San Vincenzo, il martire banale

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22 gennaio – San Vincenzo di Saragozza (†304, martire citazionista).

San Vincenzo era diacono, come Santo Stefano, presso Saragozza (come San Braulione). Sotto Diocleziano imperatore fu arrestato, come San Sebastano, e interrogato come il suo vescovo, San Valerio. Trovato colpevole di cristianesimo, fu torturato sul cavalletto, come Santa Caterina. Siccome invece di pentirsi ringraziava i suoi torturatori, come Sant’Ignazio, il magistrato decise di arrostirlo, come San Giovanni. Dopo un po’ che era sui ferri ardenti pare che abbia detto anche lui al carnefice “Voltami, son cotto”, come San Lorenzo. Ma a quel punto il magistrato si stancò, e così Vincenzo rimase cotto a metà, il destino di ogni imitazione di un’originale. Le copie più riuscite molto spesso sono le più superficiali.

Ancora una graticola, che banalità.
Vincenzo è il patrono di Lisbona, di Vicenza, del casino di Saint-Vincent, dei vinai e dei vignaioli, e di tutti noi ogni volta che vorremmo dire qualcosa di importante, di potente, anche solo una parola ma definitiva, e tutto quello che ci viene in mente è una citazione. Una frase che ha già detto qualcun altro, pensando ad altro, e che ci è rimasta attaccata addosso. Come diceva Oscar Wilde. Come diceva Voltaire. Come diceva Albert Einstein. Questi uomini insigni passano i loro giorni nell’Ade a tormentarsi e rigirarsi: questa non l’ho detta! questa forse sì, ma intendevo l’esatto contrario! Questa sicuramente, ma ripensandoci era una cazzata. Ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi a Davos ha detto che l’Italia deve investire nel futuro, deve smettere di considerarsi un museo: e per dimostrarlo ha citato un motto di duemila anni fa: Carpe diem! Se avete fatto un liceo italiano (i migliori del mondo) avrete già riconosciuto la citazione di Robin Williams. Il problema è che quella poesia dice l’esatto contrario, maledizione. Dopo Carpe diem viene “quam minimum credula postero“, più o meno “credi al futuro quanto meno puoi”. Altro che investire nel futuro, Leucò, lascia perdere, versami da bere piuttosto. E infatti se ci pensate gli studenti di Robin Williams in quel film non è che si diano troppa pena di alzare le medie del quadrimestre: preferiscono appartarsi con le ragazze, scrivere poesie o suicidarsi direttamente.

Noi non investiamo nel futuro, noi siamo la minoranza dei bei gesti che durano un attimo,
e al sette in condotta ci penseremo poi.
D’altro canto le citazioni sono definite proprio dal loro essere ormai completamente estrapolate dal contesto. Come le parole. In effetti sono diventate parole. Le usiamo nello stesso modo, combinandole in frasi senza più preoccuparci della storia lunga e complessa che ce le ha portate sulla bocca. Diciamo “Faccio cose vedo gente”. Diciamo “ho visto cose”, e non sappiamo nemmeno più che film stiamo citando e perché. Diciamo “digitale” e le dita sono l’ultima cosa a cui pensiamo. Quanto a gennaio, non è più il mese del dio Giano da un pezzo: perché carpe diem dovrebbe sottrarsi all’incessante mutare del tempo, dei significati e dei significanti?

Il fatto di vivere in un mondo saturo di discorsi, dove ogni parola che ci viene in mente è una citazione, forse non dovrebbe tormentarci. Peraltro non è una novità, ci sono stati altri periodi così. Forse tutti i periodi sono così, anche se a posteriori non è sempre facile accorgersene. Alcuni di voi avranno certamente letto da ragazzini il capolavoro del Federico Moccia del secolo XVIII, tal Wolfgang Goethe – in seguito seppe riciclarsi egregiamente come autore di testi per adulti seri, ma nel nostro cuore è sempre stato l’autore di quell’agile romanzetto che lanciò la moda della giacca blu col panciotto giallo – e anche quella dei suicidi tra i lettori più sensibili – i Dolori del Giovane eccetera. Se l’avete letto nel periodo giusto forse ricordate ancora la notte di lampi e tuoni in cui il Giovane Imbucato a una festa di nobili conosce Lotte e s’innamora di lei. L’espressione “colpo di fulmine” forse prima non esisteva, ma il momento in cui il Giovane si infiamma davvero non coincide con un tuono o con un lampo. Il grosso della tempesta è già passato, quando Lotte pensosa alla finestra pronuncia la parola che lo infiammerà, condannandolo a un amore impossibile e alla lunga mortale.

Questa parola è “Klopstock”.

Ciò mi ha sempre fatto ridere.

Nessuno potrà più dire “Klopstock” senza commuoversi.
Provateci. Klopstock. Klopstock. Vedete?
È un riso da scimmia, perché in effetti la situazione può suscitare ilarità soltanto se non si conosce il celebre lirico Friedrich Gottlieb Klopstock; se non si ha la minima idea della poesia a cui sta pensando Lotte in quel momento. Probabilmente fa ancora più ridere se addirittura non so una sillaba di tedesco: se per me è solo un accrocchio di sillabe che gridano “invadiamo la Polonia” anche quando vorrebbero parlare d’amore. Quindi, nel momento in cui Werther s’innamora, tu ridacchi, ah ah ah ah, che ha detto? No, ma sul serio, come ci si fa ad innamorare ascoltando il suono “Klopstock?” Capirei Lessing, Novalis, persino Heine ha ancora qualcosa di languido, ma Klopstock sembra una marca di ciabatte.

Werther invece si innamora, perché ha colto il riferimento. Conosce Klopstock, ha indovinato l'”ode sublime” che Lotte ha in mente. Questo era il significato di “Klopstock” sulle labbra di Lotte, ma nelle orecchie di Werther ha già assunto un significato diverso. Significa: “ode sublime che io so che tu sai”. Significa già “Affinità elettive”. C’è qualcosa tra di noi che la rigida compartimentazione sociale della società tedesca prenapoleonica non potrà toglierci, nemmeno quando per darmi un tono mi farò prestare [SPOILER] le pistole da tuo marito e mi ci bucherò le cervella [/SPOILER]. Nel giro di pochi secondi la parola ha assunto un significato così personale che Werther vorrebbe ritirarla dalla lingua tedesca. “Nobile poeta, se tu avessi potuto vedere in quello sguardo la tua apoteosi! e se io potessi ora non sentir più pronunciare il tuo nome così spesso profanato”.

Chissà se poi Klopstock era così contento di essere diventato una specie di catenaccio di Ponte Milvio del preromanticismo, il McGuffin di un romanzetto per giovani tormentati. Sì, perché alla fine non è così importante di che poesia si tratti. Era davvero così bella? Lotte e Werther avevano davvero il gusto per apprezzarla, o non stavano pescando nel banale come Fiorello quando cantava la Nebbia agli irti colli piovigginando sale? Che importa. Con le citazioni non si sbaglia mai: dici “gatto di Shroedinger” e il tuo interlocutore penserà che tu ne sappia davvero qualcosa di meccanica quantistica. Di fronte allo spettacolo del temporale che si ritira Lotte avrebbe potuto provare a tirar fuori qualcosa di suo, ma se fosse suonata ridicola? La citazione ti risolve. Klopstock.

Ma chi siamo noi per giudicare. L’abbiamo avuta tutti una fase Klopstock, specie se ci è capitato di maturare sentimentalmente negli anni Novanta. A rileggere i libri del tempo, viene la vertigine: tutti i protagonisti passano il tempo a citare altri libri, o fumetti o film o poesie (persino Fiorello). Cosa avevamo in testa tutti? Perché non cercavamo la nostra singola voce invece di ritagliare frasi a caso dai discorsi degli altri? Eravamo solo giovani e stupidi, o c’era qualcosa di più?

Forse c’era qualcosa di meno. I Novanta non sono poi così lontani, ma sembrano ormai un universo parallelo, dove tutto più o meno è uguale a qui salvo che non c’è internet. C’era comunque molta cultura dappertutto, ma non era così immediatamente accessibile: andava comprata, noleggiata, riprodotta, fotocopiata: tutti passaggi che la consumavano e ce la rendevano più nostra. Citarsi addosso era un modo per riconoscerci: da qualche parte in città qualcuno quella sera stava dando una festa in cui a un certo punto una ragazza avrebbe detto “Klopstock”, o “Per un bel pezzo sono andata a letto presto”, o “Preferisco di no”, “Dove vanno le anatre”, o qualche altra frase che tutto il mondo avrebbe trovato ridicola tranne te. Dovevi trovarla. Dovevi allenarti a distillare le citazioni e riconoscerle nei discorsi altrui. Memorizzarle il più possibile e mescolarle con sapienza. Trasformare te stesso in una pratica citazione da snocciolare al momento giusto.

La barra di google ha messo fine a quell’era di abiezione. Non abbiamo smesso di citare, ma lo facciamo in modo più automatico, senza più il timore e il tremore di essere o non essere capiti. Diciamo “Pijamose Roma”, diciamo “Avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto”, ma non è per selezionare i nostri uditori all’ingresso. Ci spuntano ancora sulle labbra per pigrizia, noi non sapremmo mai farne di altrettanto efficaci. Nel frattempo abbiamo anche smesso di immagazzinare contenuti, sia nelle librerie che nel disco rigido che nel nostro stesso cervello. Tanto nella nuvola c’è tutto; l’importante è sapere come cercarlo, cosa cercare, nell’evenienza che ancora da qualche parte arrivi una bufera e noi ci si ritrovi in quella situazione in cui…

“Klopstock”.

“Che hai detto?”

“No, niente”.

“No, ti ho sentito, hai detto qualcosa di una ciabatta”.

“No, non è una ciabatta, è un lirico tedesco”.

“Sicuro? Perché sembrava proprio una ciabatta”.

“È un lirico tedesco”.

“Sei sicuro? Guarda che lo sto già cercando”.

“Si scrive con la kappa”.

San Vincenzo voleva soltanto morire dicendo qualcosa di memorabile, come si conviene a un martire: che colpa aveva di vivere alla fine dell’epoca dei martiri, in un mondo ormai saturo di supplizi e frasi celebri? Tutte le torture e tutte le parole erano già state prese da santi non necessariamente più ispirati. Lui non aveva niente di meno di Santo Stefano o San Valerio o Santa Caterina, ma era arrivato dopo, in quel momento in cui qualsiasi cosa tu dica o faccia fa già parte di un discorso già finito. Qualcosa di simile sarà forse capitato anche a noi. Avevamo solo le parole degli altri, ce le siamo fatti bastare. Per quel che avevamo da dirci, alla fine [2015].
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In una parola, Klopstock.

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Ancora una graticola? Ma è roba vecchia.
22 gennaio - San Vincenzo di Saragozza (†304, martire citazionista).

[Si legge aggiornato qui].

San Vincenzo era diacono, come Santo Stefano, presso Saragozza (come San Braulione). Sotto Diocleziano imperatore fu arrestato, come San Sebastano, e interrogato come il suo vescovo, San Valerio. Trovato colpevole di cristianesimo, fu torturato sul cavalletto, come Santa Caterina. Siccome invece di pentirsi ringraziava i suoi torturatori, come Sant'Ignazio, il magistrato decise di arrostirlo, come San Giovanni. Dopo un po' che era sui ferri ardenti pare che abbia detto anche lui al carnefice "Voltami, son cotto", come San Lorenzo. Ma a quel punto il magistrato si stancò, e così Vincenzo rimase cotto a metà, il destino di ogni imitazione di un'originale. Le copie più riuscite molto spesso sono le più superficiali.

Vincenzo è il patrono di Lisbona, di Vicenza, del casino di Saint-Vincent, dei vinai e dei vignaioli, e di tutti noi ogni volta che vorremmo dire qualcosa di importante, di potente, anche solo una parola ma definitiva, e tutto quello che ci viene in mente è una citazione. Una frase che ha già detto qualcun altro, pensando ad altro, e che ci è rimasta attaccata addosso. Come diceva Oscar Wilde. Come diceva Voltaire. Come diceva Albert Einstein. Questi uomini insigni passano i loro giorni nell'Ade a tormentarsi e rigirarsi: questa non l'ho detta! questa forse sì, ma intendevo l'esatto contrario! Questa sicuramente, ma ripensandoci era una cazzata. Ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi a Davos ha detto che l'Italia deve investire nel futuro, deve smettere di considerarsi un museo: e per dimostrarlo ha citato un motto di duemila anni fa: Carpe diem! Se avete fatto un liceo italiano (i migliori del mondo) avrete già riconosciuto la citazione di Robin Williams. Il problema è che quella poesia dice l'esatto contrario, maledizione. Dopo Carpe diem viene "quam minimum credula postero", più o meno "credi al futuro quanto meno puoi". Altro che investire nel futuro, Leucò, lascia perdere, versami da bere piuttosto. E infatti se ci pensate gli studenti di Robin Williams in quel film non è che si diano troppa pena di alzare le medie del quadrimestre: preferiscono appartarsi con le ragazze, scrivere poesie o suicidarsi direttamente.

Che ci importa del futuro, qui e ora prendere tutti sette in condotta ci sembra una splendida idea.
D'altro canto le citazioni sono definite proprio dal loro essere ormai completamente estrapolate dal contesto. Come le parole. In effetti sono diventate parole. Le usiamo nello stesso modo, combinandole in frasi senza più preoccuparci della storia lunga e complessa che ce le ha portate sulla bocca. Diciamo "Faccio cose vedo gente". Diciamo "ho visto cose", e non sappiamo nemmeno più che film stiamo citando e perché. Diciamo "digitale" e le dita sono l'ultima cosa a cui pensiamo. Quanto a gennaio, non è più il mese del dio Giano da un pezzo: perché carpe diem dovrebbe sottrarsi all'incessante mutare del tempo, dei significati e dei significanti?

"Figlio del guerriero vittorioso, figlio di colui che ascolta, dall'anima semplice e pura".
Un altro esempio. Avete mai conosciuto un Bart Simpson? Credo di sì. Ne conosciamo tutti uno. È un ragazzino a tratti svogliato, a tratti iperattivo, dal quale possiamo aspettarci azioni di efferata crudeltà e insospettabile eroismo. Se poi ha pure i capelli a spazzola e gira in skate, magari c'è capitato di chiamarlo Bartsimpson. C'è una possibilità non remota che un giorno, quando il cartone animato oggi più famoso al mondo sarà solo una curiosità per archivisti, bartsimpson resista come sostantivo - se ce l'hanno fatta mecenate e donchisciotte, perché no? Persino gianburrasca ha avuto una chance, e non ditemi che avete mai letto davvero il Giornalino di Gian Burrasca. Chi dice "casanova" quasi mai ha letto l'Histoire de ma vie; chi userà in una lingua del futuro "bartsimpson" per dire "bimbo iperattivo" non saprà nulla del vero Bart, della sua infanzia difficile, del tormentato rapporto col padre, il bullismo subito a scuola, le umiliazioni... bartsmpson non sarà più un discorso, ma solo una parola. E non ha nessuna importanza che questa parola conservi la traccia di secoli di discorsi. Abbiamo già visto che "Bartolomeo" è un ibrido curioso: il prefisso aramaico "Bar" sta per "figlio", mentre "Tolomeo" è una voce greca per "guerriero", come si conveniva al nome di una dinastia egizia fondata da un soldato macedone. Bart è il figlio di un guerriero (quanti secoli di significato in quella misera t). Ed è Simpson, ovvero figlio dei semplici - ma questa è l'etimologia più superficiale. In realtà "Simp-" è una corruzione dell'anglo "Simme", che può essere sia la versione nordica dell'ebraico "Simon" (colui che ascolta), sia una corruzione di Sigmund. In questo caso "Sig" starebbe per vittoria, "mund" per uomo, e Simpson significherebbe: figlio dell'uomo vittorioso. In una lingua impossibile, che mantenesse il ricordo di tutti significati transitati da ogni sillaba, "Bart" e "Simpson" sono quasi sinonimi: figlio del guerriero, figlio del vincitore. Come due fratelli che ignorano di esserlo, pur vivendo a fianco da una vita. Solo dimenticandosi della loro origine possono funzionare assieme. E in effetti Matt Groening quel giorno non aveva la minima idea degli ingredienti che stava mescolando: scelse Bart forse perché anagramma di "brat", e "Simpson" era il cognome perfetto per una famiglia di sempliciotti. Inventare una parola significa strapparla a viva forza da un contesto, e darle un senso nuovo. Uscire dal museo e buttarsi nella mischia. Carpe diem, come disse Renzi.

Il fatto di vivere in un mondo saturo di discorsi, dove ogni parola che ci viene in mente è una citazione, forse non dovrebbe tormentarci. Peraltro non è una novità, ci sono stati altri periodi così. Forse tutti i periodi sono così, anche se a posteriori non è sempre facile accorgersene. Alcuni di voi avranno certamente letto da ragazzini il capolavoro del Federico Moccia del secolo XVIII, tal Wolfgang Goethe - in seguito seppe riciclarsi egregiamente come autore di testi per adulti seri, ma nel nostro cuore è sempre stato l'autore di quell'agile romanzetto che lanciò la moda della giacca blu col panciotto giallo - e anche quella dei suicidi tra i lettori più sensibili - i Dolori del Giovane eccetera. Se l'avete letto nel periodo giusto forse ricordate ancora la notte di lampi e tuoni in cui il Giovane Imbucato a una festa di nobili conosce Lotte e s'innamora di lei. L'espressione "colpo di fulmine" forse prima non esisteva, ma il momento in cui il Giovane si infiamma davvero non coincide con un tuono o con un lampo. Il grosso della tempesta è già passato, quando Lotte pensosa alla finestra pronuncia la parola che lo infiammerà, condannandolo a un amore impossibile e alla lunga mortale.

Questa parola è "Klopstock".

Ciò mi ha sempre fatto ridere.

(continua sul Post...)
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E poi?

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Prima ti ignorano,
poi ti deridono,
poi ti combattono,
poi vinci!

E poi?

Poi non sai esattamente che fare;
poi combatti quelli che te lo dicono,
poi deridi quelli che non ti ascoltano più,
poi...
poi chissà, adesso vediamo.
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Postkarten 49

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(Il blogger è morto):

per preparare un post, si prende "un piccolo fatto vero" (possibilmente
fresco di giornata): c'è una ricetta simile in Stendhal, lo so, ma infine
ha un suo sapore assai diverso: (e dovrei perderci un'ora almeno, adesso,
qui, a cercare le opportune citazioni: e francamente non ne ho voglia); conviene curare
spazio e tempo: una data precisa, un luogo scrupolosamente definito, sono gli ingredienti
più desiderabili, nel caso: (item per i personaggi, da designarsi rispettando l'anagrafe:
da identificarsi mediante tratti obiettivamente riconoscibili): ho fatto il nome
di Stendhal: ma, per lo stile, niente codice civile, oggi (e niente Napoleone, dunque,
naturalmente): (si può pensare, piuttosto, al Gramsci dei Quaderni, delle Lettere, ma
condito in una salsa un po' piccante: di quelle che si trovano, volendo, là in cucina,
presso il giovane Marx): e avremo una pietanza gustosamente commestibile, una specialità
verificabile: (verificabile, dico, nel senso che la parola può avere in Brecht, mi pare,
in certi appunti dell'Arbeitsjournal): (e quanto all'effetto V, che ci vuole, lo si ottiene
con mezzi modestissimi): (come qui, appunto, con un pizzico di Artusi e Carnacina): e
concludo che il blog consiste, insomma, in questa specie di lavoro: mettere parole come
in corsivo, e tra virgolette: e sforzarsi di farle memorabili, come tante battute argute
e brevi: (che si stampano in testa, cosi, con un qualche contorno di adeguati segnali
socializzati): (come sono gli a capo, le allitterazioni, e, poniamo, le solite metafore):
(che vengono a significare, poi, nell'insieme: attento, o tu che leggi, e manda a mente):
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Plagio

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Dialogo

“Ehi, signore”.
“Che vuoi? L’euro te l’ho già dato, quindi…”
“Sì, signore, ma il calendario non lo vuole?”
“Aaah, perché tu non sei un mendicante, tu”
“No signore”.
“…invece sei un venditore di calendari”.
“Se vuole ho anche quello con l’oroscopo”.
“L’oroscopo”.
“Personalizzato. Lei di che segno è?”
“Cancro”.
“Cancro, allora, vediamo… il cancro…”
“Non che cambi molto”.
“Perché, non ci crede all’oroscopo?”
“Non molto, no”.
“E fa male, guardi qui: Cancro: il 2010 sarà il vostro anno”.
“E tu invece ci credi”.
“Ma sì, signore, perché no”.
“Cioè, credi che questo sarà il mio anno”.
“E anche il mio, perché sono Cancro anch’io”.
“Fantastico. Sarà un grande anno”.
“Certo”.
“Come il 2009”.
“Meglio, signore, meglio!”
“Perché diciamolo, il 2009…”
“Lasciamo perdere”.
“Eh, infatti. Piuttosto magari come il 2008…”
“Peeer carità”
“Già, già, anche il 2008… ma allora che anno ti piacerebbe rivivere?”
“In che senso?”
“Di questi ultimi anni, scegline uno”.
“Ah, no, degli ultimi anni no, nessuno”.
“Da quant’è che vendi questi oroscopi, sentiamo”.
“Mah, saran dieci anni ormai”.
“E di questi dieci non ce n’è uno che ti rivivresti volentieri…”
“Mmmmmno”.
“Neanche uno! Uno in particolare, un po’ più felice degli altri!”
“Così su due piedi… no”.
“Però la vita è bella”.
“Certo che è bella, lo sanno tutti”.
“Per dire, se tu questi anni potessi viverli da capo… non ti piacerebbe?”
“Altroché!”
“Ma se dovessi riviverli esattamente come li hai vissuti la prima volta… con le stesse gioie e gli stessi dispiaceri…”
“Ah, no, così no”.
“E allora, scusa, che vita vorresti rifare? La mia? Quella di Berlusconi, o di chi altri? E credi che io, o Berlusconi, o chiunque altro, non risponderemmo proprio come te? Credi che a qualcuno piacerebbe tornare indietro per rivivere esattamente la stessa vita?”
“No, non credo”.
“Quindi se ti regalassero dieci anni di vita… ma solo a patto di riviverli esattamente come gli ultimi dieci... tu rifiuteresti”.
“Rifiuterei”.
“E che vita vorresti, allora?”
“Mah, una vita così… come mi viene, senza saperne niente prima”.
“Come non si sa niente dell’anno nuovo”.
“Esattamente”.
“Sai cosa ti dico? Anch’io. E chiunque altro. Ma questo vuol dire che il caso ci ha trattato tutti male, almeno fino al 2009: o che perlomeno ci ha dato più dispiaceri che gioie”.
“Ma…”
“Altrimenti come si spiega il fatto che nessuno accetterebbe di rinascere, per vivere la stessa identica vita che ha fatto fin qui? Però la vita è bella, dicevi”.
“Certo”.
“Ma è bella solo la vita che ancora non si conosce. Quella che abbiamo conosciuto fin qui, no, quella non ci è piaciuta così tanto. In futuro invece andrà meglio”.
“Eh, speriamo”.
“Con l’anno nuovo il caso comincerà a trattarci tutti bene, e finalmente avremo una vita felice. Meno male. Hai detto che hai un calendario personalizzato?”
“Certo, eccolo qui”.
“Ed eccoti un altro euro, toh”.
“Oh, grazie, grazie signore. Arrivederci. Calendari! Calendari con l’oroscopo! Calendari del Duemilaedieci!”

(Giacomo Leopardi – segno zodiacale Cancro – vi augura un felicissimo 2010).
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- tassinari, vergogna nazionale

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I tassinari avevano rotto – già nel Mille e novecento ventotto:

Vi era acqua sporca nei rigagnoli e negli interstizi del selciato; una nebbia paludosa che proveniva dalla Campagna, un sudore di culture esauste corrompeva l’aria del mattino. Un quartetto d’autisti di piazza con gli occhi sprofondati nelle occhiaie scure lo circondò. Ne respinse ruvidamente uno che gli parlava insistentemente in faccia

— Quanto a Hôtel Quirinal?
— Cento lire.


Sei dollari. Scosse il capo e offrì trenta lire, che era il doppio della tariffa di allora, ma si strinsero nelle spalle e se ne andarono.

— Trentacinque lire e mance, — disse con fermezza.

— Cento lire.

Sbottò in inglese: — Per ottocento metri? Mi porterete per quaranta lire.

— Oh, no.

Era molto stanco. Aprì lo sportello di un taxi ed entrò.

— Hôtel Quirinal! – disse al conducente che restava ostinatamente fuori dallo sportello. – Smettila di far quella smorfia e portami al Quirinal.

— Ah, no.

Dick scese; accanto alla porta del Bombonieri qualcuno stava litigando con gli autisti, qualcuno che ora cercava di spiegare il loro atteggiamento a Dick. Di nuovo uno di loro gli si avvicinò insistendo e gesticolando e Dick lo respinse.

— Voglio andare all’Hôtel Quirinal.

— Dice che vuole cento lire, — spiegò l’interprete.

— Capisco. Gli darò cinquanta lire. Andiamo —. Questo all’autista insistente che si era avvicinato di nuovo. L’autista lo guardò e sputò con disprezzo.
L’ardente impazienza di tutta la serata invase Dick e si rivestì in un lampo di violenza, la risorsa onorata e tradizionale della sua terra; si fece avanti e colpì l’autista in faccia.

Gli saltarono tutti addosso minacciandolo, agitando le braccia, cercando, senza riuscirci, di afferrarlo: con la schiena contro il muro Dick picchiava alla rinfusa ridendo un poco, e per qualche minuto la lotta per burla, una faccenda di spintoni sventati e di colpi ovattati, attenti, oscillò su e giù davanti alla porta. Poi Dick inciampò e cadde; fu colpito, ma lottò per alzarsi lottando fra braccia che improvvisamente si aprirono. Udì una nuova voce e una nuova discussione, ma si appoggiò al muro ansante e furioso per la mancanza di dignità della sua posizione.

Vide che non vi era simpatia per lui, ma non riusciva a credere di avere torto.
Stavano andando al posto di polizia per sistemare la faccenda. Qualcuno gli raccolse il cappello e glielo porse, e sorretto leggermente per un braccio svoltò l’angolo con gli autisti ed entrò in una caserma squallida dove alcuni carabinieri stavano sotto un’unica luce fioca.

Al tavolo sedeva un capitano, al quale l’individuo ufficioso che aveva interrotto la zuffa parlò a lungo in italiano, indicando ogni tanto Dick e lasciandosi interrompere dagli autisti che lanciarono brevi esplosioni di invettive e di rinuncia. Il capitano incominciò a fare cenni impazienti col capo. Alzò la mano e il discorso dalle teste d’Idra terminò con qualche esclamazione di chiusura. Poi si rivolse a Dick.

— Spick italiano? – chiese.

— No.

— Spick français?

— Oui,
— disse Dick, illuminandosi.

— Alors. Écoute. Va au Quirinal. Espèce d’endormi. Ècoutez: vous êtez saoûl. Payez ce que le chaffeur demande. Comprenez—vous?

Dick scosse il capo.

— Non, je ne veux pas.

— Come?

— Je payerai quarante lires. C’est bien assez.


Il capitano si alzò.

— Écoute, — gridò violentemente. – Vous êtes saoûl. Vous avez battu le caffeur. Comme ci, comme ça —. Percosse nervosamente l’aria con la mano destra. – C’est bien que je vous donne la liberté. Payez ce qu’il a dit: cento lire. Va au Quirinal.

Francis Scott Fitzgerald, Tenera è la notte; nella traduzione di Fernanda Pivano.
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