San Vincenzo, il martire banale

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22 gennaio – San Vincenzo di Saragozza (†304, martire citazionista).

San Vincenzo era diacono, come Santo Stefano, presso Saragozza (come San Braulione). Sotto Diocleziano imperatore fu arrestato, come San Sebastano, e interrogato come il suo vescovo, San Valerio. Trovato colpevole di cristianesimo, fu torturato sul cavalletto, come Santa Caterina. Siccome invece di pentirsi ringraziava i suoi torturatori, come Sant’Ignazio, il magistrato decise di arrostirlo, come San Giovanni. Dopo un po’ che era sui ferri ardenti pare che abbia detto anche lui al carnefice “Voltami, son cotto”, come San Lorenzo. Ma a quel punto il magistrato si stancò, e così Vincenzo rimase cotto a metà, il destino di ogni imitazione di un’originale. Le copie più riuscite molto spesso sono le più superficiali.

Ancora una graticola, che banalità.
Vincenzo è il patrono di Lisbona, di Vicenza, del casino di Saint-Vincent, dei vinai e dei vignaioli, e di tutti noi ogni volta che vorremmo dire qualcosa di importante, di potente, anche solo una parola ma definitiva, e tutto quello che ci viene in mente è una citazione. Una frase che ha già detto qualcun altro, pensando ad altro, e che ci è rimasta attaccata addosso. Come diceva Oscar Wilde. Come diceva Voltaire. Come diceva Albert Einstein. Questi uomini insigni passano i loro giorni nell’Ade a tormentarsi e rigirarsi: questa non l’ho detta! questa forse sì, ma intendevo l’esatto contrario! Questa sicuramente, ma ripensandoci era una cazzata. Ieri il presidente del Consiglio Matteo Renzi a Davos ha detto che l’Italia deve investire nel futuro, deve smettere di considerarsi un museo: e per dimostrarlo ha citato un motto di duemila anni fa: Carpe diem! Se avete fatto un liceo italiano (i migliori del mondo) avrete già riconosciuto la citazione di Robin Williams. Il problema è che quella poesia dice l’esatto contrario, maledizione. Dopo Carpe diem viene “quam minimum credula postero“, più o meno “credi al futuro quanto meno puoi”. Altro che investire nel futuro, Leucò, lascia perdere, versami da bere piuttosto. E infatti se ci pensate gli studenti di Robin Williams in quel film non è che si diano troppa pena di alzare le medie del quadrimestre: preferiscono appartarsi con le ragazze, scrivere poesie o suicidarsi direttamente.

Noi non investiamo nel futuro, noi siamo la minoranza dei bei gesti che durano un attimo,
e al sette in condotta ci penseremo poi.
D’altro canto le citazioni sono definite proprio dal loro essere ormai completamente estrapolate dal contesto. Come le parole. In effetti sono diventate parole. Le usiamo nello stesso modo, combinandole in frasi senza più preoccuparci della storia lunga e complessa che ce le ha portate sulla bocca. Diciamo “Faccio cose vedo gente”. Diciamo “ho visto cose”, e non sappiamo nemmeno più che film stiamo citando e perché. Diciamo “digitale” e le dita sono l’ultima cosa a cui pensiamo. Quanto a gennaio, non è più il mese del dio Giano da un pezzo: perché carpe diem dovrebbe sottrarsi all’incessante mutare del tempo, dei significati e dei significanti?

Il fatto di vivere in un mondo saturo di discorsi, dove ogni parola che ci viene in mente è una citazione, forse non dovrebbe tormentarci. Peraltro non è una novità, ci sono stati altri periodi così. Forse tutti i periodi sono così, anche se a posteriori non è sempre facile accorgersene. Alcuni di voi avranno certamente letto da ragazzini il capolavoro del Federico Moccia del secolo XVIII, tal Wolfgang Goethe – in seguito seppe riciclarsi egregiamente come autore di testi per adulti seri, ma nel nostro cuore è sempre stato l’autore di quell’agile romanzetto che lanciò la moda della giacca blu col panciotto giallo – e anche quella dei suicidi tra i lettori più sensibili – i Dolori del Giovane eccetera. Se l’avete letto nel periodo giusto forse ricordate ancora la notte di lampi e tuoni in cui il Giovane Imbucato a una festa di nobili conosce Lotte e s’innamora di lei. L’espressione “colpo di fulmine” forse prima non esisteva, ma il momento in cui il Giovane si infiamma davvero non coincide con un tuono o con un lampo. Il grosso della tempesta è già passato, quando Lotte pensosa alla finestra pronuncia la parola che lo infiammerà, condannandolo a un amore impossibile e alla lunga mortale.

Questa parola è “Klopstock”.

Ciò mi ha sempre fatto ridere.

Nessuno potrà più dire “Klopstock” senza commuoversi.
Provateci. Klopstock. Klopstock. Vedete?
È un riso da scimmia, perché in effetti la situazione può suscitare ilarità soltanto se non si conosce il celebre lirico Friedrich Gottlieb Klopstock; se non si ha la minima idea della poesia a cui sta pensando Lotte in quel momento. Probabilmente fa ancora più ridere se addirittura non so una sillaba di tedesco: se per me è solo un accrocchio di sillabe che gridano “invadiamo la Polonia” anche quando vorrebbero parlare d’amore. Quindi, nel momento in cui Werther s’innamora, tu ridacchi, ah ah ah ah, che ha detto? No, ma sul serio, come ci si fa ad innamorare ascoltando il suono “Klopstock?” Capirei Lessing, Novalis, persino Heine ha ancora qualcosa di languido, ma Klopstock sembra una marca di ciabatte.

Werther invece si innamora, perché ha colto il riferimento. Conosce Klopstock, ha indovinato l'”ode sublime” che Lotte ha in mente. Questo era il significato di “Klopstock” sulle labbra di Lotte, ma nelle orecchie di Werther ha già assunto un significato diverso. Significa: “ode sublime che io so che tu sai”. Significa già “Affinità elettive”. C’è qualcosa tra di noi che la rigida compartimentazione sociale della società tedesca prenapoleonica non potrà toglierci, nemmeno quando per darmi un tono mi farò prestare [SPOILER] le pistole da tuo marito e mi ci bucherò le cervella [/SPOILER]. Nel giro di pochi secondi la parola ha assunto un significato così personale che Werther vorrebbe ritirarla dalla lingua tedesca. “Nobile poeta, se tu avessi potuto vedere in quello sguardo la tua apoteosi! e se io potessi ora non sentir più pronunciare il tuo nome così spesso profanato”.

Chissà se poi Klopstock era così contento di essere diventato una specie di catenaccio di Ponte Milvio del preromanticismo, il McGuffin di un romanzetto per giovani tormentati. Sì, perché alla fine non è così importante di che poesia si tratti. Era davvero così bella? Lotte e Werther avevano davvero il gusto per apprezzarla, o non stavano pescando nel banale come Fiorello quando cantava la Nebbia agli irti colli piovigginando sale? Che importa. Con le citazioni non si sbaglia mai: dici “gatto di Shroedinger” e il tuo interlocutore penserà che tu ne sappia davvero qualcosa di meccanica quantistica. Di fronte allo spettacolo del temporale che si ritira Lotte avrebbe potuto provare a tirar fuori qualcosa di suo, ma se fosse suonata ridicola? La citazione ti risolve. Klopstock.

Ma chi siamo noi per giudicare. L’abbiamo avuta tutti una fase Klopstock, specie se ci è capitato di maturare sentimentalmente negli anni Novanta. A rileggere i libri del tempo, viene la vertigine: tutti i protagonisti passano il tempo a citare altri libri, o fumetti o film o poesie (persino Fiorello). Cosa avevamo in testa tutti? Perché non cercavamo la nostra singola voce invece di ritagliare frasi a caso dai discorsi degli altri? Eravamo solo giovani e stupidi, o c’era qualcosa di più?

Forse c’era qualcosa di meno. I Novanta non sono poi così lontani, ma sembrano ormai un universo parallelo, dove tutto più o meno è uguale a qui salvo che non c’è internet. C’era comunque molta cultura dappertutto, ma non era così immediatamente accessibile: andava comprata, noleggiata, riprodotta, fotocopiata: tutti passaggi che la consumavano e ce la rendevano più nostra. Citarsi addosso era un modo per riconoscerci: da qualche parte in città qualcuno quella sera stava dando una festa in cui a un certo punto una ragazza avrebbe detto “Klopstock”, o “Per un bel pezzo sono andata a letto presto”, o “Preferisco di no”, “Dove vanno le anatre”, o qualche altra frase che tutto il mondo avrebbe trovato ridicola tranne te. Dovevi trovarla. Dovevi allenarti a distillare le citazioni e riconoscerle nei discorsi altrui. Memorizzarle il più possibile e mescolarle con sapienza. Trasformare te stesso in una pratica citazione da snocciolare al momento giusto.

La barra di google ha messo fine a quell’era di abiezione. Non abbiamo smesso di citare, ma lo facciamo in modo più automatico, senza più il timore e il tremore di essere o non essere capiti. Diciamo “Pijamose Roma”, diciamo “Avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto”, ma non è per selezionare i nostri uditori all’ingresso. Ci spuntano ancora sulle labbra per pigrizia, noi non sapremmo mai farne di altrettanto efficaci. Nel frattempo abbiamo anche smesso di immagazzinare contenuti, sia nelle librerie che nel disco rigido che nel nostro stesso cervello. Tanto nella nuvola c’è tutto; l’importante è sapere come cercarlo, cosa cercare, nell’evenienza che ancora da qualche parte arrivi una bufera e noi ci si ritrovi in quella situazione in cui…

“Klopstock”.

“Che hai detto?”

“No, niente”.

“No, ti ho sentito, hai detto qualcosa di una ciabatta”.

“No, non è una ciabatta, è un lirico tedesco”.

“Sicuro? Perché sembrava proprio una ciabatta”.

“È un lirico tedesco”.

“Sei sicuro? Guarda che lo sto già cercando”.

“Si scrive con la kappa”.

San Vincenzo voleva soltanto morire dicendo qualcosa di memorabile, come si conviene a un martire: che colpa aveva di vivere alla fine dell’epoca dei martiri, in un mondo ormai saturo di supplizi e frasi celebri? Tutte le torture e tutte le parole erano già state prese da santi non necessariamente più ispirati. Lui non aveva niente di meno di Santo Stefano o San Valerio o Santa Caterina, ma era arrivato dopo, in quel momento in cui qualsiasi cosa tu dica o faccia fa già parte di un discorso già finito. Qualcosa di simile sarà forse capitato anche a noi. Avevamo solo le parole degli altri, ce le siamo fatti bastare. Per quel che avevamo da dirci, alla fine [2015].
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