Amori e crociate del dottor Miele

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Mi sa che resto al terzo stadio ancora per un po'.
Io mi fermo al terzo, voi?
20 agosto - San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), mistico antipatico

L'estate sta finendo, l'autostima è sotto i livelli di guardia? Il mistico Bernardo di Chiaravalle ci può aiutare. Nel suo trattato De diligendo Deo, Bernardo ci spiega come raggiungere il più puro amore per noi stessi, attraverso un lungo percorso che può prendere la vita intera. Dunque: in un primo momento noi ci amiamo, perché il nostro amore non può avere altri obiettivi, visto che conosciamo soltanto noi stessi; o meglio, crediamo di conoscerci. Ma presto ci rendiamo conto di non essere autosufficienti, e allora cominciamo a rivolgere il nostro amore a chi ci ha creato e ci sostenta, ovvero Dio. È il secondo stadio: amiamo Dio perché ne abbiamo bisogno, allo stesso modo in cui amiamo la mamma perché è un'estensione della tetta che ci nutre, egoismo puro. Ma è comunque amore, un punto di partenza. E nel frattempo cominciamo a ridimensionare il nostro ego, a renderci conto di quanto siamo piccoli, e così arriviamo al terzo stadio - quello a cui ragionevolmente possiamo puntare noi miseri peccatori: l'amore di Dio per Dio. Cioè non amiamo più Dio per i doni che ci fa, ma amiamo Dio perché è bellissimo in quanto Dio, come passare dall'amore per la mamma all'amore per Scarlett Johansson. E qui si fermano praticamente tutti, ammette Bernardo di Chiaravalle: il quarto stadio forse non è per i viventi. Comunque, se volete provarci, lo stadio finale prevede l'amore per sé stessi attraverso Dio. Sì, nel quarto stadio Bernardo ama Bernardo, perché è una creatura di Dio, e ciò che fa Dio non può essere che meraviglioso, sublime, cioè guarda Bernardo (e smetti di guardare Scarlett): non è bellissimo?

Ah, è così che ripassi la metafisica, eh?
In realtà è difficile da dire. Di lui ci rimane solo un po' di testa, gelosamente custodita nella cattedrale di Troyes. Il resto del corpo è stato spazzato via durante la Rivoluzione, succede. Era più facile che succedesse a Bernardo che ad altri, perché Bernardo, tanto venerato già in vita, tra tanti carismi non aveva quello della simpatia. Il tempo, in altri casi tanto equanime, non gli ha reso un buon servizio. Oggi lo si ricorda soprattutto per la famosa disputa con Pietro Abelardo, il filosofo più in voga dei suoi tempi (lui modestamente si definiva l'unico filosofo dei suoi tempi, e forse aveva ragione). Una contesa che ha un enorme valore simbolico: filosofia contro fede, scolastica contro misticismo... ma che in realtà verteva su argomenti teologici piuttosto tecnici: la solita Trinità, che Abelardo pretendeva di poter spiegare con qualche strumento filosofico, mentre Bernardo si contentava di ammirarla come un mistero della fede. Una vera e propria disputa, come ci piace immaginarla, non ci fu: Abelardo e Bernardo non si trovarono mai uno di fronte all'altro davanti a un pubblico. Come andò veramente al concilio di Sens non è ben chiaro - ognuna delle due fazioni cerca di tirare l'acqua al suo mulino - ma pare che prima dell'arrivo dell'avversario Bernardo si fosse già lavorato la giuria ecclesiastica, falsificando alcune tesi di Abelardo per accentuare l'odore di eresia. Un caso di straw man argument direttamente dal dodicesimo secolo. Il filosofo, avvertito della trappola in cui stava per ficcarsi, decise di marcar visita e annunciò che intendeva fare appello a Roma, dove sperava di avere ancora degli amici. Non doveva averne abbastanza, perché fu condannato quando era ancora in viaggio.

Trovò rifugio presso il monastero di Cluny, dove l'abate Pietro il venerabile intercedette per lui: passò l'ultimo anno della sua vita agli arresti domiciliari, ma poteva ancora insegnare. Aveva una sessantina d'anni, vissuti molto intensamente. Con Eloisa non si vedeva da più di venti. Però si scrivevano ancora. Anche lui, in fondo, malgrado tanto filosofare e disputare, è più famoso per aver sedotto una studentessa diciassettenne, da cui ebbe un figlio, e che poi sposò, ma che alla fine decise di spedire in convento; e soprattutto perché a quel punto lo zio di Eloisa assoldò una gang che nottetempo entrò nel suo alloggio e lo evirò. Sembra incredibile che tutto questo sia successo nello stesso secolo in cui Bernardo passa il tempo a invocare crociate, identificare eretici e ammirare Dio, o sé stesso per mezzo di Dio. Ma ad Abelardo erano successe tante altre disgraziate avventure; persino la condanna per eresia non era una novità, ne aveva già subita una con conseguente rito di abiura. Forse a Sens non andò perché era stanco di perdere sempre, contro gente che per di più non se lo meritava. Forse perché era indiscutibilmente il più bravo con le parole, Abelardo non aveva mai accettato che le dispute si vincono soprattutto con la politica.

Bernardo, per contro, negli anni Quaranta era sulla cresta dell'onda (continua sul Post...)
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Dio sta con l'ippopotamo

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10 maggio - San Giobbe, personaggio letterario (600 a.C:?)

Ci siamo già visti?

Nelle seconde file del calendario cattolico, accucciati dietro le spalle di santi più ordinari per non dare troppo nell'occhio, ci sono personaggi incredibili. Per esempio c'è Edipo - in realtà non proprio Edipo, un Edipo tarocco made in Ungheria, lo abbiamo visto, e c'è Buddha, un'altra volta spiegheremo magari cosa ci fa Buddha. Ma il più incredibile secondo me è Giobbe. Come abbia potuto ritrovarsi il protagonista del libro di Giobbe nel martirologio della Chiesa cattolica nello stesso giorno di Sant'Alfio, San Filadelfio e San Cirino, onestamente non lo so. Giobbe non è un profeta e non è un patriarca in senso stretto, non è nemmeno chiaro se sia un ebreo (il suo Dio però è chiamato proprio YHVH). Il suo libro omonimo è uno dei capolavori letterari dell'Antico Testamento - anche se non si armonizza molto bene con quella collezione di leggende ancestrali e antiche cronache redatte alla benemeglio. Anche Giobbe forse all'inizio poteva essere un mito, una fiaba, ma si capisce che a un certo punto uno o più scrittori ci hanno rimesso le mani. E almeno uno di loro doveva essere bravo davvero, perché la Genesi parla di Abramo, l'Esodo di Mosè, ma Giobbe parla ancora di noi, dopo tremila anni. E contiene anche la risposta di Dio all'Unica Domanda Che Valga Veramente La Pena, scusate se è poco.

La trama la sapete, no? No? Cioè l'Odissea sì, i promessi sposi sì, e Giobbe no? C'è qualcosa che non va nella nostra educazione. Poi per carità, Omero è ok, ma non è che ti capiti così spesso di organizzare massacri di Proci, né di volerti sposare contro la volontà di un signore feudale; mentre un'imprecazione alla Giobbe prima o poi sfugge a tutti, e l'Unica Domanda ce la poniamo più o meno tutti i giorni. Per dire, negli ultimi tre anni gli americani lo hanno riciclato in un paio di film, entrambi molto apprezzati (A Serious Man e The Tree of Life). Certo, se la mettiamo su questo piano i fumetti della Marvel battono Giobbe 5 a 2, ma per un prodotto di nicchia non è comunque un risultato da buttar via. La trama, dicevamo.

Allora il Signore rispose a Giobbe
dal seno della tempesta..." (A Serious Man)

Nel paese di Uz (deserto del Negev?) Giobbe è un uomo giusto che fa tutto quello che deve fare un buon ebreo. (Il fatto che non sia identificato come un ebreo secondo alcuni è un modo per evitare la censura, visto che tra lui e Dio accadranno eventi spiacevoli: un'altra ipotesi è che dietro a Giobbe ci sia un mito più antico, di origine mesopotamica). Nel frattempo, alla corte di Dio... ecco, già questo è incredibile. Non si è mai vista la corte di Dio fin qui nella Bibbia: si sono visti roveti ardenti, carri rotanti, ma un Dio che tranquillo riceve i suoi cosiddetti "figli" (angeli?) è un unicum, solo in Giobbe assistiamo a scene così. Non solo, ma tra questi "figli" c'è Satana, nella sua prima apparizione pubblica. Non è ovviamente il Satana cristiano con le corna o la coda, non è visto come un nemico di Dio (anzi prende ordini da lui). Al limite è l'unico in grado di reggere una conversazione con l'Ente supremo. Da dove vieni, gli chiede infatti l'Ente, e Satana: Me ne sono andato a spasso per la terra. "Hai visto Giobbe? Lui sì che mi vuol bene, eh?" "Per forza ti vuol bene, gli hai dato tutto: una casa, una famiglia, gli affari vanno bene... prova a togliergli qualcosa, e vedrai se non ti maledice". L'Ente accetta la scommessa: "Vai pure, levagli quel che vuoi". Satana insomma è una specie di pubblica accusa che punta il dito sull'umanità (la parola forse in origine significava avversario, accusatore); più che il diavolo, l'avvocato del diavolo, con la missione di mostrare a Dio quanto gli uomini facciano schifo. Per questo bazzica la terra, mentre gli altri angeli se ne vanno per i cieli. Dunque Satana prende il migliore degli uomini, e in pochi minuti gli toglie la famiglia, il raccolto, la casa, tutto... tranne la moglie. La moglie gliela lascia (qui io ci sento un'ironia fortissima, ma forse sovrainterpreto).

Giobbe reagisce come un vero santo: quel che il Signore mi ha dato, il Signore me lo può togliere, sia benedetto il Signore. Nell'alto dei cieli Dio gongola: visto che avevo ragione io? Non è male questa umanità, dopotutto. Satana non fa una piega, anzi rilancia: in realtà, dice, non lo abbiamo ancora toccato. Sì, gli abbiamo tolto tutto, ma gli abbiamo lasciata salva la pelle, l'unica cosa che agli umani interessi realmente. Dammi il permesso di rovinargli la salute, e vedrai se non ti maledice. Dio accetta, e Satana si affetta a coprire il sant'uomo di piaghe dalla testa alla punta dei piedi. Da uomo ricco e potente, Giobbe si ritrova nudo nella polvere a grattarsi le pustole con un coccio di terracotta, e in più la moglie che gli dice: Ma che aspetti a morire bestemmiando? Taci cretina, dice più o meno Giobbe; e non bestemmia.

Questo è l'antefatto in prosa, e sta in due paginette. Secondo alcuni è il nucleo iniziale della storia, a cui si ispirò il poeta (o i poeti) del poema successivo. Secondo altri è un'aggiunta posteriore, il che cambierebbe tutto, perché, per esempio, Satana nel resto del libro non compare più, e della scommessa nessuno fa più menzione. Se togli il prologo, il libro inizia con questo Giobbe, uomo giusto che non ha fatto nulla di male, che giace nella polvere cosparso dalle piaghe, domandandosi il perché. Il perché lo sa il lettore - c'è una scommessa in ballo - ma forse la scommessa è un'aggiunta posteriore, il tentativo abbastanza romanzesco di un copista di razionalizzare lo scandalo di un libro che comincia con un uomo che non maledice Dio, no, ma maledice il giorno in cui è nato. Oggi possiamo leggere Giobbe come il libro in cui Dio scommette sull'uomo, ma forse c'è stato un periodo in cui Giobbe era semplicemente il libro che si chiedeva: perché esiste il male? Perché comportarsi bene, visto che Dio non ti premia, anzi? Un problema molto attuale, come si vede. (Continua)
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Dio è sempre 1 + di te

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21 aprile - Sant'Anselmo d'Aosta, dottore della Chiesa (1033-1109).


Dunque, c'è un cosmonauta russo, uno dei primi, che è appena tornato dallo spazio. Per prima cosa lo portano da Krusciov, che gli chiede: “Compagno, tu che sei stato lassù, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c'è? Lo hai visto?” E il cosmonauta: “Compagno Segretario Krusciov, a te posso dirlo: sì, l'ho visto”. “Compagno, quello che tu dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello in cui crediamo”. “Compagno segretario, lo so, ma insomma, io l'ho visto”. “Va bene, lo hai visto, ma giura che non lo dirai a nessuno”. “Certo compagno, lo giuro”. “Bene”.

Qualche tempo dopo, profittando del clima di generale distensione tra i due blocchi controllati dalle superpotenze, lo stesso cosmonauta viene invitato al Vaticano, dove ha un colloquio privato con il pontefice. Il Papa dunque gli mette subito un braccio dietro la spalla, e in un russo un po' scolastico gli dice: “Figliolo, tu che sei stato nello spazio, beato te, dimmi la verità, a me la puoi dire: Dio c'è? Lo hai visto?”
E il cosmonauta: “Santo Padre, a voi posso dirlo: no, non l'ho visto, Dio non c'è”.
“Figliolo, quello che dici è terribile, terribile. Mette in crisi tutto quello che...”
“E insomma Padre, cosa volete che vi dica: se non l'ho visto non l'ho visto!”
“Giura almeno che non lo dirai a nessuno”.
“Giuro”.

Non so chi sia l'inventore di questa storiella. Ricordo che la lessi su un libro di barzellette che circolava alle elementari, e non la capii: a volte è meglio così, la memoria si attacca meglio alle cose che non riesce a spiegarsi immediatamente. In seguito mi sono convinto che fosse un apologo famoso e l'ho cercato su internet, senza successo: così lo metto qui, alla voce Anselmo d'Aosta, che non è che c'entri molto, eppure.

La barzelletta mi piace per tanti motivi. È profondamente ambigua: dipinge un certo tipo di atei come una setta di credenti, anche loro con un sistema di dogmi che se ne frega delle eventuali prove empiriche. Però dice anche il contrario: i credenti sono come i materialisti più smaliziati, se ne fottono della verità. Ormai ci hanno montato un carrozzone intorno che deve andare avanti comunque, che Dio esista o no. Mi piace il fatto che il cosmonauta racconti due versioni, senza che ci sia modo di capire quale sia la vera: potrebbe anche avere mentito a Krusciov, e potrebbe avere detto la verità al Papa, per il gusto di deludere entrambi.

Però la barzelletta piace soltanto a me, non la racconta più nessuno da anni; a renderla datata è il riferimento alle prime missioni spaziali sovietiche. A nessuno verrebbe in mente di collegare un giro in orbita in una minuscola capsula alla ricerca di prove sull'esistenza di Dio. L'universo che abbiamo in mente, da cinquant'anni a questa parte, è infinitamente più vasto: Dio, se c'è, è un po' più in là. Oppure, mi raccontavano a catechismo, Dio semplicemente non va cercato nello spazio astrale, Dio è “dentro di noi”, curiosa espressione che mi lasciava un po' interdetto: se Dio fosse dentro di noi dovrebbe essere più piccolo. Ma Dio non può essere più piccolo di noi, vero Anselmo? (Continua sul Post...)
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Quanto son difettivi i sillogismi

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A Tommaso d'Aquino è successo l'opposto che a San Paolo: anche lui a un certo punto ha visto qualcosa che lo ha turbato e sconvolto, ma da quel momento in poi non ha più scritto niente.


O forse era solo stanco, scrivere a quei tempi era faticoso, mica come adesso che basta pestar cazzate su una tastiera wireless. Il filosofo di paglia si legge e si glossa sul Post, astenersi averroisti e neoplatonici, brutte merdacce.

28 gennaio – San Tommaso d’Aquino, dottore della Chiesa (1225-1274).
Ritratto del 1481, attribuito a Botticelli: ma avete idea di che abilità ci volesse a prendere appunti col calamaio in mano?
Quando morì, presso l’abbazia di Fossanova, Tommaso aveva già smesso di essere il più grande filosofo del medioevo. La filosofia, la stessa scrittura, lo avevano abbandonato all’improvviso qualche mese prima, mentre officiava una messa nella chiesa di San Domenico a Napoli. Caduto in estasi, e forse anche in terra, Tommaso rifiutò di spiegare cosa gli era successo. A fra’ Reginaldo, l’inseparabile scrivano che attendeva di completare il terzo tomo dellaSumma Theologiae, disse che non poteva farci più niente, tutto quello che aveva pensato e dettato fino a quel momento gli sembrava paglia (mihi videtur ut palea). Nel poco tempo che gli restò da vivere, Tommaso si mosse come un involucro vuoto, sospeso per inerzia agli ordini dei superiori: la morte se lo prese sulla strada per Lione, dove si sarebbe tenuto un concilio per ridiscutere lo Scisma d’oriente. L’Aquinate, benché esaurito, non poteva assolutamente mancare: il Papa ci teneva.
Quando si pensa a un intellettuale del medioevo lo si immagina sempre con le grasse chiappe solidamente ancorate al seggio di uno scriptorium, rinchiuso confortevolmente in qualche monastero fuori del tempo: e invece il calendario di impegni di un personaggio come Tommaso avrebbe stroncato molti accademici dei nostri tempi (comodo fare i cosmopoliti coi Boeing 747: Tommaso andava e tornava dalla Francia allo Stato della Chiesa a dorso di mulo). In realtà se si pensa all’entità e alla complessità dei suoi impegni, tra beghe accademiche e politiche, c’è da stupirsi che sia arrivato in un qualche modo a 49 anni. È abbastanza improbabile che sia stato fatto avvelenare dal re di Napoli Carlo d’Angiò, anche se Dante ne era convinto: ad avvelenarlo fu semplicemente lo stress. Quando tutti ormai si aspettano da te l’opera definitiva, la summa che metta a posto Aristotele e il Vangelo, nel mentre che vai a Lione a sistemare gli ortodossi, e tu nel frattempo non ci credi più, ti si è rotto qualcosa dentro, tutto quello che hai scritto è paglia. E hai finito pure quella. Cosa vide Tommaso d’Aquino, che lo fece crollare come un fantoccio?
In questi casi – come nell’incidente di Paolo verso Damasco – gli anatomopatologi della domenica si possono sbizzarrire: crisi epilettica? ictus? Ma anche un calo di zuccheri, perché no. Estasi significa “uscire da sé stessi”: più che dal suo corpo, Tommaso forse riuscì per qualche istante a uscire dalla sua filosofia. Magari ebbe l’opportunità di guardare dall’alto il castello delle sue convinzioni, che andava cementando da anni con pazienza più certosina che domenicana, selezionando con attenzione i materiali di costruzione più solidi dalle rovine dei sistemi precedenti: un architrave ionico qua, una colonna romanica là, perfino qualche guglia mozaraba, tutto apparentemente armonico, tutto apparentemente resistente, e invece basta guardarlo da un qualsiasi altrove per non vedere che un castello di carta.
Arnaldo De Lisio (1869-1949), Tommaso incastrato dalle tentazioni. Nell'angolo c'è anche il paparazzo demoniaco che scatta la foto.
A me la filosofia ha sempre fatto un po’ paura, lo dico qui. Di un artista ci possono restare le opere, di uno scrittore le storie, di uno scienziato le scoperte o le ipotesi. Di tanti grandi filosofi – non studenti scioperati – gente che ha passato la vita a studiare e riflettere, mi sembra che ci resti soltanto la paglia. Chi legge Tommaso d’Aquino oggigiorno? Chi va oltre al bignamino del liceo, agli appunti con le freccine? Le sue tanto bistrattate Cinque Vie, chi le ha percorse veramente? Perché a leggerle sui libri di oggi, o su internet, sono formulate in un modo in cui le confuterebbe anche un blogger; ma Tommaso ci lavorò per anni e non era un imbecille. Non lo dico io, lo dice per esempio Charles Sanders Peirce, la cui opinione più di altre m’interessa, visto che la modificò. In un primo momento Peirce riteneva effettivamente Tommaso un imbecille, il classico scoliasta medievale che metteva “frettolosamente insieme male assortite porzioni di ricchezza altrui in una sconsiderata passione per l’autorità”. Poi cambiò idea. Magari semplicemente gli capitò di leggerlo. Forse la sua fissazione per il numero tre rimase intrigata dalla descrizione tomista della trinità: il Padre esce da sé stesso e pensa il Figlio, lo Spirito è la relazione di amore che il primo prova per il secondo… non ricorda da lontano il trittico peirceano di Oggetto, Segno e Interpretante? Scherzo, in realtà non sono sicuro di averlo mai davvero capito, Peirce. E sono sicuro di non avere mai capito davvero Tommaso.
Eppure almeno un intellettuale vivente che abbia studiato e apprezzato davvero Tommaso ce l’abbiamo. (Continua…)
Come dice a un certo punto il personaggio narrante nelPendolo di Foucault: “uno che fa la tesi sulla sifilide finisce per amare anche la spirocheta pallida”. L’autore vero del Pendolo però non ha scritto una tesi sulla sifilide, bensì sul Problema estetico in Tommaso d’Aquino. E Tommaso è rimasto uno dei punti di riferimento di Umberto Eco, fino a Kant e l’ornitorinco e oltre.
Il fatto che in Italia ci sia almeno uno studioso serio di Tommaso – e sia un laico – dovrebbe creare qualche imbarazzo alla Chiesa, quell’istituzione che in teoria continua a basarsi sulla Summa Theologiae, ma in pratica non manda nessun tecnico preparato a controllare la cantine da secoli. Eco per la verità non ha mai avuto tanta voglia di litigare, però ogni tanto gli capita di mettere il dito sulla piaga, più per giocoso e accademico puntacazzismo che per cattiveria. Io non so francamente se senza di lui qualcuno si sarebbe accorto che la moderna dottrina dell’embrione va contro la posizione tradizionale, tomista, della Chiesa. Ovvero: questa idea che l’essere umano sia già un individuo completo dal concepimento, da dove arriva esattamente? Non si sa, ma è un’esplicita sconfessione di quello che dettava Tommaso. Con le parole dell’alessandrino:
La posizione di Tommaso (che nel corso dei secoli la Chiesa non ha mai espressamente negato, condannando anzi quella opposta di Tertulliano) è la seguente: i vegetali hanno anima vegetativa, che negli animali viene assorbita dall’anima sensitiva, mentre negli esseri umani queste due funzioni vengono assorbite dall’anima razionale, che è quella che rende l’uomo dotato di intelligenza e ne fa una persona come ‘sostanza individua di una natura razionale’. Tommaso ha una visione molto biologica della formazione del feto: Dio introduce l’anima solo quando il feto acquista, gradatamente, prima anima vegetativa e poi anima sensitiva. Solo a quel punto, in un corpo già formato, viene creata l’anima razionale (‘Summa Theologiae’, I, 90). L’embrione ha solo l’anima sensitiva (‘Summa Theologiae’, I, 76, 2 e I, 118, 2). Nella ‘Summa contra gentiles’ (II, 89) si dice che vi è una gradazione nella generazione, “a causa delle forme intermedie di cui viene dotato il feto dall’inizio sino alla sua forma finale”. Ed ecco perché nel Supplemento alla ‘Summa Theologiae’ (80, 4) si legge questa affermazione, che oggi suona rivoluzionaria: dopo il Giudizio Universale, quando i corpi dei morti risorgeranno affinché anche la nostra carne partecipi della gloria celeste (quando già secondo Agostino rivivranno nel pieno di una bellezza e completezza adulta non solo i nati morti ma, in forma umanamente perfetta, anche gli scherzi di natura, i mutilati, i concepiti senza braccia o senza occhi), a quella ‘risurrezione della carne’ non parteciperanno gli embrioni. In loro non era stata ancora infusa l’anima razionale, e pertanto non sono esseri umani.
Si può dire che la Chiesa, spesso in modo lento e sotterraneo, ha cambiato tante posizioni nel corso della sua storia che potrebbe avere cambiato anche questa. Ma è singolare che qui siamo di fronte alla tacita sconfessione non di una autorità qualsiasi, ma dell’Autorità per eccellenza, della colonna portante della teologia cattolica. [...]
Conclusione: le attuali posizioni neofondamentalistiche cattoliche non solo sono di origine protestante (che sarebbe il meno) ma portano a un appiattimento del cristianesimo su posizioni insieme materialistiche e panteistiche, e su quelle forme di panpsichismo orientale per cui certi guru viaggiano con la garza sulla bocca per non uccidere micro-organismi respirando. Non sto pronunciando giudizi di merito su una questione certamente molto delicata. Sto rilevando una curiosità storico-culturale, un curioso ribaltamento di posizioni. Dev’essere l’influenza del New Age. (Bustina di Minerva del 15/3/2005)

 Il fatto che la Chiesa romana sia meno tomista di quel che dice e crede non è necessariamente un male. Ovviamente io sarei il primo a rallegrarmi se alla luce delle Summae un pontefice decidesse di rivedere la posizione sull’aborto; d’altro canto è sempre Eco a notare come la teologia di Tommaso sia assolutamente inconciliabile con un elemento fondamentale della modernità: la teoria dell’evoluzione. Senza la quale è impossibile stare seriamente nella modernità: certo, ci sono Chiese che negano Darwin, ma finiscono per arroccarsi in un antiscientismo settario e a immaginare un universo creato 6000 anni fa con i fossili già al loro posto sottoterra. I cattolici non sono così. I cattolici trovano sempre un modo per girare intorno ai problemi. La Bibbia dice sette giorni? I cattolici inventano l’interpretazione allegorica per cui quei sette giorni possono anche alludere a periodi di milioni di anni, e oplà, Genesi 1,1 diventa il Big Bang. I cattolici sono riusciti in un qualche modo a far convivere Adamo ed Eva con l’evoluzionismo: gli è bastato lasciare Tommaso in cantina, per l’appunto.
Uno dei motivi per cui non riusciamo a capire Tommaso, neanche quando proviamo a leggerlo, è che lo scambiamo per un apologeta militante, uno che deve sforzarsi di dimostrare che Dio esiste, prima che le forze del Dubbio espugnino la cittadella della Ragione. È il motivo per cui puoi trovare le sue Cinque Viesul sito dell’Unione Atei Agnostici Razionalisti, manco fossero cinque teoremi da confutare.
In realtà Tommaso non voleva esattamente dimostrare una tesi (Dio esiste). Lui cercava di spiegare le “vie” per cui un qualsiasi intelletto giungeva a una verità che giudicava autoevidente. Siccome credere in Dio, ai suoi tempi, era una cosa naturale, la cosa interessante per un filosofo era cercare di spiegare il perché della naturalezza con la quale tutti (cristiani e “gentili”) accettavano l’esistenza di Dio. Allo stesso modo in cui un grammatico studia le regole di una lingua che sa già parlare, che tutti sanno parlare sin da bambini, ecco: nei secoli di Tommaso credere in Dio era come dire mamma, papà, cacca: una cosa che succhiavi per così dire col latte materno. Oggi non è più così. A un certo punto qualcosa è cambiato: per la verità è stato un processo lento, con occasionali scossoni, una frattura di paradigma. Il risultato è che oggi il concetto di Dio ha cessato di essere intuitivo, ha smesso di essere accettato come naturale da miliardi di persone. Tra questi ve ne sono tanti che continuano a credere in Dio, ma è una scelta faticosa, che chiede uno sforzo, un investimento intellettuale ed emotivo. Tommaso non poteva saperlo: per lui ciò che l’uomo riteneva ovvio e naturale sarebbe sempre rimasto ovvio e naturale.
Oppure forse a un certo punto se ne rese conto. Era un intellettuale puro, passava il tempo a speculare, magari a un certo punto questa obiezione lo turbò. “Non si può andare all’infinito nella ricerca di un primo movente, o di una prima causa”, scriveva: e se invece si fosse potuto? E se l’universo fosse molto, molto più vasto di quei nove cieli di cristallo, e se ci fossero più cose in cielo e in terra che in tutti i nostri difettivi sillogismi, in tutte le nostre filosofie di cartapesta? Forse quel mattino, nella chiesa di San Domenico, Tommaso ebbe una visione delle cose a venire. Non della gloria dei cieli: ma del chiasso di una piazza moderna. Uscì dal suo corpo e si ritrovò davanti un bar coi tavolini, un’edicola, un altro negozio chiuso, i graffiti sulle saracinesche: furgoni, cassonetti della differenziata, miliardi di dettagli dissonanti sparsi per miliardi di minuscoli atomi nel vuoto di un universo in espansione, e nulla che rimandasse naturalmente a Dio. E pensò: meglio non dire nulla a Reginaldo.
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Di come Don Tinto perse la fede

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(2011)
Se proprio era inevitabile, e forse lo era, Don Tinto avrebbe preferito perderla in un incidente, come succede a tanti. Un ubriaco entra in autostrada contromano, fa secco tuo fratello che non ha mai fatto nulla di cattivo in vita sua, quindi Dio dov'è? Sarà che la sua parrocchia era nei pressi di un casello, ma Don Tinto ne ha conosciuti parecchi che hanno perso la fede così. Molti addirittura si sentivano obbligati a venire a spiegarglielo al confessionale, Don Tinto mi spiace, lei è tanto una brava persona, ma mia figlia è stata spappolata da un tir che ha invaso la carreggiata, prova evidente che Dio non c'è.

In questi casi il sacerdote professionale abbozza una smorfia di contrizione, protesta di non voler neanche tentare di consolare un dolore inconsolabile, farfuglia qualcosa sul mistero della provvidenza, e nel caso di Don Tinto si torce le mani nell'oscurità del confessionale, perché la voglia di tirare due ceffoni lo tenta fortissimo. Non dico alle elementari, eh, ma almeno dalle medie in su dovrebbe essere chiaro che i suoi disegni sono un filo più complessi e imperscrutabili delle statistiche sulla mortalità del traffico. Ma insomma signorino, lo scopri oggi che i tir ammazzano le persone, e che Dio in linea di massima non tira nessun freno d'emergenza? Il Dio in cui hai creduto fino a ieri non interviene negli incidenti stradali, e fino a ieri la cosa non ti turbava nemmeno. Poi un giorno ti toccano gli affetti e all'improvviso sai più teologia di San Tommaso, ma va', va', che la tua fede non era poi gran cosa se basta un autosnodato a disintegrarla.

E tuttavia almeno in casi del genere puoi prendertela con l'autosnodato. Mentre Don Tinto chi biasimerà? Sé stesso, soltanto sé stesso. La fede, non sa neanche dire quando l'ha persa esattamente. L'ultima volta che ricorda di averla vista era lì, sulla scrivania, tra i moduli della dichiarazione dei redditi e il rendiconto annuale della scuola materna (in rosso fisso). Rammenta in effetti di essersi detto che non era il posto adatto per una cosa tanto importante; che andava custodita con più attenzione, e di averla d'impulso spostata... dove? Maledetto impulso, non bisognerebbe mai spostare le cose senza pensare al quadro generale. Che poi finiscono in fondo ai penultimi cassetti vuoti che piano piano si riempiono di altre cose importanti che è meglio mettere in un posto al sicuro, e dopo qualche mese valli più a trovare, in mezzo a tutto quel casino di cose ugualmente importanti.

Imbarazzante, ma è così: Don Tinto non ha perso la fede in un incidente, per una delusione, al termine di una crisi, durante una malattia. L'ha persa un giorno qualunque che fuori pioveva, i conti non tornavano, la bici era sgonfia, c'erano formiche in cucina e la crepa dell'intonaco in soggiorno si stava allungando. In chiesa il riscaldamento non funzionava bene, benché il tecnico spergiurasse il contrario: bisognava farne venire uno più capace, ma questo equivaleva a offendere un parrocchiano, la sua famiglia, le sue zie generose con la questua eccetera. L'organo, un gioiellino di tardo Settecento inspiegabilmente rimasto lì, era mal temperato, e i Beni Culturali lo avevano diffidato a chiamare qualsiasi altro accordatore tranne quello di loro fiducia, esosissimo; al solo pensiero Don Tinto preferiva chiudere a chiave la tastiera e non pensarci più, ma questo significava concedere altro spazio all'azione giovanile e alle loro chitarre frastornanti, non ce n'era mai una accordata all'altra, mentre distribuiva meccanicamente il Corpo di Cristo Don Tinto malediceva il suo orecchio non assoluto, ma comunque esageratamente raffinato per le necessità di un sacerdote di provincia. O forse stava schedulando le benedizioni quaresimali a domicilio? o buttando giù tre idee per l'omelia di domenica? o pianificando la sagra, organizzando la pesca benefica per la sagra, cercando i premi per la pesca benefica, identificando gli sponsor adatti che avrebbero potuto offrire i premi... Oppure stava dormendo, anche i preti dormono. Don Tinto aveva necessità di otto ore filate, sennò si appisolava in confessionale. Magari mentre leggeva compieta gli si erano chiusi gli occhi, magari aveva pensato che cinque minuti di sonno non avrebbero offeso N. Signore, anzi, poteva essere un sistema per parlare meglio con lui (con molti Santi funzionava), ma in luogo di un rapimento estatico Don Tinto era crollato schiacciando il naso sul salterio, sbavando sul versetto 31 del Salmo 119; e quando si era svegliato tre ore dopo non ricordava più dove aveva messo la sua fede, in che cassetto si trovasse. Poco male, pensò, mica l'ho buttata via. Salterà fuori prima o poi.

Lo si dice di tante cose che ci sembrano importanti, ma che alla fine non usiamo quasi mai. Un sacerdote più zelante di Don Tinto avrebbe stravolto i cassetti, gli scaffali, le mensole, la cassaforte della Canonica, l'archivio parrocchiale; avrebbe buttato tutto all'aria finché non avesse trovato l'unica cosa fondamentale, la fede! Don Tinto invece aveva una parrocchia da mandare avanti e per prima cosa pensò che il mattino dopo doveva svegliarsi presto, c'era da salire al campeggio per celebrare una messa oppure fare il tour settimanale delle estreme unzioni, tutte cose importanti e tranquillamente fattibili anche senza la fede personale, che comunque sarebbe saltata fuori prima o poi, insomma, mica l'aveva buttata via.

Invece non saltò fuori più, e, quel che è peggio, Don Tinto non riuscì mai a trovare il tempo per svuotare i cassetti, dare aria agli armadi e tutto il resto. Non che non gli dispiacesse non avere la sua fede a disposizione, caso mai ci fossero montagne da spostare: ma bisogna dire che nessuno gli chiese mai gesti così spettacolari. Bisognava invece preparare l'ora di religione alla scuola media, i ragazzini diventavano sempre più insidiosi con le loro domande; ordinare paramenti nuovi, non troppo vistosi ma neanche troppo moderni perché tanto la gente mormora comunque; portare la panda dal meccanico; lunedì sera c'era la riunione con gli altri parroci della zona nord della diocesi; martedì un'ecografia all'addome, mercoledì il corso prematrimoniale. E poi bisognava confessare, comunicare, pregare, senza più fede ma comunque con professionalità, ché l'ultima cosa che serve ai parrocchiani è un prete con le turbe di coscienza.

Provò i ritiri spirituali, le scalate in solitaria, le vacanze al mare, ma non serviva a niente: Dio era senza dubbio ovunque e quindi anche in vetta ai monti e sotto agli ombrelloni, ma la fede di Don Tinto rimaneva incastrata in qualche intercapedine del suo studio, era lì che bisognava mettersi a cercarla. Il punto è che ogni volta che tornava in quella stanza maledetta c'era una telefonata da fare o ricevere, un peccatore da confessare, un malato da consolare, un affamato a cui non poteva mica dire: “Torna tra un po', prima di sfamarti occorre ch'io ritrovi la mia fede”. In mezzo a tutte queste piccole preoccupazioni, era Don Tinto a sentirsi sempre più simile a una montagna che nessuno si sarebbe azzardato a spostare.

Alla fine gli unici momenti in cui Don Tinto riusciva a pensarci era quando gli capitava di fare due chiacchiere con uno scettico. Ne incontrava un po' a tutti i livelli, nel confessionale o dal dottore e ai dopocena tra colleghi. Più o meno continuavano a dire le stesse cose, sempre con l'aria di riferire chissà quale enorme novità scientifica: perché Dio consente il male? E l'evoluzione? Il Big Bang? Benché avesse imparato a dribblare tutte queste obiezioni già in seminario, Don Tinto si sentiva onorato che qualcuno continuasse a proporle proprio a lui: evidentemente visto da fuori doveva sembrare una di quelle travi solide che non oscillano, ma possono solo spezzarsi una volta accettata l'inconsistenza dei propri fondamenti.

E invece la trave era marcia dentro. Gli scettici lo blandivano, credevano che Don Tinto avesse ancora una fede da potersi perdere davanti a un ragionamento astratto, o all'osservazione del dolore. Ma se perse la fede, Don Tinto la perse tra un modulo di rimborso e un estratto conto; la smarrì nella polvere che si posava sul raccoglitore della corrispondenza e la perpetua non osava spolverare. Non la perse di fronte allo spettacolo osceno di un bambino che muore, ma nel fastidio cronico delle coliche renali. Che il mondo di Dio fosse pieno di sofferenza, lo aveva accettato sin dal seminario; quello che allora non aveva previsto, è che fosse pieno di moduli e di piccoli appunti, di bici sgonfie quando occorre fare un giro rapido, e chitarre scordate, il telefono che resta senza credito quando devi fare una chiamata importante, il call center che ti prende in giro, la comitiva di pellegrini che al ritorno si lamentano dell'albergo che gli hai consigliato tu (è cambiata gestione), i reumatismi, il cigolio degli scuri della canonica che lo sveglia nel cuore della notte perché i fermi si sono smurati, bisogna chiamare un artigiano e non ce n'è uno solo onesto, e insomma tutti questi piccoli fastidi e preoccupazioni corpuscolari, nessuna delle quale era degna di una lamentela ad alta voce, ma che tutte insieme costituivano l'inferno in terra.

Quando fu il suo giorno di morire, nel suo letto, adeguatamente drogato affinché il dolore non gli togliesse la lucidità, pensò che forse finalmente aveva un po' di tempo per riflettere, e raccomandarsi a Dio; così chiuse gli occhi e lo chiamò. Ma se ne pentì immediatamente, come chi in un pomeriggio d'estate chiama una vecchia fiamma e mette giù prima che suoni libero. Con che faccia poteva disturbarlo, dopo che per tanti anni non era riuscito a trovare una mezza giornata per cercarlo in mezzo alle fatture, i telegrammi, il calendario con le messe prenotate, la classifica dei chierichetti, l'ordine del giorno del consiglio pastorale, il pin del bancomat. Sperò che nella sua infinita misericordia Dio, oltre alla fede, desse un'occhiata anche al mestiere. Poi si ricordò che non era neanche sicuro di essere stato un buon prete: non riusciva mai a finire il giro delle benedizioni entro il venerdì Santo e malgrado tutti gli sponsor e le pesche benefiche il bilancio della scuola materna era sempre più rosso, rosso inferno (fu il suo ultimo pensiero).

La parrocchia rimase vacante per un paio d'anni, finché non arrivò un pretino curioso, slavo o baltico, con un alito che sapeva sempre un po' d'acqua di colonia, orfano di madre e ammaccato dal padre, cresciuto in seminario ed espulso dalla sua qualsiasi nazione in circostanze non chiarissime. Quando entrò nella canonica la prima cosa che notò fu la confusione dell'ufficio al piano terra, un bugigattolo che avrebbe funzionato meglio da tavernetta, uno spazio per i più giovani con le playstation i divanetti le riviste eccetera, un luogo dove interagire senza troppi freni. Tanto più che, a parte una consolle di mogano massello, era tutto impiallacciato senza qualità, roba da regalare immediatamente al primo ente benefico che si assumesse la spesa del trasporto.

Fu appunto mentre guardava i volontari caricare che Don Pavel notò una busta gonfia caduta in fondo nel cavo di un comò a cui avevano estratto i cassetti. La fece rapidamente sparire nelle maniche della tonaca, pregando silenziosamente che non fosse una mazzetta di vecchie lire fuori corso. Ma quando fu solo e l'aprì, ci trovò soltanto la fede di Don Tinto. A lui non serviva più, così Don Pavel se la tenne, per tutti i quarant'anni in cui rimase arciprete di quella parrocchia, stimato e rispettato da tutta la comunità, e persino dai non credenti, per gli esempi di generosità e rettitudine che seppe offrire e persino per le guarigioni e i miracoli che gli furono attribuiti: tanto che a Roma si pensa già di farlo Beato.

FINE

*******

"Quindi, Don Tinto, tu sei morto", replicò ammirata Verola, "non lo sapevo, avresti potuto avvertirmene quando ti ho invitato. O devo dedurre che siamo tutti morti qui, e aspettiamo le bare che ci portino via?"
A quel punto un brivido gelido percorse le schiene dei quattro candidati.
"Mia signora", rispose l'ex parroco, "anche il mio racconto è la storia di una vita che non ho vissuto; o perlomeno non interamente".
"Quello che più mi stupisce del tuo potente racconto - potente come sonnifero, intendo - è il fatto che tu abbia potuto pensare a raccontare la vita di un depresso prete di provincia, dopo che avevo trovato noiosa quella di una prostituta transessuale".
"Mia Signora, stasera ho messo il mio cuore a nudo, davanti a lei: se il racconto non le è piaciuto, non le piaccio io, ed eliminarmi immediatamente sarà cosa buona e giusta".
"Hai sbagliato gioco, Padre, se pensi di essere tu qui per mettere alla prova me. Eppure ammetto che c'è qualcosa nel tuo racconto, che ti salverà anche a questo turno. Prof. Esso, Mària, fate un passo avanti...

[Continuawwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwwww]
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Dio mi ama

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(1998)
Mi chiama Dio, mi chiede se ho impegni in serata.

"In effetti, ecco, è curioso, mi sono appena messo d'accordo con Simona, si pensava di andare al cinema… però potresti venire con noi, che ne dici? No, guarda, nessun imbarazzo. Sul serio… Beh, come vuoi".

Mi chiedono in tanti perché credo nel mio Dio. Lo so, è una di quelle classiche divinità di una volta, un po' noiose, sì, è tutto vero. Ma onestamente non mi posso lamentare. È un Dio che sa stare al suo posto e capisce immediatamente quando non è il caso di insistere. Al cinema con Simona volevo andarci da solo, è ovvio.

"Possiamo vederci comunque una di queste sere, se ti va…”, propongo, “venerdì per esempio hai degli impegni, sei da qualche parte?" Questa è una domanda retorica, Lui è onnipresente, e in particolare per me c'è sempre. È da tanti anni che mi chiama, almeno una volta alla settimana: certamente venerdì andrà benissimo.

Per lui. Quanto a me, ho un bel da ripetermi che non è una storia importante, anzi non è nemmeno una storia, ci esco solo una sera ogni tanto e basta. Stimo molto il mio Dio, potrei quasi dire di esser fiero di lui, ma vorrei tanto che non ci provasse tutte le volte con me, che potesse finalmente considerarmi per quello che sono: un amico, soltanto un amico… ma non c'è niente da fare. Dicono gli adesivi sui parabrezza: Dio ti ama. Accettalo. Ma io so già come andrà a finire: gliela darò buca anche questo venerdì, sicuro che se ne starà per una buona ora e mezza ad aspettarmi al bar dell'angolo. Per poi richiamarmi domenica, puntuale. Dio mi ama! e non sa proprio cosa farsene, della mia semplice amicizia.

Guardo troppa televisione.
Stasera c’era questo programma di spiritualità, e intervistavano un sacco di gente: tutti raccontavano di aver incontrato il loro Dio in un momento di massima difficoltà. La ragazza grassottella parlava di una situazione famigliare disastrosa (percosse, divorzio, ricatti sull'affidamento, alimenti in ritardo); il tizio con la barba era rimasto maciullato durante una spedizione di trekking in alta quota; ma l'immagine di una vita intera in carrozzina non aveva fatto in tempo a profilarglisi che tac! era miracolosamente guarito, e potete star certi che il suo Dio ci aveva messo lo zampino. E il consulente finanziario che si era giocato tutti i risparmi dei suoi clienti su una roulette a Montecarlo, perdendoli: sulla strada del ritorno aveva visto Dio, si era pentito e fatto frate; anche i clienti lo avevano perdonato, figurarsi: Dio ci aveva messo una buona parola.

Io su queste cose non dovrei riderci sopra. Peggio per me se guardo troppa televisione, se sgonfio la mia noia per una vita facile facendomi raccontare i guai che ho schivato, le disgrazie cadute su qualcun altro.

In fondo quello che provo veramente è invidia. Invidia per il modo in cui tante persone – tutti, si direbbe – si incontrano con Dio. Sempre sul luogo del disastro. Sempre quando ormai non ti aspetti più aiuto da nessuno. Quando somatizzi, quanto ti soffochi masticando di rabbia un cuscino in un letto sporco e troppo grande, quando vedi pezzi di te tutt'attorno e non ti rispondono, quando hai fame, quando hai sete, quando hai sonno.

E mi chiedo: solo a me capita che Dio si faccia presente quell'ora al mese che sto bene, pulito, ben mangiato e ben dormito, senza sensi di colpa e con buone possibilità di concludere con Simona in serata? Solo a me?

*******

"Dunque è tutto qui?", domandò l'annoiata Verola. "Faccio persino fatica a considerarlo un racconto".
"Mia signora", rispose Don Tinto, "a mia parziale discolpa, ho avuto poco tempo per elaborare una storia su questo tema".
"Hai avuto tutto il tempo necessario. Va bene, basta così. Domani sentiremo Aureliano, che più volte ha scosso la testa mentre Don Tinto raccontava i fatti suoi. Confido che saprà fare di meglio. E adesso a letto, che domattina alle sette siamo tutti attesi in infermeria per un controllo - così saremo ancora più sicuri di non aver portato con noi quassù quel batterio della cacarella che a quanto pare tormenta gli abitanti della valle... 
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La novantanovesima pecorella

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L'educazione religiosa, 2

Continua da qui. Per farla breve: Saul è un tizio che ha succhiato la religione dal seno materno.

L'aver, per così dire, succhiato la religione dal seno materno, ha messo Saul in una condizione particolare. Diciamo che credere in Dio non gli costa nessuna fatica: nessun “investimento emotivo” (direbbero gli psicoterapeuti). Come se fosse stato impostato “cattolico” di default (direbbero gli ingegneri). Una specie di aristocratico della sua religione: l'ha ereditata alla nascita e sarebbe pronto a lasciarla invariata agli eredi. Non ha bisogno di chiedere segni al suo Dio, che è roba da generazioni malvagie (Lc 11,29): nessuna necessità di roveti ardenti o madonne piangenti, anzi; a tutte queste ha sempre visto con una certa diffidenza. Sin da bambino. Di tutte le fole che gli raccontò la catechista, un'anziana signora con un certo talento narrativo, quella che ricorda più volentieri è l'avventura di un esorcista locale, che indagava su un'apparizione mariana. Insomma, c'era questa persona che si dichiarava visitata dalla Madonna, che le spirava tante parole buone e dolci, ma l'esorcista non ne era convinto, e continuava a interrogarla, finché... finché il demonio (perché era il demonio alla fine!), spazientito da tutti questi colloqui, non diede di matto e cominciò a ispirare sapidi bestemmioni; e mentre l'invasata veniva condotta via in una probabile camicia di forza , l'esorcista, placido perrymason, si gustava il tuo trionfo: “L'avevo sempre saputo”. Il demonio vestito da vergine, come il lupo della favola, che s'infarina le zampe per farsi aprire la porta dalle pecorelle...

Sono un gregge i cattolici, è vero: ma contrariamente all'immagine che gira negli ultimi tempi, non è che aprano la porta alla prima madonna che si presenta. Sanno essere diffidenti, persino scettici, a modo loro. Non come certi che magari si professano agnostici e poi fanno le corna o leggono l'oroscopo: le pecorelle della chiesa cattolica credono in tante cose, ma si definiscono anche per le cose in cui non credono. Soprattutto fino a qualche anno fa, quando Wojtyla non era ancora l'anziano rimuginatore dei segreti di Fatima. Per dire, la Madonna di Medjugorje non è tuttora omologata. Lo stesso Padre Pio ha dovuto sanguinare parecchio per farsi accettare nel club. E anche la Sindone è un'optional: ci credi se ti va, ma nessuno ti obbliga.

Apparente controsenso di una religione fondata da visionari invasati dallo Spirito Santo, ma poi appaltata nei secoli a generazioni di anziani scettici e prudenti. Saul capisce che dietro c'è, appunto, il senso di appartenenza a un'aristocrazia della fede. C'è chi per credere ha bisogno di vedere segni nel cielo, sangue nei costati, Madonne che piangono, e, chissà perché, devono piangere sangue. Tutto questo è ammesso; in determinate epoche (non le migliori) è persino incoraggiato, ma in definitiva resta un atteggiamento infantile, roba da pastorelli, da... parvenus. Saul non ne ha bisogno, e in un'altra epoca probabilmente avrebbe fatto carriera come inquisitore di provincia, torturando più o meno psicologicamente gli invasati finché non sputano bestemmie. Tuttora, se c'è qualcosa che malsopporta è proprio lo zelo dell'ultimo arrivato, il belato entusiasta della centesima pecorella, Giuliano Ferrara che gli spiega i dogmi di fede, Paolo Brosio che gli mostra la Madonna, dico, Paolo Brosio. Certe volte Saul vorrebbe veramente disporre delle risorse di un inquisitore seicentesco, e andarli a trovare. Perché questa gente è snervante, incontra sempre Dio proprio nel preciso istante in cui la vita li ha messi spalle al muro, e zac! Colpo di fulmine. Saul con Dio ci ha passato la vita intera, e sa che è tutto molto meno romantico di quanto si dica in giro: portarsi Dio a scuola, a far la spesa, in vacanza, un fardello mica da ridere. E questi dilettanti cosa vogliono? Chi li ha invitati? Ecco, questo è quello che definirei approccio aristocratico alla fede. C'è un piccolo problema.

La sua religione è la meno aristocratica in assoluto.

Sei cristiano da una vita? Dio se ne frega. Ti giudica alla stessa stregua di quello che si è appena convertito. Controlla pure sul Vangelo, vedrai che le cose stanno così. La Chiesa sarà anche gestita da anziani scettici. Ma i sacri testi mostrano chiaramente una predilezione populista per i matti, i visionari, insomma, i parvenus. I convertiti dell'ultima ora, che sono i più fanatici e pericolosi di tutti. Gesù preferisce sempre gli ultimi arrivati ai banchetti (Matteo 22,1-14); se gestisce una vigna, paga l'operaio stra-ritardatario con lo stesso salario di quello che è arrivato puntuale (Matteo 20-1,16). Le 99 pecorelle tranquille lo annoiano, lui passa la notte a cercare quella smarrita (Matteo 18,12-14). E poi il figliol prodigo. Le prostitute, i pubblicani, insomma, cani e  porci. Nel Vangelo gli unici a fare una brutta figura sono proprio le caste sacerdotali, gli anziani sicuri e tranquilli della loro fede ereditaria, scribi farisei e sadducei. Gesù non li sopporta. San Giovanni non li trova né caldi né freddi, quindi li vomita (Apocalisse 3,15-17). Il Cristianesimo ha qualcosa di schizoide: se ti senti un buon cristiano, probabilmente non sei davvero un buon cristiano. Ma quando lo capisci (di non essere un buon cristiano), forse sei sulla buona strada... purché non te ne accorga, altrimenti siamo daccapo...

Nascere nella fede non ha fatto di Saul un santo. Piuttosto una comparsa nella Leggenda Santa di qualcun altro: Saul è la 99ma pecorella, il fratello senza gloria che rimane col padre a lavorare, il primo che sarà l'ultimo. È cresciuto in una parrocchia. È stata la sua seconda casa per molti anni. Ha visto la vigna del prete segata e asfaltata, la canonica rifatta, la chiesa restaurata, mentre lui si alzava di qualche centimetro (non di molti), e intorno a lui roteava un vortice di gente che andava e tornava. Lui restava lì, suonava la chitarra. Molti se ne partivano, delusi o semplicemente annoiati. Alcuni ritornavano, o arrivavano da fuori, convertiti di fresco. Molto spesso sulla loro strada c'era qualche sfiga, un incidente, un congiunto morto, e nonostante questo avevano tutti l'umore più alto di Saul. Perché portavano in dono alla comunità una Fede nuova di zecca, una fede pazzesca, da spostare le montagne (alcune montagne furono in effetti spostate), una fede che Saul ammirava, ma sinceramente non invidiò mai. Si ricordava della favola della sua vecchia catechista, ed era programmato alla nascita per diffidare dell'entusiasmo dei neofiti, e dell'entusiasmo in generale. Alcuni erano talmente pervasi che si fermavano in zona solo un po', diretti a qualche eremo o verso una carriera sacerdotale. Saul li faceva passare, dalla sua postazione laterale al presbiterio: lui suonava la chitarra, e lentamente vedeva questi roveti ardenti bruciare e consumarsi. Più rapida e forte era la fiamma, meno ci metteva a bruciare il combustibile. Saul amava paragonarsi a un ceppo tignoso e anche un po' umido, più fumo che fiamma, ma ben disposto a durare tutta la notte. In realtà non è andata esattamente così.

Questo in effetti è solo un lato della storia. C'è un altro motivo per cui Saul diffida dei roveti ardenti. È che da piccolo ha avuto anche lui il suo. Le apparizioni, sì, l'estasi e il tormento, tutta questa specie di cose. Ci è passato. (Continua, fino all'esaurimento dei lettori).
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Stelle come polvere

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(In questi giorni Blogger sta facendo casini. In particolare, si è messo a cancellare o nascondere commenti con delle logiche tutte sue. Se vi capita di non trovare più un vostro commento, prima di gridare alla congiura dei poteri forti forse è meglio che mi scriviate, l'indirizzo è qui di fianco).

L'educazione religiosa, 1

Ognuno ha gli hobby che si merita, e se guarda indietro agli ultimi anni, Saul si rende conto che ha passato una parte cospicua del suo tempo libero ad accapigliarsi con sconosciuti su argomenti religiosi. Tutto questo – badate bene – senza provare un briciolo di ansia religiosa dentro di sé. Cioè, al di là di tutti i discorsoni sul crocefisso, o l'ora di religione, o la santità dell'embrione, ma Saul in Dio ci crede o no? Non sa, non risponde, la domanda lo annoia. È una domanda da personaggio di Dostoevskij, Saul vive nel 2010 e ha meglio da fare: del resto, davvero, il mondo si surriscalda e sovrappopola che Dio esista o no. Ma questo non è in fondo eludere il problema? Persino Stephen Hawking ha un'opinione in merito, perché non dovrebbe averla un tipo come Saul? Tanto più che il suo passatempo è scrivere opinioni, e qualcuno gliele legge, addirittura gliele premiano.

C'è una foto in giro da quest'estate, un collages di puntini che potresti scambiare per un quadro informale o la neve della tv con l'antenna staccata – salvo che ognuno di quei puntini è una galassia. Ogni galassia è un miliardo di possibili mondi, eccetera. A questo punto il problema non è neanche più se esistano forme di vita extraterrestri – è lecito supporre che esistano forme di cose che non immaginiamo e non definiremmo nemmeno vita (altrove si chiederanno se esistano forme di t$%£) Saul vive in un periodo storico in cui ogni tanto ti mettono davanti delle foto così, e poi come fai a continuare a credere al tuo Dio? Ma la domanda è viziata: qualcun altro con la stessa foto in mano potrebbe chiederti: come fai di fronte a tanta complessità, tanta immensità, a non credere proprio al tuo Dio? Saul ha perso molto tempo a cercare di spiegare che il sentimento religioso è qualcosa che non ha nulla a che fare con la scienza. Ma allora con che cosa? Forse la paura. Saul non sa se Dio ci sia o no, ma sa che l'idea di un Dio non gli fa nessuna paura. Non se lo immagina come un Occhio Spietato che lo osserva da lontano: altri sì, e ne sono terrorizzati e infuriati, sia che ci credano, sia che non ci credano: e in questo secondo caso, il loro non-crederci, la loro non-fede, è abbastanza scomoda e spigolosa da somigliare alla fede in un dio qualunque. Si tratta insomma di una variante esistenziale: alcuni (credenti e non credenti) hanno un'angoscia, altri (non credenti e credenti) non ce l'hanno. Saul è tra questi ultimi, ma ricorda distintamente degli anni vissuti tra i primi: questo è il suo unico vantaggio.

Negli anni ha formulato varie ipotesi, (che è un po' quello che fa nella vita: l'ape il miele, l'anguilla il muco, Saul le ipotesi). Alla fine si è affezionato alla più banale, e cioè: potrebbe essere una questione di genitori. Saul ha avuto genitori buoni e modesti, molto difficili da descrivere e raccontare, perché in tv e sui libri ci mostrano sempre solo genitori violenti e pazzi: la famiglia va in scena solo quando è in decomposizione, altrimenti non è un soggetto interessante. È così da cento anni, ed è destinato a continuare per parecchio: ci sono secoli di sacre famiglie da dissacrare. Nel frattempo però quelli che sono cresciuti nelle famiglie *normali* si sentono un po' disadattati: è il paradosso della, boh, postmodernità. Per tutti gli anni della sua infanzia Saul non ha veramente avuto motivo di dubitare dell'esistenza di Dio, ed esattamente di quel Dio che stava appeso alla parete, semplicemente perché chi gliene parlava era una persona buona e modesta, che non raccontava bugie, che metteva per primo in pratica, senza fatica apparente, ogni comandamento di cui chiedeva il rispetto. Gli ordini che gli venivano impartiti gli apparivano, sin dal sorgere della coscienza, assolutamente necessari: non attraversare la strada. È un tabù, certo, ma è anche la Strada Nazionale 12 dell'Abetone e del Brennero, ci passano i camion ai cento all'ora, non si fa molta fatica a credere in un Dio-Padre che ti dà un comandamento del genere. Non quel genere di Dio-Padre che ti vieta il prosciutto o i gamberi, per intenderci. Ancora oggi Saul ha per il Dio che forse esiste la stessa naturale deferenza che prova senza difficoltà per qualsiasi autorità: il Preside, il Vigile, il Capo dello Stato. Con un po' di sforzo, naturalmente, Saul può nutrire sentimenti avversi: detestare qualche poliziotto violento, dileggiare i ministri. Ma gli costa un po' fatica, e le sue velleità rivoluzionarie non arrivano mai alle estreme conseguenze di invocare l'abolizione dei ministeri, o delle polizie. Saul detesta i ministri che non sanno fare i ministri e i poliziotti che picchiano le persone invece di difenderle: non l'autorità, ma chi la incarna in modo indegno. Un borghese, gratta gratta? Saul si risponde di no, non è esattamente questione di borghesia: ci sono borghesi ansiosi, cresciuti in famiglie difficili, che per l'autorità non hanno alcun rispetto. No, davvero, è una questione di famiglia. Saul ha avuto genitori buoni, modesti e cattolici. Li avesse avuti buoni modesti e non credenti, sarebbe oggi più o meno la stessa persona, e scriverebbe le stesse cose.

Allo stesso tempo, Saul sa di avere trascorso anni difficili, in cui forse ha bordeggiato varie psico-patologie senza che nessuno se ne accorgesse. Per fortuna nemmeno lui (continua, forse diventa più interessante).
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Ci rivedremo al piazzale

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S. meets B.M.

La non esistenza di Dio fu inoppugnabilmente dimostrata, tra gli altri, da un giovane conferenziere socialista, ad Airolo (Canton Ticino), nel 1902.
Era una grigia serata d'aprile – la pioggia picchiettava la locandina all'entrata del dopolavoro ferroviario:

DIO C'E'?
GIBT ES GOTT?
Y A-T-IL UN DIEU?


All'interno il pastore luterano stava terminando il suo sermone nella sonnolenza generale, con una sobria citazione da Tommaso d'Aquino, ma la sua voce tradiva lo sconforto. Era chiaro che i trentatré spettatori paganti non si erano radunati per lui, ma per sentire il suo avversario, quel tizio italiano di cui si dicevano cose mirabolanti, come si chiamava?

“Ringraziamo Padre Schuester, che ha portato alcuni argomenti a favore dell'esistenza di Dio. Diamo ora la parola al professor Benito Mussolini dell'Università di Losanna”.

Il giovane italiano si alzò dalla seggiola ed estrasse dal panciotto, con un gesto studiato, un ossidato orologio a cipolla.
Poi, mentre l'attesa del pubblico si faceva spasmodica, proruppe in un bestemmione che la Storia non ha tramandato, al contrario della frase successiva:
“Signori, io dico che Dio non esiste. Gli do comunque cinque minuti. Se entro cinque minuti non mi avrà fulminato, avrò dimostrato la mia tesi. È tutto”.
Seguirono cinque minuti di vigile silenzio, mentre la pioggia picchiettava senza tuoni. E poi gli applausi. I cinque minuti erano trascorsi, e Dio non c'era.

La notte stessa Dio mandò un suo emissario alla pensione dove dormiva il conferenziere. Nell'oscurità, a Benito sembrò che il tabarro liso appeso alla seggiola ai piedi del letto si animasse, e cercasse di discutere con lui – che però non riusciva a parlare, le sue labbra serrate in una morsa d'acciaio.

“Ho sentito che adesso sei dell'Università di Losanna. Fai carriera, eh”.
“...”
“Lo so, lo so, è stata un'idea dell'organizzatore, per darsi un tono. Tu a Losanna andavi solo a sentire le lezioni di Pareto – grand'uomo, tra parentesi, Vilfredo. Anch'io lo frequento, ogni tanto gli chiedo qualcosa, gliene suggerisco un'altra, è uno spirito libero”.
“...”
“Certo, io sono quello che appare agli intellettuali. La cosa ti dovrebbe fare onore, Benito. Ai pastorelli si manifestano di solito quelli con le ali di piume o il volto luminoso. Io invece sono un tipo un po' più ombroso, lo hai notato? Mitteleuropeo, decisamente. Del resto ero io che sussurravo al tuo Nietzsche mentre lui sussurrava al cavallo. Non chiedermi cosa, non sei autorizzato”.
“...”
“Lo so, lo so, si dicono cose molto sbagliate sul mio conto. Calunniose e inverosimili. Quando basterebbe leggere la Bibbia. Dico, non chiedo mica molto a dei cristiani: leggete un po' di Bibbia! E ditemi dove trovate le corna, il codino e gli zoccoli. Quella è chiaramente roba greco-romana, non trovi? Ma se leggi Giobbe, lì ti fai un'idea più o meno esatta del mio mestiere. Io sono l'Accusatore, lo dicono le etimologie. Vado in giro per il mondo in cerca di colpevoli, e ne trovo, ah, ne trovo sempre. In questo periodo, per esempio, non mi perdo una data della tua tournée. Conferenze sull'esistenza di Dio, che idea. Non renderanno molto, ma per un emigrato italiano... sempre meglio che la miniera, eh? Certo, a vederla così può sembrare una puttanata, e invece... sei in anticipo di un secolo almeno”.
“...”
“Oggi però hai battuto la fiacca. Del resto non era una gran serata. Tu ti meriti ben altro pubblico, hai ragione. Ma in ogni caso anche stasera hai dimostrato che Dio non esiste. Complimenti. Certo, rimane da spiegare il fatto che io sia qui”.
“...”
“Potrei essere un cattivo sogno. Hai mangiato pesante. Oppure... potrei esistere soltanto io, non Dio, io soltanto. Pensa che buffo! Ma non avrebbe senso. Se esisto io, deve anche esserci qualcuno che mi manda”.
“...”
“No, non puoi vedere Dio, no. È proprio una questione di percezione, capisci. Cosa può vedere un pidocchio? Tu sei molto meno di un pidocchio davanti a Dio. Se Dio stesse davanti a te, tu di lui riusciresti a vedere a malapena... un'unghia, un pelo, capisci? E un pelo di Dio non è abbastanza rappresentativo di Dio perché ne valga la pena. Non che Dio abbia i peli, tra l'altro, è solo una metafora che serve a spiegarti perché Dio non si può vedere. Dovrai accontentarti di me”.
“...”
“Eh, già, siamo all'interrogativo principale: se Dio c'è, perché non ti ha ancora fulminato? Risponditi da solo”.
“...”
“Benito, in questo mi deludi. Sei un ragazzo intelligente, quando vuoi; non è possibile che ti accontenti di un pensiero così rozzo. Tu davvero pensi di poter ricattare Dio coi tuoi mezzucci? Che Dio possa muovere anche solo un mignolo perché tu lo sfidi a farlo? Hai un'idea di quanto tu sia piccolo di fronte a Dio? E sai cosa rivela, questa tua puerile richiesta di attenzione? Sei come un bambino che gira per la Svizzera gridando ad alta voce mamma, mamma!, te ne rendi conto? Questa è più o meno la figura che ci stai facendo con Dio. Bene, lascia che io ti spieghi una cosa su Dio: non ha mai preso nel lettone un bambino, mai una volta. Lo lascerà piangere per tutta la notte, per tutte le notti, per tutta l'eternità, finché il bambino non si sarà calmato – e solo allora, se gli va, verrà a dare il bacio della buonanotte. Sì, anche questa è una metafora, in realtà Dio non bacia nessuno”.
“...”
“Non capisci. Non importa quanto siamo piccoli e insignificanti, a Lui interessiamo lo stesso. Tu, per esempio, non credere di poterlo sfidare impunemente. La tua punizione è già pronta. Niente fulmini, si capisce – folgorarti sarebbe un modo di cedere alle tue patetiche sfide. No, ti puniremo con qualcosa di molto più devastante di un fulmine. La Storia, Benito”.
“...”
“Beh, non vedo perché non dirtelo subito. Abbiamo grandi progetti per te, non invecchierai tenendo conferenze blasfeme. Diventerai un grande della Storia, senonché per diventarlo tradirai tutto quello in cui credi”.
“...”
“Ah, ma noi possiamo fare quel che vogliamo con te. Ti trasformeremo nel contrario di quello che sei. Per esempio, sappiamo che sei scappato in Isvizzera perché non vuoi fare il servizio militare – abbiamo un obiettore di coscienza qui, un pacifista ad oltranza, un socialista rivoluzionario, eh? Bene, senti un po'. Tradirai il socialismo, ne ucciderai i padri e ne ruberai i figli. Ti farai pagare dagli industriali un giornale dove spiegherai ai giovani rivoluzionari che la guerra è bella. Ah, e poi farai il tiranno. Schiaccerai i sindacati, quelli in cui ora credi tanto, sotto un tacco lucido, con l'aiuto del Re; ma il Re non ti basterà, e allora sai cosa farai? Passerai il Tevere, a baciar le pile al Papa! Proprio tu, Benito. E scatenerai guerre su guerre, in posti che nemmeno sapresti trovare sull'Atlante – l'Etiopia, l'Albania, l'Ucraina, e ovunque perderai, ovunque il tuo nome sarà fango indelebile sulla bandiera italiana. Ma non è solo questo. Il tuo esempio farà strada. La tua retorica da quattro soldi, la tua mimica da imbonitore, faranno scuola. Sarai la sorgente di un fiume nero che inonderà l'Europa, milioni e milioni di morti, che ne pensi?”
“...”
“E questa che razza di domanda è? Non c'è un perché, vuolsi così cola dove si puote ciò che si vuole, è inutile che chiedi. Se vuoi un parere, secondo me con questa storia dell'orologio svizzero lo hai divertito. Avrà pensato toh, guarda che pidocchio estroso, voglio divertirmi con lui. Giocherà a disorientarti, a farti perdere ogni certezza che avevi. Pensa al resto della tua esistenza come a un colossale gioco del gatto col topo. Il topo sei tu. Ma non prendertela. Hai pur sempre l'onore di essere stato un trastullo di Dio”.
“...”
“Posso prometterti solo una cosa: quando sarai morto, ma caldo ancora, e gli italiani che ti hanno riverito per vent'anni isseranno il tuo cadavere a testa in giù per bersagliarlo di sputi. Solo allora avrà pietà di te, e verrà a darti un bacio. Buona notte”.
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pensierini su Dio

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0. (Retorica)

0,1. Due settimane fa ho scritto un pezzo che alla luce della recentissima polemica sugli slogan della Uaar (“Dio non c'è”, con tutte le varianti) riassumeva il mio punto di vista sul concetto di Dio e di religione. Come se fosse possibile farlo in trecento parole e in mezz'ora.

0,11. Le reazioni scatenate dal pezzo mi hanno stupito: va bene che eravamo tutti nervosi per Gaza, ma una forumizzazione del genere non me la ricordavo da anni. Rileggendomi, ho capito che parte della responsabilità era mia, e del tono sbarazzino in cui pretendo di spiegare l'universo in pochi minuti. Soprattutto ho notato che il pezzo era costruito in modo da infastidire sia chi credeva in Dio che non ci credeva. Un capolavoro di spocchia, insomma.

0,111. Con questo non intendo chiedere scusa. Vedrete che riuscirò spocchioso anche stavolta.

0,112. Eppure i ragionamenti che seguono, anche se assumono (per amor di chiarezza) la forma di un trattato, si avvicinano alla filosofia tanto quanto il ritratto che vostro figlio vi ha fatto a tre anni coi pennarelli carioca si accosta alla Monna Lisa. Sono pensierini su Dio, niente di più, niente di meno.

0,2. Detto questo, su cento e più commentatori non mi pare di aver letto un solo credente arrabbiato. Ho definito la religione uno stupefacente, un palliativo, un precipitato della miseria, e nessuno se l'è presa. Gli atei invece si sono infiammati. Questo è piuttosto curioso: non dovrebbe essere il contrario? Non dovrebbero essere gli atei sereni e razionalisti, e i credenti entusiasti e zelanti?

0,21. Me la sono spiegata così: al giorno d'oggi i credenti sono abituati a vivere la loro fede in un clima di scetticismo generale. Un tale che su un blog ritira fuori la storia ottocentesca dell'oppio dei popoli non li impensierisce più di tanto: sorridono e cliccano via.

0,22. Per contro gli atei (perlomeno gli atei che se la sono presa con me) dimostrano di non essere altrettanto abituati al contraddittorio. Quasi avessero sempre pensato che la proposizione “Dio non c'è” fosse autoevidente; insomma è ovvio che Dio non c'è, no? Appena qualcuno gli fa notare che no, non è affatto evidente, s'innervosiscono: soprattutto quando vedono rivolte contro di loro le armi della ragione e della logica, che essi credevano di loro esclusiva proprietà – anche se poi alla fine non le avevano mai usate, limitandosi ad accomodarsi sullo scetticismo della loro famiglia-ideologia-milieu culturale senza metterne mai in dubbio la consistenza.

0,221. (In generale, dubita sempre di chi sostiene “Ho capito subito che Dio non esisteva”, e in particolare di quelli che lo hanno capito alle elementari. Significa che non hanno mai messo in discussione le conclusioni che hanno raggiunto alle elementari. La loro interrogazione su Dio si è fermata al mattino in cui hanno capito che la suora raccontava una storiella. E quelli che in Dio ci credono, o che ne discutono e ne ammettono la possibilità? Dovrebbero essere tutti più deficienti di loro a nove anni – e poi lo spocchioso sarei io).


1. Antropologia

1,1. Prima di affermare che sia possibile fare a meno di Dio, considerate per quanti millenni non ci siamo riusciti. Erano tutti stupidi fino a qualche secolo fa?
1,2. Per favore, non trasformate la religione in un complotto ordito da malvagi Uomini Neri per scongiurare il pericolo che ci godessimo la vita. La vita è poi così godibile? Si nasce nel dolore, si annaffia di sangue e sudore la terra, ci si ammala e si muore. Questo molto prima che gli Uomini Neri escogitassero qualsiasi diabolico piano.
1,3. Prima delle religioni esistevano già riti magici. Prima dei riti, probabilmente esistevano dei tabù. Prima dei tabù? Non so, ma sospetto che esistesse una paura fottuta. Paura dei morti, paura della malattia, paura degli istinti poco controllabili (violenza, sessualità). I tabù intervengono proprio in questi campi: rimediano alla paura dei morti attraverso la pratica della sepoltura, proibiscono l'incesto, stabiliscono cosa è commestibile e cosa è impuro, ecc.
1,4. Le religioni arrivano un po' più tardi, come tentativi di rielaborazione narrativa o addirittura razionale dei tabù.
1,5. Le religioni non sono per sempre, come le specie animali. Ogni tanto cambia il clima e la razza che sembrava invincibile si estingue o si evolve. Allo stesso modo anche ciò che sembrava verosimile sul piano narrativo smette improvvisamente di esserlo; ciò che sembrava razionale (ragionevole) non lo è più: la gente smette di credere. A quel punto o spunta qualche nuovo riformatore in grado di ri-narrare o ri-razionalizzare tutto quanto, oppure la religione viene progressivamente soppiantata da qualcos'altro (che non è necessariamente migliore; ma è più adatto al clima del momento).
1,6. Ma i tabù? Quelli restano. Anche se avete deciso di fare a meno di Dio, non credo che siate disposti a discutere sull'incesto o l'opportunità di trasformare i cimiteri in lotti edificabili. Perché quelli sono tabù tuttora validi, e se andassimo a scoprirli ci accorgeremmo che sotto c'è ancora la fottuta paura sperimentata dai nostri antenati. E' ancora lì, e la ragione può coprirla, ma non rimuoverla.
1,7. Se mi dite che riuscite a vivere benissimo senza Dio, io vi credo. Se sostenete di non aver paura della morte, o dei morti, non vi credo più.
1,8. E' ingiusto accusare la religione (una religione o più religioni) di aver reso complicato o ansiogeno il rapporto tra l'uomo e la morte, o tra l'uomo e la sessualità. Questa idea per cui basterebbe togliere dalla faccia della terra i preti per trasformarci in allegri bonobo scoperecci e immemori del notro destino mortale. Noi non siamo bonobo, siamo sapiens: a un certo punto siamo scesi dagli alberi e abbiamo iniziato a seppellire i nostri padri morti per evitare che ci visitassero nei sogni. La religione non è il Male: la religione è stata una cura. Una delle tante. Ditemi che non è più la cura più adatta, ditemi che molto spesso complica il male invece di guarirlo; ditemi che provoca dipendenza e assuefazione; ditemi tutto questo e vi dirò ragione; ma non ditemi che senza la cura non esisterebbe più il Male.
1,9. Pensateci due volte, prima di partire lancia in resta contro i monoteismi millenari. Voi pensate che l'alternativa sia un ateismo stoico, lo so. Ma io credo che i monoteismi, ritirandosi, lasceranno un sacco di spazio all'Oroscopo, che è la vera mala pianta. Quei paganesimi light che non impegnano, quelle superstizioni che si arrampicano anche tra le celle dei cervelli più seri e quadrati. Gli idoli. Io credo che Mosè e Maometto (due persone non simpatiche) distruggendoli ci abbiano fatto un dono incalcolabile.
1,99. Tutto il discorso fin qui vale che Dio esista o no.


2. Linguistica

2,01. Ma insomma, alla fine Dio c'è o no? Non si sa.

2,1. In realtà dipende da cosa si intende con “Dio”. E quindi accantoniamo scienza teologia e filosofia: Dio è prima di tutto un problema linguistico. Un falso problema, in effetti.

2,2. Infatti, cosa intendiamo con “Dio”? Quello della Bibbia? Riduttivo Quello di tutti i libri sacri del mondo? Restano fuori ancora molti pagani e teisti.

2,3. Mettiamoci d'accordo alla svelta. Definisco Dio come “Intelligenza onnipotente”. Le sue caratteristiche per la verità dovrebbero essere molte altre (onnipresente, creatore, ecc.), ma direi che le due che ho scelto le sintetizzano: quando pensiamo a Dio pensiamo a un'entità che può tutto se lo vuole, e quindi è dotata di potenza e volontà, e quindi coscienza.

2,4. Quindi la domanda “Dio c'è” andrebbe intesa come: “Esiste nell'universo un'intelligenza onnipotente?”

2,5. Beh, è una domanda retorica. Contiene in sé la sua risposta, che è: “come diavolo faccio a saperlo?” Se è onnipotente può tutto, e quindi potrebbe senz'altro nascondersi alle mie facoltà logiche, alle mie osservazioni scientifiche, alle mie speculazioni filosofiche. A meno che io non sia in grado di capire Tutto – ma in quel caso Dio comunque c'è, sono io.

2,6. Non è necessario nemmeno che voglia nascondersi – potrebbe semplicemente essere troppo complesso per me. Anzi, il concetto di onnipotenza sottointende che se c'è, egli è certamente troppo complesso per me. Insomma, il solo fatto che io lo consideri onnipotente, implica che io non possa comprenderlo. Figuratevi se posso dimostrare che c'è. O che non c'è. Dio non è dimostrabile, per definizione.

2,7. Da qui una delle mie preferite definizioni di Dio: “Colui che potrebbe fare tutto, compreso esistere” (ma ce n'è una migliore al 3,1). Ripeto, non è un problema scientifico, ma linguistico: la parola “Dio” implica la parola “onnipotenza”, e l'onnipotenza è non dimostrabile per definizione. Quando accetto di usare le parole “Dio” e “onnipotenza”, accetto di maneggiare concetti la cui esistenza non è dimostrabile: la frase “Dio non c'è” non è meno insensata di “le incolori idee verdi dormono furiosamente”.


3. Etica

3,1. Dio per me è soprattutto un principio di umiltà. Non so se ci sia o no. Ma so che sono troppo piccolo per poterlo sapere. Che ne sanno gli acari che vivono sotto la mia tastiera di quel che sto scrivendo? Ma io sono ben più piccolo di un acaro di fronte all'universo. Ad affermare verità come “Dio non c'è” ci faccio la figura del cosmonauta sovietico della barzelletta: ok, di universo ne abbiamo visto un po' più di Gagarin, ma non molto di più.

3,11. Peraltro, ogni volta che cerchiamo di spiegare qualche fenomeno dell'universo, che altro facciamo se non rintracciare un ordine razionale, ovvero comprensibile ai nostri cervellini da insetti? Ma questo implica una discreta fede nella possibilità che l'universo sia razionalizzabile. Una macchina intelligente. Non solo, ma di un'intelligenza non troppo diversa dalla nostra, anche se su una scala infinitamente più complessa. Insomma, chi studia l'universo sta cercando un'intelligenza, là fuori. Non volete chiamarla “Dio”? Trovate un altro nome, ma il concetto non è molto dissimile.

3,12. Qui c'è un paradosso divertente. Se scrivo “Dio non c'è, perché non lo abbiamo trovato”, intendo: “Non esiste un'intelligenza onnipotente in grado di nascondersi a me”, che implica “non esiste nell'universo un Ente di cui io non possa provare l'esistenza”: ma allora Dio esiste eccome, sono io. E se compro uno spazio su un autobus per negare la mia esistenza, sono pure un po' diabolico.

3,13. Forse il 3,12 è solo un trabocchetto linguistico, non lo so, ma in ogni caso chi afferma “Dio non c'è” mi pare straordinariamente immodesto. Come hai fatto a capirlo? Io non ho nessun potere di confutarti, sia chiaro, non sono che un acaro; ma tu chi sei? Cos'hai visto? Cos'hai capito? Tu non puoi realmente aver dimostrato che Dio non esiste, dai. Aggiungi almeno un “forse”.

3,14159. Potrà sembrarvi un dettaglio, quel “forse”: e invece è fondamentale. Cancellandolo, avete fatto torto al mio vero Dio, che è il Dubbio. Avete anche negato, per amore di slogan, il vero fondamento di tutta la nostra cultura scientifica e razionale: il Dubbio.

3,3. Questo per me è discriminante. Se siete seguaci del Dubbio, siete miei compagni. Se lo negate, siete dei credenti come tanti. Non più convincenti di tanti altri. Sicuramente meno simpatici, perché gli altri almeno hanno storie da raccontare, mentre voi avete semplicemente trasformato uno scetticismo popolare in ideologia, pasticciando con la logica e il linguaggio, senza passare dal Dubbio, che è l'unica cosa importante.


4. Politica

4,1. Detto questo, io sono per la libertà di culto e non intendo negarvi nessuna prerogativa che è già stata concessa agli altri. Lotterò per il vostro diritto al proselitismo, anche mediante specifici mantra stampati su muri o autobus. Se qualche vescovo si arrabbia perché organizzate una conferenza di Odifreddi o Dawkins in piazza del Duomo, io sarò con voi, pronto a prostrarmi davanti a Dawkins: non perché io creda in quel che dice, ma per difendere il diritto di chicchessia di prostrarsi di fronte a chiunque.

4,11. Mi piacerebbe che voi mostraste altrettanto rispetto per i seguaci delle altre religioni. Mi piacerebbe che capiste che il vostro diritto di scrivere una verità di fede su un autobus è lo stesso che altri esercitano inginocchiandosi in un luogo pubblico, ma forse è chieder troppo ai neofiti di un culto nuovo. Lo so, i primi anni è così: “Noi abbiamo capito tutto e voi non avete capito niente”. Dopo un po' passa.

4,12. Non credo tuttavia che la vostra opera di proselitismo cambierà la società in un senso più laico. Anzi, il fatto che molti laici come voi sentano il bisogno di acquattarsi in una nuova chiesa dimostra che la società sta perdendo progressivamente dosi importanti di laicismo. Ho provato a sintetizzare il mio pensiero in due maldestri disegnini. Perdonate la fretta.

Se non si è capito, io vorrei che la maggior parte di noi cercasse di vivere nella Laicità, che non è una Chiesa fra tante, ma un ambiente che le rispetta ma le sovrasta in nome dell'uguaglianza tra le persone (Fig. 1). La comparsa di un'ulteriore Chiesa (Fig. 2) rischierebbe di assottigliare questo ambiente fino alla soglia critica dopo la quale nessuno pretenderà più servizi laici e tutti cominceranno a iscrivere i figli alla scuola della religione di riferimento. In certe nazioni è già così. Esagero? Sì, perché fingo che “gli atei forti” possano davvero entrare in competizione con Cristo e Maometto. La strategia di abbandonare l'edificio pencolante della Laicità per andare a infilarsi in un vaso di coccio mi sembra suicida, anche tenuto conto della robustezza millenaria dei vasi di ferro che vi stanno intorno. Questi Dei che non esistono e macinano proseliti da migliaia di anni mi sembra che li stiate prendendo un po' troppo sottogamba. No, per dire che si sono mangiati gente ben più scafata di voi, attenti.

4,2. Ok, il mio non era un gran pezzo: sbrigativo e petulante. Però il modo in cui molti atei se la sono presa è davvero interessante. Io non ho fatto altro che ripescare un vecchio cavallo di battaglia dell'hegelismo di sinistra: religione oppio dei popoli. E ve la prendete? Se siete davvero atei dovreste già averne sentito vagamente parlare, no? C'è chi mi ha scritto: 'Hai offeso la memoria dei miei genitori comunisti'... ehi, se erano comunisti il mio discorso dovrebbe suonar loro famigliare. Insomma, un ateo che non è passato almeno da Feuerbach, da cosa è passato? Siete sicuri che Dio non c'è e non avete neanche mai dato un'occhiata ai fondamentali?

4,3. Si parlava di Dawkins e sono andato a dare un'occhiata. Il suo libro è interessante e anche divertente. Ma in effetti non cita mai né Feuerbach né Marx. E si sta parlando di critica della religione - non è un po' come parlare di gravità senza Newton? Si parla di cosmologia e genetica, di evoluzionismo e di genetica, di antropologia e di genetica, e poi ancora un altro po' di genetica, ma tutto il dibattito sette-ottocentesco sull'ateismo non c'è. Le menti migliori di due secoli hanno discusso il problema, ma Dawkins non dà l'aria di curarsene molto: si vede che non s'intendevano di genetica. Per lui l'Ottocento è Darwin, sostanzialmente.

4,31. A questo punto ho avuto la sensazione di guardare un mondo nuovo dalla soglia del vecchio. Per me Dio è ancora un problema ottocentesco, sociologico, economico addirittura. Dawkins questi problemi non se li pone. Che l'economia possa influenzare la mia ideologia e le mie credenze è cosa che non lo riguarda, lui sta cercando il gene del sentimento religioso (non è proprio così, sto semplificando brutalmente). E rieccoci alla vecchia querelle ambiente-genetica: chi vincerà? Eddie Murphy o Dan Aykroyd? Io ammetto di non essere più l'ambientista feroce di una volta, ma anche i genetisti dopo le cantonate del genoma secondo me dovrebbero calare un po' le arie.

4,32. Ma c'è un altro motivo per cui l'interpretazione genetista del sentimento religioso mi ripugna. Dawkins ha un lato oscuro, non so se l'avete visto: prima spiega perché è “quasi certo che Dio non esiste" (comunque è già un po' più onesto dell'autobus); poi sostiene che senza Dio si sta meglio (discutibile, discusso); quindi che l'istinto a credere in un Dio è genetico... il passo successivo? Per me ce n'è uno solo: selezioniamo i geni finché non eliminiamo il sentimento religioso, così i nostri figli staranno tutti meglio. Lo so che Dawkins non arriva a tanto, ma il sentiero che percorre va in quella direzione.

4,33. Anche se né Dawkins né i dawkinsiani arriveranno mai a quel traguardo, non mi piace il loro modo d'impostare il problema. Preferisco il vecchio sentiero ottocentesco. Preferisco considerare la religione una sovrastruttura economica, non genetica. Non perché rifiuto che possa essere anche genetica: ma perché il gene è il mio tabù, non voglio averci a che fare.

4,34. In effetti anche se qualcuno riuscisse a mostrarmi che l'Uomo è 99,9% Gene e 0,01% Ambiente, io continuerei a tifare Ambiente (come Dostostoevskij che tra Cristo e Verità avrebbe scelto Cristo), perché per quanto il gene possa essere determinante, non mi piace che ci si vada attorno. Le poche energie che abbiamo per migliorare il mondo devono servirci a cambiare l'economia, non a pasticciare i geni.
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Dio c'è ma ha preso il taxi

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That bus is going nowhere

Learn the subways, Kevin. Use them. Stay in the trenches. Only way I travel.

Il dibattito sull'esistenza di Dio sui blog italiani è una cosa fantastica. Senza ironia. Beh, di sicuro, è più eccitante del dibattito sull'arte di Allevi.

Dunque, in soldoni il fatto è questo: Atei comprano pubblicità su autobus per avvertire che Dio non c'è.

La mia domanda è: che razza di atei siete? Perché ce ne sono di deboli e di forti. Gli atei deboli ritengono che l'esistenza di Dio non sia dimostrata e probabilmente non dimostrabile; gli atei forti invece sono assolutamente sicuri che Dio non ci sia.
Dalla scritta che avete scelto direi che siete Atei forti: per voi Dio proprio non c'è. Beh. È una presa di posizione netta, bravi. Ma chi ve l'ha detto?
Gli scienziati no di sicuro, l'esistenza di Dio non è affar loro. Difficile che ve l'abbiano detto i filosofi (e anche se fosse: vi fidereste dei filosofi?)
Perché vedete, l'ateismo “forte” ha una debolezza logica, un tallone d'Achille: la non-esistenza di Dio non è dimostrabile.
A questo punto c'è sempre chi protesta che la questione è l'esistenza di Dio, il cui onere della prova spetterebbe a chi ci crede: come se Dio fosse un crimine, di cui siamo tutti innocenti fino a prova contraria. Ma questa è teologia, mica giurisprudenza: l'Universo è decisamente grande; come puoi sostenere che qualcosa in esso (compreso il suo creatore) non esista “fino a prova contraria”? Tutto può esistere, finché non provo il contrario. Il pianeta inquadrato dai telescopi a 128 anni da luce da me esisteva assai prima che qualcuno sulla terra potesse immaginare l'idea di “pianeta”.
Voi un telescopio così potente in casa non l'avete: e tuttavia sostenete che Dio non c'è. Come l'avete capito?
Ci siete arrivati con l'intuito? Allora siete degli “illuminati”. Ve l'ha detto un uomo/donna più saggio/a di cui vi fidate totalmente? Allora siete discepoli di un “guru”, o “profeta”. E la vostra convinzione che Dio non esista si chiama “Fede”. Lo so che da dentro le cose sembrano diverse, ma vi assicuro: fuori dal bus la percezione è questa. E la scritta sul bus, per quanto ben congegnata, vi garantisco che porta quel retrogusto di arroganza tipico degli slogan dei missionari: “Ehi voi che aspettate l'autobus, lo sapevate che avete vissuto una vita nelle tenebre della superstizione? Beh, svegliatevi”.
Proprio così. Svegliatevi. Lo slogan dei Testimoni. Perché, credete che abbiano una coscienza meno complicata e moderna della vostra? Anche loro hanno una Fede. Gliel'ha rilevata un Profeta. La differenza principale tra voi e loro è che voi siete simpatici dilettanti, con un'idea, uno slogan e poco altro. Loro invece sono sulla piazza da un secolo e macinano proseliti, perché hanno da offrire molto di più: hanno una Storia. Hanno una speranza: La Fine Dei Tempi È Vicina! 144.000 Persone Non Moriranno Mai! Queste sono idee che ti fanno salire su un autobus, altro che Dio non esiste goditi la vita.
Goditi la vita? Con la recessione, la disoccupazione e la guerra? Ehi, senti un po', Ateo Forte: me li dai tu i soldini per godermi la vita? Me la ricarichi tu la Social Card? No? E allora scusami, ma le tue sottigliezze ontologiche non mi interessano. Ogni giorno che mi sveglio è un problema in più, e quest'autobus l'ho preso giusto per recarmi dal mio pusher di Oppio dei Popoli preferito.

Torniamo alla prima domanda: che razza di atei siete? Atei razionalisti?
E allora dovreste saperlo che anche la religione è una sovrastruttura, e che non si smonta mica con la reclame su un autobus. Esisterà finché esisteranno determinati parametri sociali ed economici e determinati rapporti di potere.
Potrei capire se mi diceste che per cambiare la società bisogna pur partire da qualcosa, e che voi avete deciso di partire dalla messa in discussione del concetto di Dio. Posso capire, ma mi sembra una priorità bislacca; la mia è ridurre le ingiustizie sociali. E so che si può fare anche con l'aiuto di tanta gente che crede nell'esistenza di Dio con dimostrazioni fallaci tanto quanto le vostre.

Noi sappiamo che la Storia non ci sta preparando nessuna rapida palingenesi. Sappiamo che la scienza, la medicina e l'economia, con tutti i loro progressi, non riescono a impedire che miliardi di persone vivano male: al punto che c'è forse più sofferenza umana sulla terra oggi di quanta ce ne sia mai stata in passato.
Viviamo in un'epoca di diagnosi rigorose e cure imperfette. La nostra scienza funziona benissimo quando deve spiegarci di che malattia stiamo soffrendo, o perché il nostro Paese è in recessione. Funziona assai peggio come erogatrice di speranze. A tutt'oggi non ci sono ricette per gran parte dei mali che ci affliggono, fisici e morali. Forse vale la pena di guardare all'oppio con un occhio diverso.

Le grandi religioni, quelle che azzerano il calendario, si sono sempre affermate in periodi di crisi simili a questo. Prendiamo il cristianesimo: se ha avuto lo straordinario successo che sappiamo, è perché ha individuato un "mercato" che nessun prodotto era più in grado di soddisfare. Il mercato della sofferenza e della disperazione – e quando dico "mercato", non parlo per metafore. Dal III secolo in poi, le comunità cristiane hanno portato alla luce un soggetto economico che prima non esisteva: il bisognoso. In un mondo che ignorava (oltre che la luce elettrica e la penicillina) qualsiasi forma di Welfare State, i cristiani iniziarono a raccogliere fondi con lo scopo di destinarli a vedove, orfani, perseguitati, poveri. In seno allo Stato militare (che tassava i cittadini ormai quasi esclusivamente per mantenere burocrazia ed esercito), nasceva un'idea di Stato assistenziale. Non è curioso che la fratellanza musulmana (che in Palestina si chiama Hamas) sia nata e cresciuta nei Paesi arabi nella stessa maniera? La fratellanza sostituisce (male) l'assistenza sociale in Paesi in cui i poveri sono abbandonati a loro stessi. Tutto questo è giusto? No. Ma tutto questo può essere cambiato rapidamente?

Se tu sei ateo, forse è perché te lo puoi permettere. Hai un buon lavoro, che dà un senso a parte della tua vita; e una famiglia abbastanza confortevole. Se soffri di qualcosa, puoi acquistare le medicine che ti servono. Puoi anche investire parte della tua vita e dei guadagni in svaghi e in oppiacei non metaforici. Insomma, non hai così bisogno di Dio. Così magari puoi diventare ateo. Perché sei più intelligente di altri? Più informato? O perché sei un privilegiato?
E a chi non è altrettanto fortunato – o intelligente – cos'hai da proporre? Puoi garantire un lavoro a tutti i poveri della terra? Una famiglia confortevole? Medicine a prezzi equi? Divertimento occidentale? No, non Puoi. Guardiamoci in faccia: stiamo bloccando le frontiere; è evidente che non ci sono abbastanza risorse per tutti. Ma allora, cos'hai da proporre ai poveri della terra, di meglio del caro-vecchio-oppio-dei-popoli?
Una scritta su un autobus? Tutto qui?
Tu non ci sali spesso sugli autobus, vero?
Dovresti.

(metà pezzo viene da qui)
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buh!

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Roma è in preda al Terrore

Solo una brevissima per dire che anch'io, nel mio piccolo, non sopporto che il Vaticano abbia rifiutato i funerali di Welby, mentre li ha concessi a Pinochet, a Franco e per uno della banda della Magliana. Anche se in effetti assieme a Gesù Cristo non c'erano due malati di Sla, ma due ladroni.

Ecco, l'ho scritto. E se questo fa di me uno stupido, pazienza, con tanta intelligenza che c'è in giro uno stupido in più non guasterà.
Se poi questo fa di me un terrorista, o beh, ci ho un po' fatto un callo. Se mi fossi fatto esplodere ogni volta che mi davano del terrorista, qui intorno sarebbe tutto buche e collinette. E' anche vero che la lingua ferisce, ma la mia in sei anni al massimo avrà spezzato un paio d'unghie. Comunque ok, sarò pure un terrorista.

BUH!
Paura, eh?
Dai Bagnasco, non sbiancare. T'han pure rafforzato la scorta, su.

Allora, questo è il tandem Ratzinger-Bagnasco. E dire che due anni fa, quando lo Spirito Santo nominò Ratzinger, io ero un po' contrariato. Temevo il passaggio da una Chiesa monolitica ma vagamente ecumenica a una Chiesa arcigna, arroccata sui suoi articoli teologici. Beh, ma son stupido davvero, mi sbagliavo.
Quella di Ratzinger-Bagnasco è una Chiesa un po' arroccata, sì, ma soprattutto capricciosa, petulante. Sa tutto lei, ti cita a memoria i discorsi di Alessio Comneno, ma al primo fischio trema tutta e chiama i carabinieri. D'altronde, come diceva un vostro rappresentante di categoria: uno il coraggio non se lo può dare.

E vabbè. Abbiamo sopravvissuto ai preti tutti d'un pezzo, sopravviveremo anche ai preti di gelatina. Del resto è da duemila anni che sopravviviamo ai preti, noi cristiani. Se non è una prova questa, che c'è Dio.
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tu non pensi secondo Dio, ma come gli uomini

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Nessuno si attenti a zittire Bagnasco

Mettiamola così: negli ultimi anni in Italia si sono aperte splendide opportunità, per i preti (anche grazie alla pochezza di molti laici, specie quelli in perenne fregola referendaria). E tuttavia in fin dei conti restano pur sempre preti. Che possono fare, a parte parlare e parlare? E parlando e parlando, che possono fare, a parte scoprire le proprie debolezze e contraddizioni?

In sostanza: Bagnasco è caduto in una trappola. Parlando e parlando, gli è uscita una castroneria che resterà alla Storia. Non fosse il suo mestiere, ci sarebbe da compatirlo: lui mica pensava di sollevare tutto questo polverone. Non era una Nota ufficiale del CEI, se provate a cercarla sul Sito Ufficiale o altrove farete molta fatica: l’infelice paragone tra convivenza, pedofilia e incesto gli è uscita dalle eminenti labbra a un convegno di animatori della cultura e della comunicazione della diocesi di Genova. E insomma, chi se l’aspettava un’imboscata dei giornalisti del Secolo XIX? Puntuale è infatti fiorita la smentita: Bagnasco non intendeva davvero paragonare, è stato frainteso, estrapolato, eccetera eccetera. Già: ma come fa notare il pur prolisso Malvino, il testo completo non lo ha ancora pubblicato nessuno. Può anche darsi che Bagnasco volesse dire il contrario di quel che i maledetti giornalisti hanno estrapolato: ma in attesa della pubblicazione integrale, l’impressione è che Bagnasco abbia detto esattamente le cose ampiamente riportate dai virgolettati – anche se avrebbe preferito che i giornalisti non lo ascoltassero. Ma appunto, questo è il grosso limite dei preti, ancorché “animatori della cultura e della comunicazione”: a furia di parlare, c’è il rischio che qualcuno ti ascolti sul serio.

Gesù, che di comunicazione un po’ ne capiva, spesso e volentieri stava zitto: il silenzio si addice ai profeti e ai re. Piuttosto di dire qualcosa di avventato, si metteva a scarabocchiare nella sabbia. Coi preti è diverso: loro nel dubbio parlano. E da qualche tempo in qua, parlano senza rete.
Nessuna nostalgia, per carità: eppure non si può fare a meno di osservare che ai tempi della Dc un incidente del genere non sarebbe scoppiato. Qualche cavallo di razza avrebbe preso il telefono e – con tutta l’umiltà del caso – ammonito fraternamente sua Eccellenza a non cadere più in simili trappoloni, e lasciare la politica a chi la faceva di mestiere. L’unità politica dei cattolici era una specie di filtro che dei preti lasciava passare qualche santa parolina ogni tanto. Oggi è diverso. Sparsi in cinque partiti in concorrenza tra di loro, i cattolici fanno a gara ad attaccarsi alle sottane (dei vescovi). I vescovi se ne sono accorti e, come fanciulle in fiore, parlano, parlano. E voi non avete che lasciarli parlare:

Nel momento in cui si perde la concezione corretta autotrascendente della persona umana, non vi è più un criterio di giudizio per valutare il bene e il male e quando viene a cadere un criterio oggettivo per giudicare il bene e il male, il vero e il falso, ma l’unico criterio o il criterio dominante è il criterio dell’opinione generale, o dell’opinione pubblica, o delle maggioranze vestite di democrazia – ma che possono diventare ampiamente e gravemente antidemocratiche, o meglio violente – allora è difficile dire dei no, è difficile porre dei paletti in ordine al bene. Perché dire di no a varie forme di convivenza stabile giuridicamente, di diritto pubblico, riconosciute e quindi creare figure alternative alla famiglia? Perché dire di no? Perché dire di no all’incesto come in Inghilterra dove un fratello e sorella hanno figli, vivono insieme e si vogliono bene? Perché dire di no al partito dei pedofili in Olanda se ci sono due libertà che si incontrano? E via discorrendo, perché poi bisogna avere in mente queste aberrazioni secondo il senso comune e che sono già presenti almeno come germogli iniziali. Oggi ci scandalizziamo ma, a pensarci bene, se viene a cadere il criterio antropologico dell’etica che riguarda la natura umana, che è anzitutto un dato di natura e non di cultura, è difficile dire ‘no’. Perché dire no a questo a quello o a quell’altro. Se il criterio sommo del bene e del male è la libertà di ciascuno, come autodeterminazione, come scelta, allora se uno, due o più sono consenzienti, fanno quello che vogliono perché non esiste più un criterio oggettivo sul piano morale e questo criterio riguarda non più l’uomo nella sua libertà di scelta ma nel suo dato di natura. Vi è necessità di porre dei paletti a una società che sta andando alla deriva.

Un primo appunto: se parla agli animatori della comunicazione, forse è meglio che adoperi frasi più brevi e incisive. E magari concetti un po’ più chiari: cos’è la “concezione autotrascendente”? qualcosa che trascende, va bene, ma allora perché “auto”? Qualunque cosa sia, sembra proprio che non esistano altri “criteri oggettivi per giudicare il bene e il male”. Oggettivi? Sua Eminenza sta dicendo che l’unico criterio morale oggettivo è… autotrascendente? Se è così, ok: ma forse c’è un modo per comunicarlo meglio.

Poi c’è un certo malcelato disprezzo per le masse, che si vestono di democrazia ma che sono prontissime a cambiarle non appena torna di moda il nero (il che a volta in effetti avviene: e di solito nei paraggi c’è qualche prete che parla parla e approva). Quindi si arriva al famigerato “perché dire di no?” Il senso è abbastanza chiaro: per Bagnasco l’unica morale oggettiva arriva da Dio; quel che legifera la maggioranza non ha importanza, perché la maggioranza è fascista o sta per diventarlo. Per di più, la maggioranza non ha gli strumenti per “dire di no” a chi difende un’aberrazione morale in nome della libertà. Potrebbe avere un senso, non fosse che i due casi citati da Bagnasco siano due clamorosi autogol. Infatti:

1. Il partito olandese non si è candidato alle elezioni, per mancanza di firme; evidentemente le masse vestite di democrazia non sono ancora pronte a tanta liberà. Per ora l’organizzazione ufficiale che nell’Occidente si è spesa di più per coprire i pedofili rimane la Chiesa Cattolica. In nome di non si sa ancora quale morale oggettiva o autotrascendente: Gesù aveva per i pedofili parole di fuoco, si vede che lui non era ancora autotrasceso abbastanza.
2. Il fratello e la sorella che “hanno figli, vivono insieme e si vogliono bene” non vivono in Inghilterra, ma in Germania (come sanno più o meno tutti i lettori di quotidiani tranne Bagnasco) dove l’incesto è reato, appunto; anche in Italia del resto è reato, ma punibile solo se dà pubblico scandalo. Qui Eminenza confonde la regola con l’eccezione: l’esempio semmai prova che le maggioranze vestite di democrazia riescono a dire di no all’incesto anche senza l’intervento di Bagnasco.

Nella seconda parte della citazione salta fuori nientemeno che il “criterio antropologico dell’etica che riguarda la natura”. Sarebbe a dire? Ricordiamo che Bagnasco parla a braccio, e ha già scambiato una volta la Germania per Inghilterra. Ma insomma, l’impressione è che sua eminenza persista nel lapsus di ritenere la morale cattolica fondata nell’“oggettività” e addirittura nella “natura” (o nell’“antropologia”). Ma quando mai? La Bibbia è un campionario di casi morali aberranti; il Vangelo (che contiene un “comandamento nuovo”) non è fondato sull’oggettività, ma sul paradosso. I miti erediteranno la terra. Chi non ha peccato scagli la prima pietra. È più facile per un crine di cammello entrare nella cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli. E cosi via. È tutto così poco “oggettivo” e “naturale” che i preti del tempo, chiacchierini quanto i nostri, a un certo punto ritennero giusto crocifiggerlo in quanto bestemmiatore. Con tutto che parlava poco.
Bagnasco invece parla, parla. E voi fatelo parlare.
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- 2025

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Riscaldo, quindi sono

Caro Leonardo,

è vero, c'è stato un periodo in cui lagnarsi del Riscaldamento Globale, in quanto Provocato dall'Uomo in un Modo o nell'Altro, andava molto di moda. La teoria, in effetti, aveva una sua solidità scientifica – ma questo accadeva prima della Grande Crisi del Consenso Scientifico. In seguito fu declassata a credenza religiosa, come l'evoluzionismo, il nutrizionismo e tutta l'economia in blocco. E cominciò a parlarsene meno, anche perché pioveva pioveva e sempre più pianure cominciavano ad andare a mollo, e la gente, rientrando a casa all'asciutto dopo 14 ore di lavoro alle idrovore, aveva voglia di distendersi e cambiare argomento.

In quanto pensatore anticonformista, Arci odiava questo tipo di discorsi. Li considerava un puro aggiornamento pseudo-scientifico del vecchio "non ci son più mezze stagioni". E sotto sotto ci scopriva il vecchio antropocentrismo pre-galileiano. Proprio così:

"Dietro ogni apocalittico c'è un egocentrico. Non solo il mondo deve finire, e male, ma deve finire proprio quando ci sono io, e possibilmente per colpa mia, per espiare i miei peccati. Tsunami nel Pacifico? È colpa mia. Il Vesuvio ci dà dentro? È stata la speculazione edilizia. Uragano in Nordamerica? È il presidente usastro che si è scordato di firmare un protocollo. La Valpadana s'impaluda? Sono i peccati dei padani che gridano vendetta al cospetto d'iddio. L'uomo non si rassegna alle sue proporzioni di lombrico".
"Ci sono lombrichi molto pericolosi, Arci".
"Seh, come no".
"Diciamo che l'uomo potrebbe essere anche meno di un lombrico, un virus, qualcosa tipo l'HIV…"
"La tua metafora è trita e antiscientifica e maldestra. L'uomo non infetta nessun organismo, perché la terra non è un organismo, no e poi no".
"Eppure la terra sta peggio da quando abbiamo fatto la rivoluzione industriale, è pacifico…"
"La terra non sta né peggio né meglio, la terra cambia continuamente. Cambiava prima di noi e cambierà quando noi non ci saremo più – a proposito, il nocciolo ruota più veloce della crosta, lo sapevi? E accelera. I poli magnetici s'invertono. L'asse traballa. Le glaciazioni. Gli animali si estinguono in continuazione, e altre specie si evolvono, e l'uomo crede di controllare il fenomeno, quando è solo parte del fenomeno. Una gigantesca teoria consolatoria. Io riesco a cambiare il clima del pianeta, quindi esisto! Anzi, sono molto importante! Il più importante! Sciolgo le calotte polari e schermo l'atmosfera, sono praticamente Dio!"
"Fammi capire. Il riscaldamento globale sarebbe una teoria consolatoria".
"La più consolatoria di tutte. Galileo sconfitto, Tolomeo vendicato. L'uomo torna al centro! L'asse terrestre s'inchina al suo cospetto!"
"Però è un Dio che deve darsi da fare, emettere meno Co2, inventarsi motori all'idrogeno, salvare l'Amazzonia…"
"Sì, siamo d'accordo, è un Dio che si suda la pagnotta".
"Più Cristo che Budda".
"Ma Budda è più intelligente. Budda sa di essere un lombrico".
"Ma se Cristo non si sbriga con l'idrogeno, muore affogato anche il Budda-lombrico".
"Pazienza, si reincarnerà in una zanzara palustre. O nel plancton".

(Budda, in realtà, non si poteva più re-incarnare, avendo raggiunto il Nirvana che è l'assenza di ogni tipo di desiderio e dolore; e qsto Arci lo sapeva benissimo, ma faceva finta di no per amor di metafora).

"Eppure che male c'è a sentirsi responsabile per quello che accade? Succede a tutti. Specie nelle disgrazie. Muore un tuo amico, ti va a fuoco la casa. E tu ti senti in qualche modo colpevole".
"È uno stadio dell'elaborazione del lutto".
"Ah sì?"
"Sì, ed è uno stadio che va superato alla svelta, perché è del tutto irrazionale e può portare a scelte pericolose. Un amico del giovane Martin Lutero fu ucciso da un fulmine. Risultato a lungo termine: la Guerra dei Trent'anni".
"Ma sarà stata l'eterogenesi…"
"…di staminchia. Certo che è stata l'eterogenesi dei fini. È sempre l'eterogenesi, Mac. È questo che dobbiamo capire. Altrimenti finiamo per essere oppressi dai fantasmi di colpe che non abbiamo".
"Ma è un modo di assumersi la responsabilità di quello che succede nel mondo".
"Ma noi non abbiamo la responsabilità".
"Ma forse potrebbe essere utile comportarci come se l'avessimo. Voglio dire, forse non è colpa nostra se il mondo si scalda. Ma se non ci diamo una mossa noi a raffreddarlo, chi altri lo farà?"
"Fammi capire. Secondo te noi dovremmo comportarci come se credessimo di essere Dio…"
"Sì".
"Anche se sappiamo di non esserlo".
"Sì".
"Ma saremmo dei matti schizzati. Non puoi fondare una civiltà su dei matti schizzati, Mac".
"Forse la civiltà consiste in questo. E poi scusa, se Martin Lutero non si tormentava per il fulmine, e poi reagiva riformando il cristianesimo, non ci sarebbero stati i puritani e la Dichiarazione d'Indipendenza".
"Questo tipo di discorsi non porta in nessun luogo".

Andavamo avanti per ore. E ore.
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Dio ti ama!
(accettalo...)

Mi chiama al telefono Dio, mi chiede se ho impegni in serata.
"In effetti, ecco, è curioso, mi sono appena messo d'accordo con Simona, si pensava di andare al cinema… però potresti venire con noi, che ne dici? No, guarda, nessun imbarazzo. Sul serio… Beh, come vuoi".
Mi chiedono in tanti perché credo nel mio Dio. E' un tizio un po' out, lo so da me. Ma non mi posso lamentare. Dopotutto è un Dio che sa stare al suo posto e capisce immediatamente quando non è il caso di insistere. Al cinema con Simona volevo andarci da solo, è ovvio.
"Possiamo vederci comunque una di queste sere, se ti va…”, propongo, “venerdì per esempio hai degli impegni?" Questa è una domanda retorica, che impegni potrà mai avere Lui, quand'è questione di pecorelle smarrite? È da tanti anni che mi chiama (almeno una volta alla settimana), certamente venerdì andrà benissimo.

Per lui. Quanto a me, ho un bel da ripetermi che non è una storia importante, anzi non è nemmeno una storia, ci esco solo una sera e basta. Stimo molto il mio Dio, posso dire di esser fiero di lui, ma onestamente desidererei tanto che non ci provasse tutte le volte con me, che potesse finalmente considerarmi per quello che sono: un amico, soltanto un amico… ma non c'è niente da fare. Dicono gli adesivi sui parabrezza: Dio ti ama. Accettalo. Ma io so già come andrà a finire: gliela darò buca anche questo venerdì, sicuro che se ne starà per una buona ora e mezza ad aspettarmi al bar dell'angolo. Per poi richiamarmi domenica, puntuale. Dio mi ama, e non sa proprio cosa farsene, della mia semplice amicizia.

Guardo troppa televisione.
Stasera c’era questo programma di spiritualità, e intervistavano un sacco di gente: tutti raccontavano di aver incontrato il loro Dio in un momento di massima difficoltà. La ragazza grassottella parlava di una situazione famigliare disastrosa (percosse, divorzio, ricatti sull'affidamento, alimenti in ritardo); il tizio con la barba era rimasto maciullato durante una spedizione di trekking in alta quota; ma l'immagine di una vita intera in carrozzina non aveva fatto in tempo a profilarglisi che tac! era miracolosamente guarito, e potete star certi che il suo Dio ci aveva messo una buona parola. E il consulente finanziario che si era giocato tutti i risparmi dei suoi clienti su una roulette a Montecarlo, perdendoli: sulla strada del ritorno aveva visto Dio, si era pentito e fatto frate; anche i clienti lo avevano perdonato, figurarsi: Dio ci aveva messo una buona parola.

Io su queste cose non dovrei riderci sopra. Peggio per me se guardo troppa televisione, e sfogo così la mia noia per una vita facile.
Ma in fondo, quello che provo veramente è invidia. Invidia per il modo in cui tante persone – tutti, si direbbe – si incontrano con Dio. Sempre sul luogo del disastro. Sempre quando ormai non ti aspetti più aiuto da nessuno. Quando somatizzi, quanto ti soffochi masticando di rabbia un cuscino in un letto sporco e troppo grande, quando vedi pezzi di te tutt'attorno e non ti rispondono, quando hai fame, quando hai sete, quando hai sonno.

Ma dico, solo a me capita che Dio si faccia presente quell'ora al mese che sto bene, pulito, ben mangiato e ben dormito, senza sensi di colpa e con buone possibilità di concludere con Simona in serata? Solo a me?
(1998)
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Quel signore là
Stavo pensando a Dio - com'è inevitabile, no? - e soprattutto alla mia famiglia, che è una famiglia normale, con le sue croci piccole e grandi un po' su tutti i muri, e nei cuori, e qualche parente prete, che non guasta.
Stavo pensando che io ho sempre avuto una certa diffidenza per chi si riempie troppo la bocca con questa parola, Dio. Dio qua, dio là, Dio ci salva, Dio ci ama, Dio ci ascolta... ho sempre avuto paura di parlare troppo a Dio, perché col tempo si rischia di farsi ciascuno un Dio su misura, che ci ascolta, ci risponde e alla fine ci dà sempre ragione (e torto agli altri).
Ma chi l'ha detto che poi Dio dev'essere come ce lo immaginiamo - anzi, qualche teologo avrà senz'altro concluso che Egli è Inimmaginabile, e imperscrutabili sono le sue vie. E io aggiungo: magari è solo un pasticcione, che è sì Onnipotente, ma che appunto con tutta questa onnipotenza si trova un po' impacciato, e nella furia di far tutto bene gli scappano dei disastri. Perché no? Proprio come certe persone tanto buone e impegnate, che senza volere combinano un guaio dopo l'altro, io sono pronto a credere che Dio parta sempre con le migliori intenzioni.

Ma non volevo parlare di questo. Volevo parlare un po' della mia famiglia, che è una famiglia normalissima, con qualche sprazzo di saggezza ogni tanto.
Per esempio l'altra sera ho sentito dire a mio padre: "adesso speriamo almeno che quel Signore là..."
E mi son detto: ma dio, con tutte le messe che si è preso papà, credo che potrebbe anche parlarne con più familiarità.
E invece no, mio padre è fatto così, e anche mia madre, ed evidentemente anch'io. Noi al Signore ci crediamo, gli vogliamo anche bene, però non ci sentiamo molto in confidenza. Sarà perché veniamo dalla campagna? Noi non chiediamo mai favori a nessuno, mica perché non ne avremmo bisogno, ma così, perché non sta bene. E poi probabilmente ci sentiamo in colpa per un motivo o per un altro, i motivi ci sono sempre. Così le preghiere le diciamo (io un po' meno), a Messa ci andiamo (io un po' meno) e le offerte le diamo (io... ahem), però Dio per noi rimane sempre "Quel signore là". Che se qualche volta vuol venirci a vedere e a darci una mano, sarebbe certo un gran piacere e un grande onore; noi però non pretendiamo niente. E' già tanto quello che ha fatto per noi, o no?
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