San Giusto sui monti profumati

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28 maggio: San Giusto di Urgell, glossatore cattolico di poesie d'amore


Biblioteca universitaria di Bologna


Il 28 maggio il Martirologio romano ricorda succintamente un San Giusto che "a Urgell, nella Spagna settentrionale... scrisse una interpretazione in chiave allegorica del Cantico dei Cantici e partecipò a vari concili spagnoli". Tutto qui, ed evidentemente basta.

C'è chi per andare in cielo si è fatto ammazzare nei modi più dolorosi: Giusto all'apparenza non sembra aver compiuto un sacrificio così grande, né gesta che facciano gridare al miracolo, ma bisogna ammettere che trovare una lettura allegorica per un testo che recita "i tuoi seni sono come cerbiatti al pascolo" (4,5) non è così semplice; ovvero sì, ma voi ci riuscireste restando seri? Io non ci riuscirei, ma viviamo in tempi molto diversi.

Oggi abbiamo molto più rispetto per il senso letterale dei testi, per cui se un brano ci sembra un inno all'amore fisico, preferiamo leggerlo come tale. Troviamo deliziosamente piccante che nella Bibbia sia finito un fascicolo di poesie che si conclude con un invito a "correre sui monti profumati". Attenzione, non è che la Chiesa abbia mai negato che il Cantico (attribuito a Salomone ma più facilmente composto verso il VI secolo aC) fosse anche una composizione erotica. La Bibbia ha un che di enciclopedico, se la sessualità esiste è giusto che ne parli. Quello che si chiedeva a esegeti come Giusto era di provvedere a ulteriori chiavi di lettura, che a quel tempo erano state codificate: oltre al senso letterale vi era quello morale (che insegnamento di carattere morale si cela dietro questo testo?), quello allegorico (di quali avvenimenti più importanti questo testo è un'allegoria?) e quello anagogico che sinceramente mi è sempre sfuggito, a volte è un senso escatologico (cioè i "monti profumati" dovrebbero alludere in un qualche modo alla fine del mondo), ma siccome neanche i più bravi riescono a trovare l'apocalisse in qualsiasi versetto, talvolta è un livello superiore in cui il lettore entrerebbe in suprema comunione col testo e con Dio, quel tipo di riflessioni da cui dev'essere scaturita l'ermeneutica tedesca, io mi sono sempre tenuto a rispettosa distanza, no, neanche troppo rispettosa. Mi consola il fatto che anche Giusto si sia limitato all'allegoria, e in paradiso lui c'è andato, Heidegger non me lo immagino, è un limite mio. Almeno Giusto ha il buon gusto di tener fuori la vergine Maria da queste allegorie, una linea interpretativa che si insinua in Occidente verso il Duecento e sinceramente m'infastidisce, se avete deciso che è vergine perché deve mettersi a cantare "Ti farei bere vino aromatico,
del succo del mio melograno", dai, è la mamma di Gesù, di tutti noi, non vi dà fastidio? I mariologi certe volte mi fanno paura.

Oggi, dicevo, apparentemente ci facciamo meno menate: di fronte al testo ci chiediamo cosa significava per l'autore, per il suo pubblico (che nel tempo può essere cambiato), e cosa significa per noi: e finisce qui. Inoltre se troviamo del sesso siamo ben felici di sviscerarlo, per cui per noi quei cerbiatti sono seni, punto (gran parte del fascino del Cantico per i contemporanei sta nell'esotismo di chiara matrice mediorientale che traspare dalle metafore). Ci capita più spesso l'operazione opposta a quella che ha mandato in paradiso Giusto, ovvero cerchiamo il sesso anche nei libri dove a prima vista non c'è, io quando ero all'università avevo trovato il sesso in alcune poesie di Marinetti che erano sostanzialmente macchie d'inchiostro scombinate in tipografia, ero molto fiero di questa cosa. 

A distanza qualcuno sospetterà che siamo ossessionati dal sesso tanto quanto nell'Alto Medioevo erano ossessionati dall'allegoria ecclesiologica, ma non è questa la vera differenza. I lettori professionisti come san Giusto erano portati ad accumulare più chiavi di lettura sugli stessi brani non perché fossero meno svegli di noi (anzi) o considerassero il sesso un tabù; ciò che faceva la differenza era un'oggettiva scarsità di risorse – basti pensare che all'inizio del commento, Giusto si scusa coi committenti di averlo fatto scrivere in una calligrafia molto piccola perché a Urgell non aveva abbastanza pergamena, e chiede per favore se glielo possono copiare più in grande. 

Oggi noi se volessimo leggere considerazioni teologiche sul rapporto tra Dio e la Chiesa – nel caso abbastanza remoto in cui volessimo farlo – potremmo attingere da biblioteche di volumi di teologia. Nel VI secolo no, nel VI secolo bisognava arrangiarsi con la Bibbia, e se nella Bibbia c'era un rotolino di poesie erotiche, ebbene anche quelle poesie dovevano rendersi utili e suggerire contenuti morali e allegorici – insomma se sono nella Bibbia un motivo ci sarà, no? Gli ebrei che l'hanno inserita avranno avuto un buon motivo. Dal suo angusto studio di Urgell Giusto non poteva saperlo, ma gli ebrei da secoli si facevano la stessa domanda: cosa ci fanno quei cerbiatti al pascolo nella Bibbia? Dobbiamo far finta che non siano tette? La conclusione a cui erano giunti era più o meno la stessa: dev'essere un'allegoria dell'amore di Dio per Israele. Questo ci lascia oggi molto perplessi perché sia Dio sia Israele, nel Cantico, sembrano davvero ingrifati – testualmente "ubriachi d'amore", ma può darsi che siamo traviati da secoli di letteratura che ci ha convinti che la sessualità sia una cosa scandalosa. Alla fine i due innamorati sono sposi, la loro ebrietà è del tutto legittima, per cui se Israele dice a Dio corri mio amore sui monti profumati, ebbene, può darsi che la prima cosa che vi venga in mente siano due natiche, ma subito dopo il Golgota e il Sion. 

Non mi sembrate convinti. 

Immaginate di dover ripristinare la civiltà umana da un solo disco rigido, e che in quel disco rigido ci siano quaranta libri e tre film, tra cui un porno. La cosa più saggia sarebbe cancellare il porno, ma non lo farete – insomma, è l'ultimo porno dell'umanità, ciò che resta di milioni di sforzi di registi e performer, il valore storico è incommensurabile – no, cancellarlo non si può. Quindi la gente lo guarderà. E può anche darsi che la gente ogni tanto senta la necessità di guardare un porno, ma in una situazione emergenziale ha più bisogno di insegnamenti, quindi forse è meglio corredare il porno di qualche commento che ne spieghi il senso. Dunque intanto bisogna precisare che quelle persone sono sincere, che la loro relazione è legittima e ufficiale, inoltre si amano davvero, di un amore non solo fisico ma anche intellettuale e morale; e che anche se ogni tanto sembrano perdersi o non capirsi anche questo ha un senso; non solo, ma la felicità che traspare da alcuni dei loro atteggiamenti è una figura della gioia che ci attende se ci comportiamo bene con il prossimo, anzi, nel legittimo trasporto amoroso è possibile intravedere la passione con cui l'Ente Supremo ama la comunità dei suoi fedeli, oh, ehm, sarà difficile raccontare questa cosa senza arrossire. Ma chi ci riesce va in paradiso, promesso.
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Il vescovo venuto dal futuro

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7 dicembre - Sant'Ambrogio, già Aurelius Ambrosius, 339-397, vescovo di Milano, dottore della Chiesa.

In certe giornate di giugno, non potendo fare diversamente, mia madre mi caricava in macchina e mi portava con sé al lavoro, nella scuola materna che pochi anni prima avevo frequentato anch'io. Ero già più alto e robusto dei suoi alunni, e disponevo di tutto il necessario per sbulleggiarli, tranne l'inclinazione. Me ne stavo per lo più seduto su una panca, o un gradino, o un'altalena, a leggere qualcosa - era incredibile quanti libri ci fossero in un istituto per non alfabetizzati, ed era tutta roba di qualità, i classici, Rodari Lodi Calvino. A volte leggevo ad alta voce ai bimbi che me lo chiedevano peffavore, altre volte uno di loro veniva a chiedermi cosa stessi facendo, senza nessuna ironia: perché me ne stavo impalato davanti a quelle pagine senza leggerle? Dopo il mio iniziale stupore, mi ero rassegnato a spiegare ogni volta l'arcano.

"Sto leggendo con gli occhi".
Ambrogio è uno dei pochi santi dell'antichità
di cui abbiamo la sensazione di conoscere
davvero il volto: il mosaico nella sua basilica
è quasi una fototessera (io me ne sarei fatta
scattare un'altra con le orecchie allineate,
ma vabbe', vanità).
"Eh?"
"Non c'è bisogno di parlare quando si legge. Si può fare anche solo con gli occhi".
"Cioè tu stai leggendo?
"Eccerto".
"Non ci credo. Dimmi cosa c'è scritto qui".
"Schiaccia il piede Cipollone / al gran principe Limone".
"Ma come fai?"
"Ma niente, è facile, alle elementari lo insegnano anche a te vedrai".
"Ma la maestra..."
"Anche la maestra sa leggere con gli occhi se vuole. Usa la bocca solo per leggere le fiabe a voialtri analfabeti".
"MAESTRA! TONDELLI MI A DETTO ALFANABETA!"
Giuro, mi chiamavano Tondelli già all'asilo.

Quando penso ad Ambrogio mi vengono sempre in mente quelle giornate di giugno in cui per la prima volta mi sentivo un grande in mezzo ai piccoli; uno che sa fare senza difficoltà qualcosa che loro nemmeno riescono a immaginare. Forse Ambrogio si è sentito così tutta la vita, l'unico adulto di tutta Milano, di tutto l'impero. Nelle sue Confessioni Agostino riporta, sbalordito, un dettaglio illuminante: Ambrogio sapeva leggere senza parlare, senza nemmeno muovere le labbra! Ma perché faceva così? Forse, riflette Agostino (certo non l'ultimo arrivato, anzi un famoso docente di retorica, uno specialista della parola orale e scritta), forse era un modo per non affaticare le corde vocali, stressate dalle continue prediche e orazioni. Si direbbe che al più grande intellettuale e scrittore del quinto secolo sfugga la semplice evidenza che leggere con gli occhi è il modo più spiccio. Quindi, insomma, i contemporanei di Agostino e Ambrogio non sapevano leggere in silenzio. Forse non era sempre stato così, per esempio Plutarco rappresenta sia Alessandro Magno sia Giulio Cesare nell'atto di leggere in silenzio almeno dei brevi biglietti. Magari leggere a voce alta era l'unico sistema per decifrare fitte righe scritte a mano senza nemmeno uno spazio tra una parola e l'altra. O magari verso il quarto secolo la qualità delle scuole era calata drasticamente: non possiamo saperlo perché non c'erano ancora le ricerche Ocse o Invalsi.
(Lorenzo Sabbatini, Ambrogio e Agostino).
Ma sul serio devo passare l'eternità a
conversare con 'sto tizio che, Sant'Iddio,
non sa leggere un versetto senza parlare
a voce alta?

È persino possibile che Ambrogio, rampollo di una famiglia facoltosa, prima di cominciare il suo cursus honorum nelle cariche pubbliche avesse goduto nella sua lontana Treviri di una formazione di prima qualità. In fondo l'impero aveva bisogno di funzionari professionisti ancor più che di generali sanguinari. Ma è anche possibile che il trentenne governatore della provincia Emilia-Liguria brillasse semplicemente di doti non comuni: gli basta moderare un dibattito tra i due candidati alla carica di vescovo, perché tutti i milanesi si convincano che la scelta migliore è proprio lui. Non è che dobbiamo credere proprio alla storia del bambino che in uno squarcio di silenzio urla "Ambrogio vescovo" e tutti dietro, visto che assomiglia già a una fiaba e il diretto interessato ha avuto tutto il tempo per riscriverla come gli aggradava. Anche tutti i suoi tentativi di sottrarsi alla nomina possiamo ritenerli sceneggiate di un abile press-agent di sé stesso. Il più intrigante - sempre più attuale - resta l'aneddoto dell'orgia, che Ambrogio avrebbe organizzato in casa sua con amici e prostitute alla vigilia della solenne investitura, per dimostrare definitivamente ai milanesi di non essere degno della loro fiducia. Possiamo anche leggerlo in controluce: magari prima di dare l'addio al secolo il ricco Ambrogio volle concedersi almeno un festino stile pagano, e finì arrestato e schedato con l'intera comitiva per schiamazzi e atti osceni. Ma niente da fare: poche ore dopo l'arresto nella cattedrale viene definitivamente acclamato vescovo di Milano. Benché la sua famiglia fosse già convertita al cristianesimo, Ambrogio non si era ancora battezzato (molti non praticanti lo facevano soltanto in fin di vita) e non nascondeva le sue scarse competenze in fatto di religione: si vede che non era questo che i milanesi cercavano in lui - e nemmeno il rigore morale dell'uomo di governo, al quale del resto non sembrano aver mai tenuto in modo eccessivo. Forse era una questione di carisma. D'altro canto, se in città c'è l'uomo più intelligente del mondo, vuoi che ce lo facciamo scappare? È addirittura in grado di leggere senza muovere le labbra!

Ad Ambrogio riesce tutto bene: se non al primo, al secondo tentativo. Ambrogio sa leggere, sa predicare il Verbo di una religione che ha imparato pochi giorni prima, sa persino cantare: è lui a inserire gli inni nelle liturgie cattoliche, copiando forse l'idea dai rivali di culto ariano. Col battesimo di Ambrogio, la Chiesa cosiddetta nicena realizza uno dei colpi migliori di quella campagna acquisti che la condurrà di lì a poco all'egemonia culturale. I niceni non sono il culto maggioritario, non sono nemmeno i preferiti dagli imperatori (alcuni dei quali favoriscono apertamente i rivali ariani), ma da Ambrogio in poi calamitano gli intellettuali più importanti e i funzionari più capaci: il solo fatto che un personaggio come Ambrogio potesse, e a ragione, rinunciare a una carica amministrativa di primo piano per farsi vescovo fotografa con precisione il momento in cui l'edificio imperiale collassa rilevando una struttura nuova cresciuta al suo interno. Nel 380 l'editto di Tessalonica obbligherà tutti i cittadini dell'impero a professare il credo niceno e ad assumere il nome "christianorum catholicorum": quelli che rifiuteranno saranno da considerarsi eretici e "dementes". Mollando la carica pubblica di governatore per quella religiosa di vescovo, Ambrogio aveva scommesso sul cavallo giusto: l'impero non sarebbe sopravvissuto un altro secolo, la Chiesa cattolica duemila anni dopo è ancora qui. Ma forse il cavallo diventò quello giusto anche perché gli uomini migliori decisero di cavalcarlo. Non fu una scelta indolore: Ambrogio rinunciò a farsi una famiglia, rinunciò a una discendenza, e sposò Milano, dividendo con lei tutto il suo patrimonio. D'altro canto da vescovo diventò intoccabile; nei vent'anni abbondanti del suo patriarcato vide una mezza dozzina di imperatori morire di morte violenta: per tacere dei loro dignitari, quasi tutti coinvolti in uno spoil system piuttosto rozzo che contemplava l'esilio o l'assassinio. Il vescovo invece morì nel suo letto, circondato dall'affetto sincero di una città a cui aveva insegnato a cantare e aveva regalato il carnevale più lungo d'Europa; motivi forse sufficienti per bersi vent'anni di prediche moraleggianti e sessuofobe: in fondo è stato giovane anche lui, sembra di sentirli pensare, mica ci dimentichiamo l'orgia da cui ti abbiamo tirato fuori a forza per farti vescovo.

(Camillo Procaccini, Ambrogio ferma Teodosio)
In realtà la scenata in pubblico non ci fu,
erano uomini di mondo. Ambrogio si limitò
a darsi malato per non incontrare l'imperatore,
e gli fece sapere via mail i dettagli della pubblica
cerimonia di pentimento a cui Teodosio
si sarebbe dovuto sottoporre
A un certo punto della sua carriera Ambrogio tratta gli imperatori da suoi pari, tanto più che quello che risiede a Milano, Graziano, è solo un ragazzino, bisognoso di guida e protezione: raramente gli imperatori invecchiavano. Per far contento Ambrogio l'imperatore convoca un concilio, fa rimuovere la statua pagana della Vittoria dalla curia del Senato romano, malgrado l'accorata protesta del più grande intellettuale del suo tempo, il prefetto Quinto Aurelio Simmaco, un inno alla tolleranza religiosa: Grande è il mistero, non può esserci una sola strada per trovare quel Dio che, comunque, è uno solo - non siamo tutti sotto uno stesso cielo, sotto le stesse stelle, avvolti nello stesso universo? No, risponde Ambrogio, c'è un solo Dio ed è il mio. Gli altri sono demoni; chi li segue - ebrei, pagani, ariani - nemici. Fine della discussione, anzi non c'è mai stata nessuna discussione, inutile discutere coi bambini.

Perfino Teodosio, l'Augusto che da Costantinopoli farà del cristianesimo la religione di Stato, verrà costretto a umiliarsi e a chiedere perdono in una pubblica cerimonia. Era successo che a Tessalonica la repressione di una rivolta cittadina aveva un po' preso la mano ai legionari, che avevano lasciato nello stadio e nelle vie circostanti qualche migliaio di morti. Erano troppi anche per lo standard dei tempi. Ma chi lo decideva poi lo standard dei tempi, chi poteva avere l'autorità morale per dire No, questo è troppo? Ambrogio è l'unico adulto in città, nell'impero, nel mondo. Non ha nessun rispetto per il passato, il cristianesimo gli offre l'opportunità per rottamarlo e riscriverlo come gli pare: mentre a Roma smontano l'altare della Vittoria, a Milano organizza il ritrovamento delle prime reliquie, i sacri resti di due martiri misteriosi ma finalmente milanesi, Gervasio e Protasio, di cui nessuno sapeva niente e che guarda caso erano sepolti nei pressi della nuova grande Basilica che Ambrogio stava facendo costruire. Non è solo un abilissimo spot pubblicitario per i cattolici nella lunga campagna per eliminare la concorrenza della Chiesa ariana; è anche la dimostrazione che il passato si può fare e disfare a piacimento, se Milano non ha ancora i suoi martiri se li può inventare in qualsiasi momento. Ci voleva una notevole faccia di bronzo per organizzare una inventio, un ritrovamento archeologico del genere; per annunciare a tutta la cittadinanza che le ossa antiche continuavano a stillare sangue; per l'occasione Ambrogio probabilmente vestì la stessa faccia serena e tranquilla che mettete fuori voi quando raccontate una bugia ai vostri bambini, sta' buono perché Babbo Natale ti osserva.

Sant'Ambrogio è uno dei miei migliori candidati quando gioco a Trova Il Viaggiatore Nel Tempo (un altro è David Bowie): metti che un tizio mentre sta tornando al XXV secolo ingrani per sbaglio la retromarcia e si ritrovi nel IV, senza la possibilità di tornare indietro, pardon, avanti, che ti fa? Deve raccontare in giro che viene da lontano, ad esempio in una città del nord (ma non un villaggio di barbari, perché si vede che il tizio ha studiato). All'inizio non sa bene né la lingua né la religione, però impara in fretta perché sa leggere, il che non è da tutti. E poi si arrangia come può, diventa funzionario dello Stato ma quando capisce che il mestiere è pericolosissimo cambia casacca in un istante, e nel giro di pochi anni cominciano a fare tutti riferimento a lui.

Cambiamo argomento. Leggevo qualche giorno fa che gli italiani non sanno più leggere, pare che sia colpa di sms e tablet. Ma per la verità la tendenza non è solo italiana, ed è persino più antica degli antichissimi sms. Nel dicembre del 2005 il Ministero dell’Istruzione americano sconvolse l’opinione pubblica dichiarando che il numero dei laureati in grado di interpretare testi complessi era diminuito negli ultimi 14 anni del 10%. Calcolate quanti anni separano gli USA dall'analfabetismo totale - non credo che noi sopravviveremo molto di più. Ogni volta che leggo o ascolto notizie del genere resto in silenzio e mantengo una faccia impassibile, non vorrei che nessuno si accorgesse che da qualche parte nel mio profondo sorrido. E dire che di mestiere insegno italiano ai bambini. E ci credo, credo che saper leggere e scrivere sia fondamentale. Eppure a volte ho nostalgia di quando erano tutti bambini, qui intorno, quando era un enorme asilo, e bastava saper scorrere qualche riga per fare il fenomeno. Magari la macchina del tempo non si era affatto rotta, magari Ambrogio l'ha sistemata da qualche parte sotto la basilica e non ha più voluto toccarla, perché essere l'unico uomo nell'universo che sa leggere è... divertente.

[È un pezzo del 2012].
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Quel che non si può più dire, tanto ormai

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Intorno alla poesia di Günter Grass il dibattito mondiale si è inviluppato in una specie di ciclone. Si discute animatamente sui trascorsi nazisti di Günter Grass, sull'antisemitismo vero e presunto di Grass, sui meriti e sulle responsabilità di Grass, sulle reazioni più o meno razionali dei politici e dei letterati israeliani all'intervento di Grass, sull'opportunità di ritirare il premio Nobel a Grass, insomma si parla di tutto... meno che del contenuto della poesia di Grass. Come se di tutto il dibattito il testo che lo ha scatenato fosse l'oggetto meno interessante. Se ne sta nell'occhio del ciclone e non lo legge più nessuno. Peraltro almeno qui da noi c'è un problema di traduzione, che rende i ragionamenti di Grass più arzigogolati di quanto probabilmente non suonino in originale. Detto questo, non è escluso che una reazione del genere sia esattamente quello che Grass si aspettava. La stessa poesia sembra fatta apposta per stimolare un dibattito centrifugo: la maggior parte dei lettori (sempre più distratti, su internet soprattutto) perde l'attenzione molto prima di arrivare al nocciolo di quel che Grass ritene "debba esser detto": e in effetti sul finale Grass ha in mente una proposta concreta, ma non è di quella che si discute in giro. Si discute dei trascorsi di Grass diciassettenne nelle SS. Sul fatto che Israele lo dichiari persona non grata, tra l'altro in base a una legge che permette di impedire l'ingresso a chi abbia aderito al nazismo (la stessa norma si potrebbe applicare anche a papa Ratzinger, coi suoi trascorsi nella Gioventù Hitleriana?) Insomma tutto il dibattito di questi giorni ruota intorno a un gigantesco argumentum ad hominem: non si discute più di tanto delle idee di Grass, ma del fatto che sia Grass ad averle. Per molti israeliani, ma persino per i socialdemocratici tedeschi, sarebbe meglio che non le avesse: non su questo argomento.

Che l'opinione pubblica israeliana possa nutrire diffidenza per un intellettuale che ha impiegato mezzo secolo a riconoscere i suoi trascorsi nazisti, mi sembra del tutto comprensibile. (Continua sull'Unità, H1t#122).

Che Netanyahu possa speculare su questa diffidenza durante una campagna elettorale in fondo ci sta, e non è certo la cosa più criticabile che ha fatto in questi anni Netanyahu. Magari qui in Italia se ne potrebbe parlare con più calma, visto che non siamo in campagna elettorale e Ahmadinejad non minaccia di toglierci dalla cartina. Scopriremmo così che quel che propone Grass non ha veramente nulla di nuovo o eccezionale: sono le normali richieste che potrebbe fare un intellettuale socialdemocratico, se avesse ancora voglia di parlare di queste cose, appunto. La Germania, secondo Grass, non dovrebbe fornire un sommergibile di ultima generazione a Israele, che potrebbe impiegarlo per un attacco missilistico all’Iran. Più in generale, nella penultima strofa Grass propone che gli impianti nucleari israeliani e iraniani siano messi sotto il controllo di un ente internazionale. Nulla di sconvolgente: esiste un trattato di non proliferazione nucleare, e Israele non l’ha sottoscritto. Per Grass evidentemente dovrebbe farlo (per voi no?), e consentire che la controversia con l’Iran sia affidata ad un’autorità sopra le parti. La soluzione proposta può apparire un po’ irrealistica, specie dopo che l’11 settembre ha messo in crisi una certa idea di multilateralismo; ma è antisemita? Non mi pare, non lo so, ma se lo dice uno che era antisemita a 17 anni forse sì.
Viene il dubbio che Grass lo abbia fatto apposta, che anche a lui più che la proliferazione nucleare interessi la reazione prevista e prevedibile a quel che scrive. Nei primi versi si vedono i bagliori dell’antica fiamma dell’intellettuale engagé, quello del J’accuse, dell’”Io so”, quello che non sa trattenersi di fronte al passaggio dell’imperatore nudo, certe cose sono evidenti, devono essere dette e pazienza se poi la folla lo lincerà. Poi però il ritmo rallenta, assume un andamento sornione: l’autore se la prende comoda, si domanda perché scrive quel che sta scrivendo, perché ha aspettato tanto a scriverlo, ne approfitta per rammentare le sue colpe indelebili… e intanto sa benissimo che il rilevatore di antisemitismo di molti lettori sta già ticchettando intensamente. Sia loro che i loro avversari si attendono un’invettiva finale che non arriva, anzi le proposte finali sono piuttosto modeste. Una poesia-trabocchetto che magari non aiuta a risolvere la questione israelo-iraniana, ma che ci mostra come funziona oggi la battaglia delle idee.
Non funziona. Perlomeno su Israele, non c’è più nessun vero dibattito, non c’è nessuno scambio di idee, ammesso che le idee ancora ci siano. O Israele è un criminale, o chi lo critica è antisemita, in mezzo non c’è nessuna opinione pubblica da conquistare, l’opinione pubblica si è annoiata e parla d’altro. L’arma non convenzionale in questo caso non è l’ordigno nucleare, ma appunto l’argomentum ad hominem: chiunque parla di Israele o è un agente della propaganda ebraica o è un antisemita: anche se non scrive cose antisemite di sicuro le ha scritte da giovane, oppure le avrà scritte un suo amico o suo nonno. Prendi un blog, per esempio: puoi usarlo per parlare di qualsiasi cosa, ma se ti metti a discutere di Israele, e di Palestina, e di Iran, sai che si fermeranno a commentare soltanto i troll. Sono argomenti interessanti, e drammatici, e attuali; e non c’è nessun motivo al mondo per cui la minaccia di un conflitto atomico a poche migliaia di chilometri di distanza non dovrebbe farci discutere, tirandoci fuori anche la rabbia, la paura, la partigianeria quando c’è. È vero che discutere non risolve, ma sarebbe pur sempre un segno che siamo reattivi, che sappiamo che c’è un problema, e ne discutiamo. Invece no, non ne discutiamo più: ogni fazione conta i suoi morti e li rinfaccia agli avversari; nei momenti in cui morti per fortuna non ce ne sono, si strologa su sciocchezze come le dimensioni del naso di Fiamma Nirenstein. Del resto ormai si sa, scambiare opinioni con quelli che la pensano come noi è inutile, con quelli che la pensano diversa è frustrante.
Forse Grass voleva semplicemente farcelo notare. (Poi, certo, vendere sommergibili a una nazione che non ha firmato il trattato di non proliferazione non mi sembra il massimo, ma forse sono antisemita io, o lo ero in una vita precedente). http://leonardo.blogspot.com
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Di storie in forme di fiore

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Dunque io, che ho cominciato a leggere quasi prima di cominciare a pensare, sui cartelli stradali, i titoli dei giornali, io che ho imparato a leggere in officina sulle latte di OLIO FIAT con le lettere bene in evidenza, a un certo punto ho trovato i fumetti e per molto tempo non ho cercato di meglio. In seguito ho letto anche altre cose, il Codice della Strada e Svetonio in originale, ma probabilmente la cosa che riesco a leggere meglio, che mi viene più naturale leggere, sono i fumetti: una vignetta dopo l'altra, la nuvoletta in alto prima della nuvoletta in basso, certe linee sottendono il movimento e la didascalia è una voce fuori campo. Migliaia di Topolini e poi Giornalini, e Dylandog e tutto il resto, ma so che non è stato così per tutti. C'è gente che i fumetti non li legge.

Non sto dicendo che non le piacciono. Sto dicendo che proprio non li legge: le mostri una tavola e non sa da che parte prenderla, che valore dare alle didascalia, che senso dare ai cambi d'inquadratura tra una vignetta e l'altra. Queste persone sono l'equivalente di quelle altre persone, più spesso femmine che maschie, che si domandano che senso abbia mettersi in calzoncini e correre in venti intorno a un pallone (per inciso io che una partita ogni tanto riuscivo anche a guardarmela, non so cosa sia successo ma sto diventando anch'io una di quelle persone; non so esattamente ma ho il forte sospetto che sia twitter e il modo in cui lo usano certi professionisti della comunicazione trenta-quaranta-cinquantenni interisti e juventini e romanisti ma datevi un contegno, che siete in società, mica sul divano. Fine dell'inciso).

Stavamo parlando di quelli che non sanno leggere i fumetti. Non sanno perché non hanno mai cominciato, il prodotto non li interessava quando erano piccoli e difficilmente questo tipo di cose comincia a interessarti quando sei grande. Non sono nemmeno sicuro che sia una cosa ambientale, conoscevo una ragazza che da piccola aveva sempre avuto dei Topolino e dei Tex a disposizione sulla lavatrice, ma non li apriva, non le interessavano; probabilmente non c'è test migliore, provate a lasciare un fumetto sulla lavatrice per un mese e guardate se il bambino lo apre una volta sola o lo impara a memoria. Io i fumetti li imparavo a memoria. Non vuol mica dire che li capivo.

C'erano queste fasi, che mi ricordo benissimo, e spesso coincidevano vagamente con alcuni cicli commerciali. Ad esempio: l'editoriale Del Corno comincia a stampare l'Uomo Ragno e tu passi da Topolino all'Uomo Ragno; dopo tre mesi il tuo edicolante smette di esporlo e tu torni a Topolino. Oppure una marca di merendine si mette a regalare Kamandi con un pacco da sei briosc', e tu cominci a leggere Kamandi, una roba kirbiana da incubo, ma la promozione smette subito e per fortuna (poi un pomeriggio d'estate a tradimento ti fanno il Pianeta delle Scimmie e gli incubi riprendono da capo).

Questi cicli hanno poco a che vedere col modello del consumatore di fumetti-un-minimo-critico, un-minimo-selettivo (e molto danaroso) arrivato più o meno intorno agli anni Novanta. Tutto questo succedeva dieci, quindici anni prima, ed esponeva lettori appena alfabetizzati a saghe superomistiche assolutamente incomprensibili. Cioè noi leggevamo, leggevamo avidamente, leggevamo come non ci fosse un domani, ed effettivamente nel nostro domani non c'erano Xbox, non c'era youtube né facebook, non c'erano che Topolini e qualche Geppo per le crisi di astinenza, ma cosa accidenti potevamo capire del Multiverso DC pre-Crisis? Dei Nuovi Dei, dei tormenti di Peter Parker che tira il collo per sbaglio alla sua ragazza, ma santiddio avevamo dieci anni e gli adulti permettevano che leggessimo quella roba, probabilmente erano così spaventati dall'eroina che pur di tenerci lontani dal parchetto ci avrebbero somministrato anche il Tromba. Insomma, noi leggevamo, e capivamo una parola ogni tre. In un qualche modo tuttavia ci divertivamo. Forse ci aiutava Supergulp! (I fumetti in tv), che dell'Uomo Ragno e dei F4 ci mostrava versioni più semplici da comprendere, dopodiché quando tornavi alle vignette te ne fregavi dei dialoghi e ti godevi le vignette con la Cosa arancione che spacca tutto, o Hulk verde che spacca tutto, o l'Uomo Gomma che prende tutte le forme (lo chiamavamo così Reed Richards, ho ricordi precisi sullo sfondo di una scuola materna, signori: si parla degli anni Settanta). Ma insomma l'esperienza di leggere lunghe storie senza capir nulla, godendosi le immagini statiche di uomini volanti, esercitandosi a farle volare con la fantasia, può sembrare qualcosa di per sempre precluso alla nostra esperienza di adulti. Dev'essere più o meno come guardare uno Star Trek, o un Transformers, e capire solo le esplosioni. Se sei cresciuto, se ormai sai leggere, non puoi più sentire.

E invece no. Basta riaprire Il Garage Ermetico di Jerry Cornelius, quella storia assurda che Moebius cominciò per riempire due pagine di Métal Hurlant, mandandola avanti per pura forza d'inerzia improvvisando una tavola alla volta; e leggere i dialoghi. "Diamine! La doppia polarizzazione cromatica è andata in risonanza con la sonda di livellamento che ho lasciato sbadatamente in funzione!"; "Ciò che amo del garage ermetico è l'infinita varietà dei mezzi di comunicazione nei tre livelli"; "Ci mancava solo questa! Siamo attaccati dalla banda di Miltroe". E così via: puro nonsense tecnologese, burocratese, narrativese, che alla fine suonava come una specie di musica, da canticchiare mentre guardi le figure: esattamente quello che facevi da bambino mentre guardavi gli eroi di Kirby azzuffarsi sotto nuvolette grondanti significati misteriosi.

In questi giorni avrete sentito citare allo sfinimento quella idea delle "storie a forma d'elefante, di campo di grano o di fiammella di cerino". Io preferirei non esagerare: Moebius è un grande per tanti altri motivi, chiedete a chiunque nell'ambiente. Prima di lui l'immaginario visivo fantascientifico era quello freddo e metallizzato di 2001 o Star Wars: uomini da una parte, maschere di ferro dall'altra (Lucas aggiunge i pupazzi, ma senza molta convinzione). Dopo di lui il metallo diventa organico, urlante, le valvole dell'astronave di Alien si chiamano "sfinteri" e il nome chiarisce tutto. Dal punto di vista della struttura narrativa, questa faccenda delle storie in forma di elefante può sembrare altrettanto rivoluzionaria, ma in realtà non portò più lontano di tanto. Métal Hurlant era il classico prodotto di nicchia di un'industria editoriale che tirava, in cui i disegnatori avevano conquistato quel margine contrattuale necessario (almeno in Europa) per giocare a fare gli artisti concettuali. Forse Moebius era più 'artista', nel senso di artigiano, quando tirava la carretta con Blueberry, oppure negli anni '80 risuolava tutto il florilegio moebusiano al servizio di quel furbacchione di Jodorowsky, che sotto tutti quei chili di misticismo sapeva scrivere storie compatte, vendibili, con Bene da una parte e il Male dall'altra, uno bianco e l'altro nero per evitare che i bambini al gabinetto si confondano. Forse.

Oggi i giornaletti non si vendono quasi più, e chi vuole sopravvivere nell'ambiente lo sa, che margini non ce ne sono: la poca gente che ancora legge vuole storie, storie consequenziali, intricate ma non troppo, vignette ortogonali e magari anche qualche didascalia. Additare Moebius ai giovani aspiranti fumettisti sarebbe da criminali. Altro che storie in forma di fiore. Non c'è mercato per questa roba. Ripensandoci, non c'è mai stato, nemmeno in Francia, Métal Hurlant è durato quel che è durato. E allora?

E allora niente, rimane la nostalgia per quelle trame sbilenche, gratuite, impermeabili a ogni anglosassone criterio di verosimiglianza narrativa. La stessa pulsione che ci porta a preferire le storie dei Simpson senza capo né coda, a considerare Infinite Jest un capolavoro anche se non abbiamo capito come finisce, a pensare che la struttura non è tutto, la verosimiglianza non è tutto, la consequenzialità non è tutto, e che quel bambino che leggeva un vecchio libro tascabile di Spirit trovato a casa della nonna con le vignette minuscole, ovviamente senza capirci nulla, lui sì, in un qualche modo aveva già capito tutto quello che c'era da capire.
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La Bovary sarai tu!

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Traffico di senso: la parola bovarismo

Io ho sempre pensato che un giorno avrei avuto una casa, non grande, magari non bella, ma con una libreria interessante. Finché un giorno ho capito che non sarebbe successo mai, per più di un motivo. Non ho così tanti libri, in fondo, e quelli che ho non sono così decorativi. Invecchiano senza diventare nobili; non restituiscono l'immagine di una persona studiosa, piuttosto di uno che ha frequentato troppe edicole e bancarelle e non si vergognava a portarsi a casa un newton compton rosso fuoco (del resto quel Tutto Dante a 9900 lire non era un affare?) Non riescono nemmeno a restare in ordine, non capisco bene il perché; non li consulto quasi mai (sto quasi sempre su internet). Ma sono i miei libri, mi assomigliano. Non è che mi piacciano tanto, però non riuscirei a disfarmene nemmeno volendo. Li ho messi in una stanza a parte, quando vengono ospiti chiudiamo la porta. Perché vi racconto questa cosa.

Perché l'altro giorno ho letto questo pezzo del Corriere, in cui si cercava di ammucchiare nei confronti di Nicla Tarantini tutto il disprezzo possibile (si capisce che il giornalista si è recato a Bari apposta e ha condotto indagini estese), e il risultato è condensato appunto in quel titolo: "Brillanti e niente libri". Il massimo dell'ignominia, per un giornalista del Corriere (ma poteva essere la Repubblica, la Stampa, e tanti altri) è non avere una libreria in casa. Il che non è nemmeno sicuro, non è che Goffredo Buccini sia stato in casa di Nicla e abbia verificato l'arredamento. Ha solo raccolto le chiacchiere di amiche e conoscenti, e di una in particolare. Notate come la presenta:

«Però manco mezza libreria: loro stavano ai libri come io sto a una suora», ridacchia una delle fate della scuderia, la più spiritosa e, probabilmente, la meno ignorante.

E' "spiritosa" perché sa istituire il rapporto Tarantini:libri=io:suora. E' (probabilmente) "meno ignorante" perché intuisce la vacuità di una vita senza mezza libreria in casa. E va bene. Non è che io voglia fare lo snob al contrario, anche a me capita di entrare in case d'altri ed elaborare pregiudizi in base ai libri che vedo e al modo in cui sono accatastati. Una libreria non rende certo una persona colta o intelligente; però aiuta. La cosa veramente curiosa è che due paragrafi più su Buccini aveva definito la parabola dei Tarantini una "piccola storia di bovarismo del Terzo Millennio". Il che potrebbe anche starci, in fondo questi due trentacinquenni "perfino più immaturi della loro età", come li definiva Lavitola, qualcosa in comune con Emma Bovary ce l'hanno: il consumo compulsivo di beni voluttuari, l'esigenza di vivere al di sopra delle proprie possibilità (la difficoltà anche a capire quali siano effettivamente, queste possibilità).

Il bovarismo, però, come lo aveva isolato Flaubert, si verificava in presenza di determinati agenti patogeni: i libri. Emma, mi par di ricordare, ne leggeva troppi. Nicla (forse) neanche uno. Anche il bovarismo, insomma, non è più quello di una volta, e in realtà è proprio questo che m'interessa: notare come le parole cambiano continuamente di significato, ogni volta che le usiamo: e sì che le usiamo proprio perché vorremmo far forza su un bagaglio di nozioni date per scontate, un retroterra culturale solido, qualcosa dove metter radice, una bella libreria immobile, lucchettata: niente da fare. Le parole ci cambiano in mano, afferriamo un martello e ci troviamo in mano un cacciavite che c pone dei problemi: perché pensavate di usarmi come un martello? Cosa vi faceva pensare che io potessi pestare un chiodo? Cosa vuol dire oggi la parola "bovarismo"? Non lo so, probabilmente Buccini ha una sua idea che non è la mia. Ma non è così interessante. Quello che è interessante è cosa dice la parola "bovarismo" di noi che pretendiamo di usarla oggi.

Ci dice che siamo molto diversi da Flaubert, al punto che non lo capiamo quasi più. Lo si capisce anche solo dal modo in cui trattiamo i libri: ne apriamo molti meno, ma nel frattempo abbiamo sviluppato un'enorme fede in loro. La loro sola presenza, la semplice ostensione dei libri in una teca, avrebbe il potere di salvare la nostra vita, riscattarla sia dalla banalità della provincia, sia dai luccicori dei "coca-party". Se uno legge libri, se uno possiede librerie o perlomeno nota la loro assenza in un salotto, è "meno ignorante".

Ai tempi di Flaubert probabilmente non era così. I libri erano oggetti perfino pericolosi, che potevano portare alla perdizione: da assumere con prescrizione medica. Lo stesso Flaubert, se ricordo bene, a momenti ci crepava, sulla Tentazione di Sant'Antonio: e Madame Bovary lo scrisse anche per disintossicarsi, scegliendo la storia più banale e terra-terra, meno letteraria che riuscisse a trovare.

Tanti anni fa, ormai è quasi una vita precedente, visitai la casa di Balzac, che in realtà non era nemmeno la casa di Balzac, perché quel formidabile cialtrone riusciva a mettere il suo nome (falso) su tantissime cose che non possedeva: era una casa di amici e ammiratori in cui lui poteva arrivare quando voleva, entrare nella sua stanzetta e mettersi a letto e/o scrivere. Tra le incisioni alle pareti ne ricordo una che mostrava "il lettore" (dunque il cliente-tipo di Balzac). Voi subito immaginate un signore distinto che seduto su una poltrona aggrotta la fronte, magari per tener fermo il monocolo. Perché siete uomini del XXI sec., per voi leggere è cosa da nobili, e che nobilita. Invece "il lettore" dei tempi di Balzac è un vecchietto spiritato che siede a tavola col piatto pieno di cibo freddo (non riesce a staccare gli occhi dalla pagina) e che si versa il vino fuori dal bicchiere. Un poveretto, il "lettore". Totalmente succube di un'ossessione-compulsione che è simile a quella che noi lamentiamo nei ragazzini con playstation. Il "lettore" era un malato, un tossicodipendente. La lettura non lo nobilitava: lo estraniava dalla società. Naturalmente lo stesso Balzac si sarebbe ribellato a una tesi del genere, e avrebbe sostenuto che c'erano libri e libri: immondi feuilletons e accurati ""études philosophiques". Oggi no: oggi qualsiasi libro è comunque meglio di qualsiasi altro impiego del tempo libero: basta aprire un libro, qualsiasi libro, per sembrare più intelligente di qualcun altro che nello stesso momento sta guardando la tv,  o videogiocando, o cercando prove della propria esistenza su un social network, o cicalando su un cellulare. L'unica cosa vagamente paragonabile sono i film, ma qui conserviamo ancora qualche distinguo sul contenuto: la frase "in casa ha tanti dvd" in sé non vuol dir niente, resta da stabilire se siano Tarkovskij o Neri Parenti. Invece la libreria è indizio di cultura a prescindere. La persona che ha fatto una soffiata sui Tarantini, magari a casa ne ha una piena di Moccia o Fabio Volo; ma sono libri - parallelepipedi di fogli di carta rilegati su un lato, e quindi comunque la rendono "meno ignorante". Magari, per dire, ha tutti i pamphlet antislamici di Oriana Fallaci...

A proposito. Il giorno dopo lo stesso quotidiano, il Corriere, è uscito con una buffa versione "da collezione" per il decennale dell'11 settembre, il giorno che secondo loro ha cambiato tutto. Il che tra l'altro è sempre più discutibile: a distanza di dieci anni non c'è una sola notizia importante, in questi giorni (crisi europea, fine del berlusconismo, guerra in Libia, incidenti nucleari, riscaldamento globale) che sia facilmente riconducibile con un rapporto di effetto-causa agli attentati di dieci anni fa. Probabilmente se Mohammed Atta se ne fosse rimasto a casa oggi i nostri telegiornali ci racconterebbero le stesse cose. Però è ugualmente vero che per il Corriere dieci anni fa è cambiato tutto. E' stato il momento in cui i suoi lettori, un tempo maggioranza silenziosa, hanno tirato fuori dagli scantinati il loro razzismo fino a quel momento muto e un po' vergognoso, e hanno cominciato a vantarsene, a trovarlo giusto e interessante, sacrosanto addirittura, e a sfoggiarlo addirittura su una mensola in bell'evidenza, sotto forma di cartonato di Oriana Fallaci. La vecchietta, si è poi saputo (ma si poteva benissimo intuire), non era più molto padrona di sé, ma De Bortoli e RCS non si posero evidentemente il problema, spremendo il limone fino all'ultima goccia (acida). Una cosa del genere non sarebbe stata possibile fino al 10/9/01: dopo sì. Quindi, effettivamente, l'11 settembre ha cambiato qualcosa. Nelle nostre librerie, perlomeno. Che ci assomigliano. E a me non è che piacciano tanto. Agli ospiti non le mostrerei.
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Il Nordest in mano ai maestrini

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Ti dicono quali film non andare a vedere al cinema;
(tanto tu comunque non ci vai)
quali libri non puoi prendere in prestito in una biblioteca
(non li conoscevi, ma adesso li cercherai in libreria);
quali non puoi leggere a scuola...
(vorrà dire che li leggerai a casa, con più calma).
Sono i nuovi censori, sono tra noi. 

E sono anche più fessi del solito. Sull'Unita.it si parla degli occhialuti maestrini di Lega e PdL. Il pezzo si commenta qui.

Carissimo ELMO (Elettore Leghista Medio Operaio), ti scrivo perché vorrei che mi togliessi una curiosità. Ma tu il nuovo film di Placido sul bandito Vallanzasca, ecco, se il tuo partito non avesseproposto di boicottarlo, lo saresti andato a vedere?

Secondo me no. Non lo dico per snobismo, guarda –  si può dire di tutto di Michele Placido, tranne che faccia film per snob. Il fatto è che non mi pare che i leghisti vadano molto al cinema in generale. Almeno è l'unica spiegazione per il colossale flop di Barbarossa, ti ricordi? Sì, quel film in costume per il quale Bossi si fece dare da Roma un milione e seicentomila euro, che il regista Martinelli spese più che altro in Romania perché maestranze e figuranti rom costano meno (è la globalizzazione, Elmo, che ci vuoi fare, anche i portachiavi della Padania sono made in China). A quel film Bossi ci teneva tantissimo, è lo stesso Berlusconi a confessarlo in una celebre telefonata ad Angelo Saccà: “c'è Bossi che mi sta facendo una testa tanto con questo cavolo... di fiction di Barbarossa”. Ai tempi del lancio Martinelli si diceva sicuro di riempire le sale. Bossi (che fa una comparsata) vi ordinò: "andatelo a vederlo come se andaste a votare", ma tu e i tuoi compari non è che siate accorsi in massa, eh? Magari state solo aspettando che arrivi in tv, e francamente non vi biasimo.
Quello che non capisco è il tuo deputato, quel Davide Cavallotto, che pretende di farvi stare fuori dai cinema quando neanche Bossi è riuscito a farvici entrare. Lasciamo stare il senso dell'operazione, questo rigurgito moralista per cui i film sui banditi offenderebbero le vittime (per fortuna che queste idee non vengono agli americani, altrimenti non avremmo avuto il Padrino, Scarface, Goodfellas, Casino, Donnie Brasco...) Lasciamo anche stare che se ne parli proprio nella settimana in cui i tuoi rappresentanti si mostrano impermeabili ad altri moralismi (hai sentito che una delle bionde ospiti di Berlusconi era accreditata come "fidanzata con Renzo Bossi"?) Ma che senso ha proporre il boicottaggio delle sale a elettori e simpatizzanti che comunque di solito nelle sale non ci vanno?
È un po' come quando a Roma scioperano i tassisti, che a momenti nessuno se ne accorge, se mi passi il paragone. Anzi, forse è peggio. Perché lo sai come funziona coi film: l'importante è che se ne parli, anche male. Michele Placido questo meccanismo lo conosce bene, e di solito appena c'è la possibilità di fare un po' di polemica sui giornali non si tira indietro. Basta poco, sai: un'intervista in più agli attori, che invece di restare relegata alla pagina degli spettacoli si ritrova un titolo in prima: ed ecco che l'annunciato boicottaggio diventa un trucco per staccare qualche migliaio di biglietti in più al botteghino. Insomma, caro Elmo, secondo me un boicottaggio del genere è un autogol. Un po' come la storia dei libri proibiti nelle biblioteche veneziane. Ma è vero che li tolgono?

Lascia che ti racconti anche questa storia. Dunque, ti ricordi di Battisti, il terrorista? Qualche settimana fa non si parlava d'altro, il governo italiano fece fuoco e fiamme, sembrava che dovessimo interrompere i rapporti commerciali col Brasile. Poi, come succede in questi casi, non c'è più stato nulla di cui parlare: bisognava inventarsi qualcosa di nuovo. A questo punto un assessore veneziano del PdL, l'ex missino Speranzon, ha chiesto ufficialmente alle biblioteche comunali di ritirare dagli scaffali le opere degli scrittori che nel 2004 firmarono un appello per la scarcerazione di Battisti (che a quel tempo era stato arrestato in Francia). Non tutti questi scrittori escludono che Battisti possa aver commesso dei crimini, ma hanno forti dubbi sulla regolarità dei processi a cui non partecipò (l'Italia è uno dei pochi Paesi in cui si può processare qualcuno in contumacia). Che ci vuoi fare, Elmo, non c'è solo Berlusconi a nutrire dubbi sulla giustizia italiana. Ma lasciamo stare. Certo, è ben triste che proprio a Venezia qualcuno proponga una specie di Indice dei Libri Proibiti. Persino ai tempi della Controriforma, quando a Roma aprire il libro sbagliato poteva portarti al rogo, gli intellettuali più scomodi cercavano riparo dall'Inquisizione presso la Serenissima.
Ma lasciamo perdere anche il passato. Il punto è: anche se i bibliotecari toglieranno dagli scaffali i libri incriminati (tra cui quelli di Roberto Saviano), che risultato si otterrà? Certo nessun danno agli scrittori, che sui libri prestati in biblioteca non guadagnano più un centesimo. Anzi, il boicottaggio  costringerà qualche lettore in più a comprarseli in libreria. Senza tener conto, anche in questo caso, dell'effetto boomerang: gli scrittori, come puoi immaginare, sono tipi sensibili, che non vedono l'ora di sentirsi un po' perseguitati da qualcuno per scrivere ai giornali, organizzarsi, trasformare una polemica in un'altra occasione per farsi leggere - a pagamento, visto che i volumi in biblioteca non si troveranno più.  È quello che stanno facendo in questi giorni, appunto. Massimo Carlotto, uno degli scrittori incriminati (il solo aggettivo "incriminati" secondo me vale qualche centinaio di copie in più), ha replicato a Speranzon facendo notare che nel bel mezzo di tutte queste polemiche il Veneto è diventato la regione italiana con i maggiori interessi economici in Brasile. Carissimo Elmo, non so se tu Carlotto l'abbia mai letto. È un ottimo giallista, nato a Padova, che racconta il Nordest di oggi come pochi sanno fare. Se non ne avevi mai sentito parlare, adesso lo hai sentito: se avevi letto già qualche suo libro, sono abbastanza convinto che nessun assessore del tuo partito ti convincerà a smettere con questo o altri sgangherati boicottaggi.

Nel frattempo, l'assessore regionale all'istruzione Elena Donazzan (PdL anche lei, con un debole per i caduti di Salò) si è fatta viva. Non la sentivamo più da quando pensò di regalare a tutti gli studenti veneti una Bibbia a spese dei contribuenti. Adesso invece ha chiesto ai presidi di rimuovere dalle biblioteche scolastiche i libri degli autori maledetti - sì, sempre quelli dell'appello pro-Battisti. Così magari rimarrà più spazio per i libri che fa stampare lei, pieni di strafalcioni e scopiazzati da wikipedia. O i cd "europeisti" distribuiti a spese della Regione e contenenti inni neofascisti.

Insomma, caro Elmo, cosa stanno diventando i tuoi dirigenti? Da quand'è che hanno cominciato a pretendere di spiegarti quale film puoi vedere e quali no, quali libri puoi leggere e quali no? Una volta non era così, una volta i leghisti erano i ribelli, i berlusconiani si riempivano la bocca della parola libertà. Ma quella era la prima generazione. Adesso tocca alla generazione dei maestrini, dei censori occhialuti, e non si può dire che siano altrettanto simpatici. E la prossima? I bambini che nascono oggi, e magari cresceranno in una Padania federale con le bandiere verdi, e i libri giusti sugli scaffali e i film giusti in tv, non sentiranno anche loro il bisogno di ribellarsi un po'? Pensa ai bambini di Adro, col Sole delle Alpi griffato su tutti i banchi: non toglierà ai monelli la voglia di inciderla col temperino? Non c'è il rischio che poi crescendo venga loro a noia? Che vadano a sporcarsi i piedi nelle aiuole per il gusto di infangare il vessillo che quel furbacchione del sindaco ha voluto disegnare anche nello zerbino? E se scoprono che c'è una lista di libri proibiti, non faranno la corsa per procurarseli? Faccio per dire, è solo una mia teoria. http://leonardo.blogspot.com
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Io sono Artigiano

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Non avrai altro Autore al di fuori di me

Quello che mi ha spinto a farlo, come ho detto all'inizio, è che da questa risibile querelle estiva e premestruale si sia arrivati come sempre a ipotizzare un fantomatico scrittore fantasma che è il vero autore dei libri che pubblico a mio nome. (Giorgio Faletti)


A parte che vorrei esserci – non dico sia uno dei motivi che mi tiene in vita, ma vorrei esserci – il giorno in cui finalmente uno scrittore famoso, accusato di avere dei negri, o degli editor un po' intrusivi, farà il primo vero coming out: ebbene sì, il mio romanzo non l'ho scritto da solo, eravamo in cinque: uno ha lavorato ai dialoghi, uno ai monologhi, uno si è girato l'Oklahoma per sei mesi per fare le ricerche, uno rileggeva e l'ultimo passava col carrello del caffè, e allora? V'è piaciuto? Quello è l'importante, no? Mica ve l'abbiamo fatto pagare cinque volte tanto. Oh, che ci posso fare se sono scarso coi dialoghi? Mi pago uno che me li scrive e uno che se li rilegge, e se il risultato è buono dovreste ringraziarmi, altro che far le pulci.

Perché è ben strana in fondo questa cosa: quando andate al cinema non vi preoccupate che lo sceneggiatore e il regista siano persone diverse. Mai sentito qualcuno lamentarsi che Kubrick usasse soggetti non originali, che i vostri film preferiti siano li risultato dello sforzo di migliaia di persone.Vi siete bevuti decenni di serie televisive – orologio alla mano, è senz'altro la forma d'arte che vi ha 'intrattenuto' di più – e non vi siete mai posti il problema di chi le abbia scritte: coglioni qualsiasi intorno a un lungo tavolo in qualche grattacielo condizionato, ma chi se frega? tanto è un prodotto industriale. Al diavolo la nozione ottocentesca di “Autore”.

Finché non arrivate in libreria, e la musica cambia di colpo. Lì è puro Ottocento, si direbbe che fuori vi stia aspettando il maggiordomo in livrea con la carrozza: tutti Autori con la A maiuscola, e anche tutte le lettere del nome e del cognome, tutte in maiuscolo, sbalzate in oro e in lapislazzuli, più evidenti del titolo; uno non compra Io sono Dio di Faletti, uno compra GIORGIO FALETTI Io sono Dio: e guai, maledizioni, anatemi, a chi solo insinua che dietro GIORGIO FALETTI possa esserci un po' di lavoro di gruppo. È vietato anche solo pensarlo: GIORGIO FALETTI deve essere un artigiano che si scrive tutto da solo, dal titolo fino al più umile apostrofo. Esatto, sì, li mette tutti a mano, gli apostrofi, uno a uno. Altrimenti, boh, non c'è più gusto a leggerlo. Così a conti fatti GIORGIO FALETTI è l'artigiano più pagato d'Italia. Fattura milioni ed evidentemente non ha nemmeno un ufficio stampa, un pr, un amico che gli dica ehi, Giorgio, va bene fare il duro, ma non si trattano così le signore. Puoi avere tutti i buoni motivi del mondo, ma la sindrome premestruale no, non si tira fuori in una polemica la sindrome premestruale. Voglio dire, i duri non lo fanno. Rileggiti i classici: te l'immagini Marlowe, te lo immagini Mike Hammer coinvolti in una polemica letteraria con una biondona fatale? Uno schiaffone può anche scapparci, se la fata fa l'isterica, ma un accenno al mestruo no, è un tabù, una cosa definitivamente non anglosassone, di una mediterraneità inemendabile, come faccio a spiegartelo meglio... è una cosa che... non ti aggiunge centimetri al pisello, capisci?
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Graven by a fool!

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Now that I am dead I must submit to an epitaph

Un buon motivo per morire in agosto è che non succede molto altro e c'è più spazio sui giornali per celebrarti – non importa che i giornalisti siano in ferie, basta recuperare i coccodrilli, aggiornare le date... detto questo, forse sulla prima pagina di Repubblica di mercoledì 19 agosto Fernanda Pivano si sarebbe meritata un titolo più in alto: d'accordo, non sopra le elezioni afgane, e forse nemmeno al livello degli shorts di Mrs Obama. Sicuramente più in alto del burkini di Verona, ma cosi è la vita. No, la morte.

Quello che però trovo davvero discutibile – nel senso di meritevole di una discussione, non necessariamente polemica – è il titolo: È morta la Pivano ci regalò Spoon River. Più in piccolo: La scrittrice aveva 92 anni scoprì la beat-generation. Le epigrafi sono sempre insoddisfacenti, si sa; ma questa mi ha sinceramente incuriosito al punto che aprirei un dibattito. Ovvero: dovendo riassumere in una misera frasetta la carriera di un'intellettuale che ha scoperto e tradotto la fetta più consistente di letteratura americana del '900, da Hemingway a Scott Fitzgerald a Pound su fino a Kerouac e Dylan, e ancora su, su, su fino a Bukowski o McInerney, voi scegliereste proprio quel vecchio tetro libro di versi sciolti, Spoon River? Non Addio alle armi? Nemmeno Tenera è la notte? No, ma neanche Sulla strada? Ah, ipocriti lettori.

Miei simili, fratelli. Giù la maschera: voi non avete veramente letto Allen Ginsberg, e neanch'io. Nessuno che io sappia ha mai seriamente affrontato Corso e Ferlinghetti, sempre citati uno dopo l'altro col rischio di confonderli prima o poi con quei due anarchici finiti sulla sedia. I veri poeti beat sono sempre stati più tradotti che letti, come tutti i poeti del resto. Persino Dylan: non ne trovi poi così tanti che si pongano il problema (cruciale) di cosa stia cantando Dylan. Ma Hemingway o Kerouac li abbiamo letti tutti. Anche troppo. E troppo presto, sicuramente. Ora mi chiedo: Spoon River regge il confronto? Non dico in termini di valore, per carità, ma di ricezione del pubblico. Hemingway lo riconoscono tutti: quanti di voi hanno riconosciuto Edgard Lee Masters nella fotina qua sopra? E il suo libro, tradotto di nascosto da una liceale nel '43, scoperto in un cassetto dal suo insegnante, il prof. Pavese, e prontamente spedito alla Giulio Einaudi Editore: il suo libro, quanti lo avranno in casa? E di questi, quanti avranno provato a leggerlo?

Io in questo caso non faccio testo. Il mio Spoon River è qui, davanti a me. È sopravvissuto a tre traslochi, ma non è invecchiato nella maniera dignitosa dei libri degli adulti. Per fare un esempio, lungo il taglio delle pagine c'è una macchia... arancione. Un pennarello carioca. La dedica a pagina 3 mi conferma quello a cui fatico a credere: è un regalo della mamma, per il mio dodicesimo compleanno. Edizione col testo a fronte, così avrei migliorato il mio inglese. Mamma, e poi lamentati. Hai rischiarato la mia preadolescenza coi fuochi fatui del libro più sepolcrale mai scritto – 244 poesie, 248 morti, ogni volta che giri una pagina crepa almeno un personaggio, mi chiesi spesso perché non ne avessero tratto un film. Già, perché? Una trama così irresistibile. Frank Drummer vuole imparare l'Enciclopedia a memoria, ma muore. Washington McNeely siede sotto il cedro finché muore. Cassius Hueffer muore e gli sbagliano l'epitaffio – beh, forse un film no, ma una miniserie...

Si veniva su così, in provincia, appoggiandosi a quello che si trovava in giro, senza preoccuparsi più di tanto se era o no adatto a noi – l'importante era che fosse cultura, roba seria: e poi col tempo saremmo diventati seri anche noi. Quando, mesi dopo, fondai con mio cugino la mia prima band, l'idea di scrivere testi in inglese era parzialmente minata dalla quasi totale incapacità di formulare concetti più complessi di La Penna È Sulla Tavola. Ricordo quindi intense sessioni creative davanti al Garzanti tascabile e all'Antologia di Spoon River. I morti di Spoon mi insegnarono come si coniugano i tempi al passato e al futuro. E mentre cercavo “la poesia di quello che dice Una serpe ha fatto il nido nel mio cuore” per copiare di pacca il sintagma, mi rileggevo i duecento destini tristi di questi americani qualunque che nemmeno sapevo di che secolo fossero, senz'altro un secolo in bianco e nero, ma a parte questo non era difficile immaginarli sotto le pagliette e nei fustagni dei miei nonni, gente qualunque che si lascia morire in un paesino di provincia. La macchia di pennarello data senz'altro da quel periodo.

Oggi non saprei se consigliare a qualcuno l'antologia di Spoon River. A qualcuno, intendo, che non sia un dodicenne un po' fuori dal mondo disposto a mandar giù un volume di duecento pagine e duecento e più morti, dando per scontato che ne capirà il venti per cento, e quel venti per cento non se lo scorderà per tutto il resto della vita. Ci si formava con quel che si trovava in giro, la roba dimenticata sulle mensole dei genitori, centinaia di pagine buttate giù di nascosto sperando in qualche scena di sesso ogni tanto.

Quante volte poi mi sono detto: Hai tessuto il tuo sudario! Io sedevo sotto il cedro! E perché mi torturi coi fogli e coi piccoli appunti? Vidi che anch'io ero una buona macchina che la vita non aveva adoperato. Tutto questo, ci tengo a dirlo, non è merito mio. Io cos'ero a dodici anni, se non una macchinetta, non molto più complessa del mio registratorino panasonic col tasto rec arancione. Pronto a ingozzarmi di qualsiasi cosa mi spacciassero per Cultura e Poesia, per Vita e per Morte – potenzialmente, un bimbominchia. Nel senso che se dall'altra parte del meccanismo ci fossero stati i manga, o Harry Potter, o Twilight, avrei buttato giù quintalate di manga, HP, Twilight.

Ma dall'altra parte del meccanismo c'era ancora gente come Fernanda Pivano. In senso lato, c'era l'Einaudi. Una specie di grande famiglia di gente coltissima, ma a portata di edicola, che si interessava di te da quando nascevi. Cominciavano con Gianni Rodari, proseguivano con le antologie scolastiche curate da Calvino. Tu a nove anni chiedevi alla nonna per regalo Huckleberry Finn, perché avevi visto il cartone in tv, e lei ubbidiente sotto l'albero di Natale ti faceva trovare uno Struzzo Einaudi con una prefazione tostissima in cui si parlava di Bildungsroman e si seminavano interrogativi velenosi (se lo schiavo Jim vuole la libertà, perché non attraversa semplicemente il Mississippi, invece di andare sempre più a sud?) Qualche anno dopo un prof di musica ti prestava dischi di Dylan e per capirci qualcosa, a chi dovevi riferirti? Alla Pivano: come ritrovare in un negozio di dischi una vecchia zia che fino a quel momento avevi incrociato soltanto al cimitero. Di questo passo arrivavi alle superiori non dico con una cultura, ma con un'idea di cosa la cultura fosse: libri e autori che dialogano tra loro – il più delle volte è un dialogo tra sordi, come i morti di Spoon River, ma in mezzo ci siamo noi, siamo noi che portiamo i messaggi tra un sordo e l'altro, noi che vorremmo urlare al reverendo Wiley che si è sbagliato, che non doveva affatto “salvare i Bliss dal divorzio”. Preachers and judges! Non sanno niente della vita, a dodici anni era già chiaro. Perché un preadolescente non dovrebbe capirlo? E' la vita, è la morte: non sono mica concetti complessi.

Più tardi ci sarebbe stata l'età della ribellione, e il suo Kerouac; l'età di farsi una cultura sul serio coi suoi Hemingway e i suoi Scott Fitzgerald; e così via. Ma quella è adolescenza, faccio fatica a riconoscerla e persino a ricordarla. Forse davvero gli unici libri sono quelli che mandiamo giù fino a tredici anni, senza capirli. Uomini e donne di domani, vi porterete con voi Harry Potter per tutta la vita. Speriamo che vi faccia bene.

Io rimpiango la Pivano, non da ieri: non per nostalgia; oppure sì, per nostalgia, ma certo non di Ginsberg e dei suoi mantra. Nostalgia di un progetto culturale che oggi, a riassumerlo, suona pura eresia: siccome gli italiani leggono poco, facciamogli leggere soltanto cose di assoluta qualità. A tutte le età. E vediamo cosa succede. Ok, non è successo un granché. Ma io ho letto Spoon River, tradotto da Fernanda Pivano. Non è escluso che abbia fatto di me una persona migliore.
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Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

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Choupon, c'était moi

Ma sarà mai stato veramente di destra, Gérard Lauzier?
La domanda, appena messa nero su bianco, rivela la sua profonda stupidità. La destra e la sinistra sono concetti arbitrari, che ci dovrebbero servire a orientarci nella realtà; quando diventano più importanti della realtà che descrivono, è meglio buttarli via. Quindi: chi se ne frega se era di destra, Gérard Lauzier? Era bravo. Di solito il discorso finisce qui.
Io però ci credo fino a un certo punto. Per me l'ideologia non è una cosa che si possa mettere tra parentesi. L'abbiamo tutti, esattamente come il fegato e i polmoni. È il nostro modo di vedere il mondo. Per questo io, con tutta la mia più buona volontà, e coi dieci anni di vita che ho dedicato a studiare autori fascisti, mi dichiaro assolutamente incapace di apprezzare davvero una qualsiasi “cultura di destra”. Non perché essa non possa esistere – anzi esiste, e magari m'interessa e la studio, ma non posso apprezzarla, per formazione e per scelta. Invece Lauzier mi è proprio piaciuto tanto.

Alla base di tutto c'è un equivoco. Dalla seconda metà degli anni Settanta Lauzier si è creato la sua aura destrorsa prendendosi gioco dei tic dei sessantottini francesi che avevano messo su la pancia, famiglia e conto in banca – tutto un nuovo conformismo che oggi potrà sembrare banale, ma lui c'è arrivato per primo. Se è per questo però Lauzier era perfido anche con gollisti e chiracchiani: i suoi ex legionari vanno dallo psicanalista lacaniano e scoppiano in lacrime: sul serio possiamo definirlo di destra perché umiliava les bobos? Con lo stesso criterio potremmo considerare di destra anche il primo Moretti, per citare un autore che aveva (molto parzialmente) in comune gli stessi obiettivi: e notate che per trovarne uno vagamente simile dobbiamo aspettare la generazione successiva.

Comunque fin qui è davvero solo un equivoco. Un conformismo è un conformismo; se nasce a sinistra, significa che quella sinistra è una falsa sinistra, e criticarla è un vero atteggiamento di sinistra. Quindi i bobos sono di destra e Lauzier è di sinistra, voilà. Che bel gioco delle tre carte che ho fatto. Eppure sono convinto che, sforzandomi un po', riuscirei a scrivere qualcosa di più intelligente.
Intervistato, liquidava l'argomento definendo la sinistra il suo “Amour déçu”. Sì, lo sappiamo, siamo stati tutti rivoluzionari a vent'anni, ecc. ecc. Ma riflettendoci bene, Lauzier è davvero un autore di destra. Di una destra scettica, arida, in fondo disperata, che è l'approdo degli ex ottimisti che esplorando il mondo lo hanno scoperto tanto simile alla jungla primordiale. Quella destra che più che un'ideologia è una rassegnazione, alla quale approdiamo tutti, insomma: resta solo da stabilire quando e come (io mi do ancora quattro, cinque anni massimo).
Lauzier era di quella destra che non crede al progresso perché il progresso non è credibile, e sapeva vedere sotto i nostri abiti firmati o trasandati lo scimmione (o il cagnolotto, come nel caso di Choupon), il maschio-alfa e il perdente nato. E chi nasce imbecille, è sottointeso, potrà avere tutte le prese di coscienza che vuole (memorabili quelle del Portrait d'artiste e della Corsa del topo), ma morirà imbecille. Ma non mi convince nemmeno questo.


Mi chiedo cosa ne avrebbe pensato Lukács - Ehi, questa che è una domanda stupida. Adesso prendo la macchina del tempo e vado a trovare l'anziano ex ministro che dopo l'invasione sovietica e l'autocritica si è buttato sui romanzoni dell'Ottocento. Ciao, György, come va? ti ho portato dei fumetti.
“Non è roba da bambini?”

“Tutt'altro! Può sembrarti un disegnatore di pupazzetti, ma è un grandissimo artista. Guarda le facce, guarda quante espressioni. Con tre tratti di china riusciva a rendere centinaia di espressioni, mantenendo uno stile chiaro ed elementare. Trovo tutto questo molto progressista e democratico”.
“Mbah. Però devo dire che questo disegnatore di pupazzetti riesce a penetrare le leggi che governano la Realtà e scoprire le relazioni profonde, nascoste, mediate e non immediatamente percepibili che costituiscono la società”.
“György, per favore, io faccio le medie... dimmi soltando: destra o sinistra”.
“È così importante?”
“Certo che è importante, tu sei György Lukács, se tu dici che è di sinistra per me è di sinistra, fine questione”.
“Sta rischiando qualcosa nel tuo futuro? Stalin lo ha mandato al confino?”
“No. Invecchiando si è dato al cinema, storielle a lieto fine per benpensanti”.
“Ah, peccato”.
“Era come se volesse lasciare ai bambini qualcosa di dolce, dopo tanto acido".
“Comprensibile, ma è un peccato lo stesso. Aveva qualcosa di balzacchiano, mi sembra”.
“Vero? È per questo che sono venuto da te”.
“Ma lo leggono ancora Balzac, nel futuro?”
“C'è poco tempo. Leggiamo i fumetti”.
“Mbah”.
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Perché Stoccolma è Stoccolma

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Fai finta di essere un intellettuale. Uno di quelli che s'intendono di tutto e niente, dai, puoi farcela.

Immagina che un giornale ti chieda un pezzo sul premio Nobel alla letteratura. Una cosina da mettere in prima pagina, in cui dovresti spiegare perché il Nobel lo vincano spesso insigni sconosciuti, mentre i grandi scrittori che compriamo e leggiamo volentieri (quasi sempre anglosassoni) restano a bocca asciutta. Ecco, a quel punto cosa faresti?

Per prima cosa ti renderesti conto che dei Nobel non sai poi molto. Allora faresti una ricerchina su internet, e da wiki risaliresti al sito dell'Accademia di Svezia, (non che strabordi d'informazioni, eh). Già così, comunque, riusciresti a farti un'opinione.

E allora scriveresti che il premio Nobel non è, non ha mai preteso di essere, il premio alla Carriera del Migliore Scrittore. Quella che Alfred Nobel ha lasciato è una specie di borsa, che doveva consentire “all'autore dell'opera letteraria più considerevole d'ispirazione idealista” (en del som inom litteraturen har produceradt det utmärktaste i idealisk rigtning) di continuare a scrivere senza preoccuparsi troppo delle scarse vendite. È chiaro che una borsa si conferisce a chi ne ha bisogno, non agli scrittori di successo e da hit parade: anche se sono bravi. Ed è inutile conferirla alla memoria: le grandi opere incompiute mica possono continuarle gli eredi. Il fatto che Alfred Nobel concepisse la scienza al servizio del progresso dell'umanità ha spinto i giurati di Stoccolma a dare spesso (non sempre) un'interpretazione politica del premio, che è stato più spesso assegnato a scrittori di ispirazione progressista, con un senso altamente civile della loro attività letteraria: anche se non erano quasi mai i migliori poeti o prosatori in circolazione. Ma erano quelli che difendevano una concezione sociale e militante della letteratura che l'Accademia svedese aveva deciso di sostenere.

Così, dopo la guerra, era forse più facile premiare un ex ermetico come Salvatore Quasimodo, che si era riciclato come dettatore di lapidi e si era messo a scrivere poesie civili dignitose, leggibilissime e traducibilissime, piuttosto che Montale con tutto il suo metafisico male di vivere (anche se dopo un po' l'ha vinto anche lui: bastava impuntarsi). Per questo motivo Dario Fo aveva molte più ragioni per piacere ai giurati che non Mario Luzi; per lo stesso motivo, è facile immaginare tra i prossimi candidati italiani al Nobel Roberto Saviano. In generale, chi ha un libro tradotto in svedese (Fo ne aveva parecchi) parte avvantaggiato. E se la cosa non vi va, il problema è vostro, e tipicamente italiano: nessuno ha mai parlato di superiorità di Fo rispetto a Luzi; siamo solo noi ad avere questa mania del Grande Premio Universale. Per esempio, noi siamo quelli che hanno inventato il Festival di Sanremo, con una canzone che vince e tutte le altre che perdono. Eppure i gusti musicali sono tantissimi: che senso ha discuterne? Che senso ha mettere tutto nello stesso calderone ed estrarre un vincitore? Nessun senso. Ecco, noi italiani abbiamo l'idea che il Nobel della letteratura sia una specie di Sanremo letteraria: dovrebbe vincere il Migliore Scrittore, e se non vince lui, è colpa dei giurati. Ma il Nobel, semplicemente, non è questo. Bisognerebbe farsene una ragione.

Ecco, questo è più o meno il modo in cui ti comporteresti, se qualcuno chiedesse il tuo parere.

Questo invece è il modo in cui ha risposto Piero Citati.

«Repubblica» mi chiede di spiegare secondo quali criteri, ogni anno, vengono attribuiti i Premi Nobel.

E probabilmente ti pagherà bene per il servizio...

Non ne so molto.

Beh, questa è un'ammissione importante: sai di non sapere. C'è una sola cosa che a questo punto dovrebbe fare un uomo di cultura, su un quotidiano progressista: documentarsi. Lo farai? Dopotutto ti pagano...

In primo luogo, bisogna tener conto che attribuire dei premi internazionali di letteratura, specie in un paese piccolo come la Svezia, non è cosa facile. Un giurato deve conoscere le letterature francese, inglese, americana, tedesca, italiana, austriaca, polacca, russa, danese, slovacca, maltese, bulgara, araba, rumena, boema, norvegese, finlandese, lituana, lettone, estone, albanese, ungherese, serba, kosovara, greca, pachistana, indiana, uigura, uzbeca, cinese, giapponese, argentina, nicaraguense, costaricana, brasiliana, vietnamita, peruviana, colombiana, boliviana, cambogiana e del Turkmenistan e dell' Antartide e dell' Africa equatoriale e del Bangla-desh e dello Sri-Lanka.


Ehi, cos'abbiamo qui? Una lista inutile, una di quelle cose che fanno i bambini a scuola per prendere tempo e sprecare righe. Cos'è, Citati, non hai fatto i compiti? Non ti sei documentato? E dove sta scritto che un giurato svedese debba conoscere davvero tutte quelle lingue?

(aggiunta di Luigi dai commentiparte da inglese e francese, ma arriva fino al Turkmenistan, all'Antartide, all'Africa equatoriale, ed è un po' come se ci stesse dicendo, strizzando l'occhio agli altri padroncini bianchi annidati nei suoi lettori: "ma sì, dai, dove ci stanno gli zulù e i pinguini, e pensa tu se io devo perdermi dietro a quegli scarabocchi da selvaggi"). 

Non ne sarei mai capace. Temo che i giurati di Stoccolma non siano molto più bravi di me.

Finta modestia, abbastanza fuori luogo dal momento che nella giuria, oltre agli accademici svedesi (esperti di letteratura svedese e di null'altro), fanno parte membri di altre accademie nazionali, professori di letteratura e, soprattutto, tutti i Nobel della letteratura viventi. Possibile che non ce ne sia qualcuno molto più bravo di te? Magari anche una mezza dozzina, eh, Citati, cosa dici?

Purtroppo, come diceva Madame de Ségur, i giurati di Stoccolma «ont des idées».

Madame de Ségur diceva probabilmente così, ma forse qualcuno non capirà. Il francese ormai lo studiano in pochi, triste ma è così. Quei pochi poi rischiano di non capire lo stesso, perché la frase di Mme Ségur è estremamente evasiva. (“Hanno delle idee? Quali idee?”) Si tratta di un eufemismo, perfetto se pronunciato nel salotto giusto, ma non su un quotidiano, dove gli articoli dovrebbero avere un fine divulgativo.

Uno scrittore deve stare «per il progresso»:

Ah, ecco. Insomma, il premio Nobel è un premio progressista. Sicuro? L'espressione “per il progresso” è virgolettata: è una citazione? Da cosa? Da un documento dell'Accademia? No. Dal testamento di Alfred Nobel? Nemmeno.

quindi niente premi a Borges e a Nabokov, che hanno (per Stoccolma) opinioni singolari sulla storia umana. Nemmeno Kundera va bene, anche se ha scritto due capolavori, perché ha idee viziose sulla letteratura - e poi ci vuole misura, anche e soprattutto nel non amare il comunismo. Sebald era troppo triste. Alice Munro racconta storie troppo minime. Bisogna stare sempre dalla parte del bene.

Naturalmente l'accademia di Stoccolma non ha mai spiegato perché non ha premiato Borges o Nabokov: i giurati si limitano a spiegare perché premiano x, non perché al suo posto non hanno premiato y e z. Qui Citati si sta semplicemente togliendo qualche sassolino nella scarpa, perché i suoi scrittori preferiti non hanno mai vinto il Grande Premio, il che è evidentemente un'ingiustizia.

Se Pamuk ha avuto il Premio, non è stato per i suoi bellissimi romanzi (figurarsi, quelle mescolanze intollerabili di miniature persiane e assassinii), ma perché è anti-razzista.

...poi un bel giorno un autore che piace a Citati vince il Nobel: e lì cosa succede? Forse che Citati si rallegra? No: scuote la testa e dice: “Voi non siete in grado di tollerare quelle mescolanze di miniature persiane. Lo avete premiato solo perché è anti-razzista”.

Ed è anche consigliabile non essere troppo intelligente (peccato gravissimo).

Alè. Come dare in dieci mosse del fesso a un centinaio di scrittori del Novecento. Ammirate e imparate.

Non saprei esattamente quali e quante siano le dosi che compongono lo scrittore-Nobel. Probabilmente, qualche dose di Gunther Grass, di Pearl Puck, di Quasimodo, di Giosuè Carducci, di Hemingway, tagliate, oliate e frullate da un cuoco di vaglia.

Altri autori che non piacciono a Citati. Avete presente quei blogger sedicenni che sotto la testata spiegano quali sono i divi preferiti e quelli detestati? Citati è così, sixteen forever. (Da notare anche la sciattezza formale: tre refusi su cinque nomi! “Gunther Grass” si scrive Günter Grass, “Pearl Puck” è in realtà Pearl S. Buck, e persino Giosue Carducci sarebbe meglio scriverlo senz'accento! Citati non lo sa, ma è sopravvissuto all'ultima generazione di correttori di bozze competenti, e da qui in poi commetterà errori imbarazzanti).

Insomma, lo scrittore-Nobel è identico allo scrittore-Campiello.

Vedete, è in queste piccole cose che si rivela la grandezza (o la piccolezza) di uno scrittore. C'è gente che parlandoti di un chicco di grano riesce a farti vedere l'universo: a Citati invece danno da spiegare come funziona il più prestigioso premio letterario mondiale, e finisce per produrre una frecciatina da salotto italiano rivolta a cinque, sei persone.


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Ma dove avevo messo l'alba, ah... ecco.

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Si riparla in questi giorni della Scoperta dell'alba, un libro che tutti hanno comprato e letto tranne i bloggers, questi fighetti insopportabili che hanno tempo solo per i saggi di DF Wallace. Tutti uguali.

Tutti tranne me. Sì, perché io l'ho letto, La scoperta dell'alba. Comprato in edizione Rizzoli Oro a 6€. Letto in un cesso a Rotterdam, un anno fa, proprio nella speranza di trovare qualche spunto per un pezzo su Veltroni. A questo ti riduce, un blog. 
Qui ci sono i miei appunti per una recensione, abbozzata due anni fa e mai terminata, perché fino a qualche mese non aveva molto senso pubblicare cattiverie gratuite su WV; e poi evidentemente avevo roba migliore da farvi leggere. E adesso? Adesso no.

Giovanni Astengo di mestiere legge le biografie delle persone normali, quelle che non hanno ancora aperto un blog e pubblicano i libri a loro spese. C’è un archivio a Roma dove li conservano (deve essere un pozzo enorme, che arriva fino al centro della terra), e lui li legge nel suo ufficio, con la musica classica in sottofondo. Anche a lui piacerebbe avere una storia da scrivere, e alla fine del libro ci riuscirà.

Intorno a lui il mondo dà segni di cedimento strutturale (terremoti e carestie alla tv), la moglie è in Europa per affari, il figlio primogenito è in California, disperato per essersi portato con sé la sorella, afflitta da sindrome di Down, che ha sviluppato un affetto morboso per lui, ma tutto questo è secondario, perché Giovanni Astengo sta finalmente per avere una storia, di quelle che si leggono sui libri.

Giovanni ha 40 anni, ed è orfano da quando ne aveva 9. Suo padre, già sessantottino in carriera, poi giovane barone della facoltà di architettura, sparì nel 1977, proprio la mattina che doveva portare il piccolo Giovanni allo stadio; e se non è un trauma questo. Ma forse il mistero di quella sparizione può finalmente essere risolto, perché nella vecchia casa al mare Giovanni ha trovato un vecchio telefono nero grazie al quale è in grado di comunicare con… sé stesso nel 1977, quand’era bambino! Giovanni, si capisce, avrebbe una gran voglia di parlare di figurine e di carosello, di John Lennon che è ancora vivo, ma si contiene, perché per prima cosa vuole capire cosa è successo al padre. Fingendosi lo zio di sé stesso, riesce a convincere il bambino che era a fare qualche indagine nei cassetti del padre appena scomparso. Quello che scoprirà, lo guarirà per sempre dalla morbosa attrazione per il suo passato. Meno male, perché nel frattempo c’è stato un altro tornado, il figlio californiano sta quasi per strozzare la sorella, e la moglie è sempre in giro.

Quello che volevo fare a Rotterdam era intrinsecamente stupido. Se avessi voluto farmi un’idea sul politico Veltroni, non avrei avuto che da scegliere un volume: ne ha scritti sei. Invece volevo affidarmi all’unico romanzo che ha scritto, vale a dire a quell’unico testo in cui senz’altro non dice la verità, ma racconta una storia. Mi fido più di un bugiardo, perché il bugiardo è costretto a inventare, e dove troverà il materiale per le sue invenzioni, se non nella sua… anima? O nel suo inconscio, sì, è uguale. Ero convinto che Veltroni si fosse scoperto di più nel suo romanzo che in tutte le sue interviste e relazioni; e poi speravo che da narratore fosse meno noioso. Ecco, non è proprio così. La scoperta dell’alba è un libro breve e deprimente. Ci ho messo un poco a capire perché il protagonista non riuscisse a ispirarmi neanche un briciolo di umana simpatia, finché verso la fine ho avuto un’illuminazione: non ride mai, non ha il minimo senso dell’umorismo. La cosa mi ha un po’ atterrito, perché ho cominciato a pensare se avevo mai visto o sentito Veltroni fare una battuta divertente, e mi sono accorto di no.

Poi però ho pensato: cos’è il senso dell’umorismo, se non un meccanismo di difesa? Io l’ho sviluppato quando i miei compagni di classe hanno cominciato a crescere mentre io restavo in fondo alla fila. Ma Veltroni è cresciuto regolarmente, diventando ogni anno sempre più alto e più potente: capoclasse, segretario di sezione, segretario di partito, sindaco, che bisogno ha di fare le battutine? Corollario: i romanzi lasciateli fare ai perdenti, che hanno un sacco di humour.

Quando lo humour non ce l’hai (o non vuoi usarlo), il rischio è sempre quello di scivolarci sopra involontariamente. E in effetti ogni tanto La scoperta dell’alba strappa un sorriso suo malgrado. Alcuni esempi: verso la fine Giovanni va a incontrare un’ex terrorista, assassina pentita, che fa la bibliotecaria. È convinto che c’entri qualcosa con la scomparsa del padre, e le tiene il seguente discorso:
“Lei con quelle pallottole non ha spezzato una sola vita. Ne ha spezzate molte. Il suo proiettile ha superato il corpo di quel pover’uomo, è uscito da lui, ha superato angoli di strade, attraversato piazze, salito scale, sfondato porte [sfondato? Non bastava forarle?] ed è arrivato alle gambe di una donna e di una bambina. Poi è proseguito ancora. Ha fatto ancora chilometri, indisturbato, è entrato nella mia casa e ha spezzato altre gambe, quelle di mia madre e le mie”.
Sì, va be’, la pallottola intelligente. Le manca solo di impattarsi con un sasso e rimbalzare nella testa di un manifestante. Certo, ho capito, è una metafora dell'eterogenesi dei fini, in quella pallottola ficcanaso c'è senz'altro il ritratto di tutta una generazione che ha smarrito la sua direzione rettilinea ecc. ecc., ma io riuscivo solo a pensare alle pallottole messicane di Roger Rabbit col sombrero e i mustacchioni, olè olè, gringo.
“Che fai, ti fermi ancora?” mi disse un collega che stava andando via dal piano deserto.
“Sì, un po'”. Nel computer avevo messo la mia musica preferita, le romanze più famose reinterpretate al pianoforte da Danilo Rea e la nona delle Enigma Variationis di Elgar, il brano che più di ogni altro mi stringeva il cuore.
[A questo punto parte la musichetta di Mission: Impossible, e il collega si leva la maschera: è Renato Brunetta! Fermo, Giovanni Astengo, ti ho sgamato: in luogo di lavorare in modo produttivo passi le ore a sviluppare gusti musicali radicalsciccosi. Licenziato in tronco! Va' a scoprir l'alba a ca' tua, va']

[Cose che proprio non mi piacciono]:
1. Il Forrest-Gumpismo. Dicesi Forrest-Gumpismo la tendenza a rivisitare il passato recente in una collana di momenti topici, infilando a forza i personaggi in tutti gli avvenimenti storici rilevanti (vedi il fondamentale contributo di Manu). In Italia ci sguazzano un po’ i vari autori di noir, ma l’oggetto forrest-gumpista in assoluto è La meglio gioventù di Giordana, dove se due ex coniugi si danno un appuntamento durante gli anni Ottanta, dev'essere per forza la sera di Italia-Germania al Santiago Bernabeu con le comparse che ascoltano la telecronaca di Martellini alla radio, cioè, hai capito spettatore scemo? Siamo negli anni Ottanta! Rossi! Tardelli! Altobelli! Gli autori forest-gumpisti di solito raccontano sempre la stessa storia: eravamo giovani e pieni di speranze, a Firenze ruppe l’Arno, poi occupammo l’università, poi i più bravi si laurearono e si misero a lavorare nella stessa università, mentre i più nervosi si infilarono nella lotta armata, che fu brutta brutta brutta. La scoperta dell’alba è una delle cose più forrest-gumpiste che ho letto: sembra che la storia d'Italia si sia dipanata esclusivamente nell'isolato dove vive il protagonista. Il papà di Giovanni conquista la cattedra proprio nel ’68 (sei mesi dopo non sarebbe stato abbastanza simbolico) e si disillude definitivamente nel ’77, mentre gli autonomisti gli sparano sotto casa. Tutto plausibile, ma noi che nel frattempo vivevamo in provincia lo troviamo un po' stiracchiato.
2. Dal Calvinismo al Baricchismo. Le piccole epifanie del quotidiano. I grandi exploit degli eroi dello sport, celebri e sconosciuti. Le persone che c’hanno delle storie da raccontare. L’autore è convinto di rifarsi a Calvino, ma gli riesce tutto così terribilmente Baricco. Forse il baricchismo è il destino degli emuli di Calvino. Forse a furia di far leggere Calvino a scuola abbiamo trasformato Calvino in un mito adolescenziale, meno nocivo di Kurt Cobain, ma non è detto... il figlio di Astengo è un maniaco del tardo Calvino, quello combinatorio che presso i critici è caduto un po' in disgrazia, ma lui ne va matto. Se non è indaffarato a gestire la sorella down che i genitori ignorano, potete essere sicuri che è in camera di suo padre a disturbare il suo flusso di coscienza raccontando la struttura del Castello dei destini incrociati o, in alternativa, le grandi imprese di sconosiuti cestisti NBA. A un certo punto gli scappa detto che Michael Jordan e Marcovaldo “sono un po' la stessa persona”. Eh? in che senso? Va bene, sei un ragazzino, anch'io magari alla tua età amavo Mohammed Ali e Guido Gozzano, ma mica li pasticciavo assieme.

[Cose che (un po') mi sono piaciute]:
1. La trama sembra un episodio di Twilight Zone (in italiano: Ai confini della realtà). Quei brevi racconti con un'idea fantastica, veri esercizi intellettuali, ma sempre con l'umanità in primo piano. Di autori italiani capaci di scrivere un episodio di Twilight Zone non ce ne sono poi così tanti.
2. Di buono c’è la scoperta finale: il passato non è tutto rose e madeleine, il passato è una truffa, una finzione, una cosa schifosa. Giovanni distrugge il telefono magico e torna alla vita. Il problema è che il libro si ferma proprio lì: è un libro che dice “guarda in avanti”, ma per un centinaio di paginette ha guardato quasi soltanto all’indietro. Oddio, però con un argomento del genere si potrebbero anche stroncare Les liaisons dangereuses, Le anime morte, la Bibbia, ecc. 

Ma insomma, il finale ha qualcosa. Piantiamola col culto del passato, piantiamola di frignare perché il papà non ci ha accompagnato alla partita, rompiamo i vecchi giocattoli e preoccupiamoci del mondo che va in rovina. Sono d'accordo. È il libro che consiglierei a Veltroni.
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“La persona che ha una così detta «depressione psicotica» e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette «per sfiducia» o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme”

David Foster Wallace, Infinite Jest (ma l'ho ritrovato su Malvino).
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dei bambini non si sa niente

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In fondo io e te non siamo altro che mammiferi, per cui potete farci qualsiasi cosa, purché non tocchiate i bambini! Noi vogliamo tanto bene ai bambini!

Passaparola: c'è un tizio che va in giro per le spiagge d'Italia in apecar, indovinate cosa fa, è un vero mostro, con la sua demoniaca macchina fotografica egli fotografa i bambini! I nostri bambini! Gli ruba l'anima e la mette su internette!

Non passa giorno che in tv non si parli di qualche bambino scomparso, di qualche traffico d'organi, in tv hanno così cura per i nostri bambini. Non resta che barricarsi in casa, non divulgare foto né ecografie, per il bene dei nostri bambini! Perché noi sappiamo cosa è bene per i nostri bambini. In sostanza, la cosa migliore è tenerli in casa davanti alla tv.

Capito, piccolo? In spiaggia non ti ci porto, c'è il maniaco fotografo di bambini. Al centro commerciale no, basta voltarsi un attimo e finisci riciclato in qualche traffico di cistifellee di bambini. Invece qui in soggiorno c'è tutto quel che vuoi, il lego, le macchinine, il dvd di Nemo coi contenuti speciali, oppure anche solo la tv, puoi accenderla se vuoi, non può farti male la tv... a meno che...

Oddio, non ci posso credere, c'è uno stronzo che sta raccontando il finale di Harry Potter! Senza preavviso! Tappati le orecchie, presto! No! E' troppo tardi! Troppo tardi!

Maledetti!
Ma vi rendete conto?
Ma lo sapete come sono fatti i bambini?
Ma vi preoccupate mai veramente per loro?
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e dimezzare i compensi a Citati?

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Non è (più) un mestiere per Signorine

Uno fa il possibile per riuscire gentile e simpatico con tutti, o almeno con le signore, i bambini e gli anziani. Però non è sempre possibile.

A volte uno deve parlare chiaro, a costo di sembrare sgradevole. La verità è sgradevole. La verità è che Pietro Citati non ha capito nulla della scuola, della società e dell’Italia. Proprio lui, che vorrebbe raddoppiarmi lo stipendio? Proprio lui.

La sua totale ignoranza, nel senso etimologico naturalmente, il suo totale non capirci nulla di quello che gli succedeva 70 anni fa e di quanto gli sta succedendo oggi, getta un’ombra inquietante sulla cultura. Se avesse passato 70 anni legato in una grotta – ma no, Citati ha studiato, ha viaggiato, ha letto, ha scritto. Possibile che non sia servito a nulla?

Citati ha la sua ricetta per salvare la scuola in Italia. Ce l’abbiamo tutti. Siamo tutti esperti, dal momento che in una scuola italiana ci siamo pur entrati, anche se è stato 60 anni fa. Ma la scuola che descrive il pregiato critico è una decalcomania imbarazzante. Ci siamo tutti innamorati di una brava insegnante al ginnasio: ma appunto, è stato il ginnasio. La vita poi ci prende a ceffoni quanto basta per farci scoprire che dietro spiegazioni che sembravano chiare stanno fenomeni tutt’altro che semplici; che Machiavelli o Guicciardini non sono amici nostri, ma personaggi storici che vivevano in un mondo radicalmente diverso dal nostro. Perlomeno, oggi la nostra scuola lo fa, o ci prova. Citati no. Lui è rimasto al ginnasio. Lui gli autori li ama. Ci parla, li sogna, "si identifica", ci scrive le letterine.

Citati non è che abbia un progetto di scuola futura da proporre. Ci mancherebbe. Ha solo un’età dell’oro da rammentare. Indovinate un po’: è la sua infanzia. Le maestre erano più amorevoli, Machiavelli e Guicciardini due simpatici compagni di gioco, e probabilmente anche la marmellata nei panini imbottiti era di qualità superiore. Sì. Il mondo era veramente stupendo. In questo mondo, badate bene, le maestre venivano pagate male come adesso, ma erano brave lo stesso, perché… non c’è un perché, è così è basta.

Esisteva l'inconscia convinzione che i professori non appartenessero a nessuna classe sociale: ma ad uno strano regno, dove né danari né vestiti né vacanze costose avevano importanza.

Tutto questo sarebbe naturalmente durato per sempre, se l’armonia universale non fosse stata turbata da un mostro immateriale, chiamato da alcuni “Ministero” e da altri “politica”.

Ci furono periodi relativamente decorosi. Quello, per esempio, nel quale l'insegnamento nelle medie e nei licei fu assunto, quasi esclusivamente, dalle donne: lo stipendio era basso, ma integrava quello del marito; e poi rimaneva tutto il pomeriggio libero da dedicare ai figli. Ma questo interludio non fu lungo. Presto il Ministero elaborò una quantità mostruosa di materiale burocratico o semiburocratico e paraburocratico - riunioni, commissioni, moduli, discussioni, aggiornamenti, delirii - che distrussero i bei pomeriggi liberi, nei quali passeggiare o giocare con i figli.

La prima caduta dall’età dell’Oro, secondo Citati, fu il momento in cui l’insegnamento smise di essere una professione part time per diventare un delirio burocratico. E si capisce. Perché l’insegnante che amoreggia con Guicciardini dovrebbe “aggiornarsi”? Forse che Guicciardini ha pubblicato qualcosa di nuovo? Perché dovrebbe partecipare a riunioni coi colleghi sull’andamento della classe? Perché dovrebbe convocare genitori o essere convocato da psicologi? Citati non sa, non immagina, che anche nella sua epoca felice il pomeriggio delle brave maestrine era spesso consacrato alla correzione dei compiti, e non alle passeggiate al parco coi bambini.

Segue la descrizione del “rapido disastro” della scuola negli ultimi trent'anni. Le cause furono innumerevoli: le conseguenze del voto politico negli anni dopo il 1968 (Citati, che in quegli anni viveva sul pianeta Goethe, è convinto che gli insegnanti abbiano dato “voti politici” per lunghi anni: ci sarebbe da mettersi a ridere, se non ci si trovasse davanti a uno dei protagonisti della nostra cultura) la riforma della scuola elementare, che vide la dissennata suddivisione tra i maestri (come se un solo maestro non fosse capace di insegnare sia aritmetica sia italiano) (qui evidentemente il pregiato critico sta parlando di una riforma che non conosce; del resto, come si vedrà, la sua conoscenza dell’aritmetica è molto approssimativa, e forse la sua maestra delle elementari c’entra per qualcosa). L'immissione, per motivi politici, di moltissimi pessimi insegnanti: la conseguente mancanza di posti per i giovani laureati. Ecco.

Quando parlate di egemonia marxista nella cultura italiana, ricordatevi di Citati. Spiegatevi com’è possibile che in decenni di egemonia culturale questo personaggio abbia potuto sopravvivere, scrivere, vendere, farsi apprezzare, dal momento che la sua visione del mondo è quanto di meno marxiano si possa immaginare. Per lui le classi sociali non esistono: esistono solo maestre appassionate che vivevano in un mondo a parte dove potevano amare il loro lavoro, passare pomeriggi nelle panchine coi figli, e guadagnare nulla. I conflitti degli anni Sessanta non nascono dall’avvento della scuola e dell’università di massa; è solo stata una fase infelice segnata da cortei di ragazzacci che chiedevano il sei politico. Non ci sono nemmeno conflitti generazionali, no; la “Politica”, un mostro tritacarne, genera dal nulla “moltissimi pessimi insegnanti” e li immette nel mercato del lavoro per pura cattiveria. Don Milani non è nemmeno il simpatico prete veltroniano: Don Milani semplicemente non è mai esistito.

Così decrepito da avercela ancora con gli strutturalisti, Citati è convinto che i libri di testo siano infestati dai seguaci di Gérard Genette. E poi ce l’ha con Svevo. Secondo lui i quindicenni non lo possono capire, devono leggere Delitto e Castigo. Io l’ho letto, a 15, Delitto e Castigo. Parlava della Russia: mi ricordo un mazzo di chiavi un’accetta e poco altro. Della Coscienza di Zeno, a 16, ho un ricordo fulgido. È uno dei libri che mi hanno fatto capire cos’è l’uomo. Ricordo il mio compagno di banco, che non sottolineava mai nulla (disegnava soltanto qualche pisello con la matita nei momenti di stress), ma che in uno spazio bianco sotto al finale della Coscienza di Zeno aveva scritto SACROSANTO: a caratteri di scatola, come se si trattasse di scrivere Juve Merda. Lo avete presente tutti il finale di Svevo, no? Il pazzo un po' più ammalato degli altri che si arrampica al centro della terra e la fa esplodere.

(“Perché hai scritto questa cosa?”
“Perché è... sacrosanto”.)

Il pazzo un po' più ammalato degli altri che fa esplodere il mondo, e tutto torna pulito. C’è qualcosa che un quindicenne di oggi non possa capire? La scuola ha tanti problemi, ma Citati non è la soluzione. Al massimo è uno dei problemi.

Citati in realtà è il migliore rappresentante dei difetti della nostra scuola: difetti non sessantottardi, ma gentiliani. Le sue stime tese a dimostrare che economizzando qua e là si potrebbe raddoppiare il salario agli insegnanti testimoniano le carenze di una scuola tutta Latino e Greco, che partorisce ignoranti di matematica ed economia. La sua riduzione della Storia a grandi personaggi, la sua riduzione della Letteratura a grandi scrittori, la sua incapacità di vedere i problemi e le evoluzioni del mondo, testimoniano i ritardi di un sistema scolastico più vicino a Plutarco che a Foucault. È un mondo col quale dobbiamo chiudere, prima o poi. A costo di essere un po’ sgradevoli – del resto la vita è sgradevole.

Non è un sogno Biedermeier, con lungi pomeriggi tra passeggini e panchine; il lavello è pieno e non verrà nessun domestico a rigovernare. La cultura non è un'attività di lusso della classe agiata: è un lavoro che crea un valore, per una società che ne ha più o meno bisogno. E lo è sempre stato. E Citati dov'era? In casa sua, a identificarsi con Kafka e Proust. Va bene. Ma che non salti fuori adesso: senza offesa, è un po' tardi.

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scusa se ti chiamo Kitsch

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Qualche metro sopra Moccia

Caro Sandrone Dazieri,

Complimenti per il blog, che trovo interessante e scritto bene. Però la tua difesa dei “romanzi di Moccia” non m’ha troppo convinto.

i romanzi di Moccia, e quindi Moccia autore, hanno un enorme pregio: hanno fatto leggere una generazione di non lettori: prima le ragazze, poi i ragazzi, forse un po’ costretti dalle fidanzate.
Grazie ai suoi libri centinaia di migliaia di adolescenti che non avevano mai messo piede in una rivendita di libri, se non per ordinare con disgusto e fatica i testi scolastici, hanno cominciato a frequentare librerie, centri commerciali, remainders. Hanno cominciato a scoprire il gusto per una cosa difficile come isolarsi dal resto del mondo, senza playstation e senza chat, senza televisione, senza la compagnia degli amici, “solo” per leggere. Per immaginare, per sognare, per soffrire attraverso la carta stampata. Vi pare niente?


Non saprei, perché io – a differenza di te – Moccia proprio non l’ho letto. Per quel che ne so potrebbe essere l’autentico Shakespeare della mia generazione, e ne sarei felice (ma coi Romei e le Giuliette basta, grazie). Eppure questa tua difesa d’ufficio della lettura, di qualsiasi tipo di lettura, mi spaventa. Da quel che scrivi si direbbe che “isolarsi dal resto del mondo… solo per leggere” sia comunque un’esperienza positiva. Indipendentemente dai contenuti. Quel che scrive Moccia non ti piace; ma se è servito a “immaginare, sognare, soffrire attraverso la carta stampata”, va bene. I contenuti arriveranno.

Questo è il punto: arriveranno? Nel finale tu tiri fuori un argomento a doppio taglio: le mamme.

chi disprezza i romanzi d’amore, si ricordi che è stato grazie ai paperback con cuori infranti e aviatori romantici che un’intera generazione di donne dei ceti meno abbienti ha cominciato a leggere. Le nostre nonne, le nostre madri. Moccia sta facendo lo stesso con i nostri figli. Se qualcuno di loro comincera’ un giorno a leggere Ellroy, De Lillo o Sciascia, lo dovremo anche a lui.

Ecco, queste mamme che sono arrivate a Ellroy partendo da Liala francamente non le conosco. Naturalmente ho un’esperienza limitata – la mia per esempio è arrivata a Dick, ma partiva da autori popolari ma già più problematici, come Asimov. Invece ho il grosso dubbio che chi sia partito da Liala – senza fuggirne via immediatamente – sia rimasto a Liala: nel corso delle decadi naturalmente è cambiato lo stile delle copertine e la consistenza della carta, sono cambiati i nomi degli autori e dei personaggi, sono state introdotte scene di sesso e scene di shopping; però in sostanza il modello è rimasto quello. E la domanda rimane la stessa: isolarsi dal mondo per leggere un romanzo rosa, o di chick-lit, come la chiamano oggi, è comunque un’esperienza positiva? Un propedeutico a Proust o a Musil? E se invece fosse, più semplicemente, un ghetto?

Anch'io credo che la lettura sia importante, ma non qualsiasi lettura. Francamente non so se Moccia sia una lettura buona o cattiva, ma presumo che esistano letture “cattive”. Libri che impoveriscono chi li legge, sia dal punto di vista dei contenuti che dal punto di vista della lingua. Libri che rinchiudono i loro lettori invece di aprire i loro orizzonti: esattamente come esiste una musica che impoverisce chi la ascolta. Non mi sognerei mai di consigliare a un adolescente i successi di Bob Sinclair perché sono pur sempre meglio del silenzio, e poi piano piano arriverà a Mozart. No. Avrei paura di diseducargli l’orecchio in una fase delicata della sua crescita, a rischio di allontanarlo per sempre da Mozart. Allo stesso modo, anche se credo che alcuni videogiochi siano un’esperienza intellettuale e formativa, non gli permetterei di passare giornate intere con uno sparatutto, perché è sempre meglio di non avere la playstation accesa. Sarebbe un ragionamento delirante.

Ma è lo stesso ragionamento che tu fai con la lettura: piuttosto di non leggere niente, lasciate che leggano Moccia. Certo, ci sarà chi da Moccia passerà a Tolstoj o Kafka. Ma temo che siano le stesse persone che a Kafka ci sarebbero arrivate anche passando da Calvino. Gente che vive in case piene di libri, che possono incontrare quando vogliono.

E invece ci sono ragazzini che nella vita avranno l’opportunità per scontrarsi con un libro soltanto una o due volte; e se quel libro è povero, c’è il rischio che l’avventura finisca lì. Davvero un libro povero può far venire voglia di leggerne uno ricco? Un pacchetto di patatine industriale mi fa venire voglia di aragosta? Non lo so. Ho solo il sospetto che le cose siano più complesse.
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Che tu t'intenda di tornio o di computer; di pianoforte o di niente, semplicemente; che tu sia bianco o nero, giallo o marron; non importa. Se sei italiano, ti tocca fare il tema d'italiano. Come il battesimo e i tre giorni, quei quattro fogli protocollo ogni mesemmezzo di scuola non te li leva nessuno.

Che poi, a cosa serve il tema d'italiano? A diventare più bravi. Bravi a fare cosa? A fare il tema d'italiano. C'entrerà col fatto che l'Italia è ricca di editorialisti e corsivisti, tutta gente che al liceo prendeva ottopiù. I più sfigati, invece, aprono i blog, dove possono continuare a scrivere temini d'italiano tutta la vita (e qualcuno che ti dia un ottopiù lo trovi sempre). Ma di chi è la colpa? I titoli di quest'anno ci suggeriscono una pista. Impervia, scabrosa, ma affascinante. La pista ligure.

È tutta colpa di… Eugenio Montale

Oddio, tutta colpa sua, no: ma le sue brave responsabilità le ha.

Per esempio, è il principale responsabile di un fenomeno frequente nei mesi finali del quinto anno, e cioè lo stilnovismo di ritorno. La donna angelicata, inavvicinabile, che salva il povero poeta con uno sguardo o viceversa, lo danna negandogli un saluto… insomma tutto l'apparato iper-romantico che nella migliore ipotesi era stato introiettato e metabolizzato nel terzo anno, con Tanto gentile e tanto onesta pare etc.. (Per fortuna che dopo Dante e Petrarca c'è Boccaccio, a incoraggiare la socializzazione tra studenti di sessi opposti). Chi poteva immaginarsi che lo stilnovismo sarebbe rientrato dalla finestra, proprio a metà del Novecento? Quando poi i diplomandi cominciano a chinare la schiena nel corridoio, e tremano e non riescono a salutare la biondina del quarto anno che pare splendere di luce propria, di chi è la colpa? Di Marylin Manson, magari. Ma una volta su cento, sarà pure colpa di Eugenio Montale.

Si veda la poesia proposta alla maturità, la Casa sul Mare. È degli anni Venti, ma avrebbe potuto essere dei Quaranta. Sempre la solita storia, la vita è male, il viaggio è finito, forse tu ti puoi ancora salvare, lo spero tanto, addio. E a quel punto ti immagini il giovane Eugenio morente tra le braccia, non so, di Greta Garbo, e un crescendo di violini della Paramount:

Greta: "Eugenio, sono io!"
Eugenio: "Tu… ma ormai è troppo tardi. Addio".
Greta: "No! Eugenio! Non dire così! Possiamo farcela".
Eugenio: "Tu. Tu puoi ancora farcela. Salvati finché sei in tempo".
Greta: "Oh, Eug…"
Eugenio: "Vorrei prima di cedere segnarti codesta via di fuga labile come nei sommossi campi…"
Greta: "Eugenio! Ma perché non si capisce mai quello che dici…"

Perché usava parole strane (atte a farsi apprezzare dai prof di lettere), sembra un poeta più serio d'altri, quel giovane Montale: ci vuole un certo sforzo esegetico per rendersi conto che, tutto sommato, è solo il classico poeta un po' disperato e un po' timido con le ragazze. Per capire la sua poetica, gli studenti sottolineano l'espressione "Correlato Oggettivo", qualcosa che Montale pretendeva di aver inventato in anticipo su T. S. Eliot: in sostanza, una pratica di bigiotteria interiore, per cui qualsiasi ninnolo, un orecchino, una forbice, una carrucola, una biella, diventava rappresentazione del male di vivere (o della donna-angelo, a scelta). E a quel punto la poesia diventava una cornucopia di soprammobili, tabacchiere, foto ingiallite, cocci di bottiglia, cassettini, scantinati, se siete un po' allergici agli acari e alle muffe non vi consiglio la poesia di Montale.

Qui bisogna aggiungere una cosa: nel suo eterno rovistare cantine e solai, nel suo riverniciare in stile Novecento carabattole stilnoviste e arie di melodrammi, Montale è stato il migliore. Se il poeta è un artigiano di parole, in Italia non ce n'è stato uno più bravo di lui. Ma – questo è il punto – il poeta nel Novecento voleva essere un'altra cosa. Un progettista. Il secolo era iniziato a furia di manifesti, decaloghi, diktat: "le poesie si fanno così e così". Poesie automatiche, facili da comporre, bastava seguire le istruzioni. Varie volte nel secolo si è riproposta quest'ansia progettatrice, che magari non creava belle poesie, ma formava generazioni di aspiranti poeti. Tra una generazione e l'altra, rispuntava Eugenio Montale, puntuale come la risacca. Montale non spiegò mai agli altri come dovevano scrivere: lui stesso non era del tutto in grado di spiegare quel che faceva. Un vecchio falegname, che nell'era del truciolato si ostina a montare i suoi pezzi a mano. Una cosa molto veteroborghese, proprio anni Trenta, ma sulla distanza il truciolato lo sbatti via, e ai muri ci metti lui. Così, anche chi con lo stilnovismo ha definitivamente chiuso, non può fare a meno di sobbalzare ai primi tre versi: Il viaggio finisce qui: nelle cure meschine che dividono l’anima che non sa più dare un grido… forse non dice un granché di nuovo, ma si poteva dire meglio di così?

(Continua)
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