I nuovi iconoclasti

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Se qualcuno si fosse mai chiesto come fa una civiltà a diventare iconoclasta – a rinunciare all'arte figurativa, dopo averla coltivata per secoli – le polemiche sul banchetto degli Dei durante la celebrazione dei Giochi Olimpici potrebbero darci un'idea. Il che non significa che non si tratti di polemiche pretestuose, elaborate e propagate da agenti in cattiva fede: ma insomma si prende una qualsiasi immagine e si decide che è offensiva in quanto rappresenta in modo caricaturale una raffigurazione sacra. A nulla valgono le obiezioni più sensate (non era l'ultima cena, ma appunto il banchetto degli Dei), perché dopo secoli di arte religiosa, anche raffigurazioni pagane o secolari non possono che richiamare modelli adoperati nell'arte sacra: l'ultima cena l'abbiamo in mente tutti, per il banchetto degli Dei serve un minimo di cultura specialistica. 

Sappiamo che qualcosa di simile è successo agli artisti durante le fasi iconoclastiche: se dipingevano persone, potevano essere accusati di avere dipinto personificazioni di Dio; se dipingevano animali, non era escluso che qualcuno li ritenesse così empi o pagani da avere raffigurato Dio come un animale. Non restava che dipingere fiori o frutta, e poi sempre più spesso motivi astratti. È il nostro destino? Dopo avere tolto ogni limite a ciò che si poteva raffigurare, cominceremo a fare passi indietro perché la gente comincia a offendersi? Credo di no; perlomeno non penso sia l'obiettivo di chi oggi si definisce scioccato da Philippe Katerine tinto di blu. Ormai abbiamo capito che offendersi è un modo di esistere, e per quanto molti offesi di questi giorni si definiscano cattolici, non è la Chiesa di papa Francesco ad avere necessità di queste campagne di indignazione per far notare la propria esistenza. Si tratta anzi di una frangia identitaria che alla Chiesa cattolica fa la guerra da tempo, i cui temi e soprattutto i toni richiamano sempre di più gli evangelicali americani (ma anche certi ortodossi). 

Forse è il momento giusto per raccontare di una cosa che è successa al mio paese pochi mesi fa. Anche se non credo di essere pronto – come tutto quello che mi capita attorno, ho la sensazione di perdermi davanti ai dettagli. Ma può essere utile per capire che questi nuovi iconoclasti non esistono solo sui social, e che a furia di seminare diffidenza e odio, qualcuno si fa male davvero. 

All'inizio di marzo un quotidiano on line "cattolico", che quasi nessuno aveva sentito nominare, fa uno scoop: in una chiesa di Carpi è esposto un quadro in cui San Longino pratica una fellatio a Gesù. "Ma come è possibile? Una fellatio in una chiesa e su un quadro che raffigura Gesù Cristo?" La "chiesa" in realtà è il museo diocesano, che però per secoli è stata una chiesa vera e ne mantiene la forma e l'atmosfera; il quadro non mostra nessuna fellatio, ma si segnala per la soluzione inedita al problema che affligge gli artisti sacri da duemila anni: come mostrare Gesù crocefisso senza svelarne le nudità?

Invece del classico mutandone, il pittore Andrea Santini decide di nascondere il basso ventre di Gesù all'ombra della testa di Longino. Ora, qui è veramente una questione molto soggettiva, ma a mio parere per immaginare che la scena descriva una fellatio serve una determinata immaginazione; non medievale, non barocca e di certo non romantica; un'immaginazione assolutamente anni Venti del secolo XXI, che attesta l'egemonia figurativa dei siti porno. Così come non riusciamo a vedere un banchetto degli Dei senza che ci venga in mente il cenacolo, allo stesso modo non riusciamo a pensare che una testa si frapponga tra noi e un membro virile senza immaginare che tra testa e membro virile non stia succedendo qualcosa. Omnia immunda immundis. Tutto l'articolo del resto mi sembra trasudi l'ipocrisia di chi conosce benissimo le scene che in teoria dovrebbero indurlo immediatamente a coprirsi gli occhi (o a cavarseli, diceva Gesù). Un po' come Pillon che invece di pensare solo alle cose del cielo twitta pubi femminili, e ormai è pure fiero di farlo, ecco, non è escluso che si arrivi all'iconoclastia anche così: perché stiamo cercando di tenere nella nostra testa paradigmi troppo diversi. Cresciamo studiando una Storia dell'Arte che per secoli consta soltanto di santi, cristi e madonne; nel frattempo su internet qualsiasi posizione sessuale è a portata di clic: alla lunga lo choc culturale ci brucia il cervello. Il quotidiano on line "cattolico" in questione è stato fondato da un signore che ha già scritto un paio di libri contro "le bugie degli ambientalisti"; ha una linea decisamente governativa ma soprattutto non perde occasione per attaccare la "Chiesa oligarchica". Un dettaglio interessante è che non contiene pubblicità: neanche una vignetta, niente. Il che forse significa che qualcuno ci sta investendo. 

Nei mesi successivi lo scoop diventa una campagna, sempre meno indirettamente rivolta alla diocesi di Carpi che aveva patrocinato la mostra (e che continuerà a difenderla, con una flemma che va riconosciuta). Accadono altre cose abbastanza strane. Vengono organizzate raccolte di firme, indette veglie di preghiera contro la "mostra blasfema", anche altri organi di stampa cominciano a chiamarla così, con le virgolette o anche senza, tanto ormai che differenza fa. Ogni sabato pomeriggio, una folla si raccoglie in preghiera davanti alla "chiesa profanata": non sono carpigiani, vengono da altre regioni coi pullman, si portano i bambini ai quali spero non abbiano spiegato troppo dettagliatamente la questione. Sono praticamente tutti bianchi, e questo in Corso Fanti fa un certo effetto; per distinguere i passanti curiosi dai fanatici in gita basta un colpo d'occhio. Fanno capannello intorno a un prete che prega in latino e si veste ancora come Don Camillo, a proposito di choc culturali. È il paradosso della destra postmoderna: rimpiange la Chiesa preconciliare e intanto vede porno dappertutto; il che significa quanto meno che i porno li vede. Alla fine non sono così tanti, e però in capo a un mese qualcuno si fa male. 

Un tizio entra nel museo con una bomboletta: comincia a usarla sul quadro di San Longino; quando interviene lo stesso autore, il vandalo tira fuori un coltello. Saltini viene ferito, il tipo scappa, le adunate di preghiera proseguono. Oltre ai fanatici da fuori, cominci a sentire qualche concittadino borbottare che forse la diocesi ha davvero esagerato, che certi quadri non andavano davvero esposti in una chiesa: e vagli a spiegare che Sant'Ignazio non è più una chiesa. C'è una distanza sempre più evidente tra la Chiesa com'è e come la immagina la gente che a volte nemmeno ci entra; una frattura tra cristiani comunitari e cristiani identitari che immaginare rimarginata non è né plausibile né giusto. 

Poi c'è un artista che si è fatto accoltellare per difendere le sue immagini, e che meriterebbe un discorso a parte. Saltini è un artista contemporaneo che cerca di riprendere temi e stilemi dell'arte sacra, davanti a un pubblico che scambia qualsiasi nudità per pornografia. Almeno in una prima fase era il primo a rivendicare il carattere ambiguo e provocatorio delle sue opere, né poteva fare diversamente: l'arte contemporanea è provocatoria per definizione. Finché non si è trovato davanti a un'interpretazione che non poteva accettare di avere provocato; il che lo ha portato a passare lunghi pomeriggi accanto alle sue opere per spiegare agli spettatori curiosi o indignati che no, non aveva dipinto una fellatio. Fatica probabilmente sprecata: qualcuno l'avrà convinto, qualcun altro lo ha accoltellato. In una città più grande, con un pubblico più smaliziato, le cose sarebbero andate diversamente. Ma l'Italia non è fatta di città molto più grandi della mia. 

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Il papa più sconfitto (ma infallibile)

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7 febbraio: beato Pio IX (1792-1878), papa sconfitto

Pio IX è stato il primo papa a essere
fotografato (questa è del 1864 e non è
la prima). 
Quant'è difficile scrivere un pezzo su Pio IX senza indulgere in retorica papalina o anticlericale. Ne abbiamo già parlato: i santi più difficili sono quelli dell'Ottocento. I santi del secolo precedente tutto sommato sono ancora variazioni roccocò sui modelli antichi o medievali. Quelli del Novecento sono alieni, ucronie ambulanti, personaggi di fatti di cronaca o agghiaccianti film di guerra, i pezzi quasi si scrivono da soli. Il fatto è che dopo aver forgiato il nostro immaginario per millenni, da cento e qualche anno la Chiesa è diventata qualcosa di esotico, che merita rispetto come tutte le culture in via di estinzione. In mezzo c'è questo secolo complicato in cui è avvenuta la transizione, un secolo in cui la Chiesa ha combattuto una guerra per l'egemonia culturale, ed evidentemente l'ha persa: e nessun uomo rappresenta questa sconfitta meglio di Pio IX. Nessuno ha regnato quanto lui (tradizionalmente lo si considera il pontificato più lungo dopo quello di Pietro, del quale però non abbiamo vere notizie), per 31 anni. Nessuno ha acceso speranze tanto vive nei contemporanei, e provocato tanta delusione. 

Giovanni Maria Battista Pietro Pellegrino Isidoro Mastai-Ferretti nasce a Senigallia nel 1792, nono figlio del conte Girolamo Benedetto Gaspare. Nella giovinezza è soggetto a crisi epilettiche che in famiglia vengono fatte risalire a un trauma cranico riportato a cinque anni a causa di una caduta in un torrente. Oltre a interrompere gli studi regolari presso il collegio degli Scolopi, le crisi non gli consentono di assolvere il servizio di leva presso l'esercito del napoleonico Regno d'Italia; anche dopo la Restaurazione la nuova Guardia Pontificia lo congeda quasi subito, dopodiché Giovan Maria Battista guarisce e non avrà più crisi epilettiche in vita sua. Il miracolo viene collegato al primo incontro che avrebbe avuto con Pio VII, presso il santuario di Loreto: il papa gli avrebbe detto semplicemente "Crediamo che questo crudele male non vi tormenterà mai più". Detto, fatto. Invece di riprovare con la carriera militare, Giovan Maria scopre la vocazione ecclesiastica, che nello Stato Pontificio corrispondeva con quella burocratico-amministrativa. Il primo incarico, presso un'istituzione di orfanotrofi, non sembra molto prestigioso, e dovrebbe corrispondere a un'umile predisposizione all'apostolato e alla beneficienza che lo avrebbe portato a rifuggire cariche più importanti. Potrebbe anche essere andata così, ma parliamo di un uomo che ha avuto trent'anni di tempo per aggiustare la sua biografia/agiografia. A trent'anni partecipa a una missione diplomatica in Cile e in Uruguay, terre al tempo lontanissime: è il primo papa ad aver messo piede in Sudamerica. A trentacinque è già vescovo di Spoleto, dove accade un altro episodio leggendario: durante i moti del 1831 avrebbe salvato la vita a un facinoroso carbonaro dal cognome illustre, Luigi Napoleone Bonaparte. Di vero c'è che durante i moti Giovan Maria riuscì a trattare una resa pacifica degli insorti ed evitare uno spargimento di sangue. Un'altra occasione di dimostrare sangue freddo e senso pratico è il terremoto dell'anno successivo; nel 1840 è già cardinale.

Quando viene eletto papa (1846), Pio IX ha appena 54 anni ed è il candidato della fazione più liberale del conclave. È un liberalismo molto relativo: Mastai-Ferretti esalta i neoguelfi che immaginano una federazione delle monarchie italiane guidate dal Papa, piace al popolo che lo ha visto amministrare Spoleto e Imola e ne apprezza la sensibilità filantropica, ma nemmeno dispiace a Metternich che intuisce in lui un uomo d'ordine: e si sbaglia meno degli altri. Il papa appena incoronato deve promulgare un'amnistia che rimette in circolo diversi carbonari democratici e liberali: è la prassi, ma democratici e liberali la vedono come una scelta di campo. Pio IX arriva al fatidico 1848 acclamato come il Papa Liberale, ma la situazione gli sfugge di mano. Quando Milano e Venezia si liberano degli austriaci, il nuovo re di Sardegna dichiara guerra all'Impero e attacca la Lombardia. Sull'onda dell'entusiasmo anche nello Stato della Chiesa si forma un esercito di volontari antiaustriaci: il papa li lascia partire, poi forse si rende conto che l'Austria potrebbe ancora vincere e prova a richiamarli – col risultato di scontentare tutti. Quando il suo primo ministro, Pellegrino Rossi, viene assassinato dai democratici che osteggiano il progetto federativo, Pio IX teme di essere il secondo della lista e scappa a Gaeta, ospite del re delle Due Sicilie. A Roma si proclama la Repubblica; arrivano Mazzini e Garibaldi; poco dopo però arrivano anche i soldati francesi, questi ultimi inviati proprio da quel Luigi Napoleone che Mastai-Ferretti aveva salvato a Spoleto e che era appena diventato il Presidente della Seconda Repubblica. Agli elettori cattolici, Luigi aveva promesso di rimettere il papa al suo posto. La resistenza è vana; Garibaldi guida i volontari fuggitivi in direzione di Venezia in una trafila estenuante durante la quale perderà, tra gli altri, la compagna Anita: dal 1849 in poi per lui l'ex papa liberale sarà il "metro cubo di letame".

(Bellocchio, 2023)

Reinstallatosi a Roma, non più al Quirinale ma nel Vaticano che dava più sicurezza in caso di tumulti, Pio IX revoca la costituzione, rimette gli ebrei nel ghetto, ripristina la pena di morte, insomma fa tutto quello che i re assoluti facevano dopo che le rivoluzioni ottocentesche esaurivano le fiammate. Quelli che non abdicavano: ma lui, l'aveva spiegato prima di fuggire a Gaeta, non aveva "il diritto di abdicare": doveva essere papa fino in fondo, anche se questo significava ormai abbracciare la Reazione. Quando l'Inquisizione a Bologna sottrae a una famiglia ebraica un bambino di sei anni, Edgardo Mortara, Pio IX non ha nulla da obiettare: una cameriera lo aveva battezzato di nascosto per salvarlo dal limbo, e per la legge chi era battezzato non poteva crescere in una famiglia ebraica. Il caso fa molto clamore anche all'estero, ma Pio IX si dimostrerà, in questo e in altri casi, completamente tetragono alla nuova opinione pubblica. Succede a molti supposti liberali, di rinnegare il proprio progressismo non appena si raggiunge una posizione di potere: e la posizione di Pio IX era ancora quella di un sovrano assoluto. Modernismo, liberalismo, socialismo e in sostanza qualsiasi -ismo di cui si fosse sentito parlare vengono condannati nel Sillabo (1864). Il rinnovamento tecnologico, non ufficialmente osteggiato, va a rilento; strade e ferrovie rischiano di facilitare traffici e contatti con territori e popoli più liberi; il fisco è leggero e alle grandi famiglie nobiliari piace così, anche perché attira grandi turisti e capitali. Il popolo non è così contento ma ribellarsi non conviene. A Roma mastro Titta è ancora attivo: qualcuno nota l'ironia di un regime che ha rinnegato ogni scoperta rivoluzionaria tranne la ghigliottina, ma se vogliamo essere precisi i romani avevano cominciato a usare un supplizio simile prima dei francesi, durante l'ancien régime, dimostrandosi almeno in questo campo all'avanguardia. 

Quando nel 1859, allo scoppio della Seconda Guerra d'Indipendenza, Perugia insorge, un reggimento di soldati pontifici riporta l'ordine in città con un massacro di civili. La situazione è delicata: l'integrità dello Stato della Chiesa dipende sempre da Luigi Bonaparte, ora non più presidente ma imperatore Napoleone III. Quest'ultimo però sta giocando una partita complessa su due tavoli diversi: ha infatti deciso di appoggiare anche l'espansione del Regno di Sardegna nel nord Italia, sorprendendo gli austriaci ma scatenando quelle forze democratiche che a Pio IX l'avevano giurata. Tra questi in particolare Garibaldi, che sbarcato in Sicilia con poco più di mille uomini sta risalendo la penisola col chiaro intento di arrivare a Roma; a fermarlo accorre lo stesso re di Sardegna, ma il prezzo da pagare per salvare il Lazio è la cessione di Umbria, Marche e Romagna. A partire dal 1861 lo Stato della Chiesa è circondato dal nuovo Regno d'Italia; Vittorio Emanuele II promette che non toccherà Roma, ma Garibaldi continua a provarci finché non gli sparano a una gamba. A Caprera battezza un asino Pionono, così può bastonarlo a suo piacimento.

Francesco Podesti, musei vaticani. Gli affreschi della sala dell'Immacolata
sono l'ultimo kolossal pittorico romano, prima del grigio diluvio democratico.

Mentre vede il suo potere temporale assottigliarsi, Pio IX cerca di puntellare il suo potere spirituale, con un'iniziativa arrischiata. Nel 1854, con la costituzione apostolica Ineffabilis Deus, mette una pietra sul millenario dibattito tra maculisti e immaculisti. Questi ultimi sostenevano che Maria di Nazareth era stata concepita senza peccato originale, per poter ospitare in grembo il figlio di Dio; i primi obiettavano che Maria aveva scelto di essere madre di Gesù, esercitando il libero arbitrio. Pio IX, da sempre devoto all'Immacolata Concezione, decide di proclamare la tesi degli immaculisti come dogma di fede. C'è però un problema non piccolo: fino a quel momento i dogmi non erano stati proclamati dai pontefici, ma dai Concili. Pio IX convocherà effettivamente un concilio, non per confermare il dogma dell'Immacolata Concezione, bensì per sancire il principio dell'infallibilità del pontefice ex cathedra, cioè in materia di fede. È il Concilio Vaticano I, che si apre nel 1869: a questo punto Mastai-Ferretti è papa da un quarto di secolo, eppure non tutti i vescovi accorsi dall'Europa sono pronti ad accettare un concetto (l'infallibilità) che teoricamente potrebbe porre fine alla storia dei concili. 

Si consuma anche un piccolo scisma con i cosiddetti veterocattolici; il Concilio poi si scioglie precipitosamente (e non ufficialmente) perché nel frattempo Napoleone III ha avuto l'idea di dichiarare guerra ai prussiani e le cose non sono andate come prevedeva. Il Secondo Impero francese crolla di schianto: il papato perde il suo protettore internazionale. A Vittorio Emanuele II che cerca di spiegargli che ormai è questione di giorni, Pio IX scrive "Vi dico che non entrerete a Roma". La resistenza nei fatti è impossibile, ma il papa ordina ai suoi uomini di non arrendersi senza combattere un po', giusto per ribadire di fronte all'opinione pubblica internazionale che non si tratta di un'annessione, ma di un'invasione. Ne risulterà una sessantina di morti, dopodiché il papa rifiuterà l'offerta di rimanere re di una porzione dell'Oltretevere e si dichiarerà prigioniero politico del regno d'Italia. 

Ai sudditi cattolici del regno la sua bolla Non expedit domanderà la non-partecipazione alla vita politica. Una richiesta che introdurrà nella coscienza di tanti italiani una lieve forma di bipolarità: come se essere contemporaneamente buoni cittadini e buoni cristiani non fosse del tutto possibile, e in effetti forse non lo è.   

Pio IX morirà nel 1878, quattro anni prima di Garibaldi. È stato beatificato nel 2000 da Giovanni Paolo II, il papa che per appena cinque anni non è riuscito a battere il suo record di permanenza. La beatificazione riaprì le polemiche, soprattutto con la comunità ebraica e la famiglia Mortara. Oggi come oggi è difficile immaginare che un nuovo miracolo schiuda le porte a un iter di canonizzazione, ma dipenderà anche dal taglio che vorranno dare al loro pontificato i successori di Francesco. Non è difficile immaginare che a un papa sensibilmente più progressista dei due precedenti possa seguirne un altro più conservatore, qualcuno che in Pio IX possa riconoscere un simbolo della lotta alla modernità e dell'infallibilità del magistero. Vedremo. Agli osservatori consiglierei prudenza, Mastai-Ferretti nel 1846 sembrava davvero un papa avanti; ma a volte la Storia soffia troppo forte, e nel panico l'unica soluzione sembra ammainare le vele prima che si strappino. 

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Il vescovo e sua moglie

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18 gennaio: San Volusiano, vescovo ammogliato di Tours (432-507)

Su Volusiano, o meglio su sua moglie, gira da secoli una diceria che con questo piccolo pezzo vorrei contribuire a smontare: non c'è infatti nessun vero motivo per sostenere che la moglie fosse bisbetica e gli rendesse la vita difficile. È il classico luogo comune da barzelletta, che è rimasto appiccicato alla coppia, perché? Non è così difficile capire il perché. Visto che era impossibile negare che Volusiano fosse ammogliato, i cronisti ritenevano giusto lasciar intendere ai lettori che il matrimonio non fosse che una fonte di fastidio; l'idea di un prelato felicemente sposato infastidiva, soprattutto dopo che la Chiesa cominciò a insistere sul celibato ecclesiastico (ma ci sarebbero voluti altri cinque secoli). Ai tempi di Volusiano, la moglie di un vescovo non era una figura così rara. Il secondo concilio di Cartagine tollerava esplicitamente la nomina di vescovi e papi coniugati, purché osservassero la continenza. 

Il mancato celibato era spesso indizio di vocazioni tardive, e in effetti dalla corrispondenza con l'amico Sidonio Apollinare abbiamo la sensazione che Volusiano abbia preso i voti abbastanza tardi, dopo una giovinezza passata sostanzialmente a godersi il patrimonio famigliare. La vocazione pastorale, più che a una crisi esistenziale, potrebbe essere stata causata dal fatto che si stava liberando un posto da vescovo proprio a Tours. Il predecessore di Volusiano era suo zio, Perpetuo; così come il predecessore di Perpetuo era stato suo zio, Eustachio. Insomma la diocesi era un'eredità famigliare, che però piomba sulle spalle di Volusiano proprio nel momento più difficile: l'Impero Romano d'Occidente è caduto, la Gallia centrale è contesa tra Visigoti e Franchi. Siccome i Visigoti di Alarico II sono cristiani di confessione ariana, e i Franchi di Clodoveo si sono appena convertiti al cristianesimo niceno, è anche una guerra di religione, e il seggio di Volusiano (vescovo niceno in una zona controllata dai Visigoti) non è il più comodo. Difatti viene esiliato a Tolosa, e dopo la sconfitta di Vouillé (in cui Alarico sarebbe stato ucciso dallo stesso Clodoveo) deportato nella Spagna visigota. Perlomeno così scrive lo storico concittadino, Gregorio, mentre per il Martirologio romano Volusiano è decapitato dai Visigoti a Pamiers, sul lato ancora francese dei Pirenei: la sua testa sarebbe conservata nella cattedrale di Foix. Non è chiaro cosa sia successo alla moglie. 

Che quest'ultima avesse un carattere bisbetico, i cronisti lo deducono unicamente (e arbitrariamente) da una lettera inviata da un collega, Ruricio di Limoges. Volusiano probabilmente aveva condiviso qualche preoccupazione sulla sua situazione di vescovo del credo sbagliato nella città sbagliata. Ruricio gli risponde che "non deve temere il nemico da fuori chi ne ha già uno in casa". Sembra una neanche troppo velata esortazione a non temere i Franchi: il vero nemico ce l'ha già in casa (e in effetti la testa gliel'hanno tagliata i Visigoti). Nei secoli però ha preso forma questa diceria per cui Ruricio stesse alludendo alla moglie di Volusiano e al brutto carattere di lei. Ora, che il vescovo di Limoges rispondesse alle preoccupazioni del vescovo di Tours su un'invasione scrivendogli: preoccupati piuttosto della nemica che ti trovi in casa, ecco, lo trovo abbastanza improbabile. 

Il celibato per i sacerdoti sarebbe stato imposto dalla Chiesa d'Occidente solo nel XI secolo, in seno alla lunga riforma che per comodità chiamiamo gregoriana. Una riforma che ai tempi incontrò il favore di gran parte dei fedeli, proprio perché andava a colpire gli interessi delle grandi famiglie che continuavano a ereditare vescovadi e parrocchie come fossero feudi. Che il celibato non fosse già allora una scelta di vita facile lo dimostra il fatto che il primo dossier sugli abusi sessuali del clero sia stato compilato proprio nello stesso periodo. Un probabile effetto collaterale fu la selezione dei giovani che non si sentivano particolarmente attirati dal matrimonio e in generale dal sesso femminile: la repulsione nei confronti di quest'ultimo era spesso considerata il segno di una chiamata al sacerdozio.  

Oggi la situazione è molto diversa: la Chiesa cattolica continua a patire una crisi di vocazione che presto o tardi la costringerà a rimuovere il celibato, o più probabilmente a conferire più importanza alla figura dei diaconi, che questo obbligo non l'hanno mai avuto. Insomma non è detto che rivedremo mai la moglie di un vescovo – ma la moglie di un diacono importante, quella sì. E soprattutto non ci sono seri impedimenti storici o scritturali alla nomina di diaconesse. 

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Il vescovo inesistente

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30 dicembre – Sant'Eugenio di Milano (un secolo qualsiasi)


Di Santi Eugenii ce n'è tanti: solo in Irlanda la Bibliotheca Sanctorum ne nomina una decina. Poi ce n'è a Damasco, Gerusalemme e Cartagine, oltre a un paio di papi; e a questo punto poteva Milano non vantarne uno? Per un po' si è dato per scontato che si trattasse un vescovo, ma nella lista ufficiale dei vescovi di Milano il primo a portare questo nome è stato Eugenio Tosi nel... 1922. Potrebbe trattarsi dell'ennesimo santo generato da un refuso, visto che le cronache non solo lo consideravano contemporaneo di Sant'Eustorgio, ma addirittura menzionavano la traslazione dei suoi resti mortali proprio nella chiesa di quest'ultimo. "Eugenio" ha in effetti tutta l'aria di essere la soluzione che un copista potrebbe trovare di fronte a una parola di cui riusciva a leggere soltanto il dittongo iniziale – insomma quanti altri nomi cominciano per Eu

Quando scrive la sua Mediolanensis Historia, verso la fine del secolo XI, Landolfo Seniore risolve il problema definendolo vescovo sì, ma di qualche altra città "al di là dei monti" ("transmontanus"). A Milano ci sarebbe passato al seguito di Carlo Magno, di cui sarebbe stato padre spirituale. Non essendo di origine meneghina, Eugenio risulta più autorevole nel suo sforzo di salvare il rito ambrosiano minacciato dalle riforme semplificatrici di papa Adriano I. Già allora l'idea che i milanesi avessero un loro rito, e un calendario liturgico diverso dal romano (a quel tempo variamente diffuso in tutta la pianura padana) lasciava perplessi. Non fosse per quei quattro giorni di carnevale in più: il rito ambrosiano in effetti conta i quaranta giorni di penitenza dal Giovedì santo, mentre a Roma il conteggio partiva dal Sabato santo, ma ometteva le domeniche.

Landolfo racconta che dopo l'accorata difesa del rito ambrosiano da parte di Eugenio, i vescovi convocati in concilio a Roma stabiliscono di effettuare il seguente esperimento: posizionare sull'altare della basilica vaticana il messale ambrosiano e quello romano, sigillare il tutto e riaprire dopo tre giorni. Il libro che sarebbe rimasto aperto sarebbe stato adottato da tutta la cristianità. Immaginiamo nell'occasione l'ansia della delegazione milanese davanti a quella che i concittadini oggi definirebbero una lose/lose situation: se si fosse trovato aperto il messale romano, addio sabato grasso; ma se si fosse trovato aperto quello ambrosiano, il sabato di carnevale sarebbe diventato obbligatorio anche fuori dalla loro diocesi, togliendo ai milanesi il tipico gusto di bisbocciare mentre gli altri lavorano. 

Dopo tre giorni, il miracolo: entrambi i libri vengono trovati chiusi e poi si aprono assieme di colpo. Dunque i calendari hanno la medesima dignità, e l'esclusività ambrosiana è salva. Quando inventa questa simpatica storia, è probabile che Seniore avesse in mente l'iniziativa riformatrice di un altro papa (Gregorio VII), che aveva messo il rito ambrosiano nel mirino. Cosa non ci si inventa per tre giorni in più di carnevale.

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Le martiri della Drina, o come la Chiesa racconta la violenza sessuale

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15 dicembre: beate martiri della Drina, assassinate il 15/12/1941


Da qui a qualche generazione di distanza, forse la Seconda Guerra Mondiale ci apparirà ancora più incredibile di quanto non sia adesso (è quel che dovremmo augurarci, perlomeno). In un secolo drammatico ma tutto sommato razionalmente descrivibile, ecco un intervallo di assurdo orrore i cui resoconti, anche quando dettagliati con minuzia, tradiscono comunque particolari che appaiono mitici o fiabeschi; proprio quando la storiografia sembrava aver abolito categorie assolute come il Bene o il Male, il nazismo e le persecuzioni a carattere etnico rimettono in discussione l'imparzialità degli studiosi. Una prova indiretta di questo fenomeno è la diffusione, nel secondo dopoguerra, di vere e proprie leggende dei santi come non se ne tramandavano da secoli: agiografie costruite a partire da fatti di cronaca e crimini di guerra che solo nel contesto della Guerra possono apparire plausibili. 

Uno dei casi più esemplari è quello delle cinque martiri della Drina, beatificate da Benedetto XVI. Si tratta di cinque suore cattoliche, di età tra i 29 e i 76 anni, che gestivano un piccolo convento a Pale, nei pressi di Sarajevo. Si chiamavano tutte di primo nome "Marija", e quindi si distinguono dal secondo nome e dal cognome: Jula Ivanišević, Berchmana Leidenix, Krizina Bojanc, Antonija Fabjan, Bernadeta Banja. Ad alcune viene associata la nazionalità austriaca, ad altre slovena, croata o ungherese, ma sono attribuzioni da prendere con le pinze (la nazionalità bosniaca negli anni Quaranta ancora non era definita). Di loro non si sa molto di più di questo; tutte le informazioni che mi è stato possibile trovare in italiano, su internet, provengono da siti cattolici e sono state redatte verosimilmente in occasione della cerimonia di beatificazione, intorno al 2011, nel settantesimo anniversario della strage. Con un po' d'impegno (e di serbo-croato) potremmo trovare anche notizie di fonte diversa, e non ci troveremmo in una situazione così simile a quella dei compilatori medievali. 

Quel che ci viene insomma tramandato è che le suore furono rapite e trucidate da un commando di cetnici, la milizia lealista serba che stava combattendo una guerra ambigua, contro gli occupanti tedeschi (e italiani) ma anche e soprattutto contro i partigiani jugoslavi di Tito. L'episodio è tragicamente verosimile: è la dinamica a ricordare più le miniature medievali che i film di guerra che danno forma al nostro immaginario. Sequestrate a Pale l'11 dicembre, rinchiuse in una caserma a Goražde il 15, quattro delle cinque suore avrebbero resistito a un tentativo di stupro gettandosi dalle finestre. Le leggende, che omettono sempre di indicare gli eventuali testimoni oculari della vicenda, specificano sempre invece con molta chiarezza che nessuna delle quattro morì a causa della caduta: ma furono tutte invece finite "a colpi di baionetta" dai cetnici.  La quinta sorella, la più anziana (76 anni), era sotto la custodia di un altro drappello: fu uccisa anche lei dai cetnici il 23 dicembre. Di fronte a fatti tanto cruenti, anche l'osservatore laico sente l'impulso a fare un passo indietro: è davvero così importante che siano riuscite tutte a lanciarsi dalla finestra, tutte e quattro, in così breve tempo ed esiguo spazio? È davvero importante che nessuna delle quattro sia morta a causa della caduta? Insomma, se i cristiani hanno deciso di raccontarla così, perché sollevare obiezioni? Perché, appunto, questo è il modo in cui si raccontavano le storie di martiri già nel mondo tardoantico. In particolare il salto nel vuoto delle suore richiama quello di Santa Pelagia di Antiochia, minacciata da legionari altrettanto minacciosi, cui Giovanni Crisostomo dedicò un elogio che forse le suore conoscevano. 

Se però il Crisostomo suggeriva che una buona cristiana dovesse preferire la morte alla perdita della verginità, in seguito la questione è diventata più spinosa, almeno in Occidente. A un certo punto l'entusiasmo con cui alcuni santi andavano verso il martirio è sembrato eccessivo; nel frattempo era stato messo nero su bianco che i suicidi non potevano ottenere il perdono di Dio, e quindi era opportuno ritoccare i passi in cui un santo nell'arena correva incontro alle bestie feroci, o forzava la mano armata di un titubante carnefice, o si lanciava, perlappunto, dalla cima di una torre o da una finestra. Il discrimine può essere stato, così come per tante altre cose, il Concilio di Trento; qualche decennio dopo, i samurai cristiani si fanno un punto d'onore di rifiutare la pratica del seppuku; quando Paolo Uchibori viene condotto presso i fanghi vulcanici di Unzen, domanda ai compagni di non gettarsi da soli ma di aspettare che siano i boia pagani a dare una spinta. Cosa cambia? Per i cronisti, poco o nulla. Per un cristiano, tutto. La distanza tra un martirio per la fede e un suicidio, nei fatti, è minima: ma per un cristiano il martirio è la strada maestra per il paradiso, laddove il suicidio schiude le porte dell'inferno. E se è possibile che Gesù Cristo Giudice applichi queste categorie con un minimo di buon senso e misericordia, da un punto di vista educativo non si può assolutamente correre il rischio di confondere le due cose. Quattro secoli dopo, chi tramanda la storia delle beate Marije sente ancora la necessità di stabilire con certezza che sì, si gettarono dalle finestre ma no, non morirono a causa della caduta, bensì delle baionette dei cetnici. 

Non solo gli agiografi devono allontanare ogni sospetto di suicidio, ma anche negare la possibilità che almeno una violenza sessuale su quattro sia stata commessa. Anche questo è un topos delle leggende di santi tardoantiche e medievali: ormai ne ho lette un po' e a memoria non mi sembra di aver mai trovato un caso in cui la violenza viene effettivamente consumata. Nei casi più realistici (come appunto quello di Pelagia) la vittima si salva con un sotterfugio e un gesto estremo; nella leggenda tipica è Dio stesso a intervenire, mediante miracoli più o meno spettacolari. Agnese e Lucia possono anche essere condannate al bordello; ne escono più pure che mai. Chi osa toccarle o anche solo guardarle finisce malissimo. Noi ovviamente siamo liberi di trovare tutto questo molto ingenuo; purché ogni tanto ci poniamo il problema: chi siamo, esattamente, noi?

Siamo esponenti di una civiltà che si vanta di curarsi della Verità più che dell'Ideologia; per cui, se qualche donna effettivamente è stata stuprata da un soldato, durante le persecuzioni di Diocleziano o anche millequattrocento anni dopo in un conflitto mondiale, ci piacerebbe esserne informati. Siccome è successo, riteniamo doveroso segnarcelo da qualche parte; magari dopo aver raccolto un po' di resoconti di questo genere riusciremmo anche a realizzare delle statistiche, scoprire chi violentava di più, eccetera eccetera. E mentre riflettiamo su queste cose, ecco che scoppia di nuovo una guerra, e intorno a noi un sacco di devoti della Verità comincia appunto a contare le violenze e gli stupri inflitti da una parte e dell'altra, senza lesinare i particolari. Alcuni di questi particolari dopo un po' risultano essere stati inventati ma è troppo tardi, c'è chi ormai li ha memorizzati e non smetterà più veramente di crederci. Insomma a guardarlo più da vicino, e in tempi di guerra, questo culto della Verità appare meno granitico di quanto sembrava; se gratti bene sotto le statistiche ci trovi di nuovo l'Ideologia. Niente di nuovo sotto il sole; chi combatte ha sempre messo in guardia i civili dal nemico bieco e stupratore; lo stesso nemico del resto molto spesso si rivela bieco e stupratore, la propaganda è una distorsione inevitabile in tempi di guerra,  e una guerra c'è sempre. 

Accettiamo la cosa; però mettiamo a verbale che gli agiografi non lavoravano così. Partendo da un presupposto che tutto sommato ancora condividiamo – la violenza sessuale è un crimine insopportabile – decidevano di cancellarlo. In una civiltà in cui la vittima di violenza sessuale sarebbe stata considerata meno pura, irrimediabilmente macchiata, se non addirittura connivente con il suo carnefice, gli agiografi preferivano scrivere che la vittima non era stata toccata; nemmeno in un bordello. Facevano un torto alla verosimiglianza e probabilmente alla stessa verità; nonché forse alla fantasia morbosa di qualche studioso; ma forse rispettavano le vittime molto più di quanto le stiamo rispettando noi, coi nostri referti, le nostre statistiche, i nostri video che dimostrano inoppugnabilmente che il nemico stupra più di noi. Forse le Marije non si sono salvate dalla violenza sessuale; magari non tutte e quattro. Ma avrebbero voluto risparmiarsi, e l'agiografo le ha risparmiate. Forse chi è davvero riuscita a saltare dalla finestra è morta sul colpo; ma non avrebbe voluto, e l'agiografo l'ha fatta morire in un altro modo. Cambia qualcosa? Per noi che non crediamo no, non cambia quasi nulla. Ma qualcuno ci crede: e per lui cambia tutto. 

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Karol W., santo e subito

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[2013]. Quiz: Ha scritto poesie, commedie e millecinquecento pagine di filosofia, è stato fattorino, attore e minatore; a calcio giocava in porta ed è membro onorario del Barcellona FC. Chi è? Un aiutino: negli ultimi trent’anni di vita ha fatto anche il papa. Ah, vabbe’, ma così è troppo facile.

Si fa la barba verso il 1960.


22 ottobre – San Giovanni Paolo II, superpapa (1920-2005)

A un certo punto della mia, della sua vita, io devo aver pensato che Karol Wojtyla, in arte Giovanni Paolo II, non sarebbe morto mai. Forse per mancanza di fantasia, dopo vent’anni la prospettiva di un altro papa, con un nome diverso, un diverso numero, mi sfumava nell’inverosimile. Un altro dopo di lui, ma chi? E perché? Del resto, bastava notare i progressi della scienza medica per farmi intravedere la singolarità: la vita media si allungava sempre più, sempre più organi e tessuti diventavano rigenerabili, certo sarebbe servito denaro ma per uno come GPII il denaro non era un problema. Per un papa come lui il problema era piuttosto dire di no all’accanimento terapeutico: avrebbe potuto mai permettersi di dire una cosa semplice e terribile come “lasciatemi morire?” Non poteva, era GPII, le sue più profonde convinzioni lo condannavano a vivere per sempre. Sublime ironia: mentre la gente lo acclamava santo in vita, lui si sarebbe autoinflitto un esilio in terra; si sarebbe lasciato alimentare coi sondini finché tutto l’apparato nervoso non sarebbe diventato replicabile in laboratorio (ovviamente senza fare male a nessun embrione). Se poi col tempo fosse scivolato in una condizione di coma vigile, nessuno avrebbe potuto arrogarsi di scegliere per lui a ogni bivio tra la morte e una nuova terapia per conquistare qualche mese di vita: e così sarebbe sopravvissuto per millenni, ieratico e immortale vicario di Cristo, pronto a riaprire gli occhi e staccare le flebo nell’alba del giorno del giudizio. Alla Chiesa cattolica, raccolta in preghiera intorno al suo capezzale in terapia intensiva permanente, non sarebbe rimasto che nominare un vicario del vicario. A un certo punto io pensavo che sarebbe realmente finita così. Lo scrissi anche da qualche parte, per fortuna non mi lesse nessuno.

Chiunque altro renderebbe la foto ridicola.


Dato che ovviamente mi sbagliavo. Un giorno qualsiasi, GPII sussurrò davvero l’inimmaginabile frase “lasciatemi tornare alla casa del Padre”, e ci lasciò. La sua missione, abbracciata 35 anni prima – accompagnare la Chiesa nel terzo millennio – era abbondantemente compiuta. Ora magari verrà qualcuno esperto a spiegare, con dovizia di argomenti, perché quella sommessamente domandata da GPII e più recentemente dal cardinale Martini non sia da considerarsi un’eutanasia, mentre quella di Piergiorgio Welby sì. Mi si perdoni se qui la taglio un po’ più corta: un sovrano non è soggetto alle stesse leggi dei sudditi, e GPII è stato la cosa più vicina a un sovrano che abbiamo avuto in Italia dal Quarantasei in poi – ma forse anche da prima. La sensazione che sopra ogni confusione e disastro, ci fosse comunque Lui, il sole indifferente che anche quando è nuvolo c’è: basta aspettare e prima o poi farà capolino da qualche parte nel cielo, ci farà sapere cosa pensa, pubblicherà un’enciclica, beatificherà un reggimento, stringerà le mani a qualche leader politico discutibile, dirà due paroline dal balcone contro la guerra o la fame… Anche chi malsopportava la Chiesa, Wojtyla non riusciva a odiarlo. Senza mai diventare quel tipo di papa piacione collaudato da Giovanni XXIII, ritentato da Giovanni Paolo Primo e ora rispolverato da Papa Francesco, GPII da un certo punto in poi divenne semplicemente troppo grande perché ci si potessero appendere le nostre polemiche quotidiane. Quel punto fu probabilmente il 13 maggio 1981, l’attentato a Roma, festa della Madonna di Fatima.

Fino a quel momento Wojtyla era stato un papa simpatico, coi suoi errori di pronuncia, persino un po’ mondano, coi suoi voli transatlantici e la sua fissa per il nuoto in piscina. Un intellettuale, comunque, uno che ha studiato sul serio, e che si era ritrovato nel partito di Dio in uno dei pochi Paesi al mondo in cui era un partito d’opposizione, osteggiato dal regime. La più famosa vignetta di Andrea Pazienza fotografa quel momento particolare: un giovane papa a bordo piscina sorseggia un drink e si domanda: e se esistesse veramente? Ih! Mavvedi cosa vado a pensare. Qualche anno dopo una vignetta così sarebbe stata inimmaginabile. Il Wojtyla che avrebbe stretto la mano a Pinochet sarebbe stato vittima di scherzi anche più feroci, ma nessuno l’avrebbe più immaginato nell’atto di dubitare. 
Gli hanno appena sparato. Questa e le altre straordinarie foto provengono da https://www.ilpost.it/2011/05/02/foto-wojtyla/

Ali Ağca cambiò le cose per sempre, anche se non nel mondo che aveva voluto lui (ma non sapremo mai cosa voleva davvero Ali Ağca). Se il Novecento è la nuova Bibbia, e gli attentati suggellano la grandezza dei nuovi Martiri (i Kennedy, Gandhi, Martin Luther King), scampare a un attentato è la cosa più simile alla resurrezione che la postmodernità possa offrirci; e nel 1981 nel giro di tre mesi risorsero due dei protagonisti assoluti del decennio a venire: Ronald Reagan e Karol Wojtyla. Entrambi mediocri attori in gioventù e politici di razza; entrambi intimamente persuasi dell’esistenza del Male e della propria militanza nelle file del Bene; entrambi ormai convinti di essere stati scelti e salvati per qualcosa di grande, fosse anche la fine del mondo. È abbastanza buffo dire, come dicono molti, che Reagan e/o Wojtyla sconfissero il comunismo. Ma non c’è dubbio che si sentissero chiamati a farlo, e che nel 1981 non potevano immaginare quanto sarebbe stato relativamente semplice, quasi indolore. Nei suoi discorsi elettorali Reagan parlava di apocalisse nucleare e Impero del Male. Nell’anno dell’attentato, un papa Wojtyla ancora umano lasciava che da un’intervista con una rivista tedesca trapelassero dettagli inquietanti su quel famoso terzo segreto di Fatima:

Se c’è un messaggio in cui si dice che gli oceani annegheranno intere sezioni della terra, e che da un momento all’altro milioni di persone periranno… non c’è veramente nessun motivo di voler pubblicare questo messaggio. Molti vogliono conoscerlo per pura curiosità, o per il gusto del sensazionalismo, ma dimenticano che “sapere” implica anche per loro una responsabilità. È pericoloso soddisfare una curiosità se sei convinto che non possiamo fare nulla per una catastrofe che è stata predetta.



Il quinto da destra nella terza fila dietro l’obelisco è distratto, sta pensando al totocalcio.


In seguito GPII non si sarebbe più lasciato scappare rivelazioni del genere. Per molti anni i fotografi non avrebbero inquadrato che sorrisi, sempre più raggrinziti e ieratici, finché il parkinson glieli avrebbe consentiti; nel mentre che metteva a punto quella strategia comunicativa che sta tutta in una parola: speranza. Non Abbiate Paura. Varcate la Soglia della Speranza. Nel frattempo anche la retorica di Reagan si raddolciva, malgrado i vertici USA-URSS non stessero andando poi così bene. La storia gli avrebbe dato ragione. 

Rimane il dubbio: dietro tanti inviti alla speranza, perfettamente calibrati per una società globale che voleva lasciarsi dietro gli incubi della guerra fredda, GPII ci credeva alla fine del mondo, o no? Pensava davvero di essere il papa martirizzato su una montagna di martiri, descritto dalla veggente suor Lucia dos Santos? Preso atto che ogni cristiano dovrebbe vivere nell’attesa della fine dei tempi, quanto tempo pensava di avere davvero a disposizione il Papa-Venuto-da-Lontano? Perché tanti sue scelte – dalle conseguenze incalcolabili – tradiscono una fretta che l’attesa apocalittica spiegherebbe. Oltre ad aver pubblicato 14 encicliche e un nuovo Catechismo, Wojtyla ha nominato più santi di tutti i papi prima di lui messi assieme (482); ha fatto più chilometri di tutti i papi precedenti messi in fila: centoquattro viaggi apostolici, 146 visite pastorali, più di un milione di km di aereo (si può andare sulla luna tre volte). Un’urgenza insopprimibile di portare il vangelo dappertutto, a costo di farsi fotografare sul balcone di qualche dittatore. La necessità di aprire ai giovani senza guardar troppo per il sottile: se a loro piace l’ammucchiata con le tende diamogli l’ammucchiata, (le GMG sono un’invenzione sua, di fronte alla quale le varie Woodstock impallidiscono, se non per rilevanza culturale, almeno per dimensioni). Nessuna vera preoccupazione per la sovrappopolazione e le emergenze ambientali: tanto la fine è vicina. E la convinzione di doverci arrivare vivo, anche quando il fisico cominciava a tradirlo.



Dicono che ci ha una mossa segreta che dopo 30 giorni muori.


Wojtyla non aveva ancora vent’anni quando i tedeschi avevano invaso la Polonia. Col padre era fuggito da Cracovia verso est – soltanto per scoprire che da est arrivavano i sovietici. Tornato dalla parte tedesca, aveva trovato lavoro in una miniera: fu l’impiego che lo salvò dalla deportazione. Un giorno, aveva 24 anni, mentre tornava dalla miniera un camion tedesco lo investì. Trauma cranico acuto. Un minatore polacco, nelle province esterne del Reich, nel 1944, quante possibilità aveva di salvarsi?

Wojtyla la scampò. Maturò forse in quel momento l’idea di essere al mondo per qualcosa di grande. Una convinzione profonda, pre-logica, immune a tutta la filosofia e la cultura che stava immagazzinando. Quando sopravvivi al nazismo, e appena ti fai prete arrivano i sovietici, e invece di finire male diventi cardinale, e vai a un conclave e non ti fanno papa, ma il papa muore subito e tu diventi Giovanni Paolo II: qualche dubbio di essere l’uomo del destino ti viene. Se poi ti sparano al cuore, e sopravvivi, ed è proprio il giorno in cui si festeggia quella Madonna che aveva previsto tutto, beh, forse davvero la fine dei tempi è vicina. Forse negli ultimi anni Wojtyla stava aspettando qualcosa di più della sua semplice fine individuale. La sua contrarietà a un pensionamento che il braccio destro Ratzinger trovava già logico potrebbe avere avuto questo senso.

Finché un mattino non deve essersi arreso. Era primavera inoltrata, ormai, la ventisettesima che passava a Roma, e il mondo che pulsava alle finestre tutto dava l’impressione fuorché di voler finire. Vabbe’ mi sarò sbagliato, mò lasciatemi andare. Rip.
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Roberto, inquisitore e gentiluomo

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17 settembre – San Roberto Bellarmino (1542-1621), inquisitore gentiluomo di Bruno e Gailleo

[2013] Gli anglicani, lo abbiamo visto, festeggiano San Thomas More, che fu decapitato per non aver accettato lo scisma anglicano. È un po’ come se i cattolici il 17 febbraio festeggiassero Giordano Bruno. Non lo fanno, non sono altrettanto sportivi. Invece il 17 settembre festeggiano San Roberto Bellarmino, il suo più celebre inquisitore. E tuttavia.

E tuttavia le cose non sono così semplici – le cose non sono mai semplici. Quando viene coinvolto dal lungo processo a Bruno, Bellarmino ha 55 anni e non ha decisamente il profilo del tetro cacciatore di streghe che ci piacerebbe assegnargli. È uno dei pochi che ha la formazione culturale necessaria per leggere davvero gli astrusi libri di Bruno e capire se in tanta torrenziale produzione di parole ci sia qualcosa di eretico o no. In fondo il filosofo e il suo inquisitore si somigliano. Sono nati entrambi negli anni Quaranta, mentre il concilio di Trento muoveva i primi passi. Sono entrambi studenti brillanti e precoci: Bruno presso gli odiati domenicani (di cui si metterà e si toglierà l’abito a seconda della situazione), Roberto coi gesuiti. Sono due viaggiatori in un secolo sedentario: Bruno schizza per l’Europa alla ricerca di una cattedra sicura, riuscendo a farsi interdire dai pastori di tutte le confessioni religiose possibili. Roberto comincia la sua carriera di predicatore anti-protestante, “martello degli eretici”, a Gand (oggi Belgio), terra di frontiera. Sono due grafomani, proprio nel momento in cui scrivere libri in Italia diventa davvero pericoloso; e prima che finisse nei guai, anche Roberto aveva rischiato.

Era successo nel 1590. Roberto si trovava in missione nella Francia sconvolta dalla guerra di religione. Lo avvertono di non sbrigarsi a tornare a Roma: l’amato Papa Sisto V sta valutando la possibilità di mettere all’Indice dei Libri Proibiti il suo best seller, avrete indovinato, le Disputationes de controversiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos. Ma come? Lo stesso Sisto non aveva tanto gradito la dedica dell’opera monumentale, una sorta di enciclopedia ragionata di tutte le eresie possibili, classificate senza troppo furore polemico? Sì, ma si vede che in seguito oltre ad apprezzare si era pure messo a leggere; trovando riferimenti al potere temporale del pontefice che non gli erano piaciuti. Bellarmino si era arrischiato a definire questo potere come “indiretto”, e tanto gli bastava per finire in disgrazia. A salvarlo fu una vera e propria moria di papi, che tra il 1590 e il 1592 falciò Sisto V e i suoi tre immediati successori (Urbano VII, dopo soli 13 giorni; Gregorio XIV, Innocenzo IX). Al termine di questo conclave permanente forse nessuno si ricordava più del caso Bellarmino, e all’orizzonte c’erano ben altre gatte da pelare. Prima di morire Sisto V – uno dei pontefici più risoluti e decisionisti della Storia – aveva voluto licenziare le bozze della nuova versione della Vulgata, la Bibbia in latino. Peccato che fossero piene di errori. In seguito una commissione aveva provveduto a correggere, ma ormai la versione vecchia era stata stampata, e ritirarla sarebbe stato imbarazzante: significava ammettere che un Papa si era sbagliato. Fu il gesuita Roberto Bellarmino a trovare una soluzione abbastanza elegante: anche la nuova versione sarebbe stata attribuita a Sisto. Una prefazione avrebbe spiegato che la decisione di pubblicare una nuova versione riveduta e corretta era stata presa dallo stesso papa che aveva fatto pubblicare la versione piena di errori. Questa era quasi una bugia: chi avrebbe avuto la faccia tosta e l’autorevolezza per firmare una prefazione del genere? Roberto Bellarmino, ovviamente, intellettuale di respiro europeo, stimato anche dagli avversari protestanti. Con Clemente VII, Bellarmino divenne rettore del Collegio romano. Lo zuccotto da cardinale stava per arrivare. In mezzo però ci fu il penoso caso di Bruno.


Quando lo incontrò, il filosofo aveva cinquant’anni ed era recluso da sei. L’opinione più condivisa è che Bellarmino avrebbe preferito salvarlo: questo fa un po’ a pugni con lo sviluppo del processo, in cui Bruno fino a un certo punto sembra orientato a salvarsi la pelle abiurando a qualsiasi cosa, salvo impuntarsi in un secondo momento, e ritrattare ogni abiura. In realtà non è affatto chiaro come andarono le cose (degli atti non restano che i sommari); non sappiamo nemmeno se fu torturato o no. Ciò che è sicuro è l’esito del processo, che andò ancora per le lunghe e si concluse nel 1600 con un rogo in Campo de’ Fiori. In seguito Giovanni Paolo II se ne è rammaricato: quattrocento anni dopo, meglio tardi che ancora più tardi. 

Sappiamo molto di più sull’altro famoso processo che riguardò San Roberto, il Galileo Uno, conclusosi con un sostanziale proscioglimento. Sono passati molti anni: siamo nel 1616, Bellarmino veste ormai lo zuccotto da tempo – avendo vinto il fastidio per un copricapo poco consono all’austerità dei gesuiti. È stato anche arcivescovo a Capua, amatissimo dal popolo, ma forse Clemente lo aveva spostato laggiù perché non si fidava più di lui: nel divampare di una polemica tra molinisti e tomisti non si era schierato dalla parte vincente. I molinisti erano seguaci del teologo Luis de Molina, teorico del libero arbitrio; i tomisti si rifacevano al solito san Tommaso d’Aquino, che riprendendo la concezione agostiniana di grazia riduceva di molto lo spazio concesso alla scelta individuale: una posizione non molto lontana da quella di Lutero, eppure tra molinisti e tomisti Clemente aveva scelto i secondi, mentre Bellarmino molto prudentemente preferiva considerare accettabili entrambe le posizioni. Ma durante la Controriforma succedeva anche questo, che bisognava essere prudenti, ma non troppo prudenti, ovvero anche la prudenza andava presa con prudenza, insomma un periodaccio. C’era anche in controluce una rivalità tra i due ordini religiosi più intellettuali: de Molina era un gesuita, Tommaso un domenicano. Alla morte di Clemente l’equilibrio si ristabilì, e il prudente Bellarmino era ancora abbastanza popolare da finire nell’elenco dei papabili: sarebbe stato il primo gesuita a varcare il sacro soglio, quattrocento anni prima di Bergoglio. Lui ovviamente non ci teneva, figurarsi, era già pronto a dimettersi da cardinale per scongiurare l’elezione, e quando invece fu eletto Paolo V, tirò un sospiro di sollievo, certo. Paolo comunque se lo riprese a Roma, al Sant’Uffizio, proprio mentre scoppiava il caso Galileo.

In quel primo processo bisogna ammettere che la Chiesa non ci fa una figura così pessima, anche grazie a Bellarmino: è vero, la teoria eliocentrica viene per la prima volta definita come eresia, in quanto esplicitamente negata dalle Scritture; tuttavia è ancora ammissibile parlarne come di un’ipotesi matematica: il vecchio trucco che aveva permesso a Copernico di pubblicare la sua teoria senza incorrere in nessuna condanna. Mentre Galileo pretendeva di fornire delle dimostrazioni, delle prove, di un presunto moto della terra intorno al sole: Copernico si era limitato a far notare che, in teoria, se la terra girasse intorno al sole, i calcoli verrebbero meglio.
“Perché il dire, che supposto che la Terra si muova e il Sole sia fermo si salvano tutte le apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il Sole stia nel centro del mondo e solo si rivolti in sé stesso senza correre dall’oriente all’occidente, e che la Terra stia nel terzo cielo e giri con somma velocità intorno al Sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare i filosofi e theologici scolastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante”.
Così Bellarmino a un fiancheggiatore di Galilei, Paolo Antonio Foscarini. E se si trovassero le prove che la terra si muove? In quel caso, sostiene il gesuita, “bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo”. Ma questo appunto era quello che Galileo pretendeva di fare, e che lo avrebbe messo davvero nei guai: spiegare la Bibbia ai preti. Bellarmino prova la manovra opposta: impartisce agli scienziati copernicani una lezione di metodo. Dite che la terra gira? Ipotesi interessante, ma… avete le prove? Dov’è la vostra “dimostratione”?
“Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata: né è l’istesso dimostrare che supposto ch’il sole stia nel centro e la terra nel cielo, si salvino le apparenze, e dimostrare che in verità il sole stia nel centro e la terra nel cielo; perché la prima dimostratione credo che ci possa essere, ma della seconda ho grandissimo dubbio, et in caso di dubbio non si dee lasciare la Scrittura Santa esposta da’ Santi Padri”.
Galilei si arrende (non che abbia già molte alternative): insegnerà l’eliocentrismo solo come una teoria. È abbastanza avveduto da farsi firmare dallo stesso Bellarmino una dichiarazione, dove è messo nero su bianco che non ha pronunciato nessuna abiura e non gli è stata impartita nessuna penitenza. Si è trattato di un semplice richiamo, un cartellino giallo: ricordati che ai tuoi allievi stai raccontando una teoria, non la verità. È più o meno quello che i bellarmini di oggi vorrebbero ricordare agli insegnanti: mi raccomando, quella di Darwin è pur sempre una teoria, finché non trovare una prova… già, ma cos’è una prova? Quanti anelli mancanti servono a dimostrare che i nostri progenitori vivevano sugli alberi? E che tipo di prove sarebbero servite a Galilei? Lui nel ’16 era convinto di averle già: osservazioni sulle maree; oggi sappiamo che almeno su quello si sbagliava, le maree non sono causate dalla rivoluzione intorno al sole. E quindi? Aveva ragione Bellarmino?

Più prudente di Bruno, Galilei era comunque incapace di darla vinta al relativismo. Presto o tardi si sarebbe rimesso nei guai. Ci mise altri quindici anni, e nel mezzo ci mise il Saggiatore e il Dialogo sopra i massimi sistemi. Quando alla fine si consegnò all’Inquisizione, gli misero sotto il naso un foglio firmato dal cardinale Bellarmino, in cui allo scienziato veniva formalmente intimato di non insegnare più l’eliocentrismo: era un falso, la lettera originale diceva ben altro – ma Bellarmino non era più vivo per smentire. Se n’era andato nel 1621.

Per farlo santo ci vollero tre secoli. I suoi devoti, soprattutto a Capua, ci tenevano molto: aveva lasciato un buon ricordo. Ma anche tantissime dispute per iscritto, e in fondo è statistico: più scrivi più alte sono le possibilità di pestare i piedi a qualcuno che ti sopravvive. La sua concezione del potere temporale della Chiesa, che già a Sisto V non piaceva, in seguito fu considerata troppo filo-papale. Alla fine diventò beato nel 1923, santo nel 1930, dottore della Chiesa nel 1931. Ma Galileo nel frattempo era stato proclamato l’iniziatore della scienza moderna, e Bruno il martire della libertà di pensiero. Bellarmino rimarrà alla storia come l’inquisitore che invece di torturarli preferiva farli ragionare. Il poliziotto buono, che a un certo punto entra in cella, ti offre una sigaretta e la sua solidarietà: eddai, Giordano, che te ne frega della pluralità dei mondi, ce ne sarà pure uno in cui bruci come uno stregone, ma perché dev’essere proprio questo? Sputa sui tuoi libri, puoi sempre scriverne altri. Eddai Galileo, questa storia della terra e del sole… ma sei sicuro? Come fai a sapere di essere sicuro? Come posso crederti? Mettiti nei miei panni: come faccio? Cosa puoi aver visto con un tubo e due lenti? È solo una teoria, ce ne sono tante, magari la tua è più elegante, te lo concedo, ma perché ci vuoi impedire di credere nelle nostre? Vuoi farlo tu il padreterno? Vuoi condannarci tu? San Roberto Bellarmino è patrono di Capua, di Cincinnati (Ohio), e di tutti gli inquisitori che ti lasciano intendere che in fondo ci credono meno di te.
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Venite a prendervi il Perdono (ad Assisi)

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2 agosto: Perdono di Assisi

Ludmiła Pilecka, CC BY 3.0,
via Wikimedia Commons
Il due agosto è possibile fino a mezzanotte ottenere l'indulgenza plenaria per tutti i peccati: occorre essersi confessati in settimana, ricevere la comunione e visitare la Porziuncola, la chiesetta che San Francesco restaurò a valle di Assisi e che amò più di ogni altro tempio di Dio. Questa indulgenza la ottenne lo stesso Francesco, prima da Gesù Cristo, apparsogli durante un'intensa sessione di preghiere nella chiesetta, poi dal suo vicario papa Onorio III, a cui Gesù aveva invitato Francesco a rivolgersi perché nel cattolicesimo c'è tutta una filiera gerarchica da rispettare.

A Onorio, Francesco chiese espressamente un'indulgenza "senza obolo", cioè gratis, per i pellegrini che arrivavano alla Porziuncola; Onorio pur consapevole dell'enormità della richiesta ("Molto è ciò che chiedi, o Francesco") era pronto a concedergliela. Fu la Curia a obiettare: "farete scomparire l'Indulgenza della Terra Santa e ridurrete a nulla quella degli apostoli Pietro e Paolo, che sarà tenuta in nessun conto". Per "indulgenza della Terra Santa" si indicava quella concessa ai crociati, che combattevano sapendo che sarebbero andati in paradiso; mentre quella "degli apostoli" era alla base del turismo religioso a Roma, dove convergevano pellegrini da tutta l'Europa, una fonte di reddito cruciale per la Città santa. Insomma a inizio del secolo XIV l'aspetto economico della questione indulgenze è già chiarissimo: il Papa ne ha il monopolio, ma se ne concede troppe il prezzo crolla. La civiltà mercantilista comunale è ormai egemone, il cattolicesimo non sarà più lo stesso, ma Francesco è un santo e i santi servivano esattamente a questo: a intercedere, chiedere e praticare strappi alla regola. 
Non potendo ritirare la promessa fatta, Onorio decide di limitarla a un giorno solo, e questo giorno sarebbe oggi (in realtà l'indulgenza scatta dal mezzogiorno del primo agosto, insomma 36 ore).

Io devo confessare un certo scetticismo. 

Non tanto sulla questione delle indulgenze – è teologia, non è di mia pertinenza – ma non credo che le cose siano andate così come le raccontano ad Assisi. In effetti, chi è che le racconta? Tutto si basa su un documento noto come Diploma di Tebaldo, emanato nel 1310 da questo Tebaldo che oltre a essere un francescano era anche il vescovo di Assisi, e aveva quindi tutto l'interesse a comprovare e a regolarizzare il flusso di pellegrini verso la chiesetta, che stava diventando molto importante (tanto che nel 1569 renderà necessaria la costruzione di Santa Maria degli Angeli, una grande cattedrale che contenga e conservi la piccola chiesa, il paradosso francescano in architettura). 

Quando compone il diploma, Tebaldo si trova già a obiettare agli scettici ("a motivo della maldicenza di alcuni detrattori che, animati dallo zelo dell’invidia o forse dell’ignoranza, con facce di bronzo parlano
contro l’Indulgenza di Santa Maria degli Angeli presso Assisi"). Francesco è morto 80 anni prima: un lasso di tempo in cui vita morte e miracoli sono stati scritti e riscritti così spesso che nel 1266 i francescani avevano deciso di mettere ordine, fissare una biografia ufficiale (quella di Bonaventura) e... distruggere tutte le altre. Eppure né nella Legenda di Bonaventura, né nelle precedenti, si accenna a un episodio tanto importante, in cui Francesco avrebbe conferito sia con Gesù Cristo sia con un papa. L'episodio messo per iscritto da Tebaldo sembra in effetti modellato su quello più famoso di Francesco che visita papa Innocenzo per chiedergli il permesso di fondare l'ordine, con qualche aggiunta di sapore già romanzesco (la promessa che una volta fatta non può essere ritirata, un topos dei romanzi cavallereschi) e un forte indizio della sua non autenticità. È lo stesso Tebaldo ad ammettere che quello che sta scrivendo non risulta in nessun documento antecedente, per cui non resta che nascondere il problema dietro la "semplicità" di Francesco, che una volta ottenuto il permesso papale, non avrebbe voluto chiedere un documento scritto, malgrado la protesta del Papa stesso: 
Mentre il Beato Francesco, fatto l'inchino, usciva dal palazzo, il papa, vedendolo allontanarsi, chiamandolo disse: "O semplicione dove vai? Quale prova porti tu di tale Indulgenza?". E il Beato Francesco rispose: "Per me è sufficiente la vostra parola. Se è opera di Dio, tocca a Lui renderla manifesta. Di tale Indulgenza non voglio altro istrumento, ma solo che la Vergine Maria sia la carta, Cristo sia il notaio e gli Angeli siano i testimoni".
Quindi per più di ottant'anni il Perdono d'Assisi sarebbe stato praticato senza testimonianze scritte. Potrebbe essere anche andata così, ma c'è da aggiungere che in quegli anni la pratica delle indulgenze non era così formalizzata come sarebbe successo in seguito. Viceversa Tebaldo scrive il suo Diploma in un periodo in cui il fenomeno delle indulgenze ufficiali ha conosciuto un vero e proprio boom, localizzabile nell'Italia centrale. 

È tutto iniziato nel 1294, durante il fulmineo pontificato di quella scheggia impazzita che era Celestino V, ovvero il monaco Pier da Morrone. Per festeggiare la sua improbabile elezione, Celestino aveva emesso la Bolla del Perdono, la quale stabiliva che chiunque si fosse recato presso la sua prediletta basilica di Collemaggio nella festa di San Giovanni Decollato (29 agosto) avrebbe ottenuto la sanatoria su tutti i peccati commessi dal battesimo in poi. Nel poco tempo in cui era rimasto papa, Celestino aveva combinato non pochi disastri organizzativi, ma questa idea di spalancare all'improvviso i cancelli di San Pietro doveva essere piaciuta, perché il suo successore Bonifacio VIII la fece propria quando in occasione del 1300esimo compleanno di Gesù lanciò il primo Giubileo, promettendo un'indulgenza plenaria a chiunque visitava Roma entro l'anno. Può darsi che questi due episodi (perdonanza a Collemaggio e Giubileo a Roma) abbia stimolato i francescani a rendere ufficiale quella che fino al 1300 era soltanto una tradizione orale, collegata alla figura di Francesco ma senza nessun aggancio effettivo alla sua biografia.

Nei secoli il Perdono d'Assisi è stato più volte ribadito dai pontefici, con documenti ufficiali che a dire il vero creano un po' di confusione, anche perché in certi periodi probabilmente la preoccupazione era quella di evitare che la piccola Porziuncola venisse invasa da migliaia di fedeli: da cui il proposito di estendere il Perdono ad altre chiese, e (per chi proprio vuole andare alla Porziuncola) a tutti i giorni del calendario. Oggi il 2 agosto rimane comunque un bollino nero per i turisti ad Assisi. 
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Priscilla e Aquila, i santi del futuro

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 8 luglio: Aquila e Priscilla (I secolo), collaboratori di Paolo apostolo


Vi tengo d'occhio, uomini

Aquila e Priscilla sono due santi con un grande potenziale ancora non sfruttato, secondo me. Per cominciare sono una coppia: marito e moglie. Ci sono altre coppie tra i santi, ma non così tante e non in una posizione così importante. Nei sei passi in cui sono nominati nel Nuovo Testamento (e sono tanti: certi apostoli godono di minore visibilità) compaiono sempre assieme, e da secoli gli studiosi si lambiccano per capire come mai di solito Aquila, il marito, venga nominato dopo di Priscilla: quel che è chiaro è che qualsiasi cosa decidono di fare, la decidono assieme e la fanno assieme. E fanno cose importantissime: ospitano Paolo di Tarso, forse si fanno convertire da lui, gli danno un lavoro, gli salvano, per sua ammissione, "la testa". Sono una coppia di imprenditori e viaggiano molto, per affari o perché questa cosa che ancora non si chiama cristianesimo è molto instabile e a volte li costringe a cambiare città: quando Paolo li incontra, sono appena stati espulsi da Roma per decreto imperiale, in quanto giudei. Ma probabilmente non sono entrambi giudei: lo è Aquila, ma Priscilla ha un nome veramente molto romano (forse è un vezzeggiativo: Paolo nelle lettere la chiama "Prisca"). Sono quindi la prima coppia multietnica del Nuovo Testamento, se non l'unica, e dimostrano anche in questo un dinamismo sociale che non sospetteremmo, se non avessimo appunto il Nuovo Testamento, uno dei pochi documenti a parlarci di questa classe media di professionisti completamente ignorata dalla storiografia ufficiale e snobbata dalla letteratura.

Paolo li incontra dopo il non incoraggiante soggiorno ad Atene, intorno al 50 dC. In Atti 18,2 Luca racconta che a Corinto (uno dei porti più importanti della Grecia), Paolo si imbatte in Aquila, "un giudeo oriundo del Ponto, giunto dall'Italia insieme con sua moglie Priscilla, perché Claudio aveva ordinato a tutti i Giudei di lasciare Roma". Questo decreto di espulsione è citato anche da una fonte latina: la Vita di Claudio, scritta da Svetonio più o meno nel 112. Per una coincidenza singolare, le prime due tracce di cristianesimo nei testi latini compaiono tutte in una manciata di anni proprio intorno al 112: il carteggio tra Traiano e Plinio il Giovane che attesta la presenza di cristiani proprio nel Ponto, e il famoso paragrafo 44 del libro XV degli Annales di Tacito di cui abbiamo parlato pochi giorni fa, che dimostrerebbe la presenza di una importante comunità cristiana a Roma già nel 64 – se non fosse stato interpolato, il che non si può escludere. Svetonio è uno storico assai meno attendibile di Tacito, ma siccome a differenza di quest'ultimo rimase ben letto e ricopiato per tutto il Medioevo, è anche meno interpolabile. Sull'argomento, scrive semplicemente che Claudio espulse da Roma i giudei "continuamente tumultuanti, istigati da Cresto" ("Iudaeos, impulsore Chresto, assidue tumultuantes Roma expulit"). Potrebbero insomma già essere cristiani (ma Chrestus è un nome greco non infrequente al tempo), e dimostrerebbero un'attitudine riottosa e radicale che si adatta poco con l'etica paolina. Non è insomma chiaro se Aquila e Priscilla fossero già cristiani prima di incontrare Paolo a Corinto, o se li abbia convertiti lui. In ogni caso Paolo "si unì a loro" che facevano il suo stesso mestiere: fabbricanti di tende. Perché rispetto agli apostoli rimasti a Gerusalemme, che danno la sensazione di vivere soprattutto delle collette puntualmente sollecitate, Paolo ci tiene a ricordare che lui continua a lavorare. Il tempo libero lo passa invece a convertire (per lo più i pagani), e litigare (per lo più coi Giudei), finché questi ultimi non lo denunciano presso un magistrato che, come al solito, non capisce il punto del problema: stavolta si chiama Gallione, fa il proconsole e lo dice chiaro e tondo: "Se sono questioni di parole o di nomi o della vostra legge, vedetevela voi; io non voglio essere giudice di queste faccende". 

Poco dopo Paolo lascia Corinto, dove ormai c'è una Chiesa ben avviata, e si lascia accompagnare a Efeso da Aquila e Priscilla, anzi Priscilla e Aquila (che fosse lei ad avere l'ultima parola? Oppure può darsi che il suo nome, in quanto latino, desse più lustro all'impresa famigliare). I due potrebbero aver accompagnato Paolo durante un viaggio di lavoro, o essere due apostoli in missione per conto di Dio: conoscendo Paolo, è possibile che cercassero di mandare avanti sia il commercio che l'apostolato. Prova ne è il modo in cui a Efeso gestiscono il caso Apollo. Paolo a quel punto non è più in città, ma è diretto verso Gerusalemme e poi Antiochia. A Efeso arriva un nuovo predicatore, Apollo di Alessandria, che "parlava e insegnava esattamente ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni". Senza perder tempo a chiedere istruzioni al loro capo, Priscilla e Aquila lo prendono in disparte e gli espongono "con maggiore accuratezza la via di Dio". Benché il passo suggerisca che Apollo abbia accettato le correzioni di P&A, in seguito Paolo si imbatterà a Efeso in cristiani che "conoscono solo il battesimo di Giovanni" (19,2) e a Corinto in cristiani che si considerano "di Apollo" (prima lettera ai Corinti 1,12).

Dopo il soggiorno a Efeso, P&A sarebbero tornati a Roma: altrimenti non avrebbe senso che Paolo dedicasse a loro uno dei suoi saluti più affettuosi, nella Lettera ai Romani (16,3-4): "Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù, i quali hanno rischiato la vita per me; a loro non io soltanto sono grato, ma anche tutte le chiese delle nazioni". Paolo però li saluta anche nella Seconda Lettera a Timoteo, il che fa supporre un'ulteriore partenza da Roma (forse per evitare la persecuzione neroniana?) e un ulteriore soggiorno a Efeso. Dopodiché di loro non sappiamo più nulla, ma trattandosi di personaggi così ben attestati nelle Scritture ci si aspetterebbe di ritrovarli vittime di un sadico imperatore in qualche truculenta Passio tardoantica o altomedievale – invece niente. A volte Priscilla viene identificata con la martire romana dell'omonima catacomba, il che non sarebbe nemmeno così tirato per i capelli, visto che Priscilla una o due volte a Roma c'è stata anche secondo il Nuovo Testamento. Ma anche su questa cosa gli agiografi sembra che non si siano intestarditi più di tanto. È come se P&A non avessero trovato ancora il loro momento di gloria.

Potrebbe essere questo. Insomma abbiamo una coppia che gira per il mondo e dà un tetto e un salario a Paolo – non so se mi sono spiegato, Paolo di Tarso, quello che scrive che le donne devono stare sottomesse ai mariti, e mentre affermava queste cose è probabile che la padrona di casa facesse il buono e il cattivo tempo. In questi anni di crisi delle vocazioni, la Chiesa sta puntando sempre più sulle famiglie: non è nemmeno una strategia, è una scelta obbligata: il celibato funziona sempre meno. Abolirlo è molto difficile (non è che un papa possa dire ehi, per un millennio e più ci siamo sbagliati): ma si può molto più agevolmente trasferire parte delle funzioni pastorali ai diaconi, che da sempre possono avere famiglie. Allo stesso modo, è difficile pensare che la Chiesa possa istituire sacerdotesse, laddove le diaconesse sono attestate negli Atti degli Apostoli. Se solo nello stesso libro ci fosse una coppia esemplare che vive, lavora e catechizza come una cosa sola... ehi, ma in effetti c'è, una coppia così. Segnatevi questi due nomi: Aquila e Priscilla, anzi Priscilla e Aquila. Nei prossimi anni si dedicheranno chiese, si gireranno fiction; voi potrete dire di averli invocati quando ancora non erano cool. 
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(Come ho iniziato a) capire Nerone

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30 giugno: Primi martiri della Chiesa di Roma (64)


Col tempo purtroppo cominci a capire chiunque, perfino Nerone. Il quale Nerone, è possibilissimo che non abbia gestito al meglio il grande incendio del 64; del resto era fuori città quando fu appiccato, e anche una volta accorso non è che potesse fare miracoli. Il fuoco dilagava in dieci quartieri su quattordici, comportandosi in modi imprevisti che i Romani non avevano mai avuto occasione di osservare. Non c'era mai stato un incendio così grande in città, e la città stessa non era mai stata così grande. Col tempo ho cominciato a capire come reagiscono le persone di fronte a fenomeni che non hanno mai avuto occasione di osservare: improvvisano. Trasformano i sospetti in realtà indiscutibili, confondono i sintomi con le cause, se durante un'alluvione vedono il fiume in piena portare tanti tronchi decidono subito che l'alluvione è colpa dei tronchi, perché il Potere non pulisce i fiumi dai tronchi? È chiaro che il Potere è in combutta coi tronchi per causare alluvioni che poi costano un sacco di soldi allo stesso Potere, ma se lo fa ci sarà un motivo. Piove per mesi? È colpa degli aeroplani che lasciano le scie, chi li ha messi in cielo tutti quegli aeroplani, eh? Le epidemie sono sparse dal Potere in virtù del malvagio protocollo Tachipirina E Vigile Attesa. I terremoti si potrebbero prevedere, ma il Potere non lo vuole, insomma il Potere passerebbe il tempo a tramare alle nostre spalle, e non un complotto solo ma tanti complotti diversi, come se ogni mattina si svegliasse indeciso sulla sfiga da somministrarci: che faccio stavolta, gli mando un'inondazione, un terremoto, un'epidemia?

Tutte queste cazzate le ho sentite io nel XXI secolo; immaginate cosa potevano raccontarsi i Romani sfollati mentre si riparavano nei giardini privati di Nerone o in baracche costruite alla benemeglio dalle legioni di Nerone, con soldi che Nerone stava anticipando e che con molta fatica sarebbe riuscito a recuperare dalle casse delle province: è chiaro che l'incendio lo aveva causato lo stesso Nerone; non lo avete visto in cima alla torre? Pensavate che volesse semplicemente capire l'entità dei danni? Nooo, era lì a intonare un canto sull'incendio di Troia. Li avete ben visti i vigili demolire interi isolati – lo facevano per evitare che l'incendio si propagasse – eh, ma intanto saccheggiavano. Qualcuno avrà pure saccheggiato: anche a Messina nel 1908 i soldati che arrivarono a soccorrere gli abitanti dopo un po' non sapevano cosa mangiare, e cercavano tra le rovine. 



Nei mesi successivi Nerone avrebbe iniziato a ricostruire Roma non solo "più grande e più bella di pria" (in realtà ci vollero molti anni perché la popolazione superasse quella pre-incendio) ma soprattutto con standard di sicurezza mai visti fino a quel momento – strade più larghe, isolati più piccoli, divieto di pareti in comune tra fabbricati diversi, uso di pietre refrattarie, limite d'altezza per gli edifici, dislocazione di idranti collegati agli acquedotti. Nel frattempo doveva comunque affrontare un'opinione pubblica che sussurrava che l'incendio l'avesse appiccato lui, per rifare Roma a modo suo. Finché non decise di deviare l'attenzione su qualcun altro: e scelse i cristiani. Lo racconta Tacito negli Annali (scritti intorno al 110). Per Tacito i cristiani furono scelti "per soffocare ogni diceria", e perché "il volgo li detestava per le loro infamie". Questa "rovinosa superstizione" era dunque già arrivata a Roma, "in cui convergono da ogni dove e trovano adepti le pratiche e le brutture più tremende". Tacito sostiene che ne morì una "quantità enorme", e che più che la responsabilità dell'incendio veniva loro imputato l'"odio contro il genere umano". Quella ordinata da Nerone è la prima persecuzione di cristiani a Roma; i supplizi sono già quelli poi ripresi dalle leggende dei santi (del resto coerenti con i supplizi inflitti dai Romani agli schiavi ribelli): prigionieri "coperti di pelli di animali selvatici" per essere sbranati dai cani, o "crocefissi ed arsi vivi come torce, per servire, al calar della sera, da illuminazione notturna". Non c'era ancora il Colosseo e quindi Nerone dava questi spettacoli nei giardini del suo palazzo, "mescolandosi alla plebe in veste d'auriga". Tacito ammette che i cristiani così torturati destavano pietà, "perché vittime sacrificate non al pubblico bene bensì alla crudeltà di uno solo". Tutto questo si legge nel famosissimo paragrafo 44 del libro XV degli Annali, e quindi potrebbe anche non essere vero.

In effetti Tacito è un autore dalla fortuna abbastanza bizzarra. In epoca imperiale era molto stimato, vedi i complimenti di Plinio il Giovane. Ammiano Marcellino si considerava un suo continuatore. Ancora Girolamo lo ammira e ci lascia un indice delle sue opere. Dopodiché nel Medioevo sparisce completamente: nessuno lo legge più, nessuno lo cita più: e questo malgrado il valore pregevolissimo della sua opera, non solo documentario ma letterario. Una spiegazione è proprio la pessima figura che aveva fatto fare ai cristiani nel paragrafo 44, che Sulpicio Severo aveva ricopiato integralmente in una sua opera all'inizio del V secolo. Insomma siccome Tacito parlava male dei cristiani, i cristiani avrebbero deciso di non leggere più Tacito. Sappiamo che altre opere vennero censurate o rimaneggiate per lo stesso motivo (il Talmud, e probabilmente anche le Antiquitates di Giuseppe Flavio). E però l'importanza del paragrafo 44 era enorme: avrebbe dimostrato che i cristiani erano già numerosi e perseguitati a Roma nel 64, appena una trentina d'anni dopo la resurrezione di Gesù; avrebbe fornito una controprova importante alle agiografie che ambientavano nel 64 il martirio dei santi Pietro e Paolo. D'altro canto nel Medioevo di tutte queste controprove non si sentiva il bisogno: che Roma fosse la cattedra di Pietro era autoevidente. Non solo il paragrafo 44 dopo Sulpicio non viene più citato da nessuno, ma tutto Tacito scompare.


Una pagina del Laurenziano 68,2


Col Rinascimento la situazione si capovolge: Tacito diventa autore apprezzato e supercitato, anche perché la sua rassegnata adesione al regime degli imperatori suona molto congeniale agli umanisti perennemente in cerca di prìncipi da servire e riverire: è un Machiavelli prima di Machiavelli, questo Tacito, e però come fanno gli umanisti a conoscerlo e apprezzarlo, se per quasi mille anni nessuno ha conservato le sue opere? In effetti sembra che i riscopritori di Tacito siano arrivati giusto in tempo, perché se possiamo leggere qualcosa delle Historiae e degli Annales è solo grazie a due manoscritti: se avessimo perso anche quelli, niente Tacito. Forse a quel punto qualche falsario se lo sarebbe inventato: ce n'erano di bravissimi, tra gli umanisti. Da cui la doverosa domanda: siamo sicuri che nessuno se lo sia inventato? 

Per quanto riguarda i primi cinque libri delle Historiae sì, siamo abbastanza sicuri: il manoscritto che li riporta, rinvenuto in un monastero tedesco, ha tutta l'aria di una buona copia medievale dell'opera di uno storico latino che scrive "sine ira et studio" di cose avvenute non molti anni prima. E malgrado le Historiae comincino proprio dalla fine del regime di Nerone, e proseguano con un excursus sulla situazione a Gerusalemme in quel periodo (alla vigilia della distruzione del Tempio) qui Tacito ai cristiani non accenna, neanche di sfuggita. Anzi sostiene che in Giudea "tutto fu tranquillo sotto Tiberio", il che contraddice quanto leggiamo nel paragrafo 44.

Il discorso è un po' diverso per il manoscritto 68,2, oggi alla Biblioteca Laurenziana di Firenze, dove forse arrivò grazie a Giovanni Boccaccio. È un bel libro, scritto nella calligrafia tipica dei monaci di Montecassino: se fosse un falso, sarebbe un capolavoro anche in questa categoria. È il manoscritto più antico che contenga gli Annales che ci sono rimasti; lo stile somiglia a quello severo e franto delle Historiae nella prima parte, dopodiché diventa un po' più regolare, ma anche un po' sciatto verso gli ultimi libri, tra cui appunto il XV. Quest'ultimo contiene il preziosissimo paragrafo 44, già attestato in Sulpicio Severo. Che il manoscritto fosse un falso lo sospettavano già gli Illuministi nel Settecento (più per polemica anticristiana che per sensibilità filologica); nel 1878 uno studioso inglese, John Wilson Ross, sostiene di aver identificato il falsario: l'umanista quattrocentesco Poggio Bracciolini, che in effetti riscoprì e ricopiò il manoscritto 68,2. Per Ross non si limitò a riscoprirlo: lo avrebbe composto lui, su suggerimento di un cardinale che desiderava possedere un manoscritto unico e inestimabile – e lo avrebbe pagato molto bene. La ricostruzione di Ross è affascinante: spulciando nell'epistolario di Bracciolini, non solo si convince di aver trovato più di un'ammissione di colpevolezza, ma anche l'identità di un monaco tedesco invitato da Bracciolini a Firenze in quanto esperto di calligrafie medievali: la persona più adatta a ricopiare il falso Tacito. Tutto apparentemente plausibile, senonché gli strumenti che abbiamo oggi ci confermano che la pergamena del 68,2 è di qualche secolo più antica; certo, l'attenzione maniacale per i dettagli avrebbe potuto spingere Bracciolini a raschiare qualche codice medievale per scriverci sopra il suo falso d'autore, come se già immaginasse nel Quattrocento che cinque secoli dopo avremmo sottoposto i manoscritti a test col carbonio-14. È però più probabile che gli Annales siano autentici; che le oscillazioni di stile siano quelle normali di un autore; che la descrizione dell'incendio (tanto più realistica di quella degli autori successivi) sia basata su fonti scritte e orali cui solo Tacito, quarant'anni dopo l'incendio, poteva accedere. Nel suo Nerone, più verosimile proprio perché contraddittorio, è così facile riconoscere l'atteggiamento di un qualsiasi amministratore in un'emergenza: arriva magari un po' tardi, si fa prendere dal panico, poi finalmente prende decisioni anche dolorose ma sagge, le paga in termini di popolarità, cerca qualche capro espiatorio. Un ritratto tutto sommato realistico, che spiega anche come mai Nerone rimase dopo la morte un imperatore popolare e rimpianto da parte della popolazione. 

Quel che non torna, nel racconto di Tacito, sono i cristiani. Non somigliano veramente a quelli descritti negli Atti degli Apostoli; è difficile immaginare Paolo o addirittura Pietro a promuovere l'"odio per il genere umano", in una società che malgrado la svolta tradizionalista imposta dagli imperatori giulio-claudi era ancora abbastanza tollerante dal punto di vista religioso. Tacito ha idee stranamente definite sull'origine dei cristiani: "Derivavano il loro nome da Cresto, condannato al supplizio, sotto l'imperatore Tiberio, dal procuratore Ponzio Pilato". È curioso che Tacito ricordi il nome di Pilato – personaggio secondario – ma che lo definisca "procurator" e non "praefectus", anche perché prima di fare lo storico era stato avvocato e funzionario: la differenza tra un procuratore e un prefetto doveva conoscerla bene. Laddove un cristiano di quattro secoli dopo, ad esempio Sulpicio Severo, avrebbe avuto un'idea molto meno precisa del ruolo di Pilato, ma nessun dubbio sul nome, ormai eternato nei vangeli. Insomma c'è qualche argomento per sostenere che, se pure gli Annales in linea di massima fossero autentici, il paragrafo 44 sia un'interpolazione, un'aggiunta. Questa interpolazione avrebbe potuto essere effettuata in qualsiasi momento nel Medioevo, a Montecassino, in un periodo in cui il manoscritto di Tacito interessava a pochissimi lettori, e questi pochi magari si domandavano in buona fede come mai nel loro manoscritto mancava il paragrafo di Sulpicio, così importante per la Storia del cristianesimo: finché qualcuno mentre lo ricopiava avrebbe potuto essersi detto beh, se manca perché non aggiungerlo. Ricordiamo che in quel periodo Tacito non era più il grande Tacito, ma un cronista tra tanti, il valore della cui opera risiedeva nella quantità di informazioni storiche che conteneva, insomma per un monaco aggiungere il paragrafo aveva un po' lo stesso senso che ha per noi aggiungerne uno a una voce di Wikipedia; tanto più che era un paragrafo già attestato da un altro autore, e contenente verità indiscutibili. 

Ma la modifica avrebbe potuto essere anche più minimale, e magari operata da Sulpicio o da qualche autore precedente. Forse nell'originale Tacito non parlava veramente di cristiani, ma di un gruppo molto più oltranzista e arrabbiato, di cui non ci rimane più traccia perché... Nerone li ha fatti ammazzare tutti, appunto. Forse avevano davvero appiccato uno dei tanti focolai, o più facilmente intralciato gli interventi dei vigili. Oppure non erano affatto implicati nell'incendio, ma erano colpevoli di alimentare le dicerie sulla piromania di Nerone – finché quest'ultimo non avrebbe deciso di vendicarsi rovesciando l'infamia su di loro. Quest'ultima ipotesi fino a qualche anno fa non l'avrei mai presa in considerazione, mentre oggi mi sembra fin troppo convincente, perché? Perché più conosco gli uomini e più capisco Nerone. Ormai quando sento qualcuno parlare di scie chimiche, vorrei sciargliele addosso. E i negazionisti del riscaldamento globale, mi dispiace sinceramente vederli morire di vecchiaia, invece che disidratati. Tutti quelli che si immaginano un Potere malvagio deciso a rovinargli la felicità, mi fanno venir voglia di assumerlo io, quel Potere, e mandarli a dragare i fiumi finché non affogano. Meno male che non sono Nerone: ma comincio a capire come lo si diventa.
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L'apostolo dietro le quinte

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11 giugno: San Barnaba, apostolo e fundraiser (I secolo)

Paolo e Barnaba a Listra vengono scambiati per Hermes e Zeus (Nicolaes Pietersz) 

Barnaba potrebbe essere il santo più importante di cui non avete mai sentito parlare. Potrebbe persino aver inventato la Chiesa, così come di Paolo di Tarso si dice che abbia fondato il cristianesimo: ma del resto chi è che ha scoperto Paolo, chi è che ha garantito per lui presso gli apostoli, chi è che lo è andato a riprendere quando si era ritirato a vita privata, e lo ha gettato in quel calderone che era Antiochia, la metropoli del Medio Oriente dove appunto i seguaci di Paolo e Barnaba furono chiamati per la prima volta cristiani? È stato Barnaba. Che Chiesa avremmo avuto, senza Barnaba? Probabilmente nessuna Chiesa. Oppure saremmo tutti circoncisi. Difficile da dire. 

Barnaba è quel tipo di personaggio che vive tra le righe: in un libro non vengono quasi mai nominati, eppure senza di loro la trama non andrebbe avanti. Il libro in questo caso sono gli Atti degli Apostoli di Luca evangelista, in cui Barnaba viene nominato una ventina di volte, che non sono poi così poche. È uno dei rari personaggi che compare sia nella prima parte (ambientata a Gerusalemme, racconta la nascita di una setta basata sulla fede negli insegnamenti e nella resurrezione di Gesù di Nazareth), sia nella seconda, quella che racconta dei viaggi e della predicazione di Paolo di Tarso. Barnaba è il trait d'union: fu uno dei primi aderenti (e contribuenti) della comunità di Gerusalemme, e poi fu il mentore e il compagno di Paolo nei suoi primi viaggi. Di lui non viene riportato nessun discorso diretto: a differenza di Pietro e di Paolo, non è davvero importante quello che dice. L'importante è sempre quello che fa: le persone e le comunità che sceglie di appoggiare, nonché i soldi; sin dalla prima volta in cui compare, Barnaba si trova coinvolto in questioni di soldi. L'ipotesi è che l'economia fosse il suo campo specifico: altri parlavano, Barnaba decideva quanti soldi raccogliere, quanti soldi riscuotere. Pietro e Paolo erano star, Barnaba il loro procuratore? È solo un'ipotesi perché Luca, quando si parla di soldi, si muove sempre un po' a disagio e tende a riportare ricostruzioni improbabili. Altri avrebbero semplicemente rimosso l'argomento; in fondo se stai raccontando la nascita di un culto a chi vuoi che interessi l'economia? E invece a noi, duemila anni dopo, un po' interessa. 


Barnaba, ci spiega Luca, si chiamava Giuseppe (il soprannome Barnaba significherebbe "figlio dell'esortazione") ed era un levita originario di Cipro. Già in questi succinti dettagli possiamo immaginare una tensione fra tradizione e cosmopolitismo: i leviti erano l'antica casta sacerdotale ebraica, ma a Cipro senz'altro vivevano mescolati a greci e ad altri gentili. Può darsi che Barnaba si sia accostato al cristianesimo quando aveva già una profonda conoscenza delle tradizioni ebraiche che in seguito avrebbe cercato di superare; oppure può darsi di no, non tutti i leviti facevano più i sacerdoti, e di Barnaba sappiamo che aveva dei possedimenti, magari una rendita. Il fatto che in seguito abbia dimostrato insofferenza nei confronti di chi chiedeva di imporre i precetti levitici anche ai gentili convertiti al cristianesimo, mi ricorda irresistibilmente un altro personaggio che in sua presenza non viene mai nominato: Matteo-Levi, il pubblicano, autore del vangelo più polemico nei confronti degli ebrei. Per una interessante coincidenza, è anche il vangelo più attento alle questioni economiche, e si capisce subito che chi lo ha scritto ha un'esperienza sul campo molto più pratica e sgamata di quella di Luca. E quindi: potrebbe Barnaba essere Matteo-Levi? Che io sappia nessuno l'ha proposto, anche solo perché Matteo-Levi dev'essere per forza uno dei Dodici, mentre di Barnaba si legge chiaramente che si è aggregato al gruppo in seguito. È pur vero, come si dice, che nessuno li ha mai visti nella stessa stanza, ovvero mentre si parla di Barnaba e Paolo, Barnaba e Marco, Barnaba e Pietro... non si parla mai di Barnaba e Matteo. Una leggenda di molto successiva agli Atti racconta che secoli dopo il suo martirio, a Cipro, il corpo di Barnaba sarebbe stato trovato con in mano una copia del vangelo di Matteo. Dettaglio suggestivo, anche perché sarebbe stato molto più verosimile che Barnaba si portasse nella tomba il vangelo di Marco, che forse era addirittura suo cugino. O al limite quello di Luca, che negli Atti parla tanto di lui. Invece no: a Barnaba trovano in mano il vangelo di Matteo. È curioso, ma mille curiosità non fanno una prova.

Nel primo passo in cui compare, Barnaba sembra incarnare il seguace ideale di Gesù, quello che "vende tutto quello che ha e lo dà ai poveri" (Mc 10, 21): nel suo caso Barnaba possiede appunto un podere, lo vende e depone il ricavato "ai piedi degli apostoli". È il requisito richiesto a tutti gli adepti del nuovo culto (e somiglia sinistramente a quello che succede anche oggi a chi aderisce a un culto), ma Barnaba è l'unico di cui Luca fornisce nome e soprannome. Al suo esempio positivo segue immediatamente nel testo quello negativo: due coniugi, Anania e Saffira, dopo aver liquidato le loro proprietà, tentano di frodare gli apostoli tenendo per sé una parte del ricavato, ma Pietro in questa fase degli Atti è onnisciente e abbastanza terribile: al termine di due brevi colloqui in cui li accusa del loro misfatto, sia Anania che la moglie cadono morti. Questa è l'aria che tira in quella comunità che pochi versetti prima Luca ha definito "un cuore solo e un'anima sola".

Barnaba insomma il titolo di apostolo lo guadagna non con le parole, ma investendo tutto quello che possiede in una setta dove c'è gente che non si lascia sfuggire un centesimo. Il titolo comunque se lo meriterà coi fatti, anzi sin dall'inizio sembra uno degli apostoli più attivi: quando a Gerusalemme arriva la notizia che a Damasco si è messo a predicare il vangelo un certo Paolo (chiamato ancora col nome ebraico, Saulo), i capi della comunità decidono di mandare qualcuno fidato a indagare e scelgono proprio Barnaba. È un altro momento cruciale, perché Saulo sin dall'inizio è un predicatore sensibilmente diverso dagli apostoli originali: ha un approccio più ecumenico, una cultura diversa; non ha mai conosciuto Gesù, e fino a poco tempo prima i cristiani li perseguitava per ordine del Sommo Sinedrio. Inoltre, è improbabile che avesse venduto tutto quello che possedeva (anche in seguito si vanterà di vivere del proprio lavoro, forse di produttore di tendaggi). Barnaba avrebbe avuto più di un motivo per considerarlo un eretico, una minaccia alla purezza della Chiesa primigenia: e invece, dopo aver investito tutto quello che aveva in quella Chiesa, ora investe tutta la sua credibilità in questo nuovo eccentrico predicatore. Non solo garantisce per lui, ma sarà Barnaba a trovare lo spazio più adatto alle sue idee: Antiochia di Siria. 

La lettera agli Ebrei,
attribuita da Tertulliano
a Barnaba
Nel primo secolo è la città più grande di tutta l'Asia romana. Anche ad Antiochia, Barnaba giunge in missione per conto dei capi gerosolimitani: deve verificare se è vero che qualcuno si è di nuovo messo a parlare di Gesù Cristo in quella grande città senza prima chiedere il loro permesso, e cominciamo a capire che è un permesso che si paga. Barnaba scopre che è proprio così, ad Antiochia c'è già un gruppo di seguaci di Gesù, e come gli è già successo con Paolo, reagisce con entusiasmo: quell'entusiasmo che forse ha fatto tutta la differenza. Altri culti si sono ripiegati su sé stessi, temendo di snaturarsi di fronte a situazioni nuove; Barnaba ha convinto i seguaci di Gesù ad aprirsi a Paolo e poi ad aprirsi ad Antiochia, ma dopo Paolo e dopo Antiochia il culto di Gesù non sarebbe più stato lo stesso. Molti nuovi adepti non sono di origine ebraica e se anche volessero rispettare i precetti della Legge ebraica, probabilmente non li conoscono; però qualche tempo prima a Gerusalemme lo stesso Pietro apostolo ha iniziato a convertire i pagani, cominciando dal centurione Cornelio, e questo forse è quanto basta a consentire a Barnaba di dare il via libera alla nascita di questa nuova Chiesa che, date le dimensioni di Antiochia, è destinata a eclissare quella gerosolimitana. Qualcun altro al suo posto avrebbe almeno chiesto rinforzi dalla casa base; Barnaba invece decide di scomodare Saulo, che nel frattempo era tornato a casa sua, a Tarso: c'è bisogno di un predicatore dalla lingua pronta ma anche dalle idee aperte, qualcuno che non si formalizzi troppo sui precetti rituali. E poi c'è la profezia di Agabo, di cui abbiamo già parlato: in breve, proprio mentre Barnaba e Saulo/Paolo ad Antiochia stanno contribuendo a formare una comunità che è destinata a modificare per sempre le forme del cristianesimo (e sarà la prima al mondo a essere chiamata "cristiana") ecco spuntare dal nulla questo profeta che informa i membri della comunità di un'incipiente carestia "su tutta la terra". È abbastanza chiaro che si tratta di un pretesto, perché la raccolta fondi che viene organizzata su stimolo di Agabo non è destinata a tutta la terra, ma "ai fratelli abitanti nella Giudea", cioè ai membri della Chiesa gerosolimitana. È solo la prima di una serie di collette che verranno periodicamente organizzate in tutte le Chiese fondate da Paolo e Barnaba, il che ci fa sospettare che la comunità di Gerusalemme ormai fosse diventata la detentrice di una specie di copyright. Proprio come Barnaba per ottenere il titolo di apostolo aveva dovuto cedere il suo podere, anche le nuove comunità, per considerarsi Chiese ufficiali, dovevano autotassarsi e inviare generose offerte alla Chiesa originale 

Gli utilizzatori finali dei fondi raccolti dovrebbero sempre essere "i poveri", senonché il termine nasconde una certa ambiguità: non c'è dubbio che sin dall'inizio la comunità di Gerusalemme si fosse data anche una missione socio-assistenziale (molto presto erano stati nominati i primi diaconi, tra le cui mansioni c'era la distribuzione di pasti alle vedove), però potevano essere considerati "poveri" anche gli apostoli, predicatori di professione che per campare probabilmente attingevano dalla cassa comune. È possibile che col tempo i membri più anziani fossero visti dalle altre Chiese come un patrimonio da difendere – e da mantenere: erano i testimoni oculari della vita di Gesù. In attesa che qualcuno cominciasse a scrivere i vangeli, il Vangelo erano loro e valeva senz'altro la pena di autotassarsi per il loro mantenimento. Però non tutti gli apostoli pensavano di dover vivere di elemosina. Paolo, ad esempio, no: ci teneva molto a ribadire di aver sempre lavorato, e almeno una volta, scrivendo ai Corinti, domanda polemicamente se solo a lui e Barnaba non è riconosciuto "il diritto di non lavorare" (1Co 9,6). 

Quando nelle sue lettere Paolo parla di queste raccolte fondi, lo fa con un certo disagio – più che comprensibile in un teologo che preferirebbe toccare argomenti più alti. Si capisce che le ritiene necessarie, che non può esimersi dal sollecitarle, ma anche che non vorrebbe essere preso per il destinatario delle offerte o peggio, per un mero riscossore. Può darsi che a occuparsi più concretamente delle collette fosse il suo collega Barnaba, e questo spiegherebbe il senso del suo soprannome: l'"esortazione" riguarderebbe l'invito evangelico a donare tutto ai poveri, o almeno qualcosa (a proposito: ricordate che mestiere faceva Matteo-Levi prima di incontrare Gesù? Il riscossore, esatto). 

Da Antiochia, Paolo/Saulo e Barnaba intraprendono una serie di viaggi che rivelano una concezione ormai ecumenica del loro apostolato. Passano anche da Cipro, la terra d'origine di Barnaba, dove sono ospiti del proconsole Sergio Paolo. Quest'ultimo potrebbe avere addirittura adottato Saulo, visto che è a partire da questo incontro che negli Atti l'apostolo viene chiamato Paolo. Qui e altrove, sembra chiaro che Barnaba preferisce far parlare il collega, il quale è anche talvolta in grado di fare veri e propri miracoli – o di convincere il suo pubblico di averli fatti. Il che non significa che Barnaba risulti meno autorevole: quando passano dalla città anatolica di Listra, Paolo guarisce un paralitico e gli abitanti lo prendono per Hermes, il dio messaggero (e quindi quello con la parlantina più sciolta). Siccome nel mito di Filemone e Bauci, Hermes visitava il mondo in incognito e in compagnia di Zeus, Barnaba viene acclamato come Zeus; dopodiché Paolo deve con molta energia dissuadere gli abitanti dal sacrificare animali in loro onore.

Verso il 50 dC, Barnaba e Paolo tornano a Gerusalemme, non (solo) per riportare il denaro delle collette, ma perché bisogna decidere una volta per tutte come comportarsi coi neoconvertiti gentili, che erano sempre di più, ad Antiochia e altrove. Fino a quel momento a Gerusalemme avevano chiuso un occhio sul fatto che i neobattezzati non rispettassero i precetti del Levitico, e volte più per ignoranza che per scelta, ma la situazione andava normalizzata. I gerosolimitani si consideravano ancora ebrei a tutti gli effetti: il loro leader era Giacomo detto il Giusto, "fratello del signore". Tra di loro vi erano molti farisei, alcuni dei quali ad Antiochia avevano sparso la voce che per essere veri cristiani bisognava circoncidersi. Ora, per Paolo (e Barnaba) questo avrebbe significato chiudere bottega. Ormai il loro target erano i greci e gli abitanti delle città ellenizzate tra Siria e Asia Minore: gente storicamente ostile alla pratica della circoncisione. Sopravviveva in effetti nella nuova comunità una diatriba che aveva insanguinato la regione sin dall'invasione di Alessandro Macedone, ormai cinque secoli prima: i sovrani ellenistici avevano cercato di abolire la circoncisione, gli ebrei avevano reagito radicalizzandosi e riscoprendo le antiche tradizioni della Torah. Cinque secoli dopo, la circoncisione era ancora la pratica che in ogni città del Medio Oriente differenziava gli ebrei, e aveva consentito loro di mantenere un'identità etnico-culturale nel melting-pot prima ellenistico e poi romano. In ogni caso, a Paolo (e Barnaba) era chiaro che se gli ebrei non avrebbero mai smesso di circoncidersi, ugualmente i gentili non avrebbero mai accettato di farlo. Escludere dalla Chiesa i non circoncisi significava decretare uno scisma, e nessuna delle due parti se lo poteva permettere. A Paolo e Barnaba serviva l'investitura della Chiesa di Gerusalemme tanto quanto alla Chiesa di Gerusalemme serviva il denaro delle collette. Per cui alla fine toccò allo stesso Giacomo il Giusto trovare una formula di compromesso: ai gentili veniva richiesta l'astensione "dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia"; niente asportazione del prepuzio, il cristianesimo era salvo. Paolo e Barnaba avevano vinto, senonché pochi versetti dopo si separano, forse per sempre, perché?


Abbiamo due spiegazioni diverse, proprio come succede quando la separazione è reale e non inventata a tavolino da un cronista successivo; è ovvio che due litiganti vedono le cose in un modo diverso. Per Luca, che probabilmente viaggiò con Paolo ma ci teneva a consultare fonti diverse, il disaccordo verteva su Giovanni-Marco, il presunto autore del Vangelo più breve. Quest'ultimo è definito da Paolo nella lettera dei Colossesi "cugino di Barnaba" (ma si sa che i termini di parentela sono sempre ambigui nel Nuovo Testamento), e in precedenza aveva accompagnato i due apostoli in un viaggio, anche se non aveva voluto seguirli fino in Panfilia. Quando, dopo il concilio di Gerusalemme, Paolo propone a Barnaba di tornare sui suoi passi per controllare come stanno le comunità da loro fondate, Barnaba gli propone di prendere con loro anche Marco, ma Paolo dopo la Panfilia non si fida più e parte da solo; Barnaba invece se ne torna nella sua Cipro. Nella Lettera ai Galati però Paolo racconta di un litigio diverso, che magari non coincide con la separazione raccontata da Luca – in fondo capita a tanti colleghi e amici di litigare, riappacificarsi, litigare di nuovo. In questo caso però più che con Barnaba, Paolo se la prende con lo stesso Pietro, che ormai si è trasferito ad Antiochia e non ha più niente del Pietro terribile e infallibile della prima parte degli Atti; sembra tornato quello evangelico, sempre un po' oscillante tra il dire e il fare. Ad Antiochia, Pietro avrebbe smesso di seguire i precetti del Levitico, il che lo collocherebbe in una posizione più avanzata anche rispetto alle risoluzioni del Concilio di Gerusalemme: se ai gentili era concesso di non rispettare tutti i precetti del Levitico, questi però valevano ancora per i cristiani circoncisi come Pietro. In effetti, quando ad Antiochia arriva qualche vecchio cristiano da Gerusalemme, Pietro si ritrova a cena con loro e si rimette platealmente a rispettare i vecchi precetti. È probabile che stesse cercando di non scandalizzare nessuno: tutti i leader hanno bisogno ogni tanto di tenere i piedi in più scarpe. Ma Paolo ormai è in una posizione di forza che gli consente di polemizzare pubblicamente persino col primo tra gli apostoli: "Se tu, che sei giudeo, vivi alla maniera degli stranieri e non dei Giudei, come mai costringi gli stranieri a vivere come i Giudei?" Lo stesso Barnaba, scrive Paolo ai Galati, si era lasciato trascinare nell'ipocrisia di Pietro; insomma tra un Pietro forse addolcito dagli anni e preoccupato di non offendere nessuno, e un Paolo sempre più intransigente, Barnaba per una volta aveva scelto di stare col vecchio maestro; tanto il nuovo ormai non aveva più bisogno di sostegno. 

In seguito può darsi che il dissenso tra i due si fosse dissolto; scrivendo da Roma ai Colossesi, Paolo raccomanda loro di ricevere sia Marco sia Barnaba. Leggende successive attribuiscono a Barnaba una morte per martirio, inflitto a Cipro da ebrei innervositi dalla sua predicazione. Qualcuno già nell'antichità lo aveva proposto come autore della Lettera agli Ebrei, un testo che rivela una profonda conoscenza dell'ebraismo e già allora sembrava un po' troppo infiorettato perché lo avesse scritto Paolo. Così la pensava ad esempio Tertulliano, ma è difficile immaginare che il compagno taciturno di Paolo fosse uno scrittore più bravo di lui. A Milano sono convinti che Barnaba sia arrivato fin lì, e vi abbia fondato la prima Chiesa milanese; probabilmente si confondono con un discepolo omonimo. Sempre a Milano i chierici dell'ordine di San Paolo hanno iniziato a chiamarsi barnabiti verso la metà del Cinquecento, perché officiavano nella chiesa dedicata ai Santi Paolo e Barnaba.
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Mattia è il tredicesimo

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14 maggio: San Mattia, il tredicesimo apostolo

Paris Bordon, la Pentecoste

Secondo gli Atti degli Apostoli (il sequel del Vangelo di Luca), la prima decisione che Pietro prende da solo, immediatamente dopo l'Ascensione di Gesù, è ripristinare il numero degli apostoli: Gesù ne aveva scelti dodici, e siccome Giuda dopo aver tradito si era ammazzato, bisognava eleggere un suo sostituto. A voler essere pignoli, anche il tradimento di Giuda era stato voluto da Dio, ma Pietro non ha tutti i torti: undici è veramente un numero scomodo (un numero primo), laddove il dodici ha proprietà che lo hanno reso da sempre molto popolare; parliamo del numero più basso ad avere sei divisori, quattro dei quali sono anche i primi quattro numeri naturali. Non è un caso che sia le ore della parte solare del giorno, sia i mesi dell'anno, siano dodici in molte culture. È il primo numero che puoi dividere per due, per tre e per quattro, e ancora non hai a che fare con resti e con virgole.

Per gli ebrei 12 è soprattutto il numero dei figli di Giacobbe, ognuno capostipite di una tribù di Israele. Anche se al tempo di Gesù questa suddivisione si era ormai persa (al punto che dieci tribù su 12 al tempo di ritornare da Babilonia risultavano disperse) il solo richiamo al numero 12 evocava la rifondazione del popolo di Dio: lo si vedrà decenni dopo nell'Apocalisse dove il numero compare un po' dappertutto: le dodici stelle sulla corona della vergine (che è la Chiesa), e i 144000 "redenti della terra" (144, se vi era sfuggito, è il quadrato di 12). Dunque sì, era comprensibile che gli apostoli rimasti in undici sentissero l'esigenza di ripristinare un numero tanto simbolico. 

L'episodio è il primo in cui si manifesta il nuovo Pietro, non più il tremebondo interlocutore di Gesù, ma un personaggio improvvisamente sicuro del suo ruolo e delle sue idee, persino prima di ricevere lo Spirito Santo durante la Pentecoste (l'episodio deve succedere per forza prima, dal momento che lo Spirito deve scendere su dodici apostoli). È lui a informare una comunità di "120 persone" che Giuda si è ammazzato, è lui a spiegare che la sua sostituzione è necessaria, come se avesse già capito che si tratta di creare una struttura comunitaria con regole rigide. Questo Pietro è un personaggio che compare soltanto in questo libro di Luca evangelista, ma lo stesso Luca è molto attento a definire le sue prerogative: Pietro può spiegare ai compagni che serve un nuovo apostolo, ma non può nominarlo direttamente. 

L'unica limitazione è che sia scelto tra "coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto con noi, incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato assunto in cielo". Non sappiamo quanti fossero (in precedenza Luca aveva menzionato 72 discepoli), ma sappiamo che tra questi viene selezionata una rosa di due candidati: Barsabba "soprannominato il Giusto" e Mattia. La decisione finale viene presa mediante sorteggio: la sorte cade su Mattia, che prende così tra i Dodici il posto di Giuda. Malgrado un precedente così autorevole, in seguito la Chiesa non ricorrerà più al sorteggio per nominare vescovi o cardinali. 

Lo stesso Mattia negli Atti è poco più di un segnaposto e serve soprattutto per garantire al lettore che nella pagina seguente lo Spirito Santo sia sceso su dodici, e non undici apostoli. Il che può farci sospettare che Luca si sia inventato l'episodio per armonizzare due tradizioni che non si conciliavano: alcuni dicevano che lo Spirito Santo era sceso su dodici, altri che uno dei dodici aveva tradito Gesù... come si spiegava la cosa? Luca la spiega: il che può significare che è davvero stato l'evangelista sgobbone, quello che più si è preoccupato di illuminare diversi aspetti del Vangelo che potevano risultare ambigui od oscuri; oppure che quando non sapeva esattamente com'erano andate le cose, non aveva scrupolo a inventarsele un poco.
 
Mattia comunque è diventato patrono degli ingegneri, non so perché ma sono sicuro che molti ingegneri abbiano istintivamente approvato il ripristino del numero 12. Nelle Scritture è appena una comparsa, ma questo è vero anche per altri apostoli, di cui i Vangeli riportano appena una battuta o a volte nemmeno quella. Questo non ha impedito agli agiografi di inventare su di loro le storie più strampalate, anzi, più vuoto era il loro dossier, più spazio c'era per aggiungere vita morte e miracoli. 

Invece Mattia, forse per la sua posizione ambigua di apostolo-non-apostolo, non ha trovato quasi nessuno disposto a raccontarne gesta memorabili. Chi lo dice martire in Etiopia – destinazione tipica di chi aveva fatto perdere le sue tracce – chi in Cappadocia, chi a Gerusalemme trafitto da un'alabarda che almeno consente di riconoscerlo negli affreschi. Alcuni citano versetti di un suo vangelo che però già nel secondo secolo veniva rigettato come apocrifo. Nessuna città lo reclama come patrono; a Padova ne conservano parte del corpo, ma vuoi mettere con la lingua di Sant'Antonio? Altre sue reliquie sono a Treviri e in Santa Maria Maggiore a Roma, dono di Sant'Elena imperatrice, ma per i bollandisti sarebbero invece i resti di un omonimo patriarca di Gerusalemme del secondo secolo. Insomma se ai santi interessasse ancora la fama tra gli uomini, Mattia potrebbe lamentarsi di non aver lasciato molte tracce di sé – ma sempre meglio di Barsabba.
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Che fine ha fatto Domitilla

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7 maggio: Santa Flavia Domitilla (I secolo), nobildonna in disgrazia


A Roma la prima persecuzione anticristiana in assoluto fu quella promossa da Nerone dopo il grande incendio del 64: ne parla anche Tacito, quindi siamo abbastanza sicuri che i cristiani se la videro male, perlomeno nell'Urbe: Pietro e Paolo sarebbero stati giustiziati in quel frangente.
 
Della seconda persecuzione sappiamo molto meno; per come la racconta Svetonio somiglia più a una purga di palazzo. Siamo nel 95, Tito Flavio Domiziano è imperatore da quando aveva trent'anni: ora ne ha 45 e si sente forse con le spalle al muro. Soffre di una malattia nervosa che non siamo riusciti a diagnosticargli in duemila anni – chi dice Asperger, chi epilessia, e non dimentichiamo l'intossicazione da piombo che nella città degli acquedotti doveva essere molto diffusa. 

Domiziano ha sempre amato la solitudine, ma forse a questo punto si tratta di nascondere episodi convulsivi che convincerebbero qualche cortigiano della necessità di cambiare imperatore, e dopo un secolo ormai si è capito come si cambiano imperatori a Roma. Se ti va bene ti soffocano col cuscino come Tiberio, se ti va peggio trenta pugnalate o tocca arrangiarsi da soli come capitò a Nerone, ma insomma un imperatore che si pre-pensioni fino a questo momento non si è visto, non è previsto. Non è nemmeno chiaro come funzioni la successione – in teoria lo Stato è ancora una repubblica: l'imperatore è uno stato di eccezione permanente ed è eccezionale sia il modo in cui conquista il potere, sia il modo in cui lo cede.

Domiziano a dire il vero è diventato Augusto in modo abbastanza banale, subentrando a suo fratello Tito che era molto più famoso e amato di lui. In quindici anni di regno, Domiziano deve aver riflettuto spesso su quanto sia facile farsi amare se si rimane sulla ribalta appena un paio d'anni, il tempo di fare regali a tutti, assistere i cittadini durante una pestilenza, e morirne; a Domiziano invece era capitato l'ingrato compito di chi sopravvive a oltranza, finché qualcuno non lo fa fuori.

Figli non ne ha – se ne avesse, a questo punto tramerebbero contro di lui, rendendosi popolari in qualche legione ai confini dell'impero, vincendo una scaramuccia qua o là con barbari spesse volte corrotti e compiacenti, distribuendo bottini fino a farsi acclamare nuovi imperatori. Verso il 95 pensa di aver risolto il problema della successione designando i figli di un parente, Flavio Clemente, nipote del fratello di suo padre, il grande Vespasiano. Non solo, ma la madre di questi due ragazzi – Flavia Domitilla – era figlia di un'omonima Flavia Domitilla, sorella di Tito e Domiziano, insomma questa dinastia flavia era appena arrivata a regnare su Roma e già stava cominciando ad avvitarsi su sé stessa come certe stirpi faraoniche.

Sembra comunque che tutto fili liscio: i due ragazzi crescono sani e possono avvalersi dell'istitutore più celebre di tutta la romanità, Quintiliano, che ovviamente è fierissimo di loro. Il loro padre, che nel 95 è console, non sembra particolarmente ambizioso, eppure già in primavera Domiziano comincia a sospettare: ora che la successione è definita, qualcuno a corte potrebbe esser tentato di accelerarla. Non sappiamo se il sospetto fosse nutrito da indizi o delazioni, o se ormai Domiziano fosse arrivato al punto in cui si praticano purghe preventive alla Stalin; Svetonio parla di una "tenuissima suspicione", ma è pur sempre Svetonio, oggi scriverebbe gossip su Chi. Fatto sta che in maggio Flavio Clemente viene messo a morte con altri suoi sodali; anche la moglie viene punita, ma soltanto con l'esilio in un'isola particolarmente adatta all'uopo, Ventotene. E siccome mettere in giro la voce che c'è stata una congiura sarebbe già una mezza ammissione del fatto che l'imperatore non è immortale, che insomma altre congiure sarebbero possibili, secondo Cassio Dione i sospettati furono accusati non di avere attentato alla vita di Domiziano, ma di empietà verso gli dei o "ateismo". Ai tempi era un'accusa serissima, ancorché abbastanza vaga: era passibile di condanna per ateismo chiunque si rifiutasse di sacrificare agli Dei ufficiali.

Per Cassio Dione (che però scrive già nel 200) effettivamente Flavio e la moglie non sacrificavano perché erano "deviati dai costumi dei Giudei": il che è curioso se si pensa che la dinastia Flavia è proprio quella che gli ebrei li aveva dispersi nel mondo; era stato lo stesso Tito, zio di Flavia Domitilla, a radere al suolo Gerusalemme e il suo tempio nel 70. Gli ebrei, che già prima avevano iniziato a spargersi nel bacino del Mediterraneo e nel Medio Oriente, a quel punto avevano costituito una base più consistente anche a Roma, diffondendo le loro concezioni religiose che avevano trovato proseliti in ogni classe sociale. Che poi tra le varie correnti ebraiche, i due coniugi avessero abbracciato proprio il cristianesimo, Cassio non lo dice perché magari la differenza tra cristiani ed ebrei non gli interessava; a dichiarare chiaro e tondo che Flavio e Flavia fossero cristiani ci pensa quasi un secolo più tardi Eusebio di Cesarea, che però si confonde e scrive che Domitilla era stata esiliata a Ponza. Questo ha fatto pensare che potrebbero persino esistere due Flavie Domitille diverse: non è affatto impossibile, visto che i nomi femminili si ereditavano. Leggende successive trasformano questo personaggio evanescente in una martire vera e propria, giustiziata a Terracina dopo aver convertito molti pagani a furia di miracoli. 

Ma l'importanza di Domitilla e suo marito sta nel fatto che sono gli unici martiri romani di epoca domizianea che conosciamo: e siccome riteniamo che Giovanni evangelista abbia scritto l'Apocalisse più o meno in quel periodo, descrivendo il senso di angoscia provato dai cristiani del tempo a causa di un vasto disegno persecutorio nei loro confronti (secondo molti esegeti Domiziano sarebbe la Bestia), sarebbe più che sensato trovare testimonianze di questa persecuzione su larga scala: che ahinoi, non ci sono; Flavio e Flavia è tutto quello che abbiamo.

Quando a Domiziano, pochi mesi dopo la purga sarebbe morto assassinato, come aveva previsto. Un prefetto del pretorio lo avrebbe avvisato della congiura: c'è qui il procuratore Stefano che si è procurato un biglietto con la prova, si è anche ferito a un braccio. Mentre Domiziano leggeva il biglietto, Stefano dalle bende della ferita avrebbe estratto il pugnale. Con lui termina la dinastia Flavia.
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Il papa che non volle essere grande

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Arrivando a tomba già chiusa, non credo di avere molto di originale da dire su Joseph Ratzinger. In questi giorni mi tengo in allenamento scrivendo piccole agiografie, ed è anche un modo per ricordarsi com'è vacua la gloria degli uomini: trovi un papa del secondo secolo, leggi che è famoso per aver contrastato quell'eresia o quell'eresiarca, poi controlli bene e scopri che l'eresia è del secolo successivo e l'eresiarca non è mai passato da Roma, insomma è difficile trovare qualcosa di interessante da dire per tutti i papi.


Forse tra qualche secolo chi parla di Benedetto XVI si troverà nella stessa difficoltà? Non credo, e però già in questi giorni ho visto molti agiografi improvvisati isolare due episodi particolarmente equivoci: il solito discorso di Ratisbona e la solita cacciata dalla Sapienza. Per questa gente insomma è il Papa che fu criticato per aver parlato male di Maometto (ma non è vero) e perché voleva fare un discorso all'università: e non è vero neanche questo. Sono già leggende, e proprio per questo funzionano; un comunicatore professionista le poteva già liquidare al tempo come mosse false, ma in seguito avrebbe dovuto ammettere che avevano funzionato meglio di tante mosse escogitate a tavolino. Non c'è un tratto che renda riconoscibile la nuova destra conservatrice meglio del vittimismo, e in entrambi i casi, senza volerlo e magari senza capirlo, Benedetto XVI riuscì ad accreditarsi come vittima di una modernità tritatrice di valori tradizionali. 

Poco importa che lo stesso tradizionalismo di Ratzinger sia tutto sommato una cosa nuova (se non proprio posticcia): non solo Ratzinger nel suo periodo cosiddetto progressista fu uno dei teologi animatori del Concilio Vaticano II, ma anche la sua successiva virata a destra era possibile soltanto nello spazio aperto dalla Chiesa postconciliare – tutti questi nuovi tradizionalisti antigender non hanno letteralmente idea di quanto siano comunque moderni rispetto alle posizioni della Chiesa preconciliare, e di quanto poco ci avrebbe messo un Pio XII a scomunicarli tutti al minimo segno di dissidenza. Chi sta sulla frontiera disperato per l'arrivo dei barbari di solito ignora di essere barbaro di padre, di madre, a volte pure di nonna. 

L'idea che Benedetto XVI volesse imprimere una sterzata conservatrice alla Chiesa la può concepire solo l'ingenuo che non ha letto abbastanza wikipedia da sapere che Ratzinger era stato il braccio destro di Giovanni Paolo II per gran parte del papato di quest'ultimo (era il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, che neanche troppo tempo prima si chiamava ancora Santa Inquisizione); la sua elezione fu immediatamente interpretata dai vaticanisti competenti nel segno della continuità – prova ne è che Benedetto mantenne l'anticomunismo radicale del predecessore anche se nel frattempo il comunismo aveva smesso di costituire una minaccia: del resto non è che puoi cambiare idea a ottant'anni, non è per questo che ti nominano papa. 

La svolta a destra fu soprattutto percepibile nei simboli: il ritorno dell'ermellino rosso, le famose scarpette di Prada (che non erano di Prada, neanche esse), perfino la scelta di un nome così tradizionale che nel 2005 era uno choc – per la maggior parte dei cristiani viventi era uno choc che potesse sussistere un papa diverso da Giovanni Paolo. La stessa apertura ai lefebvriani, che a mio irrilevante parere non la meritavano, ma che in effetti impediva loro di giocare lo stesso gioco vittimista che i vedovi di Ratzinger stanno giocando in questi giorni. La messa in latino, molto auspicata da gente che il latino non lo capisce ma tanto a messa non ci va (in linea di massima il vedovo ratzingeriano è uno che in una parrocchia media italiana non ci passa neanche a Pasqua e Natale). Tutte sciocchezze, viste da lontano: addobbi barocchi per chi non riesce a vedere la trama, ora qualche malizioso potrebbe far notare che stucchi e addobbi sono esattamente la specialità del Vaticano. Ma il Novecento ci aveva abituato a pontificati più interessanti e lo stesso Ratzinger, alla fine, non passerà alla storia per aver subito questa narrazione di pontefice conservatore perseguitato dalla modernità: il suo contributo più interessante è proprio quello più innovativo. 

La cosa più importante che ha fatto Benedetto XVI è avere rinunciato a essere Benedetto XVI: è anche la maggior rottura rispetto al papa precedente, alla visione escatonica di Giovanni Paolo II, il papa che non voleva rinunciare al suo ruolo prima di morire e che fino a un certo punto non credeva di dover morire. Non tutti i papi possono essere grandi papi, ma immagino che ci voglia una certa umiltà e autoconsapevolezza per accettare che non è capitato a te: questa umiltà e autoconsapevolezza, Joseph Ratzinger è riuscito a conservarla sul soglio papale oltre gli ottant'anni. Per questo sarà ricordato, più che per il cappellone rosso e le babbucce.

Per il resto, il suo pontificato dimostra quanto è difficile riuscire a conservare la Chiesa cattolica nella modernità tanto quanto il pontificato successivo dimostra quant'è difficile innovarla. La modernità è un cambio di paradigma che rende normali cose prima impensabili, ma soprattutto considera scandalose cose prima praticabili e praticate. Da grande inquisitore, il cardinale Ratzinger aveva potuto osservare da un punto di vista privilegiato questo cambio di consapevolezza che dagli anni Ottanta in poi ha reso migliaia di ecclesiastici, prima irreprensibili, passibili colpevoli di abusi nei confronti di bambini e adolescenti. Cosa poteva fare? 

Fino a un certo punto, credo finché gli è stato possibile, Ratzinger ha taciuto: perché concedere anche solo un caso significava ammettere indirettamente di averne insabbiate altre migliaia. A un certo punto questa strategia non era più praticabile: Ratzinger è stato probabilmente l'uomo che lo ha capito e che ha messo, nel frangente, la proverbiale "faccia". Non era ancora stato eletto, anzi l'ammissione di una certa "sporcizia" nella Chiesa può essere stato il momento in cui ha fatto capire ai cardinali di essere in grado di prestarsi, quasi ottantenne, a un ruolo di capro espiatorio che avrebbe fatto tremare i polsi a chiunque altro (compreso Bergoglio, che a quanto pare nel 2005 implorò i colleghi di non eleggerlo).

Ratzinger accettò questo fardello, lo portò su di sé per otto anni in cui furono scoperchiati diversi scandali, e per tutto questo tempo reagì in un modo che personalmente trovo molto discutibile, ma allo stesso tempo non credo che esistessero altri modi per un papa di reagire: scaricando la colpa sulla modernità. Ovvero, se preti e suore toccavano i ragazzini e le ragazzine loro affidati, la colpa era della modernità che aveva portato un vento di lussuria anche nei collegi e nei conventi. Quando? Più o meno a partire dagli anni Sessanta, e quindi dallo stesso Concilio Vaticano II. Prima, niente lussuria, niente abusi. 

Chi in questi giorni voglia opporsi alla figura di Ratzinger come grande intellettuale può fermarsi su questo punto, perché per difendere l'idea che gli abusi del clero siano più un problema di modernità che di clero bisogna bendarsi più e più volte; ignorare tutti gli studi che dimostrano statisticamente quel che poi è abbastanza ovvio, cioè come i colpevoli di abusi svolgano professioni o attività a diretto contatto coi minori, ma anche mettere di nuovo a tacere voci che nella Chiesa denunciano il problema da un millennio, a partire almeno dal famoso Liber Gomorrhianus di San Pier Damiani. Il papa che ai tempi recepì le critiche di Pier Damiani con una certa moderazione fu accusato da talune malelingue di essere lui stesso un sodomita; il Ratzinger che di fronte a scandali sistemici continuava a mantenere l'idea che i collegi traboccassero di purezza e santità fino all'arrivo dei juke-box e delle minigonne, ecco lui stesso senza accorgersene non riusciva a non ispirare l'idea di essere il padrino di un'enorme confraternita millenaria di sodomiti in incognito, decisi a mantenere il segreto sul vero motivo per cui da secoli non vogliono cedere il controllo delle scuole. L'ermellino rosso, appunto, e le babbucce, e quello sguardo malizioso da cattivo del film... 

E d'altro canto cosa avrebbe dovuto fare Ratzinger? Voi cosa avreste fatto al suo posto, sul suo Soglio? Annunciare urbi et orbi va bene, scusate, fino a trent'anni fa fustigare i cattivi studenti non era un reato, e anche abusarne un po' era considerato un peccato, sì, ma non così grave: tanto che chi sin da giovane sentiva questa inclinazione (magari dopo essere stato abusato a sua volta in un collegio) si orientava facilmente verso una carriera ecclesiastica? Come dire che ogni cultura è relativa, quel che era morboso oggi non lo è più, quello che ieri non lo era oggi invece lo è, ecco questo relativismo è difficile da accettare persino per i woke multicolore di oggi, immaginate quanto può esserlo per un papa. 

Nemmeno Francesco, che è così tanto più simpatico, può uscire al balcone e dire va bene, ogni istituzione culturale preposta all'insegnamento dei giovani ha avuto nei millenni la sua percentuale di abusatori, è un problema noto sin dalla Grecia classica ma per molto tempo non è stato IL problema, è chiaro che se sovrapponete le categorie di adesso con quello che abbiamo fatto per secoli possiamo risultare un'istituzione internazionale che garantiva ai pedofili copertura e contatti, ma è un po' come paragonare Cortés a Hitler... ah ma voi volete anche paragonare anche Cortés a Hitler? Insomma così relativisti non siete neanche voi. 

La modernità non è il superamento dei paradigmi; è essa stessa un paradigma e forse col tempo avrà anche la sua Chiesa: ma non può essere quella cattolica che lotta per restare rilevante in Europa (e soprattutto in America e Africa, dove il relativismo è un avversario molto relativo: quello prioritario non è nemmeno l'Islam, ma il protestantesimo e in generale il turbocalvinismo di gente come Bolsonaro).

(E contro il turbocapitalismo di gente come Bolsonaro, io se c'è da difendere i cattolici, con tutti i loro enormi difetti, non credo che mi tirerò indietro).

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Agabo, il grillo parlante

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 8 aprile – Sant'Agabo (I secolo), miniprofeta di sventure

Auguri a tutti gli Agabi, che nome buffo avete. Suona greco ma probabilmente deriva dall'aramaico Hagab, "grillo", nome non inadeguato a un minuscolo profeta che compare soltanto in un paio di versetti degli Atti degli Apostoli. In entrambi i casi Agabo si rivela sia menagramo sia funzionale alla storia che l'evangelista Luca sta raccontando, al punto dal farci sospettare che più che un profeta vero sia una di quelle comparse molto pratiche, che in un film dicono esattamente quello che gli spettatori devono sapere per capire cosa sta per succedere.

Anche Collodi si serve due volte del Grillo nel suo vangelo (anche se l'aveva già fatto uccidere da Pinocchio, e gli tocca resuscitarlo).

 Nella sua prima comparsa  (Atti 11,28) Agabo risulta essere il membro di un gruppo di profeti "scesi da Gerusalemme" ad Antiochia in uno dei momenti più cruciali della storia del cristianesimo. Dovremmo essere intorno al 45 dopo Cristo: il Vangelo è ancora un racconto orale che circola quasi esclusivamente in alcune comunità ebraiche tra Palestina e Siria. È un mondo di piccoli centri mercantili, orbitanti attorno a una delle tre metropoli del Mediterraneo: Antiochia di Siria (oggi Antiochia in Turchia). Qui per la prima volta i credenti in Gesù vengono chiamati "cristiani", e qui soprattutto, nel più importante crocevia del Medio Oriente, il loro messaggio comincia a spargersi anche tra i gentili non circoncisi, su iniziativa non si sa bene di chi ("cittadini di Cipro e di Cirene"). Quando la notizia arriva alla comunità di Gerusalemme, quella manda a verificare un emissario di prim'ordine, Barnaba, già molto attivo a Damasco. Quest'ultimo ha l'idea di portarsi con sé un personaggio già noto e controverso nell'ambiente, Saulo detto anche Paolo, che dopo essere sfuggito a qualche tentativo di omicidio da parte degli oppositori dei cristiani che si sentivano traditi da lui (non a torto), si era momentaneamente rifugiato a Tarso, la città dei genitori. Ad Antiochia, Saulo inizierà la sua opera di missionario tra i gentili ed è abbastanza suggestivo che quest'opera coincida con la prima operazione di fundraising: quando Saulo e Barnaba torneranno a Gerusalemme a far rapporto, non si limiteranno a parlare della nuova comunità multietnica di Antiochia, ma porteranno una generosa offerta in denaro.

Antiochia oggi

Sembrerebbe insomma che il diritto a fregiarsi del titolo di Chiesa di Cristo, i fedeli di Antiochia se lo siano pagato in moneta sonante, anche se Luca spiega che la colletta era stata ispirata da una profezia, appunto: la prima profezia di Agabo.

E uno di loro, di nome Agabo, alzatosi in piedi, annunziò per impulso dello Spirito che sarebbe scoppiata una grave carestia su tutta la terra. Ciò che di fatto avvenne sotto l'impero di Claudio.  Allora i discepoli si accordarono, ciascuno secondo quello che possedeva, di mandare un soccorso ai fratelli abitanti nella Giudea; questo fecero, indirizzandolo agli anziani, per mezzo di Barnaba e Saulo.

Notate quel "per mezzo": Luca ha premura di spiegare che Barnaba e Saulo non erano che i latori della donazione; che non l'avevano in nessun modo sollecitata. L'episodio resta comunque abbastanza ambiguo: perché raccogliere fondi proprio per la Giudea, se la carestia ci sarebbe stata "su tutta la terra"? E a proposito: la carestia poi ci fu? È difficile dire. Qualche cenno a una crisi nell'approvvigionamento delle provviste compare, ad esempio, nelle Antiquitates di Giovanni Flavio, un testo che però potrebbe essere stato interpolato in questo e in altri casi, da copisti antichi e medievali desiderosi di conciliarlo con gli eventi descritti nel Nuovo Testamento. Bisogna dire che erano fenomeni abbastanza ciclici in un'epoca in cui Roma si era trasformata nel ventre del Mediterraneo, un buco nero che ogni anno risucchiava una parte consistente della produzione cerealicola dalla Spagna all'Egitto. La carestia descritta da Luca dovrebbe avere un carattere universale, eppure l'evangelista l'accantona subito dopo averla evocata, un mero pretesto per una raccolta di fondi.

Corinto, Grecia
Corinto sotto la neve

Quasi dieci anni più tardi, ritroviamo qualche traccia di un'analoga raccolta nelle due lettere ai cristiani di Corinto. Le scrive Saulo, che tutti ormai chiamano Paolo, nome che gli spetta in quanto cittadino romano. Corinto non è una metropoli come Antiochia, ma è una città con una spiccata identità mercantile e addirittura turistica: i suoi giuochi rivaleggiano con quelli di Olimpia, e in generale si avverte una rilassatezza dei costumi che impensierisce l'Apostolo. Il quale tra un rimbrotto e un'ammonizione non dimentica mai di accennare a questa cosa importante che è la colletta – riuscendo in entrambe le lettere a specificare che non è lui che la sollecita e non sarà lui a passare a raccoglierla:

Quanto poi alla colletta in favore dei fratelli, fate anche voi come ho ordinato alle Chiese della Galazia. Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare, perché non si facciano le collette proprio quando verrò io. Quando poi giungerò, manderò con una mia lettera quelli che voi avrete scelto per portare il dono della vostra liberalità a Gerusalemme. (1 Corinti 16,1-4)

La colletta è settimanale ed è destinata ai "Santi", che in questa primissima fase del cristianesimo non sono quelli della nostra rubrica, ma i membri ancora in vita della comunità cristiana di Gerusalemme: apostoli e altri testimoni della predicazione e del martirio di Cristo – e non c'è dubbio che in una fase in cui il Vangelo era ancora orale, la loro vita fosse un patrimonio prezioso. In un primissimo momento il gruppetto guidato da Pietro aveva messo in pratica una rigorosissima comunione dei beni. Lo stesso Barnaba, sembra di capire, si era guadagnato una posizione preminente devolvendo il ricavato di un suo podere (Atti 4,37). Vent'anni dopo, quella che era sembrata una cellula proto-comunista si è già evoluta in un ente benefico fondato sulla generosità dei suoi adepti, ben disposti a scambiare ricchezza in cambio di Grazia. Paolo, che pure ci tiene nelle epistole a non passare per un mero esattore, conosce l'importanza di motivare i contribuenti volontari e non si fa scrupolo di approfittare di quel senso di competitività che i Corinti dovevano nutrire nei confronti dei vicini Macedoni. Questi ultimi, Paolo li tratta esplicitamente da poveracci, notando che pur nella loro indigenza "hanno dato secondo i loro mezzi e anche oltre, spontaneamente" (2 Corinti 8,3). Possono i Corinti, che primeggiano in ogni cosa ("nella fede, nella parola, nella scienza, in ogni zelo") perdere proprio la gara della carità? "Conosco infatti bene la vostra buona volontà e ne faccio vanto con i Macedoni dicendo che l'Acaia è pronta fin dallo scorso anno, e molti sono stati stimolati dal vostro zelo" (2 Corinti 9,2). Questo zelo va tuttavia stimolato costantemente, onde evitare una figuraccia proprio coi confinanti ("non avvenga che, venendo con me alcuni Macedoni, vi trovino impreparati e noi dobbiamo arrossire, per non dire anche voi, di questa nostra fiducia... perché essa [l'offerta] sia pronta come una vera offerta e non come una spilorceria "(2 Corinti 9,4-5).

Qui e altrove Paolo dimostra quell'approccio pragmatico alle questioni economiche che lo avvicinano più all'evangelista Matteo (che probabilmente non lesse mai) che a Luca. Quest'ultimo è visibilmente a disagio, quando si parla di denaro. Nella sue mani la parabola dei talenti raccontata in Matteo (25,14-30) perde ogni accento turbo-liberale: il budget destinato dal padrone ai servi viene molto ridotto (non è più misurato in talenti ma in "mine", che valevano assai meno) e soprattutto è diviso in parti uguali tra i servi (Luca 19,12-27). Se Gesù deve proprio intrattenersi con un esattore delle tasse, soltanto Luca sente la necessità di avvertire il lettore che l'esattore in questione, Zaccheo, "donava la metà dei suoi beni ai poveri" (Luca 19,8). Lo stesso Luca non perde l'occasione di descrivere la Chiesa delle origini come un'utopia comunista ("Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune", Atti 2,42), né indietreggia quando si tratta di edulcorare i lati oscuri di un'utopia del genere: quando un adepto, Anania tenta di tenere per sé parte del suo patrimonio, Pietro se ne accorge e Anania... cade stecchito all'istante. Per Luca è un miracolo. Anche la moglie muore subito dopo: doppio miracolo. Malgrado queste morti soprannaturali, a un certo punto l'esperimento comunitario si interrompe, o comunque rimane confinato al carattere eccezionale della comunità di Gerusalemme – che però molto presto per sostenersi deve sollecitare la generosità dei cristiani periferici. Questa cosa forse Luca non l'accetta del tutto, al punto da inventare la profezia di Agabo: la donazione di Antiochia, che pure c'era stata (Luca non poteva negarla), era da considerare un evento eccezionale, causato da una carestia.

Tra Luca e Paolo, compagni di viaggio, è già lecito intravedere lo scontro di due concezioni economiche della Chiesa che non smetteranno più di contrapporsi: quella tratteggiata da Luca negli Atti continuerà a ispirare i più svariati esperimenti comunitari, dai francescani ai quaccheri. Ma a vincere sarà quella di Paolo: la Chiesa come un enorme dispositivo di raccolta fondi. Un modello che la renderà una struttura particolarmente competitiva nell'economia tardo-imperiale, che non prevedeva altre forme di welfare che non contemplassero la generosità dei cittadini.

Papyrus Oxyrhynchus 1597, il più antico frammento degli Atti pervenutoci.

 Agabo ritorna più tardi negli Atti degli Apostoli (21,10-11), in una fase in cui, usando la prima persona plurale, Luca lascia intendere di aver assistito direttamente ai fatti che racconta. Lui e Paolo stanno facendo tappa a Cesarea, ma sono diretti a Gerusalemme: e Agabo di nuovo viene da lì, con una nuova profezia. Luca lo presenta di nuovo, senza ricordarsi di averlo menzionato in precedenza – il che potrebbe anche significare che la seconda parte degli Atti, dove racconta dei suoi viaggi con Paolo, l'ha scritta un po' prima; mentre la prima parte, quella sulla Chiesa eroica degli esordi, l'ha ricostruita a posteriori. Anche stavolta Agabo è una comparsa strumentale al racconto: arriva, spiega cosa succederà, scompare:

Eravamo là da molti giorni, quando scese dalla Giudea un profeta, di nome Agabo. Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le mani e disse: «Questo dice lo Spirito Santo: "A Gerusalemme i Giudei legheranno così l'uomo a cui questa cintura appartiene, e lo consegneranno nelle mani dei pagani"». Quando udimmo queste cose, tanto noi che quelli del luogo lo pregavamo di non salire a Gerusalemme. Paolo allora rispose: «Che fate voi, piangendo e spezzandomi il cuore? Sappiate che io sono pronto non solo a essere legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù»

Si capisce che senza Agabo che profetizza l'arresto, Luca e gli altri amici non potrebbero esortare Paolo a evitare il pericolo, e Paolo non potrebbe mostrarsi pronto al martirio. Agabo sembra davvero il tipico profeta "post eventum", quello che le azzecca tutte semplicemente perché è una pedina dello scrittore, che il futuro lo conosce già perché ormai è già passato. E infatti si limita a profetizzare l'imminente arresto di Paolo: non il martirio vero e proprio, che Luca non si sente di anticipare perché quando scrive gli Atti (60?), Paolo è ancora vivo, sebbene prigioniero a Roma.

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La Messa che non era a Mezzanotte

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(Questo è un pezzo per il Post. La prima parte l'avevo già scritta qui qualche mese fa, la seconda su The Vision qualche anno fa, del resto è Natale, anzi buon Natale a tutti!) 

Nel 1576 i milanesi non fecero la messa di Natale. Eppure la peste sembrava non colpire forte come due mesi prima: certo il conteggio dei contagiati e dei morti doveva essere più difficile di adesso, ma a metà dicembre il Tribunale di Sanità aveva la netta sensazione che i numeri stessero calando. Insomma il lockdown imposto a fine ottobre sembrava aver funzionato. Ciononostante i membri del Tribunale – che dopo la fuga delle autorità spagnole erano di fatto i reggitori della città – decisero che non era il caso di abbassare la guardia, e comunicarono la decisione all'arcivescovo. La quarantena sarebbe proseguita "fin che si vedesse ben nettata tutta la Città da peste, con consenso pure del Cardinale". Il vescovo era il cardinale Carlo Borromeo, uno dei protagonisti della Controriforma. Non proprio un personaggio conciliante: in tante altre situazioni lo ritroviamo ai ferri corti con le autorità civili e municipali, eppure in questo caso le cronache non riportano nessuna esitazione da parte sua. Lasciò solo scritto che gli dispiaceva che i cristiani "ancora fussero impediti di andare alle Chiese", e diede istruzioni affinché i sacerdoti mantenessero un corretto distanziamento mentre visitavano le case dei loro parrocchiani per impartire (dall'esterno) la benedizione, ma anche per monitorare la situazione del contagio e verificare quelle situazioni di disagio economico al quale il Cardinale spesso provvedeva attingendo dal suo patrimonio.

Giambattista Tiepolo 

Qualche anno fa, proprio sul Post, mi è capitato di scrivere un pezzo abbastanza ingiusto su Carlo Borromeo, in cui rimpallavo l'accusa di avere veramente meritato che la "peste di San Carlo" prendesse il suo nome, a causa di quelle processioni che avrebbero contribuito a diffondere il morbo. Le cose come sempre sono più complesse: è vero, Borromeo ritenne giusto organizzare alcune processioni (cedendo forse a una pressione popolare), ma nell'occasione prese precauzioni che a distanza di quattro secoli facciamo fatica a prendere noi. La processione che portò il Sacro Chiodo in giro per la città il 5 ottobre era composta di soli uomini: donne e minori di 15 anni, che risultavano maggiormente soggetti al contagio, erano già in lockdown domiciliare. Tra un partecipante e l'altro, un distanziamento di tre metri, che considerati i modi spicci dei birri del tempo era probabilmente rispettato (noi oggi a più di un metro di distanza non riusciamo a stare, neanche in coda in farmacia).

Altre direttive del Borromeo ai suoi sottoposti fanno intuire che una rudimentale scienza epidemiologica esistesse già, anche in mancanza di microscopi e del concetto di virus: del resto la peste era pandemica in Europa da tre secoli, in mezzo a tanti errori i nostri antenati qualcosa l'avevano imparato: qualcosa a cui alcuni di noi ancora non si rassegnano. Carlo visitava i malati come il suo ruolo imponeva, ma si portava una lunga bacchetta per tenerli a distanza: tra una visita e l'altra faceva bollire i vestiti. Altri strumenti, in un mondo senza distillati, erano la spugna d'aceto e le candele su cui passare le mani dopo aver distribuito l'eucarestia: sempre comunque su un piattino d'argento, e fuori dalla chiesa. Carlo era tutto tranne un cardinale illuminato: qualche anno prima pur di bruciare una donna rea di stregoneria aveva avuto un contenzioso con l'Inquisizione, che chiedeva almeno un processo. Persino Carlo sapeva quand'era ora di chiudere le chiese, e che oltre a sperare in Dio bisognava stare in casa il più possibile. Il lockdown sarebbe durato fino a febbraio. Tutto sommato un successo, se si confronta per esempio il numero pur ingente di vittime (17000) con quello per esempio di Venezia (70000).

La peste di Carlo mi è tornata in mente in questi giorni, ovviamente, man mano che su social e quotidiani cominciava a comparire il nuovo episodio del Complotto contro il Natale. Si tratta di un format ormai caratteristico della stagione, sostanzialmente mutuato dagli USA, dove ha un nome più aggressivo (War on Christmas). Ma la sostanza è sempre quella: appena le radio cominciano a programmare i brani natalizi, e i negozi a illuminarsi di addobbi, ecco che scopriamo che c'è qualche cattivo in giro che ha intenzione di rubarci il Natale. Esatto, è la trama del Grinch. Nel ruolo che fu di Jim Carrey si alternano i fanatici del politically correct che vorrebbero togliere "Christmas" dalle cartoline d'auguri perché contiene "Christ", o nella versione italiana un fantomatico consorzio di genitori islamici che impedirebbe alle scuole italiane di allestire il presepe. La cosa era talmente rituale che vi ha trovato posto persino un imam  che sul più bello ogni anno dichiara ai media che i musulmani non hanno niente contro il presepe. Perché il bello della guerra contro il Natale è che alla fine il Natale vince sempre, come si conviene del resto alla festa del Sole Vincitore. I suoi nemici – il grinch, il krampus, l'imam – non servono che a ribadirne i trionfi. Era insomma inevitabile che il ruolo del grinch quest'anno spettasse all'entità che ci ha rovinato anche il resto dell'anno: il Covid19.

Il problema è che a differenza delle altre minacce, il Covid ha il grossissimo inconveniente di esistere davvero. Così trovarsi a pranzo coi parenti quest'anno sarà davvero più difficile, il che risulta alla maggior parte di noi meno tollerabile di quanto cinema e letteratura sull'argomento lasciassero pensare. E la messa non si celebrerà più a mezzanotte, il che ha destato lo scandalo di molti ferventi giornalisti d'area conservatrice – ignari probabilmente che al Vaticano quella messa la celebrano alle 22 da anni, e che ad anticipare la funzione religiosa è stato proprio il papa più compianto dai tradizionalisti, Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger – probabilmente temeva che gli cadesse una palpebra in diretta tv, del resto chi l'ha detto che Gesù sia nato alle 0:00? (se è per questo, non c'è molto consenso nemmeno sulla data).

La Messa di mezzanotte è uno dei tanti elementi di una tradizione che crediamo immutabile e che invece si modifica continuamente: come i dolci da forno tipici, che arrivano nella maggior parte delle tavole italiane soltanto nel dopoguerra, o l'iconografia di Babbo Natale che deve tantissimo alle campagne pubblicitarie di una nota bibita gassata. L'idea che nei secoli scorsi gli italiani celebrassero la nascita di Gesù nel cuore della notte è smentita da un fatto semplice: fino a metà dell'Ottocento i campanili italiani suonavano la mezzanotte mezz'ora dopo il tramonto.

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San Carlo non era un cretino (e noi?)

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Tra i pezzi sui santi che non ho ancora rimesso a posto c'è quello su Carlo Borromeo, che dovrei proprio riscrivere da capo. Per quanto il tizio mi sia antipatico (quanto può esserlo un amministratore milanese assai bigotto) (cioè tantissimo) devo ammettere che sono stato molto più ingiusto con lui che con altri. Nel Borromeo mi sono sforzato di vedere l'anticipatore di quella che 

"i teocrati milanesi di oggi chiamano “sussidiarietà”: dove lo Stato non arriva ci pensa la Compagnia, per cui è una fortuna che lo Stato non arrivi quasi mai a combinare nulla di concreto. Nel caso della peste lo Stato si adopra così poco, e Carlo così tanto, che l’epidemia viene onorata del suo nome, e ancora oggi la si chiama “peste di San Carlo”.

Fin qui se ne poteva ancora discutere: in fondo non era colpa di Carlo se gli amministratori spagnoli abbandonarono Milano a sé stessa; il problema è quel che soggiungevo:

Per i suoi detrattori, la peste merita ugualmente di essere chiamata di San Carlo perché senza di lui probabilmente sarebbe durata molto meno: senza la sua mania di convocare oceaniche processioni, formidabili occasioni per la diffusione del morbo, ci sarebbero state assai meno vittime, assai meno occasioni per dimostrare l’abnegazione del cardinale. Va bene, per l’epidemiologia era ancora molto presto, ma l’osservazione che le adunate di popolo facilitavano il contagio era già condivisa da dotti e sapienti, e Borromeo se ne fregava: aveva il suo Sacro Chiodo da far sfilare, tra i mucchietti di vittime del giorno; e se non avesse funzionato, si poteva pure bruciare qualche untorella.

E qui, davvero, stavo giocando sporco. Non risultano untorelle bruciate sul rogo a Milano durante la peste di San Carlo, anche se almeno un poveraccio lo impiccarono con un'accusa del genere. D'altro canto quando c'era una donna da condannare al rogo con l'accusa di stregoneria il cardinale non si tirava certo indietro, anzi: in almeno un'occasione dovettero intervenire il Papa e l'inquisizione per... fermarlo, perché secondo Carlo accuse del genere erano troppo gravi per garantire un giusto processo. Ma nel caso della peste del 1576, il mio vecchio pezzo travisa completamente l'atteggiamento assunto dal Borromeo. È vero, che le adunate di popolo facilitassero il contagio era già un'osservazione condivisa; è vero, Borromeo ritenne giusto organizzare comunque delle processioni, ma nell'occasione prese precauzioni che a distanza di quattro secoli facciamo fatica a prendere noi. La processione che portò il Sacro Chiodo in giro per la città il 5 ottobre era composta di soli uomini: donne e minori di 15 anni, che risultavano maggiormente soggetti al contagio, erano in lockdown domiciliare dal primo ottobre. Tra un partecipante e l'altro, un distanziamento di tre metri, che considerati i modi spicci dei birri del tempo era probabilmente rispettato (noi oggi a più di un metro di distanza non riusciamo a stare, neanche in coda in farmacia). 

Il pittore (Fiamminghino) ha l'aria di non aver mai assistito a un lockdown in vita sua.

Altre direttive del Borromeo ai suoi sottoposti fanno intuire che una rudimentale scienza epidemiologica esistesse già, anche in mancanza di microscopi e del concetto di virus. Dando un'occhiata un po' più da vicino al suo caso, mi sono accorto di quanto somigliasse al terremoto estense di qualche anno prima: anche in quel caso accanto a risposte completamente irrazionali, c'era già chi basandosi sui fatti formulava proposte operative che funzionano ancora oggi. Non erano tutti cretini nel Cinquecento, così come non lo siamo noi del Duemila che in teoria abbiamo ancora meno scuse. Carlo visitava i malati come il suo ruolo imponeva, ma si portava una lunga bacchetta per tenerli a distanza: tra una visita e l'altra faceva bollire i vestiti (quindi l'idea che qualcosa di minuscolo non resistesse alle forti temperature c'era già: al limite le pulci). Altri strumenti, in un mondo senza alcool distillato, erano la spugna d'aceto e le candele su cui passare le mani dopo aver distribuito l'eucarestia. Certo, era pur sempre un uomo di fede e di una fede rigida, arcigna: eppure non si oppose alla decisione del Tribunale di Sanità di prolungare il lockdown oltre il giorno di Natale, malgrado già a metà dicembre la curva dei contagi fosse scesa. Diede anche disposizione perché i sacerdoti benedicessero le abitazioni dalla strada, senza entrarvi. Insomma l'immagine fortissima della basilica di San Pietro vuota durante la pasqua del 2020 non è, come credevo, una completa novità storica. Persino nel periodo più cupo della Controriforma, un cardinale intransigente sapeva quand'era ora di chiudere le chiese, e che oltre a sperare in Dio bisognava anche stare in casa il più possibile. Il lockdown sarebbe durato fino a febbraio. Tutto sommato, un successo, se si confronta per esempio il numero pur ingente di vittime (17000) con quanti ne morirono per lo stesso morbo a Venezia (70000).

Tutto questo quando mi misi a scrivere il pezzo su San Carlo non lo sapevo, il che non mi scusa: avrei potuto almeno arrivarci via Manzoni. La peste che lui descrive arriva cinquant'anni dopo – il mezzo secolo che noi italiani siamo abituati a considerare come il trionfo dell'oscurantismo, quello in cui si processano Bruno e Galilei. Tutto giusto, eppure in capo a questo mezzo secolo, quando i milanesi chiedono al nuovo cardinale Borromeo di portare in processione le spoglie del vecchio, Federigo si mostra tutt'altro che entusiasta. "Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l'effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo. Temeva di più, che, se pur c'era di questi untori, la processione fosse un'occasion troppo comoda al delitto: se non ce n'era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale".

Le autorità però insistono e alla fine Federigo cede. Dopo tre giorni di preparativi, una parata in grande stile percorre Milano. Il "venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio" viene scorrazzato per la città con molte meno precauzioni di quante aveva voluto prendere da vivo: la processione si ferma a tutti i crocicchi in cui il vecchio cardinale aveva fatto erigere delle croci per le celebrazioni religiose all'aperto. Questa cosa per me rappresenta un'ironia micidiale: Carlo che da vivo aveva lottato contro il contagio, da morto diventa un feticcio che guida i milanesi nell'opposta direzione: i simboli del distanziamento sociale che da vivo aveva disseminato per la città diventano dopo cinquant'anni i luoghi di assembramento intorno al suo cadavere. "Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto, regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l'occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d'un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all'infinita moltiplicazione de' contatti fortuiti, attribuivano i più quell'effetto; l'attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d'eseguire in grande il loro empio disegno".  

Insomma San Carlo poteva essere un oscurantista misogino: ma non un cretino. Nemmeno suo nipote Federigo. Il che non significa che cretini non ce ne fossero anche a quei tempi; e ancor più dei cretini tanta gente in buona fede ma un po' troppo disposta a credere a quel che vuole, e quel che vuole è sempre una versione dei fatti semplificata, rassicurante, e qualche volta foriera di disastri. A Milano, nel 1576, per partecipare a un corteo serviva un distanziamento di tre metri; cinquecento anni dopo, ci capita ancora di doverne spiegare il perché, a gente che non se ne convince. San Carlo non era un cretino: noi ci arrangiamo. 

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Un ciceroniano a Betlemme

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Lionello Spada, passi la penna d'oca
 e il tappeto ikea, ma GLI OCCHIALI?
30 settembre - San Girolamo (347-420), padre della Chiesa.

[2012]. Oggi quando una ragazza muore di digiuno la gente dice: è colpa delle riviste di moda, e le riviste di moda dicono: è colpa della famiglia - ma nell'antichità? A chi si attribuiva la colpa, in mancanza di foto patinate? 

Ai padri della Chiesa. A Girolamo, perlomeno, che su certe fanciulle della Roma-bene pare che facesse questo effetto: si appassionavano al suo eloquio, si lasciavano catturare dal suo personaggio un po' hobo  - quel tipo di snob figlio di patrizi che passa qualche anno in una comunità in Siria e poi torna con una certa aria di saggezza e i pidocchi nella barba - ne adottavano i costumi vegetariani, e dopo un po' rischiavano di lasciarci le penne. La giovane Blesilla  ci restò secca davvero, dopo qualche mese di dieta, e Girolamo cadde in disgrazia: dovette abbandonare la città. Non aveva ancora quarant'anni ed era già stato segretario particolare di un Papa, il padre Georg di Damaso I; alla morte di Damaso alcuni lo davano già per papabile, ma appunto: i romani possono sopportare molte cose, ma un papa convinto che nell'attesa del Regno dei Cieli imminente non sia più concesso mangiar carne, eh, grazie, anche no. Girolamo se ne tornò nei deserti della sua giovinezza tormentata, la cristianità ci perse un papa vegetariano e ci guadagnò la miglior Bibbia che poteva permettersi. Perché Girolamo, riparato a Betlemme, non ebbe più niente di meglio che riprendere le sue traduzioni del testo sacro in latino, rimaneggiarle ed espanderle. Ci mise altri quindici anni, ma alla fine la latinità aveva un testo leggibile, organico, comprensibile, alla portata di tutti (Vulgata, lo chiamarono), e a suo modo elegante, come doveva essere stato elegante quel patrizio romano sotto gli stracci da asceta che ostentava nei circoli romani.

L'influenza di Girolamo sulla lingua che parliamo milleseicento anni dopo è incalcolabile. Nel senso che davvero è impossibile calcolare quante parole gli dobbiamo. Un esempio qualsiasi, su milioni che si potrebbero fare: l'aggettivo "geloso". Deriva da "zelotes", un termine che compare due volte nell'Esodo tradotto da Girolamo; in entrambi i casi è riferito a Dio, e in entrambi i casi Dio sta chiedendo al suo popolo di non avere altro Dio. Insomma la prima gelosia della storia è la gelosia divina, di un Dio che si considera Unico ma evidentemente non ne è troppo sicuro - sennò tanta gelosia non avrebbe un senso. Prima della vulgata i latini non avevano una parola per "gelosia": ne avevano il concetto? A leggere Catullo pare proprio di sì, ma così come non marcavano una netta distinzione tra l'azzurro e il verde, gli autori classici non danno la sensazione di distinguere nettamente invidia e gelosia. Forse i concetti sono dei grumi di senso che prendono forma intorno alle parole: finché non esiste una parola, non c'è nemmeno il concetto. Forse non avremmo il concetto di gelosia, se Girolamo non avesse deciso di tradurre un certo termine ebraico in un certo modo.

È da un po' che scrivo storie di santi sul Post. All'inizio non sapevo bene dove sarei andato a parare, ho proceduto per tentativi. A distanza di qualche tempo mi sembra che il metodo sviluppato consista nella simpatia: si prende un uomo o una donna vissuti secoli o millenni fa, in contesti radicalmente diversi, e si tenta di trovarli simpatici. A volte la cosa è fattibile, altre volte è così disperata che diventa divertente. Come metodo, è il meno serio e il più anti-storico che si possa adottare. Le persone nate secoli fa, in contesti alieni, sono alieni. Non parlano come noi, non pensano come noi, non mangiano le cose che mangiamo noi (Girolamo era vegetariano in un mondo senza pomodoro e senza pastasciutta). Trasformarli in figurine simpatiche (o antipatiche) non serve probabilmente a nulla. E in certi casi è veramente impossibile. Come si fa a provare simpatia per Girolamo, un fanatico ossessionato dall'inferno, che si fece mantenere per tutta la vita dalla nobildonna (Santa Paola) a cui aveva fatto perdere la figlia (Santa Blesilla)? C'è che contrariamente a tutte le aspettative, questo fanatico ossessionato è un grande intellettuale, un bravo scrittore, un incredibile traduttore. E la sua Bibbia in latino è un dono, prezioso anche per quelli che a milleseicento anni di distanza non si considerano cristiani.

Ai tempi del suo primo disperato pellegrinaggio nel deserto - durante il quale altri suoi amici erano morti di stenti - Girolamo aveva fatto un incubo, dopo una di quelle sere in cui prima di andare a letto si era messo a leggiucchiare un po' di Plauto, così, per prender sonno. Il sogno lo aveva catapultato alla corte di Cristo Re, che lo aveva interrogato: "sei forse tu cristiano?" "Mi sembra di sì", aveva risposto Girolamo, tremebondo. "Mi sembri piuttosto ciceroniano", aveva risposto il dio-magistrato, e ne aveva disposto l'immediata flagellazione. Girolamo, sanguinante, aveva promesso che non avrebbe toccato un autore pagano mai più, mai più: da lì in poi solo libri sacri. In pochi sogni come in questo vediamo un uomo tradirsi.

Perché il dio flagellatore aveva ragione: Girolamo era più di ogni altra cosa ciceroniano, e nessun digiuno, nessuna penitenza lo riuscirono a cambiare davvero. Sotto quella pelliccia puzzolente, il monaco traduttore era rimasto Eusebius Sophronius Hieronymus, una spia del classicismo greco-romano, infiltrata nel cuore più profondo del cristianesimo trionfante: la piccola cella di Betlemme dove stava prendendo forma la Vulgata. Nel giro di due secoli il testo avrebbe sbaragliato la concorrenza, diventando per un buon millennio l'unica Bibbia leggibile in Europa. Il libro di Dio, ma anche un po' di Cicerone. No, mettiamola così: il ciceronianesimo di Girolamo è un virus, rimasto in sonno per secoli prima di attivarsi. Finché il supporto rimase la pergamena, e i lettori poche migliaia in tutto il continente, quasi nessuno ci fece troppo caso. Ma quando arrivò Gutenberg, e la stampa a caratteri mobili, il virus dilagò. Era il virus del pensiero critico.

Come animale da compagnia, un leone vegetariano. Il problema coi leoni vegetariani è che mangiano chili di cespugli al giorno, e hanno continuamente una spina da farsi cavare, e tu intanto stai cercando di capire le unità di misura del Levitico

Ci sono stati nella Storia dell'uomo altri traduttori di libri sacri. Siccome i libri di questo tipo durano molto, e nel frattempo non cambia solo la lingua, ma anche la cultura, il modo di pensare... di solito tradurli è l'occasione per riammodernarli un po', magari per riscrivere intere parti da capo. Girolamo sapeva bene, per esempio, che quando i greci avevano tradotto la Bibbia ebraica, l'avevano un po' aggiornata, togliendo magari qualche riferimento messianico che loro non capivano e che invece a lui premeva molto. Girolamo crede, indiscutibilmente crede, che l'autore della Bibbia ebraica sia Dio, e che quindi sia necessario ripartire da là: ma l'ebraico è difficile, e Girolamo non si fida veramente di nessuna delle sue fonti: non degli ebrei suoi contemporanei, non dei Greci, non del saggio Origene che aveva fatto uno splendido lavoro accostando tutte le traduzioni conosciute, ma era anche lui in odore di eresia... Diffidando di tutti, Girolamo è costretto a metterli a confronto, e a inventare un metodo filologico che poi ci servirà a restaurare tutti i classici, Cicerone incluso.

Ma quel che forse è più importante, e che lo rende il Santo dei traduttori, è che Girolamo diffida anche di sé stesso. Altri, prima di lui, avevano risolto i dilemmi di interpretazione lasciandosi semplicemente ispirare dalla Divinità. Lui no, lui traduce a senso, anche quando il senso magari non gli piace. Non è un profeta, non cerca Dio nella sua testa: Dio sta fuori, Dio ha scritto un libro, Girolamo deve capire cosa c'è scritto senza lasciarsi tentare dal demone dell'interpretazione. Nelle sue mani, la Bibbia diventa latina, ma non si evolve. Non si adatta alla cultura della civiltà tardoantica. Rimane un ingombrante centone di miti ebraici totalmente sganciati dalla quotidianità dei cristiani: qualcosa di oggettivamente difficile da manovrare, che rimarrà per secoli incastonato nella liturgia come un meteorite piovuto dal cielo. Nella maggior parte del testo, il Dio di cui si parla non è quello dei cristiani: a volte è buono e misericordioso, altre volte è mandante di genocidi; il più delle volte non si capisce cosa pretenda e con chi ce l'abbia, tutti i popoli di cui si parla sono lontani nella Storia e nella geografia. Dopo un migliaio di pagine così (intervallate da qualche salmo commovente, qualche onesta riflessione sulla condizione umana, qualche poesiola d'amore, qualche proverbio abbastanza banale), arriva Gesù - ma persino le storie di Gesù non sono affatto raccontate in modo univoco e coerente. C'è un sacco di contraddizioni, e Girolamo le avrebbe potute risolvere: chi meglio di lui?

Un piccolo esempio, di cui abbiamo parlato altre volte: i fratelli di Gesù. Tutti quelli che nei secoli hanno difeso la verginità della Madonna, si sono scontrati contro quei versetti in cui si dice, chiaramente, che Gesù aveva dei fratelli. Non c'è niente da fare, il testo dice così: hai voglia a dire che magari gli evangelisti intendevano "cugini", "amici", "discepoli", no: c'è scritto fratelli, punto. Ma chi l'ha scritto? Girolamo era nella stanza dei bottoni (o meglio nella cella dei papiri), Girolamo avrebbe potuto cambiare. Certo, ci sarebbe stata qualche polemica, Agostino avrebbe storto il naso... ma nel giro di qualche secolo tutto sarebbe stato risolto, un testo meno contraddittorio avrebbe fatto comodo a tutti. Bastava convincersi che quel "fratelli" era un evidente sinonimo di cugini, le religioni sono piene di gente che si convince di cose così, ma Girolamo non era quel tipo di fanatico. Tradusse "fratelli", e "fratelli" rimase. Sotto quella pellaccia livida di tutte le frustate che si autoinfliggeva per aver esagerato a condire la lattughina, sotto tutto il suo cristianesimo furioso e militante, Girolamo Eusebio Sofronio era rimasto un filologo. Classico. Ciceroniano. Se oggi leggiamo la Bibbia, e ci troviamo i migliori argomenti per non dare retta ai preti, lo dobbiamo a lui, che poteva sostituirla con un bel catechismo edificante, ma non ne era in grado. Tra l'amore per la Chiesa e quello per la lettera del testo, Girolamo scelse il secondo, e lo sapeva: almeno nei sogni.

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