Teoria narratologica della sf

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(Una cosa di cui colpevolmente non m'interesso molto è il festival di filosofia che fanno praticamente sotto casa mia - avete presente quelli che abitano dietro un monumento e non lo visitano mai? Ecco. Mi dispiace che ci sia stata una polemica su Fabio Volo, che secondo alcuni non dovrebbe andare a un festival di filosofia - probabilmente la stessa gente nel Settecento avrebbe snobbato quegli autori di romanzetti dozzinali e satirici, come si chiamavano, Voltaire e Diderot. Comunque. L'unico mio vago contributo al filosofume in cui sono immerso è questo pezzo che scrissi un paio di anni fa per una di quelle belle iniziative di Barabba. Lo riciclo oggi. Era molto più divertente dal vivo (niente dello spessore di un Fabio Volo, comunque)).


Noi vogliamo leggere di eroi: li vogliamo buoni e generosi, positivi e propositivi. Questo la narrativa ce lo può dare. Però li vogliamo anche veder impattare con il nostro stesso mondo (o meglio, un mondo perfettamente identico al nostro). Questo la narrativa non può darcelo senza pretendere qualcosa in cambio. Questo qualcosa lo possiamo definire Sfortuna. Vogliamo degli eroi? Li vogliamo alle prese con le difficoltà del nostro mondo? Dobbiamo accettare che siano molto sfortunati. In caso contrario non si dà verosimiglianza, e senza verosimiglianza non si dà narrativa.
Cerco di spiegarmi meglio. Nel nostro mondo, gli eroi che pretendiamo dalla narrativa non ci sono. Se ci fossero, il mondo migliorerebbe all’improvviso. L’esempio più classico resta Superman: se esistesse, non perderebbe certo tempo a combattere contro il crimine più o meno organizzato: devierebbe un paio di fiumi, risolverebbe il fabbisogno energetico degli Stati Uniti, risolverebbe le controversie internazionali (Eco, 1964). Questo è quanto sarebbe logico aspettarsi da un superuomo verosimile. Quindi, o rinunciamo alla verosimiglianza e caliamo Superman in un altro universo, dove gli sia consentito cambiare la sorte di altri pianeti (e a quel punto avremmo un fantasy di scarso interesse), oppure lo lasciamo in un mondo verosimile fatto di grattacieli realistici e cabine telefoniche identiche alle nostre, operando però affinché, malgrado la sua buona volontà e i suoi poteri ultraterreni, non riesca a rendere il mondo neanche un briciolo migliore di quanto lo abbia trovato. Ma come si fa?
Lo si circonda di sfortuna. Si crea una pletora di antagonisti, a volte in calzamaglia e mantello come lui, che non gli lasciano un attimo di tregua. L’unico modo per ammettere Superman nel nostro mondo è dotarlo di una sfortuna tale da neutralizzare del tutto i suoi superpoteri, affinché alla fine di ogni sua avventura gli enormi sforzi positivi di Superman e le enormi energie negative dei suoi antagonisti diano una somma zero. Il nostro mondo imperfetto diventa così il risultato della lotta titanica tra Superman e i suoi perfidi avversari. Questo alla lunga rischia di rendere Superman e i suoi successori antipatici: con tutti i loro poteri in fondo non fanno che difendere lo status quo, saranno mica per caso eroi di destra? Conservatori, se non addirittura reazionari? Ma è la narrativa a essere in qualche misura conservatrice: per essere interessante ha bisogno di restare in frizione col mondo vero, ma il mondo è quel che è, uno status quo molto discutibile, e la narrativa accetta di non poterlo cambiare. La rivoluzione si fa nelle strade, o al limite nei fantasy: nei romanzi realisti non può che finir male. Poi date la colpa all’autore, ma è colpa vostra che accettate il patto finzionale senza far caso alle clausole scritte in piccolo.
Eroe + Sfortuna = 0
Eroe = 0 – Sfortuna
Sfortuna = 0 – Eroe
In pratica, a ogni azione positiva dell’eroe corrisponde una sfortuna di uguale valore e di segno contrario. Più l’eroe sarà potente, più grande la sfortuna intorno a lui. Più Ulisse è astuto e curioso, più Itaca si allontana. Più Ercole è forzuto, più gli tocca faticare. La sfortuna è in fondo il calco in negativo dell’eroe, e questo si vede in metafisica semplicità nelle opere di Kafka: i suoi quasi anonimi eroi sono definiti esclusivamente dalla sfortuna che li plasma. K esiste finché c’è un Castello che non lo lascia passare, o un Processo che non gli consente di difendersi: rimosso lui, il Castello apre i cancelli e il tribunale si scioglie. Solo un po’ di vergogna sopravvive.
La sfortuna è quindi proporzionale alle capacità dell’eroe. Nel caso di Superman essa tende all’infinito: finché Superman vivrà, l’universo di Metropolis sarà sotto costante minaccia di folli che lo vogliono dominare o distruggere. Fortunatamente di solito gli eroi hanno poteri più modesti, e di conseguenza anche la sfortuna che li contrasta è minore. Prendi i Malavoglia: sono una piccola impresa a conduzione famigliare, i cui membri all’inizio del romanzo appaiono dotati di un minimo di spirito d’iniziativa. Anche se il carico di lupini arrivasse in porto, essi non salverebbero certo il mondo: al limite porterebbero ad Aci Trezza un po’ di moderna mentalità imprenditoriale. Il che però è inammissibile: non perché Verga non lo desideri, ma perché semplicemente ciò non è avvenuto nel mondo reale, a cui l’autore è vincolato da una clausola di verismo: e quindi la tempesta deve infuriare, e la sfiga colpire a ripetizione finché dei Malavoglia non resti che qualche superstite incanaglito e riconvertito al mito arcaico della Casa del Nespolo.
Proseguendo per questa china si arriva agli antieroi: quei personaggi la cui carica è prossima allo zero o addirittura negativa: ebbene, a loro potrà capitare anche qualche occasionale botta di culo, al fine di mantenere l’equilibrio: vedi il caso dell’Idiota. Sappiamo che l’idea iniziale era quella di creare un personaggio “buono”. Dostoevskij all’inizio ha l’aria di pensare che la bontà non sia una qualità, quanto una mancanza di qualità negative: così l’Idiota sarà privo di fondi, privo di salute, privo di malizia… dopo un centinaio di pagine però l’autore si dev’essere reso conto che tutte queste privazioni rischiano di renderlo un osservatore inerte, e allora cosa ti combina? Ma guarda un po’: una zia sconosciuta, un’eredità improvvisa. Il Deus ex machina dei canovacci ottocenteschi.
Il più sfacciato resta comunque Zeno Cosini: chi più fortunello di lui? S’innamora di sua moglie, il suo rivale in amore e in affari s’ammazza per sbaglio. Persino quando il malessere esistenziale sembra prevalere, non ha che da scoppiare una guerra mondiale per trasformarlo in uno speculatore soddisfatto. Zeno doveva evidentemente contenere un potenziale negativo altissimo: non è difficile immaginare che il tizio “un po’ più ammalato degli altri” che si arrampica al centro della terra e la fa esplodere sia egli stesso. Per evitare che ciò succeda, per salvare il mondo (e la verosimiglianza del racconto), Svevo è costretto a servirgli colpi di fortuna a ripetizione.
Per i narratori insomma non c’è scampo: o inventano eroi positivi e li sommergono di sfighe, o s’ingegnano a elaborare colpi di fortuna per antieroi inetti. Di solito quelli più buonisti all’apparenza sono proprio quelli che nascondono in cantina orribili attrezzi con cui tormentare i loro eroi senza macchia. Essi tuttavia amano presentarsi in società come padri di eroi, e quindi un po’ eroici essi stessi, senza troppo insistere sul fatto che ne sono anche i più instancabili persecutori. Del resto, perché dovrebbero insegnare i più oscuri segreti del loro mestiere? La fortuna commerciale di un narratore dipende dalla quantità di dolore, frustrazione e sofferenza che riesce a infliggere ai suoi eroi prediletti. Egli dovrà essere spietato, come si addice a un padreterno. Ma persino il padreterno, tra un diluvio e una pestilenza, ha quei momenti in cui ci terrebbe ad apparire come un tizio misericordioso. Allo stesso modo quando i narratori vanno alle conferenze o ai corsi di scrittura creativa, hanno sempre quell’aria di “io non farei male a una mosca”. Il risultato è che poi da questi corsi escono un sacco di discepoli buonisti che credono che per raccontare una storia sia sufficiente inventarsi un simpatico eroe (spesso aspirante narratore egli stesso), al quale succedono solo cose simpatiche e mai niente di veramente grave, perché la violenza è una cosa ripugnante, no?
Anche quando è violenza su creature immaginarie. Da qui il corollario più interessante della teoria: come si distingue un vero narratore da un aspirante? Dalla pietà per i personaggi. Il vero narratore ne sarà totalmente privo. Ti è venuto bene quel tenero ragazzino, Nemecsek? Bravo Molnár, ora stroncalo con una polmonite fulminante. Generazioni di giovani lettori piangeranno per quello che stai facendo al più eroico soldato semplice delle strade di Budapest. Milioni di fanciulli e fanciulle t’imploreranno e ti malediranno, ma sarà per sempre troppo tardi: Nemecsek è morto, fatevene una ragione, e se non fosse morto il romanzo non sarebbe finito negli scaffali su cui lo avete trovato.
Diventare veri narratori significa accettare il proprio ruolo di assassini di eroi, dispensatori di disgrazie, reggitori di cornucopie di ininterrotta sfiga. Questo è il destino del narratore. Non ti va? Nessun problema, il mondo ha più bisogno di idraulici.
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