Il mio corpo è una moquette
06-07-2021, 10:12autoreferenziali, coccodrilli, concerti, musica, sessoPermalinkBuon primo maggio (un nastrone)
01-05-2020, 01:57concerti, epidemia 2020, feste, lavoroPermalinkIn compenso qui c'è una playlist. Ho cercato di mescolare le cose più banali (ma necessarie) con altre che magari qualcuno qui non ha mai sentito o non sente da mille anni, o da febbraio. Non so per voi, ma per me ormai è quasi la stessa cosa. Stick with the Union, 'till every battle's won.
Dylan stacca la spina?
11-11-2017, 02:53Bob Dylan, concerti, musica, tvPermalinkI grafici degli anni '90, sul serio, parliamone. |
Magari negli anni Novanta non c'eravate. Troppo piccoli. Ci spero (qui se non comincio a farmi leggere dai millenials tra un po' è finita). Nel vostro caso, immagino che sia facile affrontare MTV Unplugged con un forte pregiudizio negativo - l'ennesimo tentativo del Dylansauro di adattarsi ai tempi che cambiano, ai nuovi mercati, a un pubblico giovane che pretendeva di ascoltare la musica in televisione, epperò alla resa dei conti pretendeva anche le solite lagne che lo stesso BD si era stancato di suonare 20 anni prima: sul serio, chi aveva davvero bisogno di una nuova versione di All Along the Watchtower? C'era in Before the Flood, c'era in Budokan, nel disco coi Dead, ed eccola anche qui. Già. Unplugged è uno dei dischi che soffre di più del metodo che abbiamo deciso di adottare: non è un cattivo live, ma se lo ascolti durante una full immersion cronologica, ti può ispirare una certa nausea - ancora Like a Rolling Stone, sul serio? E poi che copertina brutta, che camicia assurda, che titolo poco invitante - se negli anni Novanta eravate troppo piccoli, è probabile che la sigla "MTV" vi faccia pensare, più che alla musica, ai manga e a telefilm per bimbominchia. In effetti. Ma non è stato sempre così, lo sapete? Che all'inizio la "M" di MTV stava per "musica"? E che dopo aver conquistato il cuore e l'immaginazione dei ragazzini degli anni Ottanta, nel decennio successivo MTV aveva trasceso le generazioni e i target, diventando semplicemente il luogo dove tutta la musica succedeva? Che senza MTV Britney Spears magari avrebbe avuto una dignitosa carriera post-Disney, ma i Nirvana difficilmente sarebbero usciti da Seattle? E che uno degli strumenti con cui MTV aveva costruito la sua egemonia era proprio una trasmissione in cui i divi di due generazioni si alternavano a suonare i loro successi davanti a un pubblico ristretto, con una strumentazione ridotta? Una situazione ideale per la seconda serata televisiva, un modo per trasformare anche il rock più chiassoso in qualcosa di più intimo, rassicurante. Si chiamava "Unplugged", in italiano si potrebbe tradurre "A spina staccata", e Dylan non avrebbe potuto non inciderne uno. Sarebbe stato impossibile.
Sarebbe stato anche molto ingiusto - in fondo, cos'è "unplugged" se non un set acustico? E chi ha inventato i set acustici? Chi è stato il primo a portare al pubblico perplesso non soltanto versioni elettriche dei suoi successi folk, ma anche l'opposto: riletture acustiche dei brani che aveva inciso con una band? Già ai tempi del tour del '66, quando saliva sul palco da solo per suonare Visions of Johanna e Just Like a Woman, stava suonando quello che negli anni '90 ci eravamo tutti messi a definire un "unplugged". Insomma non era Dylan ad accostarsi a MTV: era MTV che stava cominciando a capire Dylan. E poi c'era il precedente di Eric Clapton.
"Tutti mi parlavano di come Eric Clapton aveva rifatto Layla in stile acustico per Unplugged. Questo mi ha influenzato a fare la stessa cosa con Like a Rolling Stone, ma non sarebbe mai stata suonata così normalmente".
Due anni prima, Clapton aveva partecipato a MTV Unplugged con un set di un'ora - tra i pezzi suonati, l'ancora inedita Tears in Heaven e una Layla addomesticata: l'urlo d'amore primordiale trasformato in uno swing elegante per ascoltatori di mezza età. Una volta messo su CD, il concerto aveva ottenuto qualche tiepida recensione e venduto VENTISEI MILIONI DI COPIE. È tuttora il live più venduto di tutti i tempi - a questo punto possiamo serenamente concludere che sarà il disco live più venduto della storia dell'uomo. Questo credo che sia sufficiente a spiegare perché quelle due sere di novembre, a New York, la Columbia non permise a Dylan di suonare quel che voleva, un set magari davvero acustico di cover di vecchi brani folk: il risultato sarebbe stato il terzo volume di una trilogia inaugurata con Good As I Been to You e proseguita con World Gone Wrong, con ogni probabilità un disco più interessante, ma nel '95 sarebbe stato un errore quasi criminale.
Unplugged era la trasmissione musicale più seguita al mondo e Dylan non poteva rinunciare all'opportunità che gli offriva. Quella sera gli bastava suonare a volume non troppo alto i suoi migliori successi, sorridere ogni tanto al pubblico selezionato dalla Sony/BMG/Columbia, e vendere anche solo la metà di Clapton, per ottenere il suo più grande successo commerciale. Il suo Unplugged alla fine incassò molto meno, ma comunque più qualsiasi disco inciso dopo i Traveling Wilburys. Però, siamo onesti: non ci mise l'anima. Forse proprio perché il concetto della trasmissione si adattava molto di più a lui che a Clapton o ai Nirvana: per loro si trattava di rimettere in discussione strumentazioni e arrangiamenti, per Dylan era solo un set come tanti. È difficile capire, per esempio, cosa volesse ottenere con questa Like a Rolling Stone, e in che modo pensava che potesse rappresentare quel che era stata per Clapton la Layla swing del '93. Non c'è niente di swing nel modo in cui Dylan rilegge per l'ennesima volta il suo cavallo di battaglia: quel che si può dire è che è molto più rilassato del solito (forse la versione incisa a cui somiglia di più è quella all'isola di Wight), e che proprio in virtù di questa rilassatezza, il brano non finisce mai. Nove interminabili minuti. Persino Desolation Row scorre più velocemente. Poi davvero, magari a questo punto della storia sono stanco io - anche Tombstone Blues mi sembra di averla sentita cento volte, e invece è la prima versione live ufficiale. Sarà autosuggestione, ma le cose nettamente migliori di Unplugged mi sembrano gli inediti: soprattutto John Brown, che abbiamo ascoltato già al Gaslight e nei Witmark Demos, ma nel 1995 era un brano noto solo ai dylaniti più estremi. Dylan la canta con una foga e una convinzione che non mi sembra di trovare nei pezzi più famosi. Ci potrebbe essere una spiegazione vagamente politica: durante la prima guerra del Golfo (1991) Dylan aveva ripreso in concerto con una nuova convinzione alcuni dei suoi inni pacifisti: soprattutto Masters of War, di cui aveva dato una versione sguaiatissima, più-che-punk, proprio la sera di quel febbraio '91 in cui lo premiavano con il Grammy alla carriera: lo stesso brano che al concerto del trentesimo anniversario era stato rabbiosamente rivendicato dai Pearl Jam (continua sul Post).
Dal vivo col Morto
23-09-2017, 19:55Bob Dylan, concerti, musicaPermalinkPoi c'è una cosa che non è esattamente un disco di Bob Dylan).
Erano anni che il pubblico veniva regolarmente rifornito di mie registrazioni su disco, ma le mie esibizioni dal vivo non riuscivano mai a catturare lo spirito intimo delle canzoni. Non riuscivo a dar loro il giro giusto. Un certo senso di intimità, insieme a molte altre cose, era sparito. Per gli ascoltatori doveva essere stato come arrancare tra i campi abbandonati ed erba morta. [...] Sempre prolifico ma mai preciso, troppe distrazioni avevano trasformato il mio sentiero musicale in una giungla di viticci. Avevo seguito regole ben consolidate, e non avevano funzionato. Le finestre erano rimaste inchiodate per anni, coprendosi di ragnatele, e io ne avevo piena coscienza. (Chronicles I).
Giù al tappeto negli anni Ottanta
09-09-2017, 03:04Bob Dylan, cinema, concerti, fb2020, musica, OttantaPermalinkIl film andò male ai botteghini, secondo gli esperti anche a causa dei baffi di Gregory Peck. "I tuoi baffi ci sono costati milioni", gli avrebbe detto un produttore. |
Mi è venuta in mente questa cosa mentre ridavo un'occhiata a uno dei documenti più penosi che un dylanita possa reperire su Youtube - qualcuno avrà già indovinato. Mettiamola così: qual è l'evento più glorioso nella storia del rock degli anni Ottanta, quello che segna uno spartiacque che è ancora visibile da qui, oggi? Senza dubbio il Live Aid, proprio nel bel mezzo del decennio: estate 1985. È la fine ufficiale del cinismo punk e post-punk; l'apparizione abbastanza improvvisa di una nuova sensibilità più filantropica che politica. I nuovi eroi da palcoscenico non vogliono soltanto vendere dischi ed essere adorati dal pubblico pagante: vogliono essere buoni. Salvare il mondo. Proprio lo sporco mondo che fino a qualche anno fa andava bruciato, improvvisamente nel 1985 diventa cosa sacra e degna di essere salvata. Bob Geldof è il profeta, Bono il Messia, Freddy Mercury il ladrone pentito eccetera eccetera. Ma chi è che fino all'ultimo momento cercò di rovinare la festa? Senza cattiveria, ma con l'intuitiva ostinazione di chi sembra essere nato per mettere a disagio la gente alle cerimonie? Un aiutino: in fondo alla scaletta, nel set di Philadelphia, c'era il grande Bob Dylan.
Anche se forse non se ne rendeva conto. Non era il solo: il ive Aid esplose in maniera abbastanza imprevista. Fino a pochi giorni prima ne parlavano soltanto gli addetti ai lavori e il giorno dopo sui quotidiani era diventato lo show del secolo. Dylan arrivò sul set senza una band, con una vaghissima idea di cosa fosse stato organizzato e perché, in uno dei periodi più confusi della sua carriera; ma invece di fare la cosa più semplice (portarsi una chitarra, un'armonica, suonare la fottuta Blowing in the Wind e buonanotte - magari con Peter, Paul e Mary che si erano riuniti per l'occasione) decise di accollarsi Keith Richards e Ron Wood, in un momento in cui i Rolling Stones sembravano separati in casa: Mick Jagger aveva appena duettato con Tina Turner sullo stesso palco. L'approccio è quello di tre amici che dopo l'ammazzacaffè si fanno prestare le chitarre e strimpellano la prima cosa che gli viene in mente. Il problema è che i tre amici sono Bob-Coscienza-della-Sua-Generazione e i due chitarristi della band più famosa del mondo: a presentarli c'è Jack Nicholson e a guardarli strimpellare il mondo intero. Insomma forse presero la cosa un po' sottogamba. A causa del peso dei loro nomi erano stati inseriti in scaletta verso la fine: non solo il pubblico era esausto, ma dietro le quinte c'era già chi brindava e festeggiava (oppure il coro di USA For Africa che stava facendo le prove: ognuno la racconta diversa e ritiene che gli ubriachi fossero gli altri). Wood e Richards sono abituati a capirsi al volo, ma dovrebbero prima capire cosa vuol fare Dylan, che sta in mezzo, non riesce a sentirsi in spia e rompe addirittura una corda - al che Wood gli presta la sua chitarra e in attesa del rimpiazzo resta sul palco a gesticolare come un ragazzino. Dietro c'è un gran baccano. Blowing in the Wind stavolta è veramente fottuta, chitarre scordate, uno strazio.
Gregory Peck, negli anni di KO Loaded, faceva Lincoln nella serie TV "Il buio e il grigio" (e com'è ovvio ricordava terribilmente il capitano Achab). |
Dicevo che in quel film Gregory Peck fa il pistolero che non ne può più - attraversa il deserto perché dall'altra parte c'è una donna che amava, addirittura un figlio che non ha mai visto. Tutto quello che vorrebbe è sistemarsi in qualche fattoria. Ma i ragazzini, i ragazzini non lo lasciano in pace. Lo sfidano, si fanno ammazzare, e a quel punto naturalmente salta fuori qualche altro ragazzino che deve vendicare l'amico, il fratello, il cognato: non finisce mai.
La breve apparizione di Dylan al Live Aid si potrebbe anche liquidare così: credeva di essere a una festicciola, si fidava di amici in realtà confusi quasi quanto lui, nessuno gli aveva spiegato che era la vedette finale di un Grande Evento Storico. Insomma un equivoco spiacevole. E però la scaletta suggerisce che non fosse del tutto inconsapevole. Come al solito la cambiò fino all'ultimo momento. Ron Wood racconta che mentre saliva sul palcoscenico lo mandò nel panico proponendo all'improvviso di intonare All I Really Want to Do: una filastrocca che forse i due Stones si erano dimenticati, ma che per Dylan vent'anni prima aveva rappresentato il primo dei tanti disimpegni: quello dal movimento politico. Al Live Aid alla fine Dylan non cantò "voglio solo essere vostro amico", ma la storia di Hollis Brown, il contadino del Midwest che stermina la famiglia e si suicida per la fame. Una scelta non banale e apparentemente appropriata a una sera in cui si raccoglievano fondi per l'Etiopia, senonché al termine Dylan buttò lì che magari un paio di milioni dell'incasso si sarebbero potuti stornare "per pagare l'ipoteca su alcune fattorie che i contadini di qui devono alle banche". Tirava aria di crisi anche nel Midwest rurale: il pubblico della mondovisione magari non ci aveva fatto caso, Dylan sì. Qualche mese dopo Neil Young organizzò addirittura un Farm Aid, che molti considerano direttamente ispirato dalle parole di Dylan: quest'ultimo in quell'occasione si preparò per bene con gli Heartbreakers e fece uno show di ottimo livello. Invece, nella sera in cui si teneva a battesimo il Rock Buono, Dylan arrivò ubriaco come una vecchia rockstar (con una scorta di vecchie rockstar altrettanto ubriache); non urlò "America First!" ma ci andò vicino, e prima di massacrare Blowin' in the Wind inflisse ai due Stones e al pubblico un altro brano del passato remoto, When the Ship Comes In - vi ricordate in quale altra occasione, a dispetto di ogni ragionevolezza, aveva cercato di rovinare una festa con la stessa canzone? La marcia di Washington, esatto. E ora non c'era più Joan Baez a metterci una pezza, ma Ron Wood a fare air guitar. Magari è solo una coincidenza. Ma dopo Washington l'aveva cantata dal vivo soltanto altre due volte; non la tentava da vent'anni e dopo il Live Aid l'avrebbe accantonata per sempre. È un pezzo antipatizzante, che dice che la Salvezza arriva all'improvviso e non fa prigionieri: non è un pranzo di gala né un concertone benefico. Chi ne è degno sarà salvato, gli altri affogheranno. Amen.
E così Gregory Peck attraversava il deserto e arrivava in questa città di compensato - sai quelle cittadine western montate negli studios - e ovviamente la sua vecchia fiamma non voleva parlargli, e il figlio non sapeva chi fosse: e qualcuno aveva un conto in sospeso, o voleva soltanto farsi un nome. Ma forse sarebbe meglio che cominciassi a parlare di Knocked Out Loaded, il disco che Dylan pubblicò un anno dopo il Live Aid, ma che aveva già iniziato a registrare un anno prima, sempre un po' qua e un po' là senza un'idea chiara. Ai tempi pensavo che "knocked out loaded" significasse "carico di knocked out", come un pugile pronto a mandare al tappeto l'avversario: insomma un bel titolo combattivo, ecco un disco che se non state attenti vi prende a pugni! Invece significa l'esatto contrario: allude a un KO ricevuto, si può tradurre "suonato", "al tappeto". Forse non avevo mai fatto caso che verso la fine Dylan canta proprio "I was knocked out and loaded in the naked night". È che forse non ci ero mai arrivato, verso la fine. E dire che è un disco abbastanza breve. È il suo miglior pregio. Stiamo del resto parlando di un disco costruito attorno agli scarti di Empire Burlesque, le canzoni che non era riuscito a terminare in tempo per la scadenza del 1985, integrate con altri esperimenti per lo più infruttuosi del 1986. Siamo insomma al raschio del barile: qualcosa di buono ancora vien su, ma che fatica.
E infatti Gregory Peck, quando alla fine riesce a parlare alla sua ex, cala la maschera e le dice che ha finito con le pistole e i duelli e tutto quanto, e che vuole soltanto sistemarsi. Lei ovviamente è un po' scettica; magari non è la prima volta che lo sente dire: poi nemmeno nei vecchi western in bianco e nero funzionava così, che se dopo dieci anni il pistolero fa un fischio, l'ex ragazza madre è già pronta a perdonargli tutto. Lui se ne rende perfettamente conto, e chiede un anno di tempo. Se tra un anno tornassi, e avessi rigato dritto tutto il tempo, tu me la daresti una possibilità? Capisco che non puoi darmela adesso, e nemmeno promettermela, ma prometti almeno che ci penserai? Messa in questi termini è una proposta che si può dignitosamente accettare - specie se te la propone un pur baffuto Gregory Peck...
Un altro relativo pregio di KO Loaded è la disarmante sincerità. Infidels e Empire erano due dischi carichi di ambizioni, in parte giustificate in parte no. C'erano tentativi di suonare professionale, di suonare sofisticato, di suonare moderno. KO suona soltanto... suonato. È il disco di un tizio che di mestiere vende dischi e fa concerti, e prima di cominciare la stagione dei concerti deve fare uscire un disco: che sia ispirato o no. Voi andate tutti i giorni al lavoro ispirati? Dylan nel 1985/86 quasi mai. Il che non significa che non ci andasse: se uno mette in fila tutte le collaborazioni e le incisioni del periodo scopre che non stava fermo un attimo. Gli USA For Africa, il Live Aid, il Farm Aid, gli Artists United Against Apartheid fondati da "Little" Steven Van Zandt e prodotti da Arthur Baker (Dylan per la verità canta soltanto due versi, ma è stato carino da parte sua partecipare. C'era Miles Davis, i Run DMC, e nel disco c'era anche il primo vero pezzo blues degli U2, Silver and Gold, ma cantato da Bono con due amici d'eccezione tirati a lucido: Keith Richards e Ron Wood!) E poi sessioni con Dave Stewart degli Eurythmics, sessioni con gli Heartbreakers, con Al Kooper e T-Bone Burnett, sessioni con chiunque. A Cameron Crowe che lo intervistava per il libretto di Biograph aveva rivelato, con un certo sprezzo del pericolo, che stava accarezzando l'idea di pubblicare un disco di cover. È un'idea che lo aveva già portato al disastro nel 1970, ma forse chissà, col tempo aveva imparato a concentrarsi anche nel compito di interprete da studio, no?
No (continua sul Post).
Nella vecchia fattoria di Maggie
18-08-2017, 17:06Bob Dylan, concerti, musica, OttantaPermalinkNon sono io quello che cerchi, babe (migliaia di persone al Wembley di Londra, 27 luglio 1984).
E dire che sarebbe bastato così poco - l'armonica giusta al posto giusto? Fino a pochi minuti prima sembrava felice: una telecamera lo aveva sorpreso mentre alzava addirittura un pugno chiuso con entusiasmo da combattente. Stava massacrando Jokerman con la stessa furia con cui nel '74 insieme alla Band aveva affondato Lay Lady Lay, ma il risultato era molto più convincente. Dylan sembrava staccarsi dalle secche dei Dire Straits per avvicinarsi ai promontori dei Talking Heads, dove forse non avrebbe potuto approdare, eppure... Quei ragazzi ispanocaliforniani avrebbero potuto essere suoi figli - in effetti, se non fosse stato per i dischi punk e new wave che ascoltava il suo figlio maggiore, non li avrebbe mai reclutati - ma avevano la grinta giusta per abbattere il Dylansauro e assistere al parto di un mostro nuovo. E invece.
Sull'erba dello stadio della nazionale inglese c'era gente che lo seguiva ormai da vent'anni: quattro lustri passati a sentirlo cantare che non avrebbe più lavorato per la Fattoria di Maggie. All'inizio magari Maggie erano gli hipster del folk metropolitano che pretendevano che Dylan non giocasse con le chitarre elettriche, o l'industria musicale che pretendeva da lui due dischi all'anno, o il movimento dei diritti civili che voleva arruolarlo come tamburino. In seguito avevano cantato I ain't gonna work for Maggie's Farm i ragazzi americani che non volevano andare in Vietnam e quelli britannici che protestavano contro il governo di Margareth, "Maggie" Thatcher. L'avevano incisa persino gli Specials. L'avrebbero suonata dal vivo anche gli U2. E Dylan nell'estate 1984 poteva forse esimersi? Così in Real Live lo sentiamo cantare, per la duecentoventesima volta dal vivo, che non ha intenzione di lavorare più per quella fattoria (220 non è un numero a caso). No More! Anche in questo caso, l'ironia sembra inconsapevole, o al limite svagata come può essere svagato l'attore che recita per la 220sima volta la stessa barzelletta - sarebbe strano se la trovasse ancora divertente.
Dylan contro Gozzilla
15-07-2017, 00:28Bob Dylan, concerti, musicaPermalinkI got the clothes but not the face
I got the bread but not the butter
I got the winda but not the shutter
But I'm big in Japan (Tom Waits, Big in Japan, 1999).
Il risultato di tutto questo è che nel giro di pochi anni At Budokan divenne uno dei dischi meno ascoltati del suo catalogo, una curiosità per appassionati (come forse Dylan aveva previsto che fosse). Insomma io non lo avevo mai ascoltato, At Budokan, ok? Per quale motivo al mondo avrei dovuto farlo? Tutti ne parlavano male, nessuno ne aveva in casa una copia da prestare, ed era un disco doppio! Costava una follia, non conteneva un solo inedito e rappresentava una tipica fase calante della sua carriera. E anche quando la discografia intera approdò su Spotify, At Budokan restava un oggetto ben poco invitante. Il primo brano in cui incappai era quello iniziale, forse la più bolsa Mr Tambourine Man mai realizzata, con Steve Douglas al... piffero!
Vasco Rossi, Andrea Pazienza, un piccolo mistero
02-07-2017, 22:45cantare, cantautori, concerti, fumetti, musica, Ottanta, PazienzaPermalinkPotrei anche aggiungere che questo concerto - con tutte le sue assurdità logistiche, traslochi di ospedali, caselli bloccati, vigili in trasferta da tutta la regione - è stato per me perfettamente coerente con quello che Vasco è stato sin dall'inizio: un personaggio un po' fuori, non cattivo no, ma vagamente molesto, imposto di prepotenza dai fratelli maggiori. È così oggi, era così trent'anni fa. Io non ho, in realtà, fratelli maggiori, ma i miei amici sì, ed erano quelli che sul pulmino ci imponevano Vasco nei rari momenti in cui avremmo voluto e potuto condividere qualcosa di culturalmente più rilevante, oh, niente di trascendentale, i Simple Minds o i Cure, ma no: bisognava ascoltare Vasco, perché c'erano le parolacce che facevano ridere, il negro e la troia e la nostra cultura doveva essere quella lì. (Il punto è che dieci anni dopo ci erano riusciti, eravamo intorno a un fuoco e cantavamo il negro e la troia e ridevamo, di Vasco e di noi).
La BBC era la radio di Red Ronnie, credo. |
A tutti. |
Da un punto di vista biografico, i due si dovevano essere incrociati per forza: non è poi così grande Bologna. Rossi (che in un primo momento avrebbe voluto iscriversi al Dams, poi optò per Economia e Commercio) la molla nel '75 perché a Modena i subaffitti costano meno, Pazienza era arrivato da un anno. Da un punto di vista antropologico, per quanto entrambi fuoricorso cronici, erano di due tribù diverse: Vasco è un provinciale di collina, radicato nel territorio; non diventerà nessuno finché non riscoprirà la sua gente, irrorandola con la radiolina locale. Pazienza è un fuorisede, sradicato e apparentemente più cosmopolita: e poi soprattutto non aveva fratelli maggiori che gli imponessero Siamo solo noi mentre lui voleva ascoltare The Torture Never Stops. E però, insomma, parliamo più o meno della stessa città, più o meno degli stessi anni, più o meno delle stesse droghe - possibile che non si siano incontrati mai? Neanche quando erano diventati famosi e Pazienza si era messo a disegnare copertine di 33 giri per Vecchioni, per la PFM, per Caputo, per tutti? O c'era qualcosa dietro, una rimozione? Quale orribile sgarbo avrebbe dovuto commettere VR ad AP, perché lui lo condannasse alla damnatio memoriae? E quale morale dovevamo trarre da una storia che aveva fatto sopravivere VR e morire giovane AP, gradito agli Dei ma sostanzialmente sconosciuto dai duecentomila spettatori di ieri sera?
A un certo punto mi ero anche affezionato all'enigma, una specie di versione emiliana di "perché Freud e Schnitzler, vivendo a Vienna, non andavano a bersi birre insieme?" Mi faceva in un certo senso comodo, per come chiudeva due immaginari potenzialmente sovrapponibili in due compartimenti stagni: '77 bolognese e anni Ottanta in provincia, nessuna comunicazione. Alla fine si trattava di due universi paralleli: in quello di Vasco, Pazienza non aveva mai disegnato Pentothal; in quello di Pazienza, Vasco è uno sballato che mastica nel buio in un angolo di vignetta e poi scompare. Le cose non potevano che stare così, finché qualche anno fa non incappo in un video che aveva tirato fuori Red Ronnie.
Avrei dovuto immaginarlo che l'anello mancante era Red Ronnie. A proposito di rimozioni: si vorrebbe sempre farne a meno di RR, mentre è figura centrale come poche: anche lui come Vasco dj radiofonico improvvisato, ma a Bologna; tutti gli anni che noi abbiamo avuto a disposizione per sottovalutarlo, Pazienza non li ha vissuti. Lui quando disegnava a Bologna ascoltava la diretta di Red Ronnie, e quando da Bologna se ne dovette andare, Red Ronnie andò a trovarlo e lo intervistò, nell'84. Secondo RR, Pazienza aveva proprio in quel giorno appreso che la sua ex compagna stava col migliore amico. Non è che dobbiamo crederci per forza. Sicuramente era molto scosso da una vicenda sentimentale. Quando RR se ne accorge, decide di infilare il dito nella piaga, ottenendo un risultato che per anni decise di non divulgare - forse un soprassalto di pudore, o forse troppo forte lo choc della scoperta: il fumettista cinico che aveva appena pubblicato le storie più crudeli di Zanardi, era un tenero ragazzo che si struggeva perché una ragazza lo aveva lasciato. Sosteneva di avere 28 anni, ne dimostrava meno. A un certo punto - e sembra un modo di cambiare argomento, ma non lo è - Red Ronnie gli domanda di Vasco Rossi e Andrea Pazienza (che nei suoi fumetti citava Zappa, i Sex Pistols, i Residents), risponde che gli piace; con un'intuizione folle, Red Ronnie gli chiede di intonare Albachiara di Vasco Rossi: e Andrea Pazienza, disperato, vergognandosi molto, lo fa.
E all'improvviso tutto è chiaro. Un caso, fin banale, di rinvaschimento. Andrea Pazienza non ha mai parlato di Vasco Rossi perché, probabilmente, gli piaceva davvero: e di questo piacere si vergognava. Per quanti motivi avesse, come noi per non sopportarlo, di fronte a un'Albachiara e a un cuore spezzato tutti i motivi del mondo sparivano. Respiri piano per non far rumore, ti addormenti di sera e ti risvegli col sole. Sei chiara come un'alba, sei fresca come l'aria. Diventi rossa se qualcuno ti guarda e sei fantastica a... 28 anni. Ci ho 28 anni. Non ne avrebbe compiuti 33. Forse gli sarebbe piaciuto rinvaschirsi, trasformare il suo materiale ancora tanto infiammabile in qualcosa di più commerciale, più popolare; gli sarebbe piaciuto invecchiare e diventare un monumento come quello che abbiamo ammirato in tv. Forse: ma qualcosa è andato storto; e non me ne faccio una ragione.
Il circo itinerante del tuono rotolante
02-07-2017, 02:5721tw, Bob Dylan, concerti, fb2020, musicaPermalinkDylan prima e dopo il diluvio
10-06-2017, 14:31Bob Dylan, concerti, musicaPermalinkStenditi STELLA sul mio BEL LETTO D'OTTONE! Stenditi STELLA sul mio BEL LETTO D'OTTONE Qualsiasi colore tu ABBIA IN MENNNNTE Te lo mostrerò e lo vedrai SPLEEEENDERE. Stenditi STELLA sul mio BEL LETTO D'OTTONE!
La merda d'artista di Bob Dylan
21-04-2017, 17:24Bob Dylan, concerti, musicaPermalink"Cos'è questa merda?"
Riassunto delle puntate precedenti
- A 25 anni, Bob Dylan macinava due dischi l'anno di roba sperimentale, provata e riprovata allo sfinimento tra New York e Nashville; faceva tournée in tre continenti viaggiando su un vecchio boeing scassato, si teneva sveglio di notte per paura di lasciarsi sfuggire l'ispirazione per una canzone. Si faceva un culo quadro, intascava così e così, la gente ai concerti lo fischiava.
- A 26 anni lo stesso Bob Dylan aveva smesso di fare concerti pubblici, si era ritirato in campagna, incideva un disco in tre giorni senza fare promozione e... vendeva di più. Piaceva pure ai critici.
- A 27 anni non incideva un bel niente, e allora i fan ripescavano nastri abusivi, roba suonata in cantina un po' per ridere, li stampavano, e i critici applaudivano al capolavoro sconosciuto.
- A 28 incideva mezz'oretta di simpatici pezzi country, li presentava in tv e vendeva ancora più di prima, Ancora di più. E i critici continuavano ad apprezzare.
- A 29... che fare? Voi al suo posto che avreste fatto?
A Dylan venne in mente. Forse. È questione lungamente dibattuta tra dylanologi. Lo stesso Dylan in un primo momento lo escluse, poi lo ammise, poi in sostanza ritrattò. Su una cosa sono tutti concordi: Self Portrait, uscito nel 1970, è una merda. Rimane da stabilire se si tratti di una merda consapevole o di escremento uscito un po' per caso, al termine di una complicata serie di circostanze che portarono nel 1970 una merda tra tante in tutti i negozi di dischi e dritta in top ten. Che differenza fa?
Tutta la differenza del mondo. È la definizione stessa dell'avanguardia artistica: la merda in barattolo è Arte soltanto se l'Artista ne era consapevole durante l'Atto. Sennò una merda varrebbe l'altra, no?
Nel 1970 Greil Marcus aveva bisogno di un buon inizio per la sua lunga recensione del nuovo disco di Bob Dylan. L'inizio è sempre la cosa più difficile. Bisogna attirare l'attenzione, far sentire odore di controversia, appiccicarsi al lettore - funzionò. Credo sia uno dei rarissimi casi in cui una recensione è più famosa del disco che l'ha ispirata - perlomeno, la recensione la leggono tutti, l'album fanno una certa fatica ad ascoltarlo anche i fan più incalliti. Per un dylanita "What is this shit" è una frase celebre quanto "Judas!" (così come di Napoleone e degli antichi Romani si ricordano più le battaglie che hanno perso, di Dylan sono più celebri le contestazioni, le stroncature). Non era la prima volta che qualcuno osava criticare Dylan, ma nessuno aveva mai osato definire un suo disco una "m.": e a ben vedere nemmeno Marcus intendeva farlo. Era solo un'espressione di genuina sorpresa (già ai tempi "shit" poteva alludere a una più generica varietà di "roba"), di fronte al primo brano del disco, All the Tired Horses. Ma questa è la magia della prima riga: se ci scrivi "merda", anche se ti stai riferendo soltanto alla prima canzone e non stai parlando di vera merda, si sentirà puzza per tutto il restante articolo.
Il bello è che All the Tired Horses, secondo Marcus, era uno dei brani migliori (figurarsi tutto il resto). Si tratta di tre bizzarri minuti in cui Dylan non canta. C'è invece solo un ritornello, scandito per la prima volta da un coro femminile (non sarà l'ultima, ahinoi), che dice: "tutti i cavalli stanchi sono al sole, come potrò farmi una cavalcata?" Tutto qui? Tutto qui. Ma che roba è? Ecco.
È l'inizio di Self Portrait, l'autoritratto che Dylan mise assieme nel 1970; il primo disco di cui dipinse la copertina, che fa a chi la vede per la prima volta più o meno lo stesso effetto: che roba è? Smarrimento, incredulità - ci sta prendendo in giro? - e poi, se hai voglia di guardare bene, ti accorgi che quello sgorbio di tempera un po' a Dylan ci somiglia davvero, e che l'ipotesi più banale potrebbe essere per una volta la più logica: Dylan voleva davvero auto-ritrarsi. No, non ci stava prendendo in giro. No, non era un esperimento. Se ti sembra un quadro di merda, forse è davvero un quadro di merda.
È che non ci siamo più abituati. Se vediamo una merda in un museo, per prima cosa ci mettiamo a cercare un contesto - una didascalia, un dépliant illustrativo, un materiale interattivo, qualcosa che spieghi che senso ha esporre una merda proprio lì. Se non troviamo nulla, ci domandiamo se il senso non sia proprio questa mancanza di senso; se il contesto non siamo noi stessi (e il nostro aggirarci smarrito), se per caso non siamo protagonisti di un'installazione, una candid camera d'autore, ad es. 6700 VISITATORI DEL MOMA REAGISCONO A UNA MERDA. Due minuti dopo ci incrociamo con una visitatrice molto imbarazzata con cagnetto al guinzaglio e una paletta in mano ed è un'immensa delusione, per un attimo avevamo creduto di far parte di un'opera d'arte (per quanto di merda). Siamo talmente intrisi di ironia che rimaniamo smarriti quando scopriamo che un sacco di gente ne fa a meno.
Per un certo periodo credemmo anche che Dylan non potesse farne a meno; che Self Portrait non fosse un escremento d'occasione, ma una fece consapevole, una merda d'artista. Un fumoso stronzo deliberatamente depositato nel bel mezzo della sua discografia, per tenere lontano gli indesiderati. Lui stesso decise di assecondarci, a metà anni '80, avallando nelle interviste l'ipotesi che Self Portrait fosse una reazione diretta al Festival di Woodstock; quel momento in cui gli hippie avevano rivelato la loro natura fanatica e molesta e avevano iniziato a stalkerare lui e la sua famiglia. Lo seguivano dovunque, lo aspettavano al cancello; c'era una coppietta che si intrufolò nella camera da letto, BD si comprò un fucile. Di lì a poco un tizio comincerà a frugargli nell'immondizia - quella qualche anno fa divenne il format di un reality di successo, la spazzatura dei vip, ma è tutto cominciato nei cassonetti presso casa Dylan. Cosa voleva tutta questa gente? Perché insistevano contro ogni evidenza a considerarlo un portavoce, perché lo accusavano di aver tradito una causa a loro chiarissima e che a Dylan sfuggiva? Self Portrait sarebbe stato il modo per allontanarli. Mi rovistate nella spazzatura? Io vi cago nella collezione dei dischi. "Farò un disco che non possono apprezzare, in cui non si possano riconoscere", si sarebbe detto ("Rolling Stone", 1984). "Lo guarderanno, lo ascolteranno, e si diranno: passiamo al prossimo, lui non ci ha dato quel che voleva". Più che un autoritratto, un autosabotaggio.
("Questo accadeva più o meno ai tempi di quel festival di Woodstock, che fu la somma di queste stronzate", "Rolling Stone", 1984).
Nel 1975 Lou Reed era incazzato con la sua etichetta. Si chiuse nello studio con un tecnico del suono, incise un'ora e tre minuti di distorsioni e feedback, e pubblicò il doppio album Metal Machine Music, un disco deliberatamente inascoltabile. Self Portrait non ci si avvicina minimamente. C'è qualche canzone che sembra messa lì proprio per infastidirti, ma il più delle volte l'impressione è di goffaggine più che di impudenza.
L'originale era Je t'appartiens di Bécaud! |
Ray Charles coi riccioli, ma perché. |
Questo spiegherebbe anche la questione della lunghezza. Self Portrait non è soltanto un disco pieno di roba senza senso; è due dischi di roba senza senso. Come affermò Dylan 15 anni dopo, un mucchio di merda ("crap", disse lui) ha senso solo se è grosso. Per quanto centrifugo sia l'insieme, non sarebbe stato impossibile estrarne un disco da mezz'ora come i due precedenti. Una delle due Alberta, una delle due Sadie, Days of '49, Copper Kettle, Gotta Travel On, quel brano canticchiato senza un testo che poi Wes Anderson mise in un film... - non sarebbe stato un capolavoro; una cosetta senza infamia e senza lode che sarebbe passata indenne al vaglio dei critici, magari addobbata di qualche specchietto alle allodole, qualche vago richiamo alle atmosfere western che avevano già reso più digeribile quello strano oggetto che era John Wesley Harding. Dylan avrebbe potuto tirare fuori un disco dignitoso dalle session di Self Portrait, ma è abbastanza evidente che la dignità stavolta non gli interessava. Era viceversa il momento di sbracarsi un po' (continua sul Post)
L'uomo che urlò "Giuda" a Dylan, forse
24-03-2017, 19:26Bob Dylan, concerti, musicaPermalinkThe Real Royal Albert Hall 1966 Concert (2016)
Questa è la versione ufficiale (NON del concerto di Londra). |
In un altro universo l'estate dell'anno scorso è stata l'occasione per celebrare la tragica scomparsa di Bob Dylan, il geniale cantautore americano che in poco più di quattro anni si impose come il portavoce della sua generazione prima di sfracellarsi in moto, sul Glasco Turnpike, il 29 luglio del 1966. Il coro dei commossi colleghi superstiti (Joni Mitchell, Joan Baez, Phil Ochs, Neil Young) è stato una volta in più interrotto dalla vecchia linguaccia di John Lennon: Ok, (ha detto, più o meno), era un grande, era persino mio amico, però sarebbe bello se la gente lo ricordasse ascoltandone le canzoni, invece di raccontare le solite storielle - avvistamenti nel Village, era lui! - o rifriggere teorie del complotto. C'è ancora chi dà la caccia agli oltranzisti folk, chi cerca di inchiodarli agli indizi. Confessa! Eri tu che lo fischiavi a Londra, anzi no era Manchester, eri tu che lo chiamavi Giuda, ammettilo! Sei tu che gli hai manomesso la moto! Come se la gente andasse davvero in giro ad ammazzare i cantanti che la deludono. E non è neanche stato Grossman, di certo un figlio di puttana come tanti altri manager: no, non lo mise sotto perché aveva paura che Bob si accorgesse di aver firmato contratti discutibili. Non fu nemmeno la moglie ad avvelenarlo, lo volete sapere davvero perché è morto? Perché guidava di merda, da ragazzino era il terrore di Hibbing Minnesota, una volta aveva quasi ruotato un bambino. E poi, insomma, in quel periodo era continuamente fatto, io me lo ricordo bene. Era un genio, mi fa impazzire pensare a che canzoni avrebbe potuto scrivere dopo Blonde On Blonde, magari avrebbe eclissato pure noi Beatles, non scherzo... ma ogni volta che raccontate di qualche complotto massone-giudaico-folk me lo uccidete per la seconda volta. Tutta quella paranoia che mi è venuta qualche anno dopo - lo sapete, non sono uscito di casa per quindici anni, cazzo - è colpa vostra: prima avete perso Gesù, poi ne avete sentito la mancanza e avete cominciato a cercarlo in noi musicisti. Allora ho una notizia per voi (stronzi): noi non resuscitiamo.
Un mese dopo l'Accademia di Svezia ha dichiarato che intendeva insignire del premio Nobel per la letteratura Leonard Cohen. Nel suo discorso - che non ha fatto in tempo a pronunciare, è morto in novembre anche in quell'universo - Cohen ha citato, tra i suoi ispiratori, anche Dylan: senza di lui sarei rimasto un romanziere qualsiasi, ha spiegato. È stato lui a convincermi che potevo usare una chitarra.
In quell'universo, Dylan è più famoso che nel nostro, anche se non ha mai scritto Knocking on Heavens Door, né Forever Young, né Tangled Up in Blue, né Hurricane. È il primo morto illustre del rock anni '60 - tre anni in anticipo su Brian Jones. Il primo a mostrare che il gioco si stava facendo difficile, quando ancora molti credevano che si trattasse soltanto di una cosa da ragazzi, pace amore e capelli lunghi. Quel che più affascina gli ascoltatori di ogni età è la consapevolezza con cui Dylan aveva abbracciato il suo destino, corteggiando la morte in tutti i suoi dischi, in tutti i suoi concerti. In quell'universo il live del 17 maggio 1966 al Free Trade Hall di Manchester è di gran lunga il suo disco dal vivo più celebre e venduto. È l'ultimo. Dopo il funerale Grossman era disperato - un tour di quaranta date in giro per il mondo da annullare - non restava che recuperare tutte le registrazioni dei concerti e pubblicarne una all'anno, tenendo viva la fiamma del genio prematuramente scomparso. La registrazione amatoriale di Manchester era quasi migliore di quella supervisionata da Bob Johnston il 26 maggio al Royal Albert Hall di Londra: quando sarebbe comparso il bootleg, nel 1970, Grossman lo avrebbe fatto sequestrare per poi farne ristampare un'edizione un po' ripulita dalla Columbia qualche anno dopo.
In quell'universo i dylaniti si sarebbero gettati immediatamente sulla testimonianza più drammatica dell'ultimo tour, cercando tra i solchi gli indizi della tragedia imminente. Di cosa parlava l'inedito che non fece in tempo a incidere, Tell Me Momma? Chi è la ragazza sull'orlo del davanzale, incerta se dare un po' di spettacolo? Era già così stanco della vita, l'uomo che aveva smesso i panni di leader del movimento folk per una Telecaster e due occhiali da sole da rockstar? E perché al tizio che lo chiama "Giuda"!, prima di attaccare la sua ultima Like a Rolling Stone, Dylan rispondeva: "Non ti credo, sei un bugiardo?" Un fanatico, forse, un maleducato, senz'altro, ma perché un bugiardo? A qualcuno che vi accusa di tradimento, rispondereste mai: non ti credo? È quasi un'ammissione, non trovate? C'è gente che ha passato anni a farsi domande del genere - magari anche John Lennon.
La copertina di un bootleg. (NON del concerto di Londra). |
In questo universo il concerto di Manchester è stato per anni uno dei suoi bootleg più famosi, anche se nessuno lo sapeva. Una registrazione di discreta qualità era stata spacciata, sin dagli anni Settanta, come una testimonianza del concerto al Royal Albert Hall del 26 maggio. Dylan ha acconsentito a pubblicarne una versione ufficiale solo nel 1998 - è stata la seconda uscita della sua Bootleg Series. Persino questa uscita mantiene il nome "The Albert Hall Concert", anche se tra virgolette, perché ormai i dylaniti lo conoscono così e a tirare in ballo Manchester rischiavano di confondersi. Poi, un paio di mesi fa, quando avevo già cominciato la mia dylaneide, la Columbia ha pubblicato in un'edizione limitatissima tutte le registrazioni di tutti i concerti del 1966, giusto in tempo per evitare che dopo 50 anni i diritti di qualche scoreggia di Dylan e degli Hawks non diventassero di dominio pubblico. Sono 36 cd. L'unico disco in edizione non limitata, e disponibile anche su Spotify, è quello relativo al vero concerto alla Royal Albert Hall, che si chiama appunto The Real Royal Albert Hall 1966 Concert. Tutto questo succedeva due mesi fa, dopodiché la Columbia ci ha fatto sapere che Dylan aveva pronto un nuovo disco di cover, triplo. Da quando ho iniziato a scrivere un pezzo su ogni disco di Dylan, lui ne ha pubblicati quasi una quarantina. Comincio a capire come si sente Achille mentre la tartaruga si allunga.
Il concerto di Londraa, quello vero. |
Un'altra copertina di un altro bootleg (ma è sempre Manchester). |
Nel 1999 un giornalista è riuscito a scovare il cattivodi tante leggende dylanite, l'Accusatore di Manchester: l'uomo che fu registrato e filmato mentre gridava: "Judas" (continua sul Post).
Il lungo addio alla zingara
10-02-2017, 19:06Bob Dylan, concerti, musicaPermalinkQuanto alla Regina dei folksinger, non poteva che essere Joan Baez. Joan aveva la mia stessa età e il nostro futuro sarebbe stato unito, ma a quell'epoca sarebbe stato risibile perfino pensarlo. C'era un suo disco su etichetta Vanguard intitolato semplicemente Joan Baez e l'avevo vista alla televisione, in un programma di musica folk della Cbs, prodotto a New York e trasmesso in tutta la nazione. [...] Non riuscivo a smettere di guardarla, non volevo nemmeno battere le palpebre. Aveva qualcosa di assassino nell'aspetto, lucidi capelli neri che le scendevano fino alle agili curve dei fianchi, lunghe sopracciglia un po' sollevate, non era esattamente Raggedy Ann, la bambola di pezza. Mi bastava vederla per sentirmi eccitato. E poi c'era la sua voce. Una voce che cacciava via gli spiriti maligni. Era come se fosse scesa da un altro pianeta (Chronicles I).
A tutti i suoi coetanei dev'essere successo di innamorarsi di una celebrità in bianco e nero vista in tv. Ma a Dylan poi è successo di incontrare la stessa persona qualche anno dopo a New York, in carne e ossa e colori, e farle una pessima impressione, (perché sei ancora uno strimpellatore senza fissa dimora e soprattutto senza un bagno dove docciarti, né questo ti impedisce di provarci con la sorella quindicenne). Da un disastro del genere nemmeno Hollywood saprebbe tirare fuori una storia d'amore, che invece in un qualche modo c'è stata. Nel giro di pochi anni Dylan è passato dall'ammirare la regina del folk in tv a scaricarla come una zavorra. Dev'essere difficile mantenere l'oggettività, dopo una storia del genere. Dylan sapeva di dover incontrare la Baez - la sua strada passava per di lì, aggirarla sarebbe stato impossibile, la ragazza attirava ogni cosa intorno a sé. Ma Dylan sapeva anche che avrebbe dovuto passare oltre. Lei ci avrebbe messo di più a capirlo, ma ascoltando il concerto al Philharmonic la situazione è già abbastanza chiara.
Quando si presenta al più famoso auditorium di New York, la notte di Halloween, Dylan è il tizio con cui Joan Baez fa coppia abbastanza fissa ai concerti, nonché un affermato folksinger con tre dischi all'attivo (più il primo già ampiamente dimenticato), di cui due usciti proprio in quel 1964: il manifesto del folk di protesta (The Times They Are A-Changin') e il disco in cui ha preso le distanze dal folk di protesta (Another Side of Bob Dylan). Ci sarebbe insomma già abbastanza per rendere lo show vario e interessante. Invece, in un'ora e mezza netta di esibizione, Dylan canterà appena tre pezzi di The Times, cinque da Another Side, tre da The Freewheelin'. Tutto il resto della scaletta consiste in brani inediti: otto! Ci sono alcuni scarti di cui non si riesce a liberare: addirittura è tornata in circolazione la vecchia Talkin' John Birch, con una strofa nuova in cui l'anticomunista paranoide se la prende col postino. Il pubblico ride. C'è Who Killed Davey Moore, il rap anti-pugilato di cui vuole forse ribadire la paternità dopo che è stato inciso da Pete Seeger. C'è già insomma ben chiara nella mente di Dylan l'idea che l'artista dal vivo debba spiazzare il pubblico, e non confortarlo con la riproposizione dei soliti pezzi.
Così, con due dischi ancora freschi di stampa nei negozi, Dylan a ottobre 1964 è già proiettato verso il prossimo, su cui offre scorci notevolissimi: il pubblico applaude e sembra prenderla bene, ma nulla poteva prepararlo alle giaculatorie allucinate di Gates of Eden e It's Alright, Ma (I'm Only Bleeding), al delirio deliberato di Mr Tambourine Man. Tra brani del genere e With God On Our Side c'è un abisso: l'idea che li abbia scritti lo stesso ragazzo e a distanza di pochi mesi è inverosimile. Se ci fossero arrivati sotto forma di spartiti anonimi, in una capsula del tempo, non ci verrebbe mai in mente di attribuirli allo stesso autore, così come non attribuiremmo versi brechtiani a un emulo di Rimbaud o Blake. A furia di sentirsi chiamare poeta, Dylan ha cominciato a fidarsi e ora riempie le sue strofe di libere associazioni senza una logica che non sia quella del sogno. Gates of Eden sembra modulata sulla melodia di un inno sacro, ma il surrealismo del testo la trasforma in una parodia di Chimes of Freedom. In quel brano, l'ultimo vero inno acustico di Dylan, nel ritornello le campane ricordavano a ogni derelitto che in cielo qualcuno li osservava, qualcuno li aspettava; anche in Gates of Eden, ("ninna nanna sacrilega", la definisce) al termine di ogni strofa viene menzionata un'autorità trascendente (i Cancelli del Cielo), ma solo per ribadirne l'assoluta indifferenza. Aladino e gli eremiti d'Utopia in sella al Vitello d'oro ti promettono il paradiso e nessuno ride - salvo che oltre i Cancelli del Cielo. Contratti di proprietà si aggiornano in attesa della successione al trono, ma non ci sono troni al di là dei Cancelli del Cielo. La madonna nera in moto (regina zingara a due ruote) tallona il nano di flanella grigia che piange per i predatori che gli piluccano le briciole del peccato, ma non c'è peccato dentro i Cancelli del Cielo. Cosa sta dicendo?
C'è un metodo dietro a questa pazzia, ed eccezionalmente Dylan lo descrive nell'ultima strofa: "all'alba il mio amore viene da me e mi racconta dei suoi sogni. Non ci prova nemmeno a interpretarli uno per uno. A volte penso che non ci sono altre parole per raccontare quel che è vero". Insomma è entrato nel periodo surrealista, così, di colpo (solo Hard Rain poteva far pensare a un'evoluzione del genere, e infatti è rimasta in scaletta). Il bardo che si ispirava alle notizie sul giornale per cantare del naufragio del Picnic al monte Orso o della morte di Hattie Carroll, da qui in poi si servirà degli stessi giornali per realizzare dei collage dadaisti (o dei cut-up alla Burroughs, Dylan si tiene aggiornato). Se vi fate poeti dadaisti, ed estraete parole a caso da un sacchetto, diceva Tristan Tzara, esse comporranno una poesia che "vi somiglierà": e non c'è dubbio che le immagini buttate a caso da Dylan in Gates e It's Alright Ma somiglino a lui, e al mondo saturo di simboli in cui vive. Qua e là galleggiano grumi di senso, aforismi che probabilmente gli ronzavano già in testa e che sono poi i versi che tutti amano citare: "Chi non è impegnato a vivere è impegnato a morire"; "Cristi di carne fosforescente", "Anche il Presidente degli Stati Uniti a volte deve comparire nudo", "Il denaro non parla: bestemmia". Tutto intorno una cascata di immagini che assomiglia al vaniloquio di un chitarrista che butta fuori parole provvisorie sulla melodia che sta provando. Una forma funzionale di scrittura automatica, portata agli estremi in It's Alright Ma. Sono i testi che danno meno soddisfazione ai dylaniti non anglofoni: anche chi riesca a correre dietro al senso del verso, rischia di perdere la visione di insieme (ma c'è un insieme?): quanto alle traduzioni, sembrano davvero collage dada, non c'è niente che abbia un senso slegato dal suono. Buio allo scocco del mezzogiorno, ombre anche nel cucchiaio d'argento, la lama fatta a mano, il pallone del bambino eclissa sia il sole sia la luna per comprendere (lo sai) troppo presto che non ha nemmeno senso provarci. Eeeeh? Però in inglese fila. Al Philharmonic Dylan snocciola una versione che è più o meno la stessa che inciderà in studio qualche mese più tardi, con qualche variante d'autore e una sola papera, in nove minuti di esecuzione: una volta composto il collage non si tocca più. Se Gates of Eden è una parodia di inno sacro, It's Alright è un talking blues capovolto, verboso e in minore. Dylan spara questi due brani nuovissimi quasi in sequenza dopo venti minuti di concerto: e se questa non fosse una sorpresa sufficiente, come intermezzo tra i due deliri propone in anteprima qualcosa di completamente diverso e (all'apparenza) meno dirompente: If You Gotta Go, Go Now.
La suona come tutte le altre, con chitarra e armonica, ma anche così è chiarissimo che non è un pezzo folk. È in quattro quarti: è un rock'n'roll. Persino se non l'hai mai ascoltata (non è un brano così famoso, nel 1965 uscì come singolo soltanto nei Paesi Bassi), ti viene comunque l'impulso di battere le mani. Mia cara, non voglio farti pressione, ma tra un po' qui sarà buio e non riuscirai a trovare la porta, per cui se vuoi andare vattene... ma vattene adesso. Sennò ti tocca restare tutta la notte. Il pubblico ride di gusto, doveva essere una situazione divertente al tempo, insolita. O forse era insolito che qualcuno ne parlasse, ci ridesse su. Dopo un'ora di concerto, il pubblico del Philharmonic sa cosa aspettarsi dal suo divo per il 1965: surrealismo e rock'n'roll, sarà un'annata interessante. Ma prima bisogna congedarsi dal passato. Sul palco è attesa Joan Baez.
Dylan l'aveva già evocata all'inizio del concerto, coi due brani di Another Side più direttamente ispirati a lei. Il primo è Spanish Harlem Incident: sì, secondo me la zingara è Joan. Non è che possa dimostrarlo, ma si tratta della prima canzone d'amore non perduto, non frustrato, che Dylan abbia mai inciso. Fino a Spanish Harlem l'amore era quello dolente e smarrito del blues. E a parte la rilevante eccezione di Girl of the North Country, questa perdita era espressa con una buona dose di rancore, riversato il più delle volte sulla povera Suze Rotolo. Spanish Harlem è al di là di tutto questo. La zingara ha mani e piedi ardenti (Joan si esibiva a piedi nudi), ha occhi di perla e denti che brillano al buio come diamante ("Avevo paura a incontrarla. Magari mi avrebbe affondato le zanne nella nuca", scriverà in Chronicles). La zingara può leggere il destino di Dylan nel suo palmo irrequieto - in almeno una conferenza stampa, per tagliar corto sulla sua relazione, lui la definì la sua "cartomante". La zingara lo ha inghiottito. Lo ha sventrato, la zingara lo ha messo al mondo ("You have slayed me, you have made me"): la zingara può circondarlo e renderlo reale. Una cosa che non può fare, è perderlo: non è proprio in discussione. Dylan sarà geloso di molte donne, ma non della Baez. Spanish Harlem è il brano in cui si dichiara suo figlio e suo trastullo: la canterà solo quella sera, non risultano altre esecuzioni dal vivo in cinquant'anni.
To Ramona invece è il brano in cui Dylan prende congedo da lei, dispensandole lezioni di vita: non ha mai smesso di cantarla, sul sito ufficiale risultano 373 esecuzioni. Sei prigioniera di un mondo che non esiste, di schemi vuoti, personaggi che ti fanno pensare che devi essere come loro, e soprattutto del tuo pensarti colpevole. E potrei dirtene tante altre, ma presto le mie parole si contorcerebbero in un anello insensato, l'immagine che vi verrà in mente ogni volta che vi capiterà ritornare sullo stesso argomento nel corso di un litigio (il paradosso di Dylan, un tizio taciturno che vive di parole; che in cento e mille strofe ribadisce quanto le parole siano inutili). Così, nel giro di pochi minuti, su Another Side e durante il concerto, Dylan è stato partorito e si è emancipato dall'ingombrante genitrice. Resta un problema: lei è ancora lì dietro le quinte, si aspetta di cantare nel secondo tempo.
Anche il pubblico probabilmente se lo aspetta, era diventato un momento fisso nei concerti di entrambi. Di solito la Baez lo introduceva dopo aver cantato Blowin' in the Wind, un brano che Dylan neanche mette più in scaletta (è uscito da appena un anno, è già passato remoto). Lui aspetta ancora un po', riporta il pubblico ai lidi più rassicuranti della canzone di protesta con una toccante versione di Hattie Carroll - e poi la fa salire senza troppi complimenti, per farsi dare una mano con un altro pezzo inedito, Mama, You Been On My Mind. Inspiegabilmente escluso dalla scaletta di Another Side, il brano sarà registrato dalla Baez nell'anno seguente. È una specie di seguito di Don't Think Twice (anche la progressione è molto simile), una coda all'addio, e non c'è bisogno di spiegare come certi adii diventino lunghissimi, quasi "meaningless ring": a volte guardo il disco del sole al mattino e mi ritorni in mente. Non è più un pensiero geloso, non è più rabbia né necessità erotica, non è nulla e non vale la pena di disturbarti, non vorrei dirti nulla, non pretendo un sì o un no; mi domando soltanto se tu possa vederti così chiara come ti vedo io quando mi torni in mente. Se era una canzone ispirata alla Rotolo, la Baez non ha comunque esitato a impossessarsene. Lei canta "Daddy", Dylan canta "Mama", non è un vero e proprio duetto e non è un'armonizzazione. Dylan va per i fatti suoi, ma è la Baez che si ricorda meglio il testo. Non è soltanto per una questione di diritti che nessun brano cantato in coppia fu inciso al tempo: il pubblico è felice di vederli assieme, ma la prestazione in sé è inferiore alla somma degli addendi. Dylan è imprevedibile, non sei mai sicuro di come canterà il prossimo verso, qualche minuto prima aveva completamente storpiato Don't Think Twice probabilmente perché l'aveva attaccata sulla nota sbagliata. A volte capita, ma Dylan aveva continuato a cantarla così anche al verso successivo, e alla strofa successiva, strozzandosi e stravolgendola. È il modo in cui compone: sbagliando le canzoni che conosce già. La Baez non compone, la Baez esegue: ci mette il cuore ma ha bisogno di punti fermi. È sempre professionale, può duettare con chiunque, ma la voce di Dylan non si impasta bene con nulla. In una coppia mista ti aspetti un soprano squillante e basso caldo, al limite un baritono; Dylan non è virile in quel modo.
Tutta la sua storia con la Baez è una sfida agli stereotipi di genere, non solo di quegli anni (continua sul Post)
Scrivere Hard Rain a vent'anni (e sopravvivere altri 50)
22-12-2016, 04:12Bob Dylan, concerti, invecchiare, musicaPermalinkCome sapete Dylan non è andato a Stoccolma, pare avesse un impegno. Come avete forse sentito ha mandato una discepola, Patti Smith - una tra quel migliaio di artisti importanti che senza l'esempio di Dylan sarebbero cresciuti in un modo molto diverso, o non sarebbero cresciuti. Magari avete anche visto la clip in cui Patti Smith canta A Hard Rain's A-Gonna Fall ma a un certo punto si blocca per l'emozione. Patti Smith che avrà fatto più di un migliaio di concerti in vita sua - ma è pur sempre all'Accademia di Svezia, e Hard Rain è veramente un testo difficile. È pieno zeppo di numeri, di simboli, di immagini apocalittiche - un giorno Dylan disse che l'aveva scritto durante la crisi dei missili di Cuba, nell'imminenza della terza guerra mondiale e delle piogge radioattive che ne sarebbero seguite, e che in ogni verso era condensato l'argomento di una canzone che non credeva avrebbe più avuto tempo per scrivere.
C'è un problema: la crisi scoppiò nell'ottobre del '62 (quando un aereo spia U2 americano scoprì una base missilistica a Cuba), e noi sappiamo che Dylan la stava già cantando nel settembre di quell'anno, quando partecipò a una specie di festival folk alla Carnegie Hall. Presentava il leggendario cantautore Pete Seeger, che prima di cominciare avvisò gli artisti: solo tre pezzi a testa, non più di dieci minuti. Al che il giovane Bob alzò la mano: ehi, ma io come faccio? Una delle mie canzoni ne dura proprio dieci. Seeger non fu l'unico a innamorarsi di Hard Rain al primo colpo. Quando Allen Ginsberg la ascoltò, appena tornato dall'India, racconta di essersi messo a piangere: di colpo la sua generazione sembrava superata. Insomma se devi scegliere quale canzone portare alla cerimonia del Nobel, Hard Rain sembra una scelta da intenditori. Non è famosa come Blowin' in the Wind, non è acclamata come Like a Rolling Stone, perfino Hurricane è più ascoltata su Spotify, però tutte queste canzoni Dylan le avrebbe potute scrivere soltanto in un determinato periodo della sua carriera. Invece canzoni apocalittiche e immaginose come Hard Rain ne ha sempre scritte, e ne scriverà finché campa.
Resta una terribile evidenza, a cui nessuno fa molto caso (ma forse Dylan sì): di tutte le canzoni apocalittiche e immaginose, quella che merita di essere scelta per il Nobel l'ha scritta a ventun anni. Pensateci. Non è così strano che un ventunenne scriva grandi poesie - Shelley, Rimbaud, eccetera. Sì, ma Shelley è annegato a trent'anni, e Rimbaud ha smesso di scrivere a venti. Dylan ne ha 75 e scrive ancora, ma quando si tratta di mandare una canzone a Stoccolma, ce ne manda una del 1961. Voi che rapporto avete con le cose che scrivevate a vent'anni? Se avete vent'anni adesso non potete capire (ma tanto non state nemmeno leggendo). Io di solito comincio ad avere problemi dopo undici anni: attualmente mi sto dissociando dalle cose che ho scritto nel 2005. Non significa che le trovi disgustose - ok, sono disgustose - ma ogni tanto c'è persino roba buona, però è come se l'avesse scritta qualcun altro, un parente, un tizio con cui ho avuto una relazione che m'imbarazza un po'. Non riesco nemmeno più a correggere, a cambiare qualcosa, sarebbe come produrre un falso. In sostanza non sono più quella persona: persino le cellule delle ossa credo che nel frattempo si siano rigenerate. Quel che voglio dire è che sì, forse Dylan davvero quella sera aveva un impegno. O forse non è voluto andare a Stoccolma perché sapeva che il premio era per il sé stesso di cinquant'anni prima, e lui semplicemente non si sente più quel Dylan lì. Sarebbe come mentire - non che a Dylan ripugni mentire, ma forse non gli andava (continua sul Post)
SCONVOLGENTE: ecco perché Joni Mitchell non andò a Woodstock
18-08-2014, 00:021968, Almanacco, concerti, Leonardo sells out, musica, replichePermalink(La sublime ironia di accettare un cachet per cantare For Free)
(Segue vecchio pezzo)
Se c'è un motivo (non è detto debba esserci per forza) per cui la Woodstock di Iain Matthews mi sembra superiore alle altre versioni, credo che abbia a che vedere col sentimento del tempo. La storia racconta che Joni Mitchell scrisse la canzone nei giorni immediatamente successivi al festival, mettendo a frutto il rimpianto per non esserci andata, per aver capito troppo tardi quello che stava succedendo in quel pratone fuori New York; per aver dato retta al suo agente e barattato l'evento più importante della sua generazione con una comparsata in tv. D'altro canto solo la lontananza da Woodstock poteva permetterle di scriverci sopra un inno cosmico, pieno di fede nel futuro e vibrante del respiro dell'universo eccetera eccetera, al riparo dagli schizzi di fango e dal caos organizzativo. Quando poi le capitò di andarci davvero, ai concertoni, la Mitchell non ne trasse vibrazioni così positive. Un mese dopo portò la canzone inedita a Big Sur, dove cercò persino di insegnare agli hippie il ritornello: su, cantate con me, siamo polvere di stelle, siamo d'oro... no, niente, quelli sorridono, scuotono le chiome, e chissà su che pianeta sono in quel momento. Ma d'altro canto, come si fa a cantare dietro a Joni Mitchell? Cioè, davvero credevi che fossero tutti bruchi pronti a mettere le ali? tutti in grado di cantare quello che canti tu? Tutti pronti a fondare rock'n roll band e inseminare la pace del mondo? Ci credeva.
Ma non ci ha creduto a lungo.
Vieni anche tu
31-03-2013, 01:50autoreferenziali, coccodrilli, concerti, musica, OttantaPermalinkEnzo Jannacci, che a tutti ricorda com'è giusto Milano, per me è curiosamente legato alla piazza Grande di Modena, a un pomeriggio che i miei mi dissero: andiamo a un concerto, e non l'avevano mai fatto. Era la prima volta. Non lo fecero mai più, fu quindi anche l'ultima. Ma non credo che sia colpa mia, per quel che mi ricordo mi comportai bene.
Non conoscevo Jannacci - a parte Vengo anch'io No tu no che poi chissà dove avevo sentito. Ma non avevo nemmeno mai visto piazza Grande, forse era la prima volta che ci andavo. Ovviamente mi sembrò immensa, enorme il Duomo e altissima la Ghirlandina, che forse imparai per l'occasione che si chiamava così a causa di ghirlande che devo ancora capire dove siano, e mia madre disse che papà era andato fino in cima. Lo ammirai molto, e non ci sarei salito per i successivi 25 anni.
Non saprei dire se fossi seduto. In piedi per un'ora e più mi sembra improbabile. Però ricordo che Jannacci lo vedevo e non lo vedevo, dietro a braccia e teste. Rammento una manciata di canzoni, che poi sono quelle che conosco meglio di lui, per cui il ricordo potrebbe anche essere stato fabbricato a posteriori: Vengo anch'io sparata quasi subito, Faceva il palo, Quelli che, che per me poi era "oh yeah" e in un qualche modo avevo già sentita anch'essa, chissà come. E Giovanni Telegrafista: quella proprio la ricordo bene; non l'avrei più riascoltata per decenni, però quell'ultimo verso "Alba, è urgente" lo rammento proprio come lo cantò Jannacci in Piazza Grande. Molti anni dopo decisi che era la canzone più bella di EJ, una spanna su tutte le altre: ieri sera ho scoperto che il testo è la versione italiana di una poesia brasiliana, un po' m'è dispiaciuto. Un dispiacere insensato, la canzone non è meno bella se non è del tutto sua.
Quello di Enzo Jannacci fu il mio primo concerto. Qualche tempo dopo lo riconobbi vestito tutto di nero con un suo amico che ancora non conoscevo: citavano i Blues Brothers ma non potevo sapere nemmeno di loro. Ero piccolo, di tutto il grande puzzle culturale intorno a me possedevo solo una o due tessere, e Jannacci era una. Ne sono abbastanza fiero, mi sembra d'avere almeno cominciato con i pezzi giusti, e sono molto riconoscente ai miei genitori che non andavano mai da nessuna parte, ma quando venne Jannacci in Piazza Grande mi ci portarono. E al mio capo scout che almeno una volta all'anno, davanti al fuoco, ci cantava Prete Liprando e il giudizio di Dio, la sapeva a memoria e la cantava benissimo (che pieèèèèdi lunghi!) Fino a qualche tempo fa non si trovava nemmeno su Emule, Prete Liprando.
Così ieri sera mi sembrava di aver perso una persona un po' più importante di altre. Mi sono messo a chiedere in giro su internet se qualcuno sapeva quando Enzo Jannacci avesse fatto un concerto in piazza Grande a Modena: perché non ne avevo la minima idea. E mi hanno risposto in due: 30 agosto 1981. Quindi avevo otto anni. Devo essere stato un bambino paziente. Devono essere stati pazienti anche i miei genitori. Li ringrazio ancora una volta.
We are billion year old carbon
19-08-2010, 00:01concerti, jukebox '10, musicaPermalinkSe c'è un motivo (non è detto debba esserci per forza) per cui la Woodstock di Iain Matthews mi sembra superiore alle altre versioni, credo che abbia a che vedere col sentimento del tempo. La storia racconta che Joni Mitchell scrisse la canzone nei giorni immediatamente successivi al festival, mettendo a frutto il rimpianto per non esserci andata, per aver capito troppo tardi quello che stava succedendo in quel pratone fuori New York; per aver dato retta al suo agente e barattato l'evento più importante della sua generazione con una comparsata in tv. D'altro canto solo la lontananza da Woodstock poteva permetterle di scriverci sopra un inno cosmico, pieno di fede nel futuro e vibrante del respiro dell'universo eccetera eccetera, al riparo dagli schizzi di fango e dal caos organizzativo. Quando poi le capitò di andarci davvero, ai concertoni, la Mitchell non ne trasse vibrazioni così positive. Un mese dopo portò la canzone inedita a Big Sur, dove cercò persino di insegnare agli hippie il ritornello: su, cantate con me, siamo polvere di stelle, siamo d'oro... no, niente, quelli sorridono, scuotono le chiome, e chissà su che pianeta sono in quel momento. Ma d'altro canto, come si fa a cantare dietro a Joni Mitchell? Cioè, davvero credevi che fossero tutti bruchi pronti a mettere le ali? tutti in grado di cantare quello che canti tu? Tutti pronti a fondare rock'n roll band e inseminare la pace del mondo? Ci credeva.
Ma non ci ha creduto a lungo. Due anni dopo, all'isola di Wight, un fricchettone sale sul palco e la interrompe proprio mentre canta We are stardust. Il manager lo prende a calci – il pubblico fischia Joni. Joni chiede il rispetto per l'artista, cioè per sé stessa. Non ci si bagna più nello stesso fango del pubblico, non gli si insegnano più i ritornelli. Gli hippie saranno anche polvere di stelle, ma troppo spesso sono piantagrane sciroccati senza rispetto per gli artisti. Big Sur è lontana, Woodstock è già un museo di cere. La versione di Matthews scala le classifiche nello stesso periodo.
La distanza tra le versioni di CYSN e della Mitchell è di pochi mesi. Eppure Matthews ha saputo metterci qualcosa che interpreti più conosciuti di lui non avevano ancora trovato. La pedal steel, direte voi. Bravi. In realtà io intendevo la nostalgia. La Mitchell non aveva nostalgia per Woodstock; solo un po' di rimpianto per non esserci stata, e tutta la fantasia per immaginarsela più bella, un sogno oltre il tempo e lo spazio. Iain Matthews la sfoglia già come un vecchio album delle vacanze. In quegli anni le fotografie ingiallivano in fretta, le speranze duravano un paio d'estati e poi finivano, e anche le canzoni migliori dopo venti mesi erano roba vecchia. D'altro canto nascevano continuamente nuove speranze e nuove canzoni, per cui la nostalgia restava un prodotto di nicchia.
Oggi tutto quel passato è stato surgelato, per la comodità degli utenti: quando ne vuoi un pezzo lo scongeli e lo consumi in pochi minuti. Così ogni estate ci si mette a parlare di Woodstock, il grande evento che ha cambiato la storia della musica eccetera. Anche la nostalgia sa un po' di precotto. Del resto è tutta gente che a Woodstock non c'era, non era nata o ascoltava Gianni Morandi. Per quelli che c'erano passati, Woodstock era probabilmente roba vecchia già nel 1970. Ne sfogliavano le foto, e cominciavano a non riconoscersi più. Siamo polvere. Di stelle, ma pur sempre polvere.
Get ready, 'cause here I come
04-08-2010, 00:01calcio, concerti, jukebox '10, musica, YalePermalinkIo dunque quattro anni fa mi trovavo a New Haven, Connecticut, travestito da studente. Non un granché come copertura, ma facevo del mio meglio per tenere la mia italianità sotto i livelli di guardia, e se provai a prepararmi un ragù con carne macinata agli estrogeni, ciò rimase confinato nel mio cucinino di woodland street, ingombrato da un frigorifero enorme che sparava aria fredda sui piedi.
Poi un giorno, stavo attraversando il grande prato centrale - su un lato stavano già montando il palco per i Temptations, ci sarebbe stato di lì a poco un concerto gratis dei Temptations! - lo stavo attraversando in linea retta, quando mi ritrovai in mezzo a una partita di calcetto. A New Haven, tanto tanto lontano dalla casetta mia. Mi fermai a guardarli, perché insomma, uno non sa cosa aspettarsi da americani che giocano a calcetto, chissà se sanno toccare palla (e invece magari al college hanno fatto un seminario sul dribbling). E una ragazza in tuta che si era accorta che mi ero fermato, mi disse: wanna play? Qualcosa del genere.
Una voce nella mia testa mi diceva vacci piano, è tipo dieci anni che non tocchi palla neanche tu. E gli americani saranno anche scarsi a soccer, ma le americane hanno vinto già due coppe del mondo. Ma era solo un bisbiglio nella mia testa. Il resto della mia testa stava gridando all'unisono po, po po po po po, po. Io sono il campione del mondo. Io sono venuto tra voi nordamericani ignoranti a insegnarvi il bel giuoco. Aspettate solo un attimo che poso lo zainetto.
Quand'ero piccolo mi ritenevo in grado di giocare nel cortile della scuola, prima della campana. Siccome nessuno mi aveva mai invitato, la mia unica possibilità era lottare su tutti i palloni, tutti. Non avevo un attaccante da marcare io, io marcavo il pallone. L'unica cosa che so fare.
Il problema è che non ero uno più uno studente: quella era solo una copertura: avevo la maglietta, il laptop nello zainetto, i calzoncini, ma a guardarmi bene si vedevano i capelli bianchi, e il fiato era quello di un trentaqualcosenne, sicché dopo quattro epici minuti di gioco, io morii. Più o meno. Ebbi giusto il fiato di salutare e ringraziare, cedetti il mio posto a un nigeriano (cominciava a formarsi una fila), e mi accasciai, me lo ricordo benissimo, praticamente sotto il pennone della bandiera, pensando guarda te se mi tocca morire sotto le stelle e le strisce. Passò un aeroplano, mi sembrò che andasse a est. Ciao aeroplano, gli dissi, salutami la mamma europa, io mi sa che resto qui. Sul green di New Haven. Per aver voluto giocare a pallone, alla mia veneranda età.
Due sere dopo, sullo stesso green, arrivarono i Temptations. Un quartetto di simpatici signori dell'età di mio padre. Mi aspettavo una cosa piuttosto malinconica. Ma la malinconia non sanno neanche cos'è, i Temptations. Ballarono per tre ore, in perfetta sincronia. Mentre ballavano cantavano, non sbagliarono niente. Sudavano e cantavano, tra un pezzo e l'altro intrattenevano. Professionali, carismatici, energetici, quattro atleti di sessant'anni. Io ne avevo la metà, e su quel prato ero morto dopo aver inseguito per tre minuti un pallone.
Su Youtube i video recenti dei Temptations non rendono loro onore. Sembrano davvero una congrega di vecchietti, garantisco che quella sera non furono così. I Temptations. Che rocce. Su gente così non cresce il muschio.
Non è la fine del mondo, ma insomma
30-05-2010, 04:46concerti, Mondo Carpi, musica, segnalazioniPermalinkIl Mattatoio è un dono di Dio che quando mi vide incidere un po' stanco nel mezzo del cammin di nostra vita decise che no, io avrei continuato a vedere concerti interessanti, a costo di apparire in sogno a dei pazzi e convincerli ad aprire un circolo arci indiepop che potessi raggiungere a piedi. In cinque minuti. Anche in bicicletta è comodissimo, ma l'unico posto dove mi hanno fregato una bicicletta è la rastrelliera di fianco al Mattatoio. Ci ho visto i Fanfarlo e alla fine sono andato a chiedere se avessero un cd, mi dissero che ormai non si facevano più cd, bisognava andare sul loro myspace o una cosa del genere. Due anni dopo hanno suonato da Letterman. Ci ho visto Il Genio la sera della domenica in cui avevano suonato Pop Porno a Quelli che il calcio, passando da perfetti sconosciuti a potenziale tormentone del 2009: li ho visti proprio quella sera lì (forse l'unica sera in cui valesse la pena vedere Il Genio). A volte abbiamo visto un po' e poi ce ne siamo andati, tanto non si pagava: come quando Le Luci Della Centrale Elettrica fecero il pieno e già le ragazze in prima fila sapevano i testi a memoria, o quella notte in cui resistemmo per poche canzone alla visione dei Krisma, appena appena scongelati, giusto il tempo di prenderci l'influenza a capodanno.
Invece Pelle Carlberg meritava. Gli abbiamo chiesto un bis, e lui ha cantato Grace Kelly di Mika. Ho visto gente che non mi ricordo più come si chiama, svedesi intonatissimi con organetti ukulele e poco altro. Ho rivisto Soda Fountain Rag che non aveva capito cosa avessi scritto su di lei (e non credo di averglielo spiegato). Ho persino comprato un cd dei Pip Carter Lighter Maker, non so come sia stato possibile, ma quella sera avevano reso San Francisco un concetto plausibile a Carpi.
Ho visto i Lomas, e cantato che Carpi è Un Posto Come Tutti Gli Altri: E Sei Tu Che Hai Problemi, Non Loro. Ho visto i Leggins, gli Heike Has The Giggles (mi allungarono un cd grezzo, senza nemmeno i nomi dei pezzi) e i Trabant, bravissimi questi ultimi, ma prima del concerto una ragazzina al bancone mi aveva spalancato la porta della crisi di mezza età chiedendomi:
Era la tastierista dei Trabant. Decisi che tanto valeva prendere la vecchiaia di petto, quindi non avrei mai più ballato in pubblico in vita mia, mai più, fine, solo di nascosto il piedino, no, neanche quello, finché una sera non vennero gli Still Flyin' e quella sera veramente il piedino non riusciva a tenerlo nessuno, e guardate che non è mai stato un posto facile per ballare il Mattatoio, e invece quella sera andammo avanti fino all'alba con Max che ci fece la storia del ballabile da Phil Spector ai MGMT.
Ma i più bravi di tutti, posso dirlo? Restano Le Man Avec Les Lunettes. Sarà che ormai ci si sentivano a casa, ma un gruppo dal tocco così delicato, dal vivo, non l'ho sentito mai. La gente arriva senza averne mai sentito parlare e dopo tre canzoni tira fuori paragoni coi Beatles, senza pudore, perché questo ti fanno i LMALL. Ti vien voglia di rompere il violoncello in testa a qualsiasi altra violoncellista di gruppo pop, sciocca, perché non suoni bene come i Le Man Avec Les Lunettes?
Al Mattatoio ho trovato un solo ex alunno, per ora. In generale ci andavamo a comprare cd di artisti sconosciuti, come ci piace pensare di essere anche noi del resto. Ancora di recente i Record's e i Gloria Cycles: dovevano venirci davvero in casa perché ci accorgessimo di loro. Al Mattatoio stavo quasi per leggere un racconto sulla Resistenza la sera di Schegge di Liberazione, poi Many giustamente mi sostituì con quelli che si erano fatti centinaia di chilometri per leggere il loro racconto sulla Resistenza. Io ero venuto a piedi, nei soliti cinque minuti.
E adesso le centinaia di chilometri toccheranno a me. Il Mattatoio chiude. Mi dispiace. Immagino che avrei potuto fare qualcosa di più, bere più birre, invitare più gente, non lo so. Arrivo sempre troppo tardi, anche con questo pezzo. Quanti bei concerti mi son visto, quanta musica necessaria mi son portato a casa. Quanta fortuna non mi stavo meritando.
Carpi (che è un posto come tutti gli altri)
24-04-2009, 02:2525 aprili, concerti, Lomas, musicaPermalink(che non hanno mai documentato la loro esistenza)
Ne ho paura perché nel 2009, quando ormai a colpi di google e wiki ci si può fare una cultura di qualsiasi cosa, dei Lomas su Internet non c'è quasi praticamente niente. Tant'è che al Mattatoio mi hanno chiesto il permesso di ripubblicare un vecchio pezzo che avevo scritto io qui. Cosa che, per carità, non può che farmi piacere, ma si trattava della cronaca di un concerto non proprio esaltante, e davvero non è giusto che i Lomas siano ricordati per questo.
Io poi quando parlo di queste cose divento un campanile insopportabile, ma in mancanza di cd (ormai introvabili) e di fonti scaricabili, vi tocca fidarvi: i Lomas sono stati grandi, nel loro punk minimo non minimalista. In un decennio ('90) generalmente mediocre, in cui in mancanza di niente ci siamo affezionati a tanti chissàchi, la voce sconsolata di Fox ci ha fatto intravedere una poetica decente, provinciale senza troppo menarsela, e ci ha tenuto su il morale molto di più di quanto promettesse. Voi poi non potevate sapere, voi eravate persi in cazzate e mancanze di tatto (come si usa qui), ma non è colpa vostra.
Va bene, metto su un esempio, ma chissà se è quello giusto.
Lomas: Tre giorni (1997)
La vita è stata in discesa,
ma quando colpisce colpisce pesa, e a caso
e non c'è niente di nuovo, e chi t'ha aspettato
forse non ti aspetta più
e quando andrai tu in salita, e finisce la vita, li vorresti lì
Forse aspetta le scuse, ma da voi non le avrà:
le avrà tardive e confuse, forse lui non s'aspetta più niente
da noi che lo prendemmo in giro in campeggio
nell'ottantotto, ma questa è mancanza di tatto
e io non credo affatto che lui ci crederà
Forse fa come gli etruschi,
che non hanno mai documentato la loro esistenza,
ma non c'è niente di nuovo, e fai senza,
e la vita a volte ha colpito e sconfitto,
e forse ti avrebbe cercato
ma non t'ha più chiamato e mai più chiamerà
Quando sei andato a Caserta nei carristi
lui venne al tuo Giuramento e sarebbe voluto venire con te
ma non sapeva niente,
con certa gente non chiedeva il perché.
Perché era un illuso,
e quando lo avete escluso non lo vedeste più
Ma cos'è che succede qui a Modena: brucia una casa nel centro e nessuno la vede?
E non vede nessuno... e la strada è piena di fumo
Andammo su il giorno prima della festa in piscina
e per tre giorni restammo lì, ma voi non veniste,
ma voi siete persi in cazzate
e mancanze di tatto come si usa qui,
e noi caricammo la vespa con un gran mal di testa
e tornammo giù.
Quando tornammo da un viaggio venimmo ai cortili e incontrammo
la Silvia che ci disse che non c'era niente di nuovo
e che t'ha visto in piazza parlare con Giulio e con Colby
e con Colby passare la sera,
ma lei non c'era e non ci sarà più
Ma cos'è che succede qui a Modena: brucia una casa nel centro e nessuno la vede?
E non vede nessuno... Ma la strada è piena di fumo!
La vita è stata in discesa,
ma quando colpisce colpisce pesa e a caso
e non c'è niente di nuovo e chi ti aspettato
forse non ti aspetta più (sotto casa)
e quando andrai tu in salita, e finisce la vita, li vorresti lì
Sporcdrughè live in Maranello
13-01-2009, 16:46concerti, generazione di fenomeni, musica, Ottanta, repliche, tvPermalinkQuaranta gradi in casa e il condizionatore piscia acqua, il tecnico al telefono ha detto per carità non azionatelo, noi magari tra due mesi lo ripariamo. Bene, ma stasera piuttosto di restare in questo sottotetto t'accompagno a Maranello a vedere i Bluvertigo.
No, no, tranquilla che non lo scrivo, un post sui Bluvertigo, è vero che mi sono un po' antipatici, ma è un'antipatia senza nessun significato sociale o politico, mi stan sulle balle e basta, che senso ha parlarne? Poi sembra di essere gli stronzi.
C'è che sono miei coetanei, e dei miei coetanei non mi va di parlare. I giovani sono patetici, i vecchi rincoglioniti, ma i coetanei no-comment. Effettivamente stavano vendendo dischi, o romanzi, mentre io non lo facevo. Io in quel periodo, soprattutto, ignoravo. Più che altro per dribblare l'invidia, che è una bestia brutta.
Però poi vorrei anche dirti che non mi sono perso niente, che le mie intuizioni sui coetanei avevano del buono. In effetti, spiegami com'è che ogni volta che ripescano qualche residuato dei Novanta sembra più vecchio dell'artista omologo anni Ottanta? Ma è un discorso che vale per il mondo intero, vuoi mettermi gli Oasis con gli U2? Probabilmente c'erano fattori universali che hanno determinato che l'ultimo decennio del secolo fosse un decennio di mezzecalze.
Uno di questi fattori è la saturazione. In campo musicale, o di costume, i Novanta arrivano dopo quarant'anni ininterrotti di evoluzione stilistica, in pratica era impossibile inventare qualcosa di nuovo: e allora si citava. Si citava per necessità, perché non si aveva veramente molto di originale da fare, però a un certo punto citare diventò il gioco più hip che c'era in città, si passavano lunghe serate a misurarsi – tu non puoi capire, erano cose soprattutto da maschietti – lunghe sedute a vedere chi citava più lungo. Tutto senza nessuna capacità selettiva, gli Alphaville valevano quanto Battiato, vinceva chi aveva più memoria e più dischi vecchi in casa. Ecco, i Bluvertigo (a proposito, siamo qui da mezz'ora, quando attaccano?) mi sembravano, mi sembrano, i rappresentanti quegli anni postmoderni nel senso che bastava la parola “postmoderno” per sembrare chissachi, e invece la verità era che si andava in giro oberati da un'enorme “cultura” divorata e maldigerita, una mole di dati che non riuscivamo a disciplinare e saltava fuori sempre a sproposito: testi di canzoni e dialoghi di film responsabili di storie finite male con ragazze che poi si sono sposate al primo stronzo e tutto il resto.
Comunque i Novanta sono passati, e non so se lo hai notato; la gente cita meno. Per vari motivi, ma uno dei primi credo sia internet. Per esempio, gli Oasis hanno fatto conoscere a molti ragazzini i Beatles; passo successivo, i ragazzini si sono scaricati i Beatles; terza fase, hanno smesso di cagare quei pianobaristi dei fratelli Gallagher. Tutta quella straordinaria memoria che ci serviva negli anni Novanta per trovare il pezzo giusto da mettere nella cassettina giusta, oggi non ci serve più, un clic e via - la possibilità di farsi archivi enormi e portabili ha banalizzato quelle capacità di memoria e di critica che in quegli anni non erano mica un lusso, erano un esigenza. Analogamente, se proprio mi viene l'insano desiderio di vedere qualcuno pittato come i Duran Duran ai tempi di Rio, faccio molto prima a mettermi su youtube che a venire qui a Maranello ad aspettare questi cazzo di Bluvertigo che, ha detto il tipo, “cominceranno tra mezz'ora per problemi logistici”. Logistici?
Allora siamo qui seduti all'ombra del monumento ad Enzo Ferrari a forma di stronzo. Dietro c'è una chiattona che ripensa alla sua prima cassettina dei Bluve “nel novantasei”. Davanti c'è una ragazzina DEL novantasei che guarda il backstage con sguardo canino e rapace: “Cioè, se sapessi come fare a entrar lì... è come se... (spiega all'amica)... qual è il tuo gruppo preferito? I Tokio Hotel? Cioè, è come se i Tokio Hotel fossero lì dietro...”
Sì, ecco, dimenticavo, c'è questa cosa della televisione. C'è che Morgan è andato in tv, quest'anno, e pare che abbia salvato da solo un programma di giovani talenti con Simona Ventura. E quindi adesso da vecchio arnese anni Novanta si trova sbalestrato sul target dei Tokio Hotel. Secondo me ha fatto bene, eh. Però anche solo se dico così, si capisce che sotto sotto intendo il contrario, che per me un citazionista succube delle proprie citazioni, uno che si traveste per eludere il problema dell'identità, è perfetto per la tv, dove si colloca tranquillamente nella fascia di brontoloni televisivi tra Sgarbi e Zeri; inoltre, siccome il format di Simona Ventura è la versione nobile e hip di Amici di Maria De Filippi, avrei buon gioco a constatare che Morgan si è trasformato nella versione nobile e hip di Platinette. Poi tu t'incazzi ma cosa ci posso fare se questo passa tre mesi pittato in vari modi a difendere l'integrità artistica contro la dittatura del Televoto, e poi porta al trionfo una boyband salentina di trentenni con la pancetta che steccano pure? Ecco, meno male che cominciano a suonare. Andiamo in mezzo, però, perché da qui non si sente tanto bene, eh.
Si sente male anche in mezzo, e lui non si regge in piedi. Ma non è questo il problema. Il problema è che è giù di voce. Veramente parecchio giù di voce. Non stecca, non sbaglia a suonare, ma la voce è un graffio che fa male a sentirla. Per fortuna che parecchie strofe sono su una nota sola. La gente comincia a dire “drògati meno”.
Mi viene in mente che io sono cresciuto in un posto un po' più piccolo, ma sostanzialmente simile, dove ai tempi della mia prima infanzia c'era una cumpa nota come “i drogati”, i quali si ritrovavano al pomeriggio, bada bene, nel cortile davanti alla chiesa, e fumavano. Erano effettivamente gli anni dell'eroina a prezzi popolari. In seguito però seppi da fonte attendibilissima che “i drogati” non si drogavano affatto. Fumavano Marlboro, proprio come nel pezzo degli Offlaga. Però ci tenevano a essere chiamati “i drogati”, e li posso capire: è una gran consolazione, se vivi in un paesone, lo sguardo della vecchietta che passa, ti fissa e pensa Sporcdrughè.
Poi penso a una cosa che mi ero scordato, e che mi ha rimesso in mente Enzo: che negli anni Novanta, per esempio, abbiamo *lavorato* anche a una rivista dove una volta comparve un'intervista a Morgan, non fatta da noi, ma da uno che, vivendo veramente negli anni Novanta, Morgan lo idolatrava. E dunque a un certo punto gli chiedeva: perché ti pitti le unghie? Cioè, noi stavamo cercando di mettere su una rivista letteraria, e su questa rivista un tizio chiedeva al suo cantante pop la ragione intrinseca del suo pittarsi le unghie. Ma vabbè. Comunque Morgan rispose che se le pittava per studiare le reazioni della gente, per esempio, se poi entrava dal tabaccaio, cosa avrebbe pensato di Morgan e delle sue unghie nere?
Questa cosa ci fece molto riflettere. Coniammo anche un'espressione, purtroppo intraducibile, che doveva riassumere una certa velleità ribelloide affetta da inestirpabile provincialismo: épater le tabacchèin. Cercammo anche di raffigurarci il quadretto: un tabaccaio qualsiasi degli anni Novanta, con un'intera stanza di videopoker abusivi, alle spalle precedenti per ricettazione e spaccio. Le cinque del pomeriggio. Entra Morgan, chiede un lollipop, e lo scarta facendo ben vedere le sue unghie pittate di fresco. Il tabaccaio sovrappensiero non reagisce – sta pensando che se la rumena non si sbriga a pagare il subaffitto del seminterrato bisogna sloggiarla con le maniere forti, ma è una grana – e allora Morgan glielo dice: “ehi, hai notato che ho le unghie pittate di nero? Che te ne pare? Sono o non sono un ragazzaccio? Un maudit?”
Insomma, non ha voce. Tu non hai idea di cosa riescano a combinare i cantanti quando non hanno voce. Mio cugino per esempio si buttava a pesce dovunque, senza nessuna pretesa di essere sorretto, si buttava anche sulla batteria, e poi il batterista voleva menarlo, ma in un qualche modo la serata era risolta. Una cosa che mi faceva abbastanza ridere erano quelli che guardavano Xfactor e commentavano quant'è fatto Morgan, ma perché non gli dicono niente? Cioè: secondo voi Simona Ventura dovrebbe dire a Morgan “Vacci piano?” Ma ti ripeto: non stecca e non sbaglia a suonare, quindi è abbastanza lucido.
E continuano. “Fatti di meno! Drughèèèè! Ecc.” E io vorrei urlare Lasciatelo Stare, è giù di voce e sta cantando da un'ora, non vedete che a suo modo ce la sta mettendo tutta? Non vedete che si vergogna anche lui, ma tira avanti, e se c'è l'acuto ti fa pure l'acuto, soffre ma lo fa? Ma sarebbe come barare. Oggi il gioco è questo: lui fa lo Sporcdrughè, e noi siamo il suo pubblico di tabacchini.
Se dio vuole comincia a far fresco. Speriamo di dormire stanotte. No, ti giuro, no, non lo scrivo un pezzo su Morgan, in fondo mi è simpatico.
Carpi Soda
05-01-2008, 15:01concerti, musica, segnalazioniPermalinkMi stavo dimenticando, per esempio, che stasera viene Soda Fountain Rag al Mattatoio di Carpi, ingresso gratis con tessera Arci, e dovremo spiegarle i passaggi del post di quest'estate che Alessandro non è riuscito a tradurre.
Naturalmente, a quest'ora, chi fosse interessato lo sa già, e gli altri non fanno più in tempo.
Oh, beh.
(Update: comunque Enzo fa sapere che il 10 è a Chieti e l'11 a Roma, regolatevi)
>>>(mp3) Pretty Girls Make Mojitos (live in Brescia, 2007/07/21)
don't care about the old folks
26-07-2007, 10:06concerti, Emilia paranoica, invecchiare, musica, ragazziniPermalinkSbagliato, un centinaio. Età media: cinquant’anni. Questo secondo me è interessante, Soda ne ha trenta in meno. Il suo vero nome è Ragnhild Hogstad Jordahl, ma ha preso il nome dalla prima canzone scritta da Duke Ellington a quindici anni (una volta mi piaceva parecchio, Duke Ellington. Adesso ascolto Soda Fountain Rag). Si presenta in inglese: “Salve, sono Soda Fountain Rag e non so l’italiano, ma non importa, tanto non dico niente di importante”. Mentre canta suona la batteria in piedi; il bassista a sinistra, il chitarrista a destra, a cinquant’anni ci arrivano a malapena in tre. Alessandro, l’impavido indie-promotor dei Le Man avec les Lunettes che guida la band su e giù per la val Padana, siede in prima fila e non osa voltarsi indietro. Che cosa sta succedendo.
Fontana dell'eterna giovinezza (frizzante)
Un’ordinaria storia padana. Al castello dei Pico il comune aveva organizzato un ciclo di incontri sulla condizione femminile, “la Fortezza delle donne”. Un assessore conosce Alessandro, Alessandro ha un tour da organizzare, Soda è una ragazza di oggi che scrive canzoni d’amore per le ragazze di oggi, per cui ok, si può fare, perfetto.
Ma il pubblico? Il tipico pubblico dei concerti indiepop si muove sostanzialmente attraverso blog e radio (soprattutto radio). A Mirandola l’unica radio da cui captare indiepop era Antenna Uno, e ha chiuso. I blog in luglio languiscono, sono poco letti e chi li scrive è in giro per i festival. Insomma, è un periodaccio, ma che importa? La piazza davanti alla rocca è piena, perché il comune di Mirandola ha il suo zoccolo duro di partecipanti ad eventi culturali. Cinquantenni emiliani, il sale della terra. Si sono bevuti i comizi di Pajetta, la corazzata Potemkin, le retrospettive di qualunque cosa, le feste etniche e il ritorno della pizzica, figurati se non sono in grado di bersi, perdonatemi il giochino, Soda Fountain Rag. Anzi: va giù che è un piacere, la ragazzuola.
L’Indiepop è un universo cantabile e rassicurante, il porto necessario e senza pretese dove ripararsi quando le angosce dell’adolescenza cominciano a diventare angosce adulte. È un mondo che si schiude confortevole al primo ascolto, strofa ritornello strofa ritornello, questa gente si è bevuta molto di peggio senza batter ciglio. Così la radice punk di questi ragazzini, che a mille miglia da casa suonano come nel loro garage, si ritorce contro sé stessa: i punk sputavano ai vecchi, Soda li intrattiene. Suo malgrado, forse, ma li intrattiene. I punk sputavano ai vecchi, i vecchi hanno vinto.
Se avesse il coraggio di voltarsi, Alessandro scoprirebbe che sta andando tutto bene, gli umarells brizzolati reggono il colpo, mantengono un’aria concentrata ed applaudono bulgaramente ogni volta che la canzone s’interrompe. Paradossalmente sono i giovani i meno attenti: stanno in fondo, nella zona bar, chiacchierano e gestiscono i figli, sì, perché son poi giovani per modo di dire, sulla trentina andante. Fa un bel fresco, tira persino il vento, che nella Bassa di luglio è un sospirato miracolo.
Penso che questa cosa è interessante, ma non so da che parte tirarla. Potrebbe trattarsi di una parabola sull’età pensionabile, sì? In Norvegia investono sui giovani, in Italia sui pensionati, ecco il risultato: una ventenne norvegese che canta per un pubblico di pensionati italiani che nel tempo libero estivo si annoia talmente tanto da trovarla interessante. Ma è una forzatura: è domenica sera, i giovani italiani non sono mica in fabbrica a lavorare per pagare i contributi ai loro vecchi sibariti. Sono a Marina di Ravenna a fottersi fegato e capillari, ballando roba che i vecchietti di stasera non percepirebbero nemmeno come musica, così come noi non percepiamo certi infrasuoni interessanti per i cani. Invece percepiamo l’indiepop. Musica composta ed eseguita da gente rigorosamente più giovane di noi. Accordi che si tirano giù al primo ascolto, canzoni che sapremmo suonare meglio, in teoria. Cos’è questa regressione? Ho sempre pensato che a una certa età avrei cominciato ad ascoltare Schubert, a legger Proust. Col cacchio. Ascolto Soda Fountain Rag.
Quando avevo vent’anni ascoltavo Paolo Conte, e non ero mica il solo. In gita scolastica al liceo, tutti a cantare Un gelato al limon, possibile? All’università ho incontrato Enzo, e anche lui ascoltava Conte (giuro). Perché lo facevamo? Beh, perché ha scritto canzoni favolose, e anche molto cantabili (e di nascosto ballabili). E poi per darci un tono, certe ragazze non le intorti coi Van Halen in autoradio. È l’età in cui si impara a bere i liquori e ad annodare le cravatte.
Poi arriva un’altra età, la cistifellea manda segni pessimi, la cravatta che ti sembrava ironica comincia a stringerti il collo, ti manca il fiato, e Paolo Conte è l’ultima cosa che ti viene in mente di ascoltare. Non c’è più nessuna necessità di affettare gusti adulti, anzi, lode a Dio se trovi ancora un posto dove ti fan ballare. Eppure hai bisogno di carne fresca, hai bisogno di canzoni nuove, e l’indiepop è una manna dal cielo. Fa lo stesso se Soda canta di amorazzi puberali, ha ragione lei, le parole non sono importanti. Conta la musica, e questa musica è… giovanile. Colui che scrisse che giovanile è il contrario di giovane aveva maledettamente ragione, ma c’è poco da fare ironia qui. Qui gli anni precipitano, e ci si aggrappa a quel che c’è. Soda canta e io per lei sono solo uno dei brizzolati che ascoltano e applaudono. Ho cinquant’anni? Ne ho trenta? Secondo voi una ventenne norvegese sarebbe in grado di apprezzare la differenza? Meglio non chiedere, ascoltare e battere il tempo con gratitudine. Sto combattendo la Vecchiaia, vediamo chi vince.
Per fortuna ci sono anche i bambini. A loro non interessa sembrare adulti o giovani, a loro non interessa sembrare; loro ascoltano la musica e queste strofe, questi ritornelli, sono fantastici. Ogni tanto c’è persino un na na na na, tutto quattro quarti, non è meraviglioso? Così in realtà abbiamo passato metà del concerto a guardare un bambino che con due bacchette suonava una batteria immaginaria, con rullante charleston e pure il campanaccio. Era fantastico, così gli abbiamo rubato l’anima. Però è venuta scura.
- punk rock drives me crazzzz.......
30-07-2006, 06:26Americana, concerti, musicaPermalink- 2025
05-07-2005, 06:462025, concerti, musica, u2PermalinkSgt. Pepper taught his band to play
They've been going in and out of style…
A-aid, 2025
Caro Leonardo,
Ieri finalmente Taddei è riuscito ad accedere da solo a qualche contenuto Supernet. E ha avuto una brutta sorpresa, ovviam.
"Non chiedevo molto. È il Quattro Luglio e volevo vedere una parata. Ma in quel corridoio fottuto…"
"Ssst! Siamo in Facoltà, Taddei".
"Scusa. Dicevo che sono finito in una specie di corridoio digitale e sentivo che gli altri utenti fottuti mi spingevano in una direzione diversa".
"Te l'ho detto, è quasi impossibile connettersi con gli usastri. Vanno troppo veloci per noi. Mentre provavi sei stato assorbito da una corrente di utenti della zona mediterranea".
"Ma se io volevo andare da un'altra parte…"
"Te l'ho spiegato varie volte. È come una strada supertrafficata, te le ricordi le strade supertrafficate?"
"Sì, bei tempi".
"Ecco. Fa conto di essere nei vecchi tempi, all'ora di punta, e di dover svoltare a sinistra senza semaforo. Non ci riesci. Devi seguire la corrente".
"Su Internet non era così".
Su Internet qua, su Internet là… che palle, Taddei. "Internet non c'è più, va bene? Devi imparare a guidare nel vero traffico, adesso".
"Ma insomma, guarda dove sono andato a sbattere. Un concerto benefico in Africa. Voglio dire, è possibile che stiano andando tutti a un fottuto concerto?"
"Direi di sì. È l'A-Aid di Dakar, l'evento musicale del ventennio".
"Allora lasciatelo dire, è stato un ventennio di merda. Valeva proprio la pena di svegliarsi per vedere gli U2 coi capelli bianchi che leccano il culo sul palco al tirannello africano di turno…"
"No. No. Ti stai sbagliando. Gli U2 si sono sciolti una dozzina di anni fa, per motivi di salute, e…"
"Ok, chiedo scusa, c'è solo Bono sul palco con una buzzica da un quintale, che stringe le mani a un dittatore".
"Da capo. Reset. Controlzèta. Intanto quello non è un dittatore, è il grande Baaba Maal".
"Un santone?"
"No, un mito della musica africana…"
"E allora perché sta discutendo con Bono da dieci minuti? Non possono iniziare il loro fottuto duetto e amen?"
"…e non ci sarà nessun duetto, perché quello non è Bono, ma Paul Hewson, il Presidente dell'Unione Bizantina".
"Ah".
"… e prima che me lo chiedi, sì, Paul Hewson una volta si faceva chiamare Bono e cantava negli U2; adesso invece non canta più".
"Perché si è dato alla politica?"
"No, piuttosto viceversa: si è dato alla politica perché in seguito a un'overdose di aerosol ha perso l'ultimo residuo di corde vocali. Anche adesso è solo in grado di bisbigliare grazie a un laringofono digitale. Immagino che stia cercando di ringraziare Maal per aver organizzato questo bel concerto, vent'anni dopo il Live Aid".
"Vent'anni? Non credo. Al massimo quaranta".
"Hai ragione anche tu. Ce n'è stato uno nel 1985 e uno nel 2005, ma probabilm tu eri già in coma".
"Mi sono risparmiato almeno una fiera dell'ipocrisia. Io mi chiedo con che faccia continuino a chiedere soldi alla gente. Non sono bastati quarant'anni per capire che la beneficenza non serve?"
"Taddei, per favore…"
"Possibile? Non hanno occhi per vedere che più li aiutiamo peggio è?"
"Taddei, abbassa la voce".
"Cos'è, hai paura? Guarda che qui intorno gli studenti mi rispettano, non te ne sei accorto? Finalmente qualcuno che parla politically uncorrect, senza troncare tutti i fottuti avverbi. Finalmente qualcuno che ha il coraggio di dire che se vogliamo realmente aiutare l'Africa…"
"Taddei, non è un concerto per aiutare l'Africa".
"E allora perché lo fanno a Dakar?"
"Lo fanno là perché là c'è una borghesia giovane e rampante che può permettersi di pagare il biglietto. Il concerto serve ad aiutare le popolazioni europee colpite dalla carestia di questo inverno".
"Gli europei?"
"Sì, e non è escluso che una parte dei proventi non finisca anche nelle casse del Teopop, per cui te ne prego, non essere troppo uncorrect in pubblico, se non ti spiace".
"E quindi in Africa se la passano bene?"
"Sì, ma non ti preoccupare, non è stato grazie a Bono o Geldof. Su quello hai ragione: la beneficenza non ha portato a grossi mutamenti strutturali. È stato il libero mercato".
"Il Libero Mercato!"
"Già!"
"Lo vedi che avevamo ragione!"
"Voi chi?"
"Noi che… noi che difendevamo il Libero Mercato!"
"Sssst!"
"E allora perché sssst?"
"Perché il libero mercato, dopo aver sospinto tutte i popoli del mondo allo sfruttamento indiscriminato delle risorse, ha provocato l'erosione dei poli, che ha trasformato l'Europa in una palude e ha messo in ginocchio il settore più protetto dell'economia occidentale".
"L'agricoltura".
"Già. Perché l'Europa agricola era una grande pianura, mentre l'Africa…"
"È il continente degli altipiani".
"Gli africani producevano già molto più del loro fabbisogno. Ma finché l'Europa sosteneva i suoi contadini e i suoi consumatori, gli africani erano condannati a fare la fame in mezzo alle piantagioni di caffè e di banane. Finché il Libero Mercato non ha distrutto il nostro ecosistema. Adesso sono liberi di coltivare quello che gli piace, commerciarlo tra loro e arricchirsi. E poi ci sono i metalli preziosi, gli idrocarburi…"
"Il continente più ricco del mondo".
"Potenzialm, sì. Se i cinesi e gli indiani non lo invadono prima. È per qsto che organizzano concerti benefici per gli amici europei. Sperano di rilevare l'arsenale militare bizantino, che è ancora il più forte del mondo. E magari riescono anche a infilare qualche aiuto per noi".
"Ma noi non abbiamo avuto la carestia".
"Dipende dai punti di vista".
"Senti, io mi sto facendo una cultura, qui. E so che tutti qsti studenti lavorano nel riso part-time. Da Bologna in su è tutta una risaia. Abbiamo riso da vendere".
"Non ce lo compra nessuno. E non si vive di solo riso, Taddei".
"E vendiamolo agli africani, no? Scambiamolo con la frutta, col caffè! O costa troppo per loro?"
"Costa troppo poco. Loro devono proteggere il loro prodotto interno".
"Ma che razza di stronzi… fanno i concertini benefici e non ci comprano il riso?"
"Taddei, lo so che è uno choc culturale, ma prima o poi devi accettarlo: gli africani sono intelligenti come noi".
"Qsto lo so, ma…"
"E quindi altrettanto stronzi. Hanno tutto l'interesse a lasciarci nel nostro sottosviluppo. Possono farci la carità ogni tanto, foraggiare i nostri dirigenti più o meno corrotti, qsto sì. Ma se volessero incentivare davvero la nostra economia, finirebbero per mettere in crisi la propria. E qsto va contro le leggi del Libero Mercato".
"Il Libero Mercato".
"Sempre lui. E adesso, per favore, zitto. C'è Youssou N'Dour sul palco. E qllo… qllo dev'essere El Hadji Faye!"
"E allora?"
"E allora? E allora vuol dire che sono riusciti a riunire la formazione originale dell'Étoile de Dakar, qlla del 1977! Dopo 45 anni! Pensa!"
"Ma cantano in inglese".
"Ah, sì, la canzone è un tributo ai Beatles. È commovente, no?"
"Commovente? Cosa?"
"Che un gruppo di senegalesi si ricordi ancora dei Beatles, nel 2025. Non lo trovi commovente?"
"No".
So may I introduce to you,
the act you've know for all these years,
Sgt. Pepper's Lonely Heart's Club Band
"Non vorrei mai venire ad abitare in una casa più piccola della mia".
(Paul Hewson, negli anni Novanta, a chi gli proponeva di candidarsi alla Casa Bianca).
Terza e ultima
Settembre, a Modena, è l’unico mese che valga la pena. Poi ci saranno le nebbie, le piogge, qualche nevicata, e poi improvvisamente il sole, il sudore, i finestrini aperti su polline e micropolveri, le zanzare e l’afa, e tutti al mare. Non ci fosse questo terrazzino sull’autunno, dove vengono le ragazze vestite di bianco per meglio farsi valutare l’abbronzatura, e il lavoro di rassodamento ai fianchi, non ci fosse un po’ di Festival per farsi il riassunto su chi si è diventati, dove si abita, e con chi, e perché, e quanto al mese e per quanti mesi. Non ci fosse tutto questo si potrebbe anche piantar baracca e burattini e andare dovunque, ché la val Padana non sembra esser stata progettata per noi: per le zanzare, forse (o per le nutrie).
Io poi col secolo nuovo avevo un sacco di cose da dire a un sacco di gente: che adesso abitavo in centro a Modena, e lavoravo, lavoravo anche parecchio, con un contratto a tempo indeterminato, ch’è si raro. Così che improvvisamente il volontariato non mi interessava più. Oddio, il mio capo – che aveva uno stand al Festival – ci avrebbe anche tenuto.
“E poi potresti andare a fare qualche serata al Festival, no?”
“Al festival? Fino a mezzanotte?”
“Ma no, alle undici chiudi”.
“Ma poi il giorno dopo vengo a mezzogiorno?”
“Ehm, no, se fai così tu dopo anche tutti gli altri…”
“Ma allora è straordinario, me lo pagate?”
“No, sarebbe volontariato”.
“Eeeh?”
“Volontariato!”
“Beh, qualche volta vi verrò a trovare”.
Il lavoro è lavoro e il volontariato non è lavoro, e a chi mi diceva rifacciamo una rivista un gruppo di studio, o semplicemente tiriam mattina con i massimi sistemi e con la birra io rispondevo non ho tempo vado a lavorar. Mi fermai a sentire Luttazzi, risi tutto il tempo e il giorno dopo non mi ricordavo una battuta sola (pare che a molti faccia questo effetto), vidi i Subsonica, gli Almamegretta, la gente che entrava a vedere i Blu Vertigo, con Morgan che tentava lo stage diving e picchiava per terra ingloriosamente (e la Sammi si incazzò col suo ragazzo perché Asia lo aveva inspiegabilmente salutato). Fu un anno di transizione, come tutti. Del resto a esser precisi il secolo iniziava l’anno successivo.
L’anno successivo, appunto.
L’anno successivo mi ritrovavo a sinistra del Partito, parecchio a sinistra del Partito, per uno che era partito da una parrocchia e non gli sembrava di essersi mosso granché. Allora forse si era spostato il Partito, no?
Tornare da Genova, con le sirene nei timpani, e trovare tra un paio di Megan Gale quel cartello pubblicitario fu come il colpo di grazia. Noi ci si faceva massacrare per strada e il partito restava in casa a fare marketing. Ero molto incazzato, e quando sono incazzato scrivo (riuscite a immaginarvi quanto io sia incazzato?)
Scrissi un pezzo che, a detta di chi se ne intende, è ancora uno dei migliori. La lesse pure mio fratello e rise molto. Un giorno eravamo in macchina assieme – stavamo andando al matrimonio di Virus (che non si ricorda più di essersi mai chiamato Virus) – e passammo sotto quel cartello. “Non dire niente”, mi disse. “So già la storia”. Scrivendo molto non mi restavano poi parecchie cose da dire.
Io sapevo che prima o poi mio fratello l’avrei visto, allo Spazio Giovani, stavo abituandomi all’idea. C’era abbastanza Spazio Giovani per tutti e due? Dovevo farmi da parte?
Per il momento andavo ai concerti (gli Stereolab! Ma l’acustica era pessima) e stavo dietro il banchetto di Attac. C’eravamo presi la nostra posizione e non la mollavamo. In un mese avevamo già stampato cinque quaderni di lavoro, vendevamo magliette, tessevamo una trama di studenti, insegnanti, operai più o meno specializzati. Chiesi al mio capo uno spazio dello stand per proiettare un paio di filmati di Genova, uno coi manifestanti pacifici e l’altro coi manifestanti tumefatti. Non facevamo che guardare spezzoni di Genova, e in sottofondo, onnipresente, Manu Chao, neanche più musica, fruscio. Dovevamo convertire il Partito che il 21 luglio ci aveva lasciati soli. Eravamo in tanti, l’assemblea era prevista per la sera dell’11.
Quando su un tavolo di biliardo una boccia colpisce un’altra, trasferisce su di lei gran parte della sua energia cinetica. La boccia che era immobile schizza via. La boccia che correva si ferma di colpo. Ma se potessimo rallentare come in un filmato, scopriremmo che c’è un istante in cui le due bocce sono ferme, immobili, e l’energia cinetica è trattenuta da qualche parte. La collisione c’è già stata, ma le reazione non ancora. L’11 settembre ci sentivamo così. Venivamo da Genova, andavamo forte, siamo andati a sbattere contro questa cosa enorme. E sapevamo già che non ci saremmo più mossi, e che anche questa cosa enorme in breve sarebbe schizzata via, per la sua rovinosa strada: ma intanto eravamo lì, a bocce ferme, disperati e impazienti. Allo Spazio Giovani avevano montato il maxischermo, così arrivando alla spicciolata sentimmo per la prima volta la voce di Bruno Vespa nel sacrario. E in un momento in cui non ci si capiva nulla, ma davvero nulla, e le stime sui morti variavano dai cinquecento ai cinquantamila, il Ministro Claudio Scajola seppe fornirne la cifra precisa, “da fonte certa, americana”. Quell’uomo era un fenomeno, anzi è.
Tornai a casa, misi su rai 3 e passai la notte sul divano. Nulla sarebbe stato come prima, come si dice in questi casi.
L’anno dopo c’era la guerra e io ero esausto. Cambiare lavoro, raccogliere tremila firme, protestare contro l’Afganistan e l’articolo 18, incontrare la donna della propria vita, sono cose che stancano. In libreria ci sono i soliti fumetti, è inutile che ristampino Moebius, lo so a memoria. C’è una mostra di Wharol, ma quanto tempo ci puoi mettere a guardare una mostra di Wharol? Dieci minuti per leggere la presentazione e tre minuti per un’occhiata ai vasetti Campbell. Al banchetto del Forum Sociale ci andavo per inerzia. Proiettavo l’ennesima videocassetta su Genova (e la gente continuava a fermarsi, sconvolta). Volevo prepararmi sul WTO, lessi tutto il libro di Susan George che in seguito, purtroppo, dimenticai.
Di fronte c’era l’Associazione Italia-Cuba, con le eterne magliette del Che. Il giorno della manifestazione per la pace, spuntò il cartello: magliette della pace.
Lì sotto, sulla riva del lago, c’era lo spazio Giovani, ma io non volevo più andarci, e avevo ragione. C’è gente davvero giovane lì sotto. Una sera stavamo facendo capannello quando non passa un fighetto totalmente stonato con un gavettone di birra? Ed eccoci qui, un architetto, un professore di italiano, un dottorando in filosofia e un avvocato, fradici di birra. Eravamo molto incazzati, in ispecie Johnny, che certe cose ai suoi amici non le può tollerare (lo tenemmo fermo in sei).
“Ti portiamo a casa, eh?”
Verso il parcheggio, sull’argine del laghetto artificiale, quasi inciampiamo in un culetto roseo, sbocciato da un paio di jeans sbottonati.
“Ehi, ma qui c’è un culo!”
“Se guardi bene, non è da solo”.
“Ma che ci fanno lì? Si sono addormentati?”
“Oppure se la prendono comoda”.
“Che roba però, ‘sti giovani”.
“Sfacciati, proprio, eh?”
“Ma figurati se noi alla loro età”.
Sulla strada di casa sorpassiamo il fighetto a piedi con la macchina, il suo fuoristrada ha spianato il guard-rail.
Quest’anno qualcosa è cambiato.
Hanno fermato Tom fuori dal parcheggio custodito: si era fatto un paio di birre. Palloncino, patente ritirata (da dieci giorni a sei mesi, vedremo), dieci punti in meno, mille euro di multa.
Ho la sensazione che nulla sarà come prima.
Per il resto, mi tengo la smorfia dell’anno scorso, ma non sono più esausto, sono solo scocciato. Non faccio banchetti, volontariato non mi ricordo più cosa sia, le ragazze carine sono tutte sistemate, ballare non se ne parla, birra è meglio berne poca. Giusto per vedere Cofferati, che l’anno prima non sarebbe mai entrato in politica, e quest’anno non desiderava altro che prender la cittadinanza a Bologna. La verità è che ho poca voglia di uscire, non sono più abituato a tanta gente nello stesso posto. E poi una volta ero solo, autonomo, parcheggiavo, bevevo qualcosa, un’occhiata in libreria e fine. Ora devo salutare cento persone e tutte mi chiederanno come va col lavoro, e qui dovrò iniziare cento discorsi un po’ complessi.
“Non sarà che comincia a starti stretta, Modena?”
“No, lo escludo. È che… Lo escludo”.
“Cosa prendi?”
“Una bud”.
“Ih, ih, ih”.
“Che c’è?”
“Si pronuncia bad, ignorante”.
“Lo so. Però io dico bud. Problemi?”
“Eeeeh, che carattere”.
“Sei tu che rompi le palle, scusa”.
“Com’è andata al mare?”
“Di merda. E te?”
“E il lavoro, come va?”
“A puttane grazie”.
“Ma quella rivista che facevi…”
“Chiuse tutte le riviste”.
“E quella brunetta che stava in casa con te, sai che a me piaceva…”
“Tornatataranto”.
“Ah… cambiando argomento”.
“Ecco”.
“Quest’anno è uno schifo, non c’è neanche un concerto”
“Ma non direi, stasera è pieno”
“Sì, Irene Grandi lo chiami un concerto. È roba da ragazzini”.
“Infatti”.
“Ma tu cosa ascolti, adesso?”
“Non lo so”.
“Io ho preso il live di Manu Chao, carichissimo! Te lo presto?”
“Magari un’altra volta”.
Ora mi rendo conto che ho raccontato quindici anni di Festival dell’Unità di Modena senza quasi parlare del Partito. Che ha cambiato due nomi, due quotidiani e quattro segretari, due volte nella polvere e una volta al governo. Che a Roma ha perso soldi a palate, mentre qui la gente si dava da fare a friggere piadine e a bollire tortelloni, polverizzando record d’incasso, e poi buttando tutto via per quel lotto di terra a Ponte Alto che alla fine non valeva neanche la pena.
Allora spiegherò una cosa: per me, e forse non solo per me, il Partito è come la parrocchia. È un’istituzione che non va presa troppo sul serio, però allo stesso tempo non la si può prendere in giro, ci vuole rispetto. Non per i preti, che vanno e vengono e di solito non hanno niente di nuovo da dire, ma perché c’è gente che ci ha lavorato, e gratis, e non per un volontariato di un anno o due, ma per una vita.
Voi cosa sapete delle parrocchie? Quello che dice il Papa, o Ruini? Non ne sapete niente. Cosa sapete del Partito? Quel che dice Fassino? Fassino non è nessuno senza la gente che lo sta ad ascoltare. Ed è quella gente che monta gli stand e serve ai ristoranti, e si siede per due ore ad ascoltare il nuovo segretario, e ogni anno ce n’è qualcuno in meno. Quando non ce ne saranno più pianteremo baracca e burattini e ce ne andremo via, perché la val Padana non è degna di essere popolata. Io a quindici anni ero una tabula rasa, se qualcuno mi avesse detto: tiriamo sassi da un cavalcavia, ci sarei andato. Se mi avessero dato una mazza in mano, sarei entrato in uno stadio con quella mazza in mano. Ma c’era una parrocchia, c’erano festival all’aperto, città finte di compensato in cui la gente passeggiava tranquilla e nessuno mi chiedeva chi ero e da dove venivo. Voi l’avete un posto così, nelle vostre smaglianti città? A Modena un posto così c’è, e lo hanno fatto i comunisti, che adesso si chiamano diessini. Per questo andrebbero giudicati, non per le loro idee sballate o per le loro strategie ancora più sballate. Per il loro lavoro, per la loro serenità, per la loro accoglienza. C’erano librerie e i concerti, e banchi del bar, e qualcuno mi chiese di fare il Delegato Letteratura, e tutto è iniziato da lì. E tutto questo mi è stato dato gratis, e il meno che io possa fare è dire: grazie. Mi dispiace per chi non c’è più, ma io ci sono, e ci sono anche grazie a voi.
(2 – gli anni dell’Ulivo)
Prolisso, inconcludente, insomma saltate
Nel 1995 Gloria cominciò a dipingere i pannelli del ristorante tipico modenese, con quei trompe-l’oeil che erano la sua specialità. Ci chiese di aiutarla, più per la compagnia che per le nostre capacità.
A quel tempo noi due prendevamo molti treni assieme, perché la sua Accademia e la mia Facoltà erano nelle stessa città, anzi nello stesso spiazzo, e quindi l’accompagnavo fino all’ingresso, parlando dei vecchi tempi. Lei si era appena messa con Giorgio, e secondo me non poteva durare, ma non glielo dissi mai. Feci bene.
In quel periodo, del resto, ero pieno di amiche e confidenti, per le quali facevo cose ora difficilmente spiegabili, come quella volta che mi spinsi fino al Festival di Reggio a trovare la Simona che lavorava come cassiera (quella sera Capossela cantava Non è l’amore che va via), e magari dissi pure una frase del tipo “Passavo di qui per caso, vuoi uno strappo a tornare?” Anche lei era in una fase tormentata e una sera ci sbronzammo a brachetto.
Che fossero compagne di università, o ex compagne di liceo, oggettivamente io mi fermavo a salutare un sacco di ragazze carine, e, benché non battessi chiodo, intorno a me si stava creando un’aura leggendaria. Me la fece notare Giai una sera, mentre curiosavamo in uno stand. Giai aveva sentito parlare di una Banca Etica e voleva metterci dei soldi. Un signore con una grande barba bianca ci spiegò che la Banca non esisteva ancora, bisognava raccattare tot miliardi con una sottoscrizione. Giai sottoscrisse. Io non avevo un soldo.
Io studiavo, macinavo esami, e intanto scrivevo nel giornalino del Circolo, quello di Glauco e Ric. Ma quei due li vedevo sempre meno, si stavano preparando al progetto Erasmus. Come tutte le mie amiche carine, del resto: tutti non facevano che parlare di quando sarebbero partiti per l’erasmus, lasciandomi solo.
Invece l’anno dopo ero meno solo che mai. Era successo di tutto nel frattempo. L’Ulivo aveva vinto le elezioni, d’accordo. E il partito stava cambiando nome, ma questo non interessava veramente nessuno. La vera novità era la mia ragazza. Essa mi voleva bene. Essa veniva a trovarmi in gelateria. Essa amava me e le cose che scrivevo nel mio giornalino. Anche quando stroncavo questi scrittori giovani e minimalisti. Che pena, ‘sto minimalismo! Ma leggetevi Lauzier! (Lauzier l’avevo scoperto sugli scaffali del Festival, mi ero letto tutto il Ritratto di Artista senza pagare).
Devo dire, per puro amore di cronaca, che la mia ragazza non era la sola, che c’era un gruppetto di giovani che quel giornalino a mille lire lo comprava, e lo leggeva abbastanza volentieri. Non erano tante: alcune decine di persone che si conoscevano, quasi tutte per interposta persona e quasi nessuno per nome, e finivano per salutarsi a furia di vedersi sempre negli stessi posti, in particolare al Festival, nello Spazio Giovani. Tra questi c’era una banda di filosofi un po’ più giovani di me, come Johnny, che cantava hardcore melodico in un complesso, e Ivo, a cui una sera chiesi la differenza tra Jungle e Trip Hop (c’era molta differenza).
Il 1996 fu l’ultimo anno di Modena Nord, il Festival si trasferiva a Ponte Alto, quasi un’altra città. Io credevo che nulla sarebbe stato come prima.
Nel 1997 ero disperato. La mia ragazza mi aveva lasciato per un giovane scrittore minimalista. Non riuscivo a stare fermo, ero tarantolato. Andavo a Ponte Alto tutte le sere. Del resto da fare ce n’era.
Facevo volontariato nella piadineria della Pubblica Assistenza. Facevo volontariato nello stand del Commercio Equo e Solidale (dove avevo ritrovato il tale dalla barba bianca, Mario Cavani). Perfino nel bar del Florida, perché? Niente, qualcuno me l’aveva chiesto. Meglio stappar birre tra la salsa e il merengue che restare nel chiuso della mia stanza, con la tesi a mezzo, un virus nel pc e mille vermi nei pensieri.
“O, middai una bud?”
“Pronta la bud… la bad”.
Una sera, non so se sotto l’influsso del ritmo cubano o friggendo una salsiccia, ebbi nel mio piccolo l’equivalente della mela di Newton: i significanti visivi nelle tavole parolibere potevano essere distinti in fonogrammi, spaziogrammi e tassogrammi.
“Forse ci sono anche gli psicogrammi”, spiegai a Glauco che era lì vicino, “non so, ci devo pensare”.
“Gli psicodrammi?”
“No, niente a che vedere. PsicoGrammi, con la G”.
“Ma dove li hai trovati?”
“Da nessuna parte. Li sto inventando io”.
Funzionarono. Infine, a darmi pace, tornò dalla Calabria Giovanna che, con la scusa che non si trovava più a suo agio col fidanzato, l’undici settembre mi portò sopra l’argine del laghetto artificiale e ruzzolammo fino alle quattro del mattino, quando i custodi videro arrivare un ventiquattrenne con gli occhiali deformati e una scarpa sola.
“Scusate, non avreste una torcia elettrica? Perché ho perso una scarpa”.
Anche col loro aiuto la scarpa non si trovava, così tirai fino all’alba, pensando che Modena Nord, certo, era stata importante, ma anche Ponte Alto sarebbe andata benissimo.
Nel 1998 non avevo più voglia di fare volontariato, per una ragione banale: ero obiettore. Quello che fino a quel momento avevo fatto per amore, ora dovevo farlo per forza, e manco mi pagavano. Per giunta il Commercio Equo e Solidale batteva la fiacca. Tutti gli stand commerciali battevano la fiacca, intorno a noi c’era un gran brontolìo di esercenti. Io sedevo alla cassa e mi leggevo i libri in vendita, in particolare uno tedesco in cui si parlava di “società dei quattro quinti”: un quinto produce, gli altri quattro si passano il tempo come possono, vanno ai concerti, fanno volontariato, fondano riviste, complessi musicali, e intanto consumano. In un altro capitolo spiegava che il novanta e rotti per cento del commercio mondiale è pura speculazione, che per frenare questa speculazione basterebbero piccoli accorgimenti, come una minuscola imposta sulle transazioni di grande entità: un’idea che era già venuta a rispettabili economisti, come il professor Tobin.
In quel momento la radio stava diffondendo un pezzo ipnotico, un po’ curioso, con un chitarrista che sembrava assunto per suonare una sola nota in sordina, un doing! ogni quattro battute, e nient’altro. Era un pezzo del nuovo album di Manu Chao, spiegò il diggei, precisando subito: l’ex voce dei Mano Negra. Toh, pensai, chi non muore si risente.
Mama was king of the mambo
Papa was king of the jungle…
Alla piadineria della Pubblica Assistenza avevamo organizzato un incontro per presentare la nostra rivista, che si chiamava “Energie Nuove” in omaggio a Gobetti, aveva la copertina patinata in quadricromia ed era finanziata dalla Pubblica Assistenza, appunto. Purtroppo la stessa sera c’era la Melandri da una parte e Rigoberta Menchù da un’altra.
Giù allo Spazio Giovani scambiai due parole con un ragazzo francese, che lavorava al Comune. Mi spiegò che si trattava di un progetto chiamato Servizio Volontario Europeo. La parola “Volontario” ormai stava diventando onnicomprensiva, come qualche anno prima la parola “progetto”. Figuratevi un “progetto di volontariato europeo”: praticamente doveva includere tutto, il contrario di tutto e il contrario del contrario di tutto, e ci si poteva girare l’Europa…
Nei mesi successivi girai effettivamente un po’ di Europa, ma dovunque andassi, Manu Chao mi precedeva. Divenne un incubo. Tra l’altro io sono convinto che Clandestino sia un bel disco, ma, come dire, un po’ ripetitivo. E nel 1999 lo ascoltavano tutti: in Italia, in Francia, in Scozia, ovunque tornava di moda. La gente che non mi vedeva da mesi non vedeva l’ora di farmi sentire l’ultimissima novità:
King of the bongo
King of the bongo bong
Here me when I come
L’altra moda del 1999 erano i matrimoni. Si sposò Gloria, con Giorgio, e io tornai in Italia per fare il testimone; si sposò Simona, e come facevo a non tornare di nuovo. Al Festival ci andai un paio di sere, giusto per vedere gli Asiandubfoundation, e constatare che anche senza di me tutto sarebbe rimasto come prima.
Quando tornai nella mia cittadina in Francia, ci fu una specie di fiera, e io invitai fuori una mia collega danese.
C’erano due o tre stand, una lotteria, un tirassegno, l’autoscontro. C’era un concerto gratuito nel parco, e ai bordi del parco un sacco di gente poco rassicurante. Gli stessi ragazzi con cui avevamo a che fare di giorno, la sera ci mettevano soggezione.
Eppure lei era entusiasta. Diceva di non aver mai visto una festa di paese così, con tanta gente fuori, le famiglie, i bambini, e tutto all’aperto. Io facevo sì con la testa, anche se non ci trovavo niente di così straordinario. Poi capii qual era il problema.
Il problema è che sì, quella festa non era male, ma nella mia città, giù in Italia, sarebbe durata venti giorni, e tutti sarebbero potuti entrare, senza aver paura di nessuno. Infatti, in tanti anni non mi era mai capitato di vedere una rissa. Mai una. Ci feci caso, per la prima volta, a mille chilometri di distanza.
(Coraggio, continua)
Non pretendo che tutto questo interessi a nessuno, ma
Ho sentito dire che una volta lo facessero al Parco Ferrari, il Festival: io non me ne ricordo.
Modena Nord, invece, sembra ieri. E invece sono secoli. Quando vennero gli Iron Maiden? Io non ero nell’età di comprendere e di volere. Gironzolavamo intorno alle transenne e dovevamo essere ben buffi, quando un tizio ci chiese se volevamo del fumo. Ci arrampicammo su un’impalcatura e salimmo sulla tettoia di un capannone, il palco da lassù era una lucina lontana. Ma avevamo dimostrato del coraggio. Nostro zio ci aspettava a casa di Gloria per la mezzanotte.
L’anno dopo Virus aveva preso una brutta piega, nel casotto del nonno stava mettendo a punto delle bottiglie Molotov. Virus non era arrivato al terrorismo attraverso un percorso politico, a 14 anni era un dinamitardo puro: il suo disegno strategico era: “quando vengono i Deep Purple al Festival, saliamo sul capannone dell’anno scorso e tiriamo la molotov sul pubblico!”. La leggenda nera del gruppo britannico (chitarristi incendiari che danno fuoco a tutto e scappano in elicottero, smoke on the water and fire in the sky) aveva eccitato le nostre giovani menti.
Oddio, “menti” era una grossa parola.
Probabilmente la molotov non sarebbe esplosa, ma probabilmente avrebbe potuto rompere la testa a un povero metallaro, e in cima a tutti questi probabilmente resta il fatto che tre giorni prima del concerto Ciano venne a dirci che avevano finito di riverniciare la canonica di San Possidonio: l’ipotesi di recarsi nottetempo con un paio di bombolette e scrivere un mucchio di cazzate vinse sull’opzione Deep Purple. Ne abbiamo fatti di danni a quindici anni, ma poteva andarci anche peggio.
Ci ha salvato, forse, l’aver messo su un complesso: l’idea iniziale mia era spaccare un sacco di chitarre, ma poi l’evidenza che le chitarre costano ci mise per la prima volta di fronte a un qualche principio di realtà.
A quel tempo non si può nemmeno dire che andassimo al Festival: ci fermavamo ai baracconi. (A Modena le giostre si chiamano “baracconi”, magari è così in tutta Italia, ma non ne sono sicuro e nessun dizionario mi può aiutare). Ricordo molto bene un aggeggio infernale a forma di pozzo petrolifero che faceva il giro della morte, e io rinchiuso lì dentro volevo davvero morire, sentivo dietro di me Giai che bestemmiava per la prima volta della sua vita, ma io dissi solo: “ora basta”, proprio come un bambino stanco, “ora basta”, e invece continuò.
Mi posso aiutare con la musica: Listen to the beat, the beat of the sun, sun. Mano Negra, 1989. Voi non lo direste, ma per me è una canzone da autoscontro.
In realtà non eravamo neanche ragazzi da baracconi, ma in tre o in quattro facevamo il filo alla Gloria che stava nell’ultima casa di campagna, di fianco all’Inceneritore. Il secondo live del complesso lo registrammo sotto il portico di casa sua. Ho ancora la cassetta. Io ero una specie di integralista della scala pentatonica.
(Se l’avessimo saputo, che nei pressi c’era il Circolo Anarchico la Scintilla, magari ci saremmo avventurati sulla riva del Naviglio per sentire la Paolino Paperino Band: oppure lo sapevamo benissimo e non ne avevamo il coraggio, possibile).
Quindi dev’essere proprio il 1989: l’anno dopo non uscivo più con Giai, mi aveva bruciato la chitarra in una stufa a legna. Passarono alcuni anni di intensa vita parrocchiale, e in quanto privo di patente non è che potessi dire: “ragazzi, dai, andiamo al Festival!”. Stavo nei sedili dietro e mi ciucciavo la cassetta di Ligabue, che so a memoria.
E così
un altro sabato è andato così…
Ligabue è un genio, anche se non tornerò mai a un suo concerto. Ne ho visti due nel 1991 e mi bastano. Il primo in giugno in una piazzetta di Nonantola (ci andai in bicicletta!), il secondo gratis in settembre al Festival dell’Unità, ma in mezzo era successo qualcosa: non avevo più voglia di vedere un concerto. Specie di Ligabue. Dopo due pezzi andai a leggere fumetti in libreria. Mi aveva stancato il rock, i cappelli da cowboy e le scale pentatoniche, stare in piedi pigiati per due ore o sopra una panchina mi sembrava un’idiozia, e Bar Mario era un pezzo da sedicenni (I was 17). Quando poi vennero gli Heroes do Silencio, l’ostilità si tramutò in cinico disprezzo. Io e Jan decidemmo che il biondo visigoto appollaiato su un amplificatore stesse declamando “Pulivapor”, e tutta sera continuammo a cantare “Pulivapor!, Pulivapor!” con cipiglio da gruppo hard rock iberico. Tuttora se ci incontriamo e ripensiamo agli Heroes do Silencio, torna l’irresistibile ritornello di quella sera (“Puuuuulivapor, puuulivapor!”), in cui voltammo pagina sui nostri gusti musicali.
L’anno dopo, la patente, che mi costò inenarrabili sforzi, mi diede l’autonomia che agognavo: fine delle serate sul sedile posteriore, era il tempo della libertà, della solitudine, dell’angoscia. Se hai appena imparato a guidare, parcheggiare intorno al Festival è un incubo. Ci misi due ore, sudai sette camice in retrosterzo, e al ritorno mi si gelò il sangue, vedendo il bianco di un biglietto sotto il tergicristallo. Non era una multa (sarebbe stata la prima): diciamo che era un consiglio da amico.
IMPARA-A-PARCHEGGIARE
FIGLIO-DI-PUTTANA
L’ultima goccia nel vaso della mia disperazione. Non so neanche che ci fossi andato a fare, al Festival. In realtà non conoscevo nessuno, non sapevo nulla, ero appena venuto al mondo con la mia Golf del ‘74. Mi accostai al bancone della Sinistra Giovanile e chiesi… chiesi una Bud (si pronuncia Bad)
“Io… ehm… una bad”.
“Eeeeeeh?”
“Sì, una birra in bottiglia, una…”
“Aaaaaah, una bbud!”
“Sì, ecco”.
Manco una birra, riuscivo a ordinare.
Le uniche persone che conoscevo erano Glauco e Ric, perché erano molto alte e nelle assemblee di Istituto svettavano. Dopo le occupazioni della Guerra del Golfo avevano deciso di mettere su un circolo, e volevano che io facessi il Delegato Letteratura. Non so il perché.
“Allora, quand’è che vieni a fare il Delegato Letteratura?”
Per quanto ridicola, questa richiesta era l’unica prova della mia esistenza a Modena. Il Liceo era finito, L’Università partiva in novembre, Giovanna era in Canada e non le mancavo. Che angoscia. Che solitudine. Che fatica parcheggiare. La vita cominciava sempre più a somigliare a una fregatura.
Al ’93 risale il mio interesse per la programmazione culturale, un recital di Riondino con le sue canzoni brasileire che mi avevano fatto ridere in tv cinque anni prima e mi avrebbero fatto ridere un po’ meno nello stesso posto tre anni dopo. A volte non vorresti avere tutta questa memoria. E poi una sua canzone seria, torrenziale, su Mani Pulite, perché nel 1993 eravamo nell’occhio del ciclone. Ma cosa dirò ai miei nipoti, quando mi chiederanno di Mani Pulite?
“Mah, la vita continuava, la gente andava al Festival ad applaudire Greganti, tutto regolare”.
Il terremoto venne piuttosto l’anno dopo.
In spiaggia, d’estate, si sentivano le cannonate da Spalato: un circolo di volontari di Camposanto era riuscito ad appaltare lo stand gelateria Sammontana, e i proventi andavano in Bosnia. Così, quando ci chiederanno: “tu dov’eri mentre bruciavano Sarajevo”, io e Jan potremmo anche rispondere “facevamo i coni al Festival dell’Unità”. Non era così facile come potrebbe sembrare: la nocciola, per esempio, era durissima, la vaniglia estremamente liquida, amalgamarle era impossibile, il cono ti crepava nelle mani.
“Mi fa nocciola e vaniglia, per favore?”
“La nocciola non c’è”.
“Come non c’è, e quella lì”.
“Quella… quella non è proprio nocciola, cioè… è ancora dura, vede… (la percuote con la spatola), bisognerebbe aspettare un po’. Con la vaniglia, se vuole un consiglio, ci sta bene la stracciatella”.
“Ma qui non c’è uno che sa fare i gelati?”
“Ci sono io, signora”.
Una sera qualcuno mise in giro la voce che avremmo dovuto fare un cono a Bobo Maroni, Ministro degli Interni. Ma non venne mai.
Infine, quello fu l’anno di Montanelli, che radunò la folla che di solito è riservata al comizio del segretario.
Montanelli sul maxischermo del Festival di Modena è qualcosa che mi ha segnato profondamente. Cosa possiamo sapere del nostro futuro, se in quello di Montanelli c’era una folla di ex comunisti osannanti? Io avevo sempre litigato coi genitori democristiani, coi professori ciellini, con gli amici forzisti, ma soprattutto con la parte di me stesso che era cresciuta leggendo Montanelli. Ed ecco che io e mio padre ci trovavamo a far la croce sullo stesso simbolo, e Montanelli parlava al Festival tra applausi e ovazioni. Avevamo perso, ma avevamo perso tutti assieme. Non siamo mai più stati così uniti.
Sembrava che nulla sarebbe stato come prima. (Continua parecchio)
La redazione di Leonardo tentò di fornire una risposta due anni fa.
Prendetela con le molle. Del resto noi, snob come siamo, abbiamo smesso di presenziare da molti anni, e andiamo in giro dicendo che le edizioni migliori restano quelle dei primi anni Ottanta. A quei tempi la diretta tv non c’era, il Maestro era già celebre ma meno pingue, e la Carlucci ancora studiava dizione. Ma erano anni di fermento per la musica, e in piazza Novi Sad non passavano i dinosauri imbalsamati d’oggi, bensì i nomi più in vista del nuovo pop internazionale. Come possiamo dimenticarci il primo duetto con George Michael?
George: And I never gonna dance again
Guilty feet they've got no rhytm
Though it's easy to pretend
I know you're not a fool
I should have known better than to cheat a friend
And waste a chance that I've been given
So I never gonna dance again
The way I dance with you
Luciano: Oimé, e non danzerò mai più
Nell'orma dei passi colposi
Finger già facile fu
Ma con te giammai!
Con te persi un amico che il fato mi dié
E nel pensier io mi torturo
So I never gonna dance again
Come danzai con te
E quello con Serge Gaisburg? Qui Luciano prendeva il posto di Jane Birkin o Brigitte Bardot, riuscendo nell’impossibile impresa di non far rimpiangere né l’una né l’altra:
Pavarotti: Deh! Ché t'amo, io t'amo, oh se t'amo!
Gainsbourg: Moi non plus
Pavarotti: O mio divino!
Gainsbourg: L'amour physique est sans issue
Pavarotti: Tu vai, tu vai e tu vieni
Tra le mie reni
Tu vieni e tu vai
Tra le mie reni
E poi… ti ritrai
Gainsbourg: Je vais, je vais et je viens
Entre tes reins
Je vais et je viens
Et je me retiens…
Pavarotti: No… adesso… vien! (Acuto)
Il primo incontro con Bono… era l’84, mi pare, e il ragazzo aveva ancora quell’aria da scaricatore dei docks di Dublino con l’hobby del rock. Forse fu proprio l’accorata interpretazione del Maestro a conferire a Domenica, trista domenica lo status di inno internazionale.
Pavarotti: Non posso credere alle nuove
Né chiuder gli occhi miei e fingermi altrove
Ahi, quanto / dureremo in questo pianto?
Ahi quanto/ ahi qua… a … a… a… nto
Bono: Tonight we can be as one,
tonight, tonight
Insieme: Domenica trista, domenica trista.
Notevole anche la Non ti (scordare di me) in coppia con Jim Kerr. Ma le vere scintille, Pavarotti le provocava a contatto col pop elettronico. Ricordate la voce del Tenore impastarsi a meraviglia col falsetto di Jimmy Sommerville in Tell me why? (Io e te insieme pugnam pel nostro amor…). La sua versione di Just can’t get enough dei Depeche Mode mantiene a distanza di anni tutta la sua carica vitalistica e trasgressiva:
Luciano: Ognor ti penso, e cresce in me il desio
Dave: And I just can’t get enough, I just can’t get enough
Luciano: Soltanto in te trova conforto il pensier mio
Dave: And I just can’t get enough, I just can’t get enough
Luciano: D’amor io brucio, siccome pira ardente
E bruciando pur non ne ho bastante – mai.
Qualche concessione al passato il Maestro doveva pur farla. Memorabile la sua versione di Light my fire, supportata dai tre Doors superstiti:
Sai ch’io non sarei sincero
Sai ch’io sarei ben bugiardo
Se or io ti dicessi, invero
Che non possiam salir più in alto
Orsù amor appicca il foco
Orsù amor appicca il foco
Di quella pira orrendo… foco!.
Passato e moderno. Sulla passerella i fantasmi dei Doors lasciavano lo spazio ai Clash all’apice della fama:
Diletta mia, mi devi dir
Debbo partirmene o restar?
S’io vado, vi saranno guai?
S’io resto, un doppio amante avrai?
Deh dimmi, mia diletta, inver:
debb’io partirmene o restar?.
E i Police:
Pavarotti: Ogni tuo sospir
Ogni tuo pensier
Ogni tuo piacer, ogni tuo voler
Io ti scruterò
Sting: Every single day
Every word you say
Every game you play
Every night you stay
I'll be watching you
Pavarotti: Che, non lo sai?
Ti posseggo, ormai,
e reclamo inver
ogni tuo pensier.
Purtroppo tutto quello che ci resta di quegli anni felici sono un pugno di ricordi. Niente registrazioni, mp3, foto, niente. Dobbiamo affidarci alla nostra memoria, lacunosa e non sempre degna di fiducia. Ma saremmo grati se qualcuno ci volesse segnalare altri duetti storici del Maestro. A maggior gloria sua e dei suoi amici, la cittadinanza riconoscente.
hundreds of years ago
extract from the depth
is but a setting sun
The free design
No, vi siete sbagliati, io non faccio bombe al plastico.
Molti anni fa, è vero, aiutai mio cugino a realizzare una bottiglia *olotov, così, tanto per provare. Quando cresci in un'officina la benzina fa parte dei tuoi divertimenti. Però non credo che la tirammo, a differenza di D'Alema. Comunque è stato nell''87… o nell''88… sabato mio cugino si è sposato e queste cose non se le ricorda più. Io non v'ho detto niente.
Non sono neanche un anarchico, anche se nei circoli anarchici puoi stare sbracato e la birra costa veramente poco. Io comunque per ribadire che non sono anarchico, ma neanche un po', tiro sempre a scroccare le patatine.
Chiedo scusa, mi rendo conto che questo ormai è un blog importante… ci trovi informazioni su bin *aden e blecblòc… ma posso farmi un poco i fatti miei, un giorno almeno? O risulto invadente?
Guardate che io non passo mica i miei giorni a pensare al terrorismo e a Berlusconi. Io in fondo sono un ragazzo alla buona, che si diverte con poco.
Per esempio, negli ultimi giorni ho dovuto cambiare il frigo; nel frattempo però tutti i tubi del lavello in cucina hanno iniziato a perdere (seguendo l'esempio del bidè e della caldaia) e la padrona ha detto che dobbiamo pagare noi; la polstradale mi ha fatto il battesimo dell'autovelox: dalla disperazione mi sono distratto, ho infilato una corsia preferenziale al termine della quale mi ha fermato un vigile che voleva dirmi: siamo bravi anche noi a dare le multe, cosa credi? La ragazza mi ha preso e scaricato, la mia collega si è licenziata, il mio capo sta facendo causa al mio boss, la festa del lambrusco di Sorbara è stato un fiasco perché pioveva, e… che altro c'è…
Beh, ci sono stati gli Stereolab. A Modena, ieri sera.
L'unica cosa che mi fa ogni anno desiderare che venga autunno, che piova e che sia tempo di metter su cobra and phases group play voltage in the milky night.
Forse un giorno qualcuno si renderà conto che è stato il migliore album… non so… degli anni '90… degli anni '00… del secolo… che importa. Lo so io e mi basta.
some held it in sight
for scattered it may have been
they're ready to fight
in a priceless inkling
the request is here
ready to resurrect
what else can we do but recover the project
Gli Stereolab fanno musica come gli riesce, e non hanno l'aria di voler dare lezioni a nessuno. Pure, potrebbero insegnare che si può fare 'jazz' suonando un solo accordo di seguito per 5 minuti; che si può fare 'elettronica' con un equipaggiamento rigorosamente analogico (compionatori anni '70, chitarre graffiate e scheggiate, marimbe e tromboni); che si può innovare e inventare per dieci anni di seguito senza riuscire a essere né alla moda né fuori. Che, insomma, uno può fare assolutamente quello che gli pare. Basta non aspettarsi nient'altro che la gioia di farlo. La libertà secondo me consiste in questo.
Dopodiché si allaghi pure il bagno e la cucina, si appostino i vigili, venga la stagione dei rincari alle bollette, non m'interessa. Ho il mio angolo di libertà, sono felice.
our earthly design
can we be so detached
what crushes our desire
not to be trapped?
(The free design)