitare la censura, visto che tra lui e Dio accadranno eventi spiacevoli: un'altra ipotesi è che dietro a Giobbe ci sia un mito più antico, di origine mesopotamica). Nel frattempo, alla corte di Dio... ecco, già questo è incredibile. Non si è mai vista la corte di Dio fin qui nella Bibbia: si sono visti roveti ardenti, carri rotanti, ma un Dio che tranquillo riceve i suoi cosiddetti "figli" (angeli?) è un unicum, solo in Giobbe assistiamo a scene così. Non solo, ma tra questi "figli" c'è Satana, nella sua prima apparizione pubblica. Non è ovviamente il Satana cristiano con le corna o la coda, non è visto come un nemico di Dio (anzi prende ordini da lui). Al limite è l'unico in grado di reggere una conversazione con l'Ente supremo. Da dove vieni, gli chiede infatti l'Ente, e Satana: Me ne sono andato a spasso per la terra. "Hai visto Giobbe? Lui sì che mi vuol bene, eh?" "Per forza ti vuol bene, gli hai dato tutto: una casa, una famiglia, gli affari vanno bene... prova a togliergli qualcosa, e vedrai se non ti maledice". L'Ente accetta la scommessa: "Vai pure, levagli quel che vuoi". Satana insomma è una specie di pubblica accusa che punta il dito sull'umanità (la parola forse in origine significava avversario, accusatore); più che il diavolo, l'avvocato del diavolo, con la missione di mostrare a Dio quanto gli uomini facciano schifo. Per questo bazzica la terra, mentre gli altri angeli se ne vanno per i cieli. Dunque Satana prende il migliore degli uomini, e in pochi minuti gli toglie la famiglia, il raccolto, la casa, tutto... tranne la moglie. La moglie gliela lascia (qui io ci sento un'ironia fortissima, ma forse sovrainterpreto).
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"Allora il Signore rispose a Giobbe dal seno della tempesta..." (A Serious Man) |
Giobbe reagisce come un vero santo: quel che il Signore mi ha dato, il Signore me lo può togliere, sia benedetto il Signore. Nell'alto dei cieli Dio gongola: visto che avevo ragione io? Non è male questa umanità, dopotutto. Satana non fa una piega, anzi rilancia: in realtà, dice, non lo abbiamo ancora toccato. Sì, gli abbiamo tolto tutto, ma gli abbiamo lasciata salva la pelle, l'unica cosa che agli umani interessi realmente. Dammi il permesso di rovinargli la salute, e vedrai se non ti maledice. Dio accetta, e Satana si affetta a coprire il sant'uomo di piaghe dalla testa alla punta dei piedi. Da uomo ricco e potente, Giobbe si ritrova nudo nella polvere a grattarsi le pustole con un coccio di terracotta, e in più la moglie che gli dice: Ma che aspetti a morire bestemmiando? Taci cretina, dice più o meno Giobbe; e non bestemmia.
Questo è l'antefatto in prosa, e sta in due paginette. Secondo alcuni è il nucleo iniziale della storia, a cui si ispirò il poeta (o i poeti) del poema successivo. Secondo altri è un'aggiunta posteriore, il che cambierebbe tutto, perché, per esempio, Satana nel resto del libro non compare più, e della scommessa nessuno fa più menzione. Se togli il prologo, il libro inizia con questo Giobbe, uomo giusto che non ha fatto nulla di male, che giace nella polvere cosparso dalle piaghe, domandandosi il perché. Il perché lo sa il lettore - c'è una scommessa in ballo - ma forse la scommessa è un'aggiunta posteriore, il tentativo abbastanza romanzesco di un copista di razionalizzare lo scandalo di un libro che comincia con un uomo che non maledice Dio, no, ma maledice il giorno in cui è nato. Oggi possiamo leggere Giobbe come il libro in cui Dio scommette sull'uomo, ma forse c'è stato un periodo in cui Giobbe era semplicemente il libro che si chiedeva: perché esiste il male? Perché comportarsi bene, visto che Dio non ti premia, anzi? Un problema molto attuale, come si vede.
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Tante coccole |
Si sa come lo risolsero i cristiani: inventarono la vita eterna, come ricompensa per tutta le sofferenze che ci capita di espiare nel mondo. In un certo senso Dio scommette davvero su di noi (e Satana tiene banco): ci manda delle prove, e noi dobbiamo tener duro. Per la verità ai tempi di Gesù l'idea circolava già da qualche secolo, la difendevano per esempio anche i farisei. Pare che non ci credessero invece i sadducei, la fazione legata alla casta sacerdotale, più tradizionalista (e infatti in Luca 20 cercano di prendere in castagna Gesù domandando cosa succede nel Regno dei Cieli alle vedove risposate: la risposta del messia, devo dire, non è troppo convincente). Ma nei libri più antichi dell'Antico Testamento, di vita eterna non si parla se non per vaghissimi accenti. Lo stesso Giobbe sembra dare per scontato che la vita sia una sola, al punto che si ritrova a invidiare una pianta, che "se viene tagliata ributta, e continua a gettare polloni... L'uomo, invece, quando muore, giace inerte: quando un essere umano spira, non esiste più". Ma se non c'è una ricompensa in un altro mondo, ed evidentemente non ce n'è una neanche in questo, che senso ha comportarsi bene? Il dibattito era acceso. Il grosso del libro di Giobbe è esattamente questo: un dibattito. Inconcludente, come è giusto che sia. I capolavori, fateci caso, sono tutti inconcludenti: i grandi scrittori non hanno nessuna pretesa di ficcarti in testa le loro idee, mica sono dei distributori automatici di idee. Al massimo costruiscono un congegno, te lo fanno provare, e tu magari con quel congegno alla verità ci arrivi da solo.
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(William Blake) Silenzio, non si sente la Saggezza. |
Il nucleo centrale del libro ha un ritmo molto meno concitato: niente più angeli o demoni o scommesse divine, ma una lunghissima contesa dialettica tra Giobbe e tre saggi, Elifaz, Bildad e Zofar, che uno si aspetta all'inizio siano venuti a consolarlo, e invece no: vengono a fargli la morale, perché Giobbe, ehi, se ti è andato tutto così male, un motivo sotto sotto ci sarà. Ognuno di loro pronuncia tre discorsi, per un totale di nove (alcuni forse andati persi), magnificando Dio e la sua onnisciente giustizia, e Giobbe replica ogni volta, mandandoli a quel paese mentre si gratta le pustole. Il libro di Giobbe è anche l'antenato dei flame su internet: i saggi blandiscono, insultano, rigirano frittate, continuano a ribadire gli stessi argomenti fino alla noia, e tutto il repertorio che potreste immaginarvi se a una certa ora della notte su facebook un vostro amico scrivesse: "aiutoooooo o xso la kasa la famiglia la salute ma xkEEEEEEEEEE'? DOVE' DIO ALL'ORA????"
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Entità onnipotenti che fanno una scommessa sulla natura dell'uomo, mi ricordano qualcosa. |
Secondo alcuni i tre saggi rappresenterebbero tre diverse scuole di pensiero dell'epoca, ma per un orecchio moderno la differenza è impercettibile, sembra che ripetano tutti la stessa cosa: soffri? Devi aver offeso Dio in qualche modo. Magari non te ne sei accorto. Magari stavi per farlo e Dio ti ha fermato in tempo. Magari sono stati i tuoi figli, ecco perché Dio li ha fatti fuori. Magari sono stati i tuoi antenati, sì, c'è chi pensa che Dio punisca i figli per le colpe degli antenati, anche se al riguardo i profeti non sono d'accordo. Tu comunque sei fortunato, poteva andarti peggio, raccomandati a Dio e vedrai che tutto si sistema. Giobbe è famoso per la pazienza, ma questi tre lo fanno uscire di testa. "Perché non tacete?", dice a un certo punto, "quella sì che vi sarebbe contata come sapienza". Rendetevi conto. Giobbe fa parte di una famiglia di libri dell'Antico Testamento definiti "sapienziali", che contengono tutti i suggerimenti per vivere una vita pia e benedetta dal Signore. Il prototipo dei libri sapienziali è il noiosissimo Libro dei Proverbi, una sequela di saggi consigli del tipo, non dire il falso, guardati dalle donne malvagie... che forse tremila anni fa non suonavano così banali, ma a differenza di Giobbe sono invecchiati malissimo. I Proverbi avevano avuto svariati tentativi di imitazione nei secoli successivi, ma Giobbe è un'altra categoria: è un libro antisapienziale, un testo che ospita le tirate sapienziali dei tre dotti personaggi solo per il gusto di replicare a tutti e tre: non avete capito niente, la vita non va come vorreste voi, l'unica cosa veramente saggia nei vostri sproloqui è il silenzio tra una parola e l'altra.
Comunque vanno avanti per trenta capitoli, con Giobbe che ribadisce la sua innocenza. A un certo punto c'è una specie di intervallo, un elogio della sapienza un po' spiazzante, forse inserito in un secondo momento. Poi, mentre Giobbe continua a professarsi innocente, ecco che appare dal nulla un quarto sapiente, di cui nessuno fin lì aveva parlato. È un giovane, si chiama Elihu, e sostiene di esserci stato sin dall'inizio, ma di non aver parlato fino a quel momento per rispetto nei confronti della maggiore età dei tre insopportabili. Ma dopo aver visto che né Elifaz, né Bildad, né Zofar, sono in grado di smontare la sicumera del pustoloso Giobbe, Elihu prende la parola e se la tiene per altri cinque capitoli che, ve lo dico, non sono il migliore argomento in favore del ricambio generazionale: Elihu è ottuso quanto gli altri tre, ma in più ha pure l'arroganza del maestrino con tanta teoria in testa e poco rispetto per la pratica. Giobbe non capisce, Dio è misericordioso, chiunque glielo può dire, lo sanno tutti, eccetera eccetera. Giobbe tace. Immagino che continui a grattarsi, ma non c'è modo di saperlo, il libro non contiene repliche a Elihu. In effetti nessuno risponde a Elihu in tutto il testo: nemmeno Dio che nel finale rimprovererà gli altri tre, ma di Elihu non dirà niente. Il sospetto, insomma, è che l'intervento del quarto saggio sia un'aggiunta posteriore, di un giovane scriba che ricopiando il testo deve aver pensato: questi tre vecchi sbabbioni avrebbero anche ragione, ma non riescono a difenderla! Ci penso io. Benedetta gioventù.
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William Blake - Giobbe, l'ippopotamo e il coccodrillo |
Quando Elihu cessa di parlare - nell'indifferenza totale - la parola passa a... Dio. Sul serio. Di punto in bianco, senza complimenti, il Signore esce dalla tempesta e parla a Giobbe. A questo punto uno si aspetta una specie di premiazione per aver fatto vincere una scommessa contro Satana: sbagliato, di scommessa non si parla più, forse Dio un po' si vergogna, ma più probabilmente la scommessa non c'è mai stata, è un'aggiunta posteriore, un pretesto. Va bene, pensa allora il lettore, comunque visto che siamo nella Bibbia, e che qui parla Dio direttamente, forse finalmente avremo una risposta alla Unica Domanda Che Valga Veramente La Pena: perché l'uomo giusto soffre? Col cavolo. Dio non perde tempo a rispondere. È passato soltanto a ribadire la sua incommensurabile superiorità: cos'è che chiedi, Giobbe, cosa pretendi di voler capire? Vuoi interrogarmi, sei forse il mio maestro? Vai, cingiti i fianchi, fammi le domande, dai. Tu senz'altro conosci le misure della terra, sai come si fanno girare le stelle durante la notte, e dov'è il deposito estivo della neve... Giobbe capisce che l'ha fatta grossa e chiede scusa, ma ormai Dio è un fiume in piena: Giobbe, ma tu hai un'idea di quante cose ci sono in cielo e in terra, tutte fatte da me? Sei tu che cacci la preda per la leonessa, che sazi i leoncini? Hai mai visto, che so, il coccodrillo? Hai mai visto l'ippopotamo? All'inizio per la verità si traduceva col misterioso termine "Behemoth", ma nelle versioni più recenti Behemoth è sempre più chiamato semplicemente "ippopotamo". Ecco, questo è il punto in cui secondo me poteva anche finire il libro di Giobbe. Ogni volta che ci chiediamo perché esiste il male, perché Dio lo consente, sapete come vi risponde Dio nella Bibbia? Con un'altra domanda: hai mai visto l'ippopotamo?
Giobbe viveva nel Negev, è ovvio che non ne ha mai visto uno. E allora cosa vuole, cosa pretende? Uno che non ha mai visto un ippopotamo, né un tranvai o un'equazione di Maxwell, pensa di poter interrogare Dio sul segreto della Creazione? L'universo è complesso ed evidentemente non gira intorno all'uomo: perché poi chi l'ha detto che l'universo sia fatto su misura per l'uomo, che l'uomo sia il figlio prediletto di Dio? Ah, la Genesi? Il Dio di Giobbe sembra vederla in un modo diverso. Invita a considerare gli ippopotami. Sono effettivamente bestie meravigliose. Quando sono sott'acqua sono morbide e aggraziate: quando ne escono sono terribili, leoni ed elefanti si guardano bene dal disturbarli. I cuccioli sono adorabili, gli anziani sono maestosi; vivono nella Rift Valley più o meno da quando nella stessa zona una sottospecie di scimmie è scesa dagli alberi, e se non si sono molto evoluti nel frattempo, forse è perché erano già perfetti così. E anche Dio, perché dovrebbe creare a sua immagine e somiglianza questi scimpanzè mal addestrati? Se uno ci pensa, la terra sembra più fatta per gli ippopotami che per gli uomini. Magari è l'ippopotamo che Dio ha creato a sua immagine e sua somiglianza, forse insomma Dio somiglia un po' più all'ippopotamo che all'uomo, e per farti un'idea di Dio un documentario sugli ippopotami in Kenya è più utile di tutta quanta la Bibbia. Forse Dio ha creato la terra per gli ippopotami, affinché l'ippopotamo ne godesse ogni giorno della sua santa vita. E l'uomo?
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Esatto, sono l'essere perfetto, il fine ultimo della creazione. Altre domande? |
Magari è solo un effetto collaterale. Una sottospecie di scimpanzé con una straordinaria manualità. Dio potrebbe averlo creato affinché producesse splendidi documentari sugli ippopotami: ma bisognava prima inventare il cinema, fare la rivoluzione industriale, le manifatture, l'artigianato, la fusione del ferro e prima del bronzo, e l'agricoltura: nella mezzaluna fertile servivano buoni agricoltori come Giobbe, disposti a sopportare i rovesci della fortuna, affinché millenni dopo Dio potesse guardarsi un documentario sugli ippopotami ben montato e illuminato. Però questa cosa a un contadino come Giobbe non gliela puoi spiegare, è un possidente dell'età del bronzo, i suoi bisnonni avevano ancora parenti sugli alberi. Come spiegare a una formica perché stiamo dando il veleno sul battiscopa del terrazzo, senti, niente di personale, ma tu sei meno di nulla per me, non vali neanche la pena di schiacciarti con un dito. Giobbe questa cosa la capisce, e china la testa. Anche se sul significato del suo ultimo versetto (42,6) non c'è consenso tra i critici: forse si cosparge di polvere in segno di umiltà, sta chiedendo scusa, forse sta rinnegando JHWH. Ognuno traduce a modo suo.
Ma il Libro non finisce qui. C'è un'aggiunta in prosa, in cui Dio riabilita totalmente Giobbe, sbugiardando i tre insopportabili barbogi, e raddoppiando le sue ricchezze: nuove terre, nuovi figli e figlie (bellissime), nuova fiducia in un mondo migliore. L'ex pustoloso campa 140 anni e conosce i suoi bis-nipotini. Dovrebbe essere un finalino rassicurante, ma per il lettore moderno l'effetto è strano, sembra tutto un capriccio di Dio, un mettersi a giocherellare con una formica sul terrazzo. Perché Dio si comporta così? Forse perché Giobbe, nella sua totale e riconosciuta inadeguatezza, è comunque riuscito a sostenere una conversazione con Dio? Più probabilmente perché il Giobbe degli ultimi versetti non è più il Giobbe inquietante di 42,6. È invece lo stesso Giobbe del prologo, quello che ha fatto vincere a Dio una scommessa un po' puerile, rivoltandosi nella polvere per giorni e giorni senza mai bestemmiare Dio. Così alla fine prologo e finale si rivelano per quel che sono: una cornice rassicurante, che pretende di spiegare quello che Dio si guarda bene da dettagliare agli umani: il giusto soffre perché Satana lo tenta, ma basta tener duro. Il vero Giobbe, il Giobbe del poema centrale, su una cornicetta così ci avrebbe sputato. Ma probabilmente senza la cornicetta rassicurante Giobbe nella Bibbia non ci sarebbe mai arrivato, tantomeno nel calendario cattolico, e io non vi avrei mai raccontato la sua storia, che contiene la risposta di Dio all'Unica Vera Domanda Che Valga La Pena (perché il giusto soffre?) E la risposta è (ricordatevene quando vi capiterà di subire qualche malanno palesemente ingiusto): Hai mai visto l'Ippopotamo?
Il poeta preferito di Gesù
09-05-2021, 11:36apocalittici e integrati, Bibbia, Cristo, ebraismo, santiPermalink9 maggio – Isaia, profeta e poeta
Sappiamo che Gesù sapeva leggere (Luca 4,16). Conosciamo anche il suo scrittore preferito. Basta ascoltare quel che dice, basta ragionare su quel che fa: Gesù è un lettore di Isaia. Lo conosceva bene, lo citava spesso, a volte forse gli usciva di bocca senza neanche che se ne accorgesse. Si vede che lo aveva letto molto. Un lettore laico e spassionato potrebbe aggiungere: lo aveva letto troppo. Isaia potrebbe avergli fatto l'effetto che Chateaubriand e Balzac facevano a Emma Bovary; potrebbe averlo ridotto nel modo in cui i poemi cavallereschi ridussero Don Chisciotte. I Profeti avevano descritto il mondo, ma ora si trattava di cambiarlo: dopo aver letto Isaia, meditato Isaia, sognato Isaia, il carpentiere di Nazareth a un certo punto decise di vivere Isaia. Questo significava anche vivere poco, cosa di cui forse non si rese conto che in seguito.
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Don Chisciotte e Sancio Panza (Honoré Daumier). |
Del resto di che autore ci si poteva appassionare, nella Galilea del primo secolo? Parlando di poesia, la Bibbia non è che ne trabocchi. Qualche salmo ispirato (i migliori assomigliano proprio allo stile di Isaia), qualche proverbio azzeccato, un paio di libri che ancora oggi ci sorprendono (Qohelet, Giobbe), e il resto è prosa. La poesia del resto non era lo scopo iniziale dei redattori e dei compilatori. In principio c'era soprattutto da fare storytelling, world building, mettere insieme un po' di leggende e raccontarle in modo non troppo romanzesco e non troppo infantile, tagliando le contraddizioni, gli errori di continuity. Poi – siccome si parla di un contratto tra Dio e il suo popolo – c'è tutto il capitolato, le leggi e le norme e persino le risultanze di un censimento. Sono le pagine meno eccitanti, ma danno un tocco di realismo. Ai primi cinque libri, attribuiti a Mosè e chiamati Torah, "insegnamento", seguono i Neviìm, i Profeti, una raccolta che all'inizio sembra voler proseguire il racconto storico. Documentano l'invasione della Terra Promessa (Libro di Giosuè), il successivo periodo anarco-tribale (Libro dei Giudici), la nascita di una monarchia unitaria (Libro di Samuele), il momento di massima gloria con l'erezione del tempio di Salomone, la secessione tra regni di Israele e Giuda, la decadenza e le ripetute sconfitte belliche, fino alla deportazione degli ebrei in Babilonia (Libro dei Re), il vero momento cruciale di tutta la Bibbia: l'esodo al contrario.
Qui si interrompe la storia del passato e comincia quella del futuro. La seconda parte infatti ospita i libri più propriamente profetici: Isaia, Geremia, Ezechiele, i Minori. E anche se questi profeti testimoniano da punti di vista diversi la stessa storia contenuta nella prima parte, la descrivono come se dovesse ancora accadere e i migliori ci restituiscono proprio questa sensazione: che tutto debba ancora accadere. Gli ebrei non sono ancora in Babilonia, i cantori del Tempio devono ancora appendere le cetre alle fronde dei salici. Persino gli Assiri devono ancora devastare il Paese da nord. Tutto è già scritto, eppure tutto deve ancora succedere e attenzione: potrebbe ancora non succedere. Dipende dal Popolo Eletto, nel quale il lettore tende a identificarsi, non fosse altro perché come accade nei romanzi di formazione egli è il prediletto di Qualcuno ma ha un'inveterata tendenza a non seguirlo e cacciarsi nei guai. Se solo smettesse di sacrificare a idoli falsi, se solo riconoscesse il Signore come unico Dio, se solo cominciasse a onorarlo come si onora un buon padre, e rispettasse i suoi insegnamenti... e mentre leggiamo sappiamo che non succederà; non quella volta almeno; ma capiamo anche che stavolta tocca a noi.
Come notava un lettore attento come Girolamo, lo stile di Isaia è così lucido che il suo futuro sembra già un passato. Come ha suggerito qualche critico in seguito, questo potrebbe dipendere banalmente dal fatto che le profezie di Isaia sono profezie post eventum, ovvero scritte (o rieditate) dopo i disastri che illustrano. Questo è probabilmente vero per tante pagine in cui si dà conto delle scorrerie degli Assiri e poi della dominazione Babilonese, e persino del successivo periodo Persiano (c'è persino un cantico in onore di Ciro scià di Persia, liberatore di Israele). Sappiamo che Isaia, chiunque fosse, viveva in un piccolo regno destinato a cadere come un caso di coccio tra i vasi di ferro del tempo, gli imperi che in una fase di crisi tendevano a estendere il loro controllo sulle zone periferiche. Così succedeva ciclicamente da secoli: poco a est di Gerusalemme si potevano vedere le rovine di misteriose città già millenarie come Gerico; fantasticare sul Dio terribile che doveva averle distrutte e sui peccati immondi che gli antichi cittadini dovevano avere commesso per meritare tanta vendetta. La raccolta di Isaia comincia con uno dei brani più scioccanti, dando voce a un Dio letteralmente stomacato dal fumo di sacrifici che non può apprezzare.
"Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. [...] Smettete di presentare offerte inutili, l'incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue!" (Isaia 1,11-15).
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L'Isaia di Michelangelo, con quei piedoni impressionanti (Cappella Sistina). |
Questo Dio deluso e arrabbiato, al lettore della Bibbia ormai è familiare. Eppure nessuno gli ha prestato la voce così bene come il profeta-poeta Isaia, al punto da avvalorare il sospetto che sia lui ad averlo immaginato per primo, nell'VIII secolo avanti Cristo, in un luogo e in un tempo in cui il più rigido monoteismo era ancora in fase di formulazione. Gli idoli di pietra legno e gesso (Isaia 44), sono ancora divinità stimate e adorate da gran parte della popolazione; l'idea di rigettarli come manufatti, distruggerli e imporre un unico Dio non rappresentabile è promossa dalla corte di Gerusalemme, presso la quale l'Isaia storico dovrebbe avere avuto un ruolo ufficiale. Se fosse nato nel 765, avrebbe potuto assistere direttamente o indirettamente alla catastrofe del 722: l'invasione assira che pose termine al Regno di Israele di Samaria e Galilea e alla deportazione delle Dieci Tribù Perdute. In seguito gli assiri si sarebbero spinti fino a Gerusalemme; ma proprio le preghiere di Isaia e del pio re Ezechia avrebbero sgominato l'esercito invasore, causando 185mila morti in una notte (38,36). Se questo dettaglio appare poco verosimile, in compenso gli archeologi hanno scoperto che negli anni seguenti all'invasione Assira la popolazione di Gerusalemme e dintorni crebbe drasticamente, probabilmente perché molti ebrei dei territori occupati a nord si erano riversati a sud. Le distruzioni che Isaia immagina, potrebbe averle viste davvero, o essersele fatte raccontare da qualche profugo. Non sono ancora immaginazioni apocalittiche e macchinose come nei profeti più tardi: sono papiri impestati di lacrime sincere, dolore autentico e autentica angoscia perché Isaia e i suoi seguaci hanno la sensazione che tutto possa succedere di nuovo, se Israele non capisce la lezione.
In quel giorno, sette donne afferreranno un uomo e diranno: "Noi mangeremo il nostro pane, ci vestiremo delle nostre vesti; facci solo portare il tuo nome! Togli via da noi il disonore!" (4,1).
Dopo il ritiro degli Assiri, Isaia fa ancora in tempo ad avvertire re Ezechia che Gerusalemme sarà preda dei Babilonesi (39,5); Ezechia però ormai è anziano e si addirittura si rallegra – tratto dissonante e verosimile – perché ci vorrà ancora qualche generazione e lui non ci sarà più (39,8).
Il profeta invece va avanti, anche se non è più l'Isaia storico (secondo una leggenda il successore di Ezechia, l'empio Manasse, lo avrebbe fatto segare in due nel tronco dove si era nascosto). Metà del suo libro in effetti è da attribuire a una "scuola di Isaia", un seguito di discepoli che condivide col maestro non solo il monoteismo rigoroso e l'angoscia per il futuro, ma anche lo stile. I discepoli riprendono anche il concetto messianico, l'idea che le sorti di Israele dipendano da un prescelto. Il maestro aveva previsto che nascesse da una vergine, lo aveva chiamato Emanuele ("Dio con noi"), (7,14) e lo aveva collegato alla dinastia reale di Giuda (il "tronco di Iesse", padre di David, 11,1). Nei papiri dei successori il Messia diventa una figura più drammatica, assume il titolo di "Servo del Signore" e assume i tratti di una vittima sacrificale. "Si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità" (53,4-5).
Le profezie del libro si estendono per tre secoli, fino al ritorno degli ebrei da Babilonia consentito dallo scià Ciro il Grande a partire dal 538 aC. E anche in seguito, perché mentre i libri storici fanno il loro tempo, un buon libro di poesia è per sempre: cinque secoli dopo ancora Gesù ci trovava qualcosa di fresco e interessante. Sarebbe mai uscito da Nazareth, avrebbe mai abbandonato la stabile attività di carpentiere, se a un certo punto non si fosse lasciato conquistare dall'idea di un Regno di rettitudine dove l'agnello riposerà col leone? Se in lui non avesse iniziato a serpeggiare il sospetto di essere lui il Servo del Signore, il prescelto che doveva essere schernito e flagellato prima di portare la giustizia sulla terra? Persino quella scelta discutibile di consegnarsi alle guardie del Sinedrio; di farsi processare davanti a un procuratore Romano senza dire una parola a sua difesa, assume un senso se si rilegge Isaia 53. Gesù potrebbe aver semplicemente amato così tanto le profezie di quel libro da decidere di realizzarle – a prezzo della sua vita, certo, i lettori veramente affezionati queste cose le fanno.
E se fosse davvero andata così, questo cosa ci insegnerebbe: che la Bibbia è un equivoco? Un profeta del settimo secolo scrive una serie di messaggi per mettere in guardia politici e credenti da una possibile invasione da nord e sulla necessità di stringersi intorno al monarca di una dinastia blasonata; però li scrive così bene che secoli dopo la gente continua a leggere i suoi versetti completamente decontestualizzati, continua ad aspettare un Messia anche se la stirpe di David si è estinta, e a sognare la caduta di Babilonia – Babilonia nel frattempo è effettivamente caduta, ma Isaia è così bravo a scriverne che speriamo tutti che si riferisca a qualche altra città tronfia e arrogante, speriamo tutti che ancora si realizzi, lo speriamo così tanto che ogni tanto succede, e ogni volta che succede è la prova che Isaia non sbagliava. Il suo libro è una profezia che si autoavvera.
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Gabriele "D'Annunzio" Rapagnetta |
I poeti hanno spesso ragione. Suona un po' retorico e molto crociano, ma se ci riflettete. Tutto quello che a distanza di secoli riconosciamo come poesia, è sempre qualcosa di talmente lucido che riusciamo a specchiarci. Noi in teoria non abbiamo più nulla in comune con Publio Virgilio Marone, ma agnosco veteris vestigia flammae sappiamo tutti cosa vuol dire, sappiamo tutti che è vero e lo è per tutti noi, e lo sarà ancora per qualche generazione. E se non piangi, di che pianger suoli? Di me medesmo meco mi vergogno. Ô vraiment marâtre Nature. The bustle in a house the morning after death. E l'infinita vanità del tutto. I poeti dicono la verità, tranne ovviamente D'Annunzio. No, in realtà la maggior parte dice sciocchezze (come D'Annunzio), e infatti smettiamo di leggerli, perché dopo un po' le pietre colorate ci stancano, mentre di quelle che ci specchiano non ci liberiamo mai. Per distinguere il diamante dal coccio di vetro, più che occhio e gusto ci vuole tempo, tantissimo tempo. È peggio che piantar datteri: tu verga pure i tuoi versicoli e spera che ogni tanto qualcuno li ristampi, ma già sai che ci vorranno secoli per capire se hai eretto davvero un monumentum aere perennium, o sottoscritto tonnellate di carta da macero.
Isaia ce l'ha fatta. Anche se non avete mai aperto una Bibbia in vita vostra: ugualmente qualche suo verso lo conoscete, e vivete in un mondo cambiato dai lettori di Isaia. Oppure avete visto Matrix, o qualsiasi altra saga che abbia per protagonista il Prescelto, ecco: quella è un'idea di Isaia. Potrebbe essere il poeta più antico che conoscete: se la gioca con Omero. Quest'ultimo è senz'altro un miglior narratore, un più attento osservatore, soprattutto quando c'è da descrivere fatti di sangue cui deve avere assistito direttamente. Isaia è meno trucido: la violenza non lo attira, preferirebbe che i nemici fossero annientati direttamente da Dio nel modo più astratto e pietoso possibile, senza spargimenti di sangue. Insomma non ha fatto il militare, Isaia; ma ci ha regalato in fondo a tanti papiri intrisi d'angoscia l'immagine di un mondo di pace e soprattutto l'ipotesi che quel mondo non sia un ricordo di un passato perduto – come per i Greci e poi per i Romani – ma qualcosa che può ancora avvenire: un seme che darà frutto, un regno di rettitudine.
"Certo, ancora un po' e il Libano si cambierà in un frutteto, e il frutteto sarà considerato una selva. Udranno in quel giorno i sordi le parole di un libro; liberati dall'oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno. Gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore, i più poveri gioiranno nel Santo di Israele. Perché il tiranno non sarà più, sparirà il beffardo, saranno eliminati quanti tramano iniquità, quanti con la parola rendono colpevoli gli altri, quanti alla porta tendono tranelli al giudice e rovinano il giusto per un nulla" (29,17-22).
È un'idea per cui vivere, anche se spesso si tratta di vivere tragicamente e poco. Ma è un'idea. Isaia l'ha immaginata, Gesù l'ha vissuta, i suoi seguaci hanno continuato a imitarlo per secoli, ed eccoci qui. Babilonia può cadere da un giorno all'altro, Dio lo ha già fatto più volte, può rifarlo. Dipende solo da noi. Il Signore ha già spezzato la verga degli iniqui, il bastone dei dominatori, di colui che percuoteva i popoli nel suo furore, con colpi senza fine, che dominava con furia le genti con una tirannia senza respiro. Riposa ora tranquilla tutta la terra: ed erompe in grida di gioia.
Geremia, e altre geremiadi
30-04-2021, 21:22apocalittici e integrati, Bibbia, ebraismo, santiPermalink1 maggio – Geremia, profeta (650-580 aC)
A Geremia capitò, nel quinto mese del quarto anno di Sedecia (ultimo re di Giuda), di essere contestato pubblicamente da un altro profeta, Anania figlio di Azzùr, da Gàbaon. Nel tempio di Gerusalemme, sotto gli occhi dei sacerdoti e del popolo, Anania annunciò che la dominazione babilonese aveva i giorni contati; nel giro di due anni i deportati a Babilonia sarebbero tornati a casa, gli arredi saccheggiati restituiti al Tempio. Ora Geremia da anni non faceva che spiegare il contrario: contro i Babilonesi di Nabucodonosor II ogni resistenza era inutile, e soprattutto contraria al volere dell'unico Dio. E siccome alle sue parole nessuno sembrava volersi rassegnare, Geremia aveva tentato con il linguaggio degli oggetti; si era fatto montare sul collo un giogo (Geremia 27,2), come una bestia di soma, e con quel giogo sul collo, emblema dell'egemonia babilonese, si recava nel Tempio a testimoniare la volontà del Signore. Finché non arriva questo Anania da Gabaon e non osa spezzargli il giogo davanti a tutti, gridando: "Dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Io romperò il giogo del re di Babilonia!" (28,2). E Geremia?
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Il Geremia di Michelangelo (Cappella Sistina). |
E Geremia non oppone resistenza, anzi, per un attimo sembra lasciarsi convincere. "Così sia! Così faccia il Signore! Voglia il Signore realizzare le cose che hai predette", risponde ad Anania (28,5). Credo sia l'unico caso un tutta la Bibbia in cui profeta afferma che preferirebbe aver torto, che si verificassero le profezie di qualcun altro. Geremia aggiunge però un'obiezione. Da sempre, spiega ad Anania, i profeti annunziano sventure: "guerra, fame e peste". Un profeta di cose buone è una relativa novità e quindi "sarà riconosciuto come profeta mandato veramente dal Signore soltanto quando la sua parola si realizzerà" (28,8): insomma circostanze eccezionali (la pace, la vittoria contro i nemici) richiedono prove eccezionali. Poi Geremia "se ne va per la sua strada" (28,11), magari in cuor suo sperando che il Signore queste prove le fornisca, che il Signore per una volta confermi il profeta di pace e sbugiardi lui e tutti i colleghi uccelli del malaugurio. Niente da fare: appena il Signore gli rivolge la parola è per rivolgere un messaggio ad Anania: "Tu hai rotto un giogo di legno ma io, al suo posto, ne farò uno di ferro" (28,13). Anania muore di lì a poco, e nel giro di qualche anno Nabucodonosor, innervosito dalle tresche di Sedecia con gli Egizi, rimanda le sue truppe a Gerusalemme, distrugge il Tempio, completa la deportazione. Geremia non sbagliava mai. Ma ecco, non ci provava gusto. È un dettaglio importante.
"Da grande penso che farò il profeta", Linus avverte Charlie Brown in una striscia del 1970. "Dirò verità profonde, ma nessuno mi ascolterà". "Se nessuno ti ascolterà, perché parlare?" "Noi profeti siamo molto ostinati" ("stubborn"). Tutt'altro che digiuno di Scritture, Linus ha un'immagine ben precisa di che tipo di profeta vuole essere. Non un'autorità sacerdotale come Samuele, né un supereroe come Elia. Non un detective sagace e integerrimo come Daniele, non un poeta ispirato come Isaia né allucinato come Ezechiele. Per Linus essere profeti significa soprattutto essere "ostinati": significa essere Geremia. È lui il profeta tipo. Gli altri sono troppo lirici, o visionari, o protagonisti di storie epiche o edificanti. Geremia non è un personaggio, è un uomo. Dio lo ha scelto per recare notizie perlopiù cattive, senza riguardo per la salute del messaggero. Malgrado sia predestinato dalla nascita ("Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo... ti ho stabilito profeta delle nazioni", 1,5), Geremia sin dall'inizio si schermisce ("Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane", 1,6). Ma non c'è niente da fare. "Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno; ognuno si fa beffe di me" (20,7). Per forza: ogni volta che parla, deve proclamare: "Violenza! Oppressione!", ed è il primo a stancarsene. Dio gli invia profezie non solo per Giuda, ma per tutte le nazioni grandi e piccole: e sono tutti oracoli di sventura, tutti messaggi pericolosi. Non può nemmeno sposarsi. "Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno" (20,8).
Geremia ha una verità dura da consegnare: il popolo di Giuda sarà punito per i suoi peccati. Esso ha abbandonato l'unico Dio, rivolgendosi a idoli osceni come Baal, che talvolta pretendono ancora sacrifici umani (19,5). Il Signore non li ha mai richiesti, anzi ne è orripilato. Se il popolo non ascolta Geremia, l'invasione da nord sarà inevitabile. "Ecco, io porrò per questo popolo pietre di inciampo, in esse inciamperanno insieme padri e figli; vicini e amici periranno" (6,21). È chiaro che con un messaggio simile Geremia rischiava di passare per un agitatore al soldo dell'invasore ("Tu passi ai Caldei!", 37,13). Il suo libro non si dà molta pena di confutare questa impressione: più volte arrestato e fustigato dai funzionari del re di Giuda, gettato in una cisterna dove rischia di morire di sete e fame (38,6), Geremia viene liberato proprio dai Babilonesi ed è lo stesso Nabucodonosor a fornirgli una scorta armata (39,12). Mentre re Sedecia viene imprigionato a Babilonia (l'ultima cosa che vede, prima di essere accecato, sono i suoi figli sgozzati dal boia), a Geremia è risparmiata anche la deportazione in Mesopotamia, dove fu condotta gran parte della classe dirigente del regno di Giuda. Geremia scrisse loro di non preoccuparsi, di far figli e accettare la nuova situazione, comunque transitoria: anche Babilonia sarebbe caduta, nel giro di settant'anni. Non sbagliava nemmeno su questo, ma è forte il sospetto che questa e altre profezie siano ritoccate a posteriori dagli scribi. Il suo libro, uno dei più disordinati della Bibbia, mescola gli oracoli a episodi di vita vissuta, con enormi lacune e vistose ripetizioni. Proprio questo disordine ci dà la sensazione che quella di Geremia sia storia, ambigua e incompleta com'è sempre la storia, e non una favola a lieto fine. Elia è probabilmente un mito, Isaia il nom de plume di più poeti, Giona un racconto edificante: ma Geremia dev'essere esistito davvero. La cisterna in cui viene gettato sembra molto più vera di quella già traslata in fiaba in cui i figli di Giacobbe gettano il fratello Giuseppe; o l'immaginosa fossa dei leoni, in cui un imperatore di fiaba getta il profeta Daniele. Geremia potrebbe essere il modello umano di tanti eroi biblici, compreso Mosè che come lui è scelto da Dio anche all'inizio se non sa parlare. Anche Giobbe, che brontola il suo destino in una discarica di fango e cenere, gli somiglia un poco; così come il profeta Osea a cui Dio dà però il permesso di sposarsi (purché con una prostituta). Giona invece è già una parodia.
Geremia era il mio profeta preferito, da ragazzino – affermazione patetica, mi rendo conto, ma a qualcuno potrebbe essere utile sapere che i bambini pensosi che cercano ruoli modello nell'Antico Testamento non sono soltanto una fantasia di Charles M. Schulz; che per esempio io a dodici anni mi misi a leggere la Bibbia, così, perché Harry Potter non era ancora stato pubblicato, per provare a me stesso che ne ero capace, e perché a dire le solite preghiere mi annoiavo. La lessi tutta un paio di volte e mi annoiai comunque molto – specie coi Numeri e i Profeti, che con i loro annunci di sventure sono parecchio ripetitivi. Perfino il sublime Isaia, letto a dodici anni nel dopopranzo in attesa di DJ Television, non rendeva quanto avrebbe dovuto. Ma in generale lo potrei dire per quasi tutti i libri migliori che ho letto: li ho letti troppo presto, troppo in fretta, senza capirci troppo; però almeno li ho letti. Geremia era il mio preferito perché mi sembrava davvero solo contro tutti, con una verità catastrofica ma necessaria, da somministrare a un popolo ottuso. È imbarazzante, ma in lui mi riconoscevo. Bastava accendere la tv – e l'accendevo subito dopo – per trovarmi davanti a un'umanità garrula che rideva, ballava inconsapevole su una polveriera di euromissili. Poveri stolti, mi dicevo, e avrei voluto come Geremia recarmi da tutti i potenti della Terra con un calice di amare rivelazioni, da ingollare fino alla feccia (4,28). "Dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Bevete e inebriatevi, vomitate e cadete senza rialzarvi davanti alla spada che io mando in mezzo a voi. Se poi rifiuteranno di prendere dalla tua mano il calice da bere, tu dirai loro: Dice il Signore degli eserciti: Certamente berrete!"
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Poi posavo il Libro, accendevo la tv e c'era lui, il sacerdote del Serpente. |
Quel che più mi faceva infuriare è che anch'io, anch'io avrei dovuto pagare le conseguenze dello sconsiderato ottimismo della generazione che mi precedeva: "i padri mangiarono l'uva acerba e i denti dei figli rimasero allegati", avrebbe detto Geremia (31,29). È il concetto di colpa collettiva, che il profeta mette nero su bianco sui suoi papiri; la causa delle disgrazie dei contemporanei è sempre l'empietà dei genitori. Dio non tratta con gli individui, ma coi popoli: la condanna è collettiva e cosi è il perdono, che può subentrare soltanto se tutta la collettività muta il suo comportamento. Nessuno si salva da solo, nemmeno il prescelto Geremia, che solo una volta si permette di obiettare a questo atteggiamento divino ("Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te; ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia") ed è un passo importante (12,1), il primo dell'Antico Testamento in cui si pone la domanda fondamentale: "Perché le cose degli empi prosperano? Perché tutti i traditori sono tranquilli?" Tutto il libro di Giobbe non sarà che una variazione sulla domanda complementare: perché invece i giusti soffrono? Tutto il Vangelo, volendo, non è che un tentativo di risposta. Oggi il concetto di colpa collettiva è respinto dal diritto, eppure il debito che ci schiaccia è sempre quello che accumularono i nostri genitori; l'inquinamento che ci surriscalda è la conseguenza di due secoli di scelte sventate che prima o poi ci presenteranno il conto. Di Geremia ce n'è ancora tanti in giro, tutti con qualche seguace e molti più detrattori. Anch'io devo dire li tollero sempre più a fatica: vuoi perché su questa polveriera nel frattempo ci sono invecchiato, scavandomi per quel che potevo un cantuccio confortevole; vuoi perché in loro riconosco alcuni tratti discutibili di me stesso, e non posso che diffidarne: vuoi perché per la maggior parte sono davvero cialtroni che scambiano qualsiasi congiuntura politica o economica per un segno della fine dei tempi: e nella foga di ammonirci con le loro geremiadi finiscono davvero per prestarsi alla propaganda straniera, scambiando il primo Putin che trovano per un novello Nabucodonosor.
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Lei invece mi sta simpatica. |
Lo stesso Geremia non mi fa più tutta questa impressione. Ormai riconosco il personaggio, il predicatore professionista con un'agenda politica. Che possa davvero aver lanciato anatemi a tutte le nazioni senza protettori importanti, mi sembra sempre meno probabile; nel frattempo ho acquisito qualche nozione sul contesto, tutte quelle congetture che inevitabilmente erodono i monumenti dei profeti e degli eroi. Geremia compare sulla scena in uno dei momenti più ambigui e cruciali della storia di Israele: il regno di Giosia, nella seconda metà del VII secolo. È un periodo di crescita demografica per Giuda, il piccolo Stato intorno a Gerusalemme, un fenomeno che le cronache bibliche non registrano ma che gli archeologi collegano alla fine del più settentrionale regno di Israele, invaso dagli Assiri nel 720. Gli Assiri secondo la Bibbia avrebbero deportato altrove gran parte della popolazione ebraica: le famose Dieci Tribù Disperse. L'ipotesi degli storici è che invece molti profughi si siano trasferiti a sud, nel piccolo regno di Giuda, creando una tensione sociale che la Bibbia descrive come un'interminabile guerra di religione. Si contrappone una popolazione idolatra – che accanto a JHWH riconosce altri Dei tra cui una "regina del cielo" che forse è sua moglie – e una fazione monoteista di origine settentrionale che predica un monoteismo integrale, riconosce soltanto JHWH e liquida ogni altra divinità come superstizione, e durante l'infanzia del re Giosia (intronato a otto anni) prende il potere, forse con un colpo di Stato. Gli idoli vengono distrutti, i sacerdoti non ortodossi eliminati: durante i lavori per il restauro del Tempio, viene scoperto un misterioso Libro (il Deuteronomio?) che chiarisce i termini di una dimenticata alleanza del popolo ebraico con l'Unico Dio. Giosia dedica il suo regno alla riforma religiosa, ma il suo è pur sempre un piccolo regno tra le potenze del Medio Oriente. Quando muore in battaglia, durante un'incursione egiziana, il potere passa al figlio Ioacaz, che (probabilmente su pressione degli invasori) pone termine alle persecuzioni religiose: il popolo è di nuovo libero di adorare gli idoli degli invasori e magari di mescolarsi con loro.
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Nabucodonosor II, che in tutti i quadri ostenta una lunga barba e in questa incisione no. |
Geremia proviene evidentemente dalla classe dirigente che ha creduto nel progetto teocratico di Giosia e ora deve farsi una ragione del suo fallimento. In questo gli intellettuali sono straordinariamente creativi, anche se alla fine tendono a raggiungere la stessa conclusione: la colpa non è mai del leader che si erano scelti, quanto del popolo che in lui non ha creduto abbastanza. Nel frattempo l'impero Assiro ha conosciuto una rapidissima decadenza e ora le due potenze egemoni sono l'Egitto e la (Neo)Babilonia di Nabucodonosor. Il regno di Giuda si trova proprio in mezzo ai due, in un passaggio obbligato strategicamente necessario per entrambi. Negli anni della predicazione di Geremia Giuda è già vassallo di Babilonia, ma la tentazione di ribellarsi e passare dalla parte degli Egizi è molto forte. C'è chi parla di trasferirsi direttamente in Egitto, e creare là un nuovo focolaio per la comunità ebraica. Geremia è assolutamente contrario, o meglio lo è il Signore che parla attraverso la sua bocca: chi si recherà in Egitto verrà spazzato via e assimilato (42,15-18), chi si ribellerà verrà massacrato. Solo chi si arrende a Babilonia potrà sperare di sopravvivere al disastro. Le accuse di essere al soldo dell'oppressore babilonese colpivano il segno: forse anche per smentirle il profeta acclude nel suo Libro l'atto di acquisto di un terreno (4,6-15), un investimento voluto ovviamente da Dio per dimostrare che ci sarà un futuro per gli ebrei in Israele, ma anche un modo per dimostrare che non intendeva rifugiarsi a Babilonia. Alla fine Geremia continua a essermi simpatico: era un uomo del suo tempo che vedeva inevitabile una rovina e si sforzava di renderla il meno disastrosa possibile. Resistere ai Babilonesi avrebbe solo complicato le cose; gli Egizi non davano nessun affidamento: meglio arrendersi, accettare la deportazione, cercare nel disastro un'opportunità. Invece di chiamare i contemporanei all'ennesima rivolta fallimentare, Geremia si guarda intorno, trova la soluzione meno peggiore e l'addita a chi ha la pazienza di dargli retta. Agli Ebrei che si arrendono, il profeta deve garantire che la resa è onorevole, e che la deportazione non è la fine della storia di Israele, anzi un nuovo inizio. E in effetti fu così, anche qui Geremia non si sbagliava. Senza più Tempio, senza più re, coi libri sacri ancora in fase di elaborazione, Geremia deve trovare una nuova dimensione per un popolo che non sa come esprimere la sua identità, e contribuisce a inventare qualcosa che stiamo usando ancora adesso: l'interiorità, il "cuore". "Non si vanti il saggio della sua saggezza e non si vanti il forte della sua forza, non si vanti il ricco delle sue ricchezze. Ma chi vuol gloriarsi si vanti di questo, di avere senno e di conoscere me" (9,22-23). I nuovi Israeliti non si riconosceranno dai sacrifici e dalle pratiche esteriori, ma da come meditano e riconoscono la volontà del Signore. Alla circoncisione fisica, Geremia sovrappone o contrappone una circoncisione del cuore (9,24).
Geremia lo lessi troppo presto, come la Bibbia e tutti i libri che vorrei ricordare meglio oggi. Sapete come funziona a quell'età: mi sembrava di vivere in mezzo a una folla di gente che non vedeva il disastro a cui andava incontro. Avrei voluto metterli in guardia e al contrario di Geremia ero anche convinto di avere le parole giuste: così mi misi a scrivere, ma poi rileggendo dopo un po' mi accorgevo di risultare pretenzioso e antipatico e buttavo via, e ricominciavo con un altro stile e poi buttavo via di nuovo e a furia di buttare via sono arrivato fin qui, sulla rubrica dei Santi del Post. Non mi ricordo neanche bene qual era il disastro che trovavo imminente – forse la guerra termonucleare, o il buco dell'ozono. Comunque sono qui. Di parlare di Violenza e Oppressione mi sono stancato da un pezzo, e se qualcuno ogni tanto si prendesse la briga di affrontarmi in pubblico e spezzarmi questo giogo che porto sulle spalle, io gli sarei molto grato: e volentieri me ne andrei per la mia strada.
Un consiglio a chi odia lo schwa
21-04-2021, 01:24contro la lingua italiana, santiPermalink22 aprile – Santə Alessandra, Apollo, Isacco e Cordato, martirə in Nicomedia nel 303.
Alessandra è una leggendaria moglie di Diocleziano, che avrebbe tentato di difendere i cristiani presso l'imperatore persecutore per eccellenza; quest'ultimo, dopo averla torturata un po' con le sue mani l'avrebbe fatta decapitare. Non sono poi tanti i casi in cui il torturatore-persecutore della martire è il marito (che in una versione alternativa non è il solito Diocleziano, ma il re persiano Damazio). Alessandra non solo ha le carte in regola per essere considerata patrona delle vittime dei mariti violenti, ma si trova anche tradizionalmente inserita in un gruppo di martiri dell'altro sesso (Apollo, Isacco e Cordato dovrebbero essere dei funzionari o dei servi che avevano cercato di difenderla). I martirologi a questo punto dovrebbero recare la dicitura "Santi Alessandra, Apollo, Isacco e Cordato", con il maschile plurale che è il genere tradizionalmente adottato nel caso un insieme contenga elementi di entrambi i generi grammaticali (è il cosiddetto "maschile sovraesteso"). Io qui invece ho usato lo schwa, perché volevo vedere che effetto faceva.
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Diocleziano |
Lo schwa (che in italiano si può anche scrivere scevà) è "una vocale centrale media, che nell'alfabeto fonetico internazionale viene indicata con il simbolo ə". Da qualche mese sta circolando in alcuni ambienti on e off line la proposta di utilizzarlo in tutti i casi in cui l'italiano preveda il maschile sovraesteso. La prassi vuole che in questi casi si usi il genere maschile (che in fondo non esiste, è un "non femminile"); ma appunto, la prassi si può sempre cambiare. All'esigenza di stabilire una parità tra i due generi grammaticali si sovrappone (e in certi casi si confonde) la messa in discussione del binarismo di genere, che nei Paesi anglofoni ha ispirato la proposta di pronomi personali "gender neutral", come "they" al singolare, per indicare qualcuno che potrebbe essere sia "he" sia "she" ma anche non riconoscersi in nessuno dei due. Rispetto ad alcune proposte avanzate negli ultimi 30 anni, come l'asterisco, Lo schwa introduce un'evoluzione importante: lo schwa non viene proposto soltanto come un segno grafico, ma anche fonetico. Non si tratta di una semplice convenzione grafica, ma di modificare effettivamente la fonetica della lingua italiana. Negli ultimi giorni il comune di Castelfranco Emilia ha fatto parlare di sé annunciando che da qui in poi lo userà nei documenti pubblici.
Per quel che vale il mio parere – non molto – lo schwa non mi sembra una soluzione efficace a un problema che comunque c'è. Le mie ragioni sono abbastanza banali: è un simbolo scomodo. Scomodo da trovare sulla tastiera (ma quello si potrebbe risolvere, anche € all'inizio era introvabile) e scomodo soprattutto da leggere: da lontano sembra troppo simile a una a minuscola, e molte volte mi è già capitato di percepirlo come una a, prima di rendermi conto che lo stavo leggendo male. Quando provi poi a scriverlo su un foglio o su una lavagna, ti rendi conto che è oggettivamente difficile tracciare uno schwà che non si possa confondere con una a – in effetti il relativo successo di una proposta del genere è anche un segno di tempi in cui la scrittura è sempre più digitale e sempre meno manuale. Non escludo che parte del mio fastidio derivi da un'incipiente presbiopia, ma insomma a me lo schwa non piace, come non piacciono tutti i simboli poco leggibili perché poco distinguibili da altri più usati. Capisco comunque e rispetto le ragioni di chi lo usa, e capirei e rispetterei anche chi non lo vuole usare, se soltanto riuscisse a spiegarsi civilmente e non brandisse armi inesistenti o citasse regole grammaticali che conosce spesso per sentito dire.
I motivi per cui lo schwa non mi piace sono anche quelli per cui fino a qualche giorno fa pensavo che non avrebbe mai vinto la sua battaglia (a questi motivi però ne va aggiunto un altro, credo decisivo, che rivelerò soltanto in fondo al pezzo). Che lo schwa fosse diventato materia di dibattimento lo avevo scoperto leggendo gli interventi della sociolinguista Vera Gheno. All'inizio lei stessa ne parlava come di un'ipotesi scherzosa e forse si limitava a includerla in un elenco di soluzioni possibili (l'asterisco, il punto, lo spazio, la "u", ecc.), ognuna delle quali presentava pregi e difetti. In questo come in altri casi comunque non dipende dal linguista decidere chi vincerà: la Gheno non si è mai stancata di ricordarci che la lingua la fanno i parlanti, che insomma dipende tutto da noi e dalla nostra volontà di innovare o no. Sempre a lei, in un secondo momento, mi pare che si debba l'osservazione che lo schwa stava prendendo piede, seppure in ambienti molto circoscritti, proprio a causa dei suoi limiti, proprio perché era un simbolo difficile da trovare e da pronunciare: questa difficoltà richiedeva impegno, e questo impegno finiva per gratificare gli attivisti che lo usavano. A questo punto se siete ingegneri un po' state soffrendo (oppure, se state soffrendo, sapete che siete un po' ingegneri dentro); se invece avete una formazione più umanista, può darsi che stiate già annuendo mentalmente, perché gli umani spesso seguono queste strade tortuose e non previste dagli ingegneri: invece di passare dalla via comoda, un sacco di gente si affolla su quella difficile, e lo fanno esattamente perché è difficile, perché richiede disciplina e sancisce il tuo ingresso in una comunità di iniziati che ti riconoscono anche dalle vocali che adoperi. I motivi per cui non credevo che la schwa non avesse una chance sono diventati i motivi per cui potrebbe invece farcela. Però.
Però un conto è vincere il derby con l'asterisco e con altri astrusi simboli non pronunciati: un altro conto è ritrovarsi sulla carta intestata di un comune italiano. Può davvero lo schwa uscire dalla nicchia, e diventare il ventisettesimo carattere del nostro alfabeto? Dipenderà da molte cose, più sociali e politiche che linguistiche perché alla fine davvero la lingua si adatta a chi la parla: ok alle elementari non ve lo spiegavano così... ma alle elementari avevate bisogno di sicurezze. Dipenderà molto da quanto se ne parla, e questo mi sollecita un consiglio a tutti gli odiatori dello schwa: non lo sopportate, vi sembra un brutto scherzo, volete che scompaia? E allora non usatelo, non leggetelo, ma soprattutto non prendetevi gioco dello schwa. Lo so che sembra uno zimbello perfetto: ma più lo prenderete in giro, più lo spargerete in giro. Più la gente lo vedrà, più lo riconoscerà, e troverà sempre meno strana l'idea che qualcuno lo usi davvero. Se davvero quel che vi preme è la purezza della lingua italiana e del suo vocalismo, lo schwa dovete fare voto di non pronunciarlo mai: e di proibire ai vostri cari di pronunciarlo non solo in vostra presenza.
Se invece la vostra priorità è sfottere il politically correct, presto o tardi il politically correct vincerà, e i vostri figli vi chiameranno genitorə. Non è davvero la prima volta che un fenomeno linguistico si impone grazie all'avversione di una parte dei parlanti – forse è uno dei motivi per cui a un certo punto abbiamo smesso di parlare latino. Pensate a quanti concetti storici o estetici hanno adottato un nome che all'inizio era considerato uno sfottò: il barocco, l'impressionismo, i macchiaioli, il cubismo, i fauves, il punk, i no global: tutti nomi coniati per prendere per il culo minoranze che dopo un po' li hanno rivendicati come bandiere, e adesso stanno sui libri. Per fare l'esempio più vicino a noi (così vicino che riguarda di nuovo Vera Gheno), pensate cos'è successo a "petaloso". La parola non esisteva; una collaboratrice della Crusca si limitò a osservare che era ben formata, e che il successo della parola dipendeva come sempre dalla disponibilità dei parlanti a farla propria. Si vide presto che i parlanti non avevano tutta questa necessità di usare la parola "petaloso", salvo un ristretto ma agguerrito circolo di attivisti di destra che si mise a rovesciare sull'innocuo neologismo una carica polemica degna di fenomeni ben più interessanti, arrivando a coniare il concetto di "sinistra petalosa". Da un punto di vista linguistico, il risultato è che oggi "petaloso" esiste, (per esempio su treccani.it) soprattutto grazie a loro. Ecco, se volete che lo schwa resti all'ordine del giorno, non avete che da seguire lo stesso sentiero.
Se invece non volete che prenda piede, rimanete immobili. I neologismi son come le vespe, agitarsi è controproducente. Mentre fate il vostro esercizio di immobilità, magari provate a indagare sulle ragioni della vostra aggressività, perché davvero, anche quando litighiamo per un accento, sotto quell'accento c'è sempre qualcosa di più interessante. Parlo per me: ogni volta che infierisco contro la barbara usanza di togliere l'accento da sé stesso, io lotto contro una concezione elitaria della lingua, che difende i suoi privilegi tendendo ad accumulare nei manuali di ortografia eccezioni su eccezioni, non importa quanto astruse. Voi, invece, quando reagite con tutto questo fastidio a un banale grafema, cosa state difendendo realmente? La superiorità del genere maschile sul femminile? Faccio fatica a crederci, manco Pillon o Adinolfi secondo me ci credono più davvero. La vostra infanzia, le 26 lettere appese a quella parete che sosteneva le vostre certezze elementari? E scusate se ve lo chiedo: siete per caso del nord Italia? Perché lo schwa, diciamolo: suona un po' troppo napoletano.
Ecco, questo credo sia il vero motivo per cui potrebbe non farcela. Se vuoi lanciare un fenomeno linguistico prima o poi devi prendere Milano, e a Milano lo schwa non è che suoni alieno, anzi. Suona heimlich, diremmo in quella lingua in cui la stessa parola può significare sia "domestico" sia "inquietante". Smorzare i plurali con una vocale muta o quasi muta significa rinnegare una settentrionalità acquisita col benessere, accettare il proprio destino di capitale della diaspora meridionale, di Seconda Napoli, e abbracciare finalmente la lingua rimossa dei nonni e degli zii. Forse sarà inevitabile, ma come si dice: ha da passare una nottata.
Il santo che puzzava
15-04-2021, 19:58santiPermalink16 aprile – San Benedetto Giuseppe Labre (1748-1783), mendicante e modello.
Certi Santi hanno vite da romanzo, altri hanno vite che al massimo ci fai una fiction su Rai1. Quella di Benedetto Labre somiglia più a un segmento di Chi l'ha visto.
[Ora torniamo a occuparci di un caso che seguiamo da qualche anno... anche perché continuano ad arrivarci numerose segnalazioni... stiamo parlando di Benoît-Joseph Labre, un bel ragazzo francese che qualche anno fa è stato espulso da un convento dei certosini e ha fatto perdere le sue tracce. Ecco, in questi anni sono stati in molti a riconoscerlo sulle vie dei pellegrini, in particolare nei pressi della Casa Santa di Loreto, ma se torniamo sul suo caso è perché abbiamo scoperto qualcosa di eccezionale, che dimostrerebbe che davvero Benoît si trova a Roma, come molti telespettatori che hanno telefonato sospettano... ma prima vediamo la scheda].
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Benedetto Giuseppe Labre (di Antonio Cavallucci, 1795) (niente aureola, non era ancora tecnicamente santo). |
Benedetto è un ragazzo inquieto come ne nascono in tutti i secoli – compreso il Settecento, che per loro fu uno dei più complicati. Nato nell'Artois, Francia settentrionale, in una famiglia numerosa che tira a campare, Benoît-Joseph è allevato da uno zio canonico che gli insegna i rudimenti della fede e della carità, senza sottrarsi dal fornire esempi fin troppo pratici, al punto che durante un'epidemia di tifo muore soccorrendo gli infermi. A diciott'anni Benoît sembra avere già chiara la vocazione alla vita contemplativa, ma i conventi certosini e i monasteri in cui prova a rinchiudersi lo allontanano tutti, spaventati pare dal suo rigore ascetico. Il ragazzo è troppo angosciato, scrivono. "Le sue pene spirituali fanno temere per la sua testa", scrivono i cistercensi di Sept-Fons, dove veste per qualche tempo la tonaca di novizio. Siamo nel secolo dei lumi, persino i monaci restano scettici davanti a un così ligio imitatore di Cristo. Un'altra possibile spiegazione – che non compare nelle agiografie – è che la famiglia non potesse permettersi da pagargli un vitalizio; né il malaticcio Benoît-Joseph dava l'impressione di potersi guadagnare la vita monastica sobbarcandosi delle mansioni più umili. Anche la vita contemplativa è per chi se la può permettere e forse non era il caso di Benoît. Il quale a un certo punto, non sapendo più a che santo votarsi, comincia semplicemente a mettere un piede dietro l'altro, e non smette di camminare finché ne muore.
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Illustrazioni del "Lamento del Buon San Labre", canzone di Maurice MacNab, raccolta tra le Chansons du Chat Noir (il locale in cui nacque il cabaret). |
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Monumento funebre a Benedetto Giuseppe Labre, di Achille Albicini (1892), in Santa Maria ai Monti. Foto di Pareloup, CC BY-SA 4.0 |
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E insomma Benedetto, qui già aureolato, incontra questo poveraccio più nudo di lui, e comincia a regalargli i suoi preziosi vestiti – ma strofa dopo strofa, il poveraccio continua a tremare e San Benedetto non sa più di che svestirsi. |
Un'altra cosa che si dice è che i santi emanino un profumo soave – l'"odore di santità" – da morti e in certi casi persino da vivi. Benoît invece puzzava, su questo le fonti concordano. Pare che dopo aver transitato da un santuario avesse fatto il voto di non lavarsi più, un dettaglio che nel secolo precedente sarebbe quasi passato inosservato (e anche la puzza, forse sarebbe stata considerata niente più che un odore più pungente di altri). Ma il Settecento ormai volgeva al termine, acqua e sapone erano tornati di moda e persino i suoi più sfrenati ammiratori non potevano negarlo, Benoît puzzava. Può darsi che persino il cattivo odore lo abbia aiutato a mantenere un minimo distanziamento da un popolo che a un certo punto cominciò a trattarlo da santo, a chiedere consigli e veri e propri miracoli, ma ecco, senza affollarsi troppo intorno al suo giaciglio pulcioso; senza accalcarsi, stroncando sul nascere qualsiasi sospetto sul trasporto dei fedeli e delle fedeli per quel bel ragazzo che si poteva guardare (da lontano) ma toccare no. Sia come sia, la vita di strada è la più breve in ogni secolo, e quella di Benoît terminò a trentacinque anni, mentre partecipava a una liturgia quaresimale in Santa Maria dei Monti. La folla che accorse al grido "È morto il Santo" rese necessario l'intervento delle guardie pontificie.
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Dopo essersi completamente denudato, il Santo chiede al povero: ma com'è che tremi ancora? E lui risponde: perché da che sono nato ho il ballo di San Vito. Sipario. |
Agabo, il grillo parlante
08-04-2021, 03:47Chiesa, economie, santiPermalink8 aprile – Sant'Agabo (I secolo), miniprofeta di sventure
Auguri a tutti gli Agabi, che nome buffo avete. Suona greco ma probabilmente deriva dall'aramaico Hagab, "grillo", nome non inadeguato a un minuscolo profeta che compare soltanto in un paio di versetti degli Atti degli Apostoli. In entrambi i casi Agabo si rivela sia menagramo sia funzionale alla storia che l'evangelista Luca sta raccontando, al punto dal farci sospettare che più che un profeta vero sia una di quelle comparse molto pratiche, che in un film dicono esattamente quello che gli spettatori devono sapere per capire cosa sta per succedere.
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Anche Collodi si serve due volte del Grillo nel suo vangelo (anche se l'aveva già fatto uccidere da Pinocchio, e gli tocca resuscitarlo). |
Nella sua prima comparsa (Atti 11,28) Agabo risulta essere il membro di un gruppo di profeti "scesi da Gerusalemme" ad Antiochia in uno dei momenti più cruciali della storia del cristianesimo. Dovremmo essere intorno al 45 dopo Cristo: il Vangelo è ancora un racconto orale che circola quasi esclusivamente in alcune comunità ebraiche tra Palestina e Siria. È un mondo di piccoli centri mercantili, orbitanti attorno a una delle tre metropoli del Mediterraneo: Antiochia di Siria (oggi Antiochia in Turchia). Qui per la prima volta i credenti in Gesù vengono chiamati "cristiani", e qui soprattutto, nel più importante crocevia del Medio Oriente, il loro messaggio comincia a spargersi anche tra i gentili non circoncisi, su iniziativa non si sa bene di chi ("cittadini di Cipro e di Cirene"). Quando la notizia arriva alla comunità di Gerusalemme, quella manda a verificare un emissario di prim'ordine, Barnaba, già molto attivo a Damasco. Quest'ultimo ha l'idea di portarsi con sé un personaggio già noto e controverso nell'ambiente, Saulo detto anche Paolo, che dopo essere sfuggito a qualche tentativo di omicidio da parte degli oppositori dei cristiani che si sentivano traditi da lui (non a torto), si era momentaneamente rifugiato a Tarso, la città dei genitori. Ad Antiochia, Saulo inizierà la sua opera di missionario tra i gentili ed è abbastanza suggestivo che quest'opera coincida con la prima operazione di fundraising: quando Saulo e Barnaba torneranno a Gerusalemme a far rapporto, non si limiteranno a parlare della nuova comunità multietnica di Antiochia, ma porteranno una generosa offerta in denaro.
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Antiochia oggi |
Sembrerebbe insomma che il diritto a fregiarsi del titolo di Chiesa di Cristo, i fedeli di Antiochia se lo siano pagato in moneta sonante, anche se Luca spiega che la colletta era stata ispirata da una profezia, appunto: la prima profezia di Agabo.
E uno di loro, di nome Agabo, alzatosi in piedi, annunziò per impulso dello Spirito che sarebbe scoppiata una grave carestia su tutta la terra. Ciò che di fatto avvenne sotto l'impero di Claudio. Allora i discepoli si accordarono, ciascuno secondo quello che possedeva, di mandare un soccorso ai fratelli abitanti nella Giudea; questo fecero, indirizzandolo agli anziani, per mezzo di Barnaba e Saulo.
Notate quel "per mezzo": Luca ha premura di spiegare che Barnaba e Saulo non erano che i latori della donazione; che non l'avevano in nessun modo sollecitata. L'episodio resta comunque abbastanza ambiguo: perché raccogliere fondi proprio per la Giudea, se la carestia ci sarebbe stata "su tutta la terra"? E a proposito: la carestia poi ci fu? È difficile dire. Qualche cenno a una crisi nell'approvvigionamento delle provviste compare, ad esempio, nelle Antiquitates di Giovanni Flavio, un testo che però potrebbe essere stato interpolato in questo e in altri casi, da copisti antichi e medievali desiderosi di conciliarlo con gli eventi descritti nel Nuovo Testamento. Bisogna dire che erano fenomeni abbastanza ciclici in un'epoca in cui Roma si era trasformata nel ventre del Mediterraneo, un buco nero che ogni anno risucchiava una parte consistente della produzione cerealicola dalla Spagna all'Egitto. La carestia descritta da Luca dovrebbe avere un carattere universale, eppure l'evangelista l'accantona subito dopo averla evocata, un mero pretesto per una raccolta di fondi.
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Corinto sotto la neve |
Quasi dieci anni più tardi, ritroviamo qualche traccia di un'analoga raccolta nelle due lettere ai cristiani di Corinto. Le scrive Saulo, che tutti ormai chiamano Paolo, nome che gli spetta in quanto cittadino romano. Corinto non è una metropoli come Antiochia, ma è una città con una spiccata identità mercantile e addirittura turistica: i suoi giuochi rivaleggiano con quelli di Olimpia, e in generale si avverte una rilassatezza dei costumi che impensierisce l'Apostolo. Il quale tra un rimbrotto e un'ammonizione non dimentica mai di accennare a questa cosa importante che è la colletta – riuscendo in entrambe le lettere a specificare che non è lui che la sollecita e non sarà lui a passare a raccoglierla:
Quanto poi alla colletta in favore dei fratelli, fate anche voi come ho ordinato alle Chiese della Galazia. Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare, perché non si facciano le collette proprio quando verrò io. Quando poi giungerò, manderò con una mia lettera quelli che voi avrete scelto per portare il dono della vostra liberalità a Gerusalemme. (1 Corinti 16,1-4)
La colletta è settimanale ed è destinata ai "Santi", che in questa primissima fase del cristianesimo non sono quelli della nostra rubrica, ma i membri ancora in vita della comunità cristiana di Gerusalemme: apostoli e altri testimoni della predicazione e del martirio di Cristo – e non c'è dubbio che in una fase in cui il Vangelo era ancora orale, la loro vita fosse un patrimonio prezioso. In un primissimo momento il gruppetto guidato da Pietro aveva messo in pratica una rigorosissima comunione dei beni. Lo stesso Barnaba, sembra di capire, si era guadagnato una posizione preminente devolvendo il ricavato di un suo podere (Atti 4,37). Vent'anni dopo, quella che era sembrata una cellula proto-comunista si è già evoluta in un ente benefico fondato sulla generosità dei suoi adepti, ben disposti a scambiare ricchezza in cambio di Grazia. Paolo, che pure ci tiene nelle epistole a non passare per un mero esattore, conosce l'importanza di motivare i contribuenti volontari e non si fa scrupolo di approfittare di quel senso di competitività che i Corinti dovevano nutrire nei confronti dei vicini Macedoni. Questi ultimi, Paolo li tratta esplicitamente da poveracci, notando che pur nella loro indigenza "hanno dato secondo i loro mezzi e anche oltre, spontaneamente" (2 Corinti 8,3). Possono i Corinti, che primeggiano in ogni cosa ("nella fede, nella parola, nella scienza, in ogni zelo") perdere proprio la gara della carità? "Conosco infatti bene la vostra buona volontà e ne faccio vanto con i Macedoni dicendo che l'Acaia è pronta fin dallo scorso anno, e molti sono stati stimolati dal vostro zelo" (2 Corinti 9,2). Questo zelo va tuttavia stimolato costantemente, onde evitare una figuraccia proprio coi confinanti ("non avvenga che, venendo con me alcuni Macedoni, vi trovino impreparati e noi dobbiamo arrossire, per non dire anche voi, di questa nostra fiducia... perché essa [l'offerta] sia pronta come una vera offerta e non come una spilorceria "(2 Corinti 9,4-5).
Qui e altrove Paolo dimostra quell'approccio pragmatico alle questioni economiche che lo avvicinano più all'evangelista Matteo (che probabilmente non lesse mai) che a Luca. Quest'ultimo è visibilmente a disagio, quando si parla di denaro. Nella sue mani la parabola dei talenti raccontata in Matteo (25,14-30) perde ogni accento turbo-liberale: il budget destinato dal padrone ai servi viene molto ridotto (non è più misurato in talenti ma in "mine", che valevano assai meno) e soprattutto è diviso in parti uguali tra i servi (Luca 19,12-27). Se Gesù deve proprio intrattenersi con un esattore delle tasse, soltanto Luca sente la necessità di avvertire il lettore che l'esattore in questione, Zaccheo, "donava la metà dei suoi beni ai poveri" (Luca 19,8). Lo stesso Luca non perde l'occasione di descrivere la Chiesa delle origini come un'utopia comunista ("Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune", Atti 2,42), né indietreggia quando si tratta di edulcorare i lati oscuri di un'utopia del genere: quando un adepto, Anania tenta di tenere per sé parte del suo patrimonio, Pietro se ne accorge e Anania... cade stecchito all'istante. Per Luca è un miracolo. Anche la moglie muore subito dopo: doppio miracolo. Malgrado queste morti soprannaturali, a un certo punto l'esperimento comunitario si interrompe, o comunque rimane confinato al carattere eccezionale della comunità di Gerusalemme – che però molto presto per sostenersi deve sollecitare la generosità dei cristiani periferici. Questa cosa forse Luca non l'accetta del tutto, al punto da inventare la profezia di Agabo: la donazione di Antiochia, che pure c'era stata (Luca non poteva negarla), era da considerare un evento eccezionale, causato da una carestia.
Tra Luca e Paolo, compagni di viaggio, è già lecito intravedere lo scontro di due concezioni economiche della Chiesa che non smetteranno più di contrapporsi: quella tratteggiata da Luca negli Atti continuerà a ispirare i più svariati esperimenti comunitari, dai francescani ai quaccheri. Ma a vincere sarà quella di Paolo: la Chiesa come un enorme dispositivo di raccolta fondi. Un modello che la renderà una struttura particolarmente competitiva nell'economia tardo-imperiale, che non prevedeva altre forme di welfare che non contemplassero la generosità dei cittadini.
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Papyrus Oxyrhynchus 1597, il più antico frammento degli Atti pervenutoci. |
Agabo ritorna più tardi negli Atti degli Apostoli (21,10-11), in una fase in cui, usando la prima persona plurale, Luca lascia intendere di aver assistito direttamente ai fatti che racconta. Lui e Paolo stanno facendo tappa a Cesarea, ma sono diretti a Gerusalemme: e Agabo di nuovo viene da lì, con una nuova profezia. Luca lo presenta di nuovo, senza ricordarsi di averlo menzionato in precedenza – il che potrebbe anche significare che la seconda parte degli Atti, dove racconta dei suoi viaggi con Paolo, l'ha scritta un po' prima; mentre la prima parte, quella sulla Chiesa eroica degli esordi, l'ha ricostruita a posteriori. Anche stavolta Agabo è una comparsa strumentale al racconto: arriva, spiega cosa succederà, scompare:
Eravamo là da molti giorni, quando scese dalla Giudea un profeta, di nome Agabo. Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le mani e disse: «Questo dice lo Spirito Santo: "A Gerusalemme i Giudei legheranno così l'uomo a cui questa cintura appartiene, e lo consegneranno nelle mani dei pagani"». Quando udimmo queste cose, tanto noi che quelli del luogo lo pregavamo di non salire a Gerusalemme. Paolo allora rispose: «Che fate voi, piangendo e spezzandomi il cuore? Sappiate che io sono pronto non solo a essere legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù»
Si capisce che senza Agabo che profetizza l'arresto, Luca e gli altri amici non potrebbero esortare Paolo a evitare il pericolo, e Paolo non potrebbe mostrarsi pronto al martirio. Agabo sembra davvero il tipico profeta "post eventum", quello che le azzecca tutte semplicemente perché è una pedina dello scrittore, che il futuro lo conosce già perché ormai è già passato. E infatti si limita a profetizzare l'imminente arresto di Paolo: non il martirio vero e proprio, che Luca non si sente di anticipare perché quando scrive gli Atti (60?), Paolo è ancora vivo, sebbene prigioniero a Roma.
Gwynllyw, un pirata e un signore
29-03-2021, 01:52santiPermalink29 marzo – San Gwynllyw (450-529), re e rapinatore, patrono dei pirati gallesi.
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Cattedrale di Newport, dove un tempo sorgeva il santuario di Woolos the Warrior. CC BY-SA 2.5. |
Il primo quesito di ordine metodologico che incontriamo accostandoci alla pia figura di San Gwynllyw è: come caspita si pronuncia Gwynllyw? Esiste anche una trascrizione del nome in latino (Gundleius), per cui avremmo potuto anche scrivere San Gundleio, ma sarebbe stato meno divertente di immaginare una specie di piratesco ruggito gutturale, hgvüündüüv. Gli anglo-sassoni lo chiamavano "Woolos the Warrior", che è senz'altro un nome ad effetto, e ci fa capire come tutte le loro "W" iniziali, più di un millennio fa, fossero anticipate da una dura "G": che è poi il motivo per cui dal longobardo "werra" è saltato fuori l'italiano "guerra", mentre William the Conqueror in Francia veniva chiamato Guillaume (e da noi Guglielmo). "Gwynllyn" però non è germanico, è gaelico. Credo che "Gwyn" in gallese significhi "bianco".
Gwynllw non è probabilmente mai stato un pirata, come si cominciò a raccontare secoli più tardi. È probabile che quando i pirati del canale di Bristol sentirono l'esigenza di affidarsi a un santo locale e non francese o inglese o irlandese come gli equipaggi delle navi che depredavano, la scelta cadde su questo autoctono re manigoldo del sesto secolo. Un periodo in cui la differenza tra istituzione monarchica e gang di razziatori doveva essere molto labile: in sostanza regnare su una regione significava detenere la liberta di scorrazzarvi in lungo e in largo coi tuoi uomini armati, chiedendo il pizzo alla popolazione in cambio di protezione dalle incursioni di qualche altro manigoldo con qualche altro uomo armato. Questo in parte può spiegare come mai le due fonti che abbiamo sulla sua vita si contraddicano: la Vita di San Cadoc, compilata intorno al 1100, lo descrive come un irresistibile furfante – a maggior gloria del figlio Cadoc che sarebbe poi riuscito a convertirlo. Viceversa la Vita di San Gwynllw, scritta una trentina d'anni dopo, insiste sul fatto che anche prima di convertirsi fosse un sovrano giusto e pio. C'è gente che proprio dei re non riesce a parlar male, neanche di quelli di reami minuscoli e sepolti da secoli – ma in effetti tra essere un buon sovrano per i propri sudditi e un razziatore dei sudditi altrui non c'era tutta questa incompatibilità.
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Il Monmouthsihire, tra Galles e Inghilterra (tra 1600 e 1800 su molti documenti ufficiali compariva la definizione "Galles e Monmouthshire". Malgrado l'intento fosse rimarcare come questa contea facesse parte del Galles, ne uscì rafforzata l'opinione che la contea non fosse più esattamente Galles, ma già Inghilterra. Oggi è generalmente considerata una contea del Galles). |
Gli storici britannici li chiamano "petty kingdoms": regnucoli, regnetti: quelli che si spartivano le Isole prima dell'unificazione nel X secolo. Gwynllw ad esempio era re del Gwynllwg, che aveva ereditato dal padre Glywys, fondatore a sua volta del regno del Glywysing, e a tal proposito sempre sia lodato il copia-incolla. Siccome Gwynllyw aveva due fratelli, il già non esteso Glywysing era stato diviso in tre parti e più o meno copriva un'area tra le due contee storiche più tardi note come Glamorgan e Monmouth, affacciate sul Canale di Bristol. Dall'altra parte del Canale c'è il Devon, su cui avrebbe dovuto regnare il fratello, San Petroc, patrono dell'intera Cornovaglia; uso il condizionale perché Petroc più che un re fu un abate e un missionario, uomo di cultura e leggendaria umiltà.
Gwynllyw invece era un furfante. La sua vittima preferita era Brychan, re del Brycheiniog, che forse anche a causa delle ripetute razzie non era incline a consentirgli di fidanzarsi con una dei 24 figli che aveva, la bella Gwladys: da non confondere con Gwawl, che era la madre di Gwynllyw, e d'altro canto se tuo padre si chiama Glywys e tua madre Gwawl e incontri una bella ragazza che si chiama Gwladys, capisci che è tutto scritto nel libro del destino, magari in rune celtiche incomprensibili, ma è scritto. Così un bel giorno Gwynllyw si presentò a casa di Brychan con 300 uomini armati e la portò via, perdendone 200 nella scaramuccia che ne seguì. Il conflitto terminò con la scesa in campo di una guest star di assoluto rilievo: Re Artù, che schierandosi dalla parte di Gwynllyw rese possibile il matrimonio e qui per la prima volta compare menzionato in una vita di santi. Si tratta della Vita di San Cadoc, perché l'autore della successiva Vita di San Gwynllyw insiste sul fatto che non ci fu nessun ratto e nessuna guerra, bensì una meravigliosa cerimonia che vide unirsi nel sacro vincolo del matrimonio consensuale due sposi fortunati e benedetti dalle rispettive famiglie, sì, sì, ma non si diventa patroni dei pirati in questo modo. La gente vuole le avventure, i ratti delle vergini, i festini con la strage sul più bello.
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San Cadoc in un bassorilievo bretone. CC BY-SA 3.0 |
In seguito, per festeggiare la nascita del primogenito Cadoc, Gwynllyw avrebbe portato un po' di amici a rapinare il monastero di Caerwent. Al tempo però il monastero era gestito da San Tathan o Tatheus (erano tempi fortunati, rigogliosi di santità), che inseguì i predoni e chiese loro la restituzione in particolare di una mucca. Gwynllyw rimase così impressionato dalla flemma dell'abate che non solo restituì il capo di bestiame, ma vi aggiunse un bonus: il primogenito. Decise infatti che Cadoc sarebbe stato educato dai monaci di Caerwent, insomma la mucca presa come bottino fu riconvertita in borsa di studio. Cosa non si fa per togliersi i figli dai piedi, sul serio. Sia come sia, Cadoc ebbe la possibilità di crescere in un contesto molto diverso da quello del padre: studiò, viaggiò (Irlanda, Scozia, secondo alcune fonti fece anche un pellegrinaggio a Roma), e una volta adulto non solo rifiutò l'eredità militare del padre, ma ne causò la conversione.
Bisogna dire che è un tratto comune di diversi re-santi, figure tipiche delle terre europee in cui era più radicata l'istituzione monarchica. Oltre al privilegio per ogni famiglia reale di vantare almeno un santo o una santa nell'albero genealogico, c'era anche la necessità di normalizzare la venerazione di alcuni personaggi che avevano fondato luoghi di culto importanti. In questo e in altri casi, la santità molto spesso sopravviene in un secondo momento, è una specie di pensionamento: stanco di regnare (e di razziare) Gwynllyw decide di ritirarsi in campagna con la fedele Gwladys, e in effetti in quanto a campagna c'era solo l'imbarazzo della scelta: ma avendo sognato un bue con una macchia nera sulla fronte, Gwynllyw decise che avrebbe costruito il suo eremo nel luogo dove avesse visto un bue simile. Ne trovò uno dove oggi sorge Newport, la terza città del Galles: la sua costruzione in legno sarebbe stato il nucleo della futura cattedrale di San Woloos, poi distrutta credo dai Normanni. Vi visse ancora diversi anni, mangiando verdure, bevendo acqua da un pozzo miracoloso e beandosi della compagnia della fedele Gwladys. La quale a dire il vero a un certo punto lo piantò per andare a fondare un altro eremo a Pencarn, non troppo lontano (ma neanche troppo vicino). Gli agiografi ci suggeriscono che la separazione fosse necessaria al raggiungimento di un ulteriore livello di santità; noialtri del XXI secolo crediamo di saperla più lunga e non riusciamo a non pensare che forse Gwladys si era stancata del marito vecchio e santo; dopotutto lei aveva sposato un pirata.
Simonino, il martire che non c'era
24-03-2021, 03:54antisemitismo, santiPermalink24 marzo. Simonino da Trento (1472-1475), fake news antisemita
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Martirio del Beato Simonino, di Francesco Oradini (XVIII secolo), Palazzo Salvadori, Trento. Foto di Andreas Caranti, CC BY-SA 2.0 |
Simonino non aveva ancora tre anni quando viene ritrovato morto dagli ebrei della piccola comunità askenazita di Trento, nel canale adiacente alle loro abitazioni. È Salomone di Norimberga, il capo della comunità, ad avvertire le autorità del ritrovamento del figlio di Andrea Lomferdorm, il conciapelle, che aveva denunciato lo smarrimento due giorni prima, la sera del Giovedì Santo. Salomone non sospettava evidentemente la sciagura che stava per attirare su di sé e sui correligionari, che di lì a poco sarebbero stati arrestati, torturati e costretti ad autoaccusarsi di aver rapito e ucciso il bambino. I rei confessi sarebbero poi stati arsi sul rogo, tranne quelli che accettarono di convertirsi al cristianesimo, che furono più umanamente decapitati.
I moventi e i dettagli del crimine seguono uno schema che si era via via definito dal Medioevo, arricchendosi da un processo all’altro dei dettagli aggiunti dall’immaginazione dei torturati e dei torturatori-suggeritori. Ciò che rende particolare l’episodio di Trento è che qui tutto viene verbalizzato con una minuzia agghiacciante: della passione di Simonino (parodia di quella di Gesù, secondo la volontà dei suoi sedicenti torturatori) conosciamo dettagli minimi, di un realismo insostenibile. I verbalisti addirittura si adoperano a trascrivere le maledizioni in yiddish che uomini e donne avrebbero pronunciato durante il rito. Si tratterebbe insomma di un documento di straordinario interesse antropologico, se fosse vero e non il prodotto della fantasia di aguzzini fanatici e vittime disperate. Certo qualsiasi fantasia contiene una sua verità, almeno da un punto di vista psicanalitico, e il massimo di verità che possiamo ricavare dalle confessioni estorte a Salomone e ai suoi correligionari è la spaventosa diffidenza reciproca tra cristiani ed ebrei, in cui le accuse di infanticidio si rifrangono come in un gioco di specchi deformanti. I cristiani erano convinti che gli ebrei immolassero ogni anno a Pasqua un bambino cristiano, prima circoncidendolo per renderlo più simile a Gesù e poi crocifiggendolo come era stato crocifisso Gesù; impastando poi il suo sangue nei pani azzimi della Pasqua, e conservando parte dello stesso sangue, essiccato in polvere anche per scopi medicinali. Gli ebrei dal canto loro provavano probabilmente un sacro ribrezzo alla sola idea di mangiare il sangue, qualcosa che andava contro i più severi divieti delle Scritture; ma pungolati a compiacere la fantasia sanguinaria dei loro torturatori, recuperavano dalle loro leggende le scene più granguignolesche, come l’immagine (conservata in molti codici) del Faraone che si cura la lebbra in una vasca di sangue di bambini ebrei. Così con la forza della disperazione corredavano il fatto di sangue con una serie di dettagli raccapriccianti che l’immaginario occidentale non avrebbe più dimenticato, fino al pieno Novecento, ai libelli nazisti e al cinema horror.
E i verbalisti prendevano nota. Si capisce che la crisi stavolta non è gestita da una folla di linciatori impressionabili, ma da una regia sapiente con priorità precise. Il vescovo-principe di Trento Giovanni Hinderbach non vuole semplicemente scacciare gli askenaziti da Trento (e incamerare i loro beni): è determinato a creare un precedente importante, a fissare per iscritto un episodio cruciale a cui effettivamente si rifaranno da lì in poi tutti i casi di infanticidi rituali a sud e a nord delle Alpi. Per ottenere questo risultato non esita a sfidare l’autorità degli Asburgo e quella del Papa, che a fasi alterne cercano di bloccare il processo: perché il caso di Simonino non si verifica negli anni foschi della Controriforma, ma in un secolo più aperto in cui ecclesiastici e governanti risultano generalmente tutt’altro che inclini ad assecondare una caccia alle streghe (e sensibili al lobbying delle comunità ebraiche, che cercavano con ogni mezzo di contrastare il propagarsi di leggende nere pericolosissime). Quando però il processo sarà terminato, e i testimoni arsi vivi o decapitati e gli atti pubblicati, anche le autorità dovranno fare un passo indietro nei confronti del risultato ottenuto dal vescovo: nel 1588 (in piena Controriforma) papa Sisto V autorizza la venerazione di San Simonino martire. A Trento vengono costruite in suo onore due cappelle, una nel luogo del rapimento e l’altra nel luogo dell’uccisione. Ancora nel nel 1760 il cardinale Lorenzo Ganganelli, poi papa Clemente XIV, cita il processo Simonino come uno dei rarissimi casi in cui gli ebrei non potevano essere scagionati dall’accusa di omicidio rituale: un evento assolutamente eccezionale, che non doveva diventare il pretesto per accuse generalizzate, ma pur sempre un evento storico reale. Bisognerà attendere la seconda metà del Novecento, perché le autorità ecclesiastiche, stimolate dagli studi di Gemma Volli, riprendano gli incartamenti e giungano alla conclusione che oggi ci appare come scontata: si era trattato di un processo farsa, Salomone e i suoi compagni erano le vittime sacrificali di un rito antisemita. L’ultima processione ufficiale a Trento si svolse nel 1955; la venerazione per Simonino fu ufficialmente abolita dalla Chiesa nel 1965, al culmine della stagione conciliare.
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Martirio di Simonino da Trento, chiesa di Santa Maria Rotonda, Pian Camuno (BS). Foto di Di Luca Giarelli – CC BY-SA 3.0. |
Oggi viviamo in una stagione molto diversa, anche se forse la sensazione che esista un movimento vetero-cattolico che sfida papa Francesco da destra è ingigantita da internet, e dalla prospettiva che ci offre su tutti i mattoidi in circolazione – c’è gente che vende libri sulla Terra Piatta e organizza manifestazioni sulle scie chimiche; vuoi che non ci sia anche qualcuno che crede ancora ai pani azzimi impastati col sangue dei bambini? Qualcuno dev’esserci, se ha commissionato a Gasparro almeno un quadro.
Prendiamo un sito – non lo linkerò, ma è uno dei primi risultati se si cerca il quadro di Gasparro on line. Leggiamo che l’opera avrebbe scatenato l'”ira degli ebrei” (e vorrei anche vedere) che si sarebbe concretizzata in diverse “minacce di morte” che però non vengono esibite, a differenza del crimine infamante reso da Gasparro nel suo tipico stile da madonnaro allucinato. Leggiamo ancora: “Diversi storici ebrei ritengono attendibile l’omicidio rituale ebraico dei bambini cristiani, da parte di ebrei aschenaziti e sefarditi. Teoria sostenuta in primis dal professor Ariel Toaff, figlio dell ex capo rabbino di Roma Elio Toaff, nella prima edizione del libro, censurato subito dopo la pubblicazione: “Pasque di Sangue”.
Quante inesattezze in una frase sola? Si fa prima a trovare quel poco che c’è di vero. Per esempio Ariel Toaff è davvero figlio di Elio Toaff e ha realmente pubblicato nel 2007 un volume dedicato all’omicidio di Simonino e più in generale alla leggenda dell’omicidio rituale. La prima edizione del volume (Il Mulino, 2007) non è stata “censurata”, ma ritirata dal commercio dopo un’aspra polemica che vide confrontarsi diversi storici. Il libro fu ristampato poco dopo con una prefazione che doveva chiarire la posizione dell’autore – e forse non si è mai chiari abbastanza, quando si affrontano argomenti tanto delicati. Toaff ritiene “attendibile l’omicidio rituale ebraico dei bambini cristiani, da parte di ebrei aschenaziti e sefarditi”? Per quanto riguarda i sefarditi, assolutamente no: anzi uno degli argomenti da lui esibiti è che di queste leggende non sussistesse alcuna traccia nei luoghi abitati da ebrei sefarditi, o italiani, od orientali. Solo nelle zone raggiunte dagli askenaziti periodicamente gli ebrei venivano accusati di macellare un bambino che quasi sempre dopo qualche giorno si ritrovava vivo e vegeto. Quasi sempre, ma a volte no. Del resto tuttora, appena scompare un bambino in una spiaggia, la prima cosa che si fa è arrestare i soliti sospetti: venditori ambulanti, nomadi, immigrati. Nel Quattrocento si cominciava dagli ebrei.
Dando forse per scontato che l’ostilità nei confronti degli ebrei fosse uniforme in tutta l’Europa cristiana, Toaff era portato a concludere che la leggenda nera sugli infanticidi non potesse che scaturire da qualche particolarità della cultura askenazita, e di conseguenza a ricercare negli archivi tutti i dettagli che avrebbero potuto giustificare un’evoluzione così truculenta e contraria ai più basilari costumi dell’ebraismo. Poi si sa come va con gli storici: se si mettono in testa di cercare qualcosa, prima o poi la trovano: e la quantità di dettagli scovata da Toaff nel suo libro è impressionante, e restituisce l’immagine di una comunità chiusa su sé stessa, portata a diffidare anche delle altre comunità ebraiche, ispirata da un anticristianesimo fanatico temprato dalle violente persecuzioni subite nei secoli precedenti in Europa centrale. Non solo, ma Toaff non può impedirsi di scrivere quello che abbiamo in tanti pensato a un certo punto, ovvero che gli psicopatici esistono, e che se il loro immaginario è fatto di bambini sgozzati prima o poi qualche bambino ci resta secco davvero. Possiamo escludere che a Trento o altrove non sia successo qualcosa del genere? Che qualche psicopatico magari esacerbato dal recente passaggio di un predicatore antisemita come Bernardino da Feltre non abbia deciso di calarsi nel ruolo che i cristiani avevano predisposto per lui?
L’altro argomento invocato da Toaff è la minuziosità dei verbali. Toaff sembra a tratti soggiogato dalla generosità della documentazione che il vescovo mise a disposizione, e nota più volte come esso contenga dettagli preziosi sui riti ebraici che i torturatori non potevano certo conoscere: il che secondo lui proverebbe che gli imputati non parlavano sotto dettatura, ma stavano realmente condividendo con gli inquisitori la loro negletta cultura. Persino le parolacce in yiddish, in un processo a Trento! Qui è facile obiettare come ogni confessione mendace, ogni depistaggio, perché funzioni davvero debba sempre contenere verità e finzione, in dosi non troppo squilibrate. Nel suo entusiasmo – che poi è quello prezioso del ricercatore quando ha la sensazione di ritrovare un tesoro di testimonianze credute perse o neglette – Toaff si dilunga senza risparmio sui dettagli del crimine e non si preoccupa pagina dopo pagina di premettere quali gli sembrino plausibili e quali inventati.
Si sa che mille indizi non fanno una prova – in giurisprudenza, almeno. In storiografia la situazione è diversa: tanto per cominciare, non si rischia di condannare nessun vivente; e poi al massimo quello che si consegna all’editore è un’ipotesi interessante, non la Verità. Mentre accumulava i suoi indizi, Toaff aveva in mente un pubblico di studenti e accademici, dai quali giustamente pretendeva lo sforzo di recepire una tesi provocatoria ma degna di discussione. Gli sfuggiva forse che un tema così controverso avrebbe interessato un pubblico assai più vasto, composto di lettori meno tecnici che davvero avrebbero potuto scambiare alcuni capitoli di Pasque di sangue per un agile sunto moderno di tutti i libelli antiebraici; al punto che non è difficile pensare che Gasparro abbia usato proprio il libro di Toaff come fonte per il suo quadro. Alla fine l’errore forse è stato credere che tra adulti si possa discutere serenamente di tutto, compreso di bambini scomparsi e forse uccisi. Non era così, fino al 2007 almeno – vediamo come va nel 2021.
Non Dea Madre, ma madre di Dio
01-01-2021, 19:24feste, madonne, santiPermalink1 gennaio – Maria, madre di Dio
Non avevamo distrutte tutte da millenni? Non avevamo dichiarato ufficialmente i loro adoratori dei malati di mente ("dementes") già a Tessalonica nel 380? In un certo senso sì. Eppure... date un'occhiata alle bandiere in giro per il mediterraneo. Sono tutte di origine settecentesca, illuminista, razionale, vero? In Europa dodici stelle, nei Paesi arabi la mezzaluna (anche se quest'ultima viene spesso associata alla religione islamica, la sua presenza sugli stemmi ottomani diventa sistematica nel Settecento). E se vi dicessi che rimandano entrambe alla stessa divinità, e che questa divinità ha meno in comune con Cristo o Allah che con qualche antica Madre? Probabilmente esagererei. Mettiamola così: con certe divinità il cristianesimo è dovuto venire a patti. Non è cosa di cui andare fieri, e in effetti su questo genere di compromessi i teologi preferirebbero tacere, o almeno spostare la discussione su un campo più astratto.
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Forse la più antica raffigurazione che ci sia arrivata del simbolo della luna crescente associato con una stella (più probabilmente il sole), in un sigillo di epoca neosumera (2000 avanti Cristo). |
È quel che succede per esempio nel 428, quando Nestorio, patriarca di Costantinopoli, solleva l'obiezione: come possiamo chiamare Maria "Madre di Dio" (Theotókos)? Come può un essere umano a essere genitore di una divinità? Non è che l'obiezione non avesse un senso. Nestorio non aveva problemi ad accettare che Gesù fosse sia uomo che Dio; ma non accettava che Maria potesse essere considerata madre di entrambi. In quel grembo vengono ad annodarsi tutte le contraddizioni di una religione ormai egemone ma ancora in fase di assestamento dottrinale: il problema trinitario (se Dio è uno solo, può Maria essere madre del suo creatore?), quello cristologico (in che senso Gesù è sia Dio sia uomo?), quello mariano: come raccontiamo ai fedeli questa cosa che Dio ha reso gravida una ragazza, in modo che non ricordi assolutamente quei vecchi miti bavosi sugli Dei che vanno in giro a molestare giovani e giovincelle? Meglio insistere sulla verginità della ragazza in questione, non solo prima ma addirittura dopo: certo, ne soffre un po' la verosimiglianza, ma è il prezzo da pagare per allontanare l'idea che Dio-Padre sia un padre di carne che feconda come fanno gli altri padri. A questo punto è chiaro che Maria non può essere una donna qualsiasi, ma Madre di Dio? Nestorio preferiva chiamarla "madre di Cristo" (Christotokos). Ai suoi oppositori la cosa sembrava sospetta, per motivi forse non sempre confessabili. Perché per quanto gli avversari di Nestorio si siano affannati a trasformare la questione in un complesso meccanismo neoplatonico comprensibile soltanto agli addetti ai lavori, il sospetto è che dietro a questo complesso paravento si celasse una realtà molto più terra-terra: "Madre di Dio" era un compromesso, un modo per dire e non dire "Dea madre".
Nel giro di una generazione la piccola Bisanzio era diventata la Nuova Roma immaginata da Costantino: una metropoli fungata sul Corno d'Oro. I nuovi abitanti, accorsi da ogni parte dall'impero non avevano tradizioni in comune. La città, in quanto rifondata da Costantino dopo la conversione, non poteva nemmeno vantare martiri importanti. Ma al di là del Bosforo il paganesimo continuava a pulsare, in quel subcontinente che aveva sempre opposto la sua massa critica al razionalismo ellenico: l'Asia Minore, o Anatolia.
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Efeso, Turchia: il sito si trova in quello che un tempo era l'estuario del fiume Kestros. Comprende insediamenti ellenici e romani. A Efeso fu costruito il tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo antico, di cui oggi rimane ben poco.[/caption] |
Buona parte della manovalanza che aveva costruito la città e ci era rimasta ad abitare veniva là, e non avrebbe rinnegato così presto Artemide, la grande Madre degli Efesini, cinta di innumerevoli mammelle (secondo alcuni sono testicoli di toro: insomma simboli di fecondità, irrimediabilmente pagani). I discendenti degli antichi bizantini non avrebbero dimenticato volentieri Ecate, antica protettrice della città, che durante l'assedio del 340 aC, spuntando dalle nuvole con la sua luna crescente aveva protetto la città dall'incursione notturna di Filippo il Macedone. A Nestorio non si poteva rispondere così: e però il concilio che si riunì nel 431 per sconfessare le sue idee fu convocato da Costantino proprio a Efeso, di tutte le città disponibili. I seguaci di Nestorio si rifugiarono oltre il confine orientale dell'impero, riuscendo a imporre le proprie idee (più estreme di quelle del loro patriarca) sulla Chiesa persiana. La Nuova Roma, sempre più conosciuta come Costantinopoli, si consacrò alla Madre di Dio. Nessuna reliquia era venerata come il Maphorion, il manto della vergine (ma i costantinopolitani conservavano anche qualche goccio del suo latte materno). Le basiliche più importanti non furono dedicate a martiri in carne e ossa, come nella Roma occidentale, ma a concetti personificati e di sesso femminile: la "Santa Pace" (Sant'Irene) e soprattutto la Sapienza di Dio: Santa Sofia.
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L'interno della basilica di Santa Sofia, il 2 luglio 2020 (Chris McGrath/Getty Images) |
Il fatto che questa Quasi Divinità femminile non somigliasse molto alla Maria di Nazareth storica tratteggiata nei vangeli era stato superato includendo nel Nuovo Testamento un testo ben poco simile agli altri: l'Apocalisse attribuita a San Giovanni. La "donna rivestita del sole, con la luna sotto i piedi e una corona di dodici stelle sul capo", che "grida per le doglie e il travaglio del parto", destinata a partorire "un figlio maschio, il quale deve reggere tutte le nazioni con una verga di ferro" è un'immagine di maternità regale che ci è possibile ritrovare anche a due millenni di distanza, e non soltanto nelle raffigurazioni mariane. Lo Pseudo-Giovanni del resto scriveva nel mediterraneo già globalizzato del secondo secolo, mescolando simboli già rimasticati. Una donna abbinata alla luna non poteva che rammentare una dea lunare, non una in particolare ma un po' tutte: Artemide (luna crescente), Selene (luna piena), Ecate (luna calante, anch'essa di origine anatolica e spesso raffigurata una e triplice: celeste, terrestre e marina). La posizione della luna sotto i piedi lascia immaginare che la Donna abbia sostituito la stella del mattino in un simbolo già frequente sulle monete persiane e anatoliche. Lo Pseudo-Giovanni aggiunge però sul suo capo dodici stelle, chiaro riferimento alle dodici tribù del popolo d'Israele. Si incontrano così nella sua visione tre immagini che avrebbero proseguito i loro percorsi fino ad arrivare alla contemporaneità: la mezzaluna protettrice di Bisanzio, rivendicata dai conquistatori ottomani, sulle bandiere moderne delle nazioni musulmane; le dodici stelle, sulla bandiera del Consiglio d'Europa (e poi dell'UE). Persino la Donna del cielo è stata sventolata almeno una volta su una bandiera, durante la rivoluzione messicana. Ma in generale preferisce riapparire nelle visioni mistiche, soprattutto da Lourdes in poi. Buon anno a tutti (ma soprattutto a tutte).
Lennon voleva vivere. Ci stava riuscendo.
07-12-2020, 13:25anniversari, beatles, coccodrilli, miti, musica, santiPermalinkI posteri si domanderanno se John Lennon abbia veramente posato i piedi sulla nostra stessa terra. Dopotutto Edipo è un mito; Buddha e Gesù Cristo sono personaggi più leggendari che storici; ma un figlio di un marinaio nato sotto i bombardamenti, squartato emotivamente da un padre che lo vuole in Nuova Zelanda e una madre che lo affida alla sorella; cresciuto da donne, poi orfano; ragazzo terribile in pantaloni attillati; giovane padre, chitarrista cantante e compositore pop, idolo delle teenager e del suo manager omosessuale; tossicomane, poi artista concettuale, leader pacifista sotto inchiesta federale, poeta maledetto, avvistatore di Ufo, rockstar in congedo permanente, morto per mano di un fan? Nessun mitografo o evangelista o romanziere postmoderno sarebbe riuscito a inventarsi un personaggio così. Eppure, alla fine era soprattutto un ragazzo che diceva quel che provava, come noi evitiamo di fare il più delle volte perché proviamo cose orribili o anche solo imbarazzanti... (Da Getting Better, un libro sulle canzoni dei Beatles che i lettori del Post hanno potuto osservare mentre si stava scrivendo).
8 dicembre: John Lennon, musicista, profeta e martire
Buongiorno a tutti, mi chiamo Leonardo e sono l'orgoglioso titolare di un blog sul Post in cui tratto i santi del calendario come se fossero rockstar e le rockstar come se fossero santi del calendario. Nell'imminenza del quarantennale dell'omicidio assurdo che ha concluso la storia dei Beatles, posso esimermi dallo scrivere un pezzo in cui definisco John Lennon un martire, una figura addirittura cristologica, il divo che muore per i peccati dei babyboomer? Ho anche un libro in uscita, tengo famiglia, eccetera. E allora perché esito? Cosa mi trattiene? È complicato.
O forse no. C'è che fino a un certo punto era abbastanza facile incasellare i morti illustri del rock, geni vittima della loro sregolatezza. Quasi sempre si tratta di droga, per cui il coccodrillo si scrive da solo: ha voluto vivere troppo intensamente, la candela più grande brucia più rapidamente ecc. ecc. Con Lennon questo appiglio non c'è. Di sostanze fu un appassionato sperimentatore, ma oltre a essere spesso tra i primi a farne uso, fu anche tra i primi a lasciarsene alle spalle. Di vivere intensamente gli era capitato per qualche anno e aveva capito abbastanza presto che non gli piaceva. Il che non significa che la sua morte sia più assurda di altre. È anzi molto facile darle un senso. Ma è più o meno il senso che voleva dargli il suo assassino. È possibile scrivere dell'omicidio di Lennon senza tributare un omaggio a quell'individuo, che alla fine voleva semplicemente scribacchiare il suo nome sul Libro del Novecento, a costo di farlo col sangue, e c'è riuscito?
Riguardando al passato di Lennon, la sua fine tragica non stupisce, sembra quasi ineluttabile: a stupire è la lentezza con cui si compie. Quindici anni prima, davanti a una giornalista che lo era andato a trovare nel suo villino fuori Londra, il ventenne all'apice della fama si era lasciato sfuggire che i Beatles stavano diventando più popolari di Gesù Cristo. Era quel classico tipo di battuta lennoniana, paradossale ma non troppo, che i lettori inglesi ormai si aspettavano da lui: in patria passò quasi inosservata. Quando qualche settimana fu ripresa dalla stampa americana, causò uno di quei fenomeni che oggi chiamiamo shitstorm, e che sì, scoppiavano anche nei beati giorni pre-social network. Negli USA la battuta doveva suonare tanto più insopportabile quanto nascondeva un germe di verità: anche nelle comunità rurali il cristianesimo stava declinando, soppiantato da un consumismo globalizzato di cui Lennon e colleghi erano i profeti più rassicuranti e subdoli. Il consumismo avrebbe unificato l'occidente, gettando radici anche in alcuni Paesi dell'estremo oriente dove Cristo non era mai attecchito. Lennon aveva detto una verità, improvvisando: forse non diversamente da Gesù di Nazareth quando aveva annunciato la distruzione del Tempio: e come Gesù, per aver detto la verità, doveva morire.
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Una foto dei Beatles viene bruciata per protestare contro John Lennon che nel marzo del 1966 aveva detto alla rivista Evening Standard che i Beatles erano più famosi di Gesù. Alcune radio degli Stati Uniti si rifiutarono di passare la loro musica e vennero organizzati piccoli falò dei loro dischi e delle loro foto, come questo fatto da Chuck Smith, un ragazzino di 13 anni, a Fort Oglethorpe, in Georgia, il 12 agosto del 1966. |
Come capita quasi sempre in questi casi, l'indignazione collettiva nasconde uno choc culturale: Lennon, che a quel punto vendeva molti più dischi in America che in Europa, credeva forse attraverso il r'n'r di aver capito la cultura americana, ma ne ignorava alcuni tabù. Scherzare su Gesù Cristo era concesso in Inghilterra: non nell'America profonda, dove furono segnalati roghi dei dischi dei Beatles. Malgrado le scuse pubbliche, recitate da un John sinceramente contrito, il tour americano si trasformò un incubo logistico: è il momento in cui il fanatismo suscitato dai Quattro svela il suo lato minaccioso. Brian Epstein si accorge che garantire la sicurezza dei Quattro in un'America ancora più armata di quella di oggi è praticamente impossibile. Prima o poi era scritto che un fan più scoppiato o deluso degli altri avrebbe estratto una pistola. Cosa che inevitabilmente successe: e se non fu subito ma ben quindici anni più tardi, fu soltanto per l'insospettabile testardaggine con cui Lennon scelse di sopravvivere, ogni volta che gli fu possibile scegliere tra diventare un mito e restare tra i vivi.
Due anni dopo, un Lennon già molto diverso, consumatore ormai abituale di LSD, ha un'illuminazione e la confessa immediatamente al vecchio amico Pete Shotton. "Penso di essere Gesù Cristo. No, aspetta, sono Gesù Cristo". All'inizio Pete crede a uno scherzo, ma Lennon è serio. Ha già calcolato mentalmente quanto gli resta da vivere: se Cristo è morto a 33 anni... "Mi uccideranno, sai? Ma ho ancora quattro anni, quindi devo fare cose". Lo stesso giorno convoca i colleghi a una riunione di emergenza. "Sono Gesù Cristo", avverte. "Sono tornato. Questo è quanto". Nessuno è molto sorpreso. "Va bene", risponde Ringo sospirando (o sbadigliando?) "Riunione aggiornata, andiamo a pranzo". Quella sera, per una delle coincidenze incredibili della sua biografia, Lennon invita Yoko Ono a casa sua. Si frequentavano già, ma quella notte è diversa. La passano a urlare: registrano Two Virgins. Non si lasceranno praticamente più.

Come il Cristo dell'Ultima tentazione di Scorsese, che quando la croce è già allestita dice no, e si rifà una vita con Maria Maddalena: dopo aver flirtato con l'autodistruzione (e introdotto sin dal 1964 un argomento tabù come la morte nei testi di un gruppo pop da classifica), quando il destino comincia a bussare Lennon fa tutto quello che gli è consentito per eluderlo. Quando i concerti diventano troppo rischiosi, Lennon smette di farli. Il sodalizio affettivo e artistico con Yoko Ono gli consente di distruggere la sua immagine pubblica di beatle, emotivamente insostenibile. Trova asilo a New York, nell'America libertaria che forse si illudeva avrebbe trionfato sul Midwest rurale che lo aveva respinto, in quella palingenesi rivoluzionaria che a fine Sessanta tutti ritenevano imminente. Quando diventa chiaro che la rivoluzione non si fa, Lennon capisce di nuovo di essere troppo esposto (la FBI ha aperto un fascicolo su di lui) e rinuncia anche al suo status di artista rivoluzionario. Si prende, col consenso della moglie, una vacanza dalla vita: è il cosiddetto lost weekend, trascorso a bere e scopare come la rockstar decadente che dopotutto aveva il diritto di essere. Avrebbe potuto restarci secco così: sarebbe stata una fine che tutti avremmo percepito come inevitabile, e invece no; anche stavolta Lennon riesce a fare un passo più lungo. Torna da Yoko, e vive con lei gli anni tranquilli e misteriosi del buen ritiro nel Dakota Building, l'ultima tappa di una lunga fuga cominciata dieci anni prima. A quel punto Lennon non era più una rockstar, né un profeta, né un rivoluzionario, né un artista: forse per la prima volta nella sua vita un uomo libero, un casalingo con un figlio da crescere. Il tragico destino che aspettava il successore di Cristo sembrava essersi allontanato per sempre – e invece era lì, paziente, acquattato all'uscita. Sarebbe stato sufficiente cedere a un richiamo naturale: rimettersi a cantare, incidere un disco, promuoverlo sui giornali e fare tutte le cose banali che i cantanti fanno, come firmare gli autografi, perché dal passato arrivasse questa scheggia impazzita che si portava tutte le frustrazioni accumulate in quindici anni, con una pistola in mano.

San Carlo non era un cretino (e noi?)
07-11-2020, 02:25autocritiche, Chiesa, epidemia 2020, santiPermalinkTra i pezzi sui santi che non ho ancora rimesso a posto c'è quello su Carlo Borromeo, che dovrei proprio riscrivere da capo. Per quanto il tizio mi sia antipatico (quanto può esserlo un amministratore milanese assai bigotto) (cioè tantissimo) devo ammettere che sono stato molto più ingiusto con lui che con altri. Nel Borromeo mi sono sforzato di vedere l'anticipatore di quella che
"i teocrati milanesi di oggi chiamano “sussidiarietà”: dove lo Stato non arriva ci pensa la Compagnia, per cui è una fortuna che lo Stato non arrivi quasi mai a combinare nulla di concreto. Nel caso della peste lo Stato si adopra così poco, e Carlo così tanto, che l’epidemia viene onorata del suo nome, e ancora oggi la si chiama “peste di San Carlo”.
Fin qui se ne poteva ancora discutere: in fondo non era colpa di Carlo se gli amministratori spagnoli abbandonarono Milano a sé stessa; il problema è quel che soggiungevo:
Per i suoi detrattori, la peste merita ugualmente di essere chiamata di San Carlo perché senza di lui probabilmente sarebbe durata molto meno: senza la sua mania di convocare oceaniche processioni, formidabili occasioni per la diffusione del morbo, ci sarebbero state assai meno vittime, assai meno occasioni per dimostrare l’abnegazione del cardinale. Va bene, per l’epidemiologia era ancora molto presto, ma l’osservazione che le adunate di popolo facilitavano il contagio era già condivisa da dotti e sapienti, e Borromeo se ne fregava: aveva il suo Sacro Chiodo da far sfilare, tra i mucchietti di vittime del giorno; e se non avesse funzionato, si poteva pure bruciare qualche untorella.
E qui, davvero, stavo giocando sporco. Non risultano untorelle bruciate sul rogo a Milano durante la peste di San Carlo, anche se almeno un poveraccio lo impiccarono con un'accusa del genere. D'altro canto quando c'era una donna da condannare al rogo con l'accusa di stregoneria il cardinale non si tirava certo indietro, anzi: in almeno un'occasione dovettero intervenire il Papa e l'inquisizione per... fermarlo, perché secondo Carlo accuse del genere erano troppo gravi per garantire un giusto processo. Ma nel caso della peste del 1576, il mio vecchio pezzo travisa completamente l'atteggiamento assunto dal Borromeo. È vero, che le adunate di popolo facilitassero il contagio era già un'osservazione condivisa; è vero, Borromeo ritenne giusto organizzare comunque delle processioni, ma nell'occasione prese precauzioni che a distanza di quattro secoli facciamo fatica a prendere noi. La processione che portò il Sacro Chiodo in giro per la città il 5 ottobre era composta di soli uomini: donne e minori di 15 anni, che risultavano maggiormente soggetti al contagio, erano in lockdown domiciliare dal primo ottobre. Tra un partecipante e l'altro, un distanziamento di tre metri, che considerati i modi spicci dei birri del tempo era probabilmente rispettato (noi oggi a più di un metro di distanza non riusciamo a stare, neanche in coda in farmacia).
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Il pittore (Fiamminghino) ha l'aria di non aver mai assistito a un lockdown in vita sua. |
Altre direttive del Borromeo ai suoi sottoposti fanno intuire che una rudimentale scienza epidemiologica esistesse già, anche in mancanza di microscopi e del concetto di virus. Dando un'occhiata un po' più da vicino al suo caso, mi sono accorto di quanto somigliasse al terremoto estense di qualche anno prima: anche in quel caso accanto a risposte completamente irrazionali, c'era già chi basandosi sui fatti formulava proposte operative che funzionano ancora oggi. Non erano tutti cretini nel Cinquecento, così come non lo siamo noi del Duemila che in teoria abbiamo ancora meno scuse. Carlo visitava i malati come il suo ruolo imponeva, ma si portava una lunga bacchetta per tenerli a distanza: tra una visita e l'altra faceva bollire i vestiti (quindi l'idea che qualcosa di minuscolo non resistesse alle forti temperature c'era già: al limite le pulci). Altri strumenti, in un mondo senza alcool distillato, erano la spugna d'aceto e le candele su cui passare le mani dopo aver distribuito l'eucarestia. Certo, era pur sempre un uomo di fede e di una fede rigida, arcigna: eppure non si oppose alla decisione del Tribunale di Sanità di prolungare il lockdown oltre il giorno di Natale, malgrado già a metà dicembre la curva dei contagi fosse scesa. Diede anche disposizione perché i sacerdoti benedicessero le abitazioni dalla strada, senza entrarvi. Insomma l'immagine fortissima della basilica di San Pietro vuota durante la pasqua del 2020 non è, come credevo, una completa novità storica. Persino nel periodo più cupo della Controriforma, un cardinale intransigente sapeva quand'era ora di chiudere le chiese, e che oltre a sperare in Dio bisognava anche stare in casa il più possibile. Il lockdown sarebbe durato fino a febbraio. Tutto sommato, un successo, se si confronta per esempio il numero pur ingente di vittime (17000) con quanti ne morirono per lo stesso morbo a Venezia (70000).
Tutto questo quando mi misi a scrivere il pezzo su San Carlo non lo sapevo, il che non mi scusa: avrei potuto almeno arrivarci via Manzoni. La peste che lui descrive arriva cinquant'anni dopo – il mezzo secolo che noi italiani siamo abituati a considerare come il trionfo dell'oscurantismo, quello in cui si processano Bruno e Galilei. Tutto giusto, eppure in capo a questo mezzo secolo, quando i milanesi chiedono al nuovo cardinale Borromeo di portare in processione le spoglie del vecchio, Federigo si mostra tutt'altro che entusiasta. "Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l'effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo. Temeva di più, che, se pur c'era di questi untori, la processione fosse un'occasion troppo comoda al delitto: se non ce n'era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale".
Le autorità però insistono e alla fine Federigo cede. Dopo tre giorni di preparativi, una parata in grande stile percorre Milano. Il "venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio" viene scorrazzato per la città con molte meno precauzioni di quante aveva voluto prendere da vivo: la processione si ferma a tutti i crocicchi in cui il vecchio cardinale aveva fatto erigere delle croci per le celebrazioni religiose all'aperto. Questa cosa per me rappresenta un'ironia micidiale: Carlo che da vivo aveva lottato contro il contagio, da morto diventa un feticcio che guida i milanesi nell'opposta direzione: i simboli del distanziamento sociale che da vivo aveva disseminato per la città diventano dopo cinquant'anni i luoghi di assembramento intorno al suo cadavere. "Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto, regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l'occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d'un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all'infinita moltiplicazione de' contatti fortuiti, attribuivano i più quell'effetto; l'attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d'eseguire in grande il loro empio disegno".
Insomma San Carlo poteva essere un oscurantista misogino: ma non un cretino. Nemmeno suo nipote Federigo. Il che non significa che cretini non ce ne fossero anche a quei tempi; e ancor più dei cretini tanta gente in buona fede ma un po' troppo disposta a credere a quel che vuole, e quel che vuole è sempre una versione dei fatti semplificata, rassicurante, e qualche volta foriera di disastri. A Milano, nel 1576, per partecipare a un corteo serviva un distanziamento di tre metri; cinquecento anni dopo, ci capita ancora di doverne spiegare il perché, a gente che non se ne convince. San Carlo non era un cretino: noi ci arrangiamo.
Col mio cuore vincerai
16-10-2020, 02:07Francia, repliche, santiPermalink![]() |
La bandiera offerta al colonnello de Charette non era probabilmente un tricolore, ma uno stendardo bianco. |
16 ottobre - Santa Marguerite-Marie Alacoque, veneratrice del Sacro Cuore di Gesù.
[2012]. Nell'autunno del 1870 Parigi è assediata, la Francia è fottuta. Appena nominato comandante di una delle legioni di volontari formate nel tentativo, ormai disperato, di spezzare l'assedio prussiano, il colonnello Athanase de Charette riceve la visita di un Monsieur Dupont qualsiasi, che viene da Tours a portargli il dono più prezioso: uno stendardo con il Sacro Cuore di Gesù, recante il motto Cuore di Gesù, salvate la Francia. Era stato l'abate di Musy a concepirlo, e a farlo cucire dalle suore di Paray-le-Monial. In origine era previsto che Dupont lo portasse al comandante della piazza di Parigi, ma la città era ormai irraggiungibile. Mentre cercava un sistema per passare, Dupont incocciò nei volontari di de Charette, e l'incontro gli parve provvidenziale. Tra loro vi erano 300 zuavi che avevano appena difeso (male) Roma dall'attacco sabaudo: fuggiti dopo la breccia a Porta Pia, nel giro di un mese erano già sul fronte francoprussiano, pronti per una nuova sconfitta. Prima però accettarono di farsi consacrare al Sacro Cuore di Gesù, "l'unico vero re di Francia". La Francia per la verità era appena ridiventata una Repubblica (la terza), dopo la fuga di Napoleone III e l'ingloriosa fine dell'Impero (il secondo). Ma la situazione era un caos, a Parigi incubava lo spettro della prima rivoluzione comunista, che sarebbe scoppiata di lì a pochi mesi, tutt'intorno i prussiani dilagavano, e più indietro ancora i legionari accanto al tricolore sventolavano il Sacro Cuore. Di Gesù. Un muscolo cardiaco raffigurato solitamente con un certo realismo, avvolto in un rovo spinoso, e sormontato da una croce. Che razza di brand. Chi lo aveva inventato?
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Pompeo Batoni, 1760 (chiesa del Gesù, Roma). Una vita a far ritratti, e l'unico di cui tutti si ricordano è un santino. |
È una storia lunga. Monaci e suore devoti al Sacro Cuore ce n'è stati per tutto il medioevo. Il cuore in questione però non era ancora esattamente il nostro: oltre a rappresentare l'affettività, era considerato la sede delle facoltà intellettive. Ma era ancora un cuore perlopiù astratto, nelle miniature rassomigliante più a una fiamma che a una pompa cardiaca. Che ne sapevano, in fondo, nel medioevo, del cuore? quel che potevano dedurre macellando altri animali: autopsie e dissezioni del corpo umano erano atti sacrileghi. Il vero e proprio culto del Sacro Cuore nasce in epoca moderna, quando ormai il cuore si è capito cos'è, quanti atri ha, quanti ventricoli. È una specie di sfida cattolica alla scienza medica: tu dici che il cuore è solo una pompa? Ebbene, dal Seicento in poi i mistici si metteranno a sognare pompe cardiache, i pittori a raffigurarle nei quadri, i combattenti a esporle nei loro stendardi. Il realismo - nei limiti dell'abilità degli artisti - è causato dalla necessità di negare qualsiasi stilizzazione simbolica: il Sacro Cuore non è un simbolo, è semplicemente e trionfalmente il muscolo cardiaco di Nostro Signore Gesù Cristo, sanguinante per i nostri peccati. Come nel quadro di Batoni, che abbiamo tutti visto almeno una volta nella vita senza saperlo (è uno dei quadri semisconosciuti più famosi del mondo), molto spesso è Nostro Signore stesso a mostrarlo, esattamente come lo vide nel maggio del 1675 una suora del convento di Paray-le-Monial, Marguerite-Marie Alacoque.
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Antonio Ciseri (1888) lo fa sembrare un tatuaggio, per me è un no. |
Dopodiché domandò il mio cuore, che io lo pregai di prendere, ciò che fece, e lo mise nel suo, adorabile, all'interno del quale me lo fece vedere come un piccolo atomo che si consumava in questa fornace ardente..." basta, tanto non sta più leggendo nessuno. Un simile scambio di cuori era stato descritto da una monaca tre secoli prima: ma la novità di un cuore-atomo che si vaporizza in una fornace ci suggerisce che persino l'immaginario delle suore di clausura, il luogo che immagineremmo più refrattario all'innovazione, lentamente si rinnovi.
Così come dietro ogni grande uomo c'è (quasi sempre) una grande donna, dietro a una mistica di successo c'è sempre un prelato che ne ha capito le potenzialità. Nel caso di Marguerite-Marie, fu Padre Claude La Colombière, anche lui più tardi proclamato santo (da Giovanni Paolo II). Padre Claude era un gesuita, e gesuitico fin da subito fu il tentativo di trasformare il Sacro Cuore nel brand più fortunato della Controriforma francese. Come ogni bandiera, il Sacro Cuore per trionfare aveva bisogno di sconfiggere qualche nemico in battaglia: nei primi cent'anni il nemico furono i giansenisti, una corrente teologica che rifacendosi ad Agostino aveva elaborato una dottrina della Grazia pericolosamente vicina a quella protestante. I giansenisti portavano avanti un cristianesimo austero e intellettuale, che due secoli dopo avrebbe attirato Manzoni, se vi ricordate negli appunti della maturità sotto Manzoni c'era una freccina che puntava verso "giansenismo". I giansenisti, di fronte a questo nuovo culto del Sacro Cuore, reagirono prevedibilmente storcendo il naso: sapeva di idolatria, di paganesimo, e poi insomma siamo nel diciassettesimo secolo, sappiamo tutti che il cuore è una pompa, via. Vien quasi da pensare che i gesuiti lo facessero apposta, a sventolare quel simbolo simil-pagano, continuando gesuitescamente a insistere che non era affatto un simbolo, ma il vero Cuore di Gesù, da adorare in tutti suoi atri e ventricoli e reticoli venosi. Con il cuore però si difendeva l'idea di un Gesù buono, misericordioso, disposto a perdonare i peccati a chiunque si fosse arruolato nelle sue schiere: il Gesù gesuita, insomma. I giansenisti furono più volte condannati per eresia, il Sacro Cuore si conquistò la sua festa (mobile) sul calendario (19 giorni dopo la Pentecoste).
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Questa invece è una bandiera quebecchese (dei canadesi di lingua francese) |
Riprese a battere con vigore nell'Ottocento, ancora una volta impugnato come stendardo contro un nemico: non più il giansenismo, ma la rivoluzione (anche se ai ribelli della Vandea, i primi a metterlo sulla bandiera, non aveva portato troppa fortuna). L'idea che il cuore di Gesù sanguini per i peccati della Francia rivoluzionaria si fa strada soprattutto durante il disastro del 1870: rileggendo le lettere di Marie-Marguerite (beatificata quattro anni prima da Pio IX) ci si accorge che nella visione del 1675 il Sacro Cuore aveva espressamente richiesto di essere dipinto "su tutti gli stendardi" del nuovo re di Francia: il giovanissimo Luigi XIV. L'entourage di Marie-Marguerite aveva effettivamente mandato una petizione a Versailles, ma probabilmente la richiesta non era mai arrivata all'attenzione del Re Sole. Evidentemente il Sacro Cuore se l'era presa male e, 150 anni più tardi, aveva inviato la tempesta rivoluzionaria sulla casa Borbone. Poi, siccome l'empietà dei francesi perdurava, aveva insistito mandando, un secolo dopo, i prussiani. Per salvarsi non restava che pentirsi e consacrare la Francia intera al Sacro Cuore di Gesù, magari costruendo un'enorme basilica in un luogo che sovrastasse la capitale, e magari sostituendo al tricolore lo stendardo del muscolo cardiaco. Questo tentativo antico e postmoderno di riscrivere tutta la storia delle rivoluzioni francesi come una serie di punizioni divine culmina con la battaglia di Loigny, dove i volontari di de Charette si battono come martiri, indossando scapolari del Sacro Cuore e massacrando effettivi prussiani al grido di "Sacro Cuore Salvaci!", "Viva la Francia", "Viva Pio Nono". Vincono? No.
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RESTA! quella parte di me, quella più quella più vicina al nulla (scusate). |
Tanto ormai la guerra è persa. Tre anni dopo viene posata la prima pietra della basilica del Sacro Cuore a Montmartre, in espiazione per i sacrilegi commessi durante la Comune. Sarà consacrata soltanto nel 1919. Il Cuore avvolto nelle spine e sormontato da una croce continua a essere uno degli stendardi della Francia reazionaria e cattolica, quella che oltre confine si conosce meno. Ciò che è da noi il crocefisso. Quando in Italia qualche teocon, con l'arroganza dei neofiti, propone di cucire il crocefisso sulla bandiera, in Francia qualcuno, come una corda che vibra per simpatia, butta lì una foto col Sacro Cuore sul tricolore blu-bianco-rosso. Segue dibattito, perché per molti il tricolore è ancora una creatura massonica e satanica, e l'idea di cucirci sopra la pompa cardiaca di Nostro Signore può risultare un sacrilegio. E così via. Nel frattempo il Sacro Cuore ha riscosso successi in tutto il mondo: dopo la Francia (consacrata al S. C. nel 1873 in seguito a un pellegrinaggio di una cinquantina di parlamentari a Paray-le-Monial), anche l'Ecuador si consacrò qualche mese dopo, per decisione del suo Presidente. Alla fine, su insistenza di un'altra religiosa, Leone XIII consacrò al Sacro Cuore tutti i cristiani in una volta sola. Nel Novecento l'iniziativa passò all'altro Cuore, quello Immacolato di Maria, che attraverso i pastorelli di Fatima chiese per sé la consacrazione della Russia, proprio nel momento più complicato, il 1917. Oggi cuori se ne vedono un po' dappertutto, sono parte del paesaggio. Insomma il brand ha funzionato, padre Claude aveva visto giusto. E tuttavia è sempre più un cuore di plastica, un simbolo astratto: non quel muscolo palpitante che Marguerite-Marie aveva visto atomizzare il suo. Il quadro di Batoni, a vederlo con occhi vergini, ha un che di surrealista: non era un'idea, non era un simbolo, era davvero un uomo di carne, con un cuore di carne in mano. Questa idea della carne, la afferriamo sempre meno. Non è solo l'agnosticismo moderno, è che stiamo diventando sempre meno palpabili, sempre più virtuali, simboli di noi stessi: e davanti a un cuore di carne non sappiamo veramente cosa dire. Ci aspettiamo che rappresenti qualcosa, un'idea, uno stile, un brand, qualsiasi cosa: è impossibile che sia tutto lì, due atri e due ventricoli, una pompa. Forse siamo troppo astratti per il cristianesimo.
L'esercito delle 150 rose
07-10-2020, 01:14madonne, repliche, santiPermalink7 ottobre - Madonna del Rosario
[2011]. Quante Avemarie ci sono in un rosario? Ok, "questa la so": cinquanta. No, non proprio. Certo, nella collanina del rosario ci sono cinquanta chicchi piccoli, e a ogni chicco piccolo corrisponde un'Avemaria. Ma il rosario completo, quello da beghina seria, prevedeva tre giri di collana, per un totale di centocinquanta Ave, quindici Pater e quindici Gloria (ne parlo al passato perché con Wojtyla, sempre abbondante, siamo passati rispettivamente a 200 Ave, 20 Pater, 20 Gloria). E perché proprio 150? Siccome è l'esatto numero di Salmi della Bibbia, l'ipotesi è che il rosario sia nato nel Medioevo come rito sostitutivo, per devoti analfabeti che non avrebbero potuto leggere il salterio. E questo ci dice qualcosa sul cattolicesimo.
Prendiamo un musulmano, un protestante e un cattolico. Il primo ha un libro sacro, ma spesso non sa leggerlo: quindi lo impara a memoria. In arabo. Altrimenti non sarebbe un buon musulmano. Il secondo ha un libro sacro, ma non riesce a impararlo a memoria, in una lingua che oltretutto non parla più da secoli: quindi impara a leggere. Così può essere un buon protestante. E il cattolico? Anche lui ha un libro. Ma studiarlo a memoria è troppa fatica. Imparare a leggere? Non se ne parla. E quindi? E quindi invece di leggere guardi le figure - le chiese ne sono piene - e al posto di ogni salmo che non hai imparato a memoria, reciti la stessa preghierina. Breve. Semplice. Pratico.
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Santa Vergine, dacci l'Eurobond! |
In pratica il Papa aveva introdotto il televoto: un mantra che annulla la tua identità ma ti rende protagonista delle grandi svolte storiche. Altro che Gianandrea Doria! A sconfiggere i feroci turchi sei stata proprio tu, vecchietta analfabeta, li hai battuti tu gli infedeli saraceni, al ritmo impareggiabile di 6 avemarie al minuto (fanno 5 rosari all'ora, al netto di misteri e litanie) che nessun muezzin di Istanbul evidentemente poteva reggere. Da lì a poco la Madonna del Rosario si insedia a Pompei, diventando meta di pellegrinaggi di massa che continuano tuttora, specie in ottobre e in maggio.
Sempre a Pompei un allievo di Luca Giordano la ritrae coronata di dodici stelle, come la misteriosa donna che nell'Apocalisse compare "vestita di sole" in piedi sulla luna. Quelle dodici stelle in cerchio richiamano effettivamente un po' il rosario, ma in realtà nessuno sa esattamente cosa rappresentino: le dodici tribù di Israele? I dodici apostoli? Insomma, la donna misteriosa sarebbe la Chiesa che si espande nel mondo? Potrebbe darsi. La cosa curiosa è che quelle dodici stelle, dipinte a Pompei su uno sfondo blu, assomigliano terribilmente a...
...esatto. Vedi cosa succede ad andar per rosari. Siamo inciampati nelle famigerate radici cristiane dell'Unione europea!Non è possibile, direte voi. Sarà solo una coincidenza. Tanto più che le dodici stelle della bandiera europea hanno una storia diversa, no? Già, a proposito, perché ci sono dodici stelle nella bandiera europea? Ecco, non è affatto chiaro.
Va detto che né il Consiglio d'Europa, che issò per primo il vessillo a dodici stelle, né l'Unione che lo copiò, erano composti da dodici membri quando lo adottarono come simbolo. All'inizio il Consiglio di membri ne aveva quindici, salvo che uno era il Saarland, una piccola regione della Germania che nell'immediato dopoguerra era amministrata dai francesi e di cui non era ancora chiaro il destino: raffigurarla con una stella su una bandiera internazionale poteva apparire come un passo ulteriore verso la definitiva separazione dalla Repubblica Federale Tedesca. Quindici no, insomma. Ma non è comunque chiaro perché non quattordici. Tredici men che meno (oltre alla sfortuna, è veramente difficile da disegnare, un circolo di tredici stelle), e quindi, insomma, dodici. Proprio come la Madonna, che coincidenza. Ma un cattolico non metterebbe mai "Madonna" e "coincidenza" nella stessa frase. Ed ecco l'autore del bozzetto della bandiera, Arsène Heitz, rivelare ai giornalisti cattolici di essere un devoto mariano, e di essersi ispirato a una medaglietta mariana che portava sul petto; ecco fiorire leggende intorno a Paul Lévy, politico belga di origine ebraiche, sopravvissuto a Dachau, convertitosi al cattolicesimo, che davanti a un'immagine della Vergine ha un'illuminazione: ma come stanno bene dodici stelle gialle in campo blu. E appena vede il bozzetto di Heitz fa di tutto affinché i colleghi lo approvino. Ma c'è di più: per la gioia di tutti i Teocon presenti e futuri il Consiglio decise ufficialmente di approvare il suo vessillo l'otto dicembre 1955, festa dell'Immacolata Concezione. Insomma, sarà anche una coincidenza, ma la donna misteriosa vestita di sole e in piedi sulla luna che sconfisse i turchi a Lepanto sembra aver posato la testolina anche a Bruxelles. A pensarci bene è un po' inquietante.
Siamo tutti Francesco? (No, ma ci piacerebbe)
04-10-2020, 13:34cinema, repliche, santiPermalink4 ottobre - San Francesco d'Assisi (1182-1226)
[Anche questo è un pezzo molto antico 2011!, che ho sempre trovato insoddisfacente, ma per farlo meglio dovrei buttarmi sul serio sulle Fonti Francescane e non ho il tempo, probabilmente non l'avrò mai. Aggiungo solo che il ritratto di Cimabue non è esattamente il più antico, ce n'è credo un altro a Bologna].
Che dire di San Francesco, patrono degli italiani e (coincidenza inquietante) degli animali? Primo grandissimo poeta della letteratura italiana, con quel Cantico delle creature pieno di k che piacciono ai giovani? Ce ne sarebbe da scriverci un libro. Ma lo hanno già fatto in tanti. E anche a proposito dei libri su San Francesco si potrebbe scrivere un libro. Ma hanno già fatto anche questo. Quindi a questo punto che si fa?
In San Francesco al massimo ci si può specchiare. Nel senso che è uno di quei personaggi così popolari che ormai mille narrazioni diverse ne hanno levigato l'immagine fino a farla diventare una superficie specchiante. Per esempio io, se penso al mio San Francesco, lo vedo ormai un po' datato; ma non datato al dodicesimo secolo; piuttosto agli anni Settanta, che sono quelli in cui sono cresciuto leggendo anche la bio a fumetti di San Francesco sul Piccolo Missionario; guardando il film di Zeffirelli (la cosa più gay che si poteva proiettare in un cinema parrocchiale); cantando le canzoni di Forza Venite Gente, il più fortunato musical da oratorio della storia (brevissima) dei musical da oratorio.
Insomma che Francesco era il mio Francesco'70? Un fricchettone. Però di buona famiglia. Zeffirelli lo aveva capito benissimo, e la parte più interessante del suo film probabilmente è quella in cui la famiglia lo tratta un po' come si trattavano i figli da disintossicare, che fanno il gioco del silenzio e ti abbracciano, poi un mattino te li trovi sul tetto, “guarda mamma adesso volo”
“Va bene, adesso mi dite chi è che continua a vendergli le pasticche”.
E prima o poi – come tutti gli eroi medievali di Zeffirelli – ti mostra angelico il culo. Erano tempi così. La colonna sonora, tutti lo sanno, la canta Baglioni. Invece non tutti sanno che in originale era di Donovan, esatto, sì, Dolce Sentire è Baglioni che canta su Donovan, e finì nei canzonieri liturgici, avete presente, quelli posati sui banchi di chiesa, con Noi vogliam Dio e Symbolum '77 (Tu sei la mia vita / altro io non ho). Si cantava di regola durante la comunione. Non che nessuna autorità ecclesiastica l'abbia mai omologata, ma i preti facevano finta di niente, erano anni così. Pur di avere giovani in chiesa avrebbero aperto le porte anche ai Black Sabbath.
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Il culo era proprio un selling point. |
Cioè, capite, Mickey Rourke. Agli altri santi, quando va bene, affibbiano Castellitto (quando va male Beppe Fiorello).
Però è finita anche quella fase – e pensando a Mickey, oserei dire che non è finita bene. A questo punto mi domando con che Francesco stiano crescendo i ragazzini di oggi. Esce ancora il Piccolo Missionario? Ok, il Francesco ambientalista funzionerà sempre, ma è plausibile, mi chiedo, un Francesco teocon? Perché no, dopotutto aveva la fissa per le crociate (a proposito, una delle molle per la conversione potrebbe essere stato un attacco di panico: partiva per la guerra, ma c'era già stato e non gli era piaciuta affatto, soprattutto l'esperienza della prigionia: mettersi addosso un sacco e fare il mendicante poteva essere un'exit strategy, ma il senso di colpa per essersi ritirato dalla lotta alla fine potrebbe avere prevalso e averlo portato in Terrasanta; è un'ipotesi come un'altra, ma Francesco ormai uno specchio, per cui l'ipotesi probabilmente somiglia meno a Francesco che a me).
Che altro potrebbe essere tornato di moda in questo momento? Di sicuro non il pauperismo, uno stile di vita che in fin dei conti consiste nell'elemosina: è un fenomeno tipico dei periodi di boom economico, ma quando il ciclo finisce la gente sbarra le case e comincia ad aver paura dei lebbrosi e degli zingari. Invece dovrebbero andare forte le stimmate: per molti secoli ne è stato l'unico portatore ufficiale. E in generale la sua sensibilità nazionalpopolare (ha inventato il Presepe vivente).
Sotto la superficie dello specchio, Francesco resta lì, aspetta le generazioni che verranno e lo vedranno in un modo diverso. Inutile ormai domandarsi chi fosse veramente - nel suo ritratto più antico e verosimile (quello di Cimabue nella Basilica inferiore di Assisi) è semplicemente un uomo che conosce il dolore e la povertà, e che da otto secoli, senza abbassare lo sguardo, sembra fissare proprio noi.
Teresina, pallina di Gesù
01-10-2020, 18:08repliche, santiPermalink1 ottobre - Santa Teresa di Lisieux, AKA Teresa del Bambin Gesù AKA Teresa del Sacro volto, vergine e dottore della Chiesa (1873-1897)
[Questo è in assoluto il primo pezzo sui Santi comparso sul post, il primo ottobre del 2011]. Può anche darsi che a un certo punto, dopo cinquant'anni di roselline, bacini, bambini Gesù e altri bamboleggiamenti, anche gli uomini di Chiesa non ne potessero più, di Santa Teresa del Sacro Volto e del suo cattolicesimo così irrimediabilmente pucci che nella prima metà del Novecento aveva scatenato una vera e propria Thérèse-mania nella profonda provincia francese. Però a quel punto forse si è un po' esagerato sull'altro versante, volendo per forza vedere in lei uno spessore intellettuale che l'ha esposta alla furia di esegeti intransigenti come Simone Weil e fior di analisti lacaniani. Al punto che vien da dire: lasciatela stare! in fondo era solo una ragazzina.
Certo, nei suoi nove anni di reclusione volontaria in convento le era capitato anche di desiderare un futuro da Dottore della Chiesa (ma anche da Guerriero, da Apostolo, da Martire: tante strade tutte troncate dalla tbc). Sono quelle cose che si dicono da ragazzini, appunto. E invece ce l'ha fatta: nel 1997 Wojtyla l'ha nominata Dottore, proprio lei! terza donna a entrare nel club dopo Teresa d'Avila e Caterina di Siena. Per intenderci, Agostino da Ippona per ottenere lo stesso titolo ha scritto le Confessioni e la Città di Dio. Tommaso d'Aquino ha messo giù la Summa Theologica, dimostrando l'esistenza di Dio tipo in cinque modi diversi. Teresina, dal canto suo, non lascia visioni particolarmente mistiche né edifici teologici o meditazioni metafisiche. Cosa v'aspettavate, del resto, da una ragazza morta a 24 anni? Poco più di un best seller del primo Novecento, Histoire d'une âme, l'autobiografia sgarzolina di una ragazza sveglia che perde giovanissima la mamma, vede le sorelle maggiori entrare in convento, vorrebbe seguirle subito ma il prete severo le dice di no, allora fa un viaggio lungo lungo fino a Roma per chiedere al Papa se la fa entrare subito in convento e il Papa le dice: vediamo. Suo più grande desiderio, spiega al lettore, era diventare una pallina, un giochino nelle mani del Bambin Gesù. Tutti ci vedono subito il desiderio di umiltà, ma la pallina ha pur sempre qualcosa di sfuggente e capriccioso, che ti colpisce nei fotoritratti (fu una delle prime sante di cui circolassero immagini fotografiche, e questo può spiegare parte del suo successo).
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Le consorelle fotografate da Thérèse. |
“Iddio Onnipotente, Creatore del cielo e della terra, Sovrano Dominatore del mondo, e la gloriosissima Vergine Maria, Regina della Corte celeste, partecipano il Matrimonio del loro Augusto Figlio, Gesù, Re dei re e Signore dei signori, con la Signorina Teresa Martin, attualmente Dama e Principessa dei regni portati in dote dal suo Sposo Divino, cioè: l'Infanzia di Gesù e la sua Passione [...] Non avendo potuto invitarvi alla benedizione nuziale che è stata data loro sulla montagna del Carmelo, l'8 settembre 1890 (essendo stata ammessa soltanto la Corte Celeste), la S. V. è comunque pregata al Ritorno dalle Nozze che avrà luogo Domani, Giorno della Eternità, nel quale giorno Gesù, Figlio di Dio, verrà sulle nubi del Cielo nello splendore della sua Maestà, per giudicare i Vivi e i Morti. L'ora essendo ancora incerta, siete invitati a tenervi pronti, e a vegliare”.
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Non è in castigo, è in posa da Giovanna d'Arco |
Una cosa che mi fa impazzire dell'Ottocento è che tutto è già pronto per Freud, ma Freud non è ancora arrivato. Così nei diari e nelle lettere nessuno ha ancora alzato nessun schermo protettivo, e insomma tutti ti squadernano i loro complessi senza accorgersene, fanno una gran tenerezza. Una lettera del genere finisce dritta nell'autobiografia di un Dottore della Chiesa senza che nessuno abbia trovato niente da obiettare. Il libro è tutto pieno di perle così: per esempio, quando l'altra sorella prediletta che ancora vive nel mondo, Celine, riesce a farsi invitare a un ballo, Teresa non si vergogna a supplicare il Signore “d'impedirle di ballare”, con tanto di lacrimoni, finché “Gesù si degnò di esaudirmi”.
Tra le braccia del suo primo cavaliere, Celine si blocca, umiliando il povero ragazzo e costringendolo a una fuga ingloriosa. Quando lo viene a sapere, Teresina esulta senza vergogna e ringrazia Gesù di aver rovinato la serata alla sorella prediletta, che non a caso entrerà in convento poco dopo e l'aiuterà a scrivere quell'autobiografia che le porterà tanta gloria. Teresa è vicepatrona di Francia, patrona delle Missioni, dell'Australia e della Russia, tutti posti dove la pallina di Dio avrebbe rimbalzato volentieri. Se avesse avuto il tempo.
Un ciceroniano a Betlemme
30-09-2020, 17:43Bibbia, Chiesa, repliche, santi, traduzioniPermalink![]() |
Lionello Spada, passi la penna d'oca e il tappeto ikea, ma GLI OCCHIALI? |
[2012]. Oggi quando una ragazza muore di digiuno la gente dice: è colpa delle riviste di moda, e le riviste di moda dicono: è colpa della famiglia - ma nell'antichità? A chi si attribuiva la colpa, in mancanza di foto patinate?
Ai padri della Chiesa. A Girolamo, perlomeno, che su certe fanciulle della Roma-bene pare che facesse questo effetto: si appassionavano al suo eloquio, si lasciavano catturare dal suo personaggio un po' hobo - quel tipo di snob figlio di patrizi che passa qualche anno in una comunità in Siria e poi torna con una certa aria di saggezza e i pidocchi nella barba - ne adottavano i costumi vegetariani, e dopo un po' rischiavano di lasciarci le penne. La giovane Blesilla ci restò secca davvero, dopo qualche mese di dieta, e Girolamo cadde in disgrazia: dovette abbandonare la città. Non aveva ancora quarant'anni ed era già stato segretario particolare di un Papa, il padre Georg di Damaso I; alla morte di Damaso alcuni lo davano già per papabile, ma appunto: i romani possono sopportare molte cose, ma un papa convinto che nell'attesa del Regno dei Cieli imminente non sia più concesso mangiar carne, eh, grazie, anche no. Girolamo se ne tornò nei deserti della sua giovinezza tormentata, la cristianità ci perse un papa vegetariano e ci guadagnò la miglior Bibbia che poteva permettersi. Perché Girolamo, riparato a Betlemme, non ebbe più niente di meglio che riprendere le sue traduzioni del testo sacro in latino, rimaneggiarle ed espanderle. Ci mise altri quindici anni, ma alla fine la latinità aveva un testo leggibile, organico, comprensibile, alla portata di tutti (Vulgata, lo chiamarono), e a suo modo elegante, come doveva essere stato elegante quel patrizio romano sotto gli stracci da asceta che ostentava nei circoli romani.
L'influenza di Girolamo sulla lingua che parliamo milleseicento anni dopo è incalcolabile. Nel senso che davvero è impossibile calcolare quante parole gli dobbiamo. Un esempio qualsiasi, su milioni che si potrebbero fare: l'aggettivo "geloso". Deriva da "zelotes", un termine che compare due volte nell'Esodo tradotto da Girolamo; in entrambi i casi è riferito a Dio, e in entrambi i casi Dio sta chiedendo al suo popolo di non avere altro Dio. Insomma la prima gelosia della storia è la gelosia divina, di un Dio che si considera Unico ma evidentemente non ne è troppo sicuro - sennò tanta gelosia non avrebbe un senso. Prima della vulgata i latini non avevano una parola per "gelosia": ne avevano il concetto? A leggere Catullo pare proprio di sì, ma così come non marcavano una netta distinzione tra l'azzurro e il verde, gli autori classici non danno la sensazione di distinguere nettamente invidia e gelosia. Forse i concetti sono dei grumi di senso che prendono forma intorno alle parole: finché non esiste una parola, non c'è nemmeno il concetto. Forse non avremmo il concetto di gelosia, se Girolamo non avesse deciso di tradurre un certo termine ebraico in un certo modo.
È da un po' che scrivo storie di santi sul Post. All'inizio non sapevo bene dove sarei andato a parare, ho proceduto per tentativi. A distanza di qualche tempo mi sembra che il metodo sviluppato consista nella simpatia: si prende un uomo o una donna vissuti secoli o millenni fa, in contesti radicalmente diversi, e si tenta di trovarli simpatici. A volte la cosa è fattibile, altre volte è così disperata che diventa divertente. Come metodo, è il meno serio e il più anti-storico che si possa adottare. Le persone nate secoli fa, in contesti alieni, sono alieni. Non parlano come noi, non pensano come noi, non mangiano le cose che mangiamo noi (Girolamo era vegetariano in un mondo senza pomodoro e senza pastasciutta). Trasformarli in figurine simpatiche (o antipatiche) non serve probabilmente a nulla. E in certi casi è veramente impossibile. Come si fa a provare simpatia per Girolamo, un fanatico ossessionato dall'inferno, che si fece mantenere per tutta la vita dalla nobildonna (Santa Paola) a cui aveva fatto perdere la figlia (Santa Blesilla)? C'è che contrariamente a tutte le aspettative, questo fanatico ossessionato è un grande intellettuale, un bravo scrittore, un incredibile traduttore. E la sua Bibbia in latino è un dono, prezioso anche per quelli che a milleseicento anni di distanza non si considerano cristiani.
Ai tempi del suo primo disperato pellegrinaggio nel deserto - durante il quale altri suoi amici erano morti di stenti - Girolamo aveva fatto un incubo, dopo una di quelle sere in cui prima di andare a letto si era messo a leggiucchiare un po' di Plauto, così, per prender sonno. Il sogno lo aveva catapultato alla corte di Cristo Re, che lo aveva interrogato: "sei forse tu cristiano?" "Mi sembra di sì", aveva risposto Girolamo, tremebondo. "Mi sembri piuttosto ciceroniano", aveva risposto il dio-magistrato, e ne aveva disposto l'immediata flagellazione. Girolamo, sanguinante, aveva promesso che non avrebbe toccato un autore pagano mai più, mai più: da lì in poi solo libri sacri. In pochi sogni come in questo vediamo un uomo tradirsi.
Perché il dio flagellatore aveva ragione: Girolamo era più di ogni altra cosa ciceroniano, e nessun digiuno, nessuna penitenza lo riuscirono a cambiare davvero. Sotto quella pelliccia puzzolente, il monaco traduttore era rimasto Eusebius Sophronius Hieronymus, una spia del classicismo greco-romano, infiltrata nel cuore più profondo del cristianesimo trionfante: la piccola cella di Betlemme dove stava prendendo forma la Vulgata. Nel giro di due secoli il testo avrebbe sbaragliato la concorrenza, diventando per un buon millennio l'unica Bibbia leggibile in Europa. Il libro di Dio, ma anche un po' di Cicerone. No, mettiamola così: il ciceronianesimo di Girolamo è un virus, rimasto in sonno per secoli prima di attivarsi. Finché il supporto rimase la pergamena, e i lettori poche migliaia in tutto il continente, quasi nessuno ci fece troppo caso. Ma quando arrivò Gutenberg, e la stampa a caratteri mobili, il virus dilagò. Era il virus del pensiero critico.
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Come animale da compagnia, un leone vegetariano. Il problema coi leoni vegetariani è che mangiano chili di cespugli al giorno, e hanno continuamente una spina da farsi cavare, e tu intanto stai cercando di capire le unità di misura del Levitico |
Ci sono stati nella Storia dell'uomo altri traduttori di libri sacri. Siccome i libri di questo tipo durano molto, e nel frattempo non cambia solo la lingua, ma anche la cultura, il modo di pensare... di solito tradurli è l'occasione per riammodernarli un po', magari per riscrivere intere parti da capo. Girolamo sapeva bene, per esempio, che quando i greci avevano tradotto la Bibbia ebraica, l'avevano un po' aggiornata, togliendo magari qualche riferimento messianico che loro non capivano e che invece a lui premeva molto. Girolamo crede, indiscutibilmente crede, che l'autore della Bibbia ebraica sia Dio, e che quindi sia necessario ripartire da là: ma l'ebraico è difficile, e Girolamo non si fida veramente di nessuna delle sue fonti: non degli ebrei suoi contemporanei, non dei Greci, non del saggio Origene che aveva fatto uno splendido lavoro accostando tutte le traduzioni conosciute, ma era anche lui in odore di eresia... Diffidando di tutti, Girolamo è costretto a metterli a confronto, e a inventare un metodo filologico che poi ci servirà a restaurare tutti i classici, Cicerone incluso.
Ma quel che forse è più importante, e che lo rende il Santo dei traduttori, è che Girolamo diffida anche di sé stesso. Altri, prima di lui, avevano risolto i dilemmi di interpretazione lasciandosi semplicemente ispirare dalla Divinità. Lui no, lui traduce a senso, anche quando il senso magari non gli piace. Non è un profeta, non cerca Dio nella sua testa: Dio sta fuori, Dio ha scritto un libro, Girolamo deve capire cosa c'è scritto senza lasciarsi tentare dal demone dell'interpretazione. Nelle sue mani, la Bibbia diventa latina, ma non si evolve. Non si adatta alla cultura della civiltà tardoantica. Rimane un ingombrante centone di miti ebraici totalmente sganciati dalla quotidianità dei cristiani: qualcosa di oggettivamente difficile da manovrare, che rimarrà per secoli incastonato nella liturgia come un meteorite piovuto dal cielo. Nella maggior parte del testo, il Dio di cui si parla non è quello dei cristiani: a volte è buono e misericordioso, altre volte è mandante di genocidi; il più delle volte non si capisce cosa pretenda e con chi ce l'abbia, tutti i popoli di cui si parla sono lontani nella Storia e nella geografia. Dopo un migliaio di pagine così (intervallate da qualche salmo commovente, qualche onesta riflessione sulla condizione umana, qualche poesiola d'amore, qualche proverbio abbastanza banale), arriva Gesù - ma persino le storie di Gesù non sono affatto raccontate in modo univoco e coerente. C'è un sacco di contraddizioni, e Girolamo le avrebbe potute risolvere: chi meglio di lui?
Un piccolo esempio, di cui abbiamo parlato altre volte: i fratelli di Gesù. Tutti quelli che nei secoli hanno difeso la verginità della Madonna, si sono scontrati contro quei versetti in cui si dice, chiaramente, che Gesù aveva dei fratelli. Non c'è niente da fare, il testo dice così: hai voglia a dire che magari gli evangelisti intendevano "cugini", "amici", "discepoli", no: c'è scritto fratelli, punto. Ma chi l'ha scritto? Girolamo era nella stanza dei bottoni (o meglio nella cella dei papiri), Girolamo avrebbe potuto cambiare. Certo, ci sarebbe stata qualche polemica, Agostino avrebbe storto il naso... ma nel giro di qualche secolo tutto sarebbe stato risolto, un testo meno contraddittorio avrebbe fatto comodo a tutti. Bastava convincersi che quel "fratelli" era un evidente sinonimo di cugini, le religioni sono piene di gente che si convince di cose così, ma Girolamo non era quel tipo di fanatico. Tradusse "fratelli", e "fratelli" rimase. Sotto quella pellaccia livida di tutte le frustate che si autoinfliggeva per aver esagerato a condire la lattughina, sotto tutto il suo cristianesimo furioso e militante, Girolamo Eusebio Sofronio era rimasto un filologo. Classico. Ciceroniano. Se oggi leggiamo la Bibbia, e ci troviamo i migliori argomenti per non dare retta ai preti, lo dobbiamo a lui, che poteva sostituirla con un bel catechismo edificante, ma non ne era in grado. Tra l'amore per la Chiesa e quello per la lettera del testo, Girolamo scelse il secondo, e lo sapeva: almeno nei sogni.
Hai visto Giuseppe volare?
18-09-2020, 01:36repliche, santi, scuolaPermalink![]() |
La sua gabbia a Osimo. Neanche un trespolo. |
[2014]. Comporre le classi, in particolare le prime medie, è più un'arte che una scienza. Non ci sono parametri oggettivi, non c'è modo di sapere se quello che stai facendo funzionerà o no. Rimane una regola empirica, valida in questo e in tanti altri campi: se alla fine tutti si lamentano, è un buon segno. In effetti quando si lamentano in pochi è palese che è stata commessa un'ingiustizia: qualcuno è stato favorito rispetto a qualcun altro, ecco perché non si lamenta. Se si lamentano tutti almeno sei sicuro di non aver favorito nessuno, il che è già qualcosa.
Una delle difficoltà fondamentali, quando componi le classi, è far vuotare il sacco alle maestre elementari. Esse sanno molto degli elementi che tu devi mescolare in un pastone il più possibile uniforme. Sanno senz'altro distinguere i ragazzi talentuosi e i criminali in erba, e tuttavia neanche sotto tortura ti diranno "Omar Pascià è un ragazzo talentuoso!" o "Livio Barazzutti è un criminale in erba". Li hanno avuti in custodia per cinque e più anni, e quindi non glieli tocchi, sono i loro bambini. Sono tutti bravissimi. Sono tutti meravigliosi. Al limite, a volte, aggiungeranno espressioni sibilline come "...è da capire". Per intenderci: se la sua maestra dice che Livio "è da capire", Livio non è semplicemente da capire. È da guardare a vista per evitare che mangi gli altri bambini, o i loro astucci, o li faccia mangiare agli altri bambini (i loro astucci).
"E Giuseppe?"
"Eh, Giuseppe, Giuseppe... è meraviglioso".
"Naturale. Ma a parte questo? Morde?"
"No... no... tendenzialmente no".
"Tendenzialmente".
"È un ragazzo straordinario, con una sensibilità, una fantasia..."
"Quindi non lo mettiamo in prima X".
"Ma no, perché?"
"Perché sarebbe il ventesimo straordinario, sensibile e dotato di fantasia. Anzi facciamo così: da qui in poi, mi dici soltanto quando non sono straordinari e sensibili. Se non dici niente do per scontato che sono straordinari e sensibili. C'è il completamento automatico, vedi?"
"Però Giusi non è come gli altri, lui è un po' di più... come dire..."
"Più sensibile?"
"Insomma va capito".
"O mio dio. Un altro?"
"Ma no, non in quel senso..."
"Non è un maniaco oppositivo violento, mi vuoi dire".
"No, tendenzialmente..."
"Tendenzialmente".
"Anche la neuropsichiatra ci ha confermato che è tutto a posto, non ha niente che..."
"Ehi ehi ehi, ferma, è uno da neuropsichiatria?"
"No, no, assolutamente".
"Ma qualcuno ce l'ha portato".
"La famiglia forse, noi non c'entriamo, per noi era solo un ragazzo che..."
"Senti, ne ho altri settanta da piazzare entro sabato, e non è che io voglia sapere vita morte miracoli. Soltanto se graffia o no".
"Non graffia".
"Oh, grazie".
"Però... vola un po', ecco".
"Ricevuto, lo mettiamo al piano terra".
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Portatelo giù. |
Giuseppe da Copertino volava. Per un santo è quasi una cosa banale. Un po' meno banale è il modo in cui confratelli e gerarchie reagivano al miracolo: con fastidio. Il francescano volante passò parecchio tempo in gabbia. Dopo aver tanto penato sui libri per riuscire a diventare sacerdote, alla fine gli toccò officiare nella sua cella, da solo. Questa cosa di levitare a ogni menzione della Madonna o di Gesù, o anche solo per aver fissato un'immaginetta santa, dopo un po' riusciva snervante. Ok, lo abbiamo capito, sei santo, ma adesso vieni giù, comportati come una persona normale. No, niente da fare. Giuseppe non ce la faceva. Guarda che chiamiamo l'Inquisizione!
Per fortuna quella spagnola era impegnata. Si scomodò l'Inquisizione napoletana, forse meno intransigente. Ma chi è questo tizio? Perché non riesce a star fermo? Siamo nel Seicento, è un po' prestino per diagnosticare un deficit dell'attenzione."Non riesce a farci niente. Anche mentre gli parli: un momento è qui che ti ascolta, l'attimo dopo è in orbita".
"Ha sempre fatto così?"
"Difficile dirlo, ha già cambiato molte classi... volevo dire, molti conventi".
"Ahi".
"Copertino (Lecce), Martina Franca, Roma, Assisi, Pietrarubbia, Fossombrone, Osimo..."
"Non riesce a tenerlo nessuno. Nel faldone cosa c'è scritto?"
"Bambino meraviglioso"
"Naturale. E poi?"
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La modesta sede della Apple a Cupertino (il nome della località deriva da un fiume che un cartografo spagnolo dedicò a "San José de Cupertino"). |
"Un po' distratto. I compagni di banco lo chiamavano "Boccaperta", forse perché a volte si scordava di chiuderla".
"Sintomatico. E com'è che è diventato sacerdote?"
"Eh, vossignoria lo saprà meglio di me: Dio ci chiama e noi..."
"E noi dobbiamo studiare e passare esami di latino e teologia. Spiegatemi come ha fatto a passarli questo bifolco che non riesce a star fermo sul banco neanche a legarlo".
"Pare che sia stato un miracolo".
"Ma guarda".
"Lui racconta di aver penato molto sui libri, invano".
"Sì ma non siamo nell'Ottocento romantico, tutte queste menate sul buon selvaggio che riesce a diventare un buon curato di campagna anche se non gli entra in testa il periodo ipotetico del terzo tipo non le capiamo. Com'è andata davvero questa cosa, spiegate per filo e per segno".
"Dunque... lui era già stato espulso dal convento di Martina Franca perché rompeva i piatti".
"I piatti?"
"Non riusciva a lavarli senza romperli. Pare che andasse in estasi anche mentre li sfregava".
"Ma potrebbe persino essere epilessia. E lo abbiamo fatto prete?"
"No, anzi, i confratelli lo rimandarono a casa coi cocci ancora impigliati al saio. Ma lui a casa non ci poteva stare".
"E perché no?"
"Orfano di padre debitore. C'è una sentenza del tribunale supremo di Napoli che in pratica lo obbliga a lavorare finché non avrà saldato il debito del padre. L'unico modo di scamparla..."
"Era farsi frate".
"Quelli della Grottella si impietosiscono e lo riprendono. Ma siccome in cucina rompe tutto, pensano bene di farlo studiare".
"Meglio che rompa i libri che le scodelle".
"Dopo tre anni passa a fare l'esame per il diaconato il vescovo in persona".
"Com'è andata?"
"Un miracolo! Il vescovo apre il messale a caso e chiede a Giuseppe di spiegare il vangelo. Esce Luca 1,42".
"La Visitazione".
"Era l'unica pagina che Giuseppe era riuscito a memorizzare".
"Magari sullo stesso messale".
"In che senso?"
"Che se era l'unica, magari aveva dovuto aprirla spesso, e i messali si aprono più facilmente nella pagina che è rimasta aperta più tempo".
"Beh, in effetti questo potrebbe spiegare l'esame per il diaconato, ma poi... è diventato presbitero".
"Ecco. Ci piacerebbe capire come ha fatto. Un altro miracolo?"
"Di nuovo in presenza del vescovo. Sono tutti preparatissimi tranne Giuseppe. Il vescovo interroga i primi tre. Sanno tutto. Va bene, dice, si vede che siete una classe che studia. E se ne va".
"Questo è il miracolo?"
"Così lo raccontano".
"Le scuole migliori del mondo, abbiamo".
"E infatti produciamo santi che il mondo ci invidia. Ma adesso che si fa?"
"Che si fa. Che si fa. È una parola".
"Vossignoria, non è un modo di dire, siete l'Inquisizione. Se lo volete bruciare, dite solo una parola e appena viene giù lo mettiamo sulla pira".
"Ma come si fa... cioè, a parte volare e sfangare gli esami, ha mai fatto qualcosa di male? Morde?"
"Lui? No, macché... è buono come il pane".
"Predica al volgo? Non vorrei che mettesse in giro qualche fesseria sediziosa o rivoluzionaria, non sarebbe nemmeno il primo".
"No, no, è tranquillo. Parla agli animali".
"Ah, meno male. Ci piacciono quelli che parlano con gli animali".
"In effetti danno molti meno problemi".
"È proprio una pratica da incoraggiare, l'animaloterapia. Stiamo riscrivendo anche la storia del vostro fondatore in tal senso".
"Francesco?"
"Gli facciamo parlare un sacco con gli animali, così dà l'esempio".
"Tornando a Giuseppe..."
"Massì, che ci volete fare, è solo un poveretto che non riesce a star fermo in un posto. Mettetelo in una cella col soffitto non troppo basso e abbiate cura che non dica o faccia troppe scempiaggini. Al limite quando muore lo facciamo santo".
"Lui i soffitti proprio non li sopporta. Ci picchia contro, si fa male".
"E che vi devo dire. Siamo nel Seicento, non ci sarà ritalin in circolazione per quasi tre secoli, che altro dovremmo fare? Lo incateniamo?"
"E se lo lasciassimo libero?"
"Libero di fare che?"
"Di volare dove vuole".
"Ma non dite fesserie, siamo l'Inquisizione noi. La gente non vola".
"Infatti è un miracolo".
"Proprio per questo deve restare una cosa rara. Un poveretto che vola è un miracolo. Un popolo di poveretti che volano è l'anarchia".
"Uff".
"Non è contento".
"In coscienza, mica tanto".
"Meglio così, se vi lamentate in tanti è segno che facciamo un buon lavoro".
"Questa cosa di scontentare più gente possibile, se devo essere sincero..."
"Deve"
"...io non l'ho capita tanto".
"Capirà, capirà, se resta a terra prima o poi capisce tutto".
Cos'è una croce?
14-09-2020, 08:0021tw, Cristo, fb2020, repliche, santiPermalink![]() |
Velazquez |
E dovunque da loro troverai l’albero della vita, e la resurrezione della carne dall’albero: questo, credo, perché il loro maestro fu inchiodato alla croce ed era di professione carpentiere. Così, se per caso egli fosse stato buttato giù da un dirupo, o spinto in un burrone, o strangolato con un capestro, o fosse stato ciabattino oppure scalpellino o fabbro, al di sopra dei cieli vi sarebbe un... dirupo di vita? O un burrone di resurrezione? O una corda di immortalità, o una pietra beata, o un ferro d’amore, o un cuoio santo? Ma quale vecchia intenta a canticchiare una fiaba per ninnare un bambino non si vergognerebbe di sussurrare cose del genere?Il salto bimillenario tra Celso e Böll è dovuto - oltre alla mia ignoranza - dal fatto che in mezzo c'è stato un periodo in cui in Europa davvero, scherzare sul crocefisso non era molto consigliabile - meno di quanto lo sia oggi satirizzare su Maometto e la sua barba. Lo stesso Celso non ha avuto molta fortuna: la sua opera ha circolato liberamente finché i cristiani non hanno preso il possesso delle biblioteche, poi è rapidamente scomparsa. I frammenti che ci sono rimasti li ha salvati il suo miglior nemico, Origene, che per confutarlo scrisse un intero trattato, in cui non poteva evitare di citarlo. Se solo la Chiesa avesse avuto più apologeti alla Origene, e meno censori e raschiatori di codici antichi... ma raschiare è un risparmio, confutare è faticoso, insomma, è andata così.
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Un politico italiano in un'apparizione pubblica, ai tempi della prima sentenza. |
Che il crocefisso, l'effigie di un cadavere esposta alla venerazione, sia qualcosa di scandaloso non è dunque una scoperta di Luttazzi. Lo era ai tempi di Paolo di Tarso, (1 Corinzi 22-24) lo era tre anni fa quando una signora italo-finlandese rivolse alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo più o meno il seguente quesito: mio figlio in Italia è costretto a studiare in una stanza dove è appeso il similacro di un uomo torturato e sanguinante, è legale questa cosa? La Corte in un primo momento disse no, sollevando un polverone che si era già abbondantemente posato quando nel marzo 2011 cambiò idea (il che è sempre sbagliato, parlo per me: il crocefisso appeso non mi dà fastidio, me ne danno di più i giudici che cambiano idea). Nel frattempo in molte aule e luoghi pubblici il simulacro continua a essere esposto con i chiodi e le ferite e tutto quanto. A causa di un bizzarro fenomeno di assuefazione culturale, la maggior parte degli italiani (e dei cattolici in generale, forse) non ci fa caso. Ovvero: facciamo tutti caso a un crocefisso, quando c'è, e magari litighiamo sul suo significato politico-storico-religioso-identitario, ma non lo guardiamo mai veramente per quel che è. Il fatto che descriva, con orripilante realismo, l'aspetto di un uomo torturato a morte, non colpisce quasi mai la nostra attenzione. Bisogna che arrivi Daniele Luttazzi con una battuta (o Paolo Poli, o Lenny Bruce, o chi volete).
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Ma li inchiodavano davvero? In Giudea sì: il reperto a destra (I sec. dC) è stato ritrovato in Israele (a sinistra una ricostruzione). |
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"Prega il tuo Dio, Alessameno!" |
Il sole si è fermato?
01-09-2020, 07:47repliche, santiPermalink![]() |
John Martin |
Allora, quando il Signore mise gli Amorrei nelle mani degli Israeliti, Giosuè disse al Signore sotto gli occhi di Israele:Questo famigerato passo è probabilmente l'unico della Bibbia dove si parla un po' di astronomia. Mi chiedo a volte se sia esistito un antico popolo, con una mitologia complessa e stratificata, altrettanto disinteressato ai moti degli astri e dei pianeti, alle costellazioni eccetera. Giusto una piccola cosmogonia nelle prime pagine, e poi più nulla. Forse era un modo da differenziarsi dai dominatori babilonesi, loro sì fissati con le stelle. Questa sostanziale indifferenza nei confronti del cielo fu paradossalmente un vantaggio nel momento in cui la Bibbia entrò nel mainstream dell'Impero Romano, gareggiando coi testi scritti di altre religioni: i testi manichei, quelli gnostici, mitraici, eccetera. Rispetto agli altri libri sacri, la Bibbia si conciliava meglio con la scienza ufficiale aristotelica, per il semplice motivo che di astronomia non si parlava: Agostino mollò i manichei perché il cosmo che descrivevano era ridicolo rispetto a quello progettato da Aristotele. I cristiani non avevano questo problema: purché il sole girasse intorno alla terra, tutto il resto si poteva organizzare come dicevano i filosofi greci.
«Sole, fèrmati in Gàbaon
e tu, luna, sulla valle di Aialon».
Si fermò il sole
e la luna rimase immobile
finché il popolo non si vendicò dei nemici.
Ma insomma nella Bibbia di solito si parla d'altro. E anche nel passo del libro di Giosuè, in fondo, di che si parla? Di massimi sistemi? Non è che Giosuè dica semplicemente "fermati o sole" come noi diciamo tutti i giorni "il sole è sorto", o "è tramontato", senza per questo voler negare il sistema copernicano? Siamo sicuri che Giosuè, guerriero e uomo di fede, ci tenga a farci sapere che il sole gira intorno alla terra?
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Nicolò Malinconico |
Galileo, per esempio, era sicuro del contrario. Fu proprio questa sua sicumera a cacciarlo definitivamente nei guai. Di questi guai noi di solito conosciamo una versione molto semplificata, che abbiamo preso per buona a scuola. Riassumendo: Galileo riteneva che la terra girasse intorno al sole (sistema copernicano); i preti però pensavano che questo contraddicesse la Bibbia, almeno in quel versetto dove Giosuè ferma il sole, e così si arrivò al processo e all'abiura. Le cose sono un po' più complicate. In un gioco di specchi piuttosto barocco, scopriamo che i preti in questione, tutt'altro che oscurantisti inchiodati alla Verità rivelata in un versetto, giocarono la modernissima carta del relativismo: avrebbero voluto che Galileo considerasse la teoria copernicana una teoria, non la realtà dimostrata delle cose. Mentre a Galileo, il famoso Galileo-inventore-del-metodo-scientifico, tutto questo relativismo infastidiva: lui riteneva di aver dimostrato che la terra gira e il sole è fermo e punto. Quel che è peggio, è che la prova definitiva esibita da Galileo (il moto delle maree) era una solenne cantonata. Non solo, ma così come gli avversari clericali di Galileo erano tutt'altro che digiuni di scienza, lo stesso Galileo ci teneva a mostrarsi uomo di religione. Non aveva nessuna intenzione di contraddire la Bibbia: viceversa, scrivendo al suo amico benedettino Benedetto Castelli, nel 1613, prova a dimostrare che è proprio la Bibbia a dargli ragione; che il miracolo di Gabeon è incompatibile col sistema tolomaico-aristotelico. Secondo Tolomeo infatti il moto del sole da levante a ponente è solo apparente: a muoversi davvero è il cielo più lontano, il Primo Mobile; se fosse stato esperto di queste cose, Giosuè avrebbe dovuto chiedere di fermare il Primo Mobile, non il sole; anzi, se avesse fermato il sole all'interno del sistema tolomaico, il giorno si sarebbe accorciato un po'. Al contrario, nel sistema copernicano il sole, pur essendo al centro dell'universo, continua a girare su sé stesso (Galileo lo aveva notato osservando le macchie solari), e quindi può essere fermato da Dio, se Giosuè glielo chiede: in che modo poi fermando la rotazione del sole il giorno di luce si allunghi sulla terra, io non l'ho capito, ma Galileo mentre lo spiega sembra molto sicuro di sé, come sempre. Non dico che questo sia un buon motivo per processarlo, minacciarlo di torture, forzarlo all'abiura e mandarlo agli arresti domiciliari; però le cose sono più complicate di come a scuola, per forza di cose, le impariamo.
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Galileo al Sant'Uffizio |
C'è un'altra abiura di cui conserviamo una storia eccessivamente semplice: quelle famose scuse che Giovanni Paolo II avrebbe fatto a Galileo, per conto della Chiesa. Anche qui, la storia è ben più complessa. Basti pensare che la Commissione pontificia per esaminare la questione ci lavorò per 13 anni, un periodo di tempo più che sufficiente per trovare un sistema per salvare i cavoli copernicani e la capra ecclesiastica. E infatti le conclusioni del 1992 individuarono un concorso di colpa: da una parte gli inquisitori non erano stati nell'occasione molto "lungimiranti". Ma la sua parte di colpa ce l'aveva anche quel Galileo, che invece di attendere "prove irrefutabili" aveva preteso di imporre la sua verità. Alla fine sono i vecchi argomenti di Feyerabend. Questi però voleva far notare come il presunto metodo sperimentale di Galileo sia una ricostruzione a posteriori: anche Galileo aveva i suoi pregiudizi, le sue osservazioni e i suoi esperimenti non gli impedivano di intestardirsi su ipotesi errate, come quella sulle maree, o sulle comete. Questo discorso, nelle mani di Ratzinger, diventa una specie di jolly relativista che la Chiesa si riserva di giocare quando le è comodo: di sicuro non quando si parla di Trinità o di Immacolata Concezione o di vita che comincia dal concepimento. Siccome la scienza è fondata sul dubbio, della scienza si può dubitare; dei dogmi di fede no, quelli sono valori non negoziabili e punto. A uno scienziato, Galileo, che si era permesso di spiegare ai preti come si legge la Bibbia, fa da contrappunto un collegio ecclesiastico che pretende di spiegare a Galileo e ai suoi seguaci il metodo scientifico. Chi dei due ci fa la figura meno peggiore? Beh, Galileo aveva i suoi difetti. Ma ai suoi avversari mica faceva i processi; non li condannava, non li teneva agli arresti domiciliari. Il dettaglio, almeno per quanto mi riguarda, è decisivo.
Il santo che perse la testa (a causa di una ragazzina!)
29-08-2020, 07:42anglistica, repliche, santi, teatroPermalink![]() |
Infanzie devastate da materiale audiovisivo discutibile. |
Invece Giovanni, come tutti sanno, fu decollato nel senso che gli staccarono la testa dal collo: un supplizio violento ma che esprimeva una considerazione per lo status della vittima; la crocifissione invece era una cosa da schiavi. A metterlo a morte fu Erode Antipa, tetrarca della Galilea satellite di Roma. Su questo le fonti concordano. Purtroppo le "fonti" sono i vangeli e l'ebreo romanizzato Giuseppe Flavio. Quest'ultimo dovrebbe essere un po' più affidabile, ma le sue Antiquitates Judaicae sono state interpolate per secoli, da copisti cristiani anche in buona fede, a cui sembrava impossibile che un cronista ebreo del primo secolo si facesse sfuggire notizie su Giovanni Battista e Gesù Cristo - così le aggiungevano loro, toh, ecco, adesso sì che è un testo completo. Quindi non è sicuro che Flavio abbia mai veramente scritto qualcosa su Gesù o Giovanni. Senz'altro non erano al centro del suo interesse: lui parla di politica, guerre, dinastie, e poi ogni tanto ci sono questi predicatori che fanno un po' casino, ma niente su cui valga la pena di imbastire un capitolo. Nelle Antiquitates si accenna a Giovanni come "un uomo buono che esortava i Giudei a una vita corretta, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, e così facendo si disponessero al battesimo". Questo sarebbe bastato al sospettoso re per incarcerarlo e, in un secondo momento, farlo ammazzare.
Un'eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché pareva che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa facessero. Erode, perciò, decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione, piuttosto che aspettare uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile da pentirsene.Condannato a morte perché parlava bene. Non che non sia plausibile, da quelle parti, almeno in quel periodo, però è veramente troppo vago. Cosa avrebbe detto il battista di così pericoloso per l'ordine costituito? I vangeli di Marco e Matteo ci forniscono un'ipotesi ragionevole: Giovanni avrebbe protestato contro il matrimonio di Erode con Erodiade. "Non ti è lecito tenerla". E in effetti prima di stare con Erode, Erodiade era stata sposata col di lui fratello, che aveva litigato col padre Erode il grande e si era trasferito a Roma. Inoltre era figlia di un altro fratello di Erode, il maggiore, Aristobulo; anche lui caduto in disgrazia presso Erode il grande e fatto ammazzare. E se tutto questo vi pare un po' incestuoso, considerate che la mamma di Erodiade era una cugina di Aristobulo. L'endogamia della famiglia erodiana era tipica di altre dinastie regali del Medio Oriente, dai faraoni in poi, ma non degli ebrei. E in effetti gli Erodi erano ebrei sui generis: venivano da una regione di confine (l'Idumea), e malgrado Erode il grande avesse sposato una principessa di stirpe maccabea, molti sudditi li consideravano ebrei posticci, pedine dell'imperialismo romano. Criticare un tetrarca per i suoi costumi incestuosi poteva, insomma, avere un significato politico.
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Infanzie che volevano vedere un film su Gesù al cinema parrocchiale, messe davanti alle anche di Brigid Mary Bazlen. |
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Maud Allan, la prima Salomè in scena |
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HO BACIATO LA TUA BOCCA, JOKAHAN. |
Monica (non molla mai)
27-08-2020, 08:00repliche, santiPermalinkQuell'ubriacona di tua madre. Di tutti i colpi bassi, quello che l'eretico Giuliano tentò con Agostino rimane memorabile. In mezzo a una lunga polemica sul peccato e la grazia, buttò lì quel dettaglio: tua madre beveva. L'hai scritto tu, no? In effetti era stato lo stesso Agostino ad aver raccontato l'aneddoto nelle Confessioni, con quel suo tipico gusto per le inezie e i peccatucci infantili che però rivelano la personalità più dei grandi gesti, che lo mette nel solco di Freud con quel millennio e mezzo d'anticipo: da bambina, quando i genitori la mandavano in cantina a prendere un'anfora di quello buono, Monica suggeva il vino di nascosto. Aveva iniziato per curiosità, vincendo la repulsione, per poi prenderci gusto - finché la tata non l'aveva presa di petto: uno choc. Il vino è dolce, ma non compensa la vergogna di una schiava che ti dà dell'ubriacona. Da lì in poi aveva smesso, quasi smesso di bere, e soprattutto di provare curiosità per i vizi di questo mondo. Per compiere una rinuncia simile suo figlio, il grande dottore della Chiesa, avrebbe dovuto aspettare i trentatré anni. Rispondendo a Giuliano, Agostino abbozzò qualcosa del tipo 'lascia stare mia madre, non ti ha fatto niente di male', quasi una finta, e poi il gancio sinistro: "Io al contrario tengo in onore i tuoi genitori come Cristiani cattolici e mi rallegro con essi che siano morti prima di vederti eretico".
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Il figlio lo fa Alessandro Preziosi (poi invecchia e diventa Franco Nero). |
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L'estasi di Ostia. Conversando riuscirono ad avere un'idea di Dio, poi lei si mise a letto e decise che poteva morire. |
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Mah, vecchia così probabilmente non lo fu mai. Morì a 56 anni. |
In effetti non è chiaro il perché non si sia mai voluto sposare, anche quando la madre era ormai lontana. Questioni di status, dicono. Ma anche Agostino non era di estrazione nobile; il fatto che abbia succhiato fede e latte dal seno materno suggerisce che la famiglia non si potesse permettere di metterlo a balia (oppure è solo una bella frase da scrivere nella propria autobiografia). Forse i due si erano uniti, ma con un rito manicheo che in seguito Agostino preferì disconoscere. Forse, anche al di là del Mediterraneo, la minaccia di essere diseredato lo bloccava. Certo, Monica sognava per lui un matrimonio in salita. Lo pretendeva. Lui e il padre, l'irruente Patrizio, gli avevano garantito un'educazione di primo livello, un po' al di sopra delle proprie possibilità. Anche da vedova Monica non aveva smesso di svenarsi e credere nelle potenzialità del figlio. E lui finiva per intrupparsi con quei cialtroni dei manichei, si faceva incastrare da una di quelli, e scappava. Era intollerabile. Tempo un anno, e Monica lo aveva raggiunto al di qua del mare. A quel punto fu la concubina a far bagagli e tornare in Africa.
Nel frattempo Agostino aveva definitivamente troncato coi manichei, e forse aveva già conosciuto il suo padre spirituale, Ambrogio. Era pronto per convertirsi, quasi pronto, doveva soltanto... peccare un altro po'. Monica intanto si dava da fare a trovargli un buon partito, una ragazzina fresca che "piaceva a tutti", scrive (a tutti chi? alla madre, evidentemente). Era tuttavia un po' troppo giovane, e così in attesa che arrivasse all'età giusta, Agostino si prese una concubina di transizione. E la madre non gli disse niente. Pecca pure un altro po', tanto poi ti battezzi. Il problema dunque non era il peccato in sé. Pecca pure, ma non con quella. Cosa aveva quella di intollerabile? La fede manichea? Forse.
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Un po' troppo pallida, però l'espressione secondo me è quella giusta. |
"Essa partì per l'Africa, facendoti voto di non conoscere nessun altro uomo e lasciando con me il figlio naturale avuto da lei".
E Monica, la vincitrice. Del resto "il figlio di tante lacrime non può andar perso" le aveva detto un maestro a Cartagine, esasperato dalle sue confidenze: vincerai tu, piangendo. Monica che piange, Monica che prega, Monica che combina matrimoni, Monica che durante le meditazioni serve gli aperitivi, poi il figlio le dice resta con noi, parlaci della sapienza, e lei snocciola due o tre banalità che però, osserva il figlio, sono esattamente il nucleo dell'insegnamento ciceroniano... Qualcun altro avrebbe dedotto che Cicerone è un filosofo superficiale, per Agostino era naturalmente il contrario. Tanti anni passati a studiare, per scoprire che sua madre in cucina ne sapeva di più.
Monica che non si dà per vinta mai. Monica che al figlio perdona tutto, quasi tutto, ma al termine di ogni avventura e infatuazione si fa sempre trovare a casa. Monica la berbera, a cui è facile assegnare le fattezze di una di quelle signore olivastre e minute che escono velate al pomeriggio, col figlio maschio in braccio anche a quattro anni. Monica non è un dottore della Chiesa, ma il sospetto è che più che suo figlio o Ambrogio il cristianesimo lo abbia rifondato lei. Una religione di mamme sollecite e soffocanti, che non ti mollano mai, finché rimbalzi di qua e di là nel mediterraneo. La mamma italiana, ma anche tunisina, che differenza fa. Puoi studiare, far carriera, e tutte le storie che vuoi: ma loro sono lì che ti aspettano al varco, al primo cedimento, col biberon pronto che non hanno mai smesso di riempire, di scaldare, dove scappi? dove credi di scappare? non c'è Roma, non c'è Milano, ovunque è Tagaste.
Il santo a quattro zampe
26-08-2020, 08:30animali, repliche, santiPermalink

Ma in zona non smisero mai di invocare San Guinefort. Per evitare guai con l'inquisizione lo rivestirono di panni umani, approfittando dell'omonimia con altri santi Guineforti, tra i quali uno originario della Scozia e sepolto a Pavia. La Chiesa romana ribadì la sua condanna negli anni trenta del secolo scorso, il che significa che nel 1930 qualcuno ancora invocava il santo cane. La cui storia magari vi ricorda qualcosa, ma cosa? Pensateci bene...
Esatto, Beverly Hills Chihuahua 2! Bravi!

Non è il primo personaggio disneyano che uccide un animale - chiedete a Bambi - ma il Vagabondo è un personaggio positivo. Ed è un maledetto sciupafemmine. Tutti si ricordano la scena iconica dello spaghetto, ma ce n'è un'altra formidabile in cui si svegliano insieme il mattino dopo nella tana di lui, ed è chiaro a ogni spettatore adulto (e anche a qualche bambino) che hanno passato la notte a fare sesso. Due personaggi dinsneyani! Sesso! Senza prima sposarsi! Anzi al primo appuntamento! Sesso con un vagabondo sciupafemmine e assassino! E Walt Disney diede il via libera a tutto ciò. Erano tempi diversi.
Ieri non sapevo come finire il pezzo e così me ne sono andato a letto. Mi ha svegliato un cane con un uggiolìo così triste e umano che l'ho subito riconosciuto. Qualche cagnetta dev'essere andata in calore, proprio nella notte della levata eliaca di Sirio - la festa di San Guinefort Cane, e dell'altro santo mezzo cane, Cristoforo. Io non è che me ne intenda molto di canidi, ho dato un'occhiata su internet e so che vanno in estro due volte all'anno (il lupo una volta sola), ma non so se ci vadano tutti proprio adesso. Però le classiche cagnare estive me le ricordo. Curiosamente mi davano noia anche da bambino, quando in fondo svegliarsi nel bel mezzo della notte non doveva essere un così grosso problema. Ma una volta c'era un bastardino disperato che continuava a uggiolare tutta notte, l'avrei ammazzato. Decisi di ammazzarlo davvero.
Era un botolo tranquillo, e siccome pensava solo al sesso, era facile avvicinarlo. Io e mio cugino gli allacciammo una corda al collo e lo portammo verso il fiume. Stavamo andando a buttare un cane nel fiume. Lo stavamo facendo davvero. Non avevamo mai ucciso qualcosa di più grosso di una mosca, e adesso avremmo ucciso un cane bastardo. Camminavamo a ritroso su una strada che avevano percorso i nostri progenitori trentamila anni fa, non lo sapevamo. Non sapevamo neanche che cosa tremenda fosse essere sessualmente eccitati tutto il tempo, non avere nient'altro in testa. Non potevamo provare nessuna solidarietà, era una settimana che guaiva tutte le notti, lo volevamo morto. Lui per la verità era abbastanza contento del diversivo, ci seguiva docilmente. Passammo l'argine, arrivammo in riva al fiume, lo slegammo e afferrammo per le zampe, lo buttammo giù.
Lui da principio ci rimase un po' male - mi ricordo la sua smorfia di canina sorpresa - ma poi zampettò nell'acqua stagna e arrivò dall'altra parte, scrollandosi e godendosi l'improvviso refrigerio. A fine luglio il Secchia era un rigagnolo, non lo avevamo calcolato. Non ci avresti annegato una biscia. "Guardalo, sta meglio di noi", disse mio cugino. Io mi misi a ridere, o forse no.
Forse ci misi qualche anno a riderci su. Stavo per ammazzare un cane, lo stavo facendo davvero. San Guinefort, se puoi perdonami. Proteggi i miei piccolini dalle bisce e dai topi e dalle cazzate che combina papà. Nelle lunghe notti di desiderio, che nessuno mai mi metta un cappio al collo e mi porti più in là di dove voglio andare. Non dico che non lo meriterei. Dico solo: pietà.
Bart, il più nudo di tutti
24-08-2020, 07:57repliche, santiPermalink[2012]. Avete mai conosciuto un Bart Simpson? Credo di sì. Ne conosciamo tutti uno. È un ragazzino a tratti svogliato, a tratti iperattivo, dal quale possiamo aspettarci azioni di efferata crudeltà e insospettabile eroismo. Se poi ha pure i capelli a spazzola e gira in skate, magari c'è capitato di chiamarlo Bartsimpson. C'è una possibilità non remota che un giorno, quando il cartone animato oggi più famoso al mondo sarà solo una curiosità per archivisti, bartsimpson resista come sostantivo - se ce l'hanno fatta mecenate e donchisciotte, perché no? Persino gianburrasca ha avuto una chance. Chi dice "casanova" quasi mai ha letto l'Histoire de ma vie; chi userà in una lingua del futuro "bartsimpson" per dire "bimbo iperattivo" non saprà nulla del vero Bart, della sua infanzia difficile, del tormentato rapporto col padre, il bullismo subito a scuola, le umiliazioni... bartsmpson non sarà più un discorso, ma solo una parola. E non ha nessuna importanza che questa parola conservi la traccia di secoli di discorsi.
"Bartolomeo" è un ibrido curioso. "Bar" è una particella aramaica che si usa per costruire il patronimico (vuole dire "figlio di"), mentre "Tolomeo", è un nome greco con una lunga storia che riassume tutta l'era ellenistica: è il nome del generale macedone che segue Alessandro il Grande in capo al mondo, per ritrovarsi alla fine in Egitto e fondare l'ultima dinastia dei faraoni. In realtà esiste anche il nome "Talmai" in ebraico e in aramaico, però non è da escludere la possibilità che il nome sia diventato popolare nell'area medio-orientale con la diffusione dell'ellenismo, quella forma antica di globalizzazione a cui gli ebrei avevano opposto il loro senso di appartenenza a una tradizione e a un unico Dio. Ai tempi di Gesù comunque ormai la lingua dei colonizzatori, il greco, era penetrata fino ai patronimici, fino a saldarsi con le particelle aramaiche. Quando compaiono nomi come "Bartolomeo", tu capisci che il melting pot ha funzionato. Quindi Bar-T è il "figlio di un guerriero" (quanti secoli di significato in quella misera T). Ed è "Simpson", ovvero figlio dei semplici - ma questa è l'etimologia più superficiale. In realtà "Simp-" è una corruzione dell'anglo "Simme", che può essere sia la versione nordica dell'ebraico "Simon" (colui che ascolta), sia una corruzione di Sigmund. In questo caso "Sig" starebbe per vittoria, "mund" per uomo, e Simpson significherebbe: figlio dell'uomo vittorioso. In una lingua impossibile, che mantenesse il ricordo di tutti significati transitati da ogni sillaba, "Bart" e "Simpson" sarebbero quasi sinonimi: figlio del guerriero, figlio del vincitore. Come due fratelli che ignorano di esserlo, pur vivendo a fianco da una vita. Solo dimenticandosi della loro origine possono funzionare assieme. E in effetti Matt Groening quel giorno non aveva la minima idea degli ingredienti che stava mescolando: scelse Bart forse perché anagramma di "brat", e "Simpson" era il cognome perfetto per una famiglia di sempliciotti. Inventare una parola significa strapparla a viva forza da un contesto, e darle un senso nuovo.
Insisto sul nome perché del San Bartolomeo evangelico non conosciamo molto di più. La sua popolarità passa dalla tradizione figurativa, grazie alla tradizione che lo vuole martirizzato in un modo che più spettacolare non si può: scuoiato vivo. Dove come e quando non si sa, o meglio, lo sanno tutti, ma nessuno va d'accordo: chi dice Armenia, chi India, ma il supplizio era tipico dei persiani, o dei Medi, insomma boh. Quel che importa agli artisti è che gli abbiano levato la pelle, perché un martire nudo, ancorché mutilato o abbrustolito, sono capaci di buttarlo giù tutti, ma uno scorticato, con la muscolatura in evidenza... come scriveva Alberto Savinio è "per gli scultori ciò che il Trillo del diavolo è per i violinisti": il pezzo di bravura, il puro virtuosismo. Anche se oggi il primo Bartolomeo che viene in mente a tutti è quello del Giudizio di Michelangelo, che mostra la roncola al Gesù trionfante con aria un po' recriminatoria, e non mostra tendini all'aria né budella a penzoloni, perché nel giorno del giudizio ci si presenta con tutte le membra a posto; d'altronde è noto che ai martiri gli organi mutilati rispuntano immediatamente, ad Agata i seni, a Giovanni Damasceno la mano e così via. Così il Bart in questione ha due pelli: quella scorticata nel martirio la tiene in mano, e tutti sappiamo che dovrebbe raffigurare Michelangelo scorticato dai suoi critici (oppure Pietro Aretino, oppure in realtà non ne sappiamo niente, salvo che prima e dopo il martirio Bart sembra aver cambiato di fisionomia: il che mi spinge ad avanzare una timida candidatura per il patrono dei sottoposti a interventi estetici).
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Made by Marco d'A, bitches |
Oggi la gente che entra in Duomo gli passa davanti senza fermarsi. Non è cambiato semplicemente il gusto, ma la stessa idea di arte. La tendenza era già chiara quando passò Stendhal: al cicerone che gli faceva notare il capolavoro, lo scrittore arricciò il naso: ma che ci fa questa volgarità? Non starebbe meglio in un anfiteatro di anatomia? Sono passati tre secoli, e scienza e arte hanno preso due strade diverse. Raffigurare scrupolosamente il corpo umano non è più l'obiettivo degli artisti, i modellini anatomici vengono prodotti in serie, San Bartolomeo rimane lì per inerzia, ma i turisti preferiscono la madonnina placcata oro.
Rosa l'autoreclusa
23-08-2020, 08:39essere donna oggi, Islam, repliche, santiPermalink![]() |
Il volto di Santa Rosa, ricostruito dal grafico Cícero Moraes a partire dal cranio, custodito in un convento di Lima., via Wiki. |
[2016]. Isabel da Lima, decima di tredici figli, ribattezzata "Rosa" per la tenerezza dell'incarnato che in America Latina più che altrove era indizio di origini europee e quindi di bellezza e nobiltà (anche se secondo un'agiografia fu proprio una serva india a chiamarla così) (secondo un'altra fu il vescovo che la cresimò) (chi le ha contate dice che in giro ci sono 400 agiografie diverse di Santa Rosa patrona di Lima) (e comunque il cambio di nome fu ratificato da una visione mariana) Isabel da Lima, dicevo, a vent'anni si fece costruire una casetta nel cortile di famiglia e non volle più uscirne.
Da bambina aveva letto di Caterina da Siena, che volendo restare sola con Dio, invece di entrare in un convento era rimasta a casa coi suoi: Isabel scelse di seguirne le orme. Caterina da Siena morì di digiuni e anche Rosa non arrivò a compiere 32 anni. È patrona di Filippine, India, Perù, Spilamberto (MO), giardinieri e fioristi: ma voi vi preoccupate del burqini.
(No a voi del burqini non frega più niente, forse non sapete neanche di cosa si tratta) (è in sostanza una muta per nuotare, come quelle che indossano molti surfisti nei mari più freddi, ma siccome è pensata per un pubblico musulmano che vuole andare in spiaggia senza spogliarsi, ha preso questo nome che francamente ripensandoci è agghiacciante: burqa+bikini=burqini) (nel 2016, quando mi misi a scrivere questo pezzo, da più di due settimane non si parlava d'altro, che nostalgia) (vi ricordate di quando negli aeroporti avevamo paura dei bagagli e non della gente).
No, avete ragione. Il burqini è senz'altro un argomento più fresco. Cosa importa se da una parete vi pende ancora un calendario affollato di nomi di vergini anoressiche che spesso sfidarono l'autorità famigliare per autorecludersi a vita: ieri era ieri, oggi è oggi, e dalla Storia non s'impara mai niente. In questi giorni leggo molto discorsi che cominciano per "noi" o per "loro". Noi siamo quelli liberi di stare in ispiaggia come vogliamo. Noi il velo ce lo siamo tolto, salvo le nostre suore che però lo sono per libera scelta, mentre chi si infila un burqini no. Tra parentesi: voi l'avete mai vista davvero una bagnante in burqini? Io due o tre in Francia o in Turchia. In nessuno dei casi era accompagnata da un maschio barbuto e arcigno che la sorvegliava. Ok, tre episodi non fanno statistica. Ma insomma ho il sospetto che molti siano convinti che il meccanismo della prevaricazione funzioni sempre nel modo più banale: se qualcuno le costringe a portare un velo, noi le obblighiamo a togliersi il velo e saranno libere. Però se fossimo entrati con la forza nella casa di Isabel, se avessimo scardinato la porta della sua cella, lei non sarebbe uscita. Nessuno l'aveva rinchiusa con la forza: nessuno riusciva a farla uscire. Per Isabel la libertà era dentro la cella, la gioia era recitare maratone di rosari e strimpellare laude alla chitarra: evadere sarebbe stata una costrizione. Nel Giappone di oggi il fenomeno degli adolescenti che rifiutano di uscire di casa si chiama hikikomori.
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Ah vabbe' ma si era portata la chitarra. Anch'io probabilmente sono rimasto tappato in casa qualche anno con la chitarra (poi per fortuna hanno inventato l'internet). |
A me piace che nelle spiagge ci siano persone molto diverse da me. La spiaggia è il luogo in cui ho imparato da bambino che esistono gli stranieri, esistono i mutilati e infinite altre forme di diversità. Ultimamente vedo molti tatuaggi, una forma di creatività per la quale ho una repulsione fortissima, pre-razionale, chi può mi perdoni. Se avessi passato gli ultimi vent'anni in coma, e se al risveglio mi avessero raccontato che il Pessimo Gusto è salito al potere e costringe la gente a tatuarsi contro la propria volontà, ci crederei: voglio dire, per crederci mi basta andare fare due passi in ispiaggia. Se poi qualcuno mi dicesse: no, guarda che queste frasette motivazionali o queste cornicette da diario delle medie me li sono iniettati sottopelle a mie spese, è stata una mia libera decisione che ho deciso di difendere finché campo, io scrollerei la testa: è quel che ti costringono a credere, dai. Sei solo una vittima, anche se non hai il coraggio di ammetterlo. Se una persona mi dice che si mette il velo per libera scelta, sono libero di non crederci. Ma se invece di manifestare il mio scetticismo le strappo il velo, o le ordino di non presentarsi più in ispiaggia o a scuola, cosa ottengo? Isabel, ti ordino di uscire dal convento.
Io credo che molte donne che si bagnano in burqini non sappiano cosa si perdono. Cosa posso fare per convincerle a cambiare idea e costumi? Se le vieto di bagnarsi, in un colpo solo avrò ammesso che il loro abbigliamento mi fa paura, e che la *nostra* spiaggia non le vuole. Se ne staranno in casa, magari si radicalizzeranno, non un gran risultato. Se invece la tollero, le do la possibilità di passare un po' di tempo con tanta altra gente che ha costumi diversi dai suoi. Questo non le cambierà necessariamente idea, però io non sottovaluterei l'effetto che ti può fare una spiaggia libera e aperta a tutti, che ti accoglie e non ti giudica. Certo, sappiamo che in altri Paesi (quelli sulla frontiera della radicalizzazione) l'introduzione del burqini ottiene l'effetto opposto. Tre anni fa ce n'era un paio, poi quindici, e ora chi non si copre da capo a piedi preferisce stare a casa. È il rischio che corri se credi nella tolleranza.
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Universitarie a Kabul negli anni Ottanta - quando in città governavano, uhm, i filosovietici, e Reagan, ehm, sosteneva i mujahidin di Bin Laden. |
Poi in seconda le vediamo contemporaneamente imparare a sistemarsi un nijab elegante e fare i primi esperimenti col rossetto, e rimaniamo interdetti (giuro, io ho visto preadolescenti in pantaloni di pelle e nijab). Non ci viene in mente che l'indumento, prima ancora dell'Islam e del patriarcato, rappresenti il passaggio all'età adulta – e che quindi una tredicenne lo possa sbandierare con orgoglio. Tengo alle mie radici! Credo nel mio Dio! Ma soprattutto, raga, ho avuto il ciclo. Io a tredici anni ho fatto cose più cretine. Per farmi notare? Anche. Per sentirmi diverso? Mi sono sempre sentito diverso. Mi sembrava che qualcosa o qualcuno mi spingesse fuori dal mucchio, mi obbligasse a trovare una mia identità. Leggevo libri, bevevo cose, giravo di notte, scrivevo cose orrende sui muri, pregavo e adoravo il mio Dio. Se mi ritrovassi davanti, mi prenderei certo a schiaffoni. Prenderei tutti a schiaffoni: chi si copre il capo e chi vuole abolire i copricapi; scorticherei i tatuatori nelle pubbliche piazze. Ma siccome non posso prendermela con me stesso, siccome con quel tredicenne cretino devo convivere, non posso nemmeno prendersela con gli altri. Per me la tolleranza è questo. Non è detto che funzioni. Le crociate, per contro, si è visto molto bene che non funzionano.
Rosa da Lima era considerata la prima santa sudamericana, finché non attecchì la leggenda di Juan Diego Cuauhtlatoatzin, l'atzeco che avrebbe fotografato la Madonna della Guadalupe.
Il dottor Miele e il prof Golia
20-08-2020, 08:32repliche, santiPermalink![]() |
Ah, è così che ripassi la metafisica? |
Abelardo trovò rifugio presso il monastero di Cluny, dove l'abate Pietro il Venerabile intercedette per lui: passò l'ultimo anno della sua vita agli arresti domiciliari, ma poteva ancora insegnare. Aveva una sessantina d'anni, vissuti intensamente. Con Eloisa non si vedeva da più di venti. Però si scrivevano ancora. Anche lui, malgrado tanto filosofare e disputare, è più famoso per aver sedotto una studentessa diciassettenne, da cui ebbe un figlio, e che poi sposò, ma che alla fine decise di spedire in convento; e soprattutto perché a quel punto lo zio di Eloisa assoldò una gang che nottetempo entrò nel suo alloggio e lo evirò. Sembra incredibile che tutto questo sia successo nello stesso secolo in cui Bernardo passa il tempo a invocare crociate, identificare eretici e ammirare Dio, o sé stesso per mezzo di Dio. Ma ad Abelardo erano successe tante altre disgraziate avventure; persino la condanna per eresia non era una novità, ne aveva già subita una con conseguente rito di abiura. Forse a Sens non andò perché era stanco di perdere sempre, contro gente che per di più non se lo meritava. Forse perché era indiscutibilmente il più bravo coi concetti, Abelardo non aveva mai accettato che le dispute si vincono soprattutto con la politica.
Bernardo, per contro, negli anni Quaranta era sulla cresta dell'onda; leader dei cistercensi (benedettini integralisti), pope-maker, boccuccia melliflua e mani ancora pulite dal sangue delle crociate di cui si sarebbero sporcate in seguito. Ci fu chi lo accusò, senza mezzi termini, di aver voluto vincere facile. Benché in una lettera al Papa chiami il suo avversario "Golia", nel senso di gigante gonfio di sé, è difficile immaginarlo nel ruolo di giovane Davide armato solo di un'umile fionda. "Hai trovato Abelardo come bersaglio della tua freccia, per vomitare contro di lui tutta la tua acidità, per spazzarlo via dalla terra dei vivi... eri infiammato contro Abelardo non dallo zelo della correzione, ma dal desiderio di vendetta" (Berengario di Poitiers). Forse più che al vecchio Abelardo, troppo orgoglioso per non farsi mazzolare periodicamente da qualche inquisitore, Bernardo temeva i suoi studenti (che dal termine "Golia", forse iniziarono a essere definiti "goliardi"). Loro sì erano ancora in grado di seminare guai per mezza Europa: come quell'Arnaldo di Brescia che qualche anno dopo avrebbe teorizzato un papato privo di potere temporale, senza fermarsi alla teoria, ma profittando di una vacanza papale per fondare un libero comune a Roma. Erano tempi duri per la cristianità, come sempre d'altronde: scismi in ogni dove, papi e antipapi, che costringevano l'umile Bernardo a uscire periodicamente dal monastero che aveva fondato, a riconquistare il cuore e l'anima dei fedeli, con prediche ben calibrate ed effetti speciali (=miracoli). La gente lo amava, metteva in giro voci ancora più grosse di quanto fosse autorizzato: le api han fatto il nido nella sua bocca, la Madonna stessa lo ha allattato a distanza, ecc. ecc. Ma non andava sempre così bene. In vari centri della Linguadoca i catari, ormai maggioritari, lo buggeravano sistematicamente. Altri santi, come Domenico o Antonio, li affronteranno con più pazienza, mostrando anche una certa ammirazione per la coerenza e la serietà degli avversari. Bernardo no, a un certo punto lasciò scritto che andavano tutti sterminati, tanto non ascoltavano: erano in cattiva fede. Bernardo era già nella tomba da una decina d'anni quando il massacro dei catari cominciò. Più dirette sono le sue responsabilità nel grande flop della seconda crociata in Palestina
Fu papa Eugenio III a metterlo nei guai. All'indomani della sua consacrazione, l'umilissimo Bernardo gli scriveva ricordandogli che prima di essere papa era stato un cistercense ordinato a Chiaravalle, insomma una sua creazione: e sapete cosa si dice in giro Santità? "Che non siete voi a essere papa, ma io e ovunque, chi ha qualche problema si rivolge a me". Benissimo, ma anche Eugenio aveva un problema: Edessa (bastione crociato in Assiria) era caduta, Gerusalemme rischiava di tornare ai Saraceni in tempi brevi. Sarebbe stato uno smacco per tutta la cristianità occidentale; viceversa, una seconda crociata (a mezzo secolo dalla prima) avrebbe fortificato il prestigio della Chiesa romana e dato sfogo a un sacco di nobili riottosi. Bernardo era sensibile all'argomento: aveva già indirizzato i fondatori dell'ordine dei templari con un libretto in cui ammetteva che ammazzare i saraceni poteva essere seccante, erano anche loro creature del buon Dio. Tuttavia, non essendo desiderosi di convertirsi, ma viceversa propensi a minacciare i pellegrini nella loro stessa esistenza, non restava che farli fuori, con qualche attacco preventivo mirato. Era la teoria del "malicidio": uccidere è male, ma uccidere il male non è così male, con la quale si poteva anche giustificare a posteriori il massacro di Gerusalemme del 1099, più un'altra dozzina di spedizioni crociate nei secoli a venire. Da bravo intellettuale neocon dei suoi tempi, Bernardo si mise al servizio della propaganda crociata con la consueta dedizione: dopo le prediche gli ascoltatori gli strappavano lembi del saio, non potevano aspettare che morisse per averne una reliquia.
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I'll never look into your eyes, again. |
Su questa terra, mah. C'è rimasta solo un po' di testa a Troyes, snobbata dai turisti. Abelardo ed Eloisa invece sono seppelliti assieme al Père-Lachaise, sì, quello di Jim Morrison. La gloria del mondo gira così.
Rocco e il suo fardello
16-08-2020, 08:16repliche, santiPermalink[2012]. Intorno al 1370, nel carcere di Voghera viene tradotto un ambiguo personaggio sulla trentina, vestito alla foggia dei pellegrini, che ha rifiutato di rivelare le sue generalità, ma che l'accento denuncia come straniero. Accusato di spionaggio, non fa nessuno sforzo per difendersi, anzi afferma di essere "peggio di una spia". Trascorre le notti in cella flagellandosi, finché non muore, tre o anche cinque anni dopo. Accanto al suo corpo, le guardie trovano una tavoletta su cui è inciso il suo nome: "Rocco"; e una dedica, "Chiunque mi invocherà contro la peste sarà liberato". Quando sul petto del cadavere viene trovato un angioma rosso a forma di croce, il giudice che lo ha condannato riconosce finalmente un suo lontano parente di Montpellier - sì, nel XIV secolo a Voghera c'era un giudice imparentato con una famiglia nobile di Montpellier, c'è chi ha provato a sostenerlo.
È un modo per tenere insieme almeno qualche pezzo di due leggende diverse: quella che vuole il più celebre protettore contro la peste nato e morto a Montpellier, e quella che lo pretende ingiustamente recluso a Voghera. Ma ce ne sono tante altre, così come probabilmente c'era più di un Rocco in giro per le terre funestate dalle epidemie, tentando di soccorrere, di dare una mano, con qualche trucco da taumaturgo che a volte funzionava a volte no. Può darsi che il più famoso o fortunato si chiamasse Rocco, e che da un certo punto in poi tutti i sedicenti guaritori che arrivavano in città pretendessero di chiamarsi così, come tutti i circhi si chiamano Orfei. E dire che siamo nel Trecento, ormai dovremmo avere a che fare con personaggi storici, non leggende. Ma Rocco è un fantasma trascinato dalla peste, un flagello che surclassa ogni apocalisse scritta o immaginata, arrivando in certe città a dimezzare la popolazione. Muoiono anche i cronisti - a Firenze Giovanni Villani cade con la penna in mano - e la civiltà comunale risprofonda nel medioevo dei miti. C'è un Rocco ad Acquapendente, Viterbo, che guarisce gli appestati con un segno di croce e l'imposizione della mano. Ce n'è uno a Roma che guarisce un vescovo e si fa presentare al Papa, così con l'ortodossia siamo a posto. Ce n'è uno francescano, perché a un certo punto del culto s'impossessano i francescani. C'è quello di Piacenza, che contrae la peste e si ritira in una grotta a Sarmato, dove un cane ogni giorno viene a portargli un pezzo di pane. Ma tanti altri Rocchi ci sono in Francia, e in Germania, e forse nessuno è il Rocco vero. Secondo Pierre Bolle sono tutte rivisitazioni di un San Racho di Autun vissuto nell'alto Medioevo: anche lui imprigionato ingiustamente, ma in una isoletta; perciò a lui ci si raccomandava contro le tempeste. Col passar dei secoli Racho sarebbe diventato Rocco, e le "tempeste" - magari per la disattenzione di un copista - sarebbero divenute la "peste". Bella storia.
Ma la più curiosa resta quella della prigionia di Voghera. Perché quel Rocco - che magari non è il Rocco di Acquapendente o di Piacenza, ma è comunque un taumaturgo - si lascia morire in cella, senza cercare di spiegarsi, senza far valere le sue conoscenze altolocate? "Sono peggio di una spia", dice ai suoi accusatori. Cosa c'è di peggio di una spia? Un untore, per esempio.

Il dibattito secolare su Sua Madre
15-08-2020, 07:39madonne, repliche, santiPermalink![]() |
Il fatto che dopo Tiziano ci siano stati altri pittori mi lascia, talvolta, stupefatto. |
In sostanza, Maria di Nazareth in questo momento è una delle poche creature (l'unica?) a essere in Paradiso non soltanto con l'anima, ma anche col corpo, come Gesù - però Gesù è Dio; Maria no, è una donna, ma non come tutte le altre: come ufficializzò Pio IX nel 1854, è nata senza peccato originale (da cui la festa dell'Immacolata, appunto), e per questo motivo, seguendo un filo logico, non si vede perché il suo corpo debba essere morto. Se uno guarda le prime pagine della Genesi, nota che la morte è la punizione che Dio commina a Eva, Adamo e tutta la loro stirpe, per avergli disobbedito (il peccato originale). Ma una volta stabilito per dogma di fede che Maria è nata senza, che non avrebbe potuto concepire Gesù altrimenti, non c'è motivo per cui essa debba essere morta, nemmeno nel corpo.
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Se non metto un Carracci stavolta, non lo metto più. |
Ma d'altro canto di Maria la Bibbia parla poco in generale. Il Vangelo di Marco, che come abbiamo visto potrebbe essere il più antico, Maria non la nomina nemmeno. Il Gesù di Marco è un messia piuttosto altero che disconosce madre e fratelli. Con Matteo la madre di Gesù prende almeno un nome, ma è Giuseppe a sognare l'angelo e a portarla prima a Betlemme e poi in Egitto. La Maria che conosciamo davvero è quella di Luca, la vera protagonista della prima parte del suo vangelo: è una donna coraggiosa, illuminata, è persino una poetessa (lì per lì ti improvvisa il Magnificat)... però scompare del tutto appena il figlio comincia a predicare. L'ultimo evangelista, Giovanni, cambia ancora le carte in tavola: non racconta il Natale o altri episodi dell'infanzia di Gesù, ma segnala una "madre" (non la nomina mai per nome) che sembra seguirlo e assisterlo fino alla morte e alla resurrezione. Non che il Gesù di Giovanni sia diventato un mammone, tutt'altro: alle nozze di Cana, quando mamma fa presente che è finito il vino, le risponde "che ho da fare con te, donna?" È la prima cosa che Gesù dice a Maria, in quattro vangeli. Poi, sul finale, quando è già inchiodato alla croce, gli affida Giovanni apostolo ("madre, questo è tuo figlio"), e secondo alcuni l'umanità tutta. Maria è segnalata un'ultima volta da Luca negli Atti, tra le donne che fanno parte dell'entourage degli Apostoli prima della Pentecoste. Ma dalla Pentecoste in poi, quando gli apostoli diventano missionari nel mondo, di Maria si perde ogni traccia. Tutto quello che ci raccontano gli apocrifi (è morta l'anno dopo; ha seguito Giovanni a Efeso; non è mai morta; è morta ed è immediatamente salita in cielo davanti a tutti gli apostoli) non è attestato che un abbondante secolo dopo, insomma, non c'è niente di affidabile e lo sapevano benissimo anche i Padri della Chiesa. Di Maria non si sa più niente.
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Il Correggio aveva afferrato ciò che ai teologi ancora sfuggiva, ovvero: se potessimo rimirare la Gloria di Dio, vedremmo un sacco di gambe per aria |
Il dibattito infatti sarà tra chi ne parla bene e chi ne parla benissimo, e noi non siamo in grado di seguirlo in tutta la sua completezza, perché chi non ne parlava benissimo rischiava spesso di essere bruciato con le sue opere. Questo è magari il motivo per cui a distanza di secoli non si capisce perché il Papa abbia aspettato tanto a omologare l'Assunzione, quando l'opinione prevalente dei Padri della Chiesa e degli altri teologi che ci sono arrivati oscilla tra il "sicuramente sì" e il "quasi sicuramente sì". Il dibattito si concentrava su altri punti secondari, per esempio: prima di essere assunta in cielo anima e corpo, Maria è morta o no? i committenti di Caravaggio, come vedete sotto, pensavano di sì, e questa era la tesi più diffusa, soprattutto tra gli ortodossi, che il 15 agosto festeggiano la Dormizione (in attesa di risorgere, Maria non muore: dorme). In Occidente però si stava facendo strada l'idea che Maria fosse stata assunta senza passare dalla morte. Pio XII nel 1950 con l'enciclica Munificentissimus Deus lascia aperta la questione, limitandosi a stabilire che "l'immacolata Madre di Dio, la sempre vergine Maria, una volta terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo".

Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica.Quindi ora siamo tutti d'accordo, no? Sì, c'è solo quel piccolo, minuscolo problema di cui parlavamo sopra: che di questo dogma di fede, discusso per diciannove secoli e definito nel ventesimo, il Nuovo Testamento non parla. Così come non parla di Maria se non per accenni brevissimi. Qualcuno timidamente ha anche sostenuto che un mistero così profondo possa avere una causa divina. Insomma, immacolata o no, assunta o no, forse Gesù preferirebbe che noi non discutessimo troppo di sua madre. Ma è più forte di noi, evidentemente.
Le due corone di Massimiliano
14-08-2020, 08:30nazismo, repliche, santiPermalink[2013]. Da bambino ti raccontano tante storie, però tu sei sempre libero di capirle a modo tuo. Ieri sera ho scoperto che la leggenda delle due corone di San Massimiliano l'avevo sempre fraintesa. Nella versione che rammentavo, il giovane non ancora Massimiliano (al secolo si chiamava Raimondo) riceveva nottetempo la visita di una misteriosa signora che gli mostrava due corone, una bianca e una rossa. I colori della Polonia, e i miei.
La signora gli diceva "Scegline una", e Raimondo, come fanno i bambini, rifiuta la contrattazione: "Perché? Mi piacciono tutte e due". Va bene, fa la signora: allora avrai tutte e due. Raimondino non lo sapeva, ma aveva appena scelto la VERGINITÀ e il MARTIRIO. Avevo sempre trovato un po' scorretto questo modo della Madonna di strappare contratti di santità a bambini inconsapevoli. In effetti ho scoperto che la versione ufficiale è ben diversa: è la donna stessa presentarsi come Maria Immacolata e a spiegare a Raimondo cosa implichi scegliere una delle due corone, o entrambe. D'altro canto è pur sempre un bambino, quante volte da bambini abbiamo sognato di morire morti eroiche, generose e piene di significati, ma questo non autorizza la Madonna a comparire proprio in quel momento e dire firma qui - e trent'anni dopo ci ritroviamo ad Auschwitz in una camera della morte ingombra di cadaveri. Insomma, io da bambino l'unica morale che riuscivo a trarre dalla leggenda è: non accettare i regali dagli sconosciuti in sogno, neanche dalla Madonna. Soprattutto dalla Madonna. Massimiliano Maria Kolbe però ha pensato diversamente, ha avuto una vita intensa e breve, piena di soddisfazioni e malattia, ed è morto da eroe. Da martire?
Non è stato subito così chiaro. Paolo VI, che lo beatificò, si contentò di definirlo "confessore" e "martire della carità", che non è proprio un martire al 100%, un martire in nome della fede. Massimiliano non era morto per difendere la fede cristiana, ma più prosaicamente per salvare la vita di un uomo: il soldato Franciszek Gajowniczek, compagno di prigionia e padre di famiglia. Scambiare la propria vita con quella di qualcun altro, morire al suo posto in uno dei modi più penosi possibile è cosa molto nobile, ma ancora negli anni Settanta non rientrava nella definizione compiuta di martirio. Per cambiare questa impostazione ci volle l'interessamento molto attivo di un papa compatriota, Giovanni Paolo II, che nel 1982 lo promosse non solo santo, ma martire a tutti gli effetti. Scegliendo di morire al posto del soldato Gajowniczek, Massimiliano avrebbe infatti combattuto il nazismo, ideologia anti-umana e... anti-cristiana. In un colpo solo Wojtyla procurava alla Polonia un santo recente e lo metteva in prima fila nella lotta contro il nazismo, che già negli anni Ottanta stava perdendo i suoi contorni storici per trasformarsi nel cosiddetto Male Assoluto. Trovare cattolici che invece di collaborare vi si fossero opposti apertamente diventava una priorità.
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Dino Battaglia nel 1962 |
Quando Massimiliano fa un passo oltre la fila e propone al comandante lo scambio, ha scarsissime possibilità che una richiesta del genere sia recepita. Il comandante avrebbe potuto benissimo farli fuori entrambi, probabilmente era il suo "dovere", nella cella della morte il posto c'era. Quando Massimiliano propone di scambiare la sua vita di instancabile propagatore del messaggio cristiano e mariano, di pubblicista e radioamatore all'avanguardia, fondatore di conventi in Polonia e Giappone, con la vita di un soldato semplice, forse è più stanco di sopravvivere di quanto gli agiografi non vogliano ammettere. Agiografi in cui Massimiliano del resto difficilmente sperava. In una tragedia così spaventosa, un sacrificio così minimo - una vita per un'altra - davanti a un pubblico di nazisti indifferenti e vittime destinate comunque al macello da lì a poco - quante possibilità aveva di essere ricordato?
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Nizzi-Tacconi, 1982 ("Il Giornalino"). |
Qualche mese dopo un B29 americano sganciò una bomba atomica su un sobborgo industriale di Nagasaki, uccidendo quarantamila persone sul colpo. Il convento fondato da Kolbe nel 1930, il giardino dell'Immacolata (Mugenzai no Sono) si trovava dal lato giusto di una collina: resistette all'esplosione e ospitò i feriti durante i primi soccorsi.
***
Questo pezzo ha una buffa appendice; due anni dopo (2015) fu segnalato all'Ordine dei Giornalisti in quanto "disgustoso". L'Ordine tuttavia non poteva però aprire un procedimento disciplinare su di me, siccome non sono iscritto.
Così aprì un procedimento a carico di Luca Sofri (il pezzo era stato pubblicato sul Post), per "violazione della deontologia professionale e vilipendio della religione cattolica".
Per fortuna è finito tutto bene (ho cancellato i nomi).
Ultima postilla: San Massimiliano Kolbe fu canonizzato il 10 ottobre 1982, il giorno in cui nel mio paese nacque un gruppo scout cattolico, che lo elesse immediatamente suo patrono. Anche per questo motivo è un santo che mi è caro in un modo particolare. Il pezzo più o meno disgustoso che scrissi su di lui doveva avere un finalino in cui la Madonna in sogno mi compativa per non aver mai scelto nessuna corona, né bianca né rossa né a pois: vedi cosa ti è successo? Avevi paura a scegliere e non sei diventato niente. L'ho cancellato - mi sembrava un po' troppo personale - e adesso non riuscirei a riscriverlo. Lo segno qui per ricordarmene, non ho molti altri spazi a disposizione.
Più francescana di Francesco
11-08-2020, 08:19repliche, santiPermalink![]() |
Il velo lungo è una forma di censura, lei andava a piedi nudi e non li nascondeva. |
Il caso di Chiara Scifi è particolare. Non che non digiunasse - era anzi una campionessa della categoria – ma le sue lettere non ci lasciano nessun compiacimento morboso. Nessun delirio mistico. È anche vero che ne scrisse poche, ma ci danno la sensazione di una persona poco incline alle esperienze estreme. Ad Agnese di Boemia lascia intendere che dovrebbe anzi sforzarsi di mangiare qualcosa di più:
Siccome però, non abbiamo un corpo di bronzo, né la nostra è la robustezza del granito, anzi siamo piuttosto fragili e inclini ad ogni debolezza corporale, ti prego e ti supplico nel Signore, o carissima, di moderarti con saggia discrezione nell'austerità, quasi esagerata e impossibile, nella quale ho saputo che ti sei avviata.
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Giotto: Pianto di Santa Chiara su Francesco morto. Non so la storia del tipo che monta sull'albero, ma un po' mi ci riconosco: un impiccione che vorrebbe saperne di più senza averne il diritto. |
Credo che per capirla dovremmo partire da qui. Chiara amò e seguì Francesco per tutta la sua vita, anche quando Francesco non ci fu più. Fu la prima ragazza a seguirlo – forse non aveva 18 anni – entrando in rotta con la famiglia nobile che l'avrebbe preferita accasata con qualche cavaliere, o persino monaca, se proprio ci teneva: ma in un monastero come si deve, servita e riverita da monachelle di rango inferiore. Chiara invece voleva vivere del sudore della sua fronte e se ne scappò in quella comune della Porziuncola che forse non aveva ancora ottenuto l'approvazione papale: in sostanza, quando Chiara si fece tagliare i capelli, Francesco era ancora il capo carismatico di una piccola comunità di giovinastri di buona famiglia scalzi e vestiti di sacco che andavano in giro cantando e restaurando chiesette diroccate. Prima o poi si sarebbero stancati, come si erano già stancati di altre cose, degli amorazzi e della guerra. Oppure si sarebbero montati la testa come i patarini o i valdesi, e sarebbe stato necessario bruciarne un po'. La situazione era talmente rischiosa che lo stesso Francesco cercò di allontanare la ragazza, indirizzandola presso un monastero benedettino. Chiara non ci restò a lungo. Tornò ad Assisi, riuscì a trovarsi un posto a San Damiano, e nel giro di pochi anni dirigeva un convento. Tra le prime seguaci (che poi sarebbero state chiamate 'clarisse'), una sorella e la madre.
Francesco è figlio di un mercante, anche se molto ricco, mentre Chiara è figlia di una famiglia nobile, una delle più importanti di Assisi. Chiara quindi è più colta, conosce bene il latino, e ha una mentalità diversa da Francesco perché, per esempio, non ha, come lui, orrore del denaro. Per Francesco il fatto di essere figlio di un mercante è sentito come un marchio. Dice ai frati che non devono mai toccare il denaro. Per lui anche chiedere la carità era rubare ai poveri. Noi siamo abituati a parlare di ordini mendicanti, ma al tempo di Francesco era assolutamente proibito chiedere l’elemosina. Tutti dovevano vivere con il lavoro delle proprie mani e Francesco puniva anche in modo molto crudele i frati che avevano toccato del denaro, sia pure per usarlo poi per i malati. Non andava bene lo stesso. Invece Chiara, anche nella regola che scriverà, dice che, se qualche parente dà dei soldi a una monaca, la Superiora glieli deve lasciare, sarà la monaca stessa a decidere cosa farne, se tenerli per sé o darli a un’altra consorella oppure ai poveri (Chiara Frugoni quando parla di Santa Chiara è meravigliosa).Nel 1209 Francesco prese la decisione più ragionevole e controversa della sua vita di giullare di Dio: decise di affidarsi al Papa. Si recò addirittura a Roma per convincerlo. Non era una mossa così scontata: Innocenzo III, Lotario dei Conti di Segni, non rientrava certamente nell'idea francescana di povertà. Aveva appena incoronato un imperatore e lo avrebbe scomunicato di lì a poco. Prostrarsi a lui, venirci a patti, era magari l'unico modo per non essere presto o tardi spazzati via da un'inquisizione: ma comportava inevitabilmente qualche compromesso. Francesco stesso finì per sottoscrivere nel 1223 una nuova Regola meno estrema, stilata in collaborazione con un cardinale. Ma era ormai un Francesco stanco, sfinito dalle penitenze e dai lunghi viaggi, dimissionario dal suo stesso movimento, che sarebbe morto di lì a quattro anni. Chiara ne aveva una trentina, e si ritrovava senza più guide a capo del ramo femminile di un movimento religioso in piena espansione. Altre al suo posto si sarebbero lasciate andare - in fondo bastava digiunare con più assiduità, chi avrebbe impedito a una ragazza già acclamata come santa di raggiungere un po' più presto il proprio posto nel calendario?
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Get thee to a nunnery, go. |
A quel punto Chiara probabilmente non scendeva più da letto. Lavorava ancora al filatoio; ogni tanto magari si riguardava quella vecchia messa di Natale in videocassetta. Ma quel che importa è che nella regola ci fosse scritto che le clarisse potevano uscire, dal convento, e lavorare: anche ben calzate, se il lavoro lo avesse richiesto. Con Chiara le suore escono dai conventi ed entrano nel mondo. Ci sarebbero rimaste poco, ma fu un precedente importante.
Bisogna arrivare fin quasi al 1500 per incontrare donne religiose che lavorano negli ospedali o che insegnano. Prima per le donne c’era solo la clausura. Chiara, invece, voleva portare avanti la proposta di Francesco, naturalmente con alcune limitazioni e cautele perché anche lei, donna di quel tempo, non è che pensasse di andare in piazza. Però, come si desume da tante cose che lei dice, prevedeva non solo un continuo rapporto con Assisi, ma anche delle sue monache con la gente. Il suo è un monastero aperto, vanno e vengono una quantità di persone: mamme con bambini che si sono fatti male, donne che soffrono, ma anche uomini che hanno problemi con la moglie… E Chiara predica, fa proprio delle prediche. Uno dei miracoli di Chiara ci racconta che un giorno l’uscio del monastero si sgancia e cade su Chiara ma lei rimane illesa. Si può desumere che un monastero il cui uscio era così traballante fosse assai poco custodito e quindi molto aperto. Poi Chiara non definisce mai in maniera molto precisa il rapporto con le monache che servono fuori del monastero, lei le tratta esattamente allo stesso modo delle monache che rimangono dentro il monastero. Dagli indizi che si possono ricavare sono monache che vanno a curare dei malati, soprattutto le lebbrose. E lei dice loro: “Quando siete per la strada e incontrate la gente, dite quanto è bello il creato, quanto sono belli i fiori, cercate di dire, appunto, la gratitudine che bisogna avere per questo mondo così bello”Di Chiara i cronisti parlano poco. Soffre senz'altro la vicinanza con Francesco, la cui vita fu senz'altro più interessante e avventurosa. Francesco digiunava, ma andava anche alle crociate, e aveva visioni mistiche, e dettava i cantici, e se ne andò presto lasciò un movimento nel caos. Chiara scriveva poco, alle crociate non poteva andarci, di visione ne ebbe una sola. Me la immagino raggrinzire nella sua cella come una tartaruga, saggia e tetragona. Francesco aveva tante idee per la testa: qualcuna la realizzò, altre si persero per strada. Chiara aveva un'idea sola: ci appoggiò la casa sopra ed è ancora lì. La più francescana dei due, in un certo senso.
L'arcidiacono alla griglia
10-08-2020, 08:03repliche, santiPermalink[2013] La santità, come la fama, dipende da variabili imponderabili. C'è chi passa la vita a inseguirla invano, e chi diventa immortale senza averci mai provato, per cose che non ha mai fatto, o parole che non ha mai detto. È un po' quel che è successo a San Lorenzo, uno dei meno evanescenti tra i martiri del terzo secolo, nel senso che, a differenza di molti altri personaggi leggendari, potrebbe essere esistito realmente: in questo caso sarebbe nato alle pendici dei Pirenei, e da studente a Saragozza potrebbe aver conosciuto il futuro papa Sisto II, di cui sarebbe diventato stretto collaboratore, seguendolo a Roma e morendo pochi giorni dopo di lui, durante la persecuzione di Valeriano imperatore. Mentre però San Sisto II Papa non è mai stato un santo particolarmente popolare - tranne a Manerbio (BS), Joppolo (VV) e pochi altri centri - il suo arcidiacono Lorenzo è stato per molti secoli un'indiscussa superstar della cristianità, patrono di Rotterdam e dei cuochi, dei pasticcieri, dei rosticceri, dei librai e dei vetrai, di un rione di Roma e di Grosseto. E tutto questo perché? Per un supplizio originale, che probabilmente non ha subito (la graticola ardente) e per una frase celebre che sicuramente non ha detto: Assum est: versa et manduca. "È cotto: gira e mangia".
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Bernini a 16 anni scolpiva così, vi rendete conto. |
Sono le parole che avrebbe rivolto ai suoi aguzzini, secondo Sant'Ambrogio, mentre lo arrostivano. Anche la graticola compare per la prima volta nel resoconto di Ambrogio, a cui non mancava la fantasia. Dal suo racconto poi derivano tutte le leggende seguenti, sempre più adorne di particolari improbabili: anche perché da un certo punto in poi nel medioevo smisero di capire l'ironia e la battutina del martire fu presa mortalmente sul serio; dunque i pagani furono accusati di grigliare i cristiani per mangiarseli. Nel frattempo comunque l'originale supplizio e il brillante motto di spirito avevano conquistato a Lorenzo un culto di primo livello: tanto che quando arrivarono a Roma le reliquie di un altro santo prestigiosissimo, Stefano primo martire, esse furono collocate accanto a quelle di Lorenzo, così anche se erano false i miracoli comunque li garantiva il martire precedente (in realtà all'inizio Roma aveva proposto uno scambio con Costantinopoli: noi vi diamo Lorenzo, voi Stefano, ma tutti i componenti dell'ambasciata costantinopolitana, dopo aver consegnato Stefano, muoiono, un vero segno della volontà di Dio a sentire Iacopo di Varazze).
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Ho inoltre saputo da fonte degna di fede che di giorno si suda. |
Quindi, insomma, non ha nessuna importanza quante cose belle abbiate detto o scritto nella vostra vita. La cosa a volte mi tormenta nella notte insonni. Io, sapete, sono uno che scrive parecchio, e da anni pubblico tutto. Ho un blog che è più grosso della bibbia ormai, non è un'iperbole: è davvero più grosso della bibbia, e l'ho scritto tutto io. Però i posteri non hanno bisogno di tutto questo materiale. Va da sé che se ho anche una possibilità, risicatissima, di sopravvivere, sarà per una frase o poco più. Ora, le possibilità che quella frase sia una stronzata sono altissime. Non è solo il fatto che io ne abbia scritte tante – veramente tante – è più forte di me – anche adesso, vedete? – ma c'è anche da calcolare una certa appiccicosità della stronzata; le stronzate resistono meglio, se ne calpesti una non te ne liberi più. E anche se non ne avessi mai detta una, anche in quella remotissima eventualità, non ha importanza: basta che qualcuno te l'attribuisca, e non te ne liberi più. Come Neruda, come Voltaire, come Lorenzo. Anche se il caso più famoso credo sia quello di Cambronne.
Pierre Cambronne (1770-1842) ha combattuto per la Francia su quasi tutti i fronti aperti dai rivoluzionari e poi da Napoleone: Italia, Svizzera, Spagna, Russia, persino Irlanda. Già prima di farsi ripetutamente infilzare da spade e baionette a Waterloo, si era preso tre o quattro pallottole in altre battaglie. I suoi soldati lo adoravano. Ha il profilo scolpito da qualche parte sull'Arco di Trionfo. Ma non è per questo che lo ricordiamo. E non è nemmeno per la frase "la guardia muore ma non si arrende", semplice ma di una certa efficacia, che comunque probabilmente non ha pronunciato (forse la disse un collega che a Waterloo ci lasciò le penne, i suoi eredi portarono Cambronne in tribunale per attribuzione indebita di detto celebre, ma non la spuntarono). No. "Cambronne", da metà Ottocento in poi, divenne un garbato eufemismo per "merda", e tale è rimasto. La wikipedia francese ricorda persino il verbo, "cambronniser". Il tutto a causa di una rispostaccia che potrebbe essergli capitato di dare in un momento di fortissimo stress – gli inglesi avevano circondato la Guardia Imperiale e si trattava di scegliere, appunto, se arrendersi o morire imprecando. Quel che buffo è che non solo Cambronne non morì, ma una volta fatto prigioniero, finì per sistemarsi con la nobildonna scozzese che incontrò in infermeria. Quest'ultima, come condizione necessaria per sposarlo e assumere il suo cognome, gli fece giurare di non avere assolutamente mai detto "merde", perlomeno non a Waterloo nelle circostanze a tutti note. Fece di più: lo corruppe. Una cosa molto triste: gli regalò un prezioso orologio, in cambio dell'ammissione di non avere assolutamente mai risposto a un generale britannico "merda". Fu tutto inutile, perché dell'episodio si impossessò Victor Hugo, sempre a suo agio quando si tratta di impastare prosa aulica e liquami. Secondo Hugo, con questa parola Cambronne aveva semplicemente vinto Waterloo:
...fulminare con una tale parola il nemico che vi annienta, vuol dire vincere.
Dare questa risposta alla catastrofe, dire questo al destino, dare questa base al futuro leone, gettar questa ultima battuta in faccia alla pioggia della notte, al muro traditore d'Hougomont, alla strada incassata d'Ohain, al ritardo di Grouchy e all'arrivo di Blücher.
Portare l'ironia nel sepolcro, fare in modo di restar levato sulle punte dopo che si sarà caduti, annegare in due sillabe la coalizione europea, offrire ai re le già note latrine dei cesari, fare dell'ultima delle parole la prima, mescolandovi lo splendore della Francia, chiudere insolentemente Waterloo col martedì grasso, completare Leonida con Rabelais, riassumere questa vittoria in una parola impossibile da ripetere, perdere il campo e conquistare la leggenda, aver dalla sua, dopo quel macello, la maggioranza, è una cosa che raggiunge la grandezza di Eschilo.
La parola di Cambronne fa l'effetto d'una frattura: la frattura di un petto per lo sdegno, l'irruzione dell'agonia che esplode!
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Merda d'artista a Nantes |
Tutto un giro di parole per dire, in effetti, merda. E può capitare anche a voi. Non importa chi siate, o cosa abbiate fatto o pensato per tutta la vita. Un giorno pesterete una cambronne in pubblico, qualcuno riderà, e si ricorderà di aver riso anche quando tutte le vostre foto saranno sbiadite e nipotini non si rammenteranno più chi siete stati. Succede. Succede anche oggi che le foto non sbiadiscono più. Chiedete a Voltaire. Chiedete a Neruda, cosa significa morire lentamente.Bene, quello che Cambronne disse a Maitland
prima che il fuoco inglese spianasse il ciglio della collina
contro la luce morente del giorno
io dico a voi, a tutti voi,
e a te, mondo.
E vi impongo di scolpirlo
sulla mia pietra.
A volte nevica in agosto
05-08-2020, 08:00madonne, repliche, santiPermalink
La basilica liberina, o "Ad nives", è il primo nucleo di Santa Maria Maggiore, la più antica delle quattro basiliche papali di Roma. In realtà la parte più antica della costruzione dovrebbe risalire al papato di Sisto III, nel secolo successivo - poi rimaneggiata e ingrandita più volte nel corso dei secoli. Prima di questa doveva esserci una chiesa ancora più antica, consacrata però al Credo niceano. Quella di Sisto è invece dedicata alla Madonna, che era stata da poco proclamata "madre di Dio" durante il concilio di Efeso (i nestoriani, che la ritenevano soltanto madre della parte umana di Cristo, furono contestualmente dichiarati eretici). Il nome di Madonna delle Nevi fu progressivamente accantonato, specie a partire dalla controriforma, quando l'antico miracolo delle nevi fu accantonato in quanto privo di fonti serie. La festa del 5 agosto divenne, ufficialmente, la "dedica della basilica di Santa Maria Maggiore". Ma ancora viene ricordata con un lancio di petali di rosa dalla cupola.
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Madonna giapponese (con tanto di drago sotto i piedi). |
Tu sei il Male, io sono il Curato
04-08-2020, 08:51Francia, pontefici, preti parlanti, repliche, santiPermalink![]() |
La cosa fantastica è che un po' a Voltaire ci somiglia. |
E invece no. Due giorni prima la prevista proclamazione, un sobrio comunicato informò che non se ne faceva niente. L'arazzo restò lì a sventolare, la beffa unita al danno, e i vaticanisti ad arrovellarsi: perché? Cosa aveva fatto di male il povero Jean-Marie, per subire uno smacco del genere? Nulla di nuovo, avendo lasciato il mondo un secolo e mezzo prima. Forse qualcosa, un particolare fino a quel momento inosservato era diventato importante all'ultimo minuto? Buon Dio, e cosa? Non era "abbastanza abbastanza rappresentativo del sacerdozio del XXI secolo, né abbastanza universale", scrissero. Non rifletteva "completamente la figura del prete di oggi, all'epoca della comunicazione". Se ne erano accorti solo 48 ore prima?
In effetti Jean-Marie non è proprio quel tipo di parroco che oggi mettono nelle pubblicità dell'otto per mille. Da laici poi è molto difficile accostarsi alla sua storia senza fare quella tipica smorfia, avete presente - il sorrisetto à la Voltaire che Voltaire magari poteva permettersi, noi no. Gli agiografi ufficiali ci mettono del loro, sembrano che ci tengano particolarmente a tratteggiare una figura di prete ignorante e oscurantista, e perché no, fanatico e allucinato. Tutta questa insistenza sulla carriera scolastica, per esempio. Non c'è una biografia di Jean-Marie che non sottolinei e dettagli la sua inettitudine agli studi, la sua profonda incompatibilità col latino, che potrebbe non essere molto inferiore a quello di un classico liceale classico diplomatosi per il rotto della cuffia. A catechizzare i fanciulli viceversa pare fosse molto bravo, ed era un buon predicatore, uso a mandare a mente le omelie; col tempo si sarebbe dimostrato un fundraiser astutissimo, insomma qualche virtù intellettuale doveva pure averla; però i suoi veneratori ci tengono a dipingerlo come la capra più capra che ci fosse in circolazione. Dietro c'è tutta una polemica con l'illuminismo e con la Rivoluzione: Jean-Marie era cresciuto negli anni in cui i preti francesi che rifiutavano di giurare fedeltà alla République rischiavano la ghigliottina celebrando la messa nascosti nei fienili.
Dopo un lungo, lunghissimo percorso scolastico, in cui gli capitò di avere insegnanti più giovani di lui, finalmente Jean-Marie ottenne una minuscola parrocchia (200 anime), e la trasformò. Fece chiudere le taverne e proibire i balli. Messa giù così, suona veramente male. Se fossi io il PR di Jean-Marie, l'articolerei in questi termini: "lottò vittoriosamente, con le uniche armi della parola e dell'esempio, contro la piaga dell'alcolismo che dilagava in quella piccola comunità agraria". E con le taverne siamo a posto.
Coi balli, davvero, coi balli non saprei che dire. Jean-Marie ma che male ti facevano questi contadini ottocenteschi, se per la mietitura gli veniva voglia di divertirsi e sgambare un po'? Vediamo cosa ne dicono su wikipedia...
Il fatto era che, all'epoca, il ballo non era certo un divertimento innocuo e innocente ma una vera e propria piaga...Eh?
...una specie di ebbrezza e furore"[84] la definirono alcuni, che spesso conduceva a disordini descritti come "vergognosi" dai contemporanei. Anche qui la sua azione pastorale non fu riservata soltanto al pulpito ma si tradusse in azioni concrete. Il più delle volte fu costretto a pagare il doppio di quanto stabilito ai suonatori itineranti perché smettessero di incitare la gente a questa frenetica usanza[85].Vabbe', ma che tattica è, come pagare gli spacciatori il doppio perché cambino il quartiere, peggio che nascondere la polvere sotto il tappeto...
Per educare le giovani e le fanciulle, spesso vittime d'abusi durante le frenesie del ballo, il curato mise un'estrema cura nella formazione dei genitori[86], non solo delle ragazze che spesso, venute a confessarsi, non ricevevano l'assoluzione finché non avessero deciso di abbandonare quel pericoloso divertimento[87].Io lo giuro non lo sapevo che i balli ottocenteschi fossero così frenetici; dai romanzi perlomeno non risulta. Gli è che i romanzieri parlano sempre e solo delle città, maledetto Flaubert, quattrocento pagine di I Love Shopping Con La Moglie Del Dottore e nel frattempo in campagna facevano le orge musicali e non te ne sei accorto, non ci hai scritto niente.
Si giunse perfino a una lotta giudiziaria: nel 1830 un decreto del sindaco, Antonio Mandy, aboliva i balli pubblici scatenando così la riprovazioni degli organizzatori delle feste locali e di alcuni ragazzi che chiesero al sottoprefetto di Trevoux di abrogare la decisione del sindaco. Cosa che ottennero, ma senza risultato[88]: le giovani avevano infatti preferito recarsi in parrocchia per la messa domenicale, non lasciando così altra scelta ai festaioli che di disperdersi. Senza più ragazze con cui ballare la gioventù maschile di Ars fu costretta a dividersi: chi accolse le parole del curato e chi invece preferì trasferirsi nei paesi vicini.

Jean-Marie Vianney era un simbolo già in vita: il suo villaggio per i cattolici francesi un anti-Parigi, da contrapporre polemicamente alla modernità peccatrice. Con lui prende forma l'archetipo del Curato di Campagna che lotta contro le tentazioni di un demonio annidato nell'ignoranza e nella povertà della provincia: il protagonista dei romanzi di Georges Bernaros. Un modello che ha esercitato un fascino incontestabile per un secolo e mezzo, ma che forse oggi segna un po' il passo.
Sul blog di un famoso vaticanista infuriava il dibattito. "Un altro colpo da maestro assestato al Papa dai soliti modernisti postconciliari che non accennano ad estinguersi. Si spegneranno, per contrappasso, all’inferno". In che modo i modernisti fossero riusciti a scongiurare la proclamazione all'ultimo minuto non era chiaro. Altri, pur professando una "venerazione di prim'ordine", ammettevano che "il sacerdozio è una figura piu’ ampia, e vi sono figure sacerdotali molto diverse dai parroci".
Senza scomodare i soliti missionari, facciamo l’esempio dei cappellani militari. Il curato d’Ars è famoso per aver passato tutta la sua vita nel confessionale: e un buon parroco si vede da questo, dal poterlo sempre trovare in Chiesa a qualunque ora del giorno. Accostamento perfetto.
Ma un buon missionario o un buon cappellano militare hanno bisogno di altri esempi, non immediatamente riconducibili al curato d’Ars.
Come vede, non ho menzionato la questione modernista nemmeno di striscio. Saluti.Non ha neanche menzionato il fatto che Jean-Marie fu disertore, imboscato per tre anni, e se la cavò con un'amnistia, insomma decisamente non il miglior patrono che i cappellani militari potrebbero augurarsi. Tra tanti pareri un tanto al chilo (però interessanti) posso anche dare il mio. Secondo me a Ratzinger il curato d'Ars non era simpatico.
Non mi vengono in mente due preti più diversi: un teologo e una capra. Uno ha passato la vita in campagna, lottando per portare in paradiso le sue duecento anime, incurante di quello che succedeva poco più in là, dove sarebbero andati i suonatori e i ballerini che allontanava. L'altro ha vissuto quasi tutta la sua carriera al centro delle cose, a Roma, abituato a pensare alla Chiesa come a una comunità planetaria. Jean-Marie stava così tanto tempo nel confessionale che puzzava. Ratzinger sapeva d'acqua di colonia persino dalle fotografie, e aveva una certa passione per scarpine e cappelli. Vianney digiunava e sentiva le voci, il demonio che lo voleva morto. Ratzinger da prefetto per la congregazione della dottrina deve aver passato anni a esaminare storie di infelici allucinati. Vianney è un santo ovviamente caro ai lefebvriani. Ratzinger ai lefebvriani ha concesso molto, ma forse cominciava a stancarsi dell'arroganza con cui rispondevano alle sue aperture. Ma alla fine dev'essersi trattato di un moto improvviso, qualcosa che non sapremo mai e che ha reso all'improvviso insostenibile il fastidio naturale che Ratzinger doveva nutrire per una figura come quella di Jean-Marie Vianney.
Che così alla fine non è diventato patrono dei sacerdoti. I suoi fan possono consolarsi ricordando come Jean-Marie non apprezzasse le onorificenze: quando Napoleone III volle concedergli la Legion d'Onore, lui prima volle informarsi se la medaglietta in sé avesse qualche valore; nel qual caso ci avrebbe fatto su qualche soldo per i poveri d'Ars (o per ingrandire la sua collezione di reliquie). Gli dissero di no, non valeva niente: e allora la rifiutò.
Lazzaro che morì due volte
29-07-2020, 01:38Bibbia, repliche, santiPermalink![]() |
(Juan De Flandes) Ce n'hai messo di tempo, eh, amico. |
Gesù ha un solo amico: gli altri li chiama fratelli, o discepoli. Quando muore, ci rimane male. È il messia, è il Cristo, giudicherà i vivi e i morti, ma ci rimane male lo stesso. Davanti alla tomba scoppia a piangere. Non era successo per tre vangeli sinottici, ed ecco che succede nell'ultimo, quello di Giovanni. Anzi, un argomento per considerare il vangelo di Giovanni il più tardo è proprio questa virata nel patetico: all'estremo opposto sta il Gesù di Marco, probabilmente il più antico, un tizio sempre corrucciato e sdegnato perché i comuni mortali non hanno orecchie per intendere le sue parabole. Il Gesù di Giovanni invece sembra ridisegnato per un ceto medio che vuole bei discorsi ma anche una certa dose di sentimento.
Insomma, frigna come un pupo. Tanto che la gente comincia a darsi di gomito; però! Gli voleva bene davvero, al suo amico. Boh, ma se è davvero Chi dice di essere, non poteva arrivare un po' prima? Gesù non fa segno di ascoltare, ma chiede che sia aperta la tomba, malgrado le obiezioni della sorella più pratica, Marta ("Sono passati tre giorni, puzzerà"). E invece Lazzaro ne esce fuori fresco come appena deposto, e soprattutto esce vivo. Gesù l'ha risorto. Non è un miracolo come gli altri.
Gesù non aveva mai risorto nessuno prima. Certo, ci sarebbe l'episodio della figlia di Giairo, "capo di una sinagoga", riportato dai tre vangeli sinottici: ma non è chiaro se la bambina sia davvero morta. Lo stesso Gesù minimizza; afferma che la bambina sta solo dormendo, e la risveglia. Il caso di Lazzaro è molto diverso. Addirittura Gesù prende tempo; anche se le sorelle Maria e Marta gli avevano fatto sapere della malattia dell'amico, Gesù decide di aspettare che muoia. E agli apostoli prima di partire dice proprio così: Lazzaro è morto.
...e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!
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(Giotto) E gli amici li tratti così, figurati gli altri. |
Non a caso nel testo di Giovanni occupa proprio il capitolo centrale: tra la prima parte, il cosiddetto "vangelo dei segni", e la seconda parte, il lungo racconto della passione. Nella prima parte Gesù ha esibito agli scettici tutti i "segni" necessari affinché credano che lui è il Messia - e che riprendono una profezia di Isaia: gli storpi camminano, i sordi odono, i ciechi vedono... i morti devono resuscitare. Lazzaro è appunto l'ultimo segno, la prova definitiva che Gesù è Colui che afferma di essere. Ma proprio la sua resurrezione è l'inizio della passione di Gesù: appena farisei e sommi sacerdoti si accorgono di che è successo, decidono di ammazzare sia Gesù che Lazzaro, il colpevole e la prova. L'idea di uccidere un tizio in grado di resuscitare dai morti può lasciare perplessi, ma il ragionamento dei sacerdoti non è poi così peregrino:
"Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione".Col suo nuovo culto, potenzialmente rivoluzionario, Gesù rischia di attirare l'attenzione della potenza occupante. Chi scrive il Vangelo probabilmente sa già di cosa sono capaci i Romani – che raderanno davvero al suolo Gerusalemme nel 70. "Meglio che muoia lui, piuttosto che un popolo intero", dice il sommo sacerdote. Una frase troppo bella e pregna di significato per essere stata pronunciata davvero. Tutto l'episodio sembra, in effetti, una costruzione a posteriori, di un autore che conosce per sommi capi il racconto evangelico, ma vuole dargli un senso nuovo, un respiro diverso (oltre a spruzzare un po' di sentimenti qua e là).
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Wake up dead man (Caravaggio) |
Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano.Questo è Matteo 11, ma i morti che risuscitano chi sono? In Matteo non ci sono! Ok, la figlia di Giairo, ma possiamo veramente contarla? Con lo stesso Gesù che afferma "non è morta ma dorme"? Insomma qui c'è un buco, bisogna riempirlo. Ma con cosa?
Un altro tratto tipico degli autori di fanfiction è il riutilizzo di nomi e personaggi minori. È un modo per sentirsi più 'canonici', vicini all'originale che stanno rielaborando. Giovanni evangelista riprende così le due sorelle Marta e Maria, già protagoniste di un breve e famoso diverbio nel vangelo di Luca; e le provvede di un fratello di cui nessuno fin qui ha sentito parlare, ma a cui Gesù voleva un bene dell'anima. Se il personaggio-Lazzaro è un'assoluta novità, il suo nome non è tuttavia nuovo: Eleazar ("Dio è il mio aiuto") era già il nome di un lebbroso in una parabola dei sinottici, costretto a mendicare davanti alla casa del ricco Epulone: da lui viene il termine "lazzaro" come sinonimo di "lebbroso" (da cui "lazzaretto"), nonché l'accrescitivo "lazzarone" . Poi Epulone finisce all'inferno e non può nemmeno supplicare che Lazzaro dal paradiso gli allunghi un po' d'acqua, tra i due oltremondi non vi è nessuna convenzione. Battezzando "Lazzaro" l'amico di Gesù, il Fan-Giovanni può anche alludere al luogo dove Lazzaro sarebbe stato nei tre giorni tra la morte e la prima resurrezione: il paradiso. Una questione che lasciava perplessi alcuni teologi, secondo i quali l'amico di Gesù non poteva che essere stato all'inferno: il paradiso era ancora chiuso. D'altro canto, il Lazzaro del vangelo di Giovanni non è un lebbroso, non è un mendicante; forse il fan-Giovanni stava soltanto cercando un nome di origine ebraica, per evitare di inventarsene uno che rischiasse di suonare falso a un orecchio più allenato del suo.
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Stavo a fare il muschio, ormai (Spagnoletto). |
Un altro indizio del carattere fittizio dell'amico di Gesù è la sua improvvisa scomparsa: così com'era apparso, fa sparire subito le sue tracce. Che fece durante la passione dell'amico? E dopo la resurrezione? Non si sa. Di sicuro non era coi Dodici, ma gli Atti degli Apostoli di lui non dicono niente (per forza, li aveva scritti Luca prima che Giovanni partorisse il personaggio). È lo stesso Fan-Giovanni a suggerirci una spiegazione: i sacerdoti del sommo sinedrio volevano far accoppare anche lui, magari ci sono riusciti. Un'altra teoria, ma molto più tarda, è che Lazzaro sia stato occultato dai proto-cristiani proprio perché il sinedrio gli dava la caccia. Paolo di Tarso lo avrebbe portato a Larnaca, nell'isola di Cipro, di cui Lazzaro sarebbe diventato il vescovo fino alla sua seconda morte, trent'anni dopo. La leggenda orientale dice che non sorrise mai, per tutto il tempo, a causa di quello che aveva visto nei suoi tre giorni da morto. Dunque era stato all'inferno. Solo una volta gli sarebbe scappato un sorriso - davanti a un ladro di vasellame - dopo aver sentenziato: "L'argilla ruba l'argilla".
L'ipotesi occidentale, che i lettori di Dan Brown magari conoscono, è che Lazzaro sia miracolosamente approdato con le due sorelle nel Midi della Francia, diventando il primo vescovo di Marsiglia. La devozione dei marsigliesi fu tale che nel 1204, durante la Quarta Crociata, (detta anche saccheggio di Bisanzio) si portarono a casa le reliquie. Poi le persero, forse anche in seguito a una riflessione: se davvero le sue ossa erano custodite a Bisanzio, Lazzaro non avrebbe mai potuto evangelizzare Marsiglia. In ogni caso i suoi resti si possono venerare ad Autun e a Vézelay in Borgogna - oltre che naturalmente a Larnaca. A Vendome invece c'è un'ampolla con le lacrime che Gesù avrebbe pianto davanti al suo amico. Forse perché sapeva di averlo lasciato scendere all'inferno, anche solo per tre giorni. Oppure perché davvero gli voleva bene.
La santa prostituta che non lo era (prostituta)
22-07-2020, 17:51Cristo, repliche, santiPermalink![]() |
"(Non sarò mai) Maria Maddalena". |
Di solito scrivere un'agiografia consiste nel trasformare un peccatore in un santo. Si tratta insomma di prendere la vita di un uomo / una donna, enfatizzare le buone azioni e levare le magagne più grosse. Con Santa Maria Maddalena, che pure è un personaggio di primo piano, la cosa è andata in un modo diverso: è da duemila anni che la consideriamo una ex prostituta, e semplicemente non è vero. Cioè, basta tornare ai vangeli: in nessun punto vi è scritto che Maria di Magdala facesse quel mestiere. C'è poi qualche 'peccatrice', nei vangeli, con le quali Gesù si mostra piuttosto tollerante, ma non è chiaro se siano prostitute o semplicemente adultere. C'è quella che lava i piedi a Gesù con le sue lacrime, glieli asciuga coi capelli (portare i capelli sciolti nella Giudea del tempo era già un segno eloquente di vita non irreprensibile), e forse è la stessa che lo unge davanti a tutti, in quella che un fariseo del tempo avrebbe potuto prendere per una caricatura di un'unzione regale. Il vangelo di Giovanni, che è il più tardo, ma come vedremo ha un rapporto particolare con la figura di Maddalena, chiama questa peccatrice "Maria", e soggiunge che era la sorella di Lazzaro e Marta, che si venerano tra sette giorni. Vale la pena di ricordare che il nome "Maria" ("Miriam", la sorella di Mosè) era già al tempo il più diffuso nella zona: basandosi sulle incisioni funerarie, gli archeologi hanno calcolato che il 25% della popolazione femminile portasse quel nome.
Nei vangeli di Marie ce ne sono parecchie, al punto che risulta impossibile contarle perché è chiaro che gli stessi evangelisti – già piuttosto elusivi sui nomi e i ruoli degli apostoli – semplicemente non ci si raccapezzano. Questo è un dettaglio verosimile: chi si metteva a scrivere dopo decenni di narrazioni orali poteva facilmente confondere le figure femminili che dalla morte di Gesù non avevano più avuto molto peso nel movimento dei cristiani, e stavano invecchiando da qualche parte in Palestina o altrove. Per prima c'è la madre di Gesù (che non in tutti i vangeli è chiamata "Maria"); poi la Maddalena, che non necessariamente si prostituisce ma sicuramente viene esorcizzata da Gesù, che le toglie dal corpo "sette demoni", fa parte del suo entourage più ristretto ed è testimone oculare della resurrezione (il nome forse deriva da un paese sul lago di Tiberiade, Magdala appunto, forse dall'ebraico migdal, "torre", "fortezza"); c'è poi la sorella di Marta e di Lazzaro, detta anche Maria di Betania; e ancora un'altra figura dell'entourage apostolico, Maria madre di Giacomo (il quale a sua volta potrebbe anche essere il fratello di Gesù...) A un certo punto a papa Gregorio le tre Marie sodali degli apostoli devono essere sembrate troppe, visto che si permise in un'omelia di ridurle a una sola; poi, siccome almeno una delle tre, in almeno un Vangelo, era chiamata "peccatrice", se ne dedusse che oltre a una e trina la Maddalena dovesse pure essere prostituta.
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Maddalena penitente, Georges de La Tour, 1640. |
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Mary, mmm, that is good. |
Poi c'è la questione del rapporto con Gesù. Per quanto scarsi, i riferimenti dei vangeli alla Maddalena sono sufficienti a farne la seconda donna più importante, dopo la Madonna – però Gesù non le risponde mai male, come si permette di fare qualche volta con la mamma. A quel punto la chiacchiera era inevitabile: insomma, Gesù è un trentenne, c'è questa tizia che lo segue per tutti i vangeli, vuoi vedere che...? Non è una deviazione moderna, se ne parlava già nei primi secoli, lontano dai centri di irradiazione maschile del credo ortodosso, nei circoli (spesso femminili) dove ribolliva quel brodo di credenze che per comodità chiamiamo Gnosi.
La Gnosi è un fenomeno un po' troppo complesso per spiegarlo qui. Grosso modo si trattava della new age del primo secolo: una serie di credenze misteriche che a volte pre-esistevano al cristianesimo, ma non tardarono ad agganciarsi alla figura di Gesù. C'è ancora da precisare che quelle che oggi chiamiamo "sette gnostiche" non avevano la percezione di esserlo: si consideravano cristiani pure loro. Ci volle qualche secolo, qualche concilio, qualche processo per eresia, perché si chiarisse il discrimine tra cristianesimo e gnosi. E siccome la storia la scrivono i vincitori, e spesso i libri dei perdenti vanno distrutti, noi non abbiamo un'idea nitida di quella che poi si è deciso di chiamare Gnosi. Però qualche paletto interessante possiamo piantarlo. Per esempio: gli gnostici si rifanno a rivelazioni che Gesù non avrebbe fatto a tutti, ma solo a un gruppo ristretto di "iniziati". Per contro, il cristianesimo è orgogliosamente essoterico, con due S: dogmi e insegnamenti sono accessibili a tutti, e anche i misteri sono misteri per tutti, non è che il Papa li comprenda meglio di noi.
Un'altra differenza notevole è che mentre il cristianesimo, già dalla generazione di Paolo, sembra affidato a una gerarchia maschile, nella gnosi le figure femminili mantengono ruoli di primo piano: e Maddalena assume un ruolo ancora più importante. Di questa cosa resta un'eco nei vangeli apocrifi più gnosizzanti, come quello secondo Filippo, dove addirittura Gesù "la bacia spesso" (gli esegeti si precipitano a precisare che il bacio gnostico non è quel che pensiamo noi, ma una trasmissione di saperi e di energie eccetera), al punto che gli altri apostoli fanno una scenata di gelosia perché ritengono che Gesù non li baci abbastanza. Nel vangelo di Tommaso c'è addirittura una promessa di transessualità: a Pietro che si lamenta che una femmina sia ammessa tra gli iniziati, Gesù replica che la trasformerà in un maschio, "perché ogni donna che farà di sé un uomo entrerà nel Regno dei Cieli". Il testo mantiene ancora un maschilismo di fondo: altrove l'eterno femminino è reclamato come portatore di saggezza, verità, energia, tutto quell'insieme di cose. Nel Pistis Sophia, il testo gnostico più completo che ci è rimasto, Cristo risponde a 64 quesiti dei discepoli iniziati. Di questi, 39 li pone Maddalena, e Cristo non cessa di lodarla. Da lì a considerarla sua sposa il passo era breve. C'è pure chi la voleva autrice del Vangelo di Giovanni, visto che l'autore si presenta come "il discepolo che Gesù amava": meglio lei del ragazzino, in fondo.
Un'altra possibilità è che fosse la moglie di Giovanni, oppure la sua fidanzata, poi votatasi alla verginità: ipotesi liquidata come fantasia da Iacopo di Varazze, il che è molto buffo perché Iacopo è l'agiografo di bocca buona per eccellenza, non c'è drago o mostro o supplizio che non valga la pena riportare: però una liaison tra Maddalena e Giovanni no, quella era meno verosimile del drago di San Giorgio. In ogni caso per la Chiesa ufficiale era meglio prostituta. Le prostitute sono simpatiche e non pretendono d'insegnare niente ai maggiorenni. Se poi si pentono tutti sono contenti, ma nessuno si aspetta di trovarsele in cima alla scala gerarchica, sopra gli apostoli o addirittura sullo stesso piano di Cristo.
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Ecco, in effetti se vai in giro acconciata così nella Palestina del I secolo poi per forza la gente si fa certe idee. |
Tra pseudostoria e fantarcheologia sta anche il documentario di Discovery Channel prodotto da James Cameron qualche anno fa, The Lost Tomb of Jesus, in cui veniva esibita una possibile tomba di Cristo, a Gerusalemme. Non solo la tomba custodiva delle ossa, il che ovviamente metterebbe in crisi duemila anni di fede nella resurrezione dei corpi; ma si tratterebbe di una tomba di famiglia, Gesù figlio di Giuseppe ("Yeshua bar Yehoseph" in un'iscrizione) sarebbe sepolto vicino a sua madre ("Miriam"), al padre o a un fratello ("Yose", diminutivo di Yehoseph), e a una donna con la quale non ha DNA in comune, di nome "Mariamene", variante di Miriam. Ci sarebbe anche un figlio, col nome meno intuitivo che Gesù avrebbe potuto dare a un figlio suo, Yehuda (Giuda). D'altro canto se Gesù ha avuto un figlio, forse non è nemmeno morto in croce e quindi Giuda non l'ha tradito e, insomma, il cristianesimo sarebbe tutto da rifare. Ma la storia fa acqua da tutte le parti: l'unico argomento a favore è la possibilità statistica di ritrovare, in Palestina, una famiglia con tante coincidenze con quella descritta dai vangeli: un Gesù che sia figlio di un Giuseppe e di una Maria, e sposato a un'altra Maria. In realtà come si è visto erano tutti nomi comunissimi, e poi perché mai dei galilei avrebbero dovuto comprarsi una tomba di famiglia nei pressi di Gerusalemme? E poi il non avere un DNA in comune non è un argomento molto probante per considerare Mariamene la moglie di Yeshua; e poi chi l'ha detto che Mariamene sta per Maddalena? Eccetera eccetera.
Nel frattempo la Chiesa cattolica ha chiesto scusa, con la sua proverbiale tempestività, nel 1969, ammettendo che Maddalena non è la buona donna nel senso eufemistico dell'epiteto. È stata persino cambiato un verso del Dies Irae: Qui Mariam absolvisti è diventato Peccatricem qui solvisti. Ma conta poco. Ormai il vangelo non è più proprietà della Chiesa, Vallo a spiegare a chi si è inflitto L'ultima tentazione di Scorsese, vallo a spiegare a chi guarda Jesus Christ Superstar e si commuove quando Yvonne Elliman canta Everything's alright o Could we start again, please? Rischi che ti diano del revisionista, uno che vuole purgare i vangeli dalle prostitute, mentre lo sanno tutti che nei vangeli c'è un sacco di prostitute, e Maddalena è la rappresentante di categoria...
A lei poi probabilmente la cosa neanche scoccia, voglio dire, quando sei a quei livelli possono dire di te quel che vogliono: indemoniata, isterica, puttana, regina merovingia, sposa di Cristo, eterno femminino, che differenza fa. Non ti tocca più niente.
Rita l'impossibile, una spina nel cervello
21-05-2020, 23:00repliche, santiPermalink![]() |
Con l'aiuto dell'Onnipotente vincerò |
[2012]. Erano mesi che aspettavo, ma finalmente oggi è il 22 maggio e vi posso mostrare in tutto il suo splendore la monumentale Santa Rita di Cascia di Santa Cruz, Rio Grande do Norte, Brasile. Coi suoi 56 metri d'altezza, la signorina qui (opera di Alexandre Azedo Lacerda) può serena-mente mangiare in testa al Redentore di Rio de Janeiro, e anche la Statua della Libertà deve stare molto, moolto attenta, che Rita è appena un metro più bassa, ma ha l'aria più robusta. Poi che altro dire. Io la prima volta che l'ho vista ho avuto un'illuminazione, ho capito che dovevo tenere una rubrica dei santi da qualche parte. Solo i santi ispirano cose del genere. I santi, i supereroi americani e i robot giapponesi, ma sulla distanza io non scommetterei troppo su Daitarn3 o l'incredibile Hulk. Rita c'era prima di loro e ci sarà anche quando loro se ne saranno andati, con la sua spina retrattile in fronte e il suo crocione contundente. Ma chi era Santa Rita da Cascia? Perché la chiamano la Santa degli impossibili? Ma anche: dove accidenti è Cascia? In provincia di Perugia. Rita è una di quelle sante più invocate che conosciute, e c'è un motivo. La Rita originale, quella su cui si sono incrostati i miracoli più fantasiosi, è un personaggio piuttosto inquietante.

Nata sul finire del difficile XIV secolo (epidemie, recessione economica, terremoti, tutto un repertorio che ormai vi è noto), Rita è un altro esempio anti-romantico e anti-illuminista di donna che vorrebbe disperatamente entrare in convento, se la famiglia non la costringesse a sposare un uomo violento e darle due figli. Il marito, ufficiale di qualche soldataglia di ventura, finirà ammazzato in una delle classiche faide famigliari con le quali si ingannava il medioevo nei piccoli centri. Se Sant'Albano è un Edipo battezzato alla benemeglio, Rita è la Medea cristiana, che per spezzare le catene dell'odio non uccide i suoi due figli, ma prega Dio di prenderseli con sé alla svelta, che alla fine è la stessa cosa. Nel giro di un anno Dio la esaudisce: i figli muoiono, la faida secolare s'interrompe, ma il senso di colpa la schianta. Forse la spina che le si conficca nel cervello, trent'anni più tardi, ne è ancora un segno.
Rifiutata dal convento delle agostiniane, Rita si fa miracolosamente paracadutare entro le mura di cinta dai suoi tre amici altolocati: Sant'Agostino, San Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, non ancora santo ufficiale (ma grazie a lei lo diventerà). Quando se la ritrovano in casa, le sorelle fanno buon viso a cattivo gioco: bisogna dire che all'inizio Rita è la collega ideale, se ne sta sempre confusa sullo sfondo. L'unico episodio singolare avviene nel 1432, quando al termine della funzione del Venerdì Santo sulla sua fronte spunta una spina della corona di Gesù. La badessa proibisce allora a Rita di recarsi a Roma in pellegrinaggio, ché non son cose da mostrare in giro, le suore trafitte da spine. Rita al pellegrinaggio ci tiene molto, ha intenzione di perorare la causa di beatificazione di Nicola da Tolentino: così la spina per qualche giorno si ritrae, e Rita può partire. Ricomparirà miracolosamente al suo ritorno a Cascia. Ha ormai cinquant'anni: porterà la spina in fronte per altri quindici, medicando quotidianamente la ferita, il suo chiodo fisso. Le cronache non riportano altre stranezze, salvo una stravaganza che la vecchierella si sarebbe concessa sul letto di morte: a un parente venuto a trovarla chiese di portarle una rosa del suo vecchio orto. Il tizio osserva, imbarazzato, che siamo in pieno inverno, ma si reca ugualmente nell'orticello e in mezzo alla neve... trova una rosa appena sbocciata. È chiaramente un miracolo postumo, suggerito a qualche anonimo predicatore dall'elemento della spina. Sono postumi, e di origine antichissima, anche i miracoli a base di api, che le avrebbero depositato il miele nella bocca da bambina (lo stesso prodigio è attribuito a Sant'Ambrogio e ad altri).
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Lo sai che non esisti? O se esisti, esisti male? |


Giorgio il megalomartire
23-04-2020, 18:47repliche, santi, scoutismoPermalink[2012]. San Giorgio un giorno s'è stufato, di ammazzare draghi e salvare fanciulle che poi alla fine si sposano sempre con coltivatori diretti e fanno tre bambini. San Giorgio di Portogallo. Di Ferrara. San Giorgio di San Giorgio a Cremano. Un giorno ha spento la sveglia ed è rimasto a letto, lo ha chiamato la segretaria verso le 8.05.
“Cavaliere, tutto bene?”
“Insomma”.
“Cavaliere lei forse non si ricorda ma stamattina avevamo un appuntamento per le otto, c'è un drago nel Polesine, una dozzina di fonti da bonificare, e inoltre...”
“Il drago nel Polesine, ricordo benissimo”.
“Cavaliere c'è qualcosa che non va?”
“Sono un po' depresso Teresa”.
“Si mette in mutua? In aspettativa? Cavaliere mi scusi eh, ma io a quest'ora lo devo sapere, se devo chiamare un supplente...”
“Sì, ecco, chiamate Demetrio”.
“Cavaliere, Demetrio è morto”.
Clic.
San Giorgio di Lituania. Di Catalogna. Di Reggio di Calabria. Un giorno si è stufato e basta. Hai voglia a dire la vocazione. Cos'è poi questa famosa vocazione? Siamo bambini di campagna, ci sbucciamo i ginocchi sulla ghiaia, un giorno arriva la fanfara: arruolati nella cavalleria! Girerai il mondo! Ucciderai i draghi, salverai le fanciulle! Bivaccherai sulle vette più alte!
“Si suona la chitarra nei bivacchi?”
“Prima si ammazzano i draghi, poi si suona la chitarra”.
“Cosa sono i draghi?”
“Sono bestie cattive sputafuoco, minacciano le nobili fanciulle, quando sono giovani guizzano un po' ma li trafiggi facile”.

“Che figura ci facciamo con gli utenti”.
“Sono allergico al polline”.
“Tu sei San Giorgio, il Megalomartire”.
“Ma infatti, sono già morto di choc anafilattico sotto Diocleziano”.
San Giorgio di Georgia, Caucaso. San Giorgio di Georgia, USA. San Giorgio in Campobasso. Non è che rivanghi così spesso i vecchi tempi. Quando i draghi erano verdi e non marron, e sprigionavano una deliziosa fiammella al sentor di diavolina, te la ricordi Demetrio l'odore della diavolina a Champorcher -
“Giorgio, la devi smettere di parlarne con me. Io sono morto, non sta bene”.
“Come sarebbe a dire che sei morto, scusa, quando sarebbe successa questa cosa”.
“Una sera eravamo usciti, con Michele e Gabriele, un drago è spuntato da una curva”.
“Una curva. Sempre una curva. Ma si può sapere cosa ci stanno a fare tutte queste curve in Terrasanta”.
“Giorgio non fare il cretino. Tirati su”.
“Demetrio ma tu ci pensi mai a me?”
“Non è che uno nella mia condizione può pensare o non pensare, eh, non è così che funziona”.
“Perché io a te ci penso tutti i giorni”.
“Tutti i giorni tu pensi alla morte, che è una cosa diversa. Datti una mossa”.
“Ah io vorrei tornare anche solo per un dì lassù nella valle alpina”.
“Renditi utile. C’è un drago da ammazzare a Vieste”.
“Là tra gli alti abeti ed i rododendri in fior, distendermi a terra e…”
“Fai bene a cantare. I cavalieri sorridono e cantano nelle difficoltà”.
“Mi sono rotto i coglioni, Demetrio”.
“È una mattina come un’altra, nuvoloso tendente al bello, apri i biscotti al cioccolato”.
“Non mi piacciono i biscotti al cioccolato”.
“Alla fine li mangiavi”.
“Li mangiavo perché io sono così, io non mi lamento, sono laborioso ed economo, se in cambusa c’erano solo biscotti al cioccolato perché a te piacevano, a te, non c’era ragione perché non li mangiassi anch’io, però, se devo dire la mia, i biscotti al cioccolato non sono i miei preferiti, va bene? Ma perdio, sono un adulto ormai, avrò ben il diritto…”
“Apri i tarallucci”.
Io sono San Giorgio, il Megalomartire. Sono morto tre volte, tre volte resuscitato. Mi hanno tagliato in due e mi sono ricucito. Cavati gli occhi, mozzata la lingua, di’ un supplizio a caso, me l'han fatto. La cistifellea? Senza anestesia. L’altro giorno il dentista mi ha guardato il molare 35 e ha detto “una cosa da niente”, poi mi ha conficcato nella gengiva un perno grosso come un picchetto da tenda. Non è che mi lamento, ma sai cos’è una colica renale? È peggio di una colica biliare. Sai cos’è una colica biliare? Ho l’anemia mediterranea. Tutta una serie di dermatiti misteriose. Sono allergico alle noccioline. All’uva passa. Alle mele. Alla buccia delle arance. Ho l’intestino rapsodico e il cuore asincrono, non tiene il tempo, me lo sento continuamente in petto, l’altro giorno mi faceva anche un po’ male e il medico mi ha mandato al pronto soccorso, mi hanno detto che non era infarto. Come sarebbe a dire non è un infarto? Poteva essere un infarto? Sono sempre stanco. Mi avrà morso un drago malarico, che vi devo dire. Gli antistaminici mi deprimono. Le droghe causano sonnolenza. Io volevo solo fare il chitarrista.
Ammazzare i draghi dicono che è un bel mestiere, che uno lo deve fare per passione, per la gioia di lasciare il mondo migliore di come lo si è trovato, come no, la gioia di spalare tonnellate di merda per utenti che non si ricordano nemmeno come si coniuga il verbo ringraziare. La paga, ora non vorrei rivangare, però è una vergogna. E i draghi sempre più grossi. Ogni anno che viene ce n’è di più. Alla fine, sai cosa ti viene da pensare? Che l’errore sono io. Se non ci fossi io, tutte le mattine, a tappare un’emergenza, col dito nella falla della fogna, forse si accorgerebbero che c’è un problema, forse la puzza diventerebbe insostenibile, forse la pentola scoppierebbe, lo vedi che alla fine è tutta colpa mia Demetrio?
“Non so, non rispondo”.
Dai che lo sai.
“Vai pure avanti così, fatti dare la ragione dai morti, complimenti”.
San Giorgio d’Inghilterra, dove non mi pregano più. San Giorgio di Genova, ma lì fanno finta di non riconoscermi. Sono nato da nessuna parte in particolare, sono morto sotto Diocleziano come tutti. Sono sempre esistito, i miei maestri si chiamano Perseo e Marduk. Non li vado a trovare spesso, vivono in campagna, hanno fatto dozzine di bambini che hanno reso centinaia di nipoti. Tutti cortesi, amanti della natura, puri di pensieri parole azioni. All’Accademia dormivo in camerata con San Maurizio e San Martino. Sono ancora miei amici su facebook, a volte a tarda ora ci linchiamo vecchi canti di bivacco che troviamo su youtube.
“Senti, non te l’ho mai chiesto, ma sei stato tu quella sera a Crocette, a farmi lo scherzo della spada?”
“Che spada?”
“A Crocette di Pavullo, una sera. Ci eravamo appena coricati, e nel buio davanti a me all’improvviso è apparsa una spada di luce”.
“Perché non hai detto niente?”
“Pensavo che uno di voi due mi stesse facendo uno scherzo con la torcia elettrica”.
“Io no di sicuro”.
“Sarà stato Martino”.
“Martino è morto”.
“Ma piantala”.
“Un drago non ha visto uno stop”.
“Comincio ad averne abbastanza”.
“Sarà stata la luce di sicurezza, a volte si illuminano all’improvviso”.
“Era più affusolata, una specie di spada”.
“E poi? È scomparsa?”
“Tre volte si è accesa, due volte si è spenta”.
“Il riflesso di fari di auto in curva dalla fessura degli scuri della finestra. Ma cos’è successo la terza volta?”
“Non lo so, mi sono voltato”.
“Cosa hai fatto?”
“Mi sono voltato, di solito dormo pancia in giù”.
“E se era Dio?”
“Non era Dio, adesso Dio fa gli scherzi con le torce elettriche, andiamo. Era Martino. Oppure eri tu”.
“Non ero io”.
“Non ti ricordi, capirai, uno scherzo con la torcia che hai fatto a dieci anni”.
“Hai paura di aver deluso Dio?”
“È Dio, se ne sarà fatto una ragione”.
Drin!
“Pronto”.
“Cavaliere buongiorno, le volevo dire per quel drago in Polesine, abbiamo risolto”.
“Avete trovato Demetrio?”
“No abbiamo chiesto a Perseo”.
“A Perseo? Quel Perseo? Ma è in pensione!”
“Ci aveva detto che in caso di emergenza potevamo chiamarlo, così…”
“Ma non potete… ma guardate che è una cosa… cioè ma lo capite cosa state rischiando? Ha tremilacinquecento anni e pretendete che vada ad ammazzare un drago, un drago di adesso? Ma non sa neanche più come sono fatti, ci vien fuori un disastro”.
“Cavaliere, cosa dobbiamo fare, lei è depresso e a noi serviva un supplente”.
“Ma uno giovane”.
“Graduatoria esaurita”.
“Teresa mi sta prendendo in giro”.
“Vuole venire qua a vedere?”
“No voglio stare a letto! Perché sono depresso! Ho sempre sonno!”
“Come vuole cavaliere, si ricordi solo di portare il certificato e rendere la spada”.
“La spada”.
“Le passo Perseo”.
“Cosa? No”.
“Non vuole parlare con Perseo?”
“Vaffanculo, no. Lo mandi a casa. Gli dica di salutarmi i nipoti, tutti e centocinque”.
“Ci va lei allora in Polesine?”
“Vaffanculo sì, ci vado io”.
“Lei però non dovrebbe parlarmi così. Dovrebbe essere più cortese”.
“Vaffanculo sì, dovrei essere cortese e amico di tutti, perché sono San Giorgio Ammazzadraghi, tutti i giorni mi sveglio e ne ammazzo un paio, tutti i giorni spalo la merda, questo sono io, va bene? San Giorgio degli arcieri, San Giorgio Cavaliere, San Giorgio degli scout, sono pronto. Seppellitemi impiccato al mio stendardo. Bianco e rosso.
Kateri, il giglio dei Mohawk
17-04-2020, 03:01Americana, repliche, santiPermalink
17 aprile - Santa Kateri Tekakwitha (1656-1680), vergine mohawk
[2014]. Di solito gli irochesi attaccano su due fronti; accerchiano il villaggio; uccidono i guerrieri feriti, gli anziani, i bambini troppo piccoli e in generale chi non reggerebbe la fatica di un lungo viaggio a piedi. Ai restanti prigionieri viene tagliato un dito a scopo di identificazione; nel frattempo un messaggero viene mandato al villaggio per avvertire che la piccola guerra è andata bene. Lungo il cammino i prigionieri che cadono vengono terminati rapidamente a colpi d'ascia e abbandonati insepolti. Quando finalmente arrivano al villaggio, un capannello di osservatori si fa avanti per percuoterli un po'. Vengono spogliati e torturati con più professionalità dalle donne, specie le più anziane ed esperte. A questo punto venivano nutriti e potevano riposare; quindi erano fortemente invitati a danzare in cerchio mentre il consiglio del villaggio deliberava sul loro destino. I nuclei famigliari che avevano avuto un lutto recente avevano la facoltà di adottare uno dei prigionieri, che in caso contrario veniva ulteriormente torturato, ucciso e parzialmente mangiato. Il prigioniero adottato diventava membro della famiglia a tutti gli effetti, e dalla sua disponibilità a impersonare il parente precedente morto in guerra o in malattia dipendeva la sua sopravvivenza: se non riusciva a integrarsi poteva essere ucciso anche dopo qualche anno. Anche la madre di Kateri Tekakwitha divenne mohawk in questo modo, quando era bambina. Di nascita era algonchina, di una tribù cattolica e filofrancese; gli irochesi (di cui i mohawk facevano parte) in questa fase acquistavano armi da olandesi e inglesi, e attaccavano i francesi che si ostinavano a comprare pelli di castoro da altri popoli.

Gli irochesi erano tutto meno che un popolo in simbiosi con la natura. Giunti da sud nel medioevo, miravano a diventare la potenza egemone di tutta la zona tra i Grandi Laghi e il Mississippi che in alcune mappe europee si chiamava invece Nuova Francia. La loro idea di egemonia prevedeva il genocidio e l'assimilazione delle tribù nemiche. Da un punto di vista economico, miravano al monopolio della vendita di pelli del castoro gli europei, e questo era un buon motivo per combattere contro le tribù alleate dei francesi. Pazienza se nel frattempo la caccia sistematica dell'animale lo stava portando all'estinzione in una vasta porzione del suo habitat. Cacciatori e guerrieri erano costretti a viaggi sempre più lunghi, il che aumentava il prestigio e l'importanza delle donne che restavano a casa. Alle donne appartenevano terreni e abitazioni; soltanto loro conoscevano i misteri delle "tre sorelle" (mais, fagioli, zucche), senza le quali anche i più potenti guerrieri non avrebbero saputo come riempire la scodella quotidiana. E tuttavia le donne dovevano sposarsi e avere figli: era l'unico destino concesso. L'infertilità era connessa con la stregoneria e con altre sciagure. D'altro canto, divorziare sembrava straordinariamente facile: bastava posare i mocassini del marito fuori dalla casa.
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non molto credibile |
Nella stessa epidemia però Kateri aveva perso la famiglia e la bellezza: i segni del vaiolo le sfiguravano la fronte. Aveva anche una vista assai debole, il che non le impediva di essere un'artigiana molto abile. La zia che l'allevava non aveva probabilmente né l'interesse né la possibilità di trovarle un guerriero bello e forte: bisognava arrangiarsi. Le fonti gesuite ovviamente non scrivono così, bensì:
Tekakwitha crebbe senza scuola e senza studio, amante soltanto della solitudine e del lavoro, ma la grazia di Dio la condusse per vie misteriose alla pratica eroica di tutte le virtù, specialmente di quella più sconosciuta agli Indiani, la castità.E può anche darsi che abbiano ragione; che Kateri non disprezzasse unicamente il suo promesso sposo, ma il matrimonio e il congiungimento carnale in sé. Persone del genere esistono in tutte le culture e a tutte le latitudini. Fu la scelta di non sposarsi - che nella cultura mohawk l'avrebbe portata dritta a un'accusa di stregoneria - ad avvicinarla ai "vestenera", i missionari gesuiti. Ogni villaggio ne aveva uno: lo prevedeva una clausola di una pace da poco firmata coi francesi. Qui bisognerebbe aprire una parentesi enorme sul ruolo dei gesuiti, che abbinavano a una devozione fanatica una duttilità etnologica veramente in anticipo sui tempi. Ovunque arrivano - e arrivano ovunque, sprezzanti dei rischi di martirio - i gesuiti sanno di non trovarsi semplicemente in mezzo a selvaggi, ma al cospetto di culture da interpretare e studiare. Saranno i primi a pubblicare grammatiche giapponesi e azteche; ma a differenza degli antropologi di oggi, che sono portati a considerare ogni popolo come una nicchia da preservare, anche a costo di impedirsi di conoscerla, i gesuiti sono in missione per conto di Dio. La cultura che si portano con sé, dall'Europa sconvolta dalle guerre di religione, la vogliono spargere nel Nuovo Mondo, innestandola su piante autoctone ed esotiche, nella speranza che da qualche parte nella foresta o nella jungla nasca qualcosa di simile a un regno dei cieli, o anche solo una Repubblica di Indios conversi come in Paraguay. Anche in Nuova Francia erano riusciti a farsi intestare delle seignuries, dei feudi. Il piano era infettare le Sei Nazioni come un virus, portando armi e sacramenti.
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più credibile |
Nei villaggi Mohawk nasceva la contrapposizione tra clan filo-francesi e filo-inglesi. I francesizzanti erano cattolici e meglio armati: i gesuiti riuscivano anche a trafficare armi, benché la cosa non andasse a genio alle guarnigioni francesi. I filo-inglesi difendevano le tradizioni, i riti degli antenati; e anche l’alleanza con gli europei protestanti era a quel punto una tradizione secolare (i protestanti non avevano mai cercato di evangelizzarli; al massimo di ubriacarli con l’acqua-di-fuoco). Gli zii di Kateri erano filo-inglesi e non consentivano ai gesuiti di entrare nella loro casa. D’altro canto erano spesso fuori loro, lo zio a caccia e la zia nell’orto; i gesuiti invece erano liberi di curiosare a casa di chiunque, e presto o tardi padre Jacques Lamberville incontrò anche la diciottenne Kateri.
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Facciata della basilica di Sainte-Anne-de-Beaupré, dalle parti di Quebec City. |
Le fonti gesuite raccontano con dovizia di particolari la vita difficile della conversa Kateri, perseguitata da zie e zii che la volevano sposa e pagana. Monelli del villaggio assoldati per insultarla e prenderla a sassate “al grido di cristiana”. Aggressori inviati dallo zio a “minacciarla di morte facendole roteare una scure sopra il capo”, a cui avrebbe risposto: “Eccomi pronta. Puoi togliermi la vita, ma non la fede”. L’atmosfera diventò veramente pesante solo quando qualcuno mise in giro la voce di una tresca col padre adottivo. Discutendo in pubblico, Kateri lo aveva nominato senza soggiungere, secondo l’uso, l’espressione “mio padre”. Per qualche vecchia malelingua di famiglia questo equivaleva a un’ammissione di colpa.
Ai mohawk filofrancesi, quando se la vedevano brutta, restava la possibilità di scappare nel Canada francese. I gesuiti li aspettavano a braccia aperte: il villaggio che avevano fondato per loro vicino a Salto San Luigi si chiamava Caughnawaga, come quello vecchio dall’altra parte del fiume. Kateri arrivò nel 1677, con una lettera di raccomandazione di padre Jacques.
“Caterina Tekakwitha viene a Salto San Luigi. Vi prego di volervi interessare della sua direzione. Conoscerete presto il dono che vi facciamo; è un tesoro”.I gesuiti di Salto San Luigi non conobbero mai veramente Tekakwitha. Esteriormente, non fece nulla per deludere le aspettative di chi si immaginava un miracolo di castità, il “giglio dei mohawk”. Le pratiche sadomasochistiche che già probabilmente aveva coltivato al villaggio rimasero confinate all’ambito delle sue nuove amiche, tra cui Anastasia Tegonhatsiongo, che aveva conosciuto sua madre, e l’amica del cuore Maria Teresa Tegaiaguenta. Padre Pierre Chaulenec scrive dell’entusiasmo con cui Kateri si accostò al sacramento della Prima Comunione; della sua dedizione al lavoro e alla preghiera; del pudore che le infiammava il volto vaioloso ogni volta che udiva un complimento. Solo di sfuggita accenna alla sua passione per il flagello, durante sessioni che prevedevano tra le millecento e le milleduecento frustate.
Alla ricerca di un terreno comune, uomini gesuiti e donne irochesi lo avevano trovato nel masochismo. Cholenec aveva introdotto flagelli, cilici e cinture di ferro, nella speranza di soppiantare le torture tradizionali. D’altro canto i convertiti e le convertite avevano la sensazione che i gesuiti non raccontassero tutta la storia. L’idea che il dolore auto-inflitto portasse a un’alterazione della coscienza simile a uno stato mistico era già presente nella loro cultura originale: i flagelli dei gesuiti sembravano suggerire la stessa idea, ma i vestenera sembravano restii a condividere tutti i loro segreti. Nel frattempo Anastasia aveva fondato una confraternita di donne che metteva insieme il meglio delle torture europee e amerindie. Kateri dormiva su un tappeto di spine; si praticava tagli rituali; si bruciava con carboni ardenti e si gettava nel fiume in pieno inverno. Nel giro di quattro inverni era morta: aveva 24 anni. I gesuiti al suo capezzale raccontano che il volto, dopo la morte, perse ogni segno del vaiolo e divenne bellissimo. Anastasia la vide risorta ai piedi del suo stesso letto, con in mano una croce luminosa. Maria Teresa udì soltanto la sua voce nel bosco: Di’ al padre che vado in cielo, Adieu. Sulla sua tomba scrissero Ownkeonweke Katsitsiio Teonsitsianekaron, “il più bel fiore mai cresciuto tra i pellerossa”.
La sua venerazione, immediatamente promossa dai gesuiti, incontrò numerosi ostacoli: nel Settecento dopo la guerra dei Sette anni i francesi abbandonarono il Nordamerica; nel frattempo l’ordine gesuita veniva sciolto. Anche gli irochesi furono sconfitti da George Washington (“il Distruttore di Città”). Nel Settecento viene ricordato almeno un miracolo – necessario per qualunque causa di canonizzazione: un gesuita avrebbe curato un bambino protestante dal vaiolo con un frammento ligneo della bara di Kateri – prima però il bambino aveva dovuto convertirsi al cattolicesimo.
A prendere sul serio la causa di Kateri fu la comunità cattolica statunitense, che a metà Novecento non poteva ancora vantare un santo autoctono. Nel 1943 – un anno delicato per i rapporti con gli USA – Pio XII si limitò a dichiararla venerabile. Persino Giovanni Paolo II, il più grande canonizzatore di tutti i tempi, si contentò di renderla beata, segno che alla gerarchia la ragazza mohawk che amava le frustate non è mai realmente andata a genio. Non le hanno nemmeno dedicato una chiesa: soltanto una cappella nella chiesa di S. Francesco Saverio, a Montreal. Kateri è diventata santa a tutti gli effetti soltanto nel 2012, in una delle ultime cerimonie di canonizzazione celebrate da Benedetto XVI. Oggi il vecchio accampamento di Caughnawaga si trova all’interno dell’area metropolitana di Montreal: vi hanno sede almeno una decina di casinò on line, e pare ci sia un fiorente commercio di sigarette di contrabbando.
Prima ancora che le gerarchie cattoliche si interessassero realmente a lei, nel 1966 Kateri era diventata un’eroina di primo piano nel complesso romanzo di un giovane e brillante scrittore canadese, Beautiful Losers. L’insuccesso spinse il suo autore ad abbandonare la letteratura e a concentrarsi sulle canzoni; peraltro se era riuscito a sfondare Bob Dylan, con quella voce, avevano tutti quantomeno il diritto a provarci, no? Si chiamava Leonard Cohen.
Quel patrono è nero nero
12-04-2020, 01:38santiPermalinkIo non capisco a volte che succede:
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Cosa g'avra da rider |
Con tutti i posti al mondo, un santo nero
si venera a Verona.
Pensa un po', lo chiaman Zeno;
(o anche Zen: ma meglio Zeno).
Seh, chiamalo anche Zen...
Zen, Zenone o che vuoi te:
che si chiami Giorgio o Antonio,
Pietro, Paolo oppure Zeno,
quel patrono è proprio nero,
nero nero:
pensa te.
Sostengon gli studiosi che è normale:
"Non sono fatti rari, se ne conta centinaia".
Ce n'è tanti in Sicilia, e anche Agostino,
se vuoi farci le pulci, più che bianco è tunisino.
Seh, tunisino, seh...
Seh, siciliano seh...
Che sia punico o abissino, mauritano o brasilero,
c'è a Verona un santo nero, nero, nero!
Pensa te.
Ha detto l'ortolano: beh, vediamo,
perché se ragioniamo questo fatto lo sbrogliamo.
Se l'Adige va in piena, io lo prego.
Di solito funziona; se poi è nero, me ne frego.
Eh, sì, fregatene, vero,
tu, che hai un patrono nero...
Ruba il posto ai santi bianchi! E domani poi tua figlia
avrà nero anche il Romeo che al balcone già si appiglia.
(Buona Pasqua a tutti e scusate, è un periodo così).
Il più grande nasconditore di preti d'Inghilterra
22-03-2020, 03:15Inghilterra, religioni, santiPermalinkDi santi ce n'è di tutte le misure – Nicholas Owen era quello che si diceva un nanerottolo. Perlomeno le cronache ce lo consegnano così, ed è uno dei tanti dettagli della sua storia troppo perfetti per sembrare veri. Nicholas Owen di mestiere costruiva piccoli nascondigli segreti per i preti cattolici – ovvero, di mestiere faceva il carpentiere come suo padre (e come il padre di Gesù), ma quella era solo la copertura. Di giorno in effetti aveva una sua bottega da carpentiere, dove probabilmente gli capitava di sonnecchiare sulla pialla e tirare martellate a caso per far sentire all'esterno che si stava impegnando; di notte viaggiava in incognito, nome in codice Little John o Little Michael; entrava in case e palazzi e al buio e nel silenzio costruiva armadi a scomparsa, finti corridoi, inganni prospettici, passaggi segreti più a misura di nano che d'uomo, ma utili a un clero cattolico ormai passato in clandestinità. "Priest holes", li chiamavano le guardie al servizio di Sua Maestà, quando li trovavano, buchi da prete. C'è una villa nel Wostercershire che ne ha almeno undici – bisogna dire "almeno" perché gli storici non sono affatto sicuri di averli trovati tutti. Un trucco tipico di Owen era il doppio nascondiglio: ne costruiva uno relativamente facile da trovare che ne nascondeva un altro ben più complesso. Per tutti questi trucchi che salvarono la vita a dozzine di preti, Owen non chiese mai più della paga ordinaria.
Di santi ce n'è di tutti i tipi – Nicholas Owen non sembrava il più adatto a diventare il personaggio di un film d'azione. Aveva l'ernia e un cavallo rotolandogli addosso lo aveva lasciato zoppo di un piede. Almeno un paio di volte fu proprio l'apparenza prosaica a salvarlo, quando veniva arrestato perché cattolico e poi rilasciato perché considerato un pesce piccolo. Tutto il contrario di padre John Gerard, l'agente segreto dei gesuiti, che in un film del genere potrebbe essere il James Bond, o meglio ancora lo Zorro, visto che per ingannare le autorità anglicane fingeva di condurre una vita dissoluta, conciandosi da damerino e giocando d'azzardo. Gerard nel 1594 fu arrestato con Owen: il secondo fu rilasciato dietro cauzione; Gerard aveva l'aria di essere una figura molto più importante e così fu trasferito alla Torre di Londra, l'unico luogo dove era consentito usare il terribile cavalletto per torturare i detenuti. Tra un interrogatorio e l'altro, Gerard ebbe la prontezza di spirito di chiedere a un guardiano delle arance, col succo delle quali avrebbe scritto i messaggi che avrebbero consentito a una task force cattolica di liberarlo. L'architetto dell'epica fuga dalla Torre sarebbe stato proprio Nicholas Owen. La task force, insieme a Gerard (che sarebbe evaso appendendosi a una corda, malgrado i polsi slogati dalla tortura), prelevò anche il guardiano, evidentemente un po' corrotto: il che ci suggerisce che le cose potrebbero anche essere andate in modo meno epico di come lo stesso Gerard le avrebbe raccontate nella sua autobiografia. Ma ormai la sua fuga è parte integrante del folklore della Torre, è una cosa che si racconta ai bambini, non sarebbe così facile rinunciarci. Sia come sia, Padre Gerard non smise mai di onorare il piccolo carpentiere che aveva aiutato lui e i suoi colleghi. "Non credo davvero che nessuno abbia fatto più di lui, tra quelli che lavorarono nella vigna inglese".
Altri nel frattempo stavano tramando disastri – in una cantina di Londra, nel 1605, una cellula di cattolici radicalizzati stava ammucchiando barili di polvere da sparo. Constatata l'impossibilità di riconvertire la classe dirigente al cattolicesimo, l'idea era quella di farla saltare in aria, la classe dirigente: e proprio a Westminster, durante la prima seduta del parlamento. L'unico prete informato del complotto aveva ricevuto la confidenza durante una confessione, e quindi non poteva rivelarlo. L'aveva però a sua volta confessato al superiore, padre Henry Garnet. Garnet scrisse qualche lettera, anche al papa: lasciò intendere che la situazione era, come dire, esplosiva, e forse qualche pulce nell'orecchio degli inquirenti la attivò: il che non lo salvò dalla furia di questi ultimi, una volta sventata la congiura. Trovò rifugio proprio in uno dei priest holes costruiti da Nicholas Owen, in quella villa del Worcestershire in cui ce n'erano almeno undici. In uno di questi a un certo punto le guardie trovarono Nicholas Owen stesso, e la tradizione vuole che sia stato lui a palesarsi nel tentativo di distogliere l'attenzione dall'obiettivo più importante, che era padre Garnet. Ma forse qualche uccellino nel frattempo aveva cantato, insomma stavolta sapevano di aver catturato il pesce giusto.
Lo stesso Segretario di Stato, Robert Cecil, mette per iscritto un'"incredibile gioia" scatenata dalla notizia del suo arresto, "sapendo la grande abilità di Owen nel costruire nascondigli, e l'innumerevole quantità di oscure tane che ha progettato per nascondere preti in tutta l'Inghilterra". Alla fine presero anche Garnet, dopo otto giorni in cui aveva succhiato nutrimento da una fessura con una cannuccia, in un nascondiglio che Owen non aveva potuto provvedere di servizi igienici, cosicché a un certo punto chi ci stava dentro non poté fare altro che uscirne. Garnet fu giustiziato sulla pubblica piazza con l'accusa di alto tradimento, ma la procedura che prevedeva l'impiccagione, lo sventramento mentre il condannato era ancora vivo e lo squartamento non fu applicata completamente, le cronache dicono che la folla non era d'accordo e Gerard rimase appeso alla forca. A Guy Fawkes e agli altri congiurati non fu fatto lo stesso favore.
Ci santi ce n'è di predicatori, e confessori, e ogni genere di chiacchieroni: Nicholas Owen era del tipo taciturno (come il padre di Gesù). Lo rimase anche alla Torre di Londra, quando lo appesero per i polsi coi pesi alle caviglie finché non ne morì, senza dire un solo nome. Questo almeno è quello che raccontano di lui gli agiografi, e in effetti suona tutto un po' troppo perfetto per essere vero. La Storia ci insegna a diffidare: magari qualche nome alla fine sotto tortura potrebbe averlo fatto, magari qualche nascondiglio non lo aveva costruito lui. Magari Padre Gerard uscì dalla porta di servizio della Torre fischiettando mentre i guardiani contavano le ghinee della mazzetta. Chi lo sa. Certo è notevole che in una storia tanto sanguinolenta e fetida di polvere da sparo, Owen emerga pulito come un bambino. Sembra davvero il caratterista dei film, quello di poche parole che si trova sempre sul set nel momento giusto, quando c'è da nascondere un eroe o farlo evadere. Verso la fine del film spesso viene sacrificato; è l'occasione per far scendere una lacrima e motivare una riscossa risolutiva. Che in questo caso non ci fu: dopo la Congiura delle Polveri i cattolici divennero ancor più invisi al popolo inglese. Padre Gerard riparò in continente e (su ordine dei superiori) scrisse la sua avventurosa vita ad maiorem Dei gloriam. Non gli riuscì neanche di diventare santo: al suo fido carpentiere sì, è stato canonizzato nel 1970 con altri quaranta martiri inglesi (e gallesi) delle guerre di religione.
Il roveto di Benedetto
21-03-2020, 00:16repliche, santiPermalink[2013]. Benedetto ogni tanto lo volevano ammazzare. Gli intossicavano il vino, gli avvelenavano il pane, a lui ovviamente bastava un segno di croce perché il bicchiere impestato si frantumasse, o un corvo venisse a far sparire il pane avvelenato. Ma chi è che voleva così male a Benedetto? Gli invidiosi, come al solito. Quelli che prima magari avevano strisciato per portarselo nel proprio monastero, per il solito fatto che un teorico della povertà integrale è sempre molto decorativo; però poi quando si rendevano conto che Benedetto non scherzava, che digiunava sul serio e voleva che anche i confratelli lo facessero, cercava un sistema per toglierlo di mezzo. Il tentativo più famoso comunque resta quello di Don Fiorenzo che, constatata l'impossibilità di avvelenare Benedetto, tentò di screditarlo mandando sette giovinette nude a ballare girotondi nel giardino del monastero. Giacché diciamocelo: chi resisterebbe a un girotondo di sette giovinette nude?
Benedetto, per esempio. Vide le giovini, provò una profonda tristezza, fece i bagagli e se ne andò. Pochi minuti dopo lo stavano già richiamando: torna pure indietro, Don Fiorenzo è morto, era sul terrazzo a guardarti partire e sghignazzava così tanto che insomma il terrazzo è crollato, eheh.
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Dai, facciamo una cena elegante (È il famoso quadro in cui il Sodoma aveva dipinto le giovani nude, per precisione filologica, ma i monaci di Monte Oliveto non lo pagarono finché non le rivestì). |
Qualcun altro si sarebbe inginocchiato e avrebbe reso gloria al Signore, Benedetto invece si rattristò, era pur sempre morta una persona, e redarguì il messaggero: che hai da ridere? vergognati, piuttosto, e penitenziagìsci. Resistere alle coreografie di sette donne nude è già una virtù eroica, ma non accennare nemmeno una smorfia di soddisfazione mentre apprendi che il tuo nemico è morto precipitato tra i rottami mentre ti rideva alle spalle, questo è da superman della santità, questi è Benedetto, primavera del Medioevo. Non amava che i monaci ridessero; la sua Regola tradisce una certa insofferenza per il riso. Ma tutto sommato è un testo ragionevole, poco in sintonia con l'integralismo del Benedetto leggendario, che prima di dirigere o fondare monasteri era stato a lungo un eremita solitario e poi forse, chissà, invecchiando si era di molto addolcito. L'esempio più famoso è quello del vino: il digiunatore Benedetto nella Regola lascia benissimo intendere che lui non ne berrebbe mai ("riteniamo che il vino non sia per il monaco"), ma siccome con i giovani è impossibile ragionarci, vada per un quartino al giorno, e non di più. Una dose di tutto riguardo, considerati gli standard di vita dei secoli bui. Con Benedetto i monasteri occidentali si allontanano dagli eccessi ascetici di oriente e si avviano a diventare luoghi di rifugio per artigiani e intellettuali in quei secoli senza mecenati.
Ai tempi in cui resisteva vittorioso alle sette ballerine nude, Benedetto era ormai trasceso al di là di ogni concupiscenza. Non era stato un percorso graduale o faticoso, come smettere di fumare. Da giovane aveva sperimentato la seguente terapia shock: un giorno che si era sorpreso a pensare a una ragazza vista per strada, si era gettato nudo in un roveto. La libido era cessata all’istante. Son quelle leggende che quando te le leggono da bambino, in refettorio, tu alzi il sopracciglio, mmm, la capriola nel roveto che ti fa passare per sempre la voglia di copulare, certo, certo. Ma poi il tempo passa, e quanto ne passa a inseguire persone di solito inadatte, che magari hanno solo la sfortuna di passare di lì e poi devono sopportarti per mesi, anni, e quanta fatica, per cosa poi? Diciamo la verità: trovassimo il rovo di San Benedetto, non ci getteremmo? Una capriola, un po’ di croste e poi via, tranquilli ed eunuchi per il resto dei nostri giorni. Non ci faremmo un pensiero?
No.
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I funerali |
Colgo l’occasione per salutare un grande re d’Israele che nel calendario non c’è, il saggio Salomone. Su di lui le Scritture si contraddicono allegramente: per parecchi capitoli non fanno che dire quant’era savio, quant’era bravo, e qui e là: ma nei fatti dopo di lui il Regno franò miseramente spezzandosi subito in due. A mo’ di spiegazione la Bibbia accenna al fatto che Salomone, dopo aver chiesto e ottenuto da Dio la saggezza, verso la fine si era un po’ rincoglionito a causa delle troppe concubine, peraltro non tutte 100% ebree. Insomma a un certo punto Dio, scandalizzato avrebbe ritirato il suo dono. Ma se dissipare tutte le energie senili in concubine fosse al contrario la cosa più saggia da fare? Se Salomone, se Berlusconi non fossero semplici vecchietti bavosi, se al contrario avessero capito tutto quello che c’è da capire?
Siamo tutti così. Se non allestiamo un condominio per le nostre concubine è soltanto perché non ce lo possiamo permettere. Io comunque non ho intenzione di invecchiare così, eh, appena trovano il roveto di San Benedetto…
“Trovato”.
“Eh?”
“Sai il roveto di cui parlavi? L’hanno trovato”.
“Ma no ma dai che stai dicendo”.
“È in farmacia”.
“Ah, bene”.
“Quindi vai?”
“Magari domani”.
“Punto la sveglia?”
“Magari tra un anno o due”.
“Google Calendar?”
“Ma cambiamo argomento, è un periodo che mi sento flaccido, stavo pensando di iscrivermi a un corso, qualcosa…”
“Pilates?”
“No pensavo una cosa un po’ più sociale, non so, tipo… la salsa e…”
“Il merengue? Sei pronto per la salsa e il merengue? Sul serio?”
“Guarda che si bruciano un sacco di calorie, e inoltre…”
“Penitenziagisci”.
L'ultimo patriarca, il primo papà
19-03-2020, 17:53cristianesimo, repliche, santiPermalink![]() |
Lo sapevo, tutto sua madre. |
[2012]. Giuseppe, dice il messale romano, è l'ultimo patriarca della Bibbia. Buffo, lui che era padre solo in senso lato. Però pensando ai suoi predecessori – Noè che ubriaco si fa ridere dietro da Cam e lo maledice; Abramo che quasi sacrifica Isacco; Isacco che benedice Giacobbe ma solo perché è travestito da figlio maggiore; Giacobbe che ha 12 figli ma sembra curarsi solo di Giuseppe e Beniamino; il profeta Samuele che quasi adotta Saul, lo unge re e poi lo tratta da mentecatto; Saul che quasi adotta Davide e poi cerca di farlo fuori... la lista potrebbe continuare, ma insomma in fondo alla sequela di tutti questi padri e patrigni arrabbiati o distratti, talvolta paranoidi, schizzati, tutte proiezioni di un Dio padre geloso e irascibile... Giuseppe sembra fin troppo tranquillo: un intruso.
In realtà non conosciamo quasi nulla di lui; anche nel suo caso molte cose che crediamo di sapere sono incrostazioni di leggende e chiose che non hanno fondamento nella lettera dei Vangeli. Per esempio ci piace raffigurarcelo come un tizio avanti negli anni ("i vecchi quando accarezzano" cantava De Andrè, "hanno paura di far troppo forte"). L'anzianità di Giuseppe è un dettaglio che diventa sempre più nitido man mano che si chiarisce, nel corso dei primi secoli, l'altro dettaglio fondamentale della verginità di Maria: immaginare il marito anziano era il modo più spiccio per allontanare il sospetto di intimità tra i due sposi.
In realtà i pochi versetti che ce ne parlano hanno dato filo da torcere a chi voleva saltare a certe conclusioni. Di Giuseppe parla soprattutto Matteo, l'evangelista più legato al mondo ebraico dove Gesù era nato e vissuto; Luca, come abbiamo visto, è più liberal, scrive subito in greco e mette donne e proletari in primo piano, il suo Giuseppe è un semplice custode di Maria: è lei che viene visitata dall'angelo, è lei che acconsente, è lei che intona il Magnificat, che medita le cose nel suo cuore, Giuseppe è una semplice scorta. Matteo tratta il marito con più considerazione: nel suo vangelo è lui a ricevere più volte istruzioni dall'angelo. Il problema è che proprio in Matteo (1,25) c'è una parolina maledetta, che anche San Girolamo a malincuore dovette tradurre con "donec", "finché": Giuseppe "non ebbe con lei rapporti coniugali finché Maria non ebbe partorito un figlio".
Non vi dico le arrampicate sugli specchi dei padri della Chiesa per dimostrare che quel finché in realtà non è quel che sembra, e che Maria restò vergine anche in seguito. Arrampicate rese ancor più disagevoli da quel che Matteo combina nel capitolo 13: mette per iscritto una lista di fratelli di Gesù, nientemeno. Hanno tutti nomi familiari. C'è da dire che a parlare è la folla, e si sa, la folla è sempre male informata. Ma comunque:
Non è questi il figlio del falegname? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda?Anche qui si sono spesi in centinaia per dimostrare che "fratelli" non vuol dire proprio "fratelli", che al tempo di Gesù si diceva "fratelli" anche ai cugini, agli amici, ai conoscenti, come no, la Galilea era una specie di Bronx dove tutti si dicevano Hey Bro. Giusto per mettere il dito sulla piaga, anche Luca negli Atti degli Apostoli e Paolo nella Lettera ai Galati menzionano un personaggio importante della prima comunità di Gerusalemme chiamandolo Giacomo, "il fratello del Signore". Un'altra spiegazione è che i fratelli fossero in realtà fratellastri, e che Giuseppe avesse sposato Maria da vedovo. Ecco un'altra buona ragione per immaginarlo vecchietto incanutito (ma è anche un tizio che quando l'angelo gli dice in sogno: adesso prendi su con la tua sacra famigliola e ti rechi in Egitto per tot anni fino a nuovo ordine, lui lo fa; non era proprio un viaggetto di piacere da raccomandare a un pensionato).
Il versetto sopra è fondamentale anche per determinare la professione di Giuseppe: falegname. Di questo almeno siamo sicuri, o no? No, nemmeno di questo.
Intanto la parola greca (tekton) è più vaga: un tekton lavorava con materiali duri, senz’altro con il legno, ma poteva essere anche carpentiere o muratore. Persino impresario di cantiere, e in questo caso cadrebbe la tradizione di San Giuseppe artigiano e patrono dei medesimi. Ma c’è di più. Se leggiamo il versetto corrispondente in Marco (6,3), ci accorgiamo che è un po’ diverso
Non è questi il falegname, il figlio di Maria, e il fratello di Giacomo e di Iose, di Giuda e di Simone? Le sue sorelle non stanno qui da noi?
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Dai che ti fai buon sangue |
Qui ci sono delle sorelle, addirittura… ma notate: non c’è più il padre. Marco non parla mai del padre. C’è la parola falegname (che in realtà è tekton), e poi la parola figlio. Qui è Gesù a essere chiamato tekton: ma magari suo padre non lo era, chi lo sa? Va bene, quel che sappiamo della mobilità del lavoro nella Galilea del primo secolo ci autorizza a immaginare che Gesù abbia fatto gavetta come tekton semplicemente perché era il mestiere del patrigno. Di quest’ultimo Marco non parla forse perché nel suo breve vangelo ci tiene a sottolineare la vera, divina, paternità di Gesù, e il patrigno diventa un’inutile distrazione. Viceversa Matteo scrive per gli ebrei del suo tempo, che nel perplesso ebreo Giuseppe potevano riconoscersi. Ovviamente non ci siamo mai messi d’accordo su quale dei due vangeli sia stato scritto per primo.
Nell’ultimo episodio evangelico in cui compare Giuseppe, Gesù ha 12 anni. Dopo aver festeggiato la Pasqua a Gerusalemme, come si conviene, la Famiglia è ripartita per la Galilea. Che Gesù fino a quel momento fosse stato un figlio modello lo dimostra il fatto che papà e mamma si facciano un giorno di viaggio senza nemmeno domandarsi come mai Gesù non si faccia sentire, non si lamenti che vuole fare la pipì o comprare un pupazzetto all’autogrill. Solo verso sera si accorgono che non è più nella carovana, e questa è la Sacra Famiglia, figuriamoci quelle ordinarie. Il mattino dopo ripartono per Gerusalemme. Lo cercano per tre giorni, che sembrano un’esagerazione: alla fine lo trovano al tempio che si fa interrogare da scribi e dottori della legge e dà i punti a tutti. A quel punto parla Maria, perché l’evangelista è Luca (2,48); però parla anche per conto del padre, che in tutto il Nuovo Testamento non dice una parola. Forse è davvero un falegname e in mezzo a tutti quei dottoroni si vergogna; oppure è un padre sanguigno, di quelli che se inizia a parlare poi esplode, e Maria sta cercando di contenerlo; oppure è solo triste, come certi padri che non sanno bene come si fa, ci provano tutti i giorni ma non esistono ancora i manuali, insomma Giuseppe tace e frigge, e Maria parla per lui:
Secondo me, sbaglierò, proietterò, mio padre è un artigiano e quando mi laureai era un po’ a disagio, però secondo me in quel momento a papà, volevo dire a Giuseppe, si spezza il cuore: e poi scompare. Lasciamo stare le leggende medievali, se sia stato o no assunto in cielo, sì, d’accordo, glielo auguriamo tutti, però se restiamo alla lettera dei vangeli da lì in poi nessuno ne parla più. Solo i nemici di Gesù per screditarlo, taci tu che sei figlio del tekton. L’evangelista Marco nemmeno lo nomina. Alla fine di tutti i padri padroni della Bibbia, Giuseppe è il padre che non minaccia, che non maledice, che non disereda e non cospira, è il padre che si lascia cancellare così: dopo avere sposato una vergine, dopo averne accudito il figlio, dopo averlo nascosto in Egitto, riportato in Galilea, magari insegnato un mestiere, quando non ha avuto più nulla da dare al figlio suo, lo ha lasciato andare. L’ultimo patriarca, il primo papà.«Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io ti cercavamo, stando in gran pena». Ed egli disse loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?»
Di che ti vanterai, San Lalemant
17-03-2020, 22:54Americana, santiPermalink"Piccolo Prete, Piccolo Prete".
"Vecchio Falco, che c'è?"
"Oggi noi moriamo".
"Oggi?"
Di che ti vanterai col tuo Signore? Anche se fossi il più forte tra gli uomini, è Lui che così ti ha creato. Del resto si fa per dire, Gabriel Lalemant: tu non sei certo il più forte degli uomini. Sei miope e hai la scoliosi. I polmoni, potessi sputarli a primavera, li vedresti spugnare sangue. Dio ti ha scelto missionario in Canada e ti ha regalato un'allergia a un parassita della corteccia degli aceri, a maggiore sua gloria. Un premolare ti pulsa impazzito, il dentista più vicino è a una settimana di marcia dal villaggio. Hai sempre freddo, hai sempre fame, in un altro secolo saresti depresso; nel diciassettesimo stai per morire.
Gli irochesi, dice Vecchio Falco. Stanno arrivando, sono in tanti. Hanno i colori di guerra ma se volessero combattere avrebbero aspettato che tornassero dalla caccia i maschi atti alle armi. Sono venuti a distruggere il villaggio, Piccolo Prete. Ammazzeranno noi vecchi, stupreranno le donne, adotteranno qualche bambino. È così che fanno gli irochesi.
"Sei ben informato sui loro costumi".
"E va bene, Piccolo Prete, anche noi uroni facevamo così, ma Grande Prete mi ha dato il Perdono".
"Sì sì il Perdono".
Di che ti vanterai al cospetto di Dio? Anche se fossi il più coraggioso tra gli uomini, è Lui che l'ha deciso. Tu ti saresti semplicemente trovato col coraggio necessario al momento giusto. Del resto si fa per dire, Gabriel Lalemant; tu non sei il più coraggioso tra gli uomini. C'è un punto preciso del basso ventre che te lo sta confermando, la pelle ti si fa d'oca come quando al collegio nell'ora di latino cercavi in qualche modo di non fartela addosso.
"Ma c'è una qualche maniera di... non so, è previsto che possiamo arrenderci?"
"Arrenderci, Piccolo Prete?"
"Sì, non combattere".
"Non credo che possiamo combattere".
"E quindi ci arrendiamo e loro..."
"Ammazzano noi vecchi, violentano le donne e rapiscono i bambini".
"Anche se ci arrendiamo".
"Arrenderci, Piccolo Prete?"
"Non conosci la parola, vero?"
"Mi perdoni, Piccolo Prete".
"Ti perdono, ti perdono, possiamo scappare almeno?"
"Le donne e i bambini possono scappare".
"Le donne e i bambini".
"Ma i guerrieri irochesi sono più veloci".
"Sono più veloci".
"Allora Piccolo Prete dobbiamo fare la... non so come si dice in francese, Piccolo Prete".
"Dobbiamo chiuderci nelle capanne e sparare e lanciare frecce e tenerli occupati".
"Anche fare urla di donna nel frattempo, io credo che Piccolo Prete le sa fare".
"Urla di donna?"
"Io ho sentito Piccolo Prete cantare la messa e credo che gli irochesi crederanno di sentire una donna. Anche molte donne".
"Cioè fammi capire".
"Grande Prete ha già radunato le donne, che portino via i bambini nella foresta. Gli altri vecchi saremo una dozzina. Abbiamo frecce e il fucile di Grande Prete, io forse lo so usare".
"No no no, lascia perdere quell'affare, prima che ti esploda in m-"
"Se fa chiasso è comunque utile, e comunque oggi io muoio. Intanto Piccolo Prete canterà per noi".
"Cantare? Cosa dovrei cantare?"
"Quella che più sembra un verso di donna... alla fine della messa, lei sempre canta quella cosa che fa tedeeeeeu...."
"Il Te Deum".
"Aspetta però. Prima Piccolo Prete deve essere sicuro di una cosa. È importante".
"Cosa c'è"
"È sicuro che non Si arrabbierà?"
"Chi?"
"Il Signore nella Grande Casa".
"Ah, Lui".
"Non si arrabbierà se ti sente cantare il Suo Nome? Mentre noi tiriamo frecce e cerchiamo di uccidere gli irochesi, che Grande Prete ci disse essere peccato".
"Sì beh, ecco, io..."
"Piccolo Prete per favore non m'importa di morire oggi, sono vecchio e sono urone. Ma nel Fuoco Eterno non ci voglio andare, quindi la mia domanda è più seria della vita, capisce?"
"Capisco Vecchio Falco, capisco".
"Se tu canti forte e Lui ti sente, Si arrabbierà?"
"Io... io non lo so".
"Come non lo sa?"
"È complicato".
"Ma tu sei Prete! Tu devi sapere".
Di che ti vanterai col tuo Signore? Anche se fossi il più saggio degli uomini, da chi viene tutta la saggezza? Chi l'ha dispensata agli uomini, dandone tanta ad alcuni, poca o punta a molti, e calcola quanta ne deve aver passata al malaticcio Gabriele Lalement, il giorno in cui gli ha instillato la voglia pazza di fare il missionario in America, che non sembra un'idea saggia da qualsiasi parte tu la guardi, e specialmente all'alba di quel 17 marzo 1649 in cui si muore, e davvero bisogna morire cantando il Te Deum in falsetto, chi può dire se a Nostro Signore la cosa piacerà? Magari era persino il giorno in cui Gabriele ci credeva poco – la gente pensa che la Fede scorra sempre copiosa come un grande fiume in chi ne è degno: e invece no, troppo spesso è uno di quei torrenti capricciosi che in inverno sono rivoli quasi secchi e d'estate vanno in piena, o viceversa; e metti che Gabriele fosse in secca proprio in quel giorno in cui gli toccava di morire, Vecchio Falco, che ti dico?
Non solo Dio è imperscrutabile, ma voi indiani chi vi capisce, e io sto qui in culo al mondo a fare l'interprete tra due entità che non ho mai capito, che vita assurda, che mal di denti, chissà quanti me ne caveranno al palo della tortura prima di trovarmi quello che mi pulsa –
– Entra in scena un ragazzo, spalanca l'uscio senza bussare. Zoppica e mugola una cosa che nel dialetto del villaggio vuol dire porcaputtana Vecchiofalco le merde sono qui. È quel tipo di maleducazione che ti sorregge nei colpi di sfortuna. Non fosse caduto su un ginocchio la scorsa settimana starebbe già cacciando col padre o al limite scappando nella foresta con la madre, ma zoppica e quindi anche lui deve morire oggi. Vecchio Falco gli bisbiglia qualcosa del tipo: ma vergognati, non vedi che sono qui col Prete? Il ragazzo fa finta di accorgersi che c'è il prete. China la testa e congiunge le mani in un tentativo di saluto ossequioso, ma è così nervoso che gli salta fuori un applauso, clap!
"Chiedo perdono, Piccolo Prete, io..."
Questi chiedono perdono continuamente, Grande Prete (Jean de Brébeuf) ha messo loro addosso una paura dell'inferno che in certi casi magari è utile; non in questo.
"Ti perdono, Scoiattolo che c'è?"
"Le mer... Gli irochesi sono qui".
"Lo so".
Zang!
(O qualsiasi sia il rumore di una freccia che si conficca nella fessura tra due pali di una capanna).
"Giù la testa" dice in dialetto Vecchio Falco, ma lo dice e non lo fa, e la capanna non ha vetri, quindi un attimo dopo averlo detto sta fissando la punta di una freccia che gli esce dalla spalla, dunque oggi si muore così? Beh, meglio che restare al palo per un giorno di torture. Sul serio, se è una vita che ci pensi, quando arriva magari ti sollevi. Resta quella questione del Fuoco Eterno da chiarire ed è sempre più impellente, Vecchio Falco già ne annusa la fuliggine. Gabriele sta strisciando verso la cassapanca, lì dentro c'è l'archibugio di Père Jean, un affare arrugginito che con ogni probabilità gli esploderà in mano, d'altro canto gli irochesi ti cavano gli occhi e te li rimettono di brace; scottano una punta di freccia e ti ci sodomizzano, e Scoiattolo? Scoiattolo è in un angolo che piange e chiama la mamma perché questo fanno gli esseri umani, in tutte le civiltà, in tutte le latitudini, quando hanno dodici anni e fuori ci sono i cattivi. Oh mamma mamma mamma mamma mamma ma...
Più forte! Grida Vecchio Falco.
"Oh mamma mamma mamma mamma mamma mamma!"
L'archibugio ora è carico, ma bisogna dar fuoco alle polveri. Sul comodino nell'angolo, c'è ancora la candela accesa...
"Oh mamma mamma mamma mamma mamma mamma!"
"Non basta! Devi piangere come dieci! Fuori devono credere che dieci bambini sono qui!"
"Ma io ho una bocca sola! Non posso..."
"E invece Scoiattolo tu devi. Per tuo fratello, per tua madre, ora tu piangi –
BANG!
Gabriele ha dato fuoco a una carica e si è ustionato una mano e ora sta strillando in falsetto, a maggior gloria di Dio. Bravo Prete, bravo, strilla forte, strilla, anche di più, Vecchio Falco approva con tutto il fiato che gli resta. Qualcuno magari un giorno tirerà fuori un romanzo da tutto questo, o una scena da film, un vecchio un bambino e un prete che eroici resistono nella sagrestia che è l'avamposto del villaggio. Ma questo non è ancora un romanzo, questa è una baracca con un ragazzino in un angolo che piange, un prete in un altro angolo che si tiene una mano e strilla, e un vecchio urone al centro del pavimento che sanguina e approva con la testa, più strilli, più strilli per favore. Ci prova anche lui, auauauauauauauauauauau, ma gli manca il fiato di nuovo. Gli irochesi si sono fermati per un istante, forse un fucile non se l'aspettavano. E non va bene, bisogna fare baccano, bisogna far credere chissà cosa. Dalle altre case si sente il sibilar di frecce, qualche altro vecchio risponde, qualche altro ragazzino terrorizzato grida dalle finestre, quanto tempo riusciremo a fargli perdere mentre le donne scappano? Non si sa, non importa, ogni respiro è un dono di Dio.
"Te Deum laudamus: te Dominum confitemur..."
"No, Piccolo Prete, no".
"E perché no".
"Se non ne è sicuro, Piccolo Prete non deve cantare".
"E perché non dovrei esserne sicuro? Sono un prete".
"Giura, Piccolo P..."
"Te lo giuro".
"Sulla tua anima, giura che il Signore non si arrabbierà".
"Vecchio Falco, sulla mia anima ti giuro che il Signore non si arrabbierà se canto il suo nome mentre i tuoi fratelli combattono per salvare le nostre donne e i nostri bambini. Nel nome del Signore".
"Allora mentre Piccolo Prete canta, io posso andare".
"Te aeternum patrem, omnis terra veneratur..."
"...Mi perdona?"
"Tibi omnes angeli... di che ti devo perdonare?"
"Non lo so Piccolo Prete, non lo so".
"Grazie".
"Tibi caeli et universae potestates:
tibi cherubim et seraphim,
incessabili voce proclam..."
Di che ti vanterai col tuo Signore? Anche se tu fossi il più forte, il più coraggioso, il più saggio degli uomini – ma tu non lo eri. Invece eri Gabriele Lalement: eri malato, e hai salvato un villaggio. Avevi paura e hai combattuto col fucile in braccio, cantando lodi a Dio, e magari era uno di quei giorni in cui nemmeno ci credevi. E sei morto dopo ore di torture, e quando hanno finito ti hanno strappato il cuore e lo hanno mangiato come si mangia il cuore dei condottieri coraggiosi: e al posto dei tuoi occhi miopi avevi due tizzoni ardenti, e di tutto questo quanti possono vantarsi davanti al Signore? Ma se c'è un Regno dei Cieli, è il regno in cui il più forte, il più coraggioso, il più saggio, si chinano al passaggio di San Gabriel Lalemant. E come Scoiattolo giungono le mani, così in fretta che parte l'applauso.
Patrizio e il mal d'Irlanda
17-03-2020, 00:11repliche, santiPermalink![]() |
Jatavenne, per dirla in gaelico antico. |
Secondo alcuni la leggenda parla di serpenti ma allude ai druidi, quei viscidi sacerdoti pagani: Patrizio, che forse si chiamava Palladio (o forse erano due evangelizzatori diversi) li cacciò dall'isola con relativa facilità. L'Irlanda, da quel che ho capito, è l'unica terra cattolica senza martiri - anche se alcuni, per darsi un contegno, sostengono che Patrizio fu martirizzato (almeno lui) il 17 marzo. Nella sua Confessione, una delle cose più noiose che ho letto (e io leggo storie di Santi, rendetevi conto), Patrizio ammette di avere avuto qualche grana coi locali. A un certo punto lo fermarono in un bosco.
"Quel giorno avevano una gran voglia di uccidermi, "ma non era ancora venuto il tempo" [cf. Giona 7,20-30], e tutto ciò che ci trovarono nei bagagli ce lo presero, e mi incatenarono perfino, ma dopo quattordici giorni il Signore mi liberò dalle loro mani e tutto ciò che era nostro ci fu restituito, «per opera di Dio» [1 Pt 2,13] e di «amici fidati»".
Patrizio si esprime copia-incollando citazioni bibliche. Anche Agostino, suo contemporaneo, fa così; era lo stile del tempo; però Agostino era anche un grande scrittore, mentre Patrizio, per sua ammissione, un "peccator rusticissimus", uno che a scrivere non ha mai veramente imparato, ma non essendo un italiano del XXI secolo la cosa non lo inorgogliva, anzi, lo colmava di vergogna.
Senz'altro ausilio che qualche vecchio tomo della Vulgata da usare anche come vocabolario, Patrizio non è che riesca a spiegarsi molto bene. Potrebbe trattarsi di una persecuzione ordita da qualche druido invidioso del successo dell'evangelizzatore, ma anche di un banalissimo sequestro di persona: gli "amici fidati" potrebbero essere guerrieri cristiani pronti a liberare il loro leader, ma anche più prosaicamente i compagni di Patrizio venuti a pagare un riscatto. Patrizio era ricco, forse il segreto del suo successo con le anime fu tutto qui: evangelizzò l'Irlanda comprandosela. Fu un ottimo affare per tutti, non gli costò neppure tantissimo. Quanto? Per spiegarcelo, Patrizio usa un'unità di misura che ci dice molte cose, la "persona". Coi soldi spesi per beneficiare le autorità delle varie regioni, nelle frequenti visite, Patrizio riteneva
di aver distribuito loro una somma non inferiore al prezzo di quindici persone, per far sì che possiate godere di me e io sempre godere» di voi «in Dio» [cf. Lettera di San Paolo a Filemone]..
I vecchi romanzieri russi tradurrebbero "quindici anime", noi oggi diciamo "15 schiavi" e inorridiamo, ma era il quinto secolo, la compravendita di esseri umani era una cosa normalissima; era successo allo stesso Patrizio (al secolo Maewyin Succat, dicono) di essere rapito a 16 anni e trattenuto in schiavitù per sei. Ecco perché, malgrado fosse di famiglia benestante e cattolica (prete il nonno, diacono il padre) non ebbe un'istruzione all'altezza: negli anni in cui i compagni ci davano dentro col rosa rosae Maewyin pascolava ovini per il suo padrone in quell'isola dimenticata da tutti e quindi in teoria pure da Dio. Lui veniva dall'isola più grande, non si sa bene se dall'Inghilterra o dalla Scozia, ammesso che la divisione avesse un senso ai suoi tempi. È il tempo degli Scoti e dei Pitti, quest'ultimi famosi per l'abitudine a dipingersi il corpo con disegni favolosi e forse anche qualche serpente annodato. Solo con le sue pecore, in quell'isola fuori dal mondo, Maewyn riscopre la fede nel Dio dei suoi padri, che fino a quel momento aveva snobbato. Cristo fu forse l'amico immaginario che lo aiutò a non impazzire - fino al giorno in cui lo condusse a una nave che faceva la traversata.
Tornato miracolosamente agli affetti famigliari, Maewyn cominciò a fare carriera ecclesiastica, visitò l'Europa e forse persino l'Italia. Ma il mal di Britannia che aveva sofferto in quell'isola lontana si era trasformato in mal d'Irlanda. Voleva tornare là. Sognava che Cristo lo volesse là, a proteggere i pochi cristiani che già c'erano e a farne altri. Era l'uomo giusto, se non altro perché conosceva quella lingua impossibile. E la famiglia aveva abbastanza da parte.
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Cioè pazzesco sembra verde |
Patrizio forse non è esistito, ma qualcuno che abbia evangelizzato l'Irlanda sarà pure esistito, e non c'è dubbio che abbia fatto un lavoro egregio. Niente persecuzioni, niente martiri. Nei tre secoli a venire, i più oscuri del medioevo, il latino si conservò grazie ai monasteri irlandesi, lontani dalle guerre e dalle pesti del continente. Addirittura a un certo punto furono i monaci irlandesi a sbarcare in Inghilterra e in Francia per rievangelizzarle. Un irlandese, San Colombano, arrivò anche in Italia e fondò il monastero di Bobbio.
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Sono l'unico che nota questa cosa? |
Nessuno invoca Policarpo
23-02-2020, 01:33dialoghi, santiPermalinkVoi siete gente di rango e di gusto, chissà che santi vi appaiono se saltate un pasto. Santi importanti, santi di riguardo: a me capita al massimo San Policarpo (con un grappolo in mano).
"Ehi ciao".
"Ancora tu?"
"Passavo. Vuoi dell'uva?"
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Chiesa di San Policarpo a Roma (quartiere Appio Claudio) |
"Sono allergico, te l'ho detto".
"Ah scusa".
"E poi cosa vuol dire passavo, Policarpo, dov'è che sei diretto che passi sempre da qui".
"Cosa vuol dire allergico?"
"Storia lunga".
"È un problema? Magari ti posso aiutare, sai, io sono un Santo".
"Lo so Policarpo, lo so".
"Ti va un'albicocca?"
"Mi brucia lo stomaco".
"Sei sempre così pallido, secondo me dovresti mangiare più frutta, te lo dico".
"Policarpo, sto lavorando".
"E io no?"
"Cioè il tuo lavoro consisterebbe nel convincermi ad assumere vitamine? te lo contano come miracolo?"
"Non lo so, in confidenza non è che mi abbiano spiegato come funziona".
"Ma come non ti hanno spiegato, scusa. Tu sei San Policarpo".
"Eh lo so".
"Sei uno dei Padri Apostolici".
"Ah sì?"
"Hai ascoltato il Vangelo direttamente dalla bocca di San Giovanni evangelista".
"Ma pensa".
"Te lo ricordi?"
"Ma sì, cioè, insomma, San Giovanni, quel... quel vecchietto".
"Vecchietto?"
"Non era un vecchietto?"
"Dovresti averlo incontrato quando aveva al massimo cinquant'anni".
"Ah sì, certo".
"Ma come fai a esserti dimenticato, Policarpo".
"Che vuoi, sono pur sempre cose successe centinaia e centinaia di anni fa".
"Io pensavo che in paradiso vi ricordaste tutto".
"Non sarebbe più il paradiso, se ci rifletti".
"Sì? Ma insomma non ti hanno spiegato cosa devi fare? Non c'è, che so, Pietro all'ingresso che dà un vademecum".
"Oh, quello".
"Mi sembra di capire che non c'è molta stima".
"Per carità, è davvero un sant'uomo. Ma sempre così indaffarato".
"Eh beh, un ruolo di responsabilità".

"Perché gli altri no?"
"Gli altri? Mica tanti".
"Ma San Giovanni?"
"Giovanni quale?"
"Il tuo Giovanni, l'evangelista".
"Per carità, quello non esce mai dal suo ufficio".
"Un ufficio? A farci cosa?"
"Ma la cosa che fanno i santi di solito, come dite qui voi, l'intercessione".
"Cioè esaudisce le preghiere".
"Oddio esaudire è una grossa parola. C'è un... come faccio a spiegarti, c'è questo flusso di richieste che arriva dalla Terra, e il santo le ascolta, fa una specie di cernita, elimina le impresentabili, e le altre le indirizza a un ufficio più in alto, magari con una raccomandazione se pensa che sia veramente il caso. I santi fanno questa cosa, sono degli... degli intermediari, ecco".
"Quindi Giovanni è molto indaffarato perché deve smistare tutte le preghiere che gli rivolgono".
"Esatto".
"E anche Pietro".
"Ma un po' tutti, ti dirò".
"Ma per dire Sant'Ireneo, ce l'hai presente Ireneo".
"Ehm... Ireneo, certo".
"Era di Smirne come te, ha questo ricordo di lui bambino che ti vede nel foro che insegni il Vangelo. Rammenta "la maestà del tuo portamento; la santità della tua continenza", cioè eri una specie di torre di guardia, per lui".
"Eh ma ai bambini facciamo un po' tutti questa impressione".
"Ma voglio dire, Ireneo di Lione ce l'avrà bene un attimo per te, per darti una mano".
"Non lo so, anche con lui bisogna prendere appuntamento".
"Per vedere Ireneo? È così popolare?"
"In un qualche modo sì, c'è un posto nelle Gallie dove è vissuto dopo essere partito da Smirne..."
"Lione".
"Lì c'è ancora una comunità che lo invoca con frequenza, insomma un lavoraccio".
"Mentre tu..."
"Io? Io non mi lamento".
"Comincio a capire.Tu sei sempre qua perché in paradiso ti annoi".
"Ma che dici".
"E ti annoi perché nessuno ti invoca. Gli altri santi hanno tutti le preghiere da smistare. Ma nessuno prega più per Policarpo da Smirne".
"Smirne, già. Che poi alla fine dov'è Smirne? Non mi ricordo più".
"In Turchia".
"Mai sentita".
"Per forza, i turchi sono arrivati secoli dopo, ai tuoi tempi era una provincia dell'Asia Minore di lingua greca".
"Ecco, sì, il greco lo so parlare. Ti va un πορτοκάλ?"
"Adesso si dice arancia. Con la dominazione turca si è imposta la fede musulmana, e così tu, che all'inizio eri uno dei santi più importanti, sei rimasto senza il tuo nocciolo duro di fedeli e adesso ti aggiri smarrito per il cielo senza nessuno che t'invochi, nessuno che ti dia un senso".
"Si dice arancia ma ne ho anche di rosse, e poi ci sono le amare e..."
"E basta con questa manfrina della frutta, ho controllato. Non sei neanche il patrono dei fruttivendoli".
"Ah no?"
"No, probabilmente è un'idea che ti è venuta ragionando sul tuo nome, che in greco vuole appunto dire..."
"Tanti frutti".
"A-bop-bop-a-loom-op a-lop-bop-boom".
"Eh?"
"Scusa, non ho resistito. Vabbe' Policarpo, hai della frutta secca almeno?"
"Noccioline?"
"Sono allergico".
"Pistacchi".
"Vada per i pistacchi".
"Però mi devi promettere che..."
"Uffa Policarpo, eddai, gli altri santi non fanno così".
"...devi scrivermi un pezzo, dai".
"Ma mi piacerebbe, guarda. Però non vorrei fare di te una macchietta".
"Meglio una macchietta che niente".
"Non sono d'accordo".
"Li vuoi tostati i pistacchi".
"Si capisce".
Voi siete gente di un certo livello, chissà che santi in fila al vostro cancello. Io invece ho San Policarpo di Smirne, cui mai nessuno chiede di esaudirne. Ripeto: ho San Policarpo da Smirne, cui mai nessuno chiede di esaudirne.
Ho guardato a ponente, ho guardato a levante: non ho trovato un santo meno interessante. Policarpo, oh carpo. Policarpo, oh carpo. Policarpo, oh carpo. A-bop-bop-a-loom-op a-lop-bop-boom.
La passione di Greta Thunberg
27-09-2019, 19:09ambiente, religioni, santiPermalink
Quanto a me, mentre vedo i ragazzini sfilare dovrei atteggiarmi ormai a vecchio saggio e su questo asse cercare di collocarmi in un punto non troppo estremo (e nemmeno troppo mediano), un punto comunque moderato, ragionevole: dovrei cercare di argomentare che sì, il fenomeno Greta è composto di tante cose condivisibili e di alcune cose che invece non mi piacciono... ma non ce la faccio. È evidente che non sono la persona moderata che a volte preferirei essere, oppure semplicemente credo che le cose non funzionino così: per me la verità su Greta Thunberg non sta in m