Il pellegrino ignoto

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12 febbraio: San Ludano (♱ 1202), straniero in terra straniera.

A furia di leggere storie di santi si impara a far la tara alle leggende, per cui la situazione me la immagino più o meno così: c'è un cadavere posato sotto un albero, sul sentiero che corre lungo il fiume e porta verso la città (Strasburgo). Il primo a trovarlo magari è un cacciatore di frodo che non ha troppa voglia di spiegare perché passava di lì, così magari informa in confessione un prete del villaggio di Nordhouse. Chi va a controllare, verifica che il tizio è stecchito da un po', probabilmente morto di ipotermia durante una notte troppo rigida.

Che sia uno straniero è evidente. Nel suo fagotto c'è qualche oggetto personale che lascia intendere che si tratti di un pellegrino di ritorno dai luoghi santi, oltre a un cartiglio che con qualche fatica il prete riesce a decifrare, una specie di documento che lo permette di identificare come "Ludano figlio del nobile Iteboldo, capo degli Scoti": caso risolto. Sempre che il prete non si sia inventato tutto lì per lì non volendo confessare che il cartiglio è incomprensibile: gli Scoti in effetti nessuno sa bene dove stiano, certo troppo lontani per invitarli a un funerale che anzi bisogna sbrigare in fretta. 

Siamo in una cittadina alsaziana all'inizio del tredicesimo secolo e il cadavere di un pellegrino è un avvenimento, ma anche qualcosa che viene percepito come profondamente ingiusto: morire lontani dai propri cari che mai sapranno che hai ottenuto una grazia per loro, in mezzo a gente che non saprebbe pronunciare il tuo nome e potrebbe non ricordarsi di te nelle preghiere. D'altro canto un pellegrinaggio ha un senso proprio perché è un viaggio lungo e periglioso: Ludano probabilmente stava tornando da Roma, dove forse aveva ottenuto un'indulgenza per sé. Il parroco decide di seppellirlo in chiesa: in fondo molti peccati nel tragitto a piedi da Roma non poteva averli fatti. Rimasto senza una famiglia, Ludano viene adottato da tutta la comunità e col tempo comincia a essere considerato un santo, una specie di pellegrino ignoto. 

La sua storia, tanto semplice, subisce il trattamento di altre leggende di santi che per mantenere l'attenzione dovevano contenere un minimo di prodigi: così alla morte di Ludano si racconta che le campane di Nordhouse e dintorni avrebbero iniziato autonomamente a scampanellare e non avrebbero smesso finché Ludano non fosse stato sepolto. Anche il procedimento con cui viene scelta la chiesa in cui seppellirlo (a Nordhouse ce n'erano due)  è un luogo comune delle leggende di santi: i resti vengono messi su un carretto attaccato a un cavallo non domato, che si avvia rapidamente verso la chiesa di San Giorgio e si ferma lì. 

Ma soprattutto bisogna confortare i fedeli sulla santità di Ludano, che è pur morto senza ricevere i sacramenti: perciò viene raccontato che nell'ultima sua notte Ludano, dopo aver compreso che stava per morire, avrebbe pregato il Signore di ricevere un'ultima volta l'eucarestia: la preghiera sarebbe stata esaudita tramite l'invio di un angelo. Tutto questo sarebbe accaduto in assenza di testimoni, ma l'anonimo autore della storia non si preoccupa troppo del dettaglio: l'importante è confermare che Ludano è morto santamente ed è degno del culto che gli viene tributato. Fondamentale è anche il dettaglio del profumo: i cadaveri dei santi non puzzano, bensì emettono una fragranza che chiarisce il legittimo dubbio di chi li trova e deve decidere se seppellirli in terra consacrata. 

Può darsi che Ludano non si chiamasse Ludano, che non fosse il figlio di Iteboldo e non venisse da Roma. Ma riposa a Nordhouse, e ci ricorda che in mancanza di prove ogni migrante è un santo. Se solo ce ne ricordassimo, ogni tanto, prima di trovarli cadaveri. 
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La Regola e l'Eccezione

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10 febbraio: Santa Scolastica da Norcia (480-547), eccezione alla Regola

 miniatura di Jean de Stavelot (XV secolo).
Scolastica è la sorella di Benedetto, il fondatore del monachesimo occidentale: ma Benedetto è un solitario, un eremita che solo a malincuore si rassegna a diventare cenobita e condividere la sua solitudine con altri monaci. Scolastica, molto legata a lui, non può che seguirlo a distanza: quando Benedetto fonda Montecassino, lei si stabilisce alle pendici del monte, a Piumarola, dove apre un cenobio femminile che sarà il primo a seguire la Regola di San Benedetto. I due fratelli si incontrano una volta all'anno, in una casupola a metà strada. Gregorio Magno, lontano parente dei due, racconta nei Dialoghi dell'incontro avvenuto il 6 febbraio del 547: sono entrambi sessantenni e Scolastica sa che è l'ultima volta che vedrà il fratello. Gli chiede di restare a discutere e pregare per la notte, ma Benedetto è inflessibile come la sua Regola: i monaci la notte devono stare in monastero, cosa penserebbe poi la gente. Scolastica s'impunta, prega e piange finché non scoppia un temporale. "Esci pure, se puoi; lasciami, e ritorna al monastero. Tu non mi hai voluto ascoltare; ho pregato il mio Signore, e lui mi ha esaudita". Benedetto cede. Tre giorni dopo, tornato a Montecassino, Benedetto vede una colomba salire verso il cielo e capisce che si tratta dell'anima di Scolastica: la seppellisce nella tomba in cui lui stesso sarà deposto qualche settimana dopo. 

Se Benedetto è la Regola, Scolastica è l'Eccezione: l'idea tanto cattolica che ogni limite abbia una sua pazienza; che lo stesso Dio che ci dà le regole possa, quando vale la pena e glielo si chiede con insistenza, chiudere l'Occhio. Insieme, Gregorio Magno ci fa capire, costituiscono la perfezione della vita monastica. Eppure anche da morta Scolastica avrebbe rischiato di essere divisa dal fratello: dopo la distruzione di Montecassino a opera dei Longobardi, la tomba diventa l'obiettivo dei cacciatori di reliquie. In particolare nel 660 si ritrovano presso le rovine due spedizioni: una proviene dall'abbazia benedettina di Fleury, l'altra dalla città di Le Mans. Decidono di aver identificato la tomba e di spartirsi il bottino: a Fleury sarebbe andato Benedetto, a Le Mans la sorella. Ma come riconoscere le ossa, ormai mescolate tra loro? Viene applicato un sistema così interessante, quasi sperimentale, che dispiace un po' che si tratti di un'evidente leggenda: prima si separano le ossa grosse da quelle sottili, e poi accostano i due mucchietti a due ragazzi appena morti, un maschio e una femmina. Il maschio risorge soltanto quando viene accostato alle ossa grosse; la femmina solo vicino alle ossa sottili. I resti così identificati di Scolastica vengono così portati a Le Mans, dove nove secoli dopo si salvano miracolosamente anche dal saccheggio degli ugonotti – ma non dai tumulti contadini durante la rivoluzione francese. A dispetto di questa tradizione, nella tomba conservata a Montecassino durante la ricognizione del 1950 sono state trovate diverse ossa e il confronto con una tibia di Scolastica – conservata in un reliquiario – ha consentito ai periti medici di distinguere tra quelle appartenenti a Benedetto e quelle della sorella, di cui è stata attestata l'età al decesso (tra i sessanta e i settant'anni) e la statura: un metro e 59.

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Ponziano l'antisismico

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19 gennaio – San Ponziano di Spoleto, protettore dei terremotati e martire (II secolo)


Metti che esistano davvero, i santi intendo. Tutti su radunati su una specie di piano astrale, o in tanti uffici come nel racconto di Buzzati, pronti a recepire le richieste di chi li invoca e a inviarle al piano superiore. In una situazione del genere, Ponziano di Spoleto dovrebbe aver passato secoli molto tranquilli, conosciuto com'era soltanto ai suoi concittadini e neanche tutti, al punto che lui stesso potrebbe essersi posto il problema: ma sarò esistito davvero? Perché di me sussistono notizie veramente molto vaghe. Dovrei essere il rampollo di una famiglia della Spoletium romana, ai tempi di Marco Aurelio. Quando un giudice mi arresta con l'accusa di cristianesimo, io avrei risposto sprezzante "mi chiamo Ponziano, ma puoi chiamarmi Cristiano". Vengo perciò condannato a essere divorato dalle bestie nell'anfiteatro locale, ma i leoni si limitano a leccarmi i piedi. Mi fanno camminare sulle braci, e non mi scotto; mi rinchiudono in una torre senza cibo, ma gli angeli mi portano pane e acqua; per cui quando mi portano sul ponte poi detto "Sanguinario" per tagliarmi la testa, chissà che sorpresa anche per me quando la testa mi è caduta davvero. Anche se invece di cadere nel fiume Tessino, la mia testa sarebbe rimbalzata fin sul colle Ciciano, dove avrebbe fatto sgorgare una fonte miracolosa e dove sarebbero poi sorti una chiesa romanica e un monastero a mio nome. Non fosse che ecco, tutte queste storie somigliano parecchio a tante altre leggende di santi medievali, specie in ambito umbro, dove a un certo punto un monaco deve averne scritte parecchie in serie, per giustificare tutta una serie di santuari di cui non si sapeva più molto. Tra cui il mio – e se fossi uno di quei santi inventati? Probabilmente no, perché quel tipo di santi di solito li inventano i vescovi della città per attirare i fedeli in una chiesa importante, e invece il mio santuario è già in collina. C'è chi dice che potrei essere lo stesso San Ponziano papa, ma perché mai gli spoletini mi festeggerebbero in gennaio, se la sua festa è in agosto? 

Forse sarebbe ancora immerso in dubbi del genere, San Ponziano, se nel gennaio 1703 l'Italia centrale non fosse stata sconvolta da uno degli sciami sismici più estesi e micidiali a memoria d'uomo. La prima scossa importante avviene il 14 gennaio, con epicentro a venti chilometri dall'Aquila. Per il capoluogo abruzzese è l'inizio di un vero bombardamento che culminerà con la scossa del giorno di Candalora (il due di febbraio), quando anche a Roma caddero due arcate del Colosseo; le scosse di assestamento proseguiranno per tutto febbraio, ma dell'Aquila ormai non resisteva pietra su pietra. Lo sciame aveva colpito anche a est dei monti Sibillini, causando più di un migliaio di morti tra Norcia e Cascia: invece Spoleto era stata risparmiata, e dando un'occhiata a una cartina moderna non è difficile capire il perché: la faglia passa da un'altra parte. Ma i folignati comunque per un mese continuano a sentire scosse molto forti e a udire notizie di città distrutte a poche miglia di distanza. Proprio in quell'occasione in città comincia a circolare una profezia che avrebbe pronunciato Ponziano, non si sa bene quando ("Spoleto tremerà ma non crollerà"), e alla sua leggenda viene aggiunta una scossa di terremoto che avrebbe salutato la decapitazione del santo. Che non è la storia più assurda che ci si possa inventare per confortarsi durante uno sciame sismico, ve lo posso testimoniare. Ponziano viene quindi acclamato santo protettore dai terremoti, e come tale non deve più avere avuto molto tempo libero lassù. Gli spoletini continuano a festeggiarlo il 14 gennaio, e per l'occasione evitano di tagliare il pane col coltello.

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Il mendicante dal vangelo d'oro

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15 gennaio: San Giovanni Calibita (V secolo), finto povero.

Terminato il periodo eroico dei martiri – quando per diventare santi bisognava farsi torturare e ammazzare – si fa strada che l'idea che la santità si possa raggiungere attraverso la povertà. Ci aspetteremmo dunque una serie di santi proletari, e invece no: appena i ricchi si accorgono che la povertà è di tendenza, eccoli pronti a travestirsi da mendicanti, togliendo spazio a chi mendicava per necessità. 

Il più famoso è Sant'Alessio, ma la sua leggenda non è che una variazione di quella di Giovanni Calibita. Quest'ultimo sarebbe vissuto a Costantinopoli nella prima metà del quinto secolo, terzo figlio della nobile Teodora e di Eutropio, senatore e generale. Avendo concluso con successo gli studi di retorica, ad appena dodici anni Giovanni avrebbe diritto di pretendere da cotanti genitori un sontuoso regalo: e invece chiede appena un vangelo. Ricordiamo che ancora per mille anni ogni libro sarà un oggetto scritto a mano, e quindi comunque prezioso; ma Teodora ed Eutropio se ne procurano uno pacchianissimo, tutto crisografato, miniato e ricoperto d'oro e tempestato di pietre preziose, senza sapere che Giovanni lo ha chiesto perché ha sentito la chiamata di Dio: scapperà di casa, attraverserà il Bosforo e si unirà ai monaci acemeti, la cui Regola prevede che si portino appunto un vangelo addosso sempre e ovunque. Per sei anni soggiorna nel monastero chiamato Eirenaion, "luogo di pace"; dopodiché sente una seconda chiamata e decide di tornare a casa, ma travestito da accattone, come Ulisse. Nel caso di Giovanni questa scelta sembra un po' più decifrabile di quella analoga fatta da Alessio; l'impressione è che mettendosi a mendicare proprio davanti alla porta del palazzo di famiglia, Giovanni voglia mettere alla prova i suoi genitori. Forse salvarli. 

A mostrare maggior durezza è Teodora, che più volte chiede ai servi di scacciare il barbone. Il padre, pur non riconoscendolo, mostra più umanità e consente ai suoi servi di costruire un kalybe (καλύβη), una specie di capanna dove Giovanni, detto da qui in poi il Calibita, poteva trovare riparo dalle intemperie, nonché dagli sguardi ostili della padrona di casa. Il che non gli impedì di morire dopo tre anni di privazioni; i famigliari lo identificarono dal vangelo d'oro e di pietre preziose che nascondeva sotto i suoi stracci  – e qui in effetti la leggenda appare più riuscita di quella di Alessio, in cui il riconoscimento avviene attraverso un più banale biglietto. Anche il finale sembra avere un senso che l'autore della leggenda di Alessio non aveva colto: Eutropio e Teodora, dopo il terribile riconoscimento, si pentono della loro inospitalità e trasformano il loro ricco palazzo in uno xenodochio, ovvero un ostello gratuito per poveri e pellegrini. Questo spiega le due chiamate di Giovanni: con la prima ha salvato sé stesso rinunciando alle sue ricchezze; con la seconda (e con la morte) ha salvato i genitori. Tutto questo viene a mancare nella storia di Alessio, che una volta riconosciuto dal padre torna a essere, da morto, un ricco patrizio degno di un funerale glorioso. 

Se la leggenda fosse nata a Roma la figura del mendicante che nasconde un prezioso vangelo potrebbe essere ispirata alla figura storica di Servolo il paralitico, che nel VI secolo mendicava sotto il porticato della chiesa di San Clemente, e coi risparmi si era procurato in effetti un vangelo che doveva essergli costato parecchie ore di lavoro ma che non sapeva leggere, essendo schiavo e figlio di schiavi; mentre Giovanni sembra già un cavaliere medievale che sotto qualsiasi apparenza di sventura cela un tesoro che non può essere ceduto né condiviso. È già una figura di fiaba, e come tale parla di noi, dei magici tesori che nessuno può toglierci anche quando il conto in banca è in rosso fisso. La leggenda originale è ambientata chiaramente a Costantinopoli, che però viene chiamata talvolta "Roma" (come l'avrebbe voluta chiamare il fondatore Costantino Nova Roma). Il che permise ai romani, che per i santi accattoni hanno un debole, di impadronirsene; nell'Isola Tiberina sorse, prima del XIII secolo, una chiesa dedicata a Giovanni Calibita, che ne avrebbe custodito i resti: tutto intorno poi i servi degli infermi di San Camillo de Lellis avrebbero poi costruito l'ospedale Fatebenefratelli.  

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Meritis et nomine Felix

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14 gennaio: San Felice da Nola (III secolo), protettore di Paolino.

Di MentNFG - Opera propria, CC BY-SA 4.0, Collegamento

Dopo tanti anni possiamo anche dircelo, che le leggende dei martiri si assomigliano un po' tutte. Molto prima dell'introduzione di intelligenze artificiali in grado di produrre agiografie in serie, i monaci e i cronisti si stavano già conformando a standard precisi: vite più o meno simili, miracoli a volte identici, e poi durante una persecuzione un eroico coming out davanti a un magistrato romano se non allo stesso imperatore – quest'ultimo presto o tardi diventa Diocleziano. Il caso di Felice da Nola è un'eccezione che ci mostra proprio quanto fosse vincolante la regola: la sua storia è molto diversa dalle altre proprio perché invece di ricadere nella procedura standard con cui venivano redatte le Passiones, a Felice capita per una circostanza fortuita di diventare, un secolo dopo, il santo preferito di uno scrittore molto diverso dai mediocri compilatori di agiografie: Ponzio Meropio Paolino, esponente dell'aristocrazia senatoriale galloromana. 

Paolino nasce a Burdigala (Bordeaux), rampollo di una ricchissima famiglia le cui proprietà si estendono dalla Spagna fino alla Campania. Da quel che scrive – ma non dobbiamo credergli per forza – San Felice è una presenza costante nella sua vita, sin dall'infanzia, quando è tutt'uno col ricordo di quel piccolo santuario che aveva visitato già da bambino. Vi ritorna ventenne, dopo la morte del padre, per il taglio della barba, una cerimonia che sancisce l'entrata nella vita adulta. Negli anni successivi intraprende una carriera politica, o forse vi è costretto dal suo lignaggio e dalle circostanze: ma sono anni difficili, l'Occidente scricchiola, e Paolino non è il solo ad avere un presentimento della fine. Dopo essere tornato a Nola come governatore della Campania, Paolino deve tornare a Burdigala dove succede qualcosa che la sua pur cospicua corrispondenza non ci aiuta a chiarire. Paolino si converte (benché avesse caro il santuario di San Felice, fino a quel momento non era ancora battezzato) e sposa una ricca cristiana, Terasia, ma nel contempo comincia a vendere tutte le sue immense proprietà, in previsione di un ritiro alla vita contemplativa che non si concretizzerà mai. È una decisione clamorosa, che lascia sbigottiti gli ex sodali pagani, ma che potrebbe anche essere stata dettata dalla necessità di riabilitarsi in seguito a una caduta in disgrazia. Forse Paolino, come altri rilevanti personaggi della Chiesa gallica, aveva da farsi perdonare una 'sbandata' per Priscilliano, il carismatico vescovo di Avila che verso il 380 cadde in disgrazia e condannato a morte nel 385 con l'accusa di stregoneria; per la prima volta un eretico veniva giudicato e giustiziato dalle autorità imperiali. Priscilliano magari aveva davvero pasticciato con concetti cristiani e astrologia pagana, ma a renderlo indigesto alle autorità religiose e politiche era anche la la veemenza con cui le accusava di corruzione. In ogni caso dopo la condanna nessuno più osò riabilitarlo; nello stesso periodo Paolino perse un fratello in circostanze mai chiarite, decise di mettere all'asta gran parte dei suoi possedimenti e se ne andò prima a Complutum, in Iberia; poi, dopo la morte precoce dell'unico figlio, di nuovo a Nola. Qui ritrova San Felice, ed è come ricongiungersi come un amico d'infanzia. 

Paolino sceglie di festeggiare il 14 gennaio il suo nuovo compleanno, celebrandolo anche con una serie di poesie dedicate a San Felice. Le informazioni sarebbero ricavate dalle narrazioni orali dei contadini che il 14 gennaio accorrevano a Nola da tutta la Campania. Ne risulta una storia piuttosto diversa da quella tipica delle Passiones: basti pensare che per quanto fosse venerato come martire, Felice non era stato ucciso dai suoi persecutori. La sua vita risulta più simile a quella del militante di un'organizzazione passata in clandestinità: tratto in arresto, Felice non aveva rivelato nemmeno sotto tortura il luogo nella foresta dove si era nascosto il vescovo di Nola, Massimo. Liberato da un angelo, Felice viene condotto miracolosamente nel nascondiglio, dove Massimo rischia di morire di fame. Felice lo salva grazie al succo di un'uva cresciuta miracolosamente, se lo carica sulle spalle e lo riporta in città, dove la persecuzione sembra essersi temporaneamente placata. Quando le cose tornano a farsi pericolose, Felice si nasconde in una cisterna: una donna che non lo conosce gli porta comunque il cibo per sei mesi. Quando finalmente l'editto di Costantino pone termine alle persecuzioni, i nolani propongono a Felice la carica di vescovo, ma lui rifiuta e si ritira in campagna, dove continua ad aiutare i contadini non lesinando i miracoli. In qualche aspetto della vita di Felice, Paolino poteva rispecchiarsi – se non si è inventato tutto di sana pianta, come aveva fatto qualche anno prima uno dei punti di riferimento di Paolino, Sant'Ambrogio, inventandosi i martiri milanesi Gervaso e Protasio per nobilitare la cattedrale che stava costruendo. 

La figura di Felice diventa, per Paolino, quella di un maestro di vita, lontano dalle complicazioni teologiche che l'intellettuale rifuggiva (e che forse lo avevano messo nei guai). Le poesie di Paolino ci mostrano che il culto per i santi, già nel terzo secolo, era radicato nei ceti più popolari e si praticava anche in assenza di testi scritti, che arrivarono più tardi, omologando riti e credenze. La fissazione di Paolino per Felice data da molto prima del suo battesimo, e dalla sua reale adesione ai valori cristiani: può darsi che in essa sussista la devozione che i pagani avevano per i Lari, gli dèi della casa; in effetti, per quanto Paolino possa invocare Felice anche quando si trova altrove, appare chiaro che Felice è legato al suo luogo di appartenenza, proprio come i Lari. Paolino non ha inventato le campane, come qualche agiografo suggerisce, ma è probabilmente il primo a definire Felice il suo "patronus", in un periodo in cui la parola aveva una pregnanza ancora legata al mondo classico; patronus poteva significare "avvocato", ma soprattutto il ricco protettore che si circondava di clientes. In questo modo Paolino, affermando di essere rinato in Felice, celebra sé stesso: non più governatore della Campania ma vescovo di Nola (un ruolo che forse si inventa, visto che è l'unico a disporre di informazioni sul vescovo che l'avrebbe preceduto). I grandi capitali di cui doveva disporre dopo la vendita delle sue proprietà vengono reinvestiti nella costruzione del complesso delle basiliche di Cimitile, dove Paolino si farà seppellire accanto ai resti del suo santo protettore.

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Due preti a Dachau

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9 gennaio: Beati Jozef Pawlowski (1890-1942) e Kazimierz Grelewski (1907-1942), martiri polacchi nel campo di concentramento di Dachau.

Dachau

Don Jozef Pawlowski e don Kazimierz Grelewski furono impiccati dai nazisti 83 anni fa oggi a Dachau, il campo di sterminio in cui i nazisti imprigionarono, tra gli altri, 1700 preti cattolici: metà dei quali non tornò a casa. Pawlowski, che al momento dell'invasione era rettore del seminario di Kielce, si era fatto nominare cappellano della Croce Rossa per assistere i cinquemila soldati polacchi internati nel campo di prigionia della città. Oltre al cibo e ad altri generi di conforto, don Pawlowski riusciva a volte a passare abiti civili che permisero a qualche prigioniero di fuggire: e forse per questo motivo fu arrestato dalla Gestapo nel febbraio del 1941 e deportato prima a Oświęcim e poi a Dachau. Siccome un documento della diocesi di Kielce attesta che Pawloski aiutava i prigionieri "indipendentemente dalla religione professata", in qualche pagina agiografica italiane si legge che Pawlowski si adoperava anche per i prigionieri ebrei: ora, è vero che nel 1940 i campi di sterminio non erano ancora attivi, e che quindi a Kielce tra i prigionieri cattolici e ortodossi potevano ancora essere mescolati detenuti ebrei; in quanto referente della Croce Rossa ovviamente Pawlowski non poteva fare differenze di religione, ma descriverlo come un salvatore degli ebrei mi pare una forzatura che risente molto del modo in cui da trent'anni a questa parte abbiamo raccontato gli stermini perpetrati dai nazisti. In molti casi l'agiografo è ancora uno scribacchino che deve compilare un breve testo su un beato di cui sono reperibili poche notizie: quando si imbatte in un prete morto in un campo di sterminio, tende facilmente a pensare che sarà stato imprigionato perché aiutava gli ebrei. Ma i nazisti non stavano sterminando soltanto gli ebrei. 

Il caso del sacerdote più giovane, don Grelewski, è più indicativo perché in nessuna biografia, nemmeno tra quelle in lingua polacca, si riesce a trovare qualcosa di più antinazista del fatto che "insegnava clandestinamente", essendo prefetto di una scuola che i nazisti avevano chiuso. Il fatto è che nel 1941 un prete polacco non aveva bisogno di aiutare gli ebrei o di opporsi al regime per essere perseguitato. Anche insegnare catechismo e lingua polacca in molte situazioni era proibito. La Chiesa cattolica era già nel mirino dei nazisti: e se la quantità delle vittime (quasi tremila, più o meno il 18% del clero polacco) non è paragonabile a quello delle altre minoranze perseguitate, la repressione era comunque già sistematica e concentrata sugli insegnanti. La soppressione del clero era parte di una politica di persecuzione dell'intero popolo polacco, perché se è vero che i tedeschi dal 1942 consideravano lo sterminio degli ebrei come prioritario, l'eliminazione dell'etnia polacca era già stata avviata nel maggio del 1939 con l'operazione Tannenberg. Ai tre milioni di ebrei polacchi caduti nei campi di sterminio vanno aggiunti circa due milioni di polacchi non ebrei (perlopiù cattolici). Pawlowski e Grelewski fanno parte del gruppo di 108 martiri polacchi beatificati da Giovanni Paolo II nel 1999.

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Due vescovi scozzesi, e i loro pesci

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8 gennaio: San Nathalan, vescovo in Scozia (VII secolo)

Prima di diventare vescovo di Aberdeen, Nathalan era il tipico nobile che pretendeva di aver trovato Dio nella campagna. Altro che libri e preghiere: zappare bisogna, seminare e raccogliere, e quel che avanza darlo ai poveri. Per un po' Dio sembra dargli corda: poi un giorno di mietitura gli manda la grandine, forse per metterlo alla prova o per altri suoi misteriosi disegni. Nathalan questa cosa non la prende bene, insomma si lascia sfuggire almeno un'imprecazione: pentitosi immediatamente, decide di espiare ammanettandosi la mano destra alla gamba sinistra e gettando la chiave nel mare. 

A questo punto, se già immaginate che qualcuno verso la fine della leggenda pescherà un pesce con una chiave dentro, non è un caso: la pesca miracolosa è uno dei topos più diffusi nelle leggende dei santi. Probabilmente nel martirologio ce n'è una alla settimana, a cercare bene. Comunque Nathalan a recuperare la chiave non ci pensa nemmeno: la sua idea è quella di recarsi così ammanettato fino alle tombe degli Apostoli a Roma, e solo lì farsi sciogliere le catene dal papa o da un fabbro. Ma appunto una volta arrivato a Roma, cosa gli capita di acquistare al mercato? Un pesce, esatto: e dentro il pesce indovinate cosa c'è? La nomina a vescovo di Aberdeen! No, scherzo, c'è la chiave. La nomina arriva dal papa, richiamato dal clamore per un miracolo in realtà così tipico, il pesce con la sorpresa. Probabilmente quando fai il papa un miracolo così lo senti una volta al mese. 



13 gennaio: San Kentigern protovescovo di Glasgow
 (518-603), anche conosciuto come "Mungo"

Quando ho scritto che nel calendario c'è probabilmente una pesca miracolosa alla settimana, avrete pensato vabbe', esagera. E invece sentite cosa combina San Chentigerno (che a Glasgow tutti chiamano col soprannome affettuoso "Mungo", dal gaelico "mio caro"). 

Languoreth, regina di Strathclyde, si rivolge a lui disperata perché suo marito Riderico vuole vedere l'anello che le ha regalato. Languoreth in effetti aveva avuto la sconsiderata idea di regalarlo al cavaliere suo amante (altro tipico tropo delle leggende medievali), che però non lo trova più. Quello che non sa è che il re lo ha visto al dito del cavaliere mentre dormiva: glielo ha sfilato senza svegliarlo e lo ha gettato in mare. L'abate Mungo si fa raccontare la storia, manda un suo monaco a pescare, il monaco trova l'anello nel pesce, l'onore di Languoreth è salvo.

Ora, un santo tipico magari avrebbe perso tempo a fare una paternale alla regina, che non solo ha tradito il suo marito, ma anche il suo re, e oltretutto per giacere con un deficiente che si addormenta in giro con una prova del tradimento al dito. Ma questo non è un santo tipico: è Mungo, fondatore di Glasgow e patrono non solo di questa città tanto difficile, ma anche delle donne infedeli. Infedele era stata sua madre, la principessa Teneu, che aveva avuto una relazione con un principe già maritato, Owain (quest'ultimo già sposato). Il padre di Teneu, re Lleuddun, li aveva scoperti un attimo dopo il concepimento di Mungo, e aveva fatto gettare la figlia dal Traprain Law, un'altura su cui i Romani avevano costruito un forte.

Lleuddun era precipitata sino al mare, in una zattera su cui aveva attraversato l'estuario del Firth of Forth: e anche questo (il tuffo da un'altura fino al mare) è un tropo medievale o anche più antico. Secondo un'altra fonte Teneu era stata violentata da Owain, e questa versione molto più cruda potrebbe essere l'originale, poi corretta nel momento in cui Owain, ribattezzato Ywain, finisce nel Ciclo Bretone e diventa un cavaliere senza macchia e senza paura. Perché siamo appunto nelle brume dell'Inghilterra arturiana: uno degli antagonisti pagani di Mungo potrebbe essere il modello su cui poi è stato inventato mago Merlino. Ma non è un caso che tra tanti miracoli di questo uomo pio, i suoi concittadini ricordino più volentieri la storiaccia di corna in cui conferma la versione di una fedifraga, la leggenda del "pesce che non nuotò", al punto da disegnare il salmone con l'anello nello stemma cittadino. Lo stesso motto della città ("Let Glasgow flourish") deriva da una frase pronunciata dal santo quando ne fondò l'abbazia: Che Glasgow fiorisca dalla predicazione della Tua parola e dall'invocazione del Tuo nome. Gli abitanti, forse consapevoli di non essere i devoti che Mungo si sarebbe meritato, hanno mantenuto soltanto la prima parte: che Glasgow fiorisca.


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Genoveffa resiste

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3 gennaio: Santa Genoveffa di Parigi (420-512)

 Santa Genoveffa disarma Attila (Etienne-Hippolyte Maindron, 1857)

"Genoveffa" suona buffo, non tenterò di negarlo. Sembra uno di quei nomi escogitati dai famigliari per chiarire sin dall'inizio che la bambina è destinata al chiostro, come il manzoniano Gertrude. Le cose non stanno proprio così; per prima cosa, in francese "Geneviève" suona molto meglio, o David Crosby non lo avrebbe usato per una delle sue più evocative canzoni. Non sappiamo esattamente cosa significhi: in qualche dialetto paleogermanico suonerebbe "moglie di razza", ma anche "molto irrequieta", il che le si addice di più. Perché Genoveffa non è la tipica monaca reclusa, no. O meglio: monaca non lo era perché il monachesimo non aveva ancora preso piede; reclusa in teoria sì (apparteneva a un gruppo di "vergini cristiane" che vivevano coi genitori, digiunavano spesso e mettevano il velo). Ma le circostanze la portano più volte a uscire di casa e ad assumere un ruolo di protagonista. 

In effetti la leggenda di Santa Genoveffa apre uno spiraglio, forse illusorio, sul momento più buio della storia di Parigi, suggerendoci che in assenza di uomini atti al comando, una donna abbastanza irrequieta avrebbe potuto sobbarcarsi dell'incarico. Tutto questo, mille anni prima che Giovanna d'Arco espugnasse Orléans; millequattrocento anni prima che Louise Michel esortasse i comunardi di Parigi alla resistenza. È abbastanza curioso che le donne più irrequiete e volitive delle cronache medievali provengano dalla Francia, il regno che più recisamente aveva escluso le donne dalla successione al trono. E siccome questa esclusione avviene proprio negli stessi anni, con la legge Salica emessa da re Clodoveo, è singolare che la storia della Donna Molto Irrequieta sia stata messa per iscritto proprio su richiesta della regina Clotilde, moglie di Clodoveo. Una mossa per controbattere il patriarcato, almeno sul piano della narrazione? Oppure una suddivisione di ruoli: voi maschi vi tenete il trono, noi ci prendiamo le leggende. Tutto questo nel caso che la Vita sanctae Genovefae sia stata davvero scritta, come sostiene l'autore, appena 18 anni dopo la morte della santa; il che ne farebbe una delle rare testimonianze letterarie della Francia nel tenebroso VI secolo. Non tutti gli storici si dicono d'accordo; alcuni la post-datano anche di duecento anni, il che avrebbe un senso perché la Vita contiene già quei tipici elementi che di solito vengono aggiunti alle agiografie in un secondo momento, ad esempio i dettagli sull'infanzia. L'autore in effetti ci tiene a ricordare che l'eccezionalità di Genoveffa fu riconosciuta subito da un legato papale, San Germano di Auxerre, che la consacrò a sei anni (quando ancora viveva a Nanterre coi genitori) e tornò a salutarla quando ne aveva 27, i genitori erano morti e si era trasferita da una parente a Parigi, appena prima che avesse inizio la fase propriamente eroica della sua vita. Sono appunto i classici particolari che i cronisti aggiungono alle leggende per omologarle, rassicurando i lettori sull'ortodossia di una santa che si trovava a operare in un momento in cui il cristianesimo romano non era necessariamente la religione maggioritaria: Franchi e Visigoti erano di credo ariano. 

In ogni caso Genoveffa rimane un caso a parte; non è una martire, né una monaca di stirpe regale; non è nemmeno così strano che la storia della sua vita faccia un po' a pugni con quel che sappiamo della storia di Parigi, perché di Parigi in quel periodo non sappiamo così tanto. Non è nemmeno chiarissimo chi la governasse quando nel 451 in città divampa il panico: stanno arrivando gli Unni, l'obiettivo di Attila è saccheggiare tutte le città dal Reno al mare. Quando gli "uomini" propongono di evacuare la città, Genoveffa si fa sentire: "Che gli uomini fuggano, se vogliono e se non sono più capaci di battersi. Noi donne pregheremo Iddio così tanto che ascolterà le nostre suppliche". A quel punto, benché qualcuno proponga di buttarla nella Senna, la maggior parte degli abitanti decide di resistere all'assedio. Attila effettivamente risparmierà Parigi, non è chiaro il perché: durante la campagna del 451 penetrò molto più a ovest. Forse cominciava a sentirsi in trappola: tra le truppe serpeggiava un morbo simile al colera, e Romani e Visigoti lo stavano per sconfiggere ai Campi Catalaunici (non è chiaro dove ma un po' più a est, magari nella Champagne). È difficile trovare una logica nel percorso di un re che dava molta importanza ai presagi: arrivato alle porte di Parigi, avrebbe sentito che la citta non gli portava fortuna. Solo molto più tardi gli artisti avrebbero iniziato a raffigurarla in scene in cui incontra fisicamente il re degli Unni – insomma Genoveffa sarebbe per Parigi quello che Leone Magno è per Roma. Un'altra cosa a cui Attila dava molta importanza, oltre ai presagi, era l'oro; in effetti a quel punto gli Unni non erano l'orda disorganizzata che ci piace immaginare, ma un esercito che si spostava con obiettivi abbastanza precisi, e prima di praticare la razzia domandavano sempre se la città non preferisse pagare un riscatto in metalli preziosi. Forse l'intervento di Genoveffa servì a risolvere la questione; più che una profetessa, si tratterebbe di una nobildonna che non essendosi sposata aveva mantenuto per sé i privilegi politici del padre, membro della curia di Parigi. Il suo discorso risolutivo, Genoveffa lo avrebbe pronunciato quindi nell'assemblea più importante della città. Non è nemmeno escluso che grazie a contatti tra i ranghi dei Franchi e dei Visigoti, Genoveffa possedesse informazioni sui movimenti degli eserciti che gli altri notabili non avevano, e che l'esortazione a non evacuare la città fosse basata su osservazioni oggettive.

Che Genoveffa occupi una posizione di potere ce lo lasciano sospettare gli avvenimenti successivi: quando cinque anni dopo sono i Franchi ad assediare Parigi, la santa conduce personalmente un'imbarcazione lungo la Senna, fino ad Arcis-sur-Aube, per fare scorta di grano. La situazione sembra intonarsi più all'immagine di una matrona dotata di coraggio e spirito d'iniziativa più che a un'asceta che mangiava due volte alla settimana. Quando si tratta di riscattare dei prigionieri, è Genoveffa che tratta col re Childerico, e poi col figlio Clodoveo che avrebbe operato la fondamentale conversione dei Franchi dall'arianesimo al cristianesimo romano. È facile immaginare che Genoveffa, con la sua autorevolezza, abbia svolto un ruolo chiave in questa conversione che tanta fortuna portò ai regnanti della dinastia merovingia: è facile immaginarlo, ma l'autore della Vita non lo scrive. Si limita a raccontare che Clodoveo chiese di essere sepolto nella basilica dei Santi Apostoli, che aveva fatto costruire intorno alla tomba di Genoveffa, morta a novant'anni se non più. Venerata come co-patrona di Parigi, Genoveffa avrebbe subito la volubilità dei parigini, che durante la Rivoluzione fusero l'oro del rivestimento della cassa e ne distrussero i resti; per fortuna un avambraccio e qualche falange erano stati regalati ad altre parrocchie, perché è tutto quello che resiste di lei nella tomba che ora si trova in Santo Stefano al Monta (St.-Etienne-au-Mont), nel quinto arrondissement.

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Gregorio il disarcivescovocostantinopolizzato

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2 gennaio: San Gregorio di Nazianzo (329-390), patriarca riluttante. 

Mosaico alla Martorana di Palermo,  
Di Jastrow - Opera propria, CC BY 2.5. 

Il secondo giorno di gennaio ci ripropone uno degli interrogativi più enigmatici della nostra infanzia, forse il solo che presto o tardi non ha ricevuto alcuna risposta, ovvero: se l'arcivescovo di Costantinopoli si disarcivescovocostantinopolizzasse, vi disarcivescovocostantinopolizzereste voi?

Voi come rispondevate? Sì, mi disarcivescovocostantinopolizzerei subito, ci mancherebbe altro... o piuttosto: no, dovrebbero venire a disarcivescovocostantinopolizzarmi con la forza. Magari era un test sul temperamento, va' a sapere. Come molti scioglilingua, non siamo in grado di risalire all'autore. Riteniamo che non debba essere molto antico, perché a differenza di tanti altri – forse di tutti gli altri – la filastrocca non si basa su cacofonie o omofonie di origine dialettale. In effetti la sua peculiarità è proprio che non contiene né cacofonie (nessuna sillaba ripetuta) né omofonie (nessun suono che possa avere due significati, e pertanto si possa equivocare). Potete verificare facilmente quanto questi siano gli ingredienti di base di ogni scioglilingua popolare, tranne appunto quello dell'arcivescovo, che rientra in una categoria tutta sua: un gioco su due fenomeni linguistici più tipici dell'italiano scritto che di quello colloquiale o dialettale. Il primo fenomeno sono le parole sdrucciole (cioè con l'accento sulla terzultima), che non sono poi così infrequenti, ma conferiscono un tono particolarmente aulico quando sono pescate da un lessico specifico, in questo caso storico: "arcivescovo" e "Costantinopoli". L'altro fenomeno è il famigerato periodo ipotetico di secondo tipo, quello che ci costringe a flettere i verbi al congiuntivo imperfetto ("disarcivescovocostantinopolizzasse" e al condizionale presente "disarcivescovocostantinopolizzereste"), una regola che non interiorizziamo a sufficienza, a giudicare non solo dalla quantità di errori che commettiamo, ma dall'imbarazzo con cui li gestiamo. Ci sarebbe anche un terzo fenomeno, ovvero quello che ci consente di inventare nuove parole componendo parole più brevi, salvo che non è veramente un fenomeno tipico dell'italiano, quanto ad esempio del tedesco; per cui non mi stupirei se la filastrocca provenisse da un ambito germanofono (ma per ora non l'ho trovata) o da un ambiente liminare in cui la lingua tedesca poteva ispirare parodie (il Lombardoveneto?)

L'enigma non riguarda soltanto l'origine dello scioglilingua, ma si estende anche al suo contenuto: chi è l'arcivescovo disarcivescovocostantinopolizzato, e per quale motivo avrebbe dovuto disarcivescovocostantinopolizzarsi? La Storia ci consegna più di un prelato che avrebbe potuto ispirare l'autore: uno dei più celebri è senz'altro Giovanni Crisostomo, che fu disarcivescovocostantinopolizzato a forza dall'imperatore Teodosio II. Ma potrebbe anche trattarsi di Gregorio Nazianzo, che si disarcivescovocostantinopolizzò spontaneamente, appena qualcuno gliene fornì un pretesto. Da qui in poi lo chiamerò Greg, come nei miei vecchi appunti di quando frequentavo Storia del Cristianesimo (a dire il vero lo chiamavo Greg Nazi, per distinguerlo da Greg Nissa, Greg Magno e Greg Tours, ma non vorrei terrorizzare l'algoritmo).

Dando un'occhiata alla famiglia, Greg doveva diventare santo per forza. Santo il papà (Gregorio il Vecchio), santa la mamma (che si chiamava Nonna), santa la sorella Gorgonia, santo il fratello Cesario, santo il migliore amico Basilio che si festeggia anche lui il 2 gennaio, santo persino il fratello del migliore amico, Gregorio di Nissa, insomma il Nazianzeno non aveva scelta: che figura ci avrebbe fatto con amici e parenti? Ovviamente sto barando: tutta questa caterva di santi cappadoci sul calendario c'è arrivata soprattutto grazie alle orazioni funebri di Greg, che di tutti era il più bravo con le parole e ci avrebbe convinto anche a canonizzare il cane, se avesse voluto. Ma rimane la sensazione che si trovasse un po' a disagio col suo destino di santità, in quel turbolento quarto secolo in cui si conquistava soprattutto amministrando diocesi e difendendo l'ortodossia nicena dagli eretici ariani. Greg, uomo di lettere, non si sentiva tagliato per nessuna delle due cose. 

Quando Basilio lo implora di assumersi gli oneri di vescovo almeno nella piccola città di Sasima, Greg cede alla richiesta dell'amico ma se la squaglia subito (entrare a Sasima, controllata dagli ariani, non sarebbe stato semplice). Più dell'amico può la famiglia: a Nazianzo c'è bisogno di lui, il padre è troppo anziano, Greg gli dà una mano ma alla sua morte (374) si ritira nel monastero di Santa Tecla, forse per evitare che a qualcuno venga in mente di offrire al figlio l'incarico del padre. In questo modo però si ritrova libero da grossi incarichi e incapace di dire di no quando cinque anni più tardi Basilio gli chiede di sedere sulla cattedra più scomoda di tutte, quella di Costantinopoli. In effetti nella capitale gli ariani sono la maggioranza, e anche se il nuovo imperatore Teodosio si è schierato dalla parte dei cristiani ortodossi, salire sulla cattedra scortato dalle guardie imperiali è oggettivamente rischioso. 

D'altro canto, dire di no a Basilio sarebbe come tradire la Trinità, e quindi il raffinato scrittore si ritrova in prima linea contro gli ariani, che non piacciono più all'imperatore ma in compenso hanno il polso del popolo. Contro di loro, Gregorio impugna tutta la sua eloquenza in un ciclo di omelie che sono considerate il suo capolavoro – anche se il brano per cui in assoluto è più citato non l'ha scritto lui, ma il suo collega e amico Gregorio di Nissa. In un modo o nell'altro riesce a conservare la cattedra fino al concilio ecumenico del 381: la sua intenzione era approfittare del concilio per sottoporre la sua nomina all'assemblea dei vescovi, e invece si ritrova a sorpresa a dirigerne i lavori perché l'unico prelato che lo sopravanza in prestigio, l'arcivescovo di Antiochia, nel frattempo è morto. Bisogna eleggerne un altro, il che richiede grandi doti di mediazione e forse Greg non le ha, o non vuole più averle, insomma quando i rappresentanti di una fazione avversa mettono in dubbio la legittimità della sua carica, visto che si era arcivescovocostantinopolizzato quando era ancora formalmente vescovo di Sasima, invece di ridergli in faccia (a Sasima non ci era proprio mai entrato), scrive una grossa tirata contro le divisioni della Chiesa e si disarcivescovocostantinopolizza seduta stante. Aveva da poco passato la cinquantina: si ritirò a Nazianzo, dove finalmente lo lasciarono studiare e scrivere in pace. Morì sei anni più tardi, disarcivescovocostantinopolizzato e felice (questo pezzo è stato scritto senza copia-incolla). 

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Erode 2024

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28 dicembre: Santi martiri innocenti

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Oggi il calendario cattolico ricorda i martiri innocenti, ovvero i bambini che Erode il Grande avrebbe fatto uccidere perché tra loro, non si sa mai, avrebbe potuto esservi il Messia. Ovvero? Per quanto poteva saperne Erode, doveva trattarsi di un grande leader che avrebbe liberato gli ebrei dai loro oppressori, il che significa perlomeno che Erode si considerava tale: un oppressore degli ebrei. 
Ma non era ebreo anche lui? 

È un discorso complesso. Basti vedere come tratta la questione la pagina italiana di Wikipedia (che a quanto pare è diventata ufficialmente la trincea dell'Internet libera). Prima nega del tutto la nozione: "Erode il Grande non era di sangue reale né tantomeno di origine ebraica". Poi ammette che era stato "educato in quanto tale": quindi ebreo per educazione... ma si può essere ebrei per educazione? Non lo dovrebbe essere per nascita perché "suo padre, Erode Antipatro, era un edomita, mentre sua madre, Cipro, una nabatea". Questione chiusa? Ma subito dopo aggiunge che "Gli edomiti o idumei, biblici discendenti di Esaù (fratello di Giacobbe), erano stati in continuo e aspro scontro con gli israeliti, finché Giovanni Ircano I, nel 110 a.C., non li convertì con la forza alla religione ebraica". Va bene, insomma, un suo antenato era stato convertito a forza, ma a questo punto era ebreo... "Benché incorporati ufficialmente nella nazione giudaica, gli edomiti erano considerati comunque inferiori agli israeliti, ed erano pertanto disprezzati e descritti come "razza turbolenta e disordinata, sempre proclive a sommosse e lieta di sconvolgimenti" [citazione da Flavio Giuseppe]. Il suo stesso nome, "Erode", non è di origine ebraica, bensì greca, e significa "discendente da eroi", e questo dimostra quanto fosse scarso lo spirito del giudaismo in suo padre, che mise un nome attinente alla religione ellenica a suo figlio circonciso". Quindi circonciso, re della Giudea (col benestare dei Romani), e quindi dei Giudei: che è il motivo per cui la possibilità che nascesse tra loro un Messia poteva destabilizzarlo. Ma ebreo no, non proprio, forse per sbaglio, anche perché portava un nome greco (come diversi apostoli, che erano sicuramente ebrei). 

Se la cosa non vi sembra chiara, ho una brutta sorpresa: l'identità ebraica non è mai chiara. È sempre un terreno di scontri tra fazioni che spesso preferiscono non definire troppo il loro concetto di ebraicità; in effetti se si trattasse di un'etnia, potrebbero essere accusati di razzismo; se invece si trattasse di una religione che si può liberamente scegliere, dovrebbero ammettere che il loro rapporto con la terra "dal fiume al mare" da un punto di vista storico è un po' più labile di quel che vorrebbero. Questa ambiguità del resto si estende spesso ai loro detrattori, che accusano i sionisti di voler costituire uno Stato etnico, ma poi spesso sembrano riferirsi al palestinesi come ai legittimi proprietari della Palestina... per lo stesso motivo: lo proverebbero infatti le indagini sul DNA. Io credo che il DNA andrebbe tenuto il più possibile lontano dalla contesa; è pacifico che la maggior parte dei palestinesi sono autoctoni, ma se fossero anche arrivati qualche anno fa avrebbero comunque il diritto di vivere una vita come ce l'ho io; se invece fossero i discendenti di un'invasione araba, parliamo comunque di una cosa avvenuta più di mille anni fa (ma è più probabile che si siano soltanto convertiti alla religione che gli arabi esportavano con le loro invasioni). Anche gli ebrei ovviamente provengono dallo stesso posto; eventuali "colli di bottiglia" nel DNA askenazi dimostrerebbero semplicemente quanto gli askenazi, nell'Europa medievale, se la siano vista male e siano sopravvissuti in comunità più chiuse che altrove: qualcosa che gli storici ci stavano già raccontando. Tutto questo ha un valore molto relativo per me, perché alla fine tutti veniamo da ovunque, la mia Patria è il mondo intero e gli Stati nazionali hanno senso soltanto finché sanno garantire pace e benessere ai propri abitanti. Da questo punto di vista – solo da questo punto di vista – mi pare che Israele abbia fallito; come avamposto coloniale invece non c'è dubbio che stia vivendo uno dei suoi più grandi successi.

Questo successo implica che Israele debba terminare l'opera cominciata nel 1948, eliminando le sacche in cui i palestinesi si ostinavano a vivere e moltiplicarsi con un fattore di crescita superiore a quello degli israeliani di origine ebraica. L'ideale probabilmente sarebbe stata un'espulsione di massa – un concetto che è fin troppo familiare alla cultura ebraica, da Babilonia in poi – ma siccome i Paesi arabi confinanti non collaborano, o chiedono troppo (perché in effetti l'espulsione di milioni di persone avrebbe costi enormi) – non resta che eliminarli un po' alla volta. Compresi i bambini? 



È una domanda che molti addetti ai genocidi a un certo punto si fanno, e storicamente la risposta è sempre sofferta, ma è sempre sì: anche i bambini. Lasciarli vivi, significherebbe far sopravvivere il ricordo di uno sterminio. Chi accetta nel suo cuore la vendetta, chi ne fa uno dei principi della propria esistenza e del proprio progetto politico, prima o poi deve accettare come corollario questa cosa che i bambini si uccidono. L'alternativa sarebbe lasciare in vita persone autorizzate a vendicarsi su di noi, e sui nostri figli, il che non possiamo assolutamente consentirlo: o noi o loro, ma non è neanche una scelta, la scelta l'hanno fatta i nostri antenati che probabilmente hanno ucciso altri bambini affinché un giorno potessimo vivere noi. Sono circostanze che preferiremmo non tramandare, ma non possiamo tradire. Davvero una bambina deve essere lasciata morire di ipotermia perché abbiamo bombardato tutti gli ospedali e spariamo sulle ambulanze? Sì, anche quella bambina un giorno potrebbe diventare il leader di una rivolta contro di noi, insomma il Messia. Erode probabilmente non ha mai davvero incontrato i Magi, non ha mai saputo la storia della stella, non ha mai ordinato di uccidere tutti i figli nati in quell'anno; non importa; Erode è una leggenda, un giorno lo saremo anche noi. 
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Il santo sotto il portico

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23 dicembre: San Servolo, paralitico e mendicante (VI secolo)

La basilica di San Clemente a Roma

Con l'approssimarsi del Natale, i santi importanti sembrano volersi ritirare dal calendario. Come se tutti fossero impegnati a cercare i regali, montare gli addobbi, l'albero, il presepe. C'è una spiegazione più plausibile: la Chiesa cattolica non consente celebrazioni solenni di santi nella novena di Natale (dal 16 al 24 dicembre). Perciò ai pezzi grossi conviene morire in altri periodi. Se proprio non ci riescono (come Torlaco patrono d'Islanda, appunto defunto il 23/12/1193), molto spesso le loro celebrazioni vengono spostate in altri mesi. Così sotto Natale chi rimane? Santi appena arrivati, perché dall'Ottocento in poi le date sono diventate cose serie ed è diventato più difficile modificarle; patriarchi e profeti dell'Antico Testamento; e poi figure di secondo piano, personaggi molto umili persino tra i santi, come questo Servolo o Servulo, che portava già il nome più modesto possibile ("piccolo schiavo"). Essendo nato paralitico, o essendolo diventato molto presto, nella società romana del tardo VI secolo si trovò una sua nicchia disagevole ma non priva di un certa dignità sociale: quella del mendicante. 

Il suo posto fisso era nel portico che conduceva alla basilica di San Clemente: chi doveva entrarci passava da lì e poteva ricevere i saluti, i ringraziamenti e i saggi consigli di Servolo. Se si trattava di un sacerdote, Servolo poteva domandargli di leggere qualche passo di un volume delle Scritture che era riuscito a procurarsi. La figura del mendicante annidato sotto un portico, che nasconde sotto il mantello un testo sacro, potrebbe avere ispirato a qualche agiografo la leggenda di San Giovanni Calibita, anche lui mendicante, ma di buona famiglia, che custodiva sotto i suoi panni lerci un Vangelo d'oro. I romani  hanno sempre avuto un debole per i santi mendicanti. Ma Servolo non è un personaggio leggendario. Le poche cose che sappiamo di lui ce le ha tramandate Gregorio Magno, in un'omelia e in un passo dei suoi Dialoghi, senza nessuna concessione al sensazionale o al miracolistico. Gregorio lo definisce "povero di mezzi, ricco di meriti, disfatto da una lunga malattia", e mostra di stimarlo come mendicante professionista, che con l'aiuto della madre e del fratello distribuiva i proventi della sua attività ai poveri. La Sacra Scrittura non gli era capitata tra le mani per miracolo; se l'era comprata, e doveva essersi trattato di un sacrificio economico notevole, con quel che costava un codice scritto a mano. Servolo è insomma un personaggio fortemente innovativo, che dimostra la determinazione con cui la Chiesa già nel VI secolo si dedicava a valorizzare esistenze irregolari che nel mondo pagano erano considerate irrimediabilmente inferiori: non soltanto gli schiavi, ma anche gli schiavi paralitici potevano contribuire attivamente alla missione assistenziale della comunità, diventando esempi di successo.    

Gregorio ci racconta che quando Servolo capì che era l'ora di andare, chiese ai pellegrini che sostavano nel portico di alzarsi e cantare qualche salmo. Anche lui si mise a cantare, e poi improvvisamente ammutolì. "Tacete", disse: "non udite le lodi che cantano in cielo"? Secondo un agiografo più tardo, alla sua morte Servolo sarebbe finalmente riuscito a entrare nella basilica di San Clemente per trovarvi sepoltura, in una cappella dove sarebbero state dipinte scene della sua vita; ma non ci è rimasto niente. Servolo dovette godere di una certa popolarità, prima di essere soppiantato nella devozione dei romani da mendicanti leggendari dalla vita più romanzesca, come Sant'Alessio, e più tardi ancora da Benoit-Joseph Labre. Siete naturalmente liberi di trovare questa passione dei cattolici per i mendicanti un po' pelosa: come se le elemosine davvero avessero il potere di salvare il mondo, o di alleviare qualcosa che non sia il nostro senso di colpa, mentre le concediamo. Nel frattempo anche stavolta è l'antivigilia di Natale, i Santi importanti sono tutti al calduccio nelle loro comode nicchie, e in piazza c'è un Servolo a ogni angolo. Buone feste anche a voi. 

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Una cattolica in America

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Lei è Cristiana Dell'Anna. 
22 dicembre: Santa Francesca "Saverio" Cabrini (1850-1917), missionaria italoamericana

Frequento una scuola cattolica, e per qualche motivo l'Arcidiocesi di cui facciamo parte ha deciso che era assolutamente necessario che noi vedessimo questo film, per cui ha prenotato un casino ("a shit ton") di cinema per più scolaresche. A quanto pare, tutto questo è stato pagato da una ricca famiglia cattolica che voleva davvero che andassimo a vedere il film, e in più sembra che dietro a tutto questo ci sia anche Angel Studios, la compagnia che lo ha prodotto. Penso che abbia a che fare con il fatto che vogliono che i loro investitori credano che questo tipo di film abbia successo, quindi immagino che forzare un sacco di scuole cattoliche a portare i loro studenti al cinema aiuti in questo senso. Onestamente, non sono sicuro di come funzioni tutto ciò, è solo quello che ho sentito da varie fonti. (La seconda "più popolare" recensione di Cabrini su Letterboxd). 

Malgrado questo e altri sforzi distributivi, Cabrini è stato un fiasco al botteghino. Un po' mi dispiace, anche se trovavo inquietante l'idea che il regista del film più cospirazionista degli ultimi anni avesse deciso di dedicare un biopic alla patrona degli emigranti italiani (e dei migranti in generale). Diciamo che se avesse avuto un successo paragonabile a quello di A Sound of Freedom, avrebbe fatto notizia anche in Italia, dove Santa Francesca Cabrini è tuttora un'illustre semisconosciuta. A quel punto magari il film sarebbe stato distribuito seriamente anche da noi, e non soltanto qua e là per tre miseri giorni d'ottobre. E forse sarei riuscito a vederlo, ehm, legalmente, scoprendo se si tratta di un buon film o di una puttanata intercontinentale; perché se le recensioni americane sono migliori di quanto ci si aspetterebbe, bisogna sempre ricordare che per loro un film agiografico è una novità, probabilmente non conoscono Luigi Magni e potrebbero essersi anche dimenticati di Zeffirelli o Liliana Cavani. Ma soprattutto non si sono fatti gli ossi con le fiction di Lux Vide. Così magari approfittando del film avrei finalmente trovato l'ispirazione per il pezzo su Santa Francesca Saverio che ogni tanto qualcuno mi chiede di scrivere (una frase, mi rendo conto, molto blog-anni-zero: però davvero, in tanti anni, due o tre persone me l'hanno chiesto. Un numero infinitamente superiore a quelli che mi hanno preteso un pezzo su San Michea). 

E invece no. La santa dei migranti (che è anche la prima santa statunitense) ha dimostrato nell'occasione di non avere lo stesso appeal della cospirazione pedofila di Sound of Freedom, della mitomania del veterano di American Sniper, o del Gesù splatter di Passion of the Christ. Evoco questi tre titoli perché erano probabilmente i tre argomenti che rendevano plausibile la sfida produttiva di Cabrini; film che hanno avuto uno spaventoso successo ai botteghini proprio perché pensati per un pubblico diverso, al di fuori dei circuiti abituali della distribuzione; gente che al cinema non ci va mai, al punto che in certi casi la distribuzione deve affittare le corriere, come se si trattasse di un pellegrinaggio – ecco, questi film sono paragonabili a pellegrinaggi postmoderni, e se i primi tre erano rivolti soprattutto a un pubblico bianco e protestante, Cabrini guardava appunto al bacino inesplorato delle comunità cattoliche. Alcune scuole, come si legge sopra, devono aver risposto all'appello: ma non è stato sufficiente 

Per quanto riguarda le mie impressioni su questo film, era tutto sommato accettabile. Hanno stipato tutta la mia classe in una sala, quindi mi aspettavo fosse un caos, ma a parte un ragazzo che ha portato un altoparlante e ha suonato dei suoni divertenti di tanto in tanto, non è andata male. Non penso che Cabrini fosse brutto, ma non mi ha colpito particolarmente. Ha chiaramente un messaggio importante da trasmettere, ma nella pratica non risulta così. Inoltre, qualsiasi film che devo vedere per scuola automaticamente mi rende meno interessato, purtroppo.

Francesca Saverio è un personaggio enorme. Ancora prima di sbarcare in America, e non aveva quarant'anni, aveva già combinato abbastanza per passare alla Storia, almeno come fondatrice del primo ordine femminile missionario. L'idea fissa intorno a cui girava sin da bambina era la conquista cristiana della Cina, proprio come l'inquieto gesuita da cui aveva preso il nome. Il vescovo di Piacenza la dirotta verso New York, dove sbarca la prima volta nel 1889, in un momento in cui le prime ondate di immigrati dall'Italia sono confinate al livello più infimo della catena alimentare, guardati con diffidenza anche dalla diocesi cattolica, saldamente in mano alla comunità irlandese. Nel giro di pochi anni Francesca riesce ad accreditarsi come il volto umano della comunità. Dietro all'apparenza ascetica conferitale dalla tubercolosi c'è una grande lavoratrice e organizzatrice. Se gli italiani vedono in lei un'emissaria della carità, gli anglosassoni ne ammirano le capacità imprenditoriali: credo sia l'unica santa di cui si racconta che sia morta alla scrivania, come un vero businessman (eppure morì di malaria, una malattia così italiana ai tempi). Il film in effetti è stato finanziato, tra l'altro, da un milionario della Pennsylvania, J. Eustace Wolfington, che considera la Cabrini la sua grande ispiratrice: non certo in quanto suora, ma in quanto imprenditrice. "Volevano farne una favola, ma io dovevo realizzare un film migliore. Dovevo catturare chi era lei davvero, una donna che non accettava un 'no' come risposta, neanche dal papa, né dall'arcivescovo, né dal sindaco di New York o dal presidente del senato in Italia. Non c'era bisogno di mostrarla mentre predicava e pregava, perché la sua vita è il vero sermone". Ecco, questo mi interessava del film: capire se l'ideologia degli investitori protestanti era riuscita a snaturare la vita di una missionaria cattolica con una spiccata vocazione assistenziale. 

Se ogni santo somiglia a un precedente e a un successivo, Francesca Cabrini ha tutte le carte per essere considerata il precedente ottocentesco di Teresa di Calcutta: una piccola donna di fragile salute, che davanti a un continente intero di sofferenza non si perde d'animo e comincia a colonizzarlo fondando conventi su conventi, diventando un personaggio mitico e santificato già in vita. 

Si tratta di un precedente molto più epico e avventuroso perché alla fine per Teresa i poveri della terra erano a portata di aeroplano, mentre la Cabrini per raggiungerli in America dovette attraversare l'oceano in transatlantico una ventina di volte, attraversare le Ande a dorso di mulo, ecc. E se il culto di Teresa si è sviluppato in un secolo scettico, davanti a osservatori disposti a mettere in discussione le sue imprese, nel caso di Francesca Cabrini, e in generale di tutti i santi/benefattori ottocenteschi, è veramente difficile riuscire a filtrare qualcosa di oggettivo da tutti i resoconti biografici che per partito preso non potevano parlarne che bene. Quel che sembra di capire è che con la Cabrini la Chiesa cattolica accetta finalmente che le donne possono fare le missionarie, muoversi in un mondo da evangelizzare senza perdere la rispettabilità; magari un po' tardi rispetto a una società in evoluzione, ma giusto in tempo per assumere un ruolo fondamentale nella società delle nuove metropoli americane, dove il Welfare State è perlopiù demandato alla beneficenza dei ricchi, al buon cuore dei pochi che ce l'hanno fatta e non si dimenticano della miseria su cui poggiano le proprie radici. Servono intermediari affidabili tra milionari e poveracci, gente al di sopra di ogni sospetto in grado di percepire donazioni e lasciti e ridistribuirli in modo efficace: le suore missionarie del Sacro Cuore svolgono questa funzione necessaria e diventano un punto di riferimento di tutte le comunità italoamericane. Ai poveri parlano in italiano, ma sono disponibili a insegnare ai loro figli l'inglese. Morta nel 1917, viene beatificata quasi subito ed entra nel calendario già nel 1946: e siccome nel 1909 aveva ottenuto la cittadinanza USA, è anche la prima santa statunitense.

Non è difficile capire perché una santa italiana così importante in America non abbia mai 'forato' qui in patria; la sua leggenda dal 1889 in poi attraversa una delle pagine più imbarazzanti della nostra Storia: quella in cui i migranti eravamo noi, brutti, sporchi e criminali. Oggi la Cabrini viaggerebbe sulle navi che Salvini ordinava di speronare. Ma perché uso il condizionale. Oggi la Cabrini viaggia sulle navi che Salvini ordina di non soccorrere. 

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Michea il provinciale

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21 dicembre: San Michea, profeta di provincia (VIII sec. aC)

Basilica della Natività, Betlemme, Palestina. 

Ma insomma Gesù veniva da Nazareth o da Betlemme? Perché sono a più di 100 km di differenza. Non solo, ma anche a quei tempi sorgevano in due Stati diversi, benché controllati dallo stesso impero, in questo caso il romano. Nazareth è in Galilea, un territorio che grosso modo coincide con l'attuale distretto settentrionale di Israele. Dai vangeli risulta chiaro che il Gesù predicatore provenisse da lì; più volte viene chiamato "Gesù di Nazareth" e "nazareno". Ora, può anche darsi che in un primissimo momento – un momento in cui i vangeli non erano ancora stati scritti, e si tramandavano oralmente – la parola greca "nazoràios" associata a Gesù non indicasse una provenienza geografica. "Nazoràios" potrebbe derivare da "nazarà", una parola aramaica (Gesù e i suoi primi seguaci parlavano aramaico). Quest'ultimo termine potrebbe sì, alludere a una cittadina della Galilea che a quel tempo sarebbe stato poco più di un villaggio: ma potrebbe anche essere il contrario, che il villaggio abbia preso il nome dall'epiteto di Gesù, visto che in precedenza né nella Bibbia né in altri documenti era mai stato nominato. 

"Nazarà" potrebbe derivare dall'ebraico nazir, "separato", e alludere al carattere scismatico del movimento fondato da Gesù, che si era separato dall'ebraismo tradizionale. Oppure dall'ebraico netzer, germoglio, che in Isaia 11,1 allude proprio alla nascita del Messia ("Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse"). Non si può nemmeno escludere che Gesù non fosse "nazareno", ma "nazireo", ovvero consacrato per la vita al Signore secondo un rituale descritto dalla Torah: il nazireo più famoso è l'eroe Sansone, e come Sansone anche Gesù è spesso raffigurato coi capelli lunghi. Ai nazirei non era consentito partecipare ai funerali, il che potrebbe spiegare come mai Gesù non si presenti a quelli dell'amico Lazzaro. Più difficile immaginare un Gesù totalmente astemio, visto che i nazirei non potevano consumare prodotti della vigna; ma in effetti se Gesù più volte fa bere gli altri, non è mai descritto nell'atto di bere; e sulla croce rifiuta persino una spugna intrisa d'aceto. 

Per quanto insomma non si possa escludere che sia stato Gesù "Nazoràios" a dare il nome al suo luogo d'origine, e non viceversa, nel momento in cui la sua vita viene messa per iscritto ormai l'idea è che "Nazoràios" alluda a un luogo in Galilea. Per questo motivo Ponzio Pilato, non sapendo bene come gestire il prigioniero, tenta di trasferire il caso a Erode Antipa, figlio di Erode il Grande, che pur essendo il Tetrarca della Galilea (una sorta di viceré) preferiva risiedere a Gerusalemme. La Galilea era già al tempo una regione molto periferica. Gli abitanti erano più vicini ai porti del Libano che a Gerusalemme e dovevano scontare un forte pregiudizio da parte dei giudei gerosolimitani, di cui resistono tracce nel Vangelo di Giovanni; "da Nazareth non può venire niente di buono", dice Natanaele all'apostolo Filippo; "dalla Galilea non sorgono profeti", spiegano i farisei a Nicodemo. E i due Vangeli che raccontano dell'infanzia di Gesù (Matteo e Luca), pur accettando l'idea che provenisse dalla Galilea, lo danno per nato a Betlemme, in Giudea, a poche miglia da Gerusalemme.

Entrambi gli evangelisti si preoccupano di risolvere questa contraddizione, offrendo però soluzioni diverse: secondo Matteo fu Giuseppe a decidere di trasferirsi con la famiglia dopo il soggiorno egiziano, su ispirazione di un sogno; secondo Luca invece i genitori di Gesù risiedevano entrambi a Nazareth, e a Betlemme ci erano capitati per caso mentre andavano a compilare il censimento a Gerusalemme. Il che fa un poco a pugni con la geografia: rispetto alla capitale, Nazareth è a nord, Betlemme a sud. Ma potrebbero davvero esserci arrivati in giornata mentre cercavano un alloggio per la notte. 

Il perché sia così importante ambientare il Natale a Betlemme lo mette per iscritto Matteo: dipende tutto da un versetto del profeta Michea risalente a sette o otto secoli prima (5,1), una delle profezie più impegnative dell'Antico Testamento perché mentre di solito i profeti si mantenevano nel vago, Michea non ci era riuscito e aveva messo nero su bianco che il futuro dominatore di Israele sarebbe nato a Betlemme. Matteo è l'evangelista più legato alla tradizione ebraica: per lui è fondamentale che la profezia si avveri. Luca a questa storia del dominatore di Israele non sembra crederci molto, ma la sua sensibilità sociale potrebbe essere rimasta colpita dal fatto che secondo Michea Betlemme era "il più piccolo dei capoluoghi di Giuda": l'idea già fiabesca per cui il Re dei re sarebbe apparso in una piccola città, tra pastori e carpentieri.

In effetti se di ogni profeta è lecito isolare un tratto distintivo, per cui Isaia è il poeta, Geremia il brontolone, Ezechiele il visionario, Osea il cornuto... Michea, nato anche lui in un villaggio ai confini con la Filistea, è decisamente il provinciale. A tutti i profeti capita di prevedere la disgrazia di una città, ma Michea sembra provarci gusto a decretare la rovina di Samaria (capitale del regno di Israele), la disgrazia di Gerusalemme (capitale del regno di Giuda), insomma di tutti i centri abitati cinti da mura e che non si riducano a un crocicchio di sentieri. Il fatto che tutto sommato ci abbia preso (Samaria fu distrutta dagli Assiri, Gerusalemme dai Neobabilonesi) non scaccia il sospetto che Michea parli a nome di tutti gli abitanti dei contadi, e dia una forma scritta alla loro profonda diffidenza per queste assurde sfide alla natura che sono le grandi città.

I ricchi della città sono pieni di violenza,

i suoi abitanti affermano il falso

e la loro lingua non è che inganno nella loro bocca.

Perciò anch'io ti colpirò, ti produrrò gravi ferite

e ti devasterò a causa dei tuoi peccati.

Tu mangerai, ma senza saziarti

e la fame ti rimarrà dentro;

porterai via, ma non salverai

e ciò che avrai salvato lo darò in balìa della spada.

(Michea 6,12-14)

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Zefirino e la Trinità

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20 dicembre: San Zeffirino o Zefirino, papa dal 198 al 217.


In alcuni periodi Zef(f)irino è stato considerato un martire: una festa di Zefirino "papa e martire" in agosto è resistita nel calendario romano fino alla revisione del 1969. Può darsi che una leggenda andata perduta lo considerasse vittima delle persecuzioni che ripresero verso la fine del regno dell'imperatore Settimio Severo. Ma siccome per tutte le altre fonti risulta spirato serenamente, al termine del pontificato più lungo del terzo secolo, e addirittura sepolto nel nuovo cimitero sulla via Appia che i cristiani avevano avuto il permesso di comprare, il termine "martire" doveva avere creato imbarazzo già a qualche cronista antico. 

Il titolo, dice la Wikipedia inglese, se lo sarebbe comunque meritato per gli sforzi e i dolori patiti nel condurre la Chiesa di Roma per quasi vent'anni: un lungo periodo in cui forse non vi furono persecuzioni (quella di Settimio Severo potrebbe veramente essere stata poco più che una crisi diplomatica, risolta con un compromesso e senza molte vittime) ma uno scontro estenuante tra correnti teologiche nel quale anche gli esperti faticano a raccapezzarsi: e tra questi esperti pare non vi fosse Zeffirino. Da millenni pesa su di lui l'epiteto affibbiatogli dall'autore di un Trattato contro tutte le eresie, che lo definisce senza mezzi termini "ignorante", "illetterato" e "inesperto dei provvedimenti ecclesiastici". Chi abbia scritto questo Trattato non lo sappiamo con certezza, ma per accusare di inesperienza il titolare di un pontificato ventennale bisogna veramente credersi chissà chi, così un po' tutti pensiamo che l'abbia scritto Sant'Ippolito – chi altri a Roma poteva avere una così alta concezione di sé stesso? Ippolito in effetti era un teologo raffinato che stava già partecipando alla disputa teologica del secolo: la questione trinitaria. Si trattava di una questione spinosissima – Dio è uno solo o sono tre? – che Ippolito era convinto di poter risolvere con la pura speculazione filosofica; dal suo studio dove immaginava di dialogare coi dottori della Chiesa, Ippolito doveva guardare con un certo disprezzo ai compromessi a cui scendevano gli uomini delle istituzioni come Zefirino e il suo braccio destro, l'usuraio bancarottiere Callisto. 

A sua discolpa, Zefirino doveva destreggiarsi in una situazione in cui veri e propri dogmi non c'erano, col rischio ricorrente di lasciarsi andare ad affermazioni che in seguito avrebbero potuto essere interpretate come eresie. Che Dio fosse uno e trino non era affatto chiaro, nel 200, e se dobbiamo essere onesti non lo è nemmeno adesso. Certo, leggendo le Scritture risulta abbastanza evidente che Gesù Cristo non sia il Dio dell'Antico Testamento; se quest'ultimo è il Creatore, Gesù più volte lo chiama "Padre" (anche sulla croce) e ribadisce di essere sceso sulla terra per una missione di riconciliazione. Non solo, ma lo stesso Gesù avvertiva che dopo la sua dipartita, il Padre avrebbe inviato agli apostoli uno "Spirito" che li avrebbe sorretti e ispirati. Dunque Dio è Padre, Figlio e Spirito; e allo stesso tempo è anche Uno Solo. L'ipotesi di tre Dei diversi, magari parenti, è da escludere nel modo più reciso; contrastava non solo con l'orgoglioso monoteismo dei cristiani di origine ebraica, ma anche col monismo propugnato dai filosofi neoplatonici che negli stessi anni stanno conquistando l'egemonia culturale nel mondo pagano. Dunque un solo Dio, diviso in tre... in tre cosa? manifestazioni? sostanze? persone? Se uno è Padre, significa che all'inizio c'era soltanto Lui, e poi ha creato gli altri due? Ma in tal caso non potrebbe essere veramente un Dio solo, ecc. La questione era abbastanza complessa e non sarebbe stata definita dogmaticamente che nel 325: nel frattempo chi aveva incarichi istituzionali, come Zefirino, navigava a vista cercando di non scontentare nessuno, né di sbilanciarsi con affermazioni troppo recise (un po' come quando chiedono alla Schlein del campo largo, a voi non viene la nausea?) 

Nel frattempo si sviluppavano diverse scuole di pensiero che i vincitori del dibattito avrebbero in seguito definito eresie: gli adozionisti monarchiani, ad esempio, erano così affezionati all'idea che Dio fosse Uno che credevano che Gesù fosse nato uomo e fosse stato "adottato" da Dio dopo il battesimo. All'estremità opposta, i modalisti/patripassiani consideravano Gesù soltanto un "modo" di essere di Dio Padre, che quindi aveva patito personalmente sulla croce. Può risultare difficile immaginare che i cristiani del II secolo litigassero intorno a definizioni così complesse. Non si può escludere a priori che il dibattito coinvolgesse anche il popolo minuto (come nota Gregorio di Nissa, un secolo più tardi, scrivendo dalla Cappadocia: vuoi sapere quanto costa una pagnotta, ti rispondono: “Il Padre è il maggiore, e il figlio gli è soggetto”). Ma dobbiamo ricordare che ogni dibattito è un iceberg. Immaginate di atterrare oggi sulla Terra, e di assistere senza preconcetti a un litigio tra un interista e uno juventino. Di calcio sapreste molto poco, ma dal fervore con cui i due argomentano, e dalla dovizia di episodi che citano, potreste dedurre di trovarvi davanti a due esperti, due studiosi che hanno dedicato anni di studio alla materia. Deducete quindi che si tratti in primo luogo di una disputa dottrinale sul giuoco, sulla sua filosofia e le sue regole, e in un certo senso è così: ma sotto c'è anche dell'altro; materiale meno astratto e quindi meno facile da immaginare per chi arriva da lontano. Ci sono storie complicate e intrecciate, la secolare rivalità tra due sensi di appartenenza, rancori mal sopiti, a volte persino coscienza di classe: di tutto questo stanno litigando, l'interista e lo juventino, e magari anche di beghe personali che col calcio non c'entrano niente. Così probabilmente i monarchisti e i modalisti rappresentavano milieu sociali e visioni del mondo che ormai non riusciamo più a definire; perché ai cronisti del tempo interessava più la dimensione dottrinale che la composizione sociale dei gruppi che lottavano per affermare la propria prominenza. Inoltre, non ci parlano quasi mai di soldi.

Ed è un vero peccato, perché di soldi ne giravano. Intellettuali come Ippolito potevano anche permettersi di non preoccuparsene, ma queste nuove religioni monoteiste stavano diventando un business interessante. Sin dall'inizio il cristianesimo aveva funzionato mediante le collette dei fedeli più abbienti, ai quali veniva già chiesto di meritarsi la Grazia con le opere di bene; nelle grandi città in cui si concentravano grandi masse di schiavi e semischiavi, la Chiesa aveva assunto rapidamente un ruolo assistenziale a cui nessun altra istituzione si sobbarcava. Dobbiamo ipotizzare che le comunità religiose avessero ormai cospicui patrimoni da gestire: questo spiega il successo di personaggi ambigui come Callisto, che da usuraio diventerà il successore di Zefirino, con grande scandalo di Ippolito; ma spiega anche il proliferare di confessioni religiose alternative, che col pretesto non riconoscersi in una determinata dottrina, consentivano ad altri personaggi di tagliare fette importanti da una torta sempre più grossa. In fondo bastava convincere i fedeli più facoltosi di essere i veri possessori della realtà rivelata; se ci pensate è un trucco che funziona da millenni. 

Il caso più eclatante in quegli anni era il Montanismo, una setta nata verso il 150 dalla predicazione del greco Montano e di altre due profetesse, che si ritenevano in comunicazione con lo Spirito Santo. Di Montano si dice che fosse molto ricco e che avesse conquistato così i suoi fedeli; ma potrebbe essere un caso di inversione causa/effetto, ovvero Montano avrebbe potuto diventare molto più ricco proprio grazie al seguito che aveva saputo conquistarsi. Con le sue rivelazioni choc sulla solita fine del mondo, il montanismo riuscì a irretire anche un vecchio baluardo dell'ortodossia come Tertulliano, e per molto tempo non fu considerato un'eresia: a Roma fu Zeffirino a condannarlo. Quanto agli adozionisti, il loro leader romano era un cambiavalute, Teodoto il Cuoiaio: sembra proprio che le organizzazioni religiose attirassero i faccendieri esperti in gestione della liquidità. A tal proposito Eusebio di Cesarea racconta del pentimento di un chierico, il confessore Natalio, che Teodoto aveva portato dalla sua parte offrendogli l'incarico di vescovo adozionista. Molto più del titolo, a convincere Natalio doveva essere stato lo stipendio mensile previsto da Teodoto: 150 denari d'argento, sei volte la paga di un legionario. Eppure non bastarono a sedare il senso di colpa di Natalio, che continuava a sognare Gesù che lo rimproverava, finché gli angeli non lo flagellarono per una notte intera, convincendolo ad andare a chiedere perdono a Zeffirino. 

Il quale Zeffirino, dovendosi barcamenare tra tante fazioni, non era così ansioso di districare il problema trinitario: messo alle strette, ammetteva di riconoscere un solo Dio, il "Signore Gesù Cristo". Ovviamente per i modalisti questa affermazione suonava come una pericolosa concessione ai monarchiani, e viceversa. Il dibattito sarebbe durato ben oltre la morte di Zeffirino, anzi fu proprio la successiva elezione di Callisto a causare il primo vero scisma perché Ippolito, indignato, decise di fondare una Chiesa tutta sua di cui si autonominò papa. A riportare l'unità tra i cristiani di Roma sarebbero state paradossalmente le persecuzioni degli anni Venti e Trenta, durante le quali Ippolito si ritrovò condannato alla stessa miniera del papa in carica, Ponziano: in quell'occasione i due si riconciliarono ufficialmente e chiesero ai rispettivi seguaci di fare altrettanto.
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Beato Guglielmo, ma povera mula

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19 dicembre: beato Guglielmo di Fenoglio (1059-1120)

Incaricato dal suo priore di raccogliere le offerte e portarle al monastero di Casotto, il giovane Guglielmo, monaco certosino, si lamenta che i boschi intorno Mondovì pullulino di briganti che già in precedenza lo avevano derubato. Il priore gli ordina di difendere le offerte in qualsiasi modo, "anche con la zampa della mula". Guglielmo è un converso, ovvero un confratello laico che non ha preso i voti sacerdotali, e come tale deve obbedire al superiore anche se l'ordine è assurdo; perciò, quando i briganti arrivano Guglielmo stacca miracolosamente la zampa alla mula e mulinandola in testa ai malintenzionati riesce a metterli in fuga. Dopodiché riattacca la zampa e riprende la via del monastero: e solo quando a Casotto il priore gli fa notare che la zampa zoppica, si accorge di averla attaccata a rovescio. Nessun problema: davanti agli occhi esterrefatti del superiore, Guglielmo stacca l'arto e lo riattacca correttamente, senza che la mula accenni a un lamento. Questo è senz'altro il più famoso dei "miracoli burleschi" attribuiti a Guglielmo, anzi fin qui è l'unico che sono riuscito a trovare, benché tante agiografie suggeriscano che ne abbia fatti tanti altri: e immaginate quanto sarei felice di riportarli, questi miracoli burleschi: ma non li ho ancora trovati. 

Purtroppo su Internet è successo qualcosa di paragonabile a quello che ha fatto la Legenda Aurea di Iacopo di Varazze con i testi medievali: i copisti hanno smesso di copiare quelli più antichi perché la Legenda era più comoda e sembrava un lavoro ordinato ed esauriente, e il risultato è che ci siamo persi parecchie leggende per strada. Molte probabilmente erano poco più che barzellette, come il miracolo della zampa della mula, che sembra alludere soprattutto al tema dell'obbedienza: un valore fondamentale della vocazione monastica, che Guglielmo doveva incarnare anche e soprattutto in quanto patrono dei conversi. Comunque, ovunque io cerchi notizie sui miracoli di Guglielmo, trovo sempre ripetuta la storia della mula (che almeno ha fornito ai pittori un espediente originale per renderlo riconoscibile: mettergli in mano una zampa di mula o, nel caso della certosa di Pavia, un intero cosciotto simile a un prosciutto gigante). A volte chi ha più spazio aggiunge anche, indovinate, che una volta Guglielmo strinse un patto con un diavolo per costruire un ponte in cambio dell'anima del primo peccatore che ci transitasse: ecco, quello del ponte del diavolo è proprio il classico miracolo che si inventa chi non sa quali altri raccontare – peraltro finisce sempre nello stesso modo, cioè con il santo che beffa il demonio facendo transitare sul ponte un animale, che in questo caso ovviamente è la povera mula. Mettetevi del resto nei panni di un agiografo tardomedievale che deve riempire una colonna sulle gesta di Guglielmo di Fenoglio, e non ne sapete niente tranne che girava per le Langhe con una mula... la prima cosa che vi verrebbe in mente, appunto, è farla transitare su un ponte del diavolo.

Con tutto questo non voglio negare che Guglielmo non sia stato un santo popolare, nei suoi primi secoli, per motivi che in parte ci sfuggono: in quanto patrono dei conversi certosini, era invocato e conosciuto in tutta Europa; ma nel suo territorio, più che per i "miracoli burleschi", è verosimile che i pellegrini fossero attratti dalla sua fama di guaritore. A un certo punto però deve essere sorto un problema, una complicazione, qualcosa che ha spinto i monaci della Certosa di Casotto a un gesto davvero insolito: ne hanno occultato il cadavere. Si può pensare che non apprezzassero più di tanto il viavai dei pellegrini, che pure portavano doni ed ex voto. Di solito la tomba di un santo è un motivo di vanto per una località, il che spinge più spesso i religiosi a trovarne i resti che a nasconderne. La leggenda però suggerisce che dopo tre secoli i certosini di Casotto avessero maturato una certa insofferenza per il culto del santo, dato che più volte avrebbero cercato di trasferirne la tomba: invano, perché le sue spoglie si rimaterializzavano sempre al loro posto, in ottimo stato di conservazione. (Può anche trattarsi di un altro espediente per rimarcare il patronato del Santo: il luogo dove le sue spoglie ostinatamente tornavano era la "casa bassa", la sede dei conversi). Dopodiché la situazione cambia e il corpo viene nascosto, ufficialmente per evitare le profanazioni in epoca napoleonica: è ancora da qualche parte entro i muri della certosa, ma nessuno sa dove.

Qualcosa di curioso è successo anche a livello di burocrazia vaticana: Guglielmo è un raro caso di Beato declassato. In effetti in una Bolla del 1568, papa Pio V lo aveva chiamato, senza mezzi termini, "santo", ratificando il termine che circolava già nelle agiografie medievali. Quando però nel 1860 Pio IX ne approva ufficialmente il culto (fissando la festa al 19 dicembre, cioè oggi), Guglielmo risulta soltanto "beato". 

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Ancora sui giovani nei forni

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17 dicembre: Santi Anania, Misaele e Azaria, i giovani nella fornace (VI sec. aC).


Qualche settimana fa, dopo aver partecipato alle celebrazioni per il Tempio Maggiore di Roma, il vicepresidente del consiglio dei ministri Antonio Tajani ha sentito la necessità di negare che a Gaza si stia verificando un genocidio, perché "i presupposti del genocidio sono la predeterminazione e la decisione, e il 7 ottobre non è stato un attentato, un bombardamento o un attacco militare. È stata una caccia all'ebreo con predeterminazione. Vedere una madre violentata mentre le mettono un neonato nel forno è una cosa che neanche la Gestapo e le SS facevano". Ora, è pur vero che la definizione giuridica di genocidio è abbastanza complessa, e che Tajani queste cose le ha dette a un microfono, senza il tempo e l'agio per elaborare. Ma passano i mesi, e ogni volta che gli viene chiesta un'opinione in merito Tajani sembra sentirsi costretto a ricordare che i nemici di Israele hanno messo un neonato nel forno (qualche mese fa, per esempio, lo raccontò a Porta a Porta), come se altri argomenti non ne avesse. In effetti Tajani, come tanti altri rappresentanti istituzionali, non ha mai tentato di ridimensionare le stragi perpetrate dall'esercito israeliano negli ultimi mesi. Ha preferito insistere sulle atrocità del sette ottobre, come se un crimine abbastanza atroce potesse giustificasse qualsiasi rappresaglia. E in particolare ha insistito, con una certa ossessività, su questa storia del neonato nel forno che è senza dubbio agghiacciante; ma è anche falsa. 

Persino il Jerusalem Post, e non parliamo davvero di un organo di stampa vicino ad Hamas, già nel novembre 2023 aveva ammesso che questo neonato non l'aveva visto nessuno: era una storia messa in giro dai primi soccorritori, e rimbalzata molto rapidamente su social network e organi di stampa che però, altrettanto rapidamente, l'avevano smentita; persino su X, una delle piattaforme meno moderate in circolazione, qualsiasi accenno al tema del "baby in the oven" viene ormai automaticamente corredato con una nota che dice che "dopo un confronto con l'IDF, questa notizia è stata smentita da un giornalista israeliano". Tajani evidentemente non consulta né il Jerusalem Post né X; ma soprattutto Tajani quel bambino nel forno sembra convinto di averlo visto: ma com'è possibile, se appunto nessun altro è riuscito a trovarlo? 

In proposito ho una teoria, decidete voi quanto complottistica: nelle ore immediatamente successive alle stragi del 7 ottobre, quando i media israeliani e internazionali avevano molte notizie da dare ma poche immagini con cui corredarle, qualche regista o videoeditor con pochi scrupoli potrebbe aver condito i video autentici con altre immagini di repertorio, tratte da film o altre fiction (non sarebbe certo la prima volta), e persino prodotte con l'AI; il che farebbe del 7 ottobre la prima grande strage contemporanea deformata dalle immagini artificiali. Queste immagini si sarebbero impresse facilmente su un pubblico traumatizzato dalle notizie vere che stavano arrivando, creando una falsa memoria collettiva che a distanza di anni continua a funzionare: tanto che non è difficile incontrare sui social altre persone, come Tajani, che quel neonato sono convinte di averlo visto. Senz'altro un fotomontaggio ha continuato a circolare sui social per mesi (benché fosse stato, anche quello, ampiamente sbugiardato): forse Tajani ha visto quello, e vedendolo ha creduto davvero di avere davanti agli occhi il residuo incenerito di qualcosa simile a un neonato. Quanto alla "madre violentata", ecco, no, quella se l'è inventata: magari per amor di sintesi ha voluto montare assieme episodi avvenuti in luoghi diversi

Tra filopalestinesi circola un proverbio: ogni accusa è un'ammissione. Negli ultimi mesi siate incappati anche voi nel video di un testimone che racconta di un bambino gettato in un forno: salvo che l'episodio sarebbe avvenuto non nel 2023, ma nel 1948; il bambino non sarebbe stato ebreo, ma palestinese; e i suoi assassini dei coloni israeliani. Ma sarà vero? Quando si parla di stragi, bisogna ammettere che certe storie funzionano meglio di altre: col tempo si impara a metterle in dubbio semplicemente perché vengono riportate troppo spesso. Accanto al bambino nel forno, a volte viene citata la donna incinta a cui sarebbe stato strappato il feto, con un coltello, o addirittura una baionetta; perlomeno Corrado Augias (Repubblica, 10/11/2024) parla di "bambini squarciati dalle baionette", un anacronismo che svela la ricorsività dell'episodio: Augias non ha certo visto una baionetta nei servizi sul 7/10, ma è possibile che l'abbia confusa con altri episodi analoghi, dato che questi sventramenti sono una costante che attraversa tutto il Novecento, passando anche dalle stragi naziste in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale. 

Il bambino nel forno è un topos ancora più antico. Troviamo vittime arrostite nelle leggende dei martiri, anzi la più antica leggenda di questo tipo potrebbe proprio essere quella dei "tre giovani nella fornace": Anania, Misaele e Azaria. Composta nel secondo secolo avanti Cristo, si trova inserita in quel patchwork di leggende antiche e visioni apocalittiche che è il Libro di Daniele. I tre non sono tecnicamente martiri, perché, seppure gettati in una fornace, non muoiono: il che ci fa sospettare che il concetto di vita oltre la morte, al tempo dell'elaborazione della leggenda, non fosse ancora diventato canonico (a differenza di quel che accade, per esempio, con i sette fratelli del secondo libro dei Maccabei). Per contro il personaggio del torturatore, un sovrano pagano malvagio e impaziente, è già perfettamente a fuoco, così come l'insistenza sulla ferocia del supplizio: una fornace così ardente da incenerire anche le guardie che vi gettano le tre vittime.

Anania, Misaele e Azaria sono i giovani collaboratori del profeta Daniele, il quale però non compare in tutto l'episodio, né la sua assenza viene giustificata; sono "senza difetti, di bell’aspetto, dotati di ogni sapienza, istruiti, intelligenti": in quanto tali vengono scelti insieme a Daniele per diventare funzionari di Nabucodònosor II, il re neobabilonese che ha sconfitto il regno di Giuda e ne ha deportato la popolazione (siamo nel VI secolo aC). Su iniziativa di Daniele, i tre rifiutano la dieta imposta alla corte e continuano a osservare i precetti alimentari della Torah, il che è molto interessante se accettiamo che la Torah sia stata editata, come propendono gli storici, proprio durante l'esilio di Babilonia; gli ebrei avevano già una dieta diversa da quella di altri popoli mesopotamici, ma è ai tempi di Daniele che le abitudini alimentari avrebbero potuto essere formalizzate come precetti, con lo scopo di preservare l'identità di un popolo costretto a mescolarsi con gli altri. Malgrado i tre si nutrano esclusivamente di acqua e verdure, "le loro facce erano più belle e più floride di quelle di tutti gli altri giovani che mangiavano le vivande del re". Diventati alti funzionari del regno, assistono Daniele con le loro preghiere quando quest'ultimo deve decifrare il sogno della statua gigante. Diventano poi protagonisti incontrastati del terzo capitolo del libro, quando si rifiutano di adorare l'idolo d'oro che Nabucodònosor ha capricciosamente imposto a tutti i sudditi. Minacciati di essere gettati in una fornace, i tre non sono del tutto fiduciosi di uscirne indenni, ma rimangono fedeli al loro Dio, "anche se non ci liberasse". Ne escono invece puliti e profumati, senza un solo capello bruciacchiato, causando l'ennesima conversione di Nabucodònosor, che in effetti si era già convertito nel capitolo precedente ma non è certo l'unico imperatore scostante o ciclotimico (nel capitolo successivo regredirà temporaneamente allo stato animale).

Un aspetto curioso dell'episodio è la completa assenza di Daniele: non solo perché è il profeta che dà nome al libro (e vi compare in quasi tutte le pagine), ma perché fino a quel momento Anania Misaele e Azaria erano i suoi compagni: la scelta di osservare una dieta kosher l'avevano presa assieme. Il fatto che nella fornace Nabucodònosor veda non tre, ma  "quattro uomini liberi, i quali camminano in mezzo al fuoco, senza subirne alcun danno", ci fa sospettare che in una prima stesura Daniele potesse essere presente: e siccome, nota Nabucodònosor, "il quarto è simile nell’aspetto a un figlio di dèi", siamo autorizzati a ipotizzare che nel testo originale Daniele non fosse già un profeta, ma l'angelo Daneel ("Dio è giusto") menzionato nel Libro di Enoch (non compreso nel canone biblico), uno degli angeli mandati da Dio ad ammaestrare gli uomini nell'era antecedente al diluvio. Questo Daniele avrebbe però ceduto al fascino delle femmine dell'uomo, generando i nefilim o giganti (Genesi 6,4). Il libro di Enoch è relativamente recente (primo secolo aC), il che lo rende una specie di fanfiction biblica: ma un angelo caduto simile a Daniele compare già nella letteratura dell'antichissima città mediorientale di Ugarit, un millennio prima.

Oltre ad avere ispirato generazioni di martirologi, i tre compagni di Daniele hanno anche lasciato un segno importante nella poesia. Le due preghiere che intonano tra le fiamme ci sono pervenute solo nella versione greca, ma sono due salmi fatti e finiti: in particolare il primo (la "preghiera di Azaria") è una struggente riflessione sulla sorte di un popolo in esilio ("Ora non abbiamo più né principe né profeta né capo né olocausto né sacrificio né oblazione né incenso né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia"). Il secondo (il "Cantico dei tre giovani nella fornace") troverà tra i suoi estimatori e imitatori lo stesso Francesco d'Assisi: non il primo a subire il fascino di un invito martellante a "benedire il Signore", rivolto non solo agli uomini, ma a tutte le creature dell'universo. Sarebbe anche un bel finale per questo pezzo.

Invece devo citare un'altra poesia: "Se dovessi morire, che questo porti speranza, che questo sia un racconto". L'ha scritta un poeta palestinese, Refaat Alareer. Alareer non stava combattendo al fianco di Hamas, ma trovava l'offensiva di Hamas perfettamente giustificabile. Aveva curato più di un'antologia di scrittori della Striscia; stava facendo il possibile per raccontare al mondo la quotidianità di Gaza sotto i bombardamenti ed era anche attivo su X, dove all'ennesimo tweet che riciclava la storia del bambino nel forno aveva replicato: "con o senza condimenti?" La battuta era stata ripresa dalla giornalista americana Bari Weiss, scandalizzata che qualcuno osasse scherzare sulla storia del bambino nel forno. Bersagliato da tweet ostili, Alareer aveva risposto: se verrò ucciso o la mia famiglia sarà danneggiata, la colpa ricada su Bari Weiss. Il 6 dicembre, il palazzo in cui viveva fu bombardato con una precisione che l'ONG Euro-Med ha definito "chirurgica": tra le vittime, oltre ad Alareer, il fratello, la sorella e quattro nipoti. 

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Vi siete vestiti, ma non vi siete scaldati

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16 dicembre: Sant'Aggeo, profeta del Secondo Tempio (VI sec aC). 

There must have been a door when I came in... 

Verso il 520 aC l'esilio babilonese è considerato concluso; per intercessione di Ciro, scià di Persia, Gerusalemme e i suoi dintorni erano stabilmente controllati da una comunità di ebrei rimpatriati da Babilonia, che si riconosceva nella fede nell'unico Dio, il "Signore degli eserciti", nella sua legge e nei suoi rituali. E tuttavia qualcosa non stava funzionando: i fedeli che avevano seguito il leader Zorobabele e il sommo sacerdote Giosuè, credendo alle promesse bibliche di una terra promessa, dovevano constatare che in zona non scorrevano esattamente il latte e il miele. A interpretare questo scoramento è un altro brevissimo libro attribuito a un profeta di nome Aggeo. 

Avevate seminato molto, ma avete raccolto poco; 
avete mangiato, ma non da togliervi la fame; 
avete bevuto, ma non fino a inebriarvi; 
vi siete vestiti, ma non vi siete scaldati; 
l'operaio ha avuto il suo salario, 
ma per metterlo in un sacchetto forato

Aggeo non solo inquadra il problema, ma presenta la soluzione: il Signore degli eserciti è insoddisfatto, perché i nuovi israeliti dopo aver costruito le loro case hanno abbandonato il cantiere del suo tempio, iniziato pochi anni prima e già in rovina. Questo forse a causa di un protratto stato di guerriglia con altre comunità che non riconoscevano la preminenza dei rimpatriati da Babilonia, come i Samaritani: ma è una congettura, per Aggeo la Storia è solo il protratto esame di coscienza di un popolo che non riesce mai a seguire il dettato del padre divino e le orme degli antenati gloriosi. Eppure un futuro meraviglioso è alle porte: è lo stesso Aggeo a socchiuderlo. "L'argento è mio e mio è l'oro, dice il Signore degli eserciti: la gloria futura di questa casa sarà più grande di quella precedente". Con Aggeo la letteratura profetica comincia a tingersi di sfumature apocalittiche: l'età mitica di Davide e Salomone sbiadisce di fronte alla promessa di un futuro regno di rettitudine tra il cielo e la terra. 

È difficile ripassare la storia di Gerusalemme, e del suo popolo, senza alimentare il sospetto di una millenaria coazione a ripetere. Gli ebrei che avevano scelto di tornare da Babilonia non erano la maggioranza né degli ebrei babilonesi, né di quelli che non si erano mai spostati da Israele. Per qualche motivo ritenevano comunque di essere i più importanti: il popolo scelto dal Signore. Nel loro Libro si raccontava di un esodo più antico, dall'Egitto alla Terra Promessa, ordinato da Dio: oggi gli storici tendono a escludere che questo esodo sia mai avvenuto. È probabile invece che si tratti di una narrazione propagandistica, elaborata per fornire a una comunità religiosa un movente per un'emigrazione di massa. Gli ebrei che avevano prodotto quella narrazione non solo credevano in JHWH, Signore degli eserciti, ma lo ritenevano l'unico Dio: non semplicemente superiore agli dei degli altri popoli, ma unico; un'innovazione – il monoteismo – che avrebbe goduto di un certo successo nel bacino del Mediterraneo e oltre. Può darsi che si trattasse di una comunità di intellettuali, se è vero che discendevano dagli esuli di settant'anni prima: i Babilonesi avevano deportato soprattutto la classe dirigente. Ma una volta tornati a Gerusalemme, non è chiaro chi avrebbero dovuto dirigere. Sin dall'inizio qualcosa non va; i primi lavori di costruzione del Tempio vengono ostacolati da non meglio precisati "nemici di Giuda e di Beniamino" (Esdra 4). L'autore di Esdra riferisce che sarebbero stati inviati in zona da un re di Assiria, proprio come Zorobabele era stato inviato da Ciro; ma non li identifica con nomi di altri popoli, così frequenti in altre pagine del Libro: non sono Filistei, né Ammoniti, né Moabiti né Siri né Assiri: insomma, chi sono? 

Giuda e Beniamino sono le due tribù a cui appartenevano i rimpatriati da Babilonia: è insomma lo stesso testo a suggerirci che i "nemici" siano gli ebrei delle altre dieci tribù, quelle che vivevano a nord di Gerusalemme e che in seguito sono state date per perse, mentre invece come la Lettera di Poe erano rimaste lì, proprio dove era così facile trovarle che nessuno le cercava: a casa loro. Sì, alcuni certamente avevano dovuto andarsene: parte in Egitto per scappare dalle invasioni di Assiri e Babilonesi; parte deportati in Assiria, e parte appunto a Babilonia. Ma nessuna deportazione aveva veramente fatto il vuoto; e così quando i discendenti della classe dirigente del regno di Giuda erano tornati verso il 530 a stabilirsi intorno a Gerusalemme, si erano subito scontrati con... altri ebrei: samaritani del nord, ma probabilmente anche giudei del sud. Che si trattasse di rami dello stesso popolo l'autore di Esdra non vuole dircelo, ma lo suggerisce indirettamente  quando riconosce che questi supposti "nemici", in un primo momento, avevano proposto a Zorobabele e compagnia di costruire assieme il Tempio ("anche noi, come voi, cerchiamo il vostro Dio"), ricevendo uno sdegnoso rifiuto ("Non conviene che costruiamo insieme la casa del nostro Dio; ma noi soltanto la ricostruiremo al Signore Dio d'Israele"). Solo allora erano diventati veramente "nemici", e lo stesso autore del libro di Esdra deve ammettere che la loro ostilità non divenne guerra aperta, ma si espresse in una forma diplomatica: scrissero allo scià avvertendolo che "i Giudei, partiti da te e venuti presso di noi, a Gerusalemme, stanno ricostruendo la città ribelle e malvagia, ne rialzano le mura e ne restaurano le fondamenta. Ora sia noto al re che, se questa città sarà ricostruita e saranno rialzate le sue mura, tributi, imposte e diritti di passaggio non saranno più pagati e i diritti dei re saranno lesi". 

Ciro risponde rapidamente confermando la tesi dei "nemici": "Dietro mio ordine si sono fatte ricerche, e si è trovato che questa città fin dai tempi antichi si è sollevata contro i re e in essa sono avvenute rivolte e sedizioni. [...] Date perciò ordine che quegli uomini interrompano i lavori e che quella città non sia ricostruita, fino a nuovo mio ordine". L'ordine arriverà soltanto col successore Dario, almeno sette anni dopo. Nel frattempo, racconta Aggeo, i devoti a JHWH seminavano per raccogliere poco; mangiavano senza sfamarsi; bevevano senza inebriarsi; e custodivano il salario in un sacchetto forato. L'ostilità verso i "nemici" si era trasformata in segregazione: il sacerdote Esdra si stava battendo contro i matrimoni misti. E dire che la felicità era lì nei pressi, a un passo dalla realizzazione: sarebbe bastato completare quel tempio... 

Al Jazeera


Il Secondo Tempio sarebbe stato effettivamente inaugurato intorno al 515: è quello che Gesù avrebbe frequentato, e di cui avrebbe predetto la distruzione poi arrecata dai Romani nel 70 dC. Ne rimane in piedi il muro occidentale, detto anche muro del pianto. Progetti per ricostruirlo ne sono stati fatti diversi: ultimamente c'è meno pudore al riguardo, molti steccati che sembravano invalicabili sono ceduti di schianto. C'è persino chi si è già procurato i vitelli per il sacrificio di purificazione, dono di un allevatore evangelico texano, e questo malgrado gli ebrei non sacrifichino più animali da millenni; ma ultimamente c'è sempre più gente che legge quel Libro, è sempre più difficile evitare che qualcuno lo prenda alla lettera. L'ostacolo principale, fino a qualche mese fa, era notoriamente la presenza in sito di un altro tempio, eretto da dei "nemici" che hanno un altro Dio e non si sa bene da dove vengano, i cosiddetti palestinesi. In realtà si sa benissimo: vengono da lì, non si sono mai spostati, secondo gli studi genetici sono semiti tanto quanto gli israeliani, ma è un discorso antipatico a cui alludo per completezza; onestamente mi sento a disagio quando per stabilire chi ha più diritto a un tempio (o a una terra) si comincia a frugare nel DNA. Diciamo che vengono dalla stessa famiglia, ma mentre i cugini si sono sparsi nel mondo mantenendo la religione tradizionale (pur senza rinunciare a innovazioni e deviazioni), i palestinesi sono rimasti in sito e si sono via e via mescolati con chi arrivava, accettandone usi, costumi e religioni. L'idea di condividere un tempio, già respinta ai tempi di Esdra, oggi non è nemmeno formulabile. 

Così eccoci qui, a contemplare sconsolati i nostri sacchetti forati. Aggeo, questo piccolo e poco conosciuto profeta, oggi sembra il più attuale. Immagino che capiti a tutti quelli che riescono a farsi pubblicare per 2500 anni; prima o poi una profezia si avvera. E allora coraggio. Ciro ormai è tramontato, Dario arriverà a gennaio e ci darà tutti i permessi che servono. La felicità è appena oltre quel muro: dopodiché andrà tutto bene, mangeremo e ci sazieremo, berremo e ci inebrieremo, scorreranno il latte e il miele e fiorirà il deserto. L'argento è mio e mio è l'oro, dice il Signore degli eserciti.
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Con ansias en amores inflamada

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14 dicembre: San Giovanni della Croce, mistico ed erotico (1542-1591)

Attribuito a Zurbarán
Quando fu l'ora di morire, sul letto in cui agonizzava, Giovanni della Croce – già acclamato come santo dal popolo, ma trattato con diffidenza dai confratelli, che non forse non gli dedicavano le cure necessarie, avendo anch'essi magari fretta che in quanto santo si levasse al cielo e dai piedi – quando fu l'ora di morire, piagato da un'infezione acuta della pelle, nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591, Giovanni della Croce chiese che gli leggessero il suo libro preferito, ovvero il Cantico dei Cantici. E qui dovrei mettere punto e rinunciare anche stavolta: non posso scrivere un pezzo su Giovanni della Croce, non posso pretendere di capirlo. Tra me e lui c'è un abisso, e in fondo a questo abisso c'è appunto il Cantico, che per Giovanni era la più sublime espressione della grazia di Dio. Per me invece è una collana di poesie erotiche, alcune anche piuttosto spinte. Capite che non può esserci dialogo. Giovanni della Croce, che pure fu un brillante studioso, a un certo punto scelse di leggere soltanto la Bibbia, e in mezzo a tanta verità biblica, tanta storia, tanto mistero, trovò normale fissarsi sulle pagine in cui un'amata dice al suo amato, tra le altre cose: "Corri sui monti profumati". Giovanni della Croce dedicò una parte della sua vita (peraltro piuttosto operosa, persino avventurosa) a sondare i mistici significati di un versetto del genere, che a me fa venire in mente soltanto un paio di posizioni sessuali, e ci tengo a precisare che non credo di avere ragione io, voglio dire, l'esegesi non è uno sport, nessuno tiene i punti; non è neanche un processo, nessuno impugna il martelletto. Anzi sono pronto a concedere che le interpretazioni di Giovanni della Croce siano molto più interessanti della mia, perlomeno meno banali. Ma non posso comunque condividerle, con tutta la mia buona volontà non riesco ad accettare che un grande poeta e mistico e filosofo abbia passato la vita a sgranare una collana di poesie erotiche scambiandole per gradini verso l'ascesi la beatitudine la grazia, mi sembra una barzelletta triste o un racconto di fantascienza in cui alla fine si scopre che il Libro su cui era stata fondata un'intera civiltà è un libro di barzellette di Pierino. 

La coscienza è un gioco di specchi. Se mi chiedo perché Giovanni per tutta la vita ha cercato di vedere Dio dove c'era una ragazzotta mora ma formosa, non posso che immaginarmi Giovanni, dall'altra parte dello specchio, che si chiede perché devo per forza vedere dappertutto ragazze more (ma formose). Perché pensi solo al sesso, mi chiede? (Ma sa già la risposta: è il demonio). No, Giovanni, sei tu che al sesso non vuoi pensarci, a causa di una pressione sociale che ti imponeva un innaturale regime di castità. Risponde: ma secondo te al sesso davvero non ci pensavo? Hai fatto caso che ho passato interi anni della mia vita in monasteri... femminili? Ad Avila per tre anni sono stato il padre spirituale di centotrenta monache. Le confessavo tutte, capisci, in fatto di donne credi davvero di saperne più di me? Credi di avere avuto amiche più complicate di Teresa d'Avila, o di Anna del Gesù? E soprattutto: credi di avere avuto una vita sessuale più realizzata della mia, soltanto perché accetti di farti ispirare dal demonio ogni volta che ne ha voglia, a causa di una pressione sociale che ti vuole perennemente irradiato da immagini intriganti; credi che la tua fregola pressoché costante sia un regime più vicino alla natura, o alla felicità? Perché magari ti sbagli, in fondo che ne sai. 

Va bene Giovanni, mi sbaglio. Ci sbagliamo tutti, prendiamo i nostri usi e costumi come pietra di paragone per giudicare quelli dei secoli passati, senza nemmeno verificare se siano usi e costumi replicabili, se non dipendano da parametri economici effimeri, che forse stanno già cambiando e potrebbe essere il motivo per cui siamo molto meno felici e realizzati di quanto dovremmo essere. Tu invece sei stato felice, o almeno vorresti tanto farmi credere in questo. Hai scelto la vita contemplativa, hai scoperto quanto fosse tortuosa, hai scoperto che persino nella voluttà di ricevere i sacramenti possono nascondersi la gola e la lussuria, che persino i digiunatori possono digiunare per vanità; hai scoperto con orrore tutto questo e proprio quando ti sembravi perso, in una notte oscura, con ansias en amores inflamada (o dichosa ventura) hai trovato la strada giusta, la via verso la grazia. Tutto giusto. Non credo a una parola, Giovanni. 

Tu eri nato per scrivere poesie d'amore, e in un altro secolo lo avresti fatto, magari tra un'impresa cavalleresca e l'altra. Ma siamo nel Cinquecento, i prezzi in Castiglia non fanno che salire e nessuno capisce come mai, proprio adesso che sta arrivando tanto oro dalle Americhe... tuo padre si è declassato per sposare una tessitrice, gli affari vanno male, tu sei portato per gli studi e in breve tempo la carriera ecclesiastica diventa l'unica praticabile per un secondogenito studioso senza amici in paradiso. Entri in un monastero carmelitano, e a 25 anni incontri Teresa D'Avila, che ha il doppio dei tuoi anni e vuole riportare le carmelitane ai vecchi costumi ascetici di un tempo. Certi monasteri ormai sono alberghi per le signorine di buona famiglia che le buone famiglie non vogliono accasare; non è senz'altro così che si diventa santi e anche tu sei d'accordo, ma appunto, tu hai vent'anni e lei cinquanta: non ti viene in mente che dovendosi trovare un direttore spirituale per il suo nuovo monastero, non abbia scelto te perché eri così giovane e malleabile? Dietro a tante mistiche di successo, c'è un padre spirituale che invece di prenderle per matte si segna le visioni e comincia a sparger voce che c'è una santa in città; con te e Teresa sembra successo l'opposto. Cerchi di riformare i carmelitani come lei ha fatto col ramo femminile, ma siamo nel Cinquecento e questa parola, "riforma", è la più pericolosa che si possa usare in Spagna. I pezzi grossi dell'ordine ti perseguitano; finisci in cella un paio di volte, e lì non digiuni più per la vanità di digiunare, ma perché proprio da mangiare te ne danno punto o poco; non ti frusti più per lussuria, ma sono gli altri a frustarti perché non ritratti determinati punti di dottrina; non preghi più per la vanità di pregare, ma perché sei solo in una stanza oscura. E ritrovi Dio, di questo sei convinto. Sicuramente ritrovi la poesia, perché non hai nemmeno carta per scrivere i tuoi pensieri, e non ti resta che compitarli a memoria, puntellandoti con rime e prosodia. Scrivi poesie d'amore talmente pure che l'oggetto dell'amore è secondario; potrebbe essere Dio come una ragazza come qualsiasi altra cosa. In pratica riscrivi il Cantico dei Cantici, e forse lo scrivi anche meglio dell'originale, perché non c'è dubbio che tu sia un grande poeta, Giovanni, un sorso d'acqua limpida prima che tutto diventi tortuoso e barocco. E quando sarai di nuovo libero, quando le tue amiche monache ti chiederanno cosa significano quelle stanze così chiare a chiunque abbia amato un poco, tu farai proprio come gli esegeti medievali dei Cantici, e diventerai l'interprete anagogico delle tue poesie erotiche. Cosa dire. 

Non lo so, Giovanni, forse c'era una strada più dritta, ma ognuno trova quella che può; senz'altro la tua non l'hai scelta per pigrizia, o perché fosse la più praticata ai tuoi tempi. Non posso dire lo stesso di me, e quindi ti ammiro. Credo che la coscienza sia poco più di un labirinto di specchi; credo che per un po' sei riuscito a fare così buio nella tua anima da illuderti di averli superati, e quando finalmente hai sentito di nuovo qualcosa, hai pensato che fosse Dio, e sei stato davvero felice. Perché no. Se è successo, sono contento per te. Ma non riesco a immaginare che quel volto benigno che finalmente ti perdonava, e ti riconosceva, e asciugava le tue lacrime, non fosse che l'ennesimo specchio. Mi dispiace, non ho abbastanza immaginazione. O è il demonio, perché no.

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Daniele l'incolonnato

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11 dicembre – San Daniele lo stilita (409-493)

Menologion di Basilio II

Gli stiliti sono quella sottocategoria di eremiti che invece di rintanarsi in qualche grotta, o isolarsi nel deserto, si issano sulla cima di una colonna di qualche tempio diroccato e cercano di restarci per tutta la vita, pregando, meditando e attirando un sacco di curiosi. Sono insomma i più esibizionisti tra gli asceti, un curioso paradosso, e fa un po' effetto pensare che siano esistiti davvero, senza morire nel giro di pochi mesi. Daniele di Maratha, ad esempio, quando salì sulla sua colonna nei pressi di Costantinopoli nel 459 (seguendo l'esempio di San Simone il Vecchio, che aveva ammirato da ragazzino e che gli aveva lasciato in eredità il mantello) aveva già cinquant'anni, e ci avrebbe vissuto per altri 33. Sembra impossibile, ma la sua leggenda non è priva di dettagli realistici; in particolare non omette il dettaglio delle ferite ai piedi, che dovevano colpire particolarmente i fedeli che andavano a trovarlo. Daniele non stava rannicchiato su un piccolo capitello ma aveva a disposizione una vera e propria piattaforma, e a un certo punto un imperatore gliene costruì un'altra unita alla prima con un ponte: infine, durante un inverno particolarmente rigido, sulla struttura venne costruita una vera e propria piccola abitazione. 

Il fatto è che Daniele, che si era ritirato sulla colonna forse per evitare un incarico di responsabilità presso il suo cenobio, in breve tempo era diventato un punto di riferimento, se non una vera e propria attrazione turistica: i malati andavano a chiedergli una benedizione (e a volte sostenevano di essere guariti), l'imperatore stesso si sentiva onorato di poter salire fino a toccargli i piedi e chiedergli consigli perché è buffo, ma la prima cosa che ci viene in mente quando vediamo una persona fare una scelta estrema come montare su una colonna e non scendere più, è che quella persona sia particolarmente saggia. Uno che non voleva invece andare a trovarlo era l'Arcivescovo di Costantinopoli, probabilmente invidioso della sua fama: fu lo stesso imperatore a costringerlo. Daniele era ormai una figura pubblica e non poteva sottrarsi dai dibattiti che dilaniavano la società costantinopolitana: dovette persino temporaneamente scendere dalla colonna per incontrare il nuovo imperatore (l'usurpatore Basilisco) e rimproverarlo davanti a tutti perché sosteneva l'eresia monofisita. Basilisco fu poi sconfitto da Zenone che si recò subito in pellegrinaggio alla colonna di Daniele. Alla sua morte, Daniele fu sepolto alla base della colonna che si era scelto tanti anni prima. 

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Anna che muoveva le labbra

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9 dicembre: Sant'Anna, madre del profeta Samuele (XI secolo aC). 

Gerbrand van den Eeckhout

Com'è noto la madre di Maria di Nazareth è Anna, anzi Sant'Anna. Purtroppo si tratta di un personaggio completamente inventato dall'autore del Protovangelo di Giacomo. Quest'ultimo, come ogni falsario scrupoloso, non si è fatto venire in mente una madre della Madonna del nulla, ma ha cercato di rifarsi a un modello che non ne facesse troppo risaltare il carattere fittizio. Così come i restauratori, quando aggiungono a un quadro un pezzo mancante, si ispirano ai colori e allo stile del resto del quadro, così il protoevangelista ha ben pensato di rifarsi a un'altra madre di cui si legge nella Bibbia. Perciò c'è davvero un'Anna che può dirsi madre di Maria, almeno dal punto di vista letterario e narrativo. Non è quella che si festeggia il 26 luglio, ma la madre del profeta Samuele, con la quale comincia il primo libro omonimo; e in senso lato la storia del regno di Israele, perché sarà proprio Samuele a consacrare i primi due re, Saul e Davide. 

Anche la storia di Anna non sembra terribilmente originale, specie se abbiamo letto i libri precedenti. È una donna che non riesce ad avere un figlio dal marito Elkana; condizione aggravata dal fatto che l'altra moglie di Elkana, Peninna, di figli ne ha già parecchi, né ha la delicatezza di non farlo notare ad Anna: anzi "l'affliggeva con durezza a causa della sua umiliazione". Eppure Peninna doveva saperlo, che dalle mogli sterili nasce sempre qualche giudice o patriarca: prima di Anna era stata sterile Sara, moglie di Abramo; Rebecca, moglie di Isacco; Rachele, moglie di Giacobbe. In epoche più recenti aveva avuto difficoltà a concepire un figlio anche la madre dell'eroe Sansone, ed è forse a lei che sta pensando Anna, quando promette al Signore che se avrà un figlio lo consacrerà "per tutti i giorni della sua vita e il rasoio non passerà sul suo capo". È un voto che si riferisce evidentemente al nazireato, un rito di consacrazione previsto dalla Torah ma che qui non viene nominato. Mentre pronuncia questo voto solenne nel tempio di Silo, Anna viene notata dal sacerdote Eli, che la scambia per un'ubriaca perché Anna "pregava in cuor suo e si muovevano soltanto le labbra": una pratica – quella di pregare muovendo le labbra ma senza emettere un fiato di voce – che evidentemente Eli non conosceva, e questo malgrado fosse il guardiano dell'Arca dell'Alleanza. 

Eli, lo scopriremo più tardi, è un personaggio malinconico, evocato a rappresentare tutta un'epoca di decadenza che finisce proprio con la nascita di Samuele, suo successore. I suoi figli sono una delusione: disonesti e corrotti, fanno la cresta pure sul grasso dei sacrifici. È custode di Dio, ma Dio non gli parla – come invece parlerà a Samuele. E allo stesso tempo conosce i suoi limiti: quando Anna gli spiega il suo problema, la benedice ("Va' in pace e il Dio d'Israele ascolti la domanda che gli hai fatto"). Chi sia rimasto suggestionato dal Crollo della mente bilaterale di Julian Jaynes non può impedirsi di pensare che Eli sia già un uomo dotato di coscienza – ovvero anche in grado di elaborare i pensieri senza verbalizzarli; mentre Anna forse non sarebbe in grado di parlare con Dio (cioè un altro emisfero di sé stessa) senza formare parole almeno sulle labbra. Quanto a Samuele, il figlio che finalmente nascerà, egli sarà uno degli ultimi rappresentanti di quel tipo di "uomini bicamerali" che secondo Jaynes proprio in quel momento cominciavano a estinguersi: gli uomini portati a interpretare i pensieri dell'emisfero destro come voci degli Dei. I libri di Samuele sarebbero la migliore testimonianza letteraria di questo evento epocale: la transizione dalla mente bilaterale a quella cosciente. Una transizione graduale, ma violenta: perché man mano diventavano rari, gli uomini bilaterali venivano sempre più visti come profeti di una divinità che agli altri si celava. 

Come promesso a Dio, non appena il piccolo Samuele è svezzato Anna lo porta a Silo, dove sarà cresciuto da Eli. Per l'occasione, e prima di congedarsi dal lettore, Anna pronuncia un'ode commovente che ricorda molto da vicino il Magnificat, l'inno che Luca mette in bocca a Maria di Nazareth durante l'incontro con la cugina Elisabetta. In effetti Luca, col suo debole per i poveri, non poteva restare insensibile di fronte a versi come "L'ascia dei forti s'è spezzato, ma i deboli sono rivestiti di vigore. I sazi sono andati a giornata per un pane, mentre gli affamati han cessato di faticare". È più difficile capire che senso abbia questa sensibilità sociale nel personaggio di Anna, che fin qui non ne aveva dimostrata. La chiave forse sta nel verso successivo: "La sterile ha partorito sette volte, e la ricca di figli è sfiorita": in effetti questo senso di rivalsa serpeggia in tutte le Scritture, e non trova sempre un interprete delicato come Luca a smussare gli spigoli: tante altre volte i deboli diventano arroganti, massacrano i loro massacratori, e continuano a sentirsi minacciati anche dopo aver fatto il deserto intorno a loro. Samuele, in effetti, passerà la vita a seguire le voci di un Dio scostante che gli ordinerà di consacrare un re e poi un altro, con le guerre fratricide che ne seguiranno. E tremila anni dopo siamo ancora qui, e non sappiamo se temere più le asce dei forti o il vigore dei deboli. 

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Basso e Lucido, i santi sbagliati

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5 dicembre – San Basso di Nizza, martire della città sbagliata

Abbiamo già visto quanto siano importanti, in agiografia, gli errori. Probabilmente è inevitabile, in una materia fatta di parole copiate e ricopiate a oltranza, finché qualcuno non sbaglia una lettera e non ne crea di nuove. Undicimila martiri a Colonia esistono semplicemente perché qualcuno si è sbagliato a leggere una lapide. Santa Cecilia è diventata patrona della musica per un errore di trascrizione. Certi santi si sono sdoppiati perché qualcuno non ha letto bene com'era scritto il nome, e lo ha copiato con una grafia diversa. E a Nizza a un certo punto hanno scoperto di avere un martire importante, vescovo della città. Lo hanno scoperto trovandolo nel Martirologio Romano, la lista ufficiale dei santi cattolici, a partire dal 1583, perché loro non ne avevano mai sentito parlare e sulla più antica lista dei vescovi nizzardi non risultava nessun Basso. Ma se lo aveva scritto Cesare Baronio, mica poteva sbagliarsi: e così Nizza cominciò a festeggiare San Basso. 

Quanto a Baronio, lui la lista dei vescovi di Nizza evidentemente non poteva consultarla; in compenso aveva a disposizione quella di Nicea in Bitinia (Asia Minore), e siccome non riusciva a trovarci il Basso di Nicea tramandato da una leggenda medievale, aveva ipotizzato che il sant'uomo fosse stato martirizzato nell'altra Nicea, che è appunto quella che noi chiamiamo Nizza. Sì, ma le reliquie? Le reliquie di un San Basso stanno a Cupra Marittima, provincia di Ascoli Piceno, ma probabilmente anche questo è un errore; potrebbe trattarsi in effetti di San Dasio, martirizzato sull'altra sponda dell'Adriatico: in fin dei conti basta fraintendere due lettere su cinque per leggere Basso dove c'era scritto Dasio. 

Ora vi chiederete che senso ha tutto questo, nell'era di internet. Tutti questi errori, non potremmo finalmente correggerli? Certo che potremmo. Ma sarebbe come spalare il mare con un cucchiaino, perché nel frattempo ne stiamo facendo altri. Molti altri. Internet è piena di errori, in fondo l'abbiamo sempre saputo. Ultimamente però è come se avessimo deciso di dimenticarcene; ad esempio vedo sempre più gente chiedere le cose a ChatGpt o altre cosiddette intelligenze artificiali, come se fossero motori di ricerca. E non lo sono. Ma se anche lo fossero, non sono che AI nutrite dei testi che hanno trovato su internet, e i testi che hanno trovato su internet, stavamo appunto dicendo, sono pieni di errori. Non dico sia già la biblioteca di Babele, ma allo stato presente Internet non ha davvero molto da invidiare a certe collezioni polverose e tarmate che ammuffivano nei monasteri medievali. Ci sono errori corretti con errori più grossi, referenze circolari, è quel tipo di caos che dovrebbe stimolare i filologi, ma non li paga nessuno. Faccio un esempio a caso: oggi, 5 dicembre, è anche la festa di

 

5 dicembre – San Lucido di Aquara (960-1038), monaco 

La terza statua,
sempre più lucida.
Lucido è uno di quei santi radicati nel territorio di provenienza, anche nel senso che fuori dalla sua zona non lo conosce praticamente nessuno; in compenso ad Aquara (SA) è riverito e venerato. Non ci è dato sapere quanto questa venerazione dipenda dalla rivalità tra Aquara e Teggiano, altro cento dell'entroterra salernitano: entrambi i santi patroni erano invocati nelle rispettive località sin dal medioevo, ma furono canonizzati ufficialmente soltanto a fine Ottocento, nel giro di nove anni (in un periodo in cui il Vaticano, spodestato da potere secolare, cercava di ingraziarsi i ceti popolari dei piccoli centri). Lucido divenne Santo nel 1880, Cono di Diano (o Teggiano) nove anni prima. Dei due, in effetti Cono è la figura più appariscente, non fosse che per la popolarità che si conquistò in Uruguay prima tra i giocatori del lotto e poi tra i tifosi della nazionale di calcio protagonista della più tragica delle finali di Coppa del Mondo. Da parte sua Lucido non può opporre prodigi così appariscenti e postmoderni; fu un monaco esemplare e intraprendente, passò da Montecassino e fondò più di un monastero, eccetera eccetera. Inevitabilmente, gli agiografi alla ricerca di qualche notiziola più piccante finiscono per soffermarsi sui furti; le reliquie di Lucido in effetti sono state trafugate almeno due volte in ottant'anni, non proprio un'emergenza criminalità, ma una coincidenza interessante. Del resto è tradizione che le reliquie siano custodite in una statua del santo d'argento, che farebbe gola ai ladri anche in regioni più ricche. 

È proprio dando un'occhiata ai due furti su Santiebeati che mi sono accorto che qualcosa non andava con le date. Il primo furto risalirebbe al 23 marzo 1895. Le reliquie (senza statua) sarebbero state trovate "in una crollante casa di campagna" addirittura novant'anni dopo, il 31 luglio del 1985! Ma si tratta di un banale refuso: il ritrovamento avvenne nel 1895. Altrimenti, quando arrivarono i ladri per il secondo furto, il 28 febbraio 1975, non avrebbero ancora trovato niente. Rimane da capire cos'è successo dopo: la statua è stata senz'altro rifatta, ma le reliquie? Una pagina di Wikipedia dice che la testa "fu ritrovata dalle forze dell'ordine in una casa privata nel 1999"; ma non cita fonti e soprattutto lo chiama San Lucido di Aquarara, una località che non credo esista. Si potrebbe anche correggere, senonché vi è almeno un altro sito che parla di "San Lucido di Aquarara"; per cui abbiamo un classico esempio di referenza circolare. Ovvero? ovvero probabilmente uno dei due siti ha copiato dall'altro, ma non ci è dato sapere quale. In un certo senso è troppo tardi, perché se provassi a correggere la pagina di Wikipedia, qualcuno mi farebbe notare che le informazioni sono prese da un'altra fonte; né potrei dimostrare che quella "fonte" in realtà ha soltanto scopiazzato Wikipedia. E io ho già fatto abbastanza danni con le referenze circolari, per cui preferisco tenermi alla larga. Forse coi manoscritti medievali era più facile. Cioè, si sbagliava anche allora. Ma per citare il poeta: si sbagliava da professionisti.

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Saturnino e il toro

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29 novembre – San Saturnino di Tolosa (III sec.), martire della tauromachia.

Quel che dico potrebbe non avere il minimo senso, ma la Francia, viaggiando, mi è sempre sembrata una grande frontiera. Probabilmente a causa di una secolare lotta tra la provincia e Parigi, (una lotta vinta da quest'ultima), le regioni francesi non possono opporre forti identità culturali a quella che si irradia dalla capitale: e quindi il loro modo di sentirsi distanti dalla capitale è rimarcare la loro vicinanza alle nazioni confinanti. Così per esempio la Provenza ci tiene molto più del necessario, a farti sentire a un passo dall'Italia; ma appena passi Marsiglia, ecco che dappertutto cominciano a spuntare raffigurazioni di tori; molti più tori di quelli che si vedranno una volta varcati i Pirenei. All'immagine di un toro è anche associato il santo più popolare della regione. Si chiama Saturnino, tipico nome pagano: ma come escludere la possibilità che derivi dalla contrazione di Sanctus Taurinus? Il nome del resto variava a seconda delle regioni: Atorne, Atournis, Sadourny, Satornis, Saturnin, Saunin, Sauny, Saurin, Savorgnan, Savournin, Sorlin, Somin, Urnel, Cenin, Zaormino. In Italia esisteva un Saturnino martire a Roma, con una leggenda completamente diversa, senonché sarebbe stato martirizzato anche lui il 29 novembre; mentre il Saturnino patrono di Cagliari ricorre il 30 ottobre: ma sappiamo che anche il Saturnino di Tolosa, nel medioevo, veniva festeggiato lo stesso giorno. I tolosani lo sostenevano contemporaneo degli apostoli, il che avrebbe fatto di Tolosa la prima città delle Gallie ad avere un vescovo cristiano. È più probabile che sia vissuto nel terzo secolo, comunque molto presto perché l'unico santo gallico più antico che conosciamo è Ireneo di Lione

Insomma di Saturnini potrebbero essercene stati diversi, per cui era facile confondersi; il tolosano si riconosceva perché nelle immagini era spesso accostato a un toro imbizzarrito. La sua leggenda più diffusa (Passio Saturnini), redatta nel V secolo, racconta che avrebbe suscitato le ire dei sacerdoti pagani perché ogni volta che passava davanti al tempio di Giove, i tori sacrificati non davano più responsi attendibili: con quello che doveva costare il sacrificio di un capo di bestiame. Perciò sobillarono una folla che lo sequestrò e cercò di obbligarlo a sacrificare un toro agli dei. Al suo rifiuto, lo legarono al collo dello stesso toro, che opportunamente pungolato lo avrebbe trascinato per tutta la città, uccidendolo. La leggenda è più originale e credibile di tante altre: non allunga il brodo con guarigioni miracolose, né evoca persecuzioni da parte delle autorità imperiali. È l'asciutta cronaca di un linciaggio, ma sembra anche alludere alle tauromachie che dovevano essere già popolari nelle Gallie. Non è un caso che Saturnino sia patrono anche di Pamplona, benché in città la festa dei tori sia dedicata a un altro santo, Fermino. Siccome in francese "Sernin", Saturnino, non suona così diverso da Fermin, può persino darsi che nell'alto medioevo si trattasse dello stesso santo. Da secoli però Saturnino viene considerato il vescovo gallico che battezzò Fermino. 

Gli storici chiamano inculturazione il procedimento con cui i cristiani inglobavano nelle loro tradizioni quelle pre-esistenti pagane, cambiandone il senso e modificandone la narrativa. La leggenda di Saturnino attesta almeno un tentativo di inculturazione della corrida. Tentativo magari lasciato a metà perché alla fine la plaza de toros non è che si prestasse molto al messaggio evangelico. È anche impreciso affermare che Saturnino sia il patrono delle corride, come si legge in molti siti, però tutti italiani: gli spagnoli gli preferiscono appunto Fermino, o Pietro Regalado, il francescano che a Valladolid ammansì miracolosamente un toro scappato dall'arena.

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Il santo che gridava al lupo, al lupo

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28 novembre: San Giacomo della Marca (1393-1476), predicatore e inquisitore

Museo Cerralbo, Madrid
Giacomo divenne santo perché da bambino non voleva più pascolare le pecore. Ai tempi si chiamava Domenico, e ai fratelli raccontava di aver visto un lupo. La cosa non doveva poi essere così improbabile, eppure non gli credevano: oppure credevano che dovesse cavarsela da solo. Invece una sera non tornò all'ovile, e dopo averlo cercato in lungo e in largo i fratelli lo trovarono a Offida, ospite di un prete suo parente che lo aveva messo a studiare. E siccome per lo studio sembrava portato, invece di bastonarlo un po' e riportarlo a casa, il fratello lo lasciò lì. Il che mi conforta nell'opinione che invece di portare i ragazzi delle medie a vedere le superiori, dovremmo mostrargli le miniere; e che l'unica vera utilità degli stage scuola-lavoro, oggi, sia quella di convincere gli studenti a rientrare a scuola, e organizzarsi per restarci il più possibile. Forse dovremmo mandarli a pascolare, tutti, una o due settimane in settembre, ora che tra l'altro i lupi sono tornati. Riscoprire il vero Don Milani, quello che lasciava scrivere ai suoi studenti allevatori "la scuola sarà sempre meglio della merda": e affinché non resti un vuoto aforisma, mandarli a spalare letame finché non implorano di memorizzare le coniugazioni. Oppure riportare in auge certe vetuste occupazioni industriali: la fresa, la mola, e persino le miniere, perché no? Certo, c'è il rischio che qualche studente preferisca vedersela coi lupi che con gli insegnanti: ma è una sfida che noi insegnanti dovremmo saper cogliere. 

Con Giacomo il lupo funzionò. Del resto ogni secolo ha gli ascensori sociali che può: nel quindicesimo un ragazzo marchigiano di umili origini e deciso a studiare non poteva probabilmente trovare di meglio che un saio francescano. Allievo del grande Bernardino da Siena, la star assoluta della predicazione tre-quattrocentesca, Giacomo si distinse presto non solo per l'arte oratoria ma anche per la determinazione con cui in coppia con l'inquisitore Giovanni da Capestrano cacciava e mandava al rogo i "fraticelli", ovvero i francescani estremisti, colpevoli di interpretare la Regola francescana in una versione oltranzista che probabilmente era quella più vicina all'originale, ma la meno gradita alle gerarchie temporali e spirituali. Questo non impediva loro di coltivare propositi vendicativi e criminali, visto che un paio di volte tentarono di farlo fuori; del primo attentato, avvenuto nel  1426, sappiamo anche il prezzo pattuito coi sicari: 200 ducati per ammazzare Giacomo, 500 per Giovanni.

Inviato dal papa in Bosnia contro gli eretici bogomilli, e più tardi in Boemia (oggi repubblica Ceca), dove Jan Hus aveva fatto da poco scoccare la prima scintilla della riforma protestante, Giacomo che da bambino non aveva voluto difendere le sue pecore dal lupo, passò tutto il resto della sua lunga vita a difendere l'ortodossia cattolica: e malgrado questo corse lui stesso il rischio di passare per eretico, quando nel 1462 sostenne pubblicamente che il sangue versato da Cristo potesse essere oggetto di venerazione (quella che si deve ai santi) ma non di adorazione (quella che i cristiani devono riservare a Dio): per Giacomo il sangue, di cui si conservavano evidentemente alcune reliquie, si era separato dalla divinità durante la Passione. L'argomento riapriva una diatriba ormai secolare coi domenicani, che sostenevano l'esatto contrario, e Giacomo aveva avuto l'ardire di parlare del sangue di Cristo predicando ai bresciani, proprio mentre l'inquisitore lombardo era un domenicano, Giacomo Petri. Ne derivò una lunga contesa che terminò salomonicamente quando Pio II, convocati i due Giacomi a Roma, impose a entrambi il silenzio sull'argomento: per cui se mi chiedete oggi se per i cattolici il Sangue di Cristo sia adorabile o venerabile, onestamente non lo so, forse non è neanche più lecito esprimere un parere; per fortuna abbiamo altri problemi. Giacomo della Marca morì quindici anni dopo, quando aveva passato l'ottantina: coriaceo e longevo come molti suoi colleghi predicatori. Ma la polemica sul Sangue, che gli aveva amareggiato gli ultimi anni di vita, ne complicò probabilmente anche il percorso verso la canonizzazione, terminata soltanto nel 1726. Nel frattempo Giacomo era stato un po' dimenticato: i pittori preferivano popolare le Sacre Conversazioni di santi già canonizzati e al di sopra di ogni polemica, e quando finalmente poterono includere Giacomo, non sapevano bene come distinguerlo dagli altri predicatori francescani secchi e smunti, come Bernardino da Siena o Bernardino da Feltre. Alcuni, avendo sentito parlare della diatriba del Sangue, gli mettevano in mano un'ampollina, ma possiamo immaginare che i vescovi non apprezzassero l'idea: un Santo dovrebbe essere identificato dalle sue azioni, possibilmente miracolose, e non da polemiche censurate del Papa. Per cui a volte dall'ampolla spunta un serpente, il che alluderebbe a un altro attentato ai danni di Giacomo, ordito dai soliti terroristi fraticelli, da cui si sarebbe miracolosamente salvato. 

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Abbone e la Grande Delusione

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13 novembre: Sant'Abbone (945-1004), abate di Fleury alla vigilia della fine del mondo


In questo megalibro già caotico e farraginoso che è l'internet, pochi mesi prima che l'intelligenza artificiale lo riscriva da capo (magari più caotico di prima), Sant'Abbone di Fleury è conosciuto tra l'altro per aver composto "alcuni scritti di calcolo e di astronomia per confutare l'opinione di coloro che annunziavano la fine del mondo per l'anno mille". Ma sarà vero? Probabilmente no. 

Si tratta del classico fattoide da agiografia sbrigativa, un difetto tipico delle brevi biografie dei santi on line che molto spesso sono compilate da gente che ha fretta e non sa di cosa sta parlando, insomma stagisti che copiano. E se con gli anni è inevitabile che si copino a vicenda, bisogna dire che almeno il primo della catena sapeva cosa stava citando: nientemeno che la Bibliotheca Sanctorum, l'enciclopedia ufficiale dei santi pubblicata dall'Istituto Giovanni XXIII. Malgrado una fonte così autorevole, Abbone questi scritti per confutare i millenaristi non dovrebbe averli scritti. 

Per quel che ho capito, Abbone menziona i millenaristi soltanto in un breve passaggio del Liber Apologeticus. "Sul soggetto della fine del mondo ascoltai predicare al popolo, in una chiesa di Parigi, che alla fine dell'anno Mille sarebbe giunto l'Anticristo e che di lì a poco sarebbe seguito il Giudizio Universale. Ma io combattei con tutte le mie forze questa asserzione con l'aiuto del Vangelo, dell'Apocalisse e del libro di Daniele". Il problema della fine dei tempi non è una questione astronomica o matematica, ma si indaga con lo studio dei testi sacri. Non c'era dunque esigenza di mettersi a fare calcoli, che in una chiesa di Parigi magari avrebbero perplesso l'uditorio, ma che Abbone avrebbe comunque potuto fare: tra le altre cose fu un buon matematico, nella delicata epoca di transizione tra numeri romani e arabi. 

Come nota Georges Duby, se questo è tutto quello che Abbone aveva da dire sull'argomento (e queste parole le scriveva intorno al 998!) si può arguire che la paura del Mille non fosse questa grande ossessione collettiva. Qualche predicatore ne stava parlando a Parigi, tutto qui; è probabile che i millenaristi nel 998 fossero più rari degli sciachimisti oggi. Eppure è da questo cenno di Abbone che scaturirà, nei secoli successivi, la leggenda del panico dell'Anno Mille: quella così ben romanzata da Giosue Carducci nel primo discorso Dello svolgimento della letteratura nazionale

"E che stupore di gioia e che gridò salì al cielo dalle turbe raccolte in gruppi silenziosi intorno a' manieri feudali, accasciate e singhiozzanti nelle chiese tenebrose e ne' chiostri, sparse con pallidi volti e sommessi mormorii per le piazze e alla campagna, quando il sole, eterno fonte di luce e di vita, si levò trionfale la mattina dell'anno mille!" 

Carducci

...e così via. A questo Carducci, tra l'altro, credo si debba la fortuna dell'espressione "Mille e non più mille", che in questo discorso attribuisce a Gesù. La sua composizione è già cinematografica, somigliante più a un disaster movie che a un bozzetto di vita medievale: ci sono "turbe raccolte" intorno a oscuri castelli, che aspettano singhiozzando una catastrofe: e invece sorge il sole. Bella scena ma impossibile, che più che dell'Alto Medioevo definisce la sensibilità melodrammatica dell'autore. Per esempio: ai tempi i giorni si contavano dal crepuscolo, e quindi se le "turbe" si fossero davvero aspettate qualcosa allo scoccare del millennio, si sarebbero radunate prima del tramonto. Ma di che giorno, visto che in ogni città gli anni si contavano a partire da un giorno diverso? E a proposito, chi li contava? Il computo a partire dalla nascita di Cristo era ancora una curiosità degli eruditi. Ottocento e più anni dopo, a Carducci premeva soltanto introdurre il luogo comune sul Medioevo come epoca buia con un'immagine memorabile, e non c'è dubbio che ci sia riuscito. È un grande narratore, che forse stiamo un po' sottovalutando; però neanche i grandi narratori inventano una scena da zero; c'è sempre qualche suggestione nascosta nella loro memoria. E siccome non può trattarsi di una suggestione medievale – quando non esisteva la semplice idea di un evento "Fine del mondo" sincronizzato e attesa da più comunità nello stesso continente – non resta che immaginare che Carducci avesse in mente un episodio avvenuto molto più recentemente. Il discorso in questione, Carducci lo pronunciò nel 1860, appena insediatosi sulla cattedra di "Eloquenza italiana"; forse a quel punto nemmeno se lo ricordava, ma non è improbabile che avesse sentito parlare della Grande Delusione del 1844.

La Grande Delusione del 1844 è uno degli episodi cruciali della storia religiosa degli USA: storia molto più intricata di quanto non si creda; non è nemmeno escluso che non possa essere veramente intrecciata con la fine del mondo – o più banalmente con la fine della nostra civiltà – perché le profezie, se uno insiste a crederci, possono davvero autoavverarsi. Così può darsi che il vero medioevo da cui Carducci attingesse le sue immagini non fosse quello europeo, ma gli USA suoi contemporanei dove una vasta comunità di protestanti si era veramente raccolta in attesa del Secondo Avvento di Gesù, in una data precisa: il 21 marzo del 1844. Venivano chiamati "milleriti", in quanto seguaci degli insegnamenti di William Miller, il quale leggendo l'ottavo capitolo del Libro di Daniele si era persuaso che il Secondo Avvento fosse imminente, e più probabilmente schedulato tra il 21/3/1843 e il 21/3/1844. Siccome in Daniele 8,14 il profeta sente un santo affermare "Ancora 2300 sere e mattine! Allora sarà fatta giustizia al santuario", Miller aveva arbitrariamente deciso che "sere e mattine" significava "anni solari", e aveva tentato di calcolare in che anno cadesse il 2300mo anniversario della profezia. Il che significava tra l'altro trovare una datazione al Libro di Daniele, uno dei più spuri e rimaneggiati di tutta la Bibbia: un collage di racconti e rivelazioni in tre lingue diverse. Miller comunque era convinto di esserci riuscito: e migliaia di persone gli avevano creduto. Né smisero di credergli all'alba del 21/3/1844, visto che a quel punto, avendo acquisito una miglior conoscenza dei calendari ebraici di duemila anni prima, Miller aveva spostato la data al 18 aprile. Quando anche il sole del 18 aprile fu tramontato, Miller ammise letteralmente il suo errore ai lettori della sua rivista ("I confess my error, and acknowledge my disappointment"), ma non smise di considerare il Secondo Avvento una questione di giorni o di mesi; il che del resto dovrebbe fare ogni buon cristiano dopo aver letto Matteo 25,13 ("Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno, né l'ora in cui il Figlio dell'uomo verrà"). 

Un altro predicatore, Samuel S. Snow, non ancora stanco di delusioni, in estate comunicò di avere calcolato che la Rivelazione andava attesa fino al 22 ottobre. Come potete facilmente immaginare, anche quest'ultima previsione fu disillusa, e qualcuno cominciò a spazientirsi. Tra i milleriti c'era chi aveva venduto tutte le proprietà, non potendo portarsele in cielo; probabilmente c'era anche chi aveva pensato di provvedere alla sussistenza della propria famiglia facendo debiti che dopo il Secondo Avvento nessuno avrebbe riscosso. A Ithaca nello Stato di New York, una chiesa millerita fu incendiata; a Lorraine, nell'Illinois, una congregazione fu attaccata da una folla armata di bastoni e coltelli. Un gruppetto di milleriti a Toronto fu cosparso di catrame e piume, simpatica usanza statunitense che il più dei lettori conoscono attraverso l'Huckleberry Finn di Mark Twain, ma che evidentemente si praticava anche in Canada. 

https://patrickmurfin.blogspot.com/2019/10/the-great-disappointmentnot-end-of.html

Il giovane Carducci immaginava l'alba dell'Anno Mille come un momento di gioia e liberazione dalle superstizioni; per i milleriti era stato un giorno terribile, in cui il mondo si era rifatto vivo alla finestra in tutti i suoi aspetti peggiori: violenze, beffe, debiti da pagare, rabbia e soprattutto delusione, una Grande Delusione. Ci si sarebbe aspettato, a questo punto, che scomparissero: ma non fu esattamente così. La maggior parte dei leader milleriti (Miller incluso), l'anno successivo si radunò ad Albany, non per aspettare un'ulteriore fine del mondo, ma per fondare un gruppo che attraverso successive fusioni sarebbe diventata la Chiesa Cristiana Avventista. Gli avventisti la pensano tuttora come Miller: il calcolo era sbagliato, ma l'attesa era giusta. Una corrente minoritaria, rappresentata dal pastore Hiram Edson non smise nemmeno di credere che il calcolo originale di Miller fosse esatto; e se era pur vero che nel 1844 sulla Terra non era successo niente di rilevante, non restava che concludere che il "santuario" di cui parlava Daniele 8,14 non fosse un oggetto terreno, ma celeste. I seguaci di Edson avrebbero fondato la Chiesa Avventista del Settimo Giorno, la trovate anche sul modulo dell'Otto per Mille. Dopo aver sbagliato le sue previsioni non una ma due volte, Miller non fu particolarmente screditato, e anzi il suo insegnamento è alla base di due o tre confessioni religiose con milioni di adepti. Ci si domanda se nel Medioevo gli sarebbe andata così grassa.  

Il caso Miller ha mostrato ai sociologi e agli psicologi cosa succede quando una comunità di credenti si trova nella condizione di poter verificare che la propria fede è costruita su assunzioni sbagliate. Nel passato non succedeva quasi mai: profeti e oracoli sapevano bene il rischio che correvano a offrire previsioni troppo precise. Prima del 1844 era lecito credere che "l'apparir del vero", come lo chiamava un poeta, sbaragliasse ogni illusione, e costringesse uomini e donne a prendere atto di una realtà oggettiva. Qualcuno qua e là ci crede ancora: prima o poi i grillini smetteranno di credere in Grillo, i renziani in Renzi: e a volte sono gli stessi che ricordano con nostalgia Berlusconi o Pannella. I novax dovranno pure accorgersi che i vaccini funzionano; chi ha votato Trump come può rivoltarlo di nuovo? Eh. 

Non so quanto il poeta se ne sarebbe rallegrato, ma "l'apparir del vero" a quanto pare non funziona: specie quando non mette in discussione le tue convinzioni individuali (quelle puoi metterle in dubbio ogni giorno), ma quelle del gruppo sociale di cui fai parte. Berlinguer non credeva più al Sole dell'Avvenire che gli avevano insegnato da bambino; il che non significa che potesse smantellare il PCI da un momento all'altro, senza nemmeno provare ad aggiungere qualche calcolo, a interpretare diversamente certe profezie. Tanta gente che un anno fa decise che avrebbe difeso Israele "sempre e comunque", al momento sta difendendo un genocidio e ha oggi a disposizione tutti gli elementi per rendersene conto; ma è troppo tardi, se il calcolo iniziale non era esatto non resta che raccontarsi una bugia; se la bugia svela gambe troppo corte, non resta che puntellarla con una bugia ancora più grande: finché l'insieme di tutte queste bugie ti allontana così tanto dalla realtà che non resta che salutarla da lontano, o denunciarla per antisemitismo. Alcune religioni nascono così. 

Forse tutte. Gli antichi ebrei, umiliati e deportati a Babilonia, si inventarono di essere stati scelti da Dio, di avere avuto un passato epico e un futuro luminoso. I cristiani non sapevano bene come reagire alla morte di Gesù Cristo e cominciarono a raccontarsi che sarebbe tornato. In effetti, la "fine del mondo" attesa nel medioevo e dai Milleriti non era l'evento catastrofico che ha preso forma nel nostro immaginario cinematografico. Era il ritorno di Gesù, che avrebbe giudicato i vivi e i morti e regnato secondo giustizia. Una cosa che tutti i cristiani dovrebbero aspettare con gioia e trepidazione, se non avessero qualcosa da nascondere. Vegliate, perché non sapete il giorno e l'ora.

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Agrippino, il patrono di scorta

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9 novembre: Sant'Agrippino, co-patrono di Napoli, ma ce ne sono altri 46...

Una cosa che ho scoperto di San Gennaro – sì, lo so, dovrei parlare di Agrippino, oggi è la festa di Agrippino – ma una cosa che ho scoperto da qualche tempo su San Gennaro è che i francesi che entrarono nella Napoli insorta del 1799 lo arruolarono letteralmente nella rivoluzione, blandendo o minacciando il vescovo in carica affinché il  sangue nell'ampollina si liquefacesse: per quanto rappresentanti di una civiltà laica, illuministica, diciamo pure anticlericale, una volta arrivati a Napoli i francesi fecero questa mossa già postmoderna di calare il berretto frigio sull'aureola del santo più popolare in città. Di lì a poco anche il Vesuvio eruttò: senza dubbio una coincidenza, ma è dal Seicento che la popolarità di Gennaro è legata all'attività del vulcano. I cronisti dicono che l'eruzione fu presa come un buon auspicio, il che è curioso: perlomeno io nella situazione avrei pensato l'esatto contrario. Perché sono il solito pessimista, oppure so già che quando i francesi se ne andarono, in città piombarono i sanfedisti, l'esercito contadino organizzato dal cardinale Ruffo: arrestarono i giacobini e riportarono sul trono Ferdinando Borbone, che si rimangiò immediatamente la costituzione e tutte le concessioni liberali. Non solo, ma si permise qualcosa di inaudito: siccome anche San Gennaro era stato rivoluzionario, gli revocò il patronato della città. Al suo posto fu proclamato patrono di Napoli Sant'Antonio Abate (che patrono rimase fino all'eruzione del 1831), il che è una vera ingiustizia, se non altro nei confronti degli altri 46 copatroni che da secoli facevano la scorta al santo più popolare. Prendi ad esempio Sant'Agrippino. Non se lo meritava lui, il patronato? Tutti quei secoli passati all'ombra di Gennaro non erano dunque serviti a niente?

Agrippino è uno dei tanti santi che non ce l'ha fatta. Quelli di cui non parla più nessuno, sapete come funziona, no? Ogni volta che leggete di una storia di successo, dovete calcolare centinaia di altre storie che quel successo l'hanno mancato, di poco o di tanto. Uno su mille ce la fa – e noi di solito conosciamo la sua storia, non quella degli altri 999. Gli anglofoni lo chiamano survivor bias, pregiudizio del sopravvissuto. Agrippino fino a un certo punto aveva tutte le carte in regola per diventare un grande santo. Nessuno ha mai capito in che secolo sia vissuto, ma in una delle più antiche liste dei vescovi partenopei, era contato come sesto: e se dei primi cinque si sapeva pochissimo, di Agrippino si ricordavano alcuni miracoli, e soprattutto si conosceva il luogo dove era stato sepolto: le catacombe di Capodimonte. Anche se molto presto cominciarono a essere chiamate Catacombe di San Gennaro, è intorno ai resti di Agrippino che il complesso cimiteriale aveva preso forma. Gennaro inoltre è pur sempre un forestiero, a differenza di Agrippino non fu mai vescovo di Napoli. Avrebbe svolto il suo ministero a Benevento, per poi essere martirizzato a Pozzuoli e sepolto inizialmente nell'Agro Marciano. Sarebbe stato un vescovo-duca di Napoli, Giovanni I, a portare le spoglie di Gennaro nelle catacombe che forse al tempo si chiamavano di Agrippino. 

Una volta arrivato, Gennaro comincia inesorabilmente a eclissare il collega più anziano e più local, tanto che nel IX secolo nei pressi della catacomba sorge un monastero dedicato soltanto a lui. Agrippino non si rassegna, e nel secolo successivo lo stesso monastero viene chiamato "di San Gennaro e Sant'Agrippino". A questo punto i due santi, vissuti in città diverse e in periodi diversi, sembrano poter diventare una di quelle strane coppie di santi protettori della città, come Pietro e Paolo a Roma (un lontano ricordo dei mitologici dioscuri). I due compaiono assieme per esempio nella raccolta dei Miracoli di Sant'Agrippino, composta più o meno in questo periodo. Nel frattempo i loro resti erano stati traslati nella nuova cattedrale, assieme ai resti di altri protettori che si accumulavano man mano che la città aumentava la sua prominenza. Di Agrippino si smise di parlare, e del resto anche Gennaro conobbe una relativa eclissi della sua popolarità, più o meno fino al 1389, quando una cronaca registra per la prima volta la cerimonia delle ampolline. Di Agrippino non si conservavano reliquie altrettanto suggestive: anzi non si custodiva più nulla perché dopo due o tre traslazioni il corpo era scomparso. Solo nel 1774 venne rinvenuta un'urna di marmo contenente "reliquie incerte", sull'etichetta è scritto così, "che si pensa siano il corpo di Sant'Agrippino". 

Nel frattempo il collega è ormai diventato una celebrità assoluta: il tesoro accumulato dai fedeli rivaleggia con quello della corona inglese, e ad Agrippino non ci pensa più nessuno. Ma non è detta l'ultima parola: è già successo, nel corso dei secoli, che un santo ormai sconosciuto tornasse sulla bocca di tutti. Di solito basta risolvere un grosso problema, un'epidemia o una calamità naturale: possibilmente non un vulcano, ormai è chiaro che se i napoletani si salvassero da un'eruzione, ringrazierebbero Gennaro e non lui: il vulcano ormai è preso. Ma Napoli è una città generosa di sciagure: c'è il bradisismo, le epidemie, e chissà cosa ci riserva nei prossimi anni il riscaldamento globale. La sensazione è che ci sarà lavoro per tutti e 47 i protettori, e una speranza per Agrippino.  

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Quattro santi incoronati (anzi 13)

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8 novembre – Quattro Santi Incoronati

Nanni di Banco
ftg Donatello
I Quattro Santi Incoronati in realtà sono otto. Pensavo di cominciare il pezzo così, è quel tipo di incipit che risveglia la curiosità del lettore – o almeno infastidisce la sua naturale propensione all'ordine logico, per cui in una buona percentuale di casi si metterà a leggere nella speranza di trovare una soluzione all'inghippo. Ma sono andato a controllare, e mi sono accorto che non sono otto: sono tredici. E l'inghippo è così complesso che tuttora non sono convinto di averlo risolto; forse mi diventerà chiaro mentre ne scrivo. 

Quello dei QSI è il classico caso in cui una leggenda ispira un monumento (in questo caso una chiesa del VI secolo a Roma, sul colle Celio) ma poi viene dimenticata, al punto che qualcuno, di solito un monaco, ritiene necessario inventarne un'altra che spieghi la natura del monumento stesso. E fin qui la matassa non sarebbe così difficile da sbrogliare. Ma in diversi casi, nel giro di qualche secolo, interviene un ulteriore monaco che conosce sia la prima leggenda sia la seconda: e invece di sceglierne una ed eliminare l'altra... cerca di fonderle in una sola. È l'incubo dei filologi moderni: lo scrivano pasticcione, creativo, volenteroso. Come sarebbe tutto molto più semplice se i monaci medievali fossero stati gli aridi copiatori che tutti credono. Magari. E invece no: interpretavano, cercavano di migliorare i testi che avevano sotto mano, li mescolavano ad altri testi... un caos. 

I primi cenni sicuri a una basilica dedicata ai Quattro Incoronati dovrebbero risalire al VI secolo. Nessun cronista sente la necessità di spiegare perché, oltre a essere quattro, dovrebbero essere incoronati; ovvero, la corona è un simbolo associato sin dai primi secoli al martirio, per cui forse all'inizio si trattava di un semplice sinonimo per "martiri". Ma non è affatto chiaro, e in linea di massima nessun altro martire è definito ufficialmente "incoronato". La Passio che per prima racconta la loro storia è molto dibattuta: qualcuno la fa risalire addirittura al IV secolo, ma la più parte degli esperti propende per una datazione più tarda (VI o VII) che rende plausibile l'intervento di uno scrivano pasticcione. Costui ci racconta di quattro scalpellini vissuti a Sirmio, in Pannonia (oggi pianura ungherese), straordinariamente bravi nel loro mestiere e per questo invidiati dai colleghi. Questi, avendoli osservati mentre si facevano il segno della croce, deducono trattarsi di quattro stregoni in grado di fare apparire magicamente dalla pietra qualsiasi cosa. I quattro artisti (chiamati Claudio, Castorio, Simproniano e Nicostrato), si difendono dichiarando la loro fede cristiana, e causando la conversione di alcuni colleghi, tra cui un Simplicio che si farà battezzare da Cirillo, già vescovo di Alessandria, condannato ai lavori forzati nella stessa cava di marmo. Nel frattempo la loro abilità ha attirato l'attenzione dell'imperatore Diocleziano, il quale li mette alla prova commissionando loro una serie di raffigurazioni: troni, vittorie, corone, amorini, il sole sul suo carro: non sembra esserci un limite alle capacità di questi quattro scultori. E invece un limite c'è, e Diocleziano lo scopre quando chiede ai quattro di modellare una statua del dio Esculapio; i quattro (che ormai con Simplicio sono cinque) non possono obbedire e dichiarano, col loro rifiuto, di essere cristiani. La leggenda sembra contenere un'eco remota della polemica iconoclastica, perché di solito i santi vengono processati per non aver voluto sacrificare agli dei; solo i Quattro Coronati si rifiutano di ritrarli. 

Diocleziano non è quel tipo di imperatore che si faccia sfuggire l'opportunità di uccidere dei cristiani; a malincuore, perché si trattava di ottime maestranze, consegna i Quattro più uno a un magistrato che non perde tempo a condannarli a morte: cinque casse piombate vengono rovesciate nel Danubio. Nicomede, loro discepolo, ne recupererà i corpi. A questo punto l'autore della Passio avrebbe dovuto inventarsi qualche complicata e miracolosa vicenda attraverso cui i resti dei Quattro (più Simplicio) sarebbero giunti a Roma; e invece no: decide di aggiungere una postilla alla storia che la rende molto più tortuosa, e lascia intendere la necessità di giustificare una tradizione diversa, secondo la quale i Quattro del colle Celio sarebbero soldati romani. Ma com'è possibile, se sono annegati in cinque casse piombate sul Danubio? La leggenda prevede che l'anno successivo Diocleziano faccia erigere un tempio a Esculapio a Roma. Durante l'inaugurazione è previsto che i legionari facciano un sacrificio al dio, ma quattro sottufficiali (corniculari) si rifiutano, rivelando così il loro cristianesimo. Diocleziano li fa flagellare a morte proprio nell'anniversario del martirio dei Quattro scalpellini pannonici; san Sebastiano ne recupera i corpi e li fa seppellire al terzo miglio della via Labicana. Il papa Milziade stabilisce che vengano venerati come martiri, e siccome nessuno conosceva i loro nomi, li ribattezza post mortem coi nomi dei quattro scalpellini morti nello stesso giorno: Claudio, Nicostrato, Simproniano e Castorio. Ed ecco spiegato perché i Quattro Coronati sono cinque scultori, ma anche quattro legionari, per un totale di nove martiri.

Senonché, ce ne sono altri quattro: Secondo, Carpoforo, Vittorino e Severiano. Questi ultimi compaiono un un'altra Passio (dedicata a San Sebastiano), e si trovano già raffigurati nelle decorazioni delle catacombe di Albano, risalenti al V secolo. Si tratterebbe di quattro legionari martirizzati sempre da Diocleziano, e sempre per non aver voluto sacrificare ad Esculapio; ma sulla via Appia. Può darsi che si tratti di una leggenda successiva, ma anche di quella originale, che lo scrivano pasticcione avrebbe rielaborato a modo suo.

Il successo dei Quattro Incoronati dipende soprattutto dal fatto che, in quanto scalpellini, in molte zone d'Europa diventano protettori di scultori, intagliatori e artisti in generale: e come tali molto spesso soggetti di ritratti scolpiti e dipinti, anche per orgoglio corporativo. Il sospetto è che parte del mistero intorno ai QSI non dipenda dall'incrostarsi di leggende diverse, ma sia stato in parte alimentato dagli operatori della categoria, che più di altre era gelosa dei propri segreti professionali. Addirittura i Quattro – talvolta raffigurati con scalpello, cazzuola o altri strumenti del mestiere – vengono reclamati come fondatori e protettori della massoneria, perlomeno dalla loggia inglese dei Quatuor Coronati

Una leggenda più suggestiva che credibile è quella riportata da Giorgio Vasari su Nanni di Banco, l'autore del gruppo marmoreo dei Quattro Coronati in una delle nicchie della chiesa fiorentina di Orsanmichele. Nanni, dopo aver sbagliato le misure delle statue, avrebbe potuto contare sull'aiuto del maestro Donatello, che gliele avrebbe scorciate e ravvicinate in cambio di una cena. Peccato che le due statue riaccostate facciano parte di un unico blocco di marmo. 

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Il diavolo è il mio architetto

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31 ottobre: San Volfango (924-994), vescovo di Ratisbona che fece costruire una chiesa al diavolo, ed esistono architetti peggiori. 


Michael Pacher

Volfango è uno dei santi più popolari della Germania cattolica, il che meriterebbe un discorso a parte, nel senso che la Germania cattolica mi sembra un corpo mutilato a cui non è stato concesso di evolversi; è una sensazione che dovrei verificare sul campo e non ne avrò mai il tempo, ma qui più che altrove mi sembra più facile imbattersi in leggende medievali che medievali sono rimaste: oggi sono buone da rivendere come aneddoti, o per valorizzare qualche sito turistico – ma la sensazione è che già nel Medioevo la loro funzione fosse la stessa. Il caso di Volfango è esemplare: si legge ad esempio un po' dappertutto che fu il vescovo che "fece costruire al diavolo una chiesa", anche se poi nessun sito in italiano riporta la leggenda per esteso. Si tratta in sostanza di una storia messa in giro per reclamizzare un santuario, da gente che Volfango non sapeva più nemmeno chi fosse: un nome sul calendario la cui vita si poteva riscrivere a piacere. Del Volfango storico, invece, cosa sappiamo? 

Rampollo di buona famiglia, Volfango rinnega gli studi brillanti, rinuncia a una cattedra episcopale a Treviri ed entra nel monastero di Einsiedeln. Ci resta sei anni e poi scopre una vocazione all'apostolato che lo porta in luoghi ancora selvaggi e non cristianizzati (la Boemia e la Pannonia che qualcuno comincia a chiamare Ungheria, in quanto gli Ungari vi si sono appena installati). Come missionario però Volfango non ottiene risultati apprezzabili, e così ripara in Baviera, dove gli viene offerta la cattedra di Ratisbona. Stavolta Volfango accetta, ma continua a vestirsi e comportarsi da monaco, rifuggendo le glorie del ministero. In una fase in cui i vescovi ragionano da feudatari e tendono ad accrescere i territori di loro competenza, Volfango si comporta nel modo opposto e acconsente a scorporare dalla sua diocesi l'enorme provincia della Boemia, "cosi che la Chiesa li rinvigorisca". Volfango insomma aveva capito che se siamo tutti utili, nessuno è necessario; e che da qualche parte in Boemia prima o poi sarebbe arrivato un evangelizzatore migliore di lui. 

Passato a miglior vita nel 994, nel giro di cinquant'anni Volfango era già stato canonizzato, dopodiché per un paio di secoli fu sostanzialmente dimenticato. La sua riscoperta è dovuta al progressivo affermarsi di un santuario presso un lago salisburghese, l'Abersee, che a un certo punto diventa Wolfgangsee. Probabilmente per dare lustro al santuario (o per reclamarlo come proprio) i monaci della vicina abbazia di Mondsee cominciano a sostenere che sia stato fondato da Volfango, durante un periodo di eremitaggio che non risulta dalle biografie. 

Volfango avrebbe scelto il luogo dove edificare la chiesa lanciando un'accetta dal monte soprastante – antico cerimoniale d'origine pagana. Da qui un proliferare di leggende non troppo originali; quando Dio gli chiede di edificare una chiesa da solo, Volf tira un pugno a una roccia dalla disperazione, o forse per spaccarsi la mano: ma Dio la sa più lunga e la roccia diventa gommosa. Volf allora decide di soddisfare la richiesta divina facendo un patto col diavolo, il che è abbastanza incoerente e veramente poco consono a un vescovo-monaco; comunque il diavolo in questione è il solito fesso disposto a costruire qualsiasi cosa in cambio dell'anima del primo cristiano che entri nell'edificio. Ma certo, dice Volf, e firma il contratto; poi esce a cacciare un lupo, lo traveste da pellegrino, e quando la chiesa è pronta lo fa entrare per primo. Il diavolo è talmente ghiotto di anime che si getta sul lupo senza accorgersi del travestimento, da cui una zuffa tremenda e da quella volta in poi il diavolo non ha costruito più chiese, che persino a Renzo Piano le fanno fare ma lui no, basta, non lo fregano più. Nei Paesi di lingua tedesca, Volfango è patrono di diverse categorie professionali, e soprattutto dei taglialegna, per via dell'accetta.


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La fuga di Narcisso

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29 ottobre: San Narcisso (96-212), patriarca dimissionario di Gerusalemme 


Non so voi, ma Eusebio da Cesarea non mi convince mai del tutto. C'entrerà anche l'età; invecchiando si diventa diffidenti. Ci si interessa alla cronaca nera, dentro la nostra testa comincia a prendere forma un archivio, e questa cosa dell'allontanamento volontario di San Narcisso dalla cattedra di Gerusalemme ci fa suonare un campanello d'allarme di cui fino a qualche anno fa non eravamo forniti. 

Eusebio nella sua Historia ecclesiastica ammette che a un certo punto Narcisso fu accusato da almeno di tre testimoni, ma che nessuno volle credere alle accuse "perché la purezza di Narcisso, sotto ogni aspetto illibata, e la sua condotta tutta adorna di virtù risplendevano agli occhi di tutti". Di conseguenza Eusebio sceglie di non riportare le calunnie, e fino a qualche anno fa approvavo la sua scelta: contro diffamatori e pettegoli, la miglior vendetta è il silenzio. 

E però da qualche anno in qua non so cosa mi stia capitando – o forse lo so benissimo – insomma il tempo è un tarlo che mi scava e mi sussurra che se davvero Narcisso fosse stato al di sopra di ogni sospetto, nessuna voce calunniosa avrebbe potuto danneggiarlo. Evidentemente Eusebio, che scrive un secolo dopo e faceva il vescovo anche lui, in un luogo non troppo lontano (Cesarea di Siria) temeva che le accuse dei tre testimoni avrebbero potuto danneggiare la reputazione, anche se non erano mai state suffragate da prove, e anzi confutate dalla stessa giustizia divina. 

I tre testimoni avevano infatti invocato l'ordalia, procedimento non sappiamo quanto abituale nella giustizia ecclesiastica del secondo secolo: dopo aver reso una testimonianza giurata, avevano chiesto a Dio di ucciderli se dicevano il falso. Il primo teste aveva chiesto di morire in un incendio, il secondo in una pestilenza, il terzo mediante accecamento. Eusebio, pur definendoli senza mezzi termini degli spergiuri privi di qualsiasi credibilità, deve ammettere che provocarono le dimissioni di Narcisso. Il quale, riferisce Narcisso, già da anni covava il desiderio di dedicarsi alla "filosofia", ovvero alla vita ascetica: per cui un bel giorno scomparve, e nessuno sapeva più dove fosse. 

Qualche anno fa non ci avrei fatto caso, ma adesso mi sembra una fuga bella e buona. Qualcuno lo aveva accusato di qualcosa di straordinariamente infamante, e Narcisso era fuggito: sotto un tappeto di parole complimentose, Eusebio ci sta raccontando uno scandalo avvenuto nel patriarcato di Gerusalemme. Non posso sapere di cosa era stato accusato, ma dentro di me l'archivio di scandali ecclesiastici si sta già sfogliando da solo: per quali motivi un alto prelato si dimette da una cattedra? Le accuse dovevano essere ben gravi, e forse un po' più circostanziate di quanto scrive Eusebio. Il quale ha un bel da raccontarci della morte miracolosa dei tre testimoni (il primo perì in un incendio, il secondo contrasse un morbo pestilenziale, al che il terzo prese paura e confessò un complotto per diffamare il patriarca, e mentre lo confessava piangeva così forte che perse gli occhi e morì): anche dopo una riabilitazione così plateale, Narcisso restò uccel di bosco. Anzi di deserto. 

I gerosolimitani dovettero nominare un altro patriarca, Dios, a cui succedette rapidamente un tale Germanione e poi un certo Gordio. Quest'ultimo però deve avere avuto altri problemi che Eusebio non spiega, limitandosi a informarci che l'episcopato di Gordio fu bruscamente interrotto dall'improvviso ritorno di Narcisso, ri-acclamato dai gerosolimitani. A questo punto doveva essere molto anziano, magari già ultracentenario, per cui chiamò ad aiutarlo un altro vescovo e non il primo arrivato, ma Alessandro di Cappadocia, che poi diventerà Sant'Alessandro di Gerusalemme. Di lui conserviamo anche un biglietto a certi fedeli egiziani in cui riporta anche i saluti di Narcisso, notando che quest'ultimo aveva compiuto 116 anni. Qualche anno fa mi sarebbe sembrata una semplice esagerazione, ma adesso ho questo famoso campanello che non smette di squillare: un vescovo che scompare nel deserto e poi ricompare anni dopo e ne compie 116? Possibile? 

E se Alessandro avesse portato in città un sosia da manovrare? Oppure Narcisso aveva semplicemente mentito con gli anni per sembrare più vecchio e malato ai tempi della sua prima elezione, proprio come Nino Manfredi nel conclave di Signori e signore buonanotte. In fondo ai tempi chi è che teneva i registri battesimali... gli bastava aver perso i capelli e i denti a quarant'anni, per poter dire in giro di averne sessanta o anche più, quel tipo di prelato con un piede nella fossa che viene nominato per prender tempo – dopodiché miracolosamente ringiovanisce, magari comincia anche a combinare qualche guaio da cinquantenne ancora pimpante, al punto che deve sparire nel deserto – ma alla prima occasione ritorna in città con qualche amico potente, salvo che ufficialmente ormai è decrepito, ma che importa, tanto contro di lui ci sono solo voci non verificabili, e chi vuoi che abbia l'interesse o la curiosità di verificarle? Certo non Eusebio di Cesarea.

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L'altro Giuda

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28 ottobre: San Giuda apostolo (I secolo), (non quel Giuda, l'altro).

Antoon Van Dyck, 1616
Oggi è San Giuda, auguri a tutti i Giuda, ma immagino non ce ne siano molti a festeggiare. È abbastanza comprensibile che il nome del traditore di Gesù non abbia avuto molto successo tra i cristiani, mentre era con ogni probabilità il nome più diffuso tra gli ebrei al tempo di Gesù – che del resto più che ebrei venivano chiamati Giudei. Giudea era la provincia governata da Ponzio Pilato: gli abitanti si consideravano israeliti perché discendenti di Giacobbe detto Israele, ma quest'ultimo aveva avuto dodici figli, progenitori delle omonime dodici tribù. La tribù di Giuda, nella quale sarebbe confluita quella di Beniamino, era l'unica – se si eccettua la casta sacerdotale dei leviti – ad avere conservato la propria identità dopo l'esilio in Babilonia: le altre tribù non si sapeva bene dove fossero, e vengono tuttora chiamate le "dieci tribù perdute". Insomma Giuda era il nome più giudeo in assoluto, e non è affatto strano che fosse condiviso da ben due dei dodici apostoli – del resto anche Simone e Giacomo erano doppioni. In Marco e Matteo però la lista conta solo un Giuda, l'Iscariota. È Luca il primo a menzionare un altro Giuda, detto "di Giacomo" – il che non ci aiuta certo a identificarlo, vista la quantità di Giacomi intorno a Gesù. 

Giuda potrebbe essere fratello o figlio di uno dei due apostoli, e/o del Giacomo che negli Atti è chiamato "fratello del Signore" e che sembra aver retto la chiesa di Gerusalemme dopo la partenza di Pietro. Giuda insomma potrebbe essere fratellastro o cugino di Gesù, ma nessun evangelista sembra voler calcare troppo su questo dettaglio: per Gesù i legami di sangue non erano così importanti. Gli altri due evangelisti sinottici, in luogo di questo Giuda di Giacomo, inseriscono un Taddeo ("Di gran cuore"), per cui spesso San Giuda viene chiamato San Giuda Taddeo o semplicemente Taddeo. L'ultimo evangelista, Giovanni, ricorda tra i commensali dell'ultima cena un Giuda "non Iscariota", ed è l'unico a dargli voce, soltanto per chiedere al Signore: "Come mai ti manifesterai a noi e non al mondo?" Un'ottima domanda, a cui il Signore risponde in modo abbastanza elusivo ("Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l'amerà, e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui"). 

Giuda è menzionato di nuovo da Luca negli Atti degli Apostoli, tra i Dodici che ricevono lo Spirito Santo durante la Pentecoste: dopodiché perdiamo le sue tracce. L'imbarazzante omonimia col traditore di Gesù gli ha impedito di diventare un santo veramente popolare, al punto che nessuna Chiesa sembra reclamare il possesso delle sue reliquie. Qualche leggenda lo vuole missionario e martire in Armenia, insieme a un altro apostolo di secondo piano, Simone detto lo Zelota. A lui è attribuita anche una breve lettera verso la fine del Nuovo Testamento, in cui si mette in guardia una comunità della presenza di individui empi e dissoluti che vogliono spingere i credenti a rinnegare Gesù Cristo. Ha tutta l'aria di una polemica eresiologica, il che ci fa sospettare che la lettera sia stata scritta già nel secondo secolo, e quindi non da uno degli apostoli di Gesù. La cosa paradossale è che l'autore, mentre cerca di difendere un'ortodossia, svela una cultura molto sospetta, e la conoscenza di testi che la Chiesa aveva già rigettato come apocrifi, ad esempio il Libro di Enoch. In effetti è l'unico testo della Bibbia in cui si faccia esplicita menzione di quella famosa ribellione angelica che sarebbe terminata con la condanna inappellabile per gli angeli ribelli. C'è chi ha accusato l'autore di essersi firmato Giuda per millantare la propria vicinanza al cerchio più ristretto dei seguaci di Gesù, però bisogna anche dire che Giuda era ancora un nome molto diffuso nel I secolo: non c'è motivo di pensare che non si tratti di un banale caso di omonimia.
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I santi calzolai

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25 ottobre: Santi Crispino e Crispiniano, martiri e calzolai (III secolo)

Gruppo scultoreo policromo presso la chiesa di Saint Pantaléon a Troyes (1540-1560)

Noi pochi, noi felici, noi banda di fratelli!
Agli inglesi San Crispino ricorderà invariabilmente la battaglia di Azincourt (1415), il momento più glorioso di quella guerra dei Cent'anni che a quel punto andava avanti già da ottanta; celebre non tanto perché tre quarti di secolo dopo Crécy gli inglesi continuavano a fregare la cavalleria pesante francese più o meno nello stesso modo (pioggia di frecce e poi mischia ravvicinata), ma perché Shakespeare più tardi l'avrebbe eternata mettendo in bocca al suo re ideale, Enrico V, uno dei più celebri discorsi motivazionali. Oggi è San Crispino, dice Enrico ai suoi: chi non vuole combattere vada pure, ma chi resterà se lo ricorderà per tutta la vita, e potrà dire di avere combattuto nel giorno di San Crispino, e sarà fiero di mostrare le sue cicatrici a quelli che si struggeranno di non esserci stati, e tutto quel tipo di retorica che macina carne da cannone da millenni. Agli italiani invece San Crispino ricorda un vino da tavola in cartone. 

E altrove? Nel resto d'Europa Crispino e il suo collega Crispiniano sono soprattutto i santi calzolai. Il loro è il tipico caso di martiri che devono la loro popolarità, più che al martirio, alla professione che a cui sono erano stati originariamente associati. Chi fabbricava e riparava calzature, soprattutto nell'Europa del nord (in Italia erano meno conosciuti) ci teneva ad avere una loro immagine in bottega; se poi la categoria in città aveva una certa importanza e voleva dimostrarlo, facilmente avrebbe commissionato a un pittore una Sacra Conversazione coi due santi calzolai almeno in secondo piano, da sfoggiare nella cattedrale cittadina. Il pittore a quel punto sapeva di dover rendere i due ciabattini riconoscibili in quanto tali; e benché la tradizione più antica li volesse fratelli gemelli, spesso si preferiva dipingerne uno un po' più giovane dell'altro, così come in una bottega c'è sempre un apprendista e un titolare. Del resto "Crispiniano" significa "di Crispino": poteva esserne il figlio, o un ex schiavo rimasto a lavorare con l'ex padrone. Entrambi dovevano avere in mano simboli della professione: chiodi, suole, lame, martelletti, eccetera. 

Le leggende a volte arrivano dopo le immagini, anzi sembrano costruite a partire dalle immagini stesse, per giustificarle; da cui l'equivoco per cui gli strumenti di lavoro vengono interpretati come strumenti di tortura. Ad esempio i carnefici infilano le lame sotto le unghie, ma esse rimbalzano contro il boia; oppure i santi sono costretti a ingoiare piombo fuso, ma un goccio schizza nell'occhio del boia, insomma il boia sembra il cliente impiccione che ficca il naso nel retrobottega e finisce per farsi male.

La passio più antica, che così antica non è (VII secolo al massimo) li vuole martiri a Soissons, capitale della provincia romana detta Gallia Belgica, che rimase uno dei centri più importanti anche nel periodo dei Franchi. A Soissons già nel VI secolo era stata costruita una basilica in loro onore, con un reliquiario realizzato da Sant'Eligio, patrono degli orafi. Il prestigio del luogo di culto declinò quando Carlo Magno decise di spartire le reliquie tra Osnabrück e Roma, dove tuttora sono custodite nella chiesa di San Lorenzo in Panisperna. 

A Soissons Crispino e Crispiniano sarebbero giunti da Roma, per portare il Vangelo e calzature a prezzi popolari. Arrestati e fatti torturare dal magistrato Riziovaro, i due calzolai avrebbero reagito con tanta flemma che alla fine lo stesso Riziovaro si sarebbe gettato nel fuoco dalla stizza: come forse i calzolai pregano accada ai clienti petulanti e mai contenti.
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Il frate da combattimento

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23 ottobre: San Giovanni da Capestrano (1386-1456), predicatore e condottiero

A Budapest gli hanno fatto un monumento (anche se non lo tengono benissimo)

Tutte le volte che scoppia una guerra e sui social comincio a vedere le bandierine, complice l'età, mi spazientisco: ma insomma quand'è che crescono questi, come fanno a prendere tutto come una partita di calcio? "Io sto con gli ucraini", scrivono – in che senso? No, seriamente, quelli stanno sparando ai russi, e i russi stanno bombardando l'Ucraina, e tu invece cosa stai facendo esattamente a parte chiacchierarne su Facebook? Poi succede qualcosa a Gaza ed eccoli, ti spiegano perché i palestinesi dovrebbero rendere gli ostaggi, o scappare in Egitto, ecc. Di un conflitto che si protrae da decenni, non è incredibile che proprio loro conoscano la soluzione, e non è triste che se ne restino confinati in un ambiente virtuale invece di essere in prima linea a spiegarla alle opposte fazioni? Non potreste andarci, a Gaza, a spiegare voi le ragioni degli israeliani, o viceversa? 

Questa, mi rendo conto, è sempre una mossa sleale. A chi parla di guerra non si chiede mai di andarci davvero, non è così che funziona, tranne in rarissimi casi come ad esempio Giovanni da Capestrano, che quasi settantenne si ritrovò su un campo di battaglia, a Belgrado. Siccome era da anni che in qualità di predicatore sosteneva la necessità di una crociata contro i turchi, alla fine la organizzò davvero, reclutò i soldati, si arrabbiò coi generali che non erano sicuri di voler dare battaglia, in un qualche modo li convinse, e vinse. Poi morì di peste, contratta probabilmente nell'infermeria di campo, ma ormai una lezione di coerenza ce l'aveva data. 

L'ultima di tante, perché prima di espugnare Belgrado, Giovanni era già uno dei predicatori più famosi della cristianità; unanimemente considerato il successore di Bernardino da Siena, che tanti anni prima lo stesso Giovanni aveva difeso con successo a Roma dall'accusa di idolatria (l'entusiasmo con cui Bernardino promuoveva la sua bandiera col nome di Gesù era parso ad alcuni rivali assai sospetto). Ma mentre il maestro Bernardino aveva portato avanti, anche con la sua bandiera, un'azione per lo più pacificatrice, a Giovanni toccò in sorte una carriera bellicosa: ancora prima dell'assedio di Belgrado, gli agiografi descrivono le sue imprese come una serie di missioni che prevedono la sconfitta di determinati avversari: i fraticelli, le schegge impazzite del movimento francescano, ancorate a un pauperismo ormai rigettato dalla Chiesa ufficiale; gli usurai per lo più ebrei, contro i quali la polemica dei predicatori francescani diventa sempre più violenta nel corso del Quattrocento, fino ad assumere toni antisemiti; gli eretici boemi, seguaci di Jan Hus; e alla fine appunto i turchi. Tempi difficili selezionano caratteri risoluti, e Giovanni non doveva averne uno semplice. La vittoria clamorosa riportata prima di morire non facilitò affatto il suo processo di canonizzazione, perché Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa Pio II proprio nel 1456, non lo aveva in simpatia: i frati non dovrebbero attribuirsi i successi delle battaglie. Il risultato fu che gli aquilani dovettero aspettare più di due secoli prima di poterlo venerare il loro concittadino come un santo. Il sospetto è che avrebbe fatto meglio a fare come San Bernardo: restarsene in qualche convento confortevole a scrivere prediche ben tornite sul tema Armiamoci e Partite. I guerrieri da salotto sono sempre i più apprezzati, chi ha ucciso davvero Bin Laden? Nessuno lo sa; invece tutti sanno chi era Oriana Fallaci. Per fare un esempio. 
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Il papa che fece chiasso in sinagoga

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Catacombe di San Callisto, sull'Appia Antica

14 ottobre: San Callisto papa e martire (III secolo), che una volta piantò un casino in sinagoga per farsi arrestare

Come recita il titolo, oggi è la festa di San Callisto papa, che un giorno entrò in una sinagoga e in mezzo agli ebrei che pregavano si mise a schiamazzare. Secondo i Philosophumena di Ippolito lo fece proprio per farsi portare via dalle guardie, il che ci pone un problema: possiamo dar retta a Ippolito? Probabilmente non quando parla dei suoi rivali, e Callisto era esattamente questo.

La sfortuna di Callisto è che molto di quello che sappiamo di lui ci è tramandato da persone che lo disprezzavano: Tertulliano, Ippolito. Non è affatto escluso che fosse un buon papa, il secondo a essere venerato come martire dopo Pietro, lasciando alla città un cimitero che porta il suo nome e la basilica di Santa Maria a Trastevere. Ma diventò papa ai tempi di Ippolito, e questo Ippolito non glielo poteva perdonare; lui si sentiva molto più degno del ruolo, al punto che fondò davvero una Chiesa personale, se ne nominò pontefice scrivendo nei Philosophumena che il vero papa era lui, e che i seguaci di Callisto avrebbero dovuto essere chiamati callistiani. La biografia del papa che Ippolito traccia nel nono volume del suo trattato è insomma da prendere con le molle; Ippolito aveva tutto l'interesse a farlo passare come un maneggione intrigante, "dedito al male e pieno di risorse per l'errore". E però è difficile trovare un senso alle peripezie che descrive; si intuisce che molte informazioni importanti Ippolito le ha taciute, o addirittura non le ha capite. 

Per Ippolito, Callisto nasce schiavo (e siccome non menziona nessuna conversione, deduciamo che era cristiano di famiglia). Cristiano era anche il suo padrone, tal Carpoforo, che a Callisto aveva assegnato un capitale da amministrare. Callisto lo aveva usato per creare un istituto di credito in una "piscina publica", Ippolito la chiama così. Lo considerava però un pessimo banchiere che a un certo punto aveva perso tutto, o almeno messo in giro questa voce, prima di imbarcarsi per cercare di sfuggire ai creditori, Carpoforo in primis. Quest'ultimo però si era precipitato al porto ed era riuscito ad arrivare prima che la nave partisse; ne era seguita una scena piuttosto patetica in cui Callisto si era buttato in acqua, ma era stato prontamente ripescato – perlomeno, quella che descrive Ippolito è una scena imbarazzante, ma va' a sapere se le cose andarono davvero così. 

Invece di punire il suo schiavo in quanto fuggitivo, come avrebbe avuto l'incontestabile diritto di fare, Carpoforo si sarebbe lasciato facilmente convincere dagli altri creditori a liberare Callisto, affinché recuperasse i capitali che magari aveva occultato. Ippolito però disprezza troppo Callisto per ritenerlo un banchiere fraudolento: secondo lui Callisto era semplicemente un incapace, che aveva perso tutti i soldi e cercava solo un modo per farsi ammazzare. Così un giorno lasciò detto che andava da qualche cliente insolvente e invece entrò nella sinagoga di Roma disturbando gli ebrei che stavano pregando, un reato grave. Questo lascia davvero perplessi, ma dal punto di vista storico ci dice una cosa interessante: nel Duecento, un secolo prima l'Editto di Milano, la convivenza tra diverse fedi religiose a Roma era già codificata al punto che uno dei sistemi più celeri per farsi condannare da un magistrato romano era andare a infastidire gli ebrei nel loro luogo di culto. 

Ippolito non spiega che tipo di offese Callisto avesse lanciato agli ebrei; quel che ci fa capire è che la sua condotta era indifendibile, così che quando Callisto davanti al giudice si definì cristiano, Carpoforo, che era ancora il suo padrone, negò recisamente la circostanza. 

Qualche storico non ha perso tempo a ipotizzare che Callisto avesse fatto affari con la comunità ebraica, e che la sua furia fosse quella di un finanziatore convinto di essersi fatto fregare; Ippolito, uomo di cultura e digiuno di economia, queste cose non le capiva o non voleva che si capissero. In ogni caso, interrompere una cerimonia in un luogo di culto nel terzo secolo era un crimine punibile coi lavori forzati, se Callisto si ritrovò in una miniera in Sardegna. Qui sarebbe rimasto qualche anno, fino al provvidenziale intervento di Marcia, concubina cristiana dell'imperatore Commodo, che volendo approfittare della sua posizione per fare qualcosa di buono aveva compilato una lista di prigionieri cristiani da riscattare. Ippolito ci tiene a farci sapere che Callisto non era nella lista – un usuraio fallito, a chi poteva mai mancare in città? – ma che riuscì lo stesso a entrarci facendo una gran piazzata all'emissario di Marcia. Tornato a Roma, Callisto in breve sarebbe riuscito a riguadagnare una posizione importante, come capita a certi manigoldi che non importa quante ne facciano, dopo un po' te li ritrovi in tv a spiegarti la vita e il successo. 

In particolare papa Zefirino lo avrebbe nominato amministratore della catacomba dove venivano sepolti i cristiani di Roma, e che proprio qui viene nominata, per la prima volta, cemiterium. Callisto avrebbe anche approfittato della sua posizione per istillare nel papa quelle idee eretiche, modaliste e ispirate alla predicazione dell'eresiarca Sabellio, che in seguito avrebbero convinto Ippolito della necessità di staccarsi dalla Chiesa di Roma. Si capisce leggendo che Ippolito deve assolutamente convincerci di questo, e allontanarci il più possibile dal sospetto che tanta rabbia contro Callisto derivi dal fatto che alla morte di Zefirino, a prenderne il posto fu Callisto e non lui. Persino Ippolito però deve ammettere che, una volta divenuto papa, Callisto non scomunicò lui, ma Sabellio: e allora cosa scrive? Scrive che lo fece "perché aveva paura di me", "nella speranza di placare le accuse delle Chiese nei suoi confronti". E però noi sappiamo che le "Chiese" accettarono di buon grado la nomina di Callisto, e che solo un pugno di fedeli seguì Ippolito. Per cui ci è facile immaginare che la biografia sconcertante scritta dal suo avversario nasconda un percorso più dignitoso. 

Anche il fatto che Callisto avesse fatto carriera prestando denaro non significava necessariamente che fosse un maneggione. Sappiamo che la Chiesa, come altre comunità religiose, svolgeva una funzione di previdenza sociale sempre più importante, e quindi accanto a ministri e predicatori il ruolo degli amministratori era tutt'altro che occasionale o periferico. Questa cosa un teologo come Ippolito forse davvero non la capiva, o comunque aveva deciso di non farcela capire. Un altro motivo di scandalo era la sua determinazione a riaccogliere nella comunità i peccatori pentiti, compresi gli apostati – forse, da bancarottiere, comprendeva l'importanza di dare a tutti una seconda possibilità. Ippolito non ci racconta della morte di Callisto, il che ci fa sospettare che sia morto davvero martire durante le persecuzioni dei Severi (secondo una leggenda, gettato in un pozzo); perché se invece fosse morto in qualche meno eroico, sicuramente ce l'avrebbe raccontato.

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Nessuno si aspettava Giovanni XXIII

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11 ottobre: Sant'Angelo Giuseppe Roncalli, che per soli cinque anni fu Giovanni XXIII e la Chiesa non è più stata la stessa


Forse stasera non ho così voglia di scrivere una vita di Giovanni XXIII, abbiate pazienza. Invece qualche settimana fa passavo da Brescia, il che c'entra assai poco perché Giovanni XXIII è nato in provincia di Bergamo. Ma io invece passavo da Brescia e dopo un po' mi sono accorto che c'era il gay pride, che a BS a quanto pare cade in settembre. Così, non avendo niente di speciale da fare, ci siamo fatti un pezzo di gay pride, che forse non ne avevo mai fatto uno (per pigrizia più che per omofobia, ma soprattutto perché di solito cadono in giugno e puzzo di sudore solo a pensarci). Mi è sembrata una festa tranquillissima, salvo che ogni tanto c'era della gente in tenuta sadomaso, i quali poi erano i più tranquilli di tutti. C'erano tutte le classiche cose del corteo generalista, compresi i radicali che non riescono a stare al loro posto, prendono le scorciatoie, cercano la rissa, ecc., tutto veramente regolare. Più in là c'era il classico soundsystem techno con le drag queen che sarebbe stata l'unica cosa che i giornalisti avrebbero ritenuto necessario fotografare, ma noi stavamo verso la coda, dietro un furgoncino che metteva musica più allegra e a un certo punto le ragazze che ballavano sul furgone si sono fermate e una ha detto: "questa la dobbiamo cantare tutteeeeeee!", e ha fatto partire, ha fatto partire

Ti ringrazio mio Signore e non ho più paura, perché

con la tua mano nella mano degli amici miei,

cammino con la gente della mia città

e non mi sento più solo.

E si sono messi a cantare tutte, tutti, tranne effettivamente me che non ci riuscivo per via di un rospo in gola e alcune lacrime.

Immagino di dover spiegare. Ti ringrazio mio Signore è un canto di chiesa, di quelli che si fanno con la chitarra. Io a dire il vero l'ho suonato anche con l'organo, a messa. Ma più spesso con la chitarra: l'ho fatta lenta e in Do alle messe dei vecchi, l'ho fatta veloce e in Re alle messe dei giovani. L'ho fatta ai matrimoni e (spero di non averla fatta ai) funerali, l'ho suonata e l'ho cantata e poi un giorno me la sono dimenticata e per ricordarmela dovevo capitare, di tutti i posti al mondo, al gay pride di Brescia. Cantavano tutti. Può darsi che si tratti del peculiare ecosistema di una città che ormai è tra le più progressiste in Italia (senza aver smesso un attimo di essere democristiana: è il resto d'Italia che ha fatto diversi passi indietro). Ma alla fine questo è il tipo di canzone che cantavo quando crescevo in una parrocchia, negli anni Ottanta. Magari mentre questionavo col parroco o polemizzavo con il nuovo catechismo di Wojtyla. Nel frattempo cantavamo

Amatevi l'un l'altro come Lui ho amato noi,

e siate per sempre suoi amici.

E quello che farete al più piccolo tra voi,

credete, l'avete fatto a Lui.

Ed era l'unica cosa su cui fosse necessario essere d'accordo. La Chiesa in cui credevo era questa cosa qui, e non era nuovissima, ma neanche tanto vecchia: aveva l'età delle Seicento che ancora si vedevano in giro. Le preghiere erano tutte nuove, belle traduzioni dal latino degli anni Sessanta, in un italiano semplice ed elegante. I discorsi erano ancora relativamente contemporanei. Era una Chiesa moderna e non si vergognava di esserlo. A farla uscire dal guscio, a dare perlomeno la prima martellata, era stato un certo Angelo Giuseppe Roncalli, che tutto sembrava tranne un rivoluzionario. Ma sono i migliori, col tempo l'ho capito. 

Tra tanti aneddoti si racconta che Monsignor Roncalli, quand'era ancora patriarca di Venezia, visitò il palazzo vescovile di Lodi e vide un quadro che ritraeva un papa. Quando chiese che papa fosse, si sentì rispondere: Giovanni XXIII; al che obiettò, forse scherzosamente, che non si trattava di un papa ufficiale, bensì di un antipapa. Che però aveva avuto l'indubbio merito di indire il concilio di Costanza, un passo decisivo nella riconciliazione dello scisma avignonese: e però pur sempre un antipapa. O no? Forse la questione non era chiara, del resto tra tutti i nomi dei papi, "Giovanni" è il più utilizzato e anche il più problematico, tanto che tuttora non risulta un Giovanni XX omologato. Forse proprio per evitare l'imbarazzo di decidere se il XXIII era stato un papa o no, dal quindicesimo secolo in poi i papi avevano smesso di chiamarsi Giovanni. Fino al 1959, quando Pio XII morì e Roncalli arrivò per il conclave a Roma, in un'atmosfera di basso impero (un prelato aveva venduto ai giornali le foto del papa morto en déshabillé). Sapeva di avere qualche chance, per vari motivi, non ultimo la sua anzianità: già da qualche anno i cardinali mormoravano che dopo il lungo papato di Pio XII ne serviva uno più breve, di transizione. Però a ben vedere tra i cardinali ce n'erano tanti persino più anziani di lui.


Roncalli aveva il vantaggio di essere italiano (il suo principale competitor fu un patriarca armeno), e tra gli italiani, il più cosmopolita: è un dettaglio può sfuggire, ma prima di arrivare a Venezia Roncalli aveva avuto una carriera più diplomatica che pastorale, da nunzio apostolico in Bulgaria (dove era riuscito a impedire molte deportazioni verso i lager), in Turchia e in Francia (dov'era riuscito a salvare la cattedra a molti vescovi che avevano collaborato coi nazisti). Una virtù dei diplomatici è proprio quella di saper nascondere la propria personalità, così che nel conclave del 1959 Roncalli risultava uno dei candidati più interessanti proprio perché nessuno lo conosceva veramente: sembrava affidabile, e rassegnato a durare poco. Assumendo il nome di Giovanni e il numerale XXIII risolse un problema, irrisorio ma indicativo: proprio perché aveva poco tempo a disposizione, forse Giovanni voleva utilizzarlo per risolvere problemi, pendenze. E a proposito di pendenze, c'era un Concilio che aspettava di essere concluso ormai da novant'anni, quando gli italiani avevano conquistato Roma interrompendone definitivamente le sessioni

Pio XII, che aveva avuto molto tempo per affrontare la pratica, aveva convocato una commissione che aveva lavorato per tre anni prima di giungere alla conclusione che Santità, il concilio era meglio non convocarlo, non chiuderlo, lasciare tutto così, aspettare, non si sapeva neanche più esattamente cosa, chi. Lo scoprimmo nel 1959: il mondo stava aspettando papa Giovanni, che invece di concludere il Concilio Vaticano I decise di indirne un secondo. La Chiesa che conosciamo oggi, quella in cui qualcuno di noi è cresciuto litigando e schitarrando, deve probabilmente a questa decisione la sua sopravvivenza nella società. Roncalli aveva poco tempo e lo usò, oltre che per stravolgere la Chiesa, per creare l'icona del papa contemporaneo, quello che si frappone tra i potenti della terra chiedendo pace, che scrive le encicliche rivolgendosi non ai cristiani ma a tutti gli uomini "di buona volontà" (anzi, le fa scrivere ai suoi collaboratori: Giovanni XXIII non credeva giusto nascondere il gioco di squadra e a volte lo rivendicava). Il papa buono che abbraccia i bambini, che fa un'improvvisata all'ospedale e lo scambiano per Babbo Natale, per via dell'ermellino rosso. Quello che tutti dopo di lui hanno cercato di reinterpretare, tranne Ratzinger, Ratzinger no, ermellino rosso a parte.

Giovanni XXIII è il patrono di tutte le persone che passano la vita a sopportare diplomaticamente il prossimo, ingoiando magoni e andando avanti, perché sognano di arrivare un giorno sul trono più alto e quel giorno faranno quello che vogliono, tirando giù il mondo se è necessario: questo non succede ovviamente quasi mai, ma quando succede è fantastico, gloria a Giovanni XXIII.

L'amore non ha prezzo, non misura ciò che dà

l'amore, confini non ne ha.

Rit.: Ti ringrazio mio Signore, e non ho più paura, perché...
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Bernardini si diventa

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28 settembre: Beato Bernardino da Feltre (1439-1494), predicatore antisemita

Eusebio da San Giorgio?

Verso la fine della sua esistenza terrena, Martino Tomitano da Feltre poteva ben pensare di avercela fatta: non era semplicemente diventato famoso e celebrato come il suo mito giovanile, Bernardino da Siena. Qualcosa di più: Martino era diventato Bernardino. Da lui non aveva mutuato solo il nome (assunto quando era entrato nell'ordine francescano) e la professione (frate predicatore), ma col tempo aveva cominciato a somigliargli – aiutato in questo dalla statura modesta, l'alimentazione frugale, e la vita frenetica, 17000 chilometri a piedi o a dorso di mulo in vent'anni, schizzando da una città all'altra, attirando folle che in lui evidentemente riconoscevano un archetipo: un fraticello rinsecchito e linguacciuto tutto solo contro il male del mondo. L'attività dei due bernardini copre quasi tutto il Quattrocento. Il tempo però non torna mai davvero su sé stesso: che i frati lo volessero o no, il Medioevo stava finendo, e il pauperismo francescano non era più quello radicale e utopistico di due secoli prima: alcuni predicatori come il primo Bernardino ne avevano fatto un'acuta critica degli eccessi del capitalismo mercantile, ma ai tempi del secondo Bernardino ormai anche questa critica era diventato una retorica codificata con degli obiettivi stereotipati: le Banche che dissanguano il popolo (e i perfidi ebrei che le gestiscono). 

Finisce sempre così, no? Si nasce incendiari, si muore pompieri, salvo che la cosa è un po' più complessa e a volte coinvolge più generazioni di persone che pure vorrebbero somigliare il più possibile a quelli prima di loro, copiandone i nomi e i discorsi. Un gruppo di intransigenti vuole cambiare il mondo, il mondo tuttavia è vasto e complesso e se il gruppo non scompare, a sopravvivere sono i più moderati, che magari conservano un limpido ricordo dell'intransigenza dei fondatori, ma dal canto loro preferiscono campare, e così dopo tutta una serie di lotte si impossessano del gruppo e lo trasformano in un qualcosa che alla fine somiglia sempre a un centro di servizi per la collettività. Prendi il comunismo, che in Italia dopo un secolo di scontri anche armati si è trasformato nella Coop, un posto dove vai a fare la spesa e ti fanno anche i libretti di risparmio. Invece i francescani, che nel Duecento dovevano vivere scalzi e di carità, nel Quattrocento fondarono i Monti di Pietà e prestavano con interessi variabili tra il 5 e il 15%. Non fu un'idea originale di Bernardino da Feltre (anche se lo stesso Martirologio Romano ce lo suggerisce: "istituì contro l’usura i cosiddetti Monti di Pietà"), ma era uno dei cardini della sua attività di predicatore: dopo aver additato al suo pubblico il Male (gli usurai, spesso ebrei), Bernardino esibiva il Rimedio: il Monte. Parte della sua arte oratoria era votata appunto a spiegare come mai, benché prestare a interesse fosse cosa diabolica ed esecranda, un interesse oscillante tra il 5% e il 15% era invece ancora gradito a Dio, in quanto era l'unico mezzo con cui il Monte di Pietà riusciva a sostentarsi.  

Non è che la cosa non abbia un senso: ancora oggi l'unica vera differenza tra l'usura (che è un reato) e il prestito a interesse (perfettamente legale) è la percentuale, credo fissa al 20%, un valore che per Bernardino ci avrebbe mandato tutti all'inferno. Che il Medioevo sia finito lo si capisce anche da questo, che per distinguere da peccato e cosa buona comincia a servirci il pallottoliere; si ammette che talvolta la questione sia più quantitativa che qualitativa. E anche l'antisemitismo delle prediche del nuovo Bernardino aveva una finalità commerciale, perché sì, d'accordo, erano il popolo deicida, ma soprattutto ormai erano la concorrenza: la gente doveva smettere di farsi prestare i soldi da loro (a volte a interessi inferiori) e chiederli invece al Monte. Non ci avrebbero guadagnato altrettanto, ma non sarebbero finiti all'inferno, bisognava calcolare anche questo. 

Bernardino non ha la sinistra fama di un Torquemada, e del resto non faceva l'inquisitore. Non portava gli ebrei alla sbarra, non li esortava a convertirsi mediante torture. Lui si limitava ad arrivare in città e a snocciolare il suo repertorio, cambiando dialetto a seconda della regione. Aveva tante storie da raccontare a un pubblico a cui fungeva da notiziario, carosello e varietà: conosceva i fatti che avrebbero più impressionato i suoi uditori, e che fossero fatti veri non era importante quanto che fossero interessanti; quando qualcuno cominciava ad accusare gli ebrei di infanticidi o altri immaginosi delitti, Bernardino era già altrove. Bernardino non torse credo mai direttamente un capello a un ebreo, ma nei suoi vent'anni di attività predicatoria gli storici hanno contato almeno 53 episodi in cui dopo il suo passaggio in un centro urbano gli ebrei venivano malmenati, o le loro case saccheggiate, o i loro diritti civici rimessi in discussione. Il caso più famoso è anche il primo: l'invenzione del martirio di San Simonino a Trento (1475), quando la comunità askenazita fu accusata di aver rapito un bambino per immolarlo in occasione della Pasqua. Anche allora, quando scoppiò il caso Bernardino non era in città, ma vi aveva predicato poco prima, e del resto Trento era la sua sede conventuale. Il caso di Simonino fornirà da lì in poi un precedente importante in tutti i dibattimenti successivi perché, a differenza che in altri pogrom, il vescovo Iohannes Hinderbach (che con Bernardino ebbe una solida amicizia) era riuscito a ottenere dagli ebrei che aveva fatto arrestare una confessione scritta: sì, avevano scannato un bambino cristiano per impastarne col sangue il pane azzimo nella Pasqua. Per quanto evidentemente ottenuti con la tortura, per secoli i verbali del processo di Trento furono considerati attendibili: e c'è da immaginare quanto Bernardino tornasse sull'argomento nelle sue prediche perché suvvia, il Monte non vi darà gli interessi dei banchieri ebrei, ma almeno noi francescani non sgozziamo i bambini. A Venezia, dopo il suo soggiorno, gli ebrei diventano così poco popolari che le autorità decidono di confinarli in un quartiere, forse chiamato Borghetto, da cui il termine Ghetto, che avrà un successo secolare; è probabilmente la parola veneziana più usata nel mondo dopo "Ciao". 

Bernardino da Feltre si spense nella sua cella a Pavia, 530 anni fa oggi. Dopo di lui ovviamente ci sono stati altri bernardini, piccoli e grandi, antisemiti o meno. Per quanto ognuno somigli al precedente, i tempi cambiano, e ognuno aggiunge qualcosa e toglie qualcos'altro. Per cui non aspettatevi che dopo tante generazioni si chiami ancora Bernardino, o che vesta un saio. Ma le piazze continua a riempirle, e i fatti che racconta sono sempre più interessanti che veri, i nemici sono sempre perfidi e assetati di sangue, e alla fine c'è sempre un rimedio da comprare, un abbonamento, una sottoscrizione. (Se ne volete sapere di più comprate il mio libro, è in tutte le migliori librerie).

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La tentazione di San Vincenzo

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27 settembre: San Vincenzo de' Paoli (1551-1660), ministro della Carità 

A un certo punto gli storici si sono accorti che l'uomo più buono del secolo XVII – proprio lui, Vincent de Paul, il fondatore delle Dame di San Vincenzo, delle Figlie della Carità coi loro copricapi così buffi e cinematografici (purtroppo aboliti nel Novecento), che non erano proprio suore, ma infermiere libere di uscire dall'ordine e sposarsi; Vincenzo il fondatore dei missionari lazzaristi; di ospizi e ospedali e seminari e orfanotrofi, al punto che si diceva che di notte vagasse per Parigi in cerca di trovatelli da salvare; Vincenzo che da guardiano di animali era diventato così importante a corte che un giorno suggerì alla reggente Anna d'Austria di licenziare il cardinale Mazzarino; Vincenzo che in quel frangente effettivamente cadde in disgrazia ma poi si rifece e fu nominato, dalla stessa Anna, Ministro della Carità; Vincenzo che in quanto tale a un certo punto amministrava un budget superiore a quello delle Corona e nessuno trovava niente da obiettare perché a metà Seicento, sostanzialmente, Vincenzo de' Paoli era il Welfare State francese, un uomo di così specchiata e indiscutibile virtù; ebbene a un certo punto gli storici si resero conto che anche Vincenzo aveva un segreto nascosto nel suo passato; due anni di gioventù in cui non si sapeva bene dove fosse finito. 

Lui stesso non ne parlava volentieri, il che è curioso se si considera che parlare era una parte importante del suo mestiere. Non solo, ma la ricostruzione ufficiale che aveva fornito era materiale per un romanzo picaresco: partito per Tolosa, dove era previsto che conseguisse un dottorato in Teologia, era stato rapito da pirati berberi che lo avevano venduto schiavo a Tunisi. Qui in due anni avrebbe cambiato padrone quattro volte, fino a trovarne uno di origine francese, un frate apostata che per non indossare il saio era scappato in Africa. Con l'eloquenza di cui era senz'altro fornito, Vincenzo lo avrebbe convinto a pentirsi dei propri misfatti e tornare in Europa con lui. In questo modo Vincenzo sarebbe ricomparso in Francia nell'estate del 1607; nessuna sorpresa che non fosse riuscito né a conseguire il dottorato, né a pagare i debiti che già da prima pesavano sul bilancio della sua non ricca famiglia. 

Questa era la storia che Vincent Depaul aveva raccontato ai superiori, ma non gli piaceva tornarci sopra. Qualsiasi altro predicatore avrebbe fatto di un'esperienza del genere una miniera di aneddoti per il suo repertorio, e c'è da dire che tra le altre cose Vincenzo dirigeva un ordine missionario che aveva basi nell'Africa del Nord e l'obiettivo primario di riscattare gli schiavi cristiani; ma a quanto pare non gli venne mai in mente di condividere o rivendicare la sua esperienza in quei due anni passati proprio come schiavo laggiù. Questo comportamento ci appare sospetto e ci fa dubitare di un resoconto che, bisogna dire, non presenta contraddizioni o dettagli assolutamente inverosimili; a un viaggiatore per mare dei primi del Seicento poteva capitare davvero nel Mediterraneo di essere fatto prigioniero e venduto a Tunisi come schiavo; era un caso molto sfortunato, ma avveniva. 

Il punto più debole di tutta la storia è il rocambolesco viaggio di ritorno: due religiosi su una barchetta a vela che dalla costa tunisina approdano in Camargue senza scalo. Da cui il sospetto: forse quel frate apostata è uno specchio dello stesso Vincenzo? In Tunisia ci era davvero finito come schiavo, o volontariamente, per scappare dai debiti famigliari e da una vita sacerdotale che non lo convinceva del tutto? In fondo fino a quel momento per lui il sacerdozio era stata una scelta obbligata: l'unica che apriva le porte dell'università a un ragazzo dotato per gli studi, ma di modestissima condizione. La vera vocazione religiosa sarebbe arrivata più tardi, insieme con l'intuizione di dedicarsi ai poveri (un settore che non va mai in crisi, come notava già Gesù) e l'incontro con le ricche famiglie che gli avrebbero messo a disposizione i primi ingenti capitali. Ma prima di tutto questo Vincenzo era stato un giovane neolaureato come tanti di noi: anche lui poteva avere sperimentato la vertigine di quel momento in cui sai che la strada che stai per imboccare è quella senza ritorno che porta alla vita adulta. In quei frangenti a chi non capita di vagheggiare vie di fuga: e metti che quel mattino un vascello di pirati tunisini stesse cercando personale anche senza esperienze.

Forse, prima di diventare l'apostolo dei poveri, Vincenzo aveva ceduto alla tentazione di vedere com'era fatto l'altro mondo, quello non cristiano; lui stesso ammette che uno dei suoi quattro padroni gli insegnò un po' di alchimia, qualcosa che in Europa non aveva potuto studiare e che magari sperava fosse più interessante che gestire parrocchie e insegnare latino ai figli di qualche conte o marchese. Forse Vincenzo diventò quel pilastro di carità e rettitudine cristiana proprio perché per un paio di anni aveva voluto provare com'era il mondo senza Cristo; e si vede che alla fine non gli era così piaciuto.

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Vediamoci a Emmaus

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25 settembre: Cleofa, il discepolo di Emmaus 

Caravaggio. 

Comincia tutto probabilmente con un paio di versetti del vangelo di Marco (16,12-13) in cui si riporta che Gesù Risorto, dopo essersi rivelato a Maria di Magdala, sarebbe apparso a due discepoli che andavano "verso la campagna". Tutto qui, Marco è notoriamente il più asciutto degli evangelisti. Qualche anno dopo Luca sembra in possesso di qualche informazione in più – sempre che non se le sia inventate; e il sospetto viene perché l'episodio che riporta è una delle pagine più belle di tutti i vangeli. I due discepoli, racconta, erano diretti verso Emmaus, una cittadina nei dintorni di Gerusalemme. Erano profondamente delusi per la morte di Gesù, "un profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo", che era stato condannato a morte dal Sinedrio e ucciso dai Romani. Lungo la strada incontrano un viandante che domanda di cosa stiano discutendo; è Gesù stesso, ma i due non lo riconoscono e si stupiscono che non abbia afferrato al volo l'argomento. Quello che dei due si chiama Cleofa, o Cleopa, gli dice: "Tu solo, tra i forestieri, stando in Gerusalemme, non hai saputo le cose che vi sono accadute in questi giorni?", e gli riassume in breve la vicenda di Gesù. È un Vangelo nel vangelo, un resoconto brevissimo di cose che Luca ha già raccontato, ma viste da un occhio diverso: un occhio opaco, senza redenzione. I seguaci di Gesù avevano creduto in un profeta, pensavano che avrebbe "salvato Israele", ma lo avevano visto morire come morivano i peggiori malviventi, e anche le voci di una sparizione del corpo, che cominciavano a circolare tra le donne, non erano sufficienti a impedire ai due di tornare a casa. "O insensati e lenti di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette!", li apostrofa allora il Gesù in incognito; "non doveva il Cristo soffrire tutto ciò ed entrare nella sua gloria?" E procede a spiegare tutto alla luce delle Scritture. I due non restano indifferenti, tanto che una volta arrivati a Emmaus invitano il viandante a cena, "ché si fa sera e il giorno sta per finire". Durante la cena, il Cristo finalmente si svela, nell'atto con cui aveva istituito il sacramento dell'Eucarestia: "lo riconobbero allo spezzare del pane". Nell'esatto istante in cui viene riconosciuto, Gesù scompare. "Ed essi si dissero l'un l'altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?»". I due tornano quindi immediatamente a Gerusalemme per raccontare la loro esperienza agli Apostoli, uno dei quali (Simon Pietro) ha nel frattempo assistito a un'analoga apparizione.

Gli esegeti hanno identificato Cleofa col marito o il padre di Maria di Cleofa, una delle tre (o quattro) Marie presenti alla morte di Gesù, prime testimoni della tomba vuota; e siccome Cleofa/Cleopa potrebbe essere la versione greca dell'aramaico Alfeo, è considerato il possibile padre di almeno due apostoli: Matteo di Alfeo, l'esattore delle tasse ed evangelista, e Giacomo di Alfeo, detto anche il Minore. Siccome poi quest'ultimo viene tradizionalmente considerato lo stesso Giacomo detto "fratello del Signore" che dopo la partenza di Pietro per Antiochia sembra assumere il ruolo del leader dei cristiani di Gerusalemme, Cleofa sin dai primi secoli è stato proposto come zio di Gesù, magari fratello di Giuseppe; se non addirittura secondo marito di Maria di Nazareth e patrigno di Gesù – questa cosa i cattolici la escludono, ma spiegherebbe il fatto che Giacomo fosse considerato suo fratello. Di tutti questi gradi di parentela qualche lettore ha discusso per secoli, senza notare che la storia raccontata da Luca non ne trae nessun giovamento, anzi; funziona molto meglio se il Cleofa della storia rimane un discepolo secondario, un seguace che aveva seguito la traiettoria di Gesù da una certa distanza, e non un parente stretto membro di un circolo interno che a Luca non interessava così tanto. Quel che gli premeva era documentare quel senso di smarrimento che i discepoli di Gesù avevano sperimentato nelle ore immediatamente successive alla crocifissione. Uno smarrimento che a un certo punto doveva essere svanito di schianto, con un atto di fede che è la vera nascita del cristianesimo. 

Quanto al nome dell'altro discepolo, anche qui la tradizione ne ha proposti tanti, ma ultimamente si tende a pensare che Luca volesse lasciarlo anonimo per aiutarci a immedesimarci: l'altro discepolo siamo noi lettori, che giunti a questo punto del Vangelo non abbiamo ancora capito cos'è successo; è necessario che scenda Gesù stesso a spiegarci una volta ancora. 

Un'altra cosa che non sapremo mai è dove si trovasse esattamente Emmaus. Secondo Luca era a undici stadi da Gerusalemme: un'informazione preziosissima, se avessimo mai capito quant'era lungo uno stadio in quel periodo e in quella regione. Senz'altro da Gerusalemme si poteva raggiungere a piedi in un giorno: ma in che direzione aveva marciato Cleofa, col suo compagno anonimo? Di Emmaus, in Palestina, ce n'era più di una: la più importante, variamente citata da Giuseppe Flavio nelle sue Antiquitates, era a più di cento stadi dalla capitale. Peraltro i romani l'avevano distrutta dopo la morte di Erode il Grande, ovvero poco più di trent'anni prima della crocifissione di Gesù. Del resto le città da quelle parti cadono e risorgono relativamente in fretta, e nel terzo secolo Emmaus, ribattezzata Nicopolis, avrebbe ottenuto dall'imperatore Eliogabalo lo status di città. In qualche manoscritto, invece di Emmaus, si legge Oulammaous: un luogo in cui, nella Genesi, Dio appare in sogno a Giacobbe. Potrebbe trattarsi di un tentativo di un copista di legare l'apparizione evangelica al tradizionale modello biblico, laddove quella del Vangelo di Luca è una sensibile rottura con la tradizione: il Gesù di Luca non appare a un importante patriarca, ma a due discepoli qualsiasi; e non in sogno, ma in carne e ossa, come un compagno di strada che siede a tavola e spezza il pane. Tutto è semplice e immediato, come nei sogni più vividi che facciamo prima del risveglio, dove le persone che abbiamo perso per strada sembrano così vere che riusciamo a toccarle. 

Così la Emmaus di Luca continua a sfuggirci, e noi continuiamo a cercarla. Dev'essere un posto qualsiasi – ecco perché non riusciamo a trovarlo: magari ci passiamo davanti tutti i giorni, è quel bar con un paio di tavolini che non ci sembra mai valga la pena di una consumazione. Un giorno al banco Dio ci attaccherà bottone, ci spiegherà serenamente cosa ci è successo fin qui, componendo tutti i misteri e i pasticci della nostra vita in una breve storia con un solo senso. E poi si leverà di torno: tanto a quel punto sapremo esattamente cosa fare, da chi tornare, per cosa lottare.

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Il legionario nero

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22 settembre: San Maurizio e la Legione Tebea, per un totale di 6600 martiri (III secolo) 

Statua di San Maurizio nel duomo di Magdeburgo (1250 ca.)

I santi soldati, nei dipinti, non sono così difficili da distinguere: potete diventare anche voi esperti in cinque minuti. Se porta soltanto la spada non è un vero soldato, ma più probabilmente un martire morto per ferite inflitte da una spada: San Paolo è il più frequente, è calvo e ha la barba. Se è armato di tutto punto e affronta un drago, potrebbe essere San Michele o San Giorgio, e per distinguerli bisogna guardare le ali: Michele le porta perché è un angelo, Giorgio no. Se poi il drago tiene prigioniera una principessa, è senz'altro Giorgio; gli angeli hanno ben altro da fare che liberare le principesse, il drago che San Michele affronta è Satana stesso. Se è vestito più o meno come Giorgio, ma è vicino a Giorgio, ovviamente non può essere lui; più probabile che sia San Demetrio. Se invece ha la pelle nera, beh... no, un momento. Ci sono santi con la pelle nera, nei dipinti? Sì, qualcuno a volte c'è, non è un caso così raro. E chi è? Molto probabilmente San Maurizio. 

San Maurizio sarebbe il comandante della legione Tebea, originalmente di stanza presso Tebe d'Egitto, ma che Diocleziano avrebbe dislocato dalle parti di Agauno (oggi Saint Maurice, nel Cantone Vallese), affinché sostenessero il suo collega imperatore Massimiano in un'operazione di respingimento dei barbari Quadi e Marcomanni. E già qui qualcosa non va, perché Diocleziano è conosciuto – oltre per la persecuzione più sanguinosa della storia della Chiesa – per aver perseguito una politica di rigida compartimentazione delle quattro macroregioni dell'impero, affidate a due Augusti e due Cesari (la famosa Tetrarchia), il che rende abbastanza improbabile il trasferimento di una legione dall'Egitto alle Alpi; e però magari era un'emergenza, chi lo sa. Secondo una versione della leggenda (probabilmente la più antica) i legionari erano tutti cristiani e si erano rifiutati di partecipare a un rito pagano propiziatorio prima di una battaglia. Un'altra versione, che appare come un tentativo di razionalizzare la precedente, suggerisce che alle legione fosse stato ordinato di perseguitare i cristiani della zona: si rifiutarono e furono decimati due volte, quindi definitivamente massacrati. 

Chi ha inventato questa storia (forse un vescovo del posto, a cui premeva il prestigio dell'abbazia di Agauno) era abbastanza esperto di Storia romana da conoscere la pratica della decimazione con cui venivano punite le legioni che avendo deluso il comandante o eluso i suoi ordini, si macchiavano di infamia: un legionario su dieci, estratto a sorte, veniva messo a morte. Ma ignorava che le decimazioni al tempo di Diocleziano e Massimiano non si praticavano più da secoli, e che due dittatori militari in una fase così irrequieta non avrebbero rinunciato così facilmente ai servizi di un'intera legione – il che richiedeva tra l'altro l'intervento di un'ulteriore legione. Un punto credo acquisito da chiunque abbia studiato un po' di storia di quella turbolenta dittatura militare che era diventato l'Impero nel III secolo, è che le legioni, sempre in teoria fedelissime all'imperatore, potevano talvolta ribellarsi giurando fedeltà a qualche altro aspirante imperatore; gli stessi Diocleziano e Massimiano presero il potere così. Una legione che puntava sul cavallo sbagliato finiva poi facilmente massacrata in battaglia, e questo potrebbe essere stato il vero destino dela Legione Tebea. Ma l'eventuale presenza dei resti di una legione sterminata in una guerra civile non avrebbe portato nessuna particolare gloria all'abbazia di Agauno, cosa a cui re Sigismondo dei burgundi teneva molto: era il primo re del suo popolo a venir battezzato con rito niceno e aveva bisogno di un luogo di culto che riflettesse la sua prominenza. Molto meglio raccontare in giro che i legionari erano morti per difendere la loro fede. Non è escluso che la leggenda sia nata per spiegare la persistenza di ossa e armi in qualche valle alpina, anche se a distanza di secoli non riusciamo più a trovar molto: ci avranno preceduto i cacciatori di reliquie medievali. 

Più che le ossa, a diventare famosa fu la lancia di San Maurizio (Saint Moritz per gli sportivi invernali), che nel X secolo fu acquisita da Enrico l'Uccellatore, capostipite della dinastia degli Ottoni. Sarà stata una coincidenza, ma il figlio di Enrico è il primo della sua famiglia a cingere la corona di imperatore del Sacro Romano Impero (ormai Germanico). La lancia sembra portar fortuna, ma ha un problema: non è abbastanza prestigiosa, un imperatore dovrebbe circondarsi di reliquie di prima scelta, mentre fuori dall'arco alpino, questo San Maurizio, chi lo conosce? Gli Ottoni insomma avevano tutto l'interesse a confondere la lancia di San Maurizio con quella più prestigiosa di San Longino, il legionario che aveva trafitto il costato di Gesù. Così Maurizio, che a un certo punto era diventato patrono dell'Impero, passò gradualmente in secondo piano. Verso il Milleduecento gli artisti cominciarono a scolpirlo e pitturarlo con la pelle molto scura degli abitanti dell'Africa subsahariana, forse riflettendo sull'etimo del nome "Maurizio", che significa appunto moro, mauritano, e/o per distinguerlo da altri santi guerrieri come Giorgio e Michele. Perciò può capitare, in certe chiese tra Piemonte, Svizzera, Borgogna e Germania meridionale, di trovare su una pala d'altare tra i santi un legionario o un cavaliere dalla pelle nera. Poi la gente dice che nel Medioevo erano indietro, mica come adesso che mettono attori africani nelle fiction in costume... quante cose dice la gente.

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Una santa in Palestina (in un monastero maschile)

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20 settembre: Santa Susanna di Eleuteropoli, monacә e martire palestinese (IV secolo?)


Susanna potrebbe essere la patrona di Eleuteropoli, se Eleuteropoli ci fosse ancora; ma è stata distrutta come capita presto o tardi a tutte le città. In epoca romana era un vero capoluogo, più grande di Colonia Aelia Capitolina, ovvero Gerusalemme, dopo che i Romani avevano distrutta pure quest'ultima, cose che succedono. Eleuteropoli sorgeva più a sud, nei pressi di Hebron, dove tanti anni dopo fu tracciata la linea dell'armistizio tra Israele ed Egitto.

La leggenda di Susanna, tramandata da due fonti greche, è un pasticcio; anche nel senso di una cosa messa assieme con gli avanzi. La prima parte segue la ricetta di Santa Marina di Bitinia, ovvero la storia di una donna che si traveste da uomo per entrare in un monastero maschile. Ma se Marina lo fa per seguire il padre, Susanna mostra di provenire da un crocevia di culture: il padre è pagano, la madre ebrea; entrambi muoiono troppo presto e Susanna, convertita da un sacerdote cristiano, decide di rifugiarsi nel luogo in cui nessuno si accorgerà del suo sesso. Di storie del genere nei sinossari bizantini ce n'è più d'una e non sono tutte favolette; lasciano sospettare che in alcuni casi una persona che non si trovasse a suo agio con il genere assegnato alla nascita potesse trovare un rifugio adeguato tra i cenobiti delle prime generazioni – prima che si diffondessero cenobi riservati alle donne. C'è un'ambiguità morale, in questi resoconti, che fatichiamo a chiarire, anche perché ogni generazione probabilmente tende a vederla in un modo diverso, come ben sanno le femministe che di solito parlano di ondate. Chi inventava queste storie probabilmente considerava la donna che rinunciava al proprio sesso per farsi monaco un'eroina della fede, anzi un eroe; poi arriva un'altra ondata con un'altra sensibilità, e questa cosa di travestirsi per entrare in un luogo di soli maschi risulta un po' troppo piccante, da cui la necessità di aggiungere alla storia uno svelamento drammatico. 

Nel caso di Susanna questo svelamento somiglia superficialmente a quello di Marina: una donna accusa il monaco Susanna di averla violentata. C'è però questa fondamentale differenza: per difendersi da un'accusa così infamante, Susanna decide di rivelare il proprio sesso. Al contrario, Marina preferisce confermare la bugia della sua accusatrice, e addirittura adotta come padre il figlio che la donna sostiene di avere avuto da lei/lui. Questo potrebbe riflettere i tempi diversi in cui queste due leggende sono state costruite; magari Marina rischiava più a rivelarsi donna in un monastero di uomini che a confessare una violenza sessuale (ricordiamo che per tutto il Medioevo vestirsi con abiti maschili poteva procurare a una donna una condanna per stregoneria). Invece Susanna sembra vivere in un tempo (III-IV secolo?) o in un luogo in cui cose del genere non sono ritenute altrettanto gravi; certo, deve lasciare il monastero, ma pare che sia l'unica punizione che le viene inflitta. 

A questo punto – e veniamo alla seconda parte della leggenda – Susanna si reca ad Eleuteropoli, dove viene ordinata diaconessa da un vescovo, il che le permette di morire da martire durante una persecuzione. Questo è abbastanza curioso, visto che il monachesimo si sviluppa anche in oriente in un periodo in cui il cristianesimo non è più oggetto di persecuzioni; ci fa sospettare che di Susanne ce ne fossero almeno due e che qualche copista le abbia messe assieme, magari per risparmiare spazio su una pergamena. 

Eleuteropoli significa "città dei liberi". Settimio Severo l'aveva ribattezzata così, quando nel 200 d.C. aveva concesso agli abitanti la cittadinanza romana. Prima d'allora aveva un nome aramaico, Beth Gabra, che non è poi molto diverso da come duemila anni dopo la chiamavano gli ultimi abitanti, Bayt Jibrin. Beth Gabra significava "casa del potente", ed era forse riferita a un antico re edomita. Gli edomiti erano antichi rivali meridionali degli israeliani; secondo la Bibbia discendono da Esaù, fratello di Giacobbe. A volte sono confusi con gli amaleciti, quelli che gli antichi ebrei dovevano ricordare di dimenticarsi. Il nome aramaico non deve essere mai veramente scomparso, se persino in una carta stradale romana (l'unica che ci è arrivata, la Tavola Peutingeriana) veniva chiamata Beitogabri. L'Islam arriva verso il 630, in modo piuttosto violento: gli arabi uccidono cinquanta soldati bizantini che rifiutano di convertirsi. Quattrocento anni più tardi i crociati espugnano la città e ci costruiscono una roccaforte, Bethgibelin, che il re di Gerusalemme affida all'ordine degli Ospitalieri. La rocca sarà distrutta dall'esercito di Saladino dopo la battaglia di Hittin. Bayt Gibrin resterà ancora un po' in mano ai crociati e poi passerà ai Mamelucchi e agli Ottomani. Ai tempi del Mandato britannico era un villaggio di 2500 abitanti, tutti arabi. Nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 1948 Bayt Jibrin fu bombardata dall'aviazione israeliana: la maggior parte degli abitanti lasciò il villaggio e non c'è più tornata. Il 27 ottobre, tre giorni dopo il cessate il fuoco, gli israeliani la occupano. Oggi Bayt Jibrin non esiste più, o se preferite ne esistono due: in Cisgiordania c'è il campo profughi di Bayt Jibrin, dove vivono migliaia di discendenti degli abitanti sfollati nel 1948; e in Israele c'è il kibbutz Beit Guvrin, fondato nel 1949 nei pressi della rocca di Bethgibelin, con annesso un parco storico che l'Unesco ha dichiarato patrimonio dell'umanità. Ci sono tracce del passato ebraico, romano, bizantino, crociato; ma quasi niente dei secoli arabi e turchi: quelli sono completamente scomparsi, sono cose che succedono.

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Chi ha inventato l'antisemitismo?

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13 settembre: Giovanni Crisostomo (347-409), arcivescovo disarcivescovocostantinopolizzato

Albrecht Dürer
Gli agiografi medievali, un po' li invidio, quando non sapevano cosa raccontare su un santo se lo inventavano, per esempio di Giovanni Crisostomo raccontavano che facesse l'eremita in una spelonca (non che ci avesse davvero provato, da giovane: ma in capo a due anni era dovuto ritornare nella grande Antiochia per motivi di salute). 

All'imboccatura della spelonca era arrivata un giorno una principessa in fuga, da cosa non ricordo, ma "vattene demonio" le aveva risposto Giovanni, ed ella aveva non poco faticato a convincerlo che non era un demonio, bensì la castissima figlia di un imperatore, per quanto perseguitata e bisognosa di un alloggio. Giovanni l'aveva quindi accolta nella grotta a patto che osservasse una rigida compartimentazione degli spazi che comunque non era bastata perché nel giro di pochi giorni la principessa era rimasta incinta. Straziato dal senso di colpa, Giovanni aveva GETTATO LA PRINCIPESSA DA UN DIRUPO, per poi pentirsene amaramente e decidere che non avrebbe più alzato la testa dal suolo e si sarebbe cibato di terra e radici, fino al giorno in cui incontrò di nuovo la principessa, col bambino in grembo che diceva: Giovanni, il tuo peccato è perdonato. 

Una leggenda del genere, ripresa persino da Dürer, era considerata evidentemente più interessante della vera storia di Giovanni Crisostomo, che pure non era stata dimenticata ma conteneva elementi imbarazzanti (e ne contiene tuttora: non è un santo comodo, Crisostomo). Giovanni in effetti, per come fu trattato dall'autorità costituita, potrebbe tranquillamente definirsi un martire della fede: il problema è che non fu perseguitato dai pagani, né dagli eretici, ma da cristiani come lui, per questioni più politiche che dottrinarie. 

Giovanni, già arcivescovo di Costantinopoli, morì in disgrazia mentre veniva scortato nel luogo dove era stato condannato al confino, il più lontano possibile dalla capitale dell'impero. Solo la tigna di papa Innocenzo I riuscì a ottenere la sua riabilitazione postuma. Nel medioevo una storia del genere doveva apparire poco comprensibile: la vicenda di Giovanni in effetti va inquadrata in uno scontro secolare tra due cristianesimi che nel frattempo erano stati spazzati via: quello più platonico e astratto di Alessandria d'Egitto, e quello sanguigno e creaturale di Antiochia di Siria. Si trattava delle due vere metropoli dell'Impero d'Oriente; alla fine del IV secolo Costantinopoli non era ancora altrettanto grande ed era contesa da questi due poli d'attrazione culturale. Giovanni era un campione del cristianesimo antiocheno: le prediche con cui si era conquistato la celebrità ("Crisostomo" è un soprannome, in greco significa bocca d'oro) erano trascinanti e si basavano su un'interpretazione per lo più letterale delle scritture, mentre ad Alessandria prevaleva l'interpretazione allegorica. 

Nominato vescovo di Costantinopoli su suggerimento del potentissimo eunuco di corte Eutropio, Giovanni dimostra da subito di non voler essere il semplice cappellano di corte; le sue tirate moraliste contro i lussi dei potenti lo rendono subito popolarissimo, ma Eudossa, la moglie dell'imperatore Arcadio, ha la sensazione che Giovanni ce l'abbia con lei. Siamo nel IV secolo, per cacciare un vescovo serve un pretesto dottrinario, e i rivali di Alessandria sono fin troppo felici di fornirne uno: pare in effetti che Giovanni stia dando asilo a quattro discepoli di Origene. 

Quest'ultimo, vissuto ad Alessandria, era stato uno dei più grandi intellettuali del secolo precedente: in una fase in cui l'ortodossia si stava ancora consolidando, aveva sostenuto tesi che in seguito erano state rigettate e malgrado fosse morto in esilio, godeva ancora di un grande rispetto tra intellettuali come Ambrogio e Girolamo. Gli egiziani però non lo potevano soffrire, Epifanio di Salamina scriveva cose orribili su di lui e i suoi discepoli, era insomma il Woody Allen del periodo e in mancanza di una scusa migliore Giovanni fu esiliato con l'accusa di origenismo. 

La leggenda vuole che appena partito la città fosse scossa da un terremoto, o addirittura che Eudossa abbia avuto un aborto spontaneo; fatto sta che Giovanni fu richiamato subito. A corte speravano che avesse almeno imparato la lezione, e invece no. Nel frattempo era caduto in disgrazia il primo ministro Eutropio, il suo vecchio protettore (a cui comunque Giovanni non aveva lesinato le critiche, perché non guardava davvero in faccia a nessuno). Durante un assedio i Goti ne avevano domandato la testa, Eutropio si era rifugiato nella basilica e Giovanni si era rifiutato di consegnarlo alle autorità, benché una legge emessa dallo stesso Eutropio pochi mesi prima avesse abolito l'immunità per chi si nascondeva nei templi. Alla fine i Goti si erano dovuti ritirare, ma Eutropio, caduto in disgrazia presso la corte, fu comunque esiliato e condannato a morte con un pretesto. 

Il motivo per cui fu esiliato una seconda volta non è del tutto chiaro; qualcuno ha voluto ricondurlo all'eresia ariana, che i barbari stavano diffondendo in tutto l'impero, ma non ci sono prove; di certo Eudossa stava diventando sempre più potente e non gradiva le critiche del vescovo. Quando fu scoperta una statua in suo onore nei pressi della cattedrale, Giovanni la definì in un'omelia la nuova Salomè. Probabilmente la riteneva colpevole della condanna a morte di Eutropio. Non aveva tutti i torti, ma stava fornendo alla sua nemica il pretesto che desiderava per domandarne l'esilio. Nella rivolta che seguì il suo allontanamento, la basilica di Santa Sofia fu messa a fuoco da una delle due fazioni, al punto che l'imperatore Teodosio II dovette ricostruirla. Crisostomo ormai aveva passato i sessanta: continuava a scrivere e a infiammare gli animi, non restava che spedirlo il più lontano possibile e auspicare che morisse per le tribolazioni del lungo viaggio, cosa che accadde. Ma la sua memoria rimase: quando papa Innocenzo pretese la sua completa riabilitazione, il patriarca di Alessandria (san Cirillo) obiettò che sarebbe stato come rimettere Giuda Iscariota tra gli apostoli. Alla fine anche gli alessandrini si rassegnarono.

 Crisostomo è ricordato anche come l'autore dei testi più violentemente antisemiti prodotti da un dottore della Chiesa (le omelie Contra Iudeos, molto apprezzate dai nazisti); benché ad Antiochia avesse avuto modo di incontrarne parecchi in carne e ossa, gli ebrei che descrive sono già quelli immaginari delle leggende nere medievali e soprattutto moderne. Magari non ha inventato l'antisemitismo – nulla si inventa dal nulla – ma nella storia dell'antisemitismo c'è un prima e un dopo Crisostomo. Tanto livore nasce forse da una festa: nell'autunno 387, le celebrazioni del capodanno civile ebraico risultarono così spettacolari che molti cristiani disertavano le chiese per assistervi, dimostrando una mentalità sincretica che Crisostomo non poteva assolutamente accettare. Bisognava spararla grossa, e nell'occasione il predicatore mise a fuoco il concetto di popolo teicida: gli ebrei, spiegava, si meritano qualsiasi sciagura perché sono il popolo che ha ucciso Gesù Cristo (mi immagino sempre, nell'occasione, un paio di legionari che si guardano negli occhi e si mettono a fischiettare). L'idea avrà molto successo, ma rende Crisostomo un santo più imbarazzante di altri; forse dovremmo metterci una pietra sopra e rimetterci a raccontare la storiella della principessa precipitata.

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Un uomo chiamato Maria

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12 settembre: Santissimo Nome di Maria 

Jan Punt copia Jan de Wit che copia Peter P. Rubens che aveva schizzato Quattro Angeli che celebrano il nome di Maria.


Ero ancora un ragazzino, stavo aiutando qualcuno a mettere un po' in ordine la canonica, quando inceppai nel registro battesimale della parrocchia. Quel che trovai mi sconvolse: Paolo, il mio carissimo amico, si chiamava anche Maria, Paolo Maria. E pure Giorgio, quello stronzo, non me l'aveva mai detto, ma come biasimarlo, che si chiamava Giorgio Maria. 

Cioè a guardare bene tutti i miei coetanei si chiamavano Maria... ma quindi anch'io? Sì, anch'io mi chiamavo Leonardo Maria. Ne chiesi conto ai miei genitori: non ne sapevano niente. Evidentemente il parroco di allora appioppava Maria come secondo o terzo nome a tutti i battezzati, maschi e femmine. Tanto mica bisognava informare l'anagrafe (all'anagrafe risulto solo Leonardo). 

Insomma, Maria è un nome veramente molto diffuso. Lasciando stare quelli che si chiamano Maria e non lo sanno (ehi, siete del tutto sicuri di non chiamarvi Maria? Perché anch'io fino a quel giorno mai avrei pensato...) Maria è il nome del 12% della popolazione italiana femminile (quindi, deduco, sei persone su 100 si chiamano Maria). Quando festeggiano l'onomastico? Continuamente. Non solo il calendario trabocca di feste mariane, ma anche molte altre sante si chiamano Maria. Ovviamente le Marie Assunte festeggiano il 15 agosto, le Marie Rosarie il 7 ottobre, le Marie Annunziate il 25 marzo, le Marie Maddalene il 22 luglio. Ma le Maria-e-Basta? 

Il giorno più indicato potrebbe essere proprio oggi, 12 settembre, quando il Martirologio romano celebra il "Santissimo Nome della beata Vergine Maria". Insomma se in certi giorni si festeggia qualcosa che a Maria è capitato (l'8 dicembre è stata concepita senza peccato originale, l'8 settembre è nata, il 25 marzo ha ricevuto l'Annunciazione), se in altri giorni se ne festeggia una caratteristica (il primo gennaio si festeggia il suo essere Madre di Dio, il 22 agosto il suo essere Regina della Chiesa), o un particolare santuario in cui è apparsa o comunque ha fatto miracoli  (Lourdes, Fatima, Guadalupe...), oggi si ricorda semplicemente il Suo nome.

Nel calendario cattolico soltanto due nomi sono degni di venerazione: si tratta ovviamente di "Gesù" e "Maria". Ma se il culto per il santissimo nome di Gesù è un'invenzione del predicatore Bernardino da Siena, che lo proponeva come simbolo e stendardo in un'Italia lancinata dalle tensioni con cui la civiltà comunale cedeva il passo all'epoca delle Signorie, il nome di Maria si è imposto all'attenzione dei credenti un po' più tardi, in modo quasi sotterraneo, dimostrando quel principio per cui a ogni nuova festa dedicata a Gesù, presto o tardi, viene fatta corrispondere una festa dedicata a Sua Madre. Così succede col Sacro Cuore di Gesù, che stimola l'ideazione del culto di un Sacro Cuore di Maria; con la festa di Cristo Re che porta all'introduzione di una festività alla Beata Vergine Regina, e così via. A parte qualche traccia medievale, si tratta di una festa di gusto tipicamente barocco, anche se in Ispagna si celebrava già nella prima metà del Cinquecento: nel 1512 papa Giulio II permise alla diocesi di Cuenca di festeggiarla il 15 settembre; ma perché fosse estesa a tutto il regno bisognò aspettare il 1671. 

Il 12 settembre del 1683 l'esercito austriaco, col decisivo aiuto dei polacchi, libera Vienna dall'assedio turco e papa Innocenzo XI decide di festeggiare l'evento istituendo una festa mariana, come era successo dopo la vittoria di Lepanto con la Madonna del Rosario. Il Santissimo Nome entra così nel Martirologio romano, e ci resta fino a tutto il Concilio Vaticano II, per sparire con Paolo VI. Giovanni Paolo II lo reintroduce nel 2002.  

Con tutto questo, non siamo nemmeno sicuri di cosa voglia dire, "Maria". Ovviamente deriva dall'ebraico, e benché solo un personaggio della Bibbia ebraica porti questo nome (la sorella di Mosè), Myriam era un nome diffusissimo ai tempi di Gesù: prova ne è che quasi tutti i personaggi femminili dei Vangeli che portano un nome si chiamano così. Basandosi sulle incisioni funerarie, gli archeologi hanno calcolato che il 25% della popolazione femminile portasse quel nome. Trattandosi di un nome molto semplice, peraltro in una lingua di cui per secoli si sono scritte soltanto le consonanti, l'etimo è abbastanza incerto: potrebbe venire da "altezza" ma anche da "amore", significare "amata da Dio" (ma il Dio in questione potrebbe essere l'egiziano Amon o l'aramaico Yam, insomma non il Dio biblicamente corretto) oppure "amarezza", e secondo Girolamo già nell'originale ebraico poteva essere contenuta l'idea del mare, tanto che lui ipotizzava che Maria significasse "mare di dolore" (o "goccia del mare"). 

In latino poi, com'è noto, "Maria" è il plurale di mare, nominativo e accusativo. Per cui io mi chiamo Cuore di Leone Oceani. O forse Cuore di Leone Amato, o Cuore di Leone Oceani di Amarezza, e se fossi cinese o sioux sareste già in sollucchero, wow, che bel nome, già, uno me l'hanno dato i genitori e l'altro un prete di nascosto. Che storia. (Di cognome mi chiamo "piccoli cerchi").
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La Madonna più importante che non avete mai sentito nominare

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8 settembre: Nostra Signora di Velankanni


La Madonna più importante tra quelle di cui non avete mai sentito parlare è con tutta probabilità Nostra Signora di Velankanni, nell'India meridionale, "la Lourdes d'oriente", dicono. Oggi, natività della Madonna, termina la novena che attira decine di migliaia di pellegrini, al punto che le ferrovie indiane hanno istituito linee speciali. Magari decine di migliaia di pellegrini non sono un granché rispetto a Lourdes, né l'immagine di una Madonna hindi in un vestito regale ha il fascino e la storia enigmatica della vergine della Guadalupe, però è pur sempre la più importante Madonna indiana, e l'India è appena diventato il Paese più popolato del mondo. E benché il cattolicesimo sia una religione minoritaria, Velankanni potrebbe nei prossimi decenni surclassare le altre mete mariane anche solo grazie al tradizionale sincretismo indiano, per cui se nel tal paese c'è un'immagine di una semidivinità che ogni tanto fa i miracoli, non ha così tanta importanza che alcuni la chiamino Nostra Signora, Madre di Dio o Shantadurga: a Velankanni non ti controllano il certificato battesimale, non storcono il naso se in loco ti fori le orecchie o compi altri riti tipicamente indù, basta che rispetti la fila e preghi, ogni Dio riconoscerà i suoi. 

Shantadurga è un avatar di Durga (anche nota come Shakti?), dea madre che avrebbe fermato con le sue stesse mani Vishnu e Shiva quella volta che un loro diverbio stava per distruggere l'universo (per questo motivo viene a volte ritratta con quattro braccia); poi si sarebbe ritirata in un formicaio, il che può sembrare un dettaglio aggiunto da un'AI che non riesce a tradurre il sanscrito ma non è poi così strano per una divinità indù. 

Shantadurga

Mentre Durga è spesso vista come un'entità benigna ma feroce e inarrestabile, "Shanta" significa "pacifica"; l'episodio della rappacificazione tra Vishnu e Shiva potrebbe alludere alla pacificazione tra tribù che veneravano le due divinità. La Madonna ovviamente è arrivata secoli dopo, ma quando, e come? L'ipotesi più sensata è che siano stati i portoghesi. A tal proposito si racconta di una nave portoghese colta da una tempesta nel Mar del Bengala. L'equipaggio, dovendo decidere a che santo votarsi, consulta il calendario e siccome è l'otto settembre (di che anno non si sa), compleanno di Maria di Nazareth, comincia a macinare rosari a raffica. La tempesta si placa, marinai e mercanti arrivano a terra e scoprono che proprio lì esiste già una capannina dedicata alla Madonna. 

Sembra incredibile, e in effetti io non ci credo: mi sembra un tentativo di retrodatare il culto locale a un periodo precedente la colonizzazione portoghese, non diversamente da quel che è successo in Messico con la vergine di Guadalupe e la leggenda di Juan Diego – anche in quel caso, c'è un santuario francescano che vorrebbe essere un po' più antico di quel che è. A tal proposito, si riportano due miracoli che sarebbero avvenuti a metà e alla fine del XVI secolo ma che mostrano già quella Madonna un po' burlona, se mi è consentito, che appare senza presentarsi, scherza coi pastorelli e secondo me è un'evoluzione del personaggio già sette-ottocentesca, comunque nel primo episodio la Madonna appare a un ragazzo indù del posto (che ovviamente non la riconosce) chiedendole del latte per il bambino che ha in braccio; il ragazzo glielo offre, il bambino beve, ma in seguito il ragazzo scopre che il recipiente in cui teneva il latte è ancora pieno. Nel secondo episodio la Madonna chiede addirittura del burro, anche stavolta il ragazzo gliene dà e non solo il burro ricresce nel contenitore, ma il ragazzo smette miracolosamente di zoppicare, e decide pertanto di erigere una capannina alla Misteriosa signora che fa i miracoli senza neanche avvertire. Lì nei pressi c'è un laghetto, che come a Lourdes comincia ad attirare i malati, convinti che le acque abbiano miracolose proprietà curative. A dispetto di queste leggende, di Nostra Signora della Buona Salute di Velankanni si comincia a parlare soltanto nel Settecento, quando i portoghesi in zona sono ormai stanziali – e anche quando devono cedere la colonia agli olandesi, sia francescani che gesuiti riescono a mantenere una presenza nella piccola cittadina, il che fa pensare che il lago fosse già un luogo di pellegrinaggio importante.

Così, dopo la rivalità tra seguaci di Vishnù e di Shiva, è possibile che Shantadurga abbia dovuto mettere il dito anche tra due ordini religiosi cattolici che avevano costruito due santuari diversi intorno alla stessa fonte miracolosa. Alla fine hanno vinto i francescani: nel 1928 la chiesa gesuita del Sacro Cuore di Maria è stata demolita, cinque anni dopo il santuario di Nostra Signora della Buona Salute è stato ampliato con due navate laterali. Sui suoi gradini si sarebbe fermata l'onda anomala del grande tsunami del 2004 

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Rosalia non la racconta tutta

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4 settembre: Santa Rosalia vergine, patrona di Palermo (1125-1160)


A un certo punto Rosalia si spazientì coi palermitani, che l'avevano quasi del tutto dimenticata. Attraverso un emissario, Vincenzo Bonelli, salito sul monte Pellegrino per sfuggire alla peste che aveva ucciso la moglie, nel 1625 fece alla città un'offerta irrifiutabile: io pongo fine all'epidemia, ma voi dovete accettarmi come santa patrona. Le ossa trovate l'anno scorso sul monte dai francescani, così poche che una commissione di esperti non era nemmeno riuscita a dimostrare che si trattasse di ossa umane, guardatele meglio: sono le mie, sono le reliquie di cui la città ha bisogno in un momento tanto grave. Portatele in processione, e la peste cesserà. 

Il povero Bonelli sarebbe morto comunque – la santa glielo aveva predetto – ma grazie all'intercessione di Rosalia avrebbe ritrovato la moglie in paradiso. Era la peste descritta da Manzoni nei Promessi sposi; l'idea che una processione religiosa potesse fermare il contagio era diffusa presso tutti i ceti sociali, malgrado l'evidenza dicesse un'altra cosa. Servivano però soprassalti di religiosità che convincessero la popolazione a mobilitarsi, ritrovamenti miracolosi come nell'Alto Medioevo, e questo può parzialmente spiegare la sensazione di anacronismo che sentiamo accostandoci alla leggenda di Santa Rosalia, che sarebbe nata dalla nobilissima schiatta dei Sinibaldi, accolta come damigella di corte della regina Margherita, moglie del re normanno di Sicilia Guglielmo I, salvo che le date non coincidono; promessa sposa a Baldovino (futuro re di Gerusalemme) come premio per aver salvato il re dall'assalto di un leone, animale non molto diffuso né in Terrasanta né in Sicilia. 

Rosalia Sinibaldi però voleva rimanere pura come i due fiori contenuti nel suo nome (la rosa e il giglio) e così si sarebbe data alla vita eremitica sul monte Pellegrino. Questo succede in molte vite di santi ma di solito sono, appunto, santi della tarda antichità o dei primi secoli del Medioevo, mentre al tempo dei normanni in Sicilia se non volevi sposarti entravi in un normale monastero, ce n'erano già di importanti malgrado la recente dominazione araba. Rosalia insomma è una santa che non ce la racconta tutta, che si presenta con una storia all'apparenza simile a tante altre, ma che se la confronti bene ti rendi conto che qualcosa non torna. 

È vero che esistono tracce di un culto per Santa Rosalia anche precedenti al Seicento, ma poca cosa e comunque non si spiega come mai prima delle apparizioni del 1624-25 fosse quasi completamente dimenticata. È vero che esiste un'iscrizione in latino zoppicante che recita “Io Rosalia, figlia di Sinibaldo, signore della Quisquina e (del Monte) delle Rose, per amore del Signore mio Gesù Cristo, stabilii di abitare in questa grotta”, salvo che la grotta non è sul monte Pellegrino, per cui bisogna ipotizzare che Rosalia nel suo eremitaggio si sia spostata almeno una volta. Un'ipotesi stuzzicante, ma indimostrabile, è che la Rosalia del Seicento sia il risultato dell'appropriazione culturale di una santa sudamericana che stava conoscendo un certo successo, Santa Rosa da Lima.

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Sul monte sei libero, da uomini e donne

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3 settembre: San Marino diacono (275-366), fondatore della Repubblica omonima. 

Pompeo Batoni 
Ma sarà nato prima il Santo o la Repubblica? Ovviamente i sanmarinesi hanno tutto l'interesse a sostenere che Marino sia arrivato dall'isola dalmata di Arbe, durante le persecuzioni di Diocleziano; che di mestiere facesse il tagliapietre, il che spiegherebbe come mai lui e il compagno Leo si spingessero fino alle prime cime dell'Appennino romagnolo, il monte Titano e il monte Feltro o Feliciano; che avessero già iniziato a evangelizzare gli abitanti prima che il vescovo di Rimini ordinasse Marino diacono e Leo presbitero. 

Riguardo a Marino si racconta anche della resistenza che avrebbe incontrato da parte di un possidente, Verissimo, che voleva sloggiarlo dal monte. Senza scomporsi, Marino si raccomanda a Dio e Verissimo rimane paralizzato. Sua madre, Felicissima, per ottenerne la guarigione offre a Marino il monte che aveva già occupato, salvo il pezzetto riservato alla sua sepoltura. Verissimo guarisce, Marino può restare sul monte e in seguito, prima di morire, pronuncia la frase fatale: Relinquo vos liberos ab utroque homine ("Vi libero da entrambi gli uomini"). Da questa affermazione viene fatta dipendere la libertà di San Marino, repubblica indipendente sia dall'Imperatore che dal Papa. 

Sin dall'inizio in effetti la libertà sanmarinese è basata su un concetto molto caro ai cittadini, l'autonomia fiscale: i sanmarinesi non si sentivano in debito né verso l'Impero né verso la Chiesa, per le tasse che non hanno mai pagato né all'Uno né all'Altra. Ma la frase stessa, per come è formulata, tradisce la sua origine molto più tarda; ai tempi di Diocleziano Chiesa e Impero non erano certo due entità complementari o contrapposte. La leggenda risale al massimo al X secolo, quando alcuni dei castelli intorno al Titano avevano già fondato una forma di autogoverno e sentivano la necessità di una leggenda che la nobilitasse. Dovendo immaginare un'antica autorità che li avesse per sempre esentati dai tributi, ovviamente pensarono a un santo: e così, per giustificare la Repubblica, sarebbe nata la leggenda di Marino.
 
Alcune incrostazioni narrative sono ancora più tarde; ad esempio l'idea che Marino a Rimini fosse stalkerato da una donna che sosteneva di venire da Arbe e di essere la sua legittima coniuge: solo per questo motivo Marino si sarebbe spostato dalla Riviera al Monte. È curioso perché secoli dopo qualcosa di simile sarebbe successo a un altro fondatore di nazioni cresciuto poco lontano, Benito Mussolini: Ida Dalser continuò a sostenere di essere sua moglie, anche dopo l'internamento in una casa di cura. La pseudoconiuge di Marino invece si pentì molto presto, ma ormai Marino era sul monte e ci rimase, il che lascia in noi lettori un sospetto; forse i sanmarinesi che ricamarono questa ulteriore leggenda volevano lasciare sospesa l'idea che prima di essere un santo qualche avventura Marino avrebbe potuto anche averla, magari con una straniera al di là dal mare. Son cose che capitano, in Romagna poi. L'importante è scappare al momento giusto e nel posto giusto, liberarsi da entrambi gli uomini e anche da qualche donna. 
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Ricordiamoci di scordare Amalek

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1° settembre: Giosuè, sterminatore di Amalek. 

John Everett Millais

Quando mi capitò di scrivere un pezzo su Giosuè, dodici anni fa, esordii così: "Ecco un personaggio biblico che ormai nessuno pretende di considerare come realmente esistito".

Quanto poco ne sapevo.


A mia parziale discolpa, nel 2012 la Bibbia non sembrava un testo così importante ai fini della comprensione della situazione in Medio Oriente – nessuno poteva negare che fosse sul tavolo, ma nascosta da altri libri molto più moderni, manuali di strategia ed economia e Storia contemporanea, atlanti geopolitici, e persino quel vecchio Corano veniva aperto più spesso, sembrava più rilevante. Mentre chi citava versetti biblici denunciava la propria irrazionalità, ma soprattutto un'irrevocabile marginalità – persino Bush Secondo, quando aveva nominato Og e Magog al cospetto di Chirac, era parso un matto. Gli stessi difensori più accaniti del sionismo non si curavano molto di Esodo e Deuteronomio; raramente davano l'impressione di averli almeno letti. Non era da quei vecchi rotoli che lo Stato Ebraico traeva la propria ragion d'essere: piuttosto dalle persecuzioni moderne, e in primis dalla Shoah. 

Quanto al kahanismo, era ancora considerato un movimento estremista. Ancora per dieci anni il partito fondato da Meir Kahane sarebbe rimasto incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche del governo USA. Oggi viceversa i kahanisti stanno nel governo, Ben-Gvir qualche anno fa ha tolto il ritratto dello stragista assassino di Rabin dal tinello e ora è ministro della sicurezza nazionale: e come tale va a passeggio nella spianata delle moschee. Per dire quanto sia cambiato anche solo in pochi anni almeno il governo israeliano, e probabilmente la società che lo esprime. Una cosa che gli osservatori italiani, soprattutto quelli benevoli, sembrano non voler accettare – del resto che importanza può avere quanto a destra possa spostarsi il governo israeliano, se hai deciso a priori che tutto quello che Israele fa è giusto? Non importa che le immagini postate dagli effettivi dell'esercito accreditino la sensazione di una banda di fanatici prevaricatori: tanti anni fa hai imparato a dire che è l'esercito più morale del mondo e non puoi evidentemente cambiare idea in corsa. I soldati, peraltro, non fanno che ripetere che bisogna estirpare Amalek. Lo stesso Netanyahu lo ha dichiarato sin dal sette ottobre: e così all'improvviso ci siamo accorti che nella Bibbia un genocidio c'è, giustificato, documentato e più volte reclamato. 

Sì, è vero, l'avevamo sempre saputo. Ma per tanto tempo, davvero, non era sembrato così importante. Ogni popolo ha le sue leggende, chi è che se la prenderebbe oggi coi greci per come bruciarono Troia? Ecco, chi ti spiega che Amalek va sterminato, nel 2024, dovrebbe farci più o meno lo stesso effetto. E invece sembra tutto ok – cioè no, diciamo che una certa caduta verso l'irrazionale potrebbe essere giustificata dallo choc del sette ottobre, e prima ancora dal fatto che gli israeliani sono minacciati nella loro stessa esistenza più o meno dal... 1948, insomma da sempre, il che per carità non significa affermare che vivono come prigionieri nella stessa piccola terra che si sono conquistati con la violenza, perché sarebbe antisemita, e quindi... niente, ogni discorso su Israele finisce sempre su un terreno minato, anche quando provi a difenderlo non ti resta che tornare sui soliti punti sicuri da cui passano tutti.

La Bibbia è un testo straordinariamente stratificato, opera di mentalità diverse, che agivano in epoche diverse con priorità spesso contrastanti. Non tutto quello che contiene è leggenda, ma agli occhi di uno storico non è difficile riconoscere i personaggi totalmente leggendari, quelli che sono stati inventati per dimostrare uno o più assunti; tra questi, senz'altro Amalek e Giosuè. Non hanno nessuno spessore: fanno quello che è previsto che facciano, il primo attacca Israele e il secondo lo difende. L'autore non si cura nemmeno di definire perfido il primo e buono il secondo, perché in effetti non è in questione il Bene e il Male, qui. La questione è più ristretta: Dio ha scelto un popolo, chi lo attacca non merita di sopravvivere. 

Amalek appare di punto in bianco in Esodo 17,8 (Giosuè compare nel versetto successivo, come luogotenente di Mosè). "Allora Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim". Non è chiaro da dove arrivi e nemmeno cosa sia. Potrebbe essere un popolo, come Israele, nominato col nome di un mitico capostipite: o anche semplicemente il capo di una banda di predoni. Non ci è dato saperlo: quel che importava all'autore del testo è dimostrare l'efficienza del Signore degli Eserciti, che porta gli israeliti alla vittoria – purché Mosè tenga le mani verso l'alto, rivolte a lui; e siccome col tempo si stanca, Aronne e Cur gliele sostengono. Solo così l'esercito guidato da Giosuè può trionfare. L'episodio rivela in questo la sua fonte sacerdotale: pregare è ancora più importante che combattere. Così all'improvviso com'è comparso, Amalek deve scomparire: non solo Giosuè stermina tutti gli amaleciti "a fil di spada", ma il Signore proclama a Mosè: "Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalek sotto il cielo!" Avete capito bene, Dio dice a Mosè di scrivere su un libro il nome del tizio di cui vuole cancellare la memoria. È un paradosso che ha scervellato generazioni di esegeti, in un certo senso è il paradosso in cui stiamo vivendo: ricordare ciò che non dovrebbe essere più ripetuto, come se ricordare non fosse già un invito a ripeterlo. 

"Vi sarà guerra del Signore contro Amalek, di generazione in generazione!", proclama infine Mosè, il che smentisce quanto scritto poco sopra (Giosuè non li aveva sterminati tutti?) ma ci autorizza a pensare che Amalek, più che un popolo, sia chiunque si metta sulla strada del popolo di Dio. Altri amaleciti compaiono in effetti nei sequel della Torah, i libri dei profeti; siccome dovevano vivere tra Canaan ed Egitto (non troppo lontani da Gaza, insomma) vengono a un certo punto confusi con gli edomiti, che degli israeliti sono parenti in quanto discendenti di Esaù, il fratello a cui Giacobbe-Israele aveva sottratto sia la primogenitura sia la benedizione paterna. Compaiono comunque sempre in funzione di vittime predestinate, come le maglie rosse di Star Trek: l'episodio più interessante riguarda re Saul, personaggio enigmatico, l'Amleto degli ebrei. Il profeta Samuele l'ha unto re di Israele, ma poi se n'è pentito – ovvero, è il Signore che attraverso Samuele lascia trapelare un distacco crescente. E anche stavolta si contraddice, questo Signore, prima prendendo le distanze dalla violenza con cui il re infierisce sui Filistei, e poi sdegnandosi perché non stermina completamente, come richiesto, gli Amaleciti. Evidentemente certi popoli devono sparire e altri no, ma Saul sembra destinato a capire sempre male. A terminare lo sterminio provvederà il nuovo prediletto dal Signore, re Davide, anche lui unto dal profeta Samuele e più ligio agli ordini divini. Con lui gli amaleciti spariscono definitivamente; eppure nel libro di Ester il perfido Aman è definito "agaghita", ossia discendente di Agag, il re amalecita sconfitto da Saul. Aman è una figura importante del folklore ebraico: il prototipo dell'antisemita, dileggiato pubblicamente ogni anno in occasione della festa di Purim. E torniamo sempre lì: sul libro c'è scritto che Amalek deve scomparire, ma c'è scritto fin quasi alle ultime pagine, evidentemente Amalek non scompare mai: e tuttora ossessiona i sostenitori di un progetto, il sionismo, che per tanto tempo ci è sembrato così laico. In tutto questo forse c'è qualcosa che potremmo imparare, ma cosa.

Forse che le profezie si avverano. Giosuè non è mai esistito, e non ha mai sterminato Amalek, popolo immaginario che non ha lasciato nulla se non il suo nome (tramandato da quelli che dovevano farlo sparire). Eppure migliaia di anni dopo, nella stessa regione, un popolo cerca di fare sparire un altro popolo, perché ha letto la storia di Giosuè e Amalek. Potrebbe essere il finale di questo pezzo, ma non mi convince. Anni fa era diventata una pratica abituale accusare i musulmani di oggi di voler mettere in pratica lo stragismo descritto dal Corano. Ultimamente se ne parla sempre meno; forse qualcuno si è davvero accorto che nella Bibbia ci sono anche più stragi, a cercarle. Ma insomma l'idea che i libri facciano commettere le stragi mi ha sempre lasciato perplesso. Per me è nato prima l'uovo: la gente scrive i libri per giustificare le stragi che commette. Poi certo, il serpente si mangia la coda: i libri restano in circolazione, vengono letti in contesti sempre diversi e chi vuole giustificare altre stragi, se ha pazienza, prima o poi trova il libro adatto. Specie se qualcuno lo ha lasciato sul tavolo, sepolto tra altri libri che dovevano fornire soluzioni più razionali.

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L'altro san Giuseppe

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31 agosto: San Giuseppe d'Arimatea (I secolo), seppellitore di Gesù

Filippino Lippi ftg. il Perugino
All'inizio e alla fine della vita di Gesù di Nazareth compaiono due Giuseppe: a entrambi, i vangeli dedicano pochi versetti, ma cruciali; entrambi non dicono nulla, ma fanno qualcosa di necessario senza cui il cristianesimo non esisterebbe. Di Giuseppe l'artigiano abbiamo già parlato: fu il padre putativo di Gesù e lo protesse da Erode. Giuseppe di Arimatea invece è il membro del Sinedrio che ottiene da Ponzio Pilato il permesso di deporre Gesù in un sepolcro. Un'azione più cruciale di quanto possa sembrare.

Perché il cristianesimo esista, occorre che Gesù sia risorto, ovvero il suo corpo deve scomparire da un luogo in cui era custodito. Ciò pone un grosso problema di logica narrativa agli evangelisti, già nella primissima fase: occorre stabilire con autorevolezza che le cose siano andate in un modo in cui generalmente non andavano. I crocefissi infatti non venivano sepolti: il supplizio (riservato agli schiavi ribelli) non terminava con la morte fisica del condannato, ma prevedeva che il cadavere fosse esposto alle intemperie e all'attenzione dei predatori necrofagi. Questo, secondo una mentalità condivisa dai Romani e dalla maggior parte degli abitanti dei territori da loro occupati, implicava che la loro anima non avrebbe trovato pace dopo la morte. I cadaveri esposti venivano sorvegliati proprio per evitare che fossero deposti da parenti o amici, con un'efficienza tale che è molto più facile oggi per gli archeologi imbattersi in fossili del neolitico che nei resti di qualche condannato romano. Il fatto che il corpo di Gesù di Nazareth non fosse reperibile, insomma, di per sé non era una notizia; a meno che lo stesso Gesù non fosse stato deposto. Ma per staccarlo dalla croce occorreva il permesso dell'autorità romana (quella che poche ore prima aveva emanato la condanna) e l'intercessione del Sinedrio ebraico (che aveva richiesto quella condanna con insistenza). 

Giuseppe può sembrare quel tipo di personaggio plasmato da un'esigenza narrativa: dev'essere un membro del Sinedrio, perché altrimenti non avrebbe abbastanza autorevolezza per chiedere al prefetto di staccare un condannato dalla croce; e tuttavia dev'essere anche un seguace di Gesù, evidentemente messo in minoranza nel momento in cui i colleghi deliberano di consegnarlo ai Romani; deve persino possedere una sepoltura vuota appena fuori le mura, di cui disporre rapidamente. 

Questo non significa necessariamente che Gesù di Nazareth non sia stato deposto e sepolto; è possibile infatti che al tempo di Pilato, in una terra di recente occupazione come la Giudea, i cadaveri fossero staccati dalle croci, per ottemperare alle norme rituali ebraiche. Uno dei rarissimi resti di un cadavere crocefisso è stato trovato proprio in una tomba in Palestina, e lo stesso Giuseppe Flavio, ebreo paganizzato, riporta di essere riuscito a ottenere la sepoltura di almeno uno dei tre parenti crocefissi per ribellione. Si trattava comunque di un'eccezione alla prassi, qualcosa che richiedeva da subito una spiegazione plausibile, e questo forse spiega come mai Giuseppe d'Arimatea sia uno dei pochi personaggi che compare in tutti e quattro i vangeli. 

Ogni evangelista vi aggiunge qualcosa che tradisce il punto di vista dell'autore; per Marco è coraggioso, per Luca è buono e giusto e disapprova la decisione del Sinedrio di chiedere la morte di Gesù – insomma è un rappresentante della minoranza. Matteo non menziona il sinedrio, ma con la sua tipica attenzione al dettaglio economico, precisa che la tomba era nuova, e che Giuseppe l'aveva comprata per sé. Giovanni, come spesso fa, aggiunge dettagli ridondanti e non del tutto verosimili, nominando un altro discepolo (Nicodemo) e affermando che i due avrebbero unto il cadavere di Gesù – il che però li avrebbe resi impuri proprio alla vigilia di una festa. 

Malgrado l'importanza del suo ruolo, Giuseppe scompare subito: non è menzionato negli Atti degli Apostoli; nel secolo successivo gli viene intestato un vangelo apocrifo, ma non si registrano particolari leggende su di lui, finché nel Medioevo non finisce invischiato nella mitologia bretone del Graal: sarebbe stato infatti lui a raccogliere nel calice il sangue di Cristo, o a riceverlo in sogno da Cristo stesso. E nonostante nelle più antiche storie del Graal di Giuseppe non si facesse menzione, presto o tardi gli viene attribuito una missione apostolica nelle isole britanniche. 

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Il re crociato e la diarrea

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25 agosto: San Luigi IX, l'ultimo crociato (1214-1270)

Come si fa a non mettere
il ritratto del Greco
Se durante le olimpiadi vi siete chiesti: ma insomma perché hanno invitato atleti e triatleti da tutto il mondo a bagnarsi nella Senna? Ci tenevano così tanto, a esportare la loro Escherichia coli? ebbene, sì, per i francesi non è un batterio qualsiasi: è un attributo regale e divino; senza di esso non avrebbero mandato nemmeno un re sul calendario. L'Escherichia non uccise semplicemente Luigi IX, ma gli fornì uno scopo per vivere e un metodo (non indolore) per morire. 

Luigi IX fu l'ultimo re crociato; morì a Tunisi nel 1270 e il suo cadavere fu bollito per evitare che arrivasse a Parigi già decomposto: ma questo lo sanno più o meno tutti. È l'unico re di Francia proclamato santo (Carlo Magno non conta), e di conseguenza è santo patrono della Francia. Avendo egli molto regnato e finanziato e patrocinato, è anche patrono dei carpentieri, dei barbieri e dei parrucchieri, dei distillatori, dei marmisti, dei merciai, dei ricamatori, ma se devo essere sincero io non invoco Luigi IX quando vado a tagliarmi i capelli o scheggio un marmo o bevo un distillato. Il momento tipico in cui mi capita di pensare a Luigi IX è... quando soffro di dissenteria. Imbarazzante, sì, specie se mi succede in viaggio e mi succede quasi in tutti i viaggi, a un certo punto: mi ritrovo prigioniero in un piccolo servizio igienico (specie se sono in Francia, dove il gabinetto è quasi sempre segregato dal bagno, come un confessionale) a patire i crampi e pensare a Luigi IX. 

Quest'ultimo ne morì, il che non è affatto eccezionale. Un sacco di gente muore di dissenteria tutti i giorni, è anzi uno dei modi più tipici in cui muoiono gli esseri umani, nonché uno dei meno dignitosi, fuori dalla Francia. Ma Luigi ne era il re, e prima di morirne ne soffrì per molti anni, almeno a partire da quella guerra che condusse in Aquitania per ridurre a più miti consigli i valvassori fedeli ai Lusignano e il loro insidioso alleato, Enrico re d'Inghilterra (e vassallo di Luigi). Proprio mentre inseguiva gli inglesi per ricacciarli una buona volta per tutte in mare, il che avrebbe magari evitato alla Francia quei Cent'anni di guerra nel secolo successivo, Luigi fu colto dalla prima grande crisi di dissenteria, che lo portò a un passo dalla tomba, e ribadisco, non sarebbe stato nulla di eccezionale: un sacco di soldati morivano così, per il tifo o lo scorbuto o qualche virus o batterio, spruzzando acqua scura nei canali di scolo e poi rendendo l'anima a Dio esausti come spugne strizzate. Luigi aveva già provveduto a nominare l'erede e la reggente: sua madre ovviamente, che già aveva retto il regno quando lui era un ragazzino orfano di padre. Tutto era pronto per lasciare questa terra ed essere già venerato come il più santo dei re francesi, quand'ecco che la dissenteria cessò, senza nemmeno fermenti lattici. 

Luigi promette di liberare Gerusalemme.
A volte capita, ma se capita a Luigi IX di Francia non può che essere un miracolo, e se è un miracolo non è che basta ringraziare, tirare su magari un santuario e andare avanti, no; Luigi era quel tipo di cristiano che vede la grazia in termini di contratto, se ne aveva ricevuto una evidentemente era per qualcosa che aveva promesso, e quella promessa diventava un debito indifferibile. Può davvero darsi che durante una colica Luigi avesse promesso di riconquistare Gerusalemme, da qualche anno ripresa dai Mori, e in effetti era l'unico re cristiano abbastanza potente da riuscirci. Ma avrebbe dovuto essere una conquista militare seria, non una manfrina diplomatica come quella portata a termine da quel senzadio di Federico II di Svevia – che in cambio del titolo di Re di Gerusalemme aveva rinunciato a difenderne l'accesso al mare, col risultato che qualche anno dopo nuove bande di turcomanni se ne erano impossessati facilmente. Luigi voleva liberare Gerusalemme così seriamente che fu il primo crociato a rinunciare a entrarvi: aveva infatti compreso che nella scacchiera del Medio Oriente Gerusalemme era una casella periferica. Il vero re da battere – l'emiro Fakhr-ad-Din Yusuf – regnava in Egitto: era là che bisognava colpire e fu là per l'Egitto che Luigi salpò dal porto fatto costruire per l'occorrenza, Aigues-Mortes ("acque morte"): un nome che era già un fosco presagio, benché paesaggisticamente preciso, in quanto sorgeva sulla palude della Camargue. Con Luigi viaggiava un esercito di ventimila uomini, enorme per i tempi. 

L'esordio fu incoraggiante: i francesi presero Damietta e l'emiro era già pronto a scambiare un porto così importante con Gerusalemme, città strategicamente trascurabile. Luigi era troppo pio per mercanteggiare, o forse abbastanza avveduto da capire che Gerusalemme, senza un porto, sarebbe stata presto perduta per l'ennesima volta, e continuò a dar battaglia nella valle del Nilo. A Mansura perse molti uomini ma vinse la battaglia; nel frattempo però si era rifatto vivo il sintomo del dubbio, la dissenteria. Tra tifo e scorbuto non c'era da meravigliarsi: migliaia di soldati stavano spruzzando a morte, ma per Luigi il problema trascendeva il piano intestinale. Forse la dissenteria era il modo in cui Dio gli stava dicendo che tutto sommato no, non era degno di liberare Gerusalemme. A Fariskur fu fatto prigioniero, il che gli permise perlomeno di guarire una seconda volta grazie all'intervento di un medico dell'emiro. Per qualche anno rimase prigioniero di lusso, mentre sua madre metteva insieme i soldi del riscatto, e forse furono gli anni più sereni della sua vita adulta, passata interamente a interpretare il ruolo del re saggio e pio. Visitò persino Gerusalemme, il che non equivaleva a sciogliere il voto perché quando finalmente rientrò in Patria si gettò immediatamente in un progetto di riforma dei costumi che avrebbe fatto di lui non solo un Re Santo, ma il Re di una nazione di santi: niente più giochi d'azzardo, al bando i dadi e le scacchiere (per le carte da gioco era troppo presto), proibita la prostituzione, taverne aperte solo ai viaggiatori, e così via. Si direbbe che dopo aver visto i Paesi in cui vigeva la sharia, avesse deciso di importarla in Francia. Se ci fosse riuscito, e poi avesse vinto una crociata, chi l'avrebbe vinta davvero? Avremmo scritto Arabia capta ferum victorem cepit, o l'equivalente nella lingua del Corano? È una domanda inutile, non è mai successo. Non solo Luigi non ha vinto nessuna crociata, ma non è nemmeno riuscito a togliere il vino ai francesi – probabilmente un'impresa più difficile. 

Sembra già Gerusalemme (ma è Aigues-Mortes).

Di alcune delle sue misure proibizionistiche, Luigi fece in tempo a constatare l'inefficacia: la prima a saltare fu il divieto di prostituirsi, che a quanto pare rese più difficile la vita delle donne oneste in quanto i clienti non riuscivano a distinguerle dalle meretrici clandestine. La prostituzione fu così concessa in determinati quartieri, per lo più fuori dalle mura delle città. A parte qualche contrattempo del genere, verso il 1267 Luigi doveva essersi convinto di avere santificato quanto bastava il proprio regno, perché comunicò ufficialmente il suo desiderio di intraprendere una nuova crociata, l'ottava; l'obiettivo immediato stavolta era Tunisi, dove un emiro dava segnali ambigui di insofferenza nei confronti dei mamelucchi egiziani. Luigi era convinto di poterlo battezzare e farne un proprio vassallo. Le cose non andarono esattamente così, e non molto dopo aver preso Tunisi con la forza, Luigi si ritrovò al cospetto dell'antico nemico, il virus intestinale. Morì di tifo o di scorbuto, o di schistosomiasi, e appena fu morto la crociata finì, era l'ultima, nessuno voleva più combatterne tranne lui. Morì invocando "Gerusalemme" e spruzzando, morì in modo eroico e ridicolo, e non posso farne a meno di pensarci ogni volta che mi ritrovo anch'io in una cella stretta come un confessionale, alle prese col Nemico che mi dice: ma chi ti credi di essere, ma Gerusalemme dove, non lo vedi che merda sei, e merda tornerai? San Luigi, prega per me.

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Titus Oates, vergogna del genere umano

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22 agosto: Santi John Kemble e John Wall, vittime del complottismo anticattolico. 

Titus Oates, in un periodo in cui non gli girava granché bene. 

Essere cattolici nel XVII secolo in Inghilterra era abbastanza complicato, come dimostra la quantità di martiri sul calendario. John Wall era un frate minore a Worcester, dove svolgeva anche clandestinamente mansioni sacerdotali; John Kemble a Hereford riuscì ad amministrare i sacramenti cattolici per cinquant'anni senza mettersi nei guai sino al 1679, quando entrambi finirono rastrellati durante uno degli episodi più eclatanti di isteria anticattolica in Inghilterra, il Complotto Papista. 

A questo punto mi interrompo un attimo perché scrivere di santi è meno facile di quanto possa sembrare, e ti mette quotidianamente davanti alla tua non-santità. Magari fossero tutti leggende da dileggiare. No, la maggior parte sono uomini e donne in carne ossa che fecero il possibile per dare un senso alla propria vita, secondo una scala di valori che non è evidentemente la mia, ma ci riuscirono, e soprattutto nel percorso riuscirono a migliorare la vita di tante persone. Consolarono gli afflitti, curarono gli infermi, sfamarono gli affamati, eccetera, e qualche secolo dopo eccomi qua con la mia tastierina a prenderli in giro per due clic, che bella idea che ho avuto.

Avrei fatto meglio a concentrarmi sui bricconi, come raccomandava Gianni Rodari. Studiarli uno al giorno, dettagliare le loro malefatte. Sarebbe stato più divertente, istruttivo, e soprattutto ogni sera avrei lasciato la tastiera sentendomi migliore di qualche ladro di pensioni o infame traditore o sfruttatore di meretrici. Il problema è che sui calendari ci vanno i santi, non i bricconi. Così spero che mi perdoneranno John Kemble e John Wall, se invece che sulla loro vita inappuntabile mi concentro su quella assurda del loro accusatore, Titus Oates: l'inventore del Complotto Papista. 

Il Complotto fu il Pizzagate del secolo XVII, una storia completamente sballata messa in giro da personaggi sin dall'inizio visibilmente non attendibili, ma cavalcato da una o più parti politiche per ragioni elettorali. Per "personaggi visibilmente non attendibili" mi riferisco soprattutto a Titus Oates, figura più dickensiana che shakespeariana: sembra veramente inventato da uno scrittore che voglia eccitare il pubblico con lo spettacolo di una malvagità senza redenzione. Ma nessuno scrittore ha inventato Titus Oates; e se qualche storico potrebbe averlo ritratto in modo caricaturale, partiva comunque da un modello in carne, ossa e niente scrupoli.

Titus nasce nel 1649 a Oakham, nel Rutland, nel centro dell'Inghilterra, da una famiglia di filatori che riescono a mandarlo a Cambridge. Un suo tutor anni dopo lo avrebbe definito "a great dunce", un gran somaro: ma con una buona memoria, che sarebbe tornata utile nella professione di delatore. A Cambridge Titus resta per tre anni, rimediandone non una laurea ma una reputazione di omosessuale che avrebbe trattenuto altri dal cercare un lavoro nel campo ecclesiastico. Titus invece si finge laureato (funzionava anche allora) e riesce a farsi ordinare sacerdote anglicano. Nel 1674 è già curato di una parrocchia anglicana a Hastings, ma non si accontenta: volendo subentrare a un preside locale nella direzione di una scuola, lo accusa di avere avuto rapporti sodomitici con uno studente. Il processo scagiona il preside, e Oates deve fuggire da Hastings per evitare un procedimento per falsa testimonianza sotto giuramento. 

In questi casi era meglio mettere tra sé e i giudici almeno un mare di distanza, sicché Oates riesce a farsi nominare cappellano del vascello militare Adventure. Con l'Adventure, Oates riesce ad arrivare a Tangeri, ma viene presto accusato di sodomia: un reato per cui era prevista la pena di morte, che Titus evita in quanto cappellano. Radiato dalla marina di Sua Maestà, Titus si ritrova latitante a Londra e viene presto arrestato e portato a Hastings, dove riesce inesplicabilmente a fuggire, per la seconda volta. Aveva evidentemente qualche amico nei posti giusti, o forse lo ricattava. Questo spiegherebbe come mai dopo tante disavventure riesca a farsi ammettere a corte di Henry Howard, settimo duca di Norfolk. Pur essendo protestante, il duca trovava necessario mantenere un cappellano della religione anglicana, a disposizione dei membri protestanti della famiglia. Titus non sarebbe rimasto lungo presso il duca, ma è durante questo periodo che sviluppa un interesse per il cattolicesimo. Interesse che si concretizza con una conversione ufficiale, avvenuta nel mercoledì delle ceneri del 1677. Che si trattasse di una mossa insincera potremmo anche solo sospettarlo dal fatto che nello stesso periodo scrive (e firma!) una serie di pamphlet anticattolici insieme al pastore battista Israel Tonge.

Carlo II, secondo John Michael Wright

Sia come sia, l'adesione al cattolicesimo consente a Titus di viaggiare e fingere altri titoli di studio: tutto questo grazie ai Gesuiti, che lo accolgono e lo inviano prima nella sede di Saint Omer in Francia, e poi al Royal English College di Valladolid. Qui studia per diventare un sacerdote cattolico, il che però avrebbe richiesto una competenza nella lingua latina che Titus non poteva fingere. A lasciare perplessi i suoi insegnanti erano anche le affermazioni blasfeme che gli sfuggivano nelle conversazioni, nonché gli attacchi alla corona inglese; insomma nel giro di due anni Titus fu espulso anche dai gesuiti. In seguito sosterrà di aver conseguito a Valladolid una laurea in teologia: ma soprattutto racconterà di essere entrato nei gesuiti per carpirne i diabolici segreti. Il che tutto sommato è verosimile, anche se non essendo riuscito a carpirne decise di inventarsene lui. 

Il manoscritto che descriveva il complotto di un centinaio di gesuiti per uccidere re Carlo II speculava su un sentimento anticattolico che dopo il Complotto delle Polveri era molto forte; i gesuiti, e in generale tutti i "papisti" erano accusati dal popolo di aver portato in Inghilterra la peste del 1665 e appiccato il Grande Incendio del 1666, insomma in assenza di ebrei (espulsi dall'Inghilterra già nel XIII secolo) i cattolici erano divenuti i capri espiatori preferiti dalla popolazione. Il sentimento anticattolico era diventato un collante per una comunità divisa da un punto di vista religioso tra anglicani e protestanti di diverse confessioni. Il re Carlo II, che aveva ripristinato la monarchia dopo la rivoluzione in cui suo padre aveva perso la testa, aveva il suo daffare a rassicurare i sudditi sul fatto che non volesse ricongiungere la Chiesa inglese con la romana. Il fatto che avesse sposato una cattolicissima principessa portoghese certo non aiutava, così come l'idea di muovere guerra agli olandesi (protestanti) col sostegno dei francesi (cattolici). Correva voce che in cambio di questo supporto, Carlo II avesse segretamente promesso al cugino Luigi XIV di convertirsi al cattolicesimo: ed era vero. Correva voce che il fratello di Carlo ed erede al suo trono, Giacomo duca di York, si fosse già convertito: ed era vero pure questo. Gli inglesi che in generale avevano salutato il ritorno di uno Stuart sul trono, dopo la dittatura cromwelliana, non avrebbero tollerato un'altra Maria la Sanguinaria. Insomma Titus Oates si trova a vivere in un periodo e in un luogo dove c'è una sentita necessità di un libello anticattolico, qualcosa che dimostri inappuntabilmente che i cattolici sono ancora terroristi assetati di sangue come ai tempi di Guy Fawkes; qualcuno prima o poi quel libello l'avrebbe scritto. Decide di scriverlo lui, con l'aiuto di Israel Tonge che però secondo gli storici credeva in quello che Oates stava inventando. Tonge soprattutto è funzionale a mettere in scena il ritrovamento, nell'abitazione che condivideva con un medico, sir Richard Barker. Quest'ultimo decide di mostrarlo a sir Christopher Kirkby, un chimico che aveva il privilegio di assistere il re nei suoi esperimenti scientifici. 

Avvisato prontamente da Kirkby di questo diabolico complotto di cento gesuiti per assassinarlo, il re non rimane così impressionato: la sua vantata disponibilità nel ricevere i sudditi a corte faceva sì che complotti del genere gli venissero ventilati spesso. Ma perché mai i cattolici avrebbero dovuto uccidere proprio lui, che garantiva loro la libertà di culto in Inghilterra? Allo stesso tempo non si poteva ignorare un'accusa che veniva da personaggi autorevoli, e così la pratica viene passata a Thomas Osborne, duca di Leeds e uomo chiave di quella fazione parlamentare che si cominciava a chiamare Tory. Osborne tutto era fuorché un ingenuo, per cui è molto difficile che abbia deciso di sostenere in buona fede due personaggi come Tonge e Oates e la loro storia di gesuiti assassini. È più probabile che abbia aiutato i due a rendere la storia più credibile, suggerendo altri nomi che avrebbe visto volentieri cadere in disgrazia. Il 28 settembre, presso il Consiglio Privato del Re, Oates accusa formalmente 541 gesuiti e altre personalità di fede cattolica, tra cui l'arcivescovo di Dublino, il medico della regina e il segretario di Maria Beatrice d'Este, duchessa di York e moglie dell'erede al trono. 

Maria Beatrice d'Este, che gli inglesi
chiamano "Mary of Modena", 
si vede che in inglese suona bene.

Questa udienza è il capolavoro di Titus Oates, che riesce a imporsi come teste credibile malgrado una reputazione non proprio immacolata. A impressionare il Consiglio è la memoria prodigiosa con cui snocciola nomi e dettagli del Complotto; qualcuno avrebbe potuto arguire che li conosceva a memoria perché il Complotto se lo era inventato lui, ma ognuno crede sempre a quel che vuole credere. Pescando a strascico qualcosa prima o poi si trova, e in questo caso si scoprì un incriminante carteggio privato tra il segretario di Maria Beatrice e il confessore di Luigi XIV. Il Consiglio fornì a Oates una scorta armata con il compito di arrestare i gesuiti di cui conosceva gli indirizzi, avendoli frequentati al tempo della sua conversione. 

Qui cominciano i fatti di sangue. Il 17 ottobre sir Edmund Berry Godfrey, un magistrato anglicano, viene trovato in un fosso, strangolato e trafitto dalla sua stessa spada. Godfrey stava indagando sul Complotto e aveva ricevuto le dichiarazioni ufficiali di Oates e Tonge. Finalmente un delitto di chiara matrice cattolica, qualcosa che può comprovare che i cattolici uccidono. Oates ha il vento in poppa ma forse non ha la percezione dei propri limiti, e a fine novembre accusa la regina di aver progettato con il medico di corte l'avvelenamento del re. Qui Carlo II perde la pazienza e decide di interrogare personalmente Oates. Trovandosi per la prima volta davanti a un inquirente che non crede volentieri alle sue bugie, Oates comincia a perdersi in contraddizioni e smentite. Per rafforzare la sua posizione, ha l'ingenua idea di raccontare di un suo colloquio col Reggente di Spagna. Carlo II, che lo aveva conosciuto personalmente negli anni dell'esilio, chiede a Oates di descriverlo. Oates non ha la minima idea di come sia fatto il Reggente, e Carlo II lo mette in stato di arresto. Questa caduta in disgrazia dura appena due giorni, perché il Parlamento non approva la mossa del Re e minaccia una crisi costituzionale. Non solo Oates viene liberato, ma essendo il suo benessere di interesse nazionale, il parlamento gli garantisce un alloggio a Whitehall a spese dello Stato, e una pensione annuale di 1200 sterline. Ma siamo pur sempre nel Seicento: a che serve una pensione annuale se non hai un cognome e uno stemma nobiliare? Oates briga presso le autorità araldiche finché non riesce a farsi consegnare lo stemma di una casata estinta; nel frattempo cerca di combinare un matrimonio con la figlia del marchese di Shaftesbury.

Nel giro di tre anni 15 sudditi di fede cattolica vengono giustiziati (tra cui John Kemble e John Wall). Oliver Plunkett, arcivescovo di Armagh, viene impiccato, sbudellato e squartato alla vecchia maniera. Dopodiché il vento cambia. Arresti e processi proseguono, ma i giudici sono sempre più titubanti. Dopo aver fornito agli inglesi un capro espiatorio, ora il Complotto poteva servire a incriminare chi lo aveva promosso: in particolare Thomas Osborne, che in parlamento si era fatto troppi nemici e che stava per essere rinchiuso nella Torre di Londra. 

Nell'estate del 1681 la campana comincia a suonare anche per Titus Oates. Il 31 agosto riceve l'ordine di sgomberare i suoi appartamenti: non solo non obbedisce, ma accusa pubblicamente il re e il duca di York. Tanto bastava per arrestarlo per sedizione. Nel frattempo Carlo II, sempre più insoddisfatto dei suoi parlamenti, ne scioglie un paio. I sudditi sembrano dalla sua parte, forse impiccando qualche cattolico ha ottenuto la loro fiducia. Qualche protestante cerca di ucciderlo davvero, ma la sua morte improvvisa nel 1685 secondo gli storici fu più probabilmente causata da un'insufficienza renale, magari in parte dovuta ai suoi esperimenti col mercurio. Al suo posto sale al trono il fratello Giacomo, ora Giacomo II: è quello che i protestanti temevano da anni, e in effetti il Complotto Papista non era che parte delle misure prese dai nemici di Giacomo per impedire che la corona d'Inghilterra fosse cinta da un re cattolico. Per Oates, soprattutto, è una pessima notizia. Uno dei giudici che aveva creduto volentieri alle sue storie quando si trattava di mandare al patibolo cattolici innocenti, lo definisce "una vergogna per il genere umano"; non potendo condannarlo a morte (non era una pena prevista per il reato di spergiuro) lo condanna al carcere a vita e a essere "frustato per le strade di Londra cinque giorni all'anno per il resto della sua vita".

Si stabilisce inoltre che nel 1685 i giorni siano consecutivi: il primo giorno viene messo alla gogna davanti ai cancelli di Wstminster Hall, dove i passanti potevano lanciargli le uova. L'indomani fu esposto a Londra, il terzo giorno attaccato a un carretto e frustato da Aldgate a Newgate; il quarto giorno da Newgate a Tyburn. Oates sarebbe rimasto in prigione fino al 1689, quando gli equilibri religiosi vengono sconvolti da una nuova rivoluzione, quella Gloriosa. I protestanti inglesi, sempre più insofferenti di un sovrano assoluto e cattolico come Giacomo II, si erano rivolti al genero di quest'ultimo, l'olandese Guglielmo d'Orange, che nel 1688 viene incoronato con la moglie Maria (figlia di Giacomo). Oates viene graziato e indennizzato con una pensione di 260 sterline all'anno, che poi diventarono 300. Morì nel 1705, dimenticato più o meno da tutti: una frase che nel suo caso suona persino pietosa. Il Complotto era stato un fenomeno di costume; sull'assassinio di sir Godfrey era stata composta una ballata popolare, che un grande disegnatore, Francis Barlow, aveva illustrato con una storia divisa in vignette. I personaggi di Barlow parlavano mediante dei fumetti che uscivano dalle loro bocche; può darsi che l'espediente non fosse nuovo, ma la storia di Barlow è il più antico esempio di storia a fumetti che ci sia arrivata. Quanto a me, ho appena finito di scrivere la mia storia di Titus Oates e mi sento decisamente una persona migliore. Dopo tutto non ho mai inventato complotti per mandare in prigione nessuno. Quasi mai.


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Locandiera, imperatrice, santa

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18 agosto: Sant'Elena (248-329), madre di Costantino. 

Una versione ringiovanita di Sant'Elena 
sogna la Santa Croce prima di svegliarsi
e andare in Terrasanta a recuperarla 
(Veronese). 

Nel 326 Costantino, ormai incontrastato Augusto di tutto l'impero, condanna a morte il figlio di primo letto (Crispo), colpevole di avergli insidiato la seconda moglie, Fausta. Poi se ne pente, forse si rende conto della sua innocenza, e fa uccidere anche Fausta. Il senso di colpa derivato da queste esecuzioni, secondo il successore Giuliano, avrebbe portato Costantino ad avvicinarsi al cristianesimo: l'unica religione che avrebbe potuto perdonargli un simile peccato. Non possiamo fidarci di Giuliano (che irrideva il perdonismo dei cristiani), né degli altri cronisti, tutti di estrazione cristiana e generalmente teneri con l'imperatore che aveva posto fine alle persecuzioni. Però è sintomatico che la svolta religiosa di Costantino porti sotto i riflettori un personaggio femminile, forse l'unico spendibile dopo che l'imperatore aveva fatto fuori la seconda moglie: Flavia Giulia Elena, sua madre. 

Su di lei le fonti dicono poche cose e tutte contraddittorie: ad esempio per Eusebio da Cesarea fu il figlio Costantino a convertirla, mentre Ambrogio, forse riflettendo sul fatto che Costantino si fece battezzare solo sul letto di morte, era propenso a immaginare il contrario: una di quelle mamme che lottano tutta la vita per convertire il figlio, come Monica, madre di Agostino. In generale viene presentata come un modello per le future regine o imperatrici: non si immischia nella politica, ma spende danaro e tempo in beneficienza, soccorrendo gli afflitti anche travestendosi da donna del popolo. Del resto era una donna del popolo: quando il generale Costanzo Cloro l'aveva trovata e messa incinta, da qualche parte in Bitinia, era una stabularia. Così almeno la definisce Ambrogio: bona stabularia. Che potrebbe significare: una brava locandiera. Ma anche: una brava figlia di un locandiere. In ogni caso non una nobildonna. 

Elena aveva seguito il padre di suo figlio nella sua lunga trafila per diventare Cesare e poi Augusto, mettendosi da parte quando a Costanzo era stato imposto un matrimonio di rango: solo dopo il trionfo del figlio era arrivata a Roma come moglie di un Augusto, e quindi Augusta: anche se nessuno è mai stato in grado di stabilire se i due fossero regolarmente sposati (almeno in un passo Girolamo osa definirla concubina). 

La fama di Elena è legata al ritrovamento di alcune importantissime reliquie, avvenuto durante un viaggio in Terrasanta intrapreso in tarda età (secondo Eusebio aveva 80 anni quando tornò) che forse serviva a ribadire l'unità dell'Impero mentre Costantino era impegnato in Occidente. Elena avrebbe recuperato la sacra Croce, insieme a quelle dei ladroni (quella Sacra fu riconosciuta perché faceva i miracoli), i Santi chiodi (uno dei quali sarebbe stato fuso nella Corona Aurea) e altri tesori subito portati a Roma. Anche Elena ovviamente, alla sua morte, sarebbe diventata una reliquia preziosa: sepolta prima in un sontuoso mausoleo fuori Roma, poi traslata a Costantinopoli, almeno finché non arrivano i crociati nel XIII secolo, dopodiché le voci si moltiplicano, chi la vuole a Parigi, chi a Venezia. A Roma è rimasto il mausoleo, la cui facciata, franando, ha rivelato una grande quantità di anfore che però nel frattempo i romani si erano messi a chiamare pignatte; così il mausoleo è diventato Tor Pignattara.


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Chiara le cose le sa e basta

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17 agosto: Chiara della Croce (1268-1308), la monaca che sapeva tutto. 

Gesù appare a Chiara,
le imprime alcune immagini sul cuore,
e la invita alla santa delazione. 

Tra i vari doni fatti da Dio a Chiara di Montefalco (oggi in provincia di Perugia), forse come ricompensa per aver cominciato a flagellarsi e a mettersi il cilicio sin dalla prima infanzia, e aver seguito la sorella maggiore Giovanna prima nel reclusorio e poi nel monastero agostiniano da lei fondato... tra i vari doni vi era quello della Scienza Infusa: ovvero sapeva tutto o quasi tutto senza doverlo imparare; lo sapeva e basta. Questo spiega molte cose, ad esempio come mai fosse eletta badessa del monastero della Santa Croce alla morte della sorella, benché avesse appena 23 anni; come mai i cardinali più influenti non disdegnassero di corrispondere con lei o addirittura di incontrarla, e soprattutto come riuscì a denunciare al pontefice la setta dei Fratelli dello Spirito di Libertà. Perché è pur vero che i Fratelli battevano la campagna umbra diffondendo idee pericolosamente eretiche, ma lei, tutta chiusa nel suo eremo e rivolta alle cose del cielo, come faceva a saperlo?

Chi la informava? Il resoconto steso dal biografo di Chiara, Berengario di Sant’Africano, lascia perplessi. Dobbiamo credere che Chiara venga abbordata da un tale fra' Giacomo che cerca di convincerla che l'inferno non esiste e che l'anima in vita possa perdere il desiderio. Queste idee fra' Giacomo le avrebbe esposte alla santa, in un colloquio orale: ovvero non abbiamo documenti scritti. E se vi state chiedendo come avrebbe fatto un frate a entrare in un monastero femminile agostiniano per spiegare che l'inferno non esiste, ebbene, l'unica spiegazione possibile è che questo fra' Giacomo fosse un confessore delle monache. Messa in guardia da un sogno premonitore, Chiara respinge le idee di fra' Giacomo, il quale a questo punto potrebbe anche dirsi va bene, ci ho provato, pazienza, dopotutto questa tiene corrispondenza con tutti i cardinali, forse è meglio concentrarsi su obiettivi meno rischiosi, pastorelle, artigiani. Invece no! Fra' Giacomo decide di rivolgersi al leader del Libero Spirito, Bentivegna da Gubbio: vieni con me da Chiara di Montefalco, vediamo se riusciamo a convincerla che il libero amore è praticabile (in realtà non possiamo essere sicuri che i Fratelli del Libero Spirito praticassero il libero amore: è una delle più classiche accuse che si muovevano nei processi per eresia). E Bentivegna da Gubbio come aveva reagito all'invito? Bentivegna, che in gioventù era riuscito a evitare per un pelo il rogo abbandonando al loro destino l'Ordine degli Apostoli di Gerardo Segarelli; Bentivegna che per salvarsi la pelle aveva preso il saio dei Frati Minori, e per l'eloquenza e la rettitudine ormai godeva in zona della fama di santo, Bentivegna avrebbe detto: ma perché no? andiamo assieme a raccontare tutte le nostre idee eretiche a un'amica dei vescovi come Chiara della Croce, cioè in pratica andiamo a costituirci e vediamo se ci carcerano a vita o ci bruciano subito.

Chiara e Bentivegna avrebbero avuto, secondo Berengario, almeno due colloqui, durante i quali il frate invano avrebbe discettato per ore di desiderio e libero arbitrio, citando versetti delle Scritture; tutto inutile, perché Chiara, essendo Scienza Infusa, non aveva bisogno di conoscere le Scritture e nei fatti non le aveva mai lette (non fate quella faccia. Voi li leggereste i libri, sapendo già come vanno a finire?) In compenso aveva Gesù che di notte le appariva e le pregava di essere più severa con le idee eretiche di quel frate. Così Bentivegna se ne sarebbe andato senza riuscire a convertire le monache al libero amore: e di lì a poco sarebbe stato arrestato in quanto eretico, anzi eresiarca. Indovinate chi aveva fatto la soffiata: Chiara della Croce, esatto. Gesù le aveva pregato di scrivere una lettera al cardinale Napoleone Orsini.

Ubertino da Casale nel film.

Le cose strane non finiscono qui. A condurre il processo fu chiamato Ubertino da Casale, che in quel periodo era il cappellano del cardinale. Se ricordate vagamente il suo ruolo nel Nome della rosa, potreste stupirvi di trovarlo pochi anni prima nei panni di inquisitore. Ma Ubertino è una figura complessa. Anche lui, come Bentivegna, in gioventù aveva sognato una rivoluzione pauperistica, ispirata alla figura di Francesco d'Assisi ma soprattutto alle profezie di Gioachino da Fiore. Qualche anno prima che Celestino salisse al Soglio, proprio Ubertino aveva previsto un "papa angelico" che avrebbe trasformato la Chiesa in un regno di pace e di rettitudine; il che poi lo aveva maggiormente esposto alla delusione quando Celestino aveva abdicato. Ubertino era uno dei massimi rappresentanti della corrente spirituale dei francescani, quella più vicina al pensiero di Francesco, più lontana ai diktat dei pontefici, e più esposta alle accuse di eresia. Cinque anni prima che scoppiasse il caso Bentivegna, anche Ubertino era caduto in disgrazia: papa Benedetto XI gli aveva proibito di predicare e lo aveva mandato al confino alla Verna (lo stesso eremo dove anni prima era stato mandato a morire Francesco). Ubertino però era sopravvissuto, aveva scritto l'Arbor vitae crucifixae Jesu Christi, in cui ribadiva le tesi millenariste di Gioachino che in un qualche modo riuscivano ancora a far breccia, perché già nel 1305 lo troviamo alla corte del cardinale, che lo ritiene l'uomo giusto per condannare un collega come Bentivegna. Che senso ha.

Non lo so. Sembra quel momento in cui nei romanzi o nelle serie un personaggio complesso viene messo davanti a un bivio. O rimani quello che sei, tutto d'un pezzo, e vai in malora; o capisci come va il mondo: e per dimostrarci che hai capito ora tradisci un tuo collega. Ubertino e Bentivegna provenivano dallo stesso humus culturale: Ubertino aveva studiato di più, Bentivegna aveva occupato posizioni più estreme, ma a vederli da poco lontano erano entrambi due fraticelli sediziosi. Se Ubertino voleva dimostrare ai cardinali di essere cambiato, di essere più ragionevole, predisposto al compromesso, forse la condanna di Bentivegna era il prezzo da pagare. Non c'era nemmeno bisogno di bruciarlo: Bentivegna, messo davanti alle sue idee, le riconobbe come eretiche e la condanna a morte fu commutata nel carcere a vita. 

Ma la domanda è: come faceva Ubertino a conoscere le idee più eretiche di Bentivegna? C'è una risposta plausibile e una ufficiale. La risposta plausibile è che Ubertino lo avesse frequentato, e magari in parte ne avesse condiviso le opinioni. Insomma, processando Bentivegna, Ubertino stava processando una parte di sé stesso: il che non si poteva ovviamente mettere per iscritto. La risposta ufficiale è che Ubertino apprese ogni informazione da Chiara della Croce, che oltre a sapere tutto per definizione, aveva avuto con Bentivegna quei provvidenziali colloqui. 

Per cui mi rimane questo sospetto, che riconoscendo a Chiara la Scienza Infusa, la Chiesa abbia voluto blindare la sua testimonianza – e semplificare la posizione di Ubertino. Il quale Ubertino subito dopo il processo sarebbe diventato il referente più autorevole e ragionevole degli spirituali, quello che veniva mandato avanti quando si trattava di negoziare. Il che non lo avrebbe messo al riparo da guai successivi; tanto che dovette a un certo punto abbandonare l'Ordine (ed entrare nei benedettini), e forse morì assassinato, ma in età già avanzata, nel 1330.    

Chiara invece sarebbe morta poco dopo il processo, a quarant'anni; la maggior parte dei quali passati a macerarsi con torture che la rendevano, anche agli occhi del più entusiasta degli agiografi "più da ammirare che da imitare". Il corpo le fu aperto, non tanto per indagare sulle cause della morte, quanto per trovare segni miracolosi che ne accelerassero la canonizzazione; sul cuore gli improvvisati anatomopatologi trovarono incisi vari simboli della Passione di Gesù tra i quali il Crocifisso, il flagello, la colonna, la corona di spine, i tre chiodi e la lancia, la canna con la spugna, quante cose si possono incidere su un cuore umano, che è grande più o meno come un pugno? E nella cistifellea trovarono tre sfere di uguale diametro, che furono subito interpretate come un riferimento alla Trinità, mentre io mi immagino questa poveretta a cui tra una flagellazione e l'altra magari capitava di soffrire un po' per i calcoli alla cistifellea, se non li avete avuti non avete idea, a cosa serve sapere tutto se sai anche quanto fanno male i calcoli alla cistifellea.

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Un papa e il suo antipapa (in miniera)

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13 agosto: Ponziano papa e Ippolito antipapa (III secolo)

San'Ippolito si fa un selfie (Antonio del Ceraiolo)

Di solito vengono definiti "antipapi" quei papi che in seguito non sono vengono più considerati tali, per cui l'eventuale conclave che li ha eletti viene considerato nullo, il loro nome eliminato dai documenti e ignorato dalla numerazione progressiva. Siccome la storia la scrivono abitualmente i vincitori, gli antipapi quasi sempre fanno una cattiva fine: uccisi o esiliati – qualcuno è riuscito a dimettersi pacificamente, ma è difficile farlo quando ti sei convinto di essere il papa. 

Il caso di Ippolito di Roma è abbastanza diverso: del resto è considerato il primo antipapa della Storia. È anche uno dei due antipapi che è stato considerato santo. Benché venga definito "di Roma", Ippolito proveniva forse dall'Asia minore. Qualche cronista lo definisce vescovo, anche se non è chiaro di che. Senz'altro era un personaggio di grande cultura e dotato di una certa verve polemica; come altri scrittori cristiani del tempo, la sfogava contro gli eretici, nei quali amava rintracciare le radici provenienti dalla cultura filosofica greca, anche per il gusto di sfoggiare la stessa cultura, mentre la censurava. Nella sua foga dialettica Ippolito non guardava in faccia a nessuno e a un certo punto accusò lo stesso papa, Zefirino, di intelligenza coi modalisti. 

I modalisti pensavano che Padre e Figlio fossero solo due "modi" di essere dell'unico Dio. Zefirino forse era tiepido nei loro confronti, ma Ippolito lo considerava "privo d'istruzione", insomma non abbastanza colto per capire la loro eresia e prenderne le distanze. Ippolito sentiva la necessità di un pontefice più dotato intellettualmente, e aveva anche in mente il candidato ideale: sé stesso. 

Invece alla morte di Zefirino (217) l'incarico passò a Callisto, un presule fautore di una linea morbida coi modalisti, ma soprattutto un maneggione con almeno una bancarotta alle spalle. Da come ne scrive, capiamo che Ippolito non riusciva a darsi pace del fatto che un tizio nato schiavo, che aveva fatto carriera amministrando i fondi del padrone (e perdendoli) fosse diventato il capo della comunità cristiana in città. Oggi sappiamo che nel terzo secolo la Chiesa aveva ormai acquisito una funzione sociale: oltre a predicare il ritorno di Cristo, presbiteri e diaconi raccoglievano fondi presso i membri più facoltosi e li ridistribuivano a chi aveva bisogno non solo di parole di vita eterna, ma anche di cure mediche o assegni di invalidità. È probabile insomma che i fondi che Callisto amministrava fossero quelli della comunità, e che questo gli avesse consentito di far carriera meglio di un teologo. 

Ippolito però questa dimensione del problema non la vedeva, o non voleva vederla: scandalizzato da una nomina che riteneva così poco meritocratica, provocò il primo scisma occidentale rifiutandosi di accettare il nuovo papa, e affermando anzi che il nuovo pontefice autentico era lui. Qualcuno gli dovette dar retta (non sappiamo quanti) perché lo scisma sarebbe durato per 18 anni, fino al 235. Nel frattempo sul Soglio ufficiale si succedettero Callisto, Urbano I e Ponziano. Durante il pontificato di quest'ultimo l'imperatore Massimino il Trace diede il via a una nuova persecuzione anticristiana, tanto che Ponziano, catturato e condannato, decise di dimettersi: ed è il primo papa ad averlo fatto, ufficialmente (delle dimissioni di Clemente non abbiamo informazioni sicure). Può darsi che la decisione sia stata influenzata dal fatto che in città esisteva una Chiesa alternativa, ovvero quella retta da Ippolito, che avrebbe potuto a quel punto reclamare il titolo; in tal caso si trattò di una precauzione inutile, perché anche Ippolito fu arrestato e condannato. 

Il papa e il suo antipapa sarebbero stati condannati "ad metalla", ovvero ai lavori forzati in una miniera sarda, dove si sarebbero incontrati. Può darsi che Ippolito abbia trovato in Ponziano un interlocutore più degno – dopotutto proveniva da famiglia nobilissima, a differenza di Callisto. Oppure fu il duro lavoro in miniera che permise a entrambi di guardare alle controversia teologica da una più giusta prospettiva, ma insomma la leggenda dice che prima di trovare insieme il martirio, Ippolito e Ponziano si sarebbero riappacificati e avrebbero chiesto ai rispettivi discepoli di fare altrettanto. Il primo scisma d'occidente si sarebbe dunque risolto in miniera, lasciandoci il sospetto di quanti altri scismi si sarebbero potuti risolvere così: i vescovi non si mettono d'accordo sul filioque? Ad metalla! C'è un papa ad Avignone e uno a Roma, qual è quello giusto? Mandiamoli entrambi in miniera! Lutero ce l'ha con Tetzel, chi avrà ragione? Ne discutano in miniera, e così via. 

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Il cane da guardia di Dio

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8 agosto: San Domenico di Guzmán (1170-1221), cane di Dio. 

Claudio Coello, 1865. Il cagnolino è in basso a sinistra. 

Capita a tanti santi di cambiare giorno nel calendario, ma il caso di Domenico è peculiare. Di solito i santi si festeggiano nel giorno della 'nascita in cielo', ovvero quando muoiono: quella data così importante che un giorno starà su tutti i nostri documenti e sulla tomba, vicino a un'altra data che conosciamo benissimo, mentre quella data non la sapremo mai, o solo per poche ore. Domenico però morì a Bologna il 6 agosto del 1221, giorno della Trasfigurazione del Signore; perciò, per evitare di sovrapporsi alla festività, quando nel 1234 fu canonizzato, assunse come festa il 5 agosto. Tre secoli dopo però il 5 divenne la festa per la dedica della Basilica di Santa Maria Maggiore (la Madonna delle Nevi), e Domenico fu retrocesso al 4 agosto, un giorno relativamente sgombro di santi importanti... fino al 1859, quando capita di morire proprio il 4 al curato di campagna Jean-Marie Vianney, un personaggio in cui la Chiesa scelse di investire molto a cavallo tra Otto e Novecento... sì, ma Domenico? Sarebbe un santo importante anche lui, è in sostanza quello che ha inventato gli ordini mendicanti, fondandone il primo (l'Ordine dei Predicatori) i cui membri ancora oggi sono chiamati col suo nome: frati domenicani. Perché deve sempre spostarsi lui?  Probabilmente l'idea è che siccome si è spostato sin dall'inizio, svincolando subito la sua festa dal giorno della morte, a quel punto tanto vale continuare a spostare lui, che c'è abituato; ecco, questo è proprio un tratto tipico di Domenico, un santo che dove lo metti sta. 

Di lui non sappiamo tantissimo perché alla fine la vita di un santo non è che debba essere per forza un romanzo; rispetto ad altre figure anche coeve, quasi completamente trasfigurate dalla leggenda, la biografia di Domenico sembra quella di un uomo vero che visse nel mondo vero, con le sue contraddizioni. Domenico si diede parecchio da fare, stimolato dall'eresia catara che soprattutto nel Mezzogiorno francese era ormai diventata una nuova religione organizzata, con vescovi che reggevano intere comunità. La Linguadoca ormai era una terra di missione e come tale aveva bisogno di missionari, una figura che nel Basso Medioevo non esisteva; gente coraggiosa e intraprendente, pronta a battere la provincia ostile senza armi che non fossero l'esempio e la parola. Una grande idea che Domenico riuscì a trasformare in un Ordine, più o meno nello stesso periodo in cui in Italia centrale Francesco d'Assisi otteneva il permesso di fondare comunità basate sulla povertà; ma se Francesco fu sin dall'inizio un personaggio da romanzo, che stimolava leggende incontrollabili, Domenico per contrasto sembrava un tipo assai più tranquillo, un professionista della predicazione senza molti grilli per la testa. 

Pedro Berruguete

Di lui gli agiografi non sapevano bene cosa raccontare: lo si capisce dalla quantità di episodi che si sono inventati, copiandoli da altri santi. Nel Quattrocento ad esempio Domenico diventa l'inventore del rosario, probabilmente perché qualcuno lo confonde col Domenico di Prussia. Da neonato, si dice, le api si posavano sulle sue labbra, uno dei miracoli in assoluto più raccontati e che probabilmente nasce da un'antica metafora che serviva a complimentarsi con i bravi oratori. Quando – abbastanza presto – i domenicani scelgono come abito il saio bianco con la cappa nera, di Domenico si comincia a raccontare che sua madre la notte prima del concepimento aveva sognato un cagnolino bianco e nero che portava tra i denti un tizzone acceso per rischiarare l'universo; cosa che era già capitata alle madri di san Gregorio, di san Bernardo e san Giuliano di Cuenca. L'associazione al cane può anche essere stata suggerita dal fatto che la festa di Domenico si celebri nei giorni della canicola, i più caldi dell'anno. Per gli uomini del Medioevo era un fatto assodato che le elevate temperature di questo periodo dell'anno fossero concausate dalla presenza nascosta della stella Sirio (il cane di Orione), che tra luglio e agosto sorge in cielo poco prima dell'alba. In questo periodo venivano festeggiati diversi santi che avevano a che fare coi cani: Bernardo, Cristoforo, persino il cane Guinefort... e Domenico.

Nel suo caso il sogno del cane assume una tinta inquietante, non solo perché i domenicani venivano definiti, con un gioco di parole da sagrestia, "cani di Dio" (Domini canes), ma perché dopo la morte del fondatore diventeranno il principale servizio di intelligence del Pontefice, e avranno un ruolo fondamentale nello sviluppo della Sacra Inquisizione; per cui forse quel tizzone, oltre a rischiarare l'universo, serviva anche a incendiarlo un poco. Questa svolta autoritaria  Domenico non poteva prevederla, ma ne divenne comunque il simbolo. A fine Quattrocento l'Inquisizione spagnola ordina al pittore Pedro Berruguete un quadro in cui Domenico in costume bianconero presiede un 'autodafé: gli eretici sono già legati al palo e cominciano a bruciacchiare, Domenico è seduto su un vero e proprio trono, sul palco d'onore. Sono raffigurazioni come queste a rendere Domenico, e il suo ordine, i bersagli preferiti della propaganda protestante, pochi anni dopo; del resto era domenicano il famigerato fra' Tetzel, inviato dal Papa a far cassa in Germania spacciando indulgenze, con lo scandaloso slogan Sobald der Gülden im Becken klingt / im huy die Seel im Himmel springt ("appena la moneta va nella cassetta, l'anima in cielo sale benedetta"). 

Domenico, per quel poco che sappiamo, non era quel tipo di frate. Non vendeva il paradiso a peso d'oro, e non riteneva giusto bruciare gli eretici, in un'epoca in cui era già un'opzione. L'Ordine che aveva fondato doveva servire all'esatto opposto: a convincerli con le parole, non coi tizzoni ardenti. Uno dei pochi aneddoti che non sembrano essere copiati da altri santi è quello dell'oste di Tolosa. Domenico era venuto a passare la notte nel suo ostello, ma quando si accorge che l'oste è cataro, si mette a discutere con lui finché all'alba non lo converte. Anche nella storia di Domenico, come in quella di Francesco, è possibile leggere in controluce una sconfitta; Francesco voleva creare una nuova società di poveri, che divenne immediatamente qualcosa di diverso. Domenico voleva ri-evangelizzare la Linguadoca, ma se alla fine dei suoi giorni lo troviamo a Bologna non è un caso; in Linguadoca non c'era più spazio per i predicatori: i catari sconfitti dalla crociata venivano sistematicamente sterminati. 

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Venerea in che senso

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7 agosto: Santa Afra, un'altra prostituta che non lo era (III secolo)

Österreichische Nationalbibliothek 
Potrebbe non esservi sfuggito che qualche tempo fa ho raccolto un po' di pezzi sui santi in un libro, il cui sottotitolo è Storie di immigrati, ladri e prostitute che hanno cambiato la Chiesa. Non l'ho trovato io ma mi è sembrato subito un gran sottotitolo, meritevole di un libro all'altezza, anche se poi trovare tutte queste sante prostitute non è così facile. Però il tentativo di rendere interessante un libro di santi ventilando la possibilità di incontrarvi ladri e puttane mi commuoveva. Mi faceva venire in mente il protagonista di Quando la moglie è in vacanza, quello che per vendere tascabili prende i classici della letteratura e ci piazza dei titoli piccanti, mi pare che Piccole donne diventasse Il segreto del dormitorio femminile ma non riesco a verificare la citazione, può darsi che fosse un'invenzione del traduttore italiano. 

Quando racconti storie di santi, devi riconoscere per prima cosa che centinaia, migliaia di persone l'hanno fatto prima di te. Non erano peggio informati di te (ma neanche meglio). Anche quando avevano obiettivi e metodi diversi dai tuoi, si sono trovati davanti talvolta gli stessi problemi che hai incontrato tu: ad esempio, non sei certo il primo che si è posto il problema di identificare una santa prostituta. È lo stesso Gesù a suggerire l'idea, almeno quando nei pressi del tempio dice ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: "prostitute e pubblicani entreranno prima di voi nel Regno dei Cieli" (21,31). Che qualche discepola di Gesù esercitasse la professione è un dubbio che sembra serpeggiare da subito: l'idea di un Salvatore che pasteggia liberamente tra prostitute e pubblicani, se ci pensate, è un'immagine che nei secoli ha sempre trovato dei propugnatori; e però se gli evangelisti non hanno difficoltà a descrivere un Gesù che si invita a pranzo a casa dei pubblicani, il collegamento con le prostitute è più ambiguo. Soltanto Luca (il solito liberal) si spinge ad affermare che la donna che unse i piedi di Gesù era "una peccatrice". Durante il Medioevo, lo abbiamo visto, la peccatrice fu identificata con Maria Maddalena: in questo modo non solo si dava il nome a una ex prostituta redenta da Gesù, ma si stornava l'attenzione da altre caratteristiche problematiche del personaggio femminile più rilevante della sua cerchia. 

E però Maddalena non bastava, o non convinceva, perché gli agiografi continuarono a cercare altre sante prostitute, e in certi casi a inventarsele. La più famosa era Maria d'Egitto, che i predicatori trasformarono in una vera e propria ninfomane (prima ovviamente della miracolosa conversione). Le prostitute vere, dal canto loro, si rivolgevano a Sant'Agnese, che era morta vergine, ma prigioniera in un bordello. Un'altra santa che si trovò associata alla professione, del tutto arbitrariamente, fu Afra, martire di Augusta (Augsberg) sotto Diocleziano; l'autore della sua agiografia più antica (ma era già l'VIII secolo) aveva trovato sul Martirologio geronimiano i nomi Afra Venerea e si era convinto che il primo fosse il vero nome e il secondo il mestiere (Venerea=prostituta). Venerea invece è un'altra santa che si festeggia il 7 gennaio, martire ad Antiochia; non è prostituta neanche lei, si chiama semplicemente così.

L'agiografo ha preferito pensare che Afra fosse una meretrice appena convertita, e arsa viva senza battesimo, il che doveva sembrare irrituale anche allora, perché in una leggenda più tarda si mette per iscritto che Afra era stata battezzata dal vescovo Narciso. Malgrado la nozione venga in seguito smentita da altri documenti della diocesi di Augusta, che la definiscono vergine, Afra è rimasta la protettrice delle prostitute pentite e veniva spesso ritratta con in mano un vasetto di unguenti. Nello stesso giorno sono ricordate la madre Ilaria e le ancelle Degna, Eumenia ed Euprepria, che restando accanto ad Afra sul rogo svelarono la loro fede e furono bruciate subito dopo.  
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Il santo che diede il nome all'aspirina (in realtà no)

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3 agosto: Sant'Aspreno di Napoli (I secolo), che non ha inventato l'Aspirina

Busto presso
Sant'Arseno al Porto
Ognuno si protegge come può. Napoli ad esempio ha 47 santi protettori, e per quanto sia una città molto devota, era inevitabile che prima o poi qualcuno passasse in secondo piano. Il caso di Aspreno (o Asprenato) è comunque eccezionale, perché si tratta nientemeno del protovescovo, ovvero del fondatore della prima Chiesa in città. Altrove risulterebbe il patrono più importante, e le sue ossa sarebbero custodite in un monumento funebre della cattedrale; a Napoli invece nel Basso Medioevo sembrano esserselo dimenticato, fino a un'inattesa riscoperta postmoderna che ricollega il santo addirittura al marchio del più popolare analgesico al mondo, ma andiamo con ordine.

Che un "Aspren", o "Asprenas" sia stato il primo vescovo a Napoli lo dicono i documenti più antichi, che però non si premurano di fornire su di lui un minimo di storia originale, qualcosa su cui i predicatori possano ricamare. La lacuna viene colmata nel nono secolo da un cronista che mentre ricostruiva la vita di un altro vescovo importante (Atanasio) decide di retrodatare l'arrivo del cristianesimo a Napoli addirittura ai tempi di San Pietro – mossa abbastanza disinvolta, dal momento che altre fonti collocavano il primo vescovo già nel secondo secolo. Per l'autore della Vita Sancti Athanasii viceversa è Pietro stesso, sulla strada per Roma, a sostare in città e a incontrare ivi una vecchietta (in seguito identificata in Santa Candida), che mette subito in chiaro come stanno le cose da queste parti: se vuoi convertirmi, dice, devi prima guarirmi; e siccome Pietro la esorcizza senza fatica, Candida decide di presentarlo a un amico che soffriva di emicrania. Quest'ultimo si sarebbe appunto chiamato Aspren (il nome latino, caduto in disuso dopo il secondo secolo, è considerato dagli storici un indizio di attendibilità). Pietro gli avrebbe toccato la testa con un bastone, tuttora custodito nel tesoro della cattedrale: in un gesto solo il tocco del guaritore e l'investitura sacerdotale. In questo modo la Chiesa napoletana sarebbe persino un po' più antica di quella romana, e cofondata dallo stesso apostolo. 

Dopo aver escogitato un episodio così interessante, che ricollega per la prima volta Aspreno al mal di testa, l'autore si attiene alla tradizione che prevedeva un ministero di ventitré anni caratterizzato dalla pia sollecitudine nei confronti dei poveri. Non si preoccupa invece di trovargli un destino da martire, forse perché sarebbe stato difficile associarlo a una persecuzione nel primo secolo (quella del 64, lo sappiamo, fu circoscritta alla sola città di Roma). Il vescovo però nelle celebrazioni veniva comunque invocato tra i martiri, il che dovette ispirare qualche altro predicatore a trovargli una fine violenta; e siccome probabilmente Aspreno veniva già invocato contro il mal di testa, una decapitazione sembrava il supplizio più congruo. A quel punto il culto per Aspreno aveva tutte le carte per resistere al tempo, e invece no: in un calendario napoletano del XIII secolo (il Tutiniano) il suo nome è misteriosamente omesso. Può trattarsi di una semplice coincidenza, ma è nello stesso periodo che abbiamo i primi documenti della devozione dei fedeli napoletani per un altro santo, che non era nemmeno stato vescovo in città (bensì a Benevento): San Gennaro. A quest'ultimo vengono intitolate persino le catacombe che custodirebbero i resti mortali dei primi vescovi, Aspreno inculso. 

Può darsi che il successo di Gennaro dipenda dall'affermarsi in città dell'influenza dei longobardi, che controllavano l'entroterra campano e avevano in Benevento la loro capitale meridionale. Si tratterebbe di un'influenza più culturale che politica, dato che l'élite cittadina si oppose fieramente ai longobardi fino all'arrivo dei normanni; Gennaro del resto è sempre stato il santo del popolo, e non è escluso che siano stati gli immigrati dal contado a imporlo su altri santi più veraci. Un'altra possibilità è che tra i 46 colleghi Gennaro si sia fatto notare perché faceva più miracoli: in particolare quelle ampolline di sangue che si liquefacevano due o tre volte l'anno, ma di cui non abbiamo documentazione precedente il 1389. Meno di tre secoli dopo, quando il Vesuvio si sveglia da un sonno secolare, Gennaro viene identificato come il protettore della città dalle eruzioni che manterranno un ritmo periodico fino al 1944. 

L'ipogeo della chiesa di Sant'Arseno al Porto

Nel frattempo Aspreno sembra scomparire dal culto popolare, al punto che non sappiamo nemmeno come dovremmo chiamarlo in italiano (il Martirologio propone Asprenato, ma qua e là si trova anche Asprenate o Asprenio). Non viene però del tutto dimenticato: ne è prova, nel Seicento, la ricostruzione di una chiesetta a suo nome nei pressi del porto, sopra la grotta che secondo la tradizione era la dimora del protovescovo, ma che in epoca classica faceva parte di un impianto termale. La piccola chiesa viene quasi del tutto demolita a fine Ottocento per far posto al palazzo della Borsa: una commissione municipale riesce tuttavia a salvare il vestibolo e l'ipogeo, ovvero la parte sotterrata, che mantiene il nome di Sant'Aspreno al Porto (o Sant'Aspreno ai Tintori) anche se ormai è appena una cappella. All'interno è custodita un'urna romana, transenne bizantine, e in una nicchia che forse fungeva da confessionale si troverebbe il foro in cui i malati di emicrania inseriscono la testa per trarne un giovamento. Uso il condizionale perché ad esempio Wikipedia dice che la fessura non è lì, ma nel duomo "nella cappella a lui intitolata, la prima a sinistra del Maggiore Altare". Il punto è che non sappiamo quando questa cosa di posare la testa in una nicchia abbia preso piede, in duomo o nell'ipogeo: come succede coi costumi più popolari, non lasciano traccia scritta e magari la tradizione data dall'antichità, oppure da chi si è inventato la diceria che collega Asprenio al nome di un popolare farmaco da banco. Un nome che forse non dovrei mettere qui per iscritto, visto che in Italia è ancora un marchio registrato. Però negli USA il copyright è scaduto, quindi se il mio blog risulta fisicamente conservato in un server americano nessuno mi potrebbe impedire di scrivere Aspirina, ops, ormai l'ho fatto. 

Chi avrà messo in giro la storia? Impossibile saperlo, ma io punterei su una delle categorie maggiormente responsabili della nascita di miti e leggende, in epoca moderna ma non solo: le guide turistiche. Bisogna concedere che la coincidenza è suggestiva: non solo Asprenio ha un nome simile, ma già da secoli svolgeva una simile funzione analgesica. Ricordo qui agli scettici che l'effetto placebo esiste, e per millenni è stato uno dei pochi rimedi contro il dolore, insieme ad alcune erbe le cui proprietà anti-infiammatorie erano note sin dall'antichità, come ad esempio l'olmaria. In effetti il nome "aspirina" ufficialmente deriva da spiraea ulnaria, vecchio nome botanico dell'olmaria (oggi si chiama Filipendula ulmaria), la pianta da cui si ricava l'acido salicilico (chiamato anche acido spireico). E siccome il collegamento tra un santo napoletano e un marchio registrato di una multinazionale farmaceutica può sembrare troppo labile agli scettici, in qualche pagina web viene evocato il nome di un chimico dell'Università di Napoli, Raffaele Piria (1814-1865), che avrebbe isolato l’acido salicilico. Piria condusse davvero  ricerche importanti sull'acido salicilico, ma non fu il primo a isolarlo. L'aspirina nasce invece nel 1897 nei laboratori della Bayer, dive Felix Hoffmann, su suggerimento del superiore Arthur Eichengrün, esterificò il gruppo ossidrilico dell'acido salicilico con un gruppo acetile utilizzando anidride acetica, ottenendo l'acido acetil-salicilico, la prima molecola sintetica della storia della farmacopea: la "a" di aspirina quindi deriva da acetile, il resto dalla spiraea, e il primo vescovo di Napoli non c'entra nulla, peccato. 

Lo stesso Hoffman in seguito avrebbe esterificato anche la morfina, nel tentativo di trovare una molecola simile ma che non inducesse quei spiacevoli effetti collaterali di assuefazione e dipendenza. In questo modo fu sintetizzata l'eroina. Una denominazione che alla fine la Bayer non registrò, quindi posso usarla liberamente (la denominazione).

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La hit più antica che conoscete

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1° agosto: Sant'Alfonso Maria de' Liguori (1696-1787), vescovo, sacerdote, fondatore dei Redentoristi, avvocato, scrittore, pittore, musicista.

Alfonso Maria de' Liguori, in una rappresentazione del XIX secolo, che lo mostra affetto da osteoartrite cervicale progressiva: perciò tiene il crocifisso con la mano sinistra

A proposito di canzoni, avrete notato che certe sembrano immortali: ma ovviamente non è così. La gente ha smesso di cantare Sinatra, e un giorno smetterà persino di cantare i Beatles. D'altro canto, certe cose di Mozart stanno reggendo davvero bene. Ma la canzone più antica che potrebbe esservi capitato di cantare, la canzone più vecchia tra quelle che conoscereste al volo, e di cui conoscete almeno una strofa e il ritornello, è stata composta due anni prima che Mozart nascesse. 

Non è decisamente una canzone per l'estate, e l'ha scritta Alfonso Maria de' Liguori, che a sedici anni era già dottore in diritto civile ed ecclesiastico, a 18 avvocato, a 22 giudice presso l'autorità portuale di Napoli, a 26 ambasciatore, dopodiché perse una causa contro il granduca di Toscana e all'improvviso si stancò. Forse aveva toccato con mano fin dove poteva arrivare la meritocrazia nel Settecento, il soffitto di cristallo. Dall'altra parte c'era il vero potere, quello che le cause semplicemente non può perderle; ma dall'altra parte Alfonso Maria non sarebbe mai arrivato: per quanto precoce, e dotato, e figlio di un comandante di marina, tutti i gradini che poteva salire, entro i trent'anni li aveva saliti. Bisognava accettare il pianerottolo a cui si è arrivati e fermarsi lì; ma spesso dietro a un talento precoce c'è un deficit di pazienza, e Alfonso Maria evidentemente fermo non sapeva stare. Così i gradini cominciò a scenderli. 

Già ai tempi dell'università, per staccarsi un po' dalle sudate carte, amava fare volontariato presso l'Ospedale degli Incurabili. Fu proprio mentre cambiava la biancheria ai malati terminali, che sentì una voce che gli proponeva di lasciare il mondo e darsi a Lui. Il che non lo distolse affatto dal cambiare la biancheria ai malati. È un dettaglio che permette di riconoscere i mistici seri: le Voci che sentono non sono mai scuse per interrompere un'incombenza. Solo verso sera (dopo aver risentito la Voce sulla scalinata mentre usciva dall'ospedale), Alfonso andò a gettarsi ai piedi della Madonna della Grazia, promettendole di diventare un padre Filippino, ovvero della confraternita dell'Oratorio fondata da Filippo Neri. Una promessa che non riuscì a mantenere, perché il padre si opponeva, e a quel tempo pare che le cose andassero così: potevi essere avvocato a 18 anni e ambasciatore a 26, ma se a 27 volevi farti Padre Filippino, dovevi ancora chiedere il permesso a tuo padre. A mo' di compromesso, Alfonso si fece prete e rimase a casa coi genitori. E siccome non poteva entrare nell'ordine dei Filippini, lo reinventò. 

Era il Settecento, un secolo complicato per gli ordini religiosi: i gesuiti in quasi tutti i regni d'Europa erano passati in clandestinità. Anche a Napoli non era consentito fondare nuovi ordini, ma Alfonso era pur sempre avvocato, e invece di chiamarlo "ordine" scelse la parola "Congregazione"; Congregazione del Santissimo Salvatore. Quando però sottopose la regola a papa Benedetto XIV, questi cambiò "Salvatore" in "Redentore", e così Alfonso Maria de' Liguori divenne il fondatore dei redentoristi. La missione era la medesima di Filippo Neri: riportare il vangelo ai poveri. Ma se gli Oratori sorgevano nei centri più importanti, per Alfonso si trattava di evangelizzare le sterminate campagne del regno. Che quella dovesse essere la sua missione lo ribadì un altro papa, Clemente XII, che trent'anni dopo lo nominò vescovo di Sant'Agata de' Goti, oggi in provincia di Benevento. 

Per parlare al pubblico che si era scelto, sin dall'inizio del suo apostolato, Alfonso aveva bisogno di una teologia semplice e accogliente, basata sull'amore di Dio più che sul timore dell'inferno: qualcosa che avrebbe infastidito gli intellettuali cattolici più sensibili al giansenismo, ma tanto quelli stavano in città. E poi aveva bisogno di canzoni, perché come diceva Agostino d'Ippona, chi canta prega due volte; e si addormenta meno facilmente, aggiungo io. Alfonso aveva studiato musica, mentre studiava legge e disegno; era un buon clavicembalista, ma la canzone così famosa che la conoscete anche voi potrebbe aver preso qualcosa dalle melodie dei pastori zampognari (se fate caso alla nota di bordone). Alfonso non scrive per il popolo: scrive la musica del popolo. La prosodia (o il flow, come si dice oggi) sembra del tutto originale: se qualcun altro aveva sistemato rime e versi in strofe così, sono tutte andate perse; invece la sua è così famosa che la conoscete pure voi. Ha un titolo modesto e poco promettente (Canzoncina a Gesù Bambino), ma quello non lo avete mai sentito. Quel che avete tutti sentito è la prima strofa, che fa:

Tu scendi dalle stelle, o re del cielo
e vieni in una grotta, al freddo e al gelo.
E vieni in una grotta, al freddo e al gelo.
O-oh bambino,
mio divino,
io ti vedo qui a tremar,
o Dio beato:
ahi, quanto ti costò,
l'avermi amato.

La seconda strofa potreste non ricordarla; magari non l'avete nemmeno mai sentita. È un peccato, perché come in altri casi è la strofa rivelatrice. Perché Tu scendi dalle stelle ha avuto il successo che ha avuto? Di canzoni di Natale ne sono state scritte tante. Ognuna ovviamente si sofferma su qualcosa di diverso. Le canzoni nordiche più spesso su luci e addobbi. In ambito anglosassone assume più importanza la regalità: è nato Gesù, sì, ma soprattutto è nato un re, glory to the new born king (a volte hai la sensazione che potrebbe anche non essere esattamente Gesù; l'importante è che sia un re). I tedeschi ce l'hanno con la natura: la quiete della notte, e gli alberi, oh gli alberi. E agli italiani? Cosa interessa agli italiani, di tutta la storia? Francesco d'Assisi una sua idea ce l'aveva. Già ai suoi tempi era un'idea pericolosa, sul filo dell'eresia, ma il presepe a quanto pare lo ha ideato lui. Cinquecento anni più tardi, Alfonso Maria de' Liguori batte ancora sullo stesso chiodo: i poveri. Le luci, d'accordo, la natura (ma la neve è fredda e le stelle non riscaldano). È nato un re, senz'altro, ma quel che davvero importa è che sia nato povero tra i poveri: e di fronte a questo mistero, l'ex avvocato prodigio si innamora. Lo dice proprio, e lo ripetiamo ancora, tutte le notti di Natale, in quasi tutte le chiese, 270 anni dopo.

A te che sei del mondo il Redentore,

mancano panni e fuoco, oh mio Signore.
Mancano panni e fuoco, oh mio Signore.
Caro eletto
Pargoletto,
Quanto questa povertà
più m'innamora,
giacché ti fece amor povero ancora,
giacché ti fece amor povero ancora.

Alfonso morì novantenne il 1° agosto del 1787 a Pagani, presso la sede della sua Congregazione, ed è sepolto lì. Mozart sarebbe scomparso tre anni dopo, a trentacinque anni. 

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I nuovi iconoclasti

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Se qualcuno si fosse mai chiesto come fa una civiltà a diventare iconoclasta – a rinunciare all'arte figurativa, dopo averla coltivata per secoli – le polemiche sul banchetto degli Dei durante la celebrazione dei Giochi Olimpici potrebbero darci un'idea. Il che non significa che non si tratti di polemiche pretestuose, elaborate e propagate da agenti in cattiva fede: ma insomma si prende una qualsiasi immagine e si decide che è offensiva in quanto rappresenta in modo caricaturale una raffigurazione sacra. A nulla valgono le obiezioni più sensate (non era l'ultima cena, ma appunto il banchetto degli Dei), perché dopo secoli di arte religiosa, anche raffigurazioni pagane o secolari non possono che richiamare modelli adoperati nell'arte sacra: l'ultima cena l'abbiamo in mente tutti, per il banchetto degli Dei serve un minimo di cultura specialistica. 

Sappiamo che qualcosa di simile è successo agli artisti durante le fasi iconoclastiche: se dipingevano persone, potevano essere accusati di avere dipinto personificazioni di Dio; se dipingevano animali, non era escluso che qualcuno li ritenesse così empi o pagani da avere raffigurato Dio come un animale. Non restava che dipingere fiori o frutta, e poi sempre più spesso motivi astratti. È il nostro destino? Dopo avere tolto ogni limite a ciò che si poteva raffigurare, cominceremo a fare passi indietro perché la gente comincia a offendersi? Credo di no; perlomeno non penso sia l'obiettivo di chi oggi si definisce scioccato da Philippe Katerine tinto di blu. Ormai abbiamo capito che offendersi è un modo di esistere, e per quanto molti offesi di questi giorni si definiscano cattolici, non è la Chiesa di papa Francesco ad avere necessità di queste campagne di indignazione per far notare la propria esistenza. Si tratta anzi di una frangia identitaria che alla Chiesa cattolica fa la guerra da tempo, i cui temi e soprattutto i toni richiamano sempre di più gli evangelicali americani (ma anche certi ortodossi). 

Forse è il momento giusto per raccontare di una cosa che è successa al mio paese pochi mesi fa. Anche se non credo di essere pronto – come tutto quello che mi capita attorno, ho la sensazione di perdermi davanti ai dettagli. Ma può essere utile per capire che questi nuovi iconoclasti non esistono solo sui social, e che a furia di seminare diffidenza e odio, qualcuno si fa male davvero. 

All'inizio di marzo un quotidiano on line "cattolico", che quasi nessuno aveva sentito nominare, fa uno scoop: in una chiesa di Carpi è esposto un quadro in cui San Longino pratica una fellatio a Gesù. "Ma come è possibile? Una fellatio in una chiesa e su un quadro che raffigura Gesù Cristo?" La "chiesa" in realtà è il museo diocesano, che però per secoli è stata una chiesa vera e ne mantiene la forma e l'atmosfera; il quadro non mostra nessuna fellatio, ma si segnala per la soluzione inedita al problema che affligge gli artisti sacri da duemila anni: come mostrare Gesù crocefisso senza svelarne le nudità?

Invece del classico mutandone, il pittore Andrea Santini decide di nascondere il basso ventre di Gesù all'ombra della testa di Longino. Ora, qui è veramente una questione molto soggettiva, ma a mio parere per immaginare che la scena descriva una fellatio serve una determinata immaginazione; non medievale, non barocca e di certo non romantica; un'immaginazione assolutamente anni Venti del secolo XXI, che attesta l'egemonia figurativa dei siti porno. Così come non riusciamo a vedere un banchetto degli Dei senza che ci venga in mente il cenacolo, allo stesso modo non riusciamo a pensare che una testa si frapponga tra noi e un membro virile senza immaginare che tra testa e membro virile non stia succedendo qualcosa. Omnia immunda immundis. Tutto l'articolo del resto mi sembra trasudi l'ipocrisia di chi conosce benissimo le scene che in teoria dovrebbero indurlo immediatamente a coprirsi gli occhi (o a cavarseli, diceva Gesù). Un po' come Pillon che invece di pensare solo alle cose del cielo twitta pubi femminili, e ormai è pure fiero di farlo, ecco, non è escluso che si arrivi all'iconoclastia anche così: perché stiamo cercando di tenere nella nostra testa paradigmi troppo diversi. Cresciamo studiando una Storia dell'Arte che per secoli consta soltanto di santi, cristi e madonne; nel frattempo su internet qualsiasi posizione sessuale è a portata di clic: alla lunga lo choc culturale ci brucia il cervello. Il quotidiano on line "cattolico" in questione è stato fondato da un signore che ha già scritto un paio di libri contro "le bugie degli ambientalisti"; ha una linea decisamente governativa ma soprattutto non perde occasione per attaccare la "Chiesa oligarchica". Un dettaglio interessante è che non contiene pubblicità: neanche una vignetta, niente. Il che forse significa che qualcuno ci sta investendo. 

Nei mesi successivi lo scoop diventa una campagna, sempre meno indirettamente rivolta alla diocesi di Carpi che aveva patrocinato la mostra (e che continuerà a difenderla, con una flemma che va riconosciuta). Accadono altre cose abbastanza strane. Vengono organizzate raccolte di firme, indette veglie di preghiera contro la "mostra blasfema", anche altri organi di stampa cominciano a chiamarla così, con le virgolette o anche senza, tanto ormai che differenza fa. Ogni sabato pomeriggio, una folla si raccoglie in preghiera davanti alla "chiesa profanata": non sono carpigiani, vengono da altre regioni coi pullman, si portano i bambini ai quali spero non abbiano spiegato troppo dettagliatamente la questione. Sono praticamente tutti bianchi, e questo in Corso Fanti fa un certo effetto; per distinguere i passanti curiosi dai fanatici in gita basta un colpo d'occhio. Fanno capannello intorno a un prete che prega in latino e si veste ancora come Don Camillo, a proposito di choc culturali. È il paradosso della destra postmoderna: rimpiange la Chiesa preconciliare e intanto vede porno dappertutto; il che significa quanto meno che i porno li vede. Alla fine non sono così tanti, e però in capo a un mese qualcuno si fa male. 

Un tizio entra nel museo con una bomboletta: comincia a usarla sul quadro di San Longino; quando interviene lo stesso autore, il vandalo tira fuori un coltello. Saltini viene ferito, il tipo scappa, le adunate di preghiera proseguono. Oltre ai fanatici da fuori, cominci a sentire qualche concittadino borbottare che forse la diocesi ha davvero esagerato, che certi quadri non andavano davvero esposti in una chiesa: e vagli a spiegare che Sant'Ignazio non è più una chiesa. C'è una distanza sempre più evidente tra la Chiesa com'è e come la immagina la gente che a volte nemmeno ci entra; una frattura tra cristiani comunitari e cristiani identitari che immaginare rimarginata non è né plausibile né giusto. 

Poi c'è un artista che si è fatto accoltellare per difendere le sue immagini, e che meriterebbe un discorso a parte. Saltini è un artista contemporaneo che cerca di riprendere temi e stilemi dell'arte sacra, davanti a un pubblico che scambia qualsiasi nudità per pornografia. Almeno in una prima fase era il primo a rivendicare il carattere ambiguo e provocatorio delle sue opere, né poteva fare diversamente: l'arte contemporanea è provocatoria per definizione. Finché non si è trovato davanti a un'interpretazione che non poteva accettare di avere provocato; il che lo ha portato a passare lunghi pomeriggi accanto alle sue opere per spiegare agli spettatori curiosi o indignati che no, non aveva dipinto una fellatio. Fatica probabilmente sprecata: qualcuno l'avrà convinto, qualcun altro lo ha accoltellato. In una città più grande, con un pubblico più smaliziato, le cose sarebbero andate diversamente. Ma l'Italia non è fatta di città molto più grandi della mia. 

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Il papa che fissò la Pasqua

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28 luglio: San Vittore I, il papa che ha fissato la Pasqua (si fa per dire) (II secolo)

Palazzo Altieri 

Sapete quando cadrà la prossima Pasqua? Bisogna sempre controllare sull'agenda. Vi ricordate quand'è stata Pasqua l'ultima volta? No, è una festa mobile. Vi rendete conto del disagio che crea questa cosa, quanti problemi nella pianificazione dei calendari scolastici e non solo, quanta confusione e tempo perso, e il tempo è denaro eccetera? Di chi è la colpa di tutto questo, a chi dovremmo teoricamente chiedere i danni? Papa Vittore I, rarissimo esempio di pontefice romano di origine africana, ha una parte rilevante di responsabilità; anche se non ha deciso niente da solo. Al massimo decise che la questione andava risolta una volta per tutte, perché già allora molte diocesi orientali festeggiavano in una data diversa da quella romana e non mi sento neanche di dare loro torto: la data romana è un disastro

Secondo la tradizione infatti la Pasqua deve sempre cadere di domenica, e fin qui non sarebbe un grosso problema – se Vittore o un altro papa avesse fissato, per dire, la seconda domenica di aprile, avremo un range di 7 giorni, un po' come i bank holidays anglosassoni. Ma dev'essere la prima domenica dopo un plenilunio, e ovviamente non un plenilunio qualsiasi: quello dopo l'equinozio di primavera. Quest'ultimo, grazie al cielo, per i Romani era un giorno fisso del calendario solare: il 21 marzo (oggi in effetti ammettiamo l'oscillazione causata dall'inserimento del giorno bisestile, ma i Romani erano gente pratica). Quanto al plenilunio, quello arriva ogni 28 giorni e mezzo, per cui abbiamo un'oscillazione di 28,5 giorni più un'altra oscillazione di sette giorni il che rende il calcolo della Pasqua romana un discreto disastro, che se non altro ha stimolato la creatività dei matematici che cercavano di calcolarlo in anticipo visto che il cielo non è sempre così limpido e la luna così visibile. 

Ai tempi di Vittore, sotto l'imperatore Commodo che tollerava i cristiani perché era cristiana la sua concubina preferita (Marcia), l'uso romano era diffuso in quasi tutte le comunità. L'eccezione era costituita da alcune diocesi orientali che festeggiavano la Pasqua nello stesso giorno della Pesach ebraica, ovvero il 14 del mese ebraico di Nisan: da cui la definizione di quartodecimani. Ora, non è che il calcolo della Pesach fosse molto più semplice: il calendario ebraico è lunisolare, c'è comunque un'oscillazione di quasi un mese. I quartodecimani difendevano la loro tradizione associandola a personaggi autorevoli come Policarpo di Smirne e lo stesso Giovanni evangelista, e fino a papa Vittore avevano goduto di una certa tolleranza. Vittore prese la questione di petto: chiese di convocare sinodi in tutte le province, e quando la maggioranza si pronunciò per l'uso romano, considerò l'opzione di scomunicare i quartodecimani: se probabilmente non lo fece, fu per l'intervento mediatore di Ireneo di Lione

La questione continuò a trascinarsi per qualche decennio, però nell'occasione Vittore dimostrò di considerarsi, se non già il capo della Chiesa, senza dubbio un primo tra pari: quello che promuove le discussioni, riconosce le decisioni della maggioranza e mette in riga le minoranze. Per questo motivo è stato definito il "primo Papa", cioè il primo vescovo di Roma ad aver assunto un atteggiamento pontificale che più tardi sarebbe stato messo più volte in discussione – specie quando Roma smise di essere il centro dell'Impero. 

Vittore morì a quanto pare martire quando ricominciarono le persecuzioni. Fu dopo la morte di Commodo, vittima di una congiura a cui aveva preso parte la sua concubina (Marcia). Quanto alla data della Pasqua, quasi duemila anni dopo se ne discute ancora: anche se l'uso quartodecimano sembrava ormai estinto già ai tempi del Concilio di Nicea, gli ortodossi osservano ancora il calendario giuliano mentre a partire dal XVI secolo i cattolici sono passati al gregoriano. Qualche anno fa papa Francesco propose di trovare una data comune, poi non se n'è più parlato e comunque sarebbe sempre una data mobile. Io ho una proposta molto più semplice: aboliamo le vacanze di Pasqua (manteniamo solo pasquetta, che è un lunedì e non intralcia più di tanto), sostituiamole con dieci giorni di vacanze di primavera fissi, dal 20 aprile al primo maggio. Sarebbe tutto molto più semplice, davvero. 

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Sant'Anna e il primo bacio

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26 luglio: Santi Anna e Gioachino, nonni di Gesù

Hai capito i due vecchietti. 

Per molto tempo negli affreschi nessuno ha osato baciarsi; la pratica – pure attestata in letteratura sin dall'antichità – non sembra fosse ritenuta degna di raffigurazione. Troppo oscena? Se così fosse, probabilmente almeno un bacetto lo avremmo trovato sulle pareti dei bordelli di Pompei (in mezzo a scene più esplicite, che non è necessario rammentare ai lettori). Invece per vedere veri baci tra persone adulte bisogna a quanto pare pazientare fino alle soglie del secolo XIV, quando un artista già affermato come Giotto di Bondone passa da Padova per lavorare alla Basilica di Sant'Antonio ed Enrico Scrovegni gli propone di arrotondare affrescandogli una cappella di famiglia. Può darsi che il carattere privato dell'opera abbia contribuito ad allentare certe inibizioni, fatto sta che nella Cappella degli Scrovegni, Giotto piazza lì come se fosse niente i due primi baci della Storia dell'Arte, che sarebbero capolavori anche se non fossero i primi. 

Uno dei due è il bacio di Giuda a Gesù nell'orto degli ulivi, il che ci indurrebbe a tutta una serie di considerazioni amarognole sul fatto che il primo bacio noto in pittura sia il suggello di un atroce tradimento; senonché sull'altra parete c'è un bacio ancora più interessante, tra due adulti consenzienti, coniugati e innamorati: Anna e Gioachino, i nonni materni di Gesù. Ancora per qualche secolo gli unici ad avere la licenza di baciarsi nei quadri e sulle pareti saranno loro, anche se non molti pittori mostreranno il coraggio di Giotto, persino nel Rinascimento. Più spesso, invece di dipingerli a labbra accostate, preferiranno fermarsi un attimo prima, quando i due volti non sono ancora troppo vicini; e sopra di loro aggiungeranno un angelo che con le mani li sollecita al gesto. Per quanto questo possa apparire un po' morboso alla nostra sensibilità, l'intenzione era esattamente l'opposta: alludere al concepimento carnale di Maria con un gesto che esprimesse affetto tra i coniugi ma il minimo di concessione alla sensualità. Il primo bacio non è in effetti un bacio qualsiasi. Durante il Medioevo aveva preso forma l'idea che Maria di Nazareth fosse stata concepita "per osculum", attraverso questo bacio. 

La leggenda si intrecciava con la questione del peccato originale: secondo alcuni teologi (gli "immaculisti"), Maria era stata creata senza peccato originale, prima donna dai tempi di Eva. Ed evidentemente ad alcuni immaculisti – non a tutti – la sessualità risultava irrimediabilmente intrecciata col peccato di Adamo e di Eva. Dopotutto la punizione inflitta da Dio a quest'ultima prevedeva le doglie del parto ("partorirai con dolore").  Così poteva sembrare appropriato che Maria, in quanto Immacolata Concezione, non fosse stata concepita e partorita nel modo così crudo in cui veniamo alla luce noi peccatori. 

Sacra Famiglia con Sant'Anna e San Giovannino
(Bernardino Luini, da un cartone di Leonardo da Vinci)

L'episodio del bacio, conosciuto come "incontro alla porta d'oro", è narrato nel protovangelo di Giacomo, il testo apocrifo che se non inventa Anna e Gioachino (mai nominati nei Vangeli) di certo li trasforma nei personaggi che per secoli avrebbero riempito lo sfondo delle pale d'altare. Che a Gerusalemme ci fosse una porta d'oro, dove i due coniugi si sarebbero incontrati dopo essersi temporaneamente separati, non risulta agli archeologi, ma non bisogna aspettare Freud per capire quanto sia prezioso per l'uomo quel varco finalmente aperto: è la breccia attraverso cui Adamo ed Eva uscirono dal giardino dell'Eden, la porta che dopo secoli viene riaperta attraverso il grembo di Maria. L'autore del protovangelo ha lavorato molto di fantasia, ma non era un contafrottole qualsiasi; rispetto ad altri pseudoevangelisti capisce la necessità di mantenere una coerenza narrativa col materiale evangelico. Dovendo raccontare l'infanzia di Maria a un pubblico che era curioso di conoscerla, e non disponendo probabilmente di una minima informazione utile sui suoi genitori, decide di riprendere due personaggi dell'Antico Testamento, i genitori del profeta Samuele, senza nemmeno preoccuparsi di cambiare nome al personaggio femminile. Anna e Gioachino sono l'ennesima coppia sterile della Bibbia, cui il Signore promette una discendenza in cambio di una serie di prove. In particolare Gioachino, che aveva sposato Anna già vedova, deve subire un'umiliazione (non gli viene concesso di partecipare a un sacrificio, in quanto considerato sterile) e ritirarsi nel deserto: lì lo raggiunge in sogno l'angelo custode per esortarlo a ricongiungersi con Anna, la quale dopo un sogno molto simile si reca alla Porta d'Oro per incontrarlo. Il bacio suggella quindi l'incontro dopo una separazione, la speranza dopo la disperazione, un patto con Dio e una promessa reciproca: tante cose che secondo Giotto di Bondone richiedevano una raffigurazione esplicita, e non c'è che da essergliene grati; anche se per qualche secolo baciarsi in pubblico continuerà a non essere una pratica così frequente. 

Il successo di Anna nelle arti figurative non si limita alla scena del bacio, e dipende probabilmente dall'interesse dei committenti per un certo tipo di quadri che raffigurassero Gesù e altri personaggi evangelici durante l'infanzia o la giovinezza, e in contesti domestici. Siccome questi quadri spesso li pagavano i nonni, era opportuno accostare a alla giovane madre Maria una figura femminile più anziana e autorevole. Essendo uno dei pochi punti fermi del cerchio parentale di Gesù, Anna fu inevitabilmente coinvolta in altri legami da agiografi restii a inventarsi ulteriori personaggi: secondo alcuni dopo la morte di Gioachino si sarebbe sposata altre due volte, mettendo alla luce Elisabetta (madre di Giovanni Battista) e Maria Salomé, madre di Giacomo Minore: un tentativo di ribadire che il cosiddetto "fratello del Signore" ne era in realtà il cugino. Questa leggenda fu severamente censurata dal Concilio di Trento, ma non prima di aver permesso ai pittori di dipingere interni in cui Gesù ragazzino gioca con Giovannino e Giacomino o altri santi bambini, sotto gli occhi attenti di una matrona paziente, di solito vestita di verde.

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Veronica che fotografò Gesù

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12 luglio – Santa Berenice/Veronica, paleo-fotografa. 

Grazie Gesù (e chi ti smacchia più) (Mattia Preti).
[2018]. Berenice in greco significa "porta la vittoria". La B già in quei secoli si pronunciava V, la C è sempre stata dura: "Veronica" è la versione latina dello stesso nome, ma verso il 1200 si insinuò un'altra etimologia, "vera icona", vera immagine. Berenice è la pia donna che terge il sangue e il sudore di Gesù nella sesta stazione della Via Crucis, una liturgia ispirata alla passione e morte di Gesù Cristo. Pur seguendo abbastanza fedelmente il racconto dei vangeli, la Via Crucis aggiunge qualche dettaglio che aveva preso forma nella tradizione medievale: le tre cadute sulla via del Calvario e appunto la  Berenice/Veronica, l'unico personaggio della Via Crucis che ai vangeli non risulta. Era comunque una figura molto popolare, a cui non si poteva negare un siparietto – anche se nella versione ufficiale viene omesso il dettaglio più sensazionale e controverso: sulla pezzuola offerta da Berenice a Gesù sarebbe rimasta miracolosamente impressa l'immagine del Suo volto. Non una strisciata di pur preziosissimo sangue, ma un'immagine completa: e non dipinta da mano umana, ma impressa miracolosamente nelle fibre del tessuto. "Acheropita", dicevano i greci (="non fatta da mano"). Una Vera Icona, dicevano i cristiani d'occidente.

Una fotografia, diremmo noi.

La Veronica di Hans Memling
(1475, notate le due punte della barba).
È forse la prima volta nella storia della fantasia occidentale che la fotografia viene non inventata, ma almeno immaginata: e per essere una fantasia è già sorprendentemente nitida. C'è già l'idea del ritratto, e soprattutto dell'istantanea, dello scatto, ovvero la cosa che più distingue la pittura dall'arte fotografica molto al di là da venire (anche dopo l'invenzione della camera oscura e del dagherrotipo, ci vorrà ancora parecchio tempo prima di ottenere immagini istantanee). È un'idea straordinaria, che nasce nelle terre dell'Impero d'Oriente, in una situazione storica molto particolare, ma alla Chiesa d'occidente non è andata sempre a genio: e così nella Via Crucis approvata da Roma, Veronica dovette limitarsi a raccogliere sangue e acqua, senza ricavarne nessun'immagine miracolosa. I predicatori confondevano volentieri Berenica/Veronica con un'altra comparsa femminile dei vangeli, l'emorroissa guarita da Gesù. La leggenda però non era sparita del tutto e ogni tanto qualcuno riportava dalle terre d'oriente una santa veronica. Il telo era meno richiesto della scheggia della Vera Croce o della Vera Lancia, ma comunque anche per gli asciugamani col volto di Cristo c'era un mercato. Non si doveva nemmeno dimostrare che fosse la veronica originale: i fedeli si sarebbero accontentati di una copia il più possibile conforme.

Il Volto di Vienna.
Questo spiega ad esempio come mai se ne venerino senza difficoltà tuttora una mezza dozzina: un paio in Spagna, ad Alicante e a Jàen; una a Genova nella chiesa di San Bartolomeo degli Armeni (dono dell'imperatore Giovanni V Paleologo). Quella nella Schatzkammer del palazzo Hofburg di Vienna è notevole proprio perché non ci prova nemmeno a sembrare un ritratto: è decisamente una macchia scura su un panno, quel che potrebbe succedere se provassimo a sviluppare un negativo slightly out of focus scattato mille anni fa da un reporter emozionato. Né pretende di essere l'originale: reca persino la firma di "P. Strozzi", un segretario di papa Paolo V che nel 1617 ne fece produrre una tiratura limitata di sei esemplari. Ma qual era l'originale fedelmente serigrafato da Strozzi? In Vaticano ce ne sono due. Quella custodita nella cappella di Matilda, citata per la prima volta in un documento papale del 1517 che ne disapprovava l'esposizione; oppure quella su tela che viene esposta la quinta domenica della Quaresima, con ben poca pubblicità, considerato che si tratterebbe dell'istantanea per quanto sfuocata del volto di Cristo.

La Veronica di Roma
Da quel poco che si riesce a vedere si tratta davvero di un'ombra sbiadita su una tela incorniciata. Oppure è una patacca, una copia della copia: anche questo è plausibile, dal momento che i cronisti l'avevano data per persa in qualche taverna durante il sacco di Roma dei lanzichenecchi protestanti nel 1527. La veronica vaticana è così deludente che nel momento in cui l'idea di un fotoritratto di Gesù è tornata prepotentemente di moda, papa Ratzinger ha deciso di investire su un'altra immagine, il Volto Santo di Manoppello in provincia di Pescara: una tela stilisticamente più vicina al Rinascimento che al Medioevo. È chiaramente un dipinto, lo capirebbe un bambino e senz'altro lo capisce uno studioso con la cultura e il gusto di Ratzinger; ma presenta il grosso vantaggio di assomigliare un po' al volto della Sindone di Torino


Sul volto di Manoppello si sono lette cose incredibili, non nel medioevo, ma di recente: c’è chi ha sostenuto che non ci siano pigmenti sulla tela ma poi ha dovuto smentire; chi ci ha spiegato che è fatta con un tessuto raro di origine marina, il bisso, che veniva adoperato anche per i sudari dei faraoni, su cui sarebbe impossibile dipingere; ma il bisso nel Rinascimento non era poi così raro, oltre ai faraoni lo usavano anche i pescatori, Vasari ci racconta che almeno Albrecht Dürer non aveva difficoltà a dipingere su tele di bisso (il volto di Manoppello assomiglia anche agli autoritratti di Dürer) e inoltre – colpo di scena – finché la Chiesa non accetta a fornire un campione, non possiamo nemmeno essere sicuri che il tessuto sia bisso; potrebbe essere del comunissimo lino.

Autoritratto in forma di Gesù Cristo (o di rockstar), Albrecht Dürer, 1500 (ecco, questo se non lo conoscessi potrei davvero scambiarlo per una foto).

Tutte le veroniche occidentali sembrano derivare da uno stesso modello perduto che ci piace immaginare sia il Mandylion di Edessa (oggi Şanlıurfa, Turchia sudorientale), una delle icone più antiche e venerate della cristianità. Se ne sono perse le tracce dopo i saccheggi della Quarta Crociata, quella imbarazzante che i veneziani dirottarono su Costantinopoli perché volevano essere pagati in anticipo per il trasporto. Ne abbiamo comunque tantissime riproduzioni, che ci danno un’idea su come fosse fatto: un volto barbuto disegnato senza sfondo e senza collo. Non è chiaro se l’aureola ci fosse o no (nelle versioni occidentali non c’è). La leggenda di Veronica forse aveva preso forma proprio per spiegarne l’esistenza; eppure il Mandylion è più antico. Sappiamo infatti che nei primi secoli non era affatto considerato acheropita. Proprio come la più famosa immagine miracolosa del Nuovo Mondo, la vergine della Guadalupe, venerata come icona dipinta per più di un secolo, prima che qualcuno cominciasse a raccontare la storia del miracoloso scatto fotografico.

Re Abgar riceve un souvenir dalla Palestina (miniatura).

In effetti nel primo racconto che attesta l’esistenza del Mandylion, gli Atti apocrifi dell’apostolo Taddeo, la tela era stata dipinta dal vero per il re di Edessa, Abgar V il Nero, da un suo funzionario, Hannan. Abgar V lo aveva mandato a cercare Gesù Cristo perché era ammalato e ne aveva sentito parlare un gran bene come guaritore; Cristo naturalmente aveva altri impegni ma aveva apprezzato la lettera di Abgar e si era fatto ritrarre per lui, un pensiero gentile. Abgar era miracolosamente guarito, i suoi sudditi si erano convertiti e la città ne aveva guadagnato una reliquia di prim’ordine. All’inizio, insomma, il Mandylion si conquista una preminenza tra i ritratti di Cristo perché è considerato semplicemente il più antico e fedele all’originale, dipinto da mano umana ma dipinto dal vero. Siamo già nel VII secolo: gli abitanti di una popolosa città dell’Impero Bizantino hanno una certa dimestichezza coi ritratti, e sanno che il Mandylion, per quanto eccezionale, rientra in questa categoria. Poi le cose cambiano.

Nel secolo successivo scoppia la guerra delle icone, che oggi rischiamo di liquidare come una rissa tra due fazioni di superstiziosi ma è qualcosa di più, l’ennesimo round di un lungo scontro tra due concezioni antitetiche della divinità: gli iconoduli (i devoti alle immagini) la pretendono concreta, incarnata nella carne e nel sangue di Gesù, documentata da reliquie, riproducibile con ogni tecnologia disponibile, addirittura commestibile nell’ostia e nel vino. Dio è entrato nel mondo, ha perforato i nove cieli e si è fatto carne. La passione di Gesù non è un mito da interpretare, ma un fatto storico: esistono le prove, si possono toccare. È un’idea rivoluzionaria, che crea una frattura coi saperi tradizionali greco-romano-giudaici, e che viene accolta con entusiasmo soprattutto dai ceti più bassi.

Giovanni Damasceno, l’arabo che amava la Madonna.

Gli iconoclasti, “distruttori delle immagini”, malgrado il nome rock’n’roll sono viceversa spesso i membri di un élite intellettuale e sociale; a una religione basata su ossa e pezzi di carne oppongono una concezione più astratta e spirituale (e tradizionale), una divinità assoluta incommensurabile e irraffigurabile: in oriente avevano lottato a lungo per l’egemonia, finendo spesso scomunicati come eretici, gnostici, monofisiti o monoteliti; finché non era arrivato l’Islam a soccorrerli, con la predicazione iconoclasta di Maometto e con le armi. Anche Bisanzio ebbe un paio di imperatori iconoclasti: le immagini venivano ciclicamente distrutte e poi riabilitate, nel complesso si fecero più rare e forse a un certo punto l’esperienza di vedere un volto dipinto, come quello del Mandylion, divenne qualcosa di eccezionale. Proprio in quel momento un eroico difensore delle icone nelle terre d’oriente, Mansour Ibn Sarjun AKA Giovanni di Damasco, gioca l’asso che riapre la partita: il Mandylion non l’avrebbe prodotto il funzionario Hannan, ma Gesù Cristo in persona. E siccome non riusciamo a immaginare Gesù che si dipinge allo specchio come quel vanesio di Albrecht Dürer, evidentemente si trattava di un miracolo: le forme dovevano essersi impresse nella tela senza sforzo, nel flash di un istante: selfie! 

Prima di Giovanni Damasceno anche il cronista Evagrio Scolastico alla fine del VI secolo aveva parlato di un’immagine “di origine divina” che, scoperta in una fessura delle mura di Edessa, aveva salvato la città da uno dei periodici assalti dei persiani sassanidi. Nei verbali del Secondo Concilio di Nicea (787) il Mandylion viene definito charactèr, “impronta”: con la stessa parola si definiva l’immagine sul conio delle monete. Il concilio sanciva la prima vittoria degli iconoduli contro gli avversari; ma si poneva anche il problema di regolare la produzione delle icone ed evitare derive idolatre.


Il Mandylion non era solo l’impronta della divinità, la prova che Cristo era favorevole ai ritratti, ma era anche il modello da imitare per tutte le immagini sacre da quel momento in poi, un po’ come la sbarra in platino-iridio nell’Archivio Internazionale di Pesi e Misure di Sèvres era il modello di tutti i metri del mondo. Con la piccola differenza che la sbarra è ancora a Parigi, in un frigorifero che la mantiene a 0°, e se proprio ci tieni te la fanno vedere, mentre nel 787 il Mandylion, il Ritratto Zero, era praticamente perso. In teoria era ancora a Edessa, ma Edessa era passata ai persiani zoroastriani, poi di nuovo ai bizantini, poi agli arabi musulmani, e il telo in teoria così efficace contro le invasioni a un certo punto s’era perso di vista: qualcuno aveva visto degli invasori iconoclasti gettarlo in un pozzo. Ogni tanto veniva miracolosamente ritrovato, ma insomma, è chiaro che nel mondo islamico un pezzo del genere era sprecato. Prima o poi i bizantini avrebbero dovuto recuperarlo: ci misero un altro secolo, e un’altra crisi iconoclastica, ma alla fine nel 943 l’imperatore Romano I diede il via libera a una missione di recupero. A un generale bizantino, Giovanni Curcuas, fu destinato un budget di 12.000 corone d’oro da offrire ai notabili di Edessa in cambio del charactèr del volto di Gesù. L'offerta inoltre prevedeva che fossero liberati duecento prigionieri di guerra e uno status di immunità perpetua per la città: tutto in cambio di un disegno su una tela che forse non esisteva più da duecento anni.

Ora voi mettetevi nei panni della controparte: si può dire di no a un’offerta così? Almeno proviamoci, disegniamo una faccia barbuta su una tela, è vero che in quanto musulmani magari non siamo i più bravi coi ritratti, ma insomma vediamo come va. La prima versione offerta ai cristiani in effetti viene rigettata da Curcuas come un falso, un dettaglio intrigante perché ci fa immaginare una sorta di contrattazione: dicendo di no al primo prototipo, Curcuas avrà avuto la possibilità di far capire agli interlocutori che tipo di prodotto si aspettava che gli portassero: mi serve un volto più realistico, la barba mi raccomando a due punte, (nelle copie che abbiamo a Bisanzio ha sempre due punte), ecc. ecc.. Gli edessini recepiscono e finalmente riescono a produrre il Mandylion originale. Curcuas, tutto contento, lo impacchetta e lo porta a Costantinopoli, dove lo aspettano glorie e onori, e soprattutto una grande curiosità: in quel telo c’è il vero volto del Cristo! Chissà quant’è bello! E i capelli come li avrà: neri o castani, lisci o crespi? (non credo che nessuno a Costantinopoli nel X secolo si immaginasse dei boccoli biondi). Tutta una serie di dettagli teologicamente insignificanti ma irresistibili per il popolino medievale e anche per noi, che se in una gallery di internet ci mostrano “la ricostruzione 3d del vero volto di Gesù” prima o poi clicchiamo. Ma la famiglia imperiale, quando finalmente può vedere in anteprima, il Primo Ritratto, come reagisce? In un modo assai strano e suggestivo.

Una cronaca racconta che i figli dell’imperatore non riuscivano a vedere proprio niente; mentre il loro zio acquisito, Costantino Porfirogeneto, ne prova subito un’immensa emozione. Questo forse significa semplicemente che per il cronista Costantino meritava di succedere al trono imperiale più dei figli legittimi di Romano I, cosa che effettivamente accadrà (la Storia la scrivono i vincitori). Ma c’è un’altra ipotesi, molto più affascinante: forse i figli non vedono nulla perché, essendo giovani e principi, si sono proprio messi davanti al telo, mentre l’immagine si riesce a vedere solo alla distanza di qualche metro. A qualche metro c’è appunto Costantino Porfirogeneto, che non solo si trova nel punto di vista migliore, ma ha anche l’età, l’esperienza di vita necessaria per capire che quell’immagine è davvero straordinaria, diversa da qualsiasi altra.

Un’ipotesi intrigante, anche per le porte che spalanca. Un’immagine che non può essere vista da vicino ma soltanto da lontano: esistevano immagini del genere nel medioevo? Come potevano essere realizzate? Il primo esempio che viene in mente è almeno di tre secoli più tardo, ma è pur sempre medioevo; e inoltre è anch’esso un ritratto di Cristo, a modo suo. 

È la Sindone di Torino, sempre lei.

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La santa che abbatteva le statue

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11 luglio: Santa Marciana di Cesarea di Mauritania (III secolo), martire e abbattitrice di statue

FALSA! SEI FALSA!

È da un po' che nessuno maltratta una statua – perlomeno i giornali non ne parlano, e considerata la rilevanza che ultimamente davano al fenomeno, do per scontato che se qualche monello avesse maltrattato un nano da giardino ce lo farebbero sapere. O invece no, forse i giornalisti hanno capito di avere esagerato – lo spartiacque potrebbe essere stato quel fondo della De Gregorio di un anno fa, chiamò cerebrolesi dei tizi che avevano buttato giù una statuetta e i cerebrolesi se la presero – ma a quel punto non era nemmeno più chiaro perché le statue avessero tanta importanti, e perché vandalizzarle fosse considerato un gesto così importante e pericoloso.

Anche in questo caso il carattere effimero del fenomeno dipendeva soprattutto dal fatto che avevamo importato una pratica dagli USA, senza capire perché negli USA fosse così importante. Laggiù le statue provocano discussioni perché ogni comunità innalza le sue, senza chiedere il permesso agli altri. È il modo in cui si è sviluppata la società – una specie di guerra fredda tra comunità basate su identità razziali o religiose. Se sei razzista non è che puoi proprio dirlo in giro, ma puoi sventolare una certa bandiera, e/o esibire la statua di qualche vecchio schiavista. Finché qualcuno non prova a tirartela giù. Da noi è diverso, le statue di solito sono esposte in uno spazio considerato pubblico, e in molti casi sono pubbliche anch'esse. Per cui di solito il dibattito sull'opportunità di erigerne una si fa prima, o durante l'erezione. Per avere una statua devi entrare nel pantheon dei venerati maestri, dopodiché di te si parlerà generalmente bene e poco. Le eccezioni di solito segnalano l'originalità di qualche amministratore, o, nel caso di Montanelli, lo smottamento dell'opinione pubblica, che vent'anni fa lo trovava tutto sommato un gran personaggio e adesso no. 

Comunque il fatto che l'ultima fiammata iconoclastica sia arrivata di riflesso dall'America non significa che in generale prendersela con le statue non abbia un senso e un'efficacia. È peraltro pratica già antica, dopotutto le statue esistono da che esiste l'umanità (le pietre sono la prima cosa che abbiamo cominciato a scheggiare). E come tutte le pratiche antiche senz'altro esiste un santo del calendario che l'ha praticata, e che si può proporre come patrono degli abbattitori di statue. Potrebbe trattarsi proprio di Santa Marciana di Cesarea di Mauritania, che fu condannata alle belve per aver decapitato una fontana. 

La pagina che le dedicano gli Acta sanctorum è insolitamente asciutta: non vengono descritti miracoli, ogni accadimento sembra insolito, ma verosimile. Marciana è presentata come una vergine di grande bellezza e di indubbia moralità, decisa a vivere una vita di penitenza. Invece di ritirarsi nel deserto – pratica che si sarebbe diffusa soltanto nel secolo successivo – Marciana si trasferisce dalla piccola Russucur a Cesarea, capoluogo della Mauritania (oggi più o meno l'Algeria), e qui finisce molto presto nei guai. Durante una festa di quartiere, trovandosi davanti una statua della dea Diana su una fontana, rimane così scandalizzata da vandalizzarla, troncandole il capo. Immaginatevi gli opinionisti a quel punto: gioventù dissoluta, cerebrolesi, con quel che costa il marmo e la manodopera, ai miei tempi le fontane e le Diane si adoravano, altroché. La folla a momenti la lincia sul posto; durante il processo Marciana prende parola solo per dissuadere i cittadini dall'adorare dei di marmo o legno o qualsiasi metallo, e di convertirsi al vero Dio: una linea di difesa abbastanza azzardata, durante le persecuzioni di Diocleziano. 

Marciana viene condannata "ad bestias": nel grande anfiteatro di Cesarea viene risparmiata da un leone, incornata e sollevata da un toro, dilaniata da un leopardo. Un tale supplizio può sembrare esagerato: sappiamo che a Roma, contro Perpetua e Felicita, non fu aizzato nemmeno un toro, ma una giovenca. Ma di solito in una storia di santi l'esagerazione serve a introdurre un intervento miracoloso, che qui non c'è. Forse davvero in Mauritania si usavano le fiere anche contro le ragazzine, del resto su quella sponda del mediterraneo era più facile  procurarsele. 

Se ad altri santi sono attribuiti comportamenti iconoclastici, è abbastanza curioso che in questo caso a distruggere un'immagine pagana davanti a tutti sia una vergine, da cui ci si aspetterebbe una condotta assai più timida. Si potrebbe persino ipotizzare che il gesto inconsulto di Marciana sia stato un raptus causato dal panico: proveniente da un piccolo centro, forse la santa non aveva mai visto una statua di buona fattura a grandezza naturale, qualcosa che per noi è abbastanza normale ma che per lei risiedeva nell'uncanny valley dei simulacri così simili all'umanità da risultare perturbanti. Potrebbe avere provato lo stesso orrore che proveremmo nei confronti di un androide semovente che pretende di parlarci come un essere umano. Non solo, ma il suo orrore nei confronti delle immagini potrebbe indicare la presenza di una corrente iconoclastica nelle piccole comunità cristiane africane, tre secoli prima dell'arrivo dell'Islam e delle guerre delle icone a Costantinopoli. Siamo abituati a pensare che l'avversione per le icone si irradi dalla Mecca, ma non avrebbe avuto il successo che avuto se avesse incontrato un terreno ostile. L'idea che le immagini fossero qualcosa di profondamente sbagliato circolava già, se non altro nelle comunità ebraiche e probabilmente anche in qualche comunità cristiana eccentrica o eretica. Può darsi che Marciana ne avesse fatto parte, prima di arrivare nel grande capoluogo e imbattersi in un idolo di marmo a grandezza naturale. E romperlo. Del resto per lei era una truffa. Fate presto a giudicare voi: vi capitasse l'occasione di sventare una truffa in una pubblica piazza, davanti a tutti, non ne approfittereste? Senza fare male a nessuno, le statue non provano dolore. Sono fredde, dure, non provano e non pensano niente, non l'hanno mai pensato. Sarà forse questo che affascina i giornalisti italiani.

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A Rainha Santa Isabel

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4 luglio: Sant'Elisabetta (1271-1336), regina del Portogallo

Francisco de Zurbarán
Di Elisabetta (che era un'Aragona, e in aragonese si chiamava Isabel) sono riportati alcuni miracoli che sono, come dire, i classici miracoli da agiografo principiante, quelli che ti mettono nella valigetta il primo giorno di lavoro: guarda, se non ti viene in mente niente, racconta questa cosa. Ad esempio la regina Elisabetta aveva un paggio di cui si fidava ciecamente, ammirandone l'onestà e il timor di Dio: e gli affidava ingenti somme affinché le desse ai poveri. Un cortigiano invidioso cominciò a mettere la pulce all'orecchio di suo marito Dionigi, re del Portogallo: è evidente che quel paggio è il suo amante, ma c'è un sistema molto spiccio per liberarsene. Ordinagli di recarti presso la tal fornace, dove dovrà dire "mi manda il re"; gli operai, opportunamente istruiti, sentendo quelle parole sapranno che si tratta del cortigiano che devono gettare nel fuoco. Va bene, dice il re, facciamo così: e ordina al paggio di recarsi presso la tal fornace. Il paggio però, tenendo a Dio più che alla puntualità, prima di andare in fornace si ferma a prendere una messa. Nel frattempo il re si agita, pesta i piedi, vorrebbe sapere com'è andata la cosa, finché non ordina al cortigiano invidioso di andare alla fornace a controllare. Il cortigiano, convinto che tutto sia già finito, arriva e avverte gli operai: Ehi, mi manda il re... ovviamente non fa in tempo a finire la frase.

Un'altra volta la stessa Elisabetta stava portando del pane ai poveri, quando il marito sospettoso (e alquanto avaro) la scoprì: ferma là, cosa stai portando in grembo? E lei: ma niente, un mazzo di rose. Ora, questo miracolo ha molto più senso se è riferito a una santa che svolga una professione più umile, come Santa Zita che era una domestica, o al limite Francesca Romana che era una nobildonna, sì, ma stava a Trastevere e poteva davvero infilarsi un sacco di pane sotto il gonnellone. È appunto a causa della scarsa fantasia degli agiografi improvvisati se verso il Quattrocento questo miracolo comincia a essere attribuito a regine come Elisabetta d'Ungheria, e poi Elisabetta di Portogallo che peraltro era sua nipote. Comunque quando re Dionigi insiste per vedere cosa c'è davvero nel sacco, indovinate: il pane si è trasformato in un mazzo di rose. Per questo motivo Elisabetta è spesso ritratta coronata da rose, e Francisco de Zurbarán la ritrae con la gonna più grande che riesce a mettere nel quadro, perché se una regina deve proprio uscire di palazzo per portare pane ai poveri, sembra giusto che ne porti un'ingente quantità. In seguito viene introdotta la variante per cui a trasformarsi in un mazzo di rose non è un po' di pane, ma un sacchetto di monete che avrebbero finanziato opere di carità più degne di una regina. Ma d'altro canto cosa ci si aspetta da una santa regina?

Diverse cose. Che si sposino volentieri con il sovrano loro destinato; che gli scodellino rapidamente qualche erede maschio ma non troppi (sennò poi tocca combattere le guerre di successione); che sopportino invecchiando i tradimenti del marito e che alla sua morte si ritirino in un convento magari fondato e senz'altro finanziato da loro. Elisabetta non si scosta molto dal modello già incarnato dalla zia, Elisabetta di Turingia e Ungheria. Ci aggiunse comunque l'impegno con cui si dedicò a mettere pace tra i suoi litigiosi congiunti. In tutte le famiglie ci sono elementi così, di solito cucinano per le feste e cercano di far sedere tutti allo stesso tavolo; per Isabel invece si trattava di fermare eserciti già schierati cavalcando lungo la linea del fronte e brandendo un crocefisso, per evitare che suo figlio Alfonso Quarto attaccasse il padre Dionigi re del Portogallo e dell'Algarve. 

Cosa metteva contro il padre e il figlio? Ma le solite questioni: Dionigi sembrava preferire ad Alfonso certi fratellastri di quest'ultimo, avuti da altre donne mentre la regina Isabel chiudeva santamente gli occhi. Per quanto i genitori gli assicurassero che lui restava il legittimo primogenito, Alfonso non si fidava del tutto e dando un occhiata al suo assai intricato albero genealogico non possiamo dargli torto. La stessa Elisabetta/Isabel, pur essendo figlia di Pietro III il Grande d'Aragona, era nipotina di Manfredi di Svevia, uno dei famosi figli del grande imperatore Federico II: tutti probabilmente illegittimi (non si è ancora capito se Federico sposò o no la madre di Manfredi sul letto di morte). Quanto a papà Dionigi, era un Borgogna, figlio di Alfonso III re come lui del Portogallo, ma la madre Beatrice era figlia illegittima di un altro re Alfonso, quest'ultimo di Castiglia, e Decimo della sua serie. 

Vien da pensare che chiudere un occhio sulla legittimità degli eredi fosse l'unico modo per allargare un poco il pool genetico tra casate regnanti di Spagna, Borgogna e Sicilia, ormai ridotte a una sola famiglia neanche troppo allargata. Nota che tutti questi matrimoni tra consanguinei non impedivano agli Alfonsi e ai Dionigi di farsi comunque qualche guerra ogni tanto. Tanto più meritoria l'impresa di Sant'Elisabetta, che forse avvenne a Coimbra durante un assedio (qui avrebbe cavalcato un cavallo) e forse a Lisbona dove invece avrebbe montato una mula, o magari è capitato due volte. Non capita anche nella vostra famiglia che i litigi si somiglino un po' tutti. 

Il marito premiò quest'opera di conciliazione facendola rinchiudere per un po' con l'accusa di tradimento, in quanto avrebbe sobillato il figlio. Una bella faccia, tosta, ma alla prima malattia seria se ne pentì e la riabilitò. Elisabetta, dopo aver accudito al marito malato, ottenendone il pentimento per i peccati quando questi era ormai in fin di vita, sarebbe entrata come terziaria francescana nel convento da lei fondato a Coimbra. Ne sarebbe uscita un'ultima volta per tentare di mettere pace tra il figlio Alfonso IV e il marito della figlia di quest'ultimo, anche lui un Alfonso, ma re di Castiglia e pertanto Undicesimo. Ma stavolta l'opera di pacificazione non funzionò e allora lei disse sai che c'è? Mi sono rotta di tutti questi Alfonsi di Castiglia e d'Aragona e di Borgogna, io torno a Coimbra e tra un po' me ne vado in paradiso, ciao. No, non lo disse (più probabilmente morì di febbre prima di arrivare nel teatro delle operazioni), ma non avrebbe avuto tutti i torti.

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Bernardino, santo e assassino?

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2 luglio: San Bernardino Realino (Carpi 1530 – Lecce 1616), poeta pentito e gesuita

Bernardino Realino è nato a Carpi, ma non è il patrono di Carpi: quest'ultimo è Bernardino da Siena, che nel Quattrocento forse passò per il borgo (del resto non stava fermo un attimo). Non solo i carpigiani lo invocano, soprattutto in caso di pestilenze, carestie o alluvioni, ma talvolta battezzano i loro figli bernardini, e così era destino che prima o poi un santo omonimo spuntasse da qui. A Carpi, come si vedrà, Realino non ha fatto in tempo a fare nulla di santo; in compenso è patrono di Lecce, per acclamazione. Le agiografie raccontano volentieri che quando era in fin di ricevette una delegazione della cittadinanza leccese, che gli chiese ufficialmente di diventare santo patrono di Lecce. In quel momento Bernardino non solo non era stato ancora canonizzato da nessuna corte ecclesiastica, ma nemmeno beatificato, e soprattutto – condizione non sufficiente ma necessaria – non era ancora morto; e però tanto erano apprezzate le sue opere di carità e lodato il suo trentennale apostolato tra i leccesi, che tutti questi passaggi ormai i concittadini li davano per scontati e l'unica cosa che volevano sapere era se lui fosse d'accordo: poteva Bernardino non essere d'accordo? Diede il suo assenso, commettendo un veniale e comprensibile peccato di superbia, probabilmente per non contrariare la cittadinanza che sembrava tenerci molto. Non è che puoi sempre fare il muso e dichiararti un peccatore indegno di partecipare alla Tua mensa.

Di Bernardino Realino nessuna agiografia riporta invece il fondamentale peccato di gioventù, che non furono gli scritti e gli studi letterari – e capirai, a quel tempo se da giovane non avevi scritto neanche una corona di sonetti eri un analfabeta – ma qualcosa di un filo più grave, ovvero: mentre i leccesi si proponevano di canonizzarlo da vivo, forse Bernardino era ancora alle prese col senso di colpa per avere ucciso un uomo a vent'anni. Di questo si parla poco, e del resto non è nemmeno chiaro se la cosa sia successa o no (è un giallo? Ma sì, dai, è un giallo). Lo scrive per esempio Silvana Menchi nel Dizionario Biografico degli italiani Treccani: "fu costretto a lasciare gli Stati estensi per aver ucciso in duello un altro gentiluomo (così il Tiraboschi; secondo altri per aver semplicemente ferito la stessa persona, ma aggredendola per vendicarsi d'un torto ricevuto)"; e però lo stesso Tiraboschi nella Biblioteca modenese o Notizie della vita e delle opere degli scrittori natii degli stati del serenessimo signor duca di Modena non parla di un duello ma di una lite con un magistrato in seguito a una discussione su un arbitrato che al giovane Bernardino non era piaciuto; e non di un morto ma di un ferito grave: "ſendo in tempo delle autunnali vacanze tornato a Carpi, abbattutoſi a caſo nel detto arbitro, e venuto a parlar con lui dell’affare, nel diſcorſo ſi acceſe per modo, che dato di mano a un pugnale ferillo in fronte". Il delitto era troppo palese, scrive Tiraboschi, "perchè poteſſe andare impunito; e perciò Bernardino ne ebbe in pena non già l'eſilio, come diceſi nella Vita, ma la condanna al taglio della mano, e una multa di 200 lire". Che si applicasse ancora la legge del taglione a Modena verso il 1550 è cosa che onestamente non sapevo, ma forse era un sistema come un altro per comminare l'esilio: ovvero Bernardino, che era già sulla buona strada per diventare un cortigiano a Ferrara, a quel punto lasciò gli Stati Estensi e non lo videro mai più.

Per prima cosa andò a Bologna a completare gli studi in giurisprudenza che aveva interrotto. È possibile che Realino non si sentisse veramente tagliato per il diritto: la sua intenzione iniziale era diventare medico. A convincerlo a studiare legge era stata la donna amata: "eſſendoſi allora acceſo di caldo amore per una cotal Cloride giovane non ſolo per la bellezza del corpo, ma anche per le rare virtù, che ne adornavano l’animo, degna di eſſere amata da chi gli foſſe in ſaviezza e in virtù ſomigliante, a inſinuazione di eſſa applicoſſi in vece alla Giuriſprudenza"Come mai questa Cloride ritenesse la carriera dell'avvocato più savia e virtuosa di quella del medico non ci è dato sapere, ma non ha così importanza perché Cloride sarebbe morta giovane, come si conviene alle ragazze che ispirano le poesie, salvo che di poesie su di lei non ce ne sono rimaste perché Bernardino, una volta entrato nei gesuiti, distrusse tutto o quasi. I contemporanei che avevano fatto in tempo a leggere avevano parole di apprezzamento, ma si sa che i letterati tra loro tendono a capolavorarsi ogni due per tre, non ci si può fidare. Magari ci siamo persi un grande poeta del Cinquecento, ma i leccesi starebbero ancora cercando il loro santo protettore, chi può dirlo.

Dopo la laurea Bernardino, tramite il padre, trovò subito lavoro nell'amministrazione nei vasti possedimenti del governatorato spagnolo di Milano, segnalandosi dal Piemonte all'Abruzzo come funzionario capace e onesto; di quell'onestà che sconfina talvolta nella dabbenaggine, perché trovandosi sempre più spesso in province gravate da carestie, invece di mettere qualcosa da parte finiva per offrire del suo, al punto che quando a 34 anni a Napoli entrò nei gesuiti, in dote portava più debiti che altro. Gli stessi gesuiti continuarono ad adoperarlo come i datori di lavoro precedenti, mandandolo nei posti difficili dove nessun altro voleva andare: nel suo caso a Lecce, dove la Compagnia aveva appena ereditato un lascito con la clausola di dover aprire una "casa professa", ovvero una filiale in loco. Queste clausole erano spesso una fregatura: i gesuiti non sono mendicanti, le case professe spesso costano più dei lasciti stanziati. Bernardino, col suo curriculum di amministratore, sembrava l'uomo giusto per capire se conveniva davvero aprire o no; ma anche a Lecce Bernardino finì per mettere l'ottimismo della volontà davanti al cubismo del budget, attirandosi qualche rimprovero dai superiori ma l'amore incondizionato dei leccesi, che quarant'anni dopo volevano metterlo nel calendario ancor prima che salisse in cielo.

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L'eresiologo più pacifico

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Avete presente quella fase in cui l'appuntamento sta andando bene, siete a vostro agio, e all'improvviso la persona con cui siete usciti vi chiede: Qual è il tuo eresiologo preferito? E voi a pensare, mannaggia questa non la so. La musica preferita ce l'avevo, l'artista contemporaneo preferito ce l'avevo, ma l'eresiologo? Cosa serve seguire quotidianamente il Catalogo dei santi ribelli se poi nel momento del bisogno... avete ragione, amici cari, a volte serve una risposta breve, precisa, inappuntabile: il mio, il nostro, il vostro eresiologo preferito è Ireneo di Lione che non bruciava nessuno ma confutava montanisti e gnostici, che è tutto quello che bisogna chiedere a un eresiologo: poche menate, e tutte sulle chiappe di quei frignoni dei montanisti e quegli snob degli gnostici.

28 giugno: Sant'Ireneo di Lione (145-203), eresiologo

Quando nel 193 papa Vittore perse la pazienza contro i Quartodecimani – cristiani orientali che celebravano la Pasqua come gli ebrei nel quattordicesimo giorno del mese di Nisan, qualsiasi fosse la sua posizione nella settimana – e stava per scomunicarli, a evitare il primo vero scisma della cristianità intervenne con una lettera al pontefice Ireneo di Lione, a quel punto già il teologo più autorevole dell'Occidente. Ireneo (che in greco significa "pacifico") in realtà era nato a Smirne, e poteva vantarsi di aver ascoltato il vangelo direttamente dalle labbra del grande Policarpo, che a sua volta lo aveva ascoltato da Giovanni Evangelista in persona; e siccome i Quartodecimani facevano risalire a Giovanni l'abitudine di festeggiare la Pasqua nella data ebraica, può darsi che la tolleranza muovesse da un certo affetto che provava per le sue origini e i suoi maestri. Ma Ireneo, che trasferendosi in Gallia aveva imparato rapidamente la lingua locale, era una persona di buon senso, come per fortuna ce n'è anche tra gli eresiologi: se per molti di loro si tratta di schedare e censurare ogni devianza dal retto pensiero (che coincide con il proprio), Ireneo per lo più rifuggiva le spaccature del capello in quattro e vedeva con sospetto proprio le inutili complicazioni. 

Gli eretici che si trovò ad affrontare, dalla sua cattedra di Lione, furono soprattutto i montanisti e gli gnostici. I primi aspettavano la fine del mondo, come del resto i cristiani; ma di questa attesa escatologica che permeava gli strati più insoddisfatti della società romana avevano fatto uno spettacolo a base di profeti e profetesse itineranti, con rivelazioni e indicazioni sempre più precise sul luogo e sul tempo in cui si sarebbe combattuto l'Armageddon. Integralisti dell'apocalisse, a volte i montanisti sembravano guidati da un cupio dissolvi che li portava ad autoaccusarsi presso le autorità – e può darsi che alcune successive leggende di santi che fanno di tutto per essere martirizzati nel modo più violento siano ispirate alle mattane dei montanisti. Ireneo era preoccupato dal diffondersi di questa setta, motivo per cui avrebbe anche compiuto un viaggio a Roma per riferire al papa; ma purtroppo non ci è rimasto un suo intervento sul tema. Invece conosciamo molto bene quello che pensava sugli gnostici, dal suo libro più cospicuo che abbiamo conservato, Smascheramento e rovesciamento della falsa gnosi (ma i latini preferivano chiamarlo col solito titolo Adversus Haereses, così era più facile confonderlo con omonime opere di Tertulliano o Epifanio).

Se il montanismo era probabilmente un fenomeno popolare, che speculava sulla paura e la speranza della fine del mondo, la gnosi sembrava più una reazione aristocratica al cristianesimo, un tentativo di assorbirlo e trasformarlo nell'ennesima setta misterica per pochi affiliati e iniziati. Ciò che più irritava Ireneo era appunto questa deriva esoterica, l'idea che i quattro vangeli fossero troppo semplici per contenere le Verità autentiche, e che queste fossero state affidate da Gesù a poche persone elette, in segreto. Il segreto, poi, a quanto pare era la solita tiritera di marca orientale: Dio è perfetto, la materia no, quindi il primo non può avere creato la seconda; dev'essere intervenuto un demiurgo a creare un problema là dove prima c'era la perfezione. Se somiglia al buddismo forse è solo per una convergenza evolutiva, anche il buddismo potrebbe essere nato come reazione intellettuale/aristocratica al folklore popolare indù. A questa ricorrente svalutazione della materia, della carne, dell'imperfezione, Ireneo contrappone orgogliosamente un solido cristianesimo basato sulla carne – di Cristo – e sulla carta – dei vangeli. Gesù non ci ha chiamato servi, ma fratelli: e ai fratelli si dice la verità. Chi vuole essere buon cristiano non deve seguire nessun percorso misterico, né svenarsi per conquistare le confidenze di un guru o di una profetessa: tutto quello che ci serve è nei vangeli, accessibili a chiunque sappia leggerli o anche solo ascoltarli. Secondo la tradizione, Ireneo morì martire a Lione verso il 203.
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Prospero di Reggio, ammesso sia esistito

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25 giugno: San Prospero di Reggio nell'Emilia, perché un santo in paradiso lo meritano persino loro

Con quanto entusiasmo accoglie l'incarico

E perché poi non dovrebbe essere esistito, Prospero di Reggio? Non c'è una città d'Italia, non c'è un paese o anche solo un accrocchio di case che non possa invocare un santo protettore; perché anche i reggiani non dovrebbero averne uno? Non sono anch'essi esseri umani? Bella domanda.

Scherzo, voglio tanto bene ai reggiani.
Come si fa a non volergliene.

Poverini. In tanti anni che spulcio e scopiazzo biografie su santiebeati.it, credo sia la prima volta che ci leggo una frase così: "Bisogna considerare che il culto così diffuso è certamente spontaneo e non suggerito o imposto dalla città di Reggio Emilia, allora non in grado di farlo dato il suo scarso rilievo". Insomma secondo questo agiografo contemporaneo la prova che Prospero sia esistito è che Reggio era troppo piccola per inventarselo.
 
Ora, è pur vero che tra le città sulla via Emilia, tutte un po' simili come matrioske, Reggio non è tra le più grandi, ma non è nemmeno la bambolina più piccola; scommetto ad esempio che Fidenza ci starebbe dentro anche comoda. Se Fidenza un santo se l'è trovato (pure cefaloforo), perché non dovrebbe esserci riuscita Reggio? Ma bisogna ammettere che del Prospero reggiano si conosce così poco, e quel poco sembra copiato da altri santi più definiti. Di lui si racconta, ad esempio, che avrebbe steso la nebbia sulla città per difenderla dall'incursione di Attila, il che però si dice di tanti altri santi e soprattutto di Geminiano di Modena. Bisogna comunque postulare un'Attila talmente selvaggio che conduce il suo esercito in mezzo ai campi alla cieca, invece di seguire la comoda strada romana che ti conduce nei centri urbani anche quando la nebbia non ti fa vedere a un metro di distanza. E comunque se dubiti dell'esistenza di Geminiano puoi andare a dargli un'occhiata nella sua cripta, il 30 gennaio di solito è aperta al pubblico, c'è uno scheletro ben conservato che nei suoi paramenti da vescovo fa una certa figura. I resti di Prospero, nella chiesa omonima a Reggio, sono meno spettacolari. 

Per quanto un'omelia del X secolo faccia risalire il culto di Prospero ai tempi del longobardo re Liutprando (VIII secolo), sappiamo che Prospero diventa il protettore della città intorno all'anno Mille, quando i suoi pochi resti vengono traslati dalla basilica longobarda fuori le mura a quella nel centro storico, o come si diceva allora "in castello" (poi ricostruita nel Sei-Settecento). Siamo in quella fase in cui il potere imperiale si è quasi dissolto, quello comunale deve ancora prendere forma; nel frattempo i vescovi sono la principale figura di riferimento e ne approfittano per costruire cattedrali che diano lustro e autorità al loro nome. Per consacrare queste nuove cattedrali però servono i resti di santi; più antichi sono meglio è; così Prospero diventa il titolare di una delle due basiliche di Reggio, anche se su di lui i reggiani non sapevano bene cosa raccontarsi. Ci tenevano comunque a considerarlo un compaesano e non un forestiero, sul modello appunto di Geminiano a Modena e di tanti altri protovescovi; e questo malgrado il fatto che il calendario festeggi nello stesso giorno un Prospero ben più famoso, quello d'Aquitania.

Cioè questo per loro è un duomo, capite

Quest'ultimo è ben altro che una figura leggendaria: era vescovo e teologo, visse nel quinto secolo e si scriveva con Agostino d'Ippona. Non solo, ma sappiamo che nel 431 si recò a Roma insieme al suo collega Ilario di Poitiers, per difendere presso il papa gli scritti di Agostino dalle accuse di certi eretici pelagiani. Potrebbe questo Prospero, nel viaggio di andata e di ritorno, esser passato da Reggio e aver lasciato qualcosa di sé, qualcosa che in mancanza di meglio i poveri abitanti di quella trascurabile cittadina avrebbero custodito come reliquia? Anche solo un anellino, un epistola firmata, un baiocco con cui si era pagato la tassa di soggiorno? Questi effetti personali, custoditi dai vescovi locali, col tempo magari sarebbero andati smarriti: del resto voi lascereste un reggiano a custodirvi la bicicletta? Ma neanche il campanello. Nella labile memoria cittadina però si sarebbe conservato il nome di Prospero, come quello del presule più autorevole che era mai passato per la dimenticabile città; finché un vescovo più sgamato di altri (forse lo stesso Pietro) non aveva deciso di dare a questo "Prospero" un'identità più locale, e magari assegnargli un po' di ossa che lo radicassero nel territorio. Sappiamo ormai che se sei vescovo di ossa ne trovi finché ne vuoi, e hai un certo margine per trovargli il significato che preferisci.

Per sostenere che le cose siano andate davvero così non abbiamo nessuna prova, ma una coincidenza intrigante: se invece di continuare a guardare verso Modena, ci voltiamo verso ovest, cosa troviamo? Un'altra discutibile città che in mancanza di un nome ha preso quello del torrente che la percorre: Parma. A differenza dei modenesi e dei reggiani, i parmensi non ci hanno mai nemmeno provato a inventarsi un santo protovescovo; il loro patrono è proprio Ilario di Poitiers, ovvero il compagno di viaggio di Prospero d'Aquitania. Non è nemmeno escluso che un po' di ossa dei due santi gallici siano davvero arrivate nell'Emilia occidentale, al tempo in cui i duchi longobardi effettuavano scorrerie contro i Merovingi; o più tardi, quando i Franchi diventano i nuovi signori della pianura padana e magari portano un po' di ossa famose in dono ai vescovi locali per tenerli buoni. Poi il tempo passa, i legami con la Francia (ma anche solo con Parma) si affievoliscono, Reggio nel basso medioevo comincia a gravitare intorno a Modena e subisce l'influsso del culto locale del protovescovo. È un'ipotesi. 

Ce ne sono di ben più fantasiose, ad esempio c'è chi propone che quello di Reggio sia San Prospero di Tarragona, fuggito nell'VIII secolo dalla Spagna invasa dagli arabi (o nel V secolo dalla Spagna invasa dai Vandali). È un Prospero che dopo una tappa in Sardegna sarebbe approdato a Camogli (dove si festeggia il 2 settembre); il re Liutprando avrebbe poi traslato parte delle sue reliquie a Reggio, che ai tempi dei longobardi era un ducato (anche Parma) (Modena non si sa) (Modena se vuole vantarsi di qualcosa non ha bisogno di risalire ai Longobardi).
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La voce che chiama, nel deserto

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24 giugno: Natale di San Giovanni Battista (I secolo dC)

Bottega di Raffaello Sanzio

Non vorrei mettervi ansia, ma tra sei mesi è Natale, avete già pensato cosa regalare a questo e a quest'altro? (c'è un bellissimo libro della Utet, se lo prenotate adesso arriva di sicuro, si chiama Catalogo dei santi ribelli). Che manchino sei mesi lo si capisce dal calendario, e anche dal fatto che oggi si festeggi Giovanni Battista, che secondo il vangelo di Luca è nato sei mesi prima di Gesù: quindi quando i cristiani cominciarono a osservare il Natale di Gesù nel giorno della festa del Sole Vincitore (tre giorni dopo il solstizio d'inverno, quando le giornate ricominciano ad allungarsi), il Natale di Giovanni andò a cadere tre giorni dopo il solstizio d'estate, ovvero quando le giornate cominciano ad accorciarsi. Non solo, ma essendo nato il 24 giugno, Giovanni dev'essere stato concepito tre giorni dopo l'equinozio di autunno, quando secondo Luca l'angelo Gabriele visita l'anziano Zaccaria e gli promette che sua moglie Elisabetta concepirà un bambino che diverrà un profeta (siccome Zaccaria è scettico, Gabriele gli toglie il dono della parola per tutti i nove mesi). Gesù, invece, si sa, viene concepito tre giorni dopo l'equinozio di primavera, il 25 marzo

È abbastanza chiaro che i due personaggi evangelici sono stati incastrati in un sistema di ricorrenze basato sul calendario solare, che lascia tracce nel folklore: nella Figlia di Iorio D'Annunzio riprende l'usanza l'abruzzese per cui le donne che vogliono maritarsi entro l'anno, la mattina del 24 devono svegliarsi presto per vedere nel sole nascente la testa (decapitata) di San Giovanni. Lo stesso Giovanni, ai discepoli che gli chiedono ragione del fatto che Gesù si sia messo a battezzare per i fatti suoi: risponde "Egli deve crescere, e io invece diminuire" (Giovanni 3,30), autorizzando una lettura sincretica; Gesù e Giovanni come due opposte polarità, estate e inverno, acqua e fuoco – anche quest'opposizione è messa in bocca a Giovanni, stavolta dall'evangelista Matteo (3,11): "Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco". Sempre in Matteo, Gesù invece definisce Giovanni come nuovo Elia (il profeta rapito in cielo su un carro fiammeggiante), il che potrebbe anche significare che si considera il nuovo Eliseo – il discepolo di Elia che aveva ereditato da lui "il doppio dello spirito". Nel quarto e omonimo vangelo però Giovanni, a domanda diretta dei sacerdoti, nega di essere Elia: uno dei tanti piccoli dettagli dissonanti che i vangeli conservano e che ci fanno sospettare che la situazione fosse molto più complessa. Una cosa curiosa è che quando i sacerdoti gli domandano di definirsi con più precisione, il Battista del quarto vangelo replica con una citazione quasi letterale di un altro vangelo, uno dei rari indizi che abbiamo che il quarto evangelista avesse letto almeno uno degli altri: si definisce infatti "voce di chi chiama nel deserto: preparate la via del Signore". È una citazione da Isaia (40,3), ma è anche il terzo versetto del vangelo di Marco. Diversi commentatori fanno notare che sia Marco sia Giovanni fraintendono Isaia, che non parlava di una "voce nel deserto", ma di una voce che chiede di "preparare la via del Signore nel deserto", ma forse si tratta di commentatori che sanno qualcosa che io non so, di ebraico o di antico greco, perché nella versione latina l'ambiguità c'è, quell'"in deserto" può riferirsi sia a "vox clamantis" sia "parate viam domini"; tutto sta dove metti la punteggiatura, salvo che la punteggiatura l'hanno messa secoli dopo, quindi di che stiamo a parlare. 

I vangeli di Giovanni e Marco hanno in comune anche la caratteristica di saltare tutta la narrativa dell'infanzia e cominciare il resoconto degli avvenimenti dal Battesimo di Gesù da parte di Giovanni. Un episodio che forse per alcuni cristiani delle prime generazioni aveva più importanza di quanta ne abbia adesso – sappiamo che a un certo punto tra le eresie fu incluso l'adozionismo, ossia l'idea che Gesù nasca soltanto uomo, e diventi figlio di Dio solo a partire dal battesimo. Bisogna concedere che l'ipotesi adozionista aveva il pregio di dare un senso a un episodio che altrimenti lascia perplessi: Giovanni battezzava i peccatori per purificarli dai peccati, ma se Gesù è già figlio di Dio, peccati non ne ha. Questa perplessità era già diffusa nel primo secolo, al punto che l'evangelista Matteo la lascia esprimere dal Battista stesso, il quale quando vede Gesù in coda per il battesimo afferma: "Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?", al che Gesù risponde: "Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia". Dal che è lecito dedurre che l'episodio del battesimo fosse davvero avvenuto, davanti a testimoni oculari che nessun evangelista poteva smentire, anche se sul significato c'erano interpretazioni diverse. Luca, l'evangelista che più sente la necessità di conciliare le versioni, sostiene che "tutto il popolo" si stesse facendo battezzare, insomma Gesù vi si sarebbe sottoposto non perché ne avesse bisogno, ma per rispetto nei confronti delle usanze e delle leggi del popolo: allo stesso modo sua madre aveva partecipato a una cerimonia di purificazione dopo il parto, benché in quanto vergine non ne avesse realmente bisogno.

Anni più tardi, all'apostolo Paolo capiterà almeno un paio di volte in Asia Minore di imbattersi in predicatori che "conoscono soltanto il battesimo di Giovanni" (Atti 19,2). Siamo ancora in una fase iniziale: i sacramenti non sono ancora stati definiti con chiarezza, eppure appare chiaro che "il battesimo di Giovanni" è qualcosa che gli apostoli di Gesù considerano imperfetto, o perlomeno incompleto: e però qualcuno lo sta diffondendo. Forse quella di Giovanni era una nuova religione, diversa da quella poi rielaborata da Gesù (e in seguito dagli apostoli). Può darsi che Giovanni, descritto dagli evangelisti con l'abbigliamento di eremita del deserto, facesse parte della setta degli esseni: ipotesi che viene spesso buttata lì come se spiegasse tutto, ah sì, gli esseni, laddove a parte il fatto vivessero già nel deserto (forse su suggestione di Isaia) e collezionassero preziosi rotoli noi degli esseni non sappiamo poi tanto. Praticavano il celibato – come Giovanni – e venivano sostanzialmente rispettati (forse persino protetti da Erode) malgrado rifiutassero uno o più testi della Torah. Erano inoltre divisi in sette, e Giovanni avrebbe potuto essere il membro o il fondatore di una di queste. Senz'altro il rito battesimale che praticava nelle acque del Giordano è qualcosa di nuovo, non previsto dai riti giudaici – e questo malgrado il padre Zaccaria appartenesse alla casta sacerdotale dei leviti, anzi fosse discendente di Aronne. La piccola comunità religiosa che ancora oggi si rifà agli insegnamenti di Giovanni – i mandei – pratica il battesimo settimanale per immersione come mezzo di purificazione dai peccati. Sono appena settantamila, sopravvissuti a diverse persecuzioni: vivono in una regione dell'Iran, ma parlano ancora un dialetto aramaico. Che i loro libri riflettano veramente la predicazione originale di Giovanni è un'idea suggestiva, anche se la filosofia di fondo è più simile alla gnosi o al manicheismo sviluppatisi in Medio Oriente nei secoli successivi.

I vangeli ci raccontano come Giovanni accetti di essere un semplice precursore, ma è possibile tra le righe intravedere almeno un momento in cui i battezzati dovettero scegliere: con l’uno o con l’altro. O Giovanni o Gesù. Non dicevano proprio le stesse cose. I discepoli di Giovanni digiunavano, quelli di Gesù no; Giovanni si lascia andare a commenti pericolosi sulla famiglia reale, Gesù cerca di non fare politica (ma poi finisce comunque nei guai). Forse Giovanni era stato il maestro di Gesù (è lui a battezzarlo), ma poi quest’ultimo aveva preso una strada sua, e l’incarcerazione di Giovanni lo mise nella condizione di ereditare un po’ del credito del predicatore rivale, che davvero in questo senso gli aveva aperto la strada. Eppure anche in carcere Giovanni continuò a diffidare del cugino (Luca li considera cugini: ma in nessun altro testo sembrano manifestare alcun tipo di familiarità), mandando i suoi discepoli a chiedere a Gesù se davvero è il Messia. Gesù non si limita a rispondere “sì”, ma invita i giovannei a verificare di persona: come si riconosce un Messia? Cosa dice il profeta Isaia al riguardo? I ciechi recuperano la vista? Fatto. Gli storpi camminano? Fatto. I lebbrosi guariscono? Questo a dire il vero in Isaia non c’è, ma crepi l’avarizia. Eccetera eccetera: i sordi odono, i morti resuscitano…”

“E gli schiavi?”

“Eh?”

“Isaia diceva anche qualcosa sugli schiavi da liberare”.

“Sì, benappunto, vi ho detto che i morti resuscitano”.

“No Isaia non parla di morti, parla di schiavi, schiavi da liberare, insomma la rivoluzione”.

“Siete voi che non capite Isaia, volete sempre buttarla in politica”.

“Sei tu che non vuoi far politica, hai paura di finire come Giovanni, lui sì che si è preso le sue responsabilità…”

“Giovanni lo stimo, ma non avete mica capito, qua si parla di resuscitare i morti, liberarsi dal giogo del peccato originale, altro che schiavi e mica schiavi, questa è un’idea che tra duemila anni ancora ne staranno a parlare”.

“E avranno ancora gli schiavi”.

“E pazienza, i poveri ci saranno sempre…”

“Giovanni non parla così”.

“Che importa di quel che dice Giovanni, tanto la storia la scrivono i vincitori, e il protagonista sarò io, e del vostro Giovanni si parlerà come di uno che non era degno di allacciarmi le scarpe”.

“Noi restiamo con Giovanni”.

“Perfetto, sparite, faccio già fatica a vedervi”.

“Buona resurrezione”.

“Ridete, ridete, ride bene chi ride per ultimo”.

Magari non andò esattamente così, però i giovannei non seguirono tutti Gesù. C’era un formicolio di sette e di bande armate, una vitalità complessa e indisciplinata che i Romani non capirono e che presto o tardi spazzarono via per farci un bel deserto e chiamarlo pace (di Giovanni riparleremo nel giorno in cui si celebra il suo martirio, il 29 agosto).

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San Luigi è uguale a noi (più o meno)

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21 giugno: San Luigi Gonzaga (1568-1591), patrono della gioventù, magari un po' raccomandato.

Consacrazione di San Luigi, patrono della gioventù (Goya)

Una cosa bella del cristianesimo è che per la prima volta ha messo all'ordine del giorno l'uguaglianza. Non tanto il fatto che ci fosse un Dio – quello si pensava già prima – ma che davanti a questo Dio risultassimo tutti uguali, come... come davanti alla legge, salvo che questa idea di essere tutti uguali davanti alla legge non esisteva, prima che postulassimo di essere tutti uguali davanti a un Dio. Pensate alla Dichiarazione d'Indipendenza Americana, 1776: "Noi riteniamo certe verità autoevidenti: che tutti gli uomini siano stati creati uguali", insomma se avessimo chiesto a Thomas Jefferson, sì, ma perché dovrebbero essere tutti uguali? Lui non avrebbe avuto altro argomento che puntare verso il cielo, o verso il Vangelo (ne aveva una copia tutta ritagliata a piacere): siamo uguali perché Dio ci ha creato così, è autoevidente. Questo magari spiega l'importanza che ha Dio nella società americana, e le difficoltà che incontrano quando provano a farne meno: come se fosse ancora la chiave di volta di un edificio settecentesco che nessuno in seguito ha ritenuto di ricostruire. 

Dunque se qualche autorità ci considera ancora tutti uguali lo dobbiamo a Gesù Cristo... senonché forse questa idea non è nemmeno sua: almeno in qualche passo del Vangelo dà là sensazione che Egli pure facesse qualche differenza, ad esempio tra ebrei e non circoncisi. Il postulato dell'uguaglianza nasce un po' più tardi, forse perché il cristianesimo si stava diffondendo tra gli schiavi e agli schiavi serviva una religione che rimettesse in discussione le gerarchie sociali. Quando iniziate a vederla in questo modo, è una specie di rivoluzione copernicana: Cristo ci avrà messo qualche idea (e il suo sacrificio), ma di messia e di religioni in giro ce n'erano tanti. Il cristianesimo ha vinto perché piaceva agli schiavi, e raccontava una storia di giustizia che serviva agli schiavi. E forse davvero ha messo in crisi la società antica perché gli schiavi erano troppi ed erano stanchi di sentirsi inferiori. Non è che il cristianesimo ha liberato gli schiavi, come si raccontava una volta. È la schiavitù che ha inventato il cristianesimo per liberarsi. Un messaggio di speranza, ma anche di giustizia. Molto bene. Viene quasi voglia di battezzarsi, se uno si era sbattezzato (in realtà lo sbattezzo non funziona).  

Poi guardi il calendario, 21 giugno, San Luigi Gonzaga, e ti sale un po' la rogna. Un nobile figlio di nobili fatto santo dai nobili. Cos'ha fatto di importante nella vita? Non tantissimo, è morto quasi subito. Ma è morto Gonzaga, e i Gonzaga ad avere un santo ci tenevano. 

Lo so che non ha senso prendersela, perché se c'è un luogo dove per secoli la povertà è stata apprezzata e valorizzata, questa è proprio la Chiesa. C'è fior di poveracci sul calendario cristiano: poveri nati e poveri per scelta. Però, certo, c'è anche un sacco di bella gente, principi conti e regine, perché anche il martirologio è diventato uno status col tempo, come qualsiasi cosa.

Non so dove l'abbia trovata Cattabiani (Santi d'Italia, Bur, 1993), ma una leggenda dice che Luigino Gonzaga, a quattro anni, fu portato da papà Ferrante alle esercitazioni militari per l'imminente spedizione contro i turchi. Luigino vestiva "una corazza in miniatura, un archibugetto a tracolla e un ciuffo di piume bianche", e questo abbigliamento una sera avrebbe confuso le guardie della polveriera,  o più probabilmente dormivano, sicché Luigino riuscì a sgraffignare abbastanza esplosivo da caricare una spingarda e ustionarsi, "per fortuna leggermente, mani e guance". Ora, per quanto ai tempi i bambini potessero crescere più velocemente, è difficile immaginare un monello di quattro anni che se ne va in giro di notte da solo per un accampamento. E però se fosse successa davvero, questa che è l'unica bravata mai commessa da San Luigi, non sarebbe senza un senso. Da una disavventura del genere Luigi avrebbe potuto trarre una grande lezione: qualsiasi cazzata avesse fatto nella vita, non importa quanto grande e pericolosa, l'avrebbe fatta franca; perché imbecille o meno era pur sempre un Gonzaga, e i Gonzaga fanno quello che gli pare. Anche quelli dei rami cadetti, come Ferrante suo padre che era marchese, sì, ma di Castiglione delle Stiviere; e però era Gonzaga pure lui, e i Gonzaga hanno parenti in Austria e in Spagna, in cielo e sottoterra. Ecco, forse mentre piagnucolava e le lacrime gli salavano le ustioni sulle guanciotte, Luigi capiva questo: che non c'era nessun gusto nel fare birichinate, quando nessuno ti giudica; e così non ne fece mai più. Il resto della sua breve vita si potrebbe interpretare così: una sfida al bieco familismo del neofeudalesimo rinascimentale. Luigi evade dal suo destino di signorotto impunito nell'unico modo che la società gli consente: trovando Dio. Quattro anni dopo, quando Ferrante torna dalla guerra, constata con orrore che il suo primogenito, oltre alla tubercolosi, ha contratto una spaventosa vocazione religiosa: del resto un cugino della madre era un Dalla Rovere, vescovo di Torino. 

Ci fa caso anche il cardinale Carlo Borromeo, che passando da Castiglione scopre che il novenne Luigi si confessa già da tre anni (chissà di che peccati), e decide, potendo deciderlo, di impartirgli subito il sacramento della prima comunione. Forse in Luigino il cardinale si era riconosciuto: anche lui aveva sofferto il dissidio tra vocazione religiosa e il ruolo imposto dalla primogenitura (dopo la morte del fratello maggiore). Il padre però non molla, forse anche perché il secondogenito, Rodolfo, non gli sembra una cima. Nel 1582 la famiglia è ospite a Madrid di re Filippo II; Luigi e Rodolfo hanno l'onore di essere convocati come paggi di un infante di Spagna, ma quando non è impegnato dai doveri mondani, Luigi studia metafisica e teologia. Studiando si avvicina a un ordine di recente formazione, la Compagnia di Gesù, che ha un approccio moderno ma anche rigoroso, a metà tra l'università degli studi e la caserma. Papà Ferrante cerca ancora in vari modi di recuperarlo alla vita mondana; lo manda ospite in tutte le corti dei parenti (Mantova, Parma, Torino, Ferrara), magari sperando che qualche cugina impietosita provi a sedurlo, ma è tutto vano; Luigi ha fatto voto di castità a dieci anni e ormai ha deciso che sarà gesuita. Alla famiglia non resta che raccomandarlo al generale dei gesuiti, a Roma. Luigi arriva con un sontuoso corredo 'da gesuita' di cui si disfa ben presto, preferendo gli abiti comuni: sembrava avercela fatta, tra i gesuiti non era più un Gonzaga, ma un uomo tra gli uomini. A Roma, Luigi resterà dal 1585 in poi, salvo un soggiorno a Napoli per curare la tubercolosi, e uno a Castiglione nel 1589 per risolvere un contenzioso tra il fratello Rodolfo – che aveva ereditato il feudo del padre alla morte di quest'ultimo – e il cugino Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova, che reclamava Solferino. 

Luigi riesce a riappacificare i cugini, ma a questo punto scopre un'altra gatta da pelare: lo zio Alfonso Gonzaga preme perché Rodolfo sposi la sua unica figlia, quest'ultimo fa impazzire la famiglia opponendo un netto rifiuto. Luigi scopre che Rodolfo non può sposarsi perché è... si è già sposato, con la figlia di un artigiano della zecca di Castiglione di cui si era invaghito quando lei aveva quindici anni. Cosa faceva un signorotto del Cinquecento neofeudale quando si affezionava alla figlia di un dipendente? Rodolfo era un Gonzaga, faceva quello che gli pareva, e in questo caso l'aveva rapita e messa incinta. Però poi l'aveva sposata, ufficialmente la storia dice questo, anche se non osava dirlo in giro. Luigi riuscì a forzarlo a un imbarazzante coming out e grazie alla sua intercessione, la madre accettò in casa nuora e nipote. Rientrato a Roma, Luigi si tuffa anima e corpo nell'assistenza ai malati dell'epidemia di tifo, svolgendo incombenze decisamente non indicate a uno che aveva già i polmoni tormentati dalla tbc. In questi casi viene il sospetto che il santo abbia inconsapevolmente voluto anticipare i tempi della sua dipartita. Sulla terra, non importa quanti sacrifici e opere di bene, sarebbe rimasto per sempre un Gonzaga, un privilegiato. Solo davanti a Dio siamo tutti uguali, perlomeno in teoria.   

In pratica forse no, perché una volta passato all'altro mondo, Luigino fu di nuovo oggetto di un trattamento di riguardo. Una prima richiesta formale di canonizzazione partì da un sinodo convocato a Mantova nel 1604; ora secondo voi come si chiamava di cognome il vescovo di Mantova che aveva convocato il sinodo? esatto, Gonzaga, Francesco Gonzaga, quanto è piccolo il mondo. L'anno dopo Luigino era già proclamato Beato, quattro anni prima del fondatore del suo stesso ordine, Ignazio di Loyola. Canonizzato definitivamente nel 1726, tre anni più tardi Luigi fu proclamato patrono della gioventù cattolica, e in quanto tale era un santo molto popolare ancora per la generazione di mio padre: almeno per lui "San Luigi" era una data importante, un pretesto per far festa. Ma immagino che prima di dar via alle danze il parroco ci tenesse a esortare i giovani fedeli a vivere santamente come San Luigi, che potendo scegliere tra fare il signore e il santo aveva scelto correttamente, meritandosi la santità. Perché il cattolicesimo è meritocratico, a modo suo. 

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Gerusalemme è in ciascuno di noi (e a Matera)

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20 giugno: San Giovanni da Matera (1080-1139), che trovò Gerusalemme in Puglia 

Non è Gerusalemme ma ci si arrangia

Allo stesso modo in cui ciò che ti è più caro lo capisci soltanto quando te lo portano via, i cristiani d'Occidente sembrano aver cominciato a sviluppare una passione per Gerusalemme solo quando i turchi la chiusero per un po' ai pellegrini. In precedenza sì, qualcuno ci andava, ma Roma o San Giacomo di Compostela sembravano mete più ambite. Verso la fine del secolo XI però papa Urbano II lancia la prima Crociata: non è semplicemente una chiamata alle armi, Gerusalemme comincia a diventare un'ossessione anche per chi non aveva nessuna intenzione di impugnarle. Avventurieri, spiantati, predicatori improvvisati, tutta gente che chiameremmo fraticelli salvo che Francesco ancora non li aveva fondati; del resto anche Francesco, un secolo più tardi, risentiva dello stesso clima. Da Vercelli per esempio si mette in strada un Guglielmo che poi diventerà santo, diretto verso Gerusalemme e forse ci sarebbe arrivato se presso Ginosa (MT) non si fosse imbattuto in un altro eremita coetaneo, Giovanni da Matera, che lo esortò a restare in zona, dove avrebbe potuto fare del bene; del resto nel frattempo Gerusalemme era stata presa dai Crociati, ma il massacro che ne era seguito non sembrava aver migliorato un granché il morale della cristianità. Può darsi che le traiettorie irregolari di personaggi come Giovanni e Guglielmo, cresciuti negli anni in cui la Crociata era ancora un progetto, un sogno, risentano di questa grande delusione.

Giovanni da Matera e Guglielmo di Vercelli sono una strana coppia di eremiti. Leggendo la loro leggenda mi sono fatto un'idea che trae linfa più dalla mia misera esperienza di vita che dai dati in nostro possesso, ovvero: secondo me Giovanni stava bene con Guglielmo, e avrebbe voluto passare più tempo con lui, mentre Guglielmo probabilmente preferiva la solitudine, o comunque una compagnia diversa. Però comunicare questo tipo di cose è difficile; lo è anche oggi che parliamo tutti la stessa lingua e abbiamo tutti gli stessi riferimenti culturali. Guglielmo non poteva semplicemente dire, senti, ci ho riflettuto un po' e ho capito che dobbiamo dividerci. I santi eremiti nel medioevo non comunicavano così. Al limite poteva dire così: ho avuto una visione, Gesù Cristo mi ha detto che dobbiamo dividerci. Al che Giovanni risponde una cosa del tipo: mm sì, ecco cos'era prima quella cosa nella siepe, era Gesù Cristo che parlava con te. Ok. 

"Quindi ci dividiamo?"

"Va bene".

"Allora io vado di qua e tu vai..."

"Un attimo, un attimo, devo..."

"Devi cosa?"

"Devo prendere le mie cose".

"Ma cosa devi prendere, non hai niente, sei un eremita".

"Ah già. No, devo... devo pregare e meditare".

"Ok. Io intanto vado".

"No, dai, resta a pregare un po' con me..."

"Ma Gesù mi ha detto..."

"Ma figurati se Gesù ha fretta, dai".

Così alla fine Guglielmo diede fuoco alle capanne. Cioè, nella leggenda non c'è scritto così: c'è scritto che le capanne presero fuoco per miracolo, e questo fece capire ai due sant'uomini che Gesù un po' di fretta l'aveva. Sono io che sovrainterpreto, sono io che ovunque vado porto la mia sociopatia. Invece di portarmi Gerusalemme, come fanno i santi uomini.

Quanto a Giovanni, quest'ultimo proveniva, secondo la tradizione, da una famiglia benestante di Matera, i De Scalcionibus (per cui a volte lo sentirete chiamare San Giovanni Scalcione, o Scalzoni). Che non si trattasse di poveracci lo si può dedurre anche dal fatto che avessero residenza dove ora si trova la chiesa del Purgatorio, una specie di terrazzo su quello spettacolo di miseria che dovevano essere i Sassi nel 1100. Possiamo insomma immaginare che Giovanni sia cresciuto in un osservatorio privilegiato sulla povertà e la sofferenza, e se anch'egli da giovane potrebbe aver sentito il richiamo di Gerusalemme (del resto sappiamo che Urbano II nel suo tour propagandistico passò anche da Matera), da un certo momento in poi deve aver concluso che Gerusalemme è ovunque vi sia fede e povertà, Gerusalemme è dentro di noi. Un bel pensiero che se fosse stato universalmente condiviso ci avrebbero risparmiato grattacapi che tuttora perdurano, ma qualcuno a questo punto potrebbe offendersi, quindi ora metto punto.

Anche se Guglielmo fu suo ospite in una grotta poco distante da Matera, non è che Giovanni fino a quel momento non avesse viaggiato, anzi: aveva trottato per l'Italia meridionale così instancabilmente che facciamo fatica a ricostruire il suo itinerario (le agiografie dei due santi non coincidono). Era stato a Taranto, nel monastero dell'Isola di San Pietro, a litigare coi monaci locali che non apprezzavano la sua abitudine a meditare immerso nell'acqua fino al collo, giorno e notte; era stato in Calabria; non ancora in Puglia dove più tardi si sarebbe fermato. Nessun monastero gli sembrava abbastanza ascetico; talvolta era una visione a proporgli di cambiare destinazione. Anche a Ginosa non sarebbe rimasto a lungo, benché vi avesse già trovato i primi discepoli; secondo una leggenda fu incarcerato dal conte Roberto di Chiaromonte, con l'accusa di aver finanziato la comunità con i fondi di un tesoro da lui trovato in una delle grotte, e bisogna dire che tutto questo accadeva al termine di un periodo plurisecolare in cui chi si trovava dell'oro in casa tendeva davvero a nasconderlo in qualche luogo sicuro, insomma ritrovamenti del genere non dovevano essere rarissimi e può darsi che capitassero più spesso a chi aveva l'inclinazione a rifugiarsi nelle grotte più desolate; ma è difficile immaginare che un asceta come Giovanni ne avesse approfittato. Magari li aveva distribuiti ai poveri – cioè un po' a chiunque – senza immaginare cosa sarebbe successo quando un po' di poveri si sarebbero ritrovati a dover giustificare il possesso di oggetti d'oro. Ma può darsi che si tratti di una leggenda nata per giustificare il fatto che neppure a Ginosa, tra i suoi discepoli, Giovanni era riuscito a trovare la pace.

Lo ritroviamo in seguito a Bari (Giovanni non disdegnava, tra un eremo e un altro, i centri urbani più popolosi) dove finisce di nuovo nei guai; il principe Grimoaldo Alfaranite lo fa processare, a quanto pare perché predicava la povertà senza permesso. Assolto, Giovanni si rimette in viaggio, forse passando da Capua e incontrando di nuovo Guglielmo da Vercelli, in Irpinia. È qui che avviene l'episodio sopra riportato (Guglielmo vede Gesù e anche Giovanni fa in tempo a vedere la visione svanire). La volontà di Dio sembra abbastanza chiara, eppure i due santi fanno un po' fatica ad accettarla; l'incendio delle capannine che si erano costruiti sembra un segno più esplicito. Eppure i due fanno ancora un po' di strada assieme, fino al monte Cognato; qui Guglielmo riesce finalmente a liberarsi del collega; Giovanni prosegue fino a Monte Sant'Angelo, che ai tempi era il centro urbano più importante del Gargano, nonché il santuario più visitato di tutte le Puglie (anche se cominciava a sentirsi la concorrenza con quello di San Nicola a Bari). Qui risolve un caso di siccità, attribuendola pubblicamente ai peccati di un religioso; costui piuttosto di smettere di peccare abbandona il Monte, e la siccità cessa immediatamente. Anche Giovanni lascia di lì a poco il Monte per recarsi a Pulsano, nei pressi del golfo di Manfredonia, dove finalmente troverà il luogo ideale per fondare un monastero. Benché in teoria aderisse alla regola benedettina, l'insistenza di Giovanni sul lavoro manuale (e il disinteresse per quello intellettuale) è un chiaro segno anticipatore dei movimenti pauperisti che dilagheranno anche in Meridione nel secolo successivo. Alla sua morte (verso il 1140) esistevano decine di monasteri cosiddetti pulsanesi, da Pisa a Dubrovnik; l'ordine però si dissolverà altrettanto rapidamente, forse a causa della concorrenza degli ordini mendicanti dal Duecento in poi. Settecento anni più tardi, un regista visionario deciso a mostrare la Passione di Cristo "as it was", deciderà di girare il suo film tra i Sassi di Matera, ormai più Gerusalemme dell'originale. 

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I dioscuri ambrogini

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19 giugno: Gervasio e Protasio, misteriosi martiri milanesi

Ambrogio con Gervaso e Protasio, nella cripta della sua Basilica.
Di BáthoryPéter (talk) (UTC) - Opera propria, CC BY-SA 4.0, Collegamento

Benché sia Genova l'unica città italiana ad avere la sfrontatezza di definirsi con un peccato capitale ("la Superba"), non sarebbe poi così difficile appiopparne uno o più di uno a tutti i centri urbani rilevanti: Bologna e l'Emilia in generale sarebbero Golose, Napoli potrebbe scegliere tra Lussuria e Accidia, ma perché scegliere? Firenze, notava Dante, li ha tutti sette: l'Inferno è una sua provincia. E Milano?  Milano certo non vorrebbe, ma come si fa a non definirla Invidiosa? Alla fine nessuna città è la migliore di tutte ma Milano è quella che più soffre di non esserlo.

Nel giugno del 386 Ambrogio ha un problema. In quanto vescovo di Milano ha fatto costruire una Basilica dei Martiri: uno dei luoghi di culto monumentale che dovrebbero sancire la superiorità della sua Chiesa (quella di credo niceno-costantinopolitano) rispetto a quella degli ariani, che forse in città sono la maggioranza, ma non hanno le risorse di Ambrogio, né intellettuali né economiche. Il problema è che in questa Basilica dei Martiri... non ci sono martiri. Oppure può darsi che qualcosa ci sia, ma veramente non un granché, non abbastanza da giustificare un monumento del genere, al punto che Ambrogio ancora non si sente di consacrarla. In questo il sant'uomo, benché nato a Treviri, ci risulta già perfettamente intriso dello spirito milanese, quel millenario complesso di inferiorità che sembra costringere gli abitanti a confrontarsi con città più grandi, dal passato più glorioso, insomma a Roma hanno Pietro e Paolo, a Costantinopoli si arrangiano con Andrea e qualche reliquia della Madre di Dio, ma a Milano chi c'è? Ci sarà passato qualche apostolo? Mah, non si sa. Forse Barnaba, non uno dei Dodici ma nemmeno uno degli ultimi arrivati; e però reliquie di Barnaba ancora non ci sono, arriveranno poi. Ma possibile che due secoli di persecuzioni anticristiane non abbiano lasciato il segno? A Roma mietevano teste di cristiani come il grano, e noi niente?

Ambrogio ha un presentimento, così lo definirà in una lettera alla sorella Marcellina. Bisogna scavare. In effetti la sua Milano, per quanto molto più piccola della nostra, ha già qualcosa come novecento anni di Storia, e sappiamo bene cosa succede se provi a scavare in un posto del genere: due ossa prima o poi le trovi. Ma Ambrogio ha la fortuna, o l'astuzia, e la sensibilità, di trovare i cadaveri ben conservati di due fratelli, e questo anche una perizia del 2018 l'ha confermato: le ossa di Gervasio e Protasio presentano significative somiglianze morfologiche. Anche un martire solo sarebbe andato bene, ma Ambrogio riesce a trovarne due e in un qualche modo questo sembra più rassicurante: certo, non siamo più pagani, nessuno pensa più ai Dioscuri, eppure anche Milano ora ha la sua coppia di eroi, come Romolo e Remo a Roma (poi sostituiti da Pietro e Paolo), come Faustino e Giovita a Brescia, e così via. 

Ora sì che la basilica si può consacrare: la traslazione solenne avviene il 19 giugno del 386, ed è la prima cerimonia del genere che ci sia nota in Occidente. Dei due martiri, probabilmente ancora nulla si sapeva: che fossero cristiani lo provava il fatto che fossero benissimo conservati (Ambrogio a Marcellina insiste sul dettaglio del sangue). I nomi non si sa bene dove Ambrogio li abbia trovati: in un primo momento erano Gervasio e Protaso, poi quest'ultimo per assonanza finisce per essere chiamato "Protasio"; in Veneto molte chiese saranno dedicate a un "Trovasio" che è una specie di crasi dei due. La prima agiografia è di qualche anno successiva alla traslazione, e forse è costruita proprio a partire dai dettagli: un cadavere sembrava essere stato decapitato, l'altro no e quindi si decide che è morto fustigato a sangue. L'idea è che siano morti durante le persecuzioni di Decio, quindi terzo secolo; qualcuno preferiva Diocleziano, ma sembra troppo tardi visto che ottant'anni dopo, al tempo di Ambrogio, la memoria dei due era completamente estinta; altri suggeriscono Nerone, ma che a Milano ci fosse una comunità cristiana già verso il 60 sembra inverosimile. Ai due viene assegnata una famiglia di martiri: il padre, Vitale, sarebbe stato assassinato a Ravenna e la moglie, Valeria, mentre tornava da Ravenna a Milano. Negli anni successivi, la Basilica dei Martiri divenne la più importante di Milano, anche perché Ambrogio decise di essere sepolto lì, tra i due santi che aveva scoperto: e da allora la chiamiamo col suo nome, Basilica di Sant'Ambrogio. 
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Ranieri e la sindrome di Gerusalemme

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17 giugno: San Ranieri di Pisa (1118-1160), un altro che a Gerusalemme ha perso un po' la testa.

Cecco di Pietro
Gerusalemme è una città che fa impazzire la gente. Non è solo un modo di dire. Esiste una vera e propria sindrome attestata nella letteratura psichiatrica a partire dagli anni Trenta del secolo scorso. Colpisce i turisti, che nella stragrande maggioranza sono turisti religiosi (e forse sono predisposti a sperimentare un'esperienza perturbante). Nella forma più lieve si manifesta come un pensiero ossessivo nei confronti della città e della storia che rappresenta; in casi più gravi subentra il complesso del Messia, ovvero il turista si sente chiamato da Dio a una missione che può comportare atti vandalici (nel 1969 un australiano decise lì per lì di dare fuoco alla Moschea di Al Aqsa). C'è da dire che dopo una recrudescenza avvertita intorno al 2000, negli ultimi anni il fenomeno è stato relativamente ridimensionato, forse perché (ipotesi mia) è difficile sembrare pazzi arrivando in una città che sta già impazzendo di suo. Il cento di salute mentale Kfar Shaul  ha contato qualcosa come 1200 casi in un lasso di tredici anni (1980-1993), con 470 ricoveri (per lo più brevi). Considerato che nello stesso periodo Gerusalemme veniva visitata da più di tre milioni di turisti l'anno, si potrebbe anche concludere che la sindrome esiste solo perché ci aspettiamo che esista, come i miracoli a Lourdes: se metti tanti credenti nello stesso luogo, è statistico che qualcuno prima o poi in quel luogo cominci a vedere cose o a gridarne altre. In tutte le città qualcuno all'improvviso può mettersi a balbettare profezie, vestirsi di tuniche e proclamarsi il Messia, ma a Gerusalemme ci fanno più caso che altrove, anche se di solito una degenza di una settimana è sufficiente a risolvere il problema. Episodi del genere sono stati registrati in altre epoche: di uno avete senz'altro già sentito parlare (se ci riflettete). Altri sono stati descritti da un domenicano svizzero del XV secolo, Felix Fabri. E poi c'è il caso di San Ranieri Scacceri di Pisa.

A guardarla da lontano, l'agiografia di Ranieri sembra una bozza preparatoria di quella di Francesco d'Assisi: nasce 70 anni prima, fa impazzire i genitori con i suoi modi da ragazzaccio dissoluto (gli piace ballare e suonare la lira), tenta comunque di mettersi sulle orme del padre mercante, ma proprio a quel punto sente il richiamo della povertà, compie un viaggio in Terrasanta, si libera di tutti i suoi beni e diventa asceta e predicatore, venerato già in vita per i miracoli. Se il pauperismo di Francesco è l'espressione del disagio che cresce nel tessuto urbano proprio nei decenni in cui la civiltà comunale conosce un vero e proprio boom economico, non è così strano che nella repubblica marinara toscana sia comparso un simil-Francesco molto prima che in Umbria. 

Avvicinandoci un po', cominciamo a notare le differenze: Ranieri viene convertito da un eremita di origina corsa, Alberto Leccapecora; non va in Terrasanta a convertire il sultano (nel 1135 Gerusalemme è ancora controllata dai Crociati), ma in viaggio di lavoro, con alcuni soci di una compagnia commerciale. Quando arriva però capisce che la povertà è la sua vocazione. Ma non si veste di bianco o di sacco, non si proclama il Messia: si limita a liquidare ai soci la sua quota nella compagnia e a smettere di mangiare cinque giorni alla settimana. In Terrasanta rimane per 13 anni, prima di tornare a Pisa dove si sarebbe stabilito con alcuni seguaci nel monastero urbano di San Vito, compiendo vari miracoli e benedicendo regolarmente l'acqua che gli portavano (da cui il soprannome di Ranieri dell'acqua). A San Vito sarebbe morto nel 1160. 

Negli anni successivi il suo culto sarebbe stato promosso soprattutto dal vescovo Benincasa, che era stato suo discepolo negli ultimi anni a San Vito, e che modificò pesantemente un'agiografia già esistente, trasformando Ranieri in uno straordinario esorcista. Benincasa era esponente della fazione ghibellina in rotta con il papa Alessandro III, e cercava nel culto del suo antico maestro una fonte di legittimità. Quando fu deposto, Ranieri perse ogni speranza di essere canonizzato ufficialmente da Alessandro, e anche in seguito non c'è mai stata una vera causa di beatificazione. In compenso a Pisa è considerato il santo patrono.

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Giulitta e il neonato parlante

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16 giugno: Santa Giulitta e suo figlio San Quirico, entrambi martiri nel 303

Giulitta è una matrona che cerca di scappare da Iconio per evitare a sé stessa e al figlioletto Quirico la persecuzione anticristiana: ma Diocleziano ha spie dappertutto, e Giulitta viene rapidamente catturata. Un turpe governatore durante l'interrogatorio la minaccia e la blandisce tenendo in braccio il piccolo Quirico, che nella leggenda originaria avrebbe al massimo tre anni. Non solo Giulitta rifiuta di convertirsi, ma lo stesso Quirico miracolosamente prende la parola, esorta la madre a resistere e si professa pure lui cristiano. Il governatore, dalla rabbia, lo afferra per un piede e lo scaglia contro i gradini del tribunale, così forte che ne "schizzarono le tenere cervella". Il tutto davanti alla madre che da quel momento sarà ancor più risoluta a morire testimoniando la propria fede. Tramandata da una Passione redatta dal vescovo di Iconio di Licaonia (oggi in Turchia), la storia di Giulitta e del suo piccolo Quirino conobbe per tutto il medioevo un grande successo. Annotiamo una volta in più come nel medioevo un certo gusto per lo splatter si sia tramandato proprio grazie alle leggende di santi, che con la scusa di dettagliare l'efferatezza dei pagani consentivano agli autori di sfrenare le fantasie più violente. Detto questo, dietro a ogni fantasia c'è una possibile verità e non possiamo escludere che durante la persecuzione dioclezianea un bambino sia morto in un modo tanto orribile. Non è nemmeno impossibile che Quirico abbia detto qualche parola ispirata, in fondo a tre anni alcuni bambini ne sono capaci. Ma l'episodio ricalca evidentemente un tropo più antico: quello del neonato che all'improvviso si mette a parlare come un adulto.  

In Italia il neonato parlante più famoso è senz'altro quello che Sant'Antonio di Padova prende in grembo a Ferrara: è nato da pochi giorni e il padre non vuole riconoscerlo, accusando la moglie di adulterio. Antonio scongiura il neonato di indicare il padre, e il neonato prende miracolosamente parola per scagionare la madre. Non sappiamo se la leggenda sia nata per giustificare le tante immagini in cui Antonio teneva in braccio un bambino; la leggenda poi confligge con un'altra che identifica nel bambino lo stesso Gesù: Antonio lo avrebbe tenuto in grembo in una visione. 

Il diavolo scambia un neonato con un changeling,
in un polittico di Martino di Bartolomeo.

Nei miti celtici, i bambini che parlano sono i changeling, folletti che le fate hanno sostituito ai figli veri delle madri che non hanno fatto sufficiente guardia alla culla. Queste fate in certi casi preferiscono crescere figli umani; oppure non hanno latte e quindi devono servirsi di questo sotterfugio perché una madre umana nutra il loro figlio. Le leggende dicevano che erano più goffi dei bambini normali, e che parlavano sì, ma solo di nascosto: per sorprenderli servivano una serie di trucchi che variavano di regione in regione. 

Un'ipotesi è che la leggenda dei changeling servisse a spiegare il fenomeno dei bambini affetti da malattie genetiche, come la sindrome di Down. Definirli figli delle fate era un modo per prenderne le distanze, visto che presto o tardi sarebbero stati uccisi o abbandonati. Apparentemente, la leggenda di Giulitta e Quirico non ha niente in comune coi changeling: e però appena il bambino parla, il pagano malvagio lo afferra da un piede e lo scaglia via come una vita indegna di essere vissuta. Non è impossibile che nella storia venga riciclato un mito più antico, rovesciato polemicamente: la pratica di eliminare i bambini malati o deformi diventa una prova della malvagità dell'antico mondo pagano; ora il bambino che parla è un martire ed è degno di essere venerato come santo. 

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Eliseo e le sue orse

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14 giugno: Sant'Eliseo, profeta da non contrariare (IX secolo aC)


Quando Eliseo, dopo aver purificato le acque di Gerico, si mise in cammino verso il monte Carmelo, passando da Betel incontrò dei giovani che lo presero in giro: la strada era in salita e loro gli gridavano: "sali, calvo". Non l'avessero mai fatto. Non solo si prendevano gioco di un profeta di Dio, ma di quello probabilmente più permaloso. Insomma giudicate voi: Eliseo (dall'ebraico Elisha, "Dio è la mia salvezza") li maledisse nel nome del Signore e subito dal bosco uscirono due orse che li sbranarono tutti e quarantadue. E benché i glossatori in seguito abbiano tentato di dare al termine ebraico "ne'arim" ("giovani"), un significato più esteso ("disobbedienti"), è probabile che la versione originale sia la più sgradevole: non erano adulti, e se il profeta li ha maledisse si vede che se lo meritavano. 

Di miracoli, Eliseo ne ha fatti parecchi: è la sua specialità. Isaia ha la poesia, Geremia le rampogne, Ezechiele le visioni, Elia i miracoli, Eliseo ancora più miracoli. Alcuni sono persino più cruenti, ma non è difficile capire perché questo è il più famoso. Erano 42 ragazzi: non offendevano il Signore servendo gli idoli, come facevano i re di Israele e dintorni che Eliseo periodicamente ammoniva e puniva. Avevano solo mancato di rispetto a un profeta, ecco, questo era già intollerabile. 

Quando fece sbranare i 42, Eliseo era già abbastanza maturo da aver perso i capelli, ma come profeta si era appena messo in proprio. Il suo maestro, il grande Elia, era da poco salito al cielo su un carro di fuoco. Eliseo aveva avuto il privilegio di assistere all'evento coi suoi occhi, l'unico modo, secondo il maestro, di riceverne l'eredità. Eliseo aveva chiesto addirittura di "averne il doppio", richiesta molto ardita perché già Elia era conosciuto per i suoi prodigi spettacolari. Eliseo evidentemente sentiva di meritarselo; anni prima, quando Elia lo aveva fatto suo discepolo stendendogli il mantello addosso, Eliseo aveva abbandonato la sua casa senza quasi fiatare. Stava arando un campo, alla guida di un tiro di dodici buoi – un dettaglio che ci suggerisce che la sua famiglia fosse abbastanza benestante. A Elia chiese solo un momento per salutare i genitori; poi fece arrostire i buoi sul fuoco che appiccò agli aratri, sfamò i suoi servi e li congedò, il Signore lo chiamava. Non sappiamo se durante gli anni di apprendistato presso Elia abbia fatto dei miracoli; senz'altro, appena raccolse il mantello di Elia che era caduto dal carro di fuoco, divenne in grado di dividere le acque del Giordano e fare qualsiasi altra cosa. Un enorme potere nelle mani di un uomo un po' bizzoso, ma Eliseo era anche capace di atti di generosità e tenerezza. 

Quando passava dal villaggio di Sunem era spesso ospite di una signora che aveva riconosciuto in lui "l'uomo di Dio", e aveva fatto costruire una stanza apposta per lui, senza nulla chiedere in cambio. Eliseo, non sapendo come sdebitarsi, le promette che entro l'anno aspetterà un bambino. La sunammita non vuole crederci, il che è pericoloso; chi reagiva con scetticismo alle profezie di Eliseo a volte finiva molto male. Un soldato che non aveva creduto alla vittoria promessa, era finito schiacciato durante i festeggiamenti. Ma il caso della sunammita è diverso: non dubita del profeta, ma ha paura del suo stesso desiderio. Il bimbo nascerà, crescerà, e un giorno cadrà in coma dopo aver lamentato forti dolori alla testa. Quel giorno la sunammita cavalcherà fino al monte Carmelo, per prendersela con il profeta: "Avevo forse domandato un figlio al mio Signore? Non ti dissi forse: non m'ingannare?"  Così tutti noi genitori, quando scopriamo che l'ansia di perdere i nostri figli sorpassa la gioia di averli attesi, se avessimo nei pressi il profeta Eliseo, lo malediremmo. Ma il potente Eliseo, inflessibile coi re e i loro eserciti, quando la sunammita venne ad accusarlo, scese dal Carmelo e andò a rianimarle l'unico figlio, con una tecnica che somiglia alla respirazione bocca a bocca. Era un tipo così. Per fortuna che quel giorno nessuno gli fece notare che stava perdendo i capelli. 

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Quando i teologi cantavano

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9 giugno: Sant'Efrem il Siro, teologo e cantautore (306-372)

Nel quarto secolo, terminata la grande persecuzione dioclezianea, i cristiani tornano in superficie e per prima cosa si mettono a cantare. Potrebbe non esserci stato un altro periodo della storia dell'uomo in cui teologia e musica fossero tanto intrecciati; quasi tutti gli intellettuali del tempo non solo compongono inni, ma li usano per difendere le proprie teorie, e spesso li intonano direttamente nelle chiese in cui officiano i riti. Oggi li immaginiamo perlopiù mentre vergano pergamene o insegnano da un pulpito, ma nel IV secolo i dottori della chiesa componevano canzoni e le cantavano, col coro a rispondere. Cantava Ambrogio a Milano; cantava Diodoro ad Antiochia; ad Alessandria canta anche Ario, su musiche popolari che gli consentono di spargere le sue idee per le strade quando la Chiesa ufficiale gli volge le spalle. A Edessa, Siria (oggi Şanlıurfa, Turchia) andava forte un tale Armonio, figlio d'arte perché già il padre Gardesano a Nisibi aveva messo le sue idee gnostiche in musica; ma fu il successo di Armonio a stimolare il monaco Efrem a mettere in musica la sua dottrina.  Non sappiamo che musica fosse, perché non si sono tramandate forme di notazione comprensibili, ma può darsi che ci suonerebbe familiare, visto che Efrem componeva su arie della tradizione popolare, e la musica è un linguaggio più universale di quanto non si creda. Poi si sa come andavano le cose, non solo nel medioevo: quando si voleva salvare una bella canzone in siriaco, la si attribuiva a Efrem, per cui di lui ci sono arrivate centinaia di pagine in poesia e in prosa, dalle quali ricavare quelle davvero scritte dal monaco non è affatto facile. Questo è comunque un miracolo, se si considera quanto poco ci è rimasto di tutto il mondo che Efrem rappresentava. La sua lingua, il siriaco, che in quei secoli era una delle più parlate dai cristiani (e la più simile alla lingua di Gesù, l'aramaico occidentale), scomparve quasi del tutto dopo l'islamizzazione della regione, togliendoci gran parte della sensibilità necessaria ad apprezzare la musicalità e il ritmo delle composizioni di Efrem. La stessa comunità siriaco-cristiana cui apparteneva era già a rischio: se durante l'infanzia di Efrem l'impero Romano era ancora il nemico dei cristiani, la situazione si sarebbe ribaltata dopo il 310 quando i Romani divennero abbastanza rapidamente i difensori della fede cristiana contro la penetrazione persiana; il grande trauma della vita di Efrem è la conquista persiana di Nisibi, la sua città natale, dove a quanto pare, malgrado l'appellativo "monaco" suggerisca una vita appartata viveva e predicava. Ai cristiani fu consentito di salvare la vita abbandonando la città. Efrem, che secondo i biografi avrebbe partecipato attivamente alla difesa durante l'ultimo assedio, in seguito si sarebbe trasferito con molti altri correligionari a Edessa, fondando un monastero; sarebbe morto nel 372, assistendo i malati di peste.
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Il santo dei ladri di bestiame

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8 giugno: San Medardo vescovo (VI secolo)

"S'il pleut à la Saint-Médard, il pleut quarante jours plus tard". La leggenda che associa San Medardo agli acquazzoni estivi prevede che il giovane aspirante santo incontri, all'età di dieci anni, un poveraccio disperato perché gli è morto il cavallo e non sa più come tirare il carretto o l'aratro. Decide quindi di donargli il suo, è una cosa che i santi fanno spesso, anche prima dell'introduzione delle stimmate avevano già le mani bucate; invece una cosa che fanno spesso i genitori dei santi è imbestialirsi quando scoprono che i figli stanno facendo i santi a spese loro. Il padre di Medardo, un nobile galloromano chiamato Nectar, quando scopre che suo figlio sta elargendo cavalli, esce immediatamente dal castello per andare a riprenderselo, e si porta il bambino con sé: ed è a questo punto che scoppia un violento acquazzone e Nectar, già completamente fradicio, si volta verso Medardo e si accorge che è completamente asciutto. Un'aquila lo sta riparando dalla pioggia battente; è un miracolo, un segno del cielo, insomma addio cavallo. I padri dei santi si devono rassegnare, magari sperando che col tempo i figli mettano la testa a posto, insomma quando toccherà a loro gestire il patrimonio la smetteranno di regalare cavalli a destra e a manca, o no? 

In effetti le leggende non riportano altri straordinari atti di prodigalità commessi da Medardo una volta cresciuto e ordinato sacerdote; un conto è regalare i cavalli del padre, un conto è intaccare il patrimonio della Chiesa. E tuttavia le leggende non nascondono un atteggiamento piuttosto eccentrico del santo nei confronti dei ladri. Quando Medardo ne scopre uno incastrato nei filari della vigna, lo perdona e lo lascia scappare, e questo fatto è registrato come "miracolo" benché ai nostri occhi contemporanei non risulti nulla di miracoloso, se non appunto la resistenza all'impulso di bastonare il ladro di frutta. Una cosa simile accade a un ladro di miele, che Medardo salva dalle api. Quando un altro furfante che nottetempo cercava di sottrarre una mucca viene tradito dal tintinnare delle campanelle, Medardo le fa tacere all'improvviso, dopo che avevano già svegliato tutto il vicinato: questo è già più simile a un miracolo, ma è un miracolo che serve a coprire la fuga del ladro di bestiame, che se ne va con la mucca di Medardo! Il quale è tradizionalmente considerato patrono dei prigionieri, di chi soffre di una malattia mentale o di semplice emicrania, degli agricoltori e dei birrai; ma a leggere storie del genere ci si domanda se per caso non sia anche il patrono ufficioso dei ladri. E se questo abbia a che fare con la sua popolarità in Francia, e con l'ascendente che ebbe Medardo su un ladro e assassino come re Clotario I.

In effetti il culto per Medardo comincia immediatamente dopo la sua morte (intorno alla metà del VI secolo), quando il re Clotario lo fa seppellire nella sua capitale, Soissons (oggi nell'Aisne), in un sito intorno al quale sorgerà una delle più importanti abbazie benedettine della Francia. Lo stesso Clotario si farà costruire la sua tomba lì accanto. Ma cosa aveva fatto Medardo, per meritare siffatti onori da parte di un re che aveva passato la vita a dar guerra a Visigoti, Burgundi, Turingi, nipoti, fratelli, figli? Lo aveva aiutato a sbarazzarsi di una moglie, Radegonda. 

No, non in modo cruento. Anzi, era stato forse uno dei pochi casi in cui Clotario era riuscito a risolvere un problema senza spargere sangue (era il tipo di re che quando un figlio si ribellava non condannava a morte soltanto lui, ma anche nuora e nipotini). Probabilmente Clotario non aveva mai amato Radegonda: l'aveva requisita come bottino di guerra in quanto figlia di un re di Turingia – quella volta che lui e un suo fratello avevano attraversato il fiume Unstrut sui cadaveri – e l'aveva sposata per le solite questioni politiche. Per le stesse questioni politiche gli era successo in seguito di far ammazzare un cognato; a quel punto Radegonda, rimasta senza parenti, era scappata, temendo per la sua stessa vita, e conoscendo i precedenti dei mariti è difficile darle torto. Clotario era un gangster; non è chiaro se aspirasse a unificare la Francia ammazzando tutti i parenti che ne possedevano una parte, o se l'unità della Francia fu semplicemente il risultato della sua propensione a uccidere tutti i parenti di cui poteva reclamare l'eredità. Presto o tardi avrebbe sentito la necessità di sposarsi con qualche altra principessa fornita di dote: tanto più che Radegonda non riusciva a dargli figli, almeno maschi. Così decise di scappare, e Dio fece crescere in un istante l'avena in un campo dove si era nascosta mentre le guardie di Clotario la cercavano. Trovò rifugio presso Medardo, che invece di riconsegnarla al re ebbe l'idea di nominarla diaconessa: Radegonda avrebbe trovato sollievo alle sue pene nella vita claustrale e fondato un monastero femminile a Potiers, una città assai distante dalle grinfie del marito. Invece di prendersela con Medardo, come alcuni temevano, Clotario ebbe da quel momento grande considerazione per lui e lo fece seppellire con tutti gli onori, poco prima di raggiungerlo. Aveva appena unificato la Francia, ma siccome la nuova moglie (che forse era una vecchia concubina) gli aveva dato cinque figli maschi, le guerre fratricide ripresero abbastanza presto. 

Secondo i francesi, se piove oggi, piove per altri 40 giorni – a meno che non faccia bello a San Barnaba, che è l'11. E almeno di pioggia i francesi s'intendono. 

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Norberto il fulminato

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6 giugno: San Norberto di Magdeburgo, vescovo e predicatore (1080-1134)

Di Norberto si racconta che cambiò vita dopo essere stato colpito da un fulmine, non sulla strada di Damasco ma nei pressi di Magdeburgo, capoluogo della Sassonia centrale. Norberto a dire il vero era già un chierico importante, tanto che aveva accompagnato l'imperatore Enrico V a Roma per la sua incoronazione. Per cui agli agiografi non resta che immaginare che fosse già un sacerdote, sì, ma di quelli un po' mondani che pensano più agli intrighi di corte che alla cura delle anime. L'episodio del fulmine potrebbe persino alludere a un episodio più concreto: il provvedimento di scomunica con cui il papa Pasquale colpì l'imperatore, visto che quest'ultimo continuava a nominare vescovi come se fosse una sua prerogativa. Proprio nello stesso periodo Norberto si sgancia dalla corte imperiale e comincia a dedicarsi alla predicazione e alla vita cenobitica. 

L'idea del fulmine ovviamente ricalca la caduta di san Paolo, però è davvero una coincidenza singolare che una storia simile si racconti anche di Martin Lutero, che sarebbe nato 400 anni dopo, ma a pochi km di distanza da Magdeburgo, a Eisleben. Anche nel suo caso un fulmine lo avrebbe convinto ad abbandonare gli studi giuridici e a farsi monaco. Lutero entrò nel monastero agostiniano di Erfurt; Norberto, 400 anni prima, ne fonda uno in Piccardia, a Premontré. I suoi monaci, che saranno chiamati premostratensi, seguono la regola agostiniana ma ai doveri del monastero aggiungono la predicazione del Vangelo nelle campagne. In pratica sono l'anello di transizione tra il monachesimo contemplativo e gli ordini predicatori che si diffonderanno nel secolo successivo, domenicani e francescani. Lutero – anche lui grande predicatore – invece abolirà tutti gli ordini monastici, insomma un fulmine può darti anche la scossa, ma la direzione in cui schizzi via la scegli sempre tu.
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Bonifacio l'abbattitore

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5 giugno: san Bonifacio (675-754), evangelizzatore e taglialegna 


A un certo punto, non si sa bene quando, qualcuno ha messo in giro la voce che san Bonifacio/Winfred di Magonza sia l'inventore dell'albero di Natale. Lo avrebbe addobbato per la prima volta nel 724, "per spiegare alle popolazioni pagane il senso del Natale". Le candele accese sui rami simboleggerebbero "la discesa dello Spirito Santo sulla terra", discesa che a rigore si festeggerebbe più a Pentecoste che a Natale, insomma, è una storiella messa in giro da qualcuno non troppo esperto di queste cose – magari un protestante. Alla lontana richiama quegli espedienti di inculturazione che sono tipici dei pionieri dell'evangelizzazione, e qui forse giova ricordare che "pagano" deriva da "pagus", campagna: abbiamo cominciato a chiamare "pagani" i non cristiani quando ormai i centri urbani erano cristianizzati e i politeismi erano considerati superstizioni da contadini. Bonifacio, patrono di Germania e Olanda anche se era un benedettino nato in Inghilterra, ha appunto dedicato la sua vita all'evangelizzazione dei pagi: il papa Gregorio III, che lo aveva ribattezzato Bonifacio, lo aveva nominato vescovo di tutta la Germania, ma in concreto la zona in cui riusciva a esercitare le sue funzioni era quella intermedia tra Frisonia, Renania e Francia orientale, intorno alla sua sede di Magonza. Ora si sa che molti di questi evangelizzatori di massa non vanno per il sottile e hanno il battesimo facile, anche di fronte a popolazioni che ancora non capiscono la lingua delle preghiere: prima battezzare, dopo spiegare, magari tu non capirai ma tuo figlio sì. Ovviamente gli idoli pagani vanno distrutti, ma senza essere troppo drastici, specie nei confronti di elementi naturali che in effetti possono essere impossibili da rimuovere: ad esempio un monte è sacro a qualche dio? Mica si può distruggere il monte: ma ci si può mettere un santuario cristiano e nel giro di una generazione il dio è sostituito. Quanto all'albero di Natale, è ovvio che si trattava di un'usanza precristiana. Di giudaico-cristiano non ha veramente nulla, in Palestina i pini, quando ci sono, hanno tutt'altra forma. Quindi Bonifacio avrebbe potuto davvero prendere un'usanza pagana e riutilizzarla in senso cristiano: i missionari queste cose le hanno sempre fatte, e qualcuno senz'altro deve averlo fatto con gli alberi di Natale, visto sono sopravvissuti a duemila anni di cristianesimo. 

Ma è difficile che sia stato Bonifacio. Lui in questa cosa dell'inculturazione non ci credeva così tanto: dai suoi scritti e dai suoi atti risulta un personaggio piuttosto intransigente, e poco conciliante con i rigurgiti di paganesimo che riscontrava intorno a lui. Quanto agli alberi pagani, preferiva tagliarli. Uno degli episodi più celebri della sua vita è appunto l'abbattimento della sacra quercia di Fritzlar, in Assia. La quercia era considerata proprietà di Thor, ragione per cui la popolazione accorsa ad assistere era curiosa di vedere se il monaco inglese sarebbe stato fulminato all'istante: probabilmente non ci credevano del tutto; ci credevano come noi crediamo all'oroscopo o alle previsioni del tempo, ma se poi il fulmine cadeva davvero, volevi perdertelo? Così accorsero in tanti, anche perché l'avvenimento era stato dovutamente pubblicizzato: in data tale il vescovo di Magonza abbatterà la Quercia. Nessuno provò a trattenerlo, probabilmente perché Bonifacio era il braccio spirituale del potere carolingio ed era scortato da guardie del maestro di palazzo. E non dovette nemmeno sudare troppo perché appena cominciò il lavoro con l'accetta, in luogo dei fulmini si alzò un gran vento che sradicò la pianta, il che provocò migliaia di conversioni spontanee. Col legname ricavato Bonifacio avrebbe poi eretto la chiesa di un nuovo monastero in loco. Secondo una leggenda più tarda, proprio dai resti dell'albero sarebbe germinato l'abete che Bonifacio avrebbe deciso di addobbare, e qui è chiaro che l'idea di associare al santo l'albero di Natale è un tentativo un po' maldestro di addolcire un personaggio spigoloso. Bonifacio non amava i compromessi, malsopportava sia la rozzezza dei pagani sia la scarsa dimestichezza dei cristiani con i principi e la lingua della loro stessa religione: a un certo punto fu censurato dallo stesso papa perché voleva considerare nulli i battesimi impartiti con formule sgrammaticate ("Baptizo te in nomine patria et filia et spiritu sancta"). Malgrado i monasteri fondati (tra cui Fulda), i concili organizzati, le diocesi disegnate, i popoli battezzati, le querce sacre abbattute, non fu mai veramente soddisfatto di quello che stava facendo e non smise mai di provarci, così che il martirio lo trovò a ottant'anni in un pagus della Frisonia, una domenica di Pentecoste, circondato da infedeli che pensavano di trovare nei suoi bauli preziosi gioielli e non libri sacri. Ai suoi compagni chiese di abbassare le armi, tanto "non possono uccidere la nostra anima": poi quando gli infedeli lo stavano ammazzando non riuscì a impedirsi di difendersi col libro che aveva in mano, il De bono mortis di Sant'Ambrogio. Oggi il codice, coi segni di un'arma da taglio e macchie di sangue, è conservato a Fulda.



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Quirino che chiese di affondare, anzi no

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4 giugno: San Quirino di Sciscia (Siszeck), martire (III-IV sec.)

By Berthold Werner, CC BY-SA 3.0

Se per un po' è sembrato che Internet potesse diventare la Biblioteca di Alessandria – l'archivio di tutte le cose che sappiamo o crediamo di sapere – ormai dobbiamo accettare che sia diventato la Biblioteca di Babele: un enorme corpus di testi che potrebbero persino avere senso, e forse un tempo l'avevano, ma poi è intervenuta una specie di Intelligenza Artificiale abbastanza intelligente per ricombinarli come se volessero dirci qualche cosa, ma non abbastanza per verificare se fosse qualcosa di vero. La maggior parte in ogni caso è pubblicità di cose che molto spesso nemmeno esistono; all'inizio servivano soltanto a infastidire il lettore e convincerlo a passare a una versione a pagamento di un servizio che non comunque non funziona più da anni. 

Di San Quirino comunque sopravvive ancora in qualche vecchia pagina web – ma di quelle vecchie davvero, con gli sfondi marmorizzati, le tabelle htm style e ancora le sottolineature blu sotto i link, ricordate? No, tutto questo ormai vi è più remoto di un manoscritto medievale, perché quelli li potete googlare, mentre il vecchio web degli anni Novanta ora dov'è, perduto come lacrime nella pioggia – ma dovevo parlare di San Quirino, ebbene, di lui sopravvive ancora in qualche vecchia pagina web la voce che lo riguardava su una versione del Martirologio Romano che non è quella attuale (edizione del 2004? del 2001?) Questa voce è così breve che la posso riportare senza troppa paura di annoiarvi:


In una versione più recente del Martirologio, sempre tra i santi del 4 giugno, si legge così:
A Szombathly in Pannonia, nell’odierna Ungheria, passione di san Quirino, vescovo di Siszeck e martire, che sotto l’imperatore Galerio, per la fede in Cristo fu precipitato nel fiume con una pietra legata al collo.

E dunque cos'è cambiato? come si sta evolvendo la martirologia ufficiale? Aumentano i riferimenti geografici: accanto a Siszeck di Croazia ora è menzionata anche Szombathly, oggi in Ungheria (l'antica Savaria, che tra l'altro rivendica anche i natali di Martino di Tours). Meno rilievo invece è dato agli aneddoti miracolosi, qui del tutto sacrificati, forse anche perché un santo che "impetrò Dio di affondare" può lasciare perplessa la sensibilità dei fedeli moderni: non si chiede mai a Dio di morire, anche quando si sta affogando già da parecchio tempo e tutto quello che si poteva fare per rendere testimonianza è stato fatto. Sarebbe eutanasia, e il cristiano moderno deve avere orrore per l'eutanasia, molto più di quanta probabilmente ne provava Prudenzio. Dal martirologio è poi sparito il riferimento a un omonimo Quirino di Tivoli, che si festeggia sempre il 4 giugno e da sempre è considerato lo stesso santo, le cui reliquie sarebbero arrivate a Tivoli da Szombathly già nel V secolo. Oggi riposano a San Giuseppe in Seregno, provincia di Monza e Brianza.

Se invece chiedo a Chat Gpt, lui mi risponde che:
Durante le persecuzioni dei cristiani sotto l'imperatore Galerio, Quirino fu arrestato e condannato a morte per la sua fede. Fu gettato nel fiume Raab (oggi il fiume Rába in Ungheria) con una pietra al collo e morì per annegamento.

Wikipedia invece dice che fu gettato nel fiume Perint, che in effetti passa da Szombathly. E in generale credo più all'intelligenza umana di Wiki che a quella artificiale di ChatGpt, che prende spesso solenni cantonate. Ma tra un po' i collaboratori di Wiki cominceranno ad attingere sistematicamente informazioni da ChatGpt, causando referenze circolari che renderanno impossibile documentarsi di qualcosa su Internet. A questo punto non saprei nemmeno più dire se sia un problema. Cioè, capitemi, Internet è stata fantastica, ci ho vissuto per quanti anni, trenta? Il posto più interessante dove sia stato. Ma non era previsto che durasse per sempre, quello che la rendeva fantastica era proprio una serie di difetti strutturali che la condannavano a diventare col tempo la Babele inanimata che è adesso. Per fortuna che nel frattempo non abbiamo bruciato tutte le biblioteche. 
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Un beota a Trani

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2 giugno: San Nicola di Trani (XI secolo), il pellegrino beota


Anche Trani ha il suo san Nicola, meno conosciuto di quello di Bari (che è in effetti il santo più famoso di tutti, quello che porta i regali ai bambini la notte di Natale). Il Nicola di Bari fu vescovo in Licia e patrono dei naviganti; il Nicola di Trani invece era un beota, nel senso che proveniva anche lui da oriente ma nello specifico da un villaggio della Beozia, non troppo lontano dal Parnaso. 

Tra i Greci già in epoca classica era uso chiamare "beoti" gli stupidi, per via dell'antico pregiudizio dei nobili frequentatori delle acropoli nei confronti dei pastori e dei montanari. Ma anche tra questi ultimi Nicola era un caso limite: orfano di padre, pastore già a otto anni, non è chiaro se non abbia mai imparato a parlare o se le sue competenze lessicali si siano ridotte a causa di un trauma (una "visione") a un'unica invocazione: Kyrie Eleison, Signore Pietà. Il comportamento di Nicola rientra nella casistica dei "folli di Dio", tipici del cristianesimo orientale (anche se al tempo erano ormai anacronistici): emarginati dagli atteggiamenti eccentrici, che mettono alla prova la tolleranza che il Vangelo pretende dai suoi fedeli nei confronti dei poveri di spirito. Tollerare Nicola doveva essere una prova particolarmente ardua, perché all'ennesimo kyrieleison anche la madre lo caccia di casa (a dodici anni!) Per qualche tempo si rifugia nella grotta in cui prima viveva un'orsa che Nicola era riuscito a sloggiare brandendo un crocefisso, e magari anche in questo caso mitragliando kyrieleison. In seguito la madre si fa venire uno scrupolo e lo porta in un monastero, ma Nicola non è evidentemente tagliato per la vita cenobitica e in poco tempo riesce a farsi percuotere e rinchiudere. Tra i vari incidenti, notevole quella volta che durante una processione, mentre tutti chinano la testa al passaggio di un'icona della Madonna, lui va a inchinarsi davanti a un anziano ebreo che era rimasto seduto, forse un rabbino. Ma con le icone non si scherza, nella Grecia bizantina. Un'altra volta i monaci lo legano come un salame e lo buttano in mare, ma lui riesce a farsi liberare da un delfino, anche se non è chiaro come facciamo a sapere tutto questo, visto che quando arriva nel 1094 a Otranto, Nicola è tutto solo e l'unica cosa che sa dire è Kyrie Eleison. Il testimone oculare citato dalle agiografie, un compagno di eremitaggio chiamato Bartolomeo, non sembra conoscere molto della Beozia: probabilmente si è aggregato a Nicola solo dopo l'arrivo in Puglia. Tutto quello che sa, se lo sarebbe fatto raccontare da Nicola, che quindi qualche parola oltre a Kyrie Eleison avrebbe dovuto conoscerla: che poi con queste parole dicesse la verità, non possiamo saperlo: ma se cominciamo a dubitare delle fonti, possiamo anche smettere di raccontare vite dei santi. Invece andiamo avanti.    

Nicola era arrivato in Puglia perché desiderava visitare Roma, imbarcandosi con una comitiva di pellegrini che però lungo il viaggio avevano valutato l'opzione di buttarlo in mare. Anche in Puglia, l'accoglienza non è delle migliori. Nicola si fa strada mendicando nella parte più grecofona della regione recentemente conquistata dai Normanni, ma sia a Lecce che a Taranto viene frustato per ordine dei vescovi locali. Un minimo di rispetto il santo sembra ottenerlo dai bambini, ai quali dona dei frutti, ma questo dettaglio potrebbe anche essere il risultato di una contaminazione col Nicola più famoso, che è famoso proprio per i regali. Quando il 20 maggio Nicola arriva a Trani, nella parte latinofona della regione, trova per la prima volta un arcivescovo che lo tratta da cristiano e gli offre vitto e alloggio. Doveva essere talmente malato da ispirare finalmente più pietà che fastidio: muore dodici giorni dopo. Gli abitanti di Trani, che non hanno fatto in tempo a stancarsi dei suoi kyrieleison, imparano ad apprezzarlo per i miracoli. Il vescovo soprattutto coglie la palla al balzo: deve consacrare la cattedrale che era in cantiere già da parecchio, e un "Nicola" venuto dall'oriente sembra un segno del cielo. Quando scrive a papa Urbano II per chiedergli il permesso di canonizzarlo, è il 1097: sono passati appena dieci anni da quando i resti dell'altro San Nicola sono arrivati a Bari. Il papa acconsente, creando un precedente importante: comincia a farsi strada l'idea che i santi vengano proclamati dal vescovo di Roma. E Trani può invocare il suo San Nicola. Kyrie Eleison.

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Il santo nella porta

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1° giugno: Simeone di Siracusa (XI secolo), eremita e viaggiatore

A Treviri hanno la sensazione di vivere in una città antichissima – se ricordo bene c'è una targa in piazza che dice che è stata fondata mille anni prima di Roma. Questo è evidentemente impossibile, a quei tempi era tutta foresta; ma Treviri è l'ultima città sulla Mosella prima che il fiume si getti nel Reno, dopodiché cominciava la Germania vera e propria, che sarebbe rimasta foresta anche mille anni dopo: ai bordi di questo oceano verde, Treviri si sentiva una metropoli e fece il possibile per conservare quest'illusione. Certe rovine che in altre città facevano tristezza e venivano smantellate, con quel che costava cuocere mattoni nuovi nel medioevo, a Treviri in un qualche modo resistettero: compresa un'intera porta monumentale, la più grande testimonianza architettonica del periodo romano a nord delle Alpi. In parte il merito è anche di un santo, che andò ad abitarci quando ormai era un rudere. Si chiamava Simeone e veniva, di tutti i posti al mondo, da Siracusa. E prima di accamparsi nella Porta Nigra di Treviri era cresciuto a Costantinopoli, rapito in mare, naufragato ad Antiochia, aveva cercato di riscuotere un credito in Bretagna, ed era tornato in Terrasanta come guida turistica. 

Una vita del genere è il segno che il Medioevo ormai ha scollinato: prima dell'anno Mille non sarebbe stata possibile e anche ai tempi di Simeone era abbastanza straordinaria. Il mondo cominciava a rimpicciolirsi, al punto che persino a un monaco come lui, che aspirava probabilmente a una vita studiosa e tranquilla, capitava di frombolare da un punto all'altro del mondo conosciuto come una trottola. Se il primissimo viaggio di Simeone (a sette anni, da Siracusa a Costantinopoli) non era che la tipica traiettoria del bambino di buona famiglia che i genitori vogliono far studiare nella capitale – Siracusa era ancora grecofona, e controllata dai bizantini – il pellegrinaggio in Terrasanta compiuto al raggiungimento della maggiore età è uno dei pochi che Simeone sembra aver compiuto per sua libera scelta, anche se una volta arrivato nei luoghi santi (non ancora insanguinati dalle Crociate), Simeone sembra indeciso tra la vocazione all'eremitaggio in solitudine e l'ingresso in un monastero organizzato. Questa indecisione gli consente di guardarsi un po' intorno. Tra i luoghi in cui si ritira c'è il Giordano, una grotta vicino al Mar Rosso, la cima del Sinai. Forse è questa irrequietezza a suggerire ai confratelli che Simeone è l'uomo giusto per una missione quasi impossibile: andare a batter cassa presso un creditore del monastero, Riccardo II duca di Normandia. 

All'inizio del XI secolo i Normanni ormai è possibile trovarli un po' dappertutto, compreso in Italia meridionale dove combattono per il migliore offerente; ma Riccardo no, per trovare Riccardo bisogna proprio attraversare tutto il mondo conosciuto e chiedergli udienza in Normandia. Il viaggio di Simeone si complica subito: la nave in cui si era imbarcato viene assalita dai pirati. Il santo si salva tuffandosi e nuotando fino a riva; arriva a piedi ad Antiochia e qui fa la conoscenza con due illustri pellegrini che stanno tornando in Europa: un altro Riccardo, l'abate di Verdun, ed Eberwino abate di San Martino a Treviri, che anni più tardi scriverà la prima agiografia di Simeone. I tre rimangono compagni di strada fino a Belgrado, dove Simeone viene sequestrato e perde di vista gli altri due. Dopo una serie di vicende avventurose arriva a Roma, da cui può imbarcarsi per la Provenza, dopodiché non resta che attraversare tutta la Francia a piedi per raggiungere finalmente la corte del duca Riccardo II, ma non è così strano che quando finalmente arriva (ci ha messo più o meno cinque anni), il duca sia morto. E siccome gli eredi non sono intenzionati a ripagare nessun debito, Simeone si ritrova straniero in terra straniera, senza fondi per tornare nel monastero base. In un qualche modo riesce a contattare i due vecchi compagni di viaggio, Riccardo ed Eberwino, che gli trovano un ingaggio come guida turistica: accompagnerà Poppone, vescovo di Treviri, nel suo pellegrinaggio in Terrasanta. Presso Poppone, Simeone si trova bene che una volta raggiunta la meta tanto agognata, invece di rientrare nel suo monastero sul monte Sinai, decide di ritornare a Treviri col vescovo, che forse gli ha già promesso un eremo d'eccezione. Si tratta appunto della Porta Nigra, che agli abitanti del tempo doveva sembrare una montagna di pietra – nei primi tempi Simeone fu visto da alcuni come un misterioso stregone appollaiato tra le rovine. Poi col tempo la sua fama di santo si diffuse, e alla sua morte la Porta divenne l'ossatura di una delle chiese più grandi della città, con annesso convento. Lo era ancora al tempo di Napoleone, che fece demolire la chiesa per valorizzare l'originale romano.

Per quanto abbia svolto un ruolo cruciale nella preservazione dell'identità di Treviri, Simeone non ne è ovviamente il cittadino più famoso. Lo si è visto nel 2018, quando il comune, vincendo una certa titubanza, ha accettato il dono della Repubblica Popolare Cinese: una nuova statua di Karl Marx, che era nato a Treviri duecento anni prima. 
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Il santo che perse la testa (e la raccolse)

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23 maggio: Santo Desiderio di Langres (terzo secolo), che perse la testa e la raccolse.

Desiderio è uno dei santi cefalofori, ovvero "portatori di testa": quei martiri che, una volta decapitati, raccolgono il capo con le mani e lo conservano per qualche tempo, di solito per portarlo nel luogo della sepoltura. Di santi così ce n'è parecchi: quando un secolo fa il folklorista Émile Nourry provò a contarli, ne trovò 134 soltanto nella letteratura agiografica di ambito francese. E per quanto non manchino esempi italiani (Emidio d'Ascoli, Donnino di Fidenza, Giusto di Novalesa), il cefaloforo più famoso è senz'altro Dionigi, vescovo di Parigi, decapitato a Montmartre, che con la testa in mano arrivò fino all'isola di Saint Denis. In questo e in altri casi, la leggenda può servire a conciliare due storie ambientate in luoghi diversi; a spiegare come mai certe ossa si trovavano in un certo luogo piuttosto che in un altro; e a ribadire che dovevano restare per sempre lì.

Il caso di Desiderio sembra ricalcato su quello del vescovo parigino: nato a Bavari, che oggi è un municipio di Genova ma ai tempi era tutta campagna, Desiderio avrebbe fatto carriera a Langres, citta della Gallia lugdunense (la Francia orientale), diventandone il vescovo. Come tale gli spettava l'incombenza di cercare di trattare con il re vandalo che stava invadendo la Gallia, ma la trattativa non avrebbe avuto il successo sperato, e Desiderio sarebbe stato decapitato fuori dalle mura di Langres. Lui però intendeva essere sepolto dentro le mura, e quindi la leggenda ci racconta che raccolse la testa e rientrò, attraverso una fessura nella roccia che si aprì in quel momento (e che a Langres sarebbe tuttora esposta ai fedeli, anche se su internet non trovo niente).

La leggenda è poco attendibile, per una serie di motivi: ad esempio nel III secolo i Vandali erano già bellicosi sì, ma a centinaia di miglia più a est, sul Danubio; il loro supposto re, Croco, era in realtà re di altre tribù che effettivamente invasero la Gallia ma un po' più tardi; e infine è molto improbabile che un vescovo possa raccogliere la propria testa dopo la decapitazione. Siccome poi questo dettaglio è assente da una prima leggenda composta da un certo Varnacario nel VII secolo, il sospetto è che in questo come in altri casi la cefaloforia abbia un'origine per così dire didascalica, ovvero che si tratti di una storia nata per commentare un'immagine in cui il vescovo era ritratto con la testa in grembo: il che fino a un certo punto non significava che l'avesse raccolta davvero, ma che la mostrava ai fedeli e a Dio come segno del suo martirio, allo stesso modo in cui in certe raffigurazioni medievali e moderne i martiri esibiscono le loro mutilazioni, Lucia gli occhi, Agata i seni, Bartolomeo la pellaccia, eccetera: da questo punto di vista è coerente che un decapitato mostri la propria testa, anche se i più famosi (San Paolo, San Giovanni decollato) non lo fanno.

Queste raffigurazioni hanno un certo successo, più di pubblico che di critica, nel senso che nessun maestro del colore ha mai dipinto un cefaloforo interessante: è piuttosto quel tipo di immagine bizzarra che andava forte tra le guglie delle cattedrali gotiche, dove la gente cercava i mostri. A un certo punto qualche predicatore o guida turistica medievale deve aver cominciato a intrattenere i turisti/fedeli dando un significato storico a quella che in origine era un'immagine simbolica: non è un santo che mostra il suo martirio a Dio, ovvero sì, ma è anche un santo che davvero resse la sua testa in mano dopo che gliel'avevano tagliata.

Altre ipotesi sulla cefaloforia cercano di ricollegarla a miti precristiani, il che sarà pur vero per almeno qualche caso su centinaia; magari in Irlanda, dove le tribù celtiche avevano la sinistra fama di cacciatori di teste. Ma di teste tagliate che piangono e sussurrano ce n'è in tutte le mitologie, al punto che già Aristotele, nel suo trattato di zoologia (De partibus animalium) si sentiva in dovere di debunkare l'idea che una testa umana potesse continuare a parlare dopo essere stata mozzata – come pure si leggeva nell'Iliade, e nel mito di Orfeo. Probabilmente all'origine c'è un'immagine traumatica, uno shock ancestrale: una testa appena tagliata è soggetta a spasmi muscolari che danno l'impressione che sia ancora cosciente: le palpebre non si chiudono subito, e l'aria che entra dal foro della laringe può far vibrare le corde vocali e dare l'impressione che la testa voglia ancora dire qualcosa. E non è escluso che per qualche istante la testa voglia davvero dire qualcosa. Per tre, quattro secondi massimo. Poi basta.
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La Madonna che veniva dal letame

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8 maggio: Madonna di Pompei, immagine miracolosa

Le Madonne in giro per il mondo potrebbero dividersi in due fondamentali insiemi: le apparizioni e le raffigurazioni. Può essere difficile distinguerle perché il culto tende a eliminare la differenza: dove appare una Madonna, presto o tardi viene prodotta un'immagine, la quale in certi casi si lega all'apparizione al punto che i fedeli danno la sensazione di attribuire i miracoli più all'immagine che all'apparizione. Però in certi casi l'apparizione proprio non c'è, o viene inventata a posteriori (probabilmente è il caso della Vergine della Guadalupe): quello che all'inizio stimola il culto è una raffigurazione alla quale vengono attribuite proprietà miracolose. Una caratteristica peculiare di quasi tutte queste raffigurazioni è che sono in un qualche modo rovinate: a volte si tratta di relitti rinvenuti dal mare (come la Madonna Candelaria delle Canarie, o la Vergine dell'isola di Barbana). Si tratta di manufatti che sorprendono chi li trova, scolpiti o dipinti in stili sconosciuti che alludono a luoghi lontani e inimmaginabili – una madonna nera in Polonia, una bianca in Giappone. Il loro stesso rinvenimento ha qualcosa di miracoloso, un segno di Maria dallo spazio profondo. Questo spiega anche perché nell'età moderne questa tipologia di Madonne sia diventata più rara (senza sparire del tutto): man mano che il mondo si faceva più piccolo e interconnesso, scoprire madonne diverse e sconosciute diventava più difficile, tant'è che a partire dall'Ottocento Maria comincia a sentire l'esigenza di apparire direttamente ai fedeli. E però ogni tanto qualche Raffigurazione miracolosa continua a spuntare qua e là, sempre grazie ad avvenimenti fortuiti che scatenano un corto circuito: ad esempio a Sant'Anastasia (NA) un'immagine non molto riuscita della vergine si impone al culto dopo essere stata ammaccata da un giocatore di pallamaglio: un caso che sembra suggerirci che l'imperizia di un artista non basti. Perché un'immagine s'imponga alla venerazione deve intervenire qualche forma di danneggiamento più o meno volontario. Ed eccoci al caso della Madonna di Pompei. 

Una delle più famose madonne dell'Italia (e quindi della cristianità), ma anche di quelle più documentate: proprio alle pendici del Vesuvio, che è il vulcano più studiato del mondo, troviamo questa raffigurazione miracolosa di cui sappiamo apparentemente tutto: quando arrivò in loco (13 novembre 1875) e chi ne fondò il culto: il possidente Bartolo Longo, benefattore dai trascorsi bizzarri. Da giovane, ci raccontano gli agiografi, avrebbe aderito a una vera e propria setta satanica (o almeno satanica gli era parsa dopo essersene allontanato), diventandone un sacerdote e rimediandone una depressione causata forse anche dalla dieta che gli adepti si autoimponevano – sì, di tutti i satanisti al mondo Longo era riuscito a trovare quelli che digiunavano invece di gozzovigliare: che senso ha, vi chiederete, e forse se l'era chiesto pure lui, prima di incontrare i domenicani che lo avevano rapidamente convertito. 

Dove scopriamo che il satanismo
faceva almeno dimagrire.
Anche le religioni si possono dividere in due fondamentali insiemi: quelle che ti apprezzano così come sei, e quelle che ti propongono un percorso di conversione. Ma cosa vuol dire convertirsi, chiede il fariseo Nicodemo a Gesù: devo forse rientrare nel grembo di mia madre e rinascere? (Giovanni 3,4). Gesù risponde tirando in ballo lo Spirito, per cui non è che sia molto chiaro, ma la parola "conversione" forse dice tutto: non si tratta di svegliarsi diversi, ma di cambiare direzione al getto di vita che portiamo con noi. Longo era stato un satanista spiritato (o uno spiritista assatanato), e nel Rosario forse trova la stessa fissità, la stessa ossessività: un mantra di 150 formule da ripetere sempre uguali. Mentre le reciti, la mente lascia il corpo e riflette sul suo destino. Cosa farà Longo ora che ha scoperto la Via, la Verità, la Vita, e inoltre ha ereditato una cospicua rendita? Si darà alla beneficienza: il napoletano è una terra feconda non solo di nobili esempi, ma anche di territori che di quegli esempi hanno ancora un disperato bisogno. Di lì a poco lo Spirito lo mette in contatto con una contessa appena rimasta vedova, Marianna Farnararo De Fusco, che condivide con lui la missione al punto che Longo la sposa: in questo modo evita di dare scandalo, ma si ritrova anche ad amministrare un latifondo ai bordi degli scavi pompeiani, di cui forse intuisce le potenzialità turistiche. Decide pertanto di costruirvi un santuario alla Madonna del Rosario, e l'intuizione è più che azzeccata:  il santuario diventa in breve una meta di pellegrini da tutt'Italia che possono avvalersi delle infrastrutture che stanno nascendo intorno al sito archeologico – o forse è il sito archeologico che aumenta il numero di visitatori grazie alle infrastrutture cresciute intorno al santuario? Insomma, nel 1901 a Pompei arriva una fermata della Circumvesuviana; non sono ancora così tanti i santuari religiosi raggiungibili in treno. Tutto qui, e forse è un po' poco, perché la Madonna di Pompei nasce proprio nel periodo più innovativo del marianesimo, il mezzo secolo tra Lourdes e Fatima in cui la Vergine si dà un sacco da fare, con apparizioni sparse per i pascoli di tutta l'Europa cattolica. Ma a Pompei no: rispetto alle altre Madonne coeve, quella pompeiana è molto più fedele al pattern delle raffigurazioni miracolose. Longo non assiste ad apparizioni mariane, bensì si imbatte in un quadro che si rivela ben presto in grado di effettuare prodigi. Ma perché ciò avvenga, occorre che sia stato rovinato e poi restaurato: almeno questa è la storia che gli agiografi raccontano. 

A Longo nel 1875 non mancava certo la liquidità, e a Napoli avrebbe sicuramente potuto trovare pittori in grado di produrre madonne di ottima fattura; persino a Pompei, dove la fame di souvenir dei turisti cominciava a richiamare artisti da tutto il regno, specializzati nel riprodurre gli affreschi antichi. Invece il domenicano padre Radente spinge Longo a bussare al Conservatorio del Rosario di Portamedina, dove suor Maria Concetta De Litala custodisce un vecchio dipinto che si rivela una crosta impresentabile: tarme, strappi, e inoltre la santa a cui la Madonna porge il rosario non è la domenicana Caterina da Siena, ma Rosa da Lima. Longo vorrebbe lasciarla lì, ma suor Maria Concetta insiste e così finisce per caricarla sul carretto. Questo carretto, gli agiografi ci tengono a ricordarlo, di solito trasportava letame: probabilmente trasportava qualsiasi cosa ci fosse da trasportare, ma in un qualche modo è importante ai fini della leggenda ricordare che la Madonna è arrivata a Pompei su un carretto del letame, quella cosa da cui nascono i fiori, comprese le rose (mentre dai diamanti non nasce niente). Una volta giunta a destinazione, Longo la fa restaurare da più specialisti: se ne avesse fatta fare una nuova gli sarebbe sicuramente costata meno, ma a questo punto abbiamo capito che è fondamentale che la Madonna venga da lontano, e abbia trascorsi misteriosi. Rosa da Lima diventa Caterina, e in breve la corona della Madonna comincia ad adornarsi di gioielli veri, donati dai pellegrini per grazia ricevuta. Nel secondo dopoguerra sono stati rimossi, perché contribuivano a deteriorare un dipinto che ormai è un palinsesto. Ma insomma: dal letame le rose, dalle rose i diamanti.

Intorno al volto incoronato della vergine compare un'aureola di dodici stelle, ripresa dal celebre passo dell'Apocalisse ("una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle"). Probabilmente l'autore dell'Apocalisse intendeva alludere alla Chiesa dei dodici apostoli o a Israele e alle sue dodici tribù; nel 1955 però una corona di dodici stelle viene proposta tra i bozzetti per il simbolo del Consiglio d'Europa: l'autore, Arsène Heitz, si dichiarerà in seguito fedele alla Madonna, ma probabilmente il richiamo alle dodici stelle era stato fortuito, se non pescato dall'inconscio. I membri del Consiglio d'Europa che approvarono il bozzetto ne ignoravano il riferimento mariano: e però per una coincidenza che delizia i commentatori cattolici, il bozzetto fu approvato proprio l'otto dicembre, festa dell'Immacolata Concezione. Invece domani è il 9 maggio, festa dell'Unione Europea, che dal Consiglio d'Europa riprese la bandiera.

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Il primo maggio è di Giuseppe

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1° maggio: San Giuseppe Artigiano

Il primo maggio lo hanno inventato i lavoratori, non è chiaro quando ma più probabilmente nell'Ottocento e negli USA, durante le battaglie sindacali per le otto ore. Anche i lavoratori italiani cominciarono a festeggiarlo a fine secolo. La repubblica lo riconobbe come festa nazionale nel 1949, e a quel punto la Chiesa si pose il problema: cosa festeggiare? 

https://www.farebene.info/pio-xii-papa-acli/


Che non era affatto un problema futile od originale, anzi. Reinventare le feste è quello che la Chiesa ha fatto sin dall'inizio, prendendo una celebrazione ebraica (la Pasqua) e cambiandone il senso. Più tardi è successo con la festa del Sole Vincitore sulle tenebre, tre giorni dopo il solstizio d'inverno, divenuta il Natale di Gesù. Nel giro di qualche secolo quasi tutte le feste precristiane sono state trasformate in un qualche modo: si è salvato solo il Carnevale. Gli studiosi la chiamano inculturazione, ed è interessante notare che comporta sempre un compromesso con il rito pre-esistente: se nel tal giorno gli allevatori erano soliti sacrificare a un qualche dio gli agnelli che non aveva senso lasciar crescere, non valeva la pena di interrompere bruscamente l'abitudine: meglio insistere sul concetto che Gesù Cristo era l'agnello di Dio. Se i fedeli erano soliti inchinarsi al sole sorgente prima di entrare in Chiesa, inutile mettersi a litigare contro l'usanza pagana: meglio costruire le chiese orientate a oriente, così l'inchino l'avrebbero fatto davanti a Dio. Una fontana sacra poteva restare sacra: bastava consacrarla a Dio o a un santo che si degnava di apparire al pastore assetato. E così via. (Questo spiega anche l'aggressività della gerarchia cattolica nei confronti di Halloween, che in teoria sarebbe sempre Ognissanti: ma nel successo delle ritualità consumistiche che arrivano dal mondo anglosassone, i preti non possono non riconoscere un tentativo molto efficace di inculturazione. Hanno antenne lunghe per queste cose, che a noi laici sembrano sciocchezze ma che in effetti lasciano segni secolari e millenari).    

Come il Natale, come la Pasqua, anche il Primo Maggio doveva in un qualche modo venire assorbito dal cristianesimo: o meglio, la Chiesa doveva opporre alla liturgia socialista qualcosa di non troppo diverso, ma decisamente cattolico. Così San Giuseppe, che aveva già la sua giornata di rappresentanza il 19 marzo, fu convocato per la prima volta da Pio XII nel 1955, per un turno straordinario, in quanto San Giuseppe Artigiano. E pensare che non sappiamo neanche esattamente che lavoro facesse: il termine greco che compare nei Vangeli, tekton, poteva indicare un umile falegname ma anche un carpentiere o addirittura un impresario edile. La scelta di definirlo "artigiano", in un discorso pronunciato davanti ai rappresentanti delle ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani), indicava una precisa scelta di campo: più che alla classe operaia, Pio XII guardava ai professionisti, al tessuto di quella che oggi chiamiamo Piccola-Media-Impresa: un manto di orgogliosi imprenditori presso sé stessi, la maggior parte dei quali nel 1955 dovevano ancora estinguere il mutuo sulla casa e le rate sulla macchina, dopodiché sarebbero definitivamente divenuti refrattari a qualsiasi scossa rivoluzionaria.

Giuseppe non è l'unico né il primo santo del martirologio a essere ricordato come lavoratore. In Spagna per esempio ha un certo seguito Sant'Isidro, contadino: il quale però è famoso proprio perché, fermandosi ogni tanto a pregare, lavorava un po' meno degli altri (senza che il datore di lavoro riscontrasse un calo di prestazioni). Si trattava comunque di figure di secondo piano: Giuseppe era l'unico personaggio universalmente noto, che potesse meritarsi una giornata di astensione dal lavoro. Ma proprio mentre scrivo questa cosa mi viene in mente San Paolo di Tarso, che oltre a predicare si considerava un gran lavoratore (aveva probabilmente ereditato un'attività di produzione di tende dai genitori, che forse erano fornitori dell'esercito romano). Paolo, quello che ai Tessalonicesi che aspettando il ritorno di Gesù da un momento all'altro avevano smesso ogni attività, scrisse seccamente: Chi non lavora non mangia. Anche lui sarebbe stato un buon patrono dei lavoratori, ma Pio XII scelse Giuseppe. Tra tanti santi, proprio quello noto per non aver mai detto una parola: almeno nei vangeli, dove il datore di lavoro gli impone un matrimonio e poi un trasferimento in Egitto, insomma dispone di lui come un vero padreterno, e del resto lo è.

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Caterina e l'anorexia mirabilis

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29 aprile - Santa Caterina da Siena, dottore della Chiesa, patrona d'Italia (1347-1380).

Tiepolo

[2012] Caterina Benincasa è la patrona d'Italia che gli italiani non conoscono. La schiaccia il confronto con la popolarità trasversale dell'altro patrono, Francesco d'Assisi, al punto che fuori da Siena molti la confondono con Chiara, l'amica e confidente di Francesco e fondatrice delle Clarisse. Caterina invece è tutta un'altra storia, un altro ordine (le domenicane mantellate), un altro secolo (il quattordicesimo), un altro mondo che non conosciamo altrettanto bene, forse non lo conosciamo poco. Per dire, la Rai non ci ha ancora fatto una fiction. Una fiction non si nega a nessuno, Filippo Neri ne ha avute già due. Caterina ancora niente, c'è solo un film del 1957 che nessuno ha più voglia di guardare, tant'è che su Youtube è gratis. Uno pensa: per forza, è una contemplativa, non c'è niente da raccontare. Non è proprio così. Caterina una sua storia ce l'ha. Persino appassionante, ma un po' deprimente, ecco.

Tanto per cominciare, Caterina è figlia della peste nera, l'epidemia più orribile mai abbattutasi sul continente. Questo però spiega solo fino a un certo punto un dettaglio singolare della sua biografia, l'avere avuto cioè 24 tra fratelli e sorelle. Per molte famiglie la prolificità fu un modo di reagire a un morbo che svuotò interi villaggi e quartieri (a Firenze la popolazione si ridusse forse di più della metà, ma il giovane Boccaccio se la cavò e più tardi ci ambientò il Decameron). Ma quando arriva la peste Lapa Benincasa di figli ne aveva già messi al mondo 24: metà erano morti in giovane età, cosa perfettamente in linea con le statistiche (morì subito anche Giovanna, la sorella gemella di Caterina), ma per gli standard dell'epoca la famiglia era comunque numerosa.




Questo non significa che Caterina fosse destinata al chiostro per risparmiare i soldi della dote, come qualche malizioso lettore sta già immaginando. Va bene, lo abbiamo letto tutti Manzoni, ma molto spesso nelle vite delle sante si presenta l'esatto contrario: la famiglia vorrebbe destinare la figlia riottosa al matrimonio, e lei non vuole. Del resto giudicate voi, tra una vita di castità e meditazione e una spesa a rincorrere una decina di pargoli nella contrada dell'Oca, quale fosse la più attraente. Il caso della 16enne Caterina è reso più drammatico dal fatto che il promesso sposo fosse il vedovo della sorella più grande, Bonaventura. Caterina aveva cominciato a vedere Gesù a cinque anni, e aveva fatto voto di castità a sette, ma soprattutto aveva assistito all'agonia della sorella, morta di parto, e non doveva avere molta stima per il cognato. Memore dell'esempio di Bonaventura, che per punirlo delle sue scarse attenzioni si infliggeva lunghi digiuni, Caterina rifiutò di mangiare finché i genitori non cedettero e il matrimonio andò a monte.

Il disturbo alimentare di Caterina, quello che gli studiosi oggi chiamano anorexia mirabilis, nasce in questa situazione: Caterina non possiede nemmeno il suo corpo, ma sa come tenerlo in ostaggio, e detta le condizioni. Si taglia i capelli ed entra nelle domenicane, ma come terziaria, restando dunque nella casa dei genitori. Impara a leggere e a scrivere: le sue opere di misericordia e le sue prime lettere ai potenti del mondo attirano l'attenzione, chi è questa ragazzina che tratta i grandi uomini alla pari? I domenicani, che per farla entrare in un ordine di solito riservato alle pie vedove hanno chiuso un occhio, temono uno scandalo e la invitano al Capitolo Generale di Firenze per interrogarla. Là Caterina fa l'incontro che le cambia la vita: Raimondo da Capua, dottore in teologia, a cui la ragazza prodigio viene affidata una volta certificata la sua ortodossia. In principio diffidente, Raimondo imparerà ad apprezzare le doti di Caterina, soprattutto dopo essersi salvato dalla nuova ondata epidemica del 1374, racconta, grazie alle preghiere di lei. Raimondo sarà per tutta la sua vita il confessore di Caterina, il suo manager, e dopo la morte il suo biografo. Chissà se senza questo sodalizio con la santa avrebbe fatto tanta carriera.

Nel 1376, a 29 anni, Caterina è la protagonista di una missione diplomatica toscana ad Avignone: si tratta di convincere il Papa (a cui aveva già scritto tante lettere) a tornare a Roma, dopo 70 anni di cattività, e già che c’è a bandire una crociata. La crociata è un chiodo fisso di Caterina: l’unico mezzo per fare la pace nella cristianità, esportando la guerra al di là del mare. La missione è in parte politica, in parte propaganda: papa Gregorio XI sta già pianificando il suo arrivo in Italia, ma vorrebbe prima stroncare la Repubblica di Firenze, che guida la rivolta delle città pontificie anche dopo che il Papa ha scomunicato i suoi governanti e (cosa ben più grave) dichiarato decaduti i crediti dei suoi banchieri. Caterina e Raimondo vengono a offrire la pace, ma Gregorio non si fida del tutto e i fatti gli daranno ragione. D’altro canto, Caterina è già famosa in mezza Europa come mistica e taumaturga: può un Papa dirle di no? Ad Avignone Gregorio XI la riceve con mille onori, e intanto la fa pedinare: ma le sue spie non trovano nessuna ragione di scandalo.


Benvenuto di Giovanni: Il ritorno a Roma di Gregorio XI (scortato da Caterina, che in realtà prese una strada diversa).

Io sono un maschio del XXI secolo, non posso fare moltissimo per modificare questa mia impostazione, e così non posso impedirmi di pensare che con Caterina Gregorio parlasse di mistica e di crociate immaginarie, e con Raimondo di cose pratiche, del tipo: cosa offre Firenze? Cosa vuole in cambio? Forse è questo il problema con Caterina, che rende la sua storia più difficile da raccontare di quella di Francesco e di altri. È una donna di 29 anni, che tratta con gli uomini, nel XIV secolo. Posso anche accettare che sapesse scrivere meglio di tutti, (c’è chi continua a pensare di no, che dettasse soltanto), ma che facesse politica… non ce la faccio, chiedo perdono, non mi sembra plausibile: trovo più verosimile persino Giovanna d'Arco che vince le battaglie in testa a una cavalleria di uomini. Quando nel 1940 Pio XII la proclama patrona d’Italia, è facile che avesse in mente proprio una specie di Giovanna d’Arco italiana, meno inquietante perché non prende mai in mano la spada, al massimo digiuna: però la situazione è simile, una ragazza che salva la patria dalle manacce degli uomini (ovviamente per Pio XII salvare la patria consisteva nel riportare il Papa a Roma). Un motivo simile avrà portato Giovanni Paolo II a promuoverla patrona d’Europa, ma l’Europa di patroni ne ha tanti (Benedetto, Cirillo, Metodio, la Madonna del Rosario, e altri che non so) e probabilmente quando si incontrano litigano, stavolta ci incontriamo nel cielo sopra Bruxelles o nel cielo sopra Strasburgo? Cirillo probabilmente esige la traduzione simultanea di tutti i discorsi in paleoslavo, un casino. Tanto alla fine della fiera comandano i tedeschi, per lo più luterani: con loro, come dire, non ci sono santi. Ma stavamo parlando della missione mistico-diplomatica di Caterina.

Ha successo. Il più grande successo della sua vita. Quando finalmente scriveranno la fiction su Caterina, questo sarà il momento in cui suoneranno le campane, partirà la canzone, qualche bambino piangerà, e anche qualche omaccione, sì, a fare Raimondo chiameranno qualche attore molto bello e in questa scena gli spruzzeranno le lacrime finte. Sulla strada del ritorno Caterina guarisce i malati, stronca la peste di Varazze, ormai è una santa in terra. Nel mondo dei maschi, intanto, le cose vanno come sempre a rotoli. I fiorentini decidono che dopotutto la guerra continua. Da Roma, la Roma cadente in cui Gregorio si è appena reinstallato, il papato manda Raimondo in ambasciata, poi Caterina; i fiorentini reagiscono dando fuoco alle proprietà dell’ordine domenicano. Caterina reagisce alla sua maniera: smette di mangiare. Nel frattempo Gregorio muore: questo ritorno a Roma non gli aveva portato molta fortuna dopotutto.
La testa di Caterina è a Siena
(anche un suo dito).
Il corpo è a Roma, meno un piede
che è a Venezia e una costola,
 attualmente in Belgio.

Il conclave è un disastro. Quando capiscono che l’orientamento dei cardinali è quello di nominare un francese – un altro? I romani assalgono il collegio al grido “Romano lo volemo – o almanco italiano”. Terrorizzati, i porporati scelgono un napoletano, Urbano VI, persona competente ma non molto diplomatica, pentendosene quasi subito: qualche mese dopo la maggioranza di loro si ritrova a Fondi, tra le paludi pontine per nominare un ginevrino gradito al re di Francia, Clemente VII. Quando lo scopre, Urbano ovviamente scomunica tutti. È lo scisma d’Occidente, e si consuma davanti agli occhi di Caterina: proprio lei che per anni aveva messo in guardia il vecchio Papa dal pericolo di uno scisma, se si ostinava a restare ad Avignone. Lei prende il partito di Urbano, dichiara i cardinali di Fondi “diavoli incarnati”, e continua a digiunare, una Gandhi antilettera. Quando Raimondo parte per una missione a Parigi, lo saluta consapevole che non si vedranno più. Muore a 33 anni: le stimmate, che aveva ricevuto anni prima, diventano visibili soltanto dopo la sua morte (l’esatto contrario di quel che è successo a Padre Pio). Raimondo diventerà presto Maestro generale dell’Ordine domenicano; lo scisma proseguirà per 40 anni, dividendo l’Europa occidentale tra osservanza romana e avignonese, con papi antipapi e scomuniche incrociate. Su questo in una fiction credo che sorvolerei, ma per fortuna non scrivo le fiction (per fortuna di chi le guarda, intendo: massimo rispetto a chi scrive le fiction).

Caterina è anche una grande scrittrice, passionale e sanguigna, che pochi leggono: il suo genere, la mistica, non è esattamente per tutti. Duecento anni prima di Teresa d’Avila, in Caterina ci sono già le estasi e i viaggi interiori, tanto da far pensare che il barocco sia una questione di genere più che di secolo. Io resto un maschio del XXI secolo (cresciuto tra l’altro nel secolo precedente), e a leggere certe cose mi impressiono: quando scrive a Raimondo che desidera “vederlo affogato e annegato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio”, non so cosa pensare; basta voltar pagina perché il sangue di Cristo diventi sangue vero, quello di un condannato a morte di cui Caterina si prende cura nelle sue ultime ore, dicendogli cose così: Confortati, mio dolce fratello, che presto andremo alle nozze: tu ti bagnerai del sangue dolce del Figliuolo di Dio, e io ti aspetterò nel luogo della giustizia. E va davvero ad aspettarlo là: per immedesimarsi mette il collo sul ceppo; nel frattempo “prega e costringe” Maria a ottenere giustizia per l’uomo. A quel punto sente una punta d’invidia: tra pochi minuti il galeotto salirà in cielo e gusterà il dolce sangue di Cristo, mentre lei resterà in terra a occuparsi di cose terrene, politica e diplomazia con risultati non sempre soddisfacenti. E quando lo decapitano, lei riceve la testa nelle mani, esclamando “Io voglio”. L’odore di sangue la inebria, non ha intenzione di lavarlo via.

Poi egli gionse, come uno agnello mansueto, e, vedendomi, cominciò a rìdare, e volse che io gli facesse el segno della croce; e, ricevuto el segno, dissi: Giuso alle nozze, fratello mio dolce, ché testé sarai alla vita durabile! Posesi giù con grande mansuetudine, e io gli distesi el collo, e chinàmi giù e ramentàli el sangue dell’agnello: la bocca sua non diceva, se non «Gesù» e «Caterina», e così dicendo ricevetti el capo nelle mani mie, fermando l’occhio nella divina bontà, dicendo: Io voglio!

[…] Risposto che fu, l’anima mia si riposò in pace e in quiete, in tanto odore di sangue che io non potei sostenere di levarmi el sangue, che m’era venuto adosso, di lui. Oimè, misera miserabile, non voglio dire più: rimasi nella terra con grandissima invidia.


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Pierre Chanel e la danza del martirio

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28 aprile: San Pierre Chanel (1803-1841), patrono dell'Oceania


C'è una danza che a Tonga si impara a scuola, una coreografia in cui uomini e donne si danno il ritmo picchiando i bastoni che impugnano. Si chiama Soke o Eka e proviene dall'isola di Futuna, da cui molti abitanti arrivarono a Tonga tra Otto e Novecento portando con sé, oltre alla danza ancestrale, il cattolicesimo a cui si erano convertiti nel 1842. Gran parte delle parole che si cantano sono incomprensibili da generazioni; tuttavia a un certo punto si accenna a due "gentiluomini" che sbarcano sull'isola con l'arcobaleno alle spalle. Gli antropologi non hanno ancora capito se si tratta di una danza di guerra (si fa coi bastoni) o di fertilità (i due gentiluomini potrebbero aver portato l'agricoltura a Futuna). I padri maristi, dal canto loro, la tagliano corta: la Soke sarebbe stata inventata dai futunesi per ricordare il martirio di Pierre Chanel, patrono dell'Oceania, nel 1841: sarebbe dunque una danza di memoria e di espiazione, perché Pierre Chanel l'ha ucciso un futunese, Musumusu. Prima di convertirsi. 

Benché sin dai tempi del seminario Pierre Chanel avesse sognato di fare il missionario in isole lontane, inizialmente la parrocchia più esotica che il vescovo di Belley potesse offrirgli era un sobborgo di Ginevra, comunque quasi a quaranta km dalla casa dei genitori. E quando i genitori stessi si presentarono dal vescovo a protestare, Pierre tranquillizzò il vescovo con un'affermazione che può lasciare perplessi: "Quanto più mi avvicinassi ai miei genitori, tanto più mi allontanerei dal buon Dio". I genitori di Pierre erano buoni cristiani, ma per Pierre Dio era da cercarsi il più possibile lontano da casa, e alla fine la spuntò: proprio all'ordine a cui si era aggregato (i padri maristi), fu offerta l'opportunità di evangelizzare le isole più sperdute della Polinesia occidentale, prima che vi arrivassero i protestanti.
 
Pierre faceva parte della prima squadra che partì nel 1837 dalle Havre su un bastimento che per arrivare nel Pacifico doveva doppiare Capo Horn. Dopo uno sfortunato tentativo di insediarsi nell'arcipelago delle Tonga, Pierre sbarca nell'isola di Futuna, dove per un po' la situazione sembra promettente: uno dei due re che si spartiscono l'isola, Niuliki, prende Pierre sotto la sua protezione e sembra incuriosito dall'atteggiamento mite del sacerdote. Probabilmente spera che tenendolo vicino a sé potrà ingraziarsi i francesi e in generale gli europei che ogni tanto fanno scala presso l'isola. Pierre da parte sua adotta un atteggiamento di estrema apertura, risparmiando agli indigeni lezioni di morale e mostrando la condotta cristiana soprattutto con l'esempio. È un approccio moderno che però all'inizio non sembra funzionare: mentre nella vicina isola di Wallis il collega sta già battezzando centinaia di fedeli, a Futuna il cristianesimo stenta ad attecchire. Pierre fa quello che può, cerca di essere gentile con tutti, e imparare qualche parola al giorno. Le annota su un taccuino che diventerà la sua pubblicazione più importante, un tesoro inestimabile per gli oceanisti; ma prima dovrà ovviamente morire. 

Col tempo Niuliki diventa diffidente; forse gli giunge notizia di altre isole dove il cristianesimo ha soppiantato le religioni tribali e messo in crisi i re autoctoni. Nel frattempo un suo figlio che frequenta troppo Pierre ha deciso di battezzarsi. Così nell'aprile del 1841 Niuliki cede all'insistenza del suo vicario Musumusu, che guida un commando alla missione di Pierre. Sorpresi al sorgere del sole, i catecumeni vengono malmenati; Pierre, ferito mortalmente a un braccio e alla testa, continua a ripetere "malie fai" ("bene per me") finché Musumusu, indispettito, non gli fracassa la testa con una zappa. I suoi resti vengono sepolti in una fossa semplice, ma ora che è morto il prete sembra dare più fastidio che da vivo.

L'assassinio è avvenuto davanti a troppi testimoni, prima o poi i francesi ne verranno informati: come la prenderanno? Quando i francesi effettivamente arrivano (ma è già il 1842), scoprono che la maggior parte dei futunesi è già pronta a convertirsi: tra loro Musumusu, che chiede di essere sepolto davanti alla porta della chiesa, affinché i cristiani lo calpestino se vogliono entrare. Per i credenti, è l'ennesima dimostrazione di come la fede fiorisca dal martirio: per gli storici, un tentativo di ingraziarsi la potenza europea già intravista come egemone, acuito dall'eterna rivalità tra i due regni in stato di guerra perenne. In uno dei luoghi al mondo più lontani dalla casa dei genitori, Pierre Chanel è divenuto il primo martire cattolico della Polinesia (per ora anche l'unico) e il patrono di tutto il continente oceanico. Se di solito i martiri ispirano quadri e sculture, Pierre è probabilmente l'unico a poter vantare di aver ispirato una danza tribale. A dirla tutta aveva anche dato il nome a un vino neozelandese, finché i padri maristi che lo producevano non hanno perso una causa con l'omonima griffe francese, che aveva deciso anche lei di produrre bordeaux. 
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Dio è perfetto, quindi c'è

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21 aprile – Sant’Anselmo d’Aosta, dottore della Chiesa (1033-1109).

[2012] C’è un cosmonauta russo, uno dei primi, che è appena tornato dallo spazio. Per prima cosa lo portano da Krusciov, che gli chiede: “Compagno, tu che sei stato lassù, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c’è? Lo hai visto?” 

E il cosmonauta: “Compagno Segretario Krusciov, a te posso dirlo: sì, l’ho visto”. “Compagno, quello che tu dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello in cui crediamo”. “Compagno segretario, lo so, ma insomma, io l’ho visto”. “Va bene, lo hai visto, ma giura che non lo dirai a nessuno”. “Certo compagno, lo giuro”. 

Qualche tempo dopo, profittando del clima di generale distensione tra le due superpotenze, lo stesso cosmonauta viene invitato al Vaticano, dove ha un colloquio privato con il pontefice. Il Papa dunque gli mette subito un braccio dietro la spalla, e in un russo un po’ scolastico gli dice: “Figliolo, tu che sei stato nello spazio, beato te, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c’è? Lo hai visto?”

E il cosmonauta: “Santo Padre, a voi posso dirlo: no, non l’ho visto, Dio non c’è”.
“Figliolo, quello che dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello in cui crediamo...”
“E insomma Padre, cosa volete che vi dica: se non l’ho visto non l’ho visto”.
“Giura almeno che non lo dirai a nessuno”.
“Giuro”.

Non so chi sia l’inventore di questa storiella. Ricordo che la lessi su un libro di barzellette che circolava alle elementari, e non la capii: a volte è meglio così, la memoria si attacca meglio alle cose che non riesce a spiegarsi immediatamente. In seguito mi sono convinto che fosse un apologo famoso e l’ho cercato su internet, senza successo: così lo metto qui, alla voce Anselmo d’Aosta, che non è che c’entri molto, eppure.

La barzelletta mi piace per tanti motivi. È profondamente ambigua: dipinge un certo tipo di atei come una setta di credenti, anche loro con un sistema di dogmi che se ne frega delle eventuali prove empiriche. Però dice anche il contrario: i credenti sono come i materialisti più smaliziati, se ne fottono della verità. Ormai ci hanno montato un carrozzone intorno che deve andare avanti comunque, che Dio esista o no. Mi piace il fatto che il cosmonauta racconti due versioni, senza che ci sia modo di capire quale sia la vera: potrebbe anche avere mentito a Krusciov, e potrebbe avere detto la verità al Papa, per il gusto di deludere entrambi.

Però la barzelletta piace soltanto a me, non la racconta più nessuno da anni; a renderla datata è il riferimento alle prime missioni spaziali sovietiche. A nessuno verrebbe in mente di collegare un giro in orbita in una minuscola capsula alla ricerca di prove sull’esistenza di Dio. Peccheremmo di un'ingenuità non molto diversa da quella di Anselmo bambino, il quale, crescendo ad Aosta, aveva ipotizzato che Dio si trovasse sulla vetta di qualche montagna. Ma poi quelle montagne le aveva pure passate, era stato abate a Le Bec e arcivescovo a Canterbury; e noi abbiamo viaggiato ben più di lui. L’universo che abbiamo in mente, da cinquant’anni a questa parte, è infinitamente più vasto: Dio, se c’è, è un po’ più in là. Oppure, mi raccontavano a catechismo, Dio semplicemente non va cercato nello spazio astrale, Dio è “dentro di noi”, curiosa espressione che mi lasciava interdetto: se Dio fosse dentro di noi dovrebbe essere più piccolo. Ma Dio non può essere più piccolo di noi, vero Anselmo? 

Un altro ricordo che ho delle elementari è un certo tipo di rissa verbale, abbastanza codificata, che si utilizzava molto nei primi anni, prima che prendesse il sopravvento la forma di comunicazione adulta, il turpiloquio. L’impossibilità di ricorrere a un patrimonio condiviso e comprensibile di parolacce stimolava la nostra creatività e ci costringeva a concepire combattimenti virtuali violentissimi, ancorché puramente verbali: per esempio se io dicevo “e io ti picchio con un bastone” tu mi rispondevi “e io allora ti picchio col martello”, il che mi dava l’aggancio per rispondere “e io ti picchio con due martelli”, ma a questo punto il dato numerico creava un’infinita possibilità di rilanci… senonché tu chiudevi la partita con la formula fissa “e io sempre uno più di te”. Molto prima che la maestra di matematica ci iniziasse al concetto di infinito, l’esigenza insopprimibile di insultarci ci aveva già portato a scoprire l’Infinito Più Uno, il sempre-uno-più-di-x. Non lo sapevamo, magari ci stavamo soltanto litigando per l'accesso a un pennarello, ma in quel momento avevamo evocato a giudice della nostra contesa il Dio del Proslogion di Anselmo, “Colui di cui non si può pensare il maggiore”.

Il ragionamento è abbastanza famoso: se penso a Dio come all’essere perfetto, esso non può esistere soltanto nel mio pensiero, perché non sarebbe più perfetto (sarebbe infatti più piccolo di me, contenuto nel mio cervellino). No: se è perfetto deve esistere al di fuori: quindi Dio c’è. Facile.

Un po’ troppo facile, effettivamente, e lo stesso Anselmo come pensatore si era dimostrato capace di ragionamenti ben più sottili. Ma qui si trattava di dover dimostrare l’esistenza di Dio a priori, senza osservazioni empiriche, proprio perché Dio viene prima di ogni altra cosa.

È questo, soprattutto, ad allontanarci da Anselmo. Almeno il cosmonauta della barzelletta aveva dovuto farsi sparare in orbita, guardarsi un po’ in giro, scansare la teiera di Russel. Per fare un razzo in grado di sottrarsi alla gravità ci sono voluti tre-quattro secoli di osservazioni, esperimenti, teorie, da Newton a Von Braun. Per capire come funziona il corpo umano abbiamo dovuto sezionarlo, osservarlo, inventare il microscopio, immaginare il dna a doppia elica, sperimentare muffe e altri farmaci, e tante cose ancora ci sfuggono. Anche solo per scoprire l’America abbiamo dovuto mandare centinaia di marinai, un sacco di navi, un sacco di soldi. E invece per scoprire l’esistenza di Dio bastava concentrarsi e ragionare – magari Anselmo non ha neanche buttato giù uno schema, uno schizzo, nel medioevo non credo che si facessero gli scarabocchi mentre ci si concentrava, con quel che veniva la pergamena all’oncia. Niente cannocchiali, niente microscopi, neanche un po’ di inchiostro, niente. Insomma, savio Anselmo, possibile che tu con il solo ausilio del tuo cervello abbia trovato dentro di te qualcosa che sta fuori? Non ti accorgi della contraddizione che non lo consente? Non hai letto Gaunilone?

Gaunilone era un monaco delle parti di Tours, famoso per aver attaccato Anselmo in un breve opuscolo dal nome bellissimo, Pro Insipiente (“Dalla parte dello scemo”). L’“insipiente”, lo scemo del titolo, è lo Stolto del Salmo 14, che dice in cuore suo: "Non c'è Dio". Anselmo aveva cercato di confutarlo a posteriori e a priori; Gaunilone al contrario non riteneva necessarie confutazioni: in Dio bisogna crederci e basta: che senso avrebbe, un atto di fede, se non facesse che confermare quello che già ci dice la ragione? Di Gaunilone sappiamo veramente poco, ma – potenza dei nomi propri – io me lo sono sempre immaginato come un monaco gaudente, gaio, garrulo, gargantuesco, anche belloccio, perché no, un ganimede, sempre col calice in mano, mentre scuote la testa e dice ad Anselmo: ma che ci credi sul serio, che basta pensare a una cosa perché essa esista? Allora io adesso mi metto a pensare furiosamente a un’isola ricca di ogni ben di Dio, e questa isola – puf – si mette a esistere? Ma Anselmo non si smonta, anzi aveva già previsto questa obiezione. Gaunilone, un conto è un’isola, un conto è Dio. Un’isola può essere un luogo pieno di virtù, con palme, bambù, eccetera... ma non è un luogo perfettissimo. Solo Dio è perfettissimo. E siccome è perfettissimo, esiste: se non esistesse, sarebbe meno che perfettissimo, vedi? Più facile di così.

La querelle tra Gaunilone e Anselmo è andata avanti per alcuni secoli, più o meno fino a Kant (gauniloniano di ferro) e Hegel (anselmista convinto). Alla fine della fiera è la solita eterna lotta tra tolemaici e copernicani: se pensi che dentro di te ci sia un’idea di Dio, un barlume di Dio, alla fine l’universo è ancora una cosa che gira intorno a te (con Dio motore immobile al di fuori). Se tutto quello che è razionale è reale, immagina pure un’isola, da qualche parte ci sarà. Nel frattempo i gauniloni hanno di che brindare: la scienza continua a ingrandire l’universo e a rimpicciolirne i suoi abitanti. Anselmo, per dire, non conosceva i batteri (e anche Hegel ne aveva un’idea assai vaga). Noi sappiamo di essere molto meno che un batterio davanti a un eventuale Dio: chissà che idee si fa il batterio di noi, ma decisamente noi esistiamo al di là delle sue idee batteriche su di noi. Però gli anselmiani non si rassegnano. Se esistono infiniti universi, esisterà anche quello con l’isola esatta precisa immaginata da Gaunilone. E quello in cui ti ho spaccato la testa col bastone.

“E in un altro universo io te l’ho spaccata col martello”.
“E in un altro io te l’ho spaccata con due martelli”.
“E io sempre uno più di te!”
“Ah, qui ti volevo! Pensi di avere esaurito gli universi? E allora senti questa: sempre due più di te!”
“E io sempre tre più di te”.
“E io sempre un miliardo più di te”.
“E io sempre un miliardo di miliardi più di te”.
“E io sempre un infinito più di…. eHI! Lo hai visto? Che cos’è stato?”
“Non so, sembrava un fulmine”.
“All’inizio. Ma poi è diventato piccolo piccolo”.
“Una scintilla”.
“Una lucciola”.
“Le lucciole non esistono”.
“Sì esistono una volta le ho viste”.
“Ma valà giura”.
“Giuro una volta che sono andato a rane nella burana con mio fratello”.
“Non ci credo che hai preso le rane”.
“No ma ho visto le lucciole”.
“Magari in un universo quella lucciola è Dio”
“Magari in questo universo”.
“Giura di non dirlo a nessuno”.
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La madonna spallonata

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 18 aprile: Madonna dell'Arco di Sant'Anastasia (NA).

Com'è che oggi non crediamo più nei miracoli? Di solito si dà la colpa all'illuminismo, ma è stato parecchi secoli fa e in generale non diamo l'impressione di essere così illuminati. Potremmo persino avere perso la nostra fede per il motivo contrario: non perché siamo diventati troppo razionali, ma perché di miracoli in giro ce ne sono troppi, siamo assuefatti, prendi le madonne che piangono sangue. Una madonna che piange sangue una volta sola è un evento eccezionale, che fa sensazione e orrore. Oggi però c'è questa necessità di produrre tutto in serie, ed ecco che abbiamo più madonne che piangono, alcune anche a intervalli regolari, al punto che prima o poi raccogliere un po' di quel materiale ematico e analizzarlo diventa inevitabile – ma molto prima che arrivino i risultati delle analisi, è la nostra capacità di meravigliarci che è se n'è andata per sempre. Una volta non era così, una volta bastava una sola goccia di sangue su un'immagine sacra per causare sbigottimento generale e devozione secolare, Prendi la Madonna dell'Arco. Ma prendila con cautela. Non è veramente il caso di scherzare, con la Madonna dell'Arco di Sant'Anastasia (NA). C'è chi ci ha rimesso i piedi, e peggio.

Non sappiamo esattamente chi l'abbia dipinta, non prima del Quattrocento. Non doveva trattarsi di un grande artista ma forse è proprio l'asimmetria del volto della vergine ad avere ispirato la leggenda. Quanto alla macchia scura sulla guancia sinistra, ecco, lì avrebbe pianto dopo essere stata colpita da una palla, quando ancora non si trovava al centro di un santuario dedicato al proprio culto, ma un'umile immaginetta in un'edicola votiva sotto l'arcata di un antico acquedotto romano. Era il lunedì di pasquetta del 1450. Bisogna considerare che la pallonata non fu accidentale, ma inferta da un giocatore di pallamaglio infuriato per aver perso una partita a causa di un rimbalzo fortuito su un tiglio lì nei pressi. La pallamaglio è l'antenato comune del croquet e del golf, che avrebbe avuto origine a Napoli o perlomeno i napoletani ci credono molto, e si gioca perlopiù con palle di legno che possono probabilmente lasciare un segno su un muro, se vi sono lanciate contro con una certa forza. Possiamo insomma supporre che la macchia sia il risultato dell'ammaccatura del quadro, ma l'idea che la vergine si sia presa una pallonata sulla guancia fa impressione. Durante il processo-lampo si appurò che il colpevole aveva anche bestemmiato la vergine, motivo per cui lo avrebbero impiccato a quello stesso tiglio. Il quale tiglio a sua volta si sarebbe seccato nel giro di un giorno – questo dettaglio oggi viene interpretato da alcuni come una presa di distanza della Madonna da una punizione tanto brutale, ma nel Cinquecento probabilmente serviva a sottolineare l'empietà del condannato.

Ancora più cruento è il secondo miracolo, avvenuto 139 anni dopo, sempre a pasquetta. Nella piazza non si giocava più a pallamaglio, ma evidentemente doveva esserci mercato. Marco Cennamo vuole accendere un cero alla Madonna, che lo ha salvato da una brutta malattia agli occhi. Lo accompagna la moglie, Aurelia Del Prete, che però si è appena comprata un maialino e non lo può mica lasciare in giro, e poi insomma è Sant'Anastasia, mica Lourdes (che ancora non esiste), ci sono le bancarelle, nessuno si formalizza se ti presenti davanti alla Madonna con un porcellino in braccio. Il porcellino però scappa, Aurelia si mette a rincorrerlo per tutta la piazza bestemmiando, probabilmente la gente ride, Aurelia è conosciuta in paese come un tipo nervoso e nell'occasione dà di matto sul serio: quando il marito cerca di calmarla, gli prende il cero e lo calpesta. Ma cosa fai, le dice Marco, ma guarda che ci rimetti i piedi. Aurelia non ci sente, è troppo arrabbiata. Torna a casa, si mette a letto, i piedi le fanno male. Li perderà l'anno dopo, sempre a Pasquetta. Le si staccheranno dal resto del corpo, e sono ancora custoditi nel santuario. Una versione della leggenda però sostiene che prima dell'orribile miracolo Aurelia avesse portato una copia in cera dei suoi piedi alla Madonna, per ringraziarla di averla guarita da una brutta ferita: i piedi custoditi nel santuario potrebbero essere appunto quelli di cera, un bizzarro ex voto (ma neanche così bizzarro, se uno ha presente certi santuari) che avrebbe ispirato la macabra leggenda. Il senso resta chiaro: una pallonata può scappare, un maialino può farti arrabbiare, ma se insisti e bestemmi per il gusto di bestemmiare, la Madonna dell'Arco non ti perdona.

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Il santo col falcastro in testa

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6 aprile: San Pietro da Verona (1205-1252), martire patrono degli inquisitori

Forse perché non potevano vantare un fondatore carismatico come altri Ordini, i domenicani sembrano essere quelli che hanno più puntato sulla riconoscibilità, sia collettiva (il loro saio bianconero è un vero e proprio brand), sia individuale: quando ne incontri uno su una pala d'altare, lo indovini praticamente sempre. Se ha le ali, per esempio, è San Vincenzo Ferrer (5 aprile); se ha il rosario è San Domenico stesso; ma il più riconoscibile di tutti è senz'altro San Pietro da Verona – non capita a tutti i santi, di morire con un falcetto conficcato in testa. I domenicani ne vanno giustamente fieri, al punto da aver conservato la stessa arma del delitto (il cui nome più preciso sembra essere "falcastro").

L'agguato di cui Pietro fu vittima, nel bosco di Seveso, è uno dei fatti di cronaca più noto del XIII secolo, anche perché le circostanze in cui fu commesso permisero all'ordine domenicano il controllo completo sulla narrazione della vicenda. Non solo il compagno di Pietro, Domenico, sopravvisse per qualche ora alle ferite riportate, il che gli consentì di rendere testimonianza dell'accaduto: ma a fare sensazione fu soprattutto il pentimento dei due sicari. Uno dei due, Albertino Porro, si pentì ancora prima dell'agguato e corse a dare l'allarme; mentre Pietro da Balsamo, che materialmente fessurò il cranio di Pietro da Verona con una lama (tecnicamente un falcastro) e ne trafisse il petto con un pugnale, fuggito dal carcere di Milano, si lasciò ritrovare in un convento di Forlì, preferendo probabilmente alla giustizia secolare quella dei domenicani che in cambio di un solenne pentimento lo convertirono (e rinchiusero a vita) (ma una volta morto lo venerarono come beato: si festeggia il 28 aprile).


L'assassino raccontò di non essere che un povero contadino che aveva accettato denaro dai catari lombardi per far fuori il loro nemico numero uno. I domenicani decisero di credergli, e ottennero rapidamente l'incriminazione del capo della comunità milanese: anche lui al processo penale preferì la conversione e il perdono dei domenicani. Contro i catari, Pietro da Verona usava soprattutto le armi della persuasione, come raccomandato dal maestro Domenico di Guzman: e però sia a Firenze che in Lombardia, dopo il passaggio di Pietro tra catari e cattolici erano scoppiate battaglie che si erano concluse, di solito, con la violenta affermazione di questi ultimi. Pietro per altro era probabilmente considerato un traditore dai catari, visto che lui stesso raccontava di essere nato da genitori aderenti a quella fede.


È molto raro che un inquisitore, invece di ammazzare qualcun altro, muoia per difendere il proprio credo: non sorprende perciò che Pietro da Verona sia stato proclamato il patrono della categoria, anche se era appena stato nominato inquisitore dal papa (solo per questo, temo, non aveva ancora fatto in tempo a bruciare nessuno). È probabile che molte notizie intorno a Pietro siano state ricostruite dopo il suo martirio, che in mano ai domenicani divenne una straordinaria arma propagandistica: per esempio 
che a Firenze abbia fondato la prima opera assistenziale, (la Misericordia) e sia stato il padre spirituale dei sette fondatori dell'ordine dei Servi di Maria; che abbia diffuso il rosario in Italia – responsabilità che altri riconducono al maestro Domenico, ma probabilmente il rosario si recitava già. Che "Credo" sia stata sia la sua prima parola da fanciullo, sia la prima preghiera che imparò a memoria a sette anni (magari per infastidire i genitori eretici), sia l'ultima che avrebbe sussurrato agonizzante. Un dettaglio toccante che però i pittori non sapevano come dipingere: finché qualcuno non si inventò la scena di Pietro morente che scrive "Credo" sul suolo con un dito intinto nel sangue. Per quanto nei secoli successivi i pittori si siano adoperati a dipingere domenicani col falcastro in testa, forse il ritratto più toccante lo dipinse il confratello Beato Angelico, senza falcastro ma con la ferita esposta, e il dito a chiudere le labbra, come se dicesse: io per difendere le cose che dicevo mi sono fatto ammazzare; tu pensaci un attimo, prima di dare aria ai denti.
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Un beato, un poliedro

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27 marzo: Beato Francesco Faà di Bruno (1825-1888), poliedro

Torino è una gabbia cartesiana di viali a guardia di una selva di follie. Alcune si vedono da lontano; altre necessitano di un occhio più attento. Ad esempio in San Donato c'è un campanile sgargiante che è il più alto della città, ma da vicino rischi di passare senza notarlo perché è sottilissimo – la base quadrata è di 5,5 metri per 5,5. Che razza di architetto può averlo disegnato? In effetti non si trattava esattamente di un architetto perché a Edoardo Arborio Mella subentrò a un certo punto lo stesso committente, il poliedrico Francesco Faà di Bruno. Quest'ultimo non aveva una particolare esperienza in fatto di chiese o campanili; in compenso fu ufficiale dell'esercito, matematico, cartografo, astronomo, inventore, benefattore e prete. E probabilmente mi sto scordando qualcosa. 

Provo da capo: Francesco da Paola Virginio Secondo Maria Faà di Bruno nasce ad Alessandria nel 1825, dodicesimo figlio di Lodovico Faà, marchese di Bruno, e di Carolina Sappa de' Milanesi, la quale morì quando FdB aveva appena nove anni. Cinque dei suoi fratelli, ben prima di lui, avevano scelto la vita ecclesiastica: una percentuale ragionevole per una delle più blasonate famiglie di proprietari terrieri del Basso Piemonte. Francesco invece è avviato alla carriera militare, come il fratello maggiore Enrico (che, in qualità di capitano di vascello, affonderà nella battaglia di Lissa). Si diploma all'Accademia di Torino nel 1846, appena in tempo per partecipare alla Prima Guerra d'Indipendenza. Durante l'assedio di Peschiera ha l'occasione di disegnare una carta dettagliata della regione del Mincio. Alla battaglia di Novara è ferito a una gamba e decorato, e benché scrivendo a un fratello si schermisca ("Non ho fatto niente di più straordinario del mio dovere") qualche indizio ci lascia supporre che l'esperienza della battaglia lo abbia segnato profondamente. Alla fine della guerra il nuovo re, Vittorio Emanuele II, lascia intendere la volontà di nominarlo precettore dei suoi figli Umberto e Amedeo. Non è chiaro quanto fosse vincolante la proposta, ma FdB la prende così sul serio da trasferirsi a Parigi per diplomarsi almeno in matematica alla Sorbona. Quando si ripresenta a corte, due anni dopo, con una license in Scienze Matematiche, scopre che l'incarico è sfumato: come mai? Secondo Giuseppe Palazzini, autore della voce "Faà di Bruno" della Bibliotheca Sanctorum, a causa del "settarismo di alcuni consiglieri dei re" che non lo consideravano adatto in quanto "cattolico fervente". Nel piccolo regno anche la scelta di un precettore reale poteva essere interpretata come un segnale politico, e in effetti FdB era tornato a Torino in un momento particolarmente delicato: il baricentro del parlamento si stava spostando dall'asse liberal-clericale di D'Azeglio al centrosinistra del connubio Cavour-Rattazzi. FdB non ha ancora debuttato nell'agone politico, ma quando lo farà (1857) si candiderà con i Cattolici Conservatori, gli antagonisti sconfitti dal nuovo astro del Regno: il conte di Cavour. Prima però si congeda dall'esercito. La pagina di Wiki racconta che FdB sarebbe stato sfidato a duello da un ufficiale torinese che lo aveva offeso, sostenendo che non era stato in grado di laurearsi. FdB avrebbe rifiutato di battersi (sempre in quanto "fervente cattolico"), ma avrebbe risposto alla sfida tornando alla Sorbona e completando brillantemente gli studi. Raccontato in questi termini, l'episodio non ha senso: chiunque abbia letto due o tre romanzi ottocenteschi sa che al massimo sarebbe stato l'offeso, ovvero FdB, a domandare soddisfazione; né il Dizionario biografico Treccani né la Bibliotheca Sanctorum riferiscono di questo duello. 


Vabbe' ma era ovvio, dai.

A Parigi FdB compone non una ma due tesi: una sulla teoria algebrica dell'eliminazione, l'altra sulla meccanica celeste. In entrambi i casi il suo relatore è Augustin-Louis Cauchy, pioniere del calcolo differenziale, ma anche grande filantropo: in pratica l'esempio vivente di come la mentalità scientifica si potesse coniugare con la sensibilità sociale (e un orientamento politico clericale-reazionario).  Nell’armonia delle leggi della fisica e della matematica, FdB riconosce"un'ombra delle perfezioni di Dio". "Il vero ricercatore, purché oggettivo, non può non riconoscere dietro i fenomeni fisici e le misteriose regolarità matematiche su cui si regge l’universo, una provvida e onnipotente sapienza”.

Un'altra passione di FdB, la musica, lo porta a confrontarsi con una categoria umana che forse la vita militare e la matematica non gli avevano dato molte possibilità di incontrare: le donne. FdB scrive inni religiosi e ama suonarli all'organo. Le pie donne che frequentano le messe domenicali sono il suo pubblico e le sue interpreti: per loro apre una scuola parrocchiale di canto. Molte sono domestiche di umile estrazione, che il giorno di festa non sanno come occupare il tempo al riparo dalle tentazioni. Per risolvere questo specifico problema FdB istituirà l'Opera della Domenica, scegliendo di dedicarsi a loro, così come Giovanni Bosco aveva scelto gli spazzacamini e Giuseppe Cottolengo gli infermi. Il che ovviamente non significa che abbandoni gli studi scientifici: nel 1855 pubblica un articolo in cui compare una formula che ancora oggi prende il suo strano nome, "Formula di Faà di Bruno". Nel '56 comincia a insegnare matematica all'Università di Torino (proseguirà per più di vent'anni, senza mai diventare ordinario), mentre tiene corsi popolari di astronomia. Quando scoppia la Seconda Guerra d'Indipendenza, le mappe del Mincio che aveva disegnato dieci anni prima si rivelano utilissime agli eserciti sardi e francesi: non è una sorpresa che venga invitato a insegnare topografia, geodesia e trigonometria alla Scuola di applicazione del corpo di stato maggiore. Nel frattempo inventa tra le altre cose una sveglia meccanica, un barometro a mercurio e uno scrittoio per non vedenti, ispiratogli da una sorella ipovedente.

Nel 1859 FdB fonda l'Opera di Santa Zita, un complesso assistenziale dedicato alle donne non sposate. All'inizio è soprattutto un centro per la formazione e lo smistamento delle giovani domestiche, ma offrendo la propria disponibilità a una categoria che al tempo era socialmente invisibile, fatalmente FdB scoperchia un mondo di problemi ai quali s'ingegna a trovare soluzioni: un istituto per le donne "intellettivamente non molto dotate", impiegate in una lavanderia di sua progettazione; un pensionato per donne non sposate o come si soleva dire allora, di “civil condizione”; una classe di magistero per allieve maestre, un liceo, la biblioteca circolante gestita da donne, la tipografia con cui poteva pubblicarsi in casa i canzonieri e i saggi di teologia, e in Via della Consolata un'istituzione top secret: una casa di preservazione per le ragazze madri. Tutto un mondo di donne per cui nel 1864 FdB decise di costruire un tempio a sue spese nel quartiere San Donato: la chiesa di Santa Maria del Suffragio, dove le Suore Minime (ordine fondato ovviamente da FdB) avrebbero pregato per l'anima dei morti nelle battaglie, che nel mondo degli uomini proseguivano copiose. E con la chiesa, FdB disegnò il campanile. Non esattamente una torre campanaria, ma due torri, una sopra l'altra: in mezzo, trentadue colonne di ghisa tinte di azzurro cielo, che amplificano il suono delle campane. Più in alto, un osservatorio astronomico e l'orologio più alto della città. Un'ipotesi è che volesse regalare a tutti gli operai del quartiere uno strumento che avrebbe consentito loro di arrivare puntuali al lavoro e non farsi fregare sulla lunghezza dei turni; e in effetti il campanile segna le ore su tutti i quattro i lati. Nemmeno è escluso che Faà di Bruno, scienziato e filantropo cattolico, subisse un inconfessabile spirito di competizione nei confronti dell'altra folle costruzione che in quegli anni stava sfidando il cielo sotto Torino, e che ne rappresentava l'anima più laica: la Mole. Lo stesso architetto Alessandro Antonelli, interrogato come esperto dalla Commissione Edilizia del comune avrebbe definito il campanile l'opera di un genio – però questa cosa la scrive la Stampa, non esattamente la Legenda Aurea, ecco. C'è da dire che fin qui il campanile ha retto i rovesci temporaleschi molto meglio della Mole, senza mai riportare danni significativi.

In un qualche modo il campanile è anche il ritratto di FdB, un poliedro che è una sintesi assurda di razionalità e spericolata fantasia. Amico di don Bosco, su sua istigazione e con l'approvazione di Pio IX Faà di Bruno sarebbe diventato sacerdote a ben 51 anni – per morire poco prima di compierne 63, il 27 marzo del 1888: è sepolto nella chiesa da lui disegnata, dove pregano le suore dell'ordine da lui fondato e dove lui stesso diceva messa, vicino al liceo dove insegnava la sua matematica. 

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Lo stratagemma della vergine

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13 marzo: Sant'Eufrasia di Nicomedia, vergine astuta



Consegnata dai persecutori pagani a un boia che prima di tagliarne la testa intende stuprarla, Eufrasia promette al suo carnefice di preparare un unguento che lo renderà invulnerabile, come la pozione di Asterix; salvo che può essere preparato soltanto da una vergine. I
l boia decide quindi di risparmiarla almeno finché il miracoloso unguento sarà pronto; credendo tuttavia di essere furbo, prima di spalmarselo chiede alla vergine di testarlo su sé stessa. Eufrasia obbediente si strofina l'unguento sul collo e dice al boia: prova a decapitarmi adesso, vedrai che non ci riesci. Il boia picchia più forte che può, ed Eufrasia perde la testa... ma non la propria verginità, che le era più cara. 

L'episodio è un esempio tipico del cosiddetto "stratagemma della vergine", un tropo narrativo relativamente conosciuto: la prima vergine che riesce a farsi ammazzare con un trucco simile sembra comparire nella Presa di Gerusalemme, una cronaca del VII secolo di cui ci rimangono soltanto frammenti. In quel caso i pagani erano i persiani zoroastriani che verso il 616 strapparono Gerusalemme ai bizantini. Lo stratagemma compare in seguito più volte anche in leggende mediorientali (mentre non è del tutto chiaro se abbia origini precristiane, magari nella letteratura alessandrina). La martire della Presa è ancora anonima; successivamente un sinassario bizantino la chiama Anna ma continua ad ambientare la sua avventura a Gerusalemme. Nel XIV secolo Niceforo Callisto Xanthopoulos nella sua Storia Ecclesiastica sposta l'episodio tre secoli indietro e lo colloca a Nicomedia, dove la martire Eufrasia sarebbe stata arrestata e uccisa dai più tipici persecutori romani. Da qui la riprende Francesco Barbaro nel De Re Uxoria, un fortunatissimo trattato sul matrimonio che fu una specie di equivalente rinascimentale di Innamoramento e Amore di Alberoni, qualcosa che andava assolutamente letta o data per letta per stare in società. Tra quelli che lo lessero davvero, l'inquieto poeta Ludovico Ariosto, che riutilizzò lo stratagemma nell'Orlando Furioso.

Le strisce sono prese dal meraviglioso Orlando Furioso di Pino Zac, editoriale Il Corno 1975
(Credo sia fuori commercio). 


A interpretare i ruoli della martire e del carnefice nel suo poema, Ariosto sceglie con cura i due personaggi più consoni: la dama più casta e insidiata (Isabella) e il cavaliere più violento e orgoglioso, Rodomonte re d'Algeri. L'ironia crudele di Ariosto li fa incontrare proprio nel momento in cui entrambi soffrono la fine di un amore: non lo sapranno mai, ma la causa delle pene di entrambi è lo stesso cavaliere, l'impetuoso Mandricardo. Mandricardo ha ucciso in duello Zerbino, il promesso sposo di Isabella; non solo, ma in un altro canto del poema ha sedotto Doralice, già promessa sposa a Rodomonte. Quel che è peggio è che la stessa Doralice ha ammesso pubblicamente davanti a re Agramante di preferire Mandricardo al fidanzato ufficiale. Per Rodomonte è stata un'umiliazione insostenibile, che lo ha costretto a disertare l'accampamento. Ora si aggira per il sud della Francia, incerto se tornarsene ad Algeri o continuare a vagare alla ricerca di una donna fedele, ammesso che ne esista una. Rodomonte è convinto di no; è appena passato in un'osteria dove i suoi lamenti hanno aperto un dibattito. Un oste ne ha approfittato per raccontare una storiaccia di donne infedeli che somiglia tantissimo alla fiaba di Shahzaman e Shahriyār, la cornice narrativa delle Mille e una notte. Rodomonte approva e zittisce un altro avventore che osa obiettare che le donne alla fine non sono più infedeli degli uomini. Ma poi scende la notte e "il suo pensier" non lo lascia dormire: lo trova ovunque Rodomonte cerchi di fuggire, per terra e sul fiume. È un chiodo fisso che non può essere scacciato da un altro chiodo, e questo nuovo chiodo Ariosto glielo ha allestito alla fine del canto XXVIII, sotto forma di Isabella. 

Anche Isabella sta piangendo la fine di un amore, ma nel suo caso la situazione è relativamente più semplice: dopo infinite peripezie in cui è riuscita a salvare la sua verginità nei modi più inverosimili (a un certo punto era ostaggio di una banda di pirati), Isabella si era infine ricongiunta col suo amato Zerbino, soltanto per vederlo soccombere durante un duello proprio contro il turpe Mandricardo. L'uomo che ha ucciso il grande amore di Isabella per futili motivi (impadronirsi delle armi di Orlando) è lo stesso che per capriccio ha portato via a Rodomonte la sua promessa sposa. Isabella e Rodomonte insomma hanno molto in comune, e non lo sanno. Lo sa Ariosto, e non glielo vuole dire. È il lettore che deve essere almeno tentato da un sospetto: e se trovassero la loro consolazione, l'uno nell'altro? Non sarebbe la coppia peggio assortita del poema. Ma non possono, hanno un ruolo da recitare fino alla fine: Isabella dev'essere casta e accorta, Rodomonte violento e sciocco. Quando lui vede lei, tutta la retorica sulle donne infedeli cede di schianto. Non tenta affatto di violentarla, come si dice in giro: ("E si mostrò si costumato allora / che non le fece alcun segno di forza"). Vuole piacerle, ma in questo si mostra assai meno abile del suo rivale Mandricardo, che proprio con qualche discorso accorato aveva vinto il cuore della sua Doralice. Isabella invece davanti a Rodomonte non smette di sentirsi "qual topo in piede al gatto", e decide rapidamente "di darsi con sua man prima la morte". Con parole eloquenti riesce a convincere Rodomonte a lasciarle preparare l'unguento, e il resto lo sapete. Quando Rodomonte vede rotolare la testa di Isabella, capisce di essere stato umiliato anche dall'unica donna casta che è riuscito a trovare, e decide di dedicarle un mausoleo degno di quello di Adriano. 


L'Orlando Furioso è un poema cavalleresco composto nel Cinquecento, molto prima che si sviluppassero gran parte delle convenzioni narrative che diamo per scontate quando apriamo un romanzo contemporaneo. I personaggi sono poco più che marionette, che Ariosto fa giostrare con manovre astute che facilmente confondono il lettore occasionale. Su tutte le scene regna un sovrano senso di ironia, a volte più divertita, a volte più dolente. Mai per un istante il narratore ci autorizza a condividere le tirate misogine di Rodomonte, che vengono sempre segnalate per quello che sono: sfoghi di un uomo frustrato e deluso. E allo stesso tempo in quella frustrazione è molto facile riconoscersi: e se è il caso, condannarsi. È una cosa che i lettori dell'Orlando fanno da secoli: chi oggi accusa l'Ariosto di aver perpetrato una visione del mondo "prettamente maschile", forse dovrebbe aprirlo e provare a leggerlo. Rimarrebbe forse stupitә dalla quantità di maschi delusi, frustrati, imbelli, giocati e rigiocati da dame più astute – ma non sempre più oneste: c'è una discreta quantità di truffatrici, anche tra loro, e perché non dovrebbero essercene? Ariosto non aveva nessun maschilità tossica da esaltare. Leggendolo si capisce che deve essersi innamorato spesso, soffrendone parecchio: fino a perdonarsi e dimenticare. L'Orlando, se proprio parla di qualcosa, parla di questo. Oppure non parla di niente, è solo una corbelleria, come la chiamava uno sponsor di Ariosto. Ma il giorno che smetteremo di leggerlo ci perderemo qualcosa. 
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Il papa più sconfitto (ma infallibile)

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7 febbraio: beato Pio IX (1792-1878), papa sconfitto

Pio IX è stato il primo papa a essere
fotografato (questa è del 1864 e non è
la prima). 
Quant'è difficile scrivere un pezzo su Pio IX senza indulgere in retorica papalina o anticlericale. Ne abbiamo già parlato: i santi più difficili sono quelli dell'Ottocento. I santi del secolo precedente tutto sommato sono ancora variazioni roccocò sui modelli antichi o medievali. Quelli del Novecento sono alieni, ucronie ambulanti, personaggi di fatti di cronaca o agghiaccianti film di guerra, i pezzi quasi si scrivono da soli. Il fatto è che dopo aver forgiato il nostro immaginario per millenni, da cento e qualche anno la Chiesa è diventata qualcosa di esotico, che merita rispetto come tutte le culture in via di estinzione. In mezzo c'è questo secolo complicato in cui è avvenuta la transizione, un secolo in cui la Chiesa ha combattuto una guerra per l'egemonia culturale, ed evidentemente l'ha persa: e nessun uomo rappresenta questa sconfitta meglio di Pio IX. Nessuno ha regnato quanto lui (tradizionalmente lo si considera il pontificato più lungo dopo quello di Pietro, del quale però non abbiamo vere notizie), per 31 anni. Nessuno ha acceso speranze tanto vive nei contemporanei, e provocato tanta delusione. 

Giovanni Maria Battista Pietro Pellegrino Isidoro Mastai-Ferretti nasce a Senigallia nel 1792, nono figlio del conte Girolamo Benedetto Gaspare. Nella giovinezza è soggetto a crisi epilettiche che in famiglia vengono fatte risalire a un trauma cranico riportato a cinque anni a causa di una caduta in un torrente. Oltre a interrompere gli studi regolari presso il collegio degli Scolopi, le crisi non gli consentono di assolvere il servizio di leva presso l'esercito del napoleonico Regno d'Italia; anche dopo la Restaurazione la nuova Guardia Pontificia lo congeda quasi subito, dopodiché Giovan Maria Battista guarisce e non avrà più crisi epilettiche in vita sua. Il miracolo viene collegato al primo incontro che avrebbe avuto con Pio VII, presso il santuario di Loreto: il papa gli avrebbe detto semplicemente "Crediamo che questo crudele male non vi tormenterà mai più". Detto, fatto. Invece di riprovare con la carriera militare, Giovan Maria scopre la vocazione ecclesiastica, che nello Stato Pontificio corrispondeva con quella burocratico-amministrativa. Il primo incarico, presso un'istituzione di orfanotrofi, non sembra molto prestigioso, e dovrebbe corrispondere a un'umile predisposizione all'apostolato e alla beneficienza che lo avrebbe portato a rifuggire cariche più importanti. Potrebbe anche essere andata così, ma parliamo di un uomo che ha avuto trent'anni di tempo per aggiustare la sua biografia/agiografia. A trent'anni partecipa a una missione diplomatica in Cile e in Uruguay, terre al tempo lontanissime: è il primo papa ad aver messo piede in Sudamerica. A trentacinque è già vescovo di Spoleto, dove accade un altro episodio leggendario: durante i moti del 1831 avrebbe salvato la vita a un facinoroso carbonaro dal cognome illustre, Luigi Napoleone Bonaparte. Di vero c'è che durante i moti Giovan Maria riuscì a trattare una resa pacifica degli insorti ed evitare uno spargimento di sangue. Un'altra occasione di dimostrare sangue freddo e senso pratico è il terremoto dell'anno successivo; nel 1840 è già cardinale.

Quando viene eletto papa (1846), Pio IX ha appena 54 anni ed è il candidato della fazione più liberale del conclave. È un liberalismo molto relativo: Mastai-Ferretti esalta i neoguelfi che immaginano una federazione delle monarchie italiane guidate dal Papa, piace al popolo che lo ha visto amministrare Spoleto e Imola e ne apprezza la sensibilità filantropica, ma nemmeno dispiace a Metternich che intuisce in lui un uomo d'ordine: e si sbaglia meno degli altri. Il papa appena incoronato deve promulgare un'amnistia che rimette in circolo diversi carbonari democratici e liberali: è la prassi, ma democratici e liberali la vedono come una scelta di campo. Pio IX arriva al fatidico 1848 acclamato come il Papa Liberale, ma la situazione gli sfugge di mano. Quando Milano e Venezia si liberano degli austriaci, il nuovo re di Sardegna dichiara guerra all'Impero e attacca la Lombardia. Sull'onda dell'entusiasmo anche nello Stato della Chiesa si forma un esercito di volontari antiaustriaci: il papa li lascia partire, poi forse si rende conto che l'Austria potrebbe ancora vincere e prova a richiamarli – col risultato di scontentare tutti. Quando il suo primo ministro, Pellegrino Rossi, viene assassinato dai democratici che osteggiano il progetto federativo, Pio IX teme di essere il secondo della lista e scappa a Gaeta, ospite del re delle Due Sicilie. A Roma si proclama la Repubblica; arrivano Mazzini e Garibaldi; poco dopo però arrivano anche i soldati francesi, questi ultimi inviati proprio da quel Luigi Napoleone che Mastai-Ferretti aveva salvato a Spoleto e che era appena diventato il Presidente della Seconda Repubblica. Agli elettori cattolici, Luigi aveva promesso di rimettere il papa al suo posto. La resistenza è vana; Garibaldi guida i volontari fuggitivi in direzione di Venezia in una trafila estenuante durante la quale perderà, tra gli altri, la compagna Anita: dal 1849 in poi per lui l'ex papa liberale sarà il "metro cubo di letame".

(Bellocchio, 2023)

Reinstallatosi a Roma, non più al Quirinale ma nel Vaticano che dava più sicurezza in caso di tumulti, Pio IX revoca la costituzione, rimette gli ebrei nel ghetto, ripristina la pena di morte, insomma fa tutto quello che i re assoluti facevano dopo che le rivoluzioni ottocentesche esaurivano le fiammate. Quelli che non abdicavano: ma lui, l'aveva spiegato prima di fuggire a Gaeta, non aveva "il diritto di abdicare": doveva essere papa fino in fondo, anche se questo significava ormai abbracciare la Reazione. Quando l'Inquisizione a Bologna sottrae a una famiglia ebraica un bambino di sei anni, Edgardo Mortara, Pio IX non ha nulla da obiettare: una cameriera lo aveva battezzato di nascosto per salvarlo dal limbo, e per la legge chi era battezzato non poteva crescere in una famiglia ebraica. Il caso fa molto clamore anche all'estero, ma Pio IX si dimostrerà, in questo e in altri casi, completamente tetragono alla nuova opinione pubblica. Succede a molti supposti liberali, di rinnegare il proprio progressismo non appena si raggiunge una posizione di potere: e la posizione di Pio IX era ancora quella di un sovrano assoluto. Modernismo, liberalismo, socialismo e in sostanza qualsiasi -ismo di cui si fosse sentito parlare vengono condannati nel Sillabo (1864). Il rinnovamento tecnologico, non ufficialmente osteggiato, va a rilento; strade e ferrovie rischiano di facilitare traffici e contatti con territori e popoli più liberi; il fisco è leggero e alle grandi famiglie nobiliari piace così, anche perché attira grandi turisti e capitali. Il popolo non è così contento ma ribellarsi non conviene. A Roma mastro Titta è ancora attivo: qualcuno nota l'ironia di un regime che ha rinnegato ogni scoperta rivoluzionaria tranne la ghigliottina, ma se vogliamo essere precisi i romani avevano cominciato a usare un supplizio simile prima dei francesi, durante l'ancien régime, dimostrandosi almeno in questo campo all'avanguardia. 

Quando nel 1859, allo scoppio della Seconda Guerra d'Indipendenza, Perugia insorge, un reggimento di soldati pontifici riporta l'ordine in città con un massacro di civili. La situazione è delicata: l'integrità dello Stato della Chiesa dipende sempre da Luigi Bonaparte, ora non più presidente ma imperatore Napoleone III. Quest'ultimo però sta giocando una partita complessa su due tavoli diversi: ha infatti deciso di appoggiare anche l'espansione del Regno di Sardegna nel nord Italia, sorprendendo gli austriaci ma scatenando quelle forze democratiche che a Pio IX l'avevano giurata. Tra questi in particolare Garibaldi, che sbarcato in Sicilia con poco più di mille uomini sta risalendo la penisola col chiaro intento di arrivare a Roma; a fermarlo accorre lo stesso re di Sardegna, ma il prezzo da pagare per salvare il Lazio è la cessione di Umbria, Marche e Romagna. A partire dal 1861 lo Stato della Chiesa è circondato dal nuovo Regno d'Italia; Vittorio Emanuele II promette che non toccherà Roma, ma Garibaldi continua a provarci finché non gli sparano a una gamba. A Caprera battezza un asino Pionono, così può bastonarlo a suo piacimento.

Francesco Podesti, musei vaticani. Gli affreschi della sala dell'Immacolata
sono l'ultimo kolossal pittorico romano, prima del grigio diluvio democratico.

Mentre vede il suo potere temporale assottigliarsi, Pio IX cerca di puntellare il suo potere spirituale, con un'iniziativa arrischiata. Nel 1854, con la costituzione apostolica Ineffabilis Deus, mette una pietra sul millenario dibattito tra maculisti e immaculisti. Questi ultimi sostenevano che Maria di Nazareth era stata concepita senza peccato originale, per poter ospitare in grembo il figlio di Dio; i primi obiettavano che Maria aveva scelto di essere madre di Gesù, esercitando il libero arbitrio. Pio IX, da sempre devoto all'Immacolata Concezione, decide di proclamare la tesi degli immaculisti come dogma di fede. C'è però un problema non piccolo: fino a quel momento i dogmi non erano stati proclamati dai pontefici, ma dai Concili. Pio IX convocherà effettivamente un concilio, non per confermare il dogma dell'Immacolata Concezione, bensì per sancire il principio dell'infallibilità del pontefice ex cathedra, cioè in materia di fede. È il Concilio Vaticano I, che si apre nel 1869: a questo punto Mastai-Ferretti è papa da un quarto di secolo, eppure non tutti i vescovi accorsi dall'Europa sono pronti ad accettare un concetto (l'infallibilità) che teoricamente potrebbe porre fine alla storia dei concili. 

Si consuma anche un piccolo scisma con i cosiddetti veterocattolici; il Concilio poi si scioglie precipitosamente (e non ufficialmente) perché nel frattempo Napoleone III ha avuto l'idea di dichiarare guerra ai prussiani e le cose non sono andate come prevedeva. Il Secondo Impero francese crolla di schianto: il papato perde il suo protettore internazionale. A Vittorio Emanuele II che cerca di spiegargli che ormai è questione di giorni, Pio IX scrive "Vi dico che non entrerete a Roma". La resistenza nei fatti è impossibile, ma il papa ordina ai suoi uomini di non arrendersi senza combattere un po', giusto per ribadire di fronte all'opinione pubblica internazionale che non si tratta di un'annessione, ma di un'invasione. Ne risulterà una sessantina di morti, dopodiché il papa rifiuterà l'offerta di rimanere re di una porzione dell'Oltretevere e si dichiarerà prigioniero politico del regno d'Italia. 

Ai sudditi cattolici del regno la sua bolla Non expedit domanderà la non-partecipazione alla vita politica. Una richiesta che introdurrà nella coscienza di tanti italiani una lieve forma di bipolarità: come se essere contemporaneamente buoni cittadini e buoni cristiani non fosse del tutto possibile, e in effetti forse non lo è.   

Pio IX morirà nel 1878, quattro anni prima di Garibaldi. È stato beatificato nel 2000 da Giovanni Paolo II, il papa che per appena cinque anni non è riuscito a battere il suo record di permanenza. La beatificazione riaprì le polemiche, soprattutto con la comunità ebraica e la famiglia Mortara. Oggi come oggi è difficile immaginare che un nuovo miracolo schiuda le porte a un iter di canonizzazione, ma dipenderà anche dal taglio che vorranno dare al loro pontificato i successori di Francesco. Non è difficile immaginare che a un papa sensibilmente più progressista dei due precedenti possa seguirne un altro più conservatore, qualcuno che in Pio IX possa riconoscere un simbolo della lotta alla modernità e dell'infallibilità del magistero. Vedremo. Agli osservatori consiglierei prudenza, Mastai-Ferretti nel 1846 sembrava davvero un papa avanti; ma a volte la Storia soffia troppo forte, e nel panico l'unica soluzione sembra ammainare le vele prima che si strappino. 

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La festa della vergine, o anche no

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2 febbraio:  Presentazione del Signore, già purificazione della Vergine, insomma Candelora


Candelora è una festa intrisa di misteri, o perlomeno così mi suggeriscono di cominciare il pezzo. Nessuno è veramente sicuro di quel che si dovrebbe festeggiare. Il popolo l'ha sempre chiamata così, dal rito della benedizione delle candele che si compie durante le celebrazioni, e che forse, dico forse, ha un'origine pre-cristiana, ma soprattutto pre-elettrica, ai tempi in cui le candele erano un oggetto diffusissimo e a tutti familiare. Nella Germania medievale era l'ultimo giorno in cui si accendevano per i lavori domestici: dal 3 febbraio ci si sarebbe dovuti arrangiare con la luce del sole, ancora bassa all'orizzonte ma ormai decisamente trionfante sulle tenebre. Forse la festa aveva un senso anche economico: così come a Pasqua ci si disfaceva degli agnelli di troppo, a Candelora si finivano i mozziconi di candela che non aveva senso conservare per l'anno seguente.  

A volte si collega candelora ai lupercalia, la festa del dio Luperco/Fauno, protettore delle greggi, che però cadeva a metà febbraio ed è già un rito di fecondità (che ha lasciato tracce in altre due feste: carnevale e San Valentino). Candelora somiglia più a un rito di purificazione. All'inizio di febbraio i Romani festeggiavano in effetti i februalia in onore di Giunone, che nell'occasione si sovrapponeva alla dea Febris o Februa, e assumeva una funzione purificatrice (februare = "purificare"). Questo ci fa sospettare che almeno in Occidente i cristiani abbiano sostituito Giunone con la solita Maria di Nazareth: per molto tempo in effetti Candelora fu ricordata nei calendari come la festa della Purificazione della Vergine. Oggi non più, ed è interessante cercare di capire il perché. 

Una delle cose più curiose del calendario cattolico è che non esiste una festa di Maria in quanto vergine. Maria è festeggiata tutti i mesi, per tantissimi motivi, ma mai per la sua verginità. Al massimo come "Beata Vergine Maria Regina" (22 agosto), ma anche in quel caso l'enfasi è sul concetto di regalità, che condivide col figlio (San Cristo Re). Il primo gennaio la celebriamo come Madre di Dio, a ferragosto come Assunta in cielo, l'8 dicembre come Immacolata Concezione, ovviamente nove mesi prima il suo compleanno (8 settembre). Il 12 settembre festeggiamo il suo Santissimo Nome, mentre il secondo sabato dopo la Pentecoste è dedicato al suo Immacolato Cuore. Senza contare i tanti altri anniversari dei giorni in cui è apparsa in questo o quel santuario, o ha fatto questo o quel miracolo. Ad esempio in ottobre ha vinto contro i Turchi a Lepanto, da cui la Madonna del Rosario. E in dicembre è apparsa agli aztechi, da cui la Madonna della Guadalupe. Insomma le occasioni non mancano, ma una festa della vergine in quanto vergine non c'è. Vuoi vedere che fosse Candelora? E perché non la festeggiamo più? 

In effetti la Purificazione della Vergine è sempre stato un concetto problematico: una contraddizione in termini. Il significato di "vergine" è molto oscillato nei secoli – il che vedremo è parte del problema – ma credo siamo tutti d'accordo sul fatto che contenga in sé un'idea di purezza. Dunque che bisogno avrebbe avuto, una vergine, di essere purificata? Nessun bisogno. Le stesse Scritture non ne parlano – come del resto non parlano di tanti altri dettagli che all'inizio non sembravano importanti e su cui nei secoli si sono combattute battaglie teologiche che oggi osserviamo perplessi. L'unico appiglio era il vangelo di Luca, che nel secondo capitolo sembra voler rassicurare sul fatto che la Sacra Famiglia stesse osservando tutti i precetti della legge ebraica: all'ottavo giorno della nascita Gesù viene circonciso, e "quando venne il tempo della purificazione secondo la Legge di Mosè", portato a Gerusalemme per essere "offerto al Signore". 

Presentazione di Gesù al tempio, Giovanni Bellini

Luca non dice quando sia nato Gesù – tra parentesi, è curioso che un cronista così attento al dettaglio non sia riuscito ad accedere un'informazione del genere: forse era una data che non si accordava con nessuna profezia e quindi ha preferito lasciarla perdere. Però se si decide, come fecero i cristiani a un certo punto, di festeggiarne il compleanno il terzo giorno dopo il solstizio d'inverno, i conti sembrano miracolosamente tornare: non solo la circoncisione viene a cadere proprio alle calende di Gennaio, ma anche la presentazione di Gesù al tempio arriverebbe proprio il due febbraio (sappiamo però che la festa oscillò nel calendario, e che fino al VI secolo si sovrapponeva ai lupercalia più che ai februalia). La legge di Mosè, che Luca cita senza avventurarsi in dettagli, prescrive appunto un appuntamento al tempio dopo quaranta giorni dalla nascita, e trentatré dalla circoncisione. 

Luca utilizza l'episodio per raccontare l'incontro della Famiglia con due profeti, Simeone e Anna, che confermano la natura messianica del neonato. In Oriente sin dall'inizio Candelora veniva chiamata Hypapante, "incontro", ed era associata appunto all'incontro con Simeone e Anna. Sappiamo che era una festa molto importante già nel V secolo, dal resoconto della pellegrina Egeria, che racconta come a Gerusalemme "si accendano tutte le lampade e i ceri, facendo così una luce grandissima". Il racconto di Luca però fa a pugni con quello di Matteo, secondo il quale la Famiglia sarebbe scappata immediatamente in Egitto dopo l'Epifania. Inoltre Luca, per quanto interessato a includere le liturgie ebraiche nella sua narrazione, non è che le conosca benissimo: la Famiglia doveva tornare al tempio non tanto per presentare il figlio, quanto perché la madre doveva sottoporsi a un rito di purificazione: nei quaranta giorni precedenti infatti era considerata impura, e sottoposta a una serie di limitazioni sociali (tra cui l'astensione dai rapporti). Maria non era però una madre come tutte le altre: di purificarsi non avrebbe avuto bisogno. O no? 

Vuoi vedere che in quei primi secoli Maria non fosse considerata una vergine 'vergine', e che 'vergine' fosse solo un modo iperbolico di alludere alla sua giovinezza, alla sua innocenza, così come se dico a una persona che è un angelo non intendo che gli sono spuntate le ali? Non sarebbe la prima volta che un'iperbole, un modo di dire, un errore, vengono male interpretati e diventano articoli di fede: sarebbe però il caso più spettacolare. L'errore qui lo avrebbero fatto i Settanta, leggendari traduttori della Bibbia dall'ebraico al Greco nel III secolo aC. La Lettera di Aristea racconta che fossero chiusi in settanta celle diverse, senza comunicazione; e nonostante ciò avrebbero prodotto settanta traduzioni assolutamente identiche. Se lo chiedete a me, faccio meno fatica a credere ad Adamo ed Eva e all'arca di Noè, comunque i Settanta traducendo una profezia di Isaia, scrivono che "una vergine (parthénos) concepirà e darà alla luce un figlio, e gli porrà il nome di Emanuele". Emanuele significa "Dio con noi": si tratta del Messia. Nell'originale greco però la vergine era "'almah", giovane donna: non necessariamente vergine. Da cui l'equivoco.

Ogni scusa è buona per rimettere questa foto

L'ossessione per la verginità fisica di Maria di Nazareth è in realtà un fenomeno relativamente moderno. Nei primi secoli la teologia era ancora abbastanza fluida, il che avrebbe consentito ai cristiani d'Occidente di immaginare un episodio in cui Maria viene purificata al tempio. Questo offriva un'occasione per riprendere la festa di Febris/Giunone purificatrice, cambiandone il significato, proprio come era successo il 25 dicembre con la festa del Sole Vincitore. È un'ipotesi. Quando poi cominciarono le guerre sulla natura del Cristo (solo umano, solo divino, più umano che divino, ecc.), a vincere fu un compromesso che, come molti compromessi, scontentava un po' tutti e soprattutto sfidava la verosimiglianza: Cristo era sia Dio sia uomo; in quanto uomo però era diverso da tutti gli altri, poiché privo di peccato originale. Nato da una donna, ma senza contributo dell'uomo, e soprattutto (ma questo nessuno osava metterlo nero su bianco) senza amplesso carnale: Maria non aveva avuto un rapporto sessuale con uno di quegli dei mascalzoni dell'Olimpo che si travestivano da uomini; in quel senso era da considerarsi vergine. Questo lasciava lo spazio ad altri interrogativi (ma era rimasta vergine anche dopo la nascita? Ed era nata con o senza il peccato originale?) che in millecinquecento anni poi i teologi si adoperarono a sbrigliare.

Nel frattempo non è che non ci siamo preoccupati di altre cose. In Francia hanno inventato le crêpes, il dolce tradizionale di Candelora. In Belgio i pancakes, un tipico caso di emulazione fallita ma comunque interessante. Da qualche parte in Germania si dava un'occhiata alla tana del riccio: se il sole era uscito da consentire all'erinaceida di proiettare la sua ombra, vi sarebbe stato un secondo inverno. Questa tradizione, trapiantata da immigrati tedeschi nel nuovo continente, avrebbe dato vita al Giorno della Marmotta: una celebrazione che ai miei coetanei è più familiare della Candelora.

La festa della purificazione della Vergine è resistita sul calendario fino al Concilio Vaticano II. La contraddizione in termini era risolta in modo abbastanza ragionevole: no, Maria non avrebbe avuto bisogno di purificarsi, ma c'era andata lo stesso perché la legge diceva così e le leggi vanno rispettate: non succede anche Gesù, pur concepito senza peccato originale, di farsi battezzare da Giovanni? Il catechismo di Pio X proponeva di leggere nell'episodio un "esempio di umiltà e obbedienza alla legge di Dio". La questione, come tutte quelle aventi a che fare col concetto di verginità della Madonna, a metà Novecento è stata insabbiata: nel Martirologio Romano non si legge più "Purificazione della Vergine", ma "Presentazione del Signore": insomma alla fine gli occidentali hanno dato ragione agli orientali, almeno su questo.

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Agnese non si guarda (ma succede)

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21 gennaio: Sant'Agnese, vergine ma patrona dei bordelli (IV secolo).

Dominichino, Martirio di Sant'Agnese
(In effetti è un po' un bordello).

Prete e prostituta, la coppia impossibile: non possono toccarsi, come Gesù e Maddalena, eppure si completano. Entrambi sono sterili (nel medioevo si credeva – si fingeva di credere - che la specializzazione professionale della prostituta la rendesse incapace di generare); uno raccoglie le confessioni, l'altra gli sfoghi. Entrambi custodiscono la Regola su cui è posata da secoli la civiltà cattolica romana, e che si riassume in una sola magica parola (quella che faceva uscire dai gangheri Lutero): Indulgenza. La Prostituta gestisce il peccato, il Prete amministra il perdono. Siccome ci guadagnano entrambi, il minimo è che si coprano a vicenda...

Ci ho messo un po' per trovare la patrona delle sex worker. Non sono cose che si raccontano al primo tizio che si improvvisa agiografo; serve un minimo di apprendistato, saper leggere tra le righe. Agnese di Roma, che andò incontro al suo martirio giovanissima per sua propria volontà, è considerata patrona "delle vergini, delle fidanzate, dei giardinieri, dei tricologi e dell'Ordine della Santissima Trinità", perlomeno dall'Ente Turismo di Reggio Calabria. Secondo Famiglia Cristiana è protettrice "della castità, dei giardinieri, degli ortolani". All'Aquila però hanno l'aria di sapere qualcosa in più, anche se col tempo hanno voluto dimenticarsene. Il 21 gennaio per loro è la festa delle malelingue. Perché le maldicenze avessero bisogno di una festa, sin dal Medioevo, non è tanto chiaro, ma qua e là si ammette che in un primo momento le malelingue fossero sostanzialmente le malmaritate: donne ai margini della società, talvolta linguacciute ma soprattutto scontente di come la società, dopo averle sfruttate, le manteneva ai margini. Il termine indicava tutte le donne che non si potevano considerare né mogli fedeli né vedove né suore, e in molti casi diventava un eufemismo per ex prostitute. Gente che conosceva i segreti di tutti i maschi in città, e – attraverso i maschi – anche di tutte le signore. È plausibile che la collettività si aspettasse da loro un minimo di riserbo, e lo comprasse in cambio di vitto e alloggio, presso l'ospedale e monastero di Sant'Agnese. In occasione però della festa della santa, le malmaritate potevano uscire, magari imbattersi in qualche vecchia conoscenza: e parlarne male. Ma perché di tutte le sante proprio la candida Agnese, martire a tredici anni, molto spesso raffigurata in compagnia di un tenero agnellino? 

I siti locali stanno cominciando a usare le AI,
già trovare qualcosa di sensato su Internet era difficile prima, ma ora

Prudenzio racconta che prima di farla sgozzare in quanto rea confessa di cristianesimo, il crudele giudice aveva stabilito che Agnese fosse esposta nuda fuori da un bordello presso l'Agone (stadio) di Domiziano. Lo stadio oggi è piazza Navona, e dove stava il bordello sorge la chiesa, appunto, di Sant'Agnese in Agone. Scendendo nella cripta potete leggerlo coi vostri occhi: Ingressa agnes hunc turpitudinis locum angelum domini praeparatum invenit. Quando Agnese entrò in questo luogo di turpitudine, trovò l'angelo mandato da Dio. L'angelo non veniva a salvarle la vita, ma la verginità. I frequentatori del postribolo non avevano il coraggio di guardarla: Sant'Ambrogio scrive chiaramente che Agnese era minorenne. L'unico uomo che osa rivolgerle un'occhiata viene abbagliato dall'angelo come un fulmine e cade stecchito. Forse è già morto: senonché Agnese, pregando il Signore, ottiene gli sia restituita la vista e la vita. 

In seguito Agnese viene messa al rogo, anche stavolta nuda; ma le fiamme si aprono e i capelli le crescono per nasconderne la nudità (ecco perché è patrona dei tricologi, e si invoca più in generale quando ci si pettina). Infine viene sgozzata da un legionario, perché in un modo o nell'altro per essere una giovane martire doveva morire, e un supplizio simile a quello riservato agli agnelli pasquali per questa ragazzina sembrava il finale più congruo. Ai genitori appare poi consolatrice in sogno proprio con un agnello in grembo – ma torniamo un attimo al postribolo. Che il primo miracolo di Agnese, la vergine per eccellenza (sin dalla radice greca del nome, Haghne, purezza), sia rivolto a un guardone che non riesce a impedirsi di dare un'occhiatina, è già indizio di quella doppiezza che ha caratterizzato la sua carriera di santa. 

Sant'Agnese in gloria (Nicolò Stefano Traverso, a Nostra Signora del Carmine, Genova)

Agnese, vergine purissima, in un bordello però c'era stata, e tanto bastava per considerarla patrona ufficiosa delle professioniste. Anche la versione tardomedievale della sua leggenda, fissata da un Iacopo di Varazze che quella sera era in vena, prevede che Agnese faccia risorgere un aspirante cliente, ragazzo scapestrato ma di buona famiglia che si era già invaghito di lei. Iacopo, lo si intuisce, ha in mente le brigate dei giovinastri dei suoi tempi; da buon vescovo ci tiene a eliminare ogni ambiguità, per cui Agnese ottiene la resurrezione del ragazzo soltanto perché è costretta dal padre di quest'ultimo, un prefetto; e il figlio del prefetto, una volta risorto, rinnega subito gli dei e dichiara la sua fede in Cristo. A me piace però la versione di Prudenzio, in cui il tizio è semplicemente un tale che non resiste e dà un'occhiata, e la santa una ragazzina che domanda a Dio: vabbe', ma cos'avrà poi fatto di male? Mi ha guardata, voglio dire, può succedere.

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Il vescovo e sua moglie

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18 gennaio: San Volusiano, vescovo ammogliato di Tours (432-507)

Su Volusiano, o meglio su sua moglie, gira da secoli una diceria che con questo piccolo pezzo vorrei contribuire a smontare: non c'è infatti nessun vero motivo per sostenere che la moglie fosse bisbetica e gli rendesse la vita difficile. È il classico luogo comune da barzelletta, che è rimasto appiccicato alla coppia, perché? Non è così difficile capire il perché. Visto che era impossibile negare che Volusiano fosse ammogliato, i cronisti ritenevano giusto lasciar intendere ai lettori che il matrimonio non fosse che una fonte di fastidio; l'idea di un prelato felicemente sposato infastidiva, soprattutto dopo che la Chiesa cominciò a insistere sul celibato ecclesiastico (ma ci sarebbero voluti altri cinque secoli). Ai tempi di Volusiano, la moglie di un vescovo non era una figura così rara. Il secondo concilio di Cartagine tollerava esplicitamente la nomina di vescovi e papi coniugati, purché osservassero la continenza. 

Il mancato celibato era spesso indizio di vocazioni tardive, e in effetti dalla corrispondenza con l'amico Sidonio Apollinare abbiamo la sensazione che Volusiano abbia preso i voti abbastanza tardi, dopo una giovinezza passata sostanzialmente a godersi il patrimonio famigliare. La vocazione pastorale, più che a una crisi esistenziale, potrebbe essere stata causata dal fatto che si stava liberando un posto da vescovo proprio a Tours. Il predecessore di Volusiano era suo zio, Perpetuo; così come il predecessore di Perpetuo era stato suo zio, Eustachio. Insomma la diocesi era un'eredità famigliare, che però piomba sulle spalle di Volusiano proprio nel momento più difficile: l'Impero Romano d'Occidente è caduto, la Gallia centrale è contesa tra Visigoti e Franchi. Siccome i Visigoti di Alarico II sono cristiani di confessione ariana, e i Franchi di Clodoveo si sono appena convertiti al cristianesimo niceno, è anche una guerra di religione, e il seggio di Volusiano (vescovo niceno in una zona controllata dai Visigoti) non è il più comodo. Difatti viene esiliato a Tolosa, e dopo la sconfitta di Vouillé (in cui Alarico sarebbe stato ucciso dallo stesso Clodoveo) deportato nella Spagna visigota. Perlomeno così scrive lo storico concittadino, Gregorio, mentre per il Martirologio romano Volusiano è decapitato dai Visigoti a Pamiers, sul lato ancora francese dei Pirenei: la sua testa sarebbe conservata nella cattedrale di Foix. Non è chiaro cosa sia successo alla moglie. 

Che quest'ultima avesse un carattere bisbetico, i cronisti lo deducono unicamente (e arbitrariamente) da una lettera inviata da un collega, Ruricio di Limoges. Volusiano probabilmente aveva condiviso qualche preoccupazione sulla sua situazione di vescovo del credo sbagliato nella città sbagliata. Ruricio gli risponde che "non deve temere il nemico da fuori chi ne ha già uno in casa". Sembra una neanche troppo velata esortazione a non temere i Franchi: il vero nemico ce l'ha già in casa (e in effetti la testa gliel'hanno tagliata i Visigoti). Nei secoli però ha preso forma questa diceria per cui Ruricio stesse alludendo alla moglie di Volusiano e al brutto carattere di lei. Ora, che il vescovo di Limoges rispondesse alle preoccupazioni del vescovo di Tours su un'invasione scrivendogli: preoccupati piuttosto della nemica che ti trovi in casa, ecco, lo trovo abbastanza improbabile. 

Il celibato per i sacerdoti sarebbe stato imposto dalla Chiesa d'Occidente solo nel XI secolo, in seno alla lunga riforma che per comodità chiamiamo gregoriana. Una riforma che ai tempi incontrò il favore di gran parte dei fedeli, proprio perché andava a colpire gli interessi delle grandi famiglie che continuavano a ereditare vescovadi e parrocchie come fossero feudi. Che il celibato non fosse già allora una scelta di vita facile lo dimostra il fatto che il primo dossier sugli abusi sessuali del clero sia stato compilato proprio nello stesso periodo. Un probabile effetto collaterale fu la selezione dei giovani che non si sentivano particolarmente attirati dal matrimonio e in generale dal sesso femminile: la repulsione nei confronti di quest'ultimo era spesso considerata il segno di una chiamata al sacerdozio.  

Oggi la situazione è molto diversa: la Chiesa cattolica continua a patire una crisi di vocazione che presto o tardi la costringerà a rimuovere il celibato, o più probabilmente a conferire più importanza alla figura dei diaconi, che questo obbligo non l'hanno mai avuto. Insomma non è detto che rivedremo mai la moglie di un vescovo – ma la moglie di un diacono importante, quella sì. E soprattutto non ci sono seri impedimenti storici o scritturali alla nomina di diaconesse. 

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Il santo guappo

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12 gennaio: San Bernardo di Corleone (1605-1667), spadaccino e poi frate cappuccino.

http://www.sanbernardodacorleone.org/tratti-di-storia.html

Uno le prova tutte, per rendere i Promessi Sposi interessanti in classe: io per esempio cercavo sempre di far notare che si tratta pur sempre di una storiaccia di mafia, con le gang armate che minacciano i poveretti mentre lo Stato è distratto o connivente. Quel che ancora non sapevo è che uno dei personaggi più interessanti – l'unico che nasce guappo e muore santo – è ispirato a un santo vero, nato, di tutti i posti del mondo, proprio a Corleone oggi in provincia di Palermo, nel 1605. 

All'inizio si chiamava Filippo Latino ed era il quinto figlio di un calzolaio. Scopre molto presto che le lame sono più interessanti di tacchi e tomaie: però questa abilità, acquisita forse dai soldati della guarnigione nei pressi, non la sfrutta per delinquere, ma la mette a disposizione della cittadinanza svolgendo la sua attività di "sciurtiere" (guardiano pubblico) in modi creativi. Ad esempio si traveste da mietitore per sorprendere e mettere in fuga i soldati della guarnigione spagnola che chiedevano il pizzo ai mietitori veri. A 19 anni ha già salvato una ragazza da un molestatore, qualcuno lo chiama la miglior lama di Sicilia: e questo, proprio come nei film western, richiama le teste calde, tra cui un certo Vito Canino da Palermo (forse assoldato da qualche altro facinoroso a cui lo sciurtiere aveva mozzato un dito). Dunque questo Vito se ne va in giro per Corleone dicendo che è venuto a sfidare Filippo. 

Filippo nell'occasione non sembra mostrare quella "caldizza ch'avia in mettiri manu a la spata quandu era provocatu", che sarà poi messa per iscritto al processo. Esita; forse si rende conto di trovarsi all'imbocco di una strada a senso unico: anche se vincesse il duello, poi ce ne sarebbe un altro, e un altro, e un altro, fino alla sconfitta. La carriera dello spadaccino del popolo non ha altri sbocchi che una morte violenta. Così, una volta sconfitto il palermitano (che resterà disabile), Filippo si rifugia nel convento di Caltanissetta. Come noterà Manzoni, è anche il sistema più pratico di evitare la giustizia secolare, o almeno di rallentarla. Filippo verrà ammesso nell'ordine dei Cappuccini solo sette anni più tardi, col nome di Bernardo. Per il resto della vita si dedicherà alle mansioni più umili della vita conventuale, in cucina e in infermeria, anche perché non imparerà mai a leggere (lo stesso Gesù gli sarebbe apparso per convincerlo a desistere da ogni tentativo in tal senso). Tra i miracoli piccoli e grandi che gli vengono attribuiti, uno è indicativo: la capacità di indovinare nell'espressione di chi gli passa vicino un desiderio di vendetta. Forse era un'abilità che aveva acquisito già da spadaccino, la capacità di riconoscere in quelli che lo sfidavano l'impulso assassino. 

Una cosa che forse attirò Manzoni è che Bernardo, pur rinunciando alla spada, non può rinnegare del tutto il carattere che lo ha portato a impugnarla: diversi episodi della sua vita lasciano capire che sotto al saio continuava a dibattersi un guappo, un tizio irruente che non riesce a tacere e che almeno una volta (dopo una rispostaccia data a un confratello) Bernardo avrebbe punito accostando alle labbra un tizzone ardente. Ai novizi che studiano per diventare sacerdoti promette di intercedere in alto, però in cambio esige un pizzo di almeno 15 messe; 30 nei casi più difficili ("D'accordo, fra Bernardo, purché siamo promossi, poi tutte le messe che vuoi"). Quando il convento è sconvolto da un'epidemia di influenza, e Bernardo sembra rimasto l'unico frate in grado di assistere i confratelli, per evitare il contagio si rivolge a San Francesco in un modo completamente originale: lo sequestra. Si infila la statuetta nel saio e lo minaccia: "Tu resti qui dentro finché non sono guarito". Quando capita un terremoto, invece di mettersi al sicuro si piazza davanti al tabernacolo e fa la voce grossa davanti al Santissimo: "Piano Signore, piano! Usateci misericordia! La voglio, questa grazia, la voglio!" Dio forse si spaventa un po', il terremoto si placa, Bernardo di Corleone è stato fatto santo.

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Impiccato, sventrato e squartato

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11 gennaio: Beato William Carter (1548-1584) tipografo impiccato, sventrato e squartato. 

L'incisione si riferisce a Thomas Anderson,
che subì lo stesso supplizio un secolo dopo.

Non so voi ma ogni volta che io leggo qualche Passione antica e m'imbatto in lunghe sequenze di torture – spesso inferte a un singolo martire – tendo a recepirle con un certo scetticismo, non solo nei confronti di un Dio che dovrebbe rifar crescere gli arti mutilati, ma anche al sadismo dei torturatori: che senso ha tutto questo scuoiare e sbudellare? Dai, è impossibile, secondo me se la raccontavano; tanto nessuno poteva più andare a controllare. Al di sopra delle differenze in materia di fede, torturatori e torturati avevano lo stesso interesse a riportare le testimonianze più sanguinose possibili: ai pagani premeva ribadire che la disobbedienza all'imperatore costava carissimo; per i cristiani, tutta questa violenza andava a maggior gloria di Dio (e del martiri che trionfavano eroicamente sul dolore fisico). Questo materiale andava poi incontro al gusto di chi ascoltava, leggeva e a volte trascriveva: per secoli le Passiones sono state la forma di intrattenimento più vicina ai film dell'orrore – ed è buffo pensare che venissero lette nei monasteri durante la mensa. Però insomma è una violenza soprattutto letteraria: qualcuno sarà pure stato torturato, ma molti meno, e in modi assai meno spettacolari. Così tendo a pensarla io, ma poi mi imbatto in un caso come quello di William Carter, e rabbrividisco.

William Carter è un tipografo inglese di epoca elisabettiana, che essendo rimasto fedele alla Chiesa cattolica nel 1584 decide di stampare clandestinamente il Trattato sullo scisma di Gregory Martin. Quest'ultimo, morto due anni prima in Francia, era stato il primo traduttore cattolico della Bibbia in lingua inglese. In un paragrafo del suo Trattato aveva espresso la fiducia nel fatto che "la speranza cattolica avrebbe trionfato, e la pia Giuditta trucidato Oloferne". Secondo le intenzioni dell'autore probabilmente Giuditta rappresentava la Chiesa cattolica e Oloferne quella anglicana; gli inquisitori inglesi, in una fase di forte tensione tra Inghilterra e Spagna, decidono di leggervi un invito a decapitare nel sonno la regina Elisabetta e quando riescono a identificare lo stampatore, lo condannano per alto tradimento, l'imputazione riservata a chi tenta di uccidere il monarca. 

Ora, sin dal Medioevo la pena prevista per i colpevoli di tentato regicidio era "l'impiccagione, lo sventramento e lo squartamento", castigo che viene impartito pubblicamente a Londra tra il 10 e l'11 gennaio del 1584. Non è una leggenda medievale, la prassi non si discosta da quella documentata in altri casi: lo stampatore fu effettivamente appeso al collo, ma con l'accortezza di evitare la frattura della spina dorsale e la morte per soffocamento: poi spostato su un tavolo e castrato nel modo più doloroso possibile (il pubblico doveva capire in qualsiasi momento che il condannato era ancora vivo e cosciente). Veniva quindi eviscerato ed era costretto a osservare il rogo delle sue interiora. Solo a quel punto poteva essere decapitato: seguiva lo squartamento, che significava davvero divisione del corpo in quattro parti, esposte poi in luoghi diversi della città a monito per i sudditi. Questo è davvero successo, non se l'è inventato un propagandista antipagano o un monaco un po' morboso: l'ultimo condannato a impiccagione, sventramento e squartamento cadde nel 1788, la pena sarebbe stata abolita solo un secolo dopo. Quanto a me, pare che credere nella violenza degli uomini mi costi più fatica che credere alla bontà di un Dio.

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Il vescovo inesistente

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30 dicembre – Sant'Eugenio di Milano (un secolo qualsiasi)


Di Santi Eugenii ce n'è tanti: solo in Irlanda la Bibliotheca Sanctorum ne nomina una decina. Poi ce n'è a Damasco, Gerusalemme e Cartagine, oltre a un paio di papi; e a questo punto poteva Milano non vantarne uno? Per un po' si è dato per scontato che si trattasse un vescovo, ma nella lista ufficiale dei vescovi di Milano il primo a portare questo nome è stato Eugenio Tosi nel... 1922. Potrebbe trattarsi dell'ennesimo santo generato da un refuso, visto che le cronache non solo lo consideravano contemporaneo di Sant'Eustorgio, ma addirittura menzionavano la traslazione dei suoi resti mortali proprio nella chiesa di quest'ultimo. "Eugenio" ha in effetti tutta l'aria di essere la soluzione che un copista potrebbe trovare di fronte a una parola di cui riusciva a leggere soltanto il dittongo iniziale – insomma quanti altri nomi cominciano per Eu

Quando scrive la sua Mediolanensis Historia, verso la fine del secolo XI, Landolfo Seniore risolve il problema definendolo vescovo sì, ma di qualche altra città "al di là dei monti" ("transmontanus"). A Milano ci sarebbe passato al seguito di Carlo Magno, di cui sarebbe stato padre spirituale. Non essendo di origine meneghina, Eugenio risulta più autorevole nel suo sforzo di salvare il rito ambrosiano minacciato dalle riforme semplificatrici di papa Adriano I. Già allora l'idea che i milanesi avessero un loro rito, e un calendario liturgico diverso dal romano (a quel tempo variamente diffuso in tutta la pianura padana) lasciava perplessi. Non fosse per quei quattro giorni di carnevale in più: il rito ambrosiano in effetti conta i quaranta giorni di penitenza dal Giovedì santo, mentre a Roma il conteggio partiva dal Sabato santo, ma ometteva le domeniche.

Landolfo racconta che dopo l'accorata difesa del rito ambrosiano da parte di Eugenio, i vescovi convocati in concilio a Roma stabiliscono di effettuare il seguente esperimento: posizionare sull'altare della basilica vaticana il messale ambrosiano e quello romano, sigillare il tutto e riaprire dopo tre giorni. Il libro che sarebbe rimasto aperto sarebbe stato adottato da tutta la cristianità. Immaginiamo nell'occasione l'ansia della delegazione milanese davanti a quella che i concittadini oggi definirebbero una lose/lose situation: se si fosse trovato aperto il messale romano, addio sabato grasso; ma se si fosse trovato aperto quello ambrosiano, il sabato di carnevale sarebbe diventato obbligatorio anche fuori dalla loro diocesi, togliendo ai milanesi il tipico gusto di bisbocciare mentre gli altri lavorano. 

Dopo tre giorni, il miracolo: entrambi i libri vengono trovati chiusi e poi si aprono assieme di colpo. Dunque i calendari hanno la medesima dignità, e l'esclusività ambrosiana è salva. Quando inventa questa simpatica storia, è probabile che Seniore avesse in mente l'iniziativa riformatrice di un altro papa (Gregorio VII), che aveva messo il rito ambrosiano nel mirino. Cosa non ci si inventa per tre giorni in più di carnevale.

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Il sigillo dei profeti

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18 dicembre: San Malachia (VI secolo), sigillo dei profeti

"Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l'uno contro l'altro profanando l'alleanza dei nostri padri?" Malachia 2,10, sul muro sulla barriera difensiva che separa Israele e Cisgiordania.
CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1027285

Non era forse Esaù fratello di Giacobbe? – oracolo del Signore – Eppure ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù. Ho fatto dei suoi monti un deserto e ho dato la sua eredità agli sciacalli del deserto. Se Edom dicesse: «Siamo stati distrutti, ma ci rialzeremo dalle nostre rovine!», il Signore degli eserciti dichiara: Essi ricostruiranno: ma io demolirò. Saranno chiamati Regione empia e Popolo contro cui il Signore è adirato per sempre. I vostri occhi lo vedranno e voi direte: «Grande è il Signore anche al di là dei confini d'Israele»
(Malachia 1,2-5)

Edom era un antico regno del Negev, a poche centinaia di km da Gaza. Per gli antichi ebrei gli edomiti erano discendenti da Esaù, il fratello che vendette la propria primogenitura a Giacobbe-Israele per un piatto di lenticchie; così come molti proprietari palestinesi in epoca ottomana vendettero terreni poco fruttuosi ai sionisti. Queste e altre coincidenze ci lasciano sempre sbigottiti. Si fa senz'altro un torto a proiettare le storie della Bibbia sulla storia contemporanea dello Stato di Israele; i motivi per cui sta distruggendo la Striscia sono tutti terribilmente razionali, il risultato inevitabile di una serie di errori commessi in settanta più anni. E tuttavia la Bibbia è ambientata proprio lì, e parla di popoli fratelli che si odiano. Il primo ministro democraticamente eletto cita Amalek, il nome di un antico popolo che osò attaccare gli ebrei mentre si insediavano nella Terra Promessa, e al quale giurarono guerra eterna, generazione su generazione, finché non fu effettivamente sterminato ed estinto. La Bibbia sta lì, e se la ride di tutti gli studiosi che ne mettono in discussione la storicità – forse in effetti non parla del passato, ma del futuro. Forse Mosè non ha mai riportato gli ebrei in Cananea, ma Zorobabele e Ben Gurion sì. Forse l'angelo di Dio non ha distrutto Sodoma e Gomorra, ma Gaza e Khan Yunis ormai sono colonne di sale. 

La Bibbia non va sottovalutata. Eppure tutti sanno come comincia (la creazione, Adamo ed Eva), ma nessuno ti saprebbe dire come finisce. In effetti dipende molto dall'ordine dei libri, che varia di traduzione in tradizione; in linea di massima le versioni cristiane dell'Antico Testamento tendono a posporre la sezione riservata ai profeti, l'ultimo dei quali è Malachia, già definito dagli ebrei "sigillo dei profeti". 

Malachia nella Cappella degli Scrovegni

Si tratta di un finale completamente arbitrario (anche nella Tanakh ebraica Malachia è l'ultimo profeta, ma ai profeti seguono altri libri). Malachia non è l'ultimo libro a essere stato composto, né contiene molti elementi che ci consentano di datarlo (persino il nome all'origine non era proprio: "Malachia" significa "il mio messaggero"). In effetti potrebbe adattarsi a qualsiasi momento della storia antica di Israele, tanto è esemplare di tutta la letteratura profetica nella sua alternanza di rimbrotti a un popolo peccatore e promesse di un futuro luminoso. 

Se però accettiamo, come abbiamo fatto per secoli, che Malachia sia l'ultimo profeta, non può che essere posteriore a Zaccaria e Aggeo che nel VI sec. aC si sono spesi per la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme: il che significa che neppure la realizzazione del Tempio ha soddisfatto il Signore, di nuovo stomacato dei sacrifici come ai tempi di Geremia: "spanderò sulla vostra faccia gli escrementi delle vittime immolate nelle vostre solennità", dice. È l'ennesimo capitolo della psicosi di un popolo che qualunque cosa faccia non riesce a soddisfare il suo Dio, a meritare le sue promesse di grandezza. Stavolta i motivi della collera divina sono almeno definiti con chiarezza: i sacerdoti non sacrificano capi di prima scelta, com'è previsto dalle Scritture, ma "animali rubati, zoppi e malati". Non solo: ma gli israeliti non restano fedeli alle "donne della loro giovinezza", le tradiscono e praticano il divorzio. Quest'ultimo consente loro di risposarsi con le "figlie d'un Dio straniero". Questa avversione per i matrimoni misti è una delle ragioni per cui nella tradizione ebraica Malachia è stato associato a Esdra, il sacerdote che nell'omonimo libro aveva lanciato un allarme ancora più esplicito: gli israeliti che tornavano a Gerusalemme dopo la cattività babilonese si stavano mescolando con la popolazione locale, minacciando un progetto che evidentemente si basava sulla segregazione etnica. Malachia però è molto critico nei confronti della casta sacerdotale, di cui Esdra faceva parte; e sembra detestare la pratica del divorzio, laddove Esdra ottiene proprio che gli israeliti divorzino dalle mogli etnicamente scorrette.

L'idea di considerare Malachia come l'ultimo dipende probabilmente dal fatto che nel finale questo profeta gioca una carta molto impegnativa: in attesa di un trionfo del bene che assume sempre più caratteri escatologici, il Signore degli eserciti invierà "il profeta Elia", che secoli prima era stato salito al cielo sul carro del sole. La promessa di un Messia che riscatti il popolo di Israele, ricompensi i giusti e castighi i superbi col fuoco ("sta per venire il giorno rovente come un forno"), non era mai stata messa per iscritto con tanta chiarezza, al punto che quattro secoli più tardi, quando Gesù comincerà il suo ministero, molti vedranno in lui l'Elia promesso da Malachia. Gesù stesso identificherà Elia con Giovanni Battista (quest'ultimo almeno in un'occasione nega di essere Elia). Il testo di Malachia dunque presenta il finale più adatto per un Libro di cui si ha già intenzione di allestire un seguito: il cosiddetto cliffhanger, o finale sospeso. E se per i cristiani il seguito è noto, gli ebrei sono sospesi da allora.

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Le martiri della Drina, o come la Chiesa racconta la violenza sessuale

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15 dicembre: beate martiri della Drina, assassinate il 15/12/1941


Da qui a qualche generazione di distanza, forse la Seconda Guerra Mondiale ci apparirà ancora più incredibile di quanto non sia adesso (è quel che dovremmo augurarci, perlomeno). In un secolo drammatico ma tutto sommato razionalmente descrivibile, ecco un intervallo di assurdo orrore i cui resoconti, anche quando dettagliati con minuzia, tradiscono comunque particolari che appaiono mitici o fiabeschi; proprio quando la storiografia sembrava aver abolito categorie assolute come il Bene o il Male, il nazismo e le persecuzioni a carattere etnico rimettono in discussione l'imparzialità degli studiosi. Una prova indiretta di questo fenomeno è la diffusione, nel secondo dopoguerra, di vere e proprie leggende dei santi come non se ne tramandavano da secoli: agiografie costruite a partire da fatti di cronaca e crimini di guerra che solo nel contesto della Guerra possono apparire plausibili. 

Uno dei casi più esemplari è quello delle cinque martiri della Drina, beatificate da Benedetto XVI. Si tratta di cinque suore cattoliche, di età tra i 29 e i 76 anni, che gestivano un piccolo convento a Pale, nei pressi di Sarajevo. Si chiamavano tutte di primo nome "Marija", e quindi si distinguono dal secondo nome e dal cognome: Jula Ivanišević, Berchmana Leidenix, Krizina Bojanc, Antonija Fabjan, Bernadeta Banja. Ad alcune viene associata la nazionalità austriaca, ad altre slovena, croata o ungherese, ma sono attribuzioni da prendere con le pinze (la nazionalità bosniaca negli anni Quaranta ancora non era definita). Di loro non si sa molto di più di questo; tutte le informazioni che mi è stato possibile trovare in italiano, su internet, provengono da siti cattolici e sono state redatte verosimilmente in occasione della cerimonia di beatificazione, intorno al 2011, nel settantesimo anniversario della strage. Con un po' d'impegno (e di serbo-croato) potremmo trovare anche notizie di fonte diversa, e non ci troveremmo in una situazione così simile a quella dei compilatori medievali. 

Quel che ci viene insomma tramandato è che le suore furono rapite e trucidate da un commando di cetnici, la milizia lealista serba che stava combattendo una guerra ambigua, contro gli occupanti tedeschi (e italiani) ma anche e soprattutto contro i partigiani jugoslavi di Tito. L'episodio è tragicamente verosimile: è la dinamica a ricordare più le miniature medievali che i film di guerra che danno forma al nostro immaginario. Sequestrate a Pale l'11 dicembre, rinchiuse in una caserma a Goražde il 15, quattro delle cinque suore avrebbero resistito a un tentativo di stupro gettandosi dalle finestre. Le leggende, che omettono sempre di indicare gli eventuali testimoni oculari della vicenda, specificano sempre invece con molta chiarezza che nessuna delle quattro morì a causa della caduta: ma furono tutte invece finite "a colpi di baionetta" dai cetnici.  La quinta sorella, la più anziana (76 anni), era sotto la custodia di un altro drappello: fu uccisa anche lei dai cetnici il 23 dicembre. Di fronte a fatti tanto cruenti, anche l'osservatore laico sente l'impulso a fare un passo indietro: è davvero così importante che siano riuscite tutte a lanciarsi dalla finestra, tutte e quattro, in così breve tempo ed esiguo spazio? È davvero importante che nessuna delle quattro sia morta a causa della caduta? Insomma, se i cristiani hanno deciso di raccontarla così, perché sollevare obiezioni? Perché, appunto, questo è il modo in cui si raccontavano le storie di martiri già nel mondo tardoantico. In particolare il salto nel vuoto delle suore richiama quello di Santa Pelagia di Antiochia, minacciata da legionari altrettanto minacciosi, cui Giovanni Crisostomo dedicò un elogio che forse le suore conoscevano. 

Se però il Crisostomo suggeriva che una buona cristiana dovesse preferire la morte alla perdita della verginità, in seguito la questione è diventata più spinosa, almeno in Occidente. A un certo punto l'entusiasmo con cui alcuni santi andavano verso il martirio è sembrato eccessivo; nel frattempo era stato messo nero su bianco che i suicidi non potevano ottenere il perdono di Dio, e quindi era opportuno ritoccare i passi in cui un santo nell'arena correva incontro alle bestie feroci, o forzava la mano armata di un titubante carnefice, o si lanciava, perlappunto, dalla cima di una torre o da una finestra. Il discrimine può essere stato, così come per tante altre cose, il Concilio di Trento; qualche decennio dopo, i samurai cristiani si fanno un punto d'onore di rifiutare la pratica del seppuku; quando Paolo Uchibori viene condotto presso i fanghi vulcanici di Unzen, domanda ai compagni di non gettarsi da soli ma di aspettare che siano i boia pagani a dare una spinta. Cosa cambia? Per i cronisti, poco o nulla. Per un cristiano, tutto. La distanza tra un martirio per la fede e un suicidio, nei fatti, è minima: ma per un cristiano il martirio è la strada maestra per il paradiso, laddove il suicidio schiude le porte dell'inferno. E se è possibile che Gesù Cristo Giudice applichi queste categorie con un minimo di buon senso e misericordia, da un punto di vista educativo non si può assolutamente correre il rischio di confondere le due cose. Quattro secoli dopo, chi tramanda la storia delle beate Marije sente ancora la necessità di stabilire con certezza che sì, si gettarono dalle finestre ma no, non morirono a causa della caduta, bensì delle baionette dei cetnici. 

Non solo gli agiografi devono allontanare ogni sospetto di suicidio, ma anche negare la possibilità che almeno una violenza sessuale su quattro sia stata commessa. Anche questo è un topos delle leggende di santi tardoantiche e medievali: ormai ne ho lette un po' e a memoria non mi sembra di aver mai trovato un caso in cui la violenza viene effettivamente consumata. Nei casi più realistici (come appunto quello di Pelagia) la vittima si salva con un sotterfugio e un gesto estremo; nella leggenda tipica è Dio stesso a intervenire, mediante miracoli più o meno spettacolari. Agnese e Lucia possono anche essere condannate al bordello; ne escono più pure che mai. Chi osa toccarle o anche solo guardarle finisce malissimo. Noi ovviamente siamo liberi di trovare tutto questo molto ingenuo; purché ogni tanto ci poniamo il problema: chi siamo, esattamente, noi?

Siamo esponenti di una civiltà che si vanta di curarsi della Verità più che dell'Ideologia; per cui, se qualche donna effettivamente è stata stuprata da un soldato, durante le persecuzioni di Diocleziano o anche millequattrocento anni dopo in un conflitto mondiale, ci piacerebbe esserne informati. Siccome è successo, riteniamo doveroso segnarcelo da qualche parte; magari dopo aver raccolto un po' di resoconti di questo genere riusciremmo anche a realizzare delle statistiche, scoprire chi violentava di più, eccetera eccetera. E mentre riflettiamo su queste cose, ecco che scoppia di nuovo una guerra, e intorno a noi un sacco di devoti della Verità comincia appunto a contare le violenze e gli stupri inflitti da una parte e dell'altra, senza lesinare i particolari. Alcuni di questi particolari dopo un po' risultano essere stati inventati ma è troppo tardi, c'è chi ormai li ha memorizzati e non smetterà più veramente di crederci. Insomma a guardarlo più da vicino, e in tempi di guerra, questo culto della Verità appare meno granitico di quanto sembrava; se gratti bene sotto le statistiche ci trovi di nuovo l'Ideologia. Niente di nuovo sotto il sole; chi combatte ha sempre messo in guardia i civili dal nemico bieco e stupratore; lo stesso nemico del resto molto spesso si rivela bieco e stupratore, la propaganda è una distorsione inevitabile in tempi di guerra,  e una guerra c'è sempre. 

Accettiamo la cosa; però mettiamo a verbale che gli agiografi non lavoravano così. Partendo da un presupposto che tutto sommato ancora condividiamo – la violenza sessuale è un crimine insopportabile – decidevano di cancellarlo. In una civiltà in cui la vittima di violenza sessuale sarebbe stata considerata meno pura, irrimediabilmente macchiata, se non addirittura connivente con il suo carnefice, gli agiografi preferivano scrivere che la vittima non era stata toccata; nemmeno in un bordello. Facevano un torto alla verosimiglianza e probabilmente alla stessa verità; nonché forse alla fantasia morbosa di qualche studioso; ma forse rispettavano le vittime molto più di quanto le stiamo rispettando noi, coi nostri referti, le nostre statistiche, i nostri video che dimostrano inoppugnabilmente che il nemico stupra più di noi. Forse le Marije non si sono salvate dalla violenza sessuale; magari non tutte e quattro. Ma avrebbero voluto risparmiarsi, e l'agiografo le ha risparmiate. Forse chi è davvero riuscita a saltare dalla finestra è morta sul colpo; ma non avrebbe voluto, e l'agiografo l'ha fatta morire in un altro modo. Cambia qualcosa? Per noi che non crediamo no, non cambia quasi nulla. Ma qualcuno ci crede: e per lui cambia tutto. 

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Il profeta (A)bacucco

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2 dicembre: Santo Abacuc, profeta (VI secolo aC)

C'era un vecchio dizionarietto dei santi della Tea edizioni che come sottotitolo aveva Da Abacuc a Zosimo, tutti i protagonisti della fede, insomma se non avesse altre qualità il profeta potrebbe sempre rivendicare di essere il primo tra i santi almeno in ordine alfabetico (un alfabeto che non lesse mai in vita sua). Purtroppo la Bibliotheca Sanctorum ricorda, prima di lui, una venerabile Aalaide, un Aaron (che poi sarebbe Aronne), un sant'Abachirion e un sant'Abaco. Abacuc è appena il quinto, ma anch'io volendo scrivere un sottotitolo a effetto partirei da Abacuc. È un nome che dà soddisfazione, ha quel suono da xilofono che suggerisce un trapestio di vecchie ossa, o una testa pelata percossa. A quanto pare il lemma "bacucco" nasce proprio da queste suggestioni, e dall'iconografia che a un certo punto stabilì che tra tanti profeti, Abacuc era uno di quelli più anziani e calvi, se non l'anziano e il calvo per eccellenza. Forse fu il successo della statua di Donatello, uno dei primi capolavori del Rinascimento, un'opera così cara al suo autore che secondo Vasari era solito giurare su di essa. I fiorentini che la ammiravano esposta su una delle nicchie del terzo ordine del campanile di Giotto la battezzarono "Zuccone", e benché non siamo completamente sicuri che ritraesse Abacuc (potrebbe anche trattarsi di Geremia) col tempo l'allitterazione Zuc-Cuc è risultata irresistibile. 

Così, per una pura associazione di suoni e significati, il profeta si è ritrovato una fama di vecchio brontolone piuttosto ingiusta, per un autore di poche parole ma molto incisive: il suo libro è brevissimo ma composto con una certa eleganza, e contiene almeno un paio di versetti che non ci hanno più abbandonato. Di fronte alla tragedia imminente (l'invasione neobabilonese), Abacuc accetta la lettura degli altri profeti: si tratta di una punizione collettiva che Dio impartisce al suo popolo disobbediente. Ma cosa sarà degli individui che hanno continuato a rispettare Dio e le sue leggi? Dovranno patire anche loro gli effetti della vendetta di Dio? Abacuc spera di no, e a un certo punto (capitolo 2, versetto 4) suggerisce che "il giusto vivrà per la sua fede". La frase sarà ripresa più volte da San Paolo, che darà un significato ultraterreno al verbo "vivrà", e costituirà l'architrave della teologia protestante: la giustificazione secondo la fede. 

L'altra citazione immancabile è il versetto finale del libro, in cui il Signore, comparso nella sua gloria a salvare i giusti, consente al profeta di salire verso lui con "passi di cerva": ci sono profeti che volano, ma Abacuc preferisce zampettare. Eppure è proprio lui che viene scelto da uno degli autori del libro di Daniele come protagonista di un volo miracoloso: in questo episodio (che riprende quello famoso della fossa dei leoni, ma è sicuramente un'aggiunta posteriore), Abacuc sta preparando una minestra "per i mietitori", il che ci sorprende perché fino a quel momento Abacuc ci era sembrato un intellettuale più che un addetto alla refezione. Può darsi che dopo l'invasione neobabilonese anche i profeti si fossero messi a sgobbare: comunque mentre preparava questa minestra, un angelo lo "afferrò per i capelli" e "con la velocità del vento lo trasferì in Babilonia e lo posò sull'orlo della fossa dei leoni” in cui era stato gettato Daniele. Dunque, di tutti i profeti della Bibbia, Donatello avrebbe ritratto come calvo proprio quello che nella Bibbia viene afferrato da un angelo per i capelli. Ma insomma Daniele può finalmente mangiarsi una minestra, mentre l'angelo riporta immediatamente Abacuc in Palestina. Non è dato sapere cos'abbiano mangiato quel giorno i mietitori. 

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Karol W., santo e subito

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[2013]. Quiz: Ha scritto poesie, commedie e millecinquecento pagine di filosofia, è stato fattorino, attore e minatore; a calcio giocava in porta ed è membro onorario del Barcellona FC. Chi è? Un aiutino: negli ultimi trent’anni di vita ha fatto anche il papa. Ah, vabbe’, ma così è troppo facile.

Si fa la barba verso il 1960.


22 ottobre – San Giovanni Paolo II, superpapa (1920-2005)

A un certo punto della mia, della sua vita, io devo aver pensato che Karol Wojtyla, in arte Giovanni Paolo II, non sarebbe morto mai. Forse per mancanza di fantasia, dopo vent’anni la prospettiva di un altro papa, con un nome diverso, un diverso numero, mi sfumava nell’inverosimile. Un altro dopo di lui, ma chi? E perché? Del resto, bastava notare i progressi della scienza medica per farmi intravedere la singolarità: la vita media si allungava sempre più, sempre più organi e tessuti diventavano rigenerabili, certo sarebbe servito denaro ma per uno come GPII il denaro non era un problema. Per un papa come lui il problema era piuttosto dire di no all’accanimento terapeutico: avrebbe potuto mai permettersi di dire una cosa semplice e terribile come “lasciatemi morire?” Non poteva, era GPII, le sue più profonde convinzioni lo condannavano a vivere per sempre. Sublime ironia: mentre la gente lo acclamava santo in vita, lui si sarebbe autoinflitto un esilio in terra; si sarebbe lasciato alimentare coi sondini finché tutto l’apparato nervoso non sarebbe diventato replicabile in laboratorio (ovviamente senza fare male a nessun embrione). Se poi col tempo fosse scivolato in una condizione di coma vigile, nessuno avrebbe potuto arrogarsi di scegliere per lui a ogni bivio tra la morte e una nuova terapia per conquistare qualche mese di vita: e così sarebbe sopravvissuto per millenni, ieratico e immortale vicario di Cristo, pronto a riaprire gli occhi e staccare le flebo nell’alba del giorno del giudizio. Alla Chiesa cattolica, raccolta in preghiera intorno al suo capezzale in terapia intensiva permanente, non sarebbe rimasto che nominare un vicario del vicario. A un certo punto io pensavo che sarebbe realmente finita così. Lo scrissi anche da qualche parte, per fortuna non mi lesse nessuno.

Chiunque altro renderebbe la foto ridicola.


Dato che ovviamente mi sbagliavo. Un giorno qualsiasi, GPII sussurrò davvero l’inimmaginabile frase “lasciatemi tornare alla casa del Padre”, e ci lasciò. La sua missione, abbracciata 35 anni prima – accompagnare la Chiesa nel terzo millennio – era abbondantemente compiuta. Ora magari verrà qualcuno esperto a spiegare, con dovizia di argomenti, perché quella sommessamente domandata da GPII e più recentemente dal cardinale Martini non sia da considerarsi un’eutanasia, mentre quella di Piergiorgio Welby sì. Mi si perdoni se qui la taglio un po’ più corta: un sovrano non è soggetto alle stesse leggi dei sudditi, e GPII è stato la cosa più vicina a un sovrano che abbiamo avuto in Italia dal Quarantasei in poi – ma forse anche da prima. La sensazione che sopra ogni confusione e disastro, ci fosse comunque Lui, il sole indifferente che anche quando è nuvolo c’è: basta aspettare e prima o poi farà capolino da qualche parte nel cielo, ci farà sapere cosa pensa, pubblicherà un’enciclica, beatificherà un reggimento, stringerà le mani a qualche leader politico discutibile, dirà due paroline dal balcone contro la guerra o la fame… Anche chi malsopportava la Chiesa, Wojtyla non riusciva a odiarlo. Senza mai diventare quel tipo di papa piacione collaudato da Giovanni XXIII, ritentato da Giovanni Paolo Primo e ora rispolverato da Papa Francesco, GPII da un certo punto in poi divenne semplicemente troppo grande perché ci si potessero appendere le nostre polemiche quotidiane. Quel punto fu probabilmente il 13 maggio 1981, l’attentato a Roma, festa della Madonna di Fatima.

Fino a quel momento Wojtyla era stato un papa simpatico, coi suoi errori di pronuncia, persino un po’ mondano, coi suoi voli transatlantici e la sua fissa per il nuoto in piscina. Un intellettuale, comunque, uno che ha studiato sul serio, e che si era ritrovato nel partito di Dio in uno dei pochi Paesi al mondo in cui era un partito d’opposizione, osteggiato dal regime. La più famosa vignetta di Andrea Pazienza fotografa quel momento particolare: un giovane papa a bordo piscina sorseggia un drink e si domanda: e se esistesse veramente? Ih! Mavvedi cosa vado a pensare. Qualche anno dopo una vignetta così sarebbe stata inimmaginabile. Il Wojtyla che avrebbe stretto la mano a Pinochet sarebbe stato vittima di scherzi anche più feroci, ma nessuno l’avrebbe più immaginato nell’atto di dubitare. 
Gli hanno appena sparato. Questa e le altre straordinarie foto provengono da https://www.ilpost.it/2011/05/02/foto-wojtyla/

Ali Ağca cambiò le cose per sempre, anche se non nel mondo che aveva voluto lui (ma non sapremo mai cosa voleva davvero Ali Ağca). Se il Novecento è la nuova Bibbia, e gli attentati suggellano la grandezza dei nuovi Martiri (i Kennedy, Gandhi, Martin Luther King), scampare a un attentato è la cosa più simile alla resurrezione che la postmodernità possa offrirci; e nel 1981 nel giro di tre mesi risorsero due dei protagonisti assoluti del decennio a venire: Ronald Reagan e Karol Wojtyla. Entrambi mediocri attori in gioventù e politici di razza; entrambi intimamente persuasi dell’esistenza del Male e della propria militanza nelle file del Bene; entrambi ormai convinti di essere stati scelti e salvati per qualcosa di grande, fosse anche la fine del mondo. È abbastanza buffo dire, come dicono molti, che Reagan e/o Wojtyla sconfissero il comunismo. Ma non c’è dubbio che si sentissero chiamati a farlo, e che nel 1981 non potevano immaginare quanto sarebbe stato relativamente semplice, quasi indolore. Nei suoi discorsi elettorali Reagan parlava di apocalisse nucleare e Impero del Male. Nell’anno dell’attentato, un papa Wojtyla ancora umano lasciava che da un’intervista con una rivista tedesca trapelassero dettagli inquietanti su quel famoso terzo segreto di Fatima:

Se c’è un messaggio in cui si dice che gli oceani annegheranno intere sezioni della terra, e che da un momento all’altro milioni di persone periranno… non c’è veramente nessun motivo di voler pubblicare questo messaggio. Molti vogliono conoscerlo per pura curiosità, o per il gusto del sensazionalismo, ma dimenticano che “sapere” implica anche per loro una responsabilità. È pericoloso soddisfare una curiosità se sei convinto che non possiamo fare nulla per una catastrofe che è stata predetta.



Il quinto da destra nella terza fila dietro l’obelisco è distratto, sta pensando al totocalcio.


In seguito GPII non si sarebbe più lasciato scappare rivelazioni del genere. Per molti anni i fotografi non avrebbero inquadrato che sorrisi, sempre più raggrinziti e ieratici, finché il parkinson glieli avrebbe consentiti; nel mentre che metteva a punto quella strategia comunicativa che sta tutta in una parola: speranza. Non Abbiate Paura. Varcate la Soglia della Speranza. Nel frattempo anche la retorica di Reagan si raddolciva, malgrado i vertici USA-URSS non stessero andando poi così bene. La storia gli avrebbe dato ragione. 

Rimane il dubbio: dietro tanti inviti alla speranza, perfettamente calibrati per una società globale che voleva lasciarsi dietro gli incubi della guerra fredda, GPII ci credeva alla fine del mondo, o no? Pensava davvero di essere il papa martirizzato su una montagna di martiri, descritto dalla veggente suor Lucia dos Santos? Preso atto che ogni cristiano dovrebbe vivere nell’attesa della fine dei tempi, quanto tempo pensava di avere davvero a disposizione il Papa-Venuto-da-Lontano? Perché tanti sue scelte – dalle conseguenze incalcolabili – tradiscono una fretta che l’attesa apocalittica spiegherebbe. Oltre ad aver pubblicato 14 encicliche e un nuovo Catechismo, Wojtyla ha nominato più santi di tutti i papi prima di lui messi assieme (482); ha fatto più chilometri di tutti i papi precedenti messi in fila: centoquattro viaggi apostolici, 146 visite pastorali, più di un milione di km di aereo (si può andare sulla luna tre volte). Un’urgenza insopprimibile di portare il vangelo dappertutto, a costo di farsi fotografare sul balcone di qualche dittatore. La necessità di aprire ai giovani senza guardar troppo per il sottile: se a loro piace l’ammucchiata con le tende diamogli l’ammucchiata, (le GMG sono un’invenzione sua, di fronte alla quale le varie Woodstock impallidiscono, se non per rilevanza culturale, almeno per dimensioni). Nessuna vera preoccupazione per la sovrappopolazione e le emergenze ambientali: tanto la fine è vicina. E la convinzione di doverci arrivare vivo, anche quando il fisico cominciava a tradirlo.



Dicono che ci ha una mossa segreta che dopo 30 giorni muori.


Wojtyla non aveva ancora vent’anni quando i tedeschi avevano invaso la Polonia. Col padre era fuggito da Cracovia verso est – soltanto per scoprire che da est arrivavano i sovietici. Tornato dalla parte tedesca, aveva trovato lavoro in una miniera: fu l’impiego che lo salvò dalla deportazione. Un giorno, aveva 24 anni, mentre tornava dalla miniera un camion tedesco lo investì. Trauma cranico acuto. Un minatore polacco, nelle province esterne del Reich, nel 1944, quante possibilità aveva di salvarsi?

Wojtyla la scampò. Maturò forse in quel momento l’idea di essere al mondo per qualcosa di grande. Una convinzione profonda, pre-logica, immune a tutta la filosofia e la cultura che stava immagazzinando. Quando sopravvivi al nazismo, e appena ti fai prete arrivano i sovietici, e invece di finire male diventi cardinale, e vai a un conclave e non ti fanno papa, ma il papa muore subito e tu diventi Giovanni Paolo II: qualche dubbio di essere l’uomo del destino ti viene. Se poi ti sparano al cuore, e sopravvivi, ed è proprio il giorno in cui si festeggia quella Madonna che aveva previsto tutto, beh, forse davvero la fine dei tempi è vicina. Forse negli ultimi anni Wojtyla stava aspettando qualcosa di più della sua semplice fine individuale. La sua contrarietà a un pensionamento che il braccio destro Ratzinger trovava già logico potrebbe avere avuto questo senso.

Finché un mattino non deve essersi arreso. Era primavera inoltrata, ormai, la ventisettesima che passava a Roma, e il mondo che pulsava alle finestre tutto dava l’impressione fuorché di voler finire. Vabbe’ mi sarò sbagliato, mò lasciatemi andare. Rip.
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Le cavallette! (Non è stata colpa mia?)

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19 ottobre: Gioele, profeta (IX secolo o IV secolo aC)

Sesso con gli ortotteri!
Israele, la Palestina, come volete chiamarla, è una terra difficile. Che un Dio possa averla promessa a un popolo in cambio della sua fedeltà, è cosa che desta più di un sospetto. Ti promette fiumi di latte e miele, ti ritrovi con pietraie e laghi salati. Dev'esserci un errore, e non puoi che averlo commesso tu; forse non hai amato Dio abbastanza, dovresti impegnarti di più. Far fiorire il deserto – certo serve molta acqua, occorrerà occupare determinate oasi, scacciare determinati beduini, ma è Dio che ce lo chiede, implicitamente. Tra un pascolo e l'altro capita di imbattersi in rovine ciclopiche, i resti di antiche città che sembrano devastate da diluvi o da tempeste di fuoco – la ceramica si è fusa con le pietre – quel giorno Dio doveva essere molto arrabbiato e siccome ce n'è Uno solo, è lo stesso Dio che ti ha voluto esattamente qui. Meteore, inondazioni, guerre, e poi che altro? Beh, le locuste. Quegli insetti devastanti che Dio inflisse al Faraone per convincerlo a liberare il tuo popolo, ecco, a un certo punto lo stesso Dio le ha inviate a te. È quel che racconta il profeta Gioele nel suo breve libro, di datazione molto incerta: potrebbe essere stato scritto nell'800 come nel 300, un range di cinquecento anni nei quali la situazione più di tanto non cambia: accadono disgrazie, gli uomini domandano a Dio perché, Dio risponde che è colpa loro, ma che se si comporteranno meglio Lui li perdonerà. Questo però mediamente non accade e in breve arriva qualche nuova disgrazia. 

L'avanzo lasciato dal bruco l'ha mangiato il grillo;
l'avanzo lasciato dal grillo l'ha mangiato la cavalletta;
l'avanzo lasciato dalla cavalletta, l'ha mangiato la locusta.

In seguito i lettori poco famigliari con gli insetti migratori si sono ingegnati a considerare le locuste come una metafora, o anche solo l'allegoria di un esercito invasore; e però non è affatto improbabile che il profeta stesse documentando un fatto storico reale, una migrazione di cavallette della specie Schistocerca gregaria, dette volgarmente locuste del deserto, che da millenni infestano Nordafrica e Medio Oriente, creando gravi e periodici problemi a chi coltiva quelle terre così benedette da Dio. Addirittura Gioele potrebbe aver cercato di descrivere i quattro stadi della locusta: il "bruco" sarebbe la larva, il "grillo" la neanide, la "cavalletta" la ninfa e la "locusta" l'insetto adulto, in quella fase gregaria in cui abbiamo scoperto che la compagnia dei suoi simili gli dà una botta pazzesca di serotonina. Proprio così, aggregarsi per le locuste a un certo punto diventa una cosa piacevolissima, meglio del sesso. Non poteva inventarsi qualcosa del genere il Dio che ci ha creati? eh, ma ci ha creati a Sua immagine e così quando cominciamo a essere troppi in una terra che non ha abbastanza acqua, invece di provare piacere, ci ammazziamo. Forse è quello che Dio pretende da noi. Forse invece Dio si arrabbia in questi casi. Non è affatto chiaro. Molta gente al nostro posto impazzirebbe, noi no, non possiamo. Dio ci ha scelti per tutto questo, ci sta mettendo alla prova.

L'invasione delle locuste nel primo capitolo del libro di Gioele è davvero ben descritta, con toni più disperati che apocalittici; non è la solita minaccia di un profeta a un popolo che ha abbandonato il Signore. Tutto è già successo; il Signore è evocato soltanto in un secondo momento, quando Gioele sente la necessità di fornire ai suoi lettori una speranza. Se ci riaccostiamo a Lui, ci darà tutto (quello che ci ha tolto). Farà trionfare Israele su tutti i suoi nemici. Addirittura stenderà il suo Spirito su tutti noi, diventeremo tutti profeti (a causa di questa promessa inusuale, Gioele è considerato il profeta della Pentecoste). Può darsi che il libro di Gioele, per quanto piccolo, sia una collazione di testi diversi; una più antica lamentazione su un fatto storico (un'invasione di locuste) viene in seguito rimaneggiata da un profeta con una teleologia fin troppo chiara: ogni disgrazia è una prova che Dio ci manda affinché recuperiamo la fiducia in Lui. Il Quale un giorno verrà e risolverà ogni problema – nel frattempo ci manda le locuste.
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Il profeta che andò a putt

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Duccio di Buoninsegna
17 ottobre – Sant’Osea, profeta becco (VIII secolo avanti Cristo)

[2012]. Essere profeta del Dio di Israele non è proprio il massimo della vita – esistono datori di lavoro più ragionevoli, diciamo. Giona quando prova a mollare si ritrova per tre giorni nelle profondità dell’oceano all’interno del ventre di una balena; Ezechiele a un certo punto deve sdraiarsi su un fianco per un numero di giorni (390+40) corrispondenti agli anni dell’esilio babilonese, e nutrirsi di cibo cotto sopra feci umane. Al che persino Ez, uno che per il suo Dio avrebbe fatto qualsiasi cosa, esprime una perplessità: Signore, la cacca umana è impura, io non ho mai mangiato niente di impuro. Va bene, risponde Dio, puoi usare feci bovine. Allora lo vedi che non è così duro come raccontano, lo vedi che ci sono margini di trattativa? Ma forse il caso più interessante è Osea, profeta minore ingiustamente negletto, col quale il Signore va subito al dunque:

Quando il Signore cominciò a parlare a Osea, gli disse:
«Va’, prenditi in moglie una prostituta
e abbi figli di prostituzione,
poiché il paese non fa che prostituirsi
allontanandosi dal Signore».


Il libro del profeta Osea comincia così – e potrebbe cominciare meglio? Siamo più o meno a metà Bibbia e ormai dovremmo avere imparato che da questa entità ci si può aspettare qualsiasi cosa: magari ti chiede di sgozzare tuo figlio su un altare, magari poi cambia idea all’ultimo momento, è fatto così. Ciononostante, bisogna riconoscerlo, riesce sempre a mantenere l’attenzione del lettore, riesce sempre a stupirlo con qualche espediente nuovo. Ciao Osea! Sono il tuo d-i-o, ora sposa una puttana, perché mi serve una metafora. Ah, e facci almeno tre figli, ma preparati a dar loro dei nomi ridicoli:

La donna concepì di nuovo e partorì una figlia e il Signore disse a Osea:
«Chiamala Non-amata,
perché non amerò più la casa d’Israele,
non ne avrò più compassione […]

Dopo aver divezzato Non-amata, Gomer concepì e partorì un figlio. E il Signore disse a Osea:
«Chiamalo Non-mio-popolo,
perché voi non siete mio popolo
e io non esisto per voi».

Insomma l’Entità è arrabbiata, molto, per via del solito problema, che il popolo di Israele non la ama. L’Entità lo ha chiamato dall’Egitto, ha fatto scaturire miele dalle rocce, quaglie dal cielo, per non parlare della manna e di tutti quei popoli che ha eliminato per far spazio, ma niente da fare: è un popolo poco serio, che tresca con gli altri dei, costruisce altarini e non si perita nemmeno più di nasconderli, ormai sono tresche dichiarate, all’aria aperta (sulle cime dei monti!), e l’Entità non ne può più. L’Entità è orribilmente gelosa, di una gelosia forse senza precedenti in letteratura. Un sentimento che prima della Bibbia non aveva nemmeno un nome, e che a partire dall’Esodo diventa attributo divino, ma che nel rotolo di Osea suona umano, terribilmente umano.



http://www.jaypinkerton.com/hosea.html

Chi lo ha scritto non necessariamente era ispirato da Dio, ma sicuramente era ispirato da una passione frustrata. Passa continuamente dalle maledizioni alle promesse, a volte fa come per accarezzarti, ma capisci che gli prudono le mani. Il Dio di Osea si esprime insomma come quel tipo di ex marito che sta per violare un’ordinanza restrittiva per portare un pacco infiocchettato al compleanno del figlio, ma in tasca comunque tiene il necessario qualora gli venisse l’ispirazione di tagliare la gola alla madre del bimbo. Come tanti libri profetici, non sappiamo se ci sia giunto in uno stato un po’ caotico o se il caos non sia caratteristico del modo di esprimersi dell’Oracolo del Signore. In ogni caso ovunque lo apri puoi imbatterti, alternativamente, in minacce di morte cruentissime e dichiarazioni d’amore appassionate, struggenti: c’è gente che si sposa, con letture del libro di Osea; se solo conoscessero la premessa…


Ad Efraim (una delle dodici tribù, ma anche tutto Israele per sineddoche)
io insegnavo a camminare tenendolo per mano,
ma essi non compresero che avevo cura di loro.
Io li traevo con legami di bontà,
con vincoli d’amore;
ero per loro come chi solleva
un bimbo alla sua guancia;
mi chinavo su di lui per dargli da mangiare.


Hai letto quanto è tenero qui? Attenzione, ora salto un versetto:

La spada farà strage nelle loro città,
sterminerà i loro figli,
demolirà le loro fortezze.

Ne salto un altro:

Come potrei abbandonarti, Efraim,
come consegnarti ad altri, Israele?
Come potrei trattarti al pari di Admà,
ridurti allo stato di Zeboìm?
Il mio cuore si commuove dentro di me,
il mio intimo freme di compassione.
Non darò sfogo all’ardore della mia ira,
non tornerò a distruggere Efraim,
perché sono Dio e non uomo;

Perdona, ma a me pare proprio il contrario. Mi sembri veramente, decisamente un uomo, un uomo che a un certo punto della vita forse si è messo con la donna sbagliata, o forse tutte le donne sono sbagliate per certi uomini, in certi momenti della vita, in ogni caso mi sembri un uomo che su questa cosa che tua moglie ha altri interessi ci deve ancora lavorare. E andare in giro dicendo che tua moglie è una puttana, e che l’hai sposata solo perché te l’ha ordinato il tuo dio, no, non ha l’aria di un progresso nella giusta direzione.

Samaria espierà,
perché si è ribellata al suo Dio.
Periranno di spada,
saranno sfracellati i bambini;
le donne incinte sventrate.
Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,
poiché hai inciampato nella tua iniquità.

Ma perché si copre la tes

D’altro canto chi sono io per giudicare. Se Osea fosse stato semplicemente un marito becco in cerca di sfogo, i suoi rotoli si sarebbero persi da un pezzo. Per sopravvivere all’oblio, per consegnare al lettore del XXI secolo un documento vibrante sulla gelosia umana, Osea doveva fare il profeta, trasformare la sua frustrazione in metafora. Come lo pseudoSalomone a cui piacevano le more, e per mille anni abbiamo fatto finta che la moretta ben tornita del Cantico dei Cantici fosse un’allegoria della Chiesa; magari Osea voleva solo raccontarci come ci si sente quando si è furiosi per un tradimento. Di sicuro la furia sa esprimerla bene.

Samaria espierà,
perché si è ribellata al suo Dio.
Periranno di spada,
saranno sfracellati i bambini;
le donne incinte sventrate.
Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,
poiché hai inciampato nella tua iniquità.

Magari è come certi che questa furia insanabile provano a trasferirla nella politica, o nella religione, nella prima rivendicazione identitaria che trovano sul loro cammino. In ogni caso è un uomo, di quasi tremila anni fa, ma già un uomo con sentimenti che riesco quasi a riconoscere, e a me gli umani interessano (Dio molto meno, cioè su Dio non saprei veramente che dire. Ma se è davvero lo stalker adombrato nel libro di Osea, siamo fottuti).

Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nella benevolenza e nell’amore,
ti fidanzerò con me nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore.
E avverrà in quel giorno
– oracolo del Signore –
io risponderò al cielo
ed esso risponderà alla terra;
la terra risponderà con il grano,
il vino nuovo e l’olio
e questi risponderanno a Izreèl.
Io li seminerò di nuovo per me nel paese
e amerò Non-amata;
e a Non-mio-popolo dirò: Popolo mio,
ed egli mi dirà: Mio Dio.
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Tre Pelagie intorno al cuore

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 8 ottobre: Sante Pelagie di Antiochia, di Gerusalemme, facciamo anche di Tarso


Per carità, non voglio insegnarvi il mestiere,
ma io avrei inserito il condannato a morte
prima di accendere il fuoco.

A volte è tutta una questione di nomi. Qualcuno decide che ti chiami in un modo, ad esempio Pelagia, e tempo un paio di secoli finisci sul calendario in un tal giorno, un giorno che non dice nulla della tua vita, ma è il giorno in cui hanno ucciso un'altra Pelagia e chi scrive i calendari le ha confuse, o semplicemente ha deciso che quello è il giorno in cui si festeggiano tutte le Pelagie e amen. Oggi appunto è il giorno delle tre Pelagie, anche se i lettori più sgamati ci aspettano già al varco per ricordarci che no, Pelagia di Tarso non si festeggia l'otto ottobre, bensì il 4 maggio. In effetti in Occidente è così, ma nei sinassari bizantini era ricordata anche lei nella data di oggi, come la piacente fidanzata del figlio di Diocleziano che convertendosi repentinamente al cristianesimo ne causa il suicidio; al che l'imperatore, divorato dalla rabbia, avrebbe dichiarato guerra a tutti i cristiani. Come ben sappiamo ne fu infatti il principale sterminatore: e lo sterminio sarebbe cominciato dalla stessa Pelagia di Tarso, che Diocleziano avrebbe fatta chiudere in un toro di Falaride. Cosa sia il toro di Falaride non devo certo spiegarlo a voi, egregi lettori ed ex studenti dei licei che il mondo intero ci invidia – fermi lì, non googlate, stavo scherzando, ve lo racconto in breve: è un leggendario strumento di supplizio, una delle idee più orrorifiche che ci siano arrivate dai cronisti antichi, tale da aver impressionato lo stesso Dante che lo menziona nell'Inferno. Ne parla per primo Diodoro Siculo: Falaride è il tiranno di Agrigento a cui l'inventore Perillo o Perileo sottopone il progetto di questo grande toro di bronzo in cui inserire i condannati a morte per arrostirli. Perileo ha pensato a tutto, compreso un sistema interno di amplificatori per trasformare le grida dei suppliziati nei versi di un toro, e un incensiere per evitare che l'odore di barbecue diventi eccessivamente acre. Falaride sembra intrigato dall'idea e dà a Perillo il via libera per costruirlo, ma quando il toro è pronto ordina che sia lo stesso Perillo a entrarci per il collaudo. Al termine del supplizio, disgustato da tanta crudeltà, fa gettare il toro in mare: ma ormai è troppo tardi, l'idea del toro ci è rimasta in testa e se ne resterà per sempre in qualche angolo, tra le storie d'orrore che non riusciamo dimenticare. Da quell'angolo la deve avere ripescata l'anonimo autore della passione di Pelagia di Tarso, per terminare una leggenda che sembra voler mettere assieme frammenti delle altre due Pelagie che si festeggiano oggi: una vergine suicida e una ballerina pentita.

Di tutta questa abbondanza di Pelagie l'ultima edizione del Martirologio Romano ricorda soltanto quella "ad Antiochia in Siria, vergine e martire, che san Giovanni Crisostomo esaltò con grandi lodi": riferimento più elusivo del solito, dal momento che l'omelia del Crisostomo descrive un vero e proprio suicidio volontario. Pelagia, quindicenne di nobili natali, riceve la visita di una pattuglia di soldati che sono venuti ad arrestarla su ordine del procuratore, con l'accusa di cristianesimo; li accoglie con la cortesia tipica dei martiri che stanno per essere tratti in carcere, chiedendo soltanto qualche minuto per cambiarsi d'abito; ma è solo un pretesto per salire al piano di sopra e buttarsi. Ecco, è precisamente il tipo di storia che il Martirologio Romano contemporaneo preferisce non riportare. Nei secoli successivi gli agiografi sentiranno sempre più l'esigenza di distinguere tra volontà di martirio e azioni suicidarie, evitando il più possibile di menzionare casi in cui è il santo stesso l'esecutore materiale del proprio martirio; la morte, per quanto invocata e desiderata, deve sempre giungere dalle mani di un nemico della fede. Il Crisostomo si fa meno problemi: dà per scontato che le torture in cui sarebbe incorsa la giovinetta ne avrebbero compromesso la verginità, e di fronte a un'eventualità del genere trova non solo giustificabile ma eroico il gesto di gettarsi da un terrazzo. E benché la situazione di partenza sia quella che abbiamo trovato in centinaia di leggende medievali (i miei lettori più sgamati avendo già compulsato centinaia di leggende medievali), l'episodio tratteggiato è molto più crudo e dà l'impressione di essere stato ispirato a un reale fatto di cronaca; il Crisostomo avrebbe potuto inventarsi le avventure di una di quelle sante infrangibili, che resistono a ogni tipo di tortura, e che non vengono violentate neanche quando le si getta in un bordello di marinai, ma non lo fa. Pelagia di Antiochia è solo una ragazza che se la vede brutta e compie un gesto disperato. 

Pelagia di Gerusalemme, viceversa, è un personaggio leggendario, se non già romanzesco. Anche di lei ci parla per la prima volta il Crisostomo (il che può aver causato la confusione), ma in un'altra predica e senza mai chiamarla per nome. La definisce senza mezzi termini una poco di buono, ballerina o commediante, insomma un'entraineuse che rovinava le famiglie e viveva con dissolutezza, pure lei ad Antiochia benché fosse di origine fenicia: del resto ormai abbiamo capito che la metropoli siriana era la Las Vegas del periodo: non sorprende che attirasse le artiste e performer più notevoli. Costei a un certo punto si era convertita, diventando una campionessa della fede e della penitenza quanto prima lo era del vizio, e aveva finito i suoi giorni in un umile monastero. Da questo soggetto, uno scrittore più tardo, tale Giacomo di cui non conosciamo nient'altro se non il nome (e anche di quello dubitiamo), compone una leggenda più movimentata in cui l'entraineuse viene convertita da un vescovo, Nonno, e si ritira in un eremo a Gerusalemme, nei pressi del Monte degli Ulivi, travestendosi da monaco per non attirare l'attenzione. Lo Pseudogiacomo chiama la sua eroina Pelagia, benché la sua storia difficilmente potesse conciliarsi con quella della vergine precipitata; è più probabile che avesse in mente la leggenda di Marina di Bitinia, che si era travestita anche lei da uomo per entrare in un monastero; del resto "Pelagia" in greco significa proprio "marina". 

Il personaggio più memorabile è il vescovo Nonno, persona di rinomata santità, che converte la meretrice. Era un vescovo di passaggio, ad Antiochia per un sinodo, e quando in mezzo a tanti pii colleghi la vede passare a cavallo di un asino "vestita d'oro soltanto" (ma nemmeno così tanto), è l'unico della compagnia a non nascondere la testa tra le mani o nel breviario. Nonno la ballerina la guarda, eccome: sia mentre sta passando, sia quando è già passata. Dopodiché, con l'innocenza dei santi, chiede ai colleghi: ma avete visto che roba? Gli altri vescovi non sanno cosa rispondere (anche perché in effetti non hanno visto molto). Nonno invece è talmente santo da poter guardare la ballerina senza indulgere nella concupiscenza ("ego valde delectatus sum, et placuit mihi pulchritudo ejus"); a colpirlo è soprattutto l'impegno con cui la professionista si trucca e si veste per piacere al suo pubblico ("quantas horas fecit in cubiculo suo haec mulier, lavans et componens se, cum omni sollicitudine animi et intentione ad spectaculum ornans se, ut corporali pulchritudini et ornatui nihil deesset"). E noi ministri della fede, si domanda Nonno, ci impegniamo altrettanto per raggiungere la sposa immortale che ci è promessa nell'Aldilà? Non è una domanda retorica, Nonno si chiede sinceramente se si impegna nell'apostolato tanto quanto Pelagia si impegna nel meretricio. Il narratore è testimone diretto di una notte di tormenti e preghiere, che culmina in un sogno; Nonno racconta di aver sognato una colomba nera di fuliggine appollaiata sull'angolo dell'altare maggiore. Dopo averla presa nelle sue mani, Nonno riesce a riportarla al candore originale. Convinto che il sogno sia di buon auspicio, Nonno arriva in chiesa e attacca con la migliore predica della sua vita. Quella domenica è talmente ispirato che convertirebbe i sassi, anzi converte la stessa Pelagia che si ferma fuori dalla porta ad ascoltarlo, e poi manda i suoi servitori a chiedere udienza. Nonno, abbiamo visto, è privo di ogni malizia ma non è stupido, e accetta di vederla soltanto davanti ai suoi colleghi, che testimonieranno della sincerità del pentimento. Una volta battezzata, Pelagia dona le sue ricchezze alla Chiesa e poi scompare; l'autore sostiene di averla ritrovata anni dopo in un eremo a Gerusalemme, nei pressi dell'orto degli Ulivi, riverita e rispettata dai locali che però la chiamano Pelagio e non sospettano minimamente che si tratti di una donna. In effetti è come se avesse smesso di esserlo. Come nel caso di Marina, lo svelamento avviene soltanto dopo la morte, quando altri monaci vengono a trattare il corpo con la mirra. Pelagia è patrona di tutte le donne bellissime che prima ci fanno perdere la testa e poi la mettono a posto prima di noi, sicché ci precedono pure nel Regno dei Cieli dove, se mai risulteremo nella lista per entrare, possiamo essere sicuri che non ci fileranno di striscio; Nonno invece è il patrono di quel tipo di persona che quando vede una trave nell'occhio del prossimo, pensa: però guarda com'è bravo lui a tenere la sua trave, che stile, che personalità, mentre io con la mia pagliuzza non mi so proprio gestire, son sempre lì che mi stropiccio gli occhi – And I have known the eyes already, known them all.

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Petronio, un patrono insoddisfacente

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4 ottobre: San Petronio (V secolo), deludente patrono di Bologna

Oh ma vi sembra una roba da mostrare ai turisti,
ma ripigliatevi.

Si sa che alle ossa di un santo possono capitare le cose più strane, ad esempio quelle di San Petronio furono testate come parafulmine: siccome la Torre degli Asinelli sembrava particolarmente bersagliata  dalle scariche elettriche del cielo – il che poteva riflettere una certa insofferenza di Nostro Signore per la città universitaria – i bolognesi provarono a mettere un po' di resti di Petronio in cima alla torre, sperando che Domineddio avrebbe usato da quel momento in poi un po' più di riguardo. Sì, se uno ci riflette non ha senso neanche dal punto di vista di un credente, cioè se Domineddio è arrabbiato con una città, mica gliela fate passare con le reliquie – però oh, ci hanno provato, i bolognesi con l'elettricità non lasciano nulla di intentato, le rane di Galvani ne sanno qualcosa. 

Funzionò? Ovviamente no. Del resto Petronio, come santo patrono, ha sempre lasciato a desiderare: questa cosa i bolognesi non ve la diranno mai, non ne parlano volentieri, hanno tutta una reputazione razionalista da difendere. Tuttavia è un'evidenza che trasuda dai fatti: Petronio è il santo che si sono scelti, rintracciandone i resti e plasmandone la storia, nella speranza che intorno alla sua augusta figura la città potesse trovare una sua autonomia, magari addirittura un'indipendenza. Ha funzionato? Decisamente no. Dal medioevo, Bologna è la più grande città italiana che non è mai stata capitale di nessuno Stato o signoria, nemmeno di sé stessa. Di Petronio, ottavo vescovo della città, si conosceva quasi soltanto il nome quando i suoi resti furono rinvenuti dai monaci benedettini nel complesso di Santo Stefano. Ma il ritrovamento avvenne in un periodo cruciale, a metà del Millecento: ogni città italiana si stava costituendo in Libero Comune e il ritrovamento di Petronio offriva ai bolognesi l'opportunità di stringersi intorno a un santo autoctono, ancorché probabilmente originario delle Gallie. 

Questo è un "videomapping" e forse ci fornisce una chiave:
se i bolognesi la finissero, dovrebbero poi ammettere che non è la più bella,
che in giro ce n'è di migliori.

Qualche volenteroso scrittore senza troppe preoccupazioni per le fonti, a Bologna non ne mancano, ne scrive un'agiografia che lo rende il rifondatore della città: cognato dell'imperatore Teodosio, nominato vescovo di Bologna da papa Celestino, Petronio avrebbe trovato la città distrutta dalle invasioni barbariche e si sarebbe dedicato alla sua ricostruzione; non solo edificando Santo Stefano come "Santa Gerusalemme", sul modello del Santo Sepolcro, ma ampliando le mura e ottenendo dal cognato imperatore una larga autonomia amministrativa e addirittura il permesso per costituire uno Studium, cioè l'università – insomma non era ancora il Milleduecento e già i bolognesi smaniavano di sostenere che la loro università fosse la più antica del mondo.

Petronio sta già iniziando a incarnare un certo orgoglio cittadino, quando a metà del Duecento il Comune di Bologna lo nomina patrono ufficiale. Potrebbe sembrare una mossa scontata – insomma è il vescovo più antico di cui si sono trovate le ossa, nientemeno che a Santo Stefano – e tuttavia fino a quel momento il patrono di Bologna era San Pietro, a ricordare perpetuamente ai bolognesi che la città non era che una dipendenza di Roma. Benché al tempo fosse più grande, più ricca, più dinamica, ma niente da fare: Bologna è sotto Roma, fine delle discussioni. Ai bolognesi viceversa piace discutere, così proprio quando la stagione dei comuni è agli sgoccioli decidono di erigere in onore di Petronio la più grande basilica del mondo, qualcosa che faccia impallidire non soltanto la cattedrale di San Pietro a Bologna – che resterà la chiesa vescovile – ma la stessa San Pietro di Roma, del resto al tempo parecchio malandata. Una mossa sfrontata: funzionò? 

Il modellino di Arriguzzi, ovvero come se l'immaginavano nel Cinquecento
(quando comunque non avevano i soldi per finire il pezzo già costruito).

Assolutamente no: del resto è molto difficile costruire la più grande cattedrale del mondo in una città dove comandano i legati papali, che ogni tanto ti sequestrano marmo e legname e lo rivendono; oppure fanno costruire l'Archiginnasio dove il progetto iniziale faceva passare il transetto. San Petronio non è l'unica cattedrale che ha richiesto secoli per essere terminata, ma a differenza mettiamo di Milano, che sfoggia  una facciata gotica fatta nell'Ottocento, e sul retro certe guglie tagliate col laser, San Petronio è rimasta bloccata, vittima della sua stessa arroganza: doveva essere la più grande chiesa del mondo, non c'è riuscita manco per sogno, e si è irrigidita nel suo ruolo di più grande incompiuta, con quella facciata che tira un pugno nell'occhio di qualsiasi turista abbastanza sincero con sé stesso per ammetterlo, una roba che ti fa pensare beh facciamo una colletta: quanto costerà finirla? Ma no, i bolognesi dicono di preferirla così, fotografata nel momento esatto in cui finì il marmo. San Petronio non sarebbe stato d'accordo, a leggere le agiografie era uno che le costruzioni preferiva finirle... Ma già, le agiografie sono tutte inventate.
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Il giorno degli arcangeli

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29 settembre – SS. Michele, Gabriele e Raffaele, angeli o arcangeli

[2013]. Neanche troppo tempo fa, il 29 settembre si festeggiava soltanto Michele Arcangelo, il primo vero supereroe, con le sue ali bianche e la sua lancia sempre conficcata in qualche drago: è l’anniversario della dedicazione del suo più famoso santuario, nel 493 (anche se più probabilmente è di epoca longobarda), a Monte Sant’Angelo in provincia di Foggia. I due colleghi, Gabriele e Raffaele, che nessun passo della Bibbia qualifica come “arcangeli”, avevano entrambi il loro giorno dedicato, rispettivamente 24 marzo e 24 ottobre. A riunire i festeggiamenti in un giorno solo ha provveduto il Concilio Vaticano II. Cordova, città particolarmente devota a Raffaele (dopo essere stata la capitale europea dell’Islam), continua a festeggiarlo in ottobre. Un accorpamento del genere, in mancanza di altre ragioni pratiche o economiche, tradisce un certo fastidio dei teologi. Chi sono questi angeli? Da dove vengono? Cosa pretendono? Le scritture ne parlano pochissimo. Meglio diffidare. Non è un atteggiamento particolarmente moderno: l’insofferenza dei cristiani per l’angelologia è antica quanto il cristianesimo, visto che già il suo fondatore, Paolo di Tarso, metteva in guardia i colossesi dal “compiacersi in pratiche di poco conto e nella venerazione di angeli”.

Le generazioni seguenti dovettero probabilmente scegliere tra due categorie di personaggi venerabili: i martiri o gli angeli. Scegliere gli angeli significava immancabilmente offrirsi alle derive gnostiche che circolavano liberamente in quei secolo, un tripudio sincretico e new age di personaggi alati associati ovviamente al giorno della settimana, al segno zodiacale, al punto cardinale, al tuo umore, e domani incontrerai qualcuno e dovrai fare una scelta importante. Venerare i martiri significava la guerra a tutti i paganesimi: c’è un solo Dio e vale la pena di morire per testimoniarlo. Vinsero evidentemente i più estremisti, ma gli angeli non scomparirono del tutto. Ogni tanto ritornano, sembra che i fedeli non ne possano fare a meno. Certo, nei quadri le ali fanno la differenza. I santi non ce le hanno, anche quando volano sembrano semplicemente sospesi in aria: vuoi mettere con un Michele che svolazza?

Ma chi è poi questo Michele? Il suo nome è a sua volta una domanda, dato che in ebraico suona più o meno “Chi come Dio?” La sua prima apparizione è in un testo biblico abbastanza tardo (II sec. aC), il Libro di Daniele, che gli ebrei non hanno nemmeno incluso nel canone della loro Bibbia – i cattolici sì, ma son di bocca buona. Qui è presentato come il luogotenente del Dio degli eserciti, il suo condottiero più fidato. Nello stesso testo esordisce anche Gabriele, “Dio è potente”. A lui la voce del Signore ordina di spiegare una visione al profeta. Sembra il classico intermediario tra la divinità e l’uomo, e la redazione in greco usa per definirlo il termine classico, ánghelos. Con la stessa funzione lo ritroviamo nel vangelo di Luca, nell’apparizione angelica più celebre: è lui a informare Maria della sua gravidanza. Michele torna invece in un passo dell’Apocalisse (un testo che ha molti debiti col libro di Daniele), sempre con funzioni di alto ufficiale dell’esercito divino: i quadri che lo raffigurano nell’atto di sconfiggere un drago-serpente traggono spunto da lì. E Raffaele? Di lui parla soltanto il libro di Tobia, un altro testo dell’Antico Testamento rigettato dal canone ebraico e recuperato in quello cristiano. Nel libro Raffaele (“Dio Guarisce”) fa da mezzano tra il giovane Tobia e la tenera Sara, una brava ebrea deportata con un piccolo problema: è posseduta da un demone, Asmodeo, che ammazza tutti i suoi mariti la prima notte di nozze. Raffaele sconfigge Asmodeo e cura la cecità del padre di Tobia, un novello Giobbe, tanto pio quanto sventurato. Di storie a lieto fine nella Bibbia non è che ce ne siano tantissime, d’amore poi; sicché la favoletta di Tobia e Raffaele diventa piuttosto popolare nel medioevo: ai giovani sposi viene proposto di praticare l’astinenza per le prime tre notti di nozze, dette le “notti di Tobia”. Raffaele viene invocato come guaritore, anche se in questo campo la concorrenza è presto agguerritissima. Questo è più o meno tutto quello che la Bibbia ci dice su Michele, Gabriele e Raffaele.

E la guerra con gli angeli ribelli? Lo scontro con Lucifero? I testi canonici non ne parlano: a far luce sulla vicenda è un libro apocrifo, attribuito al patriarca Enoch, considerato da quasi la totalità di ebrei e cristiani una patacca già nel primo secolo dC. Gli unici ad averlo incluso nella loro Bibbia sono gli etiopi, ed è nella lingua etiope che il testo ci è arrivato nella sua interezza. Se l’avesse veramente scritto Enoch, settimo discendente di Adamo, bisnonno di Noè, sarebbe il libro più antico della storia: invece è probabilmente stato redatto nel primo secolo avanti Cristo. Il libro contiene i nomi di ben sette arcangeli (Uriele, Raffaele, Raguele, Michele, Sarcaele, Gabriele, Remiele); e del resto Raffaele a Tobia si era presentato come “uno dei sette angeli ammessi alla presenza della maestà del Signore”. A questo punto ogni giorno della settimana e ogni pianeta conosciuto poteva avere il suo arcangelo di riferimento – e tuttavia i vescovi diffidano. Non è che mettano in dubbio l’idea di uno scontro preistorico tra demoni e angeli, ma rigettano il racconto di Enoch e decidono di omologare soltanto i tre nomi attestati nella tradizione biblica. Nel 380 il concilio di Laodicea censura l’invocazione degli angeli come “segreta idolatria”. I barbari però vanno matti per Michele (i longobardi specialmente), un angelo guerriero nel quale è forse più facile per loro riconoscersi. Nel 745 papa Zaccaria scopre che a Magdeburgo un vescovo invoca nomi angelici non consentiti: getta l’anatema e mette per iscritto il divieto di invocare angeli o arcangeli che non siano Michele, Gabriele e Raffaele. Ma poi passano i secoli e nel 1516, alla vigilia della riforma protestante, avviene un ritrovamento straordinario. Due canonici della cattedrale di Palermo, Antonio Lo Duca e Tommaso Belloroso, notano nella piccola chiesetta di Sant’Angelo le tracce di un affresco antichissimo. Tra gli episodi biblici, c’è anche una foto di gruppo del pool angelico:

"Al centro Michele, il Vittorioso, in atto di calpestare il dragone. Da un lato, in ordine: Gabriele, Nunzio, con specchio di diaspro e fiaccola, Barachiele, che viene in aiuto, con rose da distribuire; Uriele , forte Compagno, con spada e fiamma. Dall’altro lato: Raffaele, Medico che guida Tobia e porta un vaso di medicinali; Geudiele, Rimuneratore, con una corona e una flagello; Sealtiele, Orante, raccolto in preghiera".

È un vecchio affresco di epoca bizantina, segno che la venerazione dei Sette Arcangeli aveva resistito a qualche divieto. A sette secoli di distanza, invece, Lo Duca non sa nemmeno che nominarli è proibito. Anzi, il ritrovamento di questi nomi misteriosi getta i semi di una renaissance angelologica, proprio nel momento storico meno adatto: Lutero sta per mettere in questione la venerazione dei santi, figurarsi quella degli angeli. A Palermo però nasce una “confraternita dei sette angeli” a cui si affretta a iscriversi pure Carlo V imperatore; Lo Duca si mette a girare in lungo e in largo per diffondere i nomi angelici e raccogliere i fondi necessari all’erezione di una cattedrale angelica. A Roma, dove è passato a servizio di un cardinale, scartabella finché non trova in qualche antico libro una conferma: i quattro arcangeli misteriosi si chiamano Uriele (“Dio infiamma”), Barachiele (“benedizione di Dio”), Geudiele (“lode di Dio”), Sealtiele o Salatiele (“Dio comunica”). In effetti ne parlava anche lo Pseudodionigi, non esattamente un manoscritto perduto. E tuttavia i soldi per la cattedrale non si trovano; i papi hanno già il loro daffare a finire quella enorme in Vaticano. Vendere indulgenze non è bastato, anzi ha fatto protestare i tedeschi e ha lacerato per sempre la cristianità. A un certo punto Lo Duca (che a Roma chiamano Del Duca) ha un’illuminazione, non in senso figurato: una visione luminosa che gli ordina di dedicare agli arcangeli i ruderi delle terme di Diocleziano, dove i Sette avrebbero assistito sette martiri. È un’ottima idea, anche abbastanza economica, perché le Terme sono ancora in piedi e prima o poi si sarebbe dovuto decidere cosa farne, restaurarle o buttarle giù. Farne una chiesa è il modo migliore per conservarle, vedi quel che successe al Colosseo che finché non fu dedicato ai martiri rimase una rovina. Del Duca però dovrà aspettare parecchio prima di trovare un papa interessato al progetto: Paolo III era scettico, Giulio III addirittura adibì le vecchie terme a maneggio per i cavalli dei nipoti. Alla fine Pio IV diede il beneplacito, e Paolo IV assegnò il restauro all’archistar per eccellenza, Michelangelo Buonarroti.

La basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri sta in piazza della Repubblica, se siete mai venuti a Roma per un corteo ci siete passati davanti di sicuro. Si era ormai in piena Controriforma: riscoprire i nomi degli angeli e degli arcangeli e di altre misteriose entità intermediarie era un modo di reagire alle teologie protestanti che negavano la necessità di qualsiasi intermediario tra Dio e il fedele, sacerdoti compresi. Eppure i sette arcangeli, malgrado gli sforzi di Del Duca e degli altri devoti, non diventeranno mai mainstream. Uriele, il portatore di fuoco, avrà una certa fortuna letteraria: Milton lo adopererà nel Paradiso Perduto. Gli altri tre ricadranno immediatamente nel dimenticatoio, anche per via di quei nomi così brutti. Dal Seicento in poi la venerazione per gli arcangeli sarà progressivamente assorbita da quella, più ortodossa, per l’angelo custode: i tre più famosi continueranno a essere venerati nelle città a loro dedicate, e a conservare un giorno tutto loro sul calendario, fino alla stretta del Vaticano II. In seguito Giovanni Paolo II ha gelato ulteriormente gli angelologi, facendo sapere via decreto che “è illecito insegnare e utilizzare nozioni sugli angeli e sugli arcangeli, sui loro nomi personali e sulle loro funzioni particolari, al di fuori di ciò che trova diretto riscontro nella Sacra Scrittura; conseguentemente è proibita ogni forma di consacrazione agli angeli ed ogni altra pratica diversa dalle consuetudini del culto ufficiale”. Erano già gli anni Novanta, l’esigenza di smarcarsi dallo stucchevole immaginario new age era molto sentita. L’avverto io stesso, nel giorno in cui mi decido a scrivere un pezzo sugli angeli e mi rendo conto che proprio non è cosa, cioè ci sono santi simpatici e santi antipatici, ma gli angeli io proprio non li soffro. Quel che è affascinante del cristianesimo è l’essere una religione di uomini e donne, vergini e martiri, peccatori che inciampano e a volte per miracolo sembra s’alzino in volo. Invece questi tizi, questi primi della classe creati senza peccato originale e con le ali di serie, sembrano usciti da un romanzo fantasy, nel quale peraltro recitavano la parte dei bacchettoni: nel libro di Enoch gli angeli ribelli intendevano fornicare con le femmine umane, in ciò consisteva la ribellione. Gli angeli invece non fornicano, perché dovrebbero? Non ne hanno bisogno, sono eterni. Ma simpatici, no. A me almeno.
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Due chirurghi in paradiso

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 26 settembre: Santi Cosma e Damiano (III secolo), guaritori gratis

(Beato Angelico)

Ho cominciato a tirar giù i santi da novembre, tra un po' è ottobre. Ormai mi sono tagliato tutti i ponti alle spalle. Ne ho presi in giro più di trecento, e quando poi avrò bisogno di qualcuno di loro, a che altare piangerò? Chi non mi volterà le spalle? Cosma e Damiano, per esempio, dovrei proprio trattarli con riguardo. Oltre a essere santi di una certa importanza, sono anche dottori: e le leggende che li riguardano mettono in chiaro che non guarivano coi miracoli, perlomeno non necessariamente, ma con la scienza medica che lo Spirito Santo aveva loro ispirato a studiare. 

C'è anche un'altra particolarità che li rese popolarissimi in età tardoantica, e che dovrebbe ispirarmi una certa deferenza: erano medici anargiri – ovvero curavano a titolo gratuito. Questo è il vero miracolo: il diritto alla salute, che avrebbe ispirato una serie di servizi di quella che oggi chiameremmo pubblica assistenza. La basilica di Cosma e Damiano a Costantinopoli era una specie di pronto soccorso, in cui i malati entravano senza pagare e venivano curati e operati di notte, nel sonno (di che tipo di sonno si trattasse non lo sappiamo: la speranza è che qualcuno avesse già scoperto le virtù anestetiche di qualche estratto vegetale, qualcosa che ti impediva di svegliarti mentre ti tagliavano un'appendice o una gamba).

Tanto ferreo era il loro proposito di curare senza lucro che un giorno litigarono perché Damiano aveva accettato tre uova da una paziente, tale Palladia. Ai rimproveri del collega (secondo alcune fonti era suo fratello), Damiano spiegò che aveva accettato le uova per non offenderla, ma Cosma non volle sentire ragioni e dichiarò che non intendeva essere sepolto insieme a Damiano. Forse presentiva già il martirio, che sarebbe sopraggiunto ai tempi di Diocleziano imperatore, con una certa fatica perché nessun supplizio sembrava funzionare contro i due medici: le pietre rimbalzavano, il fuoco non si appiccava, le frecce rimbalzavano sul plotone degli arcieri, il forno non li cuoceva, il fiume in cui provarono a gettarli non li inghiottiva, così alla fine li decapitarono. I discepoli che riuscirono a recuperare i loro resti, memori delle volontà di Cosma, caricarono il corpo di Damiano su un dromedario per seppellirlo lontano dal collega, ma il dromedario si rifiutò, dicendo: Nolite eos separare a sepoltura, quia non sunt separati a merito, ovvero: non vogliate separare con la sepoltura coloro che non sono separati dal merito – precisamente, il dromedario parlò. È un miracolo. Lo riporto per dovere di completezza, tal quale si trova descritto nella predella della pala di San Marco del Beato Angelico, non ho intenzione di farci qualche facile ironia, voi magari avete una salute di ferro e la vostra Ausl funziona che è un piacere, ma io non posso permettermi di fare ironia su Cosma e Damiano. 

Costoro continuarono a fare miracoli anche dopo la morte, e in particolare ebbero un soprassalto di popolarità nel sesto secolo, quando Giustiniano si convinse di essere guarito da qualche malattia grazie a loro e si mise a costruire chiese in suo onore un po' dappertutto, Roma compresa. In Italia poi furono più tardi adottati come santi protettori dalla famiglia Medici, il che li rese una presenza ubiqua nelle pale d'altare. Uno dei miracoli più sensazionali attribuiti ai due medici è un trapianto di gamba che avrebbero effettuato un secolo dopo la loro morte, su un diacono chiamato Giustiniano che soffriva di cancrena: nel sogno vide i due chirurghi operarlo e quando si svegliò, in effetti aveva una gamba nuova; ma siccome i fratelli avevano adoperato la gamba di un africano, ora aveva due gambe di due colori diversi. Il donatore della gamba era appena morto, dice la tradizione: però a Valladolid, nel collegio di Santa Cruz, c'è un quadro del Cinquecento in cui l'africano non è affatto morto, ma piange di dolore mentre si tiene il ginocchio appena mozzato con la mano destra. Ora, queste sono illazioni che mi sento assolutamente di smentire. Cosma e Damiano erano due medici integerrimi, magari inclini a forme di sperimentazione che possono sembrarci bizzarre, ma mettevano al primo posto sempre il benessere dei pazienti e senz'altro non avrebbero amputato un africano per ottenere una gamba da montare su un diacono. Vergognatevi a pensare a queste cose di due medici così santi e così gratis – Cosma e Damiano, proteggetemi.
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Pio, l'uomo che sanguina

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Cattelan, non sei nessuno
23 settembre - San Pio da Pietrelcina, 1887-1968, taumaturgo.

[2012]. Giovanni XXIII non aveva mai potuto soffrire Padre Pio. Già da monsignore era riuscito a evitarlo, anche quando batteva la campagna pugliese come responsabile della Propaganda Fide. Una volta divenuto Papa doveva considerare quel cappuccino sanguinante e odoroso di acido fenico, con la sua corte di faccendieri e isteriche, un esempio di ciò che la Chiesa conciliare doveva lasciarsi alle spalle. Tutto questo anche prima di ricevere da qualche volenteroso spione una bobina di intercettazioni ambientali in cui la voce del frate e delle sue più zelanti devote era frammista al rumore di sbaciucchiamenti. Senza essere stata particolarmente sollecitata, la bobina sembrava concepita appositamente per turbare un pontefice refrattario alla sola idea del contatto fisico con individui dell'altro sesso. "L'accaduto", scrive, "...fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente..."
"Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirmi personalmente puro da questa contaminazione che da ben 40 anni circa ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili".
Quella bobina fu una nuova fonte di guai per padre Pio di Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, che aveva già passato i suoi brutti momenti durante i pontificati di Benedetto XV e Pio XI - quest'ultimo, in particolare, era stato a un passo dal sospenderlo dal sacerdozio e deportarlo in qualche convento lontano dalla sua claque. Ma questo avveniva nel Ventennio, quando l'umile servo di Dio si limitava ad amministrare i sacramenti e guarire qualche pellegrino (o gerarca) di passaggio, e non possedeva ancora la totalità delle azioni dell'ospedale più grande del meridione, una deroga generosamente concessa da Pio XII al suo voto di povertà. Il Padre Pio su cui indagherà nel 1960 il Sant'Uffizio è già un fenomeno mediatico, tenuto vivo dall'attenzione costante dei rotocalchi, che il Vaticano non riesce più a manovrare.

L'ispezione sollecitata da Giovanni XXIII farà luce su molti aspetti discutibili dell'organizzazione che si era stretta intorno al frate, ma non svelerà nessun "immenso inganno", come pure il Papa si era augurato. Del resto a quel punto il cappuccino andava per i 75, sanguinava ininterrottamente da quaranta, e per immaginarlo mentre si intratteneva carnalmente con le sue beghine preferite ci voleva la fantasia morbosa ma un po' astratta di un alto prelato. Qualche mese dopo, un colloquio con l'arcivescovo di Manfredonia (la diocesi di cui fa parte San Giovanni Rotondo) avrebbe rasserenato l'animo del pontefice:
“Don Andrea, sono i suoi fratelli che l’accusano. E poi… quelle donne, quelle registrazioni… Hanno perfino inciso i baci”. Poi il Santo Padre tacque per l’angustia e il turbamento. Monsignor Cesarano, con un fremito che gli attraversava l’anima e il corpo, tentò di spiegare: “Per carità, non si tratta di baci peccaminosi. Posso spiegarti cosa succede quando accompagno mia sorella da Padre Pio?” “Dimmi”. E monsignor Cesarano raccontò al Santo Padre che quando sua sorella incontrava Padre Pio e riusciva a prendergli la mano, gliela baciava e ribaciava, tenendola ben stretta, malgrado le vive rimostranze nel timore di sentire un ulteriore male per via delle stigmate. Il buon Papa Giovanni alzò lo sguardo al cielo ed esclamò: “Sia lodato Dio! Che conforto che mi hai dato. Che sollievo!
Questo episodio, raccontato da un confratello di Padre Pio, ha il profumo e la consistenza di una storiella nata tra la canonica e la sacrestia, gli unici ambienti dove suona ancora un po' credibile scambiare il rumore di un baciamano per quello di un rapporto sessuale completo. D'altro canto qualcuno doveva pure raccontarla: qualcuno prima o poi doveva trovare un lieto fine per quella storia inquietante che metteva il Papa Buono contro il più venerato santo italiano del Novecento. Più probabilmente Roncalli si portò i suoi dubbi nella tomba monumentale che lo aspettava di lì a tre anni; il suo successore, Paolo VI, aveva di Padre Pio un ben diverso concetto. Non solo lo aveva conosciuto, ma era stato uno degli artefici della fortuna di San Giovanni Rotondo, quando al termine della guerra era riuscito a dirottare sull'erigenda Casa sollievo della sofferenza una somma ingente stanziata dagli USA per le emergenze sanitarie del dopoguerra. Con lui in Vaticano, Pio da Petrelcina poté vivere i suoi ultimi anni sulla terra in relativa serenità. Verso la fine le stimmate sembrarono progressivamente sparire, tanto che in punto di morte non se ne vedevano nemmeno le cicatrici. Cionondimeno il cadavere fu esposto coi guanti, per evitare malintesi o speculazioni.

Forse Padre Pio ha sofferto per tutta la vita. Le sue incredibili ipertermie (fino ai 48°), che facevano impazzire i termometri degli ospedali, dovevano plausibilmente causargli deliri e allucinazioni, che la fantasia di un ragazzo cresciuto tra la campagna e il convento non poteva che popolare con gli elementi del suo scarno paesaggio simbolico: madonne e chiodi, ferite e angeli. Forse davvero nell’agosto del 1918 il fraticello un po’ renitente alla leva vide un angelo che lo trafisse e lo trasverberò, colmandolo di vergogna. Le piaghe a mani, piedi e costato avrebbe potuto benissimo procurarsele in un delirio, questo lo ammettono anche i suoi più accaniti detrattori. In seguito il carrozzone miracolistico che gli era cresciuto spontaneo intorno, senza che lui avesse i mezzi intellettuali per ostacolarlo, lo avrebbe in un qualche modo costretto a mantenere aperte quelle ferite di cui lui stesso fraintendeva l’origine: da cui la necessità di approvvigionarsi di acido fenico o di veratrina, mediante biglietti clandestini che comunque il Vaticano aveva intercettato già nei primi anni Venti. E anche di questo inganno, ormai necessario per evitare non solo la propria rovina, ma uno scandalo mondiale per la Chiesa, forse Padre Pio ha intimamente sofferto per quarant’anni, mentre pellegrini da due continenti facevano la coda per baciare le sue piaghe.


Forse Padre Pio era un po’ ottuso. È la conclusione implicita di molti osservatori scesi apposta a San Giovanni per conoscerlo. Nessuno, nemmeno il più scettico, avanza dubbi seri sulla condotta irreprensibile del frate (ci sarebbero volute le cimici del 1960, un tentativo abbastanza patetico, vista l’età ormai avanzata). Ma quasi tutti lasciano intendere che egli si ritrovasse succube di qualcosa molto più grande di lui. Per padre Agostino Gemelli, il poliedrico intellettuale di lì a poco fondatore e rettore della Cattolica, si trattava di “un uomo a ristretto campo della coscienza, abbassamento della tensione psichica, ideazione monotona, abulia”, insomma un isterico da manuale (e Gemelli aveva appena scritto un manuale sui soldati che cercavano di evitare il fronte della Grande Guerra mediante fenomeni di autolesionismo). Anche i meglio disposti non possono non notare il ruvido accento, il latino zoppicante con cui continuò a dir messa anche dopo il Concilio (un’altra deroga, di Paolo VI), la sua incurante ignoranza delle cose del mondo. Forse davvero Padre Pio non era bene in grado di capire cosa gli stava succedendo intorno.

Ma c’è anche l’ipotesi inversa: che questo fraticello ignorante fosse molto più astuto di tutti i suoi ispettori. Abbastanza furbo da sopravvivere a due guerre mondiali e a cinque papi, tre dei quali indagarono su di lui decisi a spostarlo da San Giovanni (e non ci riuscirono); in grado di resistere per tutta la vita all’attenzione asfissiante di un entourage di maneggioni che lo trascinò in qualche affare sballato e fallimentare, senza scalfirne la reputazione; capace di uscire candido come una rosa dal disastro del fascismo, a cui benedì i gagliardetti finché gli convenne. In mezzo a tutto questo, Padre Pio riuscì a intestarsi uno degli ospedali più grandi del mezzogiorno, parecchi anni prima che anche la sua nemesi, Padre Gemelli, avesse il suo. Una bella rivincita sul vecchio positivista che era sceso nella sua tana pretendendo di misurarne il “campo della coscienza”. Se mai nei primi anni gli fosse sfuggita (come assicura il suo biografo più zelante e maneggione, Emanuele Brunatto) qualche parola critica nei confronti della Chiesa, Pio fu abbastanza astuto da nasconderla, anche prima che il Vaticano si comprasse l’intera tiratura del volume di Brunatto; di modo che non esiste oggi, in un infinito corpus di agiografie, più che un accenno al pensiero del Santo. Così che sembra quasi che Pio non avesse un pensiero, che non parlasse. Senz’altro non era per ascoltarlo che milioni di persone arrivavano lì. Pio, più che parlare, ascoltava. Il suo mestiere quotidiano era sedersi nel confessionale e ascoltare le suppliche di centinaia di persone al giorno. Il miracolo non sarebbe consistito tanto nel riuscire a esaudirne qualcuno, ma nel capirli tutti.



Non so perché, ma ci vedrei bene un monomarca Cavalli.

Padre Pio viene spesso accostato a Teresa di Calcutta, non solo in quanto esponente di una santità postmoderna che ha avuto il suo instancabile propagatore in Giovanni Paolo II; più spesso si tratta di un accostamento di icone, sulla stessa parete o mensola della cucina. In comune i due santi hanno il paesaggio di origine, lo scabro retroterra mediterraneo; una povertà praticata per tutta la vita, e poco altro. Teresa carambolò per il mondo su aerei a reazione, propagandando il suo francescanesimo radicale, abbracciando lebbrosi senza mai tentare di guarirne uno. Pio non propagò nessun particolare messaggio; non si spostò mai dal suo piccolo convento, ma lentamente riuscì a costruirci di fianco un enorme ospedale a regola d’arte. Ma la sua cella rimase la stessa: non gli si può imputare la deriva speculativa di San Giovanni, il flop degli alberghi (ce ne sono troppi, per un’utenza di pellegrini che preferisce il mordi-e-fuggi e raramente si ferma la notte), la chiesa gigante di Renzo Piano, con la sua cripta placcata d’oro per la quale gli storici dell’arte del futuro dovranno forse coniare una nuova categoria, l’Arte Tamarra. I cattolici, anche quelli più progressisti di Pio da Petrelcina, credono nella resurrezione dei corpi. Devono dunque presupporre che Pio si sveglierà intravedendo, oltre la maschera in silicone che ne protegge il corpo in momentanea putrefazione, il più farlocco dei cieli dorati. Avrà nuove mani per alzarle al cielo, nuovi piedi per inseguire i suoi confratelli e prenderli a calci nei secoli dei secoli, nuove orecchie per non ascoltare le loro ragioni: in fondo è solo una leggerissima foglia d’oro, ottenuta dalla fusione di tutti gli ex voto che non si sapeva più dove appendere e tutti assieme erano veramente brutti e inquietanti da guardare. E tuttavia era oro, aveva un prezzo, si poteva vendere e reinvestire in flebo, cateteri, siringhe monouso, in sollievo dalla sofferenza. Teresa nei suoi lazzaretti non accettava ascensori e frigoriferi. Francesco “Pio” Forgione mi riesce, malgrado tutto l’arredo barocco, più umano e simpatico. Ma forse è un problema mio.

Fàmola postmoderna.

Io credo nella corruzione dei corpi, li vedo ogni giorno disfarsi e soffrire, e ogni giorno passa nella fatica di distogliere lo sguardo. Una vita come la visse padre Pio, tutta trascorsa seduta davanti allo spettacolo del dolore e alla sofferenza, mi sembra l’inferno in terra. Non escludo che possa essere stato un imbroglione, un guitto di provincia. Non è affatto inverosimile che le tecniche simulatorie adottate durante la Grande Guerra per evitare il fronte lo abbiano aiutato a costruirsi l’immagine di santo stigmatizzato che poi è riuscito a rivendere per quarant’anni a un pubblico sempre più moderno e sempre più arcaico. Questo dovrebbe spingermi a un giudizio morale molto netto, ma non sono un giudice che giudica, e men che meno un prete che assolve. Sono una persona mediamente onesta, che senza aver fatto nulla di straordinariamente cattivo nella vita, non ha nemmeno fatto nulla di particolarmente buono. Non posso non riconoscere che coi suoi trucchi da fureria e da baraccone, coi suoi maneggi non necessariamente puliti, padre Pio ha fatto infinitamente di più per l’umanità – se l’umanità consiste nella sofferenza, nella comprensione della sofferenza, nel tentativo disperato e caparbio di ridurla, anche solo un malato alla volta, una stilla di sangue alla volta, un posto letto alla volta, in questa impresa padre Pio ci ha messo la vita e non si è fermato di fronte a nulla. Senza moralismi il più delle volte utili solo a distogliere lo sguardo; senza troppi discorsi in generale. A un santo non saprei veramente che altro chiedere.

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Roberto, inquisitore e gentiluomo

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17 settembre – San Roberto Bellarmino (1542-1621), inquisitore gentiluomo di Bruno e Gailleo

[2013] Gli anglicani, lo abbiamo visto, festeggiano San Thomas More, che fu decapitato per non aver accettato lo scisma anglicano. È un po’ come se i cattolici il 17 febbraio festeggiassero Giordano Bruno. Non lo fanno, non sono altrettanto sportivi. Invece il 17 settembre festeggiano San Roberto Bellarmino, il suo più celebre inquisitore. E tuttavia.

E tuttavia le cose non sono così semplici – le cose non sono mai semplici. Quando viene coinvolto dal lungo processo a Bruno, Bellarmino ha 55 anni e non ha decisamente il profilo del tetro cacciatore di streghe che ci piacerebbe assegnargli. È uno dei pochi che ha la formazione culturale necessaria per leggere davvero gli astrusi libri di Bruno e capire se in tanta torrenziale produzione di parole ci sia qualcosa di eretico o no. In fondo il filosofo e il suo inquisitore si somigliano. Sono nati entrambi negli anni Quaranta, mentre il concilio di Trento muoveva i primi passi. Sono entrambi studenti brillanti e precoci: Bruno presso gli odiati domenicani (di cui si metterà e si toglierà l’abito a seconda della situazione), Roberto coi gesuiti. Sono due viaggiatori in un secolo sedentario: Bruno schizza per l’Europa alla ricerca di una cattedra sicura, riuscendo a farsi interdire dai pastori di tutte le confessioni religiose possibili. Roberto comincia la sua carriera di predicatore anti-protestante, “martello degli eretici”, a Gand (oggi Belgio), terra di frontiera. Sono due grafomani, proprio nel momento in cui scrivere libri in Italia diventa davvero pericoloso; e prima che finisse nei guai, anche Roberto aveva rischiato.

Era successo nel 1590. Roberto si trovava in missione nella Francia sconvolta dalla guerra di religione. Lo avvertono di non sbrigarsi a tornare a Roma: l’amato Papa Sisto V sta valutando la possibilità di mettere all’Indice dei Libri Proibiti il suo best seller, avrete indovinato, le Disputationes de controversiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos. Ma come? Lo stesso Sisto non aveva tanto gradito la dedica dell’opera monumentale, una sorta di enciclopedia ragionata di tutte le eresie possibili, classificate senza troppo furore polemico? Sì, ma si vede che in seguito oltre ad apprezzare si era pure messo a leggere; trovando riferimenti al potere temporale del pontefice che non gli erano piaciuti. Bellarmino si era arrischiato a definire questo potere come “indiretto”, e tanto gli bastava per finire in disgrazia. A salvarlo fu una vera e propria moria di papi, che tra il 1590 e il 1592 falciò Sisto V e i suoi tre immediati successori (Urbano VII, dopo soli 13 giorni; Gregorio XIV, Innocenzo IX). Al termine di questo conclave permanente forse nessuno si ricordava più del caso Bellarmino, e all’orizzonte c’erano ben altre gatte da pelare. Prima di morire Sisto V – uno dei pontefici più risoluti e decisionisti della Storia – aveva voluto licenziare le bozze della nuova versione della Vulgata, la Bibbia in latino. Peccato che fossero piene di errori. In seguito una commissione aveva provveduto a correggere, ma ormai la versione vecchia era stata stampata, e ritirarla sarebbe stato imbarazzante: significava ammettere che un Papa si era sbagliato. Fu il gesuita Roberto Bellarmino a trovare una soluzione abbastanza elegante: anche la nuova versione sarebbe stata attribuita a Sisto. Una prefazione avrebbe spiegato che la decisione di pubblicare una nuova versione riveduta e corretta era stata presa dallo stesso papa che aveva fatto pubblicare la versione piena di errori. Questa era quasi una bugia: chi avrebbe avuto la faccia tosta e l’autorevolezza per firmare una prefazione del genere? Roberto Bellarmino, ovviamente, intellettuale di respiro europeo, stimato anche dagli avversari protestanti. Con Clemente VII, Bellarmino divenne rettore del Collegio romano. Lo zuccotto da cardinale stava per arrivare. In mezzo però ci fu il penoso caso di Bruno.


Quando lo incontrò, il filosofo aveva cinquant’anni ed era recluso da sei. L’opinione più condivisa è che Bellarmino avrebbe preferito salvarlo: questo fa un po’ a pugni con lo sviluppo del processo, in cui Bruno fino a un certo punto sembra orientato a salvarsi la pelle abiurando a qualsiasi cosa, salvo impuntarsi in un secondo momento, e ritrattare ogni abiura. In realtà non è affatto chiaro come andarono le cose (degli atti non restano che i sommari); non sappiamo nemmeno se fu torturato o no. Ciò che è sicuro è l’esito del processo, che andò ancora per le lunghe e si concluse nel 1600 con un rogo in Campo de’ Fiori. In seguito Giovanni Paolo II se ne è rammaricato: quattrocento anni dopo, meglio tardi che ancora più tardi. 

Sappiamo molto di più sull’altro famoso processo che riguardò San Roberto, il Galileo Uno, conclusosi con un sostanziale proscioglimento. Sono passati molti anni: siamo nel 1616, Bellarmino veste ormai lo zuccotto da tempo – avendo vinto il fastidio per un copricapo poco consono all’austerità dei gesuiti. È stato anche arcivescovo a Capua, amatissimo dal popolo, ma forse Clemente lo aveva spostato laggiù perché non si fidava più di lui: nel divampare di una polemica tra molinisti e tomisti non si era schierato dalla parte vincente. I molinisti erano seguaci del teologo Luis de Molina, teorico del libero arbitrio; i tomisti si rifacevano al solito san Tommaso d’Aquino, che riprendendo la concezione agostiniana di grazia riduceva di molto lo spazio concesso alla scelta individuale: una posizione non molto lontana da quella di Lutero, eppure tra molinisti e tomisti Clemente aveva scelto i secondi, mentre Bellarmino molto prudentemente preferiva considerare accettabili entrambe le posizioni. Ma durante la Controriforma succedeva anche questo, che bisognava essere prudenti, ma non troppo prudenti, ovvero anche la prudenza andava presa con prudenza, insomma un periodaccio. C’era anche in controluce una rivalità tra i due ordini religiosi più intellettuali: de Molina era un gesuita, Tommaso un domenicano. Alla morte di Clemente l’equilibrio si ristabilì, e il prudente Bellarmino era ancora abbastanza popolare da finire nell’elenco dei papabili: sarebbe stato il primo gesuita a varcare il sacro soglio, quattrocento anni prima di Bergoglio. Lui ovviamente non ci teneva, figurarsi, era già pronto a dimettersi da cardinale per scongiurare l’elezione, e quando invece fu eletto Paolo V, tirò un sospiro di sollievo, certo. Paolo comunque se lo riprese a Roma, al Sant’Uffizio, proprio mentre scoppiava il caso Galileo.

In quel primo processo bisogna ammettere che la Chiesa non ci fa una figura così pessima, anche grazie a Bellarmino: è vero, la teoria eliocentrica viene per la prima volta definita come eresia, in quanto esplicitamente negata dalle Scritture; tuttavia è ancora ammissibile parlarne come di un’ipotesi matematica: il vecchio trucco che aveva permesso a Copernico di pubblicare la sua teoria senza incorrere in nessuna condanna. Mentre Galileo pretendeva di fornire delle dimostrazioni, delle prove, di un presunto moto della terra intorno al sole: Copernico si era limitato a far notare che, in teoria, se la terra girasse intorno al sole, i calcoli verrebbero meglio.
“Perché il dire, che supposto che la Terra si muova e il Sole sia fermo si salvano tutte le apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il Sole stia nel centro del mondo e solo si rivolti in sé stesso senza correre dall’oriente all’occidente, e che la Terra stia nel terzo cielo e giri con somma velocità intorno al Sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare i filosofi e theologici scolastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante”.
Così Bellarmino a un fiancheggiatore di Galilei, Paolo Antonio Foscarini. E se si trovassero le prove che la terra si muove? In quel caso, sostiene il gesuita, “bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo”. Ma questo appunto era quello che Galileo pretendeva di fare, e che lo avrebbe messo davvero nei guai: spiegare la Bibbia ai preti. Bellarmino prova la manovra opposta: impartisce agli scienziati copernicani una lezione di metodo. Dite che la terra gira? Ipotesi interessante, ma… avete le prove? Dov’è la vostra “dimostratione”?
“Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata: né è l’istesso dimostrare che supposto ch’il sole stia nel centro e la terra nel cielo, si salvino le apparenze, e dimostrare che in verità il sole stia nel centro e la terra nel cielo; perché la prima dimostratione credo che ci possa essere, ma della seconda ho grandissimo dubbio, et in caso di dubbio non si dee lasciare la Scrittura Santa esposta da’ Santi Padri”.
Galilei si arrende (non che abbia già molte alternative): insegnerà l’eliocentrismo solo come una teoria. È abbastanza avveduto da farsi firmare dallo stesso Bellarmino una dichiarazione, dove è messo nero su bianco che non ha pronunciato nessuna abiura e non gli è stata impartita nessuna penitenza. Si è trattato di un semplice richiamo, un cartellino giallo: ricordati che ai tuoi allievi stai raccontando una teoria, non la verità. È più o meno quello che i bellarmini di oggi vorrebbero ricordare agli insegnanti: mi raccomando, quella di Darwin è pur sempre una teoria, finché non trovare una prova… già, ma cos’è una prova? Quanti anelli mancanti servono a dimostrare che i nostri progenitori vivevano sugli alberi? E che tipo di prove sarebbero servite a Galilei? Lui nel ’16 era convinto di averle già: osservazioni sulle maree; oggi sappiamo che almeno su quello si sbagliava, le maree non sono causate dalla rivoluzione intorno al sole. E quindi? Aveva ragione Bellarmino?

Più prudente di Bruno, Galilei era comunque incapace di darla vinta al relativismo. Presto o tardi si sarebbe rimesso nei guai. Ci mise altri quindici anni, e nel mezzo ci mise il Saggiatore e il Dialogo sopra i massimi sistemi. Quando alla fine si consegnò all’Inquisizione, gli misero sotto il naso un foglio firmato dal cardinale Bellarmino, in cui allo scienziato veniva formalmente intimato di non insegnare più l’eliocentrismo: era un falso, la lettera originale diceva ben altro – ma Bellarmino non era più vivo per smentire. Se n’era andato nel 1621.

Per farlo santo ci vollero tre secoli. I suoi devoti, soprattutto a Capua, ci tenevano molto: aveva lasciato un buon ricordo. Ma anche tantissime dispute per iscritto, e in fondo è statistico: più scrivi più alte sono le possibilità di pestare i piedi a qualcuno che ti sopravvive. La sua concezione del potere temporale della Chiesa, che già a Sisto V non piaceva, in seguito fu considerata troppo filo-papale. Alla fine diventò beato nel 1923, santo nel 1930, dottore della Chiesa nel 1931. Ma Galileo nel frattempo era stato proclamato l’iniziatore della scienza moderna, e Bruno il martire della libertà di pensiero. Bellarmino rimarrà alla storia come l’inquisitore che invece di torturarli preferiva farli ragionare. Il poliziotto buono, che a un certo punto entra in cella, ti offre una sigaretta e la sua solidarietà: eddai, Giordano, che te ne frega della pluralità dei mondi, ce ne sarà pure uno in cui bruci come uno stregone, ma perché dev’essere proprio questo? Sputa sui tuoi libri, puoi sempre scriverne altri. Eddai Galileo, questa storia della terra e del sole… ma sei sicuro? Come fai a sapere di essere sicuro? Come posso crederti? Mettiti nei miei panni: come faccio? Cosa puoi aver visto con un tubo e due lenti? È solo una teoria, ce ne sono tante, magari la tua è più elegante, te lo concedo, ma perché ci vuoi impedire di credere nelle nostre? Vuoi farlo tu il padreterno? Vuoi condannarci tu? San Roberto Bellarmino è patrono di Capua, di Cincinnati (Ohio), e di tutti gli inquisitori che ti lasciano intendere che in fondo ci credono meno di te.
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La scelta di Teresa

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9 agosto: Santa Edith Stein (Teresa Benedetta dalla Croce, 1891-1942), martire cattolica di origine ebraica

C'è stato un momento – spero sia passato – in cui la polemica sulla canonizzazione di Teresa Benedetta rischiava di mettere in ombra Teresa Benedetta stessa. Ancora oggi, ho la sensazione che sia una santa meno conosciuta di altre, come se negli ultimi anni vent'anni intorno a lei si fosse posato quel tipo di tessuto con cui proteggi una cosa che ti è cara, che forse un giorno ancora ti servirà, ma che in questo momento non sapresti dove mettere. Sensazione mia. Non è che non se ne senta parlare ogni tanto, ma non quanto meriti un personaggio così attuale ed eccezionale. Anch'io del resto qua sotto ho scritto molte parole che non riguardano quasi per niente la vita e l'opera di Teresa, al secolo Edith Stein. Alla fine la conosco poco, la capisco ancora meno.

Prima di entrare nell'ordine delle carmelitane scalze, Edith Stein è stata una filosofa che anche in epoca pre-nazista non riusciva a pubblicare le sue opere perché ancor prima di essere ebrea, era una donna – e questo malgrado Husserl l'avesse laureata summa cum laude e le facesse gestire i suoi appunti. La scoperta di Teresa d'Avila la porta a convertirsi al cattolicesimo e a cercare di conciliare fenomenologia e tomismo. Appena i nazisti prendono il potere lei scrive una lettera al papa (desecretata soltanto qualche anno fa) facendo presente che questi massacreranno gli ebrei; una cosa che nel 1933 era meno scontata di quanto sembri oggi. La situazione si complica e lei fugge in Olanda, come la famiglia di Anna Frank: dopo l'invasione tedesca finiranno entrambe ad Auschwitz. Edith Stein non è l'unica martire cattolica nei lager; ma mentre ad esempio Massimiliano Kolbe e diversi suoi colleghi furono internati perché preti polacchi (un'altra categoria che le SS perseguitavano sistematicamente), Edith Stein è arrivata nel lager in quanto ebrea. Per i nazisti l'ebraismo, ancor prima che una religione, era una razza, una questione di sangue; la conversione, che aveva salvato tanti ebrei dalle persecuzioni cristiane medievali e moderne, per loro non aveva nessun valore, il sangue non può convertirsi. Questo ha reso la sua canonizzazione una questione spinosa; per esempio l'Anti-Defamation League (una ONG ebraica americana) accusò nell'occasione la Chiesa cattolica di appropriazione culturale. È un'accusa che ha un senso, ma per quanto mi riguarda ho deciso che non sono d'accordo. 

Cercherò di spiegarmi, ma devo qui infilare una premessa: il dialogo interreligioso è un gioco di specchi. Abbiamo davanti una persona o una comunità di persone che ragiona in un modo completamente diverso dal nostro, che ha un progetto diverso, diverse priorità. Istintivamente, cerchiamo di calarci nei loro panni nel tentativo di produrre un discorso che abbia senso per noi, ma soprattutto per loro. Di qui a cercare di spiegar loro la loro fede il passo è breve, ed ecco: a un certo punto la Anti-Defamation League cercò di spiegare a Giovanni Paolo II quali santi canonizzare. 

Sul serio. C'è scritto così. "Perché Edith Stein e non Franz Jägerstätter, un umile cattolico austriaco decapitato dai nazisti nel 1943 perché rifiutava di militare nelle armate di Hitler? [Jägerstätter è stato in seguito beatificato da Benedetto XVI; si festeggia anche lui il 9 agosto perché morì esattamente un anno dopo la Stein]. Perché non un contadino polacco che nascose gli ebrei o a una domestica che adottò un bambino ebreo?" Che dire: grazie per i consigli, ma la santità è uno status attributo dalla Chiesa cattolica che ha valore soltanto per chi si riconosce nella Chiesa cattolica, la quale in casa sua fa un po' quel che le pare; immaginate se il papa cominciasse a spiegare agli ebrei chi merita di essere definito Giusto tra le nazioni. Scrivi cose del genere e poi ti lamenti che il dialogo interreligioso non sta funzionando, non so, hai anche consigli su come somministrare la comunione? Tra l'altro di solito il processo di canonizzazione non segue i ghiribizzi di un papa che si considera infallibile: per arrivarci servono due inchieste, bisogna chiarire un sacco di cose, occorrono miracoli documentati... questo tipo di obiezioni, io le sollevai spontaneamente appena lessi l'intervento dell'ADL. Una reazione istintiva a un approccio altrettanto istintivo: come vi permettete di spiegare voi come funzioniamo noi? E tuttavia.

E tuttavia noi siamo sicuri di sapere come funzioniamo? Perché se uno dà un'occhiata al processo bisogna ammettere che c'è qualcosa che non va, nella canonizzazione di Edith Stein. Ad esempio mancano i miracoli in vita: dovrebbero essere obbligatori, eppure non risultano. Scrivere un trattato sull'empatia in tre volumi come tesi di dottorato non vale (e del resto non glielo pubblicarono). Anche la lettera del 1933, per quanto possa sorprendere per la lucidità, non è esattamente un testo profetico: al tempo Hitler aveva già svelato i propri obiettivi e i propri metodi.  

Ma soprattutto c'è la questione del martirio, che dimostra quanto Giovanni Paolo II ne abbia esteso il concetto. Il martire, per definizione, muore per difendere la propria fede. Questo creava un problema coi cristiani caduti nei lager: definirli "martiri" significava implicare che fossero stati internati e uccisi a causa della loro fede. Ma i nazisti non uccidevano i cristiani "in quanto" cristiani. Se ne rendeva conto benissimo Paolo VI, che quando beatificò Massimiliano Kolbe lo definì un "martire della carità", e non della fede: Kolbe aveva scambiato la sua vita con quella di un altro prigioniero, finendo nella cella della morte al suo posto: un atto eroico, ma la fede non c'entrava. Quando però Giovanni Paolo portò a termine il processo di beatificazione, Kolbe fu definito un martire tout court; e la stessa cosa avvenne con Edith Stein. Che questo potesse risultare provocatorio lo dovevano avere immaginato anche in Vaticano, visto che nell'occasione fu prodotta una giustificazione storicamente accettabile, ma un po' forzata: l'arresto della Stein avvenne in seguito a un pronunciamento molto severo della conferenza episcopale olandese contro l'antisemitismo delle forze d'occupazione tedesche. I vescovi olandesi rimproverarono i nazisti; i nazisti reagirono includendo nelle liste dei deportati gli ebrei convertiti, che fino a quel momento erano stati risparmiati. 

In questo senso Edith Stein, e gli altri cattolici olandesi di origine ebraica, furono realmente sacrificati affinché la Chiesa olandese non mancasse al suo dovere di testimonianza; questa perlomeno è la storia come ha deciso di raccontarsela il Vaticano. All'ADL non andava bene, ma c'è sempre questo problema del gioco degli specchi. I portavoce dell'ADL davano per scontato che i rappresentanti della Chiesa cattolica debbano sentirsi colpevoli per la Shoah. I nazisti erano quasi tutti cristiani; alcuni addirittura cattolici; il clero fu un larga parte connivente, e anche quando espresse un dissenso (come nel caso del clero olandese), non lo espresse con abbastanza forza, dato che non funzionò. In ogni caso l'antisemitismo razziale dei nazisti si era innestato sull'antisemitismo religioso che predicatori cattolici avevano promulgato sin dalla tarda antichità, per cui perché non si cospargono semplicemente di cenere e non si limitano a praticare solenni atti di contrizione, invece di cercare di mettere le loro bandiere e le loro croci in luoghi che dovrebbero essere consacrati alla memoria dello sterminio ebraico? Addirittura in una struttura di Auschwitz, un vecchio magazzino di Zyklon B, c'è un convento di carmelitane scalze, dovevano proprio installarsi lì? Perché i cattolici non si limitano a confessare le loro colpe, perché addirittura osano sostituire le loro vittime alle nostre, o chiamare "martire" una ebrea imprigionata e uccisa in quanto ebrea?

Per il solito vecchio equivoco. La gente crede che il cattolicesimo sia la religione della colpa: fuochino, ma non è proprio così. Il cattolicesimo è la religione del perdono. La confessione a questo serve: non a crogiolarsi in un senso di colpa inestricabile, ma a farselo passare con rapidità ed efficacia. Forse non ha torto chi ritiene che la Shoah debba rimanere una ferita aperta in tutte le coscienze; che certe colpe non possano essere espiate e debbano essere periodicamente rimproverate. Non è sbagliato pensarla così, ma i cattolici sono abituati a pensarla in un altro modo. I peccati per loro non sono rovelli infiniti, ma accidenti quantificabili, parcellizzabili, e soprattutto eliminabili. Non sono condizioni o situazioni, ma azioni (o omissioni) verificatesi in un determinato spazio e tempo; se in un altro spazio e in un altro tempo è intercorso un sincero pentimento, nonché una volontà di rimediare, per quanto possibile, al danno inferto, il sacerdote ti assolve, ed è finita. Finita, capito? 

La Chiesa non si sente più in colpa per la Shoah; può ammettere determinate responsabilità storiche; se insistete, se può aiutare il dialogo interreligioso, la Chiesa può anche mettersi a piangere come una prefica a intervalli prestabiliti: ma è solo una cerimonia, non che le cerimonie non abbiano la loro importanza. Ma insomma la Chiesa non si sente in colpa né per la Shoah né per qualsiasi altra cosa abbia fatto, in generale; è un'organizzazione millenaria nata proprio per gestire questo problema del senso di colpa in un certo modo che non a tutti piace, ad esempio a Martin Lutero non piaceva, lo stesso Agostino di Ippona probabilmente avrebbe disapprovato, e anche le perplessità di molti ebrei sono comprensibili, ma insomma funziona così: di fronte a un'enorme tragedia storica, al massacro di milioni di persone, la Chiesa si pone il problema: cosa possiamo trarne di buono? Qualcuno dei nostri si è comportato male? Amen, se la vedranno con Dio, noi dimentichiamoli. Qualcuno dei nostri si è sacrificato in modo eroico? Ecco, ricordiamoci di loro, facciamo in modo che il loro esempio possa ispirare i nostri discendenti perché poi quel che conta è il futuro, il passato per quanto increscioso è... passato. 


Per gli ebrei – almeno per alcuni – la Shoah non può passare, sarebbe blasfemo pretenderlo. Nulla può più essere come prima, e nulla potrà cambiare il modo in cui è andata. Gli ebrei sono le vittime e i discendenti delle vittime; il resto del mondo deve prendere atto di essere stato carnefice o complice dei carnefici. Questo è quello che ho capito io, ma forse sono vittima di quel famoso gioco di specchi. Quel che posso dire è che i cattolici non ragionano così. Per loro la Shoah è una pagina di storia che senza dubbio ci interpella e ci domanda: da che parte stiamo? E noi siamo liberi di scegliere, ecco, questa cosa che i cattolici possano 'scegliere' di stare dalla parte delle vittime, per i portavoce dell'ADL, era scandaloso. "Anche nell'inferno di Auschwitz", scrivono, "Kolbe, in quanto cristiano, aveva possibilità di compiere delle scelte che gli ebrei non hanno mai avuto. L'Olocausto per gli ebrei consisteva nell'assenza della possibilità di scegliere" (The Holocaust for Jews was about the absence of choice).  Questo è appunto il senso della santità, sin dalle prime storie di martiri; dal vangelo stesso, in cui Gesù sceglie di morire sulla croce, e ancora prima, dagli ultimi testi dell'Antico Testamento in cui ci sono ebrei che muoiono già per testimoniare la loro fede e si aspettano già una ricompensa oltre la morte.  La scelta può costarci la vita, ma ci riscatta dai nostri errori: i cattolici la pensano così, non dico che si debba essere d'accordo, ma è utile capire come la pensano. Edith Stein poteva scegliere di essere cattolica – e lo scelse; non poteva scegliere di smettere di essere ebrea, e ne fu uccisa.

Io credo che i portavoce dell'ADL non avessero tutti i torti, quando accusavano le gerarchie cattoliche di puntare a una "cristianizzazione dell'Olocausto". Come ogni ideologia, il cattolicesimo macina Storia e cerca di produrre giustificazioni. C'è una frase, nella loro argomentazione, che mi mise istintivamente a disagio: "Noi, in quanto ebrei, sentiamo di aver perso Edith Stein due volte" [la prima con la sua conversione, la seconda con la canonizzazione]. Si può perdere soltanto qualcosa che si possedeva: in che modo qualcuno può reclamare di possedere Edith Stein? Potrei obiettare che la sua conversione fu una libera scelta, il punto di arrivo e ripartenza di un ben dettagliato percorso intellettuale: lo specchio mi risponde che non importano le scelte, la Stein era ebrea prima di poterlo scegliere, ed era ebrea dopo avere scelto diversamente, quando morì in una camera a gas insieme ad altre prigioniere ebree. Potrei ribattere che l'atto di nascita conta ben poco, che nella sua famiglia solo la madre aveva qualche dimestichezza con pratiche religiose che gli altri membri ignoravano, e che la conversione non fu nemmeno una conversione in senso proprio, visto che prima di rivolgersi al Dio dei cristiani, la Stein non ne adorava nessun altro; sin dall'adolescenza si era definita agnostica. Lo specchio mi ribatte che non importano le professioni di fede, né i riti; non è per questo che si moriva ad Auschwitz, certo, lo so: ma si moriva per il sangue. Lo specchio mi dice che Edith Stein è ebrea nel sangue e questo non lo accetto, questo è in pratica quello che pensavano i nazisti, accettarlo sarebbe un punto per loro: mi dispiace, posso capire, ma non sono d'accordo.
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Venite a prendervi il Perdono (ad Assisi)

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2 agosto: Perdono di Assisi

Ludmiła Pilecka, CC BY 3.0,
via Wikimedia Commons
Il due agosto è possibile fino a mezzanotte ottenere l'indulgenza plenaria per tutti i peccati: occorre essersi confessati in settimana, ricevere la comunione e visitare la Porziuncola, la chiesetta che San Francesco restaurò a valle di Assisi e che amò più di ogni altro tempio di Dio. Questa indulgenza la ottenne lo stesso Francesco, prima da Gesù Cristo, apparsogli durante un'intensa sessione di preghiere nella chiesetta, poi dal suo vicario papa Onorio III, a cui Gesù aveva invitato Francesco a rivolgersi perché nel cattolicesimo c'è tutta una filiera gerarchica da rispettare.

A Onorio, Francesco chiese espressamente un'indulgenza "senza obolo", cioè gratis, per i pellegrini che arrivavano alla Porziuncola; Onorio pur consapevole dell'enormità della richiesta ("Molto è ciò che chiedi, o Francesco") era pronto a concedergliela. Fu la Curia a obiettare: "farete scomparire l'Indulgenza della Terra Santa e ridurrete a nulla quella degli apostoli Pietro e Paolo, che sarà tenuta in nessun conto". Per "indulgenza della Terra Santa" si indicava quella concessa ai crociati, che combattevano sapendo che sarebbero andati in paradiso; mentre quella "degli apostoli" era alla base del turismo religioso a Roma, dove convergevano pellegrini da tutta l'Europa, una fonte di reddito cruciale per la Città santa. Insomma a inizio del secolo XIV l'aspetto economico della questione indulgenze è già chiarissimo: il Papa ne ha il monopolio, ma se ne concede troppe il prezzo crolla. La civiltà mercantilista comunale è ormai egemone, il cattolicesimo non sarà più lo stesso, ma Francesco è un santo e i santi servivano esattamente a questo: a intercedere, chiedere e praticare strappi alla regola. 
Non potendo ritirare la promessa fatta, Onorio decide di limitarla a un giorno solo, e questo giorno sarebbe oggi (in realtà l'indulgenza scatta dal mezzogiorno del primo agosto, insomma 36 ore).

Io devo confessare un certo scetticismo. 

Non tanto sulla questione delle indulgenze – è teologia, non è di mia pertinenza – ma non credo che le cose siano andate così come le raccontano ad Assisi. In effetti, chi è che le racconta? Tutto si basa su un documento noto come Diploma di Tebaldo, emanato nel 1310 da questo Tebaldo che oltre a essere un francescano era anche il vescovo di Assisi, e aveva quindi tutto l'interesse a comprovare e a regolarizzare il flusso di pellegrini verso la chiesetta, che stava diventando molto importante (tanto che nel 1569 renderà necessaria la costruzione di Santa Maria degli Angeli, una grande cattedrale che contenga e conservi la piccola chiesa, il paradosso francescano in architettura). 

Quando compone il diploma, Tebaldo si trova già a obiettare agli scettici ("a motivo della maldicenza di alcuni detrattori che, animati dallo zelo dell’invidia o forse dell’ignoranza, con facce di bronzo parlano
contro l’Indulgenza di Santa Maria degli Angeli presso Assisi"). Francesco è morto 80 anni prima: un lasso di tempo in cui vita morte e miracoli sono stati scritti e riscritti così spesso che nel 1266 i francescani avevano deciso di mettere ordine, fissare una biografia ufficiale (quella di Bonaventura) e... distruggere tutte le altre. Eppure né nella Legenda di Bonaventura, né nelle precedenti, si accenna a un episodio tanto importante, in cui Francesco avrebbe conferito sia con Gesù Cristo sia con un papa. L'episodio messo per iscritto da Tebaldo sembra in effetti modellato su quello più famoso di Francesco che visita papa Innocenzo per chiedergli il permesso di fondare l'ordine, con qualche aggiunta di sapore già romanzesco (la promessa che una volta fatta non può essere ritirata, un topos dei romanzi cavallereschi) e un forte indizio della sua non autenticità. È lo stesso Tebaldo ad ammettere che quello che sta scrivendo non risulta in nessun documento antecedente, per cui non resta che nascondere il problema dietro la "semplicità" di Francesco, che una volta ottenuto il permesso papale, non avrebbe voluto chiedere un documento scritto, malgrado la protesta del Papa stesso: 
Mentre il Beato Francesco, fatto l'inchino, usciva dal palazzo, il papa, vedendolo allontanarsi, chiamandolo disse: "O semplicione dove vai? Quale prova porti tu di tale Indulgenza?". E il Beato Francesco rispose: "Per me è sufficiente la vostra parola. Se è opera di Dio, tocca a Lui renderla manifesta. Di tale Indulgenza non voglio altro istrumento, ma solo che la Vergine Maria sia la carta, Cristo sia il notaio e gli Angeli siano i testimoni".
Quindi per più di ottant'anni il Perdono d'Assisi sarebbe stato praticato senza testimonianze scritte. Potrebbe essere anche andata così, ma c'è da aggiungere che in quegli anni la pratica delle indulgenze non era così formalizzata come sarebbe successo in seguito. Viceversa Tebaldo scrive il suo Diploma in un periodo in cui il fenomeno delle indulgenze ufficiali ha conosciuto un vero e proprio boom, localizzabile nell'Italia centrale. 

È tutto iniziato nel 1294, durante il fulmineo pontificato di quella scheggia impazzita che era Celestino V, ovvero il monaco Pier da Morrone. Per festeggiare la sua improbabile elezione, Celestino aveva emesso la Bolla del Perdono, la quale stabiliva che chiunque si fosse recato presso la sua prediletta basilica di Collemaggio nella festa di San Giovanni Decollato (29 agosto) avrebbe ottenuto la sanatoria su tutti i peccati commessi dal battesimo in poi. Nel poco tempo in cui era rimasto papa, Celestino aveva combinato non pochi disastri organizzativi, ma questa idea di spalancare all'improvviso i cancelli di San Pietro doveva essere piaciuta, perché il suo successore Bonifacio VIII la fece propria quando in occasione del 1300esimo compleanno di Gesù lanciò il primo Giubileo, promettendo un'indulgenza plenaria a chiunque visitava Roma entro l'anno. Può darsi che questi due episodi (perdonanza a Collemaggio e Giubileo a Roma) abbia stimolato i francescani a rendere ufficiale quella che fino al 1300 era soltanto una tradizione orale, collegata alla figura di Francesco ma senza nessun aggancio effettivo alla sua biografia.

Nei secoli il Perdono d'Assisi è stato più volte ribadito dai pontefici, con documenti ufficiali che a dire il vero creano un po' di confusione, anche perché in certi periodi probabilmente la preoccupazione era quella di evitare che la piccola Porziuncola venisse invasa da migliaia di fedeli: da cui il proposito di estendere il Perdono ad altre chiese, e (per chi proprio vuole andare alla Porziuncola) a tutti i giorni del calendario. Oggi il 2 agosto rimane comunque un bollino nero per i turisti ad Assisi. 
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Priscilla e Aquila, i santi del futuro

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 8 luglio: Aquila e Priscilla (I secolo), collaboratori di Paolo apostolo


Vi tengo d'occhio, uomini

Aquila e Priscilla sono due santi con un grande potenziale ancora non sfruttato, secondo me. Per cominciare sono una coppia: marito e moglie. Ci sono altre coppie tra i santi, ma non così tante e non in una posizione così importante. Nei sei passi in cui sono nominati nel Nuovo Testamento (e sono tanti: certi apostoli godono di minore visibilità) compaiono sempre assieme, e da secoli gli studiosi si lambiccano per capire come mai di solito Aquila, il marito, venga nominato dopo di Priscilla: quel che è chiaro è che qualsiasi cosa decidono di fare, la decidono assieme e la fanno assieme. E fanno cose importantissime: ospitano Paolo di Tarso, forse si fanno convertire da lui, gli danno un lavoro, gli salvano, per sua ammissione, "la testa". Sono una coppia di imprenditori e viaggiano molto, per affari o perché questa cosa che ancora non si chiama cristianesimo è molto instabile e a volte li costringe a cambiare città: quando Paolo li incontra, sono appena stati espulsi da Roma per decreto imperiale, in quanto giudei. Ma probabilmente non sono entrambi giudei: lo è Aquila, ma Priscilla ha un nome veramente molto romano (forse è un vezzeggiativo: Paolo nelle lettere la chiama "Prisca"). Sono quindi la prima coppia multietnica del Nuovo Testamento, se non l'unica, e dimostrano anche in questo un dinamismo sociale che non sospetteremmo, se non avessimo appunto il Nuovo Testamento, uno dei pochi documenti a parlarci di questa classe media di professionisti completamente ignorata dalla storiografia ufficiale e snobbata dalla letteratura.

Paolo li incontra dopo il non incoraggiante soggiorno ad Atene, intorno al 50 dC. In Atti 18,2 Luca racconta che a Corinto (uno dei porti più importanti della Grecia), Paolo si imbatte in Aquila, "un giudeo oriundo del Ponto, giunto dall'Italia insieme con sua moglie Priscilla, perché Claudio aveva ordinato a tutti i Giudei di lasciare Roma". Questo decreto di espulsione è citato anche da una fonte latina: la Vita di Claudio, scritta da Svetonio più o meno nel 112. Per una coincidenza singolare, le prime due tracce di cristianesimo nei testi latini compaiono tutte in una manciata di anni proprio intorno al 112: il carteggio tra Traiano e Plinio il Giovane che attesta la presenza di cristiani proprio nel Ponto, e il famoso paragrafo 44 del libro XV degli Annales di Tacito di cui abbiamo parlato pochi giorni fa, che dimostrerebbe la presenza di una importante comunità cristiana a Roma già nel 64 – se non fosse stato interpolato, il che non si può escludere. Svetonio è uno storico assai meno attendibile di Tacito, ma siccome a differenza di quest'ultimo rimase ben letto e ricopiato per tutto il Medioevo, è anche meno interpolabile. Sull'argomento, scrive semplicemente che Claudio espulse da Roma i giudei "continuamente tumultuanti, istigati da Cresto" ("Iudaeos, impulsore Chresto, assidue tumultuantes Roma expulit"). Potrebbero insomma già essere cristiani (ma Chrestus è un nome greco non infrequente al tempo), e dimostrerebbero un'attitudine riottosa e radicale che si adatta poco con l'etica paolina. Non è insomma chiaro se Aquila e Priscilla fossero già cristiani prima di incontrare Paolo a Corinto, o se li abbia convertiti lui. In ogni caso Paolo "si unì a loro" che facevano il suo stesso mestiere: fabbricanti di tende. Perché rispetto agli apostoli rimasti a Gerusalemme, che danno la sensazione di vivere soprattutto delle collette puntualmente sollecitate, Paolo ci tiene a ricordare che lui continua a lavorare. Il tempo libero lo passa invece a convertire (per lo più i pagani), e litigare (per lo più coi Giudei), finché questi ultimi non lo denunciano presso un magistrato che, come al solito, non capisce il punto del problema: stavolta si chiama Gallione, fa il proconsole e lo dice chiaro e tondo: "Se sono questioni di parole o di nomi o della vostra legge, vedetevela voi; io non voglio essere giudice di queste faccende". 

Poco dopo Paolo lascia Corinto, dove ormai c'è una Chiesa ben avviata, e si lascia accompagnare a Efeso da Aquila e Priscilla, anzi Priscilla e Aquila (che fosse lei ad avere l'ultima parola? Oppure può darsi che il suo nome, in quanto latino, desse più lustro all'impresa famigliare). I due potrebbero aver accompagnato Paolo durante un viaggio di lavoro, o essere due apostoli in missione per conto di Dio: conoscendo Paolo, è possibile che cercassero di mandare avanti sia il commercio che l'apostolato. Prova ne è il modo in cui a Efeso gestiscono il caso Apollo. Paolo a quel punto non è più in città, ma è diretto verso Gerusalemme e poi Antiochia. A Efeso arriva un nuovo predicatore, Apollo di Alessandria, che "parlava e insegnava esattamente ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni". Senza perder tempo a chiedere istruzioni al loro capo, Priscilla e Aquila lo prendono in disparte e gli espongono "con maggiore accuratezza la via di Dio". Benché il passo suggerisca che Apollo abbia accettato le correzioni di P&A, in seguito Paolo si imbatterà a Efeso in cristiani che "conoscono solo il battesimo di Giovanni" (19,2) e a Corinto in cristiani che si considerano "di Apollo" (prima lettera ai Corinti 1,12).

Dopo il soggiorno a Efeso, P&A sarebbero tornati a Roma: altrimenti non avrebbe senso che Paolo dedicasse a loro uno dei suoi saluti più affettuosi, nella Lettera ai Romani (16,3-4): "Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù, i quali hanno rischiato la vita per me; a loro non io soltanto sono grato, ma anche tutte le chiese delle nazioni". Paolo però li saluta anche nella Seconda Lettera a Timoteo, il che fa supporre un'ulteriore partenza da Roma (forse per evitare la persecuzione neroniana?) e un ulteriore soggiorno a Efeso. Dopodiché di loro non sappiamo più nulla, ma trattandosi di personaggi così ben attestati nelle Scritture ci si aspetterebbe di ritrovarli vittime di un sadico imperatore in qualche truculenta Passio tardoantica o altomedievale – invece niente. A volte Priscilla viene identificata con la martire romana dell'omonima catacomba, il che non sarebbe nemmeno così tirato per i capelli, visto che Priscilla una o due volte a Roma c'è stata anche secondo il Nuovo Testamento. Ma anche su questa cosa gli agiografi sembra che non si siano intestarditi più di tanto. È come se P&A non avessero trovato ancora il loro momento di gloria.

Potrebbe essere questo. Insomma abbiamo una coppia che gira per il mondo e dà un tetto e un salario a Paolo – non so se mi sono spiegato, Paolo di Tarso, quello che scrive che le donne devono stare sottomesse ai mariti, e mentre affermava queste cose è probabile che la padrona di casa facesse il buono e il cattivo tempo. In questi anni di crisi delle vocazioni, la Chiesa sta puntando sempre più sulle famiglie: non è nemmeno una strategia, è una scelta obbligata: il celibato funziona sempre meno. Abolirlo è molto difficile (non è che un papa possa dire ehi, per un millennio e più ci siamo sbagliati): ma si può molto più agevolmente trasferire parte delle funzioni pastorali ai diaconi, che da sempre possono avere f