Dio è perfetto, quindi c'è

Permalink
21 aprile – Sant’Anselmo d’Aosta, dottore della Chiesa (1033-1109).

[2012] C’è un cosmonauta russo, uno dei primi, che è appena tornato dallo spazio. Per prima cosa lo portano da Krusciov, che gli chiede: “Compagno, tu che sei stato lassù, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c’è? Lo hai visto?” 

E il cosmonauta: “Compagno Segretario Krusciov, a te posso dirlo: sì, l’ho visto”. “Compagno, quello che tu dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello in cui crediamo”. “Compagno segretario, lo so, ma insomma, io l’ho visto”. “Va bene, lo hai visto, ma giura che non lo dirai a nessuno”. “Certo compagno, lo giuro”. 

Qualche tempo dopo, profittando del clima di generale distensione tra le due superpotenze, lo stesso cosmonauta viene invitato al Vaticano, dove ha un colloquio privato con il pontefice. Il Papa dunque gli mette subito un braccio dietro la spalla, e in un russo un po’ scolastico gli dice: “Figliolo, tu che sei stato nello spazio, beato te, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c’è? Lo hai visto?”

E il cosmonauta: “Santo Padre, a voi posso dirlo: no, non l’ho visto, Dio non c’è”.
“Figliolo, quello che dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello in cui crediamo...”
“E insomma Padre, cosa volete che vi dica: se non l’ho visto non l’ho visto”.
“Giura almeno che non lo dirai a nessuno”.
“Giuro”.

Non so chi sia l’inventore di questa storiella. Ricordo che la lessi su un libro di barzellette che circolava alle elementari, e non la capii: a volte è meglio così, la memoria si attacca meglio alle cose che non riesce a spiegarsi immediatamente. In seguito mi sono convinto che fosse un apologo famoso e l’ho cercato su internet, senza successo: così lo metto qui, alla voce Anselmo d’Aosta, che non è che c’entri molto, eppure.

La barzelletta mi piace per tanti motivi. È profondamente ambigua: dipinge un certo tipo di atei come una setta di credenti, anche loro con un sistema di dogmi che se ne frega delle eventuali prove empiriche. Però dice anche il contrario: i credenti sono come i materialisti più smaliziati, se ne fottono della verità. Ormai ci hanno montato un carrozzone intorno che deve andare avanti comunque, che Dio esista o no. Mi piace il fatto che il cosmonauta racconti due versioni, senza che ci sia modo di capire quale sia la vera: potrebbe anche avere mentito a Krusciov, e potrebbe avere detto la verità al Papa, per il gusto di deludere entrambi.

Però la barzelletta piace soltanto a me, non la racconta più nessuno da anni; a renderla datata è il riferimento alle prime missioni spaziali sovietiche. A nessuno verrebbe in mente di collegare un giro in orbita in una minuscola capsula alla ricerca di prove sull’esistenza di Dio. Peccheremmo di un'ingenuità non molto diversa da quella di Anselmo bambino, il quale, crescendo ad Aosta, aveva ipotizzato che Dio si trovasse sulla vetta di qualche montagna. Ma poi quelle montagne le aveva pure passate, era stato abate a Le Bec e arcivescovo a Canterbury; e noi abbiamo viaggiato ben più di lui. L’universo che abbiamo in mente, da cinquant’anni a questa parte, è infinitamente più vasto: Dio, se c’è, è un po’ più in là. Oppure, mi raccontavano a catechismo, Dio semplicemente non va cercato nello spazio astrale, Dio è “dentro di noi”, curiosa espressione che mi lasciava interdetto: se Dio fosse dentro di noi dovrebbe essere più piccolo. Ma Dio non può essere più piccolo di noi, vero Anselmo? 

Un altro ricordo che ho delle elementari è un certo tipo di rissa verbale, abbastanza codificata, che si utilizzava molto nei primi anni, prima che prendesse il sopravvento la forma di comunicazione adulta, il turpiloquio. L’impossibilità di ricorrere a un patrimonio condiviso e comprensibile di parolacce stimolava la nostra creatività e ci costringeva a concepire combattimenti virtuali violentissimi, ancorché puramente verbali: per esempio se io dicevo “e io ti picchio con un bastone” tu mi rispondevi “e io allora ti picchio col martello”, il che mi dava l’aggancio per rispondere “e io ti picchio con due martelli”, ma a questo punto il dato numerico creava un’infinita possibilità di rilanci… senonché tu chiudevi la partita con la formula fissa “e io sempre uno più di te”. Molto prima che la maestra di matematica ci iniziasse al concetto di infinito, l’esigenza insopprimibile di insultarci ci aveva già portato a scoprire l’Infinito Più Uno, il sempre-uno-più-di-x. Non lo sapevamo, magari ci stavamo soltanto litigando per l'accesso a un pennarello, ma in quel momento avevamo evocato a giudice della nostra contesa il Dio del Proslogion di Anselmo, “Colui di cui non si può pensare il maggiore”.

Il ragionamento è abbastanza famoso: se penso a Dio come all’essere perfetto, esso non può esistere soltanto nel mio pensiero, perché non sarebbe più perfetto (sarebbe infatti più piccolo di me, contenuto nel mio cervellino). No: se è perfetto deve esistere al di fuori: quindi Dio c’è. Facile.

Un po’ troppo facile, effettivamente, e lo stesso Anselmo come pensatore si era dimostrato capace di ragionamenti ben più sottili. Ma qui si trattava di dover dimostrare l’esistenza di Dio a priori, senza osservazioni empiriche, proprio perché Dio viene prima di ogni altra cosa.

È questo, soprattutto, ad allontanarci da Anselmo. Almeno il cosmonauta della barzelletta aveva dovuto farsi sparare in orbita, guardarsi un po’ in giro, scansare la teiera di Russel. Per fare un razzo in grado di sottrarsi alla gravità ci sono voluti tre-quattro secoli di osservazioni, esperimenti, teorie, da Newton a Von Braun. Per capire come funziona il corpo umano abbiamo dovuto sezionarlo, osservarlo, inventare il microscopio, immaginare il dna a doppia elica, sperimentare muffe e altri farmaci, e tante cose ancora ci sfuggono. Anche solo per scoprire l’America abbiamo dovuto mandare centinaia di marinai, un sacco di navi, un sacco di soldi. E invece per scoprire l’esistenza di Dio bastava concentrarsi e ragionare – magari Anselmo non ha neanche buttato giù uno schema, uno schizzo, nel medioevo non credo che si facessero gli scarabocchi mentre ci si concentrava, con quel che veniva la pergamena all’oncia. Niente cannocchiali, niente microscopi, neanche un po’ di inchiostro, niente. Insomma, savio Anselmo, possibile che tu con il solo ausilio del tuo cervello abbia trovato dentro di te qualcosa che sta fuori? Non ti accorgi della contraddizione che non lo consente? Non hai letto Gaunilone?

Gaunilone era un monaco delle parti di Tours, famoso per aver attaccato Anselmo in un breve opuscolo dal nome bellissimo, Pro Insipiente (“Dalla parte dello scemo”). L’“insipiente”, lo scemo del titolo, è lo Stolto del Salmo 14, che dice in cuore suo: "Non c'è Dio". Anselmo aveva cercato di confutarlo a posteriori e a priori; Gaunilone al contrario non riteneva necessarie confutazioni: in Dio bisogna crederci e basta: che senso avrebbe, un atto di fede, se non facesse che confermare quello che già ci dice la ragione? Di Gaunilone sappiamo veramente poco, ma – potenza dei nomi propri – io me lo sono sempre immaginato come un monaco gaudente, gaio, garrulo, gargantuesco, anche belloccio, perché no, un ganimede, sempre col calice in mano, mentre scuote la testa e dice ad Anselmo: ma che ci credi sul serio, che basta pensare a una cosa perché essa esista? Allora io adesso mi metto a pensare furiosamente a un’isola ricca di ogni ben di Dio, e questa isola – puf – si mette a esistere? Ma Anselmo non si smonta, anzi aveva già previsto questa obiezione. Gaunilone, un conto è un’isola, un conto è Dio. Un’isola può essere un luogo pieno di virtù, con palme, bambù, eccetera... ma non è un luogo perfettissimo. Solo Dio è perfettissimo. E siccome è perfettissimo, esiste: se non esistesse, sarebbe meno che perfettissimo, vedi? Più facile di così.

La querelle tra Gaunilone e Anselmo è andata avanti per alcuni secoli, più o meno fino a Kant (gauniloniano di ferro) e Hegel (anselmista convinto). Alla fine della fiera è la solita eterna lotta tra tolemaici e copernicani: se pensi che dentro di te ci sia un’idea di Dio, un barlume di Dio, alla fine l’universo è ancora una cosa che gira intorno a te (con Dio motore immobile al di fuori). Se tutto quello che è razionale è reale, immagina pure un’isola, da qualche parte ci sarà. Nel frattempo i gauniloni hanno di che brindare: la scienza continua a ingrandire l’universo e a rimpicciolirne i suoi abitanti. Anselmo, per dire, non conosceva i batteri (e anche Hegel ne aveva un’idea assai vaga). Noi sappiamo di essere molto meno che un batterio davanti a un eventuale Dio: chissà che idee si fa il batterio di noi, ma decisamente noi esistiamo al di là delle sue idee batteriche su di noi. Però gli anselmiani non si rassegnano. Se esistono infiniti universi, esisterà anche quello con l’isola esatta precisa immaginata da Gaunilone. E quello in cui ti ho spaccato la testa col bastone.

“E in un altro universo io te l’ho spaccata col martello”.
“E in un altro io te l’ho spaccata con due martelli”.
“E io sempre uno più di te!”
“Ah, qui ti volevo! Pensi di avere esaurito gli universi? E allora senti questa: sempre due più di te!”
“E io sempre tre più di te”.
“E io sempre un miliardo più di te”.
“E io sempre un miliardo di miliardi più di te”.
“E io sempre un infinito più di…. eHI! Lo hai visto? Che cos’è stato?”
“Non so, sembrava un fulmine”.
“All’inizio. Ma poi è diventato piccolo piccolo”.
“Una scintilla”.
“Una lucciola”.
“Le lucciole non esistono”.
“Sì esistono una volta le ho viste”.
“Ma valà giura”.
“Giuro una volta che sono andato a rane nella burana con mio fratello”.
“Non ci credo che hai preso le rane”.
“No ma ho visto le lucciole”.
“Magari in un universo quella lucciola è Dio”
“Magari in questo universo”.
“Giura di non dirlo a nessuno”.
Comments (3)

I falsi e i veri lemming

Permalink

Non so quanto c'entri con quanto detto fin qui, ma invecchiando mi scopro sempre più determinista genetico. Si tratta a dire il vero di una tendenza con cui combatto sin da quando sono cosciente (credo di averlo scritto all'inizio di questo sito web): io tra gene e ambiente sono uno che ha deciso di tifare ambiente non perché sia convinto che il gene sia meno importante, anzi il contrario; è solo che sul gene mi rifiuto di intervenire, il Novecento mi sembra un monito significativo in tal senso, e quindi se voglio modificare la società non mi resta che intervenire sull'ambiente - ma con gli anni si ingrossa il dubbio che più che una scelta sia un ripiego. Anche la paternità avrà avuto il suo peso: a un certo punto non ci puoi fare niente, vedi i tuoi geni che se ne vanno in giro e per quanto cerchi di evitar loro tutta una serie di guai che a questo punto indovini benissimo, ti rendi conto che non ci puoi far niente, è come aver caricato un giocattolo a molla, ma sto divagando.


Invecchiando divento sempre più darwiniano, come gli "scienziati" dei giornali di quando ero bambino che ogni settimana scoprivano il gene di qualcosa di diverso (il che mi innervosiva immensamente): il gene della fantasia, il gene dell'originalità, a un certo punto scoprirono pure il gene dell'omosessualità, il che mi perplesse molto perché non capivo come potesse diventare dominante (in seguito forse ho capito). Adesso che queste cose mi sembra vadano molto meno di moda, sono io che invece continuo a osservare i miei simili e fantasticare continuamente di vantaggi evolutivi. Vedo un falò: come quando ero bambino, il fuoco mi ipnotizza, potrei passare ore a guardarlo. Penso a quanto fu fantastico a un certo punto trovarsi un camino in casa, imparare ad accenderlo, rischiare la vita centinaia di volte, puzzare di fumo, scottarsi la lingua con le caldarroste, ora so che nel frattempo inquinavamo l'ambiente più che con il turbodiesel, ma poi crescendo vedevo i miei compagni di scoutismo che non avevano un camino in casa restare ipnotizzati davanti allo stesso sortilegio nel quale io ormai mi destreggiavo, mentre loro rischiavano di bruciarsi le ali come insetti intorno a una lampadina. Ma non faccio in tempo a formulare il ricordo che sto già pensando al vantaggio evolutivo che premiò i miei antenati che invece di scappare davanti a un tronco colpito da un fulmine ebbero la pazza idea di restare nei pressi e cercare di capire come funzionava, folli! chissà quanti ne morirono, e malissimo! ma poi venne qualche glaciazione e alla fine chi sopravvisse furono proprio i folli piromani, che poi siamo noi, chi più chi meno. E così via. Una volta penso al fuoco, un altra volta al rumore, in generale a qualsiasi cosa apparentemente fastidiosa e pericolosa ma in sostanza vitale, che risvegli in noi sia la paura, sia il desiderio di sopraffarla. 

A volte penso ai lemming: e anch'io non penso a quelli veri, ma a quelli che a un certo punto l'uomo si è inventato, quelli che decidono di sterminarsi. Chiunque abbia formulato la leggenda, è chiaro che aveva in mente più i suoi simili che qualche roditore dei ghiacci. Stava cercando un modo per descrivere le psicosi collettive, crociate dei fanciulli, le guerre inutili (cioè tutte, viste dalla debita distanza), tutte quelle situazioni in cui una massa di persone sembra volersi annientare e c'è sempre un metodo, nella loro follia: c'è sempre la convinzione di rendere al resto dell'umanità qualcosa di utile. Tra le tante leggende che serpeggiano nel sottobosco dei noVax, una delle più rivelatrici mi sembra quella che vede nel vaccino un espediente creato da Bill Gates, il quale, dopo aver calcolato che l'umanità deve ridursi del 10%, ha prima introdotto il virus per spaventarci, e poi il finto vaccino che opererà questa demoniaca riduzione. (Prevedo l'obiezione: ma Bill non poteva semplicemente ammazzarci con un virus, invece di tutta questa manfrina? Probabilmente all'inizio la leggenda non prevedeva il vaccino, e poi si è adattata alla situazione). 

La leggenda suona simile a quelle fiorite in ambito sciachimista (le scie chimiche sarebbero parte di un piano per ridurre la fertilità). Sono tutti spettri malthusiani e c'è da domandarsi se non siano persino ottimisti: magari bastasse ridurre la popolazione del 10%, magari bastasse spargere un po' di bromuro per risolvere la sovrappopolazione e il surriscaldamento. Ma quel che mi ipnotizza di queste fantasie, come il fuoco quand'ero bambino, è l'inferno interiore che rivelano: non è Bill Gates che vuole ridurre la popolazione, sono loro che inconsapevolmente ci stanno provando. Sono gli apostoli del Covid, che molti ancora non hanno preso ma non vedono l'ora e faranno tutto quello che possono per passarlo ai loro cari, ai colleghi, agli studenti. Quando ci fu il lockdown non sopportavano il lockdown, il che è comprensibile perché durò mesi: ma loro erano già a spasso a starnutire fuori dalla mascherina dopo due settimane. Quando arrivarono i vaccini, decisero immediatamente che erano sieri sperimentali non sperimentati abbastanza, e ora eccoli in piazza a intervalli regolari, inconsapevolmente decisi a creare almeno un focolaio in ogni città. Se davvero Bill Gates fosse il Thanos della leggenda, è loro che finanzierebbe e ispirerebbe: e qualcuno del resto li ispira davvero, lo si intravede nel modo in cui a raggiera condividono i loro slogan. Ma potrebbe anche non esserci nessun grande vecchio dietro, potrebbe essere l'istinto a guidarli verso i crepacci; la follia che apparentemente li contagia potrebbe essere un vantaggio evolutivo. 

Forse sopravviviamo come specie perché ogni tanto una parte di noi oscuramente avverte di aver saturato il proprio ambiente naturale e si autodistrugge. Forse il diluvio l'abbiamo causato noi, disboscando qualche altura di troppo; di certo la crisi del Trecento l'abbiamo causata noi (anche in quel caso sovrappopolazione e disboscamento, ancora prima che arrivasse la peste). Quando si può fare una guerra, la facciamo; ma in molti posti non si può fare più, causerebbe la mutua distruzione, e allora ritorniamo ad altri sistemi già testati e attestati, come la pestilenza. Ma se è quello che sta succedendo, che senso ha provare a ragionare coi noVax? Non solo il loro comportamento è istintivo, ma cosa ci sarebbe poi di sbagliato nel loro istinto? La scienza e la politica stanno cercando di salvare più umanità possibile, nel solito goffo modo, con le goffe equazioni utilitariste per cui la vita di due uomini dovrebbe essere meglio della vita di uno solo eccetera. I lemming inconsapevolmente intuiscono che l'umanità si salva in un altro modo: potando molti rami per salvare il fusto. La politica non saprebbe che rami potare, i regimi totalitaristi forse possono abbozzare un piano ma le democrazie non sono in grado di sostenere calcoli di questo genere, sono intelligenze fragili che vanno in crash al primo dilemma del trolley. I lemming non fanno calcoli, non cercano di salvare sé stessi o i loro congiunti (ovvero, proprio mentre credono di salvare sé stessi, si proiettano più direttamente nei crepacci). Il loro unico piano è scritto nei loro geni, come una bomba a tempo. Sì, qualcuno di loro è convinto di essere intelligente, alcuni sono intelligenti addirittura di mestiere e sono convinti di avere un sacco di argomenti per mandare i simili al massacro. Hanno studiato il Novecento e quindi si aspettano che si ripeta prima o poi, non necessariamente in farsa. Ma non sono i capibranco, raramente li vedi in testa a una colonna di roditori, insomma è inutile prendersela con loro. Sono meno intelligenti di quel che credono? In un certo senso sì. Non capiscono quello che stanno facendo? Non del tutto. Hanno torto a fare quello che stanno facendo? Non lo so, vedremo.

Comments (3)

Il futuro è sempre alle spalle

Permalink

Noi esseri umani non siamo progettati per capire il futuro che ci attende. Può anzi darsi che sia la cosa che ci riesce meno bene. Procediamo nel tempo come se camminassimo all'indietro (per rispolverare una vecchia allegoria): ogni passo è un rischio, ogni novità un ostacolo; quel poco che avevamo capito si allontana da noi man mano che andiamo avanti e però è anche l'unica cosa che ci fornisca indizi su quello che intanto ci si prepara alle spalle. Nessuna meraviglia che borbottiamo tutto il tempo, specie invecchiando, ma siamo onesti: c'è chi comincia prestissimo, c'è chi a sedici anni ha già nostalgia di situazioni precedenti che non ha vissuto e passerà il resto della carriera o dell'esistenza ad aspettare che tornino, o a maledire chi o cosa ne impedisce il ritorno. 

La Storia ci insegna soprattutto questo, un bel paradosso: che gli storici non sono oggettivi. Ora che ci penso fu proprio durante un corso monografico sui cronisti medievali (in un'aula inspiegabilmente affollata di matricole, a mezzogiorno) che mi appuntai la formula: laudatores temporis acti. Non c'era cronista che non cascasse nello stereotipo, spiegava il professore con quel ritmo placido che assecondava la mia propensione alla sonnolenza: anche se quel che hanno da raccontarci in concreto si riduce a un mezzo secolo di avvenimenti in una città, devono tutti partire da Adamo ed Eva, devono tutti adombrare un'età dell'oro universale rispetto a cui il presente, il loro presente che è il nostro medioevo, rappresenta invariabilmente un periodo di scandalosa decadenza dei costumi. Sarà poi vero? Onestamente non sono mai andato a controllare, magari nel frattempo i colleghi del professore hanno scoperto che tanti cronisti medievali non sono affatto laudatores temporis acti; in compenso mi sono messo a studiare altre cose e posso garantire che laudatores ce n'è dovunque, che siamo tutti laudatores. 

(Mi bastava davvero salire al primo piano del dipartimento di Italianistica, per trovarmi davanti un volantino in cui Pasolini salutava la fine di un'età autentica, adesso non mi ricordo più come la chiamasse, e l'inizio di un'altra età inautentica che neanche a farlo apposta coincideva con il mezzo del cammin della vita di Pasolini; e il volantino restava lì perché ce l'aveva messo il potente sindacato studentesco di Comunione e Liberazione, mica qualche libero pensatore antagonista e dissidente). 

Siamo tutti laudatores, non possiamo farne a meno: tutto quello che conosciamo intorno a noi è già passato, tutto quello che è nuovo fatichiamo a farlo rientrare nel quadro, e questa fatica dopo un po' diventa intollerabile e decidiamo che non è colpa nostra, ma del tempo che non si ferma e neanche ha la compiacenza di girare in tondo. Sono anch'io un laudator, cosa credete. Mando la prole al campeggio e non posso fare a meno di notare che quando ci andavo io, al campeggio, era una cosa più seria, quasi epica, i sacchi a pelo erano pesantissimi e arrotolarli una cosa faticosissima eccetera e in questo modo sono diventato un vero uomo. Si può diventare veri uomini in altri modi? Magari sì, ma l'unico di cui sono sicuro è quello in cui lo sono diventato io, prova ne è che sono qui. Torno a casa, mi annoio, apro quella commovente capsula temporale che è la Settimana Enigmistica, inspiegabile come non sia stata ancora dichiarata monumento nazionale e non si sia mobilitata un'autorità a impedirne qualsiasi ulteriore modifica. Cerco un enigma davvero difficile, qualcosa che mi dia angoscia come da ragazzino, non lo trovo; ne deduco che si stanno rammollendo anche i lettori della Settimana, che anche la redazione più refrattaria alle novità abbia deciso di annacquare la formula perché la gente sta diventando scema. E così via. 

Se non cedo del tutto a questo borbottio interiore, è perché proprio studiando Storia ho trovato qualche antidoto: ho scoperto che tutti i miei simili di ogni epoca borbottano e constatano la fine delle religioni, dei costumi, Agamben aggiungerebbe delle ideologie. Il che non significa, attenzione, che ogni tanto le religioni o le ideologie o civiltà non tramontino davvero: succede quasi continuamente, così non è difficile scoprire laudatores che ci hanno azzeccato, ma è quasi sempre una pura coincidenza: voglio dire che è abbastanza raro che il laudator riesca a mettere a fuoco consapevolmente i motivi di una crisi a cui assiste di persona. Di solito dà più l'impressione di capitare lì per caso: si aspettava la fine dei tempi e il Regno dei Cieli, invece crolla l'impero Romano, ci riflette un po' e decide che è quasi la stessa cosa. Gli storici questa cosa ormai l'hanno capita e si regolano di conseguenza: così come la luce delle stelle e dell'universo ci giunge un po' spostata sul rosso, le testimonianze del passato ci arrivano tutte un po' spostate sull'apocalittico, è una specie di costante storiografica cui bisogna fare la tara. Essa permane in tutto quello che diciamo pensiamo e scriviamo, il che non ci impedisce di dire pensare o scrivere cose intelligenti: ma se i posteri le troveranno intelligenti, sarà malgrado questa nostra propensione a vedere in tutto l'Apocalisse. Poi l'Apocalisse può benissimo arrivare, ma mai da dove uno se l'aspetta. Secondo Agamben e tanti suoi nuovi lettori, il Green Pass è l'anticamera di una nuova formula di regime totalitario. Esagera? Probabilmente, ma se la crisi climatica dopodomani conoscesse una brusca accelerazione, i governi nazionali potrebbero dover imporre con la forza ai cittadini razionamenti draconiani, e quel che scrive oggi Agamben non sembrerebbe più esagerato, anzi: qualcuno dirà che aveva visto lungo. A poco varrà far notare che era stato di spalle, il filosofo, per tutto il tempo (continua).

Comments (2)

Filosofi e altri roditori, 1

Permalink


Non che sia molto importante, non che possa cambiare più di tanto il senso del discorso, però nel suo ultimo comunicato Giorgio Agamben ha commesso un curioso lapsus: ci ha paragonato ai lemming (lui veramente scrive lemmings). Siccome siamo in tanti a leggere ormai (non siamo mai stati così tanti, e provenienti da milieu culturali tanto diversi) è stato tanto generoso da includere la definizione. "I lemmings (scrive) sono dei piccoli roditori, lunghi circa 15 centimetri, che vivono nelle tundre dell’Europa e dell’Asia settentrionali. Questa specie ha la particolarità di intraprendere improvvisamente senza alcun motivo apparente delle migrazioni collettive che terminano con un suicidio in massa nelle acque del mare". Agamben aggiunge che "l’enigma che questo comportamento ha posto agli zoologi è così singolare che essi, dopo aver tentato di fornire spiegazioni che si sono rivelate insufficienti, hanno preferito rimuoverlo".

Lemming, votati all'autosterminio, forse guidati da una pulsione di morte; zoologi che si pongono un enigma e poi lo rimuovono. Materiale potente per chi ha bisogno di metafore. C'è il piccolo problema, ecco, veramente piccolo, mi vergogno quasi di farlo notare, che è quasi tutto falso: i lemming non intraprendono "improvvisamente senza alcun motivo apparente delle migrazioni collettive che terminano con un suicidio di massa". Si tratta di una leggenda urbana così vecchia e così confutata che quando l'ho letta mi sono sentito in pena. E poi mi sono chiesto: ma come fa Agamben, persona di straordinaria cultura, a credere a una cosa del genere? 

Domanda mal posta; al massimo avrei dovuto chiedermi: come faccio io, persona dalla cultura molto meno straordinaria, a sapere che è una leggenda urbana? Di sicuro non sono in grado di confutarla di persona, di certo non sono andato nelle tundre a controllare: quindi da cosa deriva tutta questa mia sicumera? Bella domanda, in effetti non ne ho idea, non ricordo. So solo che da trent'anni ogni volta che sento parlare di lemming che si suicidano (non spesso), subito sento soggiungere che non è proprio così, che è una vecchia credenza che nasce da un comportamento dei lemming solo apparentemente irrazionale: essendo mammiferi infestanti, in un habitat poco generoso di risorse, ogni tanto si risolvono a migrare all'improvviso, attraversando luoghi che non conoscono, gettandosi in crepacci che non vedono e cercando di attraversare corsi d'acqua di cui fraintendono la larghezza. Non lo fanno per ammazzarsi, ma per sopravvivere: arte in cui magari non eccellono (ma chi siamo noi per giudicare?) Se per un pezzo abbiamo creduto il contrario è soprattutto grazie a un documentario tv della Disney - uno di quelli pioneristici che per ottenere scene apparentemente realistiche si prendeva molte licenze. La puntata dei lemming in questo senso fu proverbiale: gli esemplari di lemming furono letteralmente spinti nei crepacci per fornire ai telespettatori e a noi ancora più di mezzo secolo dopo una metafora tanto seducente quanto artefatta. Potenza dello Zeitgeist, quando in piena Guerra Fredda l'idea che una specie animale corresse volontariamente all'autosterminio doveva risultare irresistibile alle fantasie di chi viveva in attesa di un terzo e definitivo conflitto mondiale. 

E tuttavia i lemming veri non corrono al suicidio, c'è scritto persino in una delle più fondamentali pagine di Wikipedia (List of common misconceptions): e rieccoci alla contrapposizione già descritta con una brutale allegoria nel pezzo precedente: da una parte un miliardo di primati non molto intelligenti ma cocciuti che si costruisce un sapere collettivo che fa acqua da tutte le parti, ma un po' di conoscenza la trattiene (Wikipedia è forse il caso più esemplare); dall'altra il savio filosofo, discendente da tutta una schiatta di savi filosofi che ha una cultura settoriale imbattibile ma poi ci scivola su una delle most common misconceptions. 

A parte questo la cosa non avrebbe molta importanza: Agamben ha preso una cantonata su una curiosità zoologica, ma non è questo il lapsus di cui volevo parlare all'inizio. Non è nemmeno una gran cantonata, in fondo; senz'altro la mancata propensione suicidiaria dei lemming non inficia la riflessione di Agamben: i lemming non gli fornivano una prova e nemmeno un indizio, bensì... già, cosa? Nella retorica antica e medievale si chiamavano exempla, servivano a vivacizzare il discorso (non a puntellarlo su dati reali), e non infrequentemente si basavano sul mondo animale, perché chi ascolta la predica è sempre un bambino dentro: i paroloni dopo un po' lo addormentano, gli animali invece gli danno una sveglia e gli fanno correre la fantasia. Agamben usa i lemming come i predicatori medievali usavano gli unicorni, probabilmente già sospettando che i leggendari equini non fossero così fessi da farsi catturare nel momento in cui posavano il capo sul grembo di una vergine: sono favolette, exempla, non dati naturali, ma luoghi comuni letterari. Del resto lo scrive pure Agamben, che i lemming di cui sta parlando sono quelli descritti da uno scrittore e non uno qualsiasi: Primo Levi, che ai roditori dedicò un breve racconto del 1971, Verso Occidente. 

Il racconto di Levi è un esperimento mentale, tipico esempio di quell'hard science fiction che in Italia purtroppo ebbe pochi esponenti, e nessuno probabilmente del suo livello: immaginiamo che esista una specie vivente che vuole morire. Da cosa potrebbe dipendere una simile pulsione? Chimico di formazione, Levi ipotizza che al sangue dei roditori manchi un composto organico (un alcol), e immagina che la stessa carenza alcolica sia condivisa da un popolo amazzonico in via di estinzione. Questo popolo non solo prevede una forma molto codificata di suicidio tribale, ma si distingue per un'altra fondamentale caratteristica: non ha sviluppato credenze religiose. Da qui forse si capisce meglio cosa abbia solleticato la fantasia di Agamben: la specie suicida e soprattutto il popolo amazzonico sembrano evocare l'idea che tanto gli sta a cuore della "nuda vita":

Gli esseri umani non possono vivere se non si danno per la loro vita delle ragioni e delle giustificazioni, che in ogni tempo hanno preso la forma di religioni, di miti, di fedi politiche, di filosofie e di ideali di ogni specie. Queste giustificazioni sembrano oggi – almeno nella parte dell’umanità più ricca e tecnologizzata – cadute e gli uomini si trovano forse per la prima volta ridotti alla loro pura sopravvivenza biologica, che, a quanto pare, si rivelano incapaci di accettare. Solo questo può spiegare perché, invece di assumere il semplice, amabile fatto di vivere gli uni accanto agli altri, si sia sentito il bisogno di istaurare [sic] un implacabile terrore sanitario, in cui la vita senza più giustificazioni ideali è minacciata e punita a ogni istante da malattie e morte.

Qui c'è in nuce tutto il pensiero di Agamben sull'epidemia. Pensiero come si vede basato su un'ipotesi apocalittica: la "parte dell'umanità più ricca e tecnologizzata" avrebbe perso qualcosa che tutto il resto dell'umanità ha sempre avuto. Questo qualcosa non è l'alcol immaginato da Levi, ma è comunque alla base di tutto ciò che ispira "religioni, miti, fedi politiche, filosofie e ideali". Tutto questo non c'è più e quindi non abbiamo più voglia di vivere. 

Una cosa interessante di questo pensiero è come contraddica praticamente tutto quello che possiamo vedere intorno a noi, su internet ma anche solo alla finestra; religioni, miti, fedi politiche, ve n'è ovunque e benché sia vero che sembrano sempre declinare, di solito è per lasciare lo spazio a nuove religioni, miti, fedi politiche: insomma una grande vivacità che si può anche definire come "crisi", ma con cautela perché lo storico lo sa, che se una civiltà in media dura 500 anni, di solito si comincia a parlare di crisi già verso il cinquantesimo. Per Agamben invece tutto sta finendo: ci stiamo riducendo a una pura sopravvivenza biologica che però non accettiamo - e anche qui, basta dare un'occhiata fuori per restare perplessi: lo stesso modo in cui abbiamo affrontato la pandemia ci potrebbe mostrare quanto siamo tutti attaccati alla vita. Chi ha sperato sin dall'inizio in tutte le misure adottate, dal distanziamento ai vaccini, lo ha fatto perché voleva vivere: ma anche chi ha osteggiato sin dall'inizio lockdown, e vaccini, anche chi ha completamente negato l'emergenza, lo ha fatto in nome della sua esigenza di vivere una vita più piena possibile. Perlomeno è questa la sensazione complessiva che nel mio piccolo mi sembra di poter trarre da questi venti mesi in cui tutti intorno a me mi sono sembrati molto attaccati a qualsiasi vita gli capitasse di vivere: alcuni sacrificando la propria libertà e barricandosi in casa, altri viceversa mettendo a repentaglio la sicurezza altrui in nome del proprio benessere. Di fronte a un quadro del genere, se proprio volessi cercare un significato unitario, io vi leggerei un collettiva, commovente ostinazione a vivere malgrado tutto; il filosofo il contrario: non ne abbiamo più voglia, al punto che l'unico sistema è terrorizzarci con malattie che evidentemente sono più politiche che reali. 

Buffo, anche se avessimo davanti un'orda di lemming, vedremmo esattamente l'opposto: lui una colonna di roditori diretta verso lo sterminio, io una massa di animaletti che in una situazione che non conosce cerca di destreggiarsi come può, combina ovvi disastri che scarica sugli individui, ed errore dopo errore traccia la sua strada verso una salvezza non predestinata, ma nemmeno impossibile... (continua)

Comments (6)

Due filosofi contro il green pass (vince il green pass).

Permalink

Quando ho saputo che Massimo Cacciari e Giorgio Agamben avevano pubblicato un intervento a proposito del decreto del Green Pass, mi sono detto: finalmente si ragiona. Perché devo ammettere che questa cosa di avere aderito incondizionatamente a una misura che limita le libertà di movimento non è che mi va del tutto giù. Vedo gente manifestare e sento me stesso lamentarsi che erano manifestazioni non autorizzate, sarò mica passato al lato oscuro? Il mio buon senso mi dice che il governo ha ottimi motivi per fare quello che fa: motivi che ho vagliato, per quanto le mie esigue competenze me lo consentissero. Ma intanto il mio demone mi punzecchia: che ne sai? Se fosse tutta un'illusione che un regime totalitario ti stesse squadernando davanti, e dietro, e tutt'intorno? Credi davvero di saper distinguere tra informazione e propaganda, tra effetti di un virus ed effetti di un vaccino, tra responsabilità e asservimento? La differenza tra te e il novax è che tu ti fidi di qualcuno, lui di qualcun altro: nessuno dei due se ne intende veramente, state semplicemente facendo una scommessa e la tua ragionevolezza si riduce al fatto che hai scelto il banco, la quota minore, il rischio minimo. Va bene, caro demone, andiamo un po' su facebook a vedere cosa pensano i novax e poi dimmi tu se dovevo giocarmi la salute sulle idee di questi scalmanati. Eh no, dice lui, troppo facile usare i matti di facebook per liquidare una qualsiasi idea – giudicheresti il cristianesimo dal calendario di Frate Indovino? – alle fonti del pensiero, devi andare, all'elaborazione degli intellettuali, loro sì che avranno idee in grado di mettere in crisi le tue false certezze. E quindi viva Cacciari, viva Agamben, questo è ragionare, andiamo subito a vedere cos'hanno scritto di interessante su un tema tanto controverso.

Hanno scritto un temino imbarazzante.

Giuro, una cosa talmente sciatta che non vale nemmeno la pena di rispondere, e sapete perché? Perché ha già risposto Massimo Gramellini. E ha risposto bene, sul pezzo, dimostrandosi meglio informato e più competente, cioè questi due sono riusciti a far salire in cattedra Massimo Gramellini, proprio lui, non è un omonimo chiuso in una spelonca che improvvisamente è saltato fuori a dare lezioni di dialettica ed epistemologia ai due grandi filosofi viventi. Filosofi che tutto sommato non sono stati in grado di produrre un testo distinguibile dai deliri dei famosi scalmanati su facebook. Segue una disamina pedante. 

La discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica.

Tautologia. Una cosa [che se fosse vera sarebbe] gravissima è una cosa gravissima, e ci mancherebbe altro che non avesse conseguenze drammatiche. La tautologia regge come un pilastro di cemento tutto il discorso successivo, e nasconde nella sua armatura l'unico dubbio che valeva la pena di affrontare: il green pass discrimina davvero le persone? Che differenza c'è tra il green pass e le altre limitazioni che in teoria non discriminano (patente di guida, porto d'armi)? Non si sa, non è interessante.

Quando poi un esponente politico giunge a rivolgersi a chi non si vaccina usando un gergo fascista come “li purgheremo con il green pass” c’è davvero da temere di essere già oltre ogni garanzia costituzionale. 

La frase a quanto pare sarebbe sfuggita ad Emanuele Maria Lanfranchi, giornalista, capo ufficio stampa della presidenza della Regione Lazio, portavoce di Nicola Zingaretti, in un post o un tweet poi cancellato. Su Google è possibile trovarla in più interventi di Agamben, che vi ritorna in modo ossessivo perché, evidentemente, altri esempi di "gergo fascista" non ne ha trovati. Insomma quando un portavoce di un presidente di regione si lascia sfuggire un termine squadrista, Agamben e Cacciari davvero temono di essere già "oltre ogni garanzia costituzionale". Uno si domanda come abbiano fatto a non esplodere quando un grillino in parlamento disse "boia chi molla", ma vabbe'. 

Guai se il vaccino si trasforma in una sorta di simbolo politico-religioso.

Cioè esattamente quello che avete fatto fin qui, trasformando un lasciapassare nel Marchio della Bestia.

Ciò non solo rappresenterebbe una deriva anti-democratica intollerabile, ma contrasterebbe con la stessa evidenza scientifica. 

Tautologia.

Nessuno invita a non vaccinarsi! 

Ma veramente sì, un sacco di gente nelle piazze, sull'internet, ecc. Cioè può darsi che il problema dei novax sia un po' sovradimensionato, ma negarlo, ecco –

Una cosa è sostenere l’utilità, comunque, del vaccino, altra, completamente diversa, tacere del fatto che ci troviamo tuttora in una fase di “sperimentazione di massa” e che su molti, fondamentali aspetti del problema il dibattito scientifico è del tutto aperto. 

Il dibattito sarà sempre aperto, la scienza funziona così. "Sperimentazione di massa" tra virgolette significa che qualcun altro lo ha detto, ma chi? O sono i doppi apici di timidezza, quelli che si usano per prendere le distanze da quello che si sta scrivendo? Perché tra persone adulte e responsabili non si dovrebbero usare. I novax insistono molto sul fatto che i vaccini non siano stati approvati con le procedure standard, che avrebbero richiesto tempi molto più lunghi. E ce ne sono di bravi ormai, anche perché a discutere su internet ci si esercita, ci si specializza, insomma sanno citarti la sigla dell'approvazione richiesta presso il tale ente europeo o americano. Alla fine a leggerli si impara pure qualcosa. Invece leggendo "sperimentazione di massa" tra virgolette io non imparo niente.

La Gazzetta Ufficiale del Parlamento europeo del 15 giugno u.s. lo afferma con chiarezza: 

No, aspetta, ho capito bene? Torna un po' indietro.

su molti, fondamentali aspetti del problema il dibattito scientifico è del tutto aperto. La Gazzetta Ufficiale del Parlamento europeo del 15 giugno u.s. lo afferma con chiarezza: 

Queste due frasi sono finite accostate insieme per sbaglio, voglio sperare. Altrimenti io povero lettore rischio di dedurre che la Gazzetta Ufficiale del Parlamento europeo affermi con chiarezza che il dibattito scientifico è del tutto aperto, cioè avremmo un Parlamento europeo che legifera sulle aperture e le chiusure dei dibattiti scientifici. Poi volendo essere pedanti la Gazzetta Ufficiale del Parlamento europeo non esiste, al massimo esiste la Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea, ma vabbe', dettagli.

La Gazzetta Ufficiale del Parlamento europeo del 15 giugno u.s. lo afferma con chiarezza: «È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, anche di quelle che hanno scelto di non essere vaccinate». 

L'italiano incespicante del testo citato non è responsabilità dell'eurolegislatore, ma di chi ha ritagliato malamente la citazione, senza segnalare il taglio e rabberciandolo con quell'orribile "anche". Ricopio il vero testo; in corsivo la parte tagliata senza segnalazioni da Agamben e Cacciari. "È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti COVID-19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l'opportunità di essere vaccinate o hanno scelto di non essere vaccinate".

E come potrebbe essere altrimenti? Il vaccinato non solo può contagiare, ma può ancora ammalarsi: in Inghilterra su 117 nuovi decessi 50 avevano ricevuto la doppia dose. 

Da Wikipedia: Il termine inglese cherry picking, adattabile in italiano come bias di selezione o selezione arbitraria, è utilizzato nella lingua italiana per riferirsi ad una fallacia logica, caratterizzata dall'attitudine da parte di un individuo volta ad ignorare tutte le prove che potrebbero confutare una propria tesi ed evidenziando solo quelle a suo favore. L'etimologia dell'espressione deriva dalla lingua inglese. Il significato è metaforico e rappresenta l'idea di prendere, per sé stessi, solo le migliori ciliegie da una ciotola piena, ignorando appositamente, magari, quelle poco mature o peggiori.

Nel frattempo proprio ieri scoprivamo che da febbraio in poi il 99% dei deceduti in Italia non aveva completato la somministrazione del vaccino: la mia ciliegia è più bella della vostra, ho vinto io. 

In Israele si calcola che il vaccino copra il 64% di chi l’ha ricevuto. 

Una cosa che si fa su facebook per vincere una discussione è appunto mettersi affannosamente a cercare dati a supporto della nostra tesi, ed è lì che molti si spezzano le corna, non perché non sappiano ragionare ma perché non reggono il ritmo e prima o poi fraintendono un dato e scrivono una castroneria. In Israele non "si calcola che il vaccino copra il 64% di chi l’ha ricevuto". Quel che è successo è che un vaccino tra tanti, il Pfizer, la cui efficacia in Israele nel prevenire il covid19 era stimata intorno 94%, sembra avere nei confronti delle altre varianti un'efficacia molto più bassa, intorno al 64%. Fammi un attimo contare quante cose hanno voluto capire male qui Cacciari e Agamben:

1. Non hanno capito che non si parla "del vaccino", ma di un vaccino specifico. 

2. Non hanno capito che non si parla di efficacia in generale, ma di efficacia contro le varianti. 

3. Hanno ignorato il resto della notizia, ad esempio dove diceva  "Il calo della protezione riguarda i contagi e non le forme gravi della malattie. Inoltre, pare non influire sui ricoveri né tanto meno sui decessi osservati finora".

4. L'efficacia al 64% è diventata "il vaccino copra il 64% di chi l’ha ricevuto", un'espressione che in italiano sfiora il comico involontario: il vaccino mi copre al 64%, quindi diciamo fino all'ombelico? Sempre ammesso che mi copra dall'alto verso il basso, cosa che non so se augurarmi. 

Le stesse case farmaceutiche hanno ufficialmente dichiarato che non è possibile prevedere i danni a lungo periodo del vaccino, non avendo avuto il tempo di effettuare tutti i test di genotossicità  e di cancerogenicità. 

Sarebbe anche un tema interessante, senonché dispiace che ai due filosofi venga in mente questa preoccupazione e non quella complementare, riguardante i danni da long covid: una sindrome di cui ignoriamo ancora i danni a lungo periodo. E torniamo al punto di partenza, ovvero la scommessa. Nessuno è sicuro in assoluto della bontà della propria scelta. Può darsi che qualche vaccino approvato molto in fretta alla lunga faccia davvero male. È un rischio. Anche la deriva totalitaria innescata dal green pass è un rischio. Il mio buon senso dice che sono rischi accettabili. Agamben e Cacciari dovrebbero farmi venire dei dubbi. Per ora non ci siamo. Tutto quello che dicono, davvero, posso trovarlo formulato con più riferimenti e più convinzione da un anonimo novax su un social network. 

“Nature” ha calcolato che sarà comunque fisiologico che un 15% della popolazione non assuma il vaccino. Dovremo dunque stare col pass fino a quando? 

Azzardo: finché il covid continuerà a uccidere la gente? Poi, ok, capisco che qui si insiste sul rischio di una degenerazione totalitaria, ma cosa c'entra il fisiologico 15% della popolazione? Chi scrive sembra convinto che il fine del green pass sia estendere l'uso del green pass, un po' come il fine della prevaricazione per Orwell era la prevaricazione. E non che senta l'esigenza di perdere tempo ad articolare questa cosa: la dà per scontata, come spesso i paranoici fanno.

Tutti sono minacciati da pratiche discriminatorie. Paradossalmente, quelli “abilitati” dal green pass più ancora dei non vaccinati (che una propaganda di regime vorrebbe far passare per “nemici della scienza” e magari fautori di pratiche magiche), dal momento che tutti i loro movimenti verrebbero controllati e mai si potrebbe venire a sapere come e da chi. 

Propaganda di regime. Quindi c'è un regime che controllerà se andremo al bar e al lavoro. Chi non ci andrà "paradossalmente" non sarà controllato, sarà invisibile, ma sarà anche presumibilmente tappato in casa o espulso dal consorzio sociale. La propaganda di regime vuole far passare per ciarlatani e "nemici della scienza" i non vaccinati, e capisco che è una cosa odiosa, ma non siete stati capaci di citare correttamente un solo dato a favore delle vostre asserzioni. Anche la vostra è propaganda, e se non siete "nemici della scienza" non siete nemmeno molto amici, neanche semplici conoscenti, diciamo che passate molto alla svelta, rubacchiate qualche ciliegia e chi s'è visto s'è visto. 

Il bisogno di discriminare è antico come la società, e certamente era già presente anche nella nostra, ma il renderlo oggi legge è qualcosa che la coscienza  democratica non può accettare e contro cui deve subito reagire.

Stanno scrivendo davvero che c'è un regime, inaccettabile, contro cui si deve subito reagire, ma reagire come? Per esempio, manifestare nelle piazze senza autorizzazione è ok? Perché qualcuno lo farà, qualcuno si sentirà autorizzato anche da questo autorevole intervento. Stanno davvero chiedendo di protestare con ogni mezzo possibile? Non è chiaro, non lo dicono, insomma armiamoci e partite. 
Comments (42)

Dai e dai ci arriva anche il Potere

Permalink
In questi giorni mi sta capitando sempre più spesso di far caso a quanti foucaultiani ci siano in giro: alcuni consapevoli (e in certi casi ormai inerziali) altri no. Ma non è proprio questo l'egemonia: che un sacco di gente si ritrovi foucaultiana senza saperlo?

Sia come sia, ogni volte che qualcuno parte con una teoria un po' complottarda un po' similfoucaultiana, ad esempio la bazza delle epidemie come pretesto del Potere per creare un formidabile dispositivo di controllo, la mia prima reazione è sempre correre verso di lui a mani protese, non per schiaffeggiare (mai mi permetterei) ma per zittire, ma pensaci un attimo, ma devi proprio suggerirgli tutte queste idee, al Potere?

Che dai e dai prima o poi ci arriva anche lui, eh. Un'imbeccata oggi, un'imbeccata domani – sembra quasi che ci teniate.
Comments (3)

Da Atene a Parigi, senza testa

Permalink
9 ottobre, San Dionigi martire, vescovo di Parigi (III secolo)

Essendo parigino, c'è già qualche filosofo che lo considera l'anticipatore della cibernautica, di internet, di qualsiasi cosa, farsi un corpo senza organi, eccetera.

È incresciosa questa cosa, che ogni anno sbaglio Dionigi.
 Ogni volta mi segno che a inizio ottobre devo parlare di San Dionigi anche se non mi va. A un certo punto guardo sul calendario, dice che San Dionigi è il nove – e vabbe’, pensavo prima, vorrà dire che ci penso il sette, magari l’otto. Arriva la mattina del nove, guardo meglio: opporc…, ma questo non è il Dionigi che pensavo io. Non è l’areopagita, anzi lo pseudoareopagita. È Dionigi di Parigi, che in francese suona assai più elegante (Saint Denis de Paris), quello decapitato a Montmartre ma sepolto nella cittadina ononima a 6 km di distanza, dove si racconta sarebbe giunto a piedi, ma come direte voi, non lo avevano decapitato 6 km più in là? Il miracolo mirabile consiste appunto in questo, che una volta decapitato avrebbe raccattato la testa e se la sarebbe portata sottobraccio fino a Saint Denis, dove evidentemente prevedeva che il buon re Dagoberto quattro secoli più tardi avrebbe fondato un’abbazia in suo onore.
Dunque ora sapete – e sono nozioni che possono sempre servirvi in società – che se vedete in qualche miniatura un tizio con in braccio la propria testa mozza, o è il truculento Bertrand de Borne descritto da Dante in quel maledetto Canto XXVIII dell’Inferno (quello con Macometto sventrato, per intenderci, che rende un po’ complesso procurarsi una traduzione completa della Commedia nei Paesi islamici) o è San Dionigi di Parigi, da non confondere con Dionigi Areopagita. Benché su questa omonimia l’abate Ilduino di Saint Denis ci abbia speculato non poco. Mettetevi nei suoi panni: Dionigi-di-Parigi è poco più di una figurina da miniatura, un tizio con la testa mozzata, per carità, simpatico, ma la Capitale meritava forse qualcosa più prestigioso. L’Areopagita, dal canto suo, può vantare un cameo negli Atti degli Apostoli, nientemeno: sarebbe stato convertito da Paolo di Tarso in persona, diventando insomma cristiano molto molto, molto prima che divenisse cool. Tra l’altro in una situazione molto particolare, perché la tappa ad Atene è universalmente riconosciuta da studiosi cristiani e no come il più grande flop della carriera di Paolo.

Un flop fortemente simbolico: Atene non è mai stata una città come le altre. Efeso e Corinto erano già metropoli , e Tessalonica forse il centro più dinamico dell’Egeo, ma Atene, che ve lo dico a fare, è Atene. I tempi di Pericle erano passati da un pezzo, ma tutti gli altri porti dell’Egeo sembrano pieni di pesci ansiosi di abboccare al nuovo Verbo che Paolo importa dal Medio Oriente. Atene no. Ad Atene l’apostolo delle genti non trova nemmeno dei persecutori sdegnati. Gli ateniesi sono semplicemente curiosi di quel che ha da dire lo straniero: gli offrono addirittura l’Areopago.



Presolo con sé, lo condussero sull’Areòpago e dissero: «Possiamo dunque sapere qual è questa nuova dottrina predicata da te? Cose strane per vero ci metti negli orecchi; desideriamo dunque conoscere di che cosa si tratta». Tutti gli Ateniesi infatti e gli stranieri colà residenti non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare.
Paolo non ha mai avuto un palcoscenico tanto prestigioso. Forse troppo, perché il suo discorso è un buco dell’acqua. Eppure aveva studiato: sapeva per esempio che gli ateniesi, troppo saggi per evitare di offendere qualche Dio a loro sconosciuto, avevano eretto un altare anche “al Dio ignoto”, appunto. Quale gancio migliore per un profeta? “Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio!” Lo spunto è buono (continua…)…Ma quando si mette a discutere di resurrezione, l’attenzione del pubblico si disperde in sorrisini di circostanza, sì, sì, interessante la resurrezione dei corpi, le faremo sapere.

Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: «Ti sentiremo su questo un’altra volta». Così Paolo uscì da quella riunione. Ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti, fra questi anche Dionigi membro dell’Areòpago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro.

Eccolo qui Dionigi membro dell’Areopago. È tutto quello che Luca evangelista ci dice di lui, ma è sufficiente per considerarlo il fondatore e primo vescovo della Chiesa di Atene. Parliamo comunque di un greco del primo secolo dopo Cristo. Che ci farebbe a Parigi due secoli dopo? Niente. I Dionigi quindi sarebbero due, uno (tre ottobre) è l’unico ateniese che abboccò al discorso di Paolo di Tarso, e l’altro (nove ottobre) è quello che andava da Montmartre a Saint Denis con la testa in braccio. Tutto chiaro? No, ce n’è un terzo, che è poi il più interessante: l’impostore. Lo chiamiamo infatti da qualche secolo in qua pseudoareopagita, (finto areopagita), o anche pseudoDionigi. È l’autore di alcuni trattatelli che ebbero una fortuna straordinaria nel medioevo, ripresi per esempio da San Tommaso e da Dante. Probabilmente visse anche lui ad Atene, ma tra quinto e sesto secolo, e fu discepolo dei filosofi neoplatonici che andavano per la maggiore in città in quel momento. Qualcuno ha persino fatto il nome di Damascio, l’ultimo neoplatonico, dopodiché l’imperatore sciolse la scuola. È un’attribuzione valida quanto qualsiasi altra (praticamente è stato fatto il nome di tutti gli intellettuali della sua generazione), ma suggestiva perché Damascio trovò un impiego all’estero, presso l’imperatore persiano Cosroe, e il suo pensiero ascetico ha un retrogusto quasi buddista. In realtà il soggiorno persiano andò malissimo, e Damascio probabilmente terminò i suoi giorni ad Alessandria. Non scrisse nulla di anticristiano, a differenza di tanti suoi predecessori (ma ormai veramente non era più aria), e questo ci ha fatto sospettare una certa doppiezza: vuoi vedere che sotto sotto Damascio stava cercando di infiltrarsi anche lui nel cristianesimo, spacciandosi in una serie di scritti per l’unico ateniese battezzato da Paolo? Non lo sapremo mai, ma è indubbio che le opere dello pseudoareopagita siano un tentativo di far entrare una serie di categorie neoplatoniche nell’edificio cristiano.
Tutti in ordine, tutti in fila, tutti in coro, un giramento di sfere millenario, e alla gente piace così.


La parola d’ordine è hierarchia. PseudoDionigi è un fanatico delle organizzazioni gerarchiche, vivesse oggi camperebbe scrivendo le classifiche di cose inutili, Dieci Motivi Per Cliccare Questa Classifica Che Troverete Inutile Già Alla Numero Sei, Ma Ormai Andrete Fino In Fondo E Grazie Agli Inserzionisti Ci Guadagneremo Mezza Pagnotta. Camperebbe malissimo, e se lo meriterebbe, perché scusate, il vero motivo per cui ogni anno me lo lascio sfuggire, lo PseudoDionigi, è che non lo sopporto. Già i neoplatonici mi lasciano freddo, ce n’è senz’altro di geniali, ma l’andazzo generale mi sembra quello di un catalogo di prodotti new age: tutto un parlare di forze ed energie e altre cose non visibili e non dimostrabili. A questa sapiente rifrittura di atmosfera, Dionigi aggiunge il suo essere uno Pseudo, un fake, un poser, uno che fa finta di essere cristiano e ha ancora le unghie sporche di sacrifici agli dei. Si considera appena un po’ meno autorevole degli evangelisti, ma chi lo conosce, poi? Chi lo ha mai visto? Eppure per diversi secoli gli diedero retta, soprattutto in una materia vacua per eccellenza: l’angelologia.La Bibbia di angeli parla pochissimo: li considera semplicemente messaggeri di Dio, non specifica nemmeno se abbiano ali e quante, se siano piumate, se invece preferiscano il teletrasporto, niente. A colmare questa vistosa lacuna arriva lo Pseudodionigi: diabolico, perché da che mondo e mondo gli angeli non si sono mai visti, ma c’è sempre gente che ne vuole sentire parlare e paga, andate a dare un’occhiata in libreria, altro che Dieci Motivi Per Continuare A Sperare Che Internet Ci Dia Da Mangiare Fino Al Prossimo Fine Settimana. No, no, scrivete libri sugli angeli. La gente li compra. E Pseudodionigi vende. Dai neoplatonici mutua l’abilità a popolare una zona vacua della fantasia in una complessa cartografia di entità mai viste. Dai cristiani del suo tempo riprende una certa richiesta di ordine, di organizzazione. Siamo nel 500, l’Impero Romano d’Occidente è appena crollato ufficialmente (non si reggeva in piedi da un secolo in realtà), quello d’Oriente sta tentando la carta della teocrazia. Lo Pseudoareopagita, come una formichina del suo tempo, ha l’istinto a risistemare tutti i fenomeni in costruzioni piramidali, al vertice un Dio perfetto e giù giù a cascare tutte le entità semiperfette, Serafini, Cherubini, Troni, Dominazioni, Virtù, Potestà, Principati, Arcangeli e Angeli in ordine decrescente di perfezione. Un altro mestiere remunerativo che potrebbe fare oggi è il tizio che progetta le carte da gioco che si scambiano i preadolescenti nell’intervallo, ehi tu ce l’hai un Trono? Io ce l’ho un Trono, te lo scambio con due Virtù e tre Dominazioni. Tenete conto che hanno tutti ali fatte e colorate in un modo diverso, e poteri diversi, per esempio il Cherubino se lo giochi in coppia con la Potestà ti neutralizza anche il tris di Principati e la Scala di Arcangeli, no, non è vero, mi sto inventando tutto. Ma anche Pseudodionigi, del resto. Dove le prendeva tutte queste informazioni? Da una letterina di San Paolo.
Molto bene, ora che abbiamo sistemato questa cosa, se non vi dispiace raccolgo le mie cose e me ne vado, ho un rendez-vous.


Scrivendo un biglietto ai cristiani della città di Colosso, Paolo si lascia sfuggire questa affermazione non troppo impegnativa:

poiché in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili: troni, signorie, principati, potestà; tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui.
A un lettore contemporaneo, nostro contemporaneo intendo, il senso pare chiaro: Dio ha creato tutte le gerarchie del mondo, sia quelle nella terra, sia quelle in cielo. I troni di cui parla Paolo sono probabilmente troni veri, le signorie sono normalissime signorie, eccetera. Quattro secoli dopo Pseudodionigi prende le paroline di Paolo e le trasforma in misteriose entità (Troni, Signorie, Principati) dotati di ali e funzioni ermetiche diversificate a seconda della posizione gerarchica. Si capisce, leggendolo, che il feudalesimo sta cominciando: tutto ormai ha un senso solo all’interno di un invisibile piramide di senso. Sette secoli dopo passerà Dante a controllare, e troverà la terra ancora circondata dai nove cieli blindati dallo Pseudodionigi, ognuno assegnato al rispettivo coro angelico: bisognerà aspettare Galileo. San Dionigi lo Pseudoareopagita è il patrono di tutti gli impostori, i filosofi farlocchi, i distillatori di vuoto pneumatico, quelli che arrivano all’ultimo momento e ti spiegano tutto con raffinatissime tautologie. Io per me preferisco il parigino con la testa mozza.
Comments (5)

Teoria narratologica della sf

Permalink
(Una cosa di cui colpevolmente non m'interesso molto è il festival di filosofia che fanno praticamente sotto casa mia - avete presente quelli che abitano dietro un monumento e non lo visitano mai? Ecco. Mi dispiace che ci sia stata una polemica su Fabio Volo, che secondo alcuni non dovrebbe andare a un festival di filosofia - probabilmente la stessa gente nel Settecento avrebbe snobbato quegli autori di romanzetti dozzinali e satirici, come si chiamavano, Voltaire e Diderot. Comunque. L'unico mio vago contributo al filosofume in cui sono immerso è questo pezzo che scrissi un paio di anni fa per una di quelle belle iniziative di Barabba. Lo riciclo oggi. Era molto più divertente dal vivo (niente dello spessore di un Fabio Volo, comunque)).


Noi vogliamo leggere di eroi: li vogliamo buoni e generosi, positivi e propositivi. Questo la narrativa ce lo può dare. Però li vogliamo anche veder impattare con il nostro stesso mondo (o meglio, un mondo perfettamente identico al nostro). Questo la narrativa non può darcelo senza pretendere qualcosa in cambio. Questo qualcosa lo possiamo definire Sfortuna. Vogliamo degli eroi? Li vogliamo alle prese con le difficoltà del nostro mondo? Dobbiamo accettare che siano molto sfortunati. In caso contrario non si dà verosimiglianza, e senza verosimiglianza non si dà narrativa.
Cerco di spiegarmi meglio. Nel nostro mondo, gli eroi che pretendiamo dalla narrativa non ci sono. Se ci fossero, il mondo migliorerebbe all’improvviso. L’esempio più classico resta Superman: se esistesse, non perderebbe certo tempo a combattere contro il crimine più o meno organizzato: devierebbe un paio di fiumi, risolverebbe il fabbisogno energetico degli Stati Uniti, risolverebbe le controversie internazionali (Eco, 1964). Questo è quanto sarebbe logico aspettarsi da un superuomo verosimile. Quindi, o rinunciamo alla verosimiglianza e caliamo Superman in un altro universo, dove gli sia consentito cambiare la sorte di altri pianeti (e a quel punto avremmo un fantasy di scarso interesse), oppure lo lasciamo in un mondo verosimile fatto di grattacieli realistici e cabine telefoniche identiche alle nostre, operando però affinché, malgrado la sua buona volontà e i suoi poteri ultraterreni, non riesca a rendere il mondo neanche un briciolo migliore di quanto lo abbia trovato. Ma come si fa?
Lo si circonda di sfortuna. Si crea una pletora di antagonisti, a volte in calzamaglia e mantello come lui, che non gli lasciano un attimo di tregua. L’unico modo per ammettere Superman nel nostro mondo è dotarlo di una sfortuna tale da neutralizzare del tutto i suoi superpoteri, affinché alla fine di ogni sua avventura gli enormi sforzi positivi di Superman e le enormi energie negative dei suoi antagonisti diano una somma zero. Il nostro mondo imperfetto diventa così il risultato della lotta titanica tra Superman e i suoi perfidi avversari. Questo alla lunga rischia di rendere Superman e i suoi successori antipatici: con tutti i loro poteri in fondo non fanno che difendere lo status quo, saranno mica per caso eroi di destra? Conservatori, se non addirittura reazionari? Ma è la narrativa a essere in qualche misura conservatrice: per essere interessante ha bisogno di restare in frizione col mondo vero, ma il mondo è quel che è, uno status quo molto discutibile, e la narrativa accetta di non poterlo cambiare. La rivoluzione si fa nelle strade, o al limite nei fantasy: nei romanzi realisti non può che finir male. Poi date la colpa all’autore, ma è colpa vostra che accettate il patto finzionale senza far caso alle clausole scritte in piccolo.
Eroe + Sfortuna = 0
Eroe = 0 – Sfortuna
Sfortuna = 0 – Eroe
In pratica, a ogni azione positiva dell’eroe corrisponde una sfortuna di uguale valore e di segno contrario. Più l’eroe sarà potente, più grande la sfortuna intorno a lui. Più Ulisse è astuto e curioso, più Itaca si allontana. Più Ercole è forzuto, più gli tocca faticare. La sfortuna è in fondo il calco in negativo dell’eroe, e questo si vede in metafisica semplicità nelle opere di Kafka: i suoi quasi anonimi eroi sono definiti esclusivamente dalla sfortuna che li plasma. K esiste finché c’è un Castello che non lo lascia passare, o un Processo che non gli consente di difendersi: rimosso lui, il Castello apre i cancelli e il tribunale si scioglie. Solo un po’ di vergogna sopravvive.
La sfortuna è quindi proporzionale alle capacità dell’eroe. Nel caso di Superman essa tende all’infinito: finché Superman vivrà, l’universo di Metropolis sarà sotto costante minaccia di folli che lo vogliono dominare o distruggere. Fortunatamente di solito gli eroi hanno poteri più modesti, e di conseguenza anche la sfortuna che li contrasta è minore. Prendi i Malavoglia: sono una piccola impresa a conduzione famigliare, i cui membri all’inizio del romanzo appaiono dotati di un minimo di spirito d’iniziativa. Anche se il carico di lupini arrivasse in porto, essi non salverebbero certo il mondo: al limite porterebbero ad Aci Trezza un po’ di moderna mentalità imprenditoriale. Il che però è inammissibile: non perché Verga non lo desideri, ma perché semplicemente ciò non è avvenuto nel mondo reale, a cui l’autore è vincolato da una clausola di verismo: e quindi la tempesta deve infuriare, e la sfiga colpire a ripetizione finché dei Malavoglia non resti che qualche superstite incanaglito e riconvertito al mito arcaico della Casa del Nespolo.
Proseguendo per questa china si arriva agli antieroi: quei personaggi la cui carica è prossima allo zero o addirittura negativa: ebbene, a loro potrà capitare anche qualche occasionale botta di culo, al fine di mantenere l’equilibrio: vedi il caso dell’Idiota. Sappiamo che l’idea iniziale era quella di creare un personaggio “buono”. Dostoevskij all’inizio ha l’aria di pensare che la bontà non sia una qualità, quanto una mancanza di qualità negative: così l’Idiota sarà privo di fondi, privo di salute, privo di malizia… dopo un centinaio di pagine però l’autore si dev’essere reso conto che tutte queste privazioni rischiano di renderlo un osservatore inerte, e allora cosa ti combina? Ma guarda un po’: una zia sconosciuta, un’eredità improvvisa. Il Deus ex machina dei canovacci ottocenteschi.
Il più sfacciato resta comunque Zeno Cosini: chi più fortunello di lui? S’innamora di sua moglie, il suo rivale in amore e in affari s’ammazza per sbaglio. Persino quando il malessere esistenziale sembra prevalere, non ha che da scoppiare una guerra mondiale per trasformarlo in uno speculatore soddisfatto. Zeno doveva evidentemente contenere un potenziale negativo altissimo: non è difficile immaginare che il tizio “un po’ più ammalato degli altri” che si arrampica al centro della terra e la fa esplodere sia egli stesso. Per evitare che ciò succeda, per salvare il mondo (e la verosimiglianza del racconto), Svevo è costretto a servirgli colpi di fortuna a ripetizione.
Per i narratori insomma non c’è scampo: o inventano eroi positivi e li sommergono di sfighe, o s’ingegnano a elaborare colpi di fortuna per antieroi inetti. Di solito quelli più buonisti all’apparenza sono proprio quelli che nascondono in cantina orribili attrezzi con cui tormentare i loro eroi senza macchia. Essi tuttavia amano presentarsi in società come padri di eroi, e quindi un po’ eroici essi stessi, senza troppo insistere sul fatto che ne sono anche i più instancabili persecutori. Del resto, perché dovrebbero insegnare i più oscuri segreti del loro mestiere? La fortuna commerciale di un narratore dipende dalla quantità di dolore, frustrazione e sofferenza che riesce a infliggere ai suoi eroi prediletti. Egli dovrà essere spietato, come si addice a un padreterno. Ma persino il padreterno, tra un diluvio e una pestilenza, ha quei momenti in cui ci terrebbe ad apparire come un tizio misericordioso. Allo stesso modo quando i narratori vanno alle conferenze o ai corsi di scrittura creativa, hanno sempre quell’aria di “io non farei male a una mosca”. Il risultato è che poi da questi corsi escono un sacco di discepoli buonisti che credono che per raccontare una storia sia sufficiente inventarsi un simpatico eroe (spesso aspirante narratore egli stesso), al quale succedono solo cose simpatiche e mai niente di veramente grave, perché la violenza è una cosa ripugnante, no?
Anche quando è violenza su creature immaginarie. Da qui il corollario più interessante della teoria: come si distingue un vero narratore da un aspirante? Dalla pietà per i personaggi. Il vero narratore ne sarà totalmente privo. Ti è venuto bene quel tenero ragazzino, Nemecsek? Bravo Molnár, ora stroncalo con una polmonite fulminante. Generazioni di giovani lettori piangeranno per quello che stai facendo al più eroico soldato semplice delle strade di Budapest. Milioni di fanciulli e fanciulle t’imploreranno e ti malediranno, ma sarà per sempre troppo tardi: Nemecsek è morto, fatevene una ragione, e se non fosse morto il romanzo non sarebbe finito negli scaffali su cui lo avete trovato.
Diventare veri narratori significa accettare il proprio ruolo di assassini di eroi, dispensatori di disgrazie, reggitori di cornucopie di ininterrotta sfiga. Questo è il destino del narratore. Non ti va? Nessun problema, il mondo ha più bisogno di idraulici.
Comments (2)

Le pere del male

Permalink
Sant'Agostino di Ippona (354-430), ladro di pere e dottore della Chiesa.

Eravamo in seconda elementare, quando in mezzo a noi comparve questa bambina nuova, inspiegabile. Perché prima non c'era e adesso sì? Era stata bocciata? Non risultava bocciata. Però a scuola andava male. Da dove veniva, era straniera? Non era straniera, anche se aveva un nome diverso dagli altri. La sua famiglia non la conosceva nessuno, e lei raccontava storie incoerenti, di parenti ricchissimi o poverissimi, a seconda della piega che prendeva la trama di Candy Candy in quella settimana. Io non la sopportavo, per nessun motivo al mondo. Non mi aveva fatto nulla di male, ma per esempio respirava. Durante le lezioni la sentivo respirare con un certo affanno e m'innervosiva, mi distraeva, le dicevo Smettila. Notavo sulle sue guance dei capillari blu, non mi sembravano normali. Un giorno stavamo tutti al nostro posto, aspettando la maestra che aveva avuto un contrattempo. Eravamo una classe tranquilla: per ingannare l'attesa giocavamo a passaparola. Un messaggio passava da orecchio a bocca a orecchio, facendo il giro dell'aula, finché non arrivava a me, che ero il penultimo. Dopo di me c'era la bambina nuova, a cui io avrei dovuto passare il messaggio che mi arrivava. Ma non lo facevo. Ricevevo il messaggio e lo riconsegnavo a un'altra compagna, dall'altra parte dell'aula, e così il giro ricominciava, ignorando la bambina nuova. Nessuno mi aveva detto di fare così, era una mia iniziativa. Nessuno mi aveva corrotto o minacciato, e la bambina non mi aveva mai fatto nulla, salvo respirare. Il male che stavo facendo non aveva nessuna origine al di fuori di me: nasceva in me, e avrebbe causato probabilmente rabbia, dolore, e altro male. Ma a monte di tutto il dolore e la frustrazione c'ero io, un bambino di otto anni a cui nessuno aveva fatto niente.

Scrivere di Sant'Agostino non è come raccontare di un qualsiasi santo tardoantico di cui ci rimane il nome di battesimo e tre dettagli pittoreschi. Non è una leggenda, Agostino: è una delle persone del mondo antico che conosciamo meglio. Forse troppo per affezionarci. Ci si affeziona ai personaggi letterari, che hanno vite avventurose ma comunque ordinate secondo una traiettoria. Che Agostino sia un uomo vero, e non il personaggio di un romanzo, lo si capisce dal racconto della sua conversione, lungo, estenuante, proprio come sono lunghe e tortuose e un po' insensate le traiettorie delle nostre vere vite, tanto più complesse dei romanzi quanto meno belle da raccontare. Agostino non cade di cavallo, non vede roveti ardenti o segni in cielo, Agostino arriva al cristianesimo (o meglio vi ritorna, visto che aveva lo aveva succhiato col latte materno) al termine di un lungo assedio intellettuale; quando si direbbe che ceda per stanchezza.

E dire che il momento è storico: Agostino è stato uno dei più grandi acquisti della Chiesa. Se fosse rimasto alla concorrenza, se il guru manicheo Fausto di Mileve si fosse impegnato un po' di più con lui, oggi forse invece che cristiani non potremmo non dirci manichei, o più probabilmente il nostro cristianesimo avrebbe una forte componente manichea. Ma i manichei avevano il difetto tipico di molte dottrine new age, l'ansia di voler riempire i buchi della conoscenza, di spiegare tutto con teorie, magari per pochi iniziati, ma onnicomprensive. Agostino era un intellettuale, competente di Platone e di Aristotele; non poteva mandare giù l'astronomia for dummies degli opuscoli manichei, un cumulo di favolette che non reggevano il confronto con lo sferragliante ma efficace sistema tolomaico. Cominciò a farsi domande, a porle ai correligionari, e l'unica cosa che gli sapevano rispondere è: aspetta Fausto, lui sa tutto. Ti risponderà su tutto. Fausto però era sempre in tournée, Agostino lo attese nove anni, al termine dei quali si rese conto che aveva aspettato un conferenziere amabile ma abbastanza ignorante, che di astronomia nulla sapeva e lo ammetteva con candore. La fede di Agostino si dissolse in quell'esatto momento, di fronte all'inadeguatezza dell'ennesimo maestro. Se mi permettete la psicologia da strapazzo, anche stavolta Agostino non era riuscito a trovarsi un padre all'altezza. Dev'essere dura rendersi conto di essere il tizio più colto e intelligente in circolazione, proprio mentre ti rendi conto che alla fine non sai quasi nulla, e non c'è nessuno in giro in grado di rispondere alle tue domande. L'Impero Romano stava per rovinare, c'era da ripensare tutta la filosofia della Storia, trovare un nuovo modello, un nuovo senso a tutto quello che sarebbe successo di lì in poi, e Agostino non aveva nessuno che gli mostrasse una strada. Solo la madre (Santa Monica) in un angolo a sgranare paternostri (continua sul Post...)
Comments

Permalink
Il pezzo del lunedì è il più atteso e il più difficile.
Per questo sono grato a tutti quelli che hanno voluto partecipare alla nuova release del

Basic Culture Simulator 1.1
(Colti in cinque minuti!)

Prima di partire coi contributi (ringrazio tutti e mi scuso per i tagli), vi chiedo un’altra cortesia: se incontrate qualcuno che fa uso inconsapevole del Simulator, segnalatemelo!
Stasera ho trovato Antonio Di Pietro. Ma si può fare di meglio. Per esempio, ho sentito dire che i Marlene Kuntz di recente hanno citato la leggerezza di Calvino… esistono riscontri?

Archimede: inventore greco che facendo il bagno ha scoperto che un corpo immerso in liquido riceve una spinta eguale al contraria al suo peso... Prepararsi per la contestazione: "perchè una nave affonda se si riempie di acqua?"...."ma perchè è fatta di un materiale che a contatto con l'acqua perde peso!" ....per stupire tutti, ricordarsi che ha inventato anche gli specchi ustori per abbronzarsi. Eh, non ci sono più gli inventori di una volta, che sapevano far di tutto. Noi siamo molto più ignoranti di loro… (Apicella)

Beethoven, Ludwig: compositore dell'ottocento, se sia stato classico o romantico non lo sapeva nemmeno lui. Citare se possibile la "furia" e il "titanismo". Per un affondo finale alla Cyrano chiudere la combinazione "titanismo" + "michelangiolesco". Noto per aver scritto mari e monti da sordo. C'è chi sostiene che si fece il nipotino, ma il nipotino non ha sporto denuncia. Comunque buttare lì il dubbio sfoggia entrature particolari. (Effedipi)

Cartesio, Renato: era mezzo filosofo e mezzo matematico...non so di dove era, però i francesi ce lo vogliono rubare, anche se ha un tipico nome italiano (loro lo traducono con Descartes). Citare:
1) "Cogito, ergo sum", che vuol dire che se non uno pensa, non vale niente;
2) gli assi cartesiani
3) Via Paolo Fabbri 43 di Guccini: in fondo mi sono simpatici,
da quando ho incontrato Descartes,
ma pensa se le canzonette me le recensisse
Ronald Barthes.
...prepararsi per la domanda su Roland Barthes (vedi sotto)

Barthes, Ronald: famoso critico musicale francese che non voleva recensire le canzoni di Guccini, che ci restava male e si arrabbiava con Bertoncelli. (Apicella).

Einstein, Albert: Fisico tedesco, ebreo. Visse gli anni della gioventu' in Italia, poiche' il padre aveva una fabbrica di lampadine a Pavia. Anche lui come noi non era bravo in matematica. Ha inventato la teoria della relatività, molto complessa, che si può spiegare così: "10 minuti seduti sulla sedia del dentista passano piú lentamente di un'ora con la tua ragazza”.
Nei salotti a prevalenza femminile, accennare con garbo al fatto che i calcoli glieli faceva la moglie bulgara, e che lui la picchiava.
(un po’ Delio, un po’ Marcello, un po’ no).

Euclide: matematico greco, ha inventato la geometria con i quadrati...per fare vedere di saperne, citare sempre le "geometrie non euclidee", che vanno davvero forte..."siete ancora lì con le rette e i piani"?? (Apicella)

Gödel: inventore dell’omonimo teorema: "guarda che ti sei appena contraddetto" "ma che c'entra, gödel ha dimostrato che non esiste la verità assoluta". (Delio)

Hegel, Friedrich: filosofo tedesco vissuto fra il 700 e l'800, uno con le idee molto chiare, ma che amava scrivere in modo molto difficile. Pochissimi capivano quello che scriveva e per non passare male dicevano che era bravo.
I maligni però sostengono che il suo successo derivi dalla disinvolta capacità di cambiare idea. Rivoluzionario ai tempi della rivoluzione francese, Napoleonico ai tempi di Napoleone, conservatore dopo il congresso di Vienna.
Se fosse vivo oggi probabilmente sarebbe direttore di un quotidiano e conduttore tv. (Franco)

Hobbes, Thomas: diceva che l'uomo è fondamentalmente cattivo (quindi c'è bisogno dello Stato sennò gli uomini si scannano tra loro), Rousseau invece sosteneva che l'uomo è fondamentalmente buono (lo Stato non serve a un cazzo). (Bramiero Pinna)

Kerouac, Jack : Citabilissimo con 40/50enni con i jeans che si fanno le canne, fa molto figo. Basta farfugliare On the Road e Beat Generation con aria sognante da Isola di White. Nel caso il 50enne vi importunasse con la sfilza di concerti a cui ha assistito, vi è sufficiente dire che in fondo il finale di Easy Rider era l'unico possibile... e poi darvela a gambe! (Luca)

la teoria del caos: "ebbè, si sa, quando una farfalla sbatte le ali in brasile si scatena una tempesta in giappone". (Delio)

la legge dei grandi numeri: da quel che ho capito, significa che quando una cosa non è mai successa, ci sono molte probabilità che succeda presto. E per ora basta così. Ha suonato il citofono, e magari è Carla Bruni.
Comments

Permalink
Fate colpo in società con il…
Leonardo’s Basic Culture Simulator!

Se lavorate dalle sei alle otto ore al giorno (e non dite di più, cazzeggiatori dissimulati che non siete altro), se passate un’ora nel traffico urbano e un’altra oretta e mezza nel traffico telematico, a evadere posta elettronica e leggere blog sempre interessantissimi, come questo; se appartenete a quella bolsa schiera di persone che non riescono a fare a meno di dormire almeno sei ore su 24; se mangiate, bevete, evacuate con la medesima banale regolarità; se avete una famiglia che gradirebbe in qualche modo interagire con voi nelle restanti ore del giorno (tacendo degli amici, della tv, dei concerti e di quando forse vale la pena di restare fermi a fissare il soffitto), la domanda sorge spontanea: che tempo vi resta per farvi una cultura?
Una cultura seria, dico, mica i fumetti.

“Adesso che ci penso hai proprio ragione, è da tanto che non leggo un libro, e l’ultimo era una scemenza pompata dal tale ufficio stampa, ma quando in società si parla di Dostoevskij mi faccio piccolo piccolo”.

Beh, non temere, amico utente! Sono qua per aiutarti col mio nuovo trendissimo progetto! Il Leonardo’s Simulatore di Cultura di Base 1.0!
Come si usa? Facile. Tu impari a memoria la frase e non devi più leggere nulla dello specifico autore. Lo so che sembra assurdo, ma ti garantisco che funziona! Io lo sperimento da anni, e la gente mi porta rispetto. Provalo! È gratis!

Calvino, Italo: scrittore del Novecento. Ha scritto da qualche parte che bisogna essere leggeri, sempre molto leggeri. Ogni volta che qualcuno tira fuori la parola “leggerezza”, voi rubategli le parole di bocca ribadendo immediatamente: “Eh, sì, la leggerezza di Calvino”. La discussione si avvierà rapidamente alla conclusione.
(Calvino è uno degli scrittori italiani più complessi e pesanti, ma questo non occorre saperlo).

Pasolini, Pierpaolo: gay del Novecento. Quando i poliziotti menavano i sessantottini, lui stava coi poliziotti, perché erano veri proletari. Citarlo il giorno prima e il giorno dopo di qualsiasi scontro di piazza.
(Poi un giorno qualcuno, probabilmente più vicino a un poliziotto che a un sessantottino, gli passò e ripassò sopra con una macchina, ma questo non occore saperlo).

Brecht Bertolt: chi dice un comunista, chi un rapinatore, comunque del Novecento. Di lui bisogna saper recitare: “il vero ladro non è chi rompe una banca, ma chi la fonda”. È una frase che ti dà un tono, specie se ti trovano con una spranga davanti a un bancomat. Ha detto anche che, se tutti i posti sono occupati, bisogna sedersi dalla parte del torto. Cosa volesse dire non lo so, ma intanto accomodiamoci.

Manzoni, Alessandro: scrittore che si studia a scuola, quindi l’avete studiato anche voi, fa nulla se non vi ricordate il finale, tanto si sapeva fin dall’inizio che quei due si sposano. Cattolico, noioso, superato. La Divina Provvidenza, figurati. Una volta, al dipartimento d’Italianistica, una tipa mi disse che forse era gay.

Leopardi, Giacomo: poeta che si studia a scuola, di solito in quinta superiore a novembre (e le statistiche sui suicidi degli adolescenti levitano). Gobbo che viveva a Recanati e odiava tutti, tranne le donzellette già morte. Ha scritto poesie immortali sull’infelicità, però, diciamocelo, in quanto gobbo gli venivano facili.

Baudelaire, Charles: poeta dell’Ottocento. Eh, chissà che roba che si fumava. Ha scritto… ha scritto… ha scritto delle poesie indimenticabili, come per esempio… per esempio… il Battello Ebbro, non era suo? Ah, era di Rimbaud? Vabbè, tanto più o meno si fumavano la stessa roba.

Schopenhauer, Arthur: filosofo dell’Ottocento. Insegnava nelle stesse ore di Hegel per fargli dispetto. Diceva che tutto è vanità. Ai banchetti si abbuffava e tesseva le lodi del suicidio. Buttò una vecchietta giù dalle scale.

Wittgenstein, Ludwig: filosofo del Novecento. Ha scritto: “di quello che non si può parlare bisogna tacere”: è una frase che può venire molto utile, specie dopo le due del mattino. Picchiava i bambini.

Dostoevskij, Fëdor: scrittore dell’Ottocento. Nei suoi romanzi ci si interroga sul cos’è il Bene, così il Male, e se esista Dio: problemi che potevano venire in mente solo a un vecchio russo pazzo come lui. Forse ha s t u p r a t o dei bambini, ma non è sicuro.

Heidegger, Martin: filosofo del Novecento, uno dei più importanti. Ecco, io, se devo essere onesto, non ho mai capito assolutamente di cosa parlasse, e nelle conversazioni mi sono più di una volta rifugiato nel luogo comune: “Heidegger, ah, sì, quel nazista di merda”. Ma sotto sotto mi vergognavo. Poi, finalmente, domenica scorsa ho trovato sulla Repubblica un pezzo di Gianni Vattimo (pag. 35), e mi ci sono buttato con impegno:

La filosofia di Heidegger è una filosofia dell’emancipazione attraverso la riduzione del peso dell’essente a favore dell’essere. La frase di Sein und Zeit: “Essere, non ente, si dà nella misura in cui c’è verità; e verità c’è solo in quanto c’è l’esserci”, va letta, alla luce di tutta l’opera heideggeriana e anche dell’ermeneutica che si è sviluppata da lui, come un “imperativo” più che un indicativo. Dal resto non si può pensare che Heidegger voglia mai comunque “descrivere” o enunciare una qualche verità su come l’essere, le cose, l’esserci, è: giacché non ha mai creduto alla corrispondenza e dunque alla filosofia come descrizione dell’essere o del reale…

Heidegger dunque, beh…
Che nazista di merda
.

(volete collaborare alla prossima release del Leonardo’s Simulatore di Cultura di Base?: scrivete!)
Comments