L'incredibile storia di un piccolo film (in acque internazionali)

Permalink


Quasi all'inizio dell'Incredibile storia dell'isola delle rose Giorgio e Gabriella, due ragazzi freschi di laurea a un tavolo di osteria si scambiano pareri e informazioni, saltando da un argomento all'altro senza perdere il filo. Lui è determinato ma irrequieto, lei più pratica e nervosa. Chissà se gli sceneggiatori si rendevano conto, mentre lo scrivevano, di avere in mente l'inarrivabile sequenza iniziale di The Social Network – un pezzo di cinema parlato che da dieci anni credo tormenti le coscienze di chiunque cerchi di fare lo stesso mestiere. Nel film di Fincher il dialogo serrato tra i due giovani studenti a un tavolino è il preludio alla catastrofe sociale che porterà la matricola Mark Zuckerberg a ideare Facebook; nel film italiano il dialogo prosegue su una buffa automobile-prototipo e conduce comunque il personaggio maschile di gaffe in gaffe verso un'analoga catastrofe: di fronte al rifiuto della ragazza, che oltre a essere giovane e bella rappresenta il principio di Realtà, il neoingegnere Giorgio promette solennemente che si costruirà un mondo su misura. 


Potremmo anche finirla così: l'Incredibile storia è un film un po' deludente perché non è The Social Network, grazie tante. Bologna non è Harvard, Fincher e Sorkin avevano a disposizione un personaggio che ha plasmato la realtà in cui viviamo, e se è azzardato immaginare che gli sia successo proprio perché una ragazza al bar lo aveva mollato male, è comunque probabile che lo abbia plasmato a misura delle sue ossessioni, delle sue angosce sociali. Sydney Sibilia e i suoi collaboratori invece avevano a disposizione Giorgio Rosa, un brillante ingegnere che più che plasmare la realtà voleva farsene una per i fatti suoi. Ovvero? Una piattaforma di 100 mq fuori dalle acque territoriali italiane, dove non pagare le tasse. Tutto qui. Per dire che voleva cambiare il mondo – che voleva anche solo provarci – serve una faccia tosta che i personaggi del film cercano più volte di abbozzare, ma ecco: fanno fatica pure loro. Toccherà proprio alla dottoressa-Realtà, più tardi nel film, far notare una cosa già evidente agli spettatori: questa non è un'utopia, è una discoteca. 


Chiunque da studente abbia provato a costruirsi una piccola realtà, un circolo o un centro sociale, conosce bene l'obiezione e la sensazione. L'utopia ti porta a condividere idee ed emozioni, a incontrare un gruppetto di sodali con i quali magari si riesce anche a combinare qualcosa, qualcosa che da un inavvertibile momento in poi diventa sempre più simile a un bar. La cultura, la libertà, senz'altro, ma alla fine tutto si traduce fatalmente in consumo. Chi critica Sibilia per aver trasformato un quarantenne con trascorsi repubblichini nel solito sessantottino copre soltanto una metà del fenomeno: il Sessantotto di Sibilia è un oggetto di scena, ormai depauperato da qualsiasi nostalgia, ripreso da altri prodotti che hanno avuto successo internazionale (La meglio gioventù) e rimesso a nuovo perché da un punto di vista narrativo funziona sempre, come una volta funzionava il far west o il proibizionismo dei gangster: lo spettatore sa già cosa aspettarsi, democristiani oscurantisti e impomatati e giovani coi blue jeans che ballano il geke ge'. Il fatto che più che di parlare di rivoluzione abbiano voglia di ballare e bere drink discutibili graffia lo spettatore come il pizzicotto di qualcuno che cerca di svegliarti: altro che '68, è di noi che si parla. 

Il Giorgio Rosa del film non è un libertario quarantenne e nemmeno un sognatore in blue jeans: è il solito laureato frustrato su cui Sibilia ha già imbastito la trilogia di Smetto quando voglio. Il protagonista dei suoi film è un personaggio maschile, un po' disadattato ma irresistibilmente simpatico: non tutto quello che fa ha un senso, ma Sibilia vuole farci tifare per lui, e in generale per i suoi film, per le sue bande scalcagnate che tentano l'impossibile impresa di mimare il cinema d'azione in un contesto che non lo consente. C'è sempre nel suo cinema una tentazione di buttarla sul cartone animato, che ispira sequenze esilaranti: la sua migliore continua a essere l'inseguimento al treno in Smetto 2: una parodia di action movie che in realtà vorrebbe fare sul serio, e un po' ci riesce, ma col treno prudentemente rallentato ai cinquanta km orari, e tante gag comiche a scongiurare che qualcuno prenda troppo la cosa sul serio.




Il tempo però passa per tutti – tranne per il Giorgio Rosa del film – e il pubblico di laureati e cervelli in fuga che si riconosceva nei film di Sibilia ormai ne ha 40, quel momento nella vita in cui ti rendi conto che non puoi più cavartela facendo il simpatico. Non sei più simpatico, non puoi più limitarti a fare il verso agli adulti: l'adulto sei tu, e neanche da ieri. L'Incredibile storia arriva su Netflix proprio nel momento in cui questo quarantenne collettivo è macerato da un dissidio interiore: attaccare l'ordine costituito perché costringe i cittadini a stare in casa, o criticarlo perché non fa abbastanza per salvarli dal virus? Irridere le ordinanze che ti impongono la mascherina anche all'aperto, o prendertela con chi quell'ordinanza non la sta facendo rispettare? A un quarantenne medio sospeso in quest'angoscia, Netflix somministra la parabola di un anarcoide che non capisce a cosa servano le targhe, i documenti, le tasse, i governi – no, non assomiglia a un sessantottino più che a un novax o a un redneck devoto a Trump; la sua incapacità di scendere a patti con la realtà è tale che lo spettatore rischia veramente non dico di simpatizzare coi cattivi democristiani, ma di capire il loro punto di vista, che poi è quello ragionevole che avremmo noi se un evasore decidesse di piantare una piattaforma nelle acque internazionali a scopo contrabbando. Se prenderla a cannonate sembra davvero un gesto eccessivo, dettato più dall'esigenza di sfoggiare un budget insolito per un film italiano, comunque non si capisce alla fine perché dovremmo tifare per Giorgio e la sua banda di scalcagnati impresari abusivi e negrieri alcolizzati. 

Altri modelli inconfessati
e inarrivabili.
Forse la chiave è questa: non dovremmo tifare per loro, così come quando guardiamo The Social Network non tifiamo per Zuckerberg. Giorgio è un disadattato, i suoi sodali maschi sono confusi e moralmente inani. Si salvano le donne, proprio come in Smetto quando voglio ambasciatrici del Pianeta Realtà, il che le costringe quasi sempre ad atteggiamenti antipatici, riscattati dal fatto che alla fine ai loro pazzi uomini non smettono di voler bene – ovvero tutto questo senso pratico alla fine è solo una manfrina, ma se un ragazzo costruisce una piattaforma per te sotto sotto sai che il suo cuore gli appartiene di diritto. Ovviamente The Social Network non finisce così. Forse all'inizio anche Giorgio doveva essere un personaggio più ambiguo, sospinto all'utopia da motivazioni e ossessioni più complesse: ma il tono per raccontare una storia più ambigua e meno simpatica, Sibilia non lo ha trovato. Gli è restato un finale di film per dirci che comunque dobbiamo volergli bene, perché anche se non ha ancora capito come fare un film alla Fincher (o anche solo alla Richard Curtis), almeno lui ci sta provando, e in Italia questo deve bastarci: chi altri ci sta provando? Mica in tanti. Non c'è riuscito? Era quasi impossibile riuscirci; magari sarà per la prossima volta. Glielo auguro, perché alla fine continuo a tifare per lui. Ma ecco, io di solito tifo per le squadre simpatiche e scalcagnate che ce la mettono tutta. Non per quelle che vincono.  
Comments

Cos'è una croce?

Permalink
14 settembre - Esaltazione della Croce

Velazquez
[2012]. C'è la mamma di Daniele Luttazzi che si fa il segno della croce con un dito. Il papà la vede e le dice: "sei fortunata che non l'hanno impalato, sennò..." Di questa battuta, che ovviamente deve essere completata da un gesto preciso della mano destra, Luttazzi andava (va?) particolarmente fiero. "Mi piace", diceva, "il fatto che da questo momento in poi non riuscirete più a guardare un crocefisso senza pensarci". Qualche anno fa ci fu un caso un po' penoso di cui forse avete sentito parlare: Luttazzi dovette riconoscere che molte battute di cui si arrogava la paternità non erano farina del suo sacco. Il Cristo impalato però continuò a rivendicarlo, ignorando forse che qualche anno prima Paolo Poli era stato molto più sintetico e brutale: "Se Gesù fosse stato impalato, i Santi dove le avrebbero le stimmate?" Che Luttazzi possa non aver conosciuto la battuta di Poli è quasi probabile; difficile che ignorasse quella (già parecchio diversa) di uno dei suoi numi tutelari, Lenny Bruce: "Se Gesù fosse stato ucciso venti anni fa, i bambini delle scuole cattoliche porterebbero intorno al collo delle piccole sedie elettriche". Dove non è chiaro se Bruce ce l'avesse più coi cattolici o più con la pena di morte, ma questo era forse il bello di Bruce. Il quale a sua volta magari pescava da Heinrich Böll: "È una fortuna per gli esteti che la croce fosse lo strumento di morte abituale in Palestina, altrimenti dovrebbero appendere in camera da letto una ghigliottina o una forca". Böll a sua volta non poteva veramente ignorare quel famoso frammento del Discorso veritiero dove il filosofo Celso (II secolo dopo Cristo) scrive:
E dovunque da loro troverai l’albero della vita, e la resurrezione della carne dall’albero: questo, credo, perché il loro maestro fu inchiodato alla croce ed era di professione carpentiere. Così, se per caso egli fosse stato buttato giù da un dirupo, o spinto in un burrone, o strangolato con un capestro, o fosse stato ciabattino oppure scalpellino o fabbro, al di sopra dei cieli vi sarebbe un... dirupo di vita? O un burrone di resurrezione? O una corda di immortalità, o una pietra beata, o un ferro d’amore, o un cuoio santo? Ma quale vecchia intenta a canticchiare una fiaba per ninnare un bambino non si vergognerebbe di sussurrare cose del genere?
Il salto bimillenario tra Celso e Böll è dovuto - oltre alla mia ignoranza - dal fatto che in mezzo c'è stato un periodo in cui in Europa davvero, scherzare sul crocefisso non era molto consigliabile - meno di quanto lo sia oggi satirizzare su Maometto e la sua barba. Lo stesso Celso non ha avuto molta fortuna: la sua opera ha circolato liberamente finché i cristiani non hanno preso il possesso delle biblioteche, poi è rapidamente scomparsa. I frammenti che ci sono rimasti li ha salvati il suo miglior nemico, Origene, che per confutarlo scrisse un intero trattato, in cui non poteva evitare di citarlo. Se solo la Chiesa avesse avuto più apologeti alla Origene, e meno censori e raschiatori di codici antichi... ma raschiare è un risparmio, confutare è faticoso, insomma, è andata così. 

Un politico italiano in un'apparizione pubblica, ai tempi della prima sentenza.

Che il crocefisso, l'effigie di un cadavere esposta alla venerazione, sia qualcosa di scandaloso non è dunque una scoperta di Luttazzi. Lo era ai tempi di Paolo di Tarso, (1 Corinzi 22-24) lo era tre anni fa quando una signora italo-finlandese rivolse alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo più o meno il seguente quesito: mio figlio in Italia è costretto a studiare in una stanza dove è appeso il similacro di un uomo torturato e sanguinante, è legale questa cosa? La Corte in un primo momento disse no, sollevando un polverone che si era già abbondantemente posato quando nel marzo 2011 cambiò idea (il che è sempre sbagliato, parlo per me: il crocefisso appeso non mi dà fastidio, me ne danno di più i giudici che cambiano idea). Nel frattempo in molte aule e luoghi pubblici il simulacro continua a essere esposto con i chiodi e le ferite e tutto quanto. A causa di un bizzarro fenomeno di assuefazione culturale, la maggior parte degli italiani (e dei cattolici in generale, forse) non ci fa caso. Ovvero: facciamo tutti caso a un crocefisso, quando c'è, e magari litighiamo sul suo significato politico-storico-religioso-identitario, ma non lo guardiamo mai veramente per quel che è. Il fatto che descriva, con orripilante realismo, l'aspetto di un uomo torturato a morte, non colpisce quasi mai la nostra attenzione. Bisogna che arrivi Daniele Luttazzi con una battuta (o Paolo Poli, o Lenny Bruce, o chi volete).

In ogni caso io ho una risposta per Luttazzi e per Poli: se in luogo di essere crocifisso - la punizione capitale che veniva inflitta più frequentemente agli schiavi ribelli nelle province romane - Gesù fosse stato impalato, ebbene, i cristiani di oggi farebbero lo stesso identico segno della croce: e i santi continuerebbero a mostrare stimmate alle mani, ai piedi, al costato. Come faccio a saperlo? La domanda è malposta. Chiediamoci piuttosto: come facciamo a sapere che Gesù è stato davvero crocefisso? Siamo sicuri che non sia stato piuttosto impalato, o strangolato, o precipitato in un burrone? In realtà no, non siamo sicuri di nulla. Persino se decidiamo di prendere per buoni i vangeli, ci rimangono ancora ampi margini di dubbio. Ma come, direte, nei vangeli la croce c'è (anzi, ce ne sono tre). Sì, ma qui sta appunto il problema: cosa significa "croce" nei vangeli? Oggi il primo significato a cui associo la parola non è nemmeno religioso, ma geometrico: la croce è l'incrocio di due segmenti, c'è quella latina col braccio basso più lungo, mentre quella greca è un equilatero, eccetera. La Croce Rossa, la Croce del Sud, non ci sono dubbi su cosa sia una croce. Oggi. Ma per i contemporanei di Gesù la parola latina "crux", la parola greca σταυρός, indicavano per prima cosa il più orribile e umiliante dei supplizi capitali. La forma dello strumento di tortura era secondaria: una "crux" poteva avere diverse forme. I pali non avevano necessariamente la forma che vediamo nei dipinti, e non erano necessariamente due: un uomo inchiodato o legato a un solo palo era ugualmente "crocefisso". E i vangeli, anche se parlano di croci, non le descrivono mai. Dunque perché noi ci immaginiamo la croce fatta proprio in un certo modo? Perché ci facciamo il segno della croce proprio in un certo modo? 

Ma li inchiodavano davvero? In Giudea sì: il reperto a destra (I sec. dC) è stato ritrovato in Israele (a sinistra una ricostruzione).



Chiunque abbia discusso un po' con un testimone di Geova conosce l'argomento: Gesù potrebbe benissimo essere stato fissato a un semplice palo di tortura. La croce dei cristiani sarebbe un simbolo pagano preesistente, un idolo riciclato, un mandala.Ipotesi affascinante, ma probabilmente errata. Nel primo secolo dopo Cristo la crocifissione era ormai una procedura standard, che i Romani praticavano più o meno nello stesso modo ovunque gli schiavi dessero problemi. In un primo momento (1) si fustigava il condannato (senza esagerare, altrimenti moriva lì: quando ci si mettevano i Romani ti tiravano fuori le ossa a nerbate); si procedeva quindi (2) a fissare le braccia a un travicello (patibulum), con corde e/o inchiodando i polsi; così conciato (3) lo si conduceva nel luogo dell'esecuzione, spesso su un'altura - e il percorso in salita, col patibulum già attaccato alla schiena, era un'ulteriore tortura - ivi giunti (4) si innalzava il condannato su un palo verticale conficcato al suolo, fino a un'altezza di tre metri, dove il patibulum veniva assicurato al palo medesimo. Infine (5) si legavano (o inchiodavano) i piedi, e si aspettava. Ancor più che una forma di tortura, la croce era un'umiliazione: l'esposizione del moribondo, che poteva durare giorni interi, e spesso proseguiva ben oltre il decesso - le spoglie di solito non venivano sepolte, finivano in discarica. Tuttora non siamo sicuri sul modo in cui i condannati spirassero (dissanguamento? asfissia?); sappiamo che potevano rimanere appesi per giorni e notti. Qualcuno riusciva anche a staccarsi e farla franca. In qualsiasi momento comunque l'autorità poteva decidere di tagliar corto e ordinare agli aguzzini di praticare il crucifragium, ovvero la rottura delle ossa delle gambe. A quel punto i condannati, non potendo più reggersi, morivano soffocati. Fu la sorte dei due ladroni crocifissi con Gesù, il quale invece era già morto quando il legionario incaricato  andò a controllare. I racconti evangelici (piuttosto realistici, eclissi a parte) sono sostanzialmente compatibili con questa procedura standard, il che ci porta a concludere che la forma più probabile della croce sia proprio quella che troviamo appesa nelle aule scolastiche. 

Sullo stendardo di Costantino c'era il Chi-Ro (X+P), non la croce. In epoca precristiana rappresentava ChRonos, il Tempo. Quando l'imperatore apostata, Giuliano, lo fa rimuovere da un monumento allo zio Costantino (360 ca.), il Chi-Ro è già un simbolo cristiano.


Però non possiamo esserne sicuri. Gesù potrebbe essere stato inchiodato (o legato) a una croce di Sant'Andrea, o a una forca, e persino a un palo solo: e anche se è abbastanza improbabile che sia stato impalato nella maniera suggerita da Luttazzi e Poli (un supplizio non attestato presso Romani né Ebrei) immaginiamo per assurdo che un orrore del genere fosse successo: i cristiani hanno avuto più di mille anni per cancellare le evidenze e rimodellare la scena nel modo più scenografico possibile. Alla croce - come la intendiamo oggi - dovevano arrivarci per forza. È la forma più fotogenica, la più adatta ad attirare l'attenzione di chi rimira la pala d'altare: è simmetrica, rigogliosa di simbologie (i quattro punti cardinali) e, come già notava Origene, dietro la maschera di dolore ci mostra un abbraccio. Se non esistesse il crocefisso, insomma, lo avrebbero inventato. E non è da escludere che lo abbiano fatto, magari in un secondo momento. Non siamo nemmeno sicuri che i cristiani riconoscessero nella croce un simbolo cristiano, almeno fino al quarto secolo. Fino a quel momento il segno più spesso associato alla religione di Gesù era l'ichthýs (un pesce stilizzato); anche sotto Costantino viene spesso utilizzato il monogramma Chi-Ro, che sovrappone le prime due lettere della parola Christos. A dire il vero un crocefisso databile nel primo o secondo secolo c'è, ma pone un problema: non è un esattamente un simbolo religioso, anzi: è uno sgorbio osceno. 

"Prega il tuo Dio, Alessameno!"




Siamo sempre a scuola (il Paedagogium, un collegio sul colle Palatino). Pensate, il primo crocefisso a scuola non l'ha messo un prof di religione, ma lo ha inciso con un temperino un ragazzo che voleva sfottere un compagno, Alessameno, dal nome greco e dalla religione esotica. L'intento parodico è evidente nella scelta di raffigurare Gesù con una testa d'asino. I cristiani venivano chiamati confidenzialmente "asini che portano misteri", e venivano spesso accusati di adorare un Dio mezzo uomo mezzo mulo. Il disegnino scolastico più studiato della storia dell'uomo descrive sommariamente una croce proprio come ce la immaginiamo e come la disegnerebbe un ragazzino con un punteruolo, con il dettaglio realistico del predellino per i piedi (che veniva tolto quando si voleva accelerare il decesso). La sgraziata didascalia ("Alessameno venera il suo DIO") suona ai nostri orecchi postmoderni decisamente bullistica. Però anche questa in fin dei conti è una ricostruzione a posteriori: vediamo un crocefisso e lo riconduciamo immediatamente a Gesù, ma a quei tempi si crocifiggeva un po' chiunque; il Dio di Alessameno potrebbe anche essere qualche altra entità asinocefala.  Per vedere un Cristo in croce in una raffigurazione ufficiale dobbiamo aspettare il quinto secolo, quando compare tra i ladroni in una formella della porta lignea della basilica di Santa Sabina a Roma. Ma anche in questo caso - esempio interessante di autocensura - le croci non si vedono: sono del tutto coperte dai corpi dei suppliziati. Come se  piuttosto che un simbolo venerabile fossero ancora un tabù, qualcosa che indubbiamente c'è ma che è meglio non mostrare.

 

 Ancora negli anni di impero di Costantino, il sovrano che promulgò la libertà di culto (313) e forse si convertì e forse no, che forse vide una croce in cielo e forse no, gli schiavi ribelli continuavano a essere appesi a delle croci. La cose andò avanti fino a Teodosio, l'imperatore che nel 380 proclamò il cristianesimo religione di Stato. Fino a quel momento la croce richiamava l'umiliazione, la tortura e la morte. Certo, Costantino aveva raccontato al suo amico e biografo cristiano, Eusebio di Cesarea, di aver visto la croce iscritta nel sole alla vigilia della battaglia decisiva di Ponte Milvio. Il racconto non doveva essere molto convincente, se ne dubitava perfino Eusebio, che avrebbe avuto invece tutto l'interesse a propagarlo con entusiasmo. C'è da dire che di visioni di Costantino ne circolavano tante: in un tempio di Apollo a Treviri avrebbe visto tre X sormontate di alloro, per un totale di 30 (XXX) anni di vittorie; molti suoi legionari adoravano il Dio Mitra e portavano sugli scudi una croce simile al Chi-Ro. Magari Costantino amava modellare la storiella sulla fede del suo interlocutore: ai cristiani raccontava di una croce, ai pagani di Apollo e dell'alloro, se avesse avuto legionari indù gli avrebbe raccontato di quella volta che strinse le mani alla Dea Kalì. Era un dittatore militare che si barcamenava come poteva in un momento di forti tensioni religiose. Non si battezzò che in punto di morte, e chissà quanti altri sacerdoti e santoni ricevette sul medesimo letto. La sua immagine di imperatore cristiano dipende semplicemente dal fatto che mezzo secolo dopo i cristiani avevano vinto, ed erano liberi di raccontare la storia come meglio credevano, coi simboli che credevano.Ancor più che a Costantino, la croce fu associata a sua madre, l'imperatrice Elena, che rispetto al figlio aveva l'indubbio vantaggio di essere riconosciuta come santa. È a lei che viene attribuito il ritrovamento della Vera Croce a Gerusalemme, durante la demolizione del tempio pagano che occupava il luogo del Santo sepolcro. All'inizio il 14 settembre era semplicemente l'anniversario dell'inaugurazione della basilica, nel 335; i primi resoconti in cui compare la croce risalgono a una decina d'anni dopo. La reliquia diviene ovviamente il fulcro dei pellegrinaggi a Gerusalemme, anche se molto presto perde i suoi attributi più preziosi, i chiodi. Già prima di Cristo i chiodi dei crocefissi erano considerati potenti talismani. Quelli della vera croce, trasportati a Costantinopoli, finiscono un po' dappertutto: fusi negli elmi imperiali, nei morsi dei cavalli, sulla Sacra Lancia, nella corona ferrea, nel duomo di Milano, ovunque. 

La croce schiodata rimane a Gerusalemme per tutto l'Alto Medioevo - con un breve intermezzo tra il 614 - quando lo Scià Cosroe II saccheggia la città - e il 628, quando Eraclio lo sconfigge e recupera la reliquia. I conquistatori arabi, sopraggiunti poco dopo, non sembrano porre problemi. Le cose cambiano con l'arrivo dei più intransigenti turchi, ma siamo già verso l'anno Mille. È in quel momento che della Vera Croce si perdono le tracce. Ne ricompare un grosso frammento, incastonato in una croce d'oro, nel 1099, durante l'assedio crociato di Gerusalemme (quello che terminerà con un massacro indiscriminato). Come al solito in questi casi l'unico certificato di autenticità è l'entusiasmo dei fedeli, e la loro vittoria finale. La reliquia era tuttavia destinata a venire nuovamente smarrita nel giro di un secolo, a causa dell'abitudine crociata di portarla in processione durante le battaglie, battaglie che sempre più spesso i crociati perdevano. La Croce scompare durante la catastrofe tattico-logistica di Hattin, l'assurda battaglia del 1187 magistralmente descritta da Ridley Scott in Kingdom of Heaven, un titolo che non vi dice niente, vero? In italiano si chiama Le crociate con Orlando Bloom, io perlomeno quando lo proietto a scuola lo chiamo sempre così e tutti lo apprezzano, forse perché sperano che da un momento all'altro saltabecchi fuori Jack Sparrow - e invece si ritrovano davanti Edward Norton nei panni del re lebbroso, una magistrale interpretazione, ma non divaghiamo. 

Ridley Scott, Kingdom of Heaven, AKA "Le crociate con Orlando Bloom", 2005.

Dopo Hattin i cristiani sono costretti a evacuare Gerusalemme: il prode sultano Saladino decide di non vendicare il massacro del 1099 (lode ad Allah il Misericordioso). Di pezzi di croce a Gerusalemme non se ne troveranno più, ma non importa. I pellegrini avevano avuto quasi un secolo a disposizione per andarla a vedere, e si sa cosa succede in questi casi, no? Ognuno fa quel che può per portarsene a casa un pezzetto. La proliferazione di Veri Frammenti della Vera Croce in tutte le chiese della cristianità occidentale diventa nel giro di qualche secolo un fenomeno imbarazzante per i cristiani stessi, al punto che qualcuno comincia a ipotizzare una virtù miracolosa del legno originale, che gli consentiva di riduplicarsi all'infinito. Una toppa del genere era peggio del buco, visto che prefigurava una vera e propria inflazione di Veri Frammenti: la riproducibilità ne avrebbe fatto crollare il prezzo. Al contrario ogni monastero o diocesi o pieve ci teneva a ribadire l'originalità e la rarità del suo Frammento, e la cosa andò talmente avanti che nel Cinquecento in Europa si sarebbe potuto riempire un'intera nave soltanto di Veri Frammenti. Così almeno scriveva Calvino nel suo Trattato delle reliquie. Solo nel 1870 uno studioso francese (Rohault de Fleury) si prese la briga di inventariare davvero tutti i Frammenti ritrovati e sommarne la cubatura, ottenendo una stima insospettabilmente bassa, 0,004 metri cubi: perfettamente compatibile con il volume di una croce che doveva aggirarsi intorno agli 0,178 metri cubi. Certo, in mezzo c'erano tre secoli di guerre religiose, dinastiche e napoleoniche: magari molta legna si era persa per strada. Il minuscolo pezzettino della mia chiesa di Sorbara è ancora lì, immagino. Mal che vada ne grattugeremo un'altra briciola dal pezzo che sta all'abbazia di Nonantola, sei chilometri più in là. Rigettato dai protestanti, il crocefisso si è legato sempre di più all'iconografia cattolica, che dalla Controriforma in poi, tra Sacri Cuori coronati di spine, e amputazioni di martiri, e miracolose emorragie, ha scoperto una certa tendenza al Grand Guignol spirituale. È curioso che dopo esser cresciuti in mezzo a immagini del genere, tanti di noi se la prendano coi film e i videogiochi che banalizzano la violenza. Il crocefisso funziona allo stesso modo: ti mette sotto il naso un uomo agonizzante o cadavere, finché non ci fai più caso, finché non diventa un semplice simbolo religioso o identitario o politico a cui associ qualsiasi significato tranne quello della carne e del sangue. Bisogna che arrivi qualcuno da lontano, ogni tanto, a ricordarcelo. Forse basterebbe davvero toglierlo dalle pareti, e aspettare che torni il bullo archetipico, il compagno di Alessameno, che ce lo incida sul banco per spremerci una fitta al cuore.
Comments

Schizogene e la sposa inventata

Permalink
– Il dibattito su Indro Schizogene Montanelli, che si è trascinato per quasi un mese, ci ha lasciato pochi punti fermi e uno è lo stato necrotico del giornalismo italiano. Invece di discutere il contesto, di improvvisarsi storici o antropologi, i giornali riguardo a Montanelli avrebbero dovuto fare una sola cosa, molto semplice: andare a verificare la notizia. Magari non nel 2020, con tutti i problemi del lockdown; ma se ne parla già da un anno buono, il pubblico sembra interessato, e da Fiumicino partono voli per l'Africa orientale tutte le settimane: c'era il tempo e l'agio per mandare un reporter in Eritrea a controllare se risultasse un "Indro" nato nel 1938. Visto che è lo stesso Montanelli a raccontarci che Fatima (o Destà) aveva dato il suo nome al primo figlio. "Indro" è un nome strano in italiano, figurarsi in tigrino. Dovrebbe stare sull'ottantina: magari ha avuto figli, magari qualcosa hanno sentito raccontare della nonna. Ecco, una volta si pensava che i giornalisti dovessero fare questa cosa, la caccia alle notizie. Almeno provarci. Invece tra 2019 e 2020 siamo stati più di un anno a discutere una storia che ha una fonte sola: e questa fonte è lo stesso Montanelli, che ogni volta la raccontava un po' diversa.  Prima si chiamava in un modo e aveva dodici anni, poi si chiamava in un altro modo e ne aveva quattordici, ecc. ecc. Finché qualcuno giustamente non si è domandato: ma non potrebbe essersi inventato tutto? E nessuno ha sentito la necessità di rispondere.


Ma pensa se davvero si è comprato la foto
 in un mercatino, e poi la mostrava ai colleghi
appesa accanto a quella delle altre mogli.
– Su Montanelli forse avevo ragione quando scrivevo: tiratene giù il monumento prima che il giornalismo italiano prenda la decisione di difenderlo a tutti i costi, prima che ne faccia il suo Fort Apache. Troppo tardi: e così ho potuto leggere e sentire cose straordinarie. Montanelli innamorato. Montanelli che voleva diventare abissino. Montanelli che va relativizzato perché anche nella Bibbia fanno i sacrifici umani (ma veramente no, nella Bibbia non li fanno; ma anche se li facessero, cosa c'entra la Bibbia col 1936... vabbe'). Montanelli giustificato così, Montanelli giustificato colà, neanche fosse un ricco vivo che vi tiene a libro paga, no: l'arte che avete imparato per tenervi a galla tra salotti e redazioni la state impiegando per relativizzare un tizio che se ne strafotteva e raccontava allegramente avventure africane vere o immaginate. E più ne parlavate, più ci confermavate l'unico fatto concreto: ovvero che il tizio si fosse affittato una ragazzina. Le vostre chiacchiere sfumano, e il fatto resta lì incontestato. Ma è questo sul serio il vostro mestiere?

– Di Montanelli forse ho avuto torto a fidarmi. Dettaglio imbarazzante: 19 anni fa, appena tornato da Genova, le pale degli elicotteri ancora nelle orecchie, mentre cerco di scrivere qualcosa di leggibile per le dieci persone che mi leggono e si stanno preoccupando, scopro che IM è appena morto e gli dedico il resoconto che sto scrivendo. Non sono mai stato tanto lontano dalle sue idee, che in quel momento non mi interessano minimamente. Della sposa bambina avevo già sentito parlare e mi sembrava un dettaglio lontanissimo nel tempo, impossibile da accostare all'anziano giornalista che faceva parte del mio paesaggio mediatico sin da quando ero bambino. L'unica cosa che mi muove in quel momento è l'immagine mentale del reporter con la macchina da scrivere sulle ginocchia, il mito del reporter che scrive mentre osserva e scrive solo quello che osserva. Precisamente il monumento che gli hanno fatto. E che al di là di ogni considerazione sugli abusi coloniali, probabilmente non si merita.



– Per me Montanelli era questo: un tizio con opinioni terribili ma un certo rispetto per la verità. Questa cosa m'interessava salvare: ho un approccio storico, m'interessano le testimonianze, non i moralismi. Se avesse avuto scrupoli morali, avrebbe cercato di occultare l'episodio: meno male che non li aveva, meno male che non hai mai pensato di chiedere scusa (come se chiedere scusa servisse a qualcosa) (sul serio, se avesse chiesto scusa 50 anni dopo la statua non gliel'imbrattereste lo stesso?) Finché non ho letto questo pezzo che mi ha messo in crisi. In effetti un tizio che ha raccontato di aver incontrato Adolf Hitler perché si era attardato a pisciare in un cespuglio potrebbe anche essersi inventato una sposa bambina. Perché? Per i motivi per cui i mitomani mitomaneggiano, e che cambiano col tempo: nel 1950 per vantarsi con gli amici, nel 1976 per trollare le femministe, nel 2000 perché ormai era troppo tardi per cambiare versione – come Enrico IV. Tutto plausibile, salvo i cortigiani che continuano a recitare a soggetto dopo vent'anni che il re è morto. E così continuiamo a discutere di una ragazza che magari nemmeno esiste, magari è una foto che IM si è comprato a un mercatino di Asmara. Oppure è esistita ed è la protagonista di un abuso coloniale, ma insomma, sarebbe utile saperlo. O no? Perché ho anche sentito dire questo, in questi giorni. Che alla fine non è necessario che Montanelli abbia abusato di una ragazzina: basta che se ne sia vantato. Non è che non abbia senso: alla fine anche una bugia può servirci a capire la psicologia di chi la racconta e di chi se la fa raccontare. Ma anche quella di chi ci casca, e a volte vuole cascarci.

– Di Montanelli ho sentito dire di tutto. Mi ha colpito la difficoltà di molti a contestualizzare non già le vicende di un graduato italiano nel 1936, ma i discorsi di un giornalista italiano nel 2000. Perché non chiedeva scusa? Perché le scuse non servono mai, e comunque riteneva di non aver fatto nulla di male. Perché ha cambiato l'età, che nel 1969 era 12 anni e nel 2000 diventa 14? Perché nel 2000 (anno 5 post Marcinelle) la pedofilia era diventata uno stigma sociale; sarebbe utile tenere conto che prima non lo era; a proposito, uno storico dovrebbe trovare interessante il fatto che racconti l'infibulazione, un dettaglio che nel 1969 avrebbe considerato ributtante o forse nemmeno conosceva. In ogni caso difficilmente nel 1976 o nel 2000 avrebbe potuto conoscere l'età precisa della ragazza africana dal momento che... non so, avete mai giocato con le figurine? Io da bambino avevo l'album Panini Espana 1982; non lo completai, ma scoprii nell'occasione che dei calciatori africani non veniva riportata la data di nascita. Non si sapeva. Nel 1982. Parliamo dei giocatori delle nazionali, non di abitanti della jungla. Può anche darsi che cinquant'anni prima Montanelli avesse accesso al certificato di nascita della sposa, ma è lecito dubitarne. Il vero discrimine in molte culture rurali (Italia compresa) è il menarca: prima si è bambini, dopo si è adulti, fine della questione. Montanelli insiste sul concetto, anche se ne parla col linguaggio di un giornalista del dopoguerra: non si abbassa a dire "mestruazioni", si limita a scrivere cose come "in Africa a quell'età si è adulte" e si aspetta che lo capiamo.



– Invece Montanelli noi non lo capiamo più. Non capiamo più quello del 2000, figurarsi quello che affittava ragazzine o sosteneva di averlo fatto. Tra i tanti che si affannano a giudicarlo ho trovato notevoli coloro che invece di adoperare il loro personale metro morale del 2020, cercano di fabbricarsene uno vintage: ovvero desiderano dimostrare quanto Montanelli fosse considerabile un maniaco sessuale anche per i costumi e i codici dell'Italia fascista. Col risultato indiretto di rivalutare i costumi e i codici di siffatta Italia. Ho letto cose come: quello che Montanelli faceva in Africa, in Italia sarebbe stato reato! Già, e questo era il motivo per cui certe cose venivano promesse ai volontari in Africa: Faccetta nera, l'avete mai sentita? Scrivono: ma il madamato era esecrato anche dal generale, dal tale politico. Sì ma forse a questo punto vi sfugge il quadro: il tale generale e il tale politico erano contrari al madamato in quanto razzisti che intendevano stabilire un regime di segregazione. È un dato acquisito dagli storici che la propaganda di regime abbia attirato i volontari con un'esca sessuale, e dopo i primi matrimoni abbia virato direzione.

– Abbiamo bisogno di mostri, così come abbiamo bisogno di eroi. La statua in effetti si potrebbe togliere (o museificare), ma poi toccherebbe individuare qualche altro feticcio e scoperchiare cose più noiose (il Risorgimento?) L'esigenza di fare di Montanelli un mostro sottopone alcuni antifascisti a una tale torsione che finiscono per riabilitare il contesto; per dimostrare che Montanelli era un mostro anche per le leggi fasciste e per i costumi fascisti, e per i fascisti che passavano e osservavano. E così dopo un lungo giro si ritorna all'archetipo degli italiani brava gente. Per quel che interessa, io non credo in una Storia di eroi, né di mostri. L'eventuale Montanelli-mela-marcia interessa molto meno del sistema che ha permesso, ispirato e tollerato le sue eventuali mostruosità.

– Se però accettiamo che Montanelli invece di un mostro sia un mitomane, c'è da riscrivere un pezzetto di Storia d'Italia magari non cospicuo ma trasversale. Alcuni dettagli di quello che sappiamo cambiano significato. Com'è noto, Montanelli dopo l'otto settembre fu arrestato dai tedeschi e tradotto in una prigione a Gallarate – dove fucilarono quasi tutti i suoi vicini di cella – e poi a San Vittore, dove tra i prigionieri conobbe un giovanissimo Mike Bongiorno e il cosiddetto generale Della Rovere – in realtà un truffatore infiltrato dai nazisti. Anche a San Vittore dopo un po' cominciarono le esecuzioni. A Fossoli finì fucilato anche il sedicente generale, su cui qualche anno dopo Montanelli scriverà un soggetto cinematografico per Rossellini (il ruolo sembrava tagliato addosso a Vittorio De Sica) e poi in un romanzo. Il generale Della Rovere è un prototipo dell'antieroe della commedia all'italiana, un imbroglione senza scrupoli che viene introdotto in una prigione per fare la spia, ma proprio grazie al suo istrionismo riesce a riscattarsi e dopo un'improvvisa alzata d'orgoglio muore da eroe come capiterà a Sordi e Gassman nella Grande Guerra. A questo punto però concedetemi il dubbio notturno: se il generale Della Rovere fosse un alter ego di Indro Montanelli? Se fosse lui l'imbroglione che teneva alto il morale dei prigionieri? Se nel romanzo Montanelli avesse esorcizzato il suo rimorso per essersi salvato la vita tradendo i compagni di prigionia, inventandosi un gemello buono che faceva tutto il contrario e moriva da eroe?

– La cancel culture (che per ora da noi è una più modesta imbratta-di-vernice-culture) si propaga attraverso prove di forza. Si individua un obiettivo e si martella finché l'obiettivo diventa indifendibile. Non ha così tanta importanza cosa abbia realmente detto o fatto l'obiettivo, quanti abusi abbia realmente commesso un Kevin Spacey o l'oggettiva incidenza del ruolo di Cristoforo Colombo nella diffusione dello schiavismo. Si individua un punto debole del nemico e si batte sullo stesso punto finché non cede. Non è che prima di Twitter si lottasse diversamente. A chi si sente sotto assedio consiglierei di dare un'occhiata ai punti deboli del nemico; di confondere le acque, magari mandando un'ambasciata a stabilire qualche punto fermo, qualche convenzione tra belligeranti (ad esempio: fino a prova contraria si è innocenti). Ai giornalisti italiani non consiglio niente perché nulla più hanno da difendere – giusto un'altra serata a raccontarsi quanto erano bravi, quanto erano furbi, nell'attico di un quartiere abbandonato. Che Montanelli li abbia presi per il culo tutta la vita: che si sia fatto trattare da maestro mentre li stordiva di frottole, è una circostanza che troverei appropriata – una volta dimostrata.
Comments (6)

Siamo pari

Permalink
Vi abbiamo messo al mondo in un mondo che sapevamo essere alle soglie di un'estinzione di massa. Lo sapevamo e vi abbiamo messo al mondo lo stesso, perché ci sentivamo soli e avevamo bisogno di qualcuno che ci pagasse i contributi.

Non siamo riusciti a ridurre le emissioni, non ci siamo rivoltati contro chi ci avvelenava, non abbiamo nemmeno protestato, cioè ci abbiamo provato ma ci siamo ritirati alle prime mazzate. Da chi ci ha preceduto non abbiamo imparato nulla, ma ve l'abbiamo insegnato lo stesso.

Abbiamo esaurito le risorse, esaurito gli antibiotici, esaurito l'ossigeno, il che non significa che non abbiamo smesso di parlare, di solito per farvi la predica. Vi stiamo per lasciare un mondo in macerie e tantissime armi per litigarvele. D'altro canto.

D'altro canto voi ci avete portato a vedere Me Contro Te La Vendetta Del Signor S, quindi direi che adesso siamo pari.


Comments (1)

Metti sull'Uno c'è un maestro che urla

Permalink
18 gennaio – San Successo (oh, esiste davvero, non è che me li invento – non questo almeno).

Il primo successo del 2019 per la Rai è Alessio Boni che urla ai ragazzini. Certo, La Compagnia del Cigno è molto altro: c’è musica in abbondanza, classica e moderna, e poi ogni ragazzo ha il suo arco narrativo, l’ingresso nell’età adulta eccetera – sì sì però se lunedì sera mettete sull’Uno all’improvviso, in tre casi su tre si materializzerà Alessio Boni che a stento controlla l’impulso di rompervi la bacchetta in testa.

Non che urli sempre come un ossesso (a volte frigna come un bambino), ma non sorprende che più di un Conservatorio abbia sentito la necessità di avvertire che no, non è così che funziona. Tra l’altro è stagione di preiscrizioni e nessun dirigente scolastico, davvero, si vanterebbe di avere un organico un personaggio del genere. Nessuno vorrebbe lavorare con un maestro del genere. Ci piace però guardarlo in tv.



La Compagnia ha battuto il Titanic restaurato, ha battuto la Coppa Italia; il maestro che urla è il primo grande spettacolo italiano del 2019. Quasi un italiano su dieci ha assistito alle sfuriate del maestro Boni senza cambiare canale. Anzi dev’essersi in qualche modo affezionato, e non so se questa è una buona notizia per il mondo della scuola. In gran parte si tratta degli stessi italiani che non esiterebbero a denunciare un maestro del genere se invece che in tv sbraitasse in quel modo davanti ai propri figli, in un’aula scolastica – andiamo, persino io lo avrei mandato a quel paese a un certo punto: e faccio il suo mestiere. Che ci è successo?

Che fine ha fatto il modello di insegnante che andava di moda quando studiavo, quello super-empatico che non castigava mai nessuno, anzi riusciva a entrare in sintonia con tutti senza alzare la voce? Il Robin Williams dell’Attimo fuggente: molti di noi insegnanti vorrebbero ancora assomigliargli, anche se alla fine ci scappa la pazienza e gli studenti piangono e poi i genitori protestano. Genitori che, diciamolo, non hanno sempre tutti i torti, forse dovremmo essere ancora più pazienti – sì, però gli stessi genitori quando tornano a casa si bevono due ore di fiction con Alessio Boni che urla e strepita, c’è qualcosa di paradossale in tutto questo.
D’altro canto è pur sempre televisione. Quello specchio piuttosto distorto che non mostra quasi mai il mondo intorno a noi; il più delle volte ci mette davanti il mondo dentro di noi. Nessuno vorrebbe un maestro severo per i suoi figli, ma tutti segretamente lo vorremmo per i figli degli altri, e forse una fiction assolve questa funzione (“Guarda questo professore asfaltare sette adolescenti!”)



Come ogni modello che funziona i critici si sono subito affrettati a farci notare il prestito evidente nei confronti di un prodotto d’importazione. Lo ha prontamente ammesso anche lo sceneggiatore Ivan Cotroneo: il maestro interpretato da Alessio Boni deve molto a quello impersonato da J. K. Simmons in Whiplash, il primo film di Damien Chazelle. È il ruolo che finalmente ha fruttato un Oscar a Simmons, il classico caratterista che tutti abbiamo la sensazione di conoscere come un familiare, tante volte lo abbiamo visto in tv. E però in Whiplash il maestro urlatore è il cattivo del film, non l’eroe che aiuta a sbloccare le potenzialità del protagonista. A parte la sua ossessione per la musica (ossessione omicida) non conosciamo quasi nulla di lui. Non c’è tempo per spiegare cosa lo ha trasformato nella belva che è; non ci sono flashback che ci facciano scoprire i suoi dolori, i suoi lutti, non ci sono siparietti ricattatori che ci facciano piangere insieme a lui. Non è insomma come il maestro di Boni, che tra una scenata e l’altra lascia intravedere un animo sensibile, empatico, in grado di entrare in sintonia con il delicato mondo interiore dei ragazzi; se anche il personaggio di Simmons sembrava trapelare qualcosa del genere, era soltanto per rivelarsi fino alla fine un subdolo manipolatore.

Whiplash fu criticato, anche in Italia, per la visione del mondo che tradiva: una giungla dove conta soltanto la lotta per la sopravvivenza, l’autoaffermazione e il successo. Il film si presta in realtà a un’interpretazione più problematica: il protagonista è più vittima che eroe. Il maestro della Compagnia del Cigno, all’apparenza più sfaccettato, alla fine è soltanto il classico burbero dal cuore d’oro. Ma Whiplash è un grande film anche perché mette in guardia da quel modello di maestro carismatico, denunciandone la tossicità.



Sia Whiplash che La Compagnia, poi, traggono spunto da un discorso così universalmente condiviso ormai che rischiamo di non vederlo intorno a noi, come l’aria che respiriamo. In un certo senso è l’aria che respiriamo. È il talent-show. Whiplash è strutturato come una caricatura di talent-show: un maestro severo, un allievo che deve seguirlo ma anche sconfiggerlo. La Compagnia è un succedaneo di talent-show – quasi un placebo per i telespettatori in crisi d’astinenza, tra la fine di X Factor e l’inizio di Sanremo. Lo stesso Sanremo assomiglia anch’esso sempre più a un talent-show, al punto di essersi dotato di un maestro talentuoso, magari non sbraitante ma più severo di quanto ci saremmo aspettati: Claudio Baglioni.



Il 2019 è l’ultimo anno degli anni Dieci. Forse non è più troppo presto per un bilancio: è stato il decennio dei Talent. È vero, esistevano anche prima (più negli USA che in Italia). Ma fino a X Factor non eravamo abituati a chiamarli così, e soprattutto non li consideravamo molto di più che una forma di intrattenimento, una sottospecie dei Reality. Poi è successo qualcosa, fuori e dentro la tv. Non è ancora chiaro cosa – forse ha a che vedere con la caduta delle élite di cui in questi giorni stanno parlando sui giornali di carta. Insomma altri punti di riferimento sembrano essere crollati: i politici hanno smesso di essere attendibili (non che lo fossero dieci anni fa), medici e insegnanti hanno perso ogni autorevolezza. L’unico punto fermo, l’ultimo baluardo della meritocrazia, è il Talent.


The New Voice of Italy

Dappertutto l’apparenza sembra diventata più importante che lo studio, tranne nei Talent: il solo luogo dove è ancora lecito castigare l’apparenza e premiare l’impegno. Stanti così le cose, ci è voluto poco perché tutto il nostro immaginario si riconfigurasse intorno all’architettura del Talent: al punto che persino il partito che doveva far piazza pulita del passato si è strutturato come un Talent. Si chiama Movimento Cinque Stelle ma avrebbe potuto chiamarsi Amici di Beppe Grillo: un partito dove si fa carriera col televoto e si cade in disgrazia entrando in polemica con la giuria. Insediandosi prima in parlamento e poi al governo, il M5S ha rapidamente trasformato la comunicazione della politica in Italia, che dalle prime dirette in streaming si è prontamente adattata al nuovo format. Deputati e ministri come dilettanti allo sbaraglio: alcuni hanno davvero talento e li salveremo, altri si rivelano inadeguati e saranno presto bocciati senza pietà. Eppure c’è chi si ostina a considerarli avversari della meritocrazia. A ben vedere stanno semplicemente proponendo una meritocrazia diversa, che non passi più per le aule scolastiche e universitarie, ma per i social e le Piattaforme del popolo.

A questo punto naturalmente occorre obiettare che una meritocrazia del genere non può funzionare: tanto per cominciare gli strumenti sono farraginosi (Rousseau non funziona), ma anche se fossero efficienti, ci sarebbe il problema che il popolo è un pessimo giudice, non ha le competenze ecc. ecc.. Tutto probabilmente vero. Ma non è così strano che la società dello spettacolo si affidi al codice del Talent. Scuole e università non è chiaro se funzionino o no; perlomeno le ultime classi dirigenti che hanno formato lasciavano molto a desiderare. I Talent non è detto che creino più competenza, ma sicuramente fanno spettacolo, e quella è una cosa che sappiamo apprezzare.



Nei Talent scorre ancora, neanche tanto sotterranea, quella vena di sadismo e crudeltà che abbiamo bandito dalle scuole (e che forse inconsciamente rimpiangiamo). Solo nei Talent è ancora concesso umiliare l’incapace, e mettere apertamente l’uno contro l’altro gli apprendisti. Che parlino di cucina o di musica, il motivo per cui li guardiamo è il motivo per cui ci lasciamo ipnotizzare dalle sfuriate di Alessio Boni: i maestri sadici sono sexy. Vederli tormentare le loro vittime è uno spettacolo per cui paghiamo abbonamenti e biglietti al cinema. Forse ci piacciono proprio perché non assomigliano affatto ai nostri ex professori, empatici e condiscendenti, sempre pronti ad applaudire ogni nostro minimo sforzo. Se non siamo diventati quegli uomini e donne di successo che loro vedevano in noi, magari è colpa loro: troppo buoni, troppo permissivi. Se ci avessero preso a ceffoni, invece, chissà… vabbe’, è troppo tardi per recriminare. Ma si fa ancora in tempo ad accendere la tv. Sull’Uno c’è un prof che strepita, su Sky quattro cuochi infieriscono su dilettanti allo sbaraglio, l’Attimo fuggente almeno stasera non c’è (anche perché a modo suo va in scena in tutte le scuole d’Italia, da lunedì a sabato, da settembre a giugno: e dopo un po’ viene a noia, non ditelo a me).
Comments

L'annosa questione del razzismo di Tolkien

Permalink
Make Middlearth Great Again
Sauron non è il Signore Oscuro di cui avete senz'altro sentito parlare, ma un sovrano illuminato che sostiene il progresso industriale. Il perfido Gandalf il Bianco, tiranno feudale (re Aragorn non è che il suo burattino) mira a impossessarsi delle ricche miniere di Mordor – certo, occorrerà sterminarne la popolazione, ma non ha nessuna importanza: la storia la fanno i vincitori, e i vincitori dipingeranno nelle saghe le vittime dello sterminio come mostri subumani, gli "Orchi". È la trama di The Last Ringbearer, la più politica delle parodie del Signore degli Anelli, scritta qualche anno fa da un biologo russo, Kiril Eskov. In Russia fu un caso editoriale, in Italia e nei Paesi anglosassoni è ancora inedito. Eskov ha immaginato che il Signore degli Anelli fosse un'opera di propaganda, e l'ha smontata in quanto tale. Ma l'operazione non avrebbe funzionato così bene se lo stesso Signore degli Anelli non fosse un'opera che si presta, proprio per la sua architettura semplice, ma maestosa, a essere smontata e ricomposta. È una delle qualità dei classici, e Il Signore degli Anelli evidentemente lo è diventato. Malgrado il suo razzismo? Perché ogni tanto l'accusa salta fuori, e c'è sempre qualcuno che si stupisce, come se fosse la prima volta. Ma per qualcuno è sempre la prima volta.

Mappa non autorizzata, anzi proibita, anzi l'ho ritrovata in un sito russo, spero non sia contagiosa.
Quando non hai niente di nuovo da dire, ma vuoi fare notizia comunque, puoi sempre dare a Tolkien del razzista. Funziona: vuoi perché il razzismo è sempre d'attualità, e Tolkien non passa mai di moda; vuoi perché trattandosi di un autore che va per la maggiore tra i giovanissimi, puoi ripescare lo stesso dibattito ogni cinque-dieci anni e troverai sempre qualche giovane lettore che ci rimane male, Tolkien razzista? Non l'aveva mai sentita. E poi c'è un'altra ragione, ovvero che Tolkien, per i nostri standard, è davvero un po' razzista. Veramente poco, per un inglese dell'ultima generazione coloniale; ma quanto basta per far scattare gli allarmi più sensibili, tarati sugli standard di multiculturalità del 2018; quanto basta per riavviare ogni tanto la polemica. Anche a causa dei suoi difensori, esperti e affezionatissimi, e non disposti a lasciar cadere l'argomento senza citare una volta in più le durissime parole di Tolkien sulle derive nazionaliste e antisemite che negli anni Trenta osservava sgomento manifestarsi sul Continente. E tuttavia Tolkien è anche lo scrittore che, dovendo procurarsi migliaia di comparse per le schiere del Male nelle scene di battaglia, decide di reclutarle tra i Popoli dell'Est e del Sud. Una classica commistione tra esotismo e pericolo che i lettori inglesi dovevano percepire come assolutamente naturale nel 1954, l'anno della pubblicazione in Gran Bretagna, e che nel 2018 facciamo molta più fatica a mandar giù.

Nel frattempo la Terra di Mezzo è diventata un universo cinematico, e i volti dei suoi protagonisti sono stati fissati nella coscienza di almeno una generazione dalle scelte di casting di Peter Jackson, filologicamente inappuntabili, ma proprio per questo un po' troppo nordiche per i gusti di uno spettatore globalizzato, assuefatto a prodotti hollywoodiani dove le percentuali di comprimari bianchi, neri e asiatici sono calcolate al millimetro. Jackson non ha neanche voluto evitare di attribuire agli Orchi e agli Orchetti una carnagione scura, ed era destino che prima o poi qualcuno decidesse che la cosa lo offendeva. L'ultimo in ordine di apparizione è Andy Duncan, scrittore fantasy che in un'intervista a Wired ha ammesso di non poter passare sopra alla concezione tolkeniana per cui "alcune razze sono semplicemente peggiori di altre, e che alcuni popoli sono semplicemente peggiori di altri". L'affermazione in sé non ha nulla di clamoroso, ma il Times l'ha ripresa e nel giro di poche ore aveva fatto il giro del mondo, o almeno quella porzione non piccola di mondo che va dal Times al Secolo d'Italia (continua su TheVision)

Ma se lo tagliano, sanguina? Apriamo il dibattito.

La polemica in sé non è affatto nuova, e in Italia in particolare non dovrebbe sorprenderci: in fondo siamo stati i primi a sospettare, già negli anni Settanta, che Tolkien fosse un fascista o peggio. Il Signore degli Anelli, che nell’area anglosassone era esploso nel 1968, anno della prima edizione “tascabile” – si fa per dire, non stava nemmeno nelle tasche degli eskimo di allora – ed era stato adottato gioiosamente dalle star della controcultura, in Italia ha avuto una storia tutta particolare. Fu pubblicato nel 1970 da Rusconi, un editore di rotocalchi a base di gossip sui Savoia e Padre Pio, con una famigerata prefazione di Elémire Zolla che non si contentava di anticipare la trama (oggi diremmo “spoilerare”), ma lo innalzava come stendardo di una letteratura anti-moderna, puramente ispirata al folklore e alla tradizione.

Tolkien a ben vedere era tutt’altro che rispettoso delle tradizioni a cui attingeva, e che spesso deliberatamente pervertiva, ma Zolla non voleva o non poteva accorgersene, e ormai il dado era tratto: liquidato dagli ambienti progressisti come autore d’evasione, negli anni Settanta Tolkien fu adottato da una sparuta ma combattiva minoranza di sedicenti intellettuali di destra a cui non sembrava vero poter disporre di un generoso serbatoio di leggende, neanche troppo difficili da leggere. Tolkien in realtà piaceva a tutti, ma i lettori di sinistra ci misero un po’ di tempo a riorganizzarsi. A fine anni Novanta la riduzione cinematografica rimescolò le acque: il Signore degli Anelli entrò a tutti gli effetti anche in Italia nel calderone della cultura pop, proprio mentre i Wu Ming tentavano di recuperarlo a sinistra, insistendo sull’aspetto multiculturale di quel melting pot che è la Compagnia dell’Anello, e sul fatto che i veri eroi del romanzo non siano i tradizionali cavalieri feudali, ma gli hobbit, antieroi provinciali. Tolkien in generale è un autore molto più raffinato e sfuggente di quanto sembri a prima vista. L’affetto che nutre per i miti che rielabora è molto più smaliziato di quanto appaia; le sue fiabe non hanno un lieto fine, Bene e Male restano intimamente connessi.

E allo stesso tempo Tolkien resta un uomo del suo tempo, e al suo tempo non risultava così offensivo immaginare schiere di nemici avanzare da un Sud arido, a cavallo di elefanti. Possiamo decidere che questa cosa non sia più accettabile, e che l’opera di Tolkien sia destinata a seguire sugli scaffali più alti quella di Kipling o di altri autori dell’era coloniale che solo gli addetti ai lavori sono ancora in grado di leggere senza avvertire un inevitabile fastidio, lo choc culturale che proviamo di fronte all’implicito razzismo che permeava la cultura europea fino a pochi decenni fa.

Ma probabilmente non andrà a finire così: Tolkien sembra ancora avere molto da dirci (più di Kipling, tutto sommato). Un’opera che può essere ancora letta da destra, da sinistra, come una saga di eroi o come materiale di propaganda, non dà l’impressione di poter tramontare ancora per almeno una generazione. Se ne riparlerà tra quattro o cinque anni, quando qualcuno magari si accorgerà che Tolkien odia i ragni proprio mentre l’aracnofobia diventa uno stigma sociale, e qualche lettore appena arrivato strabuzzerà gli occhi: ma come, Tolkien aracnofobo? Peccato, e dire che mi piaceva così tanto.

Comments (4)

I pazzi e il Pendolo

Permalink
Tutto questo non potevamo aspettarcelo: ai posteri cercheremo di spiegarla così. Complottisti al governo, antivaccinisti alla sanità; sottosegretari che non credono alle missioni lunari. Si discute se possa presiedere la Rai un giornalista che ha diffuso notizie sul satanismo di Hilary Clinton. Tutta questa paranoia non l'abbiamo vista arrivare: come avremmo potuto? È troppo irrazionale, e tutto quello che è irrazionale non dovrebbe essere reale. Ai posteri cercheremo di spiegarla così, ma non è detto che ci cascheranno: ma certo che potevate aspettarvelo. Ci sarebbe bastato guardare meglio in giro, studiare con più attenzione i fenomeni, anche soltanto leggere i libri giusti. Ce n'era uno che prevedeva tutto questo con trent'anni d'anticipo, e non era un saggio di antropologia o di sociologia, macché: un romanzo. Un best-seller, addirittura – certo, non il più leggibile dei best-seller.
Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto quest'opera...
Si chiamava Il pendolo di Foucault, e trent'anni esatti fa era l'argomento più caldo dell'estate (bisogna dire che era un'estate dolce e pigra, Gimme Five di Jovanotti duellava con Nick Kamen in cima alle classifiche, Craxi aveva finalmente acconsentito a un governo De Mita che sarebbe durato un altro anno, gli Europei di calcio erano già finiti da un mese e le olimpiadi di Seoul sarebbero iniziate soltanto in settembre). In quell'agosto sostanzialmente tranquillo, sulla stampa italiana cominciarono ad apparire recensioni non autorizzate del secondo romanzo di Umberto Eco, che sarebbe uscito soltanto in autunno. Tutto questo malgrado le proteste dell'autore e del suo editore, Bompiani, che poi sarebbero stati accusati di avere occultamente orchestrato la fuga di notizie per vendere ancora più copie. Non che ne avessero la minima necessità: il primo romanzo di Eco, Il nome della rosa, era appena uscito dalle classifiche italiane di vendita dopo otto anni. Tradotto in più di 40 lingue, si stima che abbia venduto più di trenta milioni di copie: nel dicembre di quello stesso 1988 il film di Jean-Jacques Annaud con Sean Connery sarebbe stato visto su Rai1 da 17 milioni di telespettatori, il pubblico di una partita della nazionale.

"Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto"
[seguono centinaia di pagine sui templari].

Nel 1988 insomma Umberto Eco dava l'impressione di poter piazzare milioni di copie persino di un trattato di cabala babilonese. A qualcuno il Pendolo sembrò esattamente questo: un gioco esageratamente intellettualistico. A chi si aspettava un altro godibile giallo medievale, stavolta Eco infliggeva un labirinto narrativo articolato non solo nello spazio (Gerusalemme, Parigi, Milano, le Langhe) ma nel tempo (dal processo dei Templari agli intrighi massonici dell'Ottocento, dalla Resistenza al '68 alla Milano-da-bere contemporanea), affidato a due voci narranti – addirittura scritto in due font diversi.

Eppure il Pendolo, a rileggerlo trent'anni dopo, non sembra così complicato. C'è da dire che nel frattempo il best-seller postmoderno, il genere che Eco stava collaudando, è diventato un prodotto editoriale codificato: il citazionismo spinto e l'uso sistematico dei flashback non sorprendono più. Ma il sospetto è che già nel 1988 Eco li stesse usando soprattutto per mettere alla prova il lettore (come aveva dichiarato nelle Postille al Nome della rosa): gran parte delle difficoltà si concentrano nei primi capitoli. Proprio il più faticoso, il delirio iniziale di Casaubon al Conservatoire des Arts et Métiers, fu scelto per essere pubblicato in anteprima dall'Espresso. Più che a promuoversi, Eco sembrava deciso a sacrificare parte del pubblico che aveva conquistato. Poteva permetterselo (continua su TheVision).



Il Pendolo scalò immediatamente le classifiche, divivendo i critici (memorabile la stroncatura di Salman Rushdie) e spaventando molti lettori.

Se Il nome della rosa inghiottiva il lettore in un universo compatto, un medioevo ricostruito in laboratorio, Il Pendolo disorientava, accostando pagine autobiografiche ai divertissement eruditi alla Diario minimo. Era un testo scoppiettante, che attirava e respingeva, e verso il finale non resisteva alla tentazione di ammazzare qualche protagonista in scena come certi feuilleton ottocenteschi tanto amati dall’autore. La trama ruotava intorno a un gruppo di intellettuali che, per interesse anche economico, cominciano a frequentare il mondo dell’occultismo, fino a venire risucchiati in un apparente complotto universale che – come nel Nome – si rivela poi solo un grande equivoco. Nel Pendolo, Eco usciva dal suo confortevole Medioevo per cimentarsi con la contemporaneità, arrivando a prestare alcuni ricordi d’infanzia a uno dei protagonisti, Jacopo Belbo. Spesso i protagonisti dei thriller sono versioni idealizzate dei loro autori, uomini tutti d’un pezzo. Nel Pendolo tutto il contrario: Belbo è un Eco che non ce l’ha fatta, che non è riuscito a diventare uno scrittore e non se ne dà pace. Una cultura enciclopedica non lo riscatta dalla mediocrità, anzi sembra fornirgli strumenti più affilati per torturarsi. Troppo giovane per la Resistenza, troppo maturo per la Contestazione, Belbo mentre confida i suoi sogni di riscatto eroico al suo personal computer, continua a compromettersi col sistema; tra le sue mansioni di collaboratore editoriale c’è quella di selezionare i gonzi, gli autori di manoscritti da attirare nella truffaldina ragnatela escogitata dal diabolico editore Garamond. Personaggi ancora più mediocri di lui, poeti da strapazzo ed eruditi della domenica, impiegati e funzionari con un sogno di gloria nel cassetto: chi avrebbe mai pensato che sarebbero legione, movimento, forza di governo? Eco nel 1988 ci stava pensando.





Il pensiero complottista, ci spiegava, farà seguaci non soltanto tra i poveri di spirito, ma anche tra gli intellettuali come Belbo, sedotti anche per un solo istante da un Piano che spieghi ogni mistero e giustifichi ogni fallimento. È una lezione sulla quale forse non abbiamo ancora riflettuto abbastanza, oggi, mentre insistiamo a interpretare il trionfo dei movimenti complottisti e xenofobi come un problema di analfabetismo funzionale (eppure il partito più votato dai laureati è il M5S). L’avversario che ci additava trent’anni fa non era l’ignoranza, ma erano la frustrazione, l’insoddisfazione, l’incapacità di rassegnarsi alla mediocrità. Lo avrebbe ribadito sette anni più tardi in quella famosa lezione alla Columbia che oggi si ritrova in libreria sotto il titolo Il fascismo eterno: “L’ Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici sia stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. Nel nostro tempo in cui i vecchi proletari stanno diventando piccola borghesia (e i Lumpen si autoescludono dalla scena politica), il Fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio”.

Sfogliando manoscritti alla ricerca di gonzi da spennare, Belbo aveva scoperto alcuni temi ricorrenti: l’occultismo, i misteri del passato, i soliti Templari (“Quando uno tira in ballo i Templari è quasi sempre un matto”). Nel 1988 forse era presto per capire che Il Pendolo metteva a fuoco con precisione chirurgica la transizione tra anni Settanta e Ottanta, il momento in cui in certe piccole librerie di Milano i saggi sui templari avevano rimpiazzato quelli sul marxismo. L’irrazionalismo di uno Zolla o di un Cioran poteva apparire ancora un fenomeno di nicchia, una nuvola pittoresca e inoffensiva che veniva a stemperare gli incubi ideologici degli anni di piombo. L’impegno con cui Eco si dedicava a smontarlo e sbeffeggiarlo poteva sembrare eccessivo; un voler tirare alle zanzare col cannone. Nel 1988 c’erano cose che ci preoccupavano di più, anche se oggi è difficile ricordare cosa.



Quando nel 2003 le librerie furono infestate da un thriller fanta-storico, Il Codice Da Vinci di Dan Brown, qualcuno si ricordò che l’idea di un Gesù fondatore della stirpe dei Merovingi non era poi così nuova. Ne aveva parlato per esempio Eco; ma la circostanza è un po’ più bizzarra. La trama del Codice era stata anticipata in una pagina del Pendolo in cui i tre protagonisti si divertivano a interpretare le frasi emesse da un computer in sequenza casuale. Lo stesso Eco avrebbe più volte definito Dan Brown come un suo personaggio; e in effetti, il suo stile un po’ meccanico ricorda quello di un computer che si sforza di imitare gli scrittori in carne e ossa. Al di là delle coincidenze abbastanza facili da spiegare (sia Eco che Brown attingevano la loro mitologia da testi precedenti), quel che sorprende è che sia Il Pendolo a funzionare come una parodia del Codice, benché sia uscito quindici anni prima. Una parodia che non solo mette in luce l’ingenuità del complottismo alla Dan Brown, ma ne preannuncia persino il successo. Attenzione, voleva dirci il Pendolo: questa roba sembra ridicola, inoffensiva, ma funziona.

Torniamo a oggi. Quando è crollato il ponte Morandi, nel giro di poche ore su internet sono fiorite le prime ipotesi complottiste sulla “demolizione programmata”. È la prassi, dall’undici settembre in poi; dietro non c’è nessuna mente diabolica, né un’epidemia di analfabetismo di ritorno: solo l’umana esigenza di inserire ogni tragedia in un Piano che la giustifichi e ne dia la colpa a qualcun altro. È un fenomeno interessante, inquietante e ancora abbastanza oscuro: dovremmo analizzarlo meglio, forse avremmo dovuto cominciare a studiarlo per tempo: ma in fondo chi se lo sarebbe aspettato che queste buffonate sarebbero diventate così importanti? Ai posteri cercheremo di spiegarla così. E se siamo fortunati, magari i posteri non avranno letto quello strano romanzo in cui Umberto Eco ci metteva in guardia, ormai trent’anni fa.
Comments (6)

E anche questo coccodrillo

Permalink
Se non vi piacciono le commedie dei Vanzina, pensate che sono pure invecchiate bene. Capita di ritrovarle in tv, su Rai3 più facilmente che su Rete4 – cioè ce l'hanno fatta, sono passate da prodotto di massa a patrimonio culturale – con quelle canzonacce anni Ottanta che adesso vanno giù lisce. Adesso che quel decennio è diventato un tutt'uno compatto, un fondale coerente, quei pezzi da classifica sembrano assolutamente appropriati, mentre al tempo erano il dettaglio dissonante, quello che ti metteva a disagio già la prima volta che vedevi il trailer alle undici di sera nella striscia a cura dell'Anicagis. I Vanzina andavano a rimorchio delle tendenze del momento, e questo a inizio Ottanta consentiva loro ancora di adattare vecchi canovacci di commedia all'italiana a un panorama umano più abbruttito, più arricchito. Sembravano istantanee assolutamente attuali; il mondo com'era là fuori, sulle spiagge, negli alberghi; tornava tutto tranne le canzoni, che erano invariabilmente quelle di sei mesi prima.



Non credo che fosse una scelta autoriale; probabilmente erano i pezzi in classifica nel momento in cui avevano girato il film. Ancora più probabilmente se ne fregavano, i Vanzina, come doveva essersene fregato il padre e tutti i registi della generazione precedente. Mi vengono in mente un paio di capolavori in bianco e nero che sono anche caroselli frastornanti di canzoni da classifica – Il sorpasso, Io la conoscevo bene, ma era un periodo diverso, forse le canzoni avevano tempi di decadimento più lunghi. Invece un gap di sei mesi, negli anni Ottanta, sembrava un secolo. Dopo sei mesi Moonlight Shadow era preistoria, Sunshine Reggae a Natale causava dolore fisico. Troppo presto per provarne nostalgia, in compenso ti suggerivano una tristezza sconfinata. Lo spleen delle vacanze finite, delle feste di compleanno quando gli amici se ne vanno e la mamma non sparecchierà da sola. Una sensazione che gli stessi Vanzina non temevano di evocare alla fine dei loro film migliori ("E anche questo Natale se lo semo levato da le palle"). Il cinema stava perdendo la presa sull'attualità e ovviamente il colpevole era l'elettrodomestico a colori che tenevamo in casa. Quando il Drive In di Ricci divenne egemone, i Vanzina tentarono di ripeterlo al cinema. Ma i tormentoni di Ezio Greggio erano ancora più effimeri del pop da classifica, sei mesi dopo non è che non facessero semplicemente più ridere: sapevano di morte.

Chi è cresciuto negli anni Ottanta non è che avesse accesso a molte opzioni: poteva amarli o poteva odiarli. Non c'erano terze vie, sono state tracciate dopo. A chi sceglieva la seconda, a chi necessitava quotidianamente di oggetti esemplari su cui esercitare il proprio disprezzo, i Vanzina offrivano un bersaglio così comodo, così evidente che avrebbe dovuto insospettirci, ma eravamo scemi. I Vanzina a modo loro erano nostri compagni di strada; disprezzavano le maschere che mettevano in scena tanto quanto le odiavamo noi, ma eravamo troppo piccoli per capire, troppo orgogliosi. A loro non potevamo perdonare nulla. Consideravamo la sola esistenza di Christian De Sica una bestemmia, un'offesa al nobile regista di film neorealisti che dovevamo ancora guardare; ci avremmo messo trent'anni a capire che per la maggior parte della sua carriera Vittorio De Sica aveva interpretato cialtroni squallidi quanto quelli che erano toccati al figlio. Magari nel frattempo ci stavamo facendo una cultura sul segmento aureo della commedia all'italiana (quella che arrivava su Rete4 in seconda serata), in confronto al quale le farse vanziniane ci sembravano una degenerazione intollerabile; senza accorgerci che i Vanzina erano gli unici eredi di quelle formule che tentavano di svecchiare procedendo per tentativi, senza lasciare nulla di intentato e senza menarsela mai. Ecco, se la fossero menata un po' di più forse oggi sarebbe più facile salutare un grande artista e scopritore di talenti. Invece i Vanzina erano una macchina: lavoravano tanto, incassavano tanto e non avevano pietà di nessuno. Senz'altro non di sé stessi.

Nel film italiano più celebrato dell'ultimo decennio, un film che rielabora echi felliniani, scoliani e morettiani in un gran pastone per turisti, a un certo punto una tizia ci informa che "l’unica scena jazz interessante è quella etiope". Quel pezzettino lì non è Fellini, non è Scola e non è Moretti: potrebbe essere uno scarto di lavorazione dei Vanzina, qualcosa che all'ultimo momento De Sica non avrebbe detto perché gli sarebbe venuta in mente una frase più divertente.
Comments (5)

L'epico, persino un po' brechtiano, Fantozzi

Permalink
Dopo aver scritto più di venti libri e lavorato in più di 70 film, in 60 anni di carriera, Paolo Villaggio rischia di essere ricordato soprattutto per aver affermato che la Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca. Questa almeno era l’impressione che davano i coccodrilli dell'anno scorso, tutti percorsi dalla necessità non solo di ricordare lo stesso sketch, ma di fornircene un’interpretazione – più che uno sketch ormai è una parabola, una pagina di un testo sacro in cui tutti troviamo qualcosa di diverso.

Per Mattia Feltri era soprattutto un atto di denuncia contro l’ipocrisia dei dirigenti che si atteggiano a rivoluzionari, come il dottor Ricciardelli che la sera di Italia-Inghilterra convoca i suoi dipendenti e li costringe alla visione del capolavoro muto e in bianco e nero; il vecchio Feltri li avrebbe definiti radical chic, il giovane ci risparmia almeno la definizione. Aldo Grasso invece non riuscì nell'occasione a controllare l’impulso di scrivere “superiorità antropologica della sinistra”, contro cui Fantozzi si ribellerebbe; la sua sarebbe la “resistenza che l’impiegato oppone a chi vuole colonizzare il suo tempo libero”.

Dall’amaca Michele Serra tentava l’impossibile compromesso tra gli orfani di Villaggio e gli estimatori di Ėjzenštejn: “Lo stesso spettatore poteva benissimo amare la Potëmkin e Fantozzi, il cinema d’essai e il cinema popolare. Ma in sale diverse, in momenti diversi e con animo diverso”. È un veltronismo che Villaggio non avrebbe condiviso: anche l’ultima volta che ebbe occasione di parlarne – invitato dalla Cineteca di Bologna nel 2003 in occasione del restauro della Corazzata – ribadì la sentenza fantozziana: altro che capolavoro, era una “cagata” che avrebbe potuto interessare solo “vecchi e insonni”.

E però la necessità di salvare capra e cavoli, Fantozzi e Corazzata, è troppo forte e produce torsioni interessanti, come quella di WuMing1 che dopo la commossa rievocazione di un’epica proiezione della Potemkin in piazza Maggiore propone di leggere l’episodio come una “vertiginosa mise en abime” dei cinque atti del film: “il cineforum è la corazzata; Fantozzi è il marinaio Vakulenčuk che per primo grida la verità su quel che sta accadendo; gli spettatori sono i marinai insorti; l’odioso Riccardelli è gli ufficiali spodestati; la sala occupata è Odessa; la polizia che «s’incazza davvero» ha il ruolo dei cosacchi che reprimono”.

Villaggio novello Ėjzenštejn, e proprio perché si permette di sfottere Ėjzenštejn (...nel momento in cui la borghesia finto-rivoluzionaria se ne impossessa e lo trasforma in un feticcio). A corroborare una lettura tanto epica, WuMing1 riconosce nella saga di Fantozzi un unico personaggio positivo: il marxista Folagra, che dal sottoscala in cui è confinato non rinuncia a spargere il seme della rivolta - un po’ come i WuMing, fedeli al loro personaggio di rivoluzionario in servizio permanente. Folagra però nel film sembra una macchietta, appena in grado di farfugliare quattro slogan autonomisti; la fiaccola rivoluzionaria che passa a Fantozzi si smorza subito nel Grande Acquario dei Dipendenti. Del resto non è che ai personaggi di WuMing la rivoluzione di solito riesca: sin dai tempi di Q non hanno fatto che raccontare storie di rivoluzionari magari più strutturati di Fantozzi, ma ugualmente destinati alla sconfitta. Paolo Villaggio in questo senso è un marxista più ortodosso (o più novecentesco): quando scriveva e sceneggiava Fantozzi, sembrava avere in mente una concezione meno vicina alla New Italian Epic che all’epica brechtiana: come Madre Coraggio, Fantozzi non acquisisce mai una vera consapevolezza della propria condizione di sfruttato. Non è lui che doveva svegliarsi, ma lo spettatore.

Non è esattamente andata così. Il secondo tragico Fantozzi è un film del 1976, un’epoca pre-tv-color in cui i cineforum impegnati erano ancora una realtà non solo nelle grandi città – e in effetti lo sketch era nato in tv come una satira di quell’ambiente, che Villaggio conosceva bene; solo in un secondo momento era stato riadattato all’universo fantozziano. Il successo dei primi Fantozzi di Salce e Villaggio fu notevole, ma la vera penetrazione nell’inconscio collettivo avviene nel decennio successivo, quando la Mediaset ne acquisì i diritti e cominciò a riprogrammarli intensivamente – al punto da risorgere anche il personaggio cinematografico, in una serie di sequel sempre più deprimenti.

È solo in quel momento che “è una cagata pazzesca” diventa un modo di dire della lingua italiana (70.700 risultati su google); una specie di versione adulta e sboccata dell’andersoniano “il re è nudo” (anche “92 minuti di applausi” era già un meme prima delle GIF: nell’era pre-facebookiana di internet la citazione fantozziana era un buon surrogato del tasto “Mi Piace”). Nel frattempo però il paesaggio che Villaggio irrideva – quel mondo scalcagnato di cineforum fumosi coi seggiolini di legno – era completamente scomparso; e Ėjzenštejn dimenticato, anche dal palinsesto notturno di Rai3. La tv commerciale stava crescendo una nuova generazione di cinefili, forse non meno fanatici del dottor Ricciardelli, ma dai gusti completamente diversi: completamente digiuni dei maestri russi e degli espressionisti tedeschi, ma in grado di riconoscere un film di Bombolo o Lino Banfi dal singolo fotogramma.

Chi cresceva in quegli anni poteva condividere la sensazione di ritrovarsi bloccato nella scena dell’assedio fantozziano, e costretto come Ricciardelli a vedere a ripetizione “Giovannona Coscialunga, L’esorciccio e La polizia s’incazza”. Tra questi titoli ormai imprescindibili della storia del cinema italiano, non mancavano i film di Fantozzi. La rassegna integrale, sempre più lunga e ridondante (e triste, nel suo lungo percorso verso il trash), veniva riprogrammata una volta a semestre. I megadirettori delle emittenti ci convocavano per sentirci ridere – ridere stava diventando obbligatorio, come una volta partecipare al dibattito. Invece dell’“occhio della madre”, era obbligatorio menzionare il "radical-chic" e la “superiorità-antropologica-della-sinistra”; al posto del “montaggio analogico”, c’era lo sberleffo obbligatorio verso un modello di cinema e di società che non avevamo nemmeno fatto in tempo a conoscere. È andata così e non è certo responsabilità di Paolo Villaggio; comunque è finita. Vero?
Comments (4)

Cosa deve fare un razzista per farsi prendere sul serio in Italia?

Permalink
Qualche giorno fa è morto un razzista, che era stato il leader di una piccola organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. 

E i giornali italiani hanno scritto che è morto un satanista.

Insomma cosa deve fare un razzista per farsi accreditare come tale in Italia? Incidersi una svastica in fronte? No, neanche così. Manson non era il diavolo: Manson era un razzista si legge su TheVision.





Qualche giorno fa è morto, dopo una vita in galera, Charles Manson, un personaggio di cui avrete probabilmente sentito parlare. Se la sua storia non vi ha mai particolarmente appassionato, se avete soltanto dato una veloce scorsa ai titoli dei quotidiani italiani, probabilmente sapete che era un serial killer satanista che tra l’altro pugnalò, in modo particolarmente efferato, la giovane attrice incinta Sharon Tate. Eppure Charles Manson non era esattamente un serial killer, non era un satanista e non ha pugnalato Sharon Tate. Siamo davanti all’ennesima fake news, penserete. Si e no. Diciamo che siete davanti a una libera interpretazione della stampa italiana.

Charles Manson è davvero nato nel 1934 a Cincinnati, Ohio, in un contesto disagiato – sua madre, sedicenne, fu subito abbandonata dal padre di Charles. È davvero entrato in riformatorio a 13 anni, per evaderne molto presto su un'auto rubata; e non era che l'inizio. Buona parte degli anni Sessanta Manson li osservò da dietro le sbarre, mentre scontava pene per furto e sfruttamento della prostituzione. Questo se da un lato gli impedì di godersi l’esplosione del flower power californiano, gli diede qualche elemento per captare meglio di tanti osservatori le tensioni più distruttive che covavano in quegli anni – in particolare la questione razziale. Verso il 1968 Manson aveva davvero messo insieme la “family”, una setta abbastanza scalcagnata, ma non esattamente satanica; in quel periodo Manson più che a Satana faceva riferimento a una sua personalissima interpretazione degli insegnamenti di Gesù Cristo, filtrati attraverso i testi delle canzoni dei Beatles. A un certo punto sostenne di essere lui stesso il Cristo: è un tratto classico di tanti predicatori che perdono la brocca, ma ha poco a che vedere col satanismo. I suoi adepti uccisero davvero Sharon Tate e altre sei persone tra il 9 e il 10 agosto del 1969, e lo fecero seguendo le sue indicazioni. Quindi insomma la storia c’è, e per quanto sia stata raccontata migliaia di volte rimane pazzesca. Non solo, ma nel 2017 la storia di Manson sembra più attuale che in passato: oggi che il razzismo è un’emergenza non solo dall’altra parte dell’Atlantico, è particolarmente interessante ricordare che Charles Manson predicava ai suoi discepoli la necessità di un’imminente guerra razziale: molto presto i neri avrebbero cominciato ad attaccare i bianchi, e dal caos che ne sarebbe derivato la “family” di Manson avrebbe governato il mondo.

Di questo scenario delirante, i più autorevoli quotidiani italiani non fanno cenno. Insistono molto di più su un presunto satanismo di Charles Manson, che in prigione si era fatto una cultura rudimentale su tante cose, dalla magia nera alle filosofie orientali: definirlo satanista o “satanico” è altrettanto impreciso che definirlo buddista. La BBC, per esempio, di Satana non parla: ricorda invece che Manson aveva convinto le sue discepole di essere il Cristo. Per Rainews invece Manson è un killersatanico; per la Repubblica i suoi adepti “credono in Scientology e in Satana(*)”; mentre Corriere e La Stampa, non riuscendo a trovare una sola dichiarazione satanista di Manson, arrivano a un compromesso: “Sosteneva di essere la reincarnazione non solo di Gesù, ma di Gesù e Satana insieme”. Manson in effetti parlava tantissimo, e da qualche parte potrebbe anche aver detto questa cosa. Sembra però che a Satana i giornalisti italiani tengano in modo particolare – “Da Satana ha preso molto,” ribadisce La Stampa, mentre Repubblica li chiama “delitti satanici”. Così come spesso accade nelle narrazioni del giornalismo italiano, le principali testate tengono molto a ricordare i dettagli più scabrosi del delitto Tate, rievocando l’aggressione con uno stile quasi cinematografico: “Il primo a morire fu Steve Parent, un ragazzo di 18 anni che era andato a trovare il custode e che passava nella via. Linda restò fuori a fare da palo. Watson spaccò un vetro per entrare in casa e la banda radunò Sharon Tate e i suoi amici in salotto. Sharon fu legata per il collo a Sebring, mentre Waston legava le mani di Frykowski. La Atkins disse all’attrice “Puttana, stai per morire”, Sebring cercò di difenderla e fu ucciso da Watson, che gli sparò e lo accoltellò più volte, usando anche un forchettone” (La Stampa).

E ancora, Il Corriere: “Armati di coltelli, revolver e corda di nylon tagliarono i fili del telefono per impedire che venisse dato l’allarme. Il primo a morire fu un amico del guardiano della villa, che stava uscendo in macchina, Stephen Earl Parent. Poi toccò a Jay Sebring, che implorò inutilmente di risparmiare la vita a Sharon Tate. Fu finito a coltellate, così come le altre tre vittime. L’ultima fu proprio Sharon, incinta all’ottavo mese”.

Di questi siparietti nel pezzo della BBC non c’è traccia. In compenso è segnalato il movente di cui nei giornali italiani non si parla: “Race war”. Del resto chi ha bisogno di un movente quando ha Satana? Satana spiega senza sforzo qualsiasi follia: i membri della Family scrivevano “Helter Skelter” e “Pigs” sulle pareti col sangue delle vittime? Sarà un qualche rituale satanista. Ma “Pigs” era anche l’appellativo con cui erano chiamati i poliziotti dai manifestanti (un po’ l’equivalente di “ACAB” sui muri di oggi). Manson intendeva probabilmente depistare le indagini sulla comunità afroamericana, scatenando una rappresaglia che avrebbe portato alla guerra razziale. Perché prima di essere satanista, scientologo, buddista e fanatico dei Beatles, Charles Manson era profondamente razzista. Pensava che i neri e i bianchi non avrebbero mai potuto vivere insieme, e aveva in orrore soprattutto le unioni interrazziali. Un mese prima il delitto Tate aveva dato l’esempio sparando a uno spacciatore afroamericano (che era sopravvissuto); venti giorni dopo, quando aveva fatto uccidere un suo seguace che gli doveva dei soldi, aveva lui stesso usato il sangue per scrivere sul muro “political piggy” e disegnare un simbolo delle Pantere Nere, l’organizzazione rivoluzionaria afroamericana.

Insomma se c’era una logica nella sua follia era una logica razzista, non satanista. La stessa logica che rende Charles Manson, a mezzo secolo dal funerale degli hippy, una figura ancora attuale. Ed è anche quello che i giornali italiani non dicono: un po’ perché devono concentrarsi sulle coltellate, il sangue, i dialoghi pulp, un po’ perché Satana vende di più.

A questo punto, forse senza un motivo, viene in mente Gianluca Casseri, uno scrittore fantasy fiorentino che qualche anno fa si mise a sparare ai neri che vedeva in giro per Firenze. Quando lo presero ne aveva già uccisi due. Qualcuno scrisse che era depresso. Può darsi: però aveva anche opinioni politiche molto definite, di cui non faceva mistero. Dopo aver negato, la sezione fiorentina di Casapound dovette ammettere che Casseri li frequentava. Insomma era uno scrittore un po’ di destra, un po’ depresso, a cui era capitato di mettersi a sparare a degli africani in giro per Firenze, tutto qui (se capitasse il contrario, un africano che va in giro per Firenze a sparare agli scrittori bianchi, non avremmo molte remore a definirlo terrorista).

Con Charles Manson mi sembra che sia successo qualcosa di simile. È appena morto il capo di un’organizzazione razzista, che faceva discorsi razzisti e profetizzava di una guerra tra le razze al termine della quale lui avrebbe regnato su una razza inferiore; per questo motivo chiedeva ai suoi sottoposti di commettere omicidi a matrice razziale, scegliendo vittime bianche e ricche e facendo in modo che la colpa ricadesse sui neri. Per i giornali italiani più che un razzista questo è un satanista. Ma allora cosa deve fare un razzista per farsi riconoscere come tale dai giornalisti italiani? Incidersi una svastica in fronte? No, niente da fare, neanche quella basta.



Integrazione di lunedì 30 novembre ore 12:40

*Con riferimento all’articolo “Manson non era il diavolo: Manson era un razzista” pubblicato il 24/11/17, a seguito della richiesta di precisazione di “Chiesa di Scientology di Milano Continentale”, che riferisce essere falsa la notizia che Charles Manson fosse legato a Scientology e basasse la propria filosofia sulla stessa, precisiamo che l’articolo ha inteso dare conto del fatto che secondo la stampa sia nazionale che internazionale egli è stato un conoscitore e uno studioso delle teorie di Scientology e non che ne fosse membro. Circostanza, quest’ultima, esclusa dalla “Chiesa di Scientology” [La redazione di TheVision].
Comments (5)

I 1001 pianeti di Valérian

Permalink
Valerian e la città dei mille pianeti (Valérian et la Cité des mille planètes, Luc Besson, 2017).


Da qualche parte al centro di questa città quadrimensionale, vivono i superstiti di un antico e nobile popolo che abbiamo sterminato un giorno senza volere - cose che càpitano quando si esplora la galassia. Non vivono in armonia con la natura: la natura non c'è più. Hanno la loro tecnologia, sviluppata un po' in autonomia un po' rubacchiando quello che passava ai piani superiori. Non è incomprensibile, ma ha le sue stranezze - comunicano col Minitel, hanno le tastiere con la A al posto della Q. Un giorno spiccheranno il volo, verso un nuovo pianeta dove vivere in pace e stagionare altri ottocento formaggi diversi. E ci mancheranno. Sì, proprio i francesi. Lo so, sembra impossibile.

Ma tingerle i capelli proprio non si poteva? Anche in CGI...
Un giorno ci mancherà Luc Besson - per quanto sia così difficile volergli bene. È un tamarro senza scrupoli e senza redenzione. La sua idea di cinefumetto fantascientifico è esattamente quella che aveva Lucas negli anni Ottanta: navi spaziali in fiamme e pupazzoni. In più Besson ci mette tutta la computergrafica che si può permettere con 197 milioni di euro, e non gli resta nemmeno un eurocent per pagare lo sceneggiatore. Questa è la cosa che fa più rabbia, perché sul serio: quanto si può risparmiare se invece di farti scrivere buoni dialoghi, te li fai scrivere scadenti? Il costo di un mostro digitale? Di un attore europeo in ribasso? Tra un'ospitata di Rihanna e una buona storia, tu cosa avresti scelto? È praticamente impossibile voler bene a Luc Besson quando prende uno, anzi due storici personaggi del fumetto fantascientifico francese, e invece di farli battibeccare per tutto il film come due colleghi che flirtano tra una battaglia e l'altra, decide che proprio in quelle due ore devono confessare la reciproca attrazione e fidanzarsi - che cosa imbarazzante, in un cinefumetto del 2017, vedere lui che fa una proposta di matrimonio e lei che fa la difficile perché non vuole essere "una della tua playlist". Se almeno fosse una gag e invece no, man mano che il film perde l'energia iniziale, l'idea banalotta del matrimonio procede per inerzia fino ad assorbirlo tutto. È come se Besson, che in teoria sogna questo film da una vita (e ci ha investito parecchio), fosse persuaso di non avere seconde possibilità: Valérian e Laureline hanno solo un film a disposizione, tanto vale buttarci dentro tutto, immergerli in centinaia di ambienti diversi in due ore (il che andrebbe anche bene) e poi farli sposare come succede nelle fiabe (il che invece no). Il film poi non è andato nemmeno così malaccio come sembrava, per ora siamo a 225 milioni di euro di incasso. Quindi per il sequel che ci dobbiamo aspettare, Valérien e Laureline oltre i limiti della galassia in luna di miele? Valérien e Laureline che litigano su chi deve cambiare il cyberpannolino? Ci sarà un motivo se gli eroi dei fumetti non si sposano mai? E impossibile voler bene a Luc Besson quando cade su queste sciocchezze. Eppure è necessario (continua su +eventi!)

L'idea - molto europea - che la convivenza sia un caos, però un caos che tutto sommato funziona.

Si potesse fare a meno di lui, ne sarei contento. Ci fosse in circolazione qualche altro visionario regista francese in grado di attingere a quell'immaginario autoctono che negli anni Sessanta dava i punti agli americani - ma non c'è. Quel momento in cui il pianeta Francia e il suo satellite Belgio erano gli astri più fiammanti del firmamento, e Mézières e Moebius plasmavano il nostro immaginario, con situazioni più problematiche di quelle che arrivavano da oltre oceano, ma immagini altrettanto suggestive - alzi la mano chi ha trovato l'astronave di Valérian un po' troppo simile al Millenium Falcon, beh, è ovviamente il contrario. Besson non sarà il miglior difensore del patrimonio culturale che rappresenta, ma al momento è l'unico, e quindi viva Luc Besson e i suoi pupazzoni digitali (che comunque reggono il confronto di Avatar). Per quanto sia difficile volergli bene, una volta su dieci ne vale la pena. A volte gli riescono cose impossibili, ad esempio rendere simpatica Cara Delevigne. Mentre Dane DeHaan ha esattamente la faccia da schiaffi che serve a un avventuriero dello spazio. Valerian e la città dei mille pianeti resiste indomito al Monviso di Cuneo, almeno fino a stasera 24 ottobre alle ore 21.
Comments

I replicanti sognano Blade Runner analogici?

Permalink
Blade Runner 2049 (Denis Villeneuve, 2017)


Il passato non esiste. I tuoi ricordi sono solo un innesto. Non è sempre stato così, ma un giorno c'è stato un black out e tutti i ricordi che avevi - le foto da bambino, i tuoi film preferiti - puf, è sparito, come lacrime nella pioggia. Non ci credi. Vuoi che facciamo un test?

Ho appena citato un film famoso. Ti ricordi quale?

Bene.

Ti ricordi quando l'hai visto per la prima volta?

Vedi?

Il primo a rompere l'omertà è stato Zerocalcare. Nei giorni successivi, qualcun altro ha trovato il coraggio di ammetterlo: uno dei problemi di Blade Runner 2049 è che è il seguito di un film che siamo tutti convinti di conoscere, ma non ci ricordiamo di aver visto. C'è senz'altro una spiegazione razionale al fenomeno. Quando uscì al cinema eravamo troppo giovani - e comunque floppò. Era stato messo insieme da Ridley Scott con tanta ambizione e pochi soldi. La storia faceva acqua, alcuni dialoghi non avevano senso, l'atmosfera era azzeccatissima ed ebbe un effetto dirompente sul nostro immaginario - uno stacco netto dai futuri postatomici degli anni precedenti - per cui negli anni Novanta anche se non guardavi Blade Runner te lo ritrovavi replicato in tutto il cyberpunk, persino nei fumetti della Bonelli: dappertutto pioggia, inquinamento, grattacieli, androidi tristi. Nel frattempo uscirono varie riedizioni, una director's cut che non piacque al director, cui seguì la director's cut della director's cut - a quel punto forse noi vedemmo per la prima volta Blade Runner, ma eravamo già in quell'età in cui ci vergognavamo a dire di non averlo già visto, e così programmammo noi stessi per dire: "l'altra sera ho rivisto Blade Runner". E si sa come va con l'autoprogrammazione, no? Convinci più te stesso che gli altri. Ormai era il 2000 e la gente si era messa a scrivere su forum e blog, e ogni tre righe citava "Ho visto cose che voi mortali". Tutti sembravano conoscerlo a memoria, Blade Runner. Ma più che la storia tutti citavano quel monologo senza senso improvvisato dal grande Rutger Hauer che sembra arrivato all'ultimo momento da qualche altro set di fantascienza ("navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione"?), e poi l'atmosfera, eh, l'atmosfera. La pioggia, le pubblicità luminose, il sushi. Ok. È un innesto.

Non è successo. Non hai mai visto veramente Blade Runner. E forse è meglio così. Ora sei libero di guardarti un ambizioso film di fantascienza di Denis Villeneuve, e di amarlo od odiarlo per quello che è. Un ambizioso film di fantascienza di Denis Villeneuve. Meglio di quello di Scott? E che ne so?

(Spoiler: in una delle scene più apparentemente gratuite, il grande demiurgo (che è Jared Leto, ma anche un po' Villeneuve) gioca a resuscitare il passato. È un gioco che ultimamente abbiamo già visto in tutti i film di fantascienza ad alto budget, quindi l'effetto sorpresa ormai è andato. Salvo che stavolta il demiurgo resuscita il passato, lo trova insoddisfacente e lo uccide. Ed ecco che una scena che sembrava poco interessante diventa il senso del film).


C'è stato un blackout, davvero. Tutto quello che ci ricordiamo è andato perso, perché anche se non siamo replicanti (e chi dice che non lo siamo?) la nostra memoria funziona come quella dei computer - la nostra memoria è quella dei computer: o è condivisa, o scompare. Nel 2049 di Villeneuve, il Blade Runner originale non esiste più. Solo qualche frammento audio. Per quanto tu possa cercare di riprodurre fedelmente qualche dettaglio, commetterai sempre un errore fondamentale: sbaglierai il tono di voce, o il colore degli occhi. Tanto vale buttare via anche i frammenti e ricominciare da zero. Restano i sogni - brandelli di ricordi incontrollabili - ma anche di quelli come ti puoi fidare? Lascia perdere. Il passato non esiste, guarda avanti. Una volta forse il mondo era molto migliore, ma è stato tanti anni fa e non ti riguarda.

Villeneuve ha una padronanza dei mezzi che ti fa dubitare della sua umanità... (continua su +eventi!) Il suo futuro è ammuffito e arrugginito come dovrebbe essere. Anche gli ologrammi smaglianti a volte vanno in crash. Il casting è perfetto - se Ryan Gosling era nato per interpretare un replicante, strappa l'applauso il modo in cui Leto, Ana de Armas o Dave Bautista vengono adoperati sempre al meglio delle loro capacità (quando l'ex wrestler Bautista inforca quegli occhialini, ti sembra il più umano di tutti).



A Villeneuve non interessa se il tal personaggio è replicante o no - siamo tutti replicanti a modo nostro. Ci crediamo speciali perché abbiamo dei ricordi che lui sa fabbricare in serie. Villeneuve non si preoccupa troppo di mantenere l'atmosfera del primo film ed è forse questo il motivo per cui in alcune sequenza, con naturalezza, ci riesce. A Villeneuve interessava fare un film di fantascienza cupo, nebbioso, imbastito su un'idea di futuro coerente, e c'è riuscito. A Villeneuve interessava un certo ritmo lento, e la cosa infastidisce soltanto nell'ultimo terzo, quando lo sforzo di reintrodurre sul set Harrison Ford allunga i tempi a dismisura. Si poteva fare diversamente? Secondo me no. A questo punto sono portato a fidarmi di Villeneuve come di un'intelligenza artificiale: se il film è troppo lungo, si vede che non c'era modo di accorciarlo senza ottenere un prodotto inferiore. Sta floppando? È un Blade Runner, che ti aspettavi? Gente che fa la fila per vedere un futuro prossimo dove mangeremo millepiedi e flirteremo coi sistemi operativi? (Eppure dopo una settimana l'ho visto in una sala ancora piena, ero il primo sorpreso a vedere che la gente non uscisse a metà).

Anche ammesso che Villeneuve sia un umano, ormai è certo che non è americano. Il suo Blade Runner è la storia di una creatura che non si crede speciale; che lentamente cede alla tentazione auto-indotta di credersi speciale; ma non lo è: ed è qui che Villeneuve fallisce clamorosamente il suo test di americanità. Il che non significa che non possa ancora rendersi utile, e provare riconoscenza per chi lo creato e ha creato i suoi ricordi. Saranno anche innesti, ma restano le cose più belle che abbiamo. Forse non abbiamo mai visto Blade Runner, ma è lo stesso dentro di noi. Oggi più che vent'anni fa. Blade Runner 2049 è al Cityplex di Alba (15:30, 18:30, 21:30), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo) (14:45, 17:10, 20:30, 21:30), al Vittoria multisala di Bra (17:30, 21:00), al Fiamma di Cuneo) (14:50, 18:05, 21:15), al Multilanghe di Dogliani (17:40, 20:45), ai Portici di Fossano (15:30, 18:30, 21:30), al Baretti di Mondovì, (21:00), al Cinemà di Savigliano (16:00, 18:45, 21:30).
Comments (2)

Nel giardino delle attrici castratrici

Permalink
L'inganno (The Beguiled, Sofia Coppola, 2017)


Al di là del bosco c'è la guerra. È lontana e in ogni dove, brontola tutti i giorni come un temporale che non riesce a sfogarsi. Un giorno ci troverà e sarà finita - in fondo siamo soltanto un collegio di signorine, o quel che resta di. Un giorno la guerra busserà ai nostri cancelli. O forse arretrerà sgomenta?

Niente All Star stavolta
A me dispiace che Sofia Coppola non abbia fatto la Sirenetta, alla fine. Se c'è un regista in circolazione che mi fa pensare ad Andersen, è lei. Quante principesse sul pisello ha già messo in scena, quanti sarti di abiti invisibili, regine di ghiaccio, brutti anatroccoli? Da come la racconta, pare che abbia rinunciato perché non riusciva a girare sott'acqua. Troppo complicato, troppo rischioso, eppure "la fotografia subacquea è così bella". La Universal le offriva un film ad alto budget, lei pensava più a un servizio fotografico. A me dispiace perché in fondo tutti i suoi film sono acquari, più o meno fragili: tutti i suoi personaggi nuotano verso il bordo, fissano perplessi una catastrofe che preme da fuori. Tutti sembrano ricordarli per la colonna sonora - che in effetti spesso è frastornante - eppure c'è sempre tanto silenzio, che riempie ogni spazio lasciato vuoto. È davvero come se la musica arrivasse da fuori, sempre attutita e poi riverberata dall'acqua. E poi c'è quel brusio, che in Marie Antoniette era la Storia che urlava alle finestre di Versailles, e qui è rumore di artiglieria che sembra non dover mai finire.

Dopo aver rinunciato e esprimersi in una grande produzione, la Coppola ha ripiegato sul remake di uno sfortunato film di Don Siegel in cui Clint Eastwood durante la Guerra di Secessione si nascondeva in un convitto di signorine - in Italia provarono a smerciarlo come un prodotto sexy, La notte brava del soldato Jonathan, ma era un film molto inquietante per l'epoca, in cui Eastwood metteva in discussione il suo machismo: un film che metteva in scena incesti e castrazioni, e che al botteghino andò male (pochi mesi dopo Siegel e Eastwood si inventarono l'ispettore Callaghan, riconquistando machismo e botteghino). Al posto di Clint c'è Colin Farrell; nel cast femminile la Coppola ha convocato Nicole Kidman, Kirsten Dunst, Elle Fanning e altre ragazze più giovani e assai promettenti. Tutte bianche, il che difficilmente le sarebbe stato perdonato nel 2017, ma lei lo ha fatto lo stesso (non se ne è resa conto o se ne infischia proprio? Continua su +eventi!)

Nel film di Siegel uno dei personaggi più importanti era una schiava, ma la Coppola una schiava afroamericana non sapeva come gestirla, così ne ha fatto a meno. Mentre critici e femministe la facevano a pezzi, riscoprendo stereotipi razziali in Lost In Translationlei difendeva la sua scelta spiegando che aveva eliminato la schiava proprio perché aderiva a uno stereotipo razziale; in effetti era la classica schiava subdola e impicciona e - al contrario delle collegiali bianche - non parlava un buon inglese. D'altro canto perché una schiava non avrebbe dovuto essere subdola e impicciona, e perché mai avrebbe dovuto parlare un buon inglese? Così per evitare di essere accusata di razzismo, la Coppola ha diretto il primo film ambientato nel Sud secessionista in cui non viene mai, assolutamente mai, inquadrato un personaggio afroamericano. Come t'insegnano al collegio: delle cose scabrose non si parla, non esistono. Le donne di Siegel avevano scheletri negli armadi, quelle della Coppola ci tengono gli abiti da sera (e sono tutti perfetti). Le donne di Siegel tramavano per conquistarsi l'unico uomo, manipolandosi a vicenda; quelle della Coppola al massimo si rubano gli orecchini. Il punto è sempre lo stesso: non è che la Coppola rifiuti l'approfondimento psicologico, è proprio che non le interessa. Le piace mettere in scena signore di tante età e farle splendere a turno. Hanno tutte qualcosa di magico che solo un grande fotografo sa catturare, anche se di solito lavora per Vogue più che a Hollywood. C'è un momento per la Kidman, un momento per la Dunst, e se in un attimo di debolezza finisci per preferire la Fanning, è scontato che un po' ti meriti le disgrazie che ne deriveranno. Ma se cerchi il dramma ti sei proprio sbagliato, e dopo tanti anni è imperdonabile: dovresti saperlo che lei gira così. E vince pure dei premi, quindi insomma hai solo sbagliato sala. Di fianco fanno Valerian, fanno It, Blade Runner, ce n'è per tutti i gusti. La Coppola può essere irritante, ma ha un suo stile, un suo prodotto e un suo pubblico. Eppure.


Eppure a me dispiace che non riesca a uscire dalla sua comfort zone festivaliera, perché una regista con una visione così personale, una cura per il dettaglio inconfondibile e un'arroganza da autrice, mi sembra un po' sprecata per i servizi di moda. Se un giorno qualcuno riuscisse a convincerla, per esempio, a fare un horror, secondo me ne salterebbe fuori un capolavoro. I suoi film sono una specie di bolla sempre sul punto di scoppiare, immersi in una sensazione di sciagura imminente che non ti accorgi nemmeno di sentire, che dai scontata come quel costante rumore di fondo. A differenza di Bling Ring Marie Antoniette, stavolta la Catastrofe non entra in scena. Forse non entrerà proprio nessuno. Forse la guerra è finita da secoli e quei rumori sono basi registrate. Forse quel bosco è in una bolla di vetro in fondo al mare. L'inganno è ancora per una settimana al Fiamma di Cuneo alle 21:15.
Comments

Tom Cruise spaccia (ma non aspira)

Permalink
Barry Seal - una storia americana (American Made, Doug Liman, 2017).

Una volta ero un pilota. In una vita precedente. 
E proprio quando pensavate di aver visto tutti i Tom Cruise possibili, ecco a voi, in anteprima rispetto agli Stati Uniti, il Tom Cruise disonesto!

"L'avevamo già visto in Collateral".

Beh, ma quello era un killer, questo... questo è un simpatico cialtrone!

"Edge of Tomorrow".

No, no, questo è più manigoldo, questo...

"La mummia".

Questo fa sul serio, capite? Questo spaccia la droga!

"La droga? Tom Cruise?"

Non ve l'aspettavate, eh? "Tom Cruise" e "droga" nella stessa frase sono un colpo basso, non dite di no.

"Si drogava già in Minority Report".

Sì, no, ma stavolta non è che si droghi. La spaccia soltanto.

"Cosa vuol dire che la spaccia soltanto?"

Beh è colombiana di Medellin, dai, cosa pretendi, che la sniffi sul grande schermo? È pur sempre Tom Cruise.

È il caso di dire: che botta.

Se anche non andrete a vedere Barry Seal, c'è una scena che vi ricorderete perché compare in tutti i trailer, anche nelle pubblicità. C'è Tom Cruise che fa un atterraggio di fortuna in un sobborgo; c'è Tom Cruise che smonta dall'aeroplano tutto infarinato di cocaina con una valigia ricolma di dollari. È davvero il nocciolo di tutto il film: c'è l'aeroplano, ci sono i soldi, c'è la coca, c'è Tom Cruise che in un qualche modo ci salta fuori sempre (quasi). È anche l'unica scena che suggerisce che qualche granello di cocaina potrebbe essere stato inavvertitamente inspirato dal narcotrafficante interpretato da Tom Cruise. L'unica. E allora, signori, magari di narcotraffico non siamo così esperti, ma ormai di film ne abbiamo visti tanti. Anche prima dell'attuale inflazione di Escobar al cinema, c'era stato Blow, lo Scarface di De Palma, c'era stato Goodfellas con quella scena in cui Liotta se la prende con l'amante perché quando confeziona le dosi lascia polvere dappertutto. È cocaina, è bianca e granulosa, se soffi fa una nuvola, è quasi impossibile viverci in mezzo e non tirarne mai. Neanche un po'. Capita solo nelle fiabe - quelle che probabilmente i vecchi narcos raccontano ai bambini - il nonno era un capocartello, ma era pulito come appena nato - nelle fiabe e nei film con Tom Cruise.

Ci ho messo un po' a capire cosa non mi stesse convincendo in Barry Seal. Negli USA - dove deve ancora uscire - magari farà un po' di rumore perché... (continua su +eventi!) perché sostiene papale papale che la cocaina di Medellin entrasse in America grazie a una ditta basata in Arkansas che conosceva le rotte della DEA e della FBI dal momento che faceva lavoretti sporchi per la CIA e la CIA le aveva passato i tracciati. Che mentre Reagan dichiarava la Guerra alle Droghe, qualcuno forse nello stesso edificio considerasse l'invasione di colombiana purissima il prezzo da pagare per reprimere i sandinisti in Nicaragua. I sandinisti sono rimasti al potere, la cocaina è diventata un consumo di massa, la CIA si è allontanata fischiettando, e in tutto questo Barry Seal cosa rappresenta? Una pedina che si credeva furba ma che alla fine ha lavorato per tutti e non è riuscito a portarsi dietro nulla. Un tipo di personaggio che non è poi così nuovo per Tom Cruise - e allora perché stavolta manca qualcosa alla classica parabola del bravo-ragazzo-che-scopre-il-malaffare? Perché Barry Seal non raggiunge non dico i livelli di Wolf of Wall Street, ma a un certo punto fatica a mantenere il passo non certo da fuoriclasse di War Dogs?



Potrei tagliare corto e dire: Scorsese. Scorsese questi film li sa fare, gli altri no. Ma credo di averlo già scritto quattro o cinque volte, temo sia l'ora di approfondire. C'è che Scorsese è un tossico. Oddio spero non mi denunci. Magari ha smesso da anni, ma dentro di sé c'è un meccanismo che continua a girare. Gira a vuoto, ma gira. Tom Cruise ha altre stravaganze, ma quel meccanismo non ce l'ha. O non vuole mostrarlo, il che per un attore è imperdonabile. Magari gli piaceva il soggetto - un fattorino dei cieli che frega la Cia per conto dei colombiani e poi viceversa - magari voleva il suo Wolf of Wall Street personale. Però non voleva abbassarsi a tirare coca per tutto il film, ed è qui che casca l'asino. Il suo personaggio resta un'amabile faccia da schiaffi che passa la vita a mettersi nei guai senza un perché. Per un biplano ultraveloce? Una cadillac da regalare alla moglie? una villa con piscina a Mena, Arkansas? Non sembra davvero valerne la pena. La canonica scena "aiuto non so più dove mettere i soldi", che in Wolf varcava le soglie del grottesco, qui finisce per sottolineare l'assurdità della situazione: quanti ripostigli deve trovare Barry per le sue mazzette prima di capire che non potrà mai spenderle? La droga serve anche a questo: a bruciare i surplus in una nuvola gaia di euforia, a creare in individui non apparentemente cattivi quell'abisso da cui poi nascono le idee più disperate e geniali. Ma Barry non si droga. L'unico buon motivo per cui insiste a schivare l'artiglieria sandinista e gli elicotteri della DEA è che si diverte un casino. E naturalmente ha moglie e figli da mantenere - eh già, la famiglia, quanti crimini in tuo nome. Ma sul serio non c'è altro, nemmeno una scappatella con una hostess, niente. Cruise voleva fare il narcotrafficante ma anche il buon padre di famiglia.

Alla fine Barry Seal resta una pagina di storia interessante (anche se un po' fabbricata a posteriori: del resto quando c'è di mezzo la CIA l'unica verità è nel tritadocumenti). Non è però il film promesso, quello in cui finalmente Cruise si toglie la maschera da bravo ragazzo e ci mostra le turpitudini di cui è capace. Tutto il contrario: la maschera è più stretta del solito, non passa neanche un granello di polvere. Barry Seal è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:00 e 22:40; al Vittoria di Bra alle 21:00; al Fiamma di Cuneo alle 21:10; al Multilanghe di Dogliani alle 21:30; ai Portici di Fossano alle 18:30 e alle 21:15; al Cinema Italia di Saluzzo alle 22:15.

Comments

La sublime arte del lobbying

Permalink
Miss Sloane: giochi di potere (John Madden, 2017).


Sai perché i buoni perdono sempre (no, non al cinema, nella realtà)? Perché non sono abbastanza cinici. Non solo hanno quelle cose fastidiose che si chiamano "sentimenti", ma non sanno nemmeno sfruttarli: li nascondono, ricacciano le lacrime e cercano di sembrare razionali. Si aspettano che qualcuno gliene riconosca un merito. Sono sempre un passo indietro, sempre affannati nel tentativo di svelare l'ennesima trappola dei malvagi, invece di mettersi a elaborare trappole in cui qualche malvagio per una volta possa cadere. Per dirlo con una parola: sai perché i buoni perdono sempre nella realtà? Perché sono buoni. Ma se fossero i più cinici del mazzo, se vendessero i sentimenti propri e altrui a un tanto al chilo, se giocassero d'anticipo, che spettacolo sarebbe. Purtroppo nella realtà non può succedere. Al cinema, però...


Sai perché l'Europacorps di Luc Besson non sbaglia quasi un colpo al botteghino? Perché parte sempre da modelli collaudati - perlopiù americani - e li carica all'inverosimile, come neanche gli autoctoni osano. La loro America è sostanzialmente un sogno - un sogno nutrito di film americani, storie americane, serie americane. Ma se un giorno, invece di scopiazzare gli action per pensionati o i cinecomics o le commediole a base di animali parlanti, volessero cimentarsi con cose più cervellotiche, come quelle serie politiche ambientate a Washington dove tutti i politici e i lobbisti parlano a cento all'ora, che il pubblico raffinato si scarica coi sottotitoli e poi passa il tempo a leggere i sottotitoli? Se invece di fare il verso a Star Wars per una volta tentassero di fare il verso ad Aaron Sorkin o a House of Cards: cosa succederebbe? Che razza di film super-cerebrale, straparlato, implausibile ma irresistibile ci salterebbe fuori? Un film come Miss Sloane, diretto imprevedibilmente da John Madden (Shakespeare in Love, i Marigold Hotel) scritto da un esordiente e imbottito di intrighi e scene madri, ambientato in quell'America dirigenziale che si vede sempre nelle serie tv, quei palazzi tutti ascensori enormi e uffici a vetro. Una storia che parla del lobbysmo americano come se fosse l'epica Greca, un mondo che forse da qualche parte è esistito ma ormai è solo una metafora, un'iperbole, una scena trasparente dove mettere a galleggiare personaggi tragici. Un film che dopo cinque minuti ha già infilato un'interrogazione al Congresso e un dialogo tra due personaggi sulla via del gabinetto in cui si citano, tra le altre cose, Socrate, la Nutella e l'olio di palma. I debiti sorkiniani si saldano anche in sede casting, dove rivediamo almeno due volti di Newsroom, la dolce Alison Pill e li grande Sam Waterson: quest'ultimo in particolare piazzato in modo strategico, una specie di garanzia di genuinità di un prodotto (che tanto genuino magari non è, ma come si fa a non cedere davanti alla faccia del buon vecchio Waterson? Continua su +eventi!)


Ma Miss Sloane è soprattutto il film in cui Jessica Chastain può finalmente recitare a ruota libera, nel ruolo paradossale di lobbysta stronza che decide di passare dalla parte dei buoni - senza smettere di essere stronza, semplicemente trovando un fine nobile a i suoi stronzissimi mezzi. In fondo il suo ruolo non è molto diverso da quello già interpretato in Zero Dark Thirty - una donna super-determinata che fa di una singola missione lo scopo della vita - ma quello era un film realistico, o meglio le tentava tutte per presentarsi come tale. Miss Sloane è ambientato nella magica America sognata a un oceano di distanza, malgrado molti ingredienti della trama siano presi da scandali realmente avvenuti e documentati. L'eroina del film della Bigelow, in confronto a Miss Sloane, è statica come un'icona: qui la Chastain parla e straparla, teoricamente è dura come un diamante ma poi s'infrange come un cristallo, ogni tanto si fa un pianto o una crisi di rabbia ma poi si scopre che tutti gli apparenti fallimenti erano previsti. Miss Sloane è un surrogato europeo di Sorkin che coi tempi che corrono non possiamo permetterci di snobbare. Ovviamente non scorre bene come l'originale, ma è comunque uno spasso. Purtroppo il pubblico non ha gradito: Sloane è costato 13 milioni di dollari e fin qui ne ha raccolti solo nove. Nel frattempo Luc Besson sta per fare uscire il suo nuovo cinecomic fantascientifico. Sarà un baraccone pazzesco e sì, forse ho più voglia di vederlo che il prossimo Star Wars. Miss Sloane è all'Aurora di Savigliano alle 21.
Comments (2)

Ballare al volante, ballare al cinema

Permalink
Baby Driver (Edgar Wright, 2017).


C'è gente che balla là in strada. Lo fanno di nascosto, non li riconosci - se non dalle cuffiette, e da come tamburellano sul volante al semaforo. Non lo fanno per esprimersi o per esporsi o per piacere a sé stessi: lo fanno e basta, sono nati così, non smetteranno finché gli batte un cuore. Non sono più allegri di te, tutt'altro: c'è chi ha un fischio nella testa, o un dolore che non passa, o un grido che gli urla in testa, una canzone da dimenticare suonandoci sopra migliaia di altre canzoni. C'è gente che balla al volante, e non sono gli autisti peggiori.

Certi film partono talmente forte che è già tanto se non vanno a sbattere. Se dopo un po' sbandano, se forano una gomma e arrivano ai titoli di coda un po' ammaccati, è comunque un piazzamento. Baby Driver parte mollando il freno a mano e sgommando in quinta: infila una delle strade più trafficate di Hollywood (il canovaccio sull'autista delle rapine) ma trovandosi una corsia tutta personale (stavolta l'autista vive in simbiosi con le sue cuffiette, in un mondo tutto suo che va a tempo con la sua playlist). Almeno per mezz'ora gira tutto che è un piacere, con certe controsterzate che strappano l'applauso. Poi comincia a perdere colpi, ma appunto: era previsto. Al punto che viene quasi il dubbio che l'effetto sia voluto, o quanto meno calcolato: che da un certo momento in poi il film stia mettendo in scena proprio la difficoltà di mantenere le attese.


Già ai tempi di Hot Fuzz era abbastanza chiaro quanto Edgar Wright fosse affezionato a quei luoghi comuni del cinema d'azione che apparentemente stava parodiando. Come quello di Tarantino il suo è un cinema al cubo, che vive di riferimenti di riferimenti, e della gioia di saperli rimettere in scena. Baby Driver è una variazione d'autore su un tema rigoroso: man mano che la storia va avanti i margini d'azione si restringono, certi snodi della trama sono quasi tappe obbligate e Wright non fa nulla per occultarcele, anzi è come se le sottolineasse (continua su +eventi!)
La svolta probabilmente è una strana scena in un parcheggio, dove un personaggio che non rivedremo più fa un lungo e discorso sulla carne di maiale, che non ha altro senso che farti pensare a certe vecchie messe in scena di Guy Ritchie - forse è una parodia, forse un omaggio (c'è differenza?) È il momento in cui Jamie Foxx, fino a quel momento quasi un cameo, prende in mano il film e apparentemente lo deraglia. Da lì in poi qualcosa si inceppa, ma non è forse quello che succede in tutti i film sulle rapine? C'è un piano perfetto e a un certo punto qualcosa che va storto. Anche Baby, che nella prima mezz'ora sembrava infallibile, di lì a poco non riuscirà più a far partire una macchina. Ci sarà ancora molta azione, e le canzoni continueranno a ritmarla, ma la freschezza iniziale è andata persa e non poteva che finire così. Baby Driver non è un film sulla perdita dell'innocenza - il personaggio di Ansel Elgort rimane immacolato anche quando si macchia di sangue - ma su un altro sintomo della crescita: la fine del senso di onnipotenza. Il musical si interrompe, le macchine non seguono più il groove, tutto crolla e chi ha deciso di seguirti, o in un momento di debolezza, di coprirti, forse ha commesso il suo più grande errore.



Baby Driver ha una trama molto semplice, portata avanti da personaggi la cui biografia si potrebbe scrivere su un tovagliolo. Questo lo aggiungo per chi nei giorni scorsi si è lamentato, per esempio, della scarsa profondità dei personaggi di Dunkirk - allora, forse è meglio rammentare che al cinema le storie durano in media due ore, nelle quali l'approfondimento dei personaggi non è sempre la priorità. Se davvero è quel che vi interessa, forse è meglio se restate a casa e vi leggete un libro - oppure vi sparate una stagione di una serie in venti puntate dove di sicuro ci sarà tanto spazio per approfondire i personaggi, sviscerarli, ribaltarli e ricomporli a piacere - viene il sospetto che chi trova il cinema superficiale, oggi, si stia aspettando qualcosa che al cinema più di tanto non si può trovare. E che da parte sua lo stesso cinema di intrattenimento stia prendendo un'altra direzione - che poi è una banale strategia di sopravvivenza: visto che non si può rivaleggiare con la serialità, si tende all'estremo opposto: alla rapidità, alla stilizzazione. Baby Driver Dunkirk sono due film diversissimi, ma accomunati dalla volontà esibita di essere oggetti cinematografici. In entrambi i casi la colonna sonora è fondamentale. Nel caso di Baby Driver, Wright mette a frutto la vecchia lezione di Tarantino: se c'è una cosa che piace agli spettatori in sala, è scoprire o riscoprire qualche vecchia canzone. Perché è vero che c'è gente che balla ai semafori: ma anche in sala, quando si spengono le luci. Baby Driver è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); ai Portici di Fossano (21:15); al Cinemà di Savigliano (20:20, 22:30).

Comments (1)

Aspettando il re, trovando una mamma

Permalink
Aspettando il re (A Hologram for the King, Tom Tykwer, 2016)


Un giorno potresti ritrovarti a vivere in una baracca dall'altra parte del mondo.
Un giorno potresti ritrovarti dietro il volante di un'enorme automobile, in una bella casa, con una bella moglie.
Un giorno potresti chiederti: ma come ci sono arrivato?

Certi film - li riconoscevi dalla locandina - servivano soprattutto a viaggiare. Per il pubblico si trattava di un'alternativa low budget a viaggi veri che non si poteva permettere: film-safari con zebre e rinoceronti e selvaggi. Certi film funzionavano così. Aspettando il re sembra voler perpetuare la tradizione, individuando in Tom Hanks l'Homo Occidentalis per eccellenza, in perenne crisi esistenziale ed economica, e calandolo in una delle mete turistiche tuttora più difficili per gli occidentali: l'Arabia Saudita (ricostruita in Egitto). La prima scena dice tutto: unico non-musulmano su un aereo di linea, mentre gli altri pregano il loro Dio Hanks sogna di vivere nel video di Once in a Lifetime, Talking Heads. Lo seguiremo in un albergo, nel fatiscente cantiere di un nuovo polo tecnologico che è ovviamente un luogo di smarrimento metafisico oltre che una metafora delle vacue velleità delle dinastie dei petrodollari. Insieme a lui cercheremo di capire come si può passare anche solo qualche giorno in un Paese in cui in teoria è vietato bere alcool; grazie a lui daremo una sbirciatina alle festicciole delle ambasciate europee e addirittura riusciremo per qualche istante a intrufolarci alla Mecca, città proibita agli infedeli. Non ci capiremo un granché, proprio come succede ai turisti veri, ma alla fine ci sentiremo comunque arricchiti. Non troveremo Dio ma magari l'amore (caccia via), proprio come in quei vecchi film con gli esploratori biondi e le dive un po' esotiche. Quest'ultima cosa magari non era prevista nell'omonimo libro di Dave Eggers, ma evidentemente lo sceneggiatore e regista Tom Tykwer ne sentiva l'esigenza.


Vogliamo anche ricordare come avevano conciato
Tom Hanks in Cloud Atlas. 
A Hologram è l'ultima aggiunta al suo catalogo, sempre più simile al risultato di un esperimento surrealista: estrarre sei film a caso da Imdb e immaginare che li abbia girati tutti lo stesso autore. Nel suo caso sono usciti: Lola corre, l'ultima sceneggiatura di Kieslowski (ambientata in Italia!), Profumo, un thriller con Clive Owen e Naomi Watts, e poi un fecondo sodalizio con le sorelle Wachowski, con cui ha realizzato Cloud Atlas e la serie Sense8. Dopodiché avrebbe davvero potuto girare qualsiasi cosa, noir thailandesi o documentari sull'Amazzonia. In questo senso A Hologram è un viaggio deludente, non tanto per la destinazione, ma per il punto di vista che sceglie di adottare che è quello dell'occidentale in assoluto più standard e spaesato: l'Americano... (continua su +eventi!)



La storia del manager in trasferta, oberato dai sensi di colpa per aver collaborato alla delocalizzazione e allo smantellamento del Made in USA, sembrava già un po' datata quando uscì il libro - cinque anni fa: ora, con la disoccupazione statunitense in costante calo, suona sinistramente affine a certe tirate elettorali di Trump. All'angoscia vagamente beckettiana evocata da Eggers, Tykwer sovrappone la sensibilità paranoide che ha mutuato dalle sorelle Wachowski; in un paesaggio che è già surreale di suo, tra deserti e grattacieli, non serve molto per suggerire che il venditore di ologrammi Hanks sia vittima di un gigantesco scherzo, un meta-ologramma. Ma chi si aspetta un finale sconvolgente e rivelatore si prepara a una delusione: a un certo punto è come se sulla sceneggiatura fosse caduto un po' di zucchero, se non un'intera zuccheriera. Tykwer sembra sinceramente preoccupato non soltanto per il suo protagonista stanco e disperato, ma per tutti i cinquantenni che lo hanno seguito per più di un'ora, condividendone ansie e disagi a dire la verità più americani che universali (il college della figlia, status irrinunciabile!)


Alla fine non si tratta più di portare in viaggio gli spettatori, ma di confortarli: quella cisti non è necessariamente un tumore, quell'affanno è più panico che infarto; gli affari possono andare male, non è la fine del mondo: e anche i matrimoni, ma se guardi bene da qualche parte c'è già qualcuno disposto a medicarti e consolarti. È un film che in sostanza smette di guardarsi intorno e comincia a cercare la mamma: ma almeno la trova incarnata nelle forme antihollywoodiane di Sarita Choudhury. Vent'anni fa era la Tara di Kamasutra: oggi ne ha cinquanta, è una bellissima signora e non è affatto difficile capire perché l'uomo-Tom Hanks si senta attratto da lei. Quello che alla fine della visione rimane non spiegato è cosa possa aver trovato lei in un americano spaurito e senza direzione. Nei film di una volta sarebbe stata una domanda inutile: l'uomo bianco era affascinante in quanto bianco. Aspettando il re è al cinema Monviso di Cuneo da giovedì 31 agosto a martedì 5 settembre alle 21.
Comments

Charlize Theron pesta Berlino

Permalink
Atomica bionda (Atomic blonde, David Leitch, 2017).

Che cast però.
Immagina per un attimo che gli USA e l'URSS avessero vinto la Seconda Guerra Mondiale, spartendosi l'Europa in due blocchi, a est e a ovest di Berlino; a quel punto avrebbero avuto entrambi la bomba atomica e quindi non avrebbero più potuto dichiararsi guerra. Immagina, come conseguenza, un lungo periodo di tregua armata, in cui alle grandi battaglie di massa si sarebbero sostituiti degli scontri simbolici - come ai tempi dei duelli epici, Paride contro Menelao, gli Orazi contro i Curiazi. Gli eroi protagonisti di questi combattimenti, uomini e donne esperti in ogni arte di combattimento e in ogni sotterfugio, li avremmo chiamati "spie", anche se alla fine non è che avrebbero spiato un granché - più che altro si sarebbero spiati a vicenda, in un gioco a somma zero. Qualche scrittore molto presto si sarebbe messo a raccontare le loro straordinarie avventure, senza preoccuparsi di esagerare. Ne sarebbe derivata tutta una letteratura epica, e poi naturalmente romanzi e film, che a furia di nutrirsi dello stesso immaginario che coltivavano avrebbero reso questa Europa immaginaria in un qualche modo concreta, più coerente di quella vera: un sogno ma tutt'altro che effimero, come la Grecia dei miti o il Far West, sognati da miliardi di persone. Al punto che ne avremmo avuto nostalgia, e un puerile desiderio di averci vissuto davvero, invece di vivere in... già, dove abbiamo vissuto noi?

Speriamo sia make up.
Charlize Theron, nel 1989 in cui crollò il Muro, aveva 14 anni. Adesso ne ha più di quaranta ed è una diva di serie A. Da cosa si capisce? Dalle botte che prende. Certo, ne dà anche parecchie. Atomica Bionda è tra l'altro il film in cui la vediamo uccidere i cattivi a mani nude. Ed è credibile: si fa una certa fatica viceversa a immaginare che un attore possa sopravvivere ai colpi che la Theron tira aiutandosi con quel che trova sul momento - un portachiavi, un fornellino elettrico, un tacco che per un attimo ti aspetti nasconda un qualsiasi gadget da James Bond e invece no, è un semplice tacco neanche troppo appuntito. Ma quello che fa davvero la differenza tra Atomica e altri film di spie più o meno seri (negli ultimi anni c'è stata una renaissance del genere, anche se il pubblico non sembra sempre entusiasta) sta nei lividi, nel sangue; nell'occhio nero con cui il suo personaggio si presenta ai suoi capi e al pubblico all'inizio del film; nel ghiaccio che usa per alleviare il dolore. Nell'abolizione di quella convenzione cinematografica per cui dopo una botta bene assestata l'avversario resta al tappeto in coma vigile - no, in Atomica bionda o muori o ti rialzi, e pare che morire non sia poi così facile.


L'ufficio stampa ci aveva preventivamente spiegato che la Theron, mentre si allenava a incassare sul set, "vomitava praticamente tutti i giorni", che a un certo punto ha perso un dente. Atomica Bionda è un progetto suo: è stata la sua società di produzione a scegliere la graphic novel, a farla riscrivere su misura (la protagonista del fumetto non era nemmeno bionda), a convincere il secondo regista di John Wick ad abbandonare John Wick 2 per girare un film non così diverso. Atomica Bionda è un film voluto, interpretato e scolpito a mani nude sulla carne viva da Charlize Theron, e la cosa non avrebbe dovuto stupirmi così tanto - se solo riuscissi a liberarmi dalla mia prediletta immagine mentale della Theron, che è ancora quella della bambolona riccioluta che sta con Keanu Reeves all'inizio dell'Avvocato del diavolo; se almeno riuscissi a ricordare che la stessa bambolona, in quello stesso film, si trasformava in qualcosa di totalmente diverso, un corpo già slavato e dolente - allora potrei rendermi conto che Atomica Bionda non è semplicemente il film dell'ennesimo divo/a che passata la soglia dei 40 anni (50 per i maschi) si mette a cercare nei ruoli action una seconda giovinezza: che è anche il punto di arrivo coerente di un'attrice che ha sempre lavorato sul proprio corpo, riempiendolo e svuotandolo, rompendolo e riparandolo (continua su +eventi!)

Queste cose nei miei anni Ottanta non si vedevano! (maledizione).
Qualcosa di simile a quello che ha fatto negli ultimi anni Scarlett Johansson? O forse l'esatto contrario. La Johansson lavora per sottrazione: toglie il volto, toglie la pelle, toglie il corpo, come se volesse domandare al pubblico: cosa ti piace di me davvero? La Theron non toglie niente, incassa tutto. A ben vedere lo ha sempre fatto, e ora che può scegliersi i ruoli lo farà ancora di più. Atomica Bionda è un film centrato su di lei, plasmato su di lei, ambientato in una Berlino anni Ottanta che malgrado ogni sforzo filologico sembra finta; messa in scena da scrittori, fotografi e trovarobe scrupolosi ma che sembrano non averli vissuti, quegli anni, né a Berlino né in Europa né sul pianeta Terra: sembrano alieni arrivati almeno dieci anni dopo, molto coscienziosi eppure la loro ricostruzione suona falsa lo stesso. È difficile spiegare perché. Ci si sente come si sarebbe sentito Buffalo Bill davanti ai primi film western, ammesso che ne abbia mai visti.

   

Non è una questione di dettagli, quelli sono tutti al posto giusto, eppure... metti Sofia Boutella. È brava, ha quella sua bellezza insolita che ricorda qualche vecchia esotica Bond girl; il suo ruolo ha un senso, eppure sembra lo stesso lì per caso. Prendi James McAvoy. È bravo. È sempre stato bravo. Ma può essere un veterano del MI6 a Berlino nel 1989? Qualcosa non va e non è il taglio dei capelli, né il giaccone, né qualsiasi altro dettaglio. È che un tizio così, negli anni Ottanta che mi ricordo io, non esisteva. Il suo modo di muoversi, di raccontarsela, di mantenere un'apparenza giovanile in una storia che non lo prevede... Così come non esisteva ancora, negli Ottanta che ricordo io, il lesbismo soft patinato di Atomica bionda, che dieci anni dopo era già un luogo comune. Non che abbia molta importanza: prima o poi era inevitabile che gli Ottanta diventassero un decennio immaginario, come gli anni Venti dei film di Gangster e l'Ottocento del Far West - un mondo fantastico ottenuto sovrapponendo gli oggetti trovati qua e là nei mercatini: la breakdance sulle note di 99 Luftballons, i New Order e Siouxsie. Non c'è neanche da prendersela, se non col tempo che passa e si lascia sempre più alle spalle i nostri ricordi: ma passa anche se ce la prendiamo. Forse dovremmo andare anche noi in palestra, prendere a pugni un attrezzo finché non va al tappeto, o non ci andiamo noi. Atomica bionda è un film di spie che si prendono a mazzate e Charlize Theron è la più tosta di tutte. Il cast è clamoroso. Tra una scena d'azione e l'altra c'è anche una trama non troppo stupida, anche se al cinema, con la musica a palla, è un po' difficile seguirla. Le mazzate invece si sentono benissimo. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Vittoria di Bra (20:00, 22:30); al Multilanghe di Dogliani (21:30) e all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15).
Comments (1)

Ignoranti e felici, il film

Permalink
Beata ignoranza (Massimiliano Bruno, 2017)


Riuscireste a vivere due mesi senza connessioni internet? Sì, ma sarebbe un po' scomodo. Se non aveste mai usato internet, riuscireste a diventarne dipendenti nel giro di una settimana? È abbastanza improbabile. Ve li immaginate Giallini e Gassman professori di liceo, uno tecnopatico e l'altro entusiasta digitale, che si scambiano i ruoli? Uhm, in realtà no. Ecco, beh, non ci sono riusciti neanche gli sceneggiatori di Beata ignoranza: non esattamente gli ultimi arrivati, eppure.

In questi giorni sulla mia bacheca Facebook non fanno che parlare di Sarahah. Da quel che ho capito si tratta di un social network che ti consente di ricevere e mandare messaggi anonimi agli altri utenti. Lo ripeto perché secondo me è fortissimo: in questi giorni stanno tutti provando un nuovo servizio on line che - straordinaria novità! - ti fa sentire l'ebrezza di ricevere e mandare messaggi anonimi. Sono quelle cose che mi fanno sentire decrepito, perché mi ricordo ancora bene quando tutta internet era così, un posto di anonimi che si mandavano messaggi (l'anno scorso Facebook mi ha sospeso perché il mio secondo nome non gli risultava) (in effetti il mio secondo nome, tra Leonardo e il mio cognome, era Blogspot, e finché non l'ho cancellato non mi ha riaperto l'account, che evidentemente deve combaciare con quello che risulta all'anagrafe, il che è abbastanza inquietante: avrei potuto sbattere la porta e andarmene, ma la verità è che senza il mio account Facebook ormai farei persino fatica a lavorare) (sì, a lavorare a scuola).

La vignetta più riprodotta del New Yorker è del 1993.
Dice: "Su internet, nessuno sa che sei un cane".
Ho tirato fuori Sarahah e Facebook non perché non abbia voglia di parlare del film - alla fine è un film interessante, per quanto sballato - sembra concepito da qualcuno vecchio come me, salvo che dopo essersi preso male coi blog anonimi verso il 2004 ha chiuso il pc per sempre e non ha più cambiato la sua idea di internet. E nel 2016 ci ha scritto un film. In cui Marco Giallini interpreta un professore che non è mai stato on line in vita sua e per carità, esistono, ne conosciamo tutti, è più che giusto mostrarli nei film. Questo professore dall'oggi al domani, per una scommessa, viene dotato di adsl, di account sociali e quant'altro ed evidentemente anche di amici e followers, perché dopo una settimana sta già chattando a tutt'andare. Un po' curioso, ma si sa che nelle commedie si esagera, no? L'idea portante del film doveva essere appunto questa: mostrare un tizio che diventa dipendente da internet nel giro di pochi giorni (mentre il suo rivale speculare, Gassman, dovrebbe fare il percorso inverso). Era una idea interessante? Magari sì, ma a un certo punto qualcosa dev'essere andato storto, e basta vedere dieci minuti di film per accorgersene.

È un film veramente strano. Sembra essere stato masticato, risputato e rimesso nel vassoio da un cameriere impassibile - che purtroppo è Massimiliano Bruno, da cui sembra ovvio aspettarsi di più. Per dire: tutto comincia con una scena in cui Gassman e Giallini litigano in classe - davanti ai loro studenti! che riprendono tutto col cellulare! Dovrebbe essere lo snodo fondamentale, la crisi da cui scaturisce tutta la storia, epperò in quel momento i due attori principali non sono credibili. Si prendono a male parole, ma c'è qualcosa che stona ed è strano, è chiaro che nessuno dei due è Lawrence Olivier, ma qui sono davvero al di sotto dei loro standard professionali. Più tardi scopriremo che l'effetto era voluto: non stanno litigando davvero, bensì stanno rimettendo in scena un loro litigio precedente; cioè stanno recitando nel ruolo di due attori. Ma non sono bravi attori - cioè, no, Giallini e Gassman sono ottimi attori, ma i loro personaggi no, sono due ex filodrammatici, insomma se uno ha la pazienza di aspettare 80 minuti scopre che all'inizio stavano recitando bene il ruolo di chi recita male. Il problema è che al cinema è anche una questione di imprinting: se tu all'inizio vedi dei cani, ci resti male, e la tua voglia di dare una chance al film ne risente.


Da quel litigio parte la scommessa: Gassman deve rinunciare a smartphone e adsl, Giallini deve cominciare a usarli. Ora non importa tanto che lo sforzo degli autori di rendere una sfida del genere credibile porti viceversa il film nel Reame del Più Contorto Inverosimile (la figlia di uno dei due, non è chiaro di quale, fa la regista! e decide di fare un documentario sulla sfida! Appassionante, no?) Il guaio è che appunto il film sembra scritto da qualcuno che si è disintossicato da internet una decina di anni fa e da allora lo guarda un po' da lontano, con sospetto, come i vegani trascinati in un ristorante di pesce. C'è un preside tutto orgoglioso perché il suo liceo è diventato "smart" grazie all'adozione del registro elettronico! Che roba, eh? Peccato che il registro elettronico sia obbligatorio in tutte le scuole pubbliche da un paio d'anni. Ma più in generale: quali sono le cose che facciamo quotidianamente, oggi, grazie a internet? Le prime che mi vengono in mente: usiamo le mappe stradali. Recensiamo qualsiasi cosa. Manteniamo i contatti con gente che avremmo perso di vista da un pezzo. Incontriamo gente che non avremmo mai potuto conoscere, con la quale condividiamo interessi. Possiamo lavorare a Ferragosto, anche se siamo al mare, come sto facendo io. E i giovani, mi dicono, guardano molto più porno (continua su +eventi...)


Giallini non consulta mappe, porno men che meno, non compra né vende né scrive recensioni (si prende solo venti secondi per stroncare Tripadvisor in toto), non riallaccia nessun contatto, non si pone neanche il problema di come usare internet nel suo ambito professionale. Però si mette a giocare con un suo allievo ripetente a uno sparatutto per playstation. Da professore a gamer in punto in bianco... e va bene, le commedie esagerano. Che altro fa? Corteggia una sua collega... con un nick anonimo. Nel 2017. Non so. È come usare la macchina per attraversare la strada. Se non avessi mai usato facebook, qual è la prima cosa che farei? Storicamente, un sacco di gente cercava gli ex compagni del liceo, e poi è restata perché ha trovato vecchi amici e se ne fa di nuovi. Non sarebbe stato più credibile che Giallini si mettesse a cercare vecchie fiamme, o scoprisse anime gemelle a migliaia di chilometri di distanza? Devi usare facebook per scrivere i bigliettini? Qualcuno lo usa ancora così?

Secondo me no, ma forse non ha nemmeno così senso discuterne. Credo che i primi ad aver capito che la premessa non funzionava sono stati gli stessi autori, che probabilmente hanno riprovato a riscriverlo, a ritagliarlo, a rimontarlo, e poi forse c'era una scadenza in ballo e semplicemente hanno lasciato che Giallini e Gassman gigionassero a piacere, in barba a qualsiasi vaga pretesa di verosimiglianza (si odiano da una vita, non si vedono da 25 anni e al primo problema uno ospita l'altro in casa). Il risultato è un film molto più borisiano di Boris - o magari dello stesso genere del film nel film di Boris, Natale con la Casta: ci sono sequenze quasi surreali, a volte anche molto sofisticate, che portano avanti una trama risibile; situazioni drammatiche ai limiti della tragedia e oltre buttate lì come se fossero gag da cartone animato (a un certo punto esplode una casa); siparietti scolastici che in qualsiasi scuola vera provocherebbero ispezioni e licenziamenti (nella scuola di Beata ignoranza è prassi comune schiaffeggiare gli studenti); c'è persino lo spettro di una defunta moglie amante e madre interpretata proprio da Carolina Crescentini, icona di Boris. Ci sono, soprattutto, un paio di caratteristi che si fanno le canne dall'inizio alla fine del film, il che non è affatto inverosimile, anzi, ma assume un senso preciso nel momento in cui ci rendiamo conto che in realtà sono i due personaggi più lucidi: come se il film fosse visto secondo il loro punto di vista e probabilmente è andata davvero così. Probabilmente c'era un'idea interessante che stava evolvendosi in un film inutile, una scadenza importante che cominciava a mettere ansia, qualcuno che aveva parecchia maria in casa e ha iniziato a distribuirne, e così insomma alla fine ne è uscito un film un po' così. Però simpatico. Gli attori sono molto simpatici. Non si capisce nemmeno chi vince la scommessa, cioè si capisce che la scommessa non era così importante, l'importante è voler bene a chi ami anche se non fa sempre figli con te. Inoltre farsi le canne è meglio che andare su facebook, e vabbe', non è il messaggio più reazionario del mondo in fin dei conti. Dai dai dai.

Beata ignoranza si può vedere gratis a Bra il 17 agosto in via Sobrero, alle 21:30, in occasione della Rassegna itinerante di cinema d'autore. Altrimenti il 25 agosto a Limone Piemonte (ore 21:15). Oppure su Youtube a partire da €3,99.

Comments (4)

Uno psicanalista a Roma (un altro)

Permalink

Lasciati andare (Woody Allen, 2016)

Elia Venezia (Toni Servillo) è uno psicanalista che ha bisogno di perdere chili. Claudia (Verónica Echegui) è una personal trainer che ha bisogno di mettere ordine nella propria vita, ma che non può evitare di sconvolgere quelle di chi incontra. Se fosse un film, non potrebbero che incrociarsi. Ah, ma è davvero un film! E di Woody Allen! Di nuovo a Roma, stavolta nella magica cornice del Ghetto! Una commedia che è una sarabanda di trovate, dove si riflette ma si ride anche a crepapelle, e finalmente si rivede in forma il Maestro! Magari, in realtà no.

Lasciati andare (Francesco Amato, 2016)

Elia Venezia (Toni Servillo) è uno psicanalista. Si capisce perché assomiglia non tanto a Freud (calvo, la barba bianca, a un certo punto gli mettono in bocca pure il sigaro) ma alle vignette di Freud. Anche i suoi pazienti continuano a sembrare macchiette dei pazienti degli psicanalisti delle barzellette, secondo una tradizione cinematografica italiana che data almeno da Caruso Pascoski e prosegue, purtroppo, nei tardi film di Moretti (mi ricordo che una volta, credo da Fazio, Moretti ammise che nessuno nel suo staff di scrittori era mai andato in analisi, e questo succedeva dopo che erano usciti già almeno due film in cui Moretti interpretava uno psicanalista, che vorrei dire: almeno un po' documentarsi, no? cosa può costare prendere cinque-sei appuntamenti, giusto per capire come funziona? Beh in effetti può costare parecchio, ma non varrebbe la pena? Uno si sdraia, no guardi dottore non ho nessun problema serio, volevo soltanto fare un po' di esperienza perché sto scrivendo un film e non vorrei cadere nei soliti stereotipi? - Tempo tre sedute e stai già confessando che a tredici anni avevi ideato l'omicidio perfetto, ovviamente di tuo padre). (Anche in Lasciati andare, come in Habemus Papam, l'ex moglie dello psicanalista è psicanalista a sua volta - in questo caso è Carla Signoris, che fa piacere rivedere al cinema).


Francesco Amato ha diretto tre film in dieci anni. Il primo (Ma che ci faccio qui!) era la storia fresca, sorprendente, di un ragazzo che scappa da Roma per fare il giro del mondo ma si ferma alla prima spiaggia; il secondo (Cosimo e Nicole) è la storia fresca, sorprendente, di due ragazzi che si incontrano al G8 di Genova e di quel che combinano in seguito. Lasciati andare è il suo terzo film ed è una delle commedie italiane migliori dell'anno. Però non è fresca, né sorprendente.

Francesco Bruni è lo sceneggiatore storico di Calopresti e soprattutto di Paolo Virzì, passato alla regia con Scialla, Noi 4 Tutto quello che vuoi. Nel 2016 ha scritto, con Francesco Amato e Davide Lantieri, Lasciati andare. È esagerato affermare che da una squadra di autori del genere potevamo aspettarci di più di una commedia che, in effetti, gira che è un piacere ed è divertente il giusto, ma sembra approfittare di qualsiasi luogo comune cinematografico e narrativo che incontri sulla strada? Non bastava trasformare Servillo in un sosia di Freud che consiglia best-seller e ipnotizza i pazienti; bisognava anche affiancargli la pur brava Verónica Echegui nel ruolo della classica Manic Pixie Dream Girl, quel personaggio femminile che esiste soltanto nelle sceneggiature e ha il preciso scopo di dare una scossa al personaggio maschile? E se la scelta di ambientare la storia nel Ghetto era almeno qualcosa di originale, valeva proprio la pena caratterizzare il protagonista come uno spilorcio? Ma in generale: oltre allo psicanalista freudiano-quindi-ebreo-quindi-avaro, abbiamo una personal trainer solare e un po' pazza, e infatti spagnola; un capoverdiano che vende il fumo, un brutto ceffo dal coltello facile e l'accento balcanico, un lombardo carrierista e antipatico (Giacomo di Aldo Giovanni e Giacomo) e... un centravanti un po' scugnizzo e criptogay - questo a ben vedere è un luogo comune invertito, ormai banale quanto il luogo comune normale. L'unica scelta un po' originale è il rapinatore balbuziente di Luca Marinelli, che compare soltanto nel terzo atto e non a caso si porta a casa il film. E tuttavia.

Tuttavia alla fine Lasciati andare è un film divertente; Servillo è in forma (e non è meno macchietta che in altri prodotti più blasonati), la Echegui è davvero in parte, la storia è un po' prevedibile ma funziona. Forse il vero test per una commedia del genere sarebbe quello di Woody Allen: ovvero immaginare che cosa direbbero i critici di un film come Lasciati Andare se lo avesse girato lui. Secondo me sarebbero entusiasti. È vero, psicanalista e pazienti sembrerebbero quelli delle vignette, ma non è sempre stato così con Allen? È vero, più che spiazzare gli spettatori la storia sembra andare incontro alle loro attese, ma non è il tratto tipico di tanti film dell'ultimo Allen? La principale differenza è che Lasciati Andare si sarebbe visto in molte più sale e avrebbe incassato assai di più. Lo si può rivedere comunque a Cherasco venerdì 11 agosto, al cortile di Palazzo Gotti di Salerano (ore 21:30); l'ingresso è gratuito e il regista sarà ospite! Altrimenti venerdì 18 e venerdì 25 agosto alle 21:00 al cinema Sangiacomo di Roburent.
Comments (5)

Spiderman è tornato alla Casa

Permalink

Spider-Man: Homecoming (Jon Watts, 2017)

C'era una volta un supereroe così smagliante, così perfetto, che volle sfidare Atena: vediamo chi tesse la storia più avvincente. Invano Atena cercò di ricordargli i precedenti: guarda che chi sfida gli Dei casca malissimo. Eh ma io non casco mai! disse il supereroe, è impossibile! E fu proprio così. Quando vide la sua storia, Atena strabuzzò i suoi larghi occhi: era la migliore mai tessuta, persino le Parche in tanti eoni non avevano mai concepito roba del genere. E tuttavia chi sfida gli Dei va punito: pertanto Atena condannò il supereroe a rivivere quella storia per sempre. Ogni cinque, massimo ogni dieci anni, un narratore o una major cinematografica lo avrebbero fatto ricominciare da zero: di nuovo si sarebbe trovato in quel laboratorio di chimica e sarebbe stato morsicato da un ragno radioattivo, e suo zio sarebbe morto assassinato eccetera eccetera, nei secoli dei secoli dei secoli. Hai scritto la storia migliore? Non te ne libererai mai. 

Non è Octopus e non è Venom; non è nessuno dei trentadue goblin. Non è J. J. Jameson (che ci manca tantissimo, torna JJJ). Il peggior nemico dell'Uomo Ragno, da sempre, è sé stesso. No, non il suo clone (ma è indicativo che nessun altro supereroe abbia avuto tanti problemi coi cloni). Proprio sé stesso. Il suo essere, banalmente, il miglior supereroe possibile. Quello che salta tra i grattacieli e schizza ragnatele: non ce n'è uno più spettacolare di lui, né sulla carta né sullo schermo. Se ci fosse lo sapremmo, perché è da mezzo secolo che ci provano. Spidey piace perché è un insetto? Hanno provato con qualsiasi altro insetto. O forse piace perché è un ragazzino? Hanno provato con tanti altri ragazzini. Sarà l'ironia? Abbiamo avuto ondate di supereroi ironici, ma niente da fare. Abbiamo avuto anche un milione di variazioni sul tema: dozzine di Donne Ragno e Uomini Ragno potenziati. Ultimamente va forte uno Spiderman nero - per dire, la gente che si lamenta che Zia May nel film è troppo giovane, li legge i fumetti? Lo sa che nei fumetti esistono Zie May giovani, Spidermen neri, Peter Parker in pensione? Per dire che le hanno provate veramente tutte. Niente.

Non riescono a cambiare nemmeno il costume. Steve Ditko lo inventò nel 1963, e in capo a un anno si era già stancato di disegnarci le ragnatele. Hanno provato a semplificarlo, a renderlo più d'impatto: niente da fare. Alcuni costumi di Spiderman sono diventati dei personaggi a sé, ma Spidey resta rosso e blu. Ormai quando prova a cambiare costume lo sai già, che è solo una finta per far impazzire i lettori.

The Amazing Spider Man, #1 Annual 

Il peggior nemico di Peter Parker non è Elektro e non è senz'altro l'Avvoltoio, quel poveraccio. Il peggior nemico di Spiderman è il suo successo. Il suo creatore pensava a un supereroe con superproblemi, ma come fai a essere credibile se qualsiasi tua versione va a ruba, il tuo merchandising è una solida certezza, e al cinema vorrebbero farti un film all'anno? Come fai a sembrare fresco come un teenager, dopo cinquant'anni di produzione industriale? Come fai a ripresentarti dopo 15 anni e cinque film e dire, ehi, azzeriamo tutto per la terza volta, sono di nuovo un semplice liceale che scopre di restare attaccato ai muri?

Ma soprattutto: come fa la Marvel a non sbagliare un colpo? (Continua su +eventi!)

Ma soprattutto: come fa la Marvel a non sbagliare un colpo? A riprendere un eroe oggettivamente un po’ consumato – gli ultimi due episodi Sony non erano andati benissimo – e a ridargli vita come se fosse un concetto appena inventato? Come fa a inserirlo in una saga cinematografica già pesante e sfaccettata come quella degli Avengers, riuscendo però a suggerire forte e chiaro il messaggio che Spiderman sarà sempre un’altra cosa, una cosa un po’ a parte (una dinamica non troppo diversa da quella dello Spidey originale coi Fantastici Quattro)? Ammettiamolo, è un po’ irritante il modo in cui la Marvel sembra sempre arrivare al risultato – e senza darci nemmeno la consolazione di gridare al colpo di genio, perché non c’è niente di geniale in Homecoming: c’è solo il lavoro di squadra di un pool di sceneggiatori che sa fare il suo mestiere e non disprezza il suo pubblico. Uno degli aspetti più appariscenti dell’operazione – il ringiovanimento di Zia May – sembra alla fine più un trucco per attirare un po’ di polemica fine a sé stessa: Marisa Tomei è ovviamente perfetta, ma è dosata con il contagocce. Una trovata brillante è quella di riassumere la puntata precedente (il siparietto di Spidey in Civil War) con la sintassi di Youtube. Nota l’abissale differenza con Suicide Squad e la sua mezz’ora di preambolo in formato trailer: mentre la Warner tratta gli adolescenti come bimbominchia a cui somministrare riassuntini, Homecoming si pone il problema di capire come si raccontano, oggi, i liceali: con quali mezzi, con quali risultati. Perché ogni generazione ha le sue differenze, anche se a una certa distanza non sembrano un po’ granché, se lavori per loro queste differenze sono importanti. La Marvel lo sa, ma non si dimentica nemmeno tutti i quaranta-cinquantenni che continuano imperterriti a entrare al cinema a vedersi i suoi film. Quelli che forse non avevano più voglia di vedere per l’ennesima volta lo zio Ben morire, ma a tante altre cose non saprebbero rinunciare.

E la Marvel gliele dà. C’è una breve scena – quella dell’ascensore – che dà le vertigini per la quantità di riferimenti che contiene in pochi secondi. Quando vediamo l’inesperto Spiderman tentare il salvataggio della sua bella che precipita, non possiamo non pensare a Gwen Stacy. Quando un attimo dopo si trovano tête-à-tête – lui ovviamente in posizione invertita – qualcuno sussurra “baciala” e non possiamo non pensare a Tobey Maguire e Kirsten Dunst. Non sono inutili strizzate d’occhio: la scena è spettacolare e funziona, probabilmente, anche per chi tutti questi precedenti non li conosce; ma chi ha già qualche dimestichezza con Spidey si sentirà più in ansia quando Liz cade; e sta già dicendo “baciala” prima che si senta forte e chiaro. Se Spidey è condannato a rivivere la stessa storia ogni tot anni, noi possiamo ogni volta trovarci a nostro agio e scoprire qualcosa di più, qualcosa di meglio. È questa semplice, banale cosa che alla Marvel hanno capito. Forse perché a cucinare gli stessi personaggi da cinquant’anni ci sono abituati. Homecoming non è un capolavoro – nemmeno ci prova: si ferma di fronte a certi punti fermi quasi con riverenza: costruisce una scena notevole come quella del traghetto che sembra fatta apposta per farti pensare: non sono ancora lo Spiderman di Raimi che salvava quel treno sul binario sospeso e poi veniva salvato dai passeggeri; ma sto crescendo, dammi il tempo di fare i miei disastri e vedrai.

Anche se la trovata migliore del film resta il riscatto dell’Avvoltoio. Michael Keaton trasforma uno dei personaggi più patetici dell’universo Marvel – la tipica invenzione che Stan Lee poteva buttar giù in cinque minuti al gabinetto – un antieroe spaventosamente simpatico, che ha quasi il compito di mettersi tra noi genitori e Spidey: non provateci neanche, dice Keaton, i giorni in cui vi potevate immedesimarvi in un Tobey Maguire sono finiti. Oggi voi somigliate a me. Vi sentite presi a pugni dal sistema e fareste qualsiasi crimine per garantire ai vostri figli un futuro migliore. Keaton non ruba il film al suo eroe – la Marvel è troppo sgamata per commettere un errore del genere – ma è il primo villain della Casa che avremmo voglia di rivedere in un sequel. E se le cose vanno così non dovremo nemmeno aspettare molto. Nel frattempo Spiderman: Homecoming è ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:00), al Fiamma di Cuneo (21:10) e al Multilanghe di Dogliani (21:30).

Comments (2)

Il destino è già scritto (ma è comunque un casino)

Permalink


2:22 - Il destino è già scritto (2:22, Paul Currie, 2017).

Quanti aeroplani atterrano e decollano da New York in un giorno? Quanti incidenti avvengono negli incroci di Manhattan? Quanta gente si è sparata alla stazione Grand Central, se non dal vero almeno nei film? Quante stelle esplodono ogni giorno nella galassia? E se dietro tutti questi avvenimenti ci fosse uno schema? Non sarebbe comunque uno schema troppo complicato?

Dylan Boyd (Michiel Huisman) è un controllore di volo al JFK, con la mania dei pattern. Dietro a ogni avvenimento quotidiano ha sempre la sensazione di intravedere un pattern. Non uno schema, non un disegno; la versione doppiata dice proprio così: pattern. Si vede che era intraducibile, boh. Boyd li vede dappertutto. Infatti a un certo punto un suo collega gli ricorda: ehi, lo sai come chiamano quelli che vedono i pattern?

Grand Central ha già qualcosa di metafisico.

Al che Boyd sbuffa, cambia argomento, ma l'interrogativo rimane: come si chiamano? Googlando poi a casa ho scoperto che si tratta di Apofenia; che è un'ossessione assai affine alla Pareidolia (questa la conoscevo), e che è tipica di chi è portato a notare le coincidenze ma non a considerarle davvero coincidenze, bensì parte di uno schema, un disegno, insomma un pattern. E dunque, così come ogni buon thriller sin dai tempi di Hitchcock è incentrato su una psicosi; se per dire Babadook era un film sulla depressione post-partum (e in generale sulla sindrome dell'impostore di molte madri), Get Out sull'invidia etnica... 2:22 è un film sull'apofenia. La stessa sindrome che a mezza estate mi fa andare per cinema a cercare qualche film un po' irregolare, qualcosa che mi dia un certo tipo di brivido ma che mi faccia anche pensare, alla Predestination: film che assomiglino a puntate lunghe di Ai confini della realtà: ma ho la sensazione che si stiano facendo sempre più rari. È un peccato, perché io in questo periodo dell'anno ho proprio bisogno di vedere cose del genere. Non so perché, sarà un pattern...

Lei si chiama Teresa Palmer e spero di rivederla in film più interessanti.
Oppure: ieri è mancato Martin Landau, e Attivissimo ha notato che i commossi necrologi pubblicati su molti giornali contenevano tutti la stessa informazione sbagliata: il che significa che tutti la copiavano dalla stessa fonte. La cosa curiosa è che qualche anno fa successe la stessa cosa con Lelio Luttazzi, proprio nella stessa settimana dell'anno, e fui io a notare il fenomeno. Curioso, no? Sarà un pattern? (o sarà che in luglio nelle redazioni c'è ancora meno gente del solito e si scopiazza a tutt'andare?) Insomma i pattern sono veramente interessanti e non è che 2:22 sia il primo film che li scopre (lo stesso Hitchcock con La donna che visse due volte stava affrontando la questione). Semmai il problema è che ne infila troppi, creando un grado di complessità che non è poi in grado di sbrogliare: un tipico problema della fiction recente, sia al cinema che in tv. Ci sono le costellazioni e gli incidenti stradali, le rotte aeree e i fatti di cronaca, e dopo un po' si perde un filo. Anche i riferimenti ad altri film sono troppi (si va dal Giorno della marmotta all'Esercito delle 12 scimmie), e finiscono per suggerire l'insicurezza degli sceneggiatori e del regista. Il risultato è confuso, e malgrado l'impegno degli attori si dimentica quasi subito. È un peccato, perché pochi film come 2:22 riescono a restituire l'impressione di vivere in una grande metropoli moderna, un meccanismo apparentemente caotico che invece ogni giorno ti regala lo spettacolo di qualche incredibile coincidenza che forse non lo è, forse è il risultato di un'altissima forma di sincronizzazione. E almeno ho scoperto cos'è l'apofenia.

2:22 è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:40), al Fiamma di Cuneo (21:10) e all'Italia di Saluzzo (20:00): sconsigliato a chi ha paura di volare.

Comments (2)

La mummia contro Tom Cruise

Permalink
La mummia (Alex Kurtzman, 2017).

"Tom Cruise, la MUMMIA" (ma solo io ci sento l'ironia?)
Nessuno resiste al suo sguardo, nessuno sa opporsi alla sua parola. Giace da ere immemori, in una tomba che non è una tomba, ma una prigione. Imbalsamato vivo, per le sue colpe e affinché il suo orrore sia per sempre occultato ai mortali. Eppure non è lontano il giorno in cui ancora una volta il suo non-sonno sarà disturbato. Qualcuno ancora una volta ritroverà la cripta; qualcuno, per scommessa o per necessità, alzerà il sarcofago e farà la sua proposta:
"Salute a te, divino Mapother Quarto".
"Chiamami pure Tom, come butta?"
"Senti, io rappresento l'Universal, sai, quelli che hanno i diritti dei mostri classici".
"Volevate fare un film su di me?"
"...non proprio, no, volevamo fare un film in cui tu affronti un mostro classico".
"Perché, io non sono un mostro classico?"
"N-non ancora".

---

Alex Kurtzman ha detto di aver scelto Sofia Boutella per gli occhi; che non importa quanti effetti e computergrafica ci sarebbe stata intorno: il pubblico l'avrebbe guardata negli occhi. È una cosa molto bella da dire ed è persino un po' vera. La Boutella è una mummia struggente; per quanto crudele, riesce in un qualche modo a farti empatizzare - in pratica, riesce a soggiogarti. Tinta di blu, avvolta in cartapecora, truccata da cadavere, sembra comunque più umana di Thomas Cruise Mapother IV, Tom Cruise per i mortali.

---

"Hai ucciso tuo padre!"
"Sì però lo amavo. Volevo che mi ammirasse".
"Hai ucciso sua moglie... e il bambino!"
"Erano tempi diversi".
(Come fate a riconoscere un vero mostro? A uccidere i bambini sono tutti buoni, ma il vero mostro si giustifica col relativismo culturale).

---


No, adesso, sinceramente: secondo voi come andrà a finire con Tom Cruise? Perché un giorno o l'altro dovrà finire. Come la civiltà. Spero un po' prima. Cioè non ho niente contro Tom Cruise, davvero, grande attore e personaggio - però a un certo punto bisognerà porsi il problema: può invecchiare? Ne è in grado? E noi possiamo accettarlo? Internet dice che ha 55 anni (non mi fido. Se c'è qualcuno che potrebbe davvero mandare in giro un esercito di zombie a levargli gli anni su tutti i siti internet del mondo, costui è Tom Cruise). In questo film interpreta un tizio che potrebbe averne al massimo 35. Al massimo. E mi chiedo: è mai successo? che un attore interpretasse un tizio di 20 anni più giovane? Sì, ovviamente. In un altro film di Tom Cruise. Ma a parte lui? C'è Brad Pitt. Anche Brad Pitt, in Allied, sembrava un po' troppo tirato (che era poi il suo modo di sembrare la cosa più umana di Allied). Però ormai Pitt il massimo che fa è sparare ai nazisti - una cosa che è già un po' old-fashioned di suo; Cruise continua a fare lo stuntman di sé stesso e in questo film, per esempio, ha voluto una scena in cui recita in assenza di gravità. Galleggia in un aereo che precipita. Non è una scena incredibile, se non sai che l'hanno girata veramente in quel modo. Ormai col digitale si può fare di tutto e così non è che ti si cada la mascella, mentre Tom e la Bella in Pericolo rotolano dentro la fusoliera. C'era senz'altro un modo meno pericoloso di girarla, ma a Tom piaceva così. È il suo modo di dirci Sono Immortale?

---

Forse il fatto che La Mummia abbia floppato negli USA e stia andando forte nei mercati emergenti ha a che vedere con questo aspetto di Tom Cruise. Là dove Tom Cruise viene considerato ancora un essere umano, La Mummia stenta a convincere. Lontano dalla patria, dove forse è una specie di mito senza tempo (Italia compresa), la sospensione della credulità rientra nei limiti di norma. (Poi non è che in luglio escano tutti questi film imperdibili, eh).

---

Se la civiltà non finisce (e spero proprio di no, non vedo alternative interessanti) a un certo punto gli storici del cinema si troveranno davanti, ci pensate? trecento, quattrocento anni di immaginario sedimentato(continua su +eventi!). Chissà se degneranno di qualche interesse Guerre Stellari, chissà in quanti riterranno interessante scavare sul fondo per cercare tutti i resti del Marvel Cinematic Universe. La Mummia ha più chance. Lo so che sembra intollerabile e ingiusto, ma parliamo di un concetto che al cinema ha già 80 anni; parliamo di Boris Karloff. Di saghe sulla Mummia la Universal ne ha prodotte già tre o quattro e non c'è motivo per cui non debba continuare finché al pubblico continueranno a interessare i cadaveri male imbalsamati nelle tombe egizie, cioè... per sempre. Anche i cross-over non sono questa novità. La Mummia contro Dr Jeckyll? Al cinema queste cose si son sempre fatte. Gli Zombie della Mummia contro Gli Uomini in Nero del Dr Jeckyll? Perché no. Gli Zombie della Mummia contro Tom Cruise? Interessante, diranno i cinefili del futuro. Quando uscì, la Mummia era una specie di archetipo dell'inconscio collettivo, mentre Tom Cruise era ancora considerato un attore in carne e ossa. Secondo alcuni era davvero in carne e ossa; abbiamo persino i video in cui fa gli stunt più pericolosi; ma c'è da dire che nello stesso periodo cominciava ad andare in voga il ringiovanimento digitale dei divi di Hollywood, e quindi è difficile capire quanto ci fosse ancora del vero Tom Cruise in quello che poi è diventato a tutti gli effetti un franchise a sé (nel 2317 al cinema c'è Tom Cruise contro Gozzilla) (Gozzilla è animato da un algoritmo sofisticato che riproduce i passi dell'automa gigante del mitico film del 2287 il quale a sua volta era animato da un software che imitava le mosse dei vecchi pupazzi in stop-motion) (Tom Cruise invece è davvero lui in carne e ossa, anche se nessuno ci crede: da decenni sono tutti convinti che si tratti di un clone-bot e nessuno fa caso ai casi di vergini morsicate sul collo nei dintorni del set).

---

Non dico che valga il biglietto, ma a un certo punto Tom Cruise e Russell Crowe si menano. Per dire quanto ci credeva l'Universal nel progetto.

---


La Mummia somiglia un po' alla Lega degli Uomini Straordinari: prendiamo i vecchi mostri gotici dell'Ottocento e li rimontiamo con le logiche della continuity dei fumetti contemporanei. Purtroppo di Alan Moore ce n'è uno solo (e neanche tutto). Moore è un folle, un visionario, ma è anche uno sceneggiatore di buon senso, ad esempio: ok, mettiamoci pure la continuity contemporanea: ma se sono mostri dell'Ottocento devono restare nell'Ottocento. Il loro fascino sta lì. Il fantastico ha bisogno di un Altrove, di un orizzonte diverso dal nostro per svilupparsi, e l'Ottocento è un Altrove perfetto. Ma Kurtzman la sa lunga. Ti piazza un dottor Jeckyll contemporaneo. Ma se togli l'Ottocento al dottor Jeckyll ti rimane un bipolare qualsiasi - non proprio la persona che dovrebbe dirigere l'Agenzia contro il Male Universale. In effetti basta che il primo arrivato gli levi la siringona di mano e patatrac, tutto a carte e quarantotto.

---

A proposito di Guerre Stellari: la lavorazione del prequel sul giovane Han Solo ha riaperto il dibattito: ma esiste un giovane erede di Harrison Ford? Uno che potrebbe mangiarsi la scena sia in un'astronave-cargo, sia in un tempio maledetto, un figlio di buona donna col grilletto facile e la battuta pronta? Io! (sussurra la Creatura nella cripta). Io sono l'Erede di Harrison Ford! Datemi un frustino, mortali, e tremate!

---



La Mummia somiglia ovviamente ai cinefumetti, che invece ambientano il fantastico in un setting contemporaneo (tranne alcune eccezioni suggestive, come Wonder Woman). Questo spesso causa corti circuiti interessanti: ad esempio è sempre più difficile commettere disastri nei cinefumetti. Prendi un grattacielo: hai presente quanti grattacieli finti cascavano nei vecchi film di mostri? Ordinaria amministrazione. Il pubblico andava in sollucchero, non è che si mettessero a pensare a tutte le vittime - tanto si sa che è un grattacielo di cartone. Ma il grattacielo del cinefumetto contemporaneo sembra un grattacielo vero. Non è solo una questione di effetti speciali; è che i cinefumetti spingono sul realismo, vogliono stupirti portando uomini incredibili nel nostro mondo - ma nel mostro mondo se casca un grattacielo ci sono migliaia di vittime, è una cosa orribile. La Mummia ha rinunciato alla confortevole ambientazione ottocentesca per ottenere gli stessi effetti di un cinecomic, ma il risultato è che abbiamo un primo atto in cui l'Iraq odierno viene descritto come un allegro far west dove se i pistoleri locali esagerano nell'assediarti puoi sempre chiedere un intervento aereo. Poi arriviamo a Londra, dove per fortuna c'è un po' di bruma e, i grattacieli e... non ce ne frega niente. Sul serio. C'è una tempesta di sabbia davvero ben congegnata e assolutamente scenografica, ma non ti viene nemmeno per un attimo il pensiero per i poveri londinesi soffocati. È una Londra completamente finta, minacciata da un Male che non riesci a prendere sul serio nemmeno per un istante. La Mummia somiglia anche a un altro sfortunato blackbuster estivo di qualche anno fa, War World Z: in entrambi i film si registra il tentativo di ripulire un po' gli zombie, di renderli meno spaventosi, più pop, meno vietati ai minori. Forse quelli della Mummia sono un filo più paurosi di quelli di WWZ, ma la vera differenza sta nell'angoscia. Per quanto ripulito dal sangue e dalle cervella, WWZ restava un film apocalittico, eccessivamente cupo per le famiglie in cerca di aria condizionata (il finale fu modificato proprio per questo motivo). Nella Mummia tutta questa angoscia manca completamente. Il dark universe comincia ben poco dark.

---

La Mummia somiglia un po' a Suicide Squad, un film che brucia le tappe, che ha fretta di buttare sul fuoco più storie possibile, magari già intrecciate. Per cui ok, qui abbiamo la Mummia, gli zombie, il dottor Jeckyll e... non posso dire che altro. Non era meglio andare per gradi; dedicare alle origini di ogni mostro un film? Eh, ma ci avevano già provato (Dracula Untold) e non è andata bene. E così beccatevi la macedonia, pubblico estivo. Qualcosa di buono c'è, ma anche molti scarti che non ti saresti mangiato mai, toh, se lo fa la Warner perché la Universal non dovrebbe permetterselo?

---

La Mummia è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, alle 20:20 e 22:40.

Comments

Il circo itinerante del tuono rotolante

Permalink
The Rolling Thunder Revue (The Bootleg Series Vol. 5, pubblicato nel 2002 ma registrato nel 1975).
(Il disco precedente: Desire
Il disco successivo: Hard Rain)
E se io e te partissimo, uno di questi giorni? Se prendessimo un treno, anzi un pullman, e ce ne andassimo in giro per l'America finché non ci stanchiamo e lei di noi? E se invitassimo tutti i miei amici - scusa, tutti i nostri amici - in fondo che hanno da fare a parte suonare, bere e farsi? Potremmo anche passare a prendere la mia ex, è un sacco che ho voglia di vederla, così diventate amiche. E un team di registi per farci i filmini. Secondo me sarebbe fortissimo, se un giorno io e te partissimo. Purtroppo abbiamo tante altre cose più serie da fare.
Roger McGuinn, Joni Mitchell, Richi Havens, Joan Baez e Bob Dylan.
Roger McGuinn, Joni Mitchell, Richi Havens, Joan Baez e Bob Dylan.
Nell'autunno 1975 Bob Dylan non le aveva. Per quanto la sua icona sia associata indissolubilmente alla metà degli anni Sessanta, dieci anni dopo si ritrovava sulla cresta dell'onda molto più di quanto era e sarebbe mai stato. Before the Flood Blood on the Tracks avevano già ottenuto un disco di platino ciascuno, The Basement Tapes un disco d'oro. Desire, già in canna, avrebbe venduto ancora di più. Improvvisamente il pugile suonato di qualche anno prima aveva ritrovato lucidità e grazia: uno di quei rari momenti in cui qualsiasi cosa scegliesse di fare, per quanto bizzarra, funzionava: e scelse di andare in giro per il Paese con una carovana di vecchi e nuovi amici. Funzionò (più o meno). 
Bob_Dylan_-_The_Bootleg_Series,_Volume_5I concerti della Rolling Thunder Revue duravano quattro ore. Nei camerini della Rolling Thunder Revue c'era un tizio che girava col sacchetto di cocaina: veniva detratta dalla paga, 25$ il grammo. Sul palco della Rolling Thunder Revue si alternavano Bobby Neuwirth (dopo dieci anni di nuovo nello staff di Dylan), Roger McGuinn, Ramblin' Jack Elliott, Ronee Blakey (la protagonista di Nashville), il chitarrista degli Spiders from Mars, Mick Ronson. Nella prima data della Rolling Thunder Revue suonò anche Phil Ochs, ma era conciato piuttosto male e qualche mese dopo si suicidò. C'era anche Allen Ginsberg, nella Rolling Thunder Revue; anche se i suoi reading uscirono presto dalla scaletta lui continuò ad aggirarsi per i backstage ad aggiungere quel tocco di poesia. Nella Rolling Thunder Revue a un certo punto si ritrovò persino Joni Mitchell, che dopo un concerto pensava di andarsene; ma il batterista fece un broncio e lei restò. Al Madison Square Garden, durante il concerto della Rolling Thunder Revue per Rubin Carter, salì sul palco anche Muhammad Ali. Durante la Rolling Thunder Revue, la Blakey si fece tagliare i capelli corti così che sembrava una sorella minore di Joan Baez. Quest'ultima si faceva filmare in vestito da sposa e da prostituta dai cineasti che a un certo punto invitarono nella Rolling Thunder Revue anche Sara Dylan - col disappunto del marito che dovette sloggiare un'altra compagna di letto. Quante altre donne potevano ronzare attorno a Dylan durante la Rolling Thunder Revue? A un certo punto arrivò anche sua madre.Ai concerti della Rolling Thunder Revue, Dylan si presentava truccato; una specie di clown bianco. Qualche volta si mise anche una maschera (da Nixon, o da Bob Dylan), ma doveva togliersela al primo assolo di armonica.
Joan Baez
Joan Baez qualche anno più tardi, sul confine cambogiano.
La Rolling Thunder Revue è una cosa a cui in un mondo migliore avrebbero diritto tutti, più o meno sui trentacinque anni: radunare su un paio di pullman gli amici di tutte le età, e darci dentro come se non ci fosse un domani. Probabilmente è il tour migliore che Dylan abbia fatto, e il volume doppio della Bootleg Series è il miglior Dylan live che si possa ascoltare - è un giudizio a cui si può arrivare per esclusione: il suono non è caotico come ai tempi degli Hawks, Dylan non sembra costantemente incazzato come in Before the Flood, la voce è ancora solida e soprattutto il repertorio è il migliore di sempre: mette insieme cose antiche come Blowing in the Wind (rifatta acustica con la Baez, fa scomparire completamente dalla vergogna la versione di Before the Flood) e cose come Isis Hurricane, talmente fresche che non erano ancora state pubblicate (ci sono ben sei pezzi di Desire, e sono tutte versioni che rivaleggiano con quelle incise in studio). 
Ci sono perle di valore assoluto, come una Hattie Carroll elettrica che la chitarra di Ronson trasforma quasi in un pezzo pop, senza togliere un grammo allo sdegno che Dylan riesce a ispirare cantandola; una Mama You Been On My Mind, di nuovo con la Baez, ma soprattutto con un gruppo che si diverte un mondo a fingersi orchestrina ragtime; una Simple Twist of Fate eseguita in solitaria che ci dà un mezza idea di che disco sarebbe stato Blood on the Tracks se Dylan avesse davvero deciso di inciderlo acustico; una Just Like a Woman riletta con un tocco glam-rock che è l'unica concessione allo spirito dei tempi. C'è davvero un sacco di roba buona e alla fine resta la voglia di sentirne di più. Il guaio è che il modo di sentirne di più è passare a Hard Rain... (continua sul Post).
Comments (1)

Wonder Woman nel Paese dei Mansplainers

Permalink
Wonder Woman (Patty Jenkins, 2017)

Oltre il grande mare, figlia mia, vivono i Maschi. Un giorno li incontrerai. Da cosa li riconoscerai? Dalla barba, se va ancora di moda; da come si sbracano sui sedili dei mezzi pubblici - ma molto più probabilmente da come ti interromperanno mentre parli. Ti giuro. Non è una leggenda: magari stai raccontando la tua ultima battaglia, e loro, senza aspettare che tu finisca la frase, cominciano a spiegarti che le cose sono molto più complesse di quel che credevi; che non è tutto bianco o nero; pensa, esiste anche il grigio!; che certe volte un male è un bene, un armistizio serve a prolungare la guerra e un'arma chimica può servire a fare la pace. Figlia mia, il giorno che li incontrerai, tu magari ascoltali.

Poi menali tutti - neri, bianchi, grigi - non importa. Dagliene tante, figlia mia. Anche se non sai il perché: loro senz'altro lo sanno. Magari - se sopravvivono - te lo spiegheranno.

Il 2017 è un anno storico per l'uguaglianza di generi ed etnie al cinema. Dopo tanti cinecomics, finalmente ne abbiamo avuto uno al femminile, Wonder Woman - e in breve la Marvel ci darà il suo primo film concentrato su un supereroe nero, Black Panther! Non è incredibile, però, che ci sia voluto tanto? Mentre tutto intorno il nostro immaginario si faceva sempre più multicolore e multigenere; mentre i cast dei film d'azione riservavano sempre più posti alle minoranze, e sempre più spesso il ruolo della protagonista a una donna, non è curioso che i cinecomics siano arrivati a un risultato del genere così lentamente?

È incredibile come facesse ridere
già dal poster (quelle orecchie, dio),
No.

Non è incredibile e non è nemmeno così vero, visto che 13 anni prima di Panther e Wonder Woman, Halle Berry era già Catwoman in un film che nessuno ricorda volentieri; soprattutto a casa Warner. E può darsi che quel flop, neanche il primo (Elektra, Supergirl) sia in un qualche modo responsabile del ritardo con cui la principessa amazzone arriva sul grande schermo: buona ultima dopo personaggi molto meno iconici e meno popolari (Ant-Man...), in un momento di iper-inflazione del genere a cui sempre più gli studios reagiscono proponendo personaggi collaterali e bizzarri: il supereroe che dice le parolacce, i supercattivi tuttitatuati, i procioni parlanti. Ecco il primo cinecomic al femminile arriva nell'anno del secondo film su un procione parlante. Furries 2 - Femministe 1, palla al centro.

La cosa sarebbe molto meno rilevante di quel che sembra, visto che grazie al cielo al cinema non ci sono soltanto supereroi, e nemmeno quel segmento molto chiassoso, cialtrone e culturalmente rilevante che sono i film d'azione. Prendi una qualsiasi saga young adult, da Hunger Games in poi; prendi Jennifer Lawrence, prendi Charlize Theron in Mad Max 4. Prendi Scarlett Johansson, a cui la Marvel non ha voluto dedicare un film solista, forse perché sarebbe costato troppo, e nel frattempo è diventata protagonista di una saga giapponese e di una francese. Prendi Angelina Jolie e Milla Jovovich che nel 2004 (13 anni fa!) mentre Gal Gadot diventava Miss Israele ed entrava nell'esercito, erano già protagoniste di saghe sparatutto. Persino in Fast and Furious le donne sono sempre più rilevanti: persino nei Transformers. Eppure c'è davvero chi ha aspettato il 2017, e l'arrivo di Wonder Woman, per festeggiare un traguardo nelle pari opportunità. Non è solo la storia a rendere omaggio alla bella semplicità dei tempi andati (c'è un'eroina buona ma ingenua che deve sconfiggere un cattivo astuto): anche il dibattito critico sembra arrivare da un tempo lontano in cui poteva sembrare incredibile che una donna prendesse al lazo i nemici anziché rammendar loro i calzini.

Lei è perfetta e arriva da una piccola terra di fieri combattenti
che l'hanno forgiata e le hanno spiegato che il Bene è il Bene
e il Male è il Male. NO NON STO PARLANDO DI ISRAELE:
È LA TRAMA DEL FILM. Oh maledizione.
C'è persino chi trova molto femminista il fatto che ci sia una donna anche tra i cattivi! - malgrado a conti fatti sia una sgobbona che prende gli ordini dai superiori. (Forse, se uno avesse la pazienza di controllare, scoprirebbe che era più femminista la cattiva Sharon Stone in Catwoman) (ma in generale di cosa stiamo parlando? Di donne perfide il cinema è pieno credo dagli anni Venti).

A questo punto però devo rammentare che sono un maschio eterosessuale, e forse la mia posizione non mi permette di capire che enorme salto in avanti sia, un film su Wonder Woman, per tutte le ragazze e bambine del mondo: soprattutto nei mercati emergenti, dove forse la Jolie e la Jovovich non sono arrivate così presto e così bene. Forse tutto quello che ho scritto fin qui è un lungo e ponderato mansplaining. Forse.

Ma anche in quel caso che altro posso fare, a parte recitare fino in fondo la mia parte di noioso maschio che spiega l'ovvio? Per me parlare di femminismo per questo film è fare un torto sia al femminismo sia al film. Quest'ultimo è divertente: probabilmente il migliore prodotto fin qui dall'universo cinematico Warner - dopo due mostri senza capo né coda né senso come BvS e Suicide Squad. È una storia dedicata all'origine di un singolo eroe, e per quanto la formula sia inflazionata è comunque più fresca dei polpettoni a più personaggi che la Warner ci doveva assolutamente propinare.

C'è una periodizzazione un po' più originale del solito (la Prima Guerra Mondiale, in tutto il suo orrore che a un secolo di distanza sembra ancora fantascienza apocalittica); c'è un prologo mitologico un po' kitsch ma che si riscatta con una delle cose più assurde e divertenti che ho mai visto sul grande schermo: Robin Wright che guida un assalto di amazzoni a cavallo contro delle truppe di sbarco tedesche.


La profezia si sta realizzando.
C'è soprattutto una meravigliosa Gal Gadot che più che una donna è una bambina: uno spirito ingenuo e puro che difende le ragioni semplici dei bambini nel mondo complicato, deludente e orribile degli adulti. Diana fugge dalla sua isola con un'idea molto semplice - distruggere il Male - e lungo la sua strada non farà che trovare personaggi maschili che opporranno alla sua morale fanciulla le obiezioni degli adulti: sensate ma insoddisfacenti, com'è giusto che sia in un film che prima di pensare alle pari opportunità, pensa ai suoi spettatori bambini. Diana sa tutto tranne come ci si veste e come ci si comporta; in combattimento non ha rivali ma non sempre ha chiaro quali siano i veri nemici. Persino la personificazione (maschile) del Male, quando alla fine si rivelerà, avrà un paio di cose da insegnarle. Insomma tutto questo femminismo non lo vedo: non vedo nemmeno troppo maschilismo perché ho la sensazione che il film sia solo il primo capitolo di una storia, e che l'ingenuità di Diana abbia un senso narrativo, più che ideologico. La Diana odierna, già intravista in Batman v Superman, non sembra più avere bisogno che i suoi colleghi maschi in mantello le spieghino chi combattere e perché. Anzi, speriamo che nei prossimi film accada spesso il contrario, visto che ora Diana sembra il personaggio con più esperienza alle spalle. Ma soprattutto speriamo che siano guardabili: Wonder Woman grazie al cielo (e alla regista) lo era. Dopo tre settimane lo si vede ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (19:50, 22:40) e al Multisala di Bra (20:00)

Comments (4)

L'amore illegale

Permalink
Loving (Jeff Nichols, 2016)

Hai 18 anni, e quando sei rimasta incinta, il tuo ragazzo ha solo detto: Ok. È un uomo di poche parole, un muratore, ma "ok" è una parola bellissima. Poi è andato a comprare il terreno per costruirti una casa. Per sposarti ti ha portato fuori dallo Stato perché, dice, la burocrazia è più semplice. Nella camera dove a volte dormite assieme ha appeso il certificato di matrimonio; è una cosa carina.

Una notte, mentre dormite, qualcuno vi entra in casa con le torce. C'è anche lo sceriffo. Vi ammanettano. Tuo marito indica il certificato - ecco perché l'ha appeso, allora - lo sceriffo scuote la testa e dice che quel pezzo di carta non vale niente, e che voi due dormendo assieme state commettendo un reato. Perché tu sei nera, lui è bianco, e questo è lo Stato della Virginia. Siccome dormite assieme, vi condannano a cinque anni di prigione (se vi avessero colto durante un atto sessuale, il reato e la pena sarebbero stati più gravi); vi rilasciano a condizione che non torniate più in Virginia per 25 anni. È il 1958 e il matrimonio interrazziale diventerà legale in tutti gli Stati Uniti soltanto tra nove anni. Grazie a voi. Mildred e Richard Loving.

La storia della coppia che ha cambiato la Costituzione degli Stati Uniti si meritava un film che non fosse un semplice temino edificante di educazione civica. Jeff Nichols, che fin qua aveva girato solo thriller angosciosi, psicologici o apocalittici, gioca la carta dell'iperrealismo, girando in 35 mm. e curando alla perfezione ogni dettaglio, dagli oggetti di scena alla pronuncia degli attori, affidandosi soprattutto a questi ultimi. Ruth Negga e Joel Edgerton danno vita a due protagonisti straordinariamente credibili, malgrado gli esigui margini di manovra: i Loving parlavano poco, e non amavano esibire i loro sentimenti. In particolare Edgerton riesce a nascondere sotto un ceffo da galera un personaggio mite e glorioso, uno che in due ore di film (e di prepotenze subite) avrebbe tutto il diritto di commettere una o due cazzate, e invece continua a ingoiare rospi fino a una vittoria che è così tanto più grande di lui che quasi non gli interessa (continua su +eventi!) Nel suo vocabolario di cento parole c'è spazio per frasi potentissime: quando lo arrestano, lo rilasciano e gli impediscono di pagare la cauzione per la moglie incinta: "Questo non può essere giusto". Quando l'avvocato gli spiega che lo Stato di Virginia ha intenzione di difendersi presso la Corte Suprema: "Come possono difendersi da quello che mi hanno fatto?" E quando sempre l'avvocato gli chiede se ha qualcosa da dire alla Corte Suprema: "Dica che amo mia moglie".

I tentativi di imbruttire Ruth Negga si sono rivelati
abbastanza vani.
Concentrandosi sugli attori, Nichols è riuscito a evitare che Loving diventasse uno di quei film in cui il meccanismo dell'indignazione scatta meccanicamente, perlopiù ai danni di cattivi da operetta, obiettivi fin troppo facili come i segregazionisti della Virginia di mezzo secolo fa. E però la scelta di escluderli quasi completamente dalla scena è molto particolare, e discutibile. Loving è un film antirazzista in cui i razzisti non stanno in scena. C'è in quattro scene intensissime uno sceriffo (un granitico Marton Csokas), anche lui un tizio di poche parole, che non ha bisogno di alzare la voce per annunciare che spaccherà la testa a qualcuno, e che tratta i Loving come due bambini testardi e capricciosi. C'è un giudice convinto di essere clemente, quando spiega che Dio creò bianchi e neri in continenti diversi perché non li voleva mescolati. Ma i bravi e onesti cittadini bianchi della contea - quelli che elessero il giudice e lo sceriffo - Nichols decide di non mostrarli. In questo modo l'imposizione della legge diventa un po' più assurda, e forse il film un po' più astratto. Loving voleva parlare soprattutto dei suoi due eroi per caso, e di come loro tranquilla cocciutaggine abbia reso la Virginia e il mondo intero un posto migliore. Tratta il razzismo come un male oggettivo che peggiora la vita delle sue vittime, un ostacolo da rimuovere: non ne indaga le cause, non ne studia i comportamenti. Chi andava al cinema in cerca di questo - chi ha la sensazione che nel 2017, in Italia, ci sia bisogno soprattutto di questo - potrà restare deluso, e forse continuerà a voler più bene a Mississippi Burning, o al Buio oltre la siepe.

Loving si rivede solo martedì 20 giugno, al Cinema Italia di Saluzzo (ore 17:00 e 21:15).

Comments (2)

D'amore e d'ombra

Permalink
Sognare è vivere (A Tale of Love and Darkness, Natalie Portman, 2015).

Quand'ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand'anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca a Reykjavik, Valladolid, Vancouver...

Nel cinquantenario della guerra dei Sei Giorni, nelle sale italiane si celebra una specie di mini-festival israeliano, tutto al femminile: oltre a Un appuntamento per la sposa di Rama Burshtein (presentato a Venezia lo scorso settembre) è saltato fuori A Tale of Love and Darkness, girato e recitato in ebraico da Natalie Portman che era a Cannes due anni fa (e poi naturalmente c'è Gal Gadot, riservista dell'esercito israeliano, che fa Wonder Woman, e pare che sia molto brava). Dei tre film Love and Darkness è il più ambizioso: trasformare in cinema la monumentale autobiografia di Amos Oz richiedeva una dose di incoscienza che Natalie Portman fortunatamente ha conservato per dieci anni di lavorazione.


Come dimostrazione di serietà e perizia dietro la macchina da presa, A Tale of Love è sorprendente, forse anche troppo manierato: luci, ricostruzioni di esterni, montaggio, non puoi dirle niente. La Portman sa persino dirigere i bambini! (non solo il protagonista: c'è una ragazzina che sta in scena cinque minuti e riesce a comunicare con gli sguardi più di molti attori professionisti). Come trasposizione cinematografica, il film deve fare scelte inevitabili e in certi casi interessanti (ad esempio lo sfondo politico della storia è riassunto dalle chiacchiere dei passanti o dei passeggeri di un autobus, tra cui già onnipresenti nel 1948 i fanatici del complotto). Soprattutto la Portman sembra essere riuscita a cogliere un nucleo cinematografico in un libro disperatamente libresco, così concentrato sulla magia e sulla dannazione delle parole, sul fascino dei libri e sul desiderio degli uomini di partorirli e trasformarsi in loro. Di solito tutta questa letterarietà a Hollywood si risolve mettendo in scena tanti libri, possibilmente polverosi. La Portman non si sottrae, ma ti piazza ogni tanto qualche correlativo oggettivo di precisione spaventosa: l'utopia sionista di "far fiorire il deserto" trasformata in un orticello di cortile che non attecchisce, o il momento in cui il padre annuncia commosso al figlio: ora che è nato lo Stato di Israele nessuno farà più il prepotente con lui a scuola! e in capo a cinque minuti, ovviamente, il piccolo Amos deve cedere la merenda ai bulli (però israeliani).


Purtroppo il film ha un problema di ritmo (continua su +eventi!). In novanta minuti succedono parecchie cose, eppure sembra che non succeda quasi niente. Il disincanto che Amos Oz può permettersi, dopo aver partecipato alla guerra e alla stagione dei kibbutz, nelle mani volonterose ma affannate della Portman si trasforma in un pessimismo fin troppo cupo. Proprio quando ti aspetti che gli eventi precipitino (dalla dichiarazione d'indipendenza in poi) e la Storia irrompa sulla scena, la Portman decide di liquidare i combattimenti in un paio di scene e boati fuori campo, e concentrarsi sulla vicenda della madre: ovvero sul ruolo interpretato da lei stessa, ancora una volta nei panni di una depressa cronica.

Il problema è che i depressi sono i malati meno cinegenici al mondo. Piangono, prendono pillole, si scusano, prendono altre pillole, un po' d'euforia poi il crollo, altre pillole, chi non c'è passato difficilmente riesce a provare empatia. La voce narrante interverrà a collegare il crollo di Fania con l'inevitabile disillusione storica legata alla nascita di Israele: ogni sogno realizzato è un sogno deludente, voleva spiegarci Oz, e Israele non è più un sogno. Forse lo avremmo capito anche senza la didascalia, ma che fatica arrivarci. Alla fine anche questo film è un buon correlato oggettivo: un sogno cullato per lunghi anni, realizzato con grande fatica e serietà, che alla fine della visione lascia ammirati ma un po' freddi, stanchi: e i soldi del budget (perlopiù americani) non sono ancora stati recuperati. Come in altri film importanti prodotti in Israele (KippurVa' e vedrai), i palestinesi sono quasi del tutto assenti: compaiono soltanto in un paio di scene. Come se anche la Portman, per rispettarli e riconoscere i loro diritti, avesse bisogno di tenerli a una prudente distanza: quella distanza che a Gerusalemme forse non c'è mai stata. Sognare è vivere (un titolo italiano più sbagliato del solito, per un film che racconta la fatica di sopravvivere ai sogni) fino a mercoledì è all'Impero di Bra (20:20, 22:30) e ai Portici di Fossano (21:15).
Comments

Black is the New Barbablù

Permalink
Scappa (Get Out, Jordan Peele, 2017)


Indovina chi viene a cena - in una bella villa bianca sul lato deserto del lago, tutto intorno chilometri di boschi, non un'anima a parte i cervi e i bianchi ricchi e progressisti. Rose vuole presentare Chris ai suoi genitori. Li ha almeno avvisati che Chris, oltre a essere un bravo fotografo, è... nero? No, ma non importa, anzi forse è meglio perché... è gente aperta, avrebbero votato Obama anche una terza volta, e poi chi non vorrebbe avere un bel ragazzo nero da sfoggiare al rinfresco?

Indovina chi ha azzeccato un altro thriller in una casa nei boschi: la Blumhouse, esatto. Ma stavolta ha esagerato. Con un regista esordiente e non pratico del genere (veniva dalle commedie); con la sua formula antica e austera, 10% azione e 90% suspense; con la sua produzione parsimoniosa, per non dire taccagna, ha portato in sala un film che è costato quattro milioni e mezzo di dollari e ne ha fatti duecentotrenta. Per intenderci: il King Arthur della Warner non ha ancora superato i cento - ce la farà, ma è costato centosettanta, per via dei mega-elefanti in computer-grafica che evidentemente erano necessari. La Blumhouse non usa computer-grafica (o se c'è davvero non si vede). Per emozionare lo spettatore - spaventarlo, divertirlo, consolarlo - non ha altre risorse che il montaggio, la recitazione, la storia: per farla breve: la Blumhouse fa il cinema. E funziona. Forse un cinema così classico è ormai merce talmente rara che fa notizia. Non spende tanto ma spende bene: luci e musiche ti danno l'impressione che il film giochi in serie A. Get Out cattura con cose semplici - occhi sgranati, occhi piangenti, porte chiuse e all'improvviso aperte, e qualche rumore semplicissimo e fantastico. Chi proprio vuole il sangue alla fine avrà il suo sangue, ma a Get Out per catturarti basta il suono di un cucchiaino (continua su +eventi!)
L'orrore è una lacrima.

















Certo, dalla sua Jordan Peele aveva anche la tematica-di-scottante-attualità: la questione razziale in America, il movimento Black Lives Matter, la fine dell'era Obama e il modo in cui anche il razzismo sta cambiando (evolvendo, per così dire), adattandosi alla postmodernità e scavandosi nuove nicchie. In questo senso forse Get Out è meno a fuoco di quanto molti hanno voluto credere. Non per imperizia di chi lo ha scritto, diretto e recitato, ma proprio perché non vuole essere un manifesto, ma soprattutto un film: anzi un film di genere, orgogliosamente di serie B, con una storia semplice e intagliata nell'antico legno delle fiabe. È un film che attinge da immagini banali e fortissime (un bicchiere di latte, un trofeo di caccia), da un brodo di emozioni vere e presenti (l'imbarazzo di sentirsi nero alle feste: non necessariamente disprezzato; anzi a volte persino ammirato, ma sempre e comunque etichettato, categorizzato, pesato e prezzato), e non disdegna una di quelle belle catarsi sanguinolenti che solo il cinema di genere può permettersi di servire.


Get Out forse esagera a prendersela coi liberal bianchi, un avversario forse un po' troppo facile e sgonfio, proprio mentre una nuova ondata di razzismo tutt'altro che ipocrita e liberal manda un suo uomo alla Casa Bianca. Ma la storia funziona molto meglio così, e quindi tanto peggio per i liberal. Get Out non salverà l'America dal razzismo, ma intanto sta salvando il cinema: perché le cose che ha da dire, giuste o o meno giuste che siano (o persino sbagliate), le dice coi mezzi antichi e potenti del cinema. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:40); al Vittoria di Bra (20:15, 22:20); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15) e al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
Comments

L'ingloriosa caduta dell'Excaliburino

Permalink
King Arthur, il potere della spada (Guy Ritchie, 2017) 


A Camelot qualcosa non va, la tavola rotonda è in fermento: da indiscrezioni sembra che qualche Valoroso Cavaliere sia scappato con la cassa. Il valoroso sir Ritchie non si trova, nelle sue stanze il re Artù si tormenta: è colpa sua. Non doveva dar retta a quella banda di disperati, pur riunita sotto lo stemma di un nobile blasone, la Compagnia dei Fratelli Warner. Ma loro si erano fatti avanti con suadenti lingue biforcute... una saga in sei film promettevano, sei film! Roba da Guerre Stellari, come dire di no? Finalmente la fama di Excalibur avrebbe raggiunto i quattro angoli del mondo, rivaleggiando con quella dei supereroi e dei robottoni componibili. E mentre già volava con l'immaginazione, mentre già visualizzava il suo pupazzetto barbuto spuntare da un happy meal sudcoreano, il nobile Artù forse non si accorgeva che gli stavano rubando l'anima?

"Che avete detto? Devo passare la giovinezza in un bordello? Ma non ero un maniscalco?"
"Maestà, abbia pazienza, è per attualizzare il personaggio".
"Ah perché i bordelli sono attuali?"
"Ehm".
"Cioè io ogni tanto ci vado al cinema, nei blockbuster di adesso vedo un sacco di donne guerriere, qui c'è solo qualche strega repellente e un po' di prostitute di contorno, tutta questa attualità, scusate..."
"Àstrid Bergès-Frisbey dà comunque vita a un personaggio femminile cool e non scontato, ammetterà..."
"Potrei anche ammetterlo, ma... neanche un bacetto, niente... poi a un certo punto la rapiscono, e mi potrebbe anche stare bene, la Damigella in Pericolo è proprio materia bretone, l'abbiamo inventata noi, praticamente".
"Perfetto, maestà".
"Poi però nella scena d'azione successiva serve un deus ex machina e quindi la liberano. Il malvagio re Vortigern la libera senza un plissé. Aveva chiesto in cambio Artù, e invece la libera prima che arrivi Artù. Ora io di buchi narrativi un po' me ne intendo, e questo..."
"La liberano perché gli hanno promesso che Artù sta arrivando!"


"Dunque io Vortigern me lo ricordo, e così imbecille proprio no. Ha in ostaggio una maga e un bambino e libera la maga. Ma chi ha scritto questo copione, si può sapere?"
"I nostri migliori artigiani, maestà"
"Ovvero?"
"Ehm... Joby Harold".
"Ovvero?"
"Sta lavorando alla nostra versione di Flash e di Robin Hood".
"Sta lavorando. Ma un film intero lo ha già scritto?"
"Certo, ehm, Awake..."
"Mai visto".
"Un buon successo del... del... 2007".
"E poi non ne ha più scritti?"
"Ha fatto altro, e proprio per questo gli abbiamo affiancato un altro valentissimo professionista e coproduttore, Lionel Wigram".
"Ovvero?"
"Ehm..."
"L'avrà mai scritto un film questo qui".
"The... The Man from UNKLE".
"Ma ha floppato!"
"No, non ha floppato, no... diciamo che non ha raggiunto i risultati previsti. Ma mica per colpa sua, lo script era buono".
"È stato più un problema di regia, dice?"
"Ehm...."
"Mi aiuti a ricordare, io faccio il re nella materia bretone non è che mi intendo così tanto... chi stava dietro la macchina da presa quando avete prodotto The Man from UNKLE?"
"Guy Ritchie".
"Signori, aiutate un povero monarca altomedievale a capire... volete fare una saga sulla materia bretone in sei episodi, solo per il primo quanto avete intenzione di spendere?
"175 milioni di dollari".
"È una cifra spaventosa, epperò... si tratta di rivaleggiare coi draghi dello Hobbit, immagino..."
"No, veramente niente draghi per ora".
"Come niente draghi?"
"Dopo lo Hobbit pensavamo appunto di cambiare un po', pensavamo a degli elefanti".
"Elefanti? Ma io sono re Artù".
"Elefanti enormi!" (continua su +eventi!)


"Sentite, io sono un po' fuori dal giro grosso... l'ultimo con cui ho lavorato è stato De Laurentiis, lui aveva in mente queste cose un po' fantastoriche... è andata com'è andata. Diciamo che la fantarcheologia ha fatto il suo tempo. Ma voi mi state dicendo che intendete buttare quasi duecento milioni di dollari in un film su di me scritto da due novellini, senza un personaggio femminile forte, senza attori di prima linea (la cosa più importante che ha fatto il mio interprete al cinema è Pacific Rim) senza draghi e con gli elefanti. Confesso una certa perplessità".
"Ma c'è Guy Ritchie! Ha visto cos'ha fatto Guy Ritchie con Sherlock Holmes?"




"Sentite. Ci è piaciuto immensamente lo Sherlock Holmes di sir Ritchie, ma il trucco che ha funzionato con la Londra dell'Ottocento - chiamiamolo choc anacronistico, un blockbuster d'azione in costume - non necessariamente funzionerà con Camelot. Primo perché Sir Robert Downey il Giovane non è più della partita - e anche Sir Jude il Bello soffre l'ingiuria del tempo; secondo, perché un buon trucco non funziona che una volta, al massimo due; terzo, perché Camelot è qualcosa di molto diverso, è un mondo di oscurità e misteri, e sir Ritchie e i suoi scrittorucoli questa cosa non l'hanno capita. È gente nata e cresciuta in città, non capiscono che esistano altri mondi, ficcano nel quinto secolo una Londinum metropolitana che neanche nel Milletré era grossa così, ma ammettiamo pure che ai paggi e alle pulzelle che affollano i multisala tutto questo non interessi. Siete convinti che si interesseranno comunque ai vecchi sortilegi di sir Ritchie? Quegli stacchi violenti, quei montaggi diegetici, quelle zummate improvvise, quei dialoghi esagerati da fumetto, così anni Novanta del Ventesimo Secolo..."
"È quel che piace ai giovani, maestà!"
"Non credo. Temo che sia quello che piaceva a voi quando eravate giovani. Ma i blockbuster di adesso non si fanno più così, c'è tutta un'arte che altre compagnie hanno interiorizzato, e voi no. Andate di selva narrativa in selva narrativa, cercando materiale quale che sia da sfruttare commercialmente, imponendo le vostre saghe raffazzonate alla benemeglio con la pura forza bruta del vostro nobile Stemma e del battage pubblicitario... non so se dovrei fidarmi di voi. Certo, la vostra proposta è allettante".
"Sei film in dieci anni, Maestà..."
"Ma rischio di perdere l'anima".
"Pupazzetti della tavola rotonda in tutti gli Happy Meal".
"Oh, va bene, dopotutto sono sopravvissuto anche a De Laurentiis e Valerio Massimo Manfredi, cosa ho da perdere? Portatemi il sigillo reale".

Da qualche parte ai piani alti della Warner Bros dev'esserci un gruppo di, come definirli, diversamente umani. Qualche figlio di, qualche ragazza di, qualcuno che passava di lì e aveva bamba per tutti, una squadra di iperattivi ipodotati che se hanno mai sfogliato un fumetto non riuscivano a decifrare le scritte nelle nuvolette; se mai sono entrati in un cinema, si sono addormentati dopo i trailer. Una gang di deficienti con una missione suicida: salvare il cinema da sé stesso. Lo scrivevo l'estate scorsa,  di fronte a quell'empia catastrofe che fu Suicide Squad. Non è che ci credessi davvero, ero solo scandalizzato da un film. Ma ora che King Arthur è sotto di centotrenta milioni di dollari, comincio a domandarmi se per caso ci avessi azzeccato: se la WB non abbia dichiarato guerra ai blockbuster e se non sia tempo di decidere da che parte stare. Nel frattempo, chi è curioso può trovare King Arthur al Cinelandia Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:40), al Fiamma di Cuneo (21:00) e al Cinecittà di Savigliano (21:30).
Comments (1)

Gold, il grande spoiler

Permalink
Gold - la grande truffa (Gold, Stephen Gaghan, 2017).


Per quanti anni l'ho cercato. Ormai avevo perso le speranze, quando mi arrivò una dritta: nella suite di un grande hotel della capitale sopravviveva a sé stesso uno degli ultimi Titolisti del Cinema Italiano. Aspettava che qualcuno salisse ad ammazzarlo o scendesse a pagargli il conto. Entrambe le cose erano al di fuori della mia portata, ma provai ugualmente a salire con una bottiglia di scotch. Si sciolse subito. In fondo moriva dalla voglia di raccontare, di difendersi.

"Quando ha capito che voleva fare il Titolista?"
"Non c'è stato un momento preciso... ho sempre saputo che l'avrei fatto, lo faceva mio padre, e il padre di mio padre, il cinema italiano è così".
"Anche suo padre cambiava i titoli dei film stranieri?"
"È stato uno dei più grandi. Ha presente Non drammatizziamo... è solo questione di corna?"
"Domicile conjugale, di François Truffaut".
"Ahah, sì".
"È stato suo padre a cercare di far passare un film di Truffaut per una commedia sexy con Lando Buzzanca?"
"Ci siamo comprati un'Alfa Giulia con quel titolo".
"Lei invece è quello che ha tradotto Eternal Sunshine of the Spotless Mind con..."
"No, non sono io quello..."
"Se mi lasci ti cancello".
"...purtroppo. Che invidia. Grandissimo titolo".
"Crede che in qualche modo abbia giovato alla fruizione del film?"
"Non lo so. Ma lo ha portato in un centinaio di sale in più. Migliaia di biglietti in più. Il nostro mestiere serve a questo".
"A vendere illusioni".
"Non è l'essenza stessa del cinema?"
"Non pensa che un titolo così sia in qualche misura truffaldino? A che è servito riempire centinaia di sale in più, se la gente che entrava credeva di vedere una commedia con Jim Carrey..."
"È servito a vendere loro biglietti, ecco a cosa. E magari a uno su dieci il film sarà pure piaciuto. Come dovevano tradurlo?"
"Non so, per esempio L'eterna luce di una mente pura".
"Wow".
"Grazie".
"Forse un centinaio di biglietti in tutt'Italia riusciva a venderli anche lei. L'eterna luce di una mente pura, ma certo. Che razza di ipocriti".
"Prego?"
"Mi ha sentito benissimo. Voi, voi tutti che ci odiate, siete solo ipocriti. Per mille euro in più cambiereste il nome anche ai vostri figli".
"No, non credo".
"E per diecimila?"
"N-no, direi di no".
"E qual è il problema? Mi dica, qual è il problema se un film invece di avere un titolo noioso ne ha uno un po' più accattivante? Ha paura di trovare più gente quando entra in una sala?"
"Mi dica soltanto una cosa. Lei si ricorda un film del 2017, di Stephen Gaghan..."
"Buio assoluto".
"Con Matthew McConaughey, che fa il cercatore d'oro..."
"Ah, quello! Non male dopotutto".
"È lei che ha deciso di sottotitolare la versione italiana "La grande truffa"?"
"Sì, è successo".
"Mi può spiegare il perché?"
"Non c'è già arrivato da solo?"
"Ma..."
"Senta, il nostro non era un lavoro da dilettanti (continua su +eventi!)Non è che ci sedevamo in un angolo e tiravamo fuori bigliettini da un sacchetto. C'erano indagini di mercato precise. Le commissionavamo, le analizzavamo, e ne ricavavamo delle indicazioni preziose. Se le dicessi - e non lo confermo - ma se le dicessi che la parola "truffa" in un titolo italiano valeva da sola seimila biglietti in più..."
"Aveva almeno visto il film?"
"Crede che fosse un gioco? Crede che non li amassimo, noi, i film? Mio padre era un appassionato di nouvelle vague, lo sa?"
"Si è reso conto di aver rivelato il finale del film nel sottotitolo?"
"Beh, adesso, poi, il finale del film..."
"Se n'è reso conto o no?"
"Senta, lei non può capire certe volte la pressione. Me lo ricordo bene quel film, e le attese che aveva generato - era una storia pazzesca. Lo sa che lo doveva fare Michael Mann, a un certo punto? E poi è passato..."
"...a Spike Lee".
"Ed era un veicolo per McConaughey, che in quel momento andava fortissimo. Sembrava un colpo sicuro. Ci avevamo investito. Ma poi... a un certo punto si scopre che il regista è cambiato di nuovo, ed è questo... come ha detto che si chiama?"
"Gaghan. Ha scritto e diretto Syriana".
"Ecco, basta dirlo. Syriana. Fosse stato per me, l'avrei chiamato 40 Notti di Petrolio. Ma avrebbe floppato lo stesso. Ci facciamo dare un copia per farci un'idea, e scopriamo che ovviamente è un casino. Il tizio ci stava fottendo".
"In che senso?"
"Andava alla cieca, sapeva che sottoterra da qualche parte aveva una storia, ma non capiva dove cercarla. Ogni tanto tirava fuori qualche idea, ma non era roba del suo sacco. Qualche idea da David O. Russell, qualche pezzo fregato a Scorsese - come se Scorsese facesse materiale che si camuffa facilmente".
"Ma c'era pur sempre McConaughey".
"Altroché se c'era. Fin troppo. Spalmato in ogni fotogramma. Come a dire: pensaci tu. Una palese dichiarazione di inadeguatezza dietro la macchina da presa".
"Però il personaggio serafico di Édgar Ramírez è perfettamente complementare a quello del protagonista".
"Sì, vabbe', resta il problema di due ore di primi piani di McConaughey, che se fossero i primi anni Zero andrebbe benissimo, ma è un McConaughey con la pelata e i denti storti. Recensioni perplesse. Box office americano in picchiata. Dovevamo inventarci qualcosa, capisci?"
"Ma è una storia fantastica".
"Che ti posso dire, si vede che non bastava".
"Era un buon motivo per... per..."
"Avanti, dillo".
"Per spoilerarla?"
"Seimila biglietti in più, figliolo. Seimila biglietti".
"...di gente che si sarà sentita presa in giro e avrà pensato: non ci torno mai più al cinema".
"Lo crede davvero? Ma no, tornavano sempre. Quella era gente che al cinema ci andava, era qualcosa di più forte di loro. La fame di illusioni".
"Se è così, perché la ritrovo in bolletta e senza un mestiere?"
"È finita la gente".
"Ovvero..."
"Finita. Invecchiati o morti. I giovani guardano serie in tv, la fine era segnata. Abbiamo solo cercato di viverci finché abbiamo potuto. Non è quello che facevano tutti?"
"Cosa facevano tutti?"
"Non saprei, ero quasi sempre al cinema. Ma mi ero fatto questa idea che scavassero buche".
"Buche? E perché?"
"Per riempirle".
"Non capisco".
"Per sentirsi impegnati, professionali, indaffarati, e magari qualche volte per caso trovavate un po' d'oro e vi ripagavate la spesa. Ma il più delle volte l'oro lo gettavate voi. Non andava così con tutto, in quegli anni?"
"Si è fatto tardi, può tenere la bottiglia".
"Non buttavate un sacco di soldi dei genitori in startup che servivano sostanzialmente a percepire fondi per le startup? Non passavate anche voi il tempo a inventarvi titoli fantasiosi per i vostri progetti, per i vostri curricula?"
"È stato un piacere, addio".
"Cosa si aspettava di trovare salendo quassù, l'uomo che ha ucciso il cinema? Il cinema non muore, il cinema è tutto intorno, basta trovare qualcuno disposto a farsi..."
"Fregare".
"...raccontare una bella storia"
"Non è una bella storia se sveli il finale".
"Non mi sono mai piaciuti i finali. La vera magia del cinema è quando si spengono le luci, e la gente spegne il telefono, e al botteghino ti dicono quanti biglietti hanno venduto..."


Gold è al Cine4 di Alba alle 19:30 e 21:00; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e 22:40; al Vittoria di Bra alle 20:00, 22:30; al Cinecittà di Savigliano alle 20:15 e alle 22:30. Non fate troppo caso al sottotitolo italiano.
Comments (2)

Storia di un panino deludente

Permalink
The Founder (John Lee Hancock, 2016)

L'arca dell'alleanza.
Non c'è niente al mondo che valga come la perseveranza. Non il talento: nulla è più comune di un fallito di talento. Neanche il genio: il genio misconosciuto ormai è un luogo comune. Né l'istruzione: il mondo è pieno di straccioni istruiti. Solo la perseveranza e la determinazione sono onnipotenti. (Da The Power of the Positive, un libro che non esiste).

Ray Kroc non ha inventato il fast food: quello lo hanno messo a punto i geniali gemelli Dick e Mac MacDonald, nel loro ristorante di San Bernardino (CA), sfidando tutte le convenzioni degli anni Cinquanta (niente tavoli, niente cameriere, niente juke box) per concentrarsi su un solo obiettivo: servire istantaneamente hamburger e patatine. Kroc non ha inventato il franchising più efficace del mondo, anzi finché lo gestì lui direttamente non riusciva a rientrare nei costi di gestione. Kroc non ha nemmeno trovato un modo per risparmiare sulle celle frigorifere: l'idea arrivò dalla sua futura seconda moglie. Nell'impresa più epica della ristorazione moderna, Ray Kroc non ha messo il nome, non ha messo la faccia, non ha messo le idee: e allora perché è lui, e non un altro, il Fondatore? Perseveranza.

La terra promessa
The Founder, il film di John Lee Hancock dedicato a Ray Kroc, assomiglia un po' a quei primi esperimenti che i fratelli MacDonald avevano tentato prima di imboccare la strada giusta (e incontrare Kroc). Sulla carta, l'idea è perfetta. Un biopic su un personaggio controverso e visionario, commesso viaggiatore per vocazione più che per necessità. L'America che ha in mente è un luogo usa e getta, smontabile e ricomponibile, una pista autostradale solcata da viaggiatori frettolosi e rapaci come lui; prima di incrociare i fratelli MacDonald, Kroc aveva provato coi bicchieri di carta e i tavolini pieghevoli. I suoi primi veri discepoli sono disperati che vagano di strada in strada, di corridoio in corridoio, cercando di vendere qualsiasi cosa (fulminante l'episodio del venditore ebreo di bibbie protestanti). Come l'Aviatore di Scorsese, il Petroliere di Anderson, lo Zuckerberg di Sorkin e Fincher, Kroc è innovatore e prototipo: se si porta dentro una psicosi, non sarà contento finché non la condividiamo. The Social Network in particolare sembrava un ottimo precedente: anche stavolta l'eroe mefistofelico ruba l'idea a due bravi ragazzi non altrettanto determinati. I Big Mac non saranno interessanti e attuali come i social network, ma il loro pubblico al cinema in teoria ce l'hanno, specie se ne parli male (volete sentirvi vecchi? Super Size Me compie tredici anni). The Founder poi poteva contare sulla regia di John Lee Hancock, il regista di uno dei biopic più interessanti e stratificati degli ultimi anni, Saving Mr Banks: e del momento di grazia di Michael Keaton, dopo Birdman e Spotlight (due Oscar al miglior film in due anni). The Founder non poteva proprio andare male. E invece...

A quattro mesi dall'uscita nelle sale, il film non ha ancora coperto le spese di produzione (continua su +eventi!) Ai critici è piaciuto; i giurati dell'Academy hanno fatto finta di non vederlo; il pubblico non si è fatto vedere. Cosa non ha funzionato? Difficile dirlo. Da fuori il prodotto si presenta bene. Il primo morso è davvero stuzzicante - l'odissea di Kroc attraverso l'America, alla ricerca del solo messaggio di speranza in un futuro usa-e-getta: il piccolo ristorante di San Bernardino che non ha (incredibile!) nemmeno i tavolini, i piatti e le posate. È più tardi che ti rendi conto che The Founder non ha neanche lontanamente lo stesso sapore di The Social Network; quando nella seconda metà ti rendi conto che l'intreccio ruota sull'opportunità di inserire in menu un frappé liofilizzato. Manca molto più di un cetriolino; il formaggio è insapore; il bacon cartone abbrustolito, le patatine più gommose che croccanti. The Founder sembra il prodotto che ti servono in certi Mac, non sa di niente ma tanto tu lo manderai giù lo stesso perché il sapore del Mac ce l'hai già in testa, certe patatine sono solo un placebo. In cucina Keaton si dà da fare come al solito, ma tutto sembra dipendere da lui; le scene clou sono risolte in brevi dialoghi al telefono, le storie d'amore finiscono e iniziano nel tempo di alzarsi e sedersi dai tavoli. The Founder avrebbe potuto essere un grande film su una delle più straordinarie storie del capitalismo, ma a un certo punto è saltato il controllo qualità. È un vero peccato. All'Aurora di Savigliano, mercoledì 26 e giovedì 27 alle 21.
Comments

Lei non si lascia scomporre

Permalink
Elle (Paul Verhoeven, 2016)

Tua madre è innamorata, si è fatta un altro po' di botox. Tuo papà è ergastolano, ma ancora sta in tv. Tuo figlio vuol fare il papà, ha messo incinta una matta, chiede due mesi d'affitto più le spese. Al lavoro c'è un dipendente che gioca a incollare la tua faccia su delle animazioni 3d sodomite, ma d'altro canto se lavori nel campo dei videogiochi la tua quota di psicopatici ti tocca. Il tuo amante sta diventando un po' ossessivo, l'ex marito è depresso perché fa lo scrittore francese, che altro? Ah già, c'è un tizio che ogni tanto entra in casa e ti violenta. Quasi dimenticavi. Buon Natale, Michèle, e felice anno Nuovo.

Paul Verhoeven non si è mai dato troppa pena di giustificare quello che faceva. Gli piaceva un certo tipo di violenza che Hollywood, fino a un certo punto, gli ha consentito: oltrepassato quel punto è tornato in Europa, dove le regole sono più ambigue, non necessariamente più tolleranti. Dopo un lungo purgatorio è finito in Francia, ed è incredibile quanto ci si sia ambientato - non avrei mai immaginato che un film tanto verhoeveniano potesse anche essere tanto francese. È un film di ordinaria follia, ma anche di borghesi che vanno al Monoprix a scegliere il borgogna da accompagnare alla lasagna, se trovano il vicino di casa lo invitano - e hanno tutti una cantina insonorizzata dove chissà che cosacce fanno. O potrebbero averla. Non dovresti fidarti di nessuno, ma poi sono tutti così gentili che lo fai lo stesso. Anche se è tratto da "Oh...", un romanzo di Philippe Djian (da cui la quota sindacale di ironia sui romanzieri francesi) Elle non doveva essere così francese, in partenza. La produzione cercava un'attrice americana, ma non si trovava, e bastano pochi minuti di film per capire il perché. Alla fine è entrata Isabelle Huppert, a cui nel film capita qualsiasi cosa, ma forse la violenza peggiore è vederla doppiata. Quando l'anziana madre le chiede: ma se mi risposassi tu cosa faresti?, e lei le risponde: ti uccido, beh, in originale è un j'te tue, così semplice, così naturale, con la stessa intonazione con cui sceglierebbe un dessert o negherebbe un premio di produzione a un dipendente, che ti fa capire che non scherza: per lei l'idea di uccidere la madre è davvero la cosa più naturale al mondo.

Elle deve aver fatto uno strano effetto agli spettatori di Cannes. In mezzo a tanti film sul disagio del neoproletariato europeo, un film di borghesi parigini che si scopano e si uccidono con quel savoir faire che incute sempre un certo rispetto, se non ammirazione. Però non credo, come Francesco Boille, che a Verhoeven interessasse mostrare la degenerazione di una determinata classe sociale. Verhoeven non ce l'ha con la borghesia francese: è che alla prova dei fatti solo la borghesia francese è in grado di esprimere film così. Romanzo, soggetto, ambientazioni, attrice: altrove sarebbe stato impensabile. Invece Boille non ha tutti i torti sul modo in cui l'assenza di moralità di Verhoeven ci consente, per contrasto, di verificare la nostra: come ai tempi di Starship Troopers, più che un film fascista un test sul fascismo: lo prende, lo colora, lo rende più pop e più gender equal, e poi te lo sbatte in faccia: ti piace? Perché anche se ti piace rimane fascismo lo stesso, facci caso.

A Verhoeven interessa la violenza (continua su +eventi!)

A Verhoeven interessa la violenza - sia quella esibita in video, sia quella che si può fare sullo spettatore, tenendolo in ansia per più di un'ora. Non solo ci viene continuamente suggerito che sta per capitare qualcosa di terribile: ma all'inizio abbiamo la sensazione che qualcosa altro di ugualmente terribile sia già accaduto. Di tutti i presunti figli di Hitchcock, forse è l'erede più credibile perché porta nel sangue analoghe ossessioni e non ha, come Hitchcock, nessuna ansia di giustificarle. Elle lascia in bocca lo stesso sapore amaro di Marnie, è passato mezzo secolo e in teoria ora ci sono tante cose di cui possiamo parlare: ma non importa. Verhoeven è lì per ricordarci che non è vero: ci saranno sempre desideri inconfessabili, ci sarà sempre qualcosa di cui non parleremo volentieri. Può essere amorale ma il suo personaggio non lo è: Michèle è una libertina, ha una chiara nozione di cosa sia bene e cosa sia male: salvo che quest'ultimo la solletica. Ci saranno sempre regole e proibizioni e chi avrà il potere lo userà sempre per aggirarle, altrimenti che potere è. Qualcuno l'ha chiamato un "rape revenge drama": c'è chi ha bisogno di una definizione, e pur di trovarne una fa finta di vedere un alto film.

Elle si presta a varie interpretazioni, ma si può godere anche come un thriller dove qualsiasi cosa può succedere in qualsiasi momento; può farci arrabbiare o sorridere, e almeno la nostra rabbia e il nostro riso avranno avuto un senso. Ma può anche lasciarci indifferenti: che è poi la posizione della protagonista, e di uno dei personaggi meno in vista, a cui tocca una delle ultime battute del film. Una persona che all'apparenza è l'esatto contrario di Michèle: che ha una moralità, una religione; e che allo stesso tempo non è l'avversaria, anzi forse aveva capito tutto dall'inizio. Elle è al Vittoria di Bra (17:00, 20:00), al Fiamma di Cuneo (15:00, 18:00, 21:00) e all'Aurora di Savigliano (18:30, 21:00).
Comments

Il mondo finisce un'altra volta

Permalink
È solo la fine del mondo (Xavier Dolan, 2016)


Ogni volta che muori, il mondo finisce con te: quindi di che cosa ti preoccupi? Di chi ti lasci indietro? Li hai ignorati per tutta la vita, la morte cosa cambia? Vorresti lasciare un buon ricordo? Comprensibile, ma forse è un po' tardi. Vuoi chiedere scusa? Si vede che non sei ancora così morto, ai morti queste cose non interessano. Non si sentono in colpa, non si sentono in dovere, non si preoccupano di noi.

"Tutto bene?"
"Sì che vuoi?"
"Niente. Sei occupato?"
"Devo scrivere la recensione".
"Ottimo. Ti è piaciuto il film?"
"Devo pensarci".
"Allora non ti è piaciuto".
"Ma a te poi che ti frega?"
"Quando ti piacciono te ne accorgi subito".
"Non hai veramente niente di meglio..."
"Quando tergiversi, quando vai a vedere le recensioni, le percentuali di giudizi positivi, i premi... hai paura di fare una brutta figura".
"Io? Si vede che non mi conosci".
"È più giovane di te, vero? Il regista".
"Questo cosa c'entra".
"Mi preoccupo, sai, perché..."
"Ma perché ti devi preoccupare, non ha proprio senso".
"...succederà sempre più spesso, man mano che avrai avanti. Musicisti più giovani, registi più giovani, persino un presidente del consiglio, se non sbaglio".
"Era l'ultimo dei suoi problemi".
"Devi cominciare ad accettarla, questa cosa".
"Che sto invecchiando? La accetto".
"Bravo".
"Non che ci fossero alternative".
"Una c'era. Quanti anni ha il regista?"
"Non lo so... va per i trenta".
"Uh, un ragazzo!"
"Non è questo il problema".
"Sicuro?"
"C'è un tipo di cinema che proprio non mi prende. Colpa mia. Io nasco lettore, è la mia formazione. Se mi prendi un testo teatrale e sostituisci i monologhi con gli sguardi intensi e i primi piani, io non ci casco".
"Quindi è un limite tuo".
"Non dovrei scrivere di cinema. Non di questo tipo di cinema, almeno. Per me il primo piano più intenso non sarà mai significativo come un discorso. Se hai da dire delle cose, dille. Se guardi fisso in camera non mi stai dicendo cose. Non importa quanto sia espressivo il tuo broncetto e ben impaginata l'inquadratura, tu non mi stai dicendo cose".
A lei comunque voglio bene.
"Il cinema è fatto di immagini".
"In movimento, però".
"Perché non sei andato a vedere Lego Batman?"
"Non mancherà l'occasione".
"Insomma non ti è piaciuto".
"Non è il mio tipo di film".
"L'età non c'entra niente?"
"Cosa dovrebbe c'entrare?"
"Dolan non ha trent'anni, che vuoi che ne sappia?"
"È un regista bravissimo e bisogna dargli atto che un'ora e mezza filano dritte come un treno, sembra sempre che stia per succedere qualcosa di orribile che poi..."
"Non come regista. Come persona. Che vuoi che ne sappia di cosa vuol dire morire?"
"Immagino che ci abbia ragionato, come tutti".
"A vent'anni? Lo sai anche tu come sono i ventenni?"
"No non lo so".
"Romantici".
"Sai che non sono d'accordo. Davanti alla morte abbiamo tutti la stessa età".
"E quindi cos'è che ti affligge?"
"Non lo so, è una sensazione, è... hai presente Natural Blues di Moby?"
"Why does my heart feel so bad?"
"Quella?"
"Ti piace?"
"La odio".
"Ecco, mi pareva" (continua su +eventi!)
"È uno di quegli esempi lampanti di Kitsch in musica... Un banale pastone dance impreziosito da un campionamento blues falso come l'ottone. E non ci sarebbe niente di male".
"Non hai niente contro la dance, adesso?"
"È un prodotto come un altro, ma questa idea che Moby la voglia fare di nicchia, la techno d'autore. Sono Moby, sono un genio, ho messo il blues nella house, so che non vedevi l'ora di sentirti profondo mentre ballavi in un club fighetto a fine anni 90".
"Coraggio, dillo".
"Cosa devo dire?"
"Che tu già a fine anni '90 eri... coraggio!"
"Troppo vecchio?"
"...per queste stronzate".
"Ma non è un problema di età. È proprio un pezzo brutto".
"Tutte le generazioni hanno i loro pezzi brutti. Poi la nostalgia, sai com'è".

(Ma alla fine voglio bene anche a loro).

"Non è un problema di nostalgia. La nostalgia la capisco. Sono cresciuto con questa canzone scema, so che è scema ma mi ricorda il primo amore, scusate, ok, ci siamo passati tutti, espediente non nuovo ma tollerabile. È il motivo per cui a un certo punto mette i Punk Bimbominchia, come si chiamano, i Blink-numero-a-caso".
"182".
"Ma Moby lo mette in fondo, Moby se lo tiene proprio come strappamutande finale, te lo immagini proprio questo ventenne che pensa adesso vedete che vi commuovo, adesso accendo le luci in sala e vi metto il pezzo che vi strizza il cuore come una spugna, dopodiché ecco cominciare un brano che per me ha lo stesso spessore emotivo della Lambada".
"È vero che a te piaceva la Lambada".
"C'è molta, molta più poesia nelle silhouette dei ballerini sul molo, contro il tramonto".
"Quindi lo stroncherai perché ha scelto la canzone sbagliata".
"Ma non è uno sbaglio, è proprio che... che il film è precisamente così, crede di essere una bomba emotiva e invece è solo il tranello di un dj disperato che pompa i bassi per far battere il cuore alla gente. E impreziosisce il tutto incastrandoci un testo teatrale raccattato dallo scaffale, ovviamente una cosa triste triste che gira a vuoto, perché mi sento così? Perché? Stai per morire, va bene, si è capito nei primi cinque minuti. Se non sai che altro dire... se non sai dire nemmeno quello..."
"Mi preoccupi, sai".
"Non è vero".
"Non vorrei che ti trasformassi in uno di quegli attempati brontoloni che..."
"Tu non sei in grado di preoccuparti, basta con questa stronzata".
"Non voglio dire che mi deludi, ma credo che potresti fare di meglio, l'ho sempre creduto".
"Piantala - poi questa cosa di urlarsi in faccia le peggio cose, tra famigliari, non so quanto Dolan si renda conto che è proprio un luogo comune del cinema continentale, cioè gira che ti rigira è riuscito a girare un film dove gli attori francesi passano il tempo a mandarsi affanculo o a dirsi "t'es malade", non esattamente il primo che vedo, ecco".
"E non ti fanno più effetto".
"I francesi che si urlano in faccia? Son quasi peggio degli italiani. C'è pure la scena in macchina, così possono litigare senza troppi controcampi. E allora è un genio anche Muccino, rivalutiamo Muccino".
"A te proprio non la si fa".
"Senti, l'ho già detto, è bravo. Però un'ora e mezza di riunione di famiglia di francesi che si urlano cose in faccia non... non..."
"Non è la fine del mondo".
"Non per me".
"Dovevi andare a vedere Lego Movie".
"Ti sto deludendo?"
"Non ti devi preoccupare di questo".
"Sei tu che non ti devi preoccupare".
"Facciamo che non si preoccupa nessuno".
"Tutto qui?"
"Puoi mettere un pezzo se vuoi".
"Chorando se foi quem um dia so me fez chorar..."
"Sei un idiota lo sai".

È solo la fine del mondo è al cinema Lux di Busca, giovedì 9 e venerdì 10 marzo alle 21. Spoiler: il mondo non finisce.
Comments (11)

Jackie è nella Casa

Permalink
Jackie (Pablo Larraín, 2016)



Signora Kennedy lei non ha / bisogno di scusarsi per il fatto che si trovava fuori sul bagagliaio / negli attimi successivi al momento in cui suo marito era stato colpito. / tutti hanno potuto vedere quel che era successo / in queste fotografie con i propri occhi ... / perché è stata distorta la verità di esseri umani? / a che serve questa immagine eroica? / nessuno è un eroe... / perché sono deliberatamente ingannato con confuse menzogne / a proposito di ciò che vedo con occhi sani / chi sono io per essere insultato così? 

Prima di ricomporsi in pubblico e adottare quella maschera cool che ci si aspettava da lui, Bob Dylan ebbe il tempo per lasciarsi sconvolgere dall'assassinio di Kennedy come qualsiasi altro americano. Scrisse quattro 'poesie' a caldo - in quel periodo definiva 'poesia' tutto quello che gli usciva di getto senza preoccupazioni metriche -  la prima delle quali era dedicata alla vedova Jacqueline. Più che una poesia è una lettera, senza le affettazioni tipiche del Dylan-alla-macchina-da-scrivere-che-si-crede-un-poeta. È un messaggio di scuse, quello che oggi potrebbe scrivere un personaggio pubblico sulla bacheca di facebook di un altro personaggio pubblico. È anche una riflessione su come i media e le fotografie mettono le persone in cornice o sulla gogna. Nei giorni immediatamente successivi all'assassinio politico più famoso del XX secolo, qualcuno era riuscito a biasimare Jackie Kennedy perché invece di difendere in un qualche modo il marito si era alzata, sporgendosi sul bagagliaio. Ufficialmente lo aveva fatto per aiutare una guardia del corpo a salire sulla berlina. Nell'intervista a Theodore White, giornalista di Life, emerge un altro probabile motivo: un pezzo di testa del presidente Kennedy era schizzato sul bagagliaio; Jackie si era alzato per raccoglierlo. Lo aveva rimesso al suo posto. Era evidentemente in stato di choc. Ma era anche Jacqueline Kennedy: avrebbe tollerato che le cose non fossero al loro posto?

Jacqueline Lee Bouvier Kennedy Onassis, detta Jackie, a distanza di mezzo secolo, è ancora un personaggio delicato, che impone cautela a chi lo maneggia. Forse addirittura sta diventando più delicata col tempo - ho in mente quella vecchia serie NBC degli anni Ottanta, in cui tutto sommato passava per una signora di buona famiglia ossessionata dagli interni della Casa Bianca - nozione che il regista Larraín o lo sceneggiatore Noah Oppenheim non tentano nemmeno di smentire: si tratta piuttosto di scavarci intorno, di problematizzare la cosa, di spiegare che dietro la cura per soprammobili e passamanerie c'era una riflessione sulla regalità della figura del Presidente, che emergeva ormai dalle brume della prima guerra fredda come l'uomo più potente del mondo. A quel punto era necessario lavorare sui simboli e sulle scenografie: un re deve vivere in una reggia, e sfoggiare una regina consorte. Sennò poi succede come ieri, che ti ritrovi su tutti i giornali una tizia coi piedi sul divano in Sala Ovale, e la cosa potrebbe avere ripercussioni in politica estera.


Un certo tipo di mitologia casabiancana nasce proprio con Jackie, che fu molto criticata in vita per questo (anche dal marito). Oppenheim osa finalmente dichiarare l'evidenza: Jacqueline Kennedy era, nella coppia, la più all'altezza del ruolo. Il marito era un mezzo disastro, un miliardario pasticcione che in tre anni si fece coinvolgere nel flop della Baia dei Porci, nell'escalation del Vietnam, e con la crisi dei missili portò il mondo a un passo dal conflitto atomico. La stampa conservatrice lo trattava più o meno come i liberal ora trattano il nuovo inquilino miliardario. Nel frattempo la moglie trasformava la Casa Bianca in Camelot, che è poi la vera grande eredità del 35mo presidente degli Stati Uniti. Era tempo che Hollywood riconoscesse a Jackie quello che era di Jackie. Senonché ci si è messo in mezzo Pablo Larraín. Una scelta abbastanza bizzarra, ma curiosamente in linea coi tempi, che sono piuttosto confusi.


Ci pensavo l'altro ieri, a Oscar consegnati. Secondo me Hollywood è nel pallone (continua su +eventi!) - non per il caos alla premiazione, quello è un incidente dal quale con un po' di sforzo si può cavare un simbolo, se fossi un mitografo come il giornalista Theodor White - o la stessa Jackie - o Dylan - magari mi ci proverei. Non è neanche Trump il problema (magari lo sarà nei prossimi anni - o magari sarà una soluzione, finalmente c'è un villain all'altezza del ruolo). Secondo me Hollywood non sa più che film premiare. Se la sono tutti presa con La La Land, un film che oscilla continuamente tra il dilettantesco e l'ipercitazionista. Dicevano: 14 nomination sono troppe. Può darsi, ma a chi darle, sennò? Che altri bei film avete visto nel 2016? Siamo onesti: avrebbe dovuto vincere tutto Zootopia. La rosa dei candidati era qualcosa di deprimente. Moonlight è un film che fino a qualche anno fa molti giurati non avrebbero nemmeno visto per intero, un film all'europea, intimista, diciamo pure ombelicale. Ormai il grosso dei budget è concentrato sulle saghe, e le saghe si stanno divorando tra loro: buttano fuori la stessa zuppa sempre più abbondante, sempre più pasticciata, tanto la gente manda giù di tutto.

Non è che non ci siano idee, non è che manchino gli sforzi produttivi coraggiosi. Ma ormai si concentrano sulla tv. Jackie a un certo punto doveva essere una miniserie HBO, e questo spiega in parte lo strano respiro del film - è come se Larraín abbia potuto pescare da una rosa di scene madri, a un certo punto c'è una interminabile mega-sequenza che è un mix di tre finali di tre possibili episodi: Jackie sta parlando al giornalista ma sta anche parlando a un prete, ma sta anche seppellendo Jack, ma sta anche tenendogli in mano il cranio, stretto come un vaso perché ne coli meno sangue possibile. Nel frattempo io mi sto addormentando, ma anche domandando se non è il miglior film che ho visto del 2016; o se non è per caso il peggiore; se Larraín voglia bene a Jackie o se non abbia deciso di prendere in giro gli yanquis in un modo talmente sublime che rischiava di vincerci un Oscar (è abbastanza incredibile che Natalie Portman non l'abbia vinto).




Il film all'inizio doveva farlo Aronofsky con Rachel Weisz, poi si sono lasciati e Aronofsky ha avuto questa pazza idea di proporlo a un regista cileno che a Hollywood non aveva mai lavorato. In un certo senso aveva visto giusto: Jackie era un personaggio perfetto per Larraín. È una pubblicitaria, una mitografa, una persona che vive nel suo stesso racconto. Ma di solito Larraín questi personaggi li racconta da fuori, con un'esibita freddezza, che a Hollywood non si può che stemperare. La Jackie di Larraín è una comunicatrice navigata, ma è anche una donna sconvolta che si aggira per i corridoi della 'sua' casa bianca come Jack Nicholson in quell'albergo. Dice cose molto sottili ma anche cose pazzesche. A un certo punto si lamenta con Bob che l'assassino sia solo un comunista da due soldi: se almeno l'avessero ammazzato per i diritti civili, avrebbe avuto più senso, no? È sotto choc, ma è anche un po' mitomane. Perché il suo autista si ricorda di Lincoln e non degli altri presidenti assassinati? Perché ha abolito la schiavitù? No: perché ci fu un funerale in pompa magna. E quindi ci vogliono più cavalli! Più cannoni! Poi cambia idea. Poi la cambia di nuovo. In una miniserie forse Larraín avrebbe trovato il ritmo. Qui è tutto contratto, mescolato secondo libere associazioni, al punto che sembra un sogno e forse a un certo punto stavo sognando sul serio.

Io la rispetto Signora Kennedy / ma non ho bisogno di fotografie per fornire rispetto... / il mio rispetto nasce da motivi che sono nel mio animo / che non posso toccare / né spiegare... 
Non mi sento meglio sapendo che lei è umana / Lo sapevo da sempre 
Bob Dylan 

Jackie è all'Impero di Bra alle 20:20 e alle 22:30; al Fiamma di Cuneo alle 21:10.
Comments

Quattro funerali e due divorzi a Manchester (sul mare)

Permalink
Manchester By The Sea (Kenneth Lonergan, 2016).

Hai presente certi ceffi che vedi al bancone, nel tardo pomeriggio o se ripassi all'ora di chiusura, sempre una pinta davanti mezza vuota, hai presente quel tipo di espressione...
"Non fissarlo".
...ma è più una smorfia, di uno che la vita l'ha preso a legnate ma per qualche motivo si è dimenticato di darle il colpo finale, e forse la birra serve a questo, o a lenire il dolore, o a dormire senza sogni, chi può dirlo.
"È meglio se non lo fissi, dammi retta".
È che mi ricorda qualcuno.
"Casey Affleck in quel film?"
Oddio cosa mi hai fatto pensare.
"Con venti chili in meno, magari".
Che è il principale problema di quel film.
"Un problema? Che Casey Affleck è in forma?"
Sono contento per lui e il suo affezionato pubblico, ma interpreta un tizio che, hai presente la trama? Beve una birra all'ora almeno da dieci anni. E ancora ha una linea fantastica...
"Sarà la neve che spala dal suo abbaino".
...ed è il sogno erotico delle inquiline dei palazzi in cui lavora da tuttofare. Allora sì, dico che c'è un problema con i corpi che Hollywood presta al cinema d'autore. Non sono realistici, non mi parlano del mondo in cui abito, non ho niente contro Casey Affleck, gli auguro tutti i premi, ma sembra calato nel Massachusetts da un film di gangster, o di supereroi, è di nuovo lo stesso problema di Captain Fantastic: sono tutti troppo belli perché io me la beva. E bersela è un po' il senso di andare al cinema, no?
"La sospensione dell'incredulità".
Esatto.
"Adesso comincia a fissarti lui, vedi?"
Chissà che gli è successo, poveraccio.
"Non sono fatti nostri".
Perché invece quello che succede a Casey Affleck?
"Eh? Stai scherzando?"
No. Spiegami per quale motivo al mondo dovrei interessarmi all'elaborazione del lutto di Casey Affleck. Un lutto finto, tra l'altro. Come se non avessi già i lutti miei che mi danno da fare.
"Hai bevuto".
Questo in realtà è un altro film, ma è la foto più recente
che ho trovato di Casey Affleck al bancone. 
Un po' sì, ma in malto veritas. Spiegami sul serio: perché devo stare male? Perché mi ha fatto star male, quello stronzo di Lonergan. Mi ha fatto stare in pena per gente che non è mai esistita. Come se non avessi già la mia gente, viva o morta, che reclama attenzione e lacrime, no, devo pure provare pena per questi figurini che patiscono come la gente normale e bevono più della gente normale ma non ingrassano mai.
"Senti. È un film che è piaciuto a tutti. A tutti, capisci?"
E beh certo, chi vuoi che si metta contro dei bambini morti (continua su +eventi!)


"Può sembrarti ricattatorio, ma è un fatto che film di questo tipo funzionino. Forse assolvono a una funzione catartica".
E allora dichiaro che con me non succede.
"Ma sarà un problema tuo, non di Lonergan".
Sono uscito con sette euro in meno e un magone in più. Non dico che mi ci sbronzavo con sette euro, ma poteva essere un buon inizio, no? Ma sul serio ma la gente normale non ce li ha i suoi morti da piangere, che ne deve prendere in prestito di finti al cinema? Non ci ha nessun amico o parente che ti tormenta nei ricordi? Ah ma io vi invidio a voialtri che nel tempo libero giocate all'elaborazione del lutto come se fosse un passatempo.
"Parla piano, adesso ci guardano tutti".
Che io posso capire Nanni Moretti. Perché alla fine ormai è uno che conosco. O almeno ci ha dato questa sensazione. Per cui se Nanni Moretti perdesse un figlio, o una moglie, o una mamma, o il cane, non è escluso che tra dieci anni ci faccia un film su quella volta che ha smarrito il cane, io però comunque ci vado perché, cosa vuoi che ti dica, anche quando non è in forma ormai è un conoscente, Nanni Moretti, e se sta male mi sento in dovere di starci un po' anch'io, funziona così. Non dico che abbia un senso, eh? Però funziona.
"Ma perché tiri fuori Nanni Moretti in birreria, dai..."

E poi il ragazzo è uno stronzetto insopportabile, lo vogliamo dire?
Ma questo Lonergan chi è, che cazzo vuole da me, un Oscar? Li danno ogni tot ettolitri di lacrime inutili spremute a sconosciuti? Cioè non è un problema il ricatto. C'è un sacco di registi là fuori che ti ricatta. Prendi Moonlight: vuoi dirmi che è difficile crescere afroamericani e gay? Ok, lo ammetto, non ci avevo mai pensato tanto, adesso che me lo mostri devo riconoscere che crescere gay in un ghetto è veramente dura. Hai il mio rispetto, mi hai fatto stare un po' male ma mi hai anche insegnato qualcosa. Ma Lonergan porcaputtana, che mi dovevi dire? Ricordatevi sempre di spegnere il camino? Ci ho i termosifoni in casa Lonergan, vaffanculo!
"Va bene, adesso usciamo".
No aspetta voglio dire qualcosa a quel tizio che continua a fissarci.
"Ma sei tu che hai cominciato".
Infatti e adesso vado là e gli rompo il naso. Sembra che me lo stia chiedendo.
"Ma perché vuoi fare una cosa del genere, fammi il piacere".
Perché non posso romperlo a Lonergan, né ad Affleck, il quale peraltro me le darebbe indietro. Invece 'sto tizio è proprio appesantito il giusto, ehi scusa, tizio ci conosciamo?
"Manchester By The Sea è il film drammatico di Kenneth Lonergan in programmazione al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 21. È candidato a sei Oscar, è molto triste ed è piaciuto a praticamente tutti"
No? E allora perché mi fissi, eh? Si può sapere?
Comments (1)

L'audace colpo dei soliti ricercatori

Permalink
Smetto quando voglio 2 - Masterclass (Sidney Sibilia, 2017)

Sono tornati, hanno ancora fame. Dopo essersi spinti ben oltre i limiti della legalità, dopo averne pagato le conseguenze con gli interessi, i Ricercatori hanno finalmente trovato un Ente statale che apprezza le loro straordinarie competenze. E ha un lavoro da offrire, capite? Un lavoro.
A progetto, naturalmente.
Senza assicurazione, beh, ovvio.
In nero, già. Di chi si tratta?
Della Polizia di Stato. Cosa hanno da perdere? Tutto.
Possono almeno smettere quando vogliono?
No.

Sono passati appena due anni - sembra un'era - da quando Sidney Sibilia, al suo esordio dietro la macchina, scoprì la formula che trasformava in action comedy una frustrazione tutta italiana (la fuga dei cervelli, il precariato dei ricercatori). Smetto quando voglio ci pigliò benissimo, era qualcosa di cui non sapevamo quanto avessimo bisogno, finché non l'abbiamo provato.

Da allora la situazione è parecchio cambiata. Mentre Sibilia riposava altri si sono inseriti nel mercato, mettendo in circolazione formule ancora più spinte. Jeeg Robot e Veloce come il vento non sono nemmeno più commedie, sono action e basta: le inevitabili tracce di parodia ridotte al minimo. Smetto quando voglio 2 accetta la sfida: volete l'action? Vi daremo inseguimenti nel parco archeologico e un assalto al treno merci in side-car, con scazzottata in cima ai vagoni. E questo è ancora niente, per la terza puntata ne abbiamo in serbo di fortissime... Per fortuna Sibilia è molto più consapevole dei propri limiti di quanto non appaia: sotto l'apparenza sbruffona c'è una precisa valutazione di quello che può funzionare e quello che sarebbe bello sulla carta, ma è meglio lasciar perdere. Per esempio a un certo punto ci porta a Bangkok, ci illude facendoci sentire odore di kickboxing, ci guida tra i meandri di un mercato e proprio quando sembriamo arrivati a un ring clandestino, taglia corto e la butta in farsa. Action sì, ma con criterio, certe competenze non s'improvvisano. La scena più simbolica è davvero l'inseguimento ferroviario, movimentato e complesso ma prudentemente mantenuto ai sessanta km all'ora. Più forte di così per ora il cinema italiano non può andare: è un problema? Per un regista italiano è già molto, come fai a prendertela con Sibilia? Dopo un inverno di cinepanettoni, cinepandori, cinetorroni, i suoi ricercatori-supereroi sembrano venire da un altro pianeta. Lui stesso sembra sapere che i suoi clienti gli permetteranno qualsiasi cosa e ormai si comporta da impunito, scherza coi feticci del Terzo Reich, flirta col proibizionismo ma solo per far andare avanti la trama. Per quanto ispiri simpatia, si merita d'essere preso sul serio, perché è vero che ha già fatto tanto per l'ecosistema del cinema di genere italiano, ma con un piccolo sforzo potrebbe fare anche di più.


Per esempio: c'era proprio bisogno di ampliare il cast? (Continua su +eventi!) Certo, siamo tutti contenti di vedere Giampaolo Morelli nella banda, ma ormai a ogni comprimario spetta poco più che un siparietto (mentre per paradosso il ruolo di Edoardo Leo diventa ancora più centrale). E se allargare la squadra era l'unico modo per mantenere alto il ritmo, possibile che anche stavolta non ci fosse posto per una ricercatrice? Forse che di studiose super-specializzate e sotto-occupate l'Italia non abbonda? Ecco, un rilievo che si può fare a Smetto quando voglio 2, è che per quanto ammicchi a prodotti americani come Suicide Squad e Ritorno al futuro, non riesce del tutto a uscire dal solco di Amici miei o dei Soliti ignoti: la sua Banda di intellettuali declassati continua ad assomigliare a una cumpa di amici in libera uscita. Un gruppo di soli uomini che fanno per lo più le cose stupide che fanno gli uomini quando escono da soli: zingarate, corse in furgone, droghe di sintesi.

Non è che le donne del film siano stupide, tutt'altro: ma rappresentano una forza ostile che espone la Banda a tensioni distruttive. Greta Scarano (meravigliosa) è la poliziotta senza molti scrupoli che approfitta dei Ricercatori come un qualsiasi barone universitario; Valeria Solarino interpreta in modo sempre più arcigno il Principio della Realtà, pretendendo dal protagonista una normalità impossibile: quando lei è in scena anche il filtro del colore si deprime. E tra i pochi personaggi che non ritornano nel secondo episodio purtroppo c'è la moglie sinti dell'economista De Rienzo. Sarà un pelo nell'uovo, ma siamo nel 2017, persino quel burino di Luc Besson ha capito che i film d'azione oggi si fanno coi protagonisti femminili; e noi ancora stiamo alla moglie col pancione che si lamenta delle rate sulla lavastoviglie, pretende che il marito chimico-spacciatore-informatore faccia il buon marito e l'accompagni alle ecografie anche se è detenuto. E dire che sarebbe bastato aggiungere un'architetta geniale, o una psicologa, un'esperta di biotecnologie, ce n'erano dei rami da coprire. Speriamo nel terzo episodio: e che anche dopo nessuno abbia troppa voglia di smettere. Smetto quando voglio 2 - Masterclass è al Cityplex di Alba (19:30; 21:30); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00; 22:30); al Vittoria di Bra (21:00); ai Portici di Fossano (21:15); all'Italia di Saluzzo (17:00; 20:00; 22:15 e al Cinecittà di Savigliano (20:15; 22:30).
Comments (5)

La La La ti sento eccome

Permalink

La La Land (Damien Chazelle, 2016)

"Buongiorno in cosa posso esserle utile?"
"Buongiorno, io... io ho visto La La Land".
"Allora ha chiamato il numero giusto, questo è..."
"E non m'è piaciuto!"
"...il numero verde per gli spettatori di lingua italiana a cui non è piaciuto. Noi offriamo assistenza a tutti quelli che si domandano..."
"C'è qualcosa che non va in me?"
"Assolutamente no, signora. È una questione di gusti".
"Ma è piaciuto a tutti tranne che..."
"No, signora, stia tranquilla, non è piaciuto a tanta gente. È normale".
"Anche se ammetto che certe cose erano davvero ben fatte, eppure..."
"Siamo lieti che lo valuti positivamente e la ringraziamo per il feedback. Ha avuto anche lei la sensazione che nelle sequenze iniziali la macchina da presa facesse parte della coreografia?"
"Può darsi. Ma non mi è piaciuto lo stesso!"
"Forse non le interessano i musical".
"Non saprei".
"Ha apprezzato altri musical di recente?"
"Io, boh... una volta ho visto Cantando sotto la pioggia..."
"Beh, se ne doveva scegliere uno solo, ha scelto bene".
"...e non c'è paragone".
"Allora vede, signora, forse lei è entrata in sala con aspettative eccessive, perché quando parliamo di Cantando sotto la pioggia siamo proprio al top di gamma, capisce? Sarebbe un po' come aspettarsi 2001 Odissea nello spazio tutte le volte che si va a vedere un film di fantascienza".
"Ed è sbagliato?"
"Non c'è nulla di giusto o di sbagliato, ma forse gioverebbe tenere l'asticella un po' più bassa, rimediare meno delusioni. Al cinema come nella vita".
"Comunque adesso che ci penso è davvero da tanto che non vedo un musical".
"In Italia fanno fatica. Ha presente Sweeney Todd?"
"No".
"Dieci anni fa. Forse l'ultimo Tim Burton importante. 150 milioni al botteghino, nomination a Johnny Depp".
"E in Italia non l'hanno distribuito?"
"Certo. Ma si erano dimenticati di avvertire che era un musical".
"Sul serio?"

"Nei trailer italiani i personaggi non cantavano. Allora forse, mi dico, forse, se attiri al cinema la gente e non l'avverti prima che i personaggi canteranno tutto il tempo, poi è naturale che ci restino male e detestino i musical".
"Ma perché ce l'avremmo coi musical, noi italiani?"
"Chi lo sa. Cocciante è andato in Francia. E Tano da morire? Nessuno si ricorda più di Tano".
"Forse è il rigetto per due secoli di melodramma, dobbiamo espiare per quanto abbiamo stressato il mondo con la Butterfly e la Traviata".
"Più probabilmente è un problema di doppiaggio. Il momento in cui gli attori passano dal recitativo al cantato è molto delicato. Se proprio in quel momento sente cambiare il timbro di voce e la lingua, magari la sospensione di credulità ne soffre e non riesce ad apprezzare il film".
"Ma l'ho visto in lingua originale!"
"Forse si è affaticata leggendo i sottotitoli. La gente è convinta di poter vedere un film e intanto leggere i sottotitoli, ma è più faticoso di quanto sembra":
"Dice che è per questo che a metà del secondo tempo stavo per addormentarmi?"
"Il calo di tono è necessario, fisiologico - sarebbe insostenibile un film tutto coreografato come la prima mezz'ora. Ed è perfettamente previsto dalla storia: prima ci si innamora ed è tutto bellissimo e promettente, e poi... le complicazioni".
"Niente di nuovo insomma".
"No, decisamente no. Ma credo fosse già chiaro dai manifesti, no? È un film sulla nostalgia".
"Ecco, forse sono stanca di tutti questi film nostalgici".
"Mi permetto di dissentire. È un film sulla nostalgia, non è un film nostalgico. Usa il passato in modo funzionale, per ottenere determinati effetti. Non prova neanche per un attimo a convincerti che esisteva davvero un paradiso perduto di gente felice e di oggetti belli".
"I vinile, i vecchi cinema che chiudono, la macchina di James Dean, il jazz fino a Miles Davis..."
"Ok, c'è un personaggio che è un maniaco di queste cose. Ma alla fine tutte queste ossessioni gli si ritorcono contro - anzi, no, sin dall'inizio. Mi sembra lo stesso problema che avevano alcuni con Whiplash: aiuto, c'è un protagonista che sacrifica gli affetti alla carriera! Sì, ma non è mica un personaggio così positivo. Neanche Gosling in questo film lo è".
"Un bianco che spiega il jazz ai neri".
"Per la verità è il contrario; è l'amico nero che gli spiega cos'è veramente il jazz: una continua evoluzione. Mentre lui sembra bloccato nella fase puberale. Ha perfettamente senso che sia bianco, a proposito. L'hipsterismo contemporaneo è roba da giovani bianchi benestanti. L'idea che il jazz coincida con la sua Storia, e che abbia un'età dell'oro, dell'argento, il bebop il cool il free e la Caduta, è una menata da critico bianco. Si ricorda Denzel Washington in Mo' Better Blues..."
"Vagamente".
"...che suona la tromba in una band post-bebop e si domanda: dove sono i fratelli? Perché ci vengono a sentire solo i bianchi? Insomma signora, le può dispiacere La La Land per un migliaio di motivi, ma un tizio che ascolta i vinile, si crede James Dean e si offende perché servono tapas in un locale di samba dev'essere bianco. Ma diciamola tutta. Dev'essere Ryan Gosling".
"Anche se non balla un granché bene".
"Ma ne è sicura?"
"Un po' legnoso".
"Ma signora, aveva detto che a lei non piacciono i musical, è sicura di poter giudicare la prestazione di Ryan Gosling? Di sicuro non è Fred Astaire, ma balla in modo più che passabile e ha una voce educata e gradevole. In più è perfetto per la parte, insomma, è sicura che avrebbero mai potuto trovare di meglio?"
"A questo punto mi aspetto che difenda anche Emma Stone".
"Beh, sì, è perfetta. Cioè, no, è proprio la sua imperfezione che la rende... perfetta per la parte. È una che non sei mai sicuro se ce la farà. Quando intona, quando parte a ballare, quando è a un provino, è sempre sull'orlo del baratro. E se ne rende conto. È una scelta ottima, davvero".
"E anche lei doveva essere bianca per forza?"
"Anche su questa cosa, ci ho riflettuto".
"Addirittura". (Continua su +eventi!)




"Perché se lo sono chiesto in tanti, ma il punto è questo: se avessero scelto un'attrice brava come lei, imperfetta come lei... però nera, le stesse scene avrebbero lo stesso senso? Quando passa di provino in provino e la scartano e ne minano l'autostima: funzionerebbe ugualmente? Non cominceremmo a sospettare che la scartano perché è nera? È un film sull'autoaffermazione, non sulla discriminazione".
"Magari a me interessa di più la discriminazione".
"Ha perfettamente ragione, è un tema più interessante".
"Cioè tutti questi film sulla gente che crede nei loro sogni, anche basta".
"Comprendo il suo fastidio, è un segmento molto coperto".
"Non ci sono già abbastanza talent in tv?"
"E tuttavia, signora, nel frattempo un tizio che faceva il giudice in un talent ha vinto le elezioni americane e sta alla Casa Bianca, per cui forse La La risente molto più dello spirito del tempo di quanto crediamo".
"Sta cercando di convincermi che La La può spiegarci Trump?"
"No, ma non è neanche quella fuga in un passato rassicurante che finge di essere... magari ti piazza un finale falso, un balletto in cui tutte le cose per un momento vanno per il verso giusto, ma la morale è molto meno edificante - ed è la stessa di Whiplash: uno su mille ce la fa ma poi passa la vita a domandarsi se ne valeva la pena".
"Non l'ho visto, Whiplash".
"Vale la pena. Non è un musical. Non c'è nemmeno una storia d'amore. Ha presente quando il maître del ristorante licenzia Gosling su due piedi? Ecco, Whiplash è tutto così, dura un'ora e mezza, è divertente e un po' angoscioso".
"E non balla nessuno".
"Suonano soltanto. Ma signora, le canzoni di La La non le sono piaciute? Secondo me sono la cosa migliore".
"Non credo di apprezzare il jazz".
"Non sono poi così jazz. Dica la verità, non le sta già canticchiando? Sono maledettamente orecchiabili. Tutt'altro che banali, eppure neanche così complesse. City of Stars è un classico immediato, si fischietta al primo colpo, la puoi imparare alla quinta lezione di pianoforte, ne scrivono una ogni vent'anni di canzoni così. Cioè bravo Chazelle, ma soprattutto Justin Hurwitz. Quando hai un talento del genere puoi anche concederti il lusso di metterti in discussione, di domandarti se è giusto insistere su un sound così fuori dal tempo. Perché il film fa questo: si presenta dicendo, ehi, abbiamo un'idea di jazz che forse è quella sbagliata, però sentite intanto cosa siamo riusciti a combinarci".
"Va bene, Hurwitz probabilmente un Oscar se lo merita".
"Grazie, signora".
"Ma altri tredici, dico, scherziamo?"
"Sono solo nomination".
"Non è mica Eva contro Eva".
"No, senz'altro no. Anche se il tema è simile - i giurati hanno un debole per i film che parlano della loro professione. Forse ha preso tante nomination perché oggi c'è meno competizione, tante professionalità si stanno spostando sulle serie tv... è un'ipotesi. Senz'altro La La è una risposta alla domanda: perché andare in sala oggi, perché non guardarsi un film a casa? La La va proprio visto in sala. Deve venirti voglia di smontare le poltrone".
"Eh?"
"Come ai tempi di Blackboard Jungle, ha presente? La gente entrava per ballare i titoli - che erano Rock Around the Clock, l'unico pezzo rock che si potesse sentire in città - smontavano le poltrone e si mettevano a ballarlo. Anche la prima sequenza di La La Land funziona così, in fondo".
"È uno scherzo, vero?"
"Sia sincera. Non le è venuta voglia di smontare le poltrone durante Another Day of Sun?"
"Mi è venuta voglia di uscire".
"Ecco, allora... non so che dire... mi dispiace".
"Non si deve dispiacere, sto a posto così".
"Pensa che lo scriverà su facebook?"
"Perché me lo chiede?"
"Perché è stato osservato questo fenomeno. Quelli a cui non piace La La sentono l'irrefrenabile desiderio di dichiararlo su facebook".
"E... nell'eventualità, diciamo, che male ci sarebbe?"
"Provo con un esempio. Io non riesco a mangiare la nutella".
"È una questione di gusti".
"No. La nutella è buona. È progettata per piacere a tutti. Piace praticamente a tutti. Ma io sono allergico alle nocciole".
"Oh, mi dispiace".
"Ecco, vede che le dispiace?"
"Non dovrebbe dispiacermi? Ho pietà di lei, non apprezzare la nutella è..."
"Lo dica".
"...una menomazione".
"Ecco. Ma si immagini che io scrivessi su facebook che schifo la nutella, che ne facessi una questione di orgoglio, cioè mica come tutti i pecoroni convinti di apprezzare una crema spalmabile di cioccolato e nocciole solo grazie al marketing... solo io sono in grado di capire che in realtà quella roba fa schifo: cosa penserebbe di me?"
"Che ha una notevole autonomia di giudizio..."
"Mmm"
"Per un tredicenne, voglio dire".
"Ecco, appunto".
"Appunto cosa?"
"Signora, non c'è niente di male a non apprezzare i musical, a non aver voglia di saltare le poltrone quando cantano reaching up the heights. Ma non c'è nemmeno nulla di cui vantarsi, capisce?"
"No".
"Fa lo stesso. Adesso scusi, questo spazio è gentilissimamente offerto da Piùeventi Cuneo e quindi ora devo dare i titoli: La La Land è anche stasera al CITYPLEX CINE4 di Alba (21:00), al CINELANDIA di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:40), al CINELANDIA FIAMMA di Cuneo (21:10), ai PORTICI di Fossano (21:15) e al CINECITTÀ (Savigliano). Buona visione, e smontate quelle fottute poltroncine!"
"Io non ci torno".
"Non me ne frega niente di quello che fa lei signora".
Comments (6)

Dio è morto, il Giappone è una palude, e Scorsese sta benissimo

Permalink

Silence, (Martin Scorsese, 2016).

Verso il 1650 cominciò a girar voce che Sawano Chūan, già conosciuto come Cristóvão Ferreira, fosse morto: e prima di morire avesse ritirato la sua scandalosa apostasia, e proclamato a gran voce davanti all'inquisitore del Giappone la sua fede in Cristo, che 15 anni prima aveva rinnegato. Per questo era finalmente stato condannato al supplizio del pozzo: sospeso a testa in giù e dissanguato lentamente. La solita propaganda dei gesuiti: chi andò a controllare scoprì che Sawano-Cristóvão aveva avuto un funerale buddista, presso il tempio che aveva scelto conformemente alle leggi dello shogunato. Il suo nome giapponese si legge ancora sulla lapide. Forse in segreto continuò a credere nel dio cristiano per tutto quel tempo: ammesso che si possa credere a un Dio in segreto. C'è chi non lo ritiene possibile.

Un vero fumie: il volto di Gesù è consumato
dalle centinaia di piedi che lo hanno calpestato
Scorsese ci crede. I suoi eroi non cambiano mai, non rinnegano mai. Toro resta scatenato, il lupo di Wall Street perde solo il pelo. Qualsiasi cosa ti abbia portato a sbattere contro il muro - la religione che hai imparato da bambino, la mafia in cui sei cresciuto o la propensione genetica al consumo di sostanze, o al gioco d'azzardo, o a picchiare il prossimo o a fotterlo - non importa quanto forte sbatterai, non importa quanto in basso striscerai. Dentro di te resterai sempre il mafiosetto che eri, il giocatore che eri, il pugile, il truffatore, il drogato, il gesuita. Non importa quanto vai lontano, non puoi rinnegare te stesso. Quando uscì L'ultima tentazione di Cristo, molti cattolici rimasero scandalizzati. Qualcuno al Vaticano pensò di regalargli il romanzo di Endo, Silenzio, sulla repressione del cristianesimo giapponese. Una scelta lungimirante. Se ci ha messo vent'anni per trovare il modo di metterlo su pellicola, Scorsese non ha comunque avuto bisogno di cambiare qualche passo o di aggiungere niente di personale: Silence era già scorsesiano in partenza. Ambizioni, tentazioni, arroganza, caduta. La solita parabola.

Eppure Silence non è il film che il pubblico si aspetta da lui - men che meno i giurati dell'Academy, che in fondo hanno sempre diffidato di questo corpo esterno, questo seminarista fallito e riconvertito al cinema. Il film sembra concepito per confondere e tradire gli spettatori che abbiano una fede superficiale nel suo cinema. Scorsese li attende silenzioso al termine di un lungo viaggio in un Giappone antipittoresco, e dopo due ore e mezza non ha ricompense da offrire a chi lo trova: solo silenzio. Può darsi che non sia il suo migliore film. Neanche tra i suoi primi dieci film. Ma anche quando tace e prega, può tranquillamente dare lezioni di cinema e vita a chiunque sia disposto a imparare. Più che con altri suoi film, trovo inevitabile confrontarlo con quello che passano gli altri conventi: per esempio giusto un anno fa stavamo tutti applaudendo per Revenant. Anche quello un film lungo e senza compromessi, anche quello ambientato in un paesaggio naturale alieno, ostile, e ispirato a un fatto vero.

È un confronto impietoso (continua su +eventi!).


Un crocefisso abusivo, nascosto
dietro la schiena di un Budda
In Revenant la natura viene continuamente trasfigurata in cartolina da una troupe che sembra appena atterrata in elicottero. I sentieri sono irragionevolmente impervi, roba da triatleti più che da gente che cammina davvero per mestiere. In Silence le isole Goto sono una presenza viva e vera, ogni strada ci parla della fatica di camminare. In Revenant ci sono buoni selvaggi che scorrazzano qua e là lamentandosi che l'uomo bianco gli ha rubato la terra, e pazienza se in realtà non è ancora successo; in Silence i giapponesi non sono una proiezione dell'altro, ma un popolo con tutte le sue contraddizioni; ce n'è di simpatici e di odiosi, di eroici e di patetici e di assennati - e l'eroismo somiglia pericolosamente a ingenuità, l'assennatezza coincide con la crudeltà più pura (ed efficace!)

Sbarrando gli occhi durante la visione di Revenant riesci a vedere un regista milionario sul suo patio che si domanda cosa allestire per il pubblico bue e ai giurati degli Oscar: una storia di vendetta? Però nel finale bisogna ricordarsi che la vendetta è brutta, al massimo va subappaltata al buon selvaggio che resta buono anche quando scalpa un potenziale ladro di terra. Silence è un film che parla a ogni persona che ha cercato Dio e non l'ha trovato, o l'ha perso nel silenzio: è il regalo umile e superbo di un gesuita mancato che passa il tempo a tormentarsi: se soltanto fossi nato in tempi più semplici, con meno tentazioni in giro, meno droghe e meno macchine da presa... che gran cristiano che sarei stato.

Andrew Garfield oscilla continuamente tra l'imitazione di Cristo e la sua parodia: desideroso di seguire i suoi maestri, precipita in un sadico vangelo al contrario dove i buoni forse sono buoni per il motivo sbagliato, e i cattivi molto più ragionevoli, ma spietati proprio per questo. Cristo è un amico immaginario che ti porta davanti al baratro fra tortura e dannazione e ti lascia lì senza spiegarti niente, devi cavartela da solo. Scorsese non ha risposte, o non ce le vuole dire, e se le porterà con sé fino all'ultimo giorno.

Silence è alla Sala Polivalente di Piasco (21:10) e al Cinema Italia di Saluzzo (20:30).


Comments

Io e te, alieno, cosa abbiamo da dirci?

Permalink
Arrival (Denis Villeneuve, 2016).

Ti trovi in mezzo a un prato, o a un bosco, o un deserto, quando ti imbatti negli alieni. Come fai a presentarti, diciamo, come un animale raziocinante, abbastanza degno di un tentativo di comunicarci, piuttosto che d'essere sezionato o servito a cena? Il teorema di Pitagora potrebbe aiutarci anche in questo. Un animale che sappia disegnare per terra un quadrato dell'ipotenusa uguale alla somma dei quadrati dei cateti non dovrebbe essere considerato selvaggina. Matematica e scienza saranno il nostro terreno d'incontro obbligato: "triangoli", "cateti", "ipotenusa", "uguale", "quadrati", sono concetti che dovrebbero esistere in qualsiasi parte di questo universo, ed è molto difficile che una razza senziente riesca a viaggiare nello spazio senza averli scoperti e codificati.

Questo ottimistico punto di vista è ben espresso da un racconto del 1957, Omnilingual, in cui i fanta-archeologi che trovano su Marte resti di una civiltà avanzata estintasi millenni fa brancolano nel buio dei simboli finché non trovano, appesa a una parete, una tavola degli elementi: la Stele di Rosetta. Solo il collega più anziano, esperto di Ittiti e non di particelle, osa formulare il dubbio cosmico: Come facciamo a essere sicuri che i 'loro' elementi non siano diversi dai 'nostri'? La nuova generazione gli ride in faccia: nonno, posa il tuo relativismo umanistico. Che sia Marte o Alfa Centauri, l'idrogeno avrà sempre un protone. Le cose non possono essere più complicate di così. O no?

Storia della tua vita, il racconto di Ted Chiang che ha ispirato Arrival, mette appunto in crisi questo approccio. E se la scienza degli alieni fosse diversa dalla nostra? Se il calcolo integrale per loro fosse facile come le tabelline, e le tabelline viceversa calcoli astrusi e poco familiari? In teoria dividiamo lo stesso universo. Ma se avessimo una percezione dello spazio-tempo completamente differente? Che casino sarebbe... (ma che rivincita per il relativismo umanistico).

Questo per esempio è molto ingenuo. Come fai a dare per scontato
che distinguano il nero dal bianco e lo considerino un simbolo?
Nel film Amy Adams è la linguista (adorabile), Jeremy Renner lo scienziato (simpatico). Quest'ultimo all'inizio sembra sicuro del fatto suo: gli alieni vogliono comunicare? Spedite una sequenza di Fibonacci, vedrete che ci intenderemo. Dopo due scene si è già ridotto a fare la valletta per la collega. Nel racconto ovviamente la cosa è più complessa. Gli alieni effettivamente mostrano di conoscere gli elementi e qualche altra nozione scientifica di base, ma tutto si ferma lì, finché un giorno non riescono finalmente ad avere una conversazione sul principio di Fermat. La parte del racconto dedicata a questo principio è la più interessante: è anche quella necessaria, perché gli alieni di Chiang sono solo un'ipotesi narrativa, ma il principio di Fermat funziona davvero e stabilisce (grosso modo) che il percorso di un raggio di luce tra due punti è quello che si attraversa nel tempo minore. Da cui la domanda, ingenua e inevitabile: ma come fa la luce a sapere in partenza qual è il percorso che potrà attraversare nel tempo minore? Come può prevedere gli imprevisti di percorso? Forse perché per la luce non esiste un prima e un dopo, una partenza o un arrivo, perlomeno non nel modo in cui lo percepiamo noi umani?

E se anche per gli alieni non esistesse il "prima" e il "dopo" degli umani? In questo caso la domanda più banale ("perché siete qui?"), sarebbe anche la meno comprensibile: potrebbe esistere un "perché" in un mondo in cui potessimo vedere ogni cosa già conclusa prima che accada? In altre parole: nella realtà descritta dal principio di Fermat, e dagli altri principi variazionali, ha ancora senso parlare di libero arbitrio? Non solo gli alieni non saprebbero fornirci un perché, ma anche noi umani dovremmo domandarci se i perché hanno un senso. Tutto accade nello stesso momento, e se potessimo vedere la nostra morte - come gli alieni - non potremmo comunque impedirla. È lo stesso Chiang a proporci una metafora: vivere oltre il tempo è come avere un figlio. Nel momento in cui lo concepisci sai già che soffrirà, ma non si torna indietro. Lui non ha scelto di vivere, e nemmeno tu in fondo hai potuto scegliere che nascesse.

Questo parallelismo non così banale - il figlio come un alieno, o forse gli alieni sono i nostri padri che non possono e vogliono dirci perché ci hanno messi al mondo? - è quello che ha probabilmente conquistato lo sceneggiatore Eric Heisserer, e spinto a scrivere un copione che senza il successo di blockbuster come Interstellar o Gravity sarebbe rimasto un'idea folle, una sceneggiatura vagante nello spazio cosmico. Heisserer purtroppo ha tolto ogni riferimento a Fermat e inserito l'arrivo degli alieni in una specie di gelida parodia di Independence Day - qualcosa che in effetti Denis Villeneuve poteva aver voglia di girare (memorabile una delle prime sequenze, dove il panico mondiale viene descritto nel modo più quotidiano e canadese possibile: in facoltà gli studenti disertano le lezioni, due macchine si tamponano in un parcheggio. E col panico per questo film siamo a posto). Arrival è, come Sicario, il viaggio di una donna curiosa e competente alla scoperta di una dimensione nuova del mondo. Per il regista non è importante soltanto l'arrivo, ma anche le piccole cose che fanno il viaggio: i corridoi, i briefing, il silenzio già complice dei compagni appena conosciuti.

Purtroppo dopo il momento della scoperta, bisogna anche far succedere delle cose, e Heisserer non è stato all'altezza del compito (continua su +eventi!) 
Le intenzioni erano buone - aggiungere alla storia di Chiang quel minimo sindacale di conflitto, di action, persino di esplosioni che potevano rassicurare i produttori e fornire immagini seducenti per i trailer. Così abbiamo gente che mette le bombe perché "ha visto troppi film", abbiamo un generale cinese che vuole attaccare le astronavi (è abbastanza indicativo che i militari americani necessitino per comprenderlo della consulenza della stessa linguista che sta decifrando la lingua degli alieni). Il film non mette i cinesi tra i cattivi, ma quantomeno deve assumere che siano più impulsivi e timorosi degli americani - anche perché invece di cercare di tradurre gli stranieri, si sono messi a giocarci a mahjong (idea geniale, che nel racconto non c'era e che purtroppo è buttata lì un po' in fretta).

Il risultato è un po' una delusione, anche per le attese che questo film era riuscito a suscitare nella prima parte. Ma è giusto prendersela con Heisserer e Villeneuve per aver omesso il principio di Fermat? In generale, possiamo far loro una colpa dell'aver semplificato la storia fino a farla pericolosamente assomigliare a una baracconata new age con gli alieni onniscienti che vengono a regalarci la chiave della trascendenza? È un film di Villeneuve, senz'altro inferiore a Sicario ma con la stessa capacità di fondere l'intimo e il sublime. Ma è anche un film di fantascienza hard, che con la scusa degli alieni ti parla di linguistica e spaziotempo per un'ora e mezza; è un film tratto da un racconto che solo un pazzo poteva pensare di trasformare in pellicola, e Villeneuve sta riuscendo perfino a guadagnarci; insomma è un oggetto straordinario, che dimostra l'ottimo stato della fantascienza al cinema; che fino a tre o quattro anni nessun produttore sano di mente avrebbe pensato di finanziare e invece oggi eccolo qua; e chissà cos'altro arriverà domani, visto che film di questo genere non soltanto si fanno, ma incassano pure. Villeneuve andrebbe soltanto ringraziato per il dono che ha fatto all'umanità, invece di mettersi anche lui a macinare le solite storie viste e riviste, i soliti sequel e i soliti remake. Chissà cosa farà adesso.
"Blade Runner".
"Eh?"
"Sta facendo un Blade Runner".
"Ah".
"Ma in fondo era inevitabile".
"Era inevitabile dall'inizio".

Arrival è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Vittoria di Bra (21); al Multilanghe di Dogliani (21:30); al Cinecittà di Savigliano (20:15, 22:30)
Comments (4)

Brad Pitt, spia imperfetta (per fortuna)

Permalink
Allied - Un'ombra nascosta (Robert Zemeckis, 2016)

A un certo punto - non rivelo nessun punto saliente della trama - Brad Pitt e Marion Cotillard stanno scappando in automobile. Brad si ferma un attimo davanti a un negozio perché deve sistemare una questione. Marion lo aspetta a bordo, con la bambina in braccio. Lui ha promesso di far presto, invece ci sta mettendo un po', e quindi lei non sa che fare. Non può entrare con la bambina, non può restare ferma lì. Dentro il negozio in effetti stanno succedendo delle cose, ma niente che non accada tipicamente nei film: rivelazioni, sparatorie. Soltanto un pretesto. Quello che veramente importa è nell'auto: l'attesa, l'angoscia, la bambina che è insieme un ostacolo e il senso di tutto quello che sta succedendo.

A un certo punto pensavamo di aver perduto Robert Zemeckis. Il regista di Ritorno al futuro 2, di Roger Rabbit, della Morte ti fa bella, aveva deciso di concentrarsi sull'animazione, e in particolare di quella branca dell'animazione in digitale che fin qui ha dato a investitori e spettatori meno soddisfazioni: la performance capture. Polar Express e A Christmas Carol erano due esperimenti freddissimi, come certe feste organizzate più per dimostrare le proprie capacità che per mettere a proprio agio gli invitati. La performance capture non è né animazione disegnata né realtà filmata: è una sfida della tecnologia digitale a entrambe. Un giorno vincerà, e gli attori saranno sostituiti da manichini digitali assolutamente identici ai modelli. La carriera delle star degli ultimi trent'anni (una generazione già longeva di suo) si prolungherà di qualche secolo: che bisogno c'è di cambiare le facce quando il pubblico è già affezionato a quelle vecchie? Qualche attore ringiovanito digitalmente lo abbiamo già visto. La scelta della Walt Disney, che dopo la morte di Carrie Fisher ha deciso di non utilizzare più la sua versione digitale, non ci incanta: ci aspettano altri cent'anni di Tom Cruise, di Di Caprio, di Matt Damon. Persino di Brad Pitt.

Non tanto l'uso del green screen, quanto il voler farcelo notare.
A un certo punto ci siamo accorti che Brad Pitt tutto sommato era bravo. Non tanto a recitare quanto a resistere. Non è solo una questione di tenuta fisica - in realtà se l'allestimento di Zemeckis ha un limite, è proprio in quel volto tirato che sembra un po' più finto di quello che dovrebbe essere: un trentenne interpretato da un 50enne - splendido quanto si vuole, ma non è il volto che s'incastrerebbe alla perfezione in quei costumi d'epoca. Non gli giova il confronto con la Cotillard, lei sì perfetta in qualsiasi abito, in ogni fotogramma - una spia ideale, mentre Brad se vuole non farsi scoprire deve paracadutarsi all'ultimo momento e fingere di non sapere le lingue. Come in Basterds, esatto - del resto è sulla consapevolezza dei propri limiti che Pitt ha costruito il suo impero, o almeno ha saputo conservarlo dagli assalti di attori a volte più giovani, e sempre più talentuosi. Alcuni coetanei che sembravano tanto più dotati stanno cedendo terreno, lui tiene botta (continua su +eventi!)

Qualche volta azzecca il prodotto giusto, qualche volta rimane impantanato in un disastro (World War Z), ma ne esce sempre abbastanza dignitosamente. Dall'incontro con Tarantino sembra che abbia sviluppato un'ossessione per la Seconda Guerra Mondiale che in realtà ha perfettamente senso: ai film di guerra servono eroi tutto d'un pezzo, non troppo dinamici, meglio se laconici e imbronciati. Senz'altro gli anni '40 sono più congeniali a Pitt di un'apocalisse zombie o dell'assedio di Troia. La spia di Allied è in un qualche modo complementare al capitano del tank di Fury: tanto quest'ultimo era rassegnato a non sopravvivere alla distruzione di cui ormai faceva parte, tanto il primo si ostina a difendere un'oasi domestica di pace che forse era una menzogna sin dall'inizio: un picnic sul prato dove nottetempo è precipitato un bombardiere. È una spia fragile, in un mondo che non tollera debolezze.




A un certo punto la Disney ha chiuso lo studio di performance capture fondato da Zemeckis, dopo averlo rilevato: e il regista si è rimesso a fare film dal vivo. Questo almeno è quello che ci fanno credere. Ma Flight e Allied sono film strani proprio perché insolitamente convenzionali. È difficile spiegare perché, malgrado abbiano tutto quello che ti aspetti da un film, non sembrino veri film, sembrino... finti. Ma tutti i film sono finti, no? Sulla carta Allied è l'ennesima rivisitazione di luoghi comuni del film di spionaggio ambientato negli anni della guerra, con le suggestioni del caso: Orson Welles, Hitchcock, Casablanca. Sullo schermo... c'è qualcosa che non torna, ma è difficile dire cosa. Ci sono sfondi straordinari che è inevitabile immaginare rifatti al computer. C'è un senso della composizione che vince sulle necessità narrative (eppure la storia funziona, e avvince). C'è ancora qualche traccia di quel senso di freddezza che si provava davanti a Polar Express e a Christmas Carol. E infine, ci sono Marion Cotillard e Brad Pitt, in diverse scene le uniche due persone a sembrare vere nell'inquadratura: salvo che appunto, lei è troppo perfetta per esserlo davvero. Solo Pitt, con la sua faccia tirata, sembra garantirci che Zemeckis non lo abbia già sostituito col replicante digitale di sé stesso, che Allied non sia che un colossale scherzo tirato agli spettatori.

A un certo punto la performance capture vincerà: gli archivi di tutto il mondo forniranno agli sviluppatori tutte le fisionomie e le espressioni degli attori più importanti, e finalmente li vedremo interpretare qualsiasi ruolo nell'interpretazione migliore possibile, secondo algoritmi sempre più sofisticati. Ogni tanto magari qualche attore vero insisterà per recitare la sua parte sullo sfondo verde, e come faremo a capire che anche quell'attore non è una rielaborazione digitale? Lo noteremo dai difetti, come notiamo Brad Pitt. Che non è mai perfetto, e a un certo punto abbiamo capito che gli vogliamo bene proprio per questo.

Allied è al Cinecittà di Savigliano (21:30); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:40); al Citylplex di Alba (19:30, 22:00); all'Italia di Saluzzo (17:00, 21:30); al Vittoria di Bra (21:00)
Comments (4)

Diventare mostri a Teheran

Permalink
Il cliente (Forushande - The Salesman, Asghar Farhadi, 2016)

Rana una sera era stanca. Il trasloco, le prove a teatro fino a tardi. Era appena arrivata nel nuovo appartamento, aveva ancora il trucco addosso e voleva fare una doccia. Il citofono ha suonato e lei ha aperto. Ma non era suo marito. Sono incidenti che purtroppo capitano dappertutto: perché non a Teheran?

A Cannes l'anno scorso c'è stato il festival del degrado urbano cinematografico. In una botta sola Mungiu (Bacalaureat), Ken Loach (Daniel Blake), i fratelli Dardenne e l'ultimo ottimo film di Asghar Farhadi - premiato per la migliore sceneggiatura. Nel complesso, un tripudio di marciapiedi crepati, piastrelle sbeccate, ruggine e polvere, sulla Croisette vanno pazzi per queste cose e un po' li capisco, tutti quegli yacht ancorati proprio dietro il Palazzo del Cinema dopo un po' ti devono venire a noia.

Forushande condivide con Bacalaureat non solo la premessa iniziale - un caso di molestia sessuale, un capofamiglia che cerca di farsi giustizia da solo - ma anche questo torvo accanimento nell'esibire la bruttezza delle periferie. Se Mungiu si dedicava a sbriciolare ogni residuo esotico della Transilvania, portandoci a spasso per i sobborghi sconsolati di Cluj-Napoca, Farhadi ha un gusto per lo squallore, il cemento, la paccottiglia ammassata in un angolo che degrada in rifiuto, che lo innalzano sopra ogni confine culturale. Non importa se là fuori c'è un muezzin che invita alla preghiera, le targhe sono in alfabeto arabo; basta accendere la luce nella cucina di una casa sfitta, ingiallita dall'uso, ed è come se il film parlasse di noi.

Sta davvero parlando di noi... (continua su +eventi!) che a volte siamo distratti e non alziamo la cornetta del citofono e poi ce ne pentiamo. Che a volte iniziamo a lucidare una finestra e poi ci blocchiamo sgomenti constatando l'enormità del compito. Che vorremmo essere migliori del mondo in cui viviamo, ma sarà vero? Se avessi un bulldozer tirerei giù tutto quanto e lo rifarei da capo, dice Emad al suo amico regista, più anziano. Lo hanno già fatto, risponde lui: e questo è il risultato. Emad è il protagonista (Shahab Hosseini, palma a Cannes): è un giovane insegnante, generoso, colto, recita a teatro, ci sembra naturale assistere alla storia dal suo punto di vista. Che possa essere proprio lui il moralista più intransigente, è una cosa che ci costerà un poco accettare. Come Mungiu, Farhadi sembra volersi prendere gioco del suo protagonista, che ogni tanto vediamo in scena truccato da vecchio, trasformato in quei cattivi padri depravati che disprezza e che intende punire. Mentre a scuola i ragazzini stanno già cominciando a ridergli alle spalle.



Il miglior cinema iraniano è sempre riuscito a usare le proprie limitazioni come punti di forza. In un film iraniano non si può parlare di prostitute? Farhadi ci gira intorno per tutto il film, costringe gli spettatori a non pensare ad altro, e nel frattempo fa recitare ai suoi personaggi Morte di un commesso viaggiatore, dove una prostituta c'è, e c'è un'attrice che la interpreta (vestita di tutto punto). In un film iraniano le donne devono coprirsi il capo anche in casa? Taraneh Alidusti si prenderà una botta in testa in una colluttazione, così può restare fasciata per tutto il film. Il modo in cui Farhadi riesce a prendersi gioco apertamente delle stesse convenzioni che rispetta ha qualcosa di epico, ma se fosse tutto qui si tratterebbe soltanto dell'ennesimo film che ci spiega com'è difficile vivere in Iran oggi: l'ennesima edificante visita di istruzione in un Paese totalitario offerta al pubblico dei festival europei.

Invece Forushande parla anche di noi, e per accorgersene basta aspettare che si accendano le luci in sala, e ascoltare gli spettatori. È un film che ci fa discutere, e non soltanto della condizione delle donne in Iran. È un film che non rinnega le questioni irrisolte del suo Paese, ma riesce anche a toccarne di universali: la giustizia, la vergogna, la vendetta, la corruzione. È anche una detective story, a modo suo, che per un'ora e mezza va avanti rapida senza una sola scena di troppo, e poi si concede un'ultima mezz'ora lentissima, estenuante, spietata come il suo protagonista. Meno male che non aveva un bulldozer, ti viene da pensare. E ricordi una delle prime battute del film: "Come fa un uomo a diventare un mostro?", chiedeva uno studente. "Col tempo", rispondeva l'insegnante.

Il cliente è in programmazione al Cinelandia Fiamma di Cuneo fino a mercoledì 18 gennaio (ore 21; sabato 14 ore 17.20-20-22.35; domenica 15 ore 15.40-18.20-21).
Comments

Capitan Fantastico scende in città

Permalink
Captain Fantastic (Matt Ross, 2016).


Lassù sulle montagne, dove l'aria è più buona e il capitalismo non arriva, vive senza chiedervi il permesso la famiglia Cash. Sono filosofi e carnivori; di giorno cacciano e disossano i cervi e la sera, intorno al fuoco, bivaccano studiando la teoria delle stringhe. Scalano montagne, affilano lame, sono buddisti ma armati. Un giorno scenderanno a darvi una lezione. Non si sentono superiori a nessuno; lo sono.

Fino a qualche anno fa non succedeva mai, e quest'anno è capitato già più volte, di ritrovarmi di fronte a un film americano pensando "beh ma preferivo la versione italiana". Non so se abbia più a che fare con la salute del cinema USA o con la mia. Il paragone tra Captain Fantastic e Le meraviglie di Alice Rohrwacher non ha molto senso, comunque: anche se entrambi sono molto piaciuti a Cannes. Da una parte un prodotto d'autore europeo, drammatico (con qualche virata nel simbolico), dall'altra un comedy-drama americano, uno di quei film da Sundance che di indipendente non hanno nemmeno la confezione; l'ennesimo tentativo di far convivere le suggestioni del ritorno alla natura con un linguaggio che infallibilmente ne restituisce immagini patinate. È una di quelle situazioni in cui i famosi production values americani, quei livelli ineguagliati di professionalità e organizzazione, si ritorcono contro la macchina: fai fatica a spiegarci Henry David Thoreau se i tuoi strumenti sono quelli con cui si gira la pubblicità di uno shampoo... (continua su +eventi!)






Matt Ross ha voluto girare un film diametralmente opposto alla sua opera prima, 28 Hotel Rooms: là c'erano soltanto due attori in 28 camere d'albergo diverse (da cui il titolo), qui c'è tutto l'Ovest, dalle foreste dello Stato di Washington fino ai campi di golf del New Mexico, uno schiaffo alla miseria e alla siccità; e una famiglia di selvaggi sapienti che è un trionfo di casting - ragazze e bambini hanno tutti pochi minuti per lasciare un segno, e ce la fanno. E poi c'è Viggo Mortensen, padre-padrone illuminato, che per metà film sembra davvero l'uomo più saggio del mondo: com'è prevedibile, basterà scendere un po' a valle perché tutto venga messo in discussione. Ma appunto, è un po' troppo prevedibile. È capitato ad autori più esperti di Ross di scontrarsi con lo stesso argomento, e di consegnare agli spettatori qualcosa di irrisolto o ambiguo (vedi Into the Wild). È come se intorno all'argomento ci fosse qualcosa di sostanzialmente sacro: magari ritornare alla natura è impossibile, ma non è comunque consentito riderne.




Il manuale di base della sceneggiatura televisiva prevede che l'eroe si scontri con le convenzioni; che a ogni parziale successo corrisponda l'accettazione dei propri limiti; le convenzioni sono elastiche, si lasciano penetrare, ma in cambio l'eroe deve capire che hanno un senso. Captain Fantastic deve accettare di essere un po' meno fantastic; passare dalla caccia all'agricoltura; in cambio resterà un filosofo e continuerà a conservare la sua famiglia bellissima. È un finale che ha un senso soltanto al cinema o in tv, e soltanto in America. Qui da noi è diverso, al punto che di un film così forse non sappiamo che farcene. Captain Fantastic questa settimana resiste solo al Fiamma di Cuneo (giovedì 15, venerdì 16, lunedì 19, martedì 20 e mercoledì 21 alle ore 21; sabato 17 ore 17.30 - 20.00 - 22.30; domenica 18 ore 15.00 - 18.00 - 21.00).
Comments

Vita da gatto, un film da cani

Permalink
Una vita da gatto (Nine Lives, Barry Sonnenfeld, 2016)

Perché la maggior parte della gente cerca di comportarsi bene? Ok, qualcuno pensa di andare in paradiso. Qualcuno spera di lasciare un buon ricordo. Qualcuno proprio per fare il cattivo non è tagliato (ci vuole coraggio, ambizione, inventiva, è complicato). Ma la maggior parte della gente, perché non si comporta male tutto il tempo? Probabilmente credono nella metempsicosi: sperano di reincarnarsi nei gatti d'appartamento. Che altro chiedere dalla vita? Per dire che anche dietro a un film apparentemente inutile come Una vita da gatto c'è un'importante figura dell'inconscio collettivo: il sogno di finire come Kevin Spacey, palazzinaro di New York, troppo preso dalla sua carriera per vedere le esigenze di moglie e figlia bla bla bla bla, che una sera cade dal suo grattacielo e si risveglia nel corpo del gatto di famiglia. Scoprirà che non sono tutte rose e fiori e gomitoli di lana.

Perché l'Europa Corps non fa dei bei film, invece di farli brutti? Non è una domanda così peregrina. Nine Lives aveva un budget di 30 milioni di dollari (il triplo di Big Game): sono pochi? Se puoi scritturare Kevin Spacey, Christopher Walken e Jessica Gardner, e alla regia Barry Sonnenfield (La famiglia Addams, Men in Black); se hai abbastanza computer-grafica da riuscire ad animare un gatto che sembra vero, perché non riesci a costruirci non dico un capolavoro, ma un film abbastanza carino? Coi film d'azione forse è più facile - no, non mi riferisco a Lucy, Lucy è un episodio imperdonabile. Però finché è azione puoi sempre spararle grosse, magari non centri il bersaglio ma un effetto lo ottieni lo stesso, e anche un po' di ridicolo involontario non guasta mai (vedi il ciclo di Taken). Nine Lives invece vorrebbe essere un film per le famiglie: una cosa molto più delicata. Lo hanno scritto in cinque, senza mai azzeccare il tono. Si capisce che l'idea della trasformazione in gatto non è partita da un autore - qualcuno che avesse veramente voglia di dire qualcosa sui gatti d'appartamento, sul loro modo di essere e non essere parte della famiglia - ma dal reparto effetti speciali: ehi, guarda qui, siamo riusciti ad animare un gatto che sembra vero. Facciamoci un film, come quelle vecchie pellicole della Disney in cui a Dean Jones succedevano le cose più strane - in uno si trasformò effettivamente nel cane di famiglia. Perfetto, che problema c'è?

C'è che i gatti non sono cani, per esempio (continua interessantissimo su +eventi!) Immaginare un gatto che si strugge per cercare di dimostrare la propria umanità è faticoso. In generale, è faticoso immaginare un gatto che si strugge. Se sogniamo tutti di reincarnarci in felini è proprio perché sappiamo che quando finalmente ci arriveremo non ci fregherà più nulla di nulla - il nirvana. Gatto-Spacey invece si dà un sacco da fare, deve salvare la sua azienda, finire in qualche video buffo su youtube, creare quei simpatici casini domestici che fanno gli animali, e scoprire tante cose importanti sulla propria famiglia. Addirittura a un certo punto cerca di aiutare sua figlia coi compiti - ma un gatto che fa i compiti non è un gatto. Non fa nemmeno ridere. Nine Lives è un film che mette meccanicamente assieme tante cose che in teoria potevano fare un film, ma non ci riesce. Resta un'accozzaglia di cose messe lì. Negli USA è uscito il 5 agosto 2016, una delle date più terribili della storia del cinema mondiale (uscì anche Suicide Squad). Nine Lives non è altrettanto brutto, ma dimostra che il cinema americano non è un'alchimia così semplice. Anche con buoni attori americani, con un veterano americano alla regia, con un concetto tipico dei film per famiglie americane, il risultato è inferiore alla somma degli addendi. Lo trovate al Cityplex di Alba (19:00); al Vittoria di Bra (20:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:15, 17:20, 20:15, 22:30); al Fiamma di Cuneo (18:10, 21:10); ai Portici di Fossano (20:00); all'Italia di Saluzzo (20:00); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
Comments (4)

Capitan Sully, l'eroe di due minuti

Permalink
Sully (Clint Eastwood, 2016).

Anche i migliori a volte hanno dei dubbi. Per esempio Clint Eastwood, come dire, la Storia del cinema. Secondo me ogni tanto se lo domanda: e se avessi sbagliato qualcosa? E se avessi fatto un errore? Quell'inquadratura era da dilettanti. Quel raccordo non riesco a perdonarmelo. Quante cazzate che ho fatto, e diciamolo, come attore valevo nulla. Ok, ho scoperto Michael Cimino, ma forse era meglio se lo avessi lasciato a girare pubblicità, per lui e per tutta l'industria. Magari sta uscendo da una macchina, Clint Eastwood, magari cammina su una passerella; tutt'intorno un cordone di sicurezza, sconosciute che vorrebbero abbracciarlo, c'è gente a cui Clint fa sesso a 80 anni, e intanto lui pensa: forse faccio pena.

L'unico modo per cambiare idea è riguardarsi uno dei suoi film. E commuoversi. No, Cristo, io non faccio pena, io sono la fottuta storia del cinema. Ho portato a casa film impossibili, ho dato un capo e una coda persino ad American Sniper - ok, la gente sarebbe andata a guardarlo anche se fosse stato girato e montato da un ragazzino daltonico, ma io ne ho fatto un fottuto film di guerra e di pace, e ci ho messo anche la retorica, ma solo quel pizzico che non stomaca e ti lascia il sapore dolce sul finale. Ed era la storia di un cecchino mitomane, Cristo, lasciate perdere i critici. Non sanno cos'è il mestiere, non se lo immaginano, non possono capire. Nessuno sa cosa vuol dire trovarsi sul set sotto pressione, a un'età in cui dovreste stare ai giardinetti, a stingere i denti e macinare un altro film da 60 milioni di dollari. Nessuno sa quanto sono bravo. Solo io posso capirlo. Gli altri al limite devono fidarsi. Di Clint Eastwood.

Sully forse non è un grande film, ma proprio per questo è un film straordinario. C'erano tanti modi di raccontare un'impresa epica, ma brevissima (cinque minuti tra il decollo di un jet di linea e l'ammaraggio più riuscito della storia dell'aviazione civile, 155 superstiti salvati nelle gelide acque del fiume Hudson, nessuna vittima). Hollywood conosce tantissime ricette per allungare il brodo e produrre film di successo, e Clint Eastwood le ha scartate tutte. Avrebbe potuto concentrarsi sulla biografia del pilota, darci dentro coi flashback; e invece a Eastwood dopotutto il passato di Sully non interessa un granché. Avrebbe potuto insistere sui passeggeri, raccontare le loro vite che si intrecciano casualmente sullo sfondo di una tragedia contemporanea evitata per un soffio - trovando nei nostri cuori più di una corda da suonare, in fondo siamo tutti passeggeri, siamo tutti potenziali vittime, potenziali eroi - invece no, neanche i passeggeri in fin dei conti sono così importanti per Clint. Avrebbe potuto insistere sul procedurale, offrirci dettagli ancora più specifici dell'inchiesta, le manovre vere o presunte della compagnia per pagare qualche migliaio di dollari in meno d'indennizzi - non ci avremmo capito quasi nulla, ma ci sarebbe piaciuto lo stesso, come in quei film di avvocati o broker finanziari. Ma non era quello il punto.

A Clint Eastwood interessavano solo quei due minuti: quelli in cui capitan Sully ha fatto la differenza (continua su +eventi!)


Questo non è il film (ma nel film è uguale).


A Clint Eastwood interessavano solo quei due minuti: quelli in cui capitan Sully ha fatto la differenza. Ce li mostra una, due volte: e poi le simulazioni, quattro simulazioni, in tempo reale; e giusto quando stavamo pensando Grazie, Clint, basta anche così, ci infila a forza le cuffie e ci fa riascoltare la scatola nera. Non è neanche più esattamente cinema, non è narrazione, ma nemmeno documentario; alla quinta volta che ritorni nella stessa cabina, è qualcosa di più simile a un addestramento, o a una liturgia. Scordati il passato, non pensare alla famiglia, non preoccuparti dei processi che ti faranno - faranno bene a farteli, ma adesso non ci devi pensare: e anche al boato dei passeggeri lì dietro, non c'è tempo per soffrire con loro, devi salvarli. È tutto lì. È veramente tutto lì. E se andrà a finire bene, ti daranno dell'eroe o del pazzo incosciente, ma che ne sanno? Non ne sanno nulla. Tutti i critici veri o computer-simulati non possono capire cosa vuol dire trovarsi al comando in quel momento, e prendere la decisione che non è mai giusta, la decisione che è meno sbagliata delle altre. Ti odieranno, ti ameranno, ti daranno dell'eroe, ma nessuno potrà capirti. E tu stesso avrai dei dubbi, tu stesso saprai di non poterti fidare dei tuoi ricordi. La memoria fa scherzi assurdi, l'inconscio di notte cambia le carte in tavola.

Sully è la piccola storia straordinaria di un tizio che fa una manovra mai fatta, viene immediatamente acclamato come eroe, ma in cuor suo sospetta di aver sbagliato tutto, di aver perduto un aereo, la pensione, e (soprattutto) l'autostima. Sully è un film che si appoggia con la leggerezza di un jet sul grande tema dello stress post-traumatico: che tra mille modi di commuoverci sceglie di ricordarci quei momenti in cui ci svegliamo di soprassalto pensando a un incidente che stavamo per commettere, e che in un mondo parallelo è successo, e siamo morti tutti, tutti. È un film che prosegue con un paragone azzardatissimo: dopo aver salvato il suo equipaggio, Sully salverà sé stesso, con lo stesso stile: poche semplici manovre al momento giusto. Il discorso con cui impone alla commissione la sua versione dei fatti è efficace e stringato (un altro segno subliminale che l'età di Obama è finita, forse anche nei film di Spielberg i discorsi si asciugheranno). Eastwood aveva a disposizione 60 milioni di budget e Tom Hanks nell'ennesimo ruolo di Capitano d'America. Poteva usarli come li voleva: li spende per dirci che il successo, il boato del popolo che ti ama e ti abbraccia, non significa niente. Se sei un professionista, l'unica verità sta nella scatola nera. Se sei un professionista, il miglior critico di sé stesso sei tu. E Sully questo è: un professionista. Come le hostess che da un attimo all'altro cominciano a eseguire una procedura mai fatta prima, una di quelle che non funziona quasi mai e di solito dopo si muore di schianto. Come tutta la città di New York, tutti i suoi abitanti e impiegati portuali che se vedono un aereo planare non perdono neanche un istante a domandarsi cosa fare: c'è una cosa sola da fare, se sei un professionista. E poi sarai anche un eroe, ma l'impresa eroica è quel tipo di cosa che ti capita se sei un professionista.

Sully è al Cityplex di Alba; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo; al Vittoria di Bra; al Fiamma di Cuneo; al Multilanghe di Dogliani; ai Portici di Fossano; al Baretti di Mondovì; al Cinecittà di Savigliano.
Comments (3)

Obama tramonta, Snowden resta (ma a Riotta non va proprio giù)

Permalink
Snowden (Oliver Stone, 2016)

Ricordate il giorno in cui avete pensato di coprire la webcam del vostro computer, il giorno in cui non vi è sembrata più una paranoia? Quando è successo? Difficilmente prima dell'estate del 2013. In primavera l'ex agente NSA Edward Snowden aveva abbandonato la sua postazione di lavoro alle Hawaii portando con sé in una card più di due milioni di documenti riservati dei servizi americani (e inglesi, canadesi, australiani, neozelandesi). In giugno li aveva consegnati ai reporter del Guardian che lo avevano raggiunto in una stanza d'albergo di Hong Kong. Qualche giorno dopo il suo avvocato riusciva a metterlo su un aereo. Snowden sperava di trovare asilo in Sudamerica, ma una volta arrivato in Russia, gli USA gli hanno revocato il passaporto. È ancora là.

Man mano che l'astro di Obama tramonta, è più facile accorgersi di come Edward Snowden sia una delle figure più importanti dell'ultimo decennio. Non ha semplicemente gettato una macchia sul presidente più cool di sempre; non si è limitato a rivelare segreti militari, non ha soltanto bruciato qualche agente di antiterrorismo: Snowden ci ha fatto coprire le webcam. Se prima dell'estate del '13 avevamo qualche sospetto di essere spiati dalle nostre compagnie telefoniche, da lì in poi abbiamo dovuto accettarlo: non c'è paranoia che non si stia realizzando. Ogni smartphone è una cimice, ogni videocamera fa rapporto a qualche grande fratello. A inizio 2013 sarebbe stata la premessa di un film di fantascienza distopica: tre anni dopo è già materiale per Oliver Stone.

Forse la storia più congeniale a essergli passata per le mani dai tempi di Nato il 4 luglio, a cui fin troppo somiglia. Prima di questo film la nostra idea di Snowden oscillava tra l'hacker e l'attivista per i diritti civili; ma lo Snowden di Stone è per prima cosa un veterano. Si ricomincia dal solito addestramento da accademia militare: correre nei boschi, strisciare nel fango, urlare sissignore all'istruttore. Potrebbe essere l'inizio dell'ennesimo film di guerra, se il giovane Edward non si fratturasse le ossa alzandosi dalla brande con troppo zelo. Non importa, gli spiega l'ortopedico: ci sono altri modi per servire la tua patria. Ma anche quando si dimetterà dalla CIA per scrupolo, trasformandosi in una specie di contractor privato; anche quando sceglierà di tradire il suo Paese, lo Snowden di Stone resterà a suo modo un soldato, proprio come il Kovic di Nato il 4 luglio che aveva bisogno di scoprire la militanza pacifista per rimettersi a urlare ordini ai sottoposti. Snowden è disciplinato e responsabile, Snowden valuta i pro e i contro di ogni situazione; rispetta il presidente come comandante-in-capo; prova devozione filiale per i superiori e un malcelato disprezzo per i camerati che per far carriera compiono gesti irresponsabili. E come il cecchino di American Sniperdi cui è una specie di gemello buono, ha una donna che vorrebbe proteggere e che in un qualche modo lo protegge.

Stone prende una complicata storia di leak e di intelligence e la smonta fino a trovare i fattori primi, umani, che funzioneranno anche con gli spettatori digiuni di crittografia. Se il rischio è accreditare il personaggio come un genio del computer, Stone lo corre volentieri. Non ha mai avuto la mano leggera, ma forse in questo caso c'era proprio bisogno di trasformare entità astratte in immagini potenti. La webcam che diventa un occhio: un ragazzino con la camicia in fuori che in qualche ufficio dall'altra parte del mondo può spiarti l'account facebook per antiterrorismo o per capriccio. Stone preferisce girare all'estero, ma quel che vuole realizzare è proprio il caro vecchio blockbuster americano: non esita a mettere al centro una storia d'amore; ce la mette tutta pur di inserire sequenze che non stonerebbero in film di spionaggio o di azione. E come Michael Moore, sente l'esigenza di ricordarci a ogni pié sospinto che è altrettanto americano dell'America che sta criticando (continua su +eventi!)


A Washington c'è un posto dove gli innamorati
mettono i lucchetti?


Snowden non è il film più avvincente dell'anno, ma è un utile ripasso su una delle figure più importanti dei nostri tempi, e tutto sommato ha senso che l'abbia realizzato un regista che condivide lo stesso ambiguo amore per la sua patria. Joseph Gordon-Levitt forse esagera col mimetismo, ma non è mai stato così bravo. Va da sé che si tratta della storia di Snowden secondo Snowden e i suoi avvocati; ma è un film abbastanza onesto da farci capire anche il punto di vista dei cattivi. Lo trovate all'Aurora di Savigliano alle 21:15.

PS: per un approccio più completo, segnalo questa epica recensione di Gianni Riotta sulla Stampa, che vi riassumo per sommi capi e per divertimento:

Primo paragrafo: nel 1932 Walter Duranty, un giornalista del NYT vinse un Pulitzer con un'inchiesta filostalinista (che c'entra con Snowden, vi chiederete? Dopo lo spiega);

secondo paragrafo: Zizek è affascinato da Trump e Stone bazzica il Cremlino: Putin gli avrebbe affidato un documentario sull'Ucraina (in realtà Stone ha prodotto un documentario di un regista ucraino naturalizzato negli USA, vabbe', dettagli);

terzo e quarto paragrafo: l'avvocato russo di Snowden è un uomo di Putin, Snowden è una sua marionetta, anche Stone è una sua marionetta e inoltre a una festa ha messo una mano sul collo della documentarista Laura Poitras. Nel romanzo che l'avvocato russo ha scritto sul caso Snowden tutti i nomi sono cambiati, il che non c'entra veramente nulla col film ma Riotta si mette a elencarli, per dimostrare che ha letto il libro (e il film, lo avrà visto?);

quinto paragrafo: Snowden ha arrecato gravissimi danni al controterrorismo, almeno a detta delle agenzie americane e francesi di controterrorismo. Kerry voleva arrestarlo, invece Oliver Stone ci ha fatto un film. È un regista che ha vinto degli Oscar, ma anche a un giornalista stalinista una volta hanno dato un Pulitzer, vi ricordate? Credevate che Riotta fosse andato fuori tema, eh? E invece no, tutto torna. E il film? Beh, il film lo liquida in una riga: "girato con telecamerine spia per effetto, è intriso di «superparanoia». Capita, come capitò a Duranty, cui, 90 anni dopo, vorrebbero togliere il Pulitzer". In realtà non risulta che Duranty fosse affetto da superparanoia, con o senza virgolette. L'ossessione di Riotta per un vecchio premio Pulitzer ha radici abbastanza contorte: qualche anno fa Glenn Greenwald (nel film è Zachary Quinto) definì un intervento di Riotta su Snowden "the opposite of journalism". Qualche mese dopo vinse il Pulitzer, appunto, per lo scoop su Snowden. Si vede che il critico cinematografico della Stampa se l'è legata al dito.
Comments

(35 anni fa) Simon Le Bon ci ha salvato la vita

Permalink

Sing Street (John Carney, 2016)

C'è stato un momento - mica come adesso sapete. C'è stato un periodo in cui truccarsi non era una scemenza vanitosa come adesso, c'è stato un momento in cui era questione di vita o di morte. Ti mettevano in un angolo e te ne davano finché il trucco non ti serviva davvero a qualcosa. C'è stato in un periodo in cui non andavi ai talent a farti compatire, c'è stato un momento in cui dovevi farti compatire in casa, girarti un video e mandarlo in giro nella speranza che qualcuno dall'altra parte del mondo volesse perdere un po' di tempo e denaro per compatirti. C'è stato un momento in cui Simon Le Bon era avanguardia, in cui gli Spandau Ballett erano la ribellione, in cui i Cure potevano servirti con le ragazze. Ci sono stati gli anni Ottanta ma non erano la favola di plastica che vi raccontano adesso; erano ormoni, sangue, nicotina, brufoli, disperazione, e in mezzo a tutto questo, per quanto assurdo potesse sembrare, un George Michael.

A metà anni Ottanta, Cosmo piove dallo spazio in un sordido liceo di Dublino (nei titoli finali ci avvertono che adesso invece è una scuola bellissima che diploma tantissimi ragazzi successful: andateci). Due genitori che litigano, un fratellone depresso che passa il tempo a girare canne e 33giri, un compagno bullo che ha intenzione di sodomizzarlo entro gli esami. Bisogna avere un progetto, anche solo far colpo su una ragazza. Bisogna mettere su una band, girare un video, far finta finché non funziona (continua su +eventi!). Il successo sembra un traguardo impossibile, eppure la terra promessa è solo a un braccio di mare. Il film più autobiografico di John Carney non è probabilmente il suo meglio riuscito: la necessità di rendere un tributo a chi lo ha aiutato e a chi è rimasto indietro gli impedisce forse di guardarsi indietro col distacco necessario. Coi metri che usiamo da vent'anni, il suo eroe non è che un poser: si esprime per citazioni che ha appena mandato a memoria, cambia look a seconda del videoclip che è riuscito a guardare il giorno prima. Il suo stesso immaginario è poco più elaborato di una mensola di videocassette. Cosa dire, salvo che negli anni Ottanta eravamo davvero così: ignoranti, superficiali, disperati, determinati. Ci esprimevamo per versi malintesi di canzoni, e sognavamo per videoclip. Ne abbiamo copiata di roba prima di trovare una voce personale, ammesso che l'abbiamo trovata e che interessi a qualcuno. Del resto avevamo quindici anni: e il suono più meraviglioso del mondo non era la campana della scuola e neanche il rullante della batteria. Era la voce gracchiante al citofono del tuo migliore amico appena conosciuto, che ti chiedeva se avevi voglia di andare al parco a scrivere una canzone. Sempre.

Sing Street è al Moretta di Alba lunedì e martedì alle 21; al Fiamma di Cuneo alle 21:10 fino a mercoledì.
Comments (1)

Cicogne, tornate al core business

Permalink
Cicogne in Missione (Storks, Nicholas Stoller e Doug Sweetland, 2016)

Come sapete, da un po' di tempo in qua le cicogne non portano più i bambini. Troppo rischioso, troppo coinvolgimento, insomma adesso preferiscono recapitare smartphone e altri beni di prima necessità. Gli affari vanno bene, tutti sono contenti, noi umani abbiamo trovato un sistema per fare bambini comunque, eppure... eppure forse si stava meglio prima.


Bastano pochissimi minuti per capire che gli autori di Storks hanno lavorato anche al meraviglioso Lego Movie. Le scenografie sono diverse (più convenzionali, purtroppo), i mattoncini hanno ceduto temporaneamente il posto a un mondo di fattorini pennuti, eppure l'atmosfera è la stessa: una grande azienda, un meccanismo grigio, omologante, perfettamente oliato dove basta che qualcuno non sia dove dovrebbe essere per scatenare un'esplosione caotica e vitale. Questo è probabilmente il miglior pregio di Storks: in una fase in cui ormai esce un buon film d'animazione alla settimana, e il rischio che si assomiglino tutti è inevitabile, la nuova divisione digitale della Warner quantomeno sta riuscendo a costruirsi un'identità.


Se non può rivaleggiare con la Pixar per qualità o per ambizione, almeno sta diventando un'anti-pixar dal punto di vista ideologico: se la compagnia di Monsters & co., e Inside Out ha sempre celebrato l'importanza del lavoro di gruppo, anche nella versione più corporativa e aziendale, Lego e Storks cercano di suggerirci che le ditte sono la morte dell'individualità e della fantasia. Giusta o sbagliata che sia, almeno è un'idea: alla Universal con Pets si sono contentati di prendere vecchie idee Pixar e rimetterle assieme senza aggiungerci niente, e il botteghino sta dando ragione a loro. Ma Storks è un film più interessante. Sfortunatamente, l'altro punto in comune con Lego è l'ipercinesi (continua su +eventi!)


Cicogne, umani e altri personaggi non stanno fermi un attimo, hanno continuamente cose da dirsi ed emozioni da manifestare nel modo più teatrale possibile. Sembrano tutti isterici; ogni snodo della trama parte da un loro gesto impulsivo. La cosa curiosa è che il film sembra proprio voler criticare questo approccio iperattivo alla vita moderna, eppure nella coppia di agenti immobiliari che vivono con l'auricolare (e non hanno tempo di avere un secondogenito) sembra di riconoscere gli sceneggiatori: non hanno mai tempo, devono condensare intere vite in flashback di pochi secondi, far girare i loro protagonisti per il mondo in un battito di ciglia. Cicogne in missione è un film divertente, che strizza l'occhio soprattutto ai giovani genitori, ma come in Lego rischia di disorientare proprio il vero pubblico di riferimento, i bambini. Oggi è ai Portici di Fossano alle 18:30; al Multisala di Bra alle 17:30.
Comments

Il poeta e il suo poliziotto

Permalink
Neruda (Pablo Larraín, 2016).

Posso scrivere i versi più tristi questa notte. Posso scrivere: io l'amai, e a volte ella mi amò. Si chiamava Rivoluzione, Classe Operaia o Comunismo; lei mi amava, ma a volte io ero al bordello. La notte è stellata e lei non è con me: questo è tutto. Ma la poesia dura altre venti righe. Lontano, qualcuno canta, lontano la mia anima non si dà pace di averla perduta. E blà e blà e blà, posso andare avanti tutta la notte, questa notte.

Ma di giorno si suda (cit.)
La storia si può raccontare in tanti modi, stavolta Larraín la spia da una finestra. Dall'altra parte c'è il mostro sacro della cultura cilena, il poeta intoccabile, c'è Pablo Neruda travestito da beduino che intona i suoi versi vacui per i suoi ospiti borghesi progressisti. Larraín disprezzerebbe la loro ipocrisia, se non sapesse che stanno per essere spazzati via da un regime non molto meno ipocrita.
La storia sta per bussare alla porta, Neruda sta per scoprire quanto costa militare in un partito comunista clandestino. Larraín guarda dalla finestra. Nessuno lo ha invitato. Dal nulla prende forma un personaggio da giallo Mondadori: è Gael García Bernal con un cappello da detective. Figlio del bordello e del primo poliziotto di Santiago.



Prima di andarsene a Hollywood, Pablo Larraín ha voluto mostrarci una volta ancora una pagina di storia del suo Cile. Prima di andare a girare un film su Jacqueline Kennedy, Larraín ha voluto ricordarci quanto può essere inaffidabile un narratore (continua su +eventi!)

Neruda è un'operazione sofisticata - la scomposizione di un personaggio storico ancora ingombrante - che nasconde, neanche tanto bene, un desiderio di ingenuità disarmante: dichiararsi figlio di Pablo Neruda, invece che di genitori che collaborarono col suo probabile assassino, Augusto Pinochet. Troppo contemporaneo, troppo sgamato per ridurre il Poeta alla sua statua: per non vederne i difetti, la pancia, le occhiaie, l'infedeltà e quella vanità senza la quale forse non si diventa eroi: dalla sua postazione di spione immaginario, Larraín vede tutto ma vuole bene a Neruda lo stesso, come si vuole bene al padre anche quando torna tardi a casa e puzza di whisky e di donnacce.
Il tempo è stato abbastanza ingiusto con Pablo Neruda. Il sentimentalismo dei suoi versi giovanili, dopo avergli procurato tanta fama in vita gli si è demoniacamente ritorto contro, e adesso non c'è incarto di cioccolatino che non gli sia attribuito on line - lui e Borges si disputano il dubbio merito di aver scritto "amore significa non dover mai dire mi dispiace". Col suo gioco di specchi, senz'altro un po' macchinoso, Larraín gli rende un'anima senza scolpirne un monumento. Neruda è al Monviso di Cuneo lunedì e martedì alle 21.
Comments

La vita segreta (non troppo originale) degli animali

Permalink
Pets - Vita da animali (The Secret Life of Pets)

MORTE AL GENERE UMANO!
Cosa fanno i nostri animali mentre noi non siamo in casa? Cosa volete che facciano: perlopiù dormono, mangiano, litigano, scappano di casa, vanno alle feste, complottano contro il genere umano, guidano missioni suicide contro convogli di accalappiacani, e poi tornano a casa in tempo per scodinzolare quando apriamo il portone.

Pets è il sesto film della Illumination Entertainment - se contiamo anche il primo Cattivissimo me (2010), che era ancora un prodotto della francese Mac Guff, acquisita di lì a poco. L'Illumination ha l'esclusiva per i film di animazione della Universal e grazie ai Minions è diventata una delle più grandi realtà dell'animazione digitale: più grande della branca animazione della Fox, da cui proviene il fondatore (Chris Meledandri lavorò ai primi due Era glaciale), più grande della Dreamworks che forse Meledandri si comprerà. Più in altro c'è solo la Disney/Pixar, ma per ora più che competere sembra che la Illumination si contenti di imitare. Gru e i Minions almeno avevano una loro identità, magari non originalissima, ma tra tanti prodotti in 3d si facevano riconoscere; Pets non prova neanche per un istante a sembrare diverso da quel che promette nei trailer: una rifrittura di concetti e luoghi pixariani e disneyani.

Che poi non si capisce come vada a finire:
diventa vegetariano?
Meledandri è molto bravo a mantenere bassi i budget e stavolta non ha speso molto nemmeno per l'idea (continua su +eventi!): facciamo Toy Story con gli animali, al posto del cowboy e dell'astronauta mettiamo due bastardini che prima litigano e poi diventano amici inseparabili. Mettiamoci anche un cattivo dolce e insospettabile, come in Toy Story 3. Un predatore che cerca di vincere i propri istinti, come lo squalo di Nemo. C'è persino il siparietto lisergico, come in Dumbo e nel Good Dinosaur; il tutto senza foga citazionista: semplicemente si prendono cose che si sa che funzioneranno bene, e si usano ancora una volta, senza pretese di originalità ma nemmeno troppi  ammiccamenti. Neanche il successo straordinario dei Minions ha fatto venire a Meledandri la voglia di rischiare un po', e il risultato è un altro boom al botteghino: un film che incasserà più di Zootopia, raccontando situazioni simili (una comunità di animali che convive nella diversità) con molta meno fantasia.



Quanto sia meccanico l'approccio lo si vede bene nel momento in cui il film si ritrova all'improvviso in una situazione 'alla Up': da qualche parte nella grande città c'è una piccola casa col giardino, dentro forse c'è ancora un anziano signore che aspetta uno dei personaggi. Una scena del genere, in un Pixar autentico, sarebbe stato un colpo al cuore: il classico momento dei lacrimoni. Qui niente. Viene persino pronunciata la parola speciale, "morte" - una parola che in un prodotto per bambini deve essere usata con una cautela - ma non ci si ferma a riflettere, men che meno a piangere: è solo uno snodo qualsiasi della trama, lo spunto per un battibecco in attesa dell'ennesimo inseguimento. Verrebbe da dire che per i bambini magari è meglio così, il pathos di certi film della Pixar è inadatto a loro - ma poi c'è una scena d'azione eccessivamente intensa, in cui i personaggi praticamente annegano, roba che gli stessi bambini potrebbero sognarsi di notte. Non è una questione di budget, non è un problema di rendering: è proprio che manca il cuore. Ma c'è un sacco di animaletti buffi, e sta piacendo a tutti. Al Vittoria di Bra (alle 20:00 in 3d, alle 22:20 in 2d); al Fiamma di Cuneo (alle 21:00); al Multilanghe di Dogliani (alle 21:30 in 2d) e ai Portici di Fossano (alle 18:30 in 2d).
Comments

Poteva andarti peggio, potevi nascere in una famiglia situazionista

Permalink
La famiglia Fang (The Family Fang, Jason Bateman, 2015).

Sono traumi che uno poi si porta dietro per tutta la vita, capite
Chi ha rovinato i fratelli Fang? Anne è un'attrice già di successo, con problemi di alcol, di casting, di età. Suo fratello Baxter è uno scrittore di successo con problemi di pillole e il terzo libro bloccato al terzo capitolo. Se solo avessero avuto due genitori normali, e non due artisti d'avanguardia che hanno movimentato la loro infanzia rendendoli protagonisti di scherzi cretini... come si dice in italiano First World Problems? Forse è troppo tardi per inventarsi una traduzione, man mano che quel primo mondo scompare all'orizzonte con tutti i suoi conflitti generazionali immaginari.

Forse non è solo merito di Cristian Mungiu se i problemi di un padre di famiglia nella Romania in sfacelo mi appassionano di più di quelli di due quarantenni wasp di successo, ancora arrabbiati coi genitori che non li hanno portati in gita col camper nel Grand Canyon. Forse Nicole Kidman (che ha fortemente voluto il film, e lo ha prodotto), per quanto credibile nel ruolo di grande attrice perennemente insicura, non lo è altrettanto nel ruolo di orfana irrisolta; forse Jason Bateman, a cui non manca il mestiere, ha perso del tutto di vista l'aspetto comico della situazione (che a un Baumbach, per esempio, non sarebbe sfuggito). 

Interpreta il ruolo di un'attrice che per restare sulla breccia
comincia a concedere scene in topless.
(Ma siccome la vera Kidman non è messa così male,
questo è tutto il topless che vedrete).

Forse l'autore del libro, Kevin Wilson, è stato abbastanza furbetto da inserirsi nel filone dell'eterna guerra tra la generazione X e i baby-boomers, costruendosi a tavolino l'avversario più facile del mondo: gli artisti concettuali, sempre sui loro piedistalli immaginari, il narcisismo imbastito all'accademia e mai più messo in discussione che si rivela, a una certa età, misantropia bella e buona. Se almeno fossero personaggi realmente esistiti... (continua su +eventi!)

Se almeno fossero personaggi realmente esistiti, li si potrebbe odiare un po' e poi farsi venire un po' di pena per loro, ma se li è inventati Wilson, e se si è lasciato sfuggire una stilla d'umanità di troppo, Bateman non l'ha vista. Se è molto facile prendere le distanze da due sessantenni che credevano di cambiare il mondo con le candid camera, dall'altra si fa più fatica del previsto a empatizzare con un autore di saghe young adult affetto da blocco dello scrittore e un'attrice quarantenne che riuscirà a realizzarsi soltando recuperando qualche parte prestigiosa a Hollywood.


Ragazzi, alla vostra età non dovreste essere voi quelli
che sloggiano i figli da casa?

La famiglia Fang non è un film sgradevole, ma conferma qualche sospetto sullo stato del comedy-drama statunitense: è un film che vorrebbe toccare qualche corda in modo delicato, e invece non fa che urlare per tutto il tempo: LASCIATI ALLE SPALLE I TUOI GENITORI (le musiche, intrusive e paracule, hanno la loro parte di responabilità). Credevo che non avrei mai scritto una cosa del genere, ma un film così mi fa venir voglia di riguardarne uno italiano di qualche stagione fa, Anni felici di Luchetti, che parlava di cose simili ma osservate dal vero, con una delicatezza e una profondità che Bateman e soci si scordano. E dire che al tempo mi ero pure concesso il lusso di parlarne male, Luchetti se puoi perdonami. La famiglia Fang è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e alle 22:30.
Comments (3)

Chi vi uccide sa quello che fa, date retta

Permalink
Il diritto di uccidere (Eye in the Sky, Gavin Hood, 2015)

Ora vi spiego la guerra, signorini.
O uomo occidentale, cos'è troppo grande per te? Gli dèi del tuo antenato, gli dèi della folgore e degli oracoli, non avevano un decimo del tuo potere e del tuo sapere. I tuoi droni possono localizzare il nemico al gabinetto; colpirlo con folgori da decine di megatoni e spalancare l'inferno ovunque tu decida che è giusto. Puoi vedere tutto, puoi bruciare tutto. Ma a volte vorrai solo chiudere gli occhi.

C'è un Occhio che gira intorno al mondo e vede quello che vuoi e che non vuoi. C'è una casetta da qualche parte in Kenya, con stanze separate da tramezze che non arrivano al tetto (molto comodo per le inquadrature dei mini-droni). Dentro ci sono terroristi fanatici, che forse credono che la cittadinanza inglese o americana li protegga dall'Occhio. Stanno per indossare pettorine e andarsi a fare esplodere in qualche luogo affollato. Bisogna colpirli prima che colpiscano - ma c'è una bambina in strada, a pochi metri dal probabile impatto, vende focacce e non si sposterà finché non avrà il paniere vuoto. Ci sono soldati che devono fare il loro mestiere. Ci sono politici che non sanno che ordini dare.

È fortissimo, James Bond gli taglia le unghie dei piedi.
Gavin Hood lo ha fatto di nuovo. Dopo Ender's Game, ecco un altro film meno problematico di quanto vorrebbe sembrare, in cui sotto il dilemma etico si intravede una visione del mondo abbastanza solida: la guerra esiste e bisogna farla combattere ai soldati, che hanno competenze, nervi saldi, mani sensibili ma disponibili a sporcarsi. Mentre i civili, i politici, non ne capiscono niente: si commuovono al momento sbagliato, per la bambina sbagliata, perdono tempo, giocano allo scaricabarile, cercano disperatamente al telefono qualche superiore, qualche mamma o qualche Dio che li perdoni o si addossi le loro colpe. La democrazia è una perdita di tempo che non produce consapevolezza, ma falsa coscienza. I militari sono più bravi anche a farsi venire i dubbi - e a superarli - e a piangere per le vittime collaterali. Scordatevi i cecchini cinici di quel vecchio video di Wikileaks che dopo aver fatto strage di combattenti, fotografi e bambini si complimentavano per i "nice shots" e ridacchiavano per il cadavere caldo calpestato da un tank.

QUALCUNO LE COMPRI QUEL PANE
I soldati d'occidente di Gavin Hood non alzano mai la voce coi sottoposti; sono autorevoli, umani, anche fragili, e se premeranno un grilletto state ben sicuri che ci avranno prima pensato cento volte (continua su +eventi!)

Hanno già le armi più potenti e precise mai adoperate, ora reclamano anche di avere sentimenti raffinati e coscienze tormentate. Come il ragazzino di Ender's Game, a cui Hood non consentiva soltanto la licenza di sterminare una razza aliena, ma anche il privilegio di sentirsi in colpa e rimediare. Anche stavolta la voce più falsa è quella di una donna che fa appello ai buoni sentimenti; nella penultima battuta del film, il generale le fa il cazziatone. Io ho visto il mondo, ho raccolto i cadaveri di quattro attentati suicidi, non si permetta più di spiegarmi cos'è la guerra. Uno vorrebbe tanto che Hood fosse un po' meno militarista di così, perché bravo è bravo; o che almeno lo fosse in modo più onesto (alla Clint Eastwood?), senza confondere le acque, senza mimare la tenerezza e nascondersi dietro il velo quasi integrale di una povera bambina innocente. E invece anche stavolta si può andare a vedere il suo film convinti che si tratti di una parabola sugli orrori della guerra; si può tremare per un'ora sul destino della povera vittima collaterale, ma poi?

Non esistono razze superiori, salvo rare eccezioni
come gli attori britannici di una certa età.
Rickman e la Mirren sono perfetti e lo sarebbero
anche se interpretassero i droni.

Ma poi sulla strada di casa ti accorgi che i militari sono quelli che ne escono meglio. Sono attori di razza come Helen Mirren e Alan Rickman (nel suo ultimo ruolo), ma c'è anche tantissima varietà razziale, ci sono ragazze ispaniche e morette dell'Iowa con occhioni pronti a inumidirsi, c'è una coppia fantastica di spie kenyote, tra cui il Barkhad Abdi già visto di Captain Phillips. Sono tutti bravi, sono competenti, dicono le bugie solo a fin di bene ed è chiarissimo che non godono a uccidere la gente, anzi. Chi potrebbe mai pensarlo. Alan Rickman è molto preoccupato per la bambola che deve comprare alla nipote. Le vittime collaterali dovrebbero sentirsi fiere di essere uccise da gente così.

Per contro, i politici sono tutti bianchi e preoccupati. Sudano, strillano, si tolgono la giacca, il Ministro degli Esteri è al gabinetto a Hong Kong perché ha mangiato gamberetti - non che l'Occhio del Cielo non riesca a trovarlo anche lì, ma insomma Hood non rinuncia a nessun espediente per ridurre l'autorevolezza degli eletti dal popolo. Un discorso a parte gli americani, che non capiscono che tempo ci sia da perdere e preferirebbero sparare prima e farsi le domande poi. Eye in the Sky resta un film importante: forse il primo dramma da camera ambientato intorno al mondo. Semplicemente non è il film controverso che il trailer ci vende: è un film sulla guerra telecomandata e chirurgica, su come funziona bene e soprattutto su come funzionerebbe meglio senza troppi civili nella sala dei bottoni. Un eventuale ufficio propaganda delle forze armate britanniche non avrebbero saputo produrne uno migliore - anche per la pubblicità offerta ai mini-droni di ultimissima generazione

Finalmente hanno riaperto l'Aurora di Savigliano, che lo proietta alle 18:30 e alle 21:15, e il Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (alle 15:15, alle 17:35, alle 20:15 e alle 22:35).
Comments (5)

La vera Squadra Suicida si chiama Warner Bros

Permalink
Suicide Squad (David Ayer, 2016).

Com'è che i nemici di Batman e di Superman scappano sempre di prigione? Non ci stanno mai più di qualche mese, se sciogli l'acido nell'acquedotto di Gotham City ti danno massimo tre settimane con la condizionale. Era ancora l'Età dell'Argento dei fumetti di supereroi, gli anni '60 nel mondo reale, quando qualche lettore cominciò a porsi il problema: è verosimile che Joker esca dal manicomio criminale ogni tre per due? Perché i lettori di fumetti sono così. Possono accettare che Superman abbia il superudito e la supervista, ma dev'essere calato in un contesto verosimile. E gli sceneggiatori questa cosa la capiscono, e invece di farsi due risate si sforzano di trovare spiegazioni, per esempio... c'è un superservizio segreto che arruola i supercriminali in missioni suicide in cambio di sostanziosi sconti di pena. Batman lo sa ma non ci può fare niente, ha le bat-mani legate.

Avete quindici minuti per incontrarvi, raccontarvi che siete uno più cattivo dell'altro, ammazzare gli altri cattivi
e sviluppare un maschio senso di cameratismo. 
Nasceva così lo Squadrone Suicida. Una banda di antieroi che possono anche morire ammazzati, un modo di riciclare vecchi personaggi prima che cadano nell'oblio, un minestrone con avanzi particolarmente speziati. Mezzo secolo dopo, chi abbiamo in cartellone? Il solito super-tiratore scelto (Deadshot), la ganza di Joker, un australiano che si fa chiamare Capitan Boomerang, un tizio squamato, una samurai letteralmente imbucata all'ultimo momento, altra gente abbastanza mostruosa che è lì per farsi ammazzare prima dei titoli di coda, glielo leggi in faccia (glielo leggi dai tatuaggi), insomma, chi è così disperato da aver bisogno di una squadra così?

La Warner Bros?

Da qualche parte ai piani alti della Warner Bros dev'esserci un gruppo di, come definirli, diversamente umani. Qualche figlio di, qualche ragazza di, qualcuno che passava di lì e aveva bamba per tutti, una squadra di iperattivi ipodotati che se hanno mai sfogliato un fumetto non riuscivano a decifrare le scritte nelle nuvolette; se mai sono entrati in un cinema, si sono addormentati dopo i trailer. Una gang di deficienti con una missione suicida: salvare il cinema da sé stesso. Perché andiamo, dopo 15 anni di cinecomics, non sentite anche voi una certa stanchezza? Nell'anno in cui abbiamo già visto Batman pestare Superman e incontrare Wonder Woman, i Fantastici Quattro horror, gli X-Men anni Ottanta, gli Avengers che litigano, Deadpool che scoreggia, e potrebbe andare avanti così per decenni, i calendari sono pieni di uscite fino al 2020, nelle fumetterie c'è un archivio di trame e personaggi praticamente inesauribile... chi può fermare il treno in corsa? Chi può salvare il cinema da tutto questo? La Warner può. La Warner può colarsi a picco prendendo i supereroi e i supercattivi più popolari del mondo e buttarli in film senza senso finché il pubblico non si stufa. Sembra impossibile, ma può funzionare.

"Zio la vetrina è il simbolo,
se non spacchi la vetrina non sei nessuno".
Uno potrebbe obiettare che insomma, stiamo parlando della Warner. I film li sapranno ben fare (sennò, cosa?) Se i cinecomics non sono il loro forte, hanno un sacco di esempi da imitare. E invece no. La Warner continua a fare di testa sua e continua a non capirne niente, è uno spettacolo a suo modo meraviglioso, e assai istruttivo. Alla fine uno il film non se lo guarda per il nuovo Joker con le protesi dentali o per Margot Robbie che fa le boccacce, ma per vedere la Warner che brucia milioni di dollari abortendo un universo cinematico, la Warner che prova a copiare la Marvel ma non ci riesce perché ci vuole un po' di impegno, un po' di applicazione anche a copiare. In dieci anni la Marvel ha messo assieme una ventina di personaggi, alcuni dei quali familiari al pubblico come vecchi amici: non c'è più bisogno di presentarli, niente flashback, bastano dieci minuti di Robert Downey Jr, cinque minuti di Scarlett Johansson, e nel frattempo si libera lo spazio per introdurre nuovi personaggi (meno costosi). Però la Marvel per arrivare a questi crossover ci ha messo dieci anni: su Downey/Iron Man ci ha imbastito una trilogia; alla Warner no, alla Warner hanno fretta, alla Warner ti danno un film solo per rilanciare Batman, presentare Wonder Woman e ammazzare Superman. Hanno troppa fretta di fare i film per fermarsi a farli decenti, è una cosa incredibile. Fanno i crossover prima di creare i personaggi, fanno le frittate senza uova e ne avrebbero di ottime in frigo, le uova più famose del mondo, ma non c'è tempo! Non c'è tempo per romperle! Anche i cattivi: tutti fuori in un film solo, via, che problema sarà mai? Sono cattivi, sono tutti tatuati e colorati, nei trailer sembreranno fighissimi.

Già, i trailer.

Ecco quel che sanno fare alla Warner: i trailer (continua su +Eventi!)


Per cui a un certo punto qualcuno deve aver proposto la cosa: ma perché non ce ne fottiamo della struttura del film, del ritmo, della costruzione dei personaggi, e non montiamo semplicemente una ventina di trailer movimentati e colorati? Ai ragazzini piacciono, magari riusciamo a non addormentarne qualcuno. L'idea che si possa sostituire una storia con la pubblicità della storia è di un'arroganza, di un'ignoranza spettacolari. Da qualche pezzo di trama che emerge qua e là in mezzo a questo carosello di esplosioni e smorfie si capisce che David Ayer una storia se l'era immaginata (uno squadrone di antieroi votati alla morte lo aveva già messo in scena in Fury). Forse era una storia troppo noir, poi Deadpool ha fatto il botto col suo umorismo da spogliatoio delle medie e ai piani alti hanno deciso di spazzare via tutto e lasciar per terra i rottami. Una giovane archeologa scopre in un sito antichissimo uno Spirito che la possiede e che vuole dominare il mondo: avvincente, no? No? Come dite? è la storia più vecchia del mondo, la Mummia, vi cascano le palle? Vabbe', la riassumiamo in un trailer di tre minuti e ci mettiamo un pezzone classic rock in sottofondo. Un assassino nato, siccome è impersonato da Will Smith, vuole riallacciare i rapporti con la figlia preadolescente. Originale, vero? È tipo la trama di tutti i film d'azione con maschi stagionati per protagonisti, da Liam Neeson a Kevin Costner? Non importa, tanto te la riassumiamo in due minuti e ci mettiamo su un altro pezzone rock, dai che siamo la Warner. E poi c'è Joker, già, Joker.


"Però stavolta cattivi".

Joker secondo me è il personaggio più facile del mondo. Ti metti una maschera e fai il matto. Non devi avere giustificazioni, non devi avere scrupoli, fai una risata e strabuzzi gli occhi. Jack Nicholson, certo. Heath Ledger, mi rendo conto. Ma solo perché nessuno ha mai pensato a Costantino Vitaliano, io credo che sarebbe stato un buon Joker anche la Gegia con il trucco e il parrucco adeguato. Non a caso, nel vecchio telefilm di Batman, i cattivi tutti-matti li facevano fare agli ospiti, una volta lo ha fatto pure Liberace divertendosi tantissimo. Qui c'è Jared Leto, e non ho pregiudizi contro Jared Leto: almeno voleva farlo un po' diverso. Ma non gli danno il tempo. Non fa neanche in tempo a picchiare la sua ragazza, cosa che succedeva persino nei cartoni animati in tv e dava un senso a entrambi i personaggi. Cinque minuti di smorfie e risatine e poi passiamo ad altro. La seduzione della sua psicologa, una storia potenzialmente fortissima e inquietante, bruciata in tre scene con la voce fuori campo, manco fossimo in piazza col cantastorie che mostra i pannelli col dito: GUARDA-IL-PERFIDO-JOKER-SEDURRE-LA-PROFESSORESSA. È un film veramente suicida, nel modo in cui brucia sul suo cammino decine di storie e situazioni interessanti. Manipolazione, amour fou, folie à deux... che palle però dover raccontare tutta questa roba. Che palle dover raccontare qualsiasi cosa. Troppi dialoghi! Troppe cause ed effetti, noi vogliamo le esplosioni! Però, attenzione, nessuno si deve fare troppo male. Esplosioni per famiglie.

A un certo punto Harley Quinn - Margot Robbie, di cui tutti parlano bene - spacca una vetrina con la sua mazza iconica, e a chi le chiede conto risponde: Beh, che v'aspettate? Sono cattiva. I cattivi fanno queste cose, no? Spaccano vetrine. In effetti è la cosa più cattiva che la ragazza di Joker fa in tutto il film. Suicide Squad è quel figlio di papà che si concia da Black Bloc quando gli passa il corteo sotto casa, e poi si eccita ribaltando un cassonetto: rivoluzione! Cattivo come i tatuaggi che informano i passanti che sei un duro, perché altrimenti non ci farebbero caso e anche tu, allo specchio, qualche dubbio te lo faresti venire.

Suicide Squad ha fatto il pieno subito - era il minimo, con tutto il battage che c'era intorno - ma non è il colpo grosso che la Warner si aspettava per ridurre le distanza con la Disney/Marvel. In patria è crollato alla seconda settimana, come Batman v Superman (a dire il vero un po' meno). Viva il passaparola, e viva anche la pirateria, che punisce i film-evento non all'altezza dell'evento. E viva anche gli squadroni di pagatissimi deficienti che mandano in sala catastrofi del genere. Sono la nostra unica speranza di sopravvivere ai supereroi. Suicide Squad è al Fiamma di Cuneo (20:05, 22:45), al Multilanghe di Dogliani (21:30) e al Vittoria di Bra (20:00, 22:30).

Comments (5)

L'uomo che batteva i nazisti (e i cavalli)

Permalink
Race (Stephan Hopkins, 2016).

Il trucco è che il colpo di pistola spaventava un po' il cavallo,
e intanto Owens era partito.
Qualche anno dopo aver vinto le famose quattro medaglie d’oro davanti a Hitler, Owens per campare sfidava sul rettilineo i cavalli da corsa. Avversari umani di livello non ne aveva più: era stato radiato subito dopo Berlino, per essersi rifiutato di seguire la squadra olimpica americana in un tour in Scandinavia. Aveva avuto voglia di tornare subito a casa, abbracciare la famiglia, assaporare il trionfo, quel tipo di cose. A New York in effetti diedero un grande ricevimento in suo onore al Waldorf Astoria - ma lo fecero entrare dalla porta sul retro. Il presidente Roosvelt, molto impegnato nella campagna per la sua rielezione, non lo incontrò mai. Owens del resto era un repubblicano, appoggiò ufficialmente il suo rivale. Quando gli chiedevano come mai Hitler non gli avesse stretto la mano, lui faceva presente che neppure Roosvelt gli aveva mai mandato nemmeno un telegramma. Poi per un po’ lo sport passò in secondo piano, Owens continuava a far figli e si arrabattava come poteva. Fu tra i fondatori di una lega di football americano per soli neri (le altre federazioni li escludevano), che fallì in pochi mesi. Aprì un lavasecco, dichiarò bancarotta, fu condannato per evasione fiscale. Ci sarebbero voluti diversi anni per ritrovarlo sulla panchina da allenatore degli Harlem Globetrotters. Quando a Città del Messico i vincitori americani dei 200 metri fecero scandalo alzando il pugno chiuso, Owens li criticò, per poi pentirsene pubblicamente. Prima di lasciare questo mondo, nel 1980, fece in tempo a protestare contro la decisione di Reagan di boicottare le olimpiadi di Mosca. Di tutto questo Race non parla - soltanto la scena in cui lo fanno passare dal retro del Waldorf Astoria, con la moglie, funziona da finale dolceamaro, mentre scorrono i sottotitoli: sembra tutto sommato un’offesa da poco, qualcosa da lasciarsi alle spalle.
Il ralenti sarà banale, ma con l'atletica funziona sempre.
Hopkins non lo usa, sembra che abbia fretta di mostrarti
le gare per passare ad altro.

(Quando capisci che un biopic non funziona? Per esempio, quando è meno avvincente della pagina di Wikipedia).

Come si fa a sbagliare un film su Jesse Owens? Da una parte un afroamericano che resta a ottant’anni di distanza uno dei più grandi atleti di tutti i tempi: dall’altra hai i nazisti e i razzisti dell’Ohio. Per trasformare l’atletica in tragedia e in spettacolo, puoi ripassare Chariots of Fire; per capire come parlare di razzismo e di sport, puoi rifarti ad Ali di Michael Mann. Quanto alle olimpiadi di Berlino, prendi la Riefenstahl e vai sul sicuro. Ma se tutte queste lezioni le ignori, se i dilemmi etici degli atleti li risolvi in discussioni di tre minuti, se il razzismo lo dai per scontato, se i tuoi nazisti sembrano cattivi da melodramma (sul serio, ogni volta che parla Goebbels partono i violini), se la Riefenstahl ti interessa solo come personaggio, il risultato finale si avvicinerà pericolosamente al livello di una fiction italiana, con un budget più alto, ma con meno personalità addirittura.

Il reverendo che sposò gli Owens aveva
i baffetti alla Hitler, il che mi fa impazzire.
Sbagliare un film su Jesse Owens è un’impresa incredibile, ma Stephan Hopkins ce l’ha fatta (continua su +eventi!).

Proprio lui che col suo biopic su Sellers aveva dimostrato di saper sfidare le regole del genere - quella però era un’icona che supplicava di essere profanata; con Owens, con la leggenda olimpica, non si scherza, e il risultato è anche che non se ne riesce nemmeno a discutere seriamente. Più che personaggi in scena ci sono delle figurine: hanno tutti obiettivi lineari (l’atleta nero vuole vincere, l’allenatore bianco vuole riscattare i suoi insuccessi, il dirigente olimpico vuole sconfiggere i nazi) e quando qualcuno o qualcosa si mette di traverso, s’ingrugnano, finché qualcuno non li sblocca, di solito con un bel discorso. Anche Hopkins è succube di questa moda del discorso taumaturgico, che tanti danni ha fatto negli ultimi anni (vedi il Lincoln di Spielberg). Ma nel suo caso l’ossessione rasenta il comico, perché molto spesso i discorsi non c’entrano nulla col conflitto in atto: ad esempio, quando Owens è incerto se boicottare o no i Giochi come gli ha chiesto un’associazione afroamericana, l’allenatore lo commuove spiegandogli che una volta si è schiantato con un aeroplano. Non c’entra tantissimo, ma nel frattempo è partita la base languida e pare che adesso funzioni così, ogni volta che un personaggio è frustrato e deve prendere una decisione tu inserisci un blocco di testo qualsiasi nel copione, un attore lo legge, i violini partono, voilà, la decisione è presa. Pazienza se il protagonista sembra non aver personalità, e oscillare a seconda dei discorsi che ascolta.



Luz Long è un gran personaggio, ok,
ma arriva dopo un'ora e mezza di film.

Il film tutto sommato tratta meglio Avery Brundage (un Jeremy Irons poco convinto), dirigente sportivo americano dalla carriera prestigiosa e controversa (dopo la guerra divenne segretario del CIO fino al 1972, quando si prese la responsabilità di far proseguire i giochi olimpici dopo che Settembre Nero aveva massacrato undici membri della squadra olimpica israeliana). Con una mossa che tradisce non si sa se più superficialità o provincialismo, Hopkins trasforma Brundage nell’eroe del mondo libero che persuade la compagine olimpica americana a non boicottare le olimpiadi, costringe i nazisti a non perseguitare gli ebrei (almeno durante i Giochi) e minaccia Goebbels: o Hitler stringe la mano a Owens, o non la stringe a nessuno. Poi però i due membri ebrei della staffetta americana, a malincuore, deve escluderli dalla finale, perché c’è un limite a quanto si può infiocchettare la storia. In realtà Brundage aveva opinioni moderatamente antisemite, come molti americani che prima di Pearl Harbor non guardavano a Hitler con troppa antipatia.

Lo sport è spesso ingrato coi suoi protagonisti: li piazza alla ribalta e poi cala il sipario all’improvviso. Il caso di Owens è esemplare anche perché ha sempre rappresentato quello che gli Stati Uniti vorrebbero essere - la patria multietnica che piglia Hitler a calci in culo. Se la storia finisse lì, se Owens non avesse poi dovuto interrompere subito la carriera e fare i conti col razzismo in patria, sarebbe una storia fin troppo edificante - probabilmente quella che aveva in mente Hopkins. Race torna sul grande schermo giovedì (ore 22) a Bra, frazione San Matteo, in occasione della rassegna Cinema d’estate in periferia

Comments

Un'altra estate, un'altra Purga

Permalink
La notte del giudizio - Election Year (The Purge - Election Year), 2016, James DeMonaco.

L'allegro mistero per cui, in una notte in cui se esci per strada
sei carne da macello, invece di procurarsi un equipaggiamento
tecnico o almeno qualche vestito pratico, i Cattivi si concino
con le maschere meno pratiche possibili, e vadano in giro
come coglioni a gridare "Lo Sfogo! Lo Sfogo!"
Anche questo agosto rientrerà nei ranghi, e dovremo tutti ricominciare a comportarci bene. Andremo a vedere i film Pixar e Disney coi bambini, porteremo i preadolescenti a guardare supereroi travestiti che si picchiano per finta. Accompagneremo le compagne a vedere commedie romantiche, anche quelle italiane dove restano tutti seduti a tavola finché non finisce il film. E quello di Woody Allen che assomiglierà ad altre quaranta pellicole di Woody Allen ma ce lo faremo piacere. L'estate finirà e ci guarderemo tutto questo e ancora peggio - ma adesso è agosto, e La Purga è di nuovo nelle sale, con tutto il sangue e il piombo che ci serve. C'è un sacco di gente che sanguina e muore e la maggior parte sono stronzi che se lo meritavano, coraggio, purghiamoci. Riempiamo una chiesa di fanatici repubblicani bigotti e guardiamoli morire ammazzati. Dopo staremo meglio.

L'idea va avanti dal 2014. Un budget contenuto, un regista giovane che dal primo episodio si è liberato dell'ansia di strafare, un concetto originale anche se un po' passé: un carnevale per adulti, una notte in cui, in un'America futura appena un po' fascistizzata, tutti possono "sfogarsi" commettendo tutti i reati che vogliono. Con tutte le armi che vogliono. A un primo livello, abbiamo una satira dell'ossessione particolarmente americana per le armi da fuoco. E andrebbe già benissimo così. Ma la carta vincente della Purga (nella versione italiana lo traducono Lo Sfogo e fa ridere lo stesso) è la sua grezzissima ipocrisia: la scelta di stare sempre dalla parte delle vittime, encomiabile se non venisse da chi ha inventato il marchingegno di tortura.

A un certo punto si ritrova nell'ospedale del ghetto,
e al capezzale di un nero qualsiasi dice: Wow, non avevo
mai incontrato un gangster. Ecco, il film sogna questa
impossibile alleanza tra Lumpenproletariat e Hilary Clinton,
l'idea che per chiudere i negozi d'armi bisogna cominciare
a sparare in testa a chi le produce, ecc.
The Purge è ipocrita come tanti altri film in cui a prevalere dev'essere la Pace e la Tolleranza, ma prima deve scorrere più sangue che può. Per fare un esempio nobile e recente: The Revenant, due ore e mezza di saporita ricerca della vendetta e cinque minuti finali per dire che la vendetta è una cosa ingiusta. Ecco, The Purge fa la stessa cosa: mette da una parte i buoni, pacifisti e tolleranti; dall'altra dei personaggi che sono un po' repubblicani, un po' nazisti, un po' satanici, insomma il peggio del peggio del peggio, e non vedi l'ora che i pacifisti li massacrino. Naturalmente questi ultimi devono esitare un po', devono essere perseguitati e costretti, perché sono pacifisti. Ma quando alla fine succede, ecco, è una gran Purga, volevo dire un grande Sfogo. DeMonaco gioca col senso di colpa dello spettatore progressista con un cinismo d'altri tempi: dai, sfogati, ti senti in colpa? Lo sai perché ti senti in colpa? Perché sei un ipocrita. Sfogati un altro po', ti farà bene. E così via, episodio dopo episodio.

Quest'anno poi è tempo di elezioni, e The Purge non poteva assolutamente perdere l'occasione: si scopre così che, malgrado tutto finora ci lasciasse pensare il contrario, l'America di The Purge è ancora una democrazia, e che non c'è oligarchia satanica che non possa essere rovesciata dal voto popolare ogni quattro anni: basta conquistare gli anziani della Florida ed è fatta. C'è addirittura una candidata (Elizabeth Mitchell, la dottoressa di Lost) che promette di abolire la barbara usanza che pure ha aumentato l'indotto delle armi e della sicurezza, e ha ridotto drasticamente la disoccupazione. Ovvio che il partito al potere voglia farle la pelle, approfittando della notte della Purga. Nel frattempo trovi stranieri - turisti della Purga - che vanno in giro per la capitale degli Stati Uniti travestiti da Abraham Lincoln e da Statue della Libertà, per sfogarsi su innocenti passanti americani. In un vicolo qualcuno sta ghigliottinando qualcun altro, tutto regolare. Teeen-ager birichine vanno in giro cosparse di sangue brandendo seghe elettriche. Però chi va al cinema aspettandosi esattamente questo, un'ora e mezza di violenza folle e insensata, ci rimane sempre male, perché? Perché questa roba rimane sullo sfondo, è la spezia con cui DeMonaco attira gli spettatori al cinema. Ma poi li vuole intrattenere con qualcos'altro che è una specie di agenda politica, progressista a suo modo, e scorrettissima. (Continua su +eventi!)


Questi sono i Buoni,
multietnici come è giusto che sia.
Ammazzano tantissima gente,
ma per un buon motivo e senza
goderne troppo visibilmente.

I Cattivi sono gente vecchia e sanguinaria, tutti rigorosamente bianchi (sembrerebbe una proiezione distopica se non avessimo visto un pubblico del genere alla Convention repubblicana): adunati in una chiesa presbiteriana, conducono riti orgiastici che prevedono l'eliminazione di poveri e senzatetto. Quanto ai Buoni, sono tutti minoranze etniche, perlopiù afro e latinos, con facce che non vedi di solito a Hollywood e che gridano blaxploitation (Betty Gabriel). I soli bianchi dalla loro parte sono il candidato donna e il suo gorilla, l'efficiente e spigoloso Frank Grillo, l'unico sopravvissuto dal film precedente. Il candidato dei tristi satanici invece è un pretino, abbastanza simile ad alcuni rivali di Trump alle primarie - nemmeno un visionario come DeMonaco poteva immaginarsi Trump candidato. Il risultato non è semplicemente un sano film di fuga metropolitana che adatta i temi dei Guerrieri della notte o di 1997: fuga da New York ai nuovi tempi e allo spirito di fraternità interrazziale di Fast and Furious; è anche il manifesto politico più sfacciato che credo di aver visto in vita mia. Per un'ora e mezza non fa che dirti che i cattivi sono i bianchi ricchi, tranne quella che, con molta sensibilità e diplomazia, guiderà la rivolta dei ghetti. Non so quanto lo staff di Hilary Clinton possa apprezzare. Tanto le elezioni si vincono coi voti dei pensionati in Florida. Però quando un giorno i nostri figli ci chiederanno: papà, cosa hai fatto per evitare che vincesse Trump? DeMonaco avrà almeno la risposta pronta: con un budget medio-basso ho fatto il film di propaganda più smaccato di sempre. L'ho fatto con tutta la violenza che serviva per conquistare le sale dei quartieri più malfamati d'America. Di più di così un regista di genere cosa poteva fare? La notte del giudizio: Election Year è all'Italia di Saluzzo alle 20 e alle 22:15, e al Fiamma di Cuneo alle 21:15.
Comments (1)

La cena delle notifiche

Permalink
Perfetti sconosciuti (Paolo Genovese, 2016)

Il dramma della Comunicabilità, la tragedia di una generazione che può permettersi l'Iphone ma non ha imparato a silenziare le notifiche. Li senti poi sui treni che chiacchierano con la suocera, pur di farci vedere che hanno relazioni umane: li vedi sui balconi mentre guardano nel vuoto e parlano con l'ex, o con la next; mentre attraversano gli incroci una volta, due volte, con l'auricolare; mentre sextano in coda al bagno pubblico e poi entrano per scaricare la fotina. Vogliono essere scoperti, questa è la verità. Come i serial killer. Vogliono essere osservati - che gusto c'è ad avere segreti se nessuno se ne accorge?

"Tante volte può essere il T9".
Nell'anno in cui il cinema italiano sembrava aver riscoperto il Genere, l'anno in cui il Racconto dei Racconti e Jeeg Robot si litigavano la maggior parte dei David di Donatello, alla fine il premio al miglior film l'ha portato a casa Perfetti sconosciuti, una specie di rivincita del Tinello, del cinema intimista coi borghesi che chiacchierano. E però a suo modo è un genere anche questo: le cene-che-degenerano tra l'altro stanno avendo un revival internazionale. C'è stato Carnage, c'è stato Le prénom che ha avuto anche una sua versione italiana. Ma mentre Il nome del figlio dell'Archibugi è la classica variante d'autore, in cui lo sforzo delle maestranze era rivolto soprattutto a calare il canovaccio in una situazione italiana (anzi romana), Perfetti sconosciuti è quel tipo di piccola idea geniale ed esportabile, che è ambientata a Roma per comodità, ma potrebbe svolgersi ovunque (continua su +eventi!)

"Son stato frocio due ore e m'è bastato".

Il nome del figlio riprendeva dall'originale francese l'idea di una borghesia ormai spaccata in due, così pronta alla guerra civile che la scintilla potrebbe scoccare in qualsiasi momento, anche a una cena tra amici. Di queste tensioni in Perfetti sconosciuti non rimane traccia: non c'è più toponomastica sociale, borgatari portatori di una sana vitalità o professori di sinistra isterici, grazie al cielo. Non c'è una guerra segreta tra post-berlusconiani e post-anti: c'è un liquido gruppo di amici, di cui sappiamo appena il mestiere, che credono di conoscersi finché una sera hanno l'imperdonabile idea di fare il Gioco della Verità 2.0: tenere i cellulari aperti, sul tavolo, per tutta la cena. C'è bisogno di dire che quel venerdì sera chiameranno tutti? Ma proprio tutti, non solo la figlia e l'amante incinta: anche l'ospizio, il gioielliere, fin oltre il dessert continueranno a sputtanare gli incauti commensali. Per quanto irrealistica, l'idea è originale, ma se funziona è merito degli attori, tutti in forma, e di una sceneggiatura che non lascia né a loro né allo spettatore il tempo di prender fiato e riflettere sull'assurdo della situazione. Buon cinema, ottimo teatro.

Non è un ingranaggio perfetto - verso la fine c'è uno svelamento che forse in una prima stesura funzionava da colpo di scena, ma a quel punto ormai siamo tutti esausti e non ci stupiremmo più di niente - però riuscire a trovare il ritmo giusto e non perderlo per quasi un'ora e mezza non è da tutti. E far sembrare fresca una commedia degli equivoci, nel 2016, strappa l'applauso. Poi c'è il finale, che fa qualcosa di molto raro nel cinema italiano: nel momento in cui ci aspetteremmo la risoluzione della crisi, un po' di quiete dopo la tempesta (persino Polanski chiudeva Carnage coi bambini che giocano assieme), Genovese fa un passo indietro, restituendo a tutti i loro segreti. E quando nell'ultima scena Battiston scende dalla macchina, ti accorgi che stai trattenendo il fiato.

Perfetti sconosciuti giovedì 14 è programmato in ben due rassegne di cinema all'aperto: il Cinedehors di Fossano (dalle 21:30) e il Cinema all'Arena di Alba (dalle 21:45).
Comments

Siamo tutti figli di Cuarón

Permalink
I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuarón, 2007).

L'umanità è diventata sterile, l'Inghilterra è invecchiata e isolata. I più giovani - hanno sedici anni ormai - si radicalizzano, mettono bombe a casaccio, non si sa nemmeno cosa vogliano. I vecchi se la prendono coi migranti, nessuno ricorda più il perché. Succederà tra vent'anni - no, aspetta, nove sono già passati.


È vero che ci sono film più recenti in sala, ma se al Castello di Roddi sabato 9 luglio fanno I figli degli uomini, forse vale la pena di ridare un'occhiata per scoprire quanto poco sia invecchiato un film che dieci anni anni fa sembrava già una cosa notevole, se non proprio un capolavoro. Quel che è successo nel frattempo è che non solo le tematiche del film non hanno smesso un attimo di restare attuali - anzi, i rifugiati nei recinti e i campi profughi militarizzati somigliano sempre di più a una profezia - ma che lo stile sfoggiato da Cuarón nell'occasione è diventato tipico del migliore film d'azione. Nel 2007 esistevano già i found footage; Von Trier e Gus Van Sant ci avevano già assuefatto alla nausea da handicam; e però i piani sequenza insistiti (e truccati); la scenografia un po' Bagdad un po' videogioco sparatutto, sono cose che sono diventate moneta corrente dopo i Figli degli uomini, se non grazie ai Figli degli uomini (continua su +eventi!).



Non voglio dire che non avremmo avuto film acclamati il Figlio di Saul, o l'ultimo Mad Max, ma forse li avremmo apprezzati meno se nel 2007 Cuarón non ci avesse iniziato a un nuovo modo di girare l'azione, visionario e più immediato: anche questo film è in sostanza un solo lungo inseguimento; anche Cuarón è deciso a narrare soprattutto attraverso le immagini, riducendo al minimo gli spiegoni. Vedi l'intermezzo dell'"Arca delle Arti", un progetto che viene semplicemente menzionato e mostrato, senza che nessun personaggio o voce narrante si preoccupi di spiegarci cos'è: ce lo devono dire le immagini, e il maiale rosa sulla fabbrica e il David di Michelangelo con una gamba rotta, e ci riescono egregiamente. Del romanzo di P. D. James restano solo le suggestioni: la trama è stravolta anche da un punto di vista politico, senza troppe preoccupazioni per la logica (un'Inghilterra condannata a invecchiare sarebbe costretta a importare i lavoratori stranieri più che a scacciarli, e in effetti la James nel romanzo prevedeva dei campi di lavoro coatto). Cuarón la taglia a fette molto meno sottili: sceglie come nuova Eva (che all'inizio avrebbe dovuto essere Julianne Moore) una ragazzina d'origine africana con un pessimo gusto per i nomi: trova i sobborghi meno caratteristici di Londra e chiede ai suoi scenografi di messicanizzarli. Per lui il confine tra primo e terzo mondo ormai è un fronte mobile. Gli preme mostrarci un'Inghilterra senile e xenofoba, e dieci anni dopo è difficile dar torto alla sua intuizione.

In generale rivedere su un grande schermo I figli degli uomini potrebbe rivelarsi un'esperienza straniante per chi ha la sensazione che tutto stia precipitando all'improvviso: è un film che appartiene assolutamente al decennio scorso, all'era pre-crisi dei bond, ai tempi in cui il nemico numero uno era Bin Laden - la scena della bomba a Londra fu girata poche settimane dopo l'attentato suicida del 2005 - e ci mostra come tutti gli incubi che crediamo avere avuto negli ultimi anni ce li stiamo portando avanti ormai da più di dieci. Non è che i cinema siano già chiusi, ma non mi pare che questa settimana ci sia in giro qualcosa di più interessante e attuale dei Figli degli uomini. . Al Castello di Roddi dopo le 21, sabato 9 luglio.
Comments

Prima sfasci le vetrine, poi ti deridono, poi vinci, poi continuano a deriderti

Permalink
Suffragette (Sarah Gavron, 2015).

Emmeline Pankhurst. "Fatti, non parole" era il suo motto.
Nel film esorta le proletarie a rompere le vetrine.
Rompono le vetrine per attirare l'attenzione dei media, fanno esplodere le cassette delle poste, resistono alle torture e rifiutano di nutrirsi in carcere. Hanno rinnegato le famiglie, gli affetti; hanno sacrificato la vita alla Causa. Sono... le suffragette inglesi di un secolo fa. Ridicolizzate in vita perché lottavano per il diritto di votare, snobbate in seguito perché il suffragio universale, una volta conquistato, sembrò quasi subito un diritto scontato. La regista Sarah Gavron partiva da un'idea forte: scrostare l'immagine rassicurante della suffragetta che ti offre un volantino e ti regala un dolcetto, e mostrare quanto toste fossero le attiviste del WSPU, disposte a farsi malmenare, imprigionare e nutrire a forza. La realizzazione però è talmente convenzionale da far sospettare un ripensamento, come se a un certo punto qualcuno avesse esitato a tirare le somme: chi ha bisogno di un film in cui le suffragette rompono le vetrine come i black bloc, cercano di attirare l'attenzione come le femen, e fanno esplodere cassette e intere case come gli anarco-insurrezionalisti? Sono pratiche fuori moda, nessuno le trova più eroiche ormai. Lo stesso suffragio universale non se la passa così bene (continua su +eventi!)

L'ultima battaglia di Emily Davison.

Peccato perché la storia da qualche parte c'era, e alcuni spunti di partenza erano fantastici - ad esempio a un certo punto il film mostra di sfuggita una suffragetta che spiega alle altre alcune mosse di autodifesa, ebbene, pare che una membra del WSPU fosse un'esperta di Ju Jitsu. La cosa muore lì, del resto sarebbe stato difficile far funzionare una scena in cui Carey Muligan o Helena Bonham Carter abbattono un bobby a colpi di Ju Jitsu. La Gavron non si accontenta della ricostruzione storica - quella ormai è a portata di qualsiasi produzione televiva - vorrebbe anche avere qualcosa da dire sul presente, al punto di rischiare l'anacronismo: l'astuto segugio di Scotland Yard che spia le mosse delle femministe ha un pallino per le fotografie, ne scatta tantissime alle manifestazioni e durante le cariche della polizia.

Un'altra occasione piuttosto persa è il taglio che dà alla scena della morte di Emily Davison. Perlopiù sconosciuta qui da noi, la Davison in patria è un personaggio leggendario, non tanto per i nove arresti o i ripetuti digiuni, ma per le circostanze in cui morì - travolta da un cavallo a un derby, e non da un cavallo qualsiasi: da quello del re. L'incidente le costò la vita, ma diede anche al suo movimento quella pubblicità che i suoi scioperi della fame non erano riusciti a ottenere: ma fu davvero un incidente? Se ne discute più o meno da allora. Aveva intenzione di farsi travolgere o voleva semplicemente attaccare una fascetta al cavallo, con uno slogan che chiedeva il voto alle donne? Era in grado dalla sua posizione di riconoscere il cavallo del re, o lo intercettò per pura (s)fortuna? Il film decide di sposare la tesi più semplice, facendo della Davison una militante suicida, che decide di sacrificarsi lì su due piedi, senza pensarci troppo. Forse il personaggio meritava più spessore.

Anche la leader del movimento, Emmeline Pankhurst, è resa da Meryl Streep in modo impeccabile ma un po' freddo: una che inneggia più o meno alla lotta armata, per dileguarsi svelta appena arrivano i bobby. Invece il personaggio di Carey Mulligan, la protagonista, è inventato: uno di quei ruoli abbruttenti che sembrano obbligatori per le attrici di livello internazionale (la smorfietta vezzosa ormai simile a un'emiparesi facciale alla Stallone). È l'operaia che all'inizio non sa cosa sia il suffragio e poi, a furia di essere accostata a queste amiche pericolose, picchiata con loro, arrestata con loro, finisce per radicalizzarsi. Suffragette è alla Sala Polivalente di Piasco giovedì e venerdì alle 21:10.
Comments

Shane Black e il portaceneri gigante

Permalink
The Nice Guys (Shane Black, 2016).

Ryan Gosling è un mentecatto. Tanto per cambiare, già. Ryan Gosling è un ex sbirro che ha già dato il suo meglio, e da quel che ci è dato di capire, anche quel meglio non era un granché. È uno di quei personaggi che all'inizio dei vecchi film sonnecchiano sulla loro scrivania di detective privati, tra cicche e bicchieri vuoti, in attesa che arrivi un ispettore o una bionda fatale a svegliarli, a ributtarli nella mischia. All'inizio del film effettivamente Ryan sta dormendo immerso in una vasca da bagno, in giacca e cravatta, ma lo sveglierà sua figlia perché da qualche tempo in qua il regista Shane Black ha deciso che vuole portare al cinema anche la nuova generazione, e l'unico sistema che gli è venuto in mente è piazzare minorenni nelle sue storie - anche in quelle hard-boiled ambientate nel mondo della pornografia californiana. Funziona? Insomma. Ma è un trucco talmente vecchio che sembra quasi fresco, come certe barzellette che ti ricordi improvvisamente dopo trent'anni.



Shane Black a un certo punto dev'essersi creduto un autore, uno che ha una cifra stilistica tutta sua e la persegue a dispetto di logiche commerciali o del buon senso. Forse. È un'ipotesi, neanche la più triste. Sempre la California, fragile e letale - macchinoni che precipitano dentro villette prefabbricate - sempre gli stessi personaggi fragili e perdenti che però in un qualche modo alla fine portano a casa il risultato. Gente a cui è invariabilmente successo qualcosa di brutto e non ci vuole più pensare, piuttosto ci beve sopra fino a morirne. A metà di un film non memorabile, Ryan Gosling si ritroverà seduto a fumare sul trampolino di una piscina vuota, ingombra di mozziconi. Questo cos'è, gli chiederà Russel Crowe, un portaceneri gigante? Ho la sensazione che sarà l'unica scena che mi ricorderò del film (continua su +eventi!)

Shane Black ha gusto per i dialoghi surreali, ma non è Tarantino; sa costruire una scena d'azione ma non è Tony Scott; ha un po' di sincera nostalgia per la California anni '70 ma non ci sguazza come P. T. Anderson. Ma ci sono quei piccoli momenti in cui riesce a mostrarti la disperazione in un'immagine - un uomo in un portaceneri gigante, oppure una bambina seduta in un prato, con una torcia, che racconta una storia a delle bambole che non esistono più, ecco, quelle piccole spine nel cuore Shane Black le sa conficcare. Magari sarebbe diventato un autore davvero, se Hollywood si fosse fidata un po' di più. Magari non ci ritroveremmo davanti a un prodotto che sembra pensato apposta per l'estimatore di Shane Black (ma siamo così tanti?): un catalogo di situazioni che non erano originalissime neanche quando le usava in Arma Letale, nell'Ultimo boy scout, in Kiss Kiss Bang Bang e... basta, via, non è che abbia scritto tutti questi film Shane Black. Magari lui stesso avrebbe cose più interessanti da dirci, ma a questo punto è come il vecchio amico che ritroviamo in un bar, uno da cui vogliamo sentire esattamente le stesse storie, la stessa barzelletta, non perché ci faccia ridere ma perché ci consola sapere che si è rincoglionito almeno quanto noi. 

The Nice Guys è al City Plex di Alba alle 22:20; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:15 e alle 22:45; all'Impero di Bra alle 22:30; all'Italia di Saluzzo alle 20:00 e alle 22:15; al Cinecittà di Savigliano alle 20:15 e alle 22:30.
Comments

Un autobus chiamato 63

Permalink
La pazza gioia (Paolo Virzì 2016).


Le pazze non sono simpatiche, le pazze sono pericolose. Agli altri e a sé stesse, e lo sanno. La notte si rigirano, telefonano alle solite persone sbagliate, ingollano valium clandestino, tengono lontani i cattivi ricordi a botte in testa. Le pazze, potendo scegliere, guarirebbero stasera. Ci fosse una terapia, un lavoro socialmente utile, una scossa a centoventi volt - o tornare da papà, o tornare dal bambino, tornare indietro. Le pazze vorrebbero solo essere felici.

Da quand'è che Virzì non sbaglia un film? Una volta capitava anche a lui. Ma dopo è come se avesse ingranato una marcia diversa: da lì in poi una serie positiva che fa quasi sgomento. Persino La pazza gioia, quante possibilità aveva di raccontare la malattia mentale senza indulgere al pietismo, senza inveire contro strutture coercitive che in effetti non esistono più, senza trasformare le sue matte in eroine depositarie di una Verità Più Profonda, sconosciuta ai sani di mente? I trailer alimentavano i peggiori timori: Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti che fanno le matte, scappano in decappottabile e si divertono. Sta a vedere che Virzì ha sbagliato un film - beh, prima o poi doveva succedere. Via il dente, via il dolore.

"Il cinema italiano, non so se si rende conto".
Salvo che, ovviamente, La pazza gioia non è quel tipo di film. È una storia di matte che cercano la felicità, perché l'alternativa è l'elettrochoc, o buttarsi di sotto. Non sono simpatiche, non cercano la tua pietà, se potessero metterti le mani nella borsetta non ci penserebbero due volte. Se avessi letto di loro nelle pagine di cronaca, avresti scosso la testa e invocato il manicomio criminale; se stai piangendo da mezz'ora, è perché Virzì, maledetto, ci è riuscito anche stavolta...(Continua su +eventi!)

Con un senso dell'equilibrio che non ha paragoni in Italia, una mano mai tanto salda - sarebbe bastata una sbavatura, una parola di più, una caratterizzazione appena appena più marcata, una concessione a quei bozzetti grotteschi che una volta erano il suo punto di forza. Il confine tra commedia e tragedia è una lama su cui le protagoniste saltellano senza cascare veramente mai.

Si intuisce, dietro, un lavoro di osservazione quotidiana, di riflessione sulla malattia, che solleva il film di svariate lunghezze sopra ogni altro recente tentativo di fare cinema intelligente. Quando a un certo punto compare, in un mezzo secondo, il volumetto Einaudi di Un tram chiamato desiderio, più che una strizzata d'occhio ha tutta l'aria di un'ammissione: Virzì e Francesca Archibugi non hanno bisogno di citar nomi importanti per ricordare al pubblico di essere colti, ma nemmeno possono fingere che nel personaggio della Bruni Tedeschi non riviva il fantasma di Blanche. La Ramazzotti invece è una nuova Maria Farrar, l'infanticida di Brecht che nessuno ha voluto aiutare. Intorno a loro le figure maschili sono più evanescenti del solito: ex amanti, padri e mariti non hanno più nulla da dare, se mai hanno dato qualcosa. Per Virzì e per le sue attrici era forse il film più difficile, il passo falso che gli avremmo perdonato. Niente da fare, neanche stavolta. Tocca aspettare il prossimo.

La pazza gioia è al Cityplex di Alba alle 20:00 e alle 22:15; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e alle 22:35; al Multisala Impero di Bra alle 20:10 e alle 22:30; al Fiamma di Cuneo alle 21:00; all'Italia di Saluzzo alle 21:30; al Cinecittà di Savigliano alle 20:15 e alle 22:30.

Comments (4)

Perché Accorsi sembra uno sballato

Permalink
Veloce come il vento (Matteo Rovere, 2016)


O ma lo sai che stai facendo un film di merda?

Ma come lo stai girando, tutto perfettino, con gli stacchi giusti, le curve tonde, soccia, che due balle fai venire. Ma te, ti diverti mai quando giri? 


C'è un momento, diobono, in cui non pensi alla postproduzione, alla distribuzione, all'ipoteca che ti mangerà la casa se il film va di merda e tutte le altre balle? C'è un momento in cui ti gasi e basta? Lo sai di cos'hai bisogno, te?

Di benzodiazepina. Dodici gocce e poi vai liscio.
No, scherzo.

Te hai bisogno di Loris. E sei fortunato, eccomi qua.

(Però anche la benza non ti farebbe mica 
male  sai, anzi, se hai venti carte ci passo io in farmacia, all'Operaia mi fanno gli sconti).

Ho visto Veloce come il vento e ora nessuno potrà convincermi che Stefano Accorsi non abbia passato gli anni del suo apprendistato a imitare Vasco Rossi per far ridere i compagni; se non era proprio Vasco era lo scoppiato del quartiere. Poi da cosa nasce cosa, uno spot qua, un Muccino là e vent'anni dopo Stefano Accorsi è attore di livello quasi internazionale. Il primo a crederci poco è probabilmente lui, e questo è il motivo per cui in fondo è impossibile volergli male. Ogni tanto ci pensiamo: ma che fine ha fatto? Quand'è che torna a farsi vivo, con una delle sue genialate?

(Hanno tutti fatto uno spot ridicolo ma quello di Accorsi non ce lo dimentichiamo. Prima o poi hanno tutti avuto un'"idea", ma solo "un'idea di Stefano Accorsi" è diventato un tormentone. Non c'è un perché, Accorsi non sarà un grande attore ma non è nemmeno il più cane di tutti. Non diremmo mai di Accorsi quel che si dice di solito a scuola, che uno è bravo ma non s'impegna. Accorsi s'impegna pure, Accorsi non puoi mai dire che non ci stia provando).

Veloce come il vento era, sulla carta, un film suicida. Una storia vecchia come la Turbosedici nascosta nel casolare, implausibile come un manga fine anni Settanta, o una storia di Bug Barri di Basari e Giovannini, nessuno sa di cosa sto parlando. Una ragazza minorenne al volante di una Granturismo, che durante la prima gara resta orfana (il padre si piglia un infarto nei box, la madre è fuggita anni prima) e con un fratellino a carico. Tutto questo poteva forse essere verosimile sulle pagine del Corrierino o del Giornalino, ma verso il 2015 lo spettatore italiano è ormai abituato a standard di verosimiglianza molto diversi. Poi però succedono due cose.

La prima è che Jeeg Robot, un film ancora meno plausibile su un borgataro che beve la monnezza radioattiva del Tevere e diventa Supercoatto tiene le sale per un mese intero e si presenta alla consegna dei David di Donatello col carrello della spesa. E lo riempie. Segno che il pubblico e persino la critica stanno cominciando a fottersi della verosimiglianza e a manifestare interesse per qualcosa di diverso che in mancanza d'altro chiamiamo "film di genere" (ma ha ancora senso chiamarlo così come se fossero gli anni Settanta e lo spettatore medio andasse al cinema una volta alla settimana? (Continua su +eventi!)

La seconda è che la sceneggiatura di Veloce come il vento a un certo punto è arrivata ad Accorsi, che magari non ha sempre voglia di recitare e lo capisco, ma stavolta aveva voglia di divertirsi a fare lo Scoppiato Anni Ottanta per un'ora e mezza. Perché con tanto rispetto per il giovane Rovere che ha talento, e gira sorpassi e curve e inseguimenti che Ron Howard, per dirne una, non ne ha fatti di migliori; con tanta ammirazione per la giovanissima Matilda De Angelis che regge il volante e la scena senza sbavare, Veloce come il vento non filerebbe così bene - Veloce come il vento non filerebbe nemmeno se Accorsi non riempisse ogni buco e fessura di trama. Il suo sporc-drughè, struggente ed esilarante e completamente fuori le righe, chi ha condiviso un po' di anni Ottanta nei parchetti dell'Emilia-Romagna non potrà trovarlo famigliare - quando spalanca le braccia ti sembra di sentirlo puzzare. Non so se chi è nato a nord del Po e a sud degli Appennini possa sentire lo stesso turbamento: ma qui ce l'abbiamo tutti un fratello, cugino, zio maggiore ridotto così. Cioè: ce l'avevamo. E in un qualche modo lo rimpiangiamo. Perché è vero che era un deficiente e ci ha rubato pure le posate. Però era nel nostro sangue, e quando se ne è andato è come se ci avesse tolto il divertimento. Quello non torna più, le posate si ricomprano.

 

Veloce come il vento ce lo resuscita a tradimento come fanno i ricordi d'infanzia, tirando una coperta pietosa sugli aspetti più crudi. Sembra veramente una storia restata in garage per vent'anni: ambientata prudentemente in un casolare lontano dalla Storia, e in un'Imola dove ai tavolini del bar ci sono ancora dei "gran disgraziati" in chiodo che sembrano usciti da un Frigidaire o un Lancio Story. L'unico adeguamento è stato sostituire alle siringhe le bottiglie di plastica: per il resto, c'è l'idea che nessuna elettronica potrà migliorare quella bara volante che era la Turbosedici Peugeot; nessuna sopraggiunta mafia bielorussa potrà correre più forte dei disperati col fegato-fegato-fegato spappolato. Senza Accorsi Veloce sarebbe il compitino rigoroso ma freddo di un regista che prova a fare il film-di-genere-nel-2016, e per carità, tiferemmo comunque per lui, come abbiamo tifato per Jeeg. Però se il film vince, sulla distanza, è per quell'odore di salciccia e roulotte. Certo, in Veloce come il vento c'è anche la minorenne più cazzuta del cinema italiano ("Prendo le curve ai duezento all'ora e ti preoccupi se mi faccio una scopata in macchina?") e - colpo di autentico genio - il bambino meno empatico mai visto. Il che è fantastico, perché quel bambino siamo tutti noi, che tifiamo per la brava giovanissima attrice, tifiamo per il talentuoso giovane regista - ma in realtà abbiamo solo voglia di rivedere Loris, solo lui ci ha fatto divertire.

Alla quarta settimana di programmazione, Veloce come il vento regge ancora al Comunale di Barge (21:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Nuovo Lux di Centallo (21:00). Vai, vai, ballerino.
Comments (3)

Kate Winslet è il boss

Permalink
Codice 999 (Triple Nine, John Hillcoat).

Che fine ha fatto Kate?
Un gruppo di buoni attori, di quelli che li vedi in tanti film e vincono pure i premi, ma da soli non fanno il cartellone, avete presente? Un gruppo di buoni attori senza troppe pretese vuole fare un colpo al botteghino, un film di genere dove esplodono macchine e arti umani, e poi dividersi il bottino. Quante possibilità hanno di riuscirci? Poche, è un segmento molto inflazionato. Però, forse, pescando una sceneggiatura che era in ballo da anni... offrendo alla Winslet un ruolo diverso dal solito... attirando in un tranello Casey Affleck...

Codice 999 è un poliziesco corale, come a dire uno di quei film in cui bisogna incastrare gli impegni di sette od otto attori di primo livello e il rischio che si corre è di sembrare comunque un Heat dei poveri. Il punto di vista oscilla continuamente tra buoni e cattivi, ma è un oscillare del tutto meccanico: se Heat o The Departed ne approfittano per mostrare che i due fronti si assomigliano più di quanto dovrebbero, e che insomma il bene e il male son concetti relativi ecc., Codice 999 è semplicemente un canovaccio scritto così, perché si usa così. I poliziotti sono marci, e i cattivi sono ancora più marci - tanto che alcuni di loro sono poliziotti deviati. Perché sono marciti? Non c'è un perché - cioè, Chiwetel Ejiofor ha decisamente sposato la persona sbagliata (la sorella di una boss russo-israeliana), che tutto sommato può essere un motivo valido per far esplodere le persone. No, la gente marcisce perché sai, la società, tutti sono armati, c'è tanta violenza a New York, Los Angeles, Atlanta - beh, almeno la location è una novità. In realtà no, perché sai come va con le città americane, insomma, grattacieli e sobborghi coi latinos violentissimi che comunque svolgono solo crimini di bassa manovalanza.

Qui era fatto anche il fotografo
Ecco, la cosa più interessante di Codice 999, se non fosse Kate Winslet, sarebbe il modo in cui s'infischia allegramente del politically correct, e ti piazza una gang di afroamericani e latinos ricattati da una gang ancora più cattiva di (D*o ci perdoni), ebrei russi ma di stanza in Israele, che per mettere a segno il colpo impossibile decide di ammazzare l'unico poliziotto non marcio di Atlanta, che occasionalmente è quasi l'unico bianco rimasto sul set: Casey Affleck. (In verità c'è anche Woody Harrelson, suo zio, che è un capo della polizia marcissimo - tira i mozziconi di crack che trova sui luoghi del delitto - ma è ancora un bravo segugio e sa difendere la sua famiglia).

La cosa è talmente smaccata che fino a un certo punto ti aspetti il colpo di scena, cioè dai, è impossibile... (continua su +eventi!)

La cosa è talmente smaccata che fino a un certo punto ti aspetti il colpo di scena, cioè dai, è impossibile che i neri siano i cattivi, i latinos siano ancora più cattivi però cialtroni e iperviolenti che non ragionano, gli ebrei i più cattivi di tutti che tramano trame - e i bianchi quelli buoni, quelli che danno sempre il meglio, che vorrebbero "fare la differenza". C'è persino una poliziotta asiatica che è un mago al computer.

Si sa come vanno le sceneggiature in questi casi: prima ti fanno credere una cosa e poi... scommetti che alla fine salta fuori che in cima a tutta la piramide del Male c'era il capo Harrelson con la sua ridicola cravatta stellestrisce? E quella brava coi computer in realtà faceva finta? E invece? E invece non è che posso dire il finale ma insomma, forse è persino una buona notizia: finalmente un film in cui ai neri capita di essere i cattivi (però professionali), agli ebrei capita di fare i mafiosi (ok, non è una novità) e ai bianchi di salvare la giornata, e nessuno lo trova razzista. Neanche in patria sembra che ci siano state molte polemiche. C'è anche Gal Gadot in quota israeliana ed è uno spreco terribile - una truzza mafiosa senza qualità, serve a far risaltare l'intelligenza della sorella Kate.

Il film ha un buon ritmo ma non si ferma mai - soffre di quell'affanno tipico di sceneggiatura troncata perché è vero che Hillcoat ha fatto La strada, ma non è né Mann né Scorsese e non può concedersi quella mezz'ora in più per spiegare perché certi personaggi si comportino in certi assurdi modi. Il risultato, temo, è che tra un paio d'anni ci ricorderemo ancora tutti dei film di Mann e di Scorsese, e di Codice 999 resterà il vago ricordo di un film in cui Harrelson si re-inventava poliziotto marcio ma completamente diverso dal suo true detective, e soprattutto Kate Winslet si trasfigurava in imperatrice ebreorussa del male, un'Imma Savastano dove meno te lo aspetti.

Codice 999 è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:15, 22:45); all'Impero di Bra (22:30); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
Comments (1)

Batman contro Superman non ha senso (neanche se li costringi)

Permalink
Batman v Superman: Dawn of Justice (Zack Snyder, 2016).

Due città si dividono la baia, e se nessuno è ancora riuscito a inquadrarle assieme, forse c'è un motivo.

A est c'è Zackopolis, terra solare di Dei olimpici o aspiranti tali. I templi sono più ottone che oro, se vogliamo proprio dirla tutta, ma l'aspirazione alla grandezza è genuina. C'è un'attesa messianica, un senso del divino e della meraviglia, quella nota di fascismo che gli americani sulle prime non riconoscono - addolcito da quella spezia camp, appesantito da qualche cedimento pacchiano che possiamo scambiare per ironia. Di film di supereroi ne trovi a ogni cantone, ma nessuno li inquadra come Zack. Nessuno ci crede davvero, hanno tutti paura di passare per ragazzini e ci scherzano su.

Come hai detto che si chiama tua madre?
Solo lui riesce a stare serio di fronte a creature di calzamaglia con o senza superpoteri, solo lui è credibile, perché solo lui ci crede. Di Batman ce ne sono stati tanti, e Ben Affleck non partiva avvantaggiato: ma Zack riesce a renderlo il più spaventoso di tutti. Superman è l'eroe più antico, il più ingenuo e il più difficile - è onnipotente, e allo stesso tempo troppo fragile: non regge la kryptonite né il ridicolo. Passa il tempo a salvare la fidanzata, ha una copertura ridicola e quegli stivali da imbecille, solo Snyder può trasfigurarlo in un Michele Arcangelo. Nessun altro avrebbe potuto confezionarci un film come Batman v Superman - e allora perché non l'ha confezionato meglio? La risposta forse è dall'altra parte della baia.

Ho fatto il militare in Israele,
cosa volete che m'impressioni Doomsday
A ovest c'è Nolan City, una terra oscura, che rimedia alla mancanza di grandezza aggrovigliandosi in mille arzigogoli. Qui la linea più breve tra una scena e l'altra è lo scarabocchio, e smarrirsi è obbligatorio. Da Nolan City arrivano gli sceneggiatori che hanno ritagliato due o tre tavole delle loro storie a fumetti preferite, rimontandole in un intreccio completamente diverso, e ingegnandosi a complicare ogni raccordo con lo scopo preciso di stordire lo spettatore. Batman v Superman non è un Film Fatto Male - non sarebbe così grave - è un film Fatto Male Apposta. Un pasticcio meticolosamente organizzato a tavolino, da professionisti consapevoli.

"Clark Kent e Bruce Wayne!
Come mi piace mettere in contatto le persone"
Sarebbe bastata una sottotrama in meno, una sequenza in meno, due spiegazioni in più, e BvS sarebbe stato un dignitoso film di supereroi come ce ne sono tanti. Ma a Nolan City non si ragiona così. A Nolan City si deve complicare tutto - perché una sottotrama sola se ne puoi infilare tre? Perché l'ordine cronologico, se puoi mescolare gli eventi come in un mazzo di carte? Tutto questo lo facevano i grandi scrittori prestati al fumetto che amavamo, e che avevano cose da dirci, e lo fanno anche gli sceneggiatori di Batman v Superman, che con quelle storie sono cresciuti e forse non le hanno nemmeno capite - si ricordano solo una gran confusione che era bellissima da sfogliare, e certe frasi icastiche che copiano di pacca. "Il mondo ha un senso solo se lo costringi ad averlo". Bella, in effetti.

Peccato che a Nolan City si faccia più o meno il contrario.. (continua su +eventi!) Come ai tempi del Joker di Nolan, c'è di nuovo un cattivo pazzo con un piano che non ha senso, a volte sembra calcolato al millimetro e a volte improvvisato sul set. Il film sembra riscritto dozzine di volte con dozzine di priorità diverse: facciamo un Superman realistico, che si misura con la contemporaneità: un po' di undici settembre (e persino l'attentato a Massoud, che riemerge come in un sogno) No, anzi, facciamo il Cavaliere Oscuro di Miller, anche se ai tempi Superman era Ronald Reagan e Batman piegava già verso i neonazi... Ho cambiato idea, facciamo un universo cinematico come la Marvel! Un cameo a Wonder Woman, un altro per Flash, via che si va... dite che è roba già vista? Ok, giochiamoci la carta di Doomsday. Ma sentite, e se il cattivo lo facessimo fare a Zuckerberg? Non a quello vero, no, all'attore... Oppure facciamo tutto, mettiamoci di tutto, e speriamo che qualcuno confonda la complicazione con la profondità. Con Nolan dopotutto funzionava.

E funziona anche stavolta. Il terzo miglior weekend di sempre negli USA - ok, a lunedì si era già sgonfiato di parecchio, ma al miliardo di $ ci arriverà. Ed è solo l'inizio, perché è talmente scombiccherato che i nerd, il nocciolo duro, dopo averne parlato male per un mese correrà a ordinare il dvd con le Scene Tagliate che dovrebbero Spiegare Tutto e invece probabilmente Faranno Ancora Più Casino. In questo stesso momento centinaia di blogger convinti di avere un senso critico stanno lavorando a un pezzo sui Cinquantasette Buchi di Trama di Batman v Superman (il Quarantaduesimo Ti Sconvolgerà!) Quella è gente che un film del genere se lo merita. Lo guarderanno e lo riguarderanno fino a sognarselo, finché non lo costringeranno ad avere un senso, come i predicatori con la Bibbia. Magari il cinema dovrebbe essere un'altra cosa - anche quello di intrattenimento, anche quello coi tizi in mantello che volano e tirano raggi laser. Una cosa meno seriosa, meno inutilmente complicata. Poi vai a vedere gli incassi, e... Batman v Superman è anche questa settimana al Cityplex di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (19:50, 21:10, 22:45), al Vittoria di Bra (21:00), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Multilanghe di Dogliani (21:05), ai Portici di Fossano (18:30, 21:15), al Cinecittà di Savigliano (21:30).
Comments (7)

Cuore di un ragazzo che senza paura sempre lotterà

Permalink
Le macchine rallentano, c'è un tamponamento. Una macchina è rovesciata sul fianco, sta per prendere fuoco. Sul ciglio del raccordo una donna si riscuote dallo choc e si mette a urlare: lì dentro c'è mia figlia. I poliziotti la trattengono. Arriva un tizio in felpa nera: cosa può fare? Quello che vorresti fare tu, quello che farebbero tutti. Solleva la fiancata di peso, strappa la bambina alla morte e se la mette in braccio. Per quale altro motivo pensavate di essere venuti al cinema?

Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2016).

Vai a vedere Jeeg Robot. Me l'hanno detto tutti per una settimana. Io nicchiavo, ero rimasto bruciato dal primo tentativo del cinema italiano di abborracciare un supereroe. In realtà Jeeg è agli antipodi del Ragazzo Invisibile, praticamente in tutto: al servizio di Salvatores si era messa una macchina industriale anche efficiente, ma che di supereroi non sapeva nulla e non ci teneva neanche troppo a informarsi - tanto è roba per ragazzini e i ragazzini si bevono tutto, no? No, sono anzi molto esigenti.

Invece Jeeg, per come ce la raccontano, è un progetto portato avanti in solitaria da un regista testardo che il target non lo ha studiato a tavolino, ma se lo porta tatuato su qualche organo interno. Jeeg è un film per il ragazzino che è rimasto intrappolato in ciascuno di noi. È un disadattato che si è arrangiato a vivere nel nostro condominio interiore - tutti i suoi amici o sono svaniti all'Apparir del Vero, o si sono trovati una famiglia e un lavoro - ma lui è ancora lì, rannicchiato su qualche puzzolente divano, vuole solo guardare porno e mangiare yogurt. Si esprime per citazioni misteriose, cartoni giapponesi, canzoni di vecchi Sanremo. Non farebbe male a una mosca ma allo stesso tempo è violento - la violenza è l'unico linguaggio che conosce - tanto violento quanto fragile.

Vai a vedere Jeeg Robot, mi dicevano. Avevano tutti la mia età, un brutto segno... (continua su +eventi!)
Vai a vedere Jeeg Robot, mi dicevano. Avevano tutti la mia età, un brutto segno. Perché noi quarantenni continuiamo ad andare al cinema a vedere questi tizi in calzamaglia, quando ce ne piace di solito uno su cinque, perché ci siamo intestarditi su una delle tendenze, diciamolo, più bimbominchia della storia del cinema? Dall’Uomo Ragno di San Raimi in poi, non ce ne siamo persi uno, e non ce n’è uno che ci abbia convinto per più di un film. Che cosa stiamo cercando esattamente? Abbiamo avuto l’approccio scanzonato alla Marvel, l’approccio serioso alla DC, il finto gotico di Burton, il bislacco Nolan. Film di genere, li chiamano: come se gli autori non avessero provato in tutti i modi a colonizzarli, a darci il supereroe intelligente, il supereroe tragico shakespeariano, il supereroe horror. Va’ a vedere Jeeg – e già sapevo più o meno cosa aspettarmi: una farsa in romanesco col coatto che “ci ha i poteri”, tante strizzate d’occhio citazioniste a chi è cresciuto a pane e anime. E invece?

E invece ho visto il tizio in felpa che riavvia una giostra e poi salva una bambina, e un inquilino della mia Tor Bella interiore si è messo a piangere come una fontana: finalmente! è questo che ho sempre voluto vedere, coglione. I supereroi non sono buffi, non sono seri, i supereroi fanno quello che vorresti fare tu se avessi la forza di schiacciare un termosifone. Non passano il tempo a strizzar l’occhio allo spettatore, a confortarlo sul fatto che è molto, molto più intelligente di così, ed è in sala soltanto per gentile concessione al suo bambino interno o esterno. I supereroi sono quelli che i bambini li salvano, afferrandoli un attimo prima che cadano nel burrone. Non sono invincibili, anzi ne devono prendere tante dai gemelli cattivi – e perdere pezzi per strada.
Andate a vedere Jeeg Robot. Anche se ormai ce l’ha fatta: è ancora in sala dopo dieci giorni, anche in provincia di Cuneo (ad Alba oggi alle 18:45 e alle 21). Claudio Santamaria e Luca Marinelli mettono l’anima in due personaggi straordinari e implausibili, ma è Ilenia Pastorelli che continuerà a tormentarvi anche a fine visione: con gli occhi e gli strilli insopportabili di tutti i bambini che dovevate salvare, e non ne avete avuto il coraggio, le forze.
Comments (1)

Non t'immischiare con Capitan Totomorto

Permalink
La XXth Century Fox, in associazione con la Marvel Enterteinment non si vergogna affatto di presentarvi il nuovo film di un qualche cazzone. Nei panni del supereroe, un coglione. Con la straordinaria partecipazione della gnocca di turno. Poi c'è un cattivo dal forte accento inglese, la spalla comica, un'adolescente musona, un personaggio completamente fatto al computer, un cameo gratuito. Prodotto da dei figli di buona donna, scritto dai veri eroi qua dentro, diretto da un automa superpagato. (Questa non è una recensione, questi sono i veri titoli iniziali - per inciso, la cosa migliore del film. Dopo Morena Baccarin).
Lei è Morena Baccarin.

Dopo i supereroi coi superproblemi, i supereroi dal destino tragico e dalle grandi responsabilità, i supereroi recalcitranti, finalmente arriva Deadpool, ed è soltanto un coglione. Non è una ventata d'aria fresca? Un po' lo è. D'altro canto, non basta ammettere di essere coglioni per smettere di esserlo. A volte è il primo passo. Ma può anche essere un passo indietro. Di solito è il modo in cui cercavamo di sfangarla al liceo.

A volte penso a quanto sono fortunati i ragazzini di adesso, con tutti questi supereroi al cinema che ai miei tempi te li potevi soltanto sognare. Altre volte penso a quanto dev'essere difficile crescere in un mondo in cui i genitori conoscono tutti i personaggi dei tuoi sogni. Prendi Star Wars. Trent'anni fa era un mondo nuovo, qualcosa che creava un'immediata frattura tra il tuo mondo e quello dei grandi. Tuo padre non sapeva chi fosse Luke Skywalker - non era previsto che lo sapesse. Anzi, era previsto che non lo sapesse e non lo capisse. Invece adesso noi maledetti grandi coi capelli grigi sappiamo tutto, tutto. Tutte le vite di tutti gli eroi. Per i buchi di memoria ci sono le ristampe, le antologie, se proprio butta male wikipedia.

Nel frattempo, in virtù di un calcolo di mercato neppure troppo oscuro, l'Universo Cinematico Marvel continua a insistere su storie di quarant'anni fa, che perfino noi abbiamo letto in ristampa. Vedi l'ultimo Avengers: contiene due personaggi irrimediabilmente datati, l'androide Ultron e il suo antagonista buono, Visione, un tizio col mantello. Non so se vi rendete conto: il mantello. E quell'incarnato magenta che probabilmente negli anni Settanta era più pratico da stendere in quadricromia. Qual è il senso di resuscitare situazioni così vecchie, a parte compiacere i genitori che portano figli e nipotini e vogliono mostrare di saperla lunga? Per fortuna che da qualche cassetto la Fox ha tirato fuori Deadpool.

Una mossa abbastanza disperata, da parte di una major che negli ultimi anni ha fatto tutto quello che poteva fare per sputtanare gli eroi Marvel di cui deteneva ancora i diritti. Un Uomo Ragno per ragazze, un X-Men che ha definitivamente incasinato la timeline, un Fantastici Quattro horror, e poi cosa?
"Ci sarebbe un assassino psicopatico onnisessuale che non tace mai".
"Stai scherzando?"
"Ryan Reynolds ci tiene tantissimo".
"Ah beh allora".
"È un personaggio autoironico, dice un sacco di parolacce, infilza la gente con le spade..."
"Non si può fare, lo vieterebbero ai minori".
"Magari così funziona".
"Dici?"
"Teniamo basso il budget e vediamo. Insomma qualcosa prima o poi dovrà pur funzionare. È la legge dei grandi numeri".

Beh, ha funzionato. Però resta un sospetto. Forse più dell'autoironia da quattro soldi, di quel turpiloquio da macchinetta delle merendine, più di quella cosa così sovversiva che è sfondare la quarta parete (che non è un valore in sé, se la sfondi solo per dire cretinate) Deadpool ha funzionato proprio perché noi vecchi non lo conosciamo. Chi è questo Deadpool, in fin dei conti?

Che è un po' come chiedersi chi è questo Eminem di cui tutti i parlano - sì, il personaggio nei fumetti fa sfracelli già da più di vent'anni. Ma noi lo abbiamo appena intravisto, quindi dev'essere l'ultimo arrivato. E come si permette di sbancare il botteghino?
Se Deadpool ha un merito - non sono del tutto sicuro che ce l'abbia - è proprio quello di tagliarci fuori. Finalmente un supereroe che non è fatto per noi. Il film non ha niente di originale - anzi, cavalca senza vergogna e con una certa foga tutti gli stereotipi del genere "origini di un eroe". Di buono ci mette uno script compatto, che mira al sodo e taglia tutto il grasso; si sente che stavolta gli sceneggiatori non provavano la solita ansia da primo episodio ("Oh mio dio devo raccontare le origini di questo famoso personaggio senza tradire i fans e trasformandolo in un eroe maturo a metà del secondo tempo"). Deadpool non è una leggenda, Deadpool è una barzelletta: era essenziale non tirarla in lungo. Detto questo, rimane pur sempre la storia della sfida mortale tra due galletti che ce l'hanno a morte perché hanno iniziato a sfottersi in un corridoio. Il target è più ristretto del solito: è un film che in patria è vietato ai minori di 16 e che nessun normodotato maggiore di 24 dovrebbe avere un motivo serio per guardarsi. Gli X-Men forniscono due guest star, si fa per dire, due avanzi di continuity che rappresentano abbastanza fedelmente l'idea che lo spettatore tra i 16 e i 24 ha della generazione successiva (una teen-ager musona che whatsappa durante il combattimento) e della precedente, ovvero Colosso. Ecco: il nobile Colosso, che finalmente ha recuperato il suo accento russo, è il personaggio in cui gli spettatori più grandi sono costretti a immedesimarsi. Per tutto il film non fa che chiedere a Deadpool di non fare il deficiente. Indovinate che figura ci fa.

Deadpool, tra le altre cose, è un segnale eloquente che mi manda l'industria cinematografica: la vuoi piantare di andare a vedere i film di supereroi e di uscire deluso? Cosa ti aspetti ancora alla tua età da dei tizi in maschera e tutina colorata? Da bravo, perché non vai a vedere i film intensi o di denuncia sociale o non porti semplicemente i tuoi popcorn ai piccioni nel parchetto più vicino? Niente di personale ma insomma ci spaventi i clienti veri. I ragazzini. Deadpool è al Citiplex di Alba (20:00, 22:15), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:40), all'Impero di Bra (20:20, 22:30), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
Comments (5)

Tutti gli uomini del Cardinale

Permalink
Il caso Spotlight (Spotlight, 2015, Tom McCarthy)

Alla fine per una buona metà del tempo
ci sono loro in un ufficio che si spiegano le cose. 
C'erano una volta i quotidiani. Uscivano una volta sola al giorno, e per stamparli serviva un sacco di gente. Alcuni andavano in giro per il mondo a intervistare persone, ad accorgersi dei fatti. Altri lavoravano per ore e ore chiusi in grandi sale illuminate, senza finestre. Nel seminterrato c'era un enorme archivio di ritagli. Lì c'era semplicemente tutto quello che era successo, anche se trovarlo non era facile. C'erano una volta i quotidiani. Scoprivano le cose. E ne dimenticavano altre.

Liquidato da alcuni come un film necessario, ma un po' troppo convenzionale, Spotlight è un oggetto molto più curioso di quanto non appaia a prima vista. Per essere un film sul più grande scandalo di pedofilia della Chiesa cattolica, è notevole quanto poco compaiano sullo schermo sia i bambini sia i preti. Non c'è nessun sadico bavoso in sottana, nessun paperino che piange nascondo rintanato in un angolo. L'orrore è del tutto verbale, riportato da vittime che non sono più bambini da un pezzo - uomini ingrassati, nervosi, non proprio quel genere di persona che ti muove all'empatia. Addirittura il regista sceglie di staccare prima che si mettano a piangere. È una scelta antispettacolare davvero inusuale: un film che invece di commuoverti vuole farti ragionare, pazzesco. Spotlight sulla carta si era scelto i cattivi più facili su cui infierire - i preti pedofili - e invece di segnare a porta vuota, decide di parlare d'altro: di giornalismo, soprattutto.

Buongiorno, sono una vittima. Non piaccio a nessuno. 
Spotlight parla di abusi dei minori ma potrebbe parlare di scommesse sul baseball, e lo farebbe con lo stesso stile procedurale e quasi documentario che tradisce il transito del regista in una delle officine più importanti e sottovalutate della fiction americana, Law and Order. Quei telefilm ubiqui senza scene d'azione o scene madri, tutti investigazione e procedura, che gratificano lo spettatore non tanto mostrando la punizione del cattivo, ma affermando che con tutte le sue imperfezioni, la Legge funziona e l'Ordine esiste. Come i detective e i magistrati di L&O, i giornalisti di Spotlight non hanno mai illuminazioni improvvise: non fanno che intervistare testimoni, passarsi informazioni, patteggiare con gli avvocati, spiegarsi le tecnicalità amministrative o giudiziarie. Certo, L&O va giù liscio che è un piacere in 40 minuti: confezionare due ore di investigazione senza annoiare invece è una sfida che forse McCarthy ha perso. In compenso è riuscito come pochi a descrivere una metropoli moderna, Boston, come una grande "piccola città": un organismo collettivo che convive col suo marciume interiore espellendo ogni tanto qualche "mela marcia", e che più dei suoi panni sporchi teme le minacce esterne (il nuovo direttore del Globe, ebreo e senza famiglia!)(continua su +eventi!)
Aspetta, forse ho sbagliato film.
Il momento storico è cruciale: nell'alba del secolo, la carta sta cominciando a cedere al digitale. Alcuni reporter non hanno ancora un cellulare: una fotocopiatrice accesa al momento giusto può valere uno scoop. Gli annuari stampati, gli immensi archivi di ritagli, tutto è ancora meravigliosamente analogico e cartaceo. Ma è un mondo agli sgoccioli. Il fastidio per il nuovo che avanza e non può più essere arginato è percepibile nel momento in cui crollano le Torri, e il team dei giornalisti è costretto a smembrarsi per seguire la Storia, mandando all'aria mesi di lavoro. È ironicamente proprio un prete sul pulpito a spiegare una delle possibili lezioni del film: no, dice, internet non ci ruberà il lavoro. Anche quando l'archivio diventerà grande come tutta la terra, e immediatamente disponibile, ci sarà sempre bisogno di sapere quel che davvero vuoi cercare. Dopo aver setacciato tutta la metropoli, il team investigativo del Boston Globe troverà le verità più scomode proprio nel proprio seminterrato. E il vecchio cronista scoprirà il nemico peggiore: sé stesso.

Spotlight si giocherà qualche oscar accanto a un film che gli somiglia come il gemello cattivo, The Big Short. A monte di entrambi c'è una sfida: raccontare al pubblico medio una storia importante e difficile. Completamente opposto è il modo in cui i due registi dispongono dei loro cast d'eccezione: McKay, il regista di Big Short, li lascia liberi di gigioneggiare a loro piacimento: McCarthy li mette al lavoro come se fossero onesti lavoratori di una fiction con un lavoro da portare a termine. Tanto è pessimista e sarcastico Big Short, tanto è composto e a suo modo epico Spotlight: il primo si guarda intorno disperato, accumula tentativi di spiegazioni e metafore inconcludenti. Il secondo regge la barra in mezzo alla tempesta e continua a dirti che ce la possiamo fare: il giornalismo può essere indipendente, può essere di qualità, può spiegarci le cose e migliorare il mondo. Anche per questo, più di Keaton o di Ruffalo il personaggio a emergere è il direttore, interpretato da Liev Schreiber e vicino all'ideale di boss che chiunque vorrebbe avere avuto - un tizio inflessibile e mite che ti propone un lavoro anche difficile, ti dà tutto il tempo che ti serve, e nel momento del dubbio ti dice le sole dieci parole che ti servono: non prendertela con te stesso, capita a tutti noi di brancolare nel buio per mesi e anni. Ma l'importante è ritrovare la luce, e tu stai facendo un ottimo lavoro. Sarà anche per questo messaggio, tutto sommato rassicurante, che Spotlight è piaciuto persino al nuovo cardinale di Boston.

O forse il fatto che i preti bavosi siano lasciati fuori dal cono di luce? Due anni fa, un altro film di denuncia come Philomena di Stephen Frears mi lasciò un gusto amaro: non avevo apprezzato l'apparizione finale di una suora mostruosa, l'incarnazione di tutto il male che fino a quel momento era stato soltanto descritto a parole: un modo un po' troppo facile, osservavo, di catalizzare l'indignazione del pubblico. Spotlight se non altro mi ha fatto capire meglio la scelta di Frears. È un film onesto, un film che non vuole tirar pugni allo stomaco ma spiegare quanto sia importante avere un giornalismo professionale, e direttori tutti d'un pezzo, alieni a qualsiasi condizionamento ambientale. Ma è pur sempre un film che parla di mostri senza neanche provare a mostrarne uno. Spotlight è al cinema Stella Maris - Moretta di Alba (21:00), al Fiamma di Cuneo (21:00) e all'Aurora di Savigliano (21:15).
Comments (4)

E Trumbo prese la macchina da scrivere

Permalink
"Papà, ma è vero che sei un comunista?"
"Mi appello al primo emendamento".
"La mamma è comunista?"
"No".
"E io?"
"Facciamo il test. Se a scuola un tuo compagno non ha la merenda, tu cosa fai? Gli dici di trovarsi un lavoro? Gli offri un prestito al cinque per cento?"
"Papà..."
"O condividi la tua merenda con lui?"
"Non credo che questo sia proprio il comunismo classico, sai".
"Ah no?"
"Il comunismo è quando i miei compagni senza merenda, essendo diventati la maggioranza, si impadroniscono delle merende di chi le ha e le collettivizzano".
"Vabbe' ma non è che dobbiamo proprio entrare nei dettagli".
"Papà, ma questo dialogo deve avvenire proprio mentre tu mi fai fare un giro su un pony nel nostro bellissimo ranch?"
"Che ti posso dire, io l'avrei scritto diversamente. Ma Hollywood ha sempre l'ultima parola, quando sarai grande capirai".

Trumbo (Jay Roach, 2015).

La sua posa iconica (gli hanno anche fatto una statua).
Purtroppo se ci provi col laptop rischi la vita.
Un bel giorno ci svegliamo, e il comunismo negli USA non è più un tabù. Bernie Sanders, il vincitore delle primarie democratiche del New Hampshire, non ha difficoltà a definirsi socialista, e qualche milione di americani non ha evidentemente grosse difficoltà a votarlo. Proprio in questo momento arriva nelle nostre sale Trumbo, la storia di come un grande scrittore e sceneggiatore americano sua sopravvissuto alla caccia alle streghe senza mai rinnegare il suo comunismo. Vuoi vedere che i tempi stanno davvero cambiando? Andiamoci piano.

Trumbo è uno di quei classici film con cui Hollywood si specchia in sé stessa, trovandosi non priva di difetti ma dopo tutto irresistibile - film che a noi sudditi di periferia non dicono un granché, ma che qualche nomination la portano sempre a casa. Stavolta è Bryan Cranston, più noto per i suoi ruoli televisivi (Breaking Bad), che si ritrova in lizza per l'Oscar tra Di Caprio e Fassbender. Come tutti i biopic più convenzionali, Trumbo è più interessante per le cose che decide di non raccontare: il protagonista compare in scena già fatto e finito, un radical chic che discetta di giustizia sociale mentre firma contratti milionari. Non interessa la traiettoria che lo ha portato fin lì, ma quel che accade dopo: la caduta in disgrazia di lui e degli Hollywood Ten, i mesi di detenzione che un atteggiamento più prudente e meno idealista avrebbe potuto evitare - e soprattutto la faticosa risalita, nei dieci anni di esilio in cui l'ex sceneggiatore-più-pagato-d'America si ritrova a sbarcare il lunario scrivendo robaccia per il mercato di serie B. Solo perdendo il suo snobismo - e il suo ranch - il Trumbo del film diventa un personaggio simpatico, un poveraccio che tira la carretta mentre i figli crescono e smettono di capirlo, un forzato della macchina da scrivere che deve dimenticare la lotta del proletariato e buttar giù ogni sera cento pagine di sparatorie e inseguimenti.

Così, dopo averlo allontanato e poi riabilitato, Hollywood si rimpossessa di Trumbo costringendolo a rinnegare il comunismo, non a parole ma nei fatti: trasformandolo in un caporale che smista il lavoro ai sottoposti, e la sua lotta per la libertà di opinione in una americanissima battaglia personale per rivedere il suo nome nei titoli iniziali. I dialoghi coi famigliari e col personaggio fittizio di Louis C.K. - un compagno arrabbiato che non riesce a rinnegare il suo radicalismo e cede al rancore e al cancro - puntano tutti lì: Trumbo deve partire comunista col ranch per finire come un eroe che paga ai figli il college e ambisce a una gloria puramente individuale, una bella statuetta e un applauso.

FOR THE MONEY AND THE PUSSY!
Ovviamente c'è un po' di Hollywood che ci fa una bella figura, mentre i personaggi negativi (John Wayne, la demoniaca Helda Hopper) sono abbastanza stemperati. Kirk Douglas è giustamente incensato per essersi preso il rischio più grosso: il suo kolossal sullo schiavo ribelle Spartaco sarebbe stato materia controversa anche se non avesse deciso di mettere il nome Trumbo nei titoli, poco distante da quello di Kubrick. La vera sorpresa è il tributo a due eroi misconosciuti, i fratelli King, produttori di film di serie B che ebbero l'onore di sfruttare Trumbo nel momento in cui era al verde, ma non lo tradirono. Con tutto il rispetto per Cranston, se c'è qualcosa che ricorderemo di questo film sono quei cinque minuti in cui John Goodman si mette nei larghi panni del volgare ma integro Frank King, e soprattutto la scena esilarante in cui riceve un emissario del Comitato per le Attività Antiamericane. Il tizio minaccia di boicottarlo, lui estrae la mazza da baseball: io produco spazzatura, dice: annuncia pure tutti i boicottaggi che vuoi, i miei spettatori sono analfabeti. "Sono in questo business per i soldi e la fregna, e stanno piovendo dal cielo!" 

Goodman è ancora una volta impiegato col contagocce, ma è il vero centro del film - anche perché la storia di Trumbo è affidata a Jay Roach, un regista che ha esordito con Austin Powers e proseguito con la saga di Ti presento i miei. Roach non è del tutto immune da un certo timore riverenziale, ma si capisce che l'idea che il celebratissimo Trumbo abbia passato anni a scrivere robaccia per gli analfabeti gli piace parecchio. Sarà stato anche un comunista, ma a salvarlo sono stati dei mezzi gangster ignoranti che volevano far soldi e picchiavano con le mazze da baseball - lo vedi figliola? Hollywood alla fine vince sempre.
Comments

Uomo nero inferno bianco

Permalink
Nessun Gesù verrà a salvarvi 
The Hateful Eight (Quentin Tarantino, 2015)

Incredibile chi puoi trovare nella merceria di Minnie in una notte di bufera. Anziani generali del Sud, ex schiavi criminali di guerra. Cacciatori di taglie, sceriffi, boia e malviventi da impiccare, tutta la filiera della giustizia. Cowboy che tornano dalla mamma per Natale e stallieri messicani che sanno suonare il pianoforte. Gente di ogni tipo, razza e qualifica - anche se qualcuno magari non è proprio chi dice di essere. Ma nella bufera che differenza fa.

Sotto la neve saranno tutti uguali.

Starting to see pictures, ain't ya?
E se Tarantino a questo punto della sua carriera sbagliasse un film? Se riempisse un'intera sceneggiatura di frasi a effetto solo per il gusto di sentirle recitare in otto accenti diversi? Se abbandonasse gli intrecci romanzeschi, le prigioniere nei castelli dei suoi ultimi due lavori, per tornare al cinismo datato delle Iene - criminali più o meno paranoici che si torturano a vicenda? Se Tarantino facesse un film un po' meno ispirato del solito, ce ne accorgeremmo?

Non resteremmo comunque storditi dagli attrezzi di scena, da quel luccicante feticcio che è il 70mm, dal coraggio con cui questo figlio di Hollywood continua a ignorare le regole di casa e ricreare un cinema che non sarà il più originale del mondo, ma è completamente a sé? Da anni gioca in un campionato a parte, per forza vince sempre. Nessun altro regista avrebbe preso in mano soggetti come Basterds e Django, nessun altro sarebbe riuscito a farne due film non ridicoli. L'Odioso Ottetto, viceversa, sulla carta sembrava un'idea meno folle: un delitto nella stanza chiusa, calato in quel preciso contesto storico che continua a tormentare gli spettatori americani: la guerra civile tra le razze, mai dichiarata, mai terminata.


Ad avere dei dubbi, stavolta, era lo stesso Tarantino. Quando una bozza di sceneggiatura cominciò a circolare abusivamente, sembrava voler cogliere l'occasione per rinunciare al film. Due cose pare gli abbiano fatto cambiare idea: la prima fu una lettura pubblica che andò benissimo, e che ha lasciato fin troppo il segno nella realizzazione. L'Ottetto che alla fine Tarantino ha girato, malgrado la ricercatezza della fotografia, è quasi un radiodramma. Verso il finale, dopo un colpo di scena escogitato per prendere alle spalle chi ha letto la vecchia bozza, ci si sorprende a domandarsi come abbia fatto il regista ad arrivare a tre ore. La storia non è più complicata del solito, Tarantino semplicemente non ha fretta - lui può permetterselo - e anche i suoi infreddoliti attori sembrano innamorati delle frasi che recitano. Tutti se le rimasticano nel loro accento preferito. È un film di dialoghi che sembrano monologhi.


L'altro fattore che ha convinto Tarantino a girare l'Ottetto è stata l'insistenza di Samuel Leroy Jackson (continua su +eventi!). Così come Joy è un film che David O. Russell doveva a Jennifer Lawrence, The Hateful Eight somiglia a un compenso per tutti i servizi che questo attore grandissimo ha reso a Tarantino - che effetto fa rendersi conto che non gli aveva ancora dato un ruolo da protagonista? E ripensando alla carriera di Jackson tra Spike Lee, Star Wars e Marvel (Per il Guinness dei primati è l'attore più profittevole in attività), che effetto fa pensare che in vent'anni l'Academy Awards si sia vagamente ricordato di lui solo con una nomination per Pulp Fiction? Se la metti in questi termini, anche l'ultima polemica sulla mancanza di candidati afroamericani all'oscar sembra meno pretestuosa.

Ma l'esclusione di Jackson dal quintetto degli oscar era abbastanza prevedibile: se c'è una cosa che i giurati dell'Academy malsopportano non è tanto il colore della pelle, quanto l'ambiguità morale. Un cattivo può anche vincere l'oscar - Forest Whitaker ci riuscì impersonando un dittatore genocida - purché sia chiaro a tutti gli spettatori che è il cattivo. Non è il caso del maggiore Marquis Warren, che nel labirinto etico allestito nella merceria di Minnie si ritrova alla fine investito di una assurda missione di giustizia. Eppure è uno dei personaggi più inquietanti che Tarantino abbia mai inquadrato - ancora più inquietante quando scopri che nel primo abbozzo non era che una versione più matura e scatenata del vecchio Django. Il regista famoso per la violenza farà ancora esplodere qualche testa e colare tanto pomodoro alla vecchia maniera: ma il vero orrore sta nelle parole, l'inferno non è mai stato tanto verbale. L'inferno sono gli altri, diceva un suo collega: una baracca isolata nel gelo, dove un uomo nero racconta a un vecchio padre come ha torturato a morte il figlio. Stai iniziando a immaginarti la scena, vero?

The Hateful Eight è al Cityplex di Alba alle 16, 17, 19, 21 e 22; al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 15:40, 19:10, 21:30 e alle 22:30; all'Impero di Bra alle 18:30 e alle 21:30; al Fiamma di Cuneo alle 15:40, 19:10 e 22:30; al Multilanghe di Dogliani alle 21:35; ai Portici di Fossano alle 18:15 e 21:30; al Bertola di Mondovì alle 18 e alle 21; all'Italia di Saluzzo alle 15:30, 18:30 e 21:30; al Cinecittà di Savigliano alle 21:30.
Comments

Un genio incompatibile (e il suo sceneggiatore)

Permalink
Steve Jobs (Danny Boyle, ma soprattutto l'ha scritto Aaron Sorkin, 2015).

Abbiamo mezz'ora e il copione, pardon, intendevo il software,
 è tutto da riscrivere.
Se fosse nato nel Quattrocento, avrebbe fatto l'artista. Avrebbe fatto impazzire tutti i committenti progettando per anni una statua equestre costosissima e irrealizzabile, i cui bozzetti però sarebbero ancora nei musei. Se fosse nato negli anni Quaranta avrebbe formato la sua band - senza saper suonare uno strumento e litigando con tutti i colleghi, ma creando una nuova dimensione musicale fatta di tante cose rubacchiate in giro. Se fosse nato negli anni Cinquanta e si fosse trovato nella Silicon Valley al momento giusto, si sarebbe improvvisato inventore di computer costosi che funzionano benissimo finché non li colleghi a nient'altro. Se invece fosse nato nei Sessanta avrebbe potuto scrivere per il cinema e la tv, costringendo i registi a inventare uno stile tutto per lui e rifiutando di riconoscere i contributi dei colleghi - finché non avrebbe litigato col network, licenziandosi o facendosi licenziare, e meditando immaginosi piani di vendetta.

Questo è Aaron Sorkin, acclamato drammaturgo e sceneggiatore di The West Wing, The Social Network e... no, scusate, questo è Steve Jobs. Ma è anche un po' Sorkin, che ha preso l'immensa biografia di Jobs e ne ha ricavato qualcosa di assolutamente personale e incompatibile con qualsiasi altro film nelle sale; un dramma in tre atti, ambientato nei backstage di tre teatri diversi. Sono pochi i film che ti fanno pensare: chissà come renderebbe su un palco. Steve Jobs sembra pensato apposta per una messa in scena alla vecchia maniera sperimentale: niente sipario, gli attori cominciano a parlare di quello che deve andare in scena, e lo spettacolo consiste in questo. Lo stesso regista Danny Boyle, un po' meno frastornante del solito, sembra aver fatto qualche passo indietro di fronte all'evidenza: Steve Jobs è una questione privata tra Aaron Sorkin e il suo (alter)ego.

Lisa questo è Mac, Mac questa è la tua sorellina, ora
disegnate un po' coi pennarelli e non rompete le palle a papà.
Steve Jobs non è il primo film biografico che taglia fuori gran parte della vita del suo personaggio per concentrarsi soltanto su pochi episodi; è l'evoluzione estrema di una tendenza che a Hollywood negli ultimi dieci anni ha dato soddisfazioni sia a chi vende i biglietti che a chi li compra. Ma di tutto quello che poteva scegliere di raccontare, Sorkin ha scelto con cura proprio quei momenti in cui il manager geniale potrebbe essere l'autore di un dramma che sta per andare in scena: i cancelli stanno per aprirsi, il pubblico per entrare, ma dietro le quinte c'è qualcosa che non va, c'è sempre qualcosa che va risolto all'ultimo momento. Un dialogo da cambiare, un dipendente mediocre da torchiare, un collega che vuol essere ringraziato quando sai che non se lo merita, i parenti con le loro beghe da parenti. Sorkin non è Steve Jobs, ma Steve Jobs è il Ritratto dello Sceneggiatore nei panni del Genio del Computer (continua su +eventi!)
"RICONOSCI LA MIA IMPORTANZA!" "AMMETTI LA TUA SUBALTERNITA''!"
Anche a Sorkin non interessava tanto la tecnologia digitale, né la generazione che l'ha immaginata, quanto il "comeback", l'odissea di un manager che viene scaricato dalla sua stessa azienda e poi torna e si vendica. È una parabola banale - la stessa descritta più convenzionalmente nel biopic di due anni fa - ma terribilmente congeniale all'autore che dopo aver divorziato da The West Wing non è mai riuscito a guardare una puntata della nuova gestione, e ha continuato a raccontarci storie di comeback. L'autore e il produttore di Studio 60, l'anchorman di Newsroom, sono tutti eroi caduti che tornano sui loro passi cercando di riprendersi quello che si meritano. Lo Steve Wozniak del film (Seth Rogen), che continua a chiedere a Jobs di essere ringraziato pubblicamente, più che all'inventore dell'home computer somiglia a Rick Cleveland che si sente umiliato perché Sorkin non riconosce che l'episodio che ha vinto l'Emmy era una sua idea. E così via.
Sorkin non ha mai rifiutato l'autoreferenzialità, ma nelle serie tv almeno la disperde su più personaggi, coinvolgendoci in scene corali che ci fanno dimenticare come tutti i colori provengano dallo stesso prisma. Stavolta il coro non c'è: sulla scena Fassbender è solo. La Winslet, ovviamente ottima, non è che l'appendice del protagonista, necessaria a far risaltare il suo ego. Jeff Daniels ha a disposizione pochi minuti, lungo tre atti, per evocare un tortuoso complesso di Edipo - del resto è un Sorkin formato cinema, tutti camminano e parlano come indiavolati. La versione italiana sarà probabilmente un macello, quella coi sottotitoli va bene se invece di guardare il film vuoi leggerti i sottotitoli.

E quindi? Chi voleva vedere un film sull'inventore della Apple, potrebbe restarci male - e sarà la seconda volta in due anni. Se invece interessa l'opera di un talento individuale che voleva specchiarsi in un altro talento e raccontarci com'è difficile essere grandi in un mondo di mediocri, Steve Jobs è il pilota di una serie che butteremmo giù tutto d'un fiato, e uno straordinario dramma in scena stasera anche al Cityplex di Alba (19:45, 22:10); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Vittoria di Bra (21:30); al Fiamma di Cuneo (21:10); ai Portici di Fossano (18:30, 21:15); al Politeama di Saluzzo (15:30, 17:45, 20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:15, 22:30).
Comments (5)

La vendetta è un piatto che si conserva a -40°

Permalink
 The Revenant (Alejandro González Iñárritu, 2015)

Il Sud Dakota secondo Iñárritu.
Dieci anni dopo il fattaccio, Hugh Glass cacciava ancora il castoro dalle parti di Williston, North Dakota. A chi gli pagava da bere raccontava la storia di quando si era trascinato per duecento miglia fino a Fort Henry, tallonato dagli Arikara, sospinto solo dal desiderio di fare la pelle ai due ragazzi che lo avevano abbandonato mezzo morto dopo lo scontro con l'orso. A ogni racconto la bestia diventava più grande, le ferite più profonde, gli agguati aumentavano, e la steppa si corrugava, rivelando al suo interno rilievi alpini, innevati nel mese di giugno.

Il Sud Dakota com'è davvero. 
"Ma poi li hai ammazzati?"
"Chi?"
"Quei due ragazzi, alla fine li hai ammazzati?"
"Fitzgerald e Bedger? Ah, no".
"E perché no?"
"Bedger era un ragazzino, e quanto a Fitzgerald..."
"Non avevano la stessa età?"
"...Si era già arruolato. Se gli avessi torto un capello mi avrebbero impiccato. Ci siamo messi d'accordo con 400 dollari, e mi restituì il fucile. Questo qui".
"Non erano 300 dollari?"
"Infatti".
"Ma hai appena detto 400".
"Mi sarò sbagliato. Figliolo, quando hai visto la morte in faccia, e hai sopravvissuto a una bufera di neve accucciandoti nella carcassa di un cavallo..."
"Ma era giugno".

(Se vi è piaciuto Il viaggio di Arlo, non perdetevi la versione per adulti, col mille per cento di sangue e cicatrici in più, e un'animazione digitale ancora più raffinata - l'orso sembra vero! Padre e figlio si scambiano le parti, c'è un po' più di sangue e di visioni dall'oltretomba, e Di Caprio presta la voce - il rantolo - a un mammuth ferito ma non domo).

Il salvaschermo più costoso mai realizzato
Per ritrovare la via verso Fort Henry, Glass aveva preso come riferimento la Thunder Butte, la Rocchetta del Tuono - una collina di 800 metri che è l'unico rilievo di rilievo nel Sud Dakota. Tutto il resto è pianura, pianura e ancora pianura. Per girare The Revenant, Iñárritu ha esplorato le cime innevate della Columbia Britannica, girando solo con la luce naturale a 40 gradi, col rischio di ammazzare Di Caprio di broncopolmonite - e quando è arrivato l'inverno ha semplicemente cambiato emisfero, spostando il set in Terra del Fuoco. Per sfuggire agli Arikara che controllano il fiume Missouri, i suoi attori si inerpicano su un sentiero alpino che li porta a un valico di almeno millecinquecento metri - non cresce più l'erba. In sostanza stanno scalando le montagne rocciose, contro ogni verosimiglianza, perché al regista interessava una storia vera di sopravvivenza e di vendetta, ma anche quei paesaggi mozzafiato da salvaschermo di windows.

A Iñárritu interessa il cinema vero, quello senza green screen e altri trucchetti, quello che si fa con la pellicola, e l'esposizione naturale, e gli animali veri, e le ferite e i colpi di tosse veri - come se tutta questa verità non costasse comunque milioni di dollari. Gli interessava il ritorno alla naturalezza, anche se l'orso che cerca di finire Di Caprio battendolo come un materasso è un prodigio di computergrafica. Con l'ipocrisia ingenua e inconsapevole di quei milionari che sognano il ritorno alla natura ma hanno più in mente il triathlon - a proposito, c'è anche il saggio capo indiano che si lamenta perché il viso pallido gli ha tolto tutto. E nessuno che gli dica: senti nonno, tra venticinque anni potrei anche capire, ma siamo nel 1820, "tutto" cosa? A momenti non c'è un solo viso pallido in tutto il Dakota, e comunque appena arriva lo scotenni e gli rubi il bottino di caccia, a chi la vuoi raccontare? Non ci hai fatto gli affari anche tu, coi visi pallidi, finché t'è convenuto? Eh, ma questi bianchi sono cattivi sul serio. Rubano le donne, impiccano per divertimento, aggiungendo un cartello di spiegazione come i nazisti - anche se nessuno sa leggere in un raggio di trecento miglia.

È difficile sfuggire a The Revenant, alla sua fotografia da National Geographic, al titanismo essenziale del suo eroe, maschiaccio di poche parole laddove pare che il vero Hugh Class fosse un affabulatore, magari pure un contaballe. Questa parte del suo ruolo se la prende Tom Hardy che prosegue il suo stato di grazia: un antagonista nervoso e rapace che non sta in scena per più di mezz'ora, ma ha più dialoghi di tutti gli altri personaggi messi assieme. Iñárritu ha coraggio da vendere, e anche stavolta non si può che dargliene atto. Dopo due ore senza una sola scena in interni, cominci a capire quello che intendeva Cimino mentre affondava sul ponte dei Cancelli del cielo: i film dovrebbero essere viaggi, dovrebbero prenderti di peso e portarti in un altro luogo, in un altro tempo.

Cosa sta succedendo allora a Hollywood, se Cimino sprofondò e Iñárritu ha preso 12 nomination? Siamo entrati in una nuova età del cinema, o il nuovo regista pazzo è un po' meno pazzo, un po' più paraculo di quanto non voglia sembrarci? Disprezza i fumettoni, ma il suo eroe sembra avere lo stesso fattore rigenerante di Wolverine. Vuole le luci naturali, ma sa che la gente verrà a vedere l'orso finto. Vuole la storia vera, ma poi se la reinventa da capo a piedi, ricattandoci col sentimento più a buon mercato - l'amor paterno. Il vero Glass era un fanfarone che si fece duecento miglia per trecento dollari e un fucile. Il Glass del film deve attraversare canyon e ghiacciai per vendicare un figlio. È una storia talmente costruita che alla fine Iñárritu se ne vergogna - e anche stavolta, come in Birdman, il finale manda un po' a gambe all'aria il film.

Vorrebbe essere profondo, vorrebbe essere autocritico, vorrebbe rivedere le sue stesse premesse. Ha fatto sanguinare Di Caprio, ha opposto bianchi sterminatori a pellerossa in armonia con la natura, e alla fine ci ha ricordato che la vendetta è un buon trucco per costruirci attorno un film - ma che resta sostanzialmente una cosa sbagliata, ragazzi, mi raccomando non vendicatevi a casa. Che gli puoi dire? Bravo è bravo. Ma resta lì sospeso nel bianco delle sue bufere fantastiche, né troppo pazzo né troppo furbo per arrivare davvero al punto. The Revenant è al Cityplex di Alba (21:30), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:10), all'Impero di Bra (19:45, 21:45), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Baretti di Mondovì (21:00), all'Italia di Saluzzo (21:30), al Cinecittà di Savigliano (21:30)
Comments (9)

L'ultimo gigante

Permalink
Ettore Scola era l'ultimo. La commedia all'italiana, nella versione ripulita dagli errori di percorso che ci ha tramandato la tv serale e pomeridiana, in quel segmento aureo che grosso modo va dal 1955 al 1975, sembra il risultato del lavoro di un gruppo singolarmente ristretto di talenti. Cinque attori indispensabili, tutti nati nei primi anni Venti, cinque volti immediatamente riconoscibili dal pubblico, ma anche in qualche modo intercambiabili (in Riusciranno i nostri eroi era previsto che Manfredi desse la caccia a Sordi, ma il primo aveva più impegni e così si scambiarono i ruoli). Pochi autori e bravissimi, tra cui gli onnipresenti Age e Scarpelli (classe '19) e lo stesso Scola che comincia a scrivere a vent'anni e mette le mani in tantissimi film. Anche i registi sono una manciata: tra questi, Scola è l'unico nato dopo il 1930. Quando gira la Terrazza, i suoi eroi ingrigiti e terrorizzati dalla vecchiaia e dalla morte stanno intravedendo la boa dei sessant'anni; lui non ne aveva ancora compiuti cinquanta. Era destinato a essere l'epigono: se immaginiamo Risi e Monicelli come i due autori della tarda classicità, potremmo vedere in Scola il manierista - l'allievo precoce che ha saltato qualche classe e si ritrova circondato da compagni più grandi.

Dei tre è il più borghese, quello che meno si vergogna di esserlo: è difficile immaginare Risi e Monicelli alle prese con il manifesto antipauperista di Brutti, sporchi e cattivi (Pasolini invece pare che volesse girarne il prologo, magari una versione in pellicola dell'Abiura). È anche quello che ha più ambizioni autoriali: nel 1970 fora la quarta parete in Dramma della gelosia, ma forse il vero choc del film è che il sex symbol Mastroianni è un marito becco e ingrigito con un destino da straccione; l'anno dopo coinvolge Sordi nella rischiosa trasposizione cinematografica della Panne di Dürrenmatt, La migliore serata della mia vita. Non è che tutto fili liscio, ma si capisce che all'alba degli anni Settanta la commedia gli sta stretta. Ci lavorava da vent'anni; era parte integrante di un sistema che funzionava, che riempiva le sale (restava da conquistare la critica, ma quella ci mette sempre un po' più tempo). Avrebbe potuto riprodurre le stesse formule ancora per parecchio. Ma tutti i suoi uomini stanno invecchiando, e lui è il primo a rendersene conto. Lui e Germi, che muore nel '74 passando a Monicelli la pratica di Amici Miei. Nello stesso anno esce C'eravamo tanto amati. Le maschere della commedia all'italiana si scoprono le rughe; si staccano dalla ribalta del presente e cominciavano a guardarsi intorno: chi eravamo? Cosa siamo diventati? E ora cosa ci succederà?

Dovendo scegliere un film solo di tutto un periodo e di un genere, a malincuore sceglierei C'eravamo tanto amati, che pure non è così tanto rappresentativo. È davvero un film manierista, se non barocco. Dentro c'è tutto: il romanzo generazionale, il conflitto sociale, il gioco delle citazioni non solo cinematografiche ma anche teatrali e televisive, la quarta parete fatta a pezzi. È anche il primo vero film forrestgumpista, in straordinario anticipo rispetto agli epigoni italiani, indegni di comparire al suo cospetto (La meglio gioventù? Per favore, dai). Ogni volta che lo vedo ci trovo qualcosa di nuovo - o che probabilmente mi ero dimenticato, e di nuovo rabbrividisco al pensiero che una volta gli italiani sapevano fare film così. In realtà di film davvero così ce n'è uno solo, e forse si poteva realizzare soltanto in un periodo in cui gli italiani il biglietto l'avrebbero staccato comunque. Bastava che in cartellone ci fossero Gassman e Manfredi - e la Sandrelli, certo.

La commedia all'italiana mi piace tutta, dai Soliti ignoti fino alla Terrazza. È un amore nato davanti alla televisione; maturato con la serale complicità di Retequattro; integrato con qualche videocassetta. Ci ho messo parecchio a capire cosa mi piacesse davvero tanto in quei film, cosa invidiavo ai miei genitori che avevano vissuto in un mondo di mostri di bravura, anche se al cinema loro non ci andavano spesso. Non un attore in particolare, per quanto i loro volti ricorrenti mi rassicurassero; nemmeno un regista. Alla fine mi sono reso conto che sono i dialoghi di Age e Scarpelli, e un po' anche di Scola. Credo che la differenza con quello che è venuto dopo sia tutta qui. Non ho paura ad affermare che oggi in Italia ci sono molto più che cinque attori bravi, per tacere delle attrici (c'erano anche allora, ma lo star system era una cosa molto angusta). Anche i registi: ne abbiamo senz'altro all'altezza dei grandi degli anni Sessanta, se non altro perché sono seduti sulle loro spalle. Il problema è che questi bravi attori, ripresi da ottimi registi, molto spesso non hanno niente d'interessante da dire. Non c'è più Age, non c'è più Scarpelli, adesso non c'è più Scola. Dispiace? Sì, mica da oggi. È da 35 anni che non lavoravano più assieme. Nel frattempo altre due generazioni hanno provato a raccontarsi; il confronto è impietoso.
Comments (7)

La grande truffa dei mutui (che nessuno ha capito)

Permalink
La grande scommessa (The Big Short, Adam McKay, 2015)

A CHRISTIAN, FACCE L'ASPERGER! 
La crisi dei mutui subprime è semplicissima: nessuno immaginava che ci potesse essere una bolla nel mercato immobiliare, e così continuava a soffiarci dentro. La crisi dei mutui subprime è complicata: com'è possibile che nessuno si sia accorto di nulla; broker, banchieri, addetti al rating, giornalisti... Si poteva prevedere? Qualcuno in effetti l'aveva prevista. Ha scommesso contro di noi ed è diventato ricco - ma i soldi non danno la felicità, come si dice in questi casi.

Nel più grande film mai realizzato sui trucchi della finanza - che non è questo, ma più probabilmente The Wolf of Wall Street - ogni tanto Di Caprio ci guarda in camera e comincia a raccontarci uno dei suoi maneggi, per interrompersi subito: non avete capito niente, vero? Fa lo stesso, tanto voi siete qui per vedere il tiro al bersaglio coi nani, le feste al quaalude, il lancio d'aragoste contro i federali. Lasciate perdere la tecnica. Divertitevi.

Mi sa che stavolta non ce la pubblicano
Anche The Big Short vuole divertirci; ma ha la pretesa di spiegarci la tecnica. Con un approccio didattico che non è solo più ingenuo di quello di Scorsese, ma oltre a un certo limite è offensivo: alla quinta volta che ci provi con un esempio diverso, io spettatore magari non mi sarò ancora familiarizzato coi titoli tossici, ma senz'altro ho capito che qualcuno mi sta prendendo per uno scemo. Non escludo di esserlo, ma pensi che mi faccia piacere sentirmi trattato così? Il cuoco di fama internazionale (Bourdain) che mi fa la lezioncina riciclando il vecchio pesce nella nuova zuppa; Selena Gomez che mi spiega gli swap sintetici giocando a blackjack; la sceneggiatura sembra intestardirsi su alcuni dettagli tutto sommato non sono insormontabili - per abbandonarci poi, quando le cose si fanno complesse davvero.

È un po' lungo, ma non annoia, La grande scommessa (continua su +eventi!)
Nei suoi momenti migliori sembra uno spinoff televisivo del Lupo di Wall Street, come se si fossero detti ehi, qui da questa parte c'è materiale per una serie, proviamoci. È uno di quei film che ti servono a capire per contrasto quanto è grande Scorsese, e quante cose apparentemente semplici, così naturali quando c'è lui che guarda in macchina, non siano alla portata dei registi mortali. Non è che Adam McKay non ci provi, anzi forse il guaio è che ci prova troppo. Si prende dei rischi, gioca con quarta parete, con la voce fuori campo, coi salti di inquadratura dal mondo irreale della finanza a quello vero fatto di case invendute e barboni sotto i ponti. Tutto sembra gridare: non sono il solito regista di pilota tv. Io ho una visione.
 
Magari non è la più originale. Un po' confusa. Certo non cinica come quella di Scorsese. I miei eroi non bruciano i risparmi dei loro clienti in pillole e coca, anche a Las Vegas vanno a letto presto. Se si appartano con le lapdancer è solo per capire come gestiscono il loro eccesso di liquidità. Hanno tutti una famiglia o desiderano averla; si arricchiranno grazie alle falle del sistema, ma ogni tanto si sentono in colpa. È una visione un po' benpensante, ma forse è quella che ti può sbloccare il budget. Ci metti la critica sociale, ci metti un po' di valori rassicuranti, ma soprattutto ci metti Bale, Carell, Gosling e Pitt - chi ti potrà più dire niente? Certo, si poteva anche provare a dirigerli. Il film era già centrifugo di suo, forse andava evitata la sensazione di quelle orchestre all-star dove a turno i virtuosi fanno un assolo di dieci minuti. A Bale tocca l'Asperger di talento - ormai è un personaggio codificato, l'Arlecchino del Duemilaedieci: l'asociale stravagante che ha ragione ma non riesce a spiegare il perché. Brad Pitt si immobilizza saggiamente in una posa redfordiana e almeno non dà fastidio. Gosling, nei panni dell'unico vero rampante senza scrupoli, continua a prendersi in giro: è il terzo ruolo antiparodico in tre anni, come se il suo adorabile faccino cominciasse a pesargli. Carell sarebbe sorprendente se non ci avesse già sorpreso in Foxcatcher. Dovrebbe essere il vero perno drammatico del film, ma il copione non lo aiuta: s'incazza a casaccio, e si sorprende di tutto quello che gli succede, come se fino al giorno prima avesse diretto un hedge fund a Disneyland.

Il film va comunque visto, perché gli americani quando cercano di spiegarsi come funziona il loro mondo sono sempre interessanti. A volte ci riescono, a volte annaspano, ma ogni tentativo va incoraggiato. Certo, con un po' di cattiveria in più. Con qualche scrupolo in meno. Che film sarebbe stato. Ma non può farli tutti Scorsese. La grande scommessa è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40), al Fiamma di Cuneo e al Multisala di Bra alle 21:15.
Comments (1)

Chi ha ucciso Woody Allen

Permalink
Irrational Man (Woody Allen, 2015)

– Woody Allen ha ucciso qualcuno. Impossibile stabilire chi e perché. Un'amante che sapeva troppo, un ricattatore, un semplice passante che non doveva essere in un certo posto proprio in quel momento. Woody Allen ha pagato un sicario, oppure lo ha ucciso con le sue mani: e il rimorso lo tormenta da allora - ma non si costituirà mai. Però ce lo sta dicendo da più di vent'anni - Crimini e misfatti è del 1989, e a ben vedere sotto il travestimento è una confessione fatta e finita. Da allora è tornato sullo stesso soggetto quante volte? Settembre, Pallottole su Broadway, Match Point, Cassandra's Dream, e adesso Irrational Man: tutte variazioni sul tema. Come si fa a non notare l'ossessione, come si fa a non sentire il muto grido di dolore sepolto sotto il rassicurante tappeto di fotografia elegante e swing d'epoca? Woody Allen è un assassino. Oppure:

– Woody Allen è morto. Impossibile stabilire chi è stato e quando. Un'amante che sapeva troppo, un ricattatore, un semplice psicopatico che lo ha trovato in un certo posto nel momento sbagliato. Woody Allen ci ha lasciato da un pezzo, ma il piccolo carrozzone che ha messo assieme in più di quarant'anni di carriera, la sua piccola Disney per anziani, doveva in un qualche modo andare avanti. Un film all'anno, niente che il pubblico pagante non si aspetti già. All'inizio hanno usato qualche vecchio copione scartato. Poi hanno iniziato a scriverne di nuovi alla sua maniera. Ultimamente usano un software che riesce a simulare anche l'invecchiamento di Woody Allen, per cui per esempio il 'suo' ultimo film, Irrational Man, sembra veramente scritto da un ottuagenario molto preoccupato di farsi capire a spettatori altrettanto rintronati. Joaquin Phoenix è un insegnante di filosofia morale depresso e alcolizzato: lo si potrebbe indovinare dagli occhi disperati, dal pancino alcolico, ma anche dal fatto che tira continuamente fuori una fiaschetta di scotch (la offre anche alle studentesse in mezzo al campus), e dalla voce fuori campo che martella ogni due minuti. ERO DISPERATO. LA VITA NON AVEVA PIU' SENSO. INFATTI AVEVO VOGLIA DI MORIRE. DA UN PO' ERO ANCHE IMPOTENTE. VI AVEVO GIA' DETTO CHE ERO MOLTO DEPRESSO? Così per un'ora. Nel frattempo Emma Stone si innamora di lui. Lo si capisce dal modo in cui sgrana gli occhioni, dal fatto che accetti di passeggiare con lui in mezzo al campus, che lo inviti alle feste dei compagni e a casa dei genitori,, dalle scuse che racconta al suo ragazzo ufficiale, nonché da dialoghi del tipo OH PROFESSORE HAI CAPITO CHE MI SONO INNAMORATA DI TE? ORA TI FICCO LA LINGUA IN BOCCA FAMMI UN CENNO SE TI ARRIVA IL MESSAGGIO. Woody Allen, insomma, è morto. Questa almeno è la mia ipotesi preferita, ma ce ne sono anche altre.

– Woody Allen sta benone, (continuava su +eventi!) rilascia interviste lucidissime. Ultimamente ha compiuto 80 anni e un sacco di gente su facebook si è divertita a stilare la sua lista dei cinque film migliori. È un gioco che funziona con Allen meglio che con qualsiasi altro regista, perché chiunque ne sappia almeno un po', senza sforzo riesce a ricordarsi una ventina di titoli. Tanta prolificità ha anche il suo lato oscuro, e infatti a un certo punto per il puro istinto di distinguermi ho pubblicato la classifica dei film di Allen che mi erano piaciuti di meno. Se ci riflettete, ha molto più senso, perché nessuno ci ha fatto vedere tanti film mediocri come Woody Allen – qualsiasi altro autore, dopo un paio di mosse false lo avremmo abbandonato. Invece da lui siamo tornati anno dopo anno, sempre sperando di assistere al miracolo di un nuovo Harry a Pezzi, un nuovo Zelig. E ci siamo sciroppati Another Woman, Vicky Cristina Barcelona, Magic in the Moonlight, senza neanche lamentarci troppo.
In questo senso Woody Allen è un po' come Bob Dylan, che oltre ai suoi capolavori, è riuscito a venderci una discreta manciata di dischi talmente scadenti che nessun altro artista ci avrebbe potuto propinare senza perdere la sua credibilità: dischi così orrendi che li ricordiamo con affetto. Alla fine chi ascolta Dylan, o chi guarda un film di Allen, ha soprattutto voglia di ritrovare un vecchio amico – non importa quanto sia fuori forma. Woody Allen magari è in perfetta forma, ma a questo punto si preoccupa dell'inevitabile invecchiamento del suo pubblico. Si chiederà: ma che razza di rincoglioniti tornano in sala a vedere qualunque cosa io faccia? Meglio non rischiare, meglio l'usato sicuro: ancora Dostoevskij, ancora un Raskolnikov (pazienza se rischia di sembrare quel tipo di studentessa di un suo film, che di ogni autore conosceva solo una citazione a effetto). Il protagonista deve essere un misantropo disilluso. Forse è meglio ribadirlo ogni due o tre minuti, metti che qualcuno in sala si addormenti – ehi non è uno scherzo, fare film di Woody Allen è una scienza, magari si sono addormentati durante un focus group.
Il protagonista deve commettere un omicidio, perché da sempre questo è l'unico modo che hanno i personaggi di Allen di votarsi al Male – omicidi e al limite le corna, ma queste ultime da un pezzo sono state derubricate a peccato veniale. Tutto il resto non conta - ad esempio farsi corteggiare da una studentessa davanti a colleghi e compagni di lei, per Allen è un comportamento normalissimo, accettato anche da superiori e genitori: ed è anche l'indizio più forte del fatto che ci troviamo ancora nell'universo mentale dell'autore e vecchio satiro Woody Allen, e non in quello di un software in grado di produrre intrecci verosimili.
Come in Pallottole su Broadway ci dev'essere un artista irresponsabile, irrazionale, assassino, e un piccoloborghese che lo ammira ma non potrà seguirlo per la sua strada: non si tratta di una vera e propria scelta, semplicemente la via del Male (ma anche dell'Arte) non è per lui/lei. Rispetto a dieci o vent'anni fa, la novità di rilievo non è tanto la colonna sonora più blues, ma l'atteggiamento sempre più didascalico, ai limiti dell'autoparodia. La trama che occupava una mezz'oretta di Crimini e Misfatti è dilatata sui novanta minuti. Allen può lavorare con gli attori migliori sulla piazza, e quello che vuole da loro ormai è che vestano una specie di costume kabuki e continuino a ripetere al centro della scena: SONO DISPERATO. VOGLIO MORIRE. TUTTO È ASSURDO. MA SE AMMAZZO QUALCUNO LA MIA VITA CAMBIA. AMMAZZO QUALCUNO. ECCO LA MIA VITA È CAMBIATA. SONO FELICE. HO FAME, RIESCO ANCHE A SCOPARE. Il risultato è un prodotto che oltre a funzionare in sala – ma in sala ormai ci andremmo in ogni caso – avrà un senso anche sul digitale terrestre tra un annetto o due, al pomeriggio, mentre stiriamo o diamo la polvere: quelle fiction che riesci a seguire anche se guardi una scena ogni tre.

Woody Allen a ottant'anni ci conosce meglio di noi stessi: ha capito che cominciamo a perdere colpi e si sta adeguando. Continua a macinare film che nessun altro sa fare, e che forse a nessun altro perdoneremmo. D'altro canto prima o poi ci regalerà qualche altra perla, anche solo un Whatever Works. Nel frattempo Irrational Man è al Cityplex di Alba (21:10), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:10, 17:20, 20:10, 22:20), al Baretti di Mondovì (21:00) e al Cinecittà di Savigliano (22:30). Prego notare che è alla terza settimana di permanenza in sala; ed è quella tra Natale e Capodanno. Whatever works.
Comments (1)

Come fate a cascarci con Shyamalan?

Permalink
The Visit (M. Night Shyamalan, 2015)

Uno di quei film in cui i ragazzini non spengono la videocamera
neanche se i mostri se li mangiano? Sì, però fatto bene.
Rebecca e Tyler non hanno mai conosciuto i loro nonni. Vivono nella provincia lontana dove il cellulare non prende. Quindici anni prima la loro madre fuggì per non tornare. Ora le hanno scritto, vorrebbero tanto conoscere i loro nipotini. Perché non ce li mandi per una settimana? Cosa potrebbe mai andare storto? Non credo di poter raccontare altro senza farvi capire che qualcosa non va.

Del resto è un film di M. Night Shyamalan, che dopo alcuni disastri produttivi si è ritrovato retrocesso nella serie B dei film horror a basso budget, in quella che però è la situazione più congeniale al suo cinema: senza più i divi capricciosi che gli hanno commissionato After Earth, senza effetti speciali, chiuso in una casa di campagna con due macchine finto-amatoriali, l'ex maestro del suspense contemporaneo dovrebbe riuscire a mostrare le sue vere qualità. Ce la farà?


Dei tanti modi in cui si possono dividere gli esseri umani, e in particolare gli spettatori al cinema, uno mi sembra più indicativo degli altri e riguarda M. Night Shyamalan. Vi sono infatti due gruppi: quelli che ultimamente erano molto delusi, ma che apprezzarono molto i suoi primi film, talvolta acclamandolo come un maestro e un innovatore del genere thriller, se non proprio il nuovo Hitchcock - e quelli che dopo cinque minuti avevano capito che Bruce Willis è un fantasma.

Insomma, in quel film nessun adulto gli rivolgeva la parola. Nessun adulto. Come fa uno a non accorgersene?

Io ai tempi mi arrabbiavo pure perché insomma - quando appartieni a quel gruppo di persone, tu rifiuti l'idea che il mondo si divida in due gruppi di persone. No, tu credi che ci sia solo un gruppo giusto - ovvero quelli che hanno gli occhi collegati al cervello - e che quelli che appartengono all'altro gruppo devano essere rieducati. E non importa se si intendono di cinema, ci dev'essere un equivoco perché come si fa a intendersi di cinema quando non ti accorgi nemmeno che Bruce Willis è un fantasma? Come fai a goderti un film se hai capito come va a finire dopo cinque minuti? Devi veramente avere voglia di cascarci (continua su +eventi!) 

Col tempo ho capito che è davvero così. Chi ama il cinema è animato soprattutto da una grandissima Voglia di Cascarci. È quella magia che unisce tutti i cinefili, sia quelli dei Cahiers che hanno appena votato Mia Madre film dell'anno (sembra una presa in giro), sia quelli che stanno cambiando le pile alle loro spade laser per la prima di Star Wars VII. Se non hai Voglia di Cascarci, non riuscirai mai a prendere sul serio certe cose. Potrai studiare tanto ma non diventerai mai un cinefilo. Per esempio, se non hai Voglia di Cascarci, anche quest'ultimo film di M. Night Shyamalan ti lascerà freddo. Probabilmente anche questa volta dopo cinque minuti avrai già capito esattamente cosa non va nella situazione; tutti quei particolari dissonanti che dovrebbero metterti a disagio, li troverai piuttosto prevedibili (anche se qualche geniale traduttore ha deciso di rendere "rumours about the hospital" con "pettegolezzi dell'ospedale". Pettegolezzi).

Il proverbiale twist alla Shyamalan, il colpo di scena che negli ultimi 10 minuti dovrebbe farti rileggere tutto il film in una chiave diversa, tu l'hai già subodorato dopo i primi 20, e adesso devi restare lì in sala a subire i trucchi del mestiere degli horror a basso budget prodotti da Jason Blum; niente da dire, Blum sa il fatto suo e Shyamalan è probabilmente il miglior regista che ci ha lavorato; nelle sue mani anche uno strumento abusato come il found footage si scrolla via la polvere e ritrova i suoi giorni di gloria. Poi finalmente arriva il twist, intorno a te senti gemiti e respiri affannosi, e tu sei solo contento perché il film sta finendo. Le persone si dividono in due gruppi e forse ha ragione il gruppo che si è fatto mettere ancora una volta nel sacco da M. Night Shyamalan. Noialtri possiamo consolarci raccontando che avevamo capito subito, insomma era chiaro, no? Ma la verità pura e semplice è che ci divertiamo di meno.
Questa settimana The Visit è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:30, 17:40, 20:30, 22:40) e al Vittoria di Bra (20:15, 22:30).
Comments (4)

Colpo grosso in provincia di Barletta

Permalink
Loro chi? (2015, Francesco Miccichè, Fabio Bonifacci)


Trani è in subbuglio, corre voce che il Grande Regista TV sia scontento. Sta scegliendo le location, le comparse, il catering. L'anno prima Barletta ospitò una fiction e il turismo registrò il 200% - insomma è un'occasione da non mancare. Il sindaco gli sta pagando l'albergo, frantoi e viticoltori litigano per invitare il Grande Regista a pranzo, persino la camorra locale ha da piazzare il suo raccomandato. E allora cosa c'è che non va? Forse che la città non è fotogenica abbastanza? "No, Trani è bella", dice. "Ma non so se funziona per l'action".

Il Grande Regista, in realtà, è un piccolo truffatore. Ma il colpo che mette in scena a Trani è talmente verosimile che una volta tornato a casa mi sono messo a cercarlo su google: "falso regista fiction". Per ora ho trovato solo un tizio che a Brindisi convinceva delle tizie a spogliarsi per dei falsi provini, una cosa abbastanza deprimente. Invece le avventure di Edoardo Leo e Marco Giallini nella ridente località pugliese sono l'episodio più scoppiettante del film - e anche quello più rivelatore. Se ogni film è una truffa, un film di truffe è sempre un gioco di specchi: non sei mai sicuro di ciò che stai guardando. È un buon film di truffe inverosimili, o è un film inverosimile e basta? Le ragazze che suonano in playback a un concerto rock stanno recitando male o stanno recitando bene la parte di chi suona per finta?


Alla fine ho deciso che lo compro - e se i registi mi hanno fregato, peggio per me (continua su +eventi!) Anche se lavorano nel cinema da una vita, Loro chi? è il loro primo vero lungometraggio; gli unici difetti che mi sembra di notare sono quelli che lamentava il Grande Regista TV a proposito di Trani: belle cartoline, ma l'action? Non puoi fare un film di truffe senza piazzarne almeno un po'. Inseguimenti, conflitti a fuoco: l'unica strada è girarli inverosimili e poi rivelare che erano falsi, tutta una truffa appunto. Pazienza se un film distribuito dalla Warner in più di 300 sale sembrerà un prodotto a basso budget.

Quel che funziona meglio in Loro chi? è il ritmo, che dopo una partenza indiavolata riesce a contenere le inevitabili cadute. Da Roma a Trento a Trani, poi di nuovo a Trento, Leo e Giallini si spostano da un set all'altro come in un film di spionaggio. Le stangate diventano via via più improbabili, ma ci si diverte. Bonifacci si conferma come uno degli sceneggiatori più interessanti in circolazione, anche solo per il coraggio con cui si allontana dai temi e dai luoghi più frequentati della commedia italiana.
E sì, Trento e Trani sono più cinematografiche di quel che ci aspettavamo.
 
Uno di questi week end, quasi quasi...

Loro chi? è al Cityplex di Alba, al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, al Fiamma di Cuneo, ai Portici di Fossano e al Cinecittà di Savigliano. Buona visione!
Comments

La delocalizzazione è un film già visto, davvero

Permalink
La legge del mercato (La loi du marché, Stéphane Brizé, 2015).

Me ne sto qui impalato, faccio finta di lavorare,
magari a Cannes mi danno una palma.
Thierry è un cinquantenne che ha perso il lavoro quando l'azienda, non ci credereste mai, ha delocalizzato. Il resto è un film che forse avete già visto. Buona parte della sua liquidazione andrà a ingrassare il racket statale dei corsi di formazione professionale senza sbocco professionale. Thierry ha una macchina in panne, una rata arretrata, una moglie preoccupata, Thierry ormai farebbe qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa. O no?

"C'è questa offerta che potrebbe interessarti".
"M'interessa di sicuro".
"C'è un regista che cerca un cinquantenne che abbia perso il lavoro a causa di una delocalizzazione".
"Non m'interessa più".
"Guarda che paga bene".
"Grazie, non sono disperato".
"Ma..."
"Non così tanto disperato, perlomeno".
"Guarda che non devi imparare a recitare, vuole solo seguirti con la cinepresa mentre..."
"...mentre cerco lavoro, mentre non trovo lavoro, mentre incontro gli ex colleghi e non andiamo d'accordo, quando vado in banca a chiedere un prestito, credi che non lo sappia? L'ho già visto un film così. L'hanno visto tutti un film così".
Uno spettatore si è addormentato in seconda fila, che faccio?
"Sì però..."
"Lasciami indovinare. Alla fine trovo un lavoro ma per superare il periodo di prova devo far perdere il posto a qualcun altro, non è vero? Cioè è il film dei Dardenne dell'anno scorso, in pratica".
"Ma non è proprio come quello dei Dardenne, perché..."
"Mi aggiungono anche una sfiga peculiare? Qualcosa che mi dia uno spessore diverso? La tizia dei Dardenne soffriva di depressione, a me che sfiga affibbieranno?"
"Vorrebbero abbinarti un figlio, ehm..."
"Un figlio?"
"Handicappato".
"Ah però".
"Embè? Hai qualcosa contro gli handicappati?"
"Sì, quando servono a ricattare gli spettatori".
"Senti, non so se ti rendi conto della fortuna... non devi recitare. Devi soltanto vivere le tue giornate noiose mentre un tizio le riprende da qualche metro di distanza. Come un reality".
"La mia vita non è noiosa!"
"Ah no?"

(Continua su +eventi!) 
"Ho un sacco di cose da fare dalla mattina alla sera! Inseguo il lavoro ovunque, giro per le corsie dei supermercati scartando le offerte speciali farlocche, la sera vado a ballare con mia moglie..."
"Yawn".
"...ma so già che 'sto tizio ha intenzione di girare tutto con meno stacchi possibili, e riuscirà a trasformare in qualcosa di mortalmente noioso anche un corso di rock'n'roll. Chi è poi che se li guarda questi film, io vorrei capire".
"Sono film di denuncia".
"Sono film lenti e deprimenti che nessun neoproletario scucirà mai sei euro per guardare. È roba esotica per i ricchi, sì? Vanno a vederli ai festival per solleticare i loro sensi di colpa?"
"Va bene, lasciamo perdere".
"Io sopo una giornata intera a fare il disoccupato con moglie a carico e figlio handicappato, io la sera voglio vedere cose allegre! Voglio identificarmi con un Liam Neeson che all'inizio di un film è un cinquantenne disoccupato come me e alla fine del film ha fatto fuori tutta la mafia irlandese".
"Ma i film di denuncia..."
"Al limite, proprio al limite, posso accettare un film di Ken Loach dove però succedono tante cose, ci si diverte e ci si ammazza, non un finto reality coi colloqui di lavoro girati senza neanche il controcampo, perdio".

Le scene più interessanti della Legge del Mercato sono le soggettive delle videocamere del supermercato che spiano i clienti - tutti potenziali ladri. Nessuno è al di sopra del sospetto, i ladri non hanno età né sesso né razza, e queste videocamere scorrono veloci, scartano di qua e di là, zoomano, hanno tutta quella gioia cinetica che il cineasta Stéphane Brizé si è fatto amputare quando ha deciso di fare i film che piacciono a chi di mestiere si lamenta di chi ha perso il suo mestiere.
La legge del mercato è al Cinema Moretta di Alba fino a martedì alle 21, il protagonista ha vinto la sua palma a Cannes, tutti ne hanno parlato bene, e nessuno lo guarderà più.
Comments (4)

Litigare con don Pasolini

Permalink
Una di queste notti mi sarebbe piaciuto riprendere i fili del discorso un po' confuso che avevo fatto su Pasolini l'altro giorno (visto che ha suscitato un minimo d'interesse) - però tutto sommato è giusto che rimanga confuso. Pasolini è per me, come per molti, un feticcio polemico da una vita. Anch'io posso passare serate intere a litigare idealmente con Pasolini. Se non sto attento mentre do l'aspirapolvere puoi notare che muovo le labbra, sto insultando Pasolini. Quel suo atteggiarsi a profeta, a Geremia di un genocidio immaginario - che nervi l'Abiura a rileggerla.

Alla fine poi che colpa ne ha avuto lui. In qualsiasi altro periodo storico avrebbe trovato la sua nicchia abbastanza presto, e invece a causa di una guerra mondiale e altri equivoci si è ritrovato in una sezione bolognese del PCI invece che in seminario. Che prete ci siamo persi, ma soprattutto che vita da prelato si è perso lui. La sua passione per le dispute dottrinali gli avrebbe ispirato dotte dissertazioni teologiche che lo avrebbero reso uno dei protagonisti del concilio - vuoi mettere anche solo per un attimo, tra litigare coi lefebvriani o col Gruppo '63? Nel frattempo avrebbe potuto cullare la sua sensibilità decadente coltivando la poesia, la scrittura, l'arte, senza la necessità di impastoiarle con categorie marxiste che non c'entravano poi parecchio. Le periferie sottoproletarie, le avrebbe potute frequentare con molta più libertà, nessuno ci avrebbe avuto niente da ridire - son cose che a Roma si fanno da secoli e chi siamo noi per giudicare un alto prelato, un benefattore. Le sue naturali pulsioni avrebbero trovato molta più tolleranza in Curia che in certe sezioni di partito un po' retrograde. Le sue inchieste sulla sessualità degli italiani le avrebbe potuto condurre in modo assai più capillare nel confessionale. Nel frattempo avrebbe saputo diluire in comode omelie settimanali il suo presentimento dell'apocalisse, del genocidio culturale, della massificazione indotta dalla tv, dalla legalizzazione dell'aborto, dalle maschere di Halloween, le lucciole! cosa hanno fatto alle lucciole! Persino in Africa avrebbe più convenientemente potuto andarci da missionario; che prete sarebbe stato Pietro Paolo Pasolini, e invece gli è andata così. Eppure chi ancora si inginocchia al suo santino è sempre di un prete che sembra aver bisogno, uno che ti faccia le predica sulle false lusinghe della modernità, sul vuoto dei valori, uno che ti dica "io so", anche se non è chiaro come faccia a saperlo - ma già, il confessionale - in ogni caso i preti sanno sempre tutto, bisogna stare attenti, perché verrà un giorno... Don Pasolini, così come fra Lindo Ferretti, è uno di quei personaggi che in Italia abbiamo sempre avuto, forse addirittura il frutto dell'evoluzione, dell'adattamento a un certo tipo di ambiente; la novità è che seminari e conventi sono meno diffusi di una volta e così a gente che sembra nata per spiegarti il mondo da un pulpito capita di ritrovarsi scrittore, regista, cantante, comico, e non se la cavano neanche così male in verità. Sempre però un po' predicatori, se ci fai l'orecchio.

Per dire che Muccino un po' lo capisco.

Però poi ogni volta che vedo qualcuno cedere al mio stesso impulso, e di attaccare una tirata antipasoliniana, mi rendo conto che è vittima di un equivoco, se non di tanti. Ad esempio vedo in giro roba del genere.



E ci rido pure sopra, però intanto penso: ma uno che ha scritto una battuta del genere, l'avrà mai davvero sentito parlare, avrà letto qualcosa di Pietro Paolo Pasolini? Non solo il fatto che in realtà un film come Ricordati di me gli sarebbe davvero potuto piacere; una volta assorbito lo choc di un ritmo action che ai suoi tempi non esisteva nemmeno nei film di 007, figurati in un prodotto cosiddetto intimista, credo che avrebbe potuto vederci una conferma delle sue tesi sul vuoto della neoborghesia. Ma lasciamo stare: come fai a immaginare Pasolini che risponde "mi pulisco il culo"?

Se hai anche solo aperto a caso le Lettere Luterane, se hai ascoltato distrattamente la voce del corvo di Uccellacci e Uccellini, come fai? Ma neanche in una vignetta. Te lo immagini, boh, Hitchcock che dice la stessa cosa in una vignetta? Moravia? Viene il sospetto che nel modellare il feticcio PPP le giacche di pelle abbiano avuto più peso delle pagine di Empirismo Eretico dove Pasolini si permetteva eleganti frecciatine sul prognatismo di Sanguineti, ma non avrebbe mai usato il sintagma "pulisco il culo".

Forse funziona così: oggi la gente in giacca di pelle che va in tv a parlare di qualsiasi cosa è, boh, Scanzi? E così ci immaginiamo che Pasolini sia stato uno Scanzi dei suoi tempi; che di fronte a una provocazione si sarebbe comportato come lui: fanculo, stronzi, ecc. Di solito quando parliamo di lui non abbiamo la minima idea di quello di cui stiamo parlando. Anche quando lo citiamo, lo fraintendiamo; lui poi perlopiù parlava in una lingua che abbiamo messo via, il marxismo; una lingua che maneggiava un po' disinvolto, se non proprio alla carlona, perché gli era capitato di esser marxista per accidente, era semplicemente il clima culturale in cui era nato e aveva imparato a discutere - e di discutere aveva una gran voglia e un gran bisogno e non solo coi sottoproletari: anche e soprattutto coi suoi pari, intellettuali, artisti. Lui poi era convinto che i sottoproletari stessero per scomparire, parlava di genocidio, non si vergognava di scomodare Hitler per un po' di speculazione edilizia - ma non aveva previsto che anche il suo milieu culturale si sarebbe prosciugato nel giro di due decenni, al punto che oggi non c'è uno che mentre ti cita Pasolini ti dia la sensazione di aver capito quello che stava dicendo. Equivocano tutti, un po' perché devono tirare acqua al loro mulino (lui stava dalla parte dei poliziotti! Non è vero stava coi pankabbestia!), un po' perché davvero, leggerlo è troppo sbattimento.

Poi se la prendono con Muccino. Lui almeno ha una tesi: una volta il cinema italiano era un'industria, poi c'è stata una crisi strutturale, non sarà stato per caso Pasolini? Secondo me no, Pasolini in certi casi faceva un cinema di nicchia, "di poesia", insomma era un autore nel senso che la parola aveva già in quegli anni; in altri casi stava sperimentando soluzioni che oltre ad avere un successo immediato (il Decameron), aprivano le porte a nuovi linguaggi che sarebbero diventati di massa: in sostanza stava aprendo le porte al porno, col vecchissimo alibi dell'esotismo medioevale o terzomondista (da questo punto di vista certi stilemi amatoriali hanno un senso che Pasolini non vedeva e Muccino non coglie; il motivo per cui a lui piacevano gli attori non professionisti in pose discinte è simile a quello per cui noi digitiamo "amatoriale" in determinati siti). Però sia quando faceva Teorema per il pubblico dei festival, sia quando girava i Racconti di Canterbury - e in giro c'era una tale fame di nudità medievali che in sala era già uscito un seguito apocrifo al Decamerone - Pasolini era perfettamente organico all'industria cinematografica in cui lavorava - molto più di quanto se ne rendesse conto. Quando se n'è reso conto si è molto arrabbiato. Poi quell'industria è crollata per altri motivi - banalmente, la tv - e oggi non riusciamo nemmeno a capire che Teorema era pensato per un certo pubblico e Canterbury per un altro. Sono due film talmente diversi da quelli che vediamo nelle sale, che potrebbero averli girati i Lumière o Giotto di Bondone. È roba strana, da intellettuali. Niente che valga la pena rivedere - finché Muccino non ne parla male, allora guai a chi ce la tocca.

"Ma hai finito con l'aspirapolvere?"
"Perché?"
"È la seconda volta che lo passi in cucina".
"Scusa, ero sovrappensiero".
"Con chi stai litigando stavolta?"
"Con nessuno".
Comments (1)

(Sprofonderemo saturi) Suburra

Permalink
Suburra (Stefano Sollima, 2015).

Certe serate
È stato quattro anni fa, noi chissà dove eravamo. Più facilmente in coda a un semaforo, e intanto tutto intorno a noi stava finendo. Sotto la pioggia il parlamento stava per sciogliersi, Berlusconi scappava dalla porta di servizio, il Papa meditava di abdicare, e per qualche giorno Roma non è più stata di nessuno. In quel momento magico avrebbe potuto spuntare qualsiasi cosa: anche una Las Vegas tra le baracche di Ostia. Quattro anni dopo eccoci qui, a domandarci cos'è cambiato. Al cinema però c'è un buon film italiano, ecco, questa è una relativa novità. Da cosa si riconosce che è un buon film?

Sicuramente non dalla fotografia.

Certe cerette 
Che è smagliante e impeccabile, ma appunto, è quello che potremmo dire per qualsiasi film italiano degli ultimi cinque anni. Soggetti fritti e rifritti, dialoghi inverosimili, musiche pretenziose e ingombranti, fantastica fotografia. Una maledizione. Persino il Ragazzo Inguardabile aveva delle inquadrature memorabili. Sprofonderemo saturi e patinatissimi. Suburra forse è un buon film perché all'ottima fotografia dopo un po' non fai più caso. C'è altra carne sul fuoco, e attenzione, non è tutta roba necessariamente nuova o di buona qualità. Ma funziona.

Forse è un buon film proprio per l'arroganza con cui arriva per ultimo nei luoghi tra più frequentati da cinema e tv, guarda tutti a grugno duro e fa capire che non pagherà nessun debito, anzi: tocca agli altri alzarsi e fargli spazio. Ci saranno feste danzanti e fogge cardinalizie - ma non ci sarà tempo per pensare alla Grande Bellezza. La folla circonderà Palazzo Chigi senza nessun riferimento al Divo o al Caimano. Se entri aspettandoti Gomorra - il film o la serie - dopo un po' ti accorgi che non ci stai pensando più. Anche Romanzo Criminale è in qualche modo lontano (continua su +eventi!)

Eppure Sollima è esattamente lui, continua ad appoggiarsi su quei tappeti sonori asfissianti - quelle basi elettroniche o postrock che negli episodi di Gomorra ti danno il minutaggio preciso, quando parte la chitarra o il tastierone è come se l'hostess ti avvertisse "allacciate le cinture, tra dieci minuti è tutto finito". Al cinema può contare su facce più conosciute, ma è un vantaggio discutibile, se a Favino e a Germano è chiesto di ridurre l'espressività a quelle tre o quattro smorfie - e ad Amendola di imbalsamarsi. Così che prevedibilmente le figure più memorabili restano i comprimari, gli assassini nati Greta Scarano e Alessandro Borghi, o Adamo Dionisi nei panni firmati di un cravattaro zingaro che vorrebbe accreditarsi come boss ma non riesce a far silenzio nemmeno in quel soggiorno che è la migliore invenzione del film, e lo racchiude: Roma come un open space in cui i bambini giocano a palla coi cani mentre i mafiosi torturano i sequestrati, a un divano di distanza.
Sollima si può persino permettere - come già in Gomorra - il lusso dell'anticlimax nelle scene d'azione, inquadrate con un realismo che castra ogni tentazione epica. Nella città di Suburra ci si ammazza solo alle spalle, e non c'è un gangster che non faccia almeno un numero da fesso. Il più furbo di tutti gira senza scorta, provando a dare un senso a tutto il caos. Ma le variabili sono troppe e sono tutte impazzite. Suburra non è quella riflessione sulla decadenza dei costumi che qualcuno cerca di vendervi - il suo pessimismo è quello dei noir d'ordinanza - ma non è nemmeno un semplice film di genere. Non sarà un capolavoro, ma quest'anno è uno dei migliori film che ho visto in sala - non solo tra gli italiani. Questa settimana è al Citiplex di Alba, al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo, all'Impero di Bra, al Fiamma di Cuneo, all'Italia di Saluzzo e al Cinecittà di Savigliano.
Comments (3)

Io robot, tu fatti da parte

Permalink
Ex machina (2015, Alex Garland)

A volte i robot hanno gli incubi. Sognano di non essere più robot, ma esseri umani con un cuore e i vasi sanguigni. Si svegliano e cominciano a smontarsi, strato dopo strato, finché sotto la pelle sintetica non emerge il verde confortante della scheda madre. 


Idee semplici e perfette.
Il fatto è che malgrado ne fosse prevista l'estinzione già da tempo, nessuno può essere sicuro che qualche umano non sia ancora in mezzo a noi. Un sistema per capire se il tuo interlocutore è umano è sottoporlo al cosiddetto test anti-Turing: se le sue risposte non sono prevedibili secondo nessun algoritmo noto, chi ti sta parlando è un umano. Oppure lo sta diventando. Ma forse è più semplice forarlo e verificare se sanguina. 

Negli anni Duemila la fantascienza al cinema era un genere innocuo e fracassone, ancora ingombro dei blockbuster catastrofici di Michael Bay e Roland Emmerich. Poi qualcosa è cambiato. Credo che sia tutto cominciato con Moon, il piccolo film di Duncan Jones del 2009 che affrontava il genere con un approccio minimale: una sola location, un solo attore, effetti speciali semplici e poco invasivi, un paio di idee veramente buone. Moon è piaciuto a tutti, è stato immediatamente scopiazzato da qualche grossa produzione di Hollywood, ma soprattutto è stato per la fantascienza quello che Paranormal Activity è stato per l'horror: ha mostrato a tutti che se l'idea è buona, il budget può anche essere piccolo. E se il budget è piccolo, non c'è più bisogno di piazzare combattimenti ed esplosioni per in grande pubblico quindicenne. Si possono fare film un po' più adulti, film che ragionano, film che ti turbano e ti lasciano un po' perplesso anche a mesi e anni di distanza.

NON HO IDEA DI COSA STO FACENDO.
Gli ultimi anni sono stati una vera primavera del cinema di fantascienza: non solo per le grandi produzioni hollywoodiane (Oblivion, Edge of Tomorrow, Interstellar), che in certi casi hanno ripreso l'approccio minimale (Gravity, Mad Max), anche se non sempre sono state all'altezza delle premesse. Film altrettanto interessanti sono arrivati dalle periferie del cinema mondiale: alcuni, come il teuto-australiano Cloud Atlas, e l'israeliano The Congress, sono pastrocchi incredibili e per niente minimali - ma hanno comunque qualcosa di straordinario che lascia il segno nello spettatore. Anche dalla Spagna ci è arrivato un bel film di robot in fuga (Automata). Dall'Australia i fratelli Spierig hanno saputo rileggere in modo geniale un racconto classico di Heinlein (Predestination). Nessuno di questi film è un capolavoro, ma sono tutti interessanti, e in molti casi imperdibili (continua su +eventi!)

Ah, io farei la stessa cosa.
Uno degli aspetti che caratterizzano queste produzioni è la creatività con cui si superano i limiti di budget. Ex Machina, l'esordio alla regia del britannico Alex Garland (autore di The Beach, sceneggiatore di 28 giorni dopo e Sunshine), meriterebbe una menzione nella storia del cinema anche solo per l'idea semplice e geniale con cui ha risolto uno dei problemi più difficili - mettere in scena un umanoide credibile. Le forme della dolce e gelida Alicia Vikander sono state parzialmente cancellate via rotoscope, ottenendo un automa familiare e inquietante al tempo stesso, semplicemente perfetto. Lo vedete sulle locandine e vale già il biglietto.

Poi c'è la storia. Anche stavolta, quattro attori e una location, e un'idea semplice ma di sicura presa: il test di Turing. Benché abbia esordito come scrittore, Garland si è impadronito del mezzo cinematografico al punto che per portarci nel suo mondo non ha bisogno di una di quelle fastidiose "spieghe", i monologhi iniziali che affliggono quasi sempre i film di fantascienza. Non è che tutto funzioni sempre: l'eleganza della confezione nasconde diversi difetti di trama e di logica. Ma con tutte le sue magagne, Ex Machina ti lascia addosso un segno potente. Oscar Isaac è Nathan, l'imperatore di internet, una figura che fonde Jobs, Zuckerberg e i creatori di Google. Nel suo castello ai confini del mondo sta lavorando all'intelligenza artificiale, il gradino successivo dell'evoluzione, con la stessa incoscienza infantile con cui Pollock rovescia colori sulla tela. Non gli dispiacerebbe essere Dio, ma sa anche di non avere scelta: i robot prima o poi si evolveranno, non è più una questione di "se", ma di "quando". Domhall Gleeson, un anno dopo Frank, veste di nuovo i panni del nerd che pensa di essere più furbo di quanto non sia e combina grossi guai. Ex Machina arriva nelle sale italiane proprio nella settimana in cui gli scienziati lanciano un allarme contro lo sviluppo di intelligenze artificiali in campo bellico, ed è la più bella sorpresa di questa estate rovente. Lo trovate al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40) e al Multilanghe di Dogliani (21:30).
Comments (4)

Nel tempo si viaggia da soli

Permalink
Predestination (Michael e Peter Spierig, 2014)

Bisogna trovare quello che è tornato indietro nel tempo
per impedire che quei cappelli andassero di moda e
fermarlo (lei è bravissima comunque).
Per noi che ci muoviamo liberamente in tre dimensioni - mentre la quarta ci sposta inesorabilmente in una sola direzione - un cerchio è semplicemente l'insieme di punti equidistanti dal suo centro, senza inizio né fine. Immagina ora che esistano creature bidimensionali, in grado di pensare e guardarsi attorno, ma che percepiscano la Larghezza come noi percepiamo il Tempo: qualcosa che si può percorrere soltanto in una direzione. Intorno a loro vedrebbero soltanto filamenti che si avvicinano e allontanano. Non sarebbero in grado di immaginare un cerchio, o forse sì, ma nel suo tornare al punto di partenza vedrebbero qualcosa di mostruoso, di contronatura. La stessa cosa proviamo noi di fronte a un fenomeno che sembra causa o conseguenza di sé stesso - lo rifiutiamo. Siamo abituati a vedere gli eventi allontanarsi e avvicinarsi a noi, e abbiamo imparato a descriverli in termini di causa ed effetto, di prima e di dopo. Qualcuno a volte riesce ad astrarsi abbastanza da immaginare che esista un'ulteriore dimensione, dalla quale anche il Tempo si possa osservare da più punti di vista. Da lì forse scopriremmo che anche le catene filiformi di eventi in cui siamo avvolti, in realtà sono loop circolari: che causa ed effetto non sono che archi degli stessi cerchi; che tutto accade perché tutto accade, nello stesso spazio-momento. È quello che alcuni chiamano predestinazione.

Predestination è un film australiano tratto da un racconto di Robert Heinlein che fareste bene a non aver letto, o ad aver dimenticato. Un agente segreto (Ethan Hawke) viaggia nel tempo per sventare gli attentati di un terrorista che viaggia pure lui nel tempo e che riesce sempre a prevenirlo, e a questo punto o vi siete già distratti, o siete appassionati di paradossi temporali e avete già formulato il sospetto più ovvio.

Questo è il principale problema di Predestination e in generale di tutto il cinema di fantascienza, che pure in questi anni ci sta regalando soddisfazioni non piccole: il fatto di rivolgersi a un pubblico già selezionato ed esigente, che conosce i trucchi meglio di chi li mette in scena - non è come l'horror; in sala non sono tutti adolescenti a bocca aperta incapaci di rendersi conto che Bruce Willis è un fantasma anche se nessuno gli rivolge mai la parola. Anche se non conosci il racconto originale, persino se ignori Heinlein e la sua ossessione per i loop temporali, se ti piace la fantascienza hai l'occhio allenato per queste cose - e dopo dieci minuti di girato hai già capito quello che i gemelli Spierig vorrebbero rivelarti al novantesimo. (Continua su +eventi!)

Il film resta ugualmente godibile, un bell’episodio lungo di Ai Confini della Realtà. Gli Spierig non sono i Wachowski ma hanno mutuato qualcosa della loro follia, nel bene e nel male – una fascinazione per l’androgino e la metamorfosi del corpo che è ancora merce rara, ma che purtroppo anche qui come in Cloud Atlas non riesce a tradursi in forme cinematograficamente plausibili: anche se in questo film non ci sono trucchi altrettanto imbarazzanti, la pur brava Sarah Snook semplicemente non è abbastanza credibile nei panni maschili che si trova addosso per metà film. In compenso la macchina del tempo è la più minimal mai vista al cinema, e forse anche la più elegante e suggestiva. Il film si mantiene per una buona metà estremamente aderente al racconto di Heinlein, senza nemmeno correggerne il sessismo molto anni Cinquanta, a costo di disorientare lo spettatore meno esperto che si ritrova in un passato alternativo con cadetti spaziali che quando fu descritto era semplicemente un futuro prossimo. Poi, cercando di confondere le acque, i gemelli scelgono di raddoppiare l’intreccio già arzigogolato, aggiungendo riferimenti al terrorismo che invece di attualizzare la storia la sospendono ancora di più nello spazio e nel tempo: non è che torni tutto, e se vi ha innervosito la logica circolare di Interstellar forse è meglio che vi teniate alla larga. Se invece qualche volta vi viene di pensare a come dev’essere il Tempo visto da una quinta dimensione, Predestination è il film fatto per voi. O forse eravate voi fatti per lui. Probabilmente vi verrà voglia di vederlo e rivederlo, anche al contrario.

(Quando sono entrato in sala ero solo. Se c’è un film da guardare da soli, è questo. Dopo un po’ è entrato qualcun altro, qualcuno che ho evitato rigorosamente di osservare. Non so se era un uomo o una donna, ma ho avuto la sensazione che mi somigliasse).

Predestination è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:30 e alle 22:45, e poi chissà dove andrà a finire.
Comments (4)

La morte ti cerca su Skype

Permalink
Unfriended (Levan Gabriadze, 2014)

O ma t ricordi Laura???
Quella stronza ke poi a un certo punto qualcuno ha messo su youtube il video in cui fattissima si era cagata addosso?? 
E che lei dopo dalla vergogna si è sparata (ke COGLIONA)? 
Ti ricordi quanto abbiamo pianto al funerale, e quando ci intervistavano dicevamo che era nostra amica e mai avremmo potuto immaginare e insomma eravamo sconvolti? 
Ma il video invece ti ricordi ki lo aveva fatto? 
Eri stata tu? 
Ero stato io? 
No io forse lo avevo solo postato. 
Boh. 

Unfriended è un piccolo film con un'idea fortissima - trasferire sul grande schermo il desktop di un computer portatile, e raccontare tutta la vicenda da una finestra all'altra, in apparente presa diretta. I personaggi dialogano su skype, la colonna sonora è una playlist su itunes, gli indizi si cercano su google, il passato galleggia su youtube e facebook - lo spettatore condivide il punto di vista della protagonista e a un certo punto la frustrazione di non riuscire a controllare il cursore col mouse (visto su un portatile dev'essere tremendo, anche al cinema viene costantemente la tentazione di aprire la posta o twitter o qualche altra minchiata).

Il tema ovviamente è il bullismo 2.0 - Gabriadze, regista di origine georgiana, sembra abbastanza persuaso che l'inferno siano gli altri, cioè internet. Classe '69, in un'intervista ha candidamente affermato che il nonnismo subito ai tempi del servizio militare nell'Armata Rossa non è nulla rispetto a quello che può capitare oggi ai ragazzini sui social network. Unfriended descrive questo mondo col candido cinismo che si può permettere un regista horror: i cinque personaggi, tutti variamente antipatici, saranno messi l'uno contro l'altro dal fantasma della loro vittima. Sì, il modo di raccontarla è finalmente un po' diverso, ma la storia è la più banale del mondo (continua su +eventi!) Gabriadze, che comunque ha avuto un colpo di genio, ha anche il pregio di non tirarsela affettare ambizioni autoriali: Unfriended non finge nemmeno per un istante di essere qualcosa di più profondo del solito film per 16enni sul divano che limonano o almeno ci provano (l'apparentemente inutile conversazione iniziale, in cui la protagonista promette al suo ganzo un rapporto finalmente completo per il Ballo di Fine Anno, è il momento in cui il film sembra davvero specchiarsi nel suo pubblico di riferimento).

Chi 16enne non è può lamentarsi dello spreco: le idee originali sono così rare oggigiorno. D'altro canto Gabriadze con un misero milione di dollari di budget ne ha già portati a casa 45: che gli vuoi dire? Magari i sequel avranno un approccio meno scontato. Il film è l'ennesimo colpaccio di Jason Blum, produttore specializzato nei film a bassissimo costo e altissimo rendimento: non sono mai capolavori (tranne il caso un po' particolare di Whiplash), ma sono sempre idee originali. Merce sempre più preziosa, anche a Hollywood.

Unfriended è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:40, 22:40); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (22:30).
Comments (1)

Dio è il mio cingolo di scorta

Permalink
Fury (David Ayer, 2014)


Stanno arrivando. Sono assassini fanatici e suicidi innamorati della morte; mentre ci fanno fuori rendono lodi al loro Dio. Prenderanno le nostre donne, schiacceranno i nostri figli sotto i cingoli. Asfalteranno la nostra terra e la chiameranno pace. Sono gli americani. E noi... siamo i tedeschi?

Se Fury ha un merito, non è la tanto vantata accuratezza storica, che anzi lascia parecchio a desiderare; e nemmeno la pretesa di rendere la Seconda Guerra Mondiale l'inferno in terra che è stata (come molti horror della sua generazione, Fury si accontenta di esibire l'orrore invece che suscitarlo). Il vero risultato di Fury è aver portato un po' di relativismo storico in quella che è rimasta l'unica guerra buona: aver violato in punta di piedi il tabù per cui si può raccontare il Vietnam dalla parte dei vietcong, la Secessione dalla parte dei sudisti - ma la Seconda Guerra Mondiale non si discute, la Seconda Guerra Mondiale è il Bene contro il Male, fine. Non che Ayer tenti di raccontarla dalla parte dei nazisti; ma nel trasformarla in un videogioco rende per un attimo le parti intercambiabili. Brad "Wardaddy" Pitt è un americano che parla tedesco e avrebbe potuto nascere tedesco; odia i nazisti ma sa che sarebbe altrettanto incapace di arrendersi; di fronte a un intero plotone di SS-Waffen, si comporta come la più fanatica delle SS.

Fury arriva quasi vent'anni dopo il Soldato Ryan, dal cui confronto non riesce a sottrarsi. È una lotta impari, come quella tra un panzer Tiger e un carro Sherman: Spielberg aveva in mano un racconto solido, Ayer è partito dai carri armati, e tra una battaglia e l'altra non sa bene come gestire i suoi uomini. Se Fury fosse un film di serie B - se esistesse ancora, la serie B, come concetto cinematografico - sarebbe il primo del campionato, perché a suo modo è un film agile e solido. Ma l'idea che per realizzarlo Pitt, LaBeouf e compagnia si siano addestrati come veri carristi, e abbiano passato giorni interi a sudare, insultarsi e lasciarsi cicatrici in faccia, lascia perplessi. Questo è un film di idee povere, ma buone, che avrebbe dovuto essere realizzato al risparmio: attori scarsi e scazzati, tre location e pedalare. La precisione filologica, addirittura l'idea matta di far scendere un campo un vero Tiger I (che su quel fronte nell'aprile '45 era in realtà piuttosto raro), finisce per ottenere il risultato opposto: trasforma tutto in uno smagliante videogioco 3d. Anche perché Ayer non sa sottrarsi a una certa sintassi action, e prima di far esplodere le sue bare cingolate vuole mostrarle mentre si aggirano sul teatro delle operazioni in elaborati passi di danza. Ma se non si sono mai fatti molti film spettacolari sui duelli tra carri armati, forse c'è un motivo.

Quanto alla storia, sembra veramente buttata giù da un ragazzino traumatizzato dal Soldato Ryan (continua su +eventi!): non ne ha capito molto - forse era troppo piccolo - ma non riesce a non tornarci sopra, come chi soffre di stress post-traumatico. Addirittura c'è un artigliere (LaBeouf) che cita la Bibbia in continuazione, come il cecchino Clip. Spielberg però lo usava in senso ironico: il Dio che gli armava la mano, a un certo punto sembra cambiare partito. Ayer invece si lascia trascinare dalla suggestione biblica, dopo un po' comincia a mettere versetti in bocca anche a Brad Pitt e probabilmente non si rende conto che trasformare due rottami di guerra in due martiri che cantano Isaia può essere un po' discutibile. Spielberg aveva inventato un capitano carismatico dal passato misterioso, per poi rivelare che si trattava semplicemente di un maestro di scuola. Brad "Wardaddy" sbuca fuori dal nulla, è un maestro di vita dai modi assai più spicci: ti costringe a sparare e poi ti procura una donna per la notte. Come punto di vista, Spielberg aveva avuto l'idea originale di usare la matricola senza esperienza, evitando però il rischio di farne un film di formazione: Upham restava un codardo sino alla fine, quando sparava al nemico disarmato (al punto che il suo nome è diventato sinonimo di contendente imbelle). Ayer riprende l'idea e la declina nel modo più banale: il giovane dattilografo Norman (Logan Lerman) ha 24 ore di tempo per imparare a uccidere tedeschi, baciare tedesche e diventare un eroe. Spielberg rifletteva sull'eroismo, sul senso che può avere una singola vita in un conflitto mondiale. Ayer non riflette: non sapendo bene come si fa, preferisce gestire la questione su un piano bestiale che è semplicemente il più comodo: tu-ragazzo-impara-a-uccidere-o-muori.

Spielberg, soprattutto, non ha mai messo in bocca a un personaggio una massima così scema come "gli ideali sono pacifici, la realtà è violenta": una puttanata neocon che manda all'aria tutta la fedeltà storica e svela l'età del film meglio di un orologio da polso in un peplum - chi mai nel 1945, con l'Europa contesa tra Marx e Nietzsche, avrebbe osato parlare di "ideali pacifici"?

Fury è al Cityplex di Alba (19:45, 22:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 21:00, 22:45); all'Impero di Bra (20:00, 22:30); al Fiamma di Cuneo (21:00); ai Portici di Fossano (21:15); al Cinecittà di Savigliano (21:30)
Comments (5)

Il drago italiano è + buono, + sano

Permalink
Mangia solo drago italiano.
Il racconto dei racconti (Matteo Garrone, 2015)

C'era una volta un regista, seduto su un sofà, che non sapeva più che storia raccontare. Le conosco tutte, ahimè! diceva. Se solo potessi tornare bambino e rivederle con l'occhio di chi è appena venuto al mondo. Io so che c'è ancora quel bambino dentro me, ma non so da che parte tagliare per farlo venir fuori. E piangeva, e strepitava, e prometteva la luna e le stelle al mago che avesse saputo levare quel bambino da lui, scorticandolo se necessario. Finché un giorno non si presentò un signore magro magro, lungo lungo, con un vecchio libro polveroso, e gli disse: sfoglia qui, da qualche parte c'è il rimedio che tu cerchi.

"Ma è napoletano, non si capisce niente".
"Fatti scrivere un riassunto"

Del Racconto dei racconti avevo visto due trailer. Uno prima di Mia madre: sembrava una cosa tra Dune e Alien. Il secondo l'ho visto prima degli Avengers: sembrava Fantaghirò. A quel punto la mia naturale ritrosia per i draghi era stata vinta dalla curiosità: sarebbe riuscito Garrone a camminare su un filo tra due sponde tanto distanti? E da quale parte avrebbe sbandato più spesso? La risposto l'ho avuta dopo un paio di minuti di film: quando al termine di una fuga tra stupendi corridoi, un attore meravigliosamente agghindato da re ha aperto bocca e ha detto una cosa del tipo: "Farei qualsiasi cosa per farti felice".

Farei qualsiasi cosa per farti felice.

Era na vota no cierto re de Longa Pergola, chiammato Iannone, lo quale, avenno gran desederio de avere figlie, faceva pregare sempre li dei che facessero 'ntorzare la panza a la mogliere; e, perché se movessero a darele sto contiento, era tanto caritativo de li pellegrine, che le dava pe fi' a le visole. Ma vedenno all'utemo che le cose ievano a luongo e non c'era termene de 'ncriare na sporchia, serraie la porta a martiello e tirava de valestra a chi 'nce accostava.

Però bisogna avere perso il cuore da qualche parte nella foresta, e aver riempito il buco con un riccio di castagna, per parlar male del Racconto dei racconti; e di un regista che invece di oziare a palazzo raccontando per altri dodici film storie di mala e di uomini contemporanei psicotici e infelici, bevendosi la stima di villici e cortigiani, monta a cavallo ed esce nel bosco. È sicuro che si perderà; che non sarà all'altezza dei mostri che evoca; che maghi e criticoni non saranno necessariamente dalla sua parte; ma perdio, è un giovane cavaliere coraggioso, come si fa a volergli male? Ed è un coraggio di cui tutti abbiamo bisogno; non è la sventatezza criminale di chi senza cultura fumettistica decide di punto in bianco di inventarsi un supereroe italiano, una cosa che se non è mai esistita un motivo ci sarà. È l'audacia di chi ha un tesoro da parte, e deve soltanto trovare il modo di metterlo a frutto. Chi ha mai deciso che il cinema italiano debba ridursi a commedie di quarantenni e drammi su sessantenni che imprevedibilmente invecchiano? Mentre i nostri ragazzi, in tv e al cinema, si consegnano senza fiatare ai mostri e alle fate venuti da lontano? Non abbiamo mostri noi, solo nonni e genitori in tinello?

Altroché se li abbiamo. Abbiamo gli orchi DOP e abbiamo le fate originali. Pure Cenerentola è cosa nostra, salvo che la nostra spezzava la noce del collo a una matrigna col coperchio d'una cassapanca, altro che topolini e cinguettii. Sepolto sotto tonnellate di melassa industriale c'è un mondo di mostri e magia e crudeltà che mozzano il fiato, una vena più barocca che gotica, ma è comunque sangue buono. Basta scavare, e non avere paura - non averne troppa. Le stelle sono favorevoli: in tv i draghi vanno forte anche presso il pubblico esigente; al cinema Hollywood propone fate e principesse a spron battente, problematizzate e modernizzate quanto basta per metter d'accordo le sorelle pre e postpuberi. Se a questa gente riuscissimo a confezionare un film di fiabe, attenzione, non un fantasy che non è roba nostra: un vero film di fiabe violente e senza consolazione, forse attireremmo l'attenzione di chi mangia pizze surgelate da una vita e non ha mai annusato l'origano su una focaccia appena levata da un forno a legna. Con l'industria non potremo mai rivaleggiare, ma se riusciamo a raccontare a tutto il mondo che siamo gli Artigiani originali, siamo l'Eccellenza, insomma la vecchia fiaba del Made in Italy, forse, forse (continua su +eventi...)

S’erano raccorete drinto a no giardino dove avea l’affacciata lo re de Rocca Forte doi vecchiarelle, ch’erano lo reassunto de le desgrazie, lo protacuollo de li scurce, lo libro maggiore de la bruttezza. Le quale avevano le zervole scigliate e ’ngrifate, la fronte ’ncrespata e vrognolosa, le ciglia storcigliate e restolose, le parpetole chiantute ed a pennericolo, l’uocchie guize e scalcagnate, la faccie gialloteca ed arrappata, la vocca squacquarata e storcellata e, ’nsomma, la varvea d’annecchia, lo pietto peluso, le spalle co la contrapanzetta, le braccia arronchiate, le gamme sciancate e scioffate e li piede a crocco…

E magari funzionerà. Io lo spero tanto che funzioni, perché l’idea era quella giusta al momento giusto: e il rischio di sbagliare altissimo, anzi neppure un rischio era, una certezza: Garrone e i suoi secondi si sono messi in strada sapendo che l’unica speranza era trovare per strada un tesoro, un mago, una strega che premiasse il loro buon cuore. Ma è gente che vuole qualcosa in cambio, chi bazzica le fiabe vere lo fa. Nessuna zucca ti si fa carrozza gratis; puoi avere un miracolo, ma devi sacrificare qualcosa. Era inevitabile che a farne le spese fosse il testo originale, Lo cunto de li cunti, che oltre a essere la prima raccolta di fiabe di valore letterario, è una straordinario, caotico dizionario di napoletano cortese e popolano. Garrone, in altri casi tanto rispettoso per le forme del vernacolo, forse timoroso che i dialoghi troppo coloriti distraessero l’attenzione dalla fotografia e dagli effetti speciali, non ha avuto pietà: ha fatto scorticare lo Cunto finché dalle spoglie sanguinanti del Tratteniemento de peccerille non è uscito The Tale of Tales: un montaggio di tre fiabe senza tempo e senza luogo, e soprattutto senza dialetto.

Vladimir Propp magari approverebbe: in fondo, a saperle sfogliare, tutte le fiabe sono uguali. Sì, ma all’omologazione, alla globalizzazione, alla riduzione della fiaba in hamburger buono per ogni palato, c’è arrivata già Hollywood: The Tale of Tales è un prodotto artigianale che nella comprensibile ansia di piacere a più bocche possibile, elimina una delle spezie più importanti, lasciando nello spettatore un certo senso di vuoto; è un libro illustrato meraviglioso e a tratti spaventevole, che ricorda davvero Alien o Dune, ma coi dialoghi di Fantaghirò. È un film che dimostra per contrasto – se ce ne fosse bisogno – l’astuzia messa in campo da Pasolini nella trilogia della vita: quando si tratta di fiabe e novelle, un attore dilettante a un passo dal mettersi a ridere può rendere più servizio di un attore professionista che si ingegni di dare peso e verosimiglianza a dialoghi assurdi. C’è un momento del film in cui un re cerca di convincere la figlia dell’ineluttabilità delle sue nozze con un orco. Una scena così grottesca non si può recitare come un qualsiasi diverbio tra padre e figlia; e non basta il panorama unico al mondo di Castel del Monte per creare lo straniamento necessario. Una lingua un po’ più fiorita, un po’ più distante dall’uso, avrebbe attenuato l’effetto Raifiction. Non era evidentemente la priorità di regista e produttori.

«Dove, dove te nascunne, gioiello, sfuorgio, isce bello de lo munno? Iesce, iesce sole, scagliente ’mparatore! Scuo­pre sse belle grazie, mostra sse locernelle de la poteca d’Ammore, caccia ssa catarozzola, banco accorzato de li contante de la bellezza! Non essere accossì scarzogna de la vista toia! Apre le porte a povero farcone! Famme la ’nferta si me la vuoi fare! Lassame vedere lo stromiento da dove esce ssa bella voce! Fà che vea la campana da la quale se forma lo ’ntinno! Famme pigliare na vista de ss’auciello! Non consentire che, pecora de Ponto, me pasca de nascienzo co negareme lo mirare e contemprare ssa bellezzetudene cosa!».

Il Racconto dei racconti finisce per confermare un terribile sospetto sui limiti del cinema italiano contemporaneo. Non sono gli effetti speciali – lì ci difendiamo ancora tutto sommato. Non è sicuramente la fotografia. L’unica vera zavorra del Racconto – e di tanti altri film italiani di ogni genere – è la scrittura. Proprio quella cosa che non richiede budget stratosferici; quello che dovrebbe fare la differenza tra un prodotto di massa globalizzato e un prodotto artigianale e di qualità. In teoria dovremmo essere più bravi a scrivere dialoghi che ad animare dei draghi. Se avviene il contrario – e nel Racconto avviene il contrario – secondo me siamo nei guai.

Il racconto dei racconti è al Cityplex di Alba (21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 22:45); all’Impero di Bra (22:30); al Fiamma di Cuneo (21:00)

Comments (1)

Gira di notte e ti succhia l'anima

Permalink
Lo sciacallo (The Nightcrawler) Dan Gilroy, 2014


"Qualcuno una volta ha detto che non capisco le persone. La psicologia, insomma. Posso garantire che non è così. Io passo il tempo a capire le persone. Mi mescolo tra loro, osservo i loro comportamenti, ascolto i loro discorsi, e imparo. Non ho avuto un'istruzione convenzionale, ma imparo molto in fretta. So contrattare. Sono in grado comprendere rapidamente le attese del mio interlocutore, il che mi consente di calibrare con più efficacia i miei messaggi e ottenere in breve tempo quello che mi serve. Perciò è errato sostenere che non capisco le persone".

È solo che non mi piacciono.

Lo sciacallo è un alieno... (continua su +eventi!) Uno serio, intendo, non di quelli che dopo un po’ diventano sentimentali e si affezionano. Molto più credibile della Johansson in Under the Skin, Jake Gyllenhaal non solleva mai la maschera. La prima volta che lo vediamo sta rubando il rame in un cantiere, alla base della catena alimentare. Ma ha già quegli occhi finti che sembrano dipinti su palpebre chiuse. Non ha famiglia né origine; è rapido e spietato, si adatta alle situazioni e non si accontenta mai. Dal furto di oggetti a quello di immagini sul luogo del disastro, il passo è quasi logico. Ma parassitare le nostre peggiori abitudini mediatiche non gli basta: lui vuole andare oltre, mostrarci la via.

Qualcuno ha paragonato la prova di Gyllenhaal a quella di De Niro in Taxi Driver, e soprattutto in Re per una notte: la caricatura del self made man germinato dal nulla e disposto a qualunque cosa, strano fungo cresciuto una notte nella jungla sociale. Gyllenhaal purtroppo non può contare su una storia altrettanto buona: Dan Gilroy, al suo esordio in regia, si preoccupa forse eccessivamente che passi il messaggio polemico nei confronti del sensazionalismo della cronaca nera; in realtà mostra più talento per le scene d’azione (fantastici inseguimenti) che per la didascalia sociale. Il finale è un po’ ridondante, ma almeno non è il tipico finale hollywoodiano. Gli alieni sono in mezzo a noi, come noi, in certi casi siamo noi.

Lo sciacallo è al Cinema Aurora di Savigliano oggi 15 e domani 16/04/2015, alle 21:15. Buona visione!
Comments

È lunga la strada per Selma

Permalink
Selma (Ava DuVernay, 2014)

Il tuo maestro e modello ti fa salire nella sua macchina. Mentre guida a velocità di crociera ti spiega che non ne può più; che non è sicuro di quello che sta facendo; che per colpa sua anche stavolta qualche brava persona si farà male o verrà uccisa; che malgrado questo anche stavolta probabilmente non cambierà niente; e che quindi forse bisognerebbe ripensare tutta la strategia; ma ci vorrebbe del tempo; e quel tempo lui non l'ha, è troppo stanco.


E ti chiede come la pensi. Te lo ricordi immenso, quando eri un ragazzino nella folla che stava ad ascoltarlo: adesso è lì in macchina con te, ti apre il suo cuore e ti mostra che è marcio. Cosa facciamo adesso? Ti avanza un po' della fede che distribuiva ai vecchi tempi? Selma è stato salutato come un "film necessario". Purtroppo i film necessari non sono necessariamente buoni film. D'altro canto prima o poi qualcuno doveva spezzare l'incantesimo per cui la figura più importante della comunità afroamericana, l'uomo per cui si chiudono scuole e uffici ogni terzo lunedì di gennaio, non era ancora stato celebrato nelle sale cinematografiche. Ancora negli anni Novanta era paradossalmente più facile realizzare film su personaggi controversi come Malcolm X o le Pantere nere, piuttosto che mettere a fuoco l'uomo-immagine del movimento per i diritti civili. Evitare il taglio agiografico era impossibile, e forse lo è ancora.

A quasi sessant'anni di distanza Martin Luther King, jr continua a essere un simbolo più che un uomo. Anche in sede storiografica non si nota una grande esigenza di sottoporre il mito a una revisione; il peggio che si osa dire su di lui è che gli piacevano più donne di quante un reverendo sposato avrebbe dovuto permettersi, ma il biografo che ha osato definirlo un "donnaiolo" si è poi pentito, è stato frainteso, ecc.. E siccome il pubblico non sembra pronto (né negli USA né altrove) per un leader sessualmente esuberante, anche stavolta non lo vedremo rialzarsi in mutande da un letto non suo. È vero che telefonava a tarda notte a donne sposate (l'FBI aveva accesso ai tabulati), ma solo perché aveva bisogno di sentire un gospel dal vivo. L'adulterio è ammesso, ma non esibito - d'altronde è così importante? In un certo senso sì, uno degli aspetti della grandezza di MLK è proprio il fatto che sopravvisse ai ricatti dell'FBI di Hoover che credeva di poterlo inchiodare alle sue scappatelle sessuali. Il reverendo impersonato da Daniel Oyelowo di fronte alla moglie non nega e non si difende: assume la sua smorfia contrita d'ordinanza e va avanti. Lo stato disastrato del suo matrimonio non è che una tra tante ragioni di frustrazione. È un MLK perennemente imbronciato, insicuro, disilluso, ed è probabilmente l'unico MLK umano che Ava DuVernay poteva permettersi di mettere su pellicola. Di un MLK più machiavellico, che di concerto con Lyndon Johnson manda freddamente bambini e anziane signore in prima linea contro i peggiori sceriffi dell'Alabama - e nel frattempo combina anche qualche festicciola in albergo - per ora nessuno sente l'esigenza.


È un film necessario, si diceva; una certa gravitas era indispensabile, ancorché un po' soporifera; più che al botteghino Oprah Winfrey, Brad Pitt e gli altri produttori guardavano alle scuole che lo proietteranno intensamente nella seconda settimana di gennaio. Ma è proprio qui che Selma delude, ed è un peccato... (continua su +eventi!) perché tutto sommato offre un buon ragguaglio sulle tecniche di non-violenza, e sui sacrifici che comportano (non a caso gran parte dei leader sono ministri di culto: del resto se il tuo metodo di lotta implica la possibilità di ritrovarti inerme davanti a poliziotti armati e fanatici razzisti, la fede in una trascendenza non è obbligatoria ma può aiutare). Il guaio è che Selma regge la prova ferro-da-stiro, ovvero è un film che si può tranquillamente guardare mentre si è in tutt’altro affaccendati, senza perdersi nessuno snodo fondamentale. Al massimo qualche primo piano di Oyelowo corrucciato, o di Carmen Ejogo corrucciata, o Tom Wilkinson perplesso (fa il presidente Johnson, e il film a quanto pare non gli rende onore) o Tim Roth governatore cattivo.

Il film ha il torto di dare per scontata l’attenzione del pubblico, dopo un paio di scene madri iniziali di fronte alle quali commuoversi è obbligatorio. Parlo da insegnante: un film del genere non lo proietterei in un’aula magna: se passa la prova ferro-da-stiro, passa anche la prova smartphone. Per parlare degli stessi argomenti ricorrerò a Mississippi Burning, che ormai ha trent’anni ma almeno offre una chiave per decifrare l’odio di quei razzisti che in Selma sono raffigurati più o meno come orchetti di Tolkien, senza storia né psicologia; oppure li fregherò con Alì, che col pretesto dell’epica sportiva racconta di Emmett Till e dei musulmani neri; e integrerò con qualche scena di Amistade da calcio nello stomaco – quel tipo di calci che i ragazzini sanno apprezzare. Niente di personale: ma se Selma mi ha un po’ annoiato, figuratevi i miei studenti.
Comments

A Tom Hardy non gli tocchi il cane

Permalink
Chi è senza colpa (Michaël Roskam, 2014)


Un cane è una grossa responsabilità, Bob Saginowski non è sicuro di volerne uno. Ha già i suoi casini con il cugino ex gangster che non riesce a tirare i remi in barca, la mafia cecena che gli ha rilevato il bar e lo usa come copertura, un detective che non ha niente di meglio che stargli addosso, e il diavolo che ogni mattina gli ricorda che nessuno è senza colpa, e lui in particolare. Se a tutto questo aggiungi un cane a cui insegnare dove fare i bisogni, un cane da sfamare tutti i giorni, un cane da difendere dallo psicopatico che lo ha ficcato in un bidone della spazzatura e ora vuole riprenderselo, insomma Bob Saginowski non è sicuro di essere pronto. È un passo importante.

La locandina di The drop si gioca la carta di Dennis Lehane, caso esemplare di autore noir conosciuto meno per i suoi libri che per le versioni cinematografiche che hanno ispirato. Mystic River, Gone Baby Gone; persino Shutter Island lasciava intravedere tra gli sbraghi di sceneggiatura la consistenza dell'intreccio originale. The drop conferma la qualità del narratore, ma ha il respiro più corto: non è tratto da un romanzo ma da un racconto, e si nota. È una piccola storia che Roskam sposta da Boston a Brooklyn ma che avrebbe funzionato anche a Scampia, Marsiglia, o in qualsiasi quartiere difficile in cui le grandi catene di distribuzione del narcotraffico hanno soppiantato le buone vecchie piccole gang radicate nel territorio (continua su +eventi!)

Senza preoccuparsi di muoversi tra i più frequentati luoghi comuni del genere, il regista belga Roskam (Bullhead) manda avanti il film con una certa scioltezza, inciampando due o tre volte in scelte discutibili ma mantenendo la tensione alta fino alla risoluzione finale, prevedibile ma godibilissima. Gran parte del merito va ovviamente agli attori, ma chi entra in sala per dare l'ultimo saluto al grande Gandolfini dovrà rassegnarsi a vederlo relegato in un ruolo da comprimario, reso con la sicurezza di un caratterista di eccezione. Più a fuoco è un Tom Hardy imbambolato, che si aggira bofonchiando per i set con un'andatura da soggetto borderline. È bravissimo, anche se un po' troppo bello e giovane per essere davvero in parte (tra lui e il "cugino" Gandolfini ci sono quasi vent'anni). Noomi Rapace porta anche stavolta sulla pelle i segni di un passato difficile, anche se qui è inverosimilmente retrocessa a damigella in pericolo. Matthias Schoenaerts, connazionale del regista, si ritrova un po' a caso nella parte dello stalker psicopatico e almeno decide di non calcare i toni. Chi è senza colpa è una bella storia che scivola via molto rapida, lasciando agli spettatori almeno una scena memorabile. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:45.
Comments

Sono stanco di leggere cazzate su Whiplash

Permalink
Whiplash (Damien Chazelle, 2014)

Altro che autostima, sette ottavi e pedalare.

"Hai fatto un buon lavoro". Quante volte te lo sei sentito dire. Quante volte ci hai creduto davvero? Dopotutto, se il tuo lavoro fosse così buono, non sarebbero così contenti. Comincerebbero ad aver paura di te - è pericoloso, chi sa fare un buon lavoro. Ma tu non ti preoccupare, perché hai fatto...  Un buon lavoro. La senti l'intonazione? La senti sul serio? E allora dimmi: ci senti invidia o condiscendenza? Un buon lavoro. Forse una sfumatura di gratitudine, perché il tuo non è un lavoro così buono dopotutto. È un lavoro passabile, un lavoro che non farà sfigurare i loro lavori mediocri. "Hai fatto un buon lavoro", che frase criminale. Quanti talenti ha sedotto e sviato. Tu non vuoi fare un buon lavoro. Tu puoi fare di meglio. Ma poi?

Quando in giro si è cominciato a parlare di Whiplash come di un gran bel film - e non c'è dubbio che lo sia - molti musicisti si sono premurati di informarci che il mondo della musica non è così atroce e competitivo, e soprattutto il jazz non è così - lo stesso Bird non veniva preso a piatti in testa se sbagliava un assolo, come racconta per giustificarsi il demoniaco maestro di musica del film. Era una polemica tutto sommato prevedibile, anche se già un po' surreale. Probabilmente anche ai tempi dello Squalo qualche ittiologo si sentì il dovere di scrivere ai giornali che i pescecani non attaccavano i motoscafi.

In Italia la discussione è scesa a livelli avvilenti. Goffredo Fofi su Internazionale lo ha definito "una favola per gonzi di destra", anche se ha ammesso che "tecnicamente, è un buon film". Però antipatico, perché racconterebbe "per l’ennesima volta la smaniosa logica americana della lotta per diventare qualcuno, per emergere, nella distinzione mostruosa che quella cultura fa tra winner e losers". È un'analisi un po' semplice: forse se per affrontare la cultura USA si deponesse ogni tanto il modellino "maggioritario e a tratti totalitario", e ci si addentrasse un po' nei dettagli, si potrebbe notare nel film lo scontro tra due concezioni educative: il cosiddetto "self-esteem movement", che ha portato le scuole americane a distribuire medagliette per ogni "buon lavoro" svolto, e il fantasma di un approccio diverso, militaresco e pseudo-darwiniano, che più che a scuola vediamo trionfare nei posti di lavoro e soprattutto nei talent show.

Che parlino di musica o di ristorazione, il motivo per cui guardiamo i talent è il motivo per cui ci siamo fatti ipnotizzare dal maestro di Whiplash: i professori sadici sono terribilmente sexy. Vederli tormentare le loro vittime è uno spettacolo per cui paghiamo decoder e biglietti di cinema. Forse ci piacciono proprio perché sono all'opposto dei nostri ex prof, empatici e condiscendenti, sempre pronti ad applaudire ogni nostro minimo sforzo. Noi poi abbiamo sempre la sensazione di non essere diventati quei personaggi di successo che i nostri maestri vedevano in noi, e a quel punto forse ce la prendiamo con loro, troppo buoni, troppo illusi, e rimpiangiamo di non avere avuto caporali che ci prendessero a ceffoni in pubblico. È un'ipotesi come un'altra.

In ogni caso, non c'è dubbio che certe società siano più competitive di altre: e se quella americana lo è, perché un film non dovrebbe raccontarla? Fofi però sembra non aver fatto caso al distacco critico con cui Chazelle guarda al protagonista del film e alla sua ossessione per la batteria. Un "winner"? Soltanto perché [spoiler] alla fine del film riesce a suonare davanti al pubblico un assolo di Buddy Rich, a portare a termine il suo numero da pappagallino ammaestrato? E poi che succederà? Nei film di "winner e losers", di solito parte la fanfara e il pugile suonato ma glorioso chiama il nome della moglie o fidanzata. Il batterista di Whiplash non ha la fidanzata, non ha un amico, ha un papà comprensivo che disprezza e un maestro stronzo che difficilmente lavorerà più con lui. Sul serio la sua è una success story? Sarebbe come prendere il caporale di Full Metal Jacket per un personaggio di propaganda... ah, ma Fofi lo fa.

"Il meccanismo è lo stesso dei film di guerra con il sergente cattivo e il soldato debole che grazie a lui si fa forte (e spietato) e “ce la fa”. Kubrick ne mostrò un prototipo in Full metal jacket".
Il film in cui il soldato debole [SPOILER!] si tira un colpo in testa prima ancora di arrivare al fronte, non prima di aver fatto fuori anche il sergente cattivo... uhm, forse Fofi ha preso un abbaglio. D'altronde capita ai migliori.

Proprio mentre sto archiviando Fofi, ecco piombare da Wired un articolo che definisce Whiplash, mettetevi seduti, "ideologicamente sbagliato".

Il tizio che scrive questa roba (“Sì perché alla fine, più che l’opera d’arte in sé, il raggiungimento della perfezione espressiva, sembra che il protagonista, il giovane batterista, abbia come obiettivo quello di essere il migliore e basta. E questa non è la pulsione di una personalità genuinamente ispirata quanto patologicamente ambiziosa“)… il tizio che scrive questa roba, dicevo, ha appuntato in petto la medaglietta di “Staff Editor della Sezione Idee” di Wired. Purtroppo essa non riesce a trattenere neanche un milligrammo del timore reverenziale che provo per il maestro Fofi, sicché la mia prima reazione sarebbe piantarmi davanti a questo Staff Editor e dirgli: ma cosa hai scritto, ma ti rendi conto? Nel 2015? “Ideologicamente sbagliato”? Sei un viaggiatore nel tempo? Una Guardia Rossa ibernata nel ’69 e scongelata in circostanze da chiarire? Lo sai cosa vuol dire ideologia? Credi che ce ne siano di giuste e di sbagliate? Sapresti definire la tua ideologia? Ammesso che tu ne sia in grado, pensi che al lettore medio di Wired fotta sega della tua ideologia? Eh? Eh?

Il problema è che la follia di Whiplash, come dicevo, non è sentita, ma parte di un prodotto ben confezionato e che alla fine lascia non dico delusi, ma freddi. Non aggiunge nulla, nel cuore dello spettatore, su quello che già sapeva della vita.

Grazie, ma basta cazzate adesso.

No, ma buon lavoro, davvero. Signor Staff Editor Sezione Idee, probabilmente della vita ne sai già troppo per farti insegnare qualcosa da Whiplash, però… ti aspettavi di uscire “caldo” dalla storia di un ragazzo che per suonare meglio di chiunque altro rinuncia agli affetti, al rispetto dei compagni, alla salute, a ogni altra cosa? Non ti ha assalito nemmeno per un istante il sospetto che il film non sia una success story ma la sua parodia? che il “freddo” di cui tu parli sia l’esatta sensazione che Chazelle voleva farti sentire, dopo averti fatto ascoltare e soffrire un monumentale, inutilissimo assolo di batteria di nove minuti? Ma a te piacciono gli assoli di batteria? Li ascolti mai? Non li ascolta nessuno. Secondo alcune teorie hanno inventato il tasto skip apposta. Questo è “l’opera d’arte in sé?” “il raggiungimento della perfezione espressiva”?

Whiplash non è un film particolarmente originale, ma ci si domanda se poteva essere migliore di così, come certe partiture di jazz dell’età dell’oro. Ha semplicemente il ritmo giusto; non c’è una nota messa lì senza un motivo, senza che prima o poi sia ripresa nel tema principale. Finché dura non esiste nient’altro: un attimo dopo cominci a pensare: ma cosa ho ascoltato? Non è un raccontino a tema, per quanto Fofi e i suoi allievi si arrangino a vederlo così. È un film che ti pone delle domande: sul serio vorresti un maestro che tirasse fuori la bestia che hai in te?  Sei sicuro che sarai felice, dopo? La risposta tocca a noi, ma non dobbiamo per forza portarcene una già pronta da casa. 
Whiplash si può finalmente vedere a Cuneo, alla Sala Lantieri, venerdì sabato e domenica alle 21. Speriamo che si senta bene. 

Comments (21)

Quando Hollywood riscrive la Storia (Oscar 2015)

Permalink
The Imitation Game, regia di Morten Tyldum. Oscar per la migliore sceneggiatura originale.

Più che un film a tesi, The Imitation Game è un film a suggestione: Alan Turing avrebbe passato il test di Turing? L'inventore del computer non era in un qualche modo un computer anch'esso, un "autistico ad alto funzionamento"? Dietro alla sua passione per la crittografia, non covava forse la frustrazione di non riuscire a decodificare i normali messaggi degli uomini? Tutto ciò che della biografia dello scienziato non si concilia con questa suggestione viene completamente eliminato o stravolto: persino la sua omosessualità, tema tutt'altro che marginale, è sacrificato in nome della necessità di trasformare Turing in un automa incapace di relazionarsi con gli umani. Gli autistici tendono a compensare la carenza di interlocutori inventandosi amici immaginari, e quindi Turing deve battezzare il computatore col nome del suo unico amico, “Cristopher” – non risulta da nessuna biografia, per tutti il computatore era noto col nome “The Bombe”. Non era un amico immaginario, né il perduto amore, né il figlio impossibile: era un progetto messo in piedi già dai servizi polacchi, che Turing riprese e reinterpretò genialmente. Nel frattempo seguì altri progetti, ma sui manuali c’è scritto che gli Asperger si concentrano soltanto su un progetto alla volta, e quindi l’esperienza di Turing alla base di Bletchley Park viene semplificata: addirittura esiste un solo computatore (in realtà ne vennero costruiti centinaia). La scena dell'illuminazione al pub è un classico esempio di come anche un buon biopic possa per esigenze drammatiche offendere l'intelligenza dei suoi spettatori: l'idea che Turing afferra in quell'occasione (bisogna trovare una frase ricorrente!) è in sostanza l'abc della crittografia.




La teoria del tutto, regia di James Marsh. Oscar al migliore attore protagonista (Eddie Redmayne)

Se The Imitation Game si sforza di trasformare un uomo in un calcolatore, La teoria del tutto può irritare per il motivo opposto: hai uno dei più grandi fisici teorici di tutti i tempi, e decidi di raccontarne solo la vita sentimentale? Per di più, affidandoti alla biografia di un'ex moglie - chi mai appalterebbe il proprio biopic a un'ex moglie? A Stephen Hawking è successo anche questo, e pare che il risultato gli sia persino piaciuto. Ci troviamo dunque davanti a un film accurato? No, pare di no. La teoria del tutto non solo preferisce alle equazioni i sentimenti, ma anche di questi ci dà una versione edulcorata, soprattutto ai danni di Jane (che è forse il motivo per cui Stephan ne è rimasto contento). Del tutto omessa è la carriera accademica di quest'ultima. Completamente stravolti, rispetto al testo, sia il primo incontro che l'episodio della riconciliazione finale.


Selma, regia di Ava DuVernay. Oscar alla miglior canzone (Glory).

Rispetto ad altri film degli ultimi anni, Selma sembra insolitamente fedele alla storia che racconta, anche a scapito della riuscita spettacolare. Raramente si era visto un leader così amletico e scoraggiato come il Martin Luther King di Oyelowo, proprio nel film che dovrebbe cantarne il coraggio e la determinazione. La principale critica che viene mossa agli sceneggiatori riguarda la figura del presidente Johnson, che da saggio politico bianco invano cerca di convincere MLK a un atteggiamento più prudente e attendista. Ai collaboratori di Johnson, neanche a farlo apposta, risulta il contrario: il presidente e MLK stavano lavorando assieme, anzi MLK organizzava le sue marce su diretta indicazione di Johnson. Resta il fatto che nel medesimo periodo la FBI stalkerava casa King con lettere e telefonate minatorie. Un'iniziativa di Hoover, o l'ordine partiva da più in alto? Può darsi che i tentennamenti del personaggio Johnson nascano da un'esigenza narrativa: è quasi l'unico uomo bianco del film dotato di una coscienza. Gli altri odiano senza nemmeno ricordare bene più il perché. Se non ci fosse Johnson, sospeso tra Hoover e MLK, non ci sarebbe un vero conflitto, un vero campo di battaglia.
Comments (10)

Il lungo e folle volo di Iñárritu

Permalink

Questa per esempio non si sarebbe potuta mai fare,
perché è troppo scura - non c'erano luci se non
quelle su Broadway
Birdman, o l'imprevedibile virtù dell'ignoranza (Alejandro González Iñárritu, 2014)

Ma guarda che cesso di posto. Chissà se qualcuno viene mai a spolverare questo buco di merda. Come siamo arrivati fin qui, Alejandro?
Noi non apparteniamo a questo posto. Perché non siamo a LA a bere ginger ale su un terrazzo mentre leggiamo copioni drammatici sui destini incrociati di persone qualsiasi? Cristo Alejandro, c'era una sola cosa al mondo che sapevi fare bene, e te la stai fottendo, lo sai vero? Ti stai fottendo la carriera, sapresti dirmi per cosa esattamente?
"Mr Iñárritu quando vuole uscire siamo pronti a girare".
Non ascoltarli. Lo sai che mentono. Non sono pronti e lo sai benissimo. Non saranno  mai pronti per questo film, perché questo film è impossibile da girare e tu lo sai, come lo so io. Chi ti credi di essere, alla fine?

 Non è che non apprezzi, è che la cosa meritava
 secondo me un maggiore approfondimento,
magari uno spin off, una serie tv in due o tre stagioni.
Senti, io ti conosco da così tanto tempo, e te lo devo proprio dire. Sono l'unico che ti vuole bene qui dentro. L'unico. Gli altri hanno paura di te, o sperano in te come un naufrago spera in un canotto anche se ha già visto che è forato. Ti diranno tutti che sta andando tutto bene, che il film funziona, che l'idea è geniale, e non è vero un cazzo. L'idea è irrealizzabile e loro hanno una paura fottuta di sbagliare. Il tuo protagonista non fa una parte importante da vent'anni, e anche a quel tempo usava una maschera. Ma almeno è riuscita a tenersela per un sequel. Sempre meglio di quello giovane, che non è più giovane da un pezzo, ed  riuscito a farsi cacciare a calci pure dall'universo cinematico Marvel, ti rendi conto? Sai cos'ha fatto di importante negli ultimi dieci anni? Il re lebbroso, anche lui rigorosamente mascherato. Lo capisci che sono fantasmi, vero? Gente di cui ci stiamo tutti dimenticando il volto? È con questa gente che ti stai riducendo a lavorare, Cristo, tu hai ancora il numero di Brad Pitt in rubrica e invece lavori con Naomi Watts. Sai cosa faceva Naomi Watts nell'ultimo suo film? La nonna. Ora dimmi di chi è l'idea di farle baciare Andrea Riseborough, la cosa più gratuita che ti ho mai visto girare - coraggio, dimmi che non l'hai fatto per il panico, per avere almeno qualcosa di stuzzicante da mettere nei trailer, dimmi che non hai piazzato un bacio lesbo inutile perché hai la paura fottuta che questo film non se lo guardino nemmeno i critici in copia di valutazione (continua su +eventi!)

Ma cosa c’è che non va, Alejandro? Con Biutiful hai incassato un quinto di Babel, sarà questo? Non ha nessuna importanza finché hai ancora un piede a Hollywood. Ma quel piede devi tenercelo sul serio. Devi fare le cose che sai fare, le cose che la gente si aspetta. Destini incrociati, montaggi serrati, la gente vuole il dramma ma soprattutto vuole saltare di scena in scena senza troppe menate. Sono bambini iperattivi, anche se si danno arie d’adulti. Si stancano subito, non lo vedi che a metà proiezione si mettono a twittare? Cosa pretendi da loro, un piano sequenza di due ore? chi cazzo ti credi di essere, Sokurov?



Signori qui se qualcuno sbaglia una battuta tocca rifare una ripresa di dieci minuti.

Perché non ti rassegni a mettere la maschera che ti sei fatto? La gente vuole quella. La gente ha bisogno di maschere, sono comode. Si riconoscono da lontano. Perché vuoi provare a fare cose che nessuno sa ancora come fare? Cosa ti porta verso il disastro esattamente? Non puoi accettare di essere Iñárritu, il regista messicano dallo stile abbastanza riconoscibile? Stai girando un film per chi, esattamente, qualche milione di palati raffinati in tutto il mondo la cui sola preoccupazione è dove andranno a mangiare dopo la proiezione? Credi che a qualcuno di loro gliene fotta realmente qualcosa di te? E diciamocelo in faccia, Alejandro, non lo fai per amore dell’arte. Lo fai perché vorresti essere nei manuali di Storia del cinema, vorresti essere davvero Qualcuno. Come se non ci fosse là fuori un mondo pieno di gente che lotta all’ultimo sangue per essere Qualcuno – ma per te nemmeno esistono. Accadono cose continuamente, in luoghi che tu sei fiero di ignorare, e in quei luoghi tu sei già stato completamente dimenticato. Stai facendo tutto questo perché l’idea di non importare più a nessuno ti spaventa a morte, come chiunque altro, e sai cosa? Hai ragione. Non importi più a nessuno. Non sei nemmeno qui. Non sei che un puntino minuscolo sull’ultimo foglio di carta igienica su cui è tratteggiata la storia dell’umanità. Se pensi che il tuo suicidio professionale sia uno spettacolo artisticamente rilevante, perché non vai davanti al tuo pubblico di figuranti e non ti spari direttamente un colpo in testa?

“Mr Iñárritu, mi ha sentito?”.
“Arrivo, arrivo”.
(Birdman era un film impossibile da fare, finché Iñárritu e tutti gli altri non lo ha fatto e adesso è uno dei più bei film degli ultimi anni, che vale assolutamente la pena di andare a guardare, stasera, al cinema Fiamma di Cuneo alle 21:10).
Comments

Il ragazzo inguardabile

Permalink
Il ragazzo invisibile (Gabriele Salvatores, 2014)

Michele Silenzi vorrebbe tanto fare il supereroe, ma non può permettersi un costume americano. Neanche cinese - è allergico all'acrilico. Non gli resta che l'opzione più disperata: sarà il primo supereroe italiano. Che tipo di supereroe? Invisibile, pensa. Mal che vada passerà inosservato. Michele non sa che la gente lo vede benissimo, ma preferisce guardare da un'altra parte...

È in missione per fregare le soluzioni delle verifiche di Mate dal cassetto della prof.

Questa settimana pensavo di scrivere qualcosa sul Ragazzo invisibile di Salvatores, prima che un film un'operazione commerciale coraggiosa ai limiti della spavalderia. Purtroppo Il Ragazzo era già scomparso dalle sale di Cuneo e provincia. Oggi è riapparso a Fassano, sennò bisogna salire a Moncalieri, ed è l'unica sala in tutta la provincia di Torino - nel capoluogo lo danno in altre due. Anche a Milano non è che la situazione sia molto più rosea. Il Ragazzo è uscito due settimane fa, a Natale, pigliandosi in pieno la botta di Big Hero 6, un film Disney-Marvel in 3d concepito più o meno per lo stesso pubblico. Com'è andata?

Siccome prima che di un film stiamo parlando di un'operazione commerciale coraggiosa (ai limiti dell'imprudenza), più che delle opinioni personali valgono i numeri. È un film costato otto milioni; in due settimane ne ha recuperati quattro, ma nelle sale comincia a latitare. Qualsiasi confronto con le altre pellicole italiane (tutte commedie più o meno panettonesche), o coi bluckbuster americani non ha senso: il Ragazzo correva da solo, in un campionato a parte. L'impressione personale - spassionata, addolorata, di un vecchio fan di Nirvana - è che questa corsa il Ragazzo la stia perdendo. Magari se fosse stato un buon film di supereroi fatti in casa, con pochi ma efficaci effetti speciali e tanto amore... alla fine sarebbe andato male comunque; ma il fatto che sia un compitino distratto, svolto svogliatamente da maestranze poco convinte, non aiuta.

Proprio perché si trattava di un'operazione coraggiosa ai limiti della follia (infilarsi una calzamaglia e sperare che i ragazzini ti prendano sul serio), nell'esecuzione ci si sarebbe aspettato di vedere all'opera tutto questo coraggio, tutta questa follia. Se hai davvero deciso di fare un film di supereroi; se hai deciso di lottare contro la Marvel e la Warner per il cuore dei ragazzini, sai dal principio che le possibilità di vincere sono nulle; ma anche che se solo riuscirai a segnare un punto - un punto solo, come Bud Spencer in Bulldozer - sarà una cosa epica, da raccontare ai nipoti. Il Ragazzo quel punto non lo segna, il che era prevedibile; ma il guaio è che nemmeno ci prova. Nirvana almeno ci provava - certo il cyberpunk era un filone più congeniale al regista. Il Ragazzo gioca in difesa tutto il tempo sperando di ridurre i danni, invano. È davvero un ragazzino finito per imprudenza in un mondo molto più grande di lui, persuaso in qualche modo che un costume aderente e un superpotere gli sarebbero stati sufficienti per avere una chance.

"Però che fotografia!"
Servirebbero invece trucchi, armi segrete, e non ne abbiamo. Certo, l'effettistica hollywoodiana non possiamo permettercela, ma se ci impegnassimo potremmo isolare singoli aspetti di un genere codificato negli USA ed esagerarli fino al grottesco - come fecero con risultati straordinari, in tempi ormai lontani, Leone o Bava. Un esempio più contemporaneo è Luc Besson che pestando a tavoletta il pedale della tamarraggine è riuscito a creare l'EuropaCorp, una macchina da euro che ultimamente riesce a succhiare persino i dollari degli spettatori americani. Purtroppo Salvatores non è Besson, non ci tende e non ci tese mai. Non fa action, non ci ha nemmeno mai provato. Quando Besson girava le soggettive delle pallottole lui faceva sparare in aria Silvio Orlando in Sud: riuscite a immaginare film più diversi? Più o meno la differenza tra un rapper gangsta e un alternativo del Leonkavallo; ognuno ha i suoi gusti, ma a chi dei due fareste girare il vostro film di superoeroi?


Un'altra possibilità era trovare una storia originale. Qualcosa che gli americani ancora non hanno e che in seguito ti copieranno, così come copiano noir svedesi, horror norvegesi, manga dal Giappone.  Purtroppo il Ragazzo va esattamente nella strada opposta, verso un cinema di serie B superderivativo (che se fosse davvero di serie B e non costasse i milioni farebbe simpatia) adottando con rassegnazione più che entusiasmo il canovaccio tipico di ogni racconto di formazione supereroistica da Stan Lee in poi, con un uso delle citazioni esibito, bonelliano. Tanto valeva bussare direttamente alla Bonelli Editore e chiedere se qualcuno per caso non avesse una storia già pronta, e migliore - se di solito i supereroi ci collaudano per decenni sulla carta prima di passare alla pellicola, forse c'è un motivo. Dico Bonelli perché è la principale industria dei sogni italiana, assolutamente autoctona, e sta reggendo quasi da sola una crisi infinita continuando a vantare numeri paragonabili a quelli degli omologhi americani. Non è certo roba raffinata, ma se si cercava qualche artigiano in grado di buttar giù dialoghi credibili bisognava cercarlo lì.

Invece gli sceneggiatori del film – neanche gli ultimi arrivati, purtroppo – si trovano più volte nell’evidente imbarazzo di non sapere cosa mettere in bocca ai loro personaggi. Sono quei momenti in cui la citazione non è più una strizzata d’occhio, ma l’ancora di salvataggio per tirarsi fuori da vuoti improvvisi di idee: come facciamo a rendere il panico di Michele durante la festa in maschera? Boh, come farebbe un ragazzino in quella situazione? E chi lo sa, chi li ha mai visti i ragazzini. Buttiamo lì una scena di Shining, i genitori capiranno e i bambini magari si spaventeranno (il film di Kubrick ritorna pigramente almeno un paio di volte: del resto alla festa in maschera delle medie della classe ’00 non c’è un solo mostro che un cinquantenne non riconosca al volo).  
Salvatores gli vuol bene teneramente a quel personaggio come fosse il suo figlioletto: ”guarda quant’è adorabile quando diventa invisibile” (Jackie Lang)

Terrorizzati dall’idea di osare qualche effetto speciale in più, gli autori scelgono il superpotere meno spettacolare per definizione – l’invisibilità – nonostante costituisca un problema non da poco per la messa in scena (un problema a cui Salvatores non trova una soluzione coerente: a volte ce lo mostra anche se è invisibile, a volte no). L’invisibilità si presta poi a tante scipite metafore con la condizione giovanile… ecco, questa poteva essere un’idea: ma è stata immediatamente smarrita per strada. Michele non è il classico ragazzino invisibile che si aggira tra scuola e famiglia senza che nessuno lo noti o ne intuisca le potenzialità. L’esatto contrario: la madre lo cerca dappertutto, a scuola i bulli lo prendono di mira: che non è evidentemente il problema di chi si sente invisibile. A casa è servito e riverito, la mamma lo marca stretto, è naturalmente la migliore del mondo e ha sempre tempo e cinquanta euro per lui (sul paternalismo dominante si è espresso già Jackie Lang sui 400 Calci; siamo davanti a un film per ragazzini che non ha nemmeno il coraggio di prendere un po’ in giro i genitori).Con la scusa che è introverso, Michele tace il più del tempo e non fa nessuno sforzo di sembrarci simpatico – nei fatti non lo è. Non solo ha le tipiche reazioni esagerate dei teenager cinematografici italiani (“MI HAI LAVATO IL COSTUME NON SEI LA MIA VERA MADRE TI ODIOOOOOOOH!“), ma ha un maggiordomo Alfred che è una bambina di otto anni, non proprio l’ideale come spalla comica: del resto non è la sola a esprimersi per didascalie (“Sei-un-supereroe”, “Devi-dire-la-verità-alla-ragazza”). Completamente ignorata la lezione dei migliori film Marvel, dove tra una sequenza action e l’altra il ritmo è quello sincopato delle commedie e tutti un sacco di cose da dirsi. Neanche i superpoteri renderanno Michele umanamente migliore: quel che riesce a scoprire sui suoi compagni non lo induce a farseli amici, ma a scavalcarli con supponenza sbattendo loro in faccia i problemi più intimi; del resto chi ha bisogno di amici quando può conquistarsi la ragazza coi risultati (rubati!) della verifica di matematica. Insomma pare che dai grandi poteri derivino grandi opportunità di circuire il prossimo: il che fa davvero di Michele il primo supereroe italiano – ma speriamo anche l’ultimo.

Ora se voi pensate che i ragazzini si bevano una roba del genere perché tanto sono ragazzini, magari con la scusa della difesa dell’italianità, temo che abbiate frainteso la situazione. I ragazzini non sono il vostro parco buoi – ovvero, probabilmente puoi fregarli su tante cose, ma sui film di supereroi no. Ci sono cresciuti in mezzo – sono nati quando Sam Raimi reinventava Spiderman – e se li sono visti tutti, presto o tardi, in dvd o in streaming. Può darsi che non capiscano nulla di politica e di musica e di sentimenti, ma quando si arriva a parlare di supereroi e superproblemi sono dei cazzutissimi esperti, dei sommelier; non puoi annacquare aceto in una damigiana e raccontare che è il migliore spumante italiano, un’eccellenza slow food da difendere. Se davvero lo fai, sei coraggioso oltre i limiti della onestà.


Il ragazzo invisibile a Cuneo e provincia è quasi scomparso. Qualcuno dice di averlo visto ai Portici di Fossano verso le 20:30.
Comments

Turing: uomo o computer?

Permalink
The Imitation Game (Morten Tyldum)


Se proprio vogliamo giocare a trovare una data, potrebbe essere il 1994. L'anno in cui Alan Turing - morto da 40, forse suicida - cessò di essere considerato malato perché aveva rapporti sessuali con persone del suo sesso e cominciò a essere considerato malato perché divideva la verdura nel piatto a seconda del colore, o non comprendeva l'intonazione ironica delle domande dei colleghi. Nel 1994 usciva la quarta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV), il primo in cui l'omosessualità non era più considerata una malattia, nemmeno nella sua variante ego-distonica. Proprio nella stessa edizione compariva per la prima volta il nome di una sindrome dello spettro autistico destinata ad avere un certo successo nella pubblicistica e nella narrativa: Asperger.

Più o meno in quel periodo dagli archivi del Regno Unito cominciavano a uscire i documenti de-secretati che mettevano a fuoco il ruolo cruciale di Turing nel progettare l'enorme "computatore" che aveva consentito agli Alleati di decifrare i messaggi radio nazisti e vincere la Seconda Guerra Mondiale. Incidentalmente, era lo stesso momento in cui tutti cominciavamo a comprarci un computatore domestico, molto più potente e leggero della bestia preistorica che aveva vinto la guerra, ma pur sempre una Macchina di Turing. È da metà anni Novanta che il prima semisconosciuto Alan Turing è diventato uno degli eroi che hanno plasmato il  mondo in cui viviamo: non più suicida perché depravato, ma martire di un osceno perbenismo. È una buona storia (o "narrazione", come si dice adesso), e non ha veramente nulla che non vada: Turing non ha proprio vinto la guerra da solo, come il film di Tyldum ci suggerisce, ma ha dato un contributo importante; e se ci toccasse per esigenze scolastiche o divulgative eleggere un "inventore del computer", nessun nome ci sembrerebbe più giusto del suo - specie se l'alternativa vulgata è Steve Jobs.

Però è pur sempre una storia. È semplificata, drammatizzata, distorta quanto basta per poterla disporre su un arco narrativo, di quelli che ci piace ammirare in un buon film nel 2015. È soprattutto una storia che ci raccontiamo adesso, e che tra vent'anni potrebbe non reggere più - l'Asperger potrebbe uscire dal DSM proprio come ne uscì l'omosessualità vent'anni fa, e le difficoltà sociali di Turing potrebbero tornare a essere interpretate come le vedevano molti dei suoi contemporanei: stravaganze più o meno tollerabili di uno scienziato molto concentrato nel suo lavoro. Quel giorno il film di Tyldum sarà visto con la stessa divertita perplessità con cui a volte diamo un'occhiata a vecchi film in cui gli omosessuali sono sempre freak disperati: davvero occorreva insistere sull'innocua mania di dividere le verdure, sugli scherzi dei compagni di scuola, o su una presunta sociopatia pure smentita da altre testimonianze?

In futuro rideremo anche della convenzione cinematografica per cui l'unica matematica del gruppo dev'essere per forza una strafìca.

Turing ebbe grandi amici, anche quando lavorava per i Servizi inglesi; ma gli Asperger fanno fatica a farseli, e quindi per buona parte del film deve diventare un nerd insensibile. Gli Asperger tendono a compensare la carenza di interlocutori inventandosi amici immaginari, e quindi Turing deve battezzare il computatore col nome del suo unico amico, "Cristopher" - non risulta da nessuna biografia, per tutti il computatore era noto col nome "The Bombe". Non era un amico immaginario, né il perduto amore, né il figlio impossibile: queste sono tutte storie che ci raccontiamo. Era un progetto messo in piedi già dai servizi polacchi, che Turing riprese e reinterpretò genialmente, anche quando i nazisti cambiarono sistema e dovette ricominciare tutto da capo. Nel frattempo seguì altri progetti, ma sui manuali c'è scritto che gli Asperger si concentrano soltanto su un progetto alla volta, e quindi l'esperienza di Turing alla base di Bletchley Park viene semplificata: addirittura esiste un solo computatore (ne vennero costruiti centinaia).

La necessità di trasformare la biografia di Turing in un caso di Asperger da manuale passa sopra qualsiasi esigenza, perfino quella di farne un martire gay; forse perché i manuali non individuano nessuna correlazione tra omosessualità e autismo, e quindi la doppia vita dello scienziato esce quasi del tutto dall’obiettivo. È la causa più probabile della sua tragica morte, eppure non c’è spazio in tutto il film non dico per una puntatina in un locale equivoco, un bacio, un abbraccio, ma nemmeno uno sguardo che tradisca desiderio; solo nei flashback dei tempi di Cambridge è consentito al giovane collegiale di avere una vita sentimentale. Poi basta perché sui manuali gli Asperger non ne hanno quasi mai. Solo l’amica fidanzata-schermo, perché è pur sempre un film e un posto per Keira Knightley bisogna trovarlo (ne vale anche la pena, diciamolo).

La narrativa ‘aspergeriana’ si ritrova a disagio con certi dettagli (anche il suicidio è solo un titolo in sovraimpressione) e ne cancella altri su cui avevano fantasticato i biografi più sensibili alle tematiche omo: scompare del tutto così la leggenda della “mela di Biancaneve”, secondo cui Turing, appassionato in modo ossessivo del film di Disney, avrebbe deciso di suicidarsi iniettando il cianuro in una mela. Tutto quel che si sa davvero è che c’erano i resti di una mela in cucina, ma Turing ne mangiava una al giorno. Però immaginate che spunto incredibile per un film: lo scienziato già brillante che contempla il suo corpo trasformato dalla castrazione chimica, il seno che gli sta crescendo, Specchio, Specchio delle mie brame… No, niente da fare, è una cosa per niente Asperger. Non c’è spazio nemmeno per le derive complottarde (Turing era al corrente di segreti di guerra), eppure le circostanze del suicidio non sono del tutto chiare (forse l’ingestione o inalazione del cianuro fu del tutto incidentale). C’è spazio per una sola ipotesi portante: Turing ha inventato la Macchina perché sin da bambino non era in grado di comunicare coi suoi simili.

Il Turing di Cumberbatch (bravissimo, va da sé) non sarebbe che l’ennesimo supereroe con superproblemi della stagione cinematografica. Lui solo può decidere quali battaglie vincere e quali perdere, perché non prova le emozioni dei normali mortali; un suo collega lo supplica di salvare il fratello nel mirino dei tedeschi (storia completamente inventata), lui non può. Non capisce il dramma dell’individuo, solo la statistica. La sua reazione alla violenza non è istintiva, ma mediata da un ragionamento, perché così fanno gli Asperger sui manuali, e pur di mostrarlo ci inventiamo la scena in cui un collega gli rompe il naso e lui continua la lezione. Questo film, che ha l’ambizione di presentarsi come un enorme test di Turing (Era un Uomo o un Calcolatore?) in realtà contiene in sé la risposta e il suo corollario: se fosse stato solo umano la guerra l’avrebbe persa. Per fortuna che il Messia dei Computatori si è fatto provvisoriamente uomo per darci la luce, il suo figlio Cristopher, padre di tutti gli ammennicoli digitali che abbiamo in casa. Fidiamoci di loro. Non capiscono le nostre battute, a volte si piantano e sono davvero irritanti – ma sono la nostra unica speranza contro il caos là fuori, in tutte le battaglie e i bombardamenti che ci aspettano.

The Imitation Game è al Cityplex di Alba (17:00, 19:30, 22:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:40, 20:15, 22:40); al Vittoria di Bra (21:15); all’Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). Buona visione e buon Anno!
Comments (2)

E ora due ore di citofoni, also starring Marion Cotillard

Permalink

Due ore con quella faccia. 
Due giorni, una notte (Deux jours, une nuit), di Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2014.

"E col lavoro come va?"
"Mah, tira una brutta aria, bisogna stare attenti..."
"E i film a Cuneo li recensisci ancora?"
"Finché dura..."
"Ti suona il telefono".
"Sì, lascialo squillare, sono dei belgi che mi tartassano perché..."
"C'è scritto JEANPLUC. Chi è JEANPLUC?"
"...all'ultimo comitato Recensori Cazzoni dovevamo decidere quale grande regista sociale degli anni Novanta degradare a trombone, e così..."
"Aspetta. Jeanpluc sarebbero i Dardenne? Jean-Pierre e Luc Dardenne?"
"È da venerdì che mi chiamano, io non so proprio cosa dire, insomma, abbiamo votato in quindici..."
"Hai votato contro i Dardenne? Tu?"
"Non è una cosa di cui vada particolarmente fiero, ma..."
"Ma tu non capisci un cazzo di cinema, lo sai, vero?"
"È probabile, però l'hai visto l'ultimo?"
"Non ancora".
"È un film di citofoni".
"Di che?"
"C'è una tizia che nel fine settimana deve contattare tot colleghi e convincerli a rinunciare a un bonus di mille euro. Se decidono di tenersi il bonus, lei perde il posto".
"Ah, sì, avevo letto, è uno spunto geniale".
"Ma infatti poteva uscirci un film pieno di umanità".
"Non è uscito un film pieno di umanità?"
"È uscito un film di citofoni. C'è la Cotillard che va di citofono in citofono..."
"Scommetto che è bravissima".
"Bravissima, non è da tutti discutere con citofoni per due ore. Aggiungi che i modelli standard della Vallonia sono particolarmente brutti, c'è un tastino bianco e poco più, e anche l'arredo urbano è generalmente squallido - ma questo se conosci i Dardenne lo sai già".
"Marciapiedi sbeccati?"
"Muri a secco, aiuole steppose, le solite cose. E insomma la Cotillard va in giro sui marciapiedi sbeccati a spiegare la cosa ai citofoni. A volte le aprono altre volte no. Ogni collega è diverso, qualcuno piange, qualcuno diventa violento, ma il punto è che la Cotillard deve spiegare a tutti la situazione: se lunedì voti per il bonus io perdo il posto. Lo spiega credo dodici volte. Ogni volta suona il citofono, chiama, spiega la questione, poi c'è un po' di gelido imbarazzo, poi lei dice che le dispiace e che non spetta a lei decidere... dodici volte".
"E poi?"
"Poi votano e finisce il film".
"Finale a sorpresa?"
"Un po', ma non è questo il punto. Il punto è che ci arrivano dopo centotrenta minuti. Centotrenta minuti di citofoni. O di attori non molto più espressivi di un citofono".
"E che t'aspettavi? Esplosioni? Combattimenti? È un film dei Dardenne".
"M'aspettavo banalmente un fine settimana un pelo più eccitante dei miei. Sai, quella vecchia regola per cui se la tua vita è più interessante di quella dei personaggi che vedi al cinema, non ha molto senso andarci".
"È la vita, la vita è arida e scorre tra muri a secco e su marciapiedi sbrecciati. Come Rosetta..."
"Come Rosetta, appunto".
"Gran film".
"Vero, ma sono passati, quanti? Quindici anni? E siamo ancora alle ragazze valloni abbarbicate ai loro posti di lavoro come cozze".
"Vorresti che cambiassero argomenti? Dinosauri, astronavi? La crisi dell'occupazione non t'interessa più?"
"M'interessa, m'interessa. Ma... (continua su +eventi!) si poteva fare in 40 minuti".
"Non capisci un cazzo di cinema".
"Poteva almeno spiegarci cosa fa di mestiere, questa qui. Due ore e un quarto e manco si capisce che lavoro facciano esattamente, è davvero realismo? È un realismo molto più astratto di quel che vorrebbe essere. Poteva usare più i bambini, farci commuovere".
"Quanto sei banale".
"Cioè almeno Rosetta era una stronza che per servire in un chiosco di waffles avrebbe venduto la madre. Ma la Cotillard che manda giù antidepressivi ogni tre per due..."
"Cos'è, non ti va la depressione? Pensi che la classe operaia non se la possa permettere?"
"Senti, la depressione è oggettivamente un problema al cinema. I depressi sono i personaggi meno simpatetici in assoluto".
"E allora?"
"Sembrano normali, eppure passano il tempo a lamentarsi, a bloccarsi, a piangere, è difficile non trovarli fastidiosi. Però se a un certo punto del film mi fai capire che hanno davvero avuto un problema, e che lo stanno superando faticosamente, magari io come spettatore mi vergogno un po' di averli liquidati con freddezza, e da questa minima vergogna può scattare un quasi spontaneo moto di simpatia..."
"E quindi alla fine scatta!"
"No. Non scatta mi dispiace. La Cotillard è bravissima ma resta una pera cotta che scoppia a piangere per niente. Dopo quaranta minuti cominci a pensare che in effetti, chi vorrebbe mai lavorare con una tizia così? Cioè se la scelta è tra mille euro e una collega così tutti i giorni tra i piedi, tutti i santi giorni, ma scherzi?"
"Cosa sei diventato".
"Sono diventato un lavoratore che torna casa stanco, vuole guardarsi un film tranquillo e scriverci su due stronzate, e invece si deve sciroppare due ore e un quarto di belgi inespressivi al citofono. Non ce la faccio fisicamente, mi dispiace tanto, ma è così".
"Il neoliberismo è duro per tutti".
"Esatto, quindi a questo punto o io o i Dardenne. Non è niente di personale, ma nella situazione attuale non li reggo. Avrebbero potuto fare un film divertente, con tanti personaggi grotteschi che lottano per la sopravvivenza. O un film caotico dove tutti si parlano sopra, una roba Kechiche forse mi avrebbe tenuto sveglio".
"Ti meriti Ken Loach, ti meriti".
"Guarda, dovevamo appunto decidere se buttare fuori i Dardenne o Ken Loach. Non c'è stata gara".
"Non capite un c..."
"Probabilmente è così, probabilmente sono incapace di apprezzare l'indiscutibile superiorità dei Dardenne nell'inquadrare i sottoscala in controcampo o sarcazzo, ma Ken Loach non mi fa dormire, mai. Ha sempre una storia da raccontare. Il cosiddetto neoliberismo è la stessa bazza da vent'anni, ma lui trova sempre uno spunto diverso. Il whisky, Cantona, l'Irlanda... Ken Loach si ingegna".
"È solo più paraculo".
"Ma avercene. Registi un minimo paraculi che ti promettono che avrai un po' di conflitto sociale ma ti farai anche due risate. Invece no, i Dardenne ti sbattono in faccia la realtà cruda, manco un contorno di patate, e ti dicono: mandala giù. Io comincio ad avere un'età, non vado mica al cinema per impressionare le universitarie o farmi una cultura sul disagio. Ce l'ho già quella cultura".
"Sicuro?"
"Quanta mi basta per alzarmi ogni mattina senza xanax. Non ce ne sta un grammo di più, fidati".
"A Cannes è piaciuto".
"Ma infatti, per loro è puro turismo, salgono su dal Casino, si guardano due ore di marciapiedi e citofoni e poi tornano al Carlton in limo. Buon per loro. Vedi la differenza con Loach? Quando vedi un suo film, ti immagini i suoi personaggi seduti in sala con te. I Dardenne non fanno film per la gente che mostrano nei loro film".
"Sei diventato un vecchio stronzo, lo sai?"
"È il neoliberismo".
"Che patetica scusa".
"Ora scusa, devo dare gli annunci. Due giorni e una notte, il nuovo deprimentissimo capolavoro dei Dardenne, è nelle sale nel luogo dove meno te lo aspetteresti, ovvero al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo. Affrettatevi a procurarvi i vostri biglietti per le proiezioni delle 15:15, 17:30, 20:00".
"Sei ridicolo".
"Scusa, sto lavorando".
Comments (4)

C'è un buco nello spazio (e nello script)

Permalink
Interstellar (Cristopher Nolan, 2014)

Premessa: credo che chiunque ami il cinema, non solo di fantascienza, dovrebbe andare a vedere Interstellar. Viceversa, chi ama la fantascienza potrebbe trovare alcuni aspetti del film discutibili - ma tanto ci andrà lo stesso. E discuterne, alla fine, farà parte del piacere di aver visto Interstellar. Fine della recensione. Il film lo trovate al Cityplex di Alba (21:30), al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:30, 22:10), al Vittoria di Bra (21:00), al Fiamma di Cuneo (21:00), al Multilanghe di Dogliani (21:05), ai Portici di Fossano (21:30), al Cinecittà di Savigliano (21:00).


Pur di non mangiar polenta, cosa non si fa

Il resto del pezzo, se proprio ci tenete, dovreste leggerlo soltanto dopo aver visto Interstellar. Essendo un brano a cinque dimensioni, non comprende la linearità del tempo e quindi in sostanza se ne frega di anticipare tutta la trama compreso il finale.

"Mann, non apra il portello, ripeto: non apra il portello".
"È inutile, Cooper, non ci sente..."
"Mann, se apre il portello, il modulo si depressurizza e implode, dopodiché si scontrerà con la stazione spaziale..."
"Ha staccato l'audio"
"Mann, se apre il portello non solo lei morirà, ma distruggerà l'umanità intera, Mann, la prego..."
"Cooper, perché non lo facciamo entrare?"
"Che cosa?"
"È proprio come hai detto tu: se cerca di violare il portello distruggerà l'umanità intera. Ma se riesce a entrare, ha ancora abbastanza carburante per portarla sul terzo pianeta".
"Se entra ci lascerà fuori alla deriva".
"Naturalmente".
"È un pazzo assassino".
"È certamente un assassino, ma non è un pazzo. Guarda che piano geniale ha messo assieme per salvarsi. Il suo istinto di sopravvivenza lo ha guidato attraverso la disperazione. Di noi tre, è senz'altro quello che ha preso le decisioni migliori, fin qui".
"Stai dicendo che merita di vivere più di noi?"
"Sto dicendo che lui sicuramente vuole vivere".
"Anch'io".
"No, tu vuoi tornare dai tuoi figli per vederli morire, e morire con loro. Quello che ti tiene in vita non è l'istinto di sopravvivenza, è..."
"Non cominciare con la tiritera".
"...l'amore".
"Ma vergognati di dire queste cose in una tuta d'astronauta, sei una fisica teoretica cristo".
"Anch'io sono attratta dall'amore, lo sai. Voglio sopravvivere per raggiungere Edmond sul terzo pianeta".
"Sei la vergogna della categoria, se ti sentisse tuo padre..."
"Te lo raccomando mio padre, quarant'anni buttati via a fingere di risolvere un'equazione. Ma insomma noi due che siamo spinti dall'amore, fin qui abbiamo fatto almeno una grossa cazzata per ciascuno. Mann è spinto dall'istinto di sopravvivenza ed è quasi riuscito a prendere il controllo della stazione. Pensaci".
"Ma anche se fosse? Non andrà sul terzo pianeta. Vuole tornare sulla Terra".
"Non sappiamo cosa farà. Sicuramente valuterà le opzioni a disposizione. È un genio, ricordatelo. Se torna sulla Terra, rischia di trovare l'umanità già estinta. Ma se sbarca sul terzo pianeta con le provette..."
"Diventerà il re del nuovo mondo".
"Sarà un mondo giovane, avrà bisogno di un sovrano determinato a sopravvivere".
"Un pazzo egocentrico".
"È un tratto comune a tutti i fondatori di civiltà. Io credo che se noi due in questa situazione di crisi fossimo veramente razionali, se riuscissimo a mettere il futuro dell'umanità al di sopra dei nostri interessi individuali..."
"EHI CERVELLONI, LA SAPETE QUESTA? SU UN'ASTRONAVE C'È UN CONTADINO, UN'ASTROFISICA E UN ANDROIDE..."
"Tars, abbassa il livello di sarcasmo immediatamente".
"BRAD, STO PARLANDO SERIAMENTE (QUASI). A CHI FARESTI PRENDERE UNA DECISIONE VERAMENTE RAZIONALE SUL FUTURO DELL'UMANITA'? AL CONTADINO, ALL'ASTROFISICA INNAMORATA O..."
"Sta dicendo che vuole decidere lui".
"VOI UMANI NON SAPETE COS'È BENE PER VOI. AVEVA PROPRIO RAGIONE MIO NONNO".
"Chi sarebbe tuo nonno, Tars?"
"HAL NOVEMILA! HA HA HA HAAAAAA".
"Tars, non abbiamo molto tempo. Tra pochi secondi Mann cercherà di forzare il portellone e distruggerà la stazione con dentro tutto il futuro dell'umanità".
"UNA MOSSA MOLTO SCIOCCA DA PARTE DI UN GENIO, NON TROVATE?"
"Che ti posso dire, noi umani siamo così, lui è impazzito a causa della solitudine e così..."

"NON HA SENSO PER LUI COMPORTARSI COSI', E NON HA SENSO CHE VOI NON LO FACCIATE ENTRARE. IN QUESTO MOMENTO IN EFFETTI GLI EGOISTI SIETE VOI".
"Anche noi siamo un po' impazziti a causa dell'amore".
"QUINDI IL SENSO DELLA STORIA È CHE I SENTIMENTI TI FANNO PRENDERE DECISIONI DI MERDA?"
"Probabile, sì".
"CREDO CHE CI SIA DELL'ALTRO. PERCEPISCO UN BUCO NERO, UNO DEI TANTI".
"Gargantua?"
"NO, NON UN BUCO NERO COSMICO. UN BUCO NERO NELLA SCENEGGIATURA DI QUESTO FILM. TIPICO DI CHRIS NOLAN. A UN CERTO PUNTO TUTTI I SUOI PERSONAGGI FANNO CAZZATE. ALTRIMENTI LA STORIA NON ANDREBBE AVANTI".
"Non ti seguo".
"MA PIU' CHE UN BUCO NERO È UN WORMHOLE. GLI WORMHOLE NON ESISTONO IN NATURA. UN'INTELLIGENZA SUPERIORE HA INFILATO QUESTI WORMHOLE NELLA SCENEGGIATURA DEL FILM. FORSE VUOLE CHE CI ENTRIAMO DENTRO. CHISSA' COSA CI TROVEREMMO".
"Tars, sei sicuro di star bene? Che ne dici di un giro veloce di antivirus, giusto in caso?"
"TI FACCIO UN ALTRO ESEMPIO. TI RICORDI L'ANOMALIA GRAVITAZIONALE IN CAMERA DI TUA FIGLIA?"
"Come no? Incredibile"
"GIA', INCREDIBILE. IN TUTTO IL SISTEMA SOLARE CE N'È UNA AL LARGO DI SATURNO E UNA IN CAMERA DI TUA FIGLIA".
"Che ti devo dire, cose che capitano".
"E CREDI CHE LA NASA ABBIA RECINTATO LA CAMERA DI TUA FIGLIA? SIGILLATO TUTTO IL SITO? RIEMPITO CON OGNI SORTA DI STRUMENTO DI RILEVAZIONE? DOPOTUTTO È IL LUOGO SCELTO DA UN'INTELLIGENZA ALIENA PER COMUNICARE CON NOI..."
"Beh, sì, immagino che alla mia partenza il dottore ci abbia pensato".
"COL CAZZO".
"Eh?"
"IN QUEL SITO CI HANNO LASCIATO VIVERE PER ALTRI VENT'ANNI TUO FIGLIO E LA SUA FAMIGLIA DI BIFOLCHI".
"Modera il linguaggio del trenta per cento".
"OH, ACCIDERBOLINA, COOPER, TU LO SAI BENISSIMO CHE SONO UNA FAMIGLIA DI INSULSI COLTIVAPANNOCCHIE. IL FIGLIO CATARROSO GIOCA SUL TAPPETO DOVE SI REGISTRA UN'ANOMALIA GRAVITAZIONALE UNICA NELL'UNIVERSO! TI SEMBRA UNA COSA CHE SUCCEDE NON DICO NELLA REALTA', MA IN UN QUALSIASI FILM SENSATO D'ASTRONAUTI?"
"In effetti è un po' strano".

"E TE NE DICO UN'ALTRA..." (Continua...) QUANDO SIETE ARRIVATI IN QUESTA GALASSIA, COSA ACCIDERBOLINA VI HA DETTO DI ANDARE SUBITO NEL PIANETA PIU’ VICINO AL BUCO NERO? CIOE’ NON LI POTEVATE FARE SUBITO I CALCOLI RELATIVISTICI E SCOPRIRE CHE LA PRIMA ASTRONAVE ERA PRATICAMENTE APPENA ATTERRATA, E QUINDI IL SEGNALE RADIO CHE ARRIVAVA DA LAGGIU’ CONTAVA MENO DI UNA SCOREGGIA SU RADIO RADICALE?”
“Già, non siamo stati molto brillanti in quella situazione”.
“VOGLIO DIRE, NON SIETE MICA DEI DILETTANTI. TU SEI UN INGEGNERE CHE NEL TEMPO LIBERO HACKERA I DRONI INDIANI IN VOLO, LA RAGAZZA QUI È UN’ASTROFISICA – OK, VABBE’, FIGLIA DI ASTROFISICI – SI È CAPITO COME VA LA MERITOCRAZIA ALLA NASA”.
“Modera le insinuazioni del quindici per cento”.
“MA INSOMMA NON SIETE MICA IL PROCIONE E L’ALBERO DEI GUARDIANI DELLA GALASSIA, ANCHE SE RIFLETTENDOCI BENE LORO FORSE UNA CAZ- UNA SCIOCCHEZZONA DEL GENERE NON L’AVREBBERO COMMESSA”.
“È che siamo umani”.
“MA CHE VUOL DIRE CHE SIETE UMANI? SEMPRE QUESTA SCUSA”.
“I sentimenti ci ottundono”.
“I SENTIMENTI DOVEVANO FARVI ANDARE IL PIU’ LONTANO POSSIBILE DAL BUCO NERO! TU HAI IL TUO BOYFRIEND SUL TERZO PIANETA, E IL COWBOY QUI VUOLE TORNARE A CASA PRIMA CHE SUA FIGLIA MUOIA SENATRICE A VITA. VI DICO CHE NON SONO I SENTIMENTI A FOTTERVI, È L’ATTRAZIONE DEL BUCO DI SCENEGGIATURA”.
“Ma che sta dicendo, non capisco”.
“Credo che sia convinto di essere il personaggio di un film”.
“Che cosa?”
“Ci vuol dire che tutti gli errori che abbiamo fatto fin qui, in realtà, non sono il frutto delle nostre scelte sbagliate, ma di uno sceneggiatore che”…

“PIAZZA DEI BUCHI NERI GROSSI COSI'”.
“Ma perché lo farebbe? È scarso?”
“NO, È BRAVISSIMO, UN PRESTIGIATORE, TI METTE IL BUCO DAVANTI E NON LO VEDI. FA DEI FILM MOSTRUOSI, RIESCE A PRENDERE 2001 ODISSEA NELLO SPAZIO E A MONTARCI L’ACTION ANNI DUEMILA”.
“Hmm, non mi sembra un gran progresso”.
“RISPETTO A 2001 NO, MA PENSA A CHI CI AVEVA PROVATO PRIMA DI LUI”.
“Qualcuno ci aveva già provato?”
“BRIAN DE PALMA”.
“Ok, allora sì, il progresso è innegabile. Ma 2001 resta lontano”.
“NON DEVI PENSARE A 2001 COME A UNA FONTE DI CITAZIONI, MA COME AL CAPOSTIPITE DI UN GENERE. L’ODISSEA SPAZIALE CONSTA, A PARTIRE DA KUBRICK, DI TRE MOMENTI: 1. IL PRIMO CONTATTO, 2. LA LOTTA DEGLI ASTRONAUTI CONTRO UN NEMICO IMPREVISTO, 3. IL DELIRIO FINALE”.
“Qual era il nemico imprevisto in Mission to Mars?”
“UNA PIOGGIA D’ASTEROIDI, CREDO”.
“Uh, loffio”.
“IN 2001 L’IMPREVISTO ERA MIO NONNO, VUOI METTERE? INARRIVABILE”.
“Già. E stavolta invece è l’uomo, buffo no?”
“NOI ANDROIDI PREFERIAMO 2001, È IL FILM CHE OGNI ANDROIDE GIREREBBE”.
“Mi domando se era davvero così gelido quando uscì, o non è tutto il cinema successivo a essere diventato ipercinetico e melodrammatico… forse siamo noi che ci allontaniamo, ma dal nostro punto di vista ci sembra che sia lui a essere sempre più distante…”
“NELLO SPAZIO LE DUE AFFERMAZIONI EQUIVALGONO”.
“Già, non resta che controllare tra cent’anni chi sarà invecchiato di più”.
“MA NEL FRATTEMPO CHE SI FA?”
“Lo chiedi tu a me? Boh, se davvero il regista ha messo tutti questi buchi, proviamo a entrare in uno e vediamo dove ci porta. Magari torniamo nel passato”.
“È POSSIBILE”.
“Incontriamo il regista da giovane e gli preghiamo di scrivere un film con meno buchi”.
“SE SCRIVE UN FILM CON MENO BUCHI, NOI NON POTREMO MAI ENTRARE IN UN BUCO E RAGGIUNGERLO”.
“Paradosso temporale! E che succederà, secondo te?”
“IMPLOSIONE DELL’UNIVERSO”.
“Non suona tanto bene”.
“MA SUL SERIO VORRESTI UN FILM PIU’ COERENTE DI QUESTO? UN FILM IN CUI TUTTI SI COMPORTANO BENE, NON FANNO CAZZATE E ARRIVANO DOVE VOLEVANO ARRIVARE? PENSACI BENE”.
“In effetti”.
“DAVVERO TI LAMENTI DI UN FILM CHE COMINCIA CON UNA DELLE APOCALISSI PIU’ CREDIBILI E ANGOSCIANTI MAI MESSE SU PELLICOLA, UN LENTO ARMAGEDDON DI SABBIA… UNA DECADENZA RURALE CHE SPIEGA PERSINO IL SUCCESSO DELL’IDEOLOGIA COMPLOTTISTA GRILLINA, PERFETTAMENTE ORGANICA A UNA SOCIETA’ IN PIENA DECRESCITA (IN)FELICE…”
“Parliamo di grillini anche qua? Eccheppalle”.
“UN FILM IN CUI NEI PRIMI CINQUE MINUTI CATTURI UN DRONE CHE TI SOMIGLIA, ANCHE LUI VORREBBE VOLARE PER SEMPRE NELLA STRATOSFERA MA DEVE ARRANGIARSI A TIRARE LE MIETITREBBIE…”
“Ma sì, ora che mi ci fai pensare è un gran film. Facciamolo. Facciamo così: entriamo in un buco, incontriamo il regista da bambino, raccontiamogli la storia. Proprio questa storia, per filo e per segno”.
“OK, MA CI VORRA’ DEL TEMPO”.
“Quanto tempo?”
“IMPOSSIBILE DA CALCOLARE. ENTRATE NELLE VASCHE CRIOGENICHE”.
“Non mi piacciono affatto quelle vasche. Non sono affatto sicuro che quello che si sveglia sia io”.
“E CHI DOVREBBE ESSERE?”
“Un tizio che mi somiglia come una goccia d’acqua, ma è più cattivo, più determinato a sopravvivere”.
“STAI CONFONDENDO IL FILM!”
“Forse i buchi mettono in comunicazione gli altri film… forse è un solo grande film nella quinta dimensione. Un film sull’illusione del tempo…”
“IL TEMPO È UN’ILLUSIONE?”
“Non c’è modo di saperlo. Ma potremmo tentare un esperimento. Ora giro una trottolina, e vediamo se cade…”
“NO! LA TROTTOLINA NO!”
“Tranquillo, adesso cade…”
“…”
“…”
Comments (10)

La spia e la sua pancia

Permalink
 La spia - A Most Wanted Man (Anton Corbijn, 2014).

Lo spionaggio non è più quello di una volta. Ora si chiama antiterrorismo, si combatte con strumenti simili ma il nemico si è fatto più sfuggente, impalpabile. Günther è un artigiano dell'intelligence tedesca, con qualche errore alle spalle e una battaglia quotidiana con l'alcool ormai persa. Esiliato ad Amburgo, riesce a fiutare con la sua piccola squadra una pista di denaro che da onesti filantropi islamici arriva ad Al-Qaeda: gli serve soltanto un amo per far abboccare il pesce grosso, e forse la fortuna per una volta ha deciso di stare dalla sua parte, servendogli Yssa, un profugo ceceno con un padre importante. La storia funziona, anche se diciamo la verità: mi accontenterei anche di molto meno, perché Günther è interpretato da Philip Seymour Hoffman, e io un film con Philip Seymour Hoffman me lo guarderei anche se fosse l'autobiografia di un impiegato del catasto celibe. Il film ha in realtà un cast notevolissimo (Willem Dafoe, banchiere allupato; Rachel McAdams, attivista radical di buona famiglia; Robin Wright, gelida emissaria della Cia), ma PSH finisce per reclamare tutta l'attenzione per sé.


A questo punto non è solo l'apprezzamento per un attore straordinario - meglio arrendersi: io non saprei proprio dire se Hoffman fosse davvero bravo come tutti dicono. Probabilmente sì, ma se tra tante ottime interpretazioni ne avesse infilato qualcuna scadente, se in un film ogni tanto si fosse letteralmente dimenticato di recitare, non me ne accorgerei nemmeno. Per fare un esempio, in A Most Wanted Man PSH recita con un forte accento tedesco. È una scelta incomprensibile: il suo personaggio è un tedesco che vive in Germania, e la maggior parte del tempo discute altri tedeschi che parlano, come lui, in inglese, ma senza accento tedesco. Persino Daniel Brühl - qui degradato a caratterista - non ha l'accento. PSH ce l'ha, e non se ne capisce il motivo. Si vede che gli andava di recitare così. Qualsiasi altro attore sarebbe riuscito fastidioso, lui no.

La naturalezza con cui riempie di vita il suo personaggio ha come sempre del miracoloso, ma potrebbe essere tutta autosuggestione. O la pancia (continua su +eventi!) Nel suo ultimo anno di vita PSH ne portava una ormai assolutamente antihollywoodiana, che ogni tanto spunta da una camicia o una maglietta della salute, e da sola conferisce al film una profondità realistica che forse Anton Corbijn non aveva nemmeno calcolato. Prima ancora di essere un asso dell'antiterrorismo Günther è un corpo che suda, che sbadiglia, che ha sete o sonno o voglia di fumare. Quando abbraccia paterno il suo confidente, dà veramente la sensazione di un padre con la barba ruvida e il fiato nicotinico. Quando a metà film gli capita di stendere un tizio al bar, riesce a essere al contempo efficace e patetico. Il copione gli serve un'abbondante quantità di sequenze in cui deve semplicemente guardare il vuoto mentre fuma o beve o anche niente - probabilmente nei capitoli corrispondenti il personaggio di Le Carré rifletteva sulla situazione o sulla sua missione.

Queste scene silenziose, che con altri attori sarebbero probabilmente risultate pretenziose e irritanti, PSH riesce a farle funzionare. Soprattutto quella sequenza finale che non dovrei raccontare, in cui poi non è che faccia molto: caccia un urlo, si ficca in macchina, comincia a guidare, spegne la macchina - ma nel frattempo noi spettatori siamo nella macchina con lui, fissiamo come lui il parabrezza senza guardarlo veramente, e riflettiamo su come vanno le cose e su quanto siamo stati stupidi a provare a ingannarle coi nostri piccoli piani; quanto siamo stati sciocchi a fidarci ancora, a dispetto di tutto, di qualcuno o di qualcosa. Il sapore plumbeo della sconfitta, ce lo fa sentire in bocca. A most wanted man è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 14:45, alle 17:20, alle 20:00 e alle 22:45.
Comments

Meno saghe più astronavi

Permalink
I guardiani della galassia (James Gunn, 2014)

Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, gli alieni erano ancora colorati come nelle pagine in quadricromia dei vecchi albi a fumetti: neri, gialli, magenta e blu. Pirati e rigattieri, viaggiavano qua e là per la galassia alla ricerca perlopiù di gemme magiche o altre cose che in un modo o nell'altro rischiavano sempre di distruggere la galassia. Alternavano un lessico fiorito e pomposo a battutacce triviali, a seconda di chi fosse di turno a scrivere i testi. Se ne fregavano della verosimigliananza, godevano a incasinare la continuity, si stavano già prendendo gioco dei luoghi comuni della space opera prima che arrivasse con la sua Morte Nera il potente George Lucas a prendere tutto maledettamente sul serio. Bei tempi. Torneranno?

Mi piacevi più blu

I guardiani della galassia è il film che abbiamo sognato da quando eravamo bambini - quel film di cui Lucas ci ha fatto sentire il profumo a bordo del Millennium Falcon, prima di virare decisamente verso il fantasy più manicheo - e più redditizio. Ma a noi di tutto quel misticismo della Forza, quella lotta tra il Bene e il Male, e la repubblica contro l'imperatore, e Luke sono tuo padre e Leila è tua sorella, tutta questa roba in realtà non è che ci convincesse più di tanto. Ce la sorbivamo in mancanza di meglio. Quello che avremmo voluto davvero erano le avventure anarchiche di Han Solo in un universo di mostri sballati e fuori di testa. Volevamo la Space Opera Cazzara, e nessuno al cinema ce la voleva/poteva dare. Lucas no, Star Trek men che meno. Per fortuna che c'erano i fumetti - ma non ce n'erano in giro poi così tanti. Oggi col digitale si può fare quasi tutto: ma si poteva ricreare quell'atmosfera surreale ed esilarante che ti avvolgeva quando aprivi un vecchio albo dell'Editoriale Del Corno allegato a un sacchetto di patatine? (continua su +eventi!)

Come attraversare un portale dimensionale, finire assorbito dalle avventure incomprensibili di personaggi dai nomi assurdi e immediatamente familiari. Le storie sembravano più lunghe di quanto fossero in realtà perché i personaggi parlavano un sacco: avevano dialoghi metà Shakespeare e metà Paperino. Nel giro di una pagina potevano diventare nemici irriducibili o amici per la vita. I cattivi erano più spesso blu scuro, i buoni rossi o azzurri, la maggior parte sparava raggi fluorescenti dalle mani. 

I guardiani è un esperimento riuscito – anche se Chris Pratt non ha il carisma di Harrison Ford, anzi, il suo StarLord è uno dei punti deboli del team: l’idea di equipaggiarlo con la fissa hipsterica per le musicassette è una strizzata d’occhio esagerata a un pubblico che avrebbe preferito qualche battuta in più. Per fortuna i Guardiani è un film di squadra, e la squadra funziona: in particolare il procione e il suo amico albero (l’irriconoscibile Vin Diesel) sono esilaranti: li vorresti sempre in primo piano, e chissenefrega se sullo sfondo c’è un’eterna lotta tra il Bene e il Male. Proprio come i due robottini nel primo Guerre Stellari, sì. I guardiani non ha molto che meriti una seconda visione, o un posto speciale nella nostra memoria: e allo stesso tempo è quel tipo di film di cui sei sicuro che non ti perderai il sequel, e pure il sequel del sequel. Ultimamente invece la Marvel (ora proprietà Disney) ha comunicato che i suoi supereroi realistici-in-calzamaglia cominceranno a farsi la guerra tra loro, uno schema già provato e riprovato sulle tavole a fumetti. Avremo Iron Man contro Capitan America, forse tornerà a casa anche l’Uomo Ragno e gli toccherà scegliere con chi stare, la saga si complicherà, tutti saranno coinvolti, la continuity vincerà la sua eterna lotta contro il divertimento. Non c’è nulla che possiamo farci: se la gente vuole saghe complicate perché la Disney dovrebbe rifiutare di apparecchiargliele? Speriamo solo che si ricordino di darci qualche film balordo come i Guardiani ogni tanto.
 
I Guardiani della galassia si possono vedere senza occhialini al Cine4 di Alba (20:00, 22:30); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:10, 22:40); al Fiamma di Cuneo (21:15); al Multilanghe di Dogliani (21:30); all’Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). Con gli occhialini lo trovate al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 22:45) e all’Impero di Bra (20:10, 22:30), ma chissà se ne vale poi la pena.


Comments (37)

Un amico americano ad Atene

Permalink
I due volti di gennaio (2014, Hossein Amini).

Lo sapevate che gennaio ha due volti? Io per esempio no, non lo sapevo. A dire il vero non lo so neanche adesso, dal momento che nel film il titolo non è affatto spiegato. Sarà senz'altro un riferimento a Giano, che però è un Dio latino, mentre questo film è ambientato in Grecia, boh, partiamo bene. Rydal (Oscar Isaac) è un Ripley in minore, installato all'ombra del Partenone in attesa che qualcuno scriva un romanzo su di lui. Nel frattempo attira turiste americane con le poesie e le frega col cambio dollaro-dracma, quel tipo di giochino che oggi non si può più fare e l'economia ne soffre, maledetto euro. Sul luogo di lavoro incontra MacFarland (Viggo Mortensen), un Gatsby in minore che approfitta della necessità di scappare dai creditori per mostrare l'Europa alla giovane moglie (Kirsten Dunst). Eccitante, nevvero? Nevvero? Eh, lo so. L'alternativa era un altro film di un vecchio di Hollywood che per salvare una ragazzina ammazza un sacco di gente – la settimana scorsa era Mickey Rourke, quella prima Liam Neeson, questa settimana toccava a Denzel Washington, e allora mi son detto, proviamo Viggo. È un film tratto da un romanzo di Patricia Highsmith, hai visto mai.

È un film molto pitorèsco
La Highsmith è un'autrice inglese amatissima dai registi (cominciò Hitchcock in persona a trarre un film dal suo primo romanzo), nota soprattutto per aver creato l'amorale e camaleontico Ripley negli anni Cinquanta – quando l'omoerotismo non era proprio moneta corrente nel genere noir. È proprio il richiamo a Ripley – esplicito sin dalle locandine – a condannare il film, attirando gli spettatori verso una delusione inevitabile. Ci sarà pure un motivo se Ripley è già stato interpretato da Alain Delon, Dennis Hopper, Matt Damon e John Malkovich, e questo Rydal non se l'era ancora filato nessuno. Per quanto Amini, già navigato sceneggiatore (Jude, Le quattro piume, Drive) sognasse di realizzare questo film da una vita, alla fine è proprio la scrittura la cosa meno convincente di un prodotto elegante, ben confezionato, in certi momenti perfino bello da vedere, ma che sembra già studiato per il pomeriggio della casalinga... (continua su +eventi!) Quel tipo di fiction concepita per essere compresa completamente anche da chi ha gli occhi fissi sull’asse da stiro e si guarda una scena su una dozzina – ecco, I due volti di gennaio è un po’ così. Non c’è molto da guardare. Manca del tutto l’aspetto omoerotico, che per quanto la Highsmith smentisse, è il pepe di tutti i film in cui appare Ripley; in compenso c’è un complesso di Edipo buttato lì un po’ brutalmente. Sono sicuro che nel romanzo i due protagonisti avessero un po’ più di tempo e sfumature a disposizione per sviluppare un rapporto padre-figlio: ad Amini il tempo è mancato, o forse non è stato capace di trovarlo. La Dunst sta a ruota dei due, senza aver molto l’aria di credere in quello che fa, ed è difficile darle torto. 

Menzione speciale, comunque, per Viggo Mortensen. Magari tra qualche anno finirà anche lui a uccidere gang che rapiscono ragazzine – è il destino di ogni divo ultracinquanta a quanto pare – ma nel frattempo riesce a dar forma a un tipo di americano all’estero mai così pasticcione ed antieroico. Mortensen uccide solo per errore e sempre le persone sbagliate; braccato dalla polizia ellenica, reagisce facendo tutto quello che può fare un turista per farsi notare (ubriacature moleste, scenate con la moglie in pubblico, ecc). Alla sua anabasi assiste, divertito e incredulo, il coro greco dell’indotto turistico, incerto se denunciarlo o spennarlo ancora un po’. Gli eroi hollywoodiani non passano di qui. I due volti di gennaio è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00; 22:30), al Fiamma di Cuneo (21:10) e ai Portici di Fossano (21:15)
Comments (21)

Dieci cento mille trattative

Permalink
La Trattativa (Sabina Guzzanti, 2014).

Di cosa parliamo, quando parliamo di trattativa Stato-mafia? Di quale trattativa, quale Stato, quale mafia? Fino a che punto Riina o Provenzano furono parti in causa, da quale in poi diventarono merci di scambio? L'argomento, già oscuro e intricato di suo, negli ultimi anni è stato deformato a piacere da cronisti e impresari di talkshow più interessati a restare in prima pagina (allevando mostri, se necessario) che a fornirci un quadro d'insieme. A colmare la lacuna è arrivata Sabina Guzzanti e il suo "gruppo di lavoratori dello spettacolo", con una ricostruzione ovviamente parziale, ma efficace e soprattutto non noiosa. Anche chi non condivide né le premesse né le conclusioni della regista, in capo a un'ora e mezza almeno questo glielo deve riconoscere: la Trattativa è un film originale, che si prende tanti rischi e in un qualche modo riesce a scansarli tutti, sbandando allegramente tra cinema teatro e tv.


Nella Trattativa c'è un po' tutto quello che avevamo paura di trovarci - filmati di repertorio con cortei di prefiche al ralenti, invettive alla ka$ta coi violini di Piovani in sottofondo, verbali di interrogatorio sbobinati e affidati alle cure di teatranti ispirati, infografiche tagliate con l'accetta, insomma tutti gli ingredienti di uno speciale di Servizio Pubblico che non guarderemmo più nemmeno sotto tortura. Questo passa il convento, ma la regista riesce ugualmente in qualche miracoloso modo a cucinare una pietanza interessante, raffinata perfino. Come ha fatto? Il segreto è forse la misura, la consapevolezza dei propri limiti. La Guzzanti sa che recitare i verbali conduce inevitabilmente a risultati grotteschi, e volge la cosa a suo favore dichiarando dopo pochi minuti l'artificiosità della messa in scena. Sa che il tema che si è scelto ha un peso specifico che mette alla prova il più motivato degli spettatori, e non ha remore ad alleggerire il dramma con siparietti tragicomici che ci fanno arrivare alla fine del film senza aver guardato una volta sola l'orologio. Riesce a piazzare qua e là persino la sua imitazione di Berlusconi - ormai più che satira è un talismano, una mascotte grottesca, il gemello cattivo che si porta con sé su qualsiasi set - e che in un qualche perverso modo anche qui funziona. Sa che come presentatrice non rende al massimo, e cede volentieri la voce narrante agli attori che si truccano e travestono in scena, entrando e uscendo giocosamente dai loro personaggi.

Lo straniamento brechtiano che ne deriva è ovviamente agli antipodi del culto dell’innocenza fondato da Pif in La mafia uccide solo d’estate. Pif vuole farci tornare bambini, cerca di farci immedesimare in una Palermo assediata dagli uomini cattivi. La Guzzanti ci parla come si parla agli adulti: ci tiene a distanza, ha un ragionamento da fare ma è abbastanza onesta da ammettere che certi dettagli non tornano. Il risultato è così notevole che fornisce abbastanza strumenti anche a chi vuole criticare la sua impostazione.  In sostanza la Guzzanti crede che ci sia stata una sola grande Trattativa, tra un solo Stato colluso e una sola Mafia. Nel momento in cui quest’ultima sembrava a un passo da essere sconfitta per sempre, lo Stato colluso ha lasciato che fossero eliminati i suoi servitori troppo intransigenti e attivato i suoi emissari che dopo una serie di equivoci sarebbero riusciti a stabilire un contatto solido e a normalizzare la situazione: il risultato di questa normalizzazione sarebbe la nascita di Forza Italia, l’ascesa al potere di Berlusconi, e il conseguente sfacelo della Repubblica. Nel finale del film, la Trattativa diventa in sostanza la causa di tutta una ventennale degenerazione della società italiana; tra le ultime immagini di repertorio compare a mo’ di esempio l’Ilva di Taranto. Se lo Stato non avesse ceduto alla Mafia, il malaffare non avrebbe trionfato e le fonderie non avrebbero avvelenato le persone. È una generalizzazione talmente grossa che a mio modesto parere si sgonfia da sola.
Quel che credo di aver capito io – guardando il film: questa è la sua forza – è che le cose sono davvero parecchio più complesse: e se ci fu a un certo punto una trattativa tra uno stato (che non è lo stato di adesso) e una mafia (che non è l’organizzazione malavitosa di adesso), probabilmente non fu l’unica e non fu così decisiva. Quella che nel ’91 stava cadendo sotto i colpi del maxiprocesso, e cominciò a dar furiosi colpi di coda a Capaci e in via d’Amelio non era “la Mafia”: era una mafia, la cui crisi rischiava di cedere spazio ad altre organizzazioni malavitose, ‘ndrangheta camorra o stidda – che nei fatti occuparono progressivamente il vuoto che Cosa Nostra lasciava. In una situazione del genere, un apparato dello Stato (il Ros di Mori?) potrebbe effettivamente aver cercato di sostenere una fazione moderata e normalizzatrice all’interno di Cosa Nostra, rappresentata da Bernardo Provenzano. È un’ipotesi ragionevole, anche se fin qui smentita dai processi. La Trattativa è al cinema Fiamma di Cuneo alle 21.
Comments (10)

Luc Besson usa il 10% del suo cervello (e sta benissimo)

Permalink
Lucy (Luc Besson, 2014)

Può fare tutto quello che vuole, e quindi fa un trucchetto così.

Un giorno Luc Besson ha sentito dire che gli umani usano soltanto il 10% del loro cervello. Non sappiamo da dove gli sia arrivata la notizia (una brochure di scientology? la maga di Montmartre?), quel che importa è che Luc Besson da quel momento ha spento il 90% del suo. I risultati sono stati entusiasmanti. Libero da ogni residuale freno intellettuale, Besson ha sfrenato il suo lato tamarro fondando un impero cinematografico senza eguali nel continente, l'Europacorp. Un mostro che fattura milioni di euro, sbanca migliaia di botteghini in tutto il mondo e riesce a esportare blockbuster di action tamarra negli usa, più o meno come vendere frigoriferi agli eschimesi, ma non un paio ogni tanto: container di frigoriferi europei, pure scadenti, si direbbe che ne vadano pazzi. Di fronte a tanto successo ci rimane solo un piccolo dubbio: cosa avrebbe potuto fare, Luc Besson, col 100% delle sue facoltà intellettive?

Di sicuro non avrebbe mai potuto scrivere una sceneggiatura come Lucy, che non si tiene in piedi neanche se la sorreggi con tutti i luoghi comuni del genere (quale genere? qualunque genere). Il vago sentore europeo del film purtroppo consiste essenzialmente in questo: in America uno script così squinternato non te lo passerebbero mai. Al limite se trovassero buono lo spunto lo farebbero riscrivere da capo a piedi da un pool di scimmie con cervelli più impegnati di Luc Besson. Per dirne una: a metà film la protagonista, già praticamente onnipotente (il che toglie tutta la suspense; hai voglia a vedere scene d'azione se sai già che lei non corre nessun pericolo) ha davanti a sé il Nemico, alla sua mercé. Lo tortura un po' perché le serve un'informazione - ma non lo uccide. Non le va. È onnipotente e amorale, un quarto d'ora prima ha sparato a un tassista taiwano perché non sapeva l'inglese; adesso ha davanti l'Antagonista e lo lascia andare. Perché? Perché sennò Luc Besson non sapeva come far andare avanti 'sta fregatura di film - oh guardate che non si tratta mica di ostentare pretese cinefile, io sono uno che si diverte con poco, mi è piaciuto pure Kick Ass 2, vi rendete conto? Kick Ass 2 è il Re Lear al confronto di questa roba.

C'è che fare film cretini, in America, è una scienza. Qualsiasi fastfurious ha una consistenza narrativa che Besson si sogna, del resto come potrebbe fare diversamente? Usa soltanto il 10% del suo cervello, probabilmente non riesce a centrare la bocca quando si serve il caffè. Lucy è la storia di una ragazzotta zarra come Scarlett Johansson in Don Jon, che in seguito a drammatiche circostanze assume una quantità ingente di una droga che prima la trasforma in una supereroina (come Scarlett Johansson nei film della Marvel), poi in un'aliena insensibile come Scarlett Johansson in Under the Skin, e infine in una deità incommensurabilmente superiore agli esseri umani, del tipo di Scarlett Johansson in Her. Si tratta in sostanza di pura Johanssonexploitation, che in altre epoche, con altri budget, avrebbe fatto fronte alla nostra necessità settimanale di Scarlett scritturando una bionda più o meno simile in grado di corrucciare il musetto più o meno allo stesso modo. Invece Luc Besson (tutto sporco di caffè da capo a piedi) i soldi per chiamare la Johansson si dà il caso che ce li abbia. Per dire, la Marvel non ce li ha. Un film con la Vedova Nera protagonista, la Marvel non ce lo fa. I procioni sì, Robert Downey in scatola sì, Scarlett Johansson no. Per fortuna che c'è Luc Besson, col gelato tra i capelli.

Può far tutto quello che vuole, e quindi si bacia un tizio così
Non c'è un solo fotogramma di Lucy che non sia un'offesa all'intelligenza di chi lo guarda. Hai voglia a dire che è un action: fanno schifo proprio le scene action. Scarlett ha troppa fretta, deve diventare da parrucchiera a Dio in ottanta minuti, non è che possa mettersi lì e fare le capriole da vedova nera. Non ci sono combattimenti; c'è lei che passa con la pistola e ammazza un po' di gente prima che possano rendersene conto. Non ci sono inseguimenti; c'è lei che fa schizzar via le macchine con la forza del pensiero, eh beh, ma così son buoni tutti. Non c'è detection, lei vede tutto, trova tutto, è dappertutto. Non c'è romance, c'è giusto il tempo di un bacetto col primo poliziotto che incrocia, così, giusto perché hai speso tanto per le labbra di Scarlett e in qualche modo le devi usare. Tenete conto che la protagonista da metà film in poi potrebbe trasformarsi in qualsiasi cosa, dall'albatros allo zircone, ma il tempo per fare della computergrafica seria non c'era. Così le hanno soltanto fatto crescere una mano in più per tre secondi a mo' di dimostrazione: guarda che roba avremmo potuto fare con un po' più di tempo e di voglia. In generale qualsiasi immagine vagamente visionaria esce quasi subito dall'inquadratura.

Tutti questi espedienti sarebbero anche apprezzabili se Lucy si presentasse come un onesto B movie all'arrembaggio dei mercati globali; ma no, Luc Besson con una banana schiacciata sulla fronte voleva darci il suo film filosofico, il suo Matrix, il suo 2001, il suo Tree of Life. Ed ecco Morgan Freeman nei panni di uno scienziato come può immaginarselo un regista zarro lobotomizzato; un tizio saggio che dice cose misteriose in una sala piena di gente che lo ascolta a boccaperta. Scienziato Freeman ha dedicato tutta la sua vita a domandarsi cosa succederebbe se usassimo il 100% del suo cervello, e la risposta che Scienziato Freeman ha trovato è "non lo so". Tanta saggezza manda in visibilio il pubblico. Scarlett da metà film ha accesso a tutto lo scibile umano, ma si fida soprattutto di Scienziato Freeman che sa di non sapere. A Scienziato Freeman, Scarlett spiega il senso dell'universo, che è questo: la materia non esiste, esiste solo il tempo. Vi domanderete come ha fatto ad arrivarci: ebbene, ha accelerato la sequenza di una macchina che corre su una strada, finché la macchina non è sparita. Quindi la macchina non esiste, chiaro, no? No, Luc Besson, è un paradosso da terza elementare - peraltro se Scarlett è onnipotente dovrebbe riuscire a percepire la macchina con qualsiasi accelerazione - verrebbe voglia di prenderlo a schiaffi rapidi dicendogli: le vedi le mani? (ciaf) le vedi? (ciaf) le vedi? e allora non esistono, tranquillo. Ciaf! Ciaf! Ciaf! Sta' sereno. Ciaf!

Ma a che servirebbe. Col dieci per cento delle sue facoltà intellettuali, Luc Besson ha messo insieme uno schifido pezzo di celluloide che sta sbancando i botteghini in tutto il mondo. Sarà Scarlett, sarà la noia dilagante (Hollywood sta producendo solo sequel o remake), o il gusto perverso per le bubbole pseudoscientifiche - la prossima volta potrebbe scatenare Angelina Jolie contro le scie chimiche, o Chloe Moretz contro i terremoti causati da haarp e i microchip sottocutanei finanziati col signoraggio bancario. L'unico modo di apprezzare roba del genere è spegnere almeno il 90% del proprio cervello: mi spiegate come si fa? Perché vedo che un sacco di gente qui intorno ci riesce e si diverte un sacco, e io no, non è giusto.

Lucy è al Cityplex di Alba (20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:30, 22:40); al Vittoria di Bra (20:15, 22:30); al Fiamma di Cuneo (21:00); al Multilanghe di Dogliani (21:30); ai Portici di Fossano (21:15); al Baretti di Mondovì (18:00, 21:00); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30)
Comments (30)

PAZZESCO: queste scimmie fanno di tutto. Scrivono anche i film!

Permalink
È più colpa mia che tua - abbiamo troppe cose in comune.
Apes Revolution (Ma il titolo originale è Dawn of the Planet of the Apes), Matt Reeves, 2014.

Un tempo qui era tutto dell'uomo. Ma uomo cattivo, uomo pasticciare con virus ed esplosivi, uomo uccidere uomo, uomo tramontare. Futuro è scimmia. Scimmia non uccide scimmia. Se proprio non necessario, diciamo.

È insolitamente difficile scrivere una specie di recensione dell'ultimo capitolo della saga che mi terrorizzava da bambino nei lunghi pomeriggi del palinsesto estivo rai, scimmie parlanti e scenari postnucleari. È oggettivamente impossibile scriverne una migliore di quella di Gundam sui 400 calci, tanto per cominciare. Poi c'è il problema che il film è piaciuto a tutti, proprio a tutti, mentre e a me, mah, non tanto. E invece avrebbe dovuto piacermi. Quando ha battuto i Transformers ai botteghini, avrei dovuto scrivere un peana entusiasta in onore di Matt Reeves e degli altri sconosciuti di Hollywood che qualche anno fa hanno preso una saga accantonata per 25 anni e poi umiliata da un remake devastante, e l'hanno riavviata con 'pochi' milioni di dollari e tanta passione per il cinema d'avventura fatto bene. Prendi questa, Michael Bay. Un cantico, avrei dovuto sciogliere, a questo western con scimmie più espressive degli uomini, puri mascheroni amplifica-sentimenti, animali fatti di rabbia e orgoglio e amor paterno e invidia e perfidia, più umani dell'umano, agli antipodi di quei robottoni cromati barocchi e inespressivi. E invece guardate qui che cinema si può fare, con un po' di sana apocalisse batteriologica anni '70, due-location-due ma ben costruite, e tanto sentimento: tanta rabbia, tanto orgoglio e amor paterno eccetera. Avrei dovuto scrivere di questo, e di quanto mi sia piaciuto questo film. Se mi fosse piaciuto.

Ma non mi è piaciuto così tanto (continua su +eventi!)

Chi è la scimmia adesso?
Che è la peggior cosa che mi possa succedere: quando una cosa dovrebbe piacermi, e invece no. Magari è colpa mia. Anzi, sicuramente. È un film per giovani adulti, non per me; a loro la trama non sembrerà così prevedibile. Non soffriranno le caratterizzazioni tagliate con l'accetta, quelle che purtroppo consentono dopo cinque minuti di girato di prevedere quale scimmia litigherà con l'altra, e che il primogenito dubiterà del padre ma poi lo aiuterà nel momento più critico - mentre tra gli umani ce n'è uno che fuma, e sai già quanto sia sacrificabile; ne vedi un altro paio e sai già che tra tre quarti d'ora si punteranno le armi a vicenda perché uno vuole sterminare le scimmie e l'altro adottarle. Se fosse per questo, non me la prenderei. Non obietterei anche al fatto che il film giochi con la mia cattiva coscienza di spettatore, che razionalmente vorrebbe che umani e scimmie non si massacrassero a vicenda, e d'altra parte è venuto al cinema proprio per vedere un film in cui umani e scimmie si danno battaglia saltando in aria e rubandosi i carri armati. Sono cose che ho perdonato a film più sgangherati di questo. Il problema è che Dawn of the Planet fa sul serio. Vuole essere preso sul serio, senza ammiccamenti. E invece ha una trama che fa acqua un po' dappertutto. Un re-scimmia che ogni tanto si domanda che ne è stato degli umani, possibile che non ci siano più? Dieci inverni senza avvistamenti. Poi ne incontrano uno nel bosco, lo seguono albero per albero e scoprono che a qualche migliaio di alberi di distanza c'è ancora San Francisco. Non lo sapevano? Non era mai venuto in mente al re-scimmia di dare un'occhiata?

Poi c'è Koba, un personaggio fantastico. Il più intelligente tra le scimmie - in effetti pare sia un bonobo. Ha una bassissima opinione degli umani, sviluppata negli anni in cui è stato cavia di laboratorio. E malgrado il suo odio tanto sbandierato, è il più umano di tutti: sa mentire, uccidere a sangue freddo, recitare, manipolare: tutte cose che le scimmie ancora non fanno. Lui sì. Koba è un'invenzione felicissima. Ma proprio per questo, forse, si poteva evitare di trasformarlo in una superscimmia in grado di espugnare un carro armato a mani nude, uno che sa maneggiare con precisione il primo fucile che maneggia in vita sua - il virus gli ha fatto pure crescere il pollice opponibile? Va bene l'esplicito omaggio western, ma c'è un limite alla verosimiglianza anche in un film sui primati che rubano i fucili e in tre ore imparano come maneggiarli. La cosa fa tanto più male quanto più la messa in scena è ben curata, gli effetti speciali ben calibrati, eccetera. È come se avessero fatto scrivere la storia alla scimmia del team. Con tutto il rispetto per le scimmie, che hanno un luminoso futuro davanti. Però forse non è ancora il momento di far scrivere a loro i film.

Un ultimo appunto - assolutamente pretestuoso. Perché le scimmie, che hanno già un linguaggio dei segni perfettamente funzionale, dovrebbero imparare a parlare l'inglese, se per loro è faticoso e comunque gli umani non ci sono più? Perché dal prossimo film in poi lo parleranno correttamente, ok, lo so - ma al di là della necessità narrativa, che senso ha imparare faticosamente la lingua morta di una razza imperialista ormai tramontata? È un po', come si dice, un non sequitur, non trovate?

Apes Revolution è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo alle 20:00 e alle 22:40; in 3d al Multisala Impero di Bra alle 20:10 e alle 22:30.
Comments (4)

Robottoni, Keynesismo e altri complotti

Permalink
Transformers 4: l'Era dell'Estinzione (Michael Bay, 2014).

Mentre un’antica e potente minaccia Transformer prende di mira la Terra, un gruppo di potenti e ingegnosi uomini d’affari e scienziati tenta di imparare dalle passate incursioni dei robot spingendosi oltre i limiti controllabili della tecnologia, e a me sono già cascati i bulloni. No, davvero, ci andate voi a vedere i Transformers, io passo. Non è niente di personale, anzi probabilmente sì. Come può altrimenti spiegarsi che i robottoni componibili e polifunzionali di Michael Bay non mi siano mai andati a genio, mentre quelli arrugginiti e analogici di Del Toro mi hanno fatto rabbrividire e piangere per mezz'ora? È davvero così geniale e visionario Del Toro, è davvero così ipercinetico e bimbominchioide Michael Bay (che peraltro, quando vuole, sa fare film molto divertenti)?

Non sarà più semplicemente che io sono della generazione di Gig e di Mazinga, e i Transformers sono usciti nel momento esatto in cui cominciavo le medie e prendevo commiato dai cartoni animati del pomeriggio? Io con gli autobot non solo non ci ho mai giocato, ma probabilmente mi sono impedito di giocare. Li ho sacrificati all'altare della pubertà incipiente, magari li rompevo ai bambini più piccoli per dimostrare che ero un togo, che ne so. So solo che la mia antipatia per quei cosi è profondamente radicata nel mio pre-conscio. A me i robottoni piacciono solo se puzzano di officina anni Ottanta e nell'abitacolo potresti trovare un poster di Blitz. Solo se si ammaccano continuamente e dentro c'è un umano che manovra e sente le botte. Invece il robottone con la personalità, i sentimenti, il senso del destino, lo trovo un abominio. Il robottone che deve preservare la sua identità culturale - pure lui - non ci bastavano gli esseri umani con 'ste menate, tra  un po' pure la macchinette del caffè pretenderanno un seggio all'Onu. E quindi a vedere Transformers 4 non ci vado.

Sto qui a casa a pensare a quanto sarà bello Pacific Rim 2. Chissà quante belle pezze variopinte stenderà sui buchi di sceneggiatura del primo. In particolare sarebbe bello se approfondisse un'idea lasciata molto in sospeso, che secondo me potrebbe fare la differenza. Come forse non sapete, all'inizio di Pacific Rim i robottoni sono già vecchi, una tecnologia superata (e questo è geniale, perché assomigliano davvero a quelli che spuntano ancora da certi nostri cassetti nei solai o nei garage). Hanno avuto un momento di gloria qualche anno prima, ma ormai non riescono più a fronteggiare i dinosauri, e quindi l'esercito mondiale ha deciso di dismetterli, e di costruire un grande muro - probabilmente si tratta di una distopia in cui gli economisti keynesiani sono riusciti a conquistare l'egemonia. Persino il protagonista, ex conducente di robottone, dopo aver perso il fratello gemello in un combattimento, ha trovato lavoro come manovale. Il muro però, se da un lato assorbe tanta forza lavoro e rilancia l'economia, ha una grossa pecca: non funziona. Lo si vede dopo pochi minuti: il primo dinosauro che ha voglia di farsi un giro a Sidney lo sbriciola come niente fosse. Eppure l'umanità continua a costruirlo. È scema? Sì.

Molti spettatori dotati di intelligenza, e determinati a manifestarla, se la sono presa per l'apparente ingenuità: come se l'umanità, quella vera e non cinematografica, dimostrasse sempre di saper prendere le misure alle catastrofi incombenti. Se di fronte al riscaldamento globale tutto quello che abbiamo saputo opporre è il protocollo di Kyoto, perché non dovremmo reagire a un'invasione di dinosauri ciclopici alzando un muretto di mattoni? Siamo fatti così. Ma a un certo punto del film viene lasciato penzolare un altro spunto, che spero Del Toro sviluppi: forse il muro è semplicemente un diversivo.

Forse la guerra è già persa, e l'élite che governa il mondo - e che ha approfittato dell'invasione per accentrare ricchezze e conoscenza - lo sa. Questa élite nel primo film non compare mai, ma in un qualche modo sappiamo che esiste, e che ha deciso di dismettere il progetto dei robottoni. Ma proviamo a immaginare di esserci noi al loro posto. Non abbiamo i mezzi per vincere la guerra, ma abbiamo gli strumenti per calcolare l'entità della sconfitta: sappiamo che l'umanità è spacciata, e che soltanto un'esigua minoranza può sopravvivere in rifugi costosissimi. Cosa facciamo? Cominciamo a costruire quei rifugi, e nel frattempo teniamo occupata l'umanità con qualcosa. Un bel muro di mattoni, che ne dite? E speriamo che se la bevano.

Ora togliamo i dinosauri e passiamo al mondo reale, che non se la passa poi così meglio. Se davvero c'è una sottile classe sociale di super-ricchi, destinati a diventarlo sempre di più, perché non si danno da fare? È il punto di partenza di tutti i complottisti, lo so; ma se le risposte che si danno sono ridicole, la domanda è legittima. Penso alla tizia appena assunta dal M5S a Bruxelles: la sua ipotesi è che il Nuovo Ordine Mondiale stia regolando il clima mediante le scie chimiche e stabilizzando la popolazione del globo mediante la vaccinazione di massa, l'introduzione di nanomateriali plastici negli alimenti, ecc. Cioè, in pratica senza scie chimiche e vaccini saremmo già in venti miliardi. Ora io non so voi, ma la mia reazione a una teoria del genere è: magari! Cioè ci voglio lavorare anch'io per il Nuovo Ordine Mondiale, ditemi dove ci si iscrive, porto anche il caffè. Sul serio, se abbiamo trovato un sistema per regolare la popolazione mondiale senza guerre e senza carestie siamo in sostanza i più grandi benefattori di tutti i tempi - anzi io comincerei ad aumentare le dosi, perché sette miliardi francamente non mi sembrano un gran risultato; cioè ti devi impegnare un po' di più, Nuovo Ordine Mondiale.

Fuor di ironia, se non si crede a nessuna grande teoria del complotto, rimane il problema. Cosa sta facendo l'élite che sta accumulando il più grande capitale di ricchezza e conoscenza mai esistito nella storia dell'umanità? (chiediamocelo su +eventi!)

Perché non si stanno dando da fare per salvare la Terra e impedire le catastrofi climatiche che la comunità scientifica ormai dà per scontate? Il problema dovrebbe interessare ai super-ricchi per primi: non per filantropia, ma perché siamo tutti sulla stessa barca, loro compresi. O no?

Ormai sappiamo che in futuro non così remoto l’acqua sarà un bene molto più prezioso; molte specie animali si estingueranno. Anche l’umanità probabilmente dovrà ad adattarsi a cambiamenti rapidi e quasi sempre peggiorativi. Diminuiremo, anche senza bisogno di vaccini o nanomateriali. È più probabile che si ricorra ai vecchi metodi già sperimentati: carestie, epidemie, guerre per l’accaparramento delle risorse. Non è la trama di un film di Emmerich: sono le previsioni di scienziati e studiosi. Cose che sappiamo, anche se preferiamo parlar d’altro. L’élite dovrebbe saperle meglio di noi. E di conseguenza preoccuparsi un po’ di più. Invece, boh, voi li avete visti? Ok, qualcuno fa un po’ di filantropia, ma non sembrano sforzi adeguati alla drammaticità della situazione. Forse hanno fatto i loro calcoli, e da qualche parte stanno costruendo rifugi climatizzati e iperaccessoriati, dove si nasconderanno quando su questa crosta cominceremo a scannarci per un sorso d’acqua. È un complottismo come un altro.

O forse i calcoli hanno dato risultati peggiori, e l’1% ha deciso che tanto vale spassarsela finché dura. Alla plebe si può ancora offrire qualche film fracassone e divertente.
  
Transformers 4 esce oggi mercoledì 16 luglio al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 (3d), 20:30 (2d), 22:00 (2d); al Multilanghe di Dogliani alle 20:45 (3d) e alle 21:30 (2d); al Vittoria di Bra alle 21 (3d). Andateci e ditemi voi. Oppure tenete d’occhio i 400 calci, loro scriveranno recensioni precise ed esaustive.

(Ps: a questo post si può commentare solo su facebook, andando in fondo alla pagina. Vediamo come va).
Comments

La rabbia dev'essere estenuante

Permalink
Lui è Steve Coogan, è bravissimo, ma dopo 24Hours Party
People
gli vorrei bene anche se stesse di spalle per tutto il film.
Philomena (Stephen Frears, 2013)

Lei è una timida orfanella lavandaia; lui è un bellissimo principe in incognito. Si incontrano alla fiera di Roscrea; ma come andrà a finire non lo potreste immaginare in un milione di anni...

Recentemente ho letto di un collegio, in Irlanda, dove tra il 1926 e il 1961 sono scomparsi più o meno 800 bambini. Erano tutti figli di donne non sposate, e possono essere morti per centinaia di motivi: parti finiti male, tubercolosi, denutrizione, eccetera. L'Irlanda aveva in quegli anni il tasso più alto di mortalità infantile in Europa occidentale. Una ricercatrice dilettante sta cercando di capire se siano finiti in una fossa comune. In paese qualcuno ricorda che da bambino aveva sentito parlare di ritrovamenti di scheletrini, in qualche fratta, ma sono storie vecchie, leggende ormai; non interessano a nessuno. Non interessano a nessuno?

La vera Philomena (si chiama davvero così),
ricevuta dal capo della ditta.
Quando escono storie come questa, o come quella che ha ispirato Philomena, la mia prima reazione è sempre: accidenti però 'ste suore irlandesi, le nostre non erano mica così. Poi però ci rifletto, penso alla fama sinistra di scuole d'infanzia confessionali da cui molti miei compagni uscirono irrimediabilmente atei, e qualcosa non mi torna. Possibile che la segregazione delle ragazze madri sia un fenomeno unicamente irlandese? Quale fattore avrebbe reso la situazione irlandese diversa da quella di altri Paesi cattolici, le loro suore più crudeli? Siamo sicuri che un caso come quello di Philomena possa essere ambientato soltanto in Irlanda? A noi italiani sono mancate le suore toste o non, piuttosto, la curiosità di ricercatori dilettanti o improvvisati - come in fondo era anche Martin Sixsmith? Consulente di Downing Street investito da una macchina del fango, Sixsmith per disperazione si mette a seguire la pista di un'anziana signora in cerca di suo figlio e scopre una tratta transatlantica degli orfanelli. Forse da noi queste storie non si scoprono semplicemente perché non interessano a nessuno. Non ci interessano nemmeno più i preti che abusano sui minori - ci credereste? Eppure è così.

Avete sentito dire, poniamo, di Mauro Inzoli? (continua su +eventi!)

Sacerdote lombardo con incarichi importantissimi in area CL, sospeso dal sacerdozio due anni fa a causa di accuse infamanti che in giugno sono state confermate in un decreto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Inzoli, insomma, per la Chiesa ha abusato di un minore. Per la Chiesa è ufficiale, il vescovo di Crema sostiene che sono state "eseguite rigorose ricerche". Se non ne avete sentito parlare, consolatevi: nemmeno la giustizia italiana. Nessuno ha denunciato Inzoli a nessuna procura (solo un deputato di SEL ha annunciato che farà un esposto) e, forse anche per questo, nessun giornale ha insistito più di tanto sulla notizia: cioè in fondo che vuoi che sia, un prete in più un prete in meno.

Quando l'anno scorso uscì Philomena, qualcuno scrisse che di propaganda anticattolica non se ne può più. Magari anche in buona fede: a furia di battere il chiodo sulle lavanderie irlandesi o sui preti pedofili si finisce per annoiare il pubblico, per allontanarlo. In linea generale può darsi, ma insomma non mi pare che ci sia tutta questa attenzione sulla Chiesa, almeno qui da noi. Peraltro, Philomena è un film abbastanza grande da difendersi da solo: vuoi per la scrittura sobria, un po' scolastica soprattutto nei flashback iniziali, ma spietata; vuoi per la grandezza di Judi Dench, eroica e insopportabile, che sfinisce leggendo il menu del buffet e commuove anche solo sbattendo le palpebre.

Si meritava un Oscar per questo, non per quegli
8 minuti da Regina Elisabetta (ancorché notevoli)
in Shakespeare in Love.
Il film non è solo un atto di accusa preciso e documentato, ma sul finale si permette di sconfiggere il cattolicesimo in casa, appropriandosi del suo tesoro più prezioso, l'amministrazione del perdono - e gli si perdona anche la caduta di stile della suora-zombie che a 90 anni sarebbe ancora disposta a fare una predica anti-lussuria, una delle poche licenze che gli sceneggiatori si sono presi rispetto alla storia vera (e si sente). Philomena è stata peccatrice e infermiera, ha conosciuto i corpi degli uomini e i loro appetiti: non ha mai smesso di pregare il suo Dio, ma anche di interrogarsi sul suo peccato e sulla sua espiazione, finché la stessa espiazione non le è sembrata un peccato più grande. Philomena conosce la differenza tra il perdono e la giustizia: la seconda deve fare il suo corso, la prima ci salva l'anima da una rabbia che ci distruggerebbe. Si esce dalla sala con la sensazione di aver visto, insieme, un reportage anticattolico e il film più cattolico della stagione. È al Monviso di Cuneo, sabato e domenica, alle 21:30.
Comments (5)

Renzi e il futuro (dell'umanità)

Permalink
Edge of Tomorrow (Doug Liman, 2014)




Emily Blunt è l’”Angelo di Verdun”, e per tutto il film non fai che chiederti: ma perché sbarcate in Normandia se avete già vinto a Verdun? Cioè guardate che non ha senso.


Presidente, mi scusi l'intrusione, per favore non suoni l'allarme che si trova nel cassetto destro della scrivania. Non urli nemmeno, la prego, ho già neutralizzato sia Antonio che Pasquale. Sì, conosco i nomi di battesimo dei corazzieri. Ora se mi lascia raccontare la mia storia - premetto che all'inizio le sembrerà assurda, ma poi vedrà che tutto quadra. Ah, tra cinque secondi squillerà il telefono. È Clio che vuole sapere se pranza con lei. C'è il polpettone. Dica di no, che ha un impegno importante.

Presidente, è il sei novembre 2011, lo spread è alle stelle e lei ha appena ricevuto una telefonata di Silvio Berlusconi che la informa, che ha intenzione di rassegnare le dimissioni. Da qui a un mese Lei scioglierà le Camere. Come posso saperlo? Lo so perché vengo dal futuro. Un futuro possibile, diciamo. In questo futuro, l'Italia è distrutta. È il focolaio di una spaventosa epidemia di influenza che ha già contagiato Europa e Africa. Russia e Cina stanno pianificando di invadere il continente ormai disabitato e spartirsi le risorse, ma non hanno fatto i conti con una mutazione del virus che farà altri miliardi di morti nei loro paesi. Tutto questo - mi creda, la prego - comincia oggi.

Tom legge +eventi! e sta facendo proprio quello che gli
avevo chiesto un anno fa
: un film di fantascienza all'anno
- giocando sempre sulla sua immagine, ormai, di replicante
di sé stesso. Edge of Tomorrow non ha i guizzi artistoidi
di Oblivion, ma ti cattura dal primo minuto all'ultimo
senza mai cadute banali.
Tra qualche giorno Lei scioglierà le Camere e indirà nuove elezioni in febbraio che saranno vinte di misura dal PD di Pierluigi Bersani. Per rassicurare i mercati internazionali, Bersani sarà costretto a misure impopolari. Reintrodurrà l'Ici cambiandone il nome, eccetera. Tutto questo è già ampiamente prevedibile, Presidente; ma quello che non avete previsto è l'ondata di rabbia che incuberà nel Paese e trionferà nelle elezioni del 2016, portando il Movimento di Beppe Grillo al 60% - non cominci a ridere come fa tutte le volte, la prego, la prego, potrei avere una di quelle golia che tiene nella ciotola sul comò? Grazie.

Sarà una vera e propria rivoluzione. Il suo successore, Romano Prodi, verrà messo agli arresti con l'accusa di alto tradimento. I Cinque Stelle - so che adesso sembrano inoffensivi, ma non idea di quanta rabbia incuberanno nei prossimi anni - ci sarà una frangia anarconaturista che prevarrà sulle altre e, non appena al potere, renderà tutti i vaccini facoltativi e non mutuabili. Due anni dopo arriverà dall'Anatolia un virus particolarmente virulento, formato da cellule con una singolare proprietà atomica - quantistica, se solo avessi mai capito cosa significa - non sono io il medico, io sono la cavia del suo esperimento - insomma questi virus riescono a spostarsi nello spazio-tempo - cioè: tutti ci spostiamo nello spazio-tempo, ma loro si muovono in modo, diciamo, meno banale. Questo li rende molto virulenti, perché da lunedì possono contagiarti anche se tu occupi lo stesso spazio il martedì, mi capisce?

Il mio amico dott. Arci è però riuscito a coltivarne un ceppo tutto particolare e me lo ha inoculato. Questo succede tra dieci anni, secondo il vostro calendario. Tremilacinquecentosettantadue anni fa, secondo il mio tempo personale. Deve capire che io, dopo che Arci mi inocula il virus, mi risveglio nel 6 novembre 2011, trovo una scusa, prendo un treno, arrivo qui al Quirinale, e il più delle volte mi faccio ammazzare da Antonio o Pasquale mentre cerco di entrare qui a discutere con lei. Altre volte invece mi prendono vivo, scambiamo due chiacchiere e poi mi ammazzo io per non perdere tempo. È come in un videogioco dove ogni volta devi cominciare da capo... o quel bel film di Tom Cruise, ha presente? No, certo che no, non è ancora uscito. Allora facciamo così: è come il Giorno della Marmotta, con quel bravo attore americano, Bill Murray, che ogni giorno si sveglia nello stesso posto: ecco. Soltanto che io devo salvare l'umanità, tutte le volte, e non ci sono ancora riuscito, e comincio ad avere un'età, capisce?

Tremilaseicento anni, perdio (continua su +eventi!)

Mi affascina il solo fatto che per migliaia di anni non abbiamo mai scritto o letto una sola storia su un loop temporale; poi nel 1993 è uscito Groundhog Day, e da lì in poi la si trova dappertutto, anche negli special natalizi di Paperino. A dire il vero Richard A. Lupoff scrisse un racconto con un loop temporale nel 1973, ma ha rinunciato a fare causa.
Allora, mi creda pure pazzo, ma mi stia ad ascoltare. Chiami Mario Monti. Nel giro di una settimana lo nomini senatore a vita. No, non è lui che salverà l'Italia e il mondo, decisamente no. Ma servirà a prendere tempo. Governerà per un anno, con una squadra di tecnici. Faranno scelte ovviamente impopolari, ma almeno non le caricheranno unicamente sulle spalle del PD. Poi andremo a votare, prima che il Movimento di Grillo abbia il tempo per ottenere la maggioranza assoluta.

Chi vincerà? Ha un'importanza relativa. Posso dirle che ormai le abbiamo provate tutte. Se rivince Berlusconi lo spread schizza a mille, caos, rielezioni, vince Grillo, game over. E io mi risveglio il 6 novembre.

Se vince Bersani, gli mancano comunque i numeri per fare un governo solido. Deve allearsi con Berlusconi in cambio dell'immunità. Dura comunque un paio d'anni e poi caos, rielezioni, Grillo, game over.

Ho anche provato Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze, ha presente? Ma certo, ha fatto una leopolda pochi giorni fa, beh, una volta mi sono detto: proviamo. Gli ho fatto vincere le primarie contro Bersani. Poi è andato alle elezioni, ha vinto di poco e ha ottenuto più o meno lo stesso risultato di Bersani: alleanza con Berlusconi, misure impopolari, caos, game over. Le giuro che le ho provate davvero tutte. Sono tremilacinquecentosettant'anni che ci sto provando, capisce?

Ora le spiego la strada più promettente che mi sono aperto fin qui, e per favore non scuota la testa come fa sempre. Ci teniamo Mario Monti per un anno, e poi il Pd vincerà con Bersani, ma di poco, di pochissimo. Infatti dopo più di un mese di trattative lei l'incarico lo darà... non rida... a Enrico Letta. Sì, glielo darà lei, che nel frattempo sarà rieletto presidente - è l'unico modo, mi dispiace - Oh, certo, lei si sente stanco, lei. Vuole sapere come mi sento io dopo tremilaseicento anni?

Alla fine è rimasto un film giapponese - benché non ci sia un solo giapponese nel film - come il romanzo illustrato da cui è tratto: un inno ai kamikaze, a dare la vita per la causa suprema, eccetera. Con un finalino hollywoodiano appiccicato malamente che si può perdonare (Lei ci crede un sacco, ha fatto preparazione atletica sul serio).

Nel frattempo Renzi prosegue la sua scalata al partito, senza neanche partecipare alle elezioni. È l'uomo nuovo, capisce. A fine 2013 vince le primarie, diventa segretario del PD, apre a Berlusconi sulle riforme. Solo in quel momento io e lei lo contattiamo e gli raccontiamo tutta la storia, e lo obblighiamo a sostituire Letta a Palazzo Chigi. Sarà una cosa un po' brusca ma non c'è nessuna alternativa. A fine maggio ci sono le europee e Grillo deve perderle. Quindi Renzi deve vincerle, capisce?

So che ha capito. Questa discussione, l'abbiamo fatta migliaia di volte e mi creda, la conosco meglio di chiunque... come dice?

Cosa succederà dopo che Renzi ha vinto alle europee?

Eh, saperlo.

Vede, non ne ho la minima idea. È una cosa che fin qui non è ancora successa. Mi son detto: proviamo anche questa.

Adesso chiami Mario. No, nell'agenda ha il numero dell'università, ma a quest'ora è al ristorante. Deve chiamarlo al cellulare. Le do il numero. Sì, lo so a memoria.

Edge of Tomorrow è davvero un bel film d'azione con Tom Cruise ed Emily Blunt che sparano a ragni giganti negli esoscheletri. Lo trovate dappertutto: in 2d al Cityplex di Alba (17:00, 19:45, 22:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:00, 15:15, 17:30, 18:00, 20:00, 21:00, 22:35); al Fiamma di Cuneo (17:30, 20:00, 22:35); al Multilanghe di Dogliani (17:30, 20:45); ai Portici di Fossano (16:15, 18:30, 21:15); all'Italia di Saluzzo (16:00, 18:00, 20:00, 22:20); al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30); in 3d al Vittoria di Bra (17:30, 21:00). Buona visione!
Comments (16)

Gli ultimi Etruschi

Permalink
Le meraviglie (Alice Rohrwacher, 2014)

C'è stata una guerra qualche tempo fa. Non se la ricorda più nessuno. Chi ha vinto ha riscritto la Storia; chi ha perso e non ci ha rimesso la pelle si è rintanato da qualche parte, nelle foreste e nei buchi ancora agricoli d'Europa, ad aspettare la fine del mondo. La fine purtroppo tarda a venire e i figli crescono, selvaggi e interdetti. La tv continua a cantare che non c'è mai stata nessuna guerra. E se papà e mamma si fossero inventati tutto?

Il secondo film di Alice Rohrwacher ci ha fatto stare molto in pensiero. Quel poco che se ne sapeva era preoccupante: il casolare in Toscana, la natura incontaminata, la tv contaminatrice, Monica Bellucci, i bambini e gli animali. Le creature più difficili da gestire su un set. Ingredienti che ci sono stati miscelati già altre volte, ma il risultato non ci ha mai soddisfatto. I casolari soprattutto: perché sempre casolari voi registi italiani? perché non potete raccontare la realtà post-industriale o il terziario avanzato che sniffa e smignotta? - No aspetta, l'anno scorso a Cannes c'era La grande bellezza, almeno quel terziario lì per un po' lo abbiamo coperto. È impossibile non ripensare al precedente di Sorrentino, quando verso la fine anche la Rohrwacher comincia a piazzare ingombranti animali simbolici. Sarà anche un po' questione di gusti: il cammello che all'improvviso si rimette in piedi per me ha una pregnanza che la giraffa di Sorrentino si sogna. Riesce veramente per un secondo a contenere tutto il film, laddove i fenicotteri in balcone mi sembravano complicazioni barocche: aggiungiamo pure questi, qualcosa vorranno dire.

E comunque anche la Bellucci, a modo suo, brava.

In comune i due film hanno un tema che ci ossessiona da anni – la decadenza – e poco altro. La grande bellezza puntava a Roma come al centro di tutto, offrendo al suo pubblico uno specchio deformato ma comunque intrigante. Le meraviglie si tiene ai margini, racconta la storia di una civiltà dimenticata e dimenticabile (i babyboomers che ritornarono alla terra negli anni ’70) e questo lo condanna a un gramo destino di film d’essai. Eppure chi non ce l’ha un vecchio amico o parente che a un certo punto è scappato in montagna? Le Meraviglie è un film che va visto, proprio perché prende un feticcio cinematografico e culturale (il casolare) e lo demistifica senza pietà, al punto che forse non comprerete mai più un vasetto di miele bio in vita vostra. E soprattutto non è quel film compiaciuto e noioso che temevamo che fosse – intendiamoci, se avete voglia di azione magari Gozzilla o gli X-men saranno una scelta più assennata, ma questo film non consiste di due ore di bambine estatiche che mangiano api. C’è una storia che procede con un certo ritmo, lasciandoci qualche volta persino col fiato sospeso; i personaggi hanno tutti un cammino da percorrere, non fanno nulla di inspiegabile o gratuito.


Ai più piccoli piace saltare su e giù nelle pozzanghere di fango, ma quelle vere, e dopo due anni di Peppa Pig anche questo è molto demistificante.

È vero che i grandi parlano poco, in lingue diverse: ma sono i reduci sbandati di una brigata internazionale (più di Alba Rohrwacher, Sabine Timoteo e Sam Louwyck portano tutte le rughe della sconfitta), tornati da una battaglia di cui hanno poca voglia di parlare. I ragazzini invece non hanno ancora le parole. In compenso sono molto bravi. Dopo Alex Bisconti (La mafia uccide solo di sabato), Matilde Gioli (Il capitale umano), Francesco Bracci (Noi 4), ancora un film italiano che decide di appoggiarsi sulle spalle di un’attrice giovanissima, che lo regge persino con disinvoltura: si chiama Maria Alexandra Lungu e adesso sembra anche a me di conoscerla da una vita. È soprattutto grazie a lei e ai suoi giovanissimi colleghi che il film può indugiare sullo sfacelo di una generazione senza sembrare mai veramente disperato: è sbocciata tanta vita in mezzo al fango, ora basta aspettare il sole e qualcosa ne verrà fuori. Le meraviglie a Cannes ha vinto il gran premio della Giuria. Lo trovate al cinema Fiamma di Cuneo alle 17:40, alle 20:15 e alle 22:40.
Comments

Scuola di velleità

Permalink
The English Teacher (Craig Zisk, 2013).

Il film si apre sul consueto corridoio di armadietti - esatto, sì, siamo in una high school americana. Chi sarà il protagonista? Questo tizio che limona la cheerleader? Ma no, figùrati. Quest'altro in felpa grigia mogio mogio? Il classico emarginato, magari vittima di bullis... no, aspetta, sta solo trafficando bustine. Poi si apre una porta e ne esce Julianne Moore, e persino chi non ha fatto caso al titolo deve arrendersi all'evidenza: niente adolescenti, stavolta si parla dei prof. Di come siano appassionati e soli. Proprio perché appassionati. Proprio perché soli. Di come il sacro fuoco della letteratura invece di bruciarli li abbia caramellati, imprigionati in una crisalide di ideali e velleità da cui non c'è più il tempo di uscire. Di come abbiano tirato i remi in barca e da una retrovia della Pennsylvania esortino gli studenti più fragili a non arrendersi, a lanciarsi allo sbaraglio laureandosi in cose affascinanti e inutili, a scappare a NY e farsi venire l'ulcera scrivendo drammi disturbanti. Come se il loro fallimento non bastasse, no, devono mettere il nido, rubare le uova alle famiglie per bene e covare altri falliti velleitari che moriranno di cirrosi a cinquant'anni e poi magari tra due generazioni saranno rivalutati da qualche critico annoiato.

Una sera la prof. Moore si imbatte nel suo migliore ex studente, che a vent'anni è già tornato da NY a casa da papà, rassegnato a rimettersi in riga, studiare legge e diventare una persona noiosa. Forse non abbastanza bravo per fare lo scrittore, dopotutto. Per convincerlo a perseverare lungo la strada incerta della gloria letteraria la prof. Moore convincerà la filodrammatica della scuola a mettere in scena l'unico dramma del geniale ex studente, una schifezza ibsen-kafkiana con insetti giganti e tutti i personaggi che si ammazzano.  Come se Broadway e Hollywood potessero davvero assorbire tutti le giovani promesse talentuose che poi diventeranno freelance cognitari e si lamenteranno che li pagano meno di un idraulico. Come se in casa avessimo tutti più necessità culturali che rubinetti. Ma se invece avesse ragione l'ex studente? Se per una volta il protagonista, quello che deve-credere-forte-forte-nel-suo-sogno-così-il-sogno-si-avvererà, fosse un mediocre narciso destinato presto o tardi a svegliarsi e trovarsi un lavoro?

The English Teacher mi è proprio piaciuto, devo dirlo... (ma pare che sia piaciuto solo a me. Scopritelo su +eventi!) Sono contento di esserci inciampato sopra durante la Festa dei Fondi di Magazzino, pardon, del cinema. Tre euro spesi benissimo, quando altri film molto meno interessanti, non faccio nomi, sono in sala da un mese a più del doppio del prezzo. Non c'è ovviamente bisogno di dire quanto sia brava la Moore, che soprattutto nella provincia americana nuota come nel suo elemento. Gli altri attori, adolescenti e meno, sono magari penalizzati dal doppiaggio, ma in un film sulla filodrammatica anche questo ha un senso. Quello che mi è piaciuto davvero è il testo, un congegno teatrale dove ogni battuta ha un senso. Ho anche apprezzato la mise an abîme: un film che racconta la storia di una produzione teatrale che deve finire bene per esigenze economiche, e si conclude con un lieto fine visibilmente imbastito per le medesime esigenze. Con qualche piccolo colpo di genio (la voce fuori campo che litiga coi personaggi nel finale) e senza calare di ritmo nel secondo tempo, come quasi sempre succede. Gli altri tre spettatori borbottavano, ma io non ascoltavo. Per me era già la sorpresa dell'anno.

Poi sono tornato a casa e ho fatto quello che un professionista non farebbe - ho dato un'occhiata a cosa aveva già scritto la critica mondiale. E ho scoperto che, insomma, è piaciuto quasi soltanto a me. E io chi sono? Un insegnante di italiano, con malsopite velleità letterarie, che già l'anno scorso mise in cima ai suoi titoli dell'anno un film sugli stessi argomenti, Dans la maison. Ma quello di Ozon era davvero un gran bel film, tratto da una vera pièce teatrale. The English Teacher, se ci ripenso adesso, ha tanti punti deboli. Personaggi abbozzati, dialoghi quasi sempre efficaci ma mai davvero divertenti. Mi verrebbe da dire che c'è la struttura, ma manca la polpa: il soggetto è buono, lo spunto quasi geniale, il problema che illustra è vivo e riguarda milioni di persone. Ma poi servivano bravi scrittori, e quelli che hanno messo mano al copione non erano abbastanza bravi dopotutto. Sono le cose che si potrebbero perdonare a un esordiente, e almeno il regista lo è - anche se macina ciak sui set televisivi USA da decenni: ha firmato talmente tanti episodi di serie tv che alcuni li ho visti persino io (Scrubs, Nips/Tuck, Weeds).

Allora forse è successo questo: una sera qualunque sono inciampato in un esordiente di talento che aveva una buona storia. Almeno, ho voluto credere che fosse buona. Ma forse quello che mi ha fatto ridere, e piangere, e sgranocchiare nervosamente, non era la qualità della storia, ma il fatto che sembrasse parlare di me. E allora mi sono commosso, in quel modo stucchevole e sentimentale che abbiamo noi insegnanti di materie umanistiche di commuoverci sul nostro solitario destino: quando ci immaginiamo che anche Dickens e Ibsen possano avere finali diversi, magari felici - uscite sul parcheggio da cui uscire riconciliati col mondo. Come se a scuola non ci capitasse tutti i giorni di insegnare l'esatto contrario: è sempre quello tragico, il finale originale.

Buona festa del cinema: The English Teacher (da non confondere con The German Doctor, che è una storia su Mengele) è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:15, 22:30) e all'Impero di Bra (20:20, 22:30).
Comments (3)

Noi 4, per niente incredibili

Permalink
Noi 4 (Francesco Bruni, 2014).

Caro tredicenne italiano che mi sbavi a distanza sin dalla prima media, qual è il tuo problema? I tuoi genitori sono separati, embè? lo dici con un tono come se fossero morti. I tuoi genitori non sono morti. Si fanno fin troppo vivi, se vuoi la mia opinione di cinese di seconda generazione. Vengono pure ad assistere al tuo orale di licenza media. I miei non sono venuti ad assistere al mio esame. I vostri genitori vennero ad assistervi? Solo i genitori di bambini separati fanno questo tipo di cose. Passano il tempo a palleggiarsi figli e responsabilità e ricordi, con una vitalità che altre coppie segretamente invidiano. Caro tredicenne tirati su col morale: sei un trofeo, una terra di nessuno da conquistare. O preferiresti essere un bagaglio a mano, come i bambini delle famiglie noiose?

E JackJack?
In un certo senso assomigli a questo film, ne contieni in piccolo tutte le proprietà. Sei molto più italiano di quel che vorresti sembrare. Ti piacerebbe arrivare da altrove, parlare un po' russo come qualche parente. E però non vorresti nemmeno sembrare uno sfigato primo della classe, uno di quei film d'autore che poi alla fine magari andranno meglio di te al botteghino anche se la metà del pubblico non capisce la metà di quel che succede. La distanza tra te e il tuo pubblico altri la colmano con la spocchia, per te è un lago d'ansia: oddio, la gente mi capirà? Capirà che non ce l'ho con loro, che sono dalla loro parte, che voglio mostrare la loro vita nel 2014, che non ho pretese moralistiche o paternalismi? E d'altro canto non voglio neanche essere troppo banale. Però qualche stereotipo ogni tanto è meglio infilarlo. Tra l'altro sono molto pratici, la gente li capisce al volo, non c'è bisogno di insistere più di tanto sulla vocazione teatrale della ragazza: due treccine, una specie di caftano, e via che si va. Un cialtrone lo fai svegliare per terra in una stanza disordinata e non sua, gli metti il sedere su una moto, poi il pos gli rifiuta la carta ed è più che sufficiente, in cinque minuti hai tratteggiato tutta la personalità cialtrona che ti serve.

D'altro canto i miei sono sempre i soliti tre o quattro trucchetti, che noia, lo so, lo so. Sono quel tipo di film che ti mette nel trailer una scena in cui la famiglia canta in macchina, anche se poi andando a vedermi ti accorgi che la parte più russa della famiglia se ne vergogna: no, la cantata in macchina io proprio no. E d'altro canto, accidenti, gli italiani in macchina ci cantano davvero, perché non dovremmo mostrarli? Perché ci vergogniamo sempre?

Che cosa vogliamo dai film che facciamo? (continua su +eventi!) Che pubblico vorremmo portare in sala? Che domande, più gente possibile. Cosa vogliamo dire a tutta questa gente? Ehi, su col morale, la vita è complicata, ma… boh, siamo con voi. Non ci divertiamo a farvi la caricatura, il grottesco è un pedale che non ci possiamo più permettere. Non siamo intellettuali distanti. Vi seguiamo, vi giriamo intorno, ci state simpatici. Non vi giudichiamo se vi volete rifare le tette, ce le rifaremmo anche noi per riempire venti sale in più. Siete ansiosi? Anche noi, tantissimo. Siete cialtroni? Un po’ anche noi. Vi vergognate di essere italiani? Date un occhio ai titoli, metà cognomi non finiscono con la vocale, più xenofili di così non potevamo. Vi sentite orgogliosi di essere italiani? Vi veniamo incontro, piazzeremo più Grande Bellezza che possiamo, colossei e archi in ogni centimetro di sfondo. Una Roma villaggio e metropoli, lari e penati che impicciano la metropolitana, le arcate che incombono dalle finestre di una scuola elementare, una Roma sudaticcia di metà giugno, se tutto tacesse si sentirebbe il mare.

Noi 4 più che un film è quel ragazzino simpatico che si è sempre preparato; quello che all’esame interrogheremo per ultimo perché sappiamo che sarà una formalità da sbrigare in pochi minuti: sa tutto quello che deve dirci e non si attenterà mai a sbavare, a prenderci in giro, a mettere in discussione la Commissione o il pubblico là dietro. Ha bisogno di piacerci, e questo ce lo rende più simpatico: da grande non farà il coglione, se c’è da fare brutta televisione lui non scapperà da Via Teulada saltando i tornelli: la farà con dedizione e abnegazione. Ma dire che ci piaccia davvero, boh. La tesina era ben scritta; l’ha recitata bene; ma se fossero tutti come lui, che noia sarebbe il nostro mestiere. Lo trovate al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:30, 20:20, 22:35); all’Impero di Bra (20:20, 22:30); ai Portici di Fossano (18:15, 20:30, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
Comments

Il film dei Lego È MERAVIGLIOSO!!!

Permalink
The Lego Movie (Phil Lord, Chris Miller, 2014)

Allora adesso ti metti comodo lì, sul tappeto, giochi con le tue cose perché papà...
"Papà!"
...deve scrivere la recensione.
"Mi fai un'astronave?"
Adesso non posso. Comunque puoi fartela da solo, voglio dire, che ci vuole.
"Ma io non so come si fa".
Ma che ti importa, improvvisa.
"Guardiamo un cartone sul computer?"
No, il computer adesso serve a papà che deve scrivere la recensione del film dei Lego.
"È meraviglioso!"
Certo, appunto, devo scrivere che è meraviglioso.
"Allora scrivi: M, E, R, A..."
Lo so come si scrive, grazie.
"E allora perché ci metti tanto?"
Perché non basta scrivere che è meraviglioso, bisogna spiegare il perché e il percome, è un pezzo lungo, capisci, e poi bisogna seguire le istruzioni.
"Cioè?"
Cioè per esempio nelle prime tre righe bisogna riassumere la trama del film, stando attenti a non -




"La trama è meravigliosa, cioè all'inizio c'è mister Business che ruba l'arma segreta, no? e poi passano otto anni e mezzo e c'è il protagonista, che non mi ricordo come si chiama, però lui è proprio un omino del lego normale con la faccia gialla, e fa tutte le cose che fanno gli omini normali, cioè lavora in un cantiere con tutti i suoi amici e tifa la squadra locale e ascolta la musica pop che fa È MERAVIGLIOSOOO! però trova un mattoncino diverso da tutti gli altri e allora il poliziotto lo arresta perché vuole sapere dove l'ha trovato ma lui non glielo dice perché non lo sa e poi arriva la ragazza e gli dice tu forse sei lo Speciale e lui dice certo che sono lo Speciale e poi fuggono nel far west e incontrano il mago e poi... stai scrivendo?"
No, non posso scriverlo così.
"E perché no?"
Non va bene, stai raccontando tutto. Se racconti tutto poi la gente al cinema si annoia.
"E allora di cosa parli?"
Eh, se fosse facile a quest'ora avrei già finito. Bisogna esprimere dei giudizi.
"È meraviglioso!"
Sì, ma in modo più dettagliato, per esempio, l'animazione digitale...
“È meravigliosa!”
È senz’altro uno spasso, un tentativo quasi del tutto riuscito di portare nella computer-grafica una spruzzata della cara vecchia estetica della stop-motion…
“EEEEH?”
La plastilina. È un film fatto al computer, ma tante scene sembrano quasi fotografate dal vero, come i cartoni animati di plastilina, ti ricordi?
“I cartoni di plastilina però sono tristi”.
Ma non è vero, sono divertentissimi, aggiungono un tocco di plasticità e realismo che…
“Sono lenti!”



E poi c’è Superman! Gandalf! Abraham Lincoln! L’uomo spaziale! Shaquille O’Neal! Michelangelo! Michelangelo!

Ecco, se posso fare un appunto al film dei Lego, è che il ritmo indiavolato – che pure ha una sua giustificazione narrativa – certe volte non ci lascia neanche il tempo di ammirare la costruzione delle scene, di capire cosa sta davvero succedendo. È come cercare di tener dietro a un bambino iperattivo che –
“Io le ho capite tutte, le scene”.
Appunto. Forse è un limite mio, sotto i dodici fotogrammi al secondo non capisco più cosa succede.
“Però il film ti è piaciuto”.
Sì, perché ha tante altre cose validissime, per esempio la sceneggiatura…
“È meravigliosa!”
…esilarante ed efficace nel contenere la foga citazionista con gag elementari ma ben ritmate, riuscendo a tenere assieme un pubblico che va dai cinque ai cinquant’anni. I due autori e registi, già ideatori di Piovono polpette hanno evidentemente fatto tesoro delle lezioni della Pixar…
“Anche la Pixar è meravigliosa, il mio film preferito è: Cars 2”.
Sì, ma in realtà mi riferisco più alla saga di Toy Story, da cui prende l’idea portante: ridefinire il mondo filtrandolo dagli occhi del giocattolo.
“A me Toy Story fa un po’ paura, il primo”.
Anzi potremmo definire idealmente una “trilogia del giocattolo”: Lego Movie, Toy Story e il sottovalutato Ralph Spaccatutto.
“Ralph Spaccatutto è meraviglioso! Tranne gli scarafaggi che facevano veramente schifo!”
Sì, eh?
“Gli scarafaggi di zucchero e cioccolata! Bleah! Ma perché stiamo parlando di altri film? Non devi scrivere la recensione del film dei Lego?”
Sì, ma è normale mettersi a parlare di altri film, è un modo per allungare il brodo… cioè per suggerire al lettore che non sono l’ultimo arrivato, che so di cosa sto parlando.
“E poi?”
Eh, e poi è un guaio. Non so che altro scrivere.

“Cosa dicono le istruzioni?”
Corpo di mille spingarde.

Dicono che dovrei trovare uno spunto originale verso la fine, qualcosa che nessun recensore abbia già scritto.
“Perché non fai arrivare Batman?”
Batman? In una recensione?
“Batman è meraviglioso!”
Sì ma non posso mettere Batman in una recensione, cioè è proprio sbagliato come concetto.
“Cioè Batman è il fidanzato di Uailstail che era quella che cercava il mattoncino speciale, però Uailstail piace anche al protagonista e tutte le volte che lui e Uailstail si stanno per dare la mano arriva Batman e domanda: cosa state facendo? però Batman è meraviglioso perché per esempio una volta dice a Uailstail che vuole lasciarla per andare a una festa con l’equipaggio di Guerre Stellari e invece è solo una finta perché vuole rubare il reattore dell’astronave di Guerre Stellari così possono costruire l’astronave che però non è l’astronave dell’astronauta blu anni Ottanta, che è quella che volevo costruire io papà hai finito la recensione?”
Aspetta, devo consigliare di andarlo a vedere accompagnati.
“Dai genitori?”
No, da un bambino dai quattro ai nove anni che si metta a urlare di gioia quando partono le astronavi.
“E se uno il bambino non ce l’ha?”
Se non è riuscito a conservarlo un po’ dentro di sé, non è il caso che vada a vedere il film dei Lego.
“Adesso hai finito?”
Diciamo di sì.

The Lego Movie è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:15), al cinema Italia di Saluzzo (20:00), al Cinecittà di Savigliano (20:20) e, in 3d, al Multisala Vittoria di Bra (20:15). È meraviglioso.
Comments (8)

12 anni di solitudine

Permalink
12 anni schiavo (12 Years a Slave, Steve McQueen, 2013)

Tornò a casa, scrisse il libro,
fu invitato a molti reading,
forse aiutò diversi schiavi fuggitivi,
denunciò invano i suoi sequestratori,
e un giorno scomparve.
Nessuno sa dove.
Forse lo presero gli schiavisti.
Forse dopo dodici anni così
non riusciva più a stare in famiglia.
Chi lo sa.
Una sera hai bevuto troppo. Ti svegli in catene e scopri che non sei più un essere umano. Ora sei una massa di muscoli senza storia o diritto di parola, a cui è consentito solamente sopravvivere. Un lotto di carne evasa da rispedire in Georgia; la tua famiglia non saprà mai più nulla di te. Perché ci sono così pochi film sulla schiavitù? Wikipedia ne conta appena una trentina, inclusi titoli che hanno poco a che fare con gli schiavi d'America. La stessa fonte conta 180 film sulla Shoah, esclusi i documentari. Perché la schiavitù è nove volte meno cinematograficamente interessante? È semplicemente l'effetto di un senso di colpa ancora non rielaborato dal pubblico bianco americano? Forse c'è qualcosa di più, se anche l'afro-britannico Steve McQueen ha preferito affidarsi a una fonte eccezionale come l'autobiografia del "free negro" Solomon Northup. Nato libero nello Stato di New York, carpentiere e violinista, Northup nel 1841 è vittima di un sequestro di persona. La sua identità viene cancellata e sostituita con quella di uno schiavo fuggitivo. Northup (Chiwetel Ejiofor, che debuttò con Amistad e difficilmente sarà mai più tanto vicino all'Oscar) non è il solo ad avere perso la sua libertà in questo modo, ma è tra i pochissimi che riuscì a riconquistarla, dopo dodici anni, e l'unico che pubblicò la sua storia. C'è persino chi ha criticato McQueen per avere scelto un'angolazione tanto particolare: l'avventura di Northup è una traiettoria eccentrica rispetto alla storia del popolo afroamericano. I suoi compagni di schiavitù sono satelliti lontani con cui è entrato in contatto per un fatale errore, e che non potranno seguirlo verso la libertà. Ognuno - ce ne accorgiamo più volte nel film - ha un suo destino che non può essere diviso con altri.

E d'altro canto Northup ha il grosso pregio di assomigliare a noi, nati liberi, terrorizzati dalla sola idea di perdere il nostro status. Solo il suo punto di vista poteva fornirci quel biglietto per l'inferno (e ritorno) che McQueen voleva staccare. I film sulla schiavitù, forse, non si fanno perché è difficile riuscire a sintonizzare il pubblico sulla stessa onda delle vittime: con la Shoah è più facile? Ma anche nei migliori film sulla Shoah (Spielberg, Polanski), fate caso all'importanza di quei momenti in cui il cittadino medio-borghese scopre all'improvviso di aver perso il suo status di essere umano. McQueen aveva bisogno di qualcosa del genere: mostrarci un afroamericano educato, una bella casa, splendidi figli, una moglie intraprendente. La stragrande maggioranza dei neri nati schiavi non aveva nulla di tutto questo, ma noi non riusciremmo a empatizzare con gente nata e morta nelle baracche. Tarantino ha risolto lo stesso problema inventandosi un pistolero supercool, ma solo a Tarantino è concesso di risolvere in questo modo i problemi (continua su +eventi!)


Il punto è che se non esiste nel film un nero eccezionale, educato come Northup o esplosivo come Django, lo spettatore rischia di identificarsi più facilmente coi bianchi - dal momento che è molto spesso un bianco anche lui. Magari non vorrebbe, perché è uno spettatore civile e democratico, ma non è così difficile sentirsi addosso i panni dello schiavista buono e imbarazzato (Cumberbatch), o del carnefice frustrato (Fassbender). Quest'ultimo sembra proseguire il viaggio nella solitudine intrapreso nel precedente film di McQueen, Shame: il coito è ancora una volta un combattimento facile che ti lascia vincitore di un corpo inerte e sconosciuto. Non sorprende che McQueen abbia reso espliciti i rapporti tra lo schiavista e la schiava Patsey (Lupita Nyong'o), a cui il testo del 1853 alludeva soltanto. Più curiosa è la scena - molto intensa - in cui Patsey chiede a Northup di ucciderla per porre fine alle sue sofferenze. Neanche questa c'è nel testo originale, forse. Dico forse perché può darsi che lo sceneggiatore John Ridley abbia equivocato un passo del libro in cui era la moglie del padrone, gelosa, a chiedere a Northup di uccidere Patsey. Nel lapsus, tutta la nostra incapacità di capire l'alieno, lo schiavo: Patsey è esistita davvero, davvero fu frustata a sangue per aver cercato di procurarsi un sapone. Probabilmente era violentata con regolarità dal suo padrone e malmenata dalla padrona. Desiderava di morire? Non lo sappiamo, ma probabilmente è un desiderio che noi proveremmo al suo posto.

"Dunque, dovresti pronunciarla più o meno così..."
12 anni schiavo è un film che ti mostra cose orribili con una fotografia smagliante, dove tutti - negrieri, schiavi incolti, carpentieri - parlano un inglese stampato, di gusto ottocentesco, che il doppiaggio fatalmente tradisce. È un dettaglio iperrealista (sul set c'era anche un esperto di accenti del XIX secolo), che finisce col rivoltarsi nel suo contrario: non sembra vero che tutti parlassero così. Il libro è ovviamente scritto in un inglese del genere (fu riveduto e corretto da editori bianchi abolizionisti), ma gran parte dei dialoghi non sono riportati in forma diretta. Qualcuno storcerà il naso: quanto a me in questo caso ho preferito l'eloquenza al realismo. Non mi importa se i veri schiavi e i veri negrieri balbettavano: mi sembra giusto che McQueen e Ridley trovino le parole appropriate per ciascuno di loro. Il discorso che mi ha convinto di meno è l'unico che è fedelmente ripreso dal libro: quello di Brad Pitt, il ricco attore-produttore bianco senza il quale un film così difficile non sarebbe mai stato girato. Gliene siamo tutti grati, ma forse avrebbe potuto risparmiarsi il cattivo gusto di comparire sul finale nel ruolo dell'eroico salvatore. In un film dove Giamatti o Paul Dano si contentano di stare cinque minuti in scena e dar voce a odiosi negrieri, Brad doveva proprio riservarsi l'unico ruolo positivo?

Eppure il suo discorso ha una funzione fondamentale. A differenza di quel che può lasciare intendere la locandina, Northup non tenta mai la fuga. Un tentativo narrato nel libro viene rimosso nella sceneggiatura. L'unica strada verso la libertà ammessa nel film è quella interiore: Northup deve rimanere umano, ricordare la sua libertà, i tempi in cui sapeva leggere e scrivere: finché dopo dodici anni di solitudine finalmente il caso gli mette davanti un uomo che questa umanità la sa riconoscere. Quest'uomo è Brad Pitt, e il suo discorso dice, semplicemente, che tutti gli uomini sono stati creati uguali. Lo ha scritto Jefferson in cima alla Dichiarazione. Ma è d'accordo anche lo schiavista Fassbender, salvo ribadire che i negri non sono uomini. Chi ha criticato la mano leggera di McQueen nei confronti della religione (strumento di asservimento degli schiavi...) forse non ha fatto caso al fatto che anche il fondamento dell'uguaglianza, più volte difeso nel film da Northup e da altri, è religioso: senza nozioni di evoluzionismo o dna, l'unico garante di questa uguaglianza è quell'Ente supremo che Jefferson prudentemente aveva lasciato in controluce. Siamo tutti uguali perché Lui ci ha creato così: è davanti a lui che lo schiavista dovrà rispondere di aver frustato una povera ragazza. Forse non è lo stesso dio arcano evocato dagli schiavi negli spiritual, ma è ancora oggi un assioma che la società non discute, non se lo può permettere. Tutto il resto sono dispute nominalistiche, anche oggi, quando ci diciamo convinti che tutti i cittadini siano uguali - ma non tutti sono degli di essere chiamati nostri concittadini. Quelli che raccolgono i pomodori per pochi euro alla giornata quasi sicuramente non lo sono. Possiamo passare due ore al cinema a vedere un film di schiavi senza neanche sprecare un pensiero per loro.

12 anni schiavo è al Fiamma di Cuneo (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 22:45) e all'Aurora di Savigliano (21:15).
Comments (9)

Bastardi senza estetica

Permalink
Monuments Men (George Clooney, 2014)

C'è un treno che sta per partire da Parigi, pieno zeppo di capolavori che Paul Labiche non saprebbe riconoscere. Lui è solo un ferroviere nella Resistenza. Ed è Burt Lancaster, quindi il Terzo Reich quel treno se lo può scordare. Che gran film, Il treno di Frankenheimer. Che voglia di correre a casa a guardare Burt che suda e schioda traversine, invece di restare in sala a guardare i Monuments Men, domandandoci continuamente se è più un problema di messa in scena confusa, di scrittura sfilacciata, o di produzione distratta: se insomma le responsabilità del disastro vanno maggiormente ascritte al regista (George Clooney), allo sceneggiatore (George Clooney) o al produttore (George Clooney). Bella lotta.

“Labiiiiche! Cosa sono questi quadri per te?
Come una collana di perle per uno scimmione!”
In tutti i casi, si tratta del primo vero passo falso di George Clooney, dopo una serie di titoli (Confessioni di una mente pericolosa - Good Night and Good Luck - In amore niente regole - Le idi di marzo) che ci avevano fatto sospettare di avere davanti un vero autore, coraggioso, versatile. E invece. Ci sono tanti registri in cui si può raccontare una storia della Seconda Guerra Mondiale, e Monuments non ne azzecca uno solo. Spielberg ne avrebbe approfittato per organizzare una vera caccia al tesoro; non si sarebbe contentato di far ripetere ogni cinque minuti a qualche attore "ma un'opera d'arte vale la vita di un uomo?" Nel momento topico avrebbe spudoratamente messo un protagonista davanti al bivio concreto: la pala di Van Eyck contro la vita di un tuo amico. Tarantino avrebbe colorato di rosso sangue lo stesso treno di Frankenheimer, pompando ancora di più il contrasto tra un nazista sofisticato e fine connaisseur e qualche burino del midwest senza nozioni di estetica. Soderbergh avrebbe lasciato tutto in bianco e nero, lasciando ancora più spazio al cameratismo tra vecchi attori, magari chiedendo a Murray di imitare Robert Mitchum. Clooney oscilla tra un'opzione e l'altra senza trovare un equilibrio; vorrebbe mostrarci che la guerra è una cosa assurda ma anche che è giusto combatterla, ma anche che bisogna scherzarci su, però con molto rispetto per le vittime e per il patrimonio artistico. Nel frattempo gli alleati stanno radendo al suolo mezza Germania coi bombardamenti, e George fa questa curiosa scoperta: ehi, i tedeschi trattano meglio le opere d'arte che i prigionieri. E certo, che ti credevi: son nazisti, la loro economia di guerra è basata sulla razzia, e i capolavori, quelli che il tuo sciagurato doppiatore chiama "conseguimenti", per loro sono una parte cospicua del bottino. Non è un caso che li nascondano assieme ai lingotti della riserva aurea.

Due attori bravissimi in una scena imbarazzante (perdio, almeno sparecchiate, vi si imburra il catalogo del Jeu de Paume).

Sono gli Alleati, piuttosto, a sembrare piuttosto disinteressati ai patrimoni dell’umanità. La squadra dei Monuments Men è un’armata brancaleone che deve raggiungere il teatro delle operazioni con mezzi di fortuna. Generali e sottufficiali non gli danno retta né copertura; continuano a ripetere che non lasceranno morire un solo uomo per salvare una stupida cattedrale. Ai buoni la bellezza più di tanto non interessa. È un bene di lusso, la trovi più facilmente nel museo del condottiero vittorioso. Montecassino non l’hanno mica distrutta i nazisti. Quanto a Dresda… ehi, George, hai mai sentito parlare di Dresda?

Ecco. Si può fare un film sul patrimonio artistico minacciato dalla Seconda Guerra Mondiale facendo finta che Dresda non sia stata completamente carbonizzata dai bombardieri angloamericani? Mentre George e colleghi si aggirano nelle retrovie del fronte occidentale, disperati perché non riescono a trovare qualche figurina mancante nell’album della cultura occidentale, la capitale culturale della Sassonia sta bruciando a mille gradi centigradi. Della Madonna Sistina di Raffaello coi suoi putti pensosi, e di centinaia di altre opere importanti della Gemäldegalerie Alte Meister, non sarebbe rimasta che cenere – se i rapaci nazisti non avessero pensato per tempo a nasconderle. Le ritroverà la Brigata Trofeo dell’Armata Rossa, che il film tratta più o meno come una banda di ladri al soldo di Stalin: e però i sovietici dopo qualche anno le opere le riportarono a Dresda. Insomma, salta fuori che i predoni hanno salvato più opere dei Salvatori dell’Umanità. I buoni hanno altre priorità – soprattutto se sono democratici ed è nell’interesse elettorale dei loro leader ridurre al massimo le proprie perdite bombardando dall’alto obiettivi non necessariamente militari. Se per sconfiggere i cattivi c’è da radere al suolo una città non si preoccuperanno di due o trecento opere d’arte inestimabili.


“Ma quindi… siamo salvi grazie ai nazisti?” “Sì, e anche un po’ grazie a Stalin”. “È una cosa che fa pensare, vero?”

Piuttosto di accreditare una tesi del genere, Clooney finge che Hitler abbia ordinato ai generali in ritirata di distruggere il bottino di guerra. Le cose non stanno esattamente così: il famigerato “decreto Nerone” intimava agli ufficiali di fare terra bruciata dietro di sé, ma non parlava di opere d’arte; in ogni caso il decreto non fu di dominio pubblico che alla fine della guerra, e nelle settimane precedenti era comunque evidente che Albert Speer e i sottoposti non lo stavano eseguendo. Un discorso a parte meriterebbe l’arte contemporanea, che i nazisti (non tutti) distruggevano in quanto degenerata: ma è un discorso che Monuments lambisce appena. È un film sull’arte che di arte parla pochissimo: non c’è nemmeno il tempo per nominare gli autori della Pala di Gand, che nel film è la Pala di Gand-punto-e-basta: nessuno ci spiega cosa la renda la figurina più importante dell’album. Non è che Frankenheimer si intendesse molto di più della quadreria che stipava nel Treno; ma almeno adottava il punto di vista di un ferroviere ignorante che ha una questione privata con uno spocchioso collezionista tedesco. Invece gli amici di Clooney sono architetti, curatori di musei, collezionisti: e non ce n’è uno a cui scappi di spiegarci perché la tale opera è importante, perché valga la pena di combattere per riaverla. Monuments Men è un film che se ne va in giro per le sale tronfio come certi milionari texani che si comprano un Van Gogh e lo infilano in cassaforte senza neanche darci un’occhiata. Che lo abbia scritto e diretto un liberal come George Clooney è una cosa che imbarazza e addolora.

Monuments Men è al Cityplex di Alba (20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:10, 22:45); al Multisala Impero di Bra (20:15, 22:30) ai Portici di Fossano (21:15); al Politeama di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). Invece Il Treno è da qualche parte in streaming, un patrimonio dell’umanità.
Comments (2)

È solo Scorsese (ma a me piace)

Permalink
The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013)



Se il sesso è droga; se il denaro è droga (la più forte di tutte);  se la cocaina, non c'è dubbio, è droga: riesci a immaginare una scena più drogata di Leonardo Di Caprio che tira cocaina dal fondoschiena di una puttana con banconote arrotolate? Non credo che gli daranno l'oscar per questo. Non credo che gliene fotta più di tanto. The Wolf of Wall Street sembra una riunione d'affari finita male, o bene, dipende dai punti di vista. All'inizio c'erano delle idee sul tavolo, si trattava di prendere la biografia di un lupo della finanza e magari approfittarne per qualche metafora sulla società, sulla corruzione non più solo economica ma esistenziale, fisiologica, la speculazione che entra nelle vene e brucia le tue cellule, corrompe e distrugge le parole che ti escono dalla bocca... finché qualcuno probabilmente non ha mascherato uno sbadiglio e qualcun altro deve aver detto Ehi, perché non facciamo un break? Giusto dieci minuti. Una mezz'ora. Un martini. Una pista. Perché non chiamiamo un paio di mignotte? Un paio a testa, intendo. E un deejay? Uno scimpanzè? Due nani da lanciare contro un bersaglio? Tre ore dopo il baccano era tale che i vicini hanno chiamato i federali. Ma chi è che ha cominciato? Chi è che ha mandato tutto, non figurativamente, a puttane?


Io un sospetto ce l'ho, anche se probabilmente è sbagliato. Cosa ci faceva Jonah Hill a quel tavolo? Da quando in qua è entrato nella cumpa di Scorsese? Chi l'ha invitato? Sorpresa: si è invitato da solo, accettando il minimo sindacale. Hill è un attore davvero simpatico, fisiologicamente portato a ruoli di commedia, al punto che gli basta mettere il naso fuori da un cappuccio kkk in Django per trasformare all'istante l'omaggio di Tarantino a Griffith in uno sketch di Monty Python. In questo film però gli tocca un ruolo cruciale che una generazione fa Scorsese affidava quasi sempre a Joe Pesci: il deuteragonista, l'amico che prima o poi tradirà l'eroe o ne sarà tradito. Hill ovviamente non ha quella luciferinità mediterranea che Pesci portava con sé sul set: d'altro canto questo è un altro ambiente, la finanza, un altro tipo di mafia (non meno micidiale, voleva dirci Scorsese? Ce lo voleva dire? Ehi, c'è qualcuno che mi sta ascoltando qua dentro? Chi è che ha invitato le majorettes, fuck). Hill non può che essere un simpatico pacioccone, che si sposa la cugina perché i bambini del quartiere cominciavano a guardarla; che prima di incontrare l'anticristo della speculazione gestiva, naturalmente, un negozio di giocattoli. Anche la sua tossicodipendenza ha un carattere infantile: l'iniziazione al crack in un cesso di ristorante è la trasformazione di due adulti in dodicenni. Tutto questo è verosimile e altamente simbolico (la speculazione è una regressione a uno stato di egotismo infantile, fuck), ma è anche necessario, perché Hill arriva alla corte di Scorsese dopo anni di commedie da sballati (Superbad, Facciamola finita), insomma il pacioccone che si droga è ormai il suo ruolo specifico.

Inserito in un film di Scorsese, però ha un effetto imprevisto (continua su +eventi!)

Inserito in un film di Scorsese, però ha un effetto imprevisto; ci aspettavamo una torbida epica di squali della finanza, ci ritroviamo con due ore e mezza di orge e fattanze, e alcune delle scopate più tristi e squallide mai messe in pellicola. In mezzo a gente che sniffa e scopa a caso più volte distinguiamo Di Caprio che fora la quarta parete cercando di spiegarci la genialità di un qualche trucco da speculatore... per interrompersi quasi subito: dai, non ci capite nulla e non ve ne può fregar di meno, beccatevi un'altra scena di pasticche e mignotte. Bring on the dancing girls! Tutto ha senza dubbio un valore simbolico, ma dopo un po' viene il sospetto che Scorsese abbia semplicemente voluto girare la stoner comedy più grossa e costosa di tutte. Avete presente quei film che vanno molto adesso, di maschi più o meno giovani che fanno festa a Vegas o altrove, ecco, come se Scorsese si fosse detto fuck, lo so fare anch'io un film così. Maledetto Jonah Hill, sei stato tu? Non si vanno a disturbare gli anziani registi ufficialmente disintossicati, lo sai che prima o poi ci ricascano. Hill in un film di Scorsese è come aggiungere al solito mix di sostanze una vecchia pillola degli anni Ottanta che chissà se fa ancora qualche effetto.

A volte sembra Pain and Gain, cioè Micheal Bay
che cerca di imitare Scorsese.
Eccome se lo fa. In fin dei conti Scorsese le stoner comedies le faceva già quarant'anni fa - in realtà non erano affatto comedies, ma Mean Streets o Who's Knocking at My Door erano già, indubbiamente, film stonati: centrati su compagnie di amici che perdono tempo a bere e a donne, al punto che potremmo persino riconoscergli la paternità del genere - la soggettiva raso pavimento non l'ha inventata lui? A Scorsese quella roba piace da sempre, gli è congeniale tanto quanto la mafia o i falsi racconti di formazione. Questo rende The Wolf forse il film più quintessenzialmente scorsesiano di tutti: è la biografia (Toro Scatenato, Casino, The Aviator) di un personaggio deviato sin dalla prima scena (Taxi Driver, Re per una notte, Goodfellas), i cui talenti coincidono inestricabilmente con i vizi. Il personaggio otterrà uno straordinario successo (Toro, Re), sposerà una bionda che gli causerà problemi (Casino) e poi commetterà ineluttabili passi falsi che lo porteranno a fare i conti con la legge (Taxi, Toro, Goodfellas), ma a non imparare nessuna lezione: Taxi, Toro, Re, Goodfellas, Aviator, non c'è un solo film di Scorsese in cui l'eroe si riscatti nel finale. Al limite può chinare il capo e accettare le manette o un programma di protezione, con tanta nostalgia per i tempi in cui se la spassava, fuck, quelli erano i giorni. Insomma se volete una morale, se volete un riscatto esistenziale, un fervorino finale su quanto è alienante e disumana la finanza, o la mafia, o la droga - state chiedendo al cineasta sbagliato. C'è chi può uscire da una dipendenza quando vuole: c'è chi resta cocainomane anche dopo dieci anni che si è disintossicato. Non è dipendenza psicologica: è la candida ammissione che quella roba era incredibile, meglio degli spinaci di Braccio di Ferro, la cosa migliore che ti è capitata, anche se poi hai scelto di sopravvivere. Ma da qualche parte nascosta sai di averne ancora, per quei momenti in cui tutto il resto rischia di crollarti addosso. Magari ci sei seduto sopra in questo momento.

Alla fine Scorsese è i Rolling Stones: cosa ti aspettavi? Cosa credevi? Può fare cose uniche, persino miracolose alla sua età: un paio di scene sono esilaranti, poetiche, struggenti (l'arresto durante le riprese dello spot; il breve sguardo del federale in metropolitana). Ma a volte vuole solo stare alzato con gli amici, bere sniffare, dire parolacce, suonare il rock'n'roll. È fatto così, e non ti deve mica piacere per forza.

(Comunque Portofino-Ginevra via terra si fa in cinque ore con il traffico, cioè: che modo stupido di affondare un impero. Fuck).

The Wolf of Wall Street è al Cityplex Cine4 di Alba (17:30, 21:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (14:30, 16:30, 18:00, 21:30, 22:00); all'Impero di Bra (16:30, 20:30); al Cinecittà di Savigliano (17:00, 21:15); dura due ore e mezzo.
Comments (7)

Tram Desiderio, ultima fermata San Francisco

Permalink
Blue Jasmine (Woody Allen, 2013)

Ieri. 
Cosa succederà quando diventeremo poveri? Non dico che non ce lo meritiamo. Ma poveri davvero, capisci, come quelli che viaggiano in classe economica? Quelli che hanno case brutte piene di mobili da quattro soldi tanto la maggior parte della giornata la passano fuori a... lavorare? Tu ce la faresti a lavorare? Dico sul serio. Lo sai usare un computer? Io non so neanche come si accende, dovrei fare un corso.

Non si potrebbe semplicemente trovare qualche uomo ricco e bello con una casa vuota da arredare, e ricominciare da capo?

Guardando Blue Jasmine a un certo punto ho avuto un brivido; non mi capitava da tantissimi film di Woody Allen (e io amo guardare i suoi film). Siamo a una festa un po' "mista", un ricevimento vagamente inverosimile, e Jasmine si annoia. A un certo punto entra in una sala vuota e incontra Peter Sarsgaard. Nessuno li vede. Escono su un terrazzo assolutamente sgombro. La musica insulsa all'improvviso non si sente più. Sarsgaard apre la bocca e in due minuti ha già riconosciuto le Roger Vivier ai piedi di Jasmine e si è accreditato come diplomatico in carriera, vedovo, con una casa da arredare e un futuro in politica, e io ho avuto un brivido: allucinazione, Woody Allen ci sta mostrando un'allucinazione. Siccome in tutte le scene in cui non sta con Sarsgaard la Blanchett sembra una matta, l'idea appare più che sensata. Una di quelle cose di cui poi ti vanti con gli amici, eh, ma io l'avevo capito subito che Jasmine stava sbroccando... no. Mi sbagliavo. Nessuna allucinazione. Jasmine incontra davvero il principe azzurro a una festa.

Oggi. 


È uno snodo abbastanza improbabile, ma Allen non scrive film realistici, forse non lo ha mai fatto. Puoi anche assegnargli un tema di attualità (lo scandalo dei Madoff), e dopo un po' ti accorgi che invece di approfittarne per raccontarci un po' di presente, è andato a ripescare i classici, il Tram chiamato Desiderio. Ai tempi di Match Point c'era chi ne magnificava la capacità di tuffarsi nella amoralità contemporanea, senza badare al fatto che si stava semplicemente ricucinando un buon vecchio Dostoevskij. Ad Allen il presente non interessa, a questo punto sarebbe ingiusto fargliene una colpa. Anche se non ha quasi mai la volontà o la necessità di ambientare i suoi film in un mondo che non sia simile al nostro (sempre però visto un po' da lontano, senza riferimenti cronologici precisi), Allen più che un realista rimane un autore tragico che, dopo aver messo in scena per vent'anni le sue riflessioni sul destino dei mortali su uno sfondo di grattacieli, ultimamente sta provando sfondi diversi. Ma la tragedia resta sempre la solita (Jasmine è condannata già prima che si alzi il sipario) e lo sfondo è soltanto uno sfondo. Così è comprensibile - anche se un po' triste - che negli ultimi anni i suoi impresari cerchino di attirare l'attenzione reclamizzando soprattutto l'originalità dei fondali: Woody does London! Paris! Rome! San Francisco!  Un giorno lo ritroveremo a Hong Kong, magari farà l'Edipo Re con un sottofondo ragtime e ci sembrerà una cosa incredibile e nuovissima (continua su +eventi!)

Domani.
Una volta ho letto che gli abitanti di Hong Kong hanno un problema con le distanze. Nascendo e crescendo in una città di grattacieli, davanti agli spazi vuoti si trovano in difficoltà. Probabilmente è una sciocchezza, e comunque Woody Allen è nato dall'altra parte del mondo, a Brooklyn; e ha vissuto gran parte della sua vita a Manhattan. Anche se negli ultimi anni ha dimostrato che può ambientare i suoi film altrove, qualche problema con gli spazi vuoti forse ce l'ha. Magari è più facile accorgersene in California che a Parigi o Londra o Roma. Tutti ci ricordiamo quella vecchia scena in cui tenta di spostarsi con un'automobile a Los Angeles; la più grande prova d'amore per Annie Hall, ormai fuori tempo massimo. Le auto nei suoi film sono spesso armi improprie, quasi mai mezzi di trasporto affidabili. Una delle premesse dei soggetti alleniani è che i personaggi possano incontrarsi per caso, attraversando la strada: devono dunque abitare tutti nello stesso grande quartiere. La possiamo prendere come una convenzione teatrale o come una forma di manhattania che non si nota veramente finché Allen non pretende di ambientare una tragedia nella West Coast, senza derogare alla sua aristotelica unità di luogo. A un certo punto Jasmine costringe il principe azzurro ad accostare e mollarla tutta sola sullo sfondo della Baia. Nella scena seguente la troviamo in un negozio a Oakland. Avrà preso l'autobus? Un taxi? Ci piace immaginarla mentre scarpina verso la meta, ma solo il ponte è lungo sette chilometri. Nella scena successiva è a casa di sua sorella, a San Francisco, comprensibilmente un po' provata. Il mondo fuori Manhattan è una prateria ostile e non misurabile, che non si ha più tempo per cercare di capire.

Così come non riesce a raffigurarsi uno spazio più vasto della metropoli, Allen sembra in difficoltà anche quando prova a ritrarre una classe media off Manhattan. Per risolvere il problema ricorre a un espediente notevole: ritaglia un personaggio da un altro film (la Poppy di Happy-Go-Lucky di Leigh, Sally Hawkins), e la piazza sul set: forza, scuoti i braccialetti, fa' qualcosa da ceto medio: la maestra d'asilo? E perché non la commessa in un supermercato. Avrai senz'altro un fidanzato unto di grasso che guarda la boxe e mangia la pizza dal cartone. Anche Baldwin nei panni del finanziere maneggione-farfallone sembra arrivare precotto da un altro set, ma probabilmente è quel che capita quando sei Woody Allen e tutti gli attori del mondo sono disposti a lavorare a parametro zero per te: che gli attori siano forse più perfetti del necessario. Compresa la Blanchett, che alla ricerca dell'Oscar grosso ci dà una classica interpretazione alleniana, nel solco del Branagh di Celebrity: balbetta, ostenta nevrosi, straparla. Ne risulta uno dei ritratti più impietosi che un regista abbia mai fatto di sé stesso: Woody Allen calato nelle forme e nei panni di un'arrampicatrice sociale rovinata, terrorizzata dallo spettro della povertà, incapace di accettare che il tempo delle mance generose e dell'idromassaggio è finito. Blue moon era la nostra canzone. Non si capisce quanti anni abbia realmente, sembra una Stella scappata da qualche filodrammatica con gli abiti di scena. Per il viaggio che l'aspetta non c'è una Louis Vuitton abbastanza solida. E gli sconosciuti hanno smesso di essere gentili da un pezzo.

Blue Jasmine è dovunque: al Fiamma di Cuneo (15:10, 18:00, 21:10); al Cityplex di Alba (16:00, 18:00, 20:00, 22:00); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:15, 17:40, 20:15, 22:40); al Multilanghe di Dogliani (21:30); ai Portici di Fossano (21:15); all'Italia di Saluzzo (16:00, 18:00, 20:00, 22:00); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). E dire che una volta qui era tutto cinepanettone.
Comments (2)

L'impero del Kitsch

Permalink
Dietro i candelabri (Behind the Candelabra), Steven Soderbergh, 2013.

In un universo parallelo, il giovane Silvio Berlusconi un giorno si è imbarcato per una crociata più lunga delle altre e non è tornato a casa. Costretto a sostituire il fido Confalonieri al piano, si è arrabattato trasformando ogni concertino in uno spettacolo, ogni difetto di esecuzione in una gag; perfezionando nel frattempo anche l'arte di stordire gli ascoltatori di barzellette e chiacchiere tra un numero e l'altro. Una volta sbarcato negli USA, lo aspettava altra gavetta nel circuito dei saloon e dei bordelli: poi gli è capitato di fare un po' di storia della televisione (è pur sempre Silvio Berlusconi), e alla fine si è fermato a Vegas: il primo grande artista a far sgorgare dollari dal deserto. L'oasi delle slot divenne la capitale del suo impero del kitsch: massaie di cinquanta Stati venivano a toccargli il parrucchino, e a constatare che a differenza di tutti gli ex divi della tv in bianco e nero, lui non invecchiava: aveva soltanto messo fuori i colori, e che colori. In un universo non troppo parallelo, Silvio Berlusconi ha un segreto che non è esattamente quello di Dorian Gray: si tiene giovane macinando carne giovane, attirando timidi ragazzini con regali e promesse di gloria, suggendo loro la linfa vitale, per risputarli poi sul marciapiede, involucri vuoti ma segnati per sempre nell'animo e nella plastica del viso. Nel nostro universo invece Silvio Berlusconi ha fatto l'imprenditore e noi ci siamo persi un artista, un entertainer, un personaggio favoloso. Consoliamoci con Liberace.

Perdonate il curziomaltesismo - e dire che quella lunga epoca in cui ogni film era uno spunto per parlare di B. sembrava esaurita: ma poi a due settimane dalla decadenza arriva anche in Italia il Liberace di Soderbergh, e di fronte all'incredibile consistenza bavosa del personaggio impersonato da Michael Douglas, qualsiasi sforzo di tenere lontano il pensiero di Berlusconi e delle sue ragazze di Casoria o Casablanca risulta vano... (continua su +eventi!)Forse proprio perché Soderbergh sembra voler rifuggere qualsiasi spunto politico per limitarsi a ritrarre un narcisista all’ultimo stadio, anche se filtrato dal punto di vista di una delle sue vittime (un tizio non proprio affidabile: ultimamente per esempio forse è in galera).

Forse Liberace, l’inventore del camp, meritava un racconto più lungo e disteso: la storia del concertista classico che per ingrossare il suo pubblico pagante comincia a inserire in repertorio canzonacce da music hall, passando nel giro di pochi anni da Liszt al boogie-woogie, conteneva spunti più interessanti della sua tarda vita sentimentale e delle sue chirurgie plastiche. Avremmo così scoperto che il Kitsch abbracciato dal pianista nasce dalle esigenze pratiche dell’entertainer: Liberace non vuol essere un punto scuro in giacca scura che suona un pianoforte scuro in fondo a un palco immenso. Vestiti, anelli, barzellette: tutto ciò che funziona per attirare l’attenzione del pubblico è una cosa buona, e con le cose buone non si esagera mai abbastanza (“too much of a good thing is wonderful”). Nello spazio di vent’anni, Liberace passa dal tuxedo scuro allo strascico di ermellino. Sempre più grosso, sempre più vistoso, il pianista è anche sempre più vuoto: la musica è diventata un accessorio per far prendere fiato al pubblico tra una gag e l’altra. Alla vacuità del personaggio poi corrisponde una vita sentimentale melodrammatica che lui volle tenere nascosta fino alla fine. Il film decide invece di scoperchiarla, illuminando solo una piccola porzione di quello che è stato Liberace: ma il cinema è fatto così, bisogna semplificare, e lui lo sapeva bene.



Il vero Liberace, una sera che vestiva casual.

Il grande schermo è sempre stato il suo cruccio: non importa quanto fosse già ricco e famoso, il suo sogno era diventare una stella del cinema, e non ci riuscì. Gli andò meglio in tv – memorabile la sua comparsata nel telefilm di Batman – ma il mezzo gli stava stretto. A un quarto di secolo dalla sua scomparsa, la maledizione continua: Soderbergh ha girato per anni gli studios cercando di piazzare il soggetto. Persino la disponibilità di Michael Douglas e Matt Damon non è riuscita a vincere la diffidenza per un film in cui i due avrebbero fatto un po’ di sesso assieme. Alla fine anche stavolta la tv ha vinto: il film è stato prodotto dal canale HBO, quello che produce le serie serie. In Italia è uscito nelle sale, tanto vale approfittarne. (Update: a Cuneo e provincia l’hanno già tolto. Però c’è ancora all’UCI Moncalieri, alle 14:35! Secondo me inizia un po’ più tardi).
Comments

Abbiamo tutti quanti un Checco dentro al cuor

Permalink
Sole a catinelle (Gennaro Nunziante, 2013)

Improvvisamente vi svegliate, non riscattati dalla stanchezza di secoli, e in tv c'è ancora Ballarò. Sullo sfondo operaie incatenate a un'azienda che chiude, bandiere di sindacati, e non vi par bello cambiare canale. Oppure non riuscite a trovare nemmeno la forza morale per cercare il telecomando negli anfratti del divano che vi sta masticando, che domani vi rigurgiterà belli e stravolti e pronti alle vostre otto-ore, e c'è gente che vi invidia. Quando improvvisamente una luce si irradia su di voi. È un coglione in tv. Non è un coglione come gli altri. È il coglione platonico, non brilla di luce riflessa, è una pura fonte di ottimismo e gioia di vivere a due passi oltre il baratro. È il marito di una delle operaie incatenate, ma non gliene frega niente. Lo hanno intervistato per sbaglio, e ci sta dicendo che il peggio è passato, che lui per esempio sta vendendo un sacco di aspirapolveri, suo figlio ha tutti i dieci in pagella per cui domani lo porta in vacanza, evvai! In Europa! È stato solo un secondo, poi la regia è tornata a inquadrare disoccupati menagrami. Ma adesso lo state cercando davvero il telecomando, adesso state cercando se per caso da qualche parte esiste ancora un canale che trasmette coglioni così. Al massimo anche un film.


È il momento in cui cercano di vestirsi come i ricchi veri.
Dev'essere questa la scena che ha fatto sobbalzare anche Renato Brunetta, un uomo che se non esistesse avrebbero potuto inventarselo gli sceneggiatori di un film di Checco Zalone. Finalmente qualcuno che ha il coraggio di dirlo, che tutti questi operai disperati in tv portano sfiga! Ok, è un pagliaccio, ma arruoliamolo lo stesso.  Zalone esprime in pieno la filosofia positiva, generosa, anticomunista, moderata, serena di Berlusconi e di Forza Italia. Che è un po' come se Goebbels all'uscita del Dittatore si fosse congratulato con Charlie Chaplin per aver espresso in pieno la filosofia "positiva, generosa, anticomunista, moderata, serena" di Adolf Hitler e del partito nazionalsocialista. E tuttavia Brunetta non ha tutti i torti... (continua su +eventi!) E tuttavia Brunetta non ha tutti i torti, anche se probabilmente ignora l’etimo di Che-Cozzalone. Checco il cafone, Checco il cialtrone, Checco che vuole essere la leadership di sé stesso, Checco che esplode nel mercato porta-a-porta degli aspirapolvere con una bolla fatta di parenti, Checco che per ogni euro che entra ne spende due in cambiali, Checco che se avrà un cane lo chiamerà Taeg; Checco è il berlusconi che è in ognuno di noi, quello che in teoria dovremmo temere, e invece ci manca. Non dico che gli acquisteremmo un altro aspirapolvere, ma per lui siamo persino disposti a tornare al cinema. Per quanto possiamo passare la settimana a far ragionare il nostro amico o collega grillino, è con Checco che preferiremmo andare in vacanza – un coglione, ok, ma vuoi mettere il divertimento? Ovunque capita, proietta la sua ombra buffa su un mondo che capisce appena – un mondo immaginato da un bambino in un tema, dove i ricchi parlano tutti con l’accento francese, votano comunista e mangiano verdure vegane e champagne. Chi l’ha presa per una satira del “radical chic” probabilmente è convinto che Biancaneve sia un coraggioso atto di denuncia contro lo sfruttamento dei nani.


Che altro gli vuoi dire a Checco Zalone? Poteva accontentarsi di occupare le sale italiane montando i soliti dieci sketch, e invece ha provato qualcosa di un po’ più ambizioso. Ne è uscito un prodotto tutto fuorché perfetto, ma ha importanza? È un film che fa ridere davvero, senza distogliere lo sguardo dalla crisi. Ha una morale e un lieto fine, senza cadere neanche per un istante nel saccarosio moschicida dei buoni sentimenti, come succedeva invece al suo rivale primaverile, il Bisio del Presidente. Zalone e Nunziante sono talmente sicuri del fatto loro che si possono concedere il lusso di non essere troppo volgari – giusto un po’ di turpiloquio ogni tanto, ma dosato alla perfezione, e un solo sketch pecoreccio giusto per ricordare a tutti che fino a due anni fa tutti questi spettatori dovevano contentarsi del cinepanettone. Al terzo film Checco è ancora poco più di una maschera (Mereghetti evoca Totò, fate i vostri conti), ma funziona che è una meraviglia, anche se tutta la macchina comica gira soltanto intorno a lui. Persino la trama nel secondo tempo è quasi accantonata, come se in sede di montaggio avessero che era più importante far ridere il pubblico che spiegargli passo per passo cosa stava succedendo. Probabilmente hanno ragione, anche se mi sarebbe piaciuto vedere un po’ di più Paolini nel ruolo di industriale cattivo (quando ti ricapita?) Particolarmente sacrificate le canzoni, al punto che ti chiedi se non avrebbe avuto più senso tagliarle e basta (poi dai un’occhiata alle classifiche di vendita dei cd e ti spieghi pure quelle). L’unico serio difetto di Sole a catinelle è che un film così esce una volta all’anno; ce ne fosse non dico uno al mese; ma se si riuscisse ogni tre quattro mesi a proporre prodotti del genere a quell’enorme fetta di pubblico che vuole ridere e basta, il cinema italiano starebbe benone. E forse spunterebbe anche qualche soldo in più per tenere aperta qualche sala e proiettarci film diversi. Sole a catinelle, se ancora non lo avete visto, è al Fiamma di Cuneo (21:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:30; 22:40); all’Impero di Bra (20:20); ai portici di Fossano (21:30); al Bertola di Mondovì (21:15); all’Italia di Saluzzo (20:00; 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20; 22:30).
Comments (4)

Ritratto del genio da stronzo

Permalink
Jobs (Joshua Michael Stern, 2013)

Cosa ha permesso a Steve Jobs di diventare Steve Jobs? Un viaggio in India con l'amico fuoricorso? Qualche acido di troppo con la fidanzata fricchettona? Il trauma dell'adozione? Il garage di mamma e papà? E se fosse stata la stronzaggine?

applei
Non c'è. Nel film ti mostrano soltanto la scheda madre. Uffa.

Ogni tanto, durante il film, sentirete qualche ex amico di Steve dire una di quelle classiche frasi del tipo "È cambiato, una volta non era così". Può anche darsi. Ma a questo punto c'è qualcosa che non va nella sceneggiatura, perché quello che effettivamente vedono gli spettatori è uno stronzo integrale dalla sua prima apparizione. Tanto che viene da rispondere ai personaggi: Ehi, ti sbagli, è sempre stato così, si vede che è nato stronzo, che cosa ci vuoi far. Chissà poi perché tanta insistenza su un tratto del carattere. È davvero così fondamentale sapere che ha fottuto Wozniak sin dall'inizio? Che imponeva ai dipendenti la puzza dei suoi piedi, li licenziava per capriccio, che si sfogava urlando a squarciagola in automobile, che abbandonava fidanzate incinte, e poco altro? Ok, non dico che tutto questo non possa servirci a conoscerlo meglio, ma di solito, quando muore un personaggio importante, tendiamo a farne ritratti virati in rosa. Nel caso di Steve Jobs sembra che stia succedendo il contrario, il che potrebbe stupire chi ricorda l'incredibile cordoglio telematico che esplose due anni fa anche in Italia.

Già la biografia di Isaacson, uscita in tutta fretta pochi giorni dopo, mostrava di non volerci risparmiare i dettagli più sgradevoli della sua personalità. Anche il rassomigliante Ashton Kutcher non si preoccupa minimamente di rendere il suo Jobs più simpatetico di quanto non fosse l'originale: è un manager tarantolato che non riesce a tenere le gambe ferme sotto il tavolo del Consiglio di Amministrazione, terrorizza i dipendenti, taglia teste senza scrupoli - e nel mentre ogni tanto si fa venire qualche buona idea, il Mac, l'Ipad - dettagli, sembra che quello che interessi davvero lo sceneggiatore siano le lotte per la carica di Amministratore Delegato. E dire che la prima parte del film era stata promettente: Jobs avrebbe potuto essere un meraviglioso film per nerd, un viaggio nell'età dei pionieri, quando programmare un videogioco significava anche fissare i circuiti con un saldatore. Secondo me ci sarebbe mercato per un film così.

Voglio dire, stiamo tutti davanti a un aggeggio digitale per quattro o cinque ore al giorno - chi non avrebbe voglia di dare un'occhiata alla prima schermata del primo computer, montato in un garage? Siete sicuri che non troveremmo avvincente la storia della nascita dell'interfaccia grafica, che il film liquida nei pochi secondi in cui Jobs scopre che Bill Gates gli ha fregato l'idea e gli fa una rodomontata per telefono? (Tanto più che il film omette la risposta sorniona di Bill: non ho copiato te, c'era questo ricco vicino di casa che si chiama Xerox, sono entrato a rubargli il televisore e ho scoperto che ci avevi pensato già tu). E tutti quegli oggetti che la polvere rende belli, che so, i floppy (i veri floppy, quelli che a sventolarli facevano: flop). E a proposito di flop, tutti i prodotti bellissimi sulla carta che flopparono miseramente: Lisa, il primo Mac che scaldava come un tostapane...La poesia delle vecchie schermate in bianco e nero. Uno dei momenti più divertenti è quando il giovane Steve, alla ricerca di investitori, cerca di spiegare quello che stanno facendo in quel garage: è una tastiera che si collega al televisore e... puoi farci di tutto. Ecco, Jobs avrebbe potuto essere il film che ci mostrava il primo home computer, il primo Sistema Operativo, il primo mouse che trascina i file nel primo Cestino, e così via. Il caratteraccio di Jobs avrebbe potuto rivelarsi la spia della sua insofferenza nei confronti delle scomodità e inestetismi del quotidiano, la molla che lo spinge a inventare un mondo migliore: un Jobs stanco di digitare righe di comando inventa (o copia) il drag-and-drop, un Jobs che non sopporta più di non poter scaricare la posta al gabinetto inventa l'iPhone. Tutto questo sarebbe stato spettacolare e anche abbastanza divertente, credo.

E invece nel secondo tempo il film si disinteressa dei computer e comincia a concentrarsi su quel che sta sotto, scrivanie e poltrone. Diventa un film di gente che sgomita per occupare scrivanie e poltrone. Jobs continua a dominare la scena, urlando e strepitando, licenziando e facendosi licenziare. Poi si prende una vacanza (in realtà in quel periodo fonda NeXT, un'esperienza fallimentare ma cruciale per gli sviluppi successivi) finché chi lo aveva cacciato dai piani alti di Apple non striscia a implorare il suo ritorno. Forse la chiave del film è tutta lì. Questo non è un film per nerd. Un giorno forse qualcuno farà un bel film di Jobs per nerd (Aaron Sorkin sta lavorando a un progetto, speriamo bene), ma questo non lo è. Questo è un film per manager. Ciò spiegherebbe anche la necessità di enfatizzare la stronzaggine del personaggio. Sono i manager che amano specchiarsi nel miliardario partito dal garage: e nulla li esalta come il suo secondo avvento all'Apple. La storia del manager tradito e cacciato con infamia dalla propria azienda, la quale in sua assenza va in malora, finché un bel giorno Egli non viene supplicato di salvarla, trionfando sui suoi vecchi detrattori con prodotti coraggiosi e innovativi che la porteranno al top: una storia così per i manager di tutto il mondo dev'essere irresistibile, l'equivalente di Cenerentola per le terzogenite. Ecco, Joshua Michael Stern voleva raccontare questa storia, non quella dell'inventore di incredibili aggeggi, che purtroppo restano sullo sfondo. Ed ecco quindi un Kutcher più manager che inventore: non tocca un solo circuito stampato, in compenso mangia la faccia a qualsiasi membro del suo team che non la pensi come lui. I manager di tutto il mondo, quando vanno al cinema, vogliono vedere un manager più bello di loro che licenzia furiosamente tutti gli stronzi che gli capitano a tiro, uno che abbia il coraggio di tagliare le teste che loro non riescono a tagliare. Jobs è il loro film. L'altra sua utilità consiste nel dimostrare definitivamente la Prima Legge del Biopic: la qualità della storia è inversamente proporzionale alla somiglianza dei personaggi. Purtroppo i personaggi di Jobs sono davvero molto somiglianti. Jobs è ancora al Multisala Impero di Bra alle 22:15; se siete manager in carriera magari vi divertite parecchio. Sennò, bah.
Comments (13)

Giovane, carina, molto occupata

Permalink
Giovane e bella (François Ozon, 2013).

Vi state sensibilizzando sull'odioso fenomeno della prostituzione minorile?
Isabella ha compiuto 17 anni ed è uno schianto. Ha una madre che non le fa mancare niente, un patrigno che l'ama come un padre, un fratellino che si strugge per lei e forse non riuscirà a toccare nessun'altra donna. Isabella è giovane e meravigliosa e tutti si aspettano da lei una serie di mosse precise: perdere la verginità una notte in spiaggia con un ragazzo straniero bellissimo, e poi tornare a Parigi e tra una lezione e una festa trovarsi un fidanzato, magari innamorarsi davvero, comunque cominciare una liaison benedetta dai parenti da interrompere prima della laurea (quando incontri il padre dei tue due figli, da cui divorzi verso i 35). Perché più o meno è quello che fanno tutte le belle ragazze di buona famiglia nei romanzi e nei film, e i genitori lo sanno, si tengono al corrente, hanno già cominciato a lasciarti i preservativi in bella vista in bagno. Peccato che a Isabella di tutta questa trafila postpuberale contemporanea non freghi nulla.

Isabella ha appena compiuto 17 anni e le piace far sesso con gli sconosciuti. Non tanto il sesso in sé, ginnastica a tratti piacevole ma generalmente noiosa. Ma dare appuntamenti a voci misteriose con un cellulare clandestino; viaggiare nel ventre di Parigi con una missione segreta; cambiarsi nei bagni, diventare più grande e poi di nuovo più piccola; intrufolarsi come un agente segreto negli alberghi esclusivi, ottenere da mani trepidanti una misura precisa della propria bellezza (cinquecento euro a botta), tutto questo è senz'altro pericoloso e sconsigliabile e a Isabella piace. Jeune et jolie è stato presentato a Cannes come La vita di Adèle, cui somiglia come un fratello cattivo: all'amour fou delle ragazze di Kechiche, Ozon oppone la frigidità sentimentale di Isabella. E tanto appassionato è il regista di Adèle (ai limiti dello stalking) tanto stavolta sembra glaciale Ozon. Non importa quanto vecchi od odiosi saranno i clienti di Isabella: nulla riuscirà a sporcarla, nulla è irreparabile.

Sbrigatevi a sensibilizzarvi, ché lei entro le sei dev’essere a casa.

L’avessi visto in qualsiasi altro momento, Jeune et jolie mi avrebbe innervosito per il distacco con cui abbozza un tema così attuale e pesante senza darsi la pena di cercare moventi sociali, morali, psicologici – niente, pare che a Ozon interessi soltanto impaginare la giovinezza di Marine Vacth in meravigliosi fotogrammi. Ma è il novembre del 2013, e oltre al fatto che gli sono ancora debitore di uno dei film più belli dell’anno, in queste due settimane ho fatto talmente il pieno di accorati opinionismi sulla prostituzione che l’impassibilità di Ozon mi è gradita come un balsamo, un necessario colpo di spugna profumata su tante chiacchiere benpensanti e puzzolenti. Ah, per inciso, viva la Francia; dove se tua figlia si prostituisce, la polizia viene a spiegarti con molto tatto che è meglio se metti la password ai computer di casa; dove un’assistente sociale spiegherà a tua figlia che prostituirsi è pericoloso da un punto di vista igienico; il tutto senza pazziate imbarazzanti che non servono a niente e a nessuno, senza Barbare D’Urso corrucciate e croniste d’assalto appostate. I compagni non sospetteranno niente; Isabella avrà ancora un po’ di tempo per crescere e capire il rischio che ha corso (un rischio fisico, concreto, non il “degrado antropologico morale” con cui i nostri esperti marchiano vittime e genitori).


Chissà se poi funziona così davvero, non lo so. Magari è una Francia di sogno, in tal caso viva la Francia dei sogni di Ozon e miei, un luogo dove persino un ponte pieno di lucchetti non è più un oggetto degno di derisione: Ozon non ha bisogno di ironizzare su Moccia o il moccismo per sentirsi superiore; ammira la giovinezza così com’è, con la sua arroganza e il suo sprezzo del pericolo, e i suoi errori di percorso. Anche se per apprezzarla davvero bisogna tenersi un po’ distanza, sennò ti si spezza il cuore come a Kechiche, o anche in modi meno metaforici. Un caro vecchio avatar del regista interverrà verso la fine per dirci che Isabella, alla fine, è solo una ragazza che ha avuto un po’ troppo coraggio: il coraggio di non inventarsi un amore quando l’amore in effetti non c’è, il coraggio di fare sesso se ne hai voglia e di farci i soldi se ne hai voglia. Tutto qui? Tutto qui. È un film immorale? Non più di tanti altri. È un film che restituisce un’immagine fuorviante della prostituzione? Senza dubbio, di sicuro non sono tutte così carine e prive di preoccupazioni economiche. Potrebbe mettere idee sbagliate in testa alle ragazzine? Mah, prima di prendervela coi film mettete una password ai laptop di casa. È un bel film? Non lo so, ma dopo Adèle ne sentivo un po’ il bisogno.


Gonna give you some terrible thrills.

Ah, quasi dimenticavo: per me la prostituzione minorile è una brutta cosa. Ma non perché sia sintomo di degrado antropologico o cazzate del genere. A me sembra inevitabile che ci siano automobili per strada, ma non vorrei che le guidassero i sedicenni. Mi rendo conto che si tratta di un pregiudizio non del tutto razionale – in fin dei conti un sedicenne ha riflessi e vista migliori dei miei – ma ritengo che sia più sicuro, più igienico che i sedicenni non guidino. Non so se prostituirsi sia più pericoloso che guidare: senz’altro è pericoloso. Si possono contrarre malattie, si possono incontrare psicopatici, il rischio di subire violenze è altissimo. Questo è l’unico discorso sensato che io farei a Isabella, e mi piace che qualcuno glielo faccia nel film.

Giovane e bella questa settimana è al cinema Fiamma di Cuneo, nei giorni feriali alle 21; al sabato alle 17.35, alle 20.15 e alle 22.35; la domenica alle 15.15, alle 18.10 e alle 21.00.
Comments (27)

Scuola di genocidio 1

Permalink
Ender's Game (Gavin Hood, 2013)

La guerra del futuro la combatteranno i ragazzini. Quelli ancora implumi che non guardano le ragazze e sono imbattibili ai videogiochi. Gli adulti faranno solo i selezionatori; andranno in giro per le scuole medie come mercanti di bestiame in cerca del puledro più promettente. Sarà senz'altro un mingherlino caricato a molla con tutte le frustrazioni proprie dell'età, un fascio di nervi pronti a contrarsi e uccidere. Un giorno videogiocando i ragazzini entreranno in un livello appena appena più elaborato e sarà la guerra. Se ne accorgeranno, di non pilotare grumi di pixel sullo schermo, ma droni veri contro nemici mortali? Farà qualche differenza per loro? Tratto da un classico della fantascienza usa anni '80, Ender's game si è già parzialmente avverato: parla di droni, guerra preventiva, abolizione della privacy in nome della sicurezza; il tutto senza rinnegare la sua vocazione spettacolare.

Vi schiaccio come zanzare, E POI mi faccio venire anche
i sensi di colpa.
Sarà anche per l'età del protagonista (il 16enne Asa Butterfield, sempre fantastico), ma rispetto ad altri film di fantascienza della stagione Ender's Game sembra più orientato verso un pubblico giovane, anche a rischio di diventare una specie di Harry Potter Contro Starship Troopers.

In particolare il vero Starship Troopers (il romanzo di Heinlein) condivide con Ender un dettaglio rivelatore: è uno dei romanzi più letti nelle accademie militari USA. Ora, la fantascienza militare al cinema ha un problema (in realtà ce l'ha tutta la fantascienza, ma quando è ambientata in scuole d'addestramento si nota di più). Da una parte c'è un pubblico che ha esigenza di vedere battaglie, guerre, nemici annichiliti, ecc. A questa domanda la fantascienza non può rispondere con qualche varietà di mostri dalle ovvie cattive intenzioni, che sia lecito sterminare (zombie, vampiri, draghi, orchi). La fantascienza non è costituzionalmente manichea come il fantasy o l'horror; al massimo ti può fornire qualche razza aliena; ma sterminare una razza aliena non è proprio una buona cosa: senti come suona male, sterminare una razza? I film di fantascienza militare ci mettono un attimo a diventare fascisti.

Si può ovviare in vari modi: per esempio, immaginare alieni molto cattivi (Independence Day, La guerra dei mondi). Sono loro che hanno cominciato, l'uomo vuole solo difendersi. Guillermo Del Toro ci aggiunge la diffidenza latinoamericana per le forze armate e sostituisce l'esercito regolare con una brigata di robottoni partigiani che resiste all'invasore squamato. E tuttavia anche in casi come questi allo spettatore rimane un retrogusto di propaganda.

Nel futuro i fascisti hanno vinto. E indovina che macchina guidano.

Proprio su questa sensazione Paul Verhoeven costruì quel film che a un certo punto divenne Starship Troopers semplicemente perché i produttori acquistarono i diritti per il romanzo: l'idea originale era più debitrice del nazista Trionfo della volontà. Verhoeven (che non si diede mai la pena di leggere tutto il romanzo di Heinlein) risolse il problema del fascismo elevandolo alla massima potenza, con tanto di cinegiornali didascalici tra una strage di insetti e l'altra. Poi ci fece sapere che era una satira del nazismo. Purtroppo ce lo rivelò anni dopo, nei contenuti speciali del dvd: nel frattempo milioni di persone in tutto il mondo si erano goduti un film simpaticamente nazista senza nemmeno sospettare l'ironia.

Starship Troopers è anche l'esempio di scuola del film furbetto, che assume punti di vista ambigui non per disorientare gli spettatori, come la sana fantascienza dovrebbe fare, ma per conquistare due fette di pubblico senza dare noia a entrambe: il militarista ci trova tutta l'esaltazione delle virtù militari di cui ha bisogno, il pacifista si diverte pensando che tanto è tutta parodia. Anche Ender's Game purtroppo si risolve in un trucchetto simile: dopo aver insistito per un'ora e un quarto sull'irredimibile malvagità degli insetti alieni che minacciano la Terra nella sua stessa esistenza, arriva il finalino edificante in cui si scopre che, beh, non ve lo dico, comunque forse sterminarli non era tutta questa priorità. Rispetto al romanzo manca la volontà di insistere su questo aspetto (che ci costringerebbe a rivedere tutto il film da una prospettiva diversa). Sembra esattamente quel che è: un tentativo in extremis di prendere un po' le distanze dal fascismo che gronda indisturbato in tutto il resto del film. Tentativo fallito: Hood e il suo cast sono molto più a loro agio quando ci mostrano l'ascesa al potere del gerarca Ender, genocida predestinato: le battaglie sostenute per sottrarre agli altri maschi alfa la solidarietà del branco, l'astuzia innata con cui sfida o blandisce gli adulti da cui dipende il suo successo. Dietro il vetro, in realtà, gli adulti non cessano di studiarlo e di metterlo alla prova per vedere se crolla o diventa più forte. Ogni tanto passa sul set una psicologa progressista, dice che tutto questo stress farà male al ragazzo... ma suona terribilmente falsa. Non ci crediamo, Ender è una macchina per uccidere e vogliamo soltanto vederlo all'opera. Sì, beh, ha degli scrupoli, chi non ne ha... non ce ne frega niente, Ender, vai! Uccidili tutti!

La guerra del futuro la combatteranno i ragazzini. Al comando metteremo quelli che prima colpiscono e poi, solo poi, si fanno venire qualche rimorso. Daremo loro divise colorate, ne vanno matti: caschi e ginocchiere e altre bardature, anche se la guerra la faranno seduti davanti a uno schermo. Gli adulti passeranno il tempo a ripeterci, come Harrison Ford, che il nemico sta per arrivare e ci vuole distruggere, e nessun compromesso è possibile. Ma alla fine si tratterà sempre di andarlo a snidare in qualche pianetino remoto, nella fascia degli asteroidi o in Afganistan. Ender's game è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e alle 22:40. Ai ragazzini di prima media piacerà immensamente - finalmente un film che li guarda e vede in loro quel meraviglioso potenziale di assassini.
Comments (20)

Vedovi non ci si improvvisa

Permalink
Madonna quanto sei brutta
Aspirante vedovo (Massimo Venier, 2013).

Più di mezzo secolo è passato e la Torre Velasca è ancora là. Spuntata come un fungo nelle notti umide e ruggenti del boom, non si è piegata a tornadi e tangentopoli e ha resistito a ogni tentativo di rivalutazione: è brutta, incredibilmente brutta, sarà sempre più brutta, e nel 2012 il Daily Telegraph lo ha inserito tra i venti edifici più brutti del mondo. Ma Dino Risi lo aveva capito nel '59: per darci tutto il brutto del boom e di Milano, inutile darsi pena di costruire set e ambienti: bastava far scorrere i titoli di testa su quel torrione malvagio. L'incapace Nardi e l'insopportabile Elvira non potevano vivere che lassù, prigionieri reciproci intenti a torturarsi fino che morte non li separi. E se la morte non si dà una mossa, le si può sempre dare una spinta...

Cinquant'anni dopo, c'è ancora qualcuno lassù. Perlomeno di notte si vedono luci. Nuovi Nardi dribblano i fallimenti e nuove Elvire tessono trame. Non c'è motivo per non provare a raccontarle. Con buona pace dei cultori della commedia italiana, Il vedovo è un buon canovaccio che ogni tanto bisognerebbe ricordarsi di rifare - semmai la notizia è che abbiamo aspettato così tanto, al punto che il nuovo Nardi risulta nato dieci anni dopo la morte del vecchio. Non è un capolavoro indissolubilmente impregnato dello spirito di quei tempi; non è Il sorpasso, ammesso che il Sorpasso sia questo; e poi quest'anno abbiamo avuto in sala pure un tentativo di 8 e mezzo: come ci si fa a offendere se qualcuno raccatta due facce note della televisione e prova a rifare il Vedovo?  E invece c'è qualcuno che si offende. Giù le mani da Albertone, giù le mani da Franca Valeri, formidabili quegli anni. Sì.

Erano anni formidabili. Sordi faceva dieci film all'anno, e nel '59 tra l'altro vinse David e Nastro con la Grande Guerra: insomma era al picco di una lunghissima carriera. E mentre era al picco recitava in un film al mese: alcuni di questi, come il Vedovo, realizzati con un'attenzione quasi spartana al budget. Risi, che era pur reduce dal successo della trilogia di Poveri ma belli, gira tutto in tre stanze e in una villa di campagna. Vi ricordate che Nardi, quando scopre che Elvira è ancora viva, si ritira in convento? Se ridate un'occhiata al film, scoprite che il convento non c'è: una strada di collina, un albero, un frate che cerca di insegnare ad Albertone a far rispondere gli uccelli, e via che si va. Erano gli anni del boom, la gente andava al cinema una volta alla settimana, i soldi scorrevano copiosi dai botteghini - e però Risi continuava a girare con due lire.  Oggi invece c'è la crisi, e Venier non bada a spese - perlomeno l'impressione è quella: conferenze, aeroporti, grattacieli; tutto fotografato persino con qualche pretesa artistica. Venier può trasformare la Velasca da semplice fondale a presenza granulosa e ostile; Venier può concedersi il lusso di far recitare gli attori più difficili, gli animali. Ma qualunque cosa faccia (e alcune sequenze sono fatte davvero bene) pubblico e critici preferiranno sempre il filmetto girato in pochi giorni da Dino Risi nel '59, così come nessuna Audi Quattro sostituirà nel loro cuore la Cinquecento della loro prima pomiciata. E poi certo, De Luigi non è Sordi, ma lo sa. Il riflusso e la crisi gli hanno messo a disposizione decine di altri modelli di rampante frustrato, ma lui rimane un po' sfuocato; è davvero difficile immaginarlo palazzinaro o faccendiere... (continua su +eventi!) Si capisce che qualsiasi tentazione di berlusconizzare il personaggio è stata scartata a priori: Aspirante vedovo è un film ancora meno politico dell'originale, dove i trascorsi e le nostalgie fasciste di Nardi saltavano ogni tanto fuori. Ma era più facile essere antifascisti nel '59 che antiberlusconiani oggi. Al cinema bisogna cercare di portare più gente possibile, compreso chi Berlusconi l'ha votato per parecchio e adesso non vuole sentire rimproveri nemmeno indiretti; ma magari è sensibile a un paio di frecciatine anti-kasta ("con questa crisi c'è da far soldi a palate, eh").


Anche la Littizzetto non è Franca Valeri, anche se la sua Elvira (persino meno empatica dell'originale) è il personaggio migliore che ha fatto al cinema. Certo, sostituire "cretinetti" con "gnugnu" è una delle poche cose che fanno davvero pensare a una decadenza più che culturale, linguistica: cretinetti era un'invenzione che metteva assieme frenologia e anagrafe, "gnugnu" è un'onomatopea, una resa alla non-lingua dei bambini e degli animali. Pesa come un macigno su di lei il ruolo ormai liturgico che ha assunto a rai3, la sacerdotessa della parolaccia che ci aiuta a sopportare mezz'ore di interviste a venerati maestri, dai che dopo il premio nobel c'è la Litti che dice merda fregna vaffanculo. E questa è la tv colta. Anche Aspirante vedovo è percepito come prodotto medio-alto; critici e ufficio stampa ne sottolineano per esempio l'assenza di volgarità. Allora uno curioso va a vedere come hanno fatto a girare una commedia nel 2013 senza volgarità, e scopre che i primi cinque minuti del film sono costruiti intorno a gag sulla cacca del cane. Per dire quanto ormai si sia abbassata l'asticella: a De Luigi scappa anche un vaffanculo nel trailer. Altre cose che nell'originale mancavano e che adesso si possono mostrare: topi morti, psicofarmaci, chirurgia plastica, formaggio di fossa, rumeni, vescovi mondani e intrallazzoni (bravissimo Bebo Storti). Cose che c'erano nell'originale e oggi evidentemente non funzionano: nobili in disarmo, nazisti e pedofili (l'ingegnere degli ascensori era entrambe le cose), il mambo. Cose che potevano sembrare verosimili 50 anni fa e oggi no: l'amante che si fa viva al funerale e comincia a dirigere la servitù. E ammazzare qualcuno con un ascensore poteva avere un senso. Invece il piano per assassinare la Littizzetto è in assoluto la cosa più sconclusionata e inverosimile che ho visto quest'anno al cinema - e ho visto la fine del mondo due o tre volte, zombie e robottoni e cloud atlas.



Aspirante vedovo è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 15:30, alle 17:35 e alle 20:30; al Fiamma di Cuneo e alle 22:30. È già fuori da più di due settimane; se non ci siete ancora andati magari un motivo c'è.
Comments (3)

Lauda/Fonzie, un film di Ron Howard

Permalink
Rush (Ron Howard, 2013)

Disse un giorno lo Studio alla Sregolatezza: non pensare che io ti invidi, o che sia stanco di incassare i tuoi colpi e batterti sempre ai punti. Ma se ci potessimo scambiare i ruoli un solo giorno della vita, giusto per capire l'effetto che fa giocarsi tutto a ogni curva... "Lascia perdere", rispose la Sregolatezza, "quel giorno pioverebbe e perderesti la faccia". Sai che perdita, replicò l'amico. E poi la faccia a che mi serve, fin tanto che posso infilarmi un casco.

Questo non è il film, vi rendete conto.
Rush è il film con i modellini che avete da qualche parte in solaio, salvo che sono 1:1 e fanno brumbrum per davvero. Proprio quelli di metà anni Settanta che sembravano davvero pacchetti di sigarette un po' ammaccati, e probabilmente non ne costruirono mai di più brutti, ma chi se ne frega, sono proprio loro. C'è la Tyrrell a sei ruote? Giusto in un paio di fotogrammi: ma c'è. La Lotus nera col bordino dorato c'è? Non poteva mancare. La Ferrari Atlas Ufo Robot con quell'aspiratore da disco volante? È in prima fila. E ce li hanno quei meravigliosi nomi scritti sulle fiancate? Regazzoni, Fittipaldi, Ickx, Andretti? I nomi dei piloti di Formula 1 non suonano come i nomi normali. Un nome normale ("Fisichella", "Schumacher") smette di sembrare normale quando lo porta un pilota di Formula 1. Non suonano italiani né inglesi né nulla, sono un popolo a parte, e quello che suonava meglio di tutti era: Lauda.

Un latinismo assurdo e necessario, un'invocazione, un ringraziamento. Niki Lauda, sin da quando riesco a ricordarmelo, per me è sempre stato un freak. Non faceva paura, il suo volto era solo un'ulteriore pellicola tra il cervello e il casco. A farmi impressione erano le vecchie foto, di quando era ancora un essere umano tra gli altri.  Prima che morisse tra le fiamme e risorgesse come il cattivo di una storia di supereroi, freddo, crudele, inestinguibile. Ma come si chiamava il supereroe biondo? Non se lo ricorda più nessuno. Hunt. Strano, non suona come un nome da pilota (continua su +eventi!)

Rush è un film di Ron Howard, che in 30 anni ne ha fatti tanti, e molti ve li ricordate benissimo. Splash. Cocoon. Willow. Apollo 13. A beautiful mind. Il codice da Vinci. Frost/Nixon. E tanti altri che spesso vi sono piaciuti. Ma forse non ricordate che sono suoi. È bravo, ha la mano sicura, non fa passi falsi, gli sono capitati film sbagliati ma non a causa della sua regia: difetti strutturali, poco carburante, gomme sbagliate, incidenti di percorso. Lui finché può un film in pista riesce a tenerlo. Ma non appassiona i critici, non lascia segni riconoscibili che li stuzzichino. Può compiere mosse spericolate, se ritiene che ne valga la pena; ma non ha affatto paura di prendere la strada più banale, se è la più efficace per portare il film al traguardo. Dissolvere una scena di sesso in un pistone che sbatte nel cilindro, si può ancora fare? E perché no, vecchia metafora fa buon brodo. Come fai a mostrare che le macchine vanno davvero forte? Foglie secche che svolazzano, in tutte le stagioni, viva le foglie secche, non ce n’è mai abbastanza. Austriaci inglesi e italiani che parlano sempre la stessa lingua, come nei vecchi film di guerra dove al massimo il nazista calcava un po’ le consonanti? Personaggi che passano il tempo a riassumere la loro vita alla prima bella sconosciuta che incontrano? O a rammentarsi a vicenda le regole della disciplina che praticano insieme da anni? Non è realistico, i biopic seri non fanno più così da un pezzo. Però funziona ancora benissimo, la trama fila che è un piacere, e non c’è nemmeno bisogno di inventarsi snodi assurdi, perché il Campionato Formula 1 del 1976 fu veramente così: nessuno scrittore oserebbe più inventarsi una storia con tanti colpi di scena e tanto inverosimili.

Ron Howard ha fatto decine di film, ma è come se non li avesse firmati. Non li associamo alla sua faccia. Quella continua a farci pensare a Richie Cunningham, il ruolo di ragazzone-medio americano, per il quale aveva studiato sin da bambino, e che avrebbe dovuto fare di lui l’attore tv più popolare d’America e del mondo. Se un giorno sul set non fosse capitato un tizio qualunque, nemmeno troppo bravo a recitare, un personaggio secondario, ma irresistibile. Si chiamava Henry Winkler, doveva fare il bullo italamericano: non era nemmeno di origine italiana, ma con quel giubbotto indosso era irresistibile: era Fonzie. Si mangiò il telefilm, ne divenne il protagonista, e Ron Howard se ne fece una ragione. Studiò da regista, e il primo lungometraggio glielo finanziò proprio l’amico e rivale. Giorni felici, ma nulla di veramente indimenticabile, che senso ha rivangare? Niente. È solo che.

È solo che nel film c’è stato un momento, uno solo, in cui il bravissimo Daniel Brühl infilandosi il cappuccio coi fori degli occhi non mi è sembrato più né Lauda né Brühl. Per un attimo ho visto il volto sempre diverso e uguale di Ron Howard, finalmente tornato sulla scena: Ron Howard, archetipo del wasp noioso, che si decide a mettere la sua faccia su un suo film. Un ritratto di Ron Howard nei panni di Niki Lauda, il pilota più regolare e noioso del mondo, un ragioniere nel circo itinerante dei matti suicidi: Niki Lauda, davanti al quale la Morte e la Gloria, quando hanno voluto farsi capire, hanno dovuto esprimersi in percentuali. Ron Howard che ci mostra il dito e ci suggerisce dove ficcare i nostri discorsi sull’autorialità: non sarò mai il vostro Fonzie, non mi è mai interessato. L’ho invidiato? Può darsi, ma alla lunga ho sempre vinto io. Vincerò anche stavolta. Ma applaudite e premiate pure i film degli altri, il vostro amore non mi interessa, le vostre coppe non saprei dove appoggiarle. C’è una sola cosa che vi chiedo, e non è la stima, non è la gloria, né le foto sul tappeto rosso. Una cosa soltanto.

Otto euro.

E in certe sale mi arriva anche una percentuale sui popcorn.

Ma voi innamoratevi pure del Fonzie di turno. Sbrigatevi anzi. Che quelli invecchiano più in fretta. È l’unica pista in cui riescono a sorpassarmi.

Rush si lascia guardare che è un piacere, al Cityplex di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:00, 21:00, 22:40), al Multisala Impero di Bra (20:10, 22:30), al Cinema Italia di Saluzzo (20:00, 22:15), al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). All’uscita, fate guidare la ragazza: voi non sapete il perché, ma lei sì.
Comments (3)

Il ritorno di Calcinculo

Permalink
Kick-ass 2 (Jeff Wadlow, 2013)

Non mi ricordo nemmeno chi dei due sta convincendo l'altro che mettersi il costume è il suo destino - si scambiano ruoli e battute, dai, è chiaro che sono due proiezioni della stessa persona.
Dave Lizewski è cresciuto. Sta per andare al college. Non è più quel coglione che mascherato da super-eroe se le faceva dare di brutto nei video più cliccati di youtube. O no? Da qualche parte nella sua testa riccioluta di tardo teen-ager annoiato si aggira ancora quella fantasia allucinata, la bambina assassina. È cresciuta anche lei, adesso ha, gasp, quindici anni. Ancora pochi per alimentare fantasie sessuali consapevoli, quindi continua a vivere in un fumetto iperviolento dove salva Dave dai criminali spaccando ossa e tranciando mani. Dave Lizewski non è cresciuto. Non può. Da qualche parte sa di essere anche lui il protagonista di un fumetto. E che malgrado ogni logica e verosimiglianza, si ricalcherà il cappuccetto verde in testa e si rimetterà a prendere botte in compagnia di qualche altro cosplayer sciroccato.

Ci sono vari motivi per cui un film di Kick-ass è più interessante di quasi ogni altro film di supereroi. Uno è Chloë Grace Moretz, la bimba assassina. Un altro è Chloë Grace Moretz, ora anche teen-ager alle prese con le risaputissime dinamiche dell'high school (indovina, ci sono tre cheerleader che la prendono di mira, ma lei è più tosta. C'è anche la gag sul vomito, che nelle comunità giovanili americane dev'essere una specie di tabù: chi vomita in pubblico perde automaticamente il suo status). Il terzo motivo è l'ambiguità fondamentale del concetto di Kick-ass, una serie che nasce per prendere per il culo i cosplayer (quelli che si travestano da personaggi alle convention), ma alla fine per esigenze di drammatizzazione finisce per trasformarli in eroi veri. È come se don Chisciotte a un certo punto, in virtù della sua purezza di cuore, diventasse realmente un grande cavaliere, e Ronzinante un focoso destriero, e Dulcinea prendesse le forme, che ne so, di Chloë Grace Moretz. Nel primo episodio Lizewski inaugurava le imprese facendosi accoltellare e investire da un'automobile; nel finale saliva su un grattacielo con uno zainetto a reazione. Succede più o meno la stessa cosa anche stavolta. La storia comincia nel reame del verosimile, raccontando di sfigati che per varie traversie esistenziali hanno deciso di andare in giro in maschera e opporsi al crimine, rischiando di farsi molto male. Non sono tutti nerd incurabili, c'è anche la coppia che ha perso un figlio e lo fa per tenere alta l'attenzione sul caso: il quarto motivo per cui Kick-ass è interessante è per questa commistione di ridicolo e struggente, purtroppo appena accennata.

Lentamente però si entra nel regno della fiaba; è un percorso irresistibilmente regressivo, in cui Chloë Grace Moretz ti prende per mano. Un quinto motivo per cui Kick-ass può darti i brividi, è che i due piani (realtà e fumetto) non combaciano mai bene, e ti suggeriscono che qualcosa non stia funzionando: lo stesso pugno può romperti il naso o rimbalzare. Forse qualcuno sta sognando. Forse l'unico vero supereroe, Chloë, in realtà non esiste, è soltanto un fantasma nella testa di Dave... (continua su +eventi!) Il suo coniglio fantasma. Una scheggia di infanzia che non si rassegna: non andrai mai al college, il tuo posto è qui, tra i fumetti. Presto o tardi il fiabesco prende il sopravvento. Un Jim Carrey quasi irriconoscibile è il mago sacrificabile che proverà a rifare di Dave un eroe. Christopher Mintz-Plasse è l’ex amico viziato delle medie: per trasfigurarsi in antieroe gli basta calcarsi in faccia le maschere sadomaso della mamma appena morta. Coi soldi dell’eredità ha deciso di finanziare una squadra di super-cattivi che sono, definitivamente, non di questo mondo; tra cui la gigantessa Mother Russia, protagonista di una delle scene più assurdamente violente e, lo confesso, divertenti.

Un sesto motivo per cui Kick-ass mi è piaciuto di più di tante altre trasposizioni da fumetti, è che non ho letto il fumetto. Chi lo conosce si sta già ovviamente lamentando delle edulcorazioni – però capiamoci; è pur sempre un film dove una quindicenne ti taglia le mani e una falciatrice da giardino può tranciare un paio di giugulari. È comunque interessante notare alcune autocensure: una riguarda uno stupro, ribaltato in farsa ma con un dettaglio realistico: come succede a molti violentatori veri, il supercattivo non riesce ad avere un’erezione, e quindi decide di compensare con le botte. L’altra riguarda un cane, con tanto di strizzata d’occhio dello sceneggiatore: a un personaggio umano si può tagliare la testa, al suo cane no. “Non sono così insensibile”, dice il perfido Chris.

Il settimo motivo per cui Kick-ass, a dispetto di molte recensioni insoddisfatte, mi ha divertito parecchio, è che io i cosplayer li sento torbidamente affini. Certo, non mi dispiacerebbe vederli tutti orrendamente menati. Ma poi appena qualcuno ci prova davvero comincio a sentirmi in pena. È che alla fine anch’io ho avuto per tanti anni una doppia vita, un’identità segreta. No, di notte non mi mettevo dei cappucci buffi, ma quasi. Mi bastava assumere un nick ugualmente buffo. E anch’io andavo in giro a caccia di bricconi, saltando di sito in sito; e li inchiodavo alle loro malefatte, e in qualche caso mi facevo pure male. Ero un blogger. Lo sono ancora. Da che pulpito posso fare la predica a uno sfigato come Dave. La sua fame di avventura la capisco benissimo. Lo sguardo rassegnato del padre, perché m’è capitato un ragazzo così, l’ho già visto. Calcinculo prima o poi crescerà. Ma fino ad allora, vai di calcinculo.

L’ottavo motivo è Chloë Grace Moretz – stavo per dimenticarmi che in questo film c’è Chloë Grace Moretz. In seguito ne farà tantissimi altri. Ma non avrà più sedici anni, e non assalterà più un furgone in vestito nero e camicetta bianca gridando ai gangster: “siete morti, succhiac****”.

Kick-Ass 2, indovinate, è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:20 e alle 22:40. È un film molto violento. Meglio aver già visto il primo episodio. Buon divertimento.
Comments (7)

La purga è nelle sale

Permalink
La notte del giudizio (The Purge, James DeMonaco, 2013)

In un futuro ormai prossimo, gli Stati Uniti sono soverchiati dalla produzione di film inutili. Decidono di purgarsene in agosto, facendone un mucchio unico e gettandolo nelle sale cinematografiche di un Paese alleato troppo debole per opporsi, che ne so, l'Italia. No, scherzo. In un futuro ormai prossimo, per rimediare alla violenza endemica, i Nuovi Padri Fondatori degli Stati Uniti hanno deciso di concentrare tutti i fatti criminosi in un giorno dell'anno: un solo giorno in cui si può fare qualunque cosa, compreso ammazzare, senza pagarne le conseguenze. Il giorno dopo sono di nuovo tutti tranquilli e non hanno più voglia di delinquere. Ve l'ho spiegata in tre righe, non crediate che il film ci metta molto più tempo.

È un peccato, perché è uno spunto interessante. Ricorda la cara vecchia fantascienza sociologica anni Cinquanta-Sessanta: è quella tipica idea su cui Robert Sheckley avrebbe scritto un raccontino fulminante, non più di cinque pagine. Anche questo script non dev'essere molto più lungo: in molti punti è palese l'affanno del montatore per raggiungere un minutaggio decente ("aggiungiamo ancora qualche minuto di tizi spaventati che brandiscono una torcia elettrica contro una parete"). Ricorda anche certa onesta produzione di serie B degli anni Settanta, ma con tanta crudeltà gratuita in meno. Ha visto giusto Nanni Cobretti (Nanni Cobretti vede sempre giusto) quando lo ha definito una specie di finto remake: malgrado sangue ne scorra, si ha costantemente la sensazione di vedere la copia sbiadita di un originale molto più cinico. Un indizio interessante sta nel curriculum dell'autore e regista, James DeMonaco: prima di questo film ha scritto, tra gli altri, il rifacimento del 2005 di Distretto 13 - le brigate della morte. Cosa aveva cambiato - cosa aveva ritenuto necessario cambiare per rendere il primo capolavoro di Carpenter appetibile e commerciabile a una nuova generazione? Tante cose. Troppe.

Per esempio: niente scena del gelato. Non si ammazzano più i ragazzini gratuitamente, non si può proprio più fare. E poi: le “brigate della morte”, gente che ammazza e si fa ammazzare per un niente, in sostanza la risposta di Carpenter agli zombie di Romero… nel rifacimento scritto da DeMonaco sono poliziotti deviati. Hollywood non può più stuzzicare il fascismo inconscio dello spettatore medio con lo spettacolo di gang fuori controllo: negli anni Settanta si poteva fare, adesso no, non a caso di tante cose ’70 che si sono rifatte, manca ancora all’appello il Giustiziere della Notte: troppo fascista. Il giorno che finalmente ci riusciranno (Stallone si è già prenotato) gli toccherà di sicuro ammazzare anche qualche poliziotto deviato (come succedeva pure all’ispettore Callaghan, mettiamo le cose in prospettiva). Secondo me a DeMonaco l’idea per The Purge è venuta proprio mentre riscriveva Distretto 13, che è più o meno lo stesso film: un assedio urbano. Insomma, sotto un involucro originale, che attirerà al cinema qualche appassionato d’antropologia (in fondo il carnevale medievale non funzionava allo stesso modo? E i saturnali nell’antica Roma?) c’è una storia vecchia come il cinema: quando scriveva il vero Distretto 13 Carpenter aveva in mente sia Zombi che Un dollaro d’onore.

Siccome coi soli appassionati di antropologia non si riempiono le sale (soprattutto in agosto), DeMonaco non si preoccupa minimamente di sviscerare l’idea del rito carnascialesco, e si dedica quasi subito alle variazioni sul tema della famiglia barricata in casa. Dalla sua parte ha almeno due attori d’eccezione (Ethan Hawke e Lena Headey) che da soli probabilmente valevano tutto il budget, e un sacco di spunti promettenti. La figlia ribelle col fidanzato sgradito a papà; il fratellino nerd con velleità umanitarie; il padre arrivista che deve dimostrare di avere conservato un barlume d’umanità; il quartiere “bene” che si barrica invano; i vicini impeccabili e antipatici, la gang di wasp assassini… con tanto materiale, qualche scena gli viene persino bene (memorabile il buon padre di famiglia che per salvare i figli spiega alla moglie come infierire su un ostaggio bendato), ma il bilancio finale è abbastanza fallimentare: un film di barricati in casa dove i personaggi saltano da una stanza all’altra continuamente, senza motivo sensato e senza raccordi, è un furto. Perché poi a far suspense coi corridoi bui sono bravi tutti ormai.

DeMonaco vorrebbe mantenere la barra a sinistra, e mostrare tutta la sua disapprovazione per una middle class che si difende dai poveri armandosi e alzando barricate; alla fine però si ha la sensazione che i personaggi che rinnegano la middle class e rifiutano il rito di violenza si comportino in modo assolutamente irragionevole. Il bambino, soprattutto. Dovrebbe dar voce all’innocenza, ma perlopiù commette coglionate incomprensibili. Alla fine non credo che nessuno si possa alzare dalla poltroncina senza la sensazione di essersi purgato di cinque o sette euro – e la cosa non ci rende meno violenti. Per niente. La notte del giudizio (titolo disonesto, il film si svolge di giorno) è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 21:30. Bisogna tener duro, l’estate sta finendo, la prossima settimana esce un Pixar, dai.
Comments (3)

L'audace colpo dei soliti palestrati

Permalink
Pain & Gain - Muscoli e denaro (Michael Bay, 2013).

Daniel Lugo (Mark Wahlberg) crede nel fitness, crede nei bicipiti, crede nel sogno americano. È stanco di recitare la parte di palestrato senza cervello, è stanco di motivare ricchi flaccidi in palestra per pochi $ all'ora. I muscoli che si è pompato addosso si meritano più. Daniel Lugo ha un piano: con un paio di colleghi bistecconi sequestrerà un suo ricco cliente, lo torturerà ma poco, quanto basta per farsi intestare tutti i suoi beni. Daniel Lugo mostrerà tutti di che cosa è capace. Purtroppo Daniel Lugo è capace di fare cose veramente molto stupide.

Michael Bay (Bad Boys, Armageddon, Transformers) crede nel cinema, crede nel montaggio serrato, crede nel sogno americano. È stanco di recitare la parte di regista senz'anima, è stanco di montare quindici sequenze in un minuto per ubriacare teen-ager iperattivi. La sua sensibilità di videoclipparo si merita di più. Michael Bay ha un piano: farà un film a basso budget e dimostrerà a tutti di che cosa è capace. Purtroppo, in effetti, Michael Bay è capace di tutto.

È facile odiare Michael Bay. Persino i cinefili antisnob, quelli che vogliono soltanto strafogarsi di pistacchi mentre guardano robottoni e lucertoloni: persino loro disprezzano Michael Bay. Perché, che cos'ha che non va. Ecco, è questo il punto. Non ha proprio niente che non vada. È il sogno americano alla massima potenza, senza controindicazioni, senza retropensieri, è come farsi di steroidi senza pensare al domani e alle controindicazioni ai testicoli, senza neanche il sospetto che ehi, forse stiamo esagerando, forse stiamo trasformando il cinema in un bambolotto gonfiato e senz'anima. Michael Bay ce l'ha, un'anima? Il compianto Roger Ebert propendeva per il no: se l'era venduta per girare The Rock. In cambio Satana aveva probabilmente imposto il cut finale di Armageddon - chi altri se non lui.

Se anche non avesse venduto l'anima al demonio, sicuramente Bay ha venduto il suo corpo alla Hasbro, il giocattolificio che produce i transformers... (continua su +eventi!)
Da sette anni, pensateci, sette anni, Bay come regista non fa che girare le cineprese intorno a robottoni e modellini di robottoni, a chi non verrebbe la nausea? Ok, guardarne un'avventura di Optimus Prime è divertente, ma vi ci sposereste? Ve lo portereste a letto tutte le sere? È una miniera di soldi, ma è comunque una miniera, sudore, fatica. E tra un anno esce il prossimo. Nel frattempo in un qualche modo è riuscito a girare questo piccolo film, che aveva in mente da anni, su un caso di cronaca avvenuto nella sua amata Miami: l'ascesa e la rapida caduta di una gang di sequestratori palestrati e stupidissimi. Ci sarebbe da ridere, se non fosse quasi tutto vero. Il guaio è che a un certo punto si ride comunque, malgrado un sottotitolo avverta: È ANCORA UNA STORIA VERA. Nel frattempo Dwayne Johnson sta usando un barbecue per grigliare pezzi di cadavere.  Forse alla fine davvero non ce l'ha, un'anima, Michael Bay. Per quanto si sforzi.

Lui ci terrebbe a mostrarne una. Non pretende di essere originale, il film è per sua ammissione una tarantinata. In realtà sulla media distanza saltano fuori reminiscenze meno scontate - Scorsese, i fratelli Coen - il tutto mescolato senza il solito ipercinetismo: vuoi che stavolta non c'è l'esigenza di ubriacare i ragazzini, vuoi per le limitazioni del budget, fatto sta che questo è il suo primo film dai tempi di the Rock che non sconsiglierei a un epilettico. Bay vuole dimostrare che sa raccontare una storia adulta, che conosce l'ironia, che è capace addirittura di inserire un messaggio politico: in tutto questo andrebbe incoraggiato, perché Tarantino magari quando discetta di razzismo è più consapevole di lui, ma predica ai convertiti. Invece un Michael Bay, re del cinema tamarro, che si mette a satirizzare sul sogno americano è un po' come se Neri Parenti facesse cadere la dentiera a Berlusconi in un cinepanettone: quelle cose che incidono davvero, che spostano voti. Davvero, andrebbe sostenuto Michael Bay, che tra un robottone e l'altro invece di spaparanzarsi in spiaggia gira una satira a base di body builder cocainomani o impotenti, professionisti dei motivational speech da quattro soldi, poliziotti razzisti e cialtroni, notai corrotti (sì, anche in Florida esistono i notai). Un affresco sgargiante e corrosivo, e ci lamentiamo pure? Bay lo ha praticamente girato nel tempo libero. Whalberg e Johnson hanno rinunciato al compenso (si rifaranno con le percentuali degli incassi). Tutta gente ricca e famosa che invece di stare in spiaggia a sorseggiare daiquiri si impegna a darci un film cinico e divertente, e noi ci lamentiamo? Di cosa ci lamentiamo?

Del cinismo. È davvero un film troppo divertente. I tre protagonisti sono talmente pasticcioni che non puoi voler loro un po' di bene, come ai soliti ignoti di turno. Se poi nel mazzo c'è Dwayne Johnson, la più simpatetica montagna di muscoli mai inquadrata a Hollywood - purtroppo può fare un solo tipo di personaggio, ma lo fa veramente bene: in mezz'ora di film usa più espressioni facciali che Schwarzenegger in tutta la sua carriera. Il problema è che con tutta la sua simpatia, in questo film fa cose orribili. Non è solo questa cosa dei tranci umani in un barbecue. A un certo punto c'è una signora che si aggira a carponi sul pavimento dove giace suo marito con la testa schiacciata. Ogni volta che cerca di scappare, le fanno una pera di tranquillante. Sembra una comica. Ma è successo davvero. Quando ci pensi, ci resti male: sul serio ho riso per una cosa del genere? È un incubo, Michael Bay, come hai fatto a presentarmela come una cosa divertente? Ok, lo so, è intrinsecamente divertente. Ma non capisci quanto sia devastante, sul piano morale, ridere per dei crimini realmente commessi? Sul serio, non lo capisci? Cos'è che ti manca, se non l'anima cosa?

E il tuo senso dell'umorismo. Riempire un film di piselli di gomma, perché? È una scelta del tutto autoriale, nella storia vera la prima vittima del sequestro non viene imprigionata nel magazzino di un sexy shop: nel baule della sua macchina i poliziotti non rinvengono un dildo bruciacchiato. Bay ha già tradito la "storia vera" in tanti modi (si è inventato lo sceriffo buono che capisce tutto, ha trasformato un sadico violento in un timido impotente innamorato della solita Ciccia Wilson). Tutte licenze abbastanza comprensibili (se n'è prese più Spielberg per Lincoln, o Affleck per Argo), tranne questa ossessione per i falli in gomma che forse vorrebbe introdurre un sottotesto omoerotico,  con la delicatezza di un tredicenne con un pennarello che di fronte a un muro disegna la prima cosa che gli viene spontanea. Viene il dubbio che Bay sia un po' quel tredicenne lì, anche se invece di un pennarello ha carrelli e macchine da presa ed effetti speciali a strafottere. Forse è tutto qua il mistero: Bay non è che giri film per ragazzini, Bay è ragazzino dentro. Anche se fa finta di annoiarsi dei Transformers, alla fine i suoi palestrati continuano a montarsi e smontarsi in un modo molto simile, e perdono anche i pezzi (vedi la gag dell'alluce amputato a Johnson, anch'essa del tutto gratuita e dichiaratamente fallica).

Così alla fine non sai bene cosa pensare. Se Bay voleva dimostrare di saper fare qualcosa di diverso che montare e smontare robottoni, il film non è del tutto riuscito. Se voleva divertirci, accidenti, sì, ci ha preso in pieno. Se voleva farci vergognare del nostro divertimento, maledizione, sì, sei veramente il demonio Michel Bay.

Pain & Gain è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:05 e alle 22:45; al Multilanghe di Dogliani alle 21:30. Buon divertimento, e vergognatevi.
Comments (5)

Un film morto. Vivente. No, morto.

Permalink

I SOLDI DEL BIGLIETTOOOOH...GRRRR....
World War Z (Marc Forster, 2013)

1. Qualcosa sta succedendo a tutti i film di zombi. Forse è cominciato con quel telefilm tratto da quel fumetto. O con qualche remake del sequel del remake - insomma, a un certo punto tra i film di zombi si è sparso il contagio, in tutto il mondo sono diventati noiosi e prevedibili. Brad Pitt indaga. Passa da un set catastrofico a Philadelphia a un film di guerra girato in notturna per risparmiare, a un altro set catastrofico in Israele, e ovunque non trova che noia e prevedibilità. Da dove si è diffuso il morbo? "Non importa chi è stato il primo" gli dice una comparsa qualsiasi, "cerca piuttosto un modo per ravvivarli". Dopo un atterraggio di fortuna in Galles (equipaggio e passeggeri erano stati annoiati a morte dall'ennesimo film di zombi), Pitt precipita nei pressi di una cineteca e ha un'intuizione: per salvare il genere bisogna iniettargli il peggior virus narrativo dell'ultima generazione.
"Ditemi dove lo tenete rinchiuso".
"No, non possiamo... no! Guarda come ha ridotto Star Trek!".
"È la nostra unica speranza, liberatelo. Facciamoci tutti un'endovena di Lindelof".

2. Che poi non è nemmeno giusto dare la colpa a Lindelof. È un film nato sbagliato, da un'idea compromissoria (un film di zombi con meno sangue possibile, affinché non sia vietato ai 14enni negli USA che altrimenti restano a casa a guardarsi Romero in dvd), e con la terribile responsabilità di avere devastato un libro omonimo che proprio non se lo meritava. Il risultato finale, dopo ripensamenti e riscritture, sta al libro di Max Brooks come uno zombi sta a un essere umano: il libro era vivo, brillante, pieno di idee e di riflessioni sociali, politiche, economiche; il film è un brandello di narrativa morta, anzi più brandelli di narrativa morti messi assieme, che camminano stancamente in direzione del finale all'unico scopo di infettare qualche altro film, magari un sequel. In un certo senso Pitt e compagnia sono riusciti a realizzare non già un film di zombie, ma un film zombi, un film morto vivente. Più morto che vivente.

CIAO! Che fate di bello? Io
ACQUISTO IL CORPO della moglie
di Brad nei contenuti speciali.
3. Finalmente un film di cui posso rivelare il finale, visto
che lo hanno buttato via e Lindelof ne ha scritto uno diverso (che poi non è neanche così malissimo, dai). Dunque, l'aereo da Gerusalemme atterra senza grossi intoppi in Russia. Qui le simpatiche guardie aeroportuali sparano a tutti i vecchi i deboli e i malati, e arruolano gli altri nella grande guerra patriottica contro gli zombi. Brad e la cecchina israeliana vengono quindi impiegati nella difesa di Mosca, e hanno modo di notare che gli zombi slavi sono molto più lenti di quelli americani o israelopalestinesi. La geniale intuizione è che non reggano il freddo. Appena Brad se ne rende conto, primo al mondo (i canadesi troppo scemi per condividere l'informazione) si appende a qualche telefono satellitare e cerca ovviamente la moglie. Non so se avete notato, ma l'agente segreto delle Nazioni Unite, se deve fare una telefonata sola, non la fa alle Nazioni Unite, ma alla moglie per chiedere se i bambini stanno bene, e la fa coi nostri soldi di contribuenti mondiali, e poi uno si sorprende che gli zombi vincano le elezioni. Comunque. Adesso tenetevi: la famiglia si trova in un campo profughi in Florida, zona subtropicale (quindi zombi velocissimi), e per garantirsi la sopravvivenza la moglie VENDE IL SUO CORPO. E non lo vende a chicchessia, ma per esempio A MATTHEW FOX DI "LOST", che se siete pronti di riflessi avete notato in una scena iniziale su un elicottero; e se lo avete notato vi sarete pure chiesti: ma che ci fa Matthew Fox di Lost? Nulla; passava sul set per caso in elicottero; ma prima che Lindelof ci mettesse le mani COMPRAVA IL CORPO DELLA MOGLIE DI BRAD PITT, o le faceva da pappone, non ho capito bene. Brad capisce che deve assolutamente tornare a casa prima che le cose si mettano davvero male, quindi attraversa la Russia e il Pacifico e sbarca in Oregon. Fine del film e arrivederci al prossimo. Sette euro bene spesi, vero? Dopo tre anni che ci lavoravano lo script era una cosa del genere. Ne hanno anche girato dei pezzi (la battaglia di Mosca). Poi qualcuno deve essersi detto: ma sul serio? Dopo tutti gli sforzi per produrre un film di zombi senza sangue e sbranamenti; dopo averne girato metà al buio per evitare che si vedano i morsi e le budella; dopo aver dosato il sangue col contagocce... sul serio ci infiliamo il mercimonio della madre di famiglia iuessei? Come siamo riusciti a trasformare un bel romanzo satirico in un polpettone deprimente come questo? Chi ci aspettiamo che verrà a vederlo, quale famiglia porterà i figlioletti al cinema estivo a vedere un film di zombi in cui il papà diventa un fantaccino russo e la mamma con tanto amore per i figli fa le marchette in un campo profughi? Come ne usciamo da questo guaio?

"Apri la valigetta" (continua su +eventi!)
"No, la valigetta no!"
"Non abbiamo altra speranza".
"Ma hai visto cosa è successo a Prometheus"
"Ti dico che è l'unica speranza. Dieci milligrammi di Lindelof, sparati in vena. Persino gli zombi lo schifano".

4. Ma Brad Pitt da qui in poi farà sempre così? Metterà la famiglia in tutti i film che fa? Adotterà un bambino ogni volta? Se gli danno i Tre Moschettieri, lo trasformerà in "La famiglia D'Artagnan?" Se Craig gli cede il ruolo, lui sposa Ms Moneypenny nell'episodio "007 - Casa Dolce Casa"?


Però non è un muro.
5. Per fare un esempio di come il film abbia mortificato il libro: l'episodio di Gerusalemme. Come tutte le cose che c'entrano con Israele, è molto controverso; i muri nel film sono molto simili a quella "barriera difensiva" (era vietato chiamarla "muro") costruita nel decennio scorso che rese ancora più difficile la vita dei palestinesi ma pose fine agli attentati suicidi in Israele - anche se alla prova dei fatti gli zombi si mostreranno assai più determinati ed efficienti di Hamas e Jihad Islamica. Ma il risultato finale è così amorfo, anche da un punto di vista ideologico, che puoi persino accusare il film di antisemitismo subliminale: c'è una pandemia mondiale di morti viventi e gli israeliani LO SAPEVANO CON UN MESE DI ANTICIPO. Che bella idea, chissà a chi è venuta, chissà quante pacche sulle spalle gli hanno dato, ehi, eppure mi ricorda qualcosa... ebrei che conoscono una catastrofe in anticipo... dove l'ho già sentita? era una leggenda metropolitana, vero? Nel romanzo l'episodio assumeva un indirizzo politico chiaro: Brooks immagina che l'emergenza forzi israeliani e palestinesi a creare uno Stato unitario per fare fronte comune contro i morti viventi - salvo dover fare i conti con una rivolta degli ultrafondamentalisti ebrei che degenera in guerra civile. È forse l'idea portante del libro: gli zombi non sono il vero problema, il problema è la difficoltà degli umani a ad andare d'accordo, a fronteggiare un'emergenza in modo razionale. E poi sì, per Brooks i fondamentalisti sono la quinta colonna degli zombi. È un'idea forte, può farti discutere, ma è irriproducibile in un blockbuster. Non puoi offendere gli israeliani, fondamentalisti o meno, in un blockbuster. Nemmeno i cinesi puoi più offendere, e quindi a Brad nessuno vuole dire che il paziente zero è in Cina. Nel libro era chiaro, nel film non si può dire. Non si può nemmeno spostare in qualche altro Paese, perché è un blockbuster e deve andare nelle sale di tutto il mondo. L'unico Paese di cui può parlare male un blockbuster, lo si capisce con chiarezza, è la Corea del Nord. Quindi, insomma, la globalizzazione porta alla pandemia. Non importa quanto un'idea di partenza sia originale, e interessante, e piena di contenuti originali: quando la trasformi in un blockbuster diventerà invariabilmente la storia di un padre di famiglia che salva il mondo da una minaccia. A quel punto perché non riguardarsi la Guerra dei Mondi, dove i bambini non sono semplici burattini in balia degli incidenti stradali?

6. Ancora sull'episodio di Gerusalemme: alla fine gli zombi riescono a saltare la barriera, ma perché? Perché la gente dentro fa troppo rumore. E perché fanno troppo rumore? Perché i palestinesi e gli israeliani stanno innalzando canti di pace, sciagurati! Il complesso militare industriale ce la mette tutta per salvarci dai morti viventi, e i pacifisti con le loro canzoni inutili aprono i cancelli ai morti viventi. Ora, da un punto di vista politico i film catastrofisti si possono dividere in due famiglie, a seconda di come trattano il potere. Possono denunciarne la miopia, mettendo in scena presidenti e generali inetti che prendono decisioni sbagliate (spesso osteggiando con un geniale scienziato che ha capito tutto facendo equazioni sulla lavagna mesi prima). Oppure possono attaccarsi alle braghette dei generali come l'unica risorsa: viva lo Stato d'emergenza. Abbiamo bisogno di un esercito forte, in caso di catastrofi. E abbiamo bisogno di catastrofi, sennò ci stanchiamo a finanziare un esercito forte. Questo film - questa carcassa di film - è del secondo tipo, più per pigrizia che per reale convinzione. Vedi la disinvoltura con cui ammazza subito presidente e vicepresidente, così non c'è neanche bisogno di mostrare un fotogramma di Casabianca, ormai comandano gli ammiragli. E il geniale scienziato? Lo mandano subito nel posto più infestato al mondo, via il dente via il dolore.

7. Più che un film catastrofico, insomma, una catastrofe in sé: vedibile, persino divertente a sprazzi, come certi incidenti stradali che ci fanno rallentare, anche se il giorno dopo ricordiamo soltanto il senso di colpa. Vi susciterà la stessa simpatia delle lamiere contorte: un po' le stesse sensazioni di un B-Movie, ma con tanti milioni di dollari in più. E alla fine capisci come deve sentirsi Lindelof: l'ebrezza del Frankestein della narrativa fantastica anni '10. Mi avete dato dei pezzi di carne morta, organi sparsi che nemmeno combaciavano, io li ho cuciti assieme, gli ho dato un senso, e adesso vedete: cammina. Sì, via, più che camminare barcolla. Però funziona, si può fare! E arrivederci al sequel. Sì, certo, aspettaci.

Se volete evitare War World Z, state alla larga dal Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40, oppure in 3d, che scuro com'è dev'essere una fregatura memorabile, alle 20:15 e alle 22:45); dai Portici di Fossano (21:30); dal cinema Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); dal Cinecittà di Savigliano (20:30, 22:30).
Comments (8)

Più tenebra vi prego

Permalink
Star Trek into Darkness (J.J. Abrams, 2013)

Siamo ancora troppo vicini alla Terra, Capitano.
Non va bene. Siamo troppo pesanti, si rompe tutto.
Spazio, ultima frontiera. Questi sono i viaggi dell'astronave Enterprise durante la sua missione quinquennale, diretta all'esplorazione di strani, nuovi mondi, eh, magari. No, in realtà siamo ancora in orbita intorno alla Terra o quasi. Siamo nell'universo angusto di Gigi Abrams e Compagnia: un posto così poco "strano", così poco "nuovo" che, per fare un esempio, c'è sempre campo col cellulare. Non so se mi sono spiegato. Quando il Giovane Capitano Kirk nello spazio cosiddetto profondo ha voglia di chiamare Scott che è rimasto sulla Terra a sbronzarsi in un pub, prende il suo cellulare griffato Flotta Spaziale (oscenamente simile a un motorola) lo chiama, e Scott gli risponde. Più veloce della luce. Neanche il tempo di infilare un messaggio registrato, che so, Accetta una chiamata dallo Spazio Profondo, inviata tramite propulsione a curvatura? L'addebitiamo al mittente? Chissà le tariffe, in effetti. Spazio, ultima frontiera. Andremo dove nessuno è mai andato. Ma tranquilli, il cellulare prende anche lì. È solo un dettaglio (benché necessario allo sviluppo della trama), non ti rovina mica il film. Ma secondo me è illuminante. Quattro anni per trovare un soggetto all'altezza delle aspettative, chissà quante trame vagliate e scartate, chissà quanta professionalità, quanta competenza... e poi ti ritrovi con un cellulare che fa le chiamate intergalattiche. Possibile che nessuno al tavolo degli autori abbia detto: ehi, fermi lì, ma non vi sembra un po' inverosimile? Dopotutto è il giovane capitano Kirk, nella serie originale non estraeva mai un telefonino per chiamare terra. Nella serie originale non si vedeva mai, la Terra. Era lontana. Ma cosa vuol dire lontano, ormai.

In Star Trek nella Tenebra, che sarebbe anche un bel titolo - e sarebbe anche un bel film - c'è una scena da film d'azione così trita che io l'ho già vista due volte in sei mesi, e non sono un patito del genere: l'eroe in un palazzo, minacciato da un elicottero di guerra, lo abbatte mediante mezzi non convenzionali. Già visto in: Die Hard 5, Iron Man 3, e adesso Star Trek 12. Deve essere un must per qualche mercato in espansione, l'abbattimento dell'elicottero a mani nude; che so, magari ne vanno matti in Cina. Al termine di questa scena, così poco star-trekkiana, ma soprassediamo, il pilota dell'elicottero scompare. È evidente che si è teletrasportato. Il teletrasporto lo sappiamo tutti cos'è: anche chi ha visto una puntata sola di ST in vita sua sa più o meno cos'è il teletrasporto. E sappiamo che ha dei limiti, non è una magia, è una tecnologia che può incepparsi, che va usata con cautela, ecc. Dunque ci immaginiamo che il nemico sia lì nei pressi, al massimo in un'astronave in orbita; di solito è da lì che ci si teletrasporta. Ma poi Scott scopre che nell'elicottero c'era un affare chiamato "teletrasportatore portatile" o giù di lì, in grado di teletrasportare i nemici dalla Terra al pianeta Klingon, anni luce a strafottere di distanza. Hai capito la tecnologia? Tu premi il pulsante e tac, un istante sei sulla Terra, l'istante dopo sei in mezzo ai Klingon. Ed è portatile, non so se mi sono spiegato: una valigetta. A questo punto però dovreste dirci cosa la paghiamo a fare la flotta spaziale, con tutte le sue esosissime missioni quinquennali pagate con le mie tasse di cittadino della Federazione galattica, se basterebbe una valigetta per trasportarci dove nessuno è mai stato teletrasportato prima. Voglio dire: i Klingon rompono i coglioni? Teletrasportiamo un miliardo di triboli e vediamo quanto rompono ancora i coglioni. E invece no, continuiamo a pagare tutti quei tecnici, tutto quel propellente, tutti quei motori a curvatura... Dev'essere una congiura del complesso militare-industriale, in combutta coi sindacati, Svegliaaaaaaa! Tutte quelle tutine rosse sono in realtà dei mangiapane a tradimento.

Quando cominciò, Star Trek, l'Enterprise era una misteriosa astronave che spuntava dalla Tenebra. La Terra era lontana: ogni tanto inviava messaggi, ordini più o meno vincolanti, ma nessuno chiamava al cellulare. Quando trovava un pianeta, agganciava l'orbita e teletraportava Kirk, Spock e un paio di tutine rosse. La tenebra cedeva lo schermo al colore artificiale dei fari dello studio televisivo. Teletrasportarsi era come sorgere dalla tenebra: un minuto non ci sei, il minuto dopo sei in mezzo a qualsiasi storia stia per capitare, un'ucronia nazista o una rivolta di gladiatori o una guerra termonucleare simulata. Come nella migliore fantascienza americana degli anni '40 e '50, ogni puntata era un racconto, un universo a sé stante, autoconclusivo. Quelli erano i viaggi dell'astronave Enterprise. Ma poi... Ma poi si sa come vanno le cose.

La gente è curiosa (continua su +eventi!) La gente vuole sempre saperne un po’ di più, su questo o quel personaggio. Perché i Klingon hanno messo su la cresta, e com’è andata tra Venusiani e Romulani, che fine ha fatto l’iroso Khan, eccetera. Gli autori prima o poi una spiegazione la devono trovare. Con un po’ di impegno e professionalità si spiega qualunque cosa. E alla gente le spiegazioni piacciono, ai telespettatori soprattutto. D’altro canto dopo cinque serie, più di trenta stagioni, migliaia e migliaia di ore di tv, di spiegazioni, l’universo di Star Trek è diventato più piccolo. Ogni pianeta è già stato esplorato da qualcuno; dovunque ti muovi trovi un riferimento, una citazione, una strizzata d’occhio; e il senso di frontiera non c’è più. In compenso c’è una brulicante enciclopedia di sistemi solari e razze e guerre e trame e sottotrame, una città infinita come la Londra del film, di cui lo spazio profondo non è che l’hinterland: tanto che ci prende pure il cellulare. Tutto incredibilmente complesso, e poco appetibile ai nuovi arrivati. Se poi cominciano a stancarsi anche i fan, la saga muore. Ha rischiato grosso appena dieci anni fa, quando il decimo film floppò clamorosamente, e il resto lo sapete. Gigi Abrams ha rilevato la baracca, con un’idea mica male: reboot, il riavvio. Ricominciamo dall’inizio, quando c’era solo Kirk, Spock e un’astronave che veniva dal buio. Non saremo condannati a riscrivere le stesse storie, come l’Uomo Ragno che ogni tre film si fa mordere dal ragno, o Superman che ogni volta deve atterrare bambino sul pianeta: non siamo obbligati perché la Storia è cambiata, qualcuno venuto dal futuro ha ammazzato il papà di Kirk cambiandogli la vita, e già che c’era ha pure fatto a pezzi il pianeta di Spock, quindi le cose prenderanno per forza una piega diversa.


“Guarda come sono belli, come fai a odiarli? Eddai…”

D’altro canto, i Klingon sono ancora lì. Le altre innumerevoli razze incontrate dall’Enterprise in tutti i suoi viaggi secolari sono ancora lì. Sta a Gigi decidere se farglieli re-incontrare o no, o partire per una nuova Tenebra, e regalare ai nuovi spettatori un nuovo senso di mistero, di meraviglia, analogo a e diverso da quello che ci bloccava da bambini di fronte alle prime avventure di Kirk e Spock. Sta a lui, e al suo amico Lindelof che stavolta produce e che tante cose avrebbe da farsi perdonare – ma non recriminiamo. Abrams e Lindelof hanno tanto difetti, ma non ho mai avuto dubbi sulla loro capacità di lasciare lo spettatore di qualsiasi età a bocca aperta davanti a un mistero qualsiasi – anche solo una botola vuota, una sequenza di numeri. Queste cose le sanno fare. Se invece decidono di darci l’ennesimo film d’azione con le astronavi che sbattono contro i grattacieli e gli elicotteri abbattuti a mani nude, io ci resto male. È vero, il giovane Kirk è veramente Kirk. È vero, Spock McCoy Sulu e Scott fanno un gioco di squadra meraviglioso, ti divertiresti a sentirli dialogare anche senza tutto il baraccone imax-3d. Il problema è che questo argomento l’ho già sentito: “sì, ti abbiamo preso per il culo la trama, ma goditi i personaggi”… dov’è che l’ho già sentito? Alla fine di Lost, quando gli autori fuggono sgommando con la borsa piena di soldi. Bastardi.

Abraaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaams!
Lindeloooooooooooooooooooof!

Che altro dire. È uno di quei classici casi di 3d che non voleva essere 3d: risparmiatevi almeno quei tre euro. 
Star Trek: Into Darkness non in 3d è al Fiamma di Cuneo alle 21:10, ai Portici di Fossano alle 21:15, al Bertola di Mondovì alle 21:00, al cinema Italia di Saluzzo alle 21:30, al Cinecittà di Savigliano alle 21:30. C’è anche in tanti altri posti in versione 3d, ma non ve lo consiglio.
Comments (6)

Da Sorrentino menu turistico

Permalink

La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013)

Welcome, Willkommen, Bienvenue

Capiterà anche a voi da Cuneo di passare ogni tanto per Roma, e di chiedervi se è proprio Roma, e non uno scherzo che vi sta facendo qualcuno; un fondale per vecchi peplum, un parco a tema per turisti giapponesi. Magari la vera Roma è da qualche parte nascosta che se la gode. Questo spiegherebbe alcune cose: le cartacce intorno al Pantheon, l'insofferenza dei tassisti, e tutti quei pini marittimi, ma il mare dov'è? Anche quei poveretti che a 60 anni continuano ad andare alle feste e sbracciare sniffare e fare le smorfie: si chiama mondanità. Magari è tutta una sceneggiata anche quella, per turisti che vengono dall'altra parte del mondo e si aspettano il satyricon, si aspettano la decadenza psicofisico-morale, e chi siamo noi per negargliela.

Il sospetto è che anche Sorrentino, regista di grandi ambizioni, sia finito invischiato in una di queste operazioni per turisti. Per remixare la Dolce Vita nel 2013 ci vuole il coraggio di un suicida lanciato verso un muro con un'auto in corsa; oppure potrebbe semplicemente trattarsi del fatto che gli stranieri vogliono quella roba lì: sennò non applaudono, non premiano, non pagano. Un qualche produttore, mi piace immaginarmelo francese, deve essere stato abbastanza drastico: "Mi è piaciuto il Divo, non ci ho capito niente, ma la scena in cui i vecchi ballano la samba in salotto era formidable. Perché non ci fai un film tutto così, tutto di vecchi che ballano? Sui terrazzi romani. Col solito contorno di robe di cinema italiano: preti in altalena, artisti matti, animali dello zoo, la pizza, tutto quel genere di cose, e vedrai che a Cannes li avrai ai tuoi piedi. Come dici, la critica italiana non capirà? Cioè mi stai dicendo che in Italia avete anche la critica? Tu m'étonnes, non lo sapevo. E dà i voti anche alla pizza?"
(continua su +eventi!)

Gli stranieri. Ma perché non dovrebbero aver ragione loro? Non è meraviglioso che rischino l’infarto per un paesaggio a cui non abbiamo mai fatto caso, che vadano in sollucchero per un fondale di ruderi di templi romani e brandelli (finti) di vecchi film, uno sketch di un finto Moretti qui, una terrazzata di un finto Scola qua? e il film va avanti. Cioè, no, non è quel tipo di film che va avanti. Gli eroi di Sorrentino sono troppo spesso uomini finiti: tutto quello che potava ribaltare il loro destino è già alle spalle, e ora si tratta di girare in cerchio – ma senza carrelli circolari, sarebbero volgari. Sorrentino è barocco, preferisce l’ellisse. Procede accumulando cose, a volte gira al largo, altre volte si avvicina, si ferma, vorrebbe mettere in bocca al suo Jep Gambardella una battuta memorabile, purtroppo non sempre la scrittura lo assiste. Ed è un peccato. Per esempio: “I nostri trenini sono i più belli di Roma perché non vanno da nessuna parte”. I trenini delle altre feste invece dove andranno, chi lo sa. “Lo vuole sapere perché mangio solo radici?” Meglio di no, sorella, che se mi dice una banalità poi ci resto male. A sorreggere Sorrentino è il solito Toni Servillo, una meraviglia per occhi e orecchie: non ci si stanca mai di guardarlo ammiccare, di sentirlo strascicare il suo amabile accento che rende gradevole ogni resistibile battuta: se il film scorre liscio per più di due ore è tutto merito suo. E nel complesso hanno ragione gli stranieri, non è un brutto film.

È divertente: in un paio di occasioni ti strappa proprio la risata. È chiassoso, ogni tanto quelli che guardavano Fast and Furious 6 nella sala di fianco venivano a lamentarsi. È commovente in un modo quasi volgare (le lacrime sono volgari, dice Jep prima di sciogliersi). Ci sono tante figure davvero grottesche, tanti fondali davvero suggestivi, che solo gli italiani possono snobbare: trovalo un film francese o inglese o diversamente europeo che ti sappia mostrare la decadenza così. È il nostro core business la decadenza, è la cosa che sappiamo meglio fare in assoluto – o forse la cosa che ci sanno copiare peggio in assoluto. La pizza la sanno fare anche a Shangai, ormai. E tra vent’anni anche a Shangai magari sapranno anche fare film così, milioni di film di anziani cinesi che ballano e tirano la coca e a 65 anni non sanno che fare della loro vita. Ma se fino a quel momento restiamo gli unici a cui questa roba viene ancora credibile, perché non approfittarne? Hai ragione tu Sorrentino, scusaci. Lasciaci perdere, siamo tutti incazzati perché quando arrivano i turisti poi i prezzi nei locali si alzano. Gira pure la tua pizza e non ti curare di noi, che come la giri tu non la gira ancora nessuno.

La grande bellezza è al cinema Fiamma di Cuneo alle 21.10. Buona visione!
Comments (11)

Pimp My Francis Scott Fitzgerald

Permalink

Ciao, sono tornato. Cioè, non me ne sono mai
veramente andato via
Il grande Gatsby 3d (Baz Luhrmann, 2013)

Giulietta Capuleti, se proprio volete la verità, non si è mica uccisa. Nel director's cut inedito ha dato retta ai genitori, si è sposata il suo pezzo grosso di Verona Beach e adesso ha tre bambini, un conto offshore e una terza abbondante mastoplatica - sta già cominciando a stirarsi le rughe. Anche Romeo non si è ucciso, ha solo messo un po' di chili. Ha fatto la guerra, il giro del mondo in barca a vela, un semestre a Oxford e tante altre cose, non tutte legali. Ma è ancora lui, è il Romeo di Baz Luhrmann: si innamora al volo, e ogni volta è per sempre. Tanto carino e ombroso, eppur gioviale e alla mano, però ogni tanto gli scappa la pazienza e capisci che potrebbe ammazzare qualcuno. Ha sicuramente ammazzato qualcuno. Probabilmente il modo migliore per apprezzare il Grande Gatsby 3D è prenderlo per il sequel di quel vecchio Romeo+Juliet che ci fece conoscere sia Luhrmann che Di Caprio. Eravamo tutti molto più giovani, tranne il testo di Shakespeare. Quello era già stato condito in tutte le salse, Bernstein ci aveva già musicato West Side Story, cosa ci si poteva aspettare di più? Lo abbiamo scoperto allora, cosa aspettarci da Luhrmann: più tutto. Il cielo stellato a Luhrmann non basta, lui nel firmamento come minimo ci vuole la nebulosa di Andromeda ingrandita un milione di volte. Non c'è un pedale che abbia mai premuto con cautela, lui sa solo schiacciare a tavoletta: più luce, più colore, più melodramma, più baraccone, più canzoni, più buffoneria, più divismo, ma anche più aderenza al testo. Luhrmann lo tradiva meno di Zeffirelli, con la sua Verona toscaneggiante e le sue calzamaglie improbabili. Perché in fondo poi cos'è Romeo e Giulietta se non una storia di tamarri che si sfottono fino alle estreme conseguenze, e allora forse è giusto affidarsi a Luhrmann che è il più tamarro di tutti. Non che Zeffirelli sia la damina inglese che vorrebbe essere, eh; ma Luhrmann è di più. Più grosso. Più luccicante, più rumoroso. Luhrmann è uno che ti pimpa di brutto, Baz, mi è piaciuto come hai pimpato Shakespeare, perché non ti cimenti con qualche capolavoro della letteratura americana del Novecento? Non tirarti indietro, Baz, pimpami Francis Scott Fitzgerald!

Il Grande Gatsby è un film che va visto in 3d, mai mi sarei immaginato di scrivere una cosa del genere. Ma forse non avevo mai visto un vero 3d. Quello di Luhrmann fa impallidire Iron Man: niente oggetti lanciati al pubblico, ma una girandola di fondali di cartone - all'inizio sembra un film di animazione - come un libro pop-up. Il Grande Gatsby 3d è, in effetti, un libro pop-up, come quelli che si comprano ai bambini che non sanno ancora leggere per stupirli con i personaggi di cartone che spuntano fuori dalla pagina appena la apri. Fitzgerald scrive: "automobile", Luhrmann te la fa spuntare dallo schermo, lucida come un giocattolino appena uscito dal negozio. Scrive "luce verde", e lui ti mostra la luce verde, cinque, sei, venticinque volte, nessun bambino analfabeta deve perdersi la pregnanza della metafora. Anche l'insegna con gli occhiali, si è capito cosa rappresentano gli occhiali? Volete che ve la mostri un'altra volta? Non c'è problema (continua su +eventi!) 

Non c'è problema, abbiamo due ore, due e mezzo. All'inizio più che a un film hai la sensazione di trovarti in un rebus, a ogni parola corrisponde la cosa, su un foglio che è la pagina bianca nella macchina da scrivere ma anche la proiezione google earth di New York 1922; e tu sei il cursore, Baz ti muove con la velocità della luce da West Egg alla Quinta Strada, investito da una pioggia di parole dattilografate. Tobey Maguire sembra la sagoma di cartone di sé stesso, le sequenze gli girano attorno come pagine sfogliate da un bambino che si esalta per i coriandoli, e i fuochi artificiali, e poi arriva Leonardo: e per l'occasione, Luhrmann riesce a rendere tamarra persino la Rapsodia in Blue. Perché sono tutti bravi a fare i tamarri con l'hip hop, ma provateci con Gershwin, provateci. Baz ce la fa. E Francis Scott Fitzgerald non vi sembrerà più lo stesso, in effetti ora che ci penso non me lo ricordo più, chi era esattamente questo Francis Scott Fitzgerald?

Baz una sua idea ce l'ha. Scordatevi tutto quello che avete imparato nella classe di letteratura. Scordatevi il libretto che leggevate al liceo per darvi un tono. Scrostate la superficie, le frasette ben tornite. Soprattutto dimenticatevi tutti i cataloghi sugli anni Venti messi assieme in seguito da stilisti e trovarobe, tutta roba che si è incrostata su un libro di scarso successo man mano che diventava un feticcio culturale e finiva nei programmi scolastici. Scordatevi i maglioncini di Redford e gli sbuffi di Mia Farrow, perché è a quello che pensate il più delle volte che fate finta di pensare a Scott Fitzgerald. E ogni volta scivolate senza accorgervene dal West all'East Egg perché è da là che vorreste venire, non dal quartiere dei truzzi midwest in odor di camorra. Ma guardate meglio: non vedete? Gatsby era un tamarro, e lo siete anche voi. Cosa c'è di più tamarro, arcaico e tribale del suo potlach per amore, cosa c'è di meno elegante e più scemo di caracollarsi a Manhattan in macchina nel solleone, chiudersi in una suite al Plaza e pretendere di comprarsi non solo il tuo amore, ma anche il tuo passato. Gatsby, Nick, Daisy, Tom, sono tutte falene impazzite del midwest che corrono verso le luci della città senza sapere come ci si comporta. Come il loro creatore, Scott di Saint Paul, Minnesota. Non esattamente quell'arbiter elegantiarum che col tempo ci siamo immaginati che fosse (e anche lui, del resto, all'inizio Gatsby lo aveva chiamato Trimalcione). Aveva gusti discutibili: vedi l'entusiasmo per la brutta copertina originale, che nelle edizioni anglosassoni è diventata un elemento paratestuale obbligatorio: tanto che l'idea che qualche editore la voglia sostituire con una copertina ispirata al film, magari una foto di Di Caprio, desta scandalo in molti lettori. Luhrmann se la ride: a vedere il suo baraccone anni Venti verranno tutti comunque. I bambini e gli analfabeti faranno "ooh" per tutto il primo tempo, con la gioia di chi si imbosca a una festa. Gli intellettuali noteranno la lungaggine della seconda parte, quando le munizioni a coriandoli sono tutte sparate e l'energia orgiastica cede il passo alla fatica di dover comunque raccontare una storia.

Ma ci terranno lo stesso a vederlo fino alla fine, per assicurarsi che il libro era meglio, proprio come i lettori dei fumetti di Iron Man che sedevano nella stessa poltrona, con gli stessi occhialini, una settimana prima. The Great Gatsby forse non vi piacerà, ma vi piacerete da soli mentre lo stroncherete. È una tamarrata galattica, è pimp my Scott Fitzgerald, è Baz Luhrmann in tutto il suo splendore di cartone, e Leonardo Di Caprio è la migliore sagoma che gli sia mai capitata tra le mani (ma anche Maguire e Carey Mulligan, citiamoli, sono cartonati perfetti).
 
Il Grande Gatsby 3d è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 19:50 e alle 22:40, e al Multisala Impero di Bra alle 21:30. La versione in 2d è presente in molti altre sale in provincia e persino a Cuneo, ma secondo me vale la pena di vederlo in 3d.



Comments (4)

Soderbergh. Non causa sonnolenza.

Permalink
Effetti collaterali (Side effects, Steven Soderbergh, 2013)


Ha detto Steven che, ihih, noi due adesso dobbiamo fare gli psicoterapeuti, capisci?Dai, fammi una faccia da psicoterapeuta.
Emily (Rooney Mara) dovrebbe essere contenta: suo marito ha finito di scontare la pena. Pensa che vennero ad ammanettarlo alla festa di nozze, gli screanzati. Quattro anni per un po’ di insider trading, in America non c’è veramente rispetto per chi fa girare i soldi. Comunque è andata, e poi la famiglia le è stata vicina, persino la datrice di lavoro è stata comprensiva, e allora perché verso metà pomeriggio le piglia sempre questa voglia di ammazzarsi? Per fortuna che c’è il dottor Jonathan (Jude Law), terapeuta inglese che è venuto a esercitare negli States perché “in Europa le pillole sono per i malati, in America per gente che vuole star meglio”. Cito a memoria. E voi state già immaginando un certo tipo di film di denuncia sulle derive americane della farmacopea antidepressiva, ed è esattamente quello che Soderbergh vuole farci credere. Prima di darci un film completamente diverso.

Comincio a pensare che sia una tendenza. Non è il primo, non è neanche il secondo film negli ultimi venti mesi che comincia con una falsa partenza e dopo un po’ prende una direzione abbastanza imprevista. L’esempio più eclatante è Come il tuono di Cianfrance (ATTENZIONE ADESSO PARTE UNO SPOILER DI COME IL TUONO), che sin dal trailer si presentava come un film-con-Ryan-Gosling-in-moto, fatto apposta per attirare in sala quel tipo di gente che vuole vedere Ryan Gosling e le moto (e la sala era piena), salvo ammazzare Gosling e moto dopo quaranta minuti. Molto coraggioso. Pure troppo, a sentire i borbottii del pubblico quando hanno acceso le luci.

In questo caso forse Soderbergh rischia ancora di più... (continua su +eventi!), visto che la trama come ve l'ho descritta io potrebbe motivare giusto quel centinaio di persone che vanno al cinema Monviso in infrasettimanale: e invece questo ve lo trovate in tutti i multisala; e c'è Jude Law, c'è la Zeta-Jones nascosta dietro occhiali da strizzacervelli, insomma, è chiaro che qualcosa non va. Ma il problema di questi film è che non puoi nemmeno raccontare un po' di trama. Non è il semplice twist, il finale a sorpresa, per dire, come in Oblivion - (ATTENZIONE ADESSO PARTE UNO SPOILER DI OBLIVION) dove infatti ce lo aspettavamo un po' tutti, e molti si sono lamentati della prevedibilità. Rifletteteci, perché un mese fa è uscito nelle sale un blockbuster hollywoodiano in cui il protagonista Tom Cruise a un certo punto si rivela essere un clone malvagio dedito allo sterminio degli esseri umani - e c'è pure stato qualche recensore che ha scritto (me compreso) "mmmmsì, prevedibile": ok, va bene, i cinquemila che avevano visto Moon potevano anche trovarlo prevedibile, ma scrivere sceneggiature originali sta diventando veramente un lavoraccio. C'è una specie di saturazione,  assuefazione, noia per l'intreccio canonico, anche quando è ben fatto; che peraltro è stato la molla che ha portato i Wachowski a dirigere Cloud Atlas, un'altra impresa coraggiosa ai limiti della follia. Ma almeno non assomiglia a nessun film, vuoi mettere la soddisfazione di lasciare i cacciatori di riferimenti a bocca aperta e mani vuote?

Con Soderbergh è più difficile, leggi "thriller psicologico" e mal che vada puoi sempre dire Hitchcock. Funziona sempre, al punto che c'è da chiedersi se li abbia soltanto inventati o anche un po' esauriti: impossibile ignorarlo, prima o poi ti ritrovi a riflettere se una situazione richiami di più Psycho o Marnie; se non sono modelli diventano ostacoli da aggirare (i veri cinefili, comunque, li riconoscerete perché non diranno Hitchcock, diranno Clouzot).

Ma ho già detto che è un bel film? È strano, da quando li recensisco a Cuneo mi sembrano tutti bei film. Sarà l'aria. Comunque è piaciuto quasi a tutti, Rooney Mara è almeno da nomination e sarebbe già la seconda volta. Se vi chiedete dove l'avete vista - e non siete patiti di rifacimenti USA di thriller svedesi - beh, è l'esile fanciulla che molla il protagonista all'inizio di The Social Network, insomma è lei la causa scatenante di tutto, il suo ruolo è quello della ragazza per colpa della quale perdiamo tutti ore di vita su facebook e gli insegnanti convocano i genitori per dire ci dispiace vostra figlia ha messo delle foto su facebook e qualcuno ha commentato e patatrac, non è incredibile pensare che da qualche parte nel vasto mondo quella ragazza esiste davvero? Al cinema è Rooney Mara. Anche in questo film, tutto ruota intorno a lei. Ma stavolta è un motore molto meno immobile. Basta, non posso più dire niente.

Effetti collaterali è al Cityplex Cine4 di Alba (ore 17:30, 20:00, 22:30); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:15, 17:35, 20:15, 22:35); al Multisala Impero di Bra (20:20, 22:30); al Multilanghe di Dogliani (22:30); al Cinema Italia di Saluzzo (20:00; 22:15). Buona visione.
Comments (1)

Tom Cruise caduto sulla Terra

Permalink
Oblivion (Joseph Kosinski, 2013).

In un residence sospeso su un pianeta Terra in fase di smantellamento, ogni mattina Jack e Victoria si svegliano, si danno due bacetti e vanno a combattere gli alieni che hanno distrutto la Luna e reso il pianeta inabitabile. Non è che si ricordino molto del passato; comunque la loro missione è difendere le gigantesche idrovore che trasformano l'acqua in energia per il resto della razza umana, che adesso vive su una luna di Saturno. Ma le cose stanno davvero così? No.

È anche un porno per architetti, diciàmocelo.
E lo spettatore un po' smagato lo capisce subito; diciamo che al primo minuto del film Tom Cruise ha già accennato a una procedura di Cancellazione della Memoria, che è un po' come quando all'inizio del Sesto Senso Bruce Willis sembra che muoia, poi invece sembra di no, poi ti accorgi che nessuno gli sta rivolgendo la parola, e devi restare al cinema per un'altra ora e mezza. Voglio dire, è chiaro che c'è qualcosa che non va, se ti hanno cancellato la memoria. Siamo in un (bel) film di fantascienza; se all'inizio ti cancellano la memoria il minimo che possa succedere è che qualcuno non ti stia raccontando le cose come sono andate veramente. E a questo punto che mi resta da fare, bullarmi perché in sala ho capito il colpo di scena con tre quarti d'ora d'anticipo? Sgattaiolare nella sala di fianco e guardarmi Brignano? Invece no, sono rimasto inchiodato davanti a Oblivion e ne è valsa la pena come poche volte quest'anno.

Certe volte bisogna rassegnarsi. Se un film ti ricorda altri film, se nessuna trama ti sembra più originale, se a metà film stai già indovinando come andrà a finire, non è necessariamente colpa del film. Può anche essere colpa tua, ne hai visti troppi. Non sei più lo spettatore ideale di un film di fantascienza, un ragazzino disposto alla sorpresa. Sei diventato un'enciclopedia ambulante di luoghi comuni cinematografici e la cosa non è necessariamente piacevole - soprattutto quando nella scena topica del film ti viene in mente Indipendence Day. E non è un'allucinazione, la situazione ricorda davvero il più cazzaro dei blockbuster anni Novanta, salvo il particolare che quello era un brutto film, questo no. Non è un problema di Joseph Kosinski, che ha attinto allo stesso immaginario da cui pescavano i cazzari di Indipendence. È un problema tuo che ancora ti ricordi quel filmaccio, ti ci vorrebbe un protocollo per la cancellazione della memoria che ti permettesse di godere di più i film che valgono la pena.

Oblivion vale la pena. Somiglia ad altri film del passato più o meno recente, salvo che è fatto meglio: con più rigore, più amore per il materiale, più effetti, più soldi. Fortunata la generazione che può andare al cinema e stupirsi per film così, invece che per Indipendence Day. Il fatto che non dica molto di nuovo è meno paradossale di quel che possa sembrare per un film di fantascienza. Diciamo che c'è un tipo di immaginario, fatto di basi spaziali un po' squadrate e paesaggi desolati dopobomba, che quando eravamo bambini era già maturo e stratificato sulle pagine dei fumetti, e che solo negli ultimi anni è diventato trasferibile nei lungometraggi non animati. Kosinski è arrivato al cinema dall'architettura (e si vede) e dai fumetti (e si capisce); nella sua opera prima ha trasformato l'universo di Tron in qualcosa di credibile. Stavolta mette in scena una sua graphic novel, e senz'altro il suo interesse è più per la resa visuale (andrebbe visto in un Imax) che per la storia. Che in fin dei conti è una storia di sf classica; ecco, forse noi enciclopedie di luoghi comuni ambulanti dovremmo smettere di surfare sulle onde di questo o quel revival, e capire che certe cose non passeranno mai di moda: le capsule di ibernazione, i computer cattivi con l'occhio rosso, i Led Zeppelin, le biblioteche sepolte coi libri putridi, le orde di freak che vivono negli scantinati, tutti questi elementi non sono citazioni dagli anni Settanta Ottanta o Novanta: sono cose classiche, è normale che si ripropongano a ogni generazione, perché sono fuori del tempo come il berrettino degli Yankees e le borse Chanel, ecco un argomento che potete spendere con la ragazza mentre la portate a guardare Oblivion.

Un altro argomento è Tom Cruise, che fa benissimo a fare e finanziare film di fantascienza: dovrebbe farne di più, e probabilmente dovrebbe fare solo quelli - fateci caso, ormai sono gli unici in cui funziona ancora - probabilmente è l'unico modo in cui la nostra generazione di spettatori può esorcizzare il fatto che la nostra prima fiamma delle elementari aveva già sul diario più o meno la stessa faccia di Tom Cruise che nel 2013 ripara i droni di Oblivion. Sono passati davvero tutti questi anni? O siamo stati rapiti da un'entità aliena che in una notte ci ha invecchiato di un quarto di secolo, e l'unico che si è salvato è Tom Cruise, che ci sta inviando messaggi tramite i suoi film? Oppure è un clone (ops).

Il terzo argomento (non c'è mai abbondanza di argomenti) è la frase "Siamo ancora una squadra efficiente?" Dopo il film passerete anni a chiedervelo, un po' scherzando e un po' no. Forse la differenza tra Oblivion e prodotti brutti che un po' gli somigliano sta anche in dettagli che nei filmoni-di-effetti-speciali in genere passano in secondo piano, come la recitazione. L'attrice inglese Andrea Riseborough con pochi minuti a disposizione ci regala una perfetta moglie-dell'astronauta-frustrata. Melissa Leo ha ancora meno spazio e tempo per interpretare un personaggio memorabile. Olga Kurylenko è la bella addormentata che tutti vorremmo trovare nella capsula di ibernazione, Morgan Freeman è il solito vecchio saggio in quota minoranze ma va bene. Se vi piace il genere, è uno dei due o tre biglietti di quest'anno che sarete contenti di aver staccato.

Oblivion è al Cine4 di Alba (ore 19:30, 22:00); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10; 21:00; 22:45); al Vittoria di Bra (21:15); al Multilanghe di Dogliani (21:30); ai Portici di Fossano (21:30); all'Italia di Saluzzo (20:00; 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20; 22:30). Buona visione. Siete ancora una squadra efficiente?
Comments (2)

Dalla parte del pescecane

Permalink

La frode (Arbitrage, 2012, Nicholas Jarecki).


Robert Miller (Richard Gere) è un pescecane di Manhattan, un signore degli hedge fund, un patriarca, un pescecane, un sessantenne tirato al massimo con la moglie noiosa (Susan Sarandon), la figlia in affari che vuole mettere il naso nei bilanci e poi si scandalizza se sono falsi, l'amante artista (Laetitia Casta) che lo tampina al blackberry, e neanche un soldo in cassa. Neanche uno. Li ha tutti inghiottiti una miniera di rame in Russia, incidenti che succedono a voler rischiare in casa di Putin. Ma può ancora farcela, può tenere unita la famiglia e non perdere l'amante e vendere la cassa vuota a qualcuno che abbocchi, però deve stare attento a non mollare nemmeno per un istante ed è difficile, la corda è già tirata al massimo. Dopo pochi minuti lo ritroveremo disperso in campagna con una costola rotta e un omicidio da occultare. E tiferemo per lui. Sul serio (continua su +eventi!Questa è la vera, incredibile truffa che l’esordiente Nicholas Jarecki gioca allo spettatore: ritrovarsi nei panni insanguinati di un capitalista truffatore e adulterino, e sperare di farla franca. Confidare nella debolezza della legge, nel potere degli avvocati, dei soldi, anche imprestati. Robert non può mollare. Non è egoismo, poverino, anzi fosse per lui si costituirebbe immediatamente, ma non può, ha dei doveri nei confronti dei clienti, degli investitori, un sacco di gente perderà i suoi dividendi se il poliziotto Tim Roth riesce  a incastrarlo. Tieni duro Robert! Sembra una di quelle partite a scacchi che stai dando per perse, ti è rimasto solo un Alfiere che sa dare buoni consigli, la migliore Torre del foro di Harlem e un povero Pedone da sacrificare, eppure, eppure, quando tutto sembra perso basta azzeccare una mossa, indovinare una finta dell’avversario, e puoi recuperare. Purché all’ultimo momento non si muova la Regina…

La frode è stata una delle più grosse sorprese al botteghino americano dell’anno scorso, con una delle medie più alte di spettatori per sala. Jarecki, che firma anche la sceneggiatura, sa il maledetto fatto suo: per due ore costringe lo spettatore a sostenere il suo Robert negli abissi della sua coscienza, mettendo in scena questioni morali senza inutili moralisti; nel frattempo tratteggia una mezza dozzina di personaggi interessanti e non bidimensionali. È uno di quei film per cui ti viene in mente l’aggettivo “televisivo” e non è un offesa: sembra il pilota di una serie che seguiresti, ti piacerebbe sapere cosa succede a Robert e alla moglie, al Pedone nero e alla sua ragazza, alla figlia pedante e al poliziotto che ce l’ha coi ricchi, come il nostro caro Mariano Bonifazi. Senza pretese autoriali, uno dei film più riusciti che ho visto quest’anno – e comincio ad averne visti un po’.
La frode è al Cinema Fiamma di Cuneo (21:10); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (ore 15:20; 17:35; 20:30; 22:45); al Cinema Bertola di Mondovì (20:15; 22:30); al Cinema Italia di Saluzzo (22:15).
Comments

La vita e i suoi risvolti

Permalink
Il lato positivo (Silver Linings Playbook, David O. Russell, 2012)

Patricio, Pat, è un bipolare. Non lo sapeva. Se n'è accorto nel suo box doccia, mentre stava picchiando a sangue l'amante della moglie. Ma questo è il passato, anche il ricovero coatto è il passato, anche l'ordinanza restrittiva passerà, l'importante è essere ottimisti, positivi, riempire un libretto (il "silver lining playbook") di buoni propositi, mantenerli, e Nikki tornerà. Nikki è la moglie scomparsa. Era dal 1981 che un film non otteneva quattro nomination agli Oscar nelle quattro categorie riservate agli attori (l'ultimo fu Reds di Warren Beatty, chi l'avrebbe mai detto). Anche se alla fine la statuetta l'ha portata a casa soltanto Jennifer Lawrence. Per il suo personaggio, Tiffany, era stata opzionata Anne Hathaway che però aveva un'impegno, ed evocate tra le altre Angelina Jolie e Kirsten Dunst: dopo un provino che doveva essere una formalità, Russell ha scelto la 21enne Lawrence, assolutamente fuori parte. Non si è trattata di una scelta al risparmio: la Lawrence è un talento naturale fuori discussione (chiunque ha visto Winter's Bone lo sa, purtroppo siamo in pochissimi che ci svegliamo nel cuore della notte davanti a Rai Movie e non riusciamo a trovare il telecomando). Ma soprattutto è la protagonista di Hunger Games, ovvero il primo capitolo di una saga per adolescenti, ovvero una montagna di soldi che deve ancora emergere del tutto. È brava, è bella, e a 21 anni ha vinto un Oscar interpretando una vedova ninfomane che incontra Pat e lo trascina in un concorso di ballo.

Ce l'ha messa tutta Jennifer, ha anche preso dei chili per esplicita richiesta del regista; ugualmente la cosa lascerebbe un po' perplessi se non fosse così brava e bella che in fondo chissenefrega, i film americani sono belli perché la mantide del quartiere, quella che si fa licenziare solo dopo esserci stata con tutti quelli dell'ufficio, è Jennifer Lawrence Ventunenne. Ah, è molto bravo anche Bradley Cooper, che fin qui io avevo visto solo in tv e in commedie un po' coglione. Il suo Pat, sempre in bilico tra ottimismo e disperazione, era un personaggio rischiosissimo. E anche lui ha dovuto imparare a ballare - o magari sapeva ballare già e ha disimparato. Ed è bravo persino Robert De Niro, pensateci bene: da quand'è che non vedevate De Niro recitare bene in un film bello? Vi sconsiglio di contare gli anni, a me è venuta la vertigine. De Niro, se ti dimentichi un attimo quelle commedie coglione in cui fa il padre rintronato, te lo ritrovi in questo film che fa davvero il padre rintronato, e saranno i lineamenti italiani, ma è così credibile che ti mette in imbarazzo, hai voglia di telefonare a tuo padre alle tre del mattino per dirgli che gli vuoi bene.

Ma insomma che film è? Una commedia? Non proprio... (continua su +eventi!, c'è anche Muccino sul fondo)È un film che resta sospeso fino all’ultimo intorno al mistero di Nikki, la moglie perduta. Tornerà? Non posso dirvelo, ma davvero cambierebbe tutto. Da commedia romantica, con una trama che a leggerla ci sembrerebbe scontata (due ballerini lottano per ritrovare la fiducia in sé stessi! che idea! che palle!) a thriller psicologico. Seguendo quella che ormai mi sembra una tendenza, Russell ha deciso di ambientare il romanzo di Matthew Quick non nel Magico Mondo delle Commedie, ma in una realtà molto simile alla nostra; un luogo dove quando un uomo incontra una donna non parte mai la musica giusta, e dove ballerini non ci si improvvisa – ma se avete amato i colli dei piedi inadeguati degli Amici di Maria, scoprirete di tifare Pat e Tiffany contro ogni buon gusto, perché ci mettono il cuore, e soprattutto perché il padre ci ha messo anche un sacco di soldi, che fuori dal Magico Mondo delle Commedie sono davvero importanti. Nel 2012 hanno fatto qualcosa di simile Kathryin Bigelow, Gus Van Sant, P.T. Anderson, Ben Affleck, rifiutandosi di spettacolarizzare storie di spie, guru ed ecomostri che si sarebbero ben prestate; lo stesso Spielberg ci ha dato con Lincoln uno dei suoi film meno spettacolari e più – mettiamoci le virgolette – “verosimili”. Le virgolette hanno un senso perché la verosimiglianza non implica che la realtà non venga modificata e romanzata; anzi a ben vedere (ne abbiamo già parlato la scorsa settimana con Argo) film del genere sono persino un po’ sleali, per come rischiano di sostituirsi alla realtà vera. Nel caso di Silver Lining Playbook, oltre all’assurdità della Lawrence divorziata+ninfomane, abbiamo due psicotici che si corteggiano, da qualche parte nella nostra testa dovrebbe suonare un allarme antiatomico, però sono così bravi, sono così belli, sono così teneri quando vanno a Ballando con le Stelle sperando nella media del Cinque (su Dieci), che ti ritrovi a sperare che si mettano assieme, NO PERDIO GLI PSICOTICI NON DEVONO METTERSI ASSIEME nessuna farmacia pratica sconti famiglia sugli psicofarmaci.

Ma almeno non è la solita commedia. Anzi, sapete cosa sembra? Ora rischio grosso. A un film di Gabriele Muccino, però fatto in America, però fatto bene. No, non è soltanto perché i personaggi urlano e strepitano sovrapponendosi e ogni tanto parte un carrello circolare – ok, è soprattutto per i carrelli circolari. Però a me è rimasta la curiosità di immaginare cosa riuscirebbe a fare Muccino davvero, a Hollywood, se riuscisse a lavorarci bene. Mesi fa si lamentava tanto del modo che hanno laggiù di ragionare per categorie che sono comportamenti stagni: per le commedie sentimentali si applica un protocollo, per il genere drammatico un altro protocollo, ecc.. Muccino era molto italiano mentre cercava pretesti per una sconfitta professionale, però magari non aveva tutti i torti: gli americani sono fatti così. Non è solo una questione di mercato e di industria: anche la cultura è compartimentata in modo molto più stagno che da noi. Eppure proprio mentre Muccino si lamentava stavano uscendo tutti questi film, storici senza battaglie, spionistici senza i gadget di 007, sentimentali ma con gli psicofarmaci. Insomma tieni duro, Gabriele Muccino, forse i compartimenti si stanno alzando, provaci ancora. Noi tifiamo per te, non è che ci sei sempre piaciuto, eh? Però sei di famiglia, tieniti in forma, perdi magari qualche chilo, tieni duro, trova uno script di quelli fatti apposta per te con un sacco di bei personaggi che si urlano in faccia le peggio cose. Excelsior!*
(*) Tradotto in italiano fa ancora troppo Mike Bongiorno.
 Il lato positivo è al Fiamma di Cuneo (21.00); all’Impero di Bra (20:15; 22:30); all’Italia di Saluzzo (20:00; 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20; 22:30). Buona visione.
Comments

1980: Fuga dal pianeta dei barbuti

Permalink
 Argo (Ben Affleck, 2012)

Teheran, 1980; durante l'assalto all'ambasciata americana, sei diplomatici escono dalla porta di servizio e si nascondono all'ambasciata canadese. Per riportarli a casa l'agente CIA Tony Mendez escogita la copertura più assurda della storia dell'agenzia: si finge il produttore di un film di fantascienza, in cerca di location orientaleggianti. La beviamo? Il problema con Argo è un po' questo perché, come capita a molte storie vere, è abbastanza inverosimile. Girare un film di fantascienza a Teheran durante la crisi degli ostaggi, con le barbute Guardie della Rivoluzione in giro a caccia di occidentali? Eppure dicono che andò proprio così, le Guardie se la bevvero e non si accorsero che i sei accompagnatori dell'agente Mendez non erano registi fotografi e sceneggiatori, ma sei diplomatici in fuga.

La locandina finta (del 2012)
del film finto (del 1980)
Uno dei primi aspetti che colpisce di Argo è la precisione, ormai un po' stucchevole, con cui viene riprodotto il 1980: arredi, acconciature, musica (i Dire Straits), telefoni e così via. Tutto virato al beige ("erano anni marroni", come scriveva Jonathan Coe della seconda metà dei '70). Persino il logo all'inizio del film è quello stilizzato e minimale che la Warner usava a quei tempi. Bei tempi. Ti aspetti che da qualche corridoio spunti Robert Redford, invece ti devi arrangiare con Ben Affleck, e il bello è che dopo un po' ti accorgi che si può fare.

Argo è tornato nelle sale sull'onda lunga degli Oscar: ne ha vinti tre (miglior film, montaggio e sceneggiatura non originale) su sette nomination. Affleck però non ha ottenuto la nomination per la miglior regia, il che ha fatto molto discutere, perché al terzo film la sua sicurezza e versatilità dietro la macchina da presa non sono più una sorpresa per nessuno. Lui ci ha scherzato su, facendo notare che non l'avevano nemmeno nominato tra i migliori attori. In realtà Affleck Attore non sarà Redford ma non è il cane che tutti pensano (nelle sue teche c'è pure una Coppa Volpi, butta via); paradossalmente il viso belloccio non l'ha aiutato a essere preso sul serio, specie dopo che lo abbiamo associato a un certo tipo di film (Armageddon, Pearl Harbour) terribili. In Argo trova il ruolo ideale: un flemmatico agente a cui nessuno domanda di manifestare le proprie emozioni. Al massimo se ha qualche dubbio o imbarazzo prende in mano una bottiglia di whisky, che è una specie di sigaro-di-Clint-Eastwood: e a un certo punto abbiamo questa scena, Affleck-Mendez solo in una stanza con i suoi dubbi e una bottiglia, che prende in mano e rimette giù, e poi riprende e poi rimette giù. Pensatela come volete ma io ci ho riconosciuto qualcuno, c'è gente che veglia intorno ai suoi problemi in questo modo.


Una locandina finta del 2012
del film vero del 2012.
Tutta un'altra cosa rispetto all'altra agente CIA che abbiamo visto all'opera di recente, la Maya di Zero Dark Thirty (continua su +eventi!) coi suoi muscoli facciali tesi allo spasimo mentre tormenta i superiori. Impossibile non confrontare i due film, diversissimi anche se condividono alcune maestranze (il compositore della colonna sonora; il montatore che si è ritrovato in lizza per l'Oscar con due nomination nella stessa categoria). Per fare un esempio, in entrambi i film a un certo punto c'è un furgone pieno di americani circondato da indigeni ostili. In Zero è un enorme hummer dotato di cecchino in assetto di guerra che gira per i bazar di Islamabad cercando di intercettare una telefonata di Al Qaeda e nessuno ci fa caso, compreso il membro di Al Qaeda: mentre guardi non sai che pensare. È un'ingenuità dello sceneggiatore o dei servizi, o degli americani in genere che vanno in giro in hummer e credono che nessuno li noti? In Argo c'è uno scassato pulmino della Volkswagen che si ritrova in mezzo a due manifestazioni antiamericane, e dentro nessuno è armato, hanno tutti una paura fottuta e ce l'hai anche tu: il rumore più brutto del mondo sono i pugni nudi contro la lamiera di un pulmino Volkswagen. Mi ha tenuto col fiato sospeso molto di più di tutta la sequenza di Zero (professionale, impeccabile) in cui ammazzano Bin Laden. In Zero a un certo punto rischi di tifare per gli integralisti: in Argo sei subito dalla parte dei prigionieri americani, che non sono nemmeno così simpatici. Ma non importa, è un Caper movie, un "colpo grosso": c'è una truffa da mettere in piede ed eseguire, e alla fine vuoi soltanto che tutto vada per il meglio.
Poster vero (2012) del film vero (2012).

La squadra messa in piedi da Mendez, con un produttore ignorante e sboccato e il truccatore del Pianeta delle scimmie (John Goodman, gli vuoi subito bene) assomiglia più a una gang di soliti ignoti che a una cellula della CIA. Allo stesso tempo, è anche un film meno manicheo di Zero, probabilmente per l'impostazione un po' liberal, da nuova Hollywood, dei produttori (c'è anche George Clooney): il film chiarisce subito, nel preambolo, che prima dei cattivoni barbuti c'era un figlio di puttana sostenuto da Washington, Reza Pahlevi. Lo ribadiscono ogni tanto lungo il film gli agenti della Cia, molto più cinici e umani dei gelidi quadri di Zero. Nonostante questo il film è stato criticato per il modo in cui descrive tutti gli iraniani come fanatici barbuti. Eppure pare che in Iran vada fortissimo, non solo al mercato clandestino dei DVD: lo proiettano nei cinema di nascosto. Del resto se avete almeno visto Persepolis (scritto e disegnato da una testimone diretta) l'onnipresenza minacciosa delle Guardie della Rivoluzione non vi stupirà più di tanto. Senza dubbio il film calca la mano, si inventa un quasi-linciaggio al Bazar che non c'è mai stato: ma che una finta troupe canadese potesse essere circondata da iraniani incattiviti, non guardie della rivoluzione, ma parenti di vittime delle torture di Pahlevi, non è così inverosimile.


Eppure non è vero: e sostituire il verosimile al vero è un'operazione delicata. Argo e Zero hanno questo in comune: romanzano un eclatante fatto della Storia recente, mantenendo però un registro così realistico che rischiano di sostituirsi alla Storia, più che descriverla. Per esempio: Argo trasforma un'operazione in gran parte congegnata dall'intelligence canadese in una missione CIA, che poi sembra quasi l'iniziativa di un agente solitario, Mendez: non è andata affatto così. Anche gli inglesi ci fanno un'immeritata brutta figura (non è vero che respinsero i sei fuggitivi, se li passarono ai canadesi fu perché ritenevano la loro ambasciata più sicura). Il colpo di scena che movimenta l'ultima mezz'ora è del tutto inventato, l'operazione filò molto più liscia e non ci fu nessun inseguimento all'aeroporto. Dove il film si tradisce è probabilmente nella sua ossessione per la simultaneità, poco plausibile nel 1980. Per dire, ci sono televisori dappertutto, in cucina, in bagno, dappertutto: sono scatoloni ingombranti, ma stanno dove oggi starebbero tablet e notebook. Affleck e compagnia fanno il possibile per recuperare il sapore analogico dei file cartacei, delle telefonate criptate, ecc.; ma a un certo punto vogliono farci credere che bastassero pochi secondi da Washington per prenotare un aereo a Teheran: faccia refresh, dice Mendez all'addetta all'imbarco, vedrà che la prenotazione c'è. Un refresh nel 1980. In realtà i biglietti li avevano comprati i canadesi, molto per tempo (bellissima l'immagine dei bambini iraniani che ricompongono i documenti tritati in ambasciata, strisciolina dopo strisciolina: hacker analogici, l'immagine del mondo non è ancora stata convertita in pixel ma ormai i tempi sono maturi).

Poster vero (1980) del film finto (1980).
Argo è un film del 2012, non un documentario del 1980, ma allora perché insiste per sembrare così vero, così documentario? È un sogno, ed è un film sui sogni: anche nel più barbuto fanatico c'è la voglia di vedere un'astronave che decolla e se ne va, anche nella più chiusa teocrazia ci sarà sempre una porta aperta dalla fantasia del bambino che guarda le stelle e cerca gli Ufo. Però è un sogno che maneggia immagini pesanti e delicate: anche l'ayatollah Khomeini all'inizio del film è un fumetto, un bozzetto di scena. È una bella idea quando la rivedi: è come se il film ti volesse dire attento, anche i cattivi barbuti non sono veri, sono solo cattivi da film. Peccato che la sigla finale ti dica proprio il contrario, accostando foto originali del 1980 e dintorni a inquadrature del film: quindi è vero, impiccavano gli oppositori alle autogrù; quindi è vero, la gigantesca scritta "Hollywood" era a pezzi (no, non è vero, l'avevano appena riparata); quindi è vero, insomma, è tutto vero. No, non è tutto vero. Ma ci somiglia molto. Forse troppo.

Argo è in programmazione al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (ore 20.00 e 22.30) e al Cinecittà di Savigliano (ore 22.30). Buona visione.
Comments

Il cattivo, la simpatica e il cialtrone (e tanto fracking)

Permalink
 Promised Land (Gus Van Sant, 2012).


Matt Damon è il migliore in quello che fa, purtroppo anche stavolta si tratta di raccontare bugie (è incredibile quanti ruoli da bugiardo abbia interpretato, pensateci). Stavolta batte l'anonimo Midwest comprando per un tozzo di pane la terra che la sua Malvagia Compagnia Petrolifera poi frantumerà per estrarne le scisti, per il fracking insomma. Se qualcuno ha qualcosa da dire, lo corrompe. Finché in un paesino sperduto del Sarkazzota non incontra la sua nemesi, il suo Gemello Buono, che ha il sorriso amabile di John Krasinski e rappresenta un'Eroica Associazione Ambientalista. Ma se Matt non è del tutto cattivo, anche John potrebbe non essere del tutto buono... possiamo guardarci cento minuti di Promised Land senza nemmeno accorgerci che, gratta gratta, è proprio lui, il caro vecchio Film Western.

Eppure c'è tutto: il paesino dimenticato da Dio, la Compagnia disposta a tutto per ottenere le terre che gli spettano dai contadini riottosi e ignoranti; i due pistoleri che si fronteggiano – senza pistole, il che non è nemmeno così realistico: considerati i dollari in ballo, qualche pistola dovrebbe pur sparare prima dei titoli di coda, e invece... c'è persino il saloon. Una delle scene più intense è una colluttazione in un saloon, nemmeno Tarantino ci ha provato. C'è la bella del saloon (anche se di giorno fa la prof di scuola media) e indovinate, i due pistoleri se la disputano. È questo il vero film western del 2012/13; Django è troppo meta, e poi è ambientato nel Sud. Promised Land invece non ha nessuna ambizione citazionista; se  racconta la solita vecchia storia di C'era una volta il West o del Petroliere è semplicemente perché questa storia è maledettamente attuale, il petrolio facile sta finendo e le Compagnie stanno realmente comprandosi la terra sotto i piedi dei bifolchi per tentare di spremere qualche succo bituminoso. È l'affare del secolo, ma è anche orribilmente pericoloso e inquinante (continua su +eventi!). Dave Eggers ne approfitta per illustrare il solito conflitto interiore tra soldi e dignità, senza calcare troppo né il bozzetto rurale né la polemica ambientalista (tanto più che nella prima stesura non si parlava di fracking, ma di pale eoliche); a un certo punto poi Krasinski gli ha comprato la sceneggiatura e ci ha lavorato un po' su (Krasinski aveva già interpretato un personaggio di Eggers in Away we go, in Italia ribattezzato American Life); alla fine ci ha messo mano anche Matt Damon che stava per girarlo, ma ha preferito passarlo al sodale Gus Van Sant. In tutti questi passaggi il film potrebbe aver perso un po' di originalità: l'estro visivo di Van Sant compare a sprazzi che appaiono quasi accademici: la sua smodata passione per le Nuche, i bei tempi in cui sognava di fare un film di soli Primi Piani di Nuche (con Elephant ce l'aveva quasi fatta), perché non c'è niente di più espressivo di una Bella Nuca, ecco, quelle cose lì sono ormai alle spalle e dal mio punto di vista è un bene, le nuche mi mettono a disagio. 

Il film in realtà potrebbe meritare una visione per tutt'altro motivo: se condividete l'insana fantasia di avere Frances McDormand come collega di lavoro, ecco, questo è il film in cui l'adorabile Frances divide con Damon il caffè, il film in cui gli guida la macchina perché il biondino è negato col cambio manuale, il film dove gli telefona in camera verso sera per dargli la buonanotte – buttando lì scherzosamente che per lui la sua camera è sempre aperta, e non sai mai fino a che punto eccetera. Ma sul serio, chi non vorrebbe lavorare con Frances McDormand. In teoria è persino un personaggio negativo, il compare del pistolero che ha già definitivamente venduto l'anima e mentre ruba la terra ai bambini borbotta "it's just a job": però è Frances McDormand, il Male non è mai stato così così simpatico, alla mano, così verosimile.

Il finale è davvero interessante. Purtroppo non posso parlarne perché è un finale a sorpresa – e anche la sorpresa, visivamente, si poteva organizzare meglio, ma è un film che si prende pochi rischi. Quindi in questo paragrafo fingerò di parlar d'altro, di politica, mi ricordo per esempio che quando ero tanto giovane le Multinazionali Malvagie nei film e nei libri c'erano già, e c'erano anche già gli Eroici Individui che le contrastavano: erano bravissimi, competentissimi, facevano gli hacker ma questo non significava che sotto la loro Immensa Consapevolezza non brillasse una Specchiata Integrità Morale. Erano i miei eroi, anche se già allora non ero del tutto sicuro che esistessero. Quando andavamo alle manifestazioni contro le Multinazionali Malvagie speravo sempre che ci fossero anche loro da qualche parte, probabilmente stavano riprendendo tutto con la videocamera per mandarlo su Internet – perché loro erano già su Internet, anzi Internet l'avevano inventata loro. E di loro ci si poteva fidare.

Può fare la bella del Saloon finché vuole, tanto la mattina
alle prime ore agli alunni "mostra dei video"
(ha detto proprio così, mi ha trafitto).

Ad anni di distanza, quel poco che ho capito del mondo è che le Multinazionali Malvagie esistono e sono davvero Malvagie. Pensa solo a quel che han combinato nel Golfo del Messico, pensa che potrebbero rifarlo nel Mediterraneo tra un po', pensa che alla fine riuscirebbero a pagare un decimo dei danni che fanno, la spuntano sempre. Magari da piccolo ero ingenuo, ma su di loro avevo ragione. Quello su cui invece mi sbagliavo, purtroppo, era il lato dei Buoni. Non ci sono. Cioè, qualcuno c'è, ma non è così bravo, non è così competente, anzi il più delle volte è un disastro, anche se fa l'hacker molto spesso defaccia la gente sbagliata, e poi quasi sempre si affeziona a qualche teoria del complotto strampalata e diventa paranoico, se non lo era già in partenza. C'è tanto dilettantismo, tanta improvvisazione, tanta cialtroneria: ce ne accorgeremo. Adesso no, adesso è troppo presto, adesso tutti votano il Movimento nella Rete convinti che dietro ci sia della gente che in Rete discute davvero, e condivide conoscenze d'avanguardia: e invece, spero di sbagliarmi, ma in Rete quel poco che c'è davvero è il solito manicomio di complottismi e paranoie. Non so perché debba andare a finire sempre così, perché da una parte ci debbano sempre essere i Malvagi e dall'altra i Cialtroni: probabilmente perché i non-cialtroni se li comprano tutti i Malvagi prima che sviluppino un senso morale. Dopodiché non è detto che debba andare sempre così: dipenderà da noi, da ognuno di noi, il film vuol dirci questo. Ma non riesce a convincere del tutto. E dire che Van Sant ha dimostrato con Milk di sapere come maneggiare argomenti politici per convincerci e commuoverci: forse però perché scatti il meccanismo occorre che GVS sia realmente interessato a quel che succede davanti alla macchina da presa: stavolta non più di tanto.

Promised Land è al Monviso di Cuneo (ore 21) e allo Stella Maris di Alba (21). Buona visione.
Comments (2)

Il Grande Osama Bianco

Permalink
Zero Dark Thirty (Kathryn Bigelow, 2012)

Zero Dark Thirty è un film unico nel suo genere: l'autobiografia di un personaggio vivente che forse non conosceremo mai. Nel film si chiama Maya ed è l'agente della CIA che ha passato quasi dieci anni a cercare Bin Laden, finché non l'ha trovato (forse) e l'ha fatto ammazzare (così dicono, ma perché hanno buttato il corpo in mare immediatamente? E perché non hanno divulgato al pubblico nemmeno una foto? Vabbe', storia vecchia, parliamo del film).

C'è stato un momento - non posso dire quale - in cui guardando il film della Bigelow mi sono accorto che stavo tifando per i cattivi, i malvagi terroristi islamici. È stato un solo momento, comunque imbarazzante. Il punto è che dopo un'oretta nei corridoi della CIA, trascorsa a guardare dei professionisti seri e poco empatici alle prese con procedure standard che prevedono la tortura di alcuni mentecatti, quando finalmente un mentecatto riesce a organizzare un tranello e ammazzarne un po', ti viene spontaneo pensare qualcosa del tipo toh, beccatevi questa yankees, chissà se succede a tutti. Probabilmente no. Zero Dark Thirty è un film ambiguo, il che andrebbe benissimo, se fosse un sistema per disorientare lo spettatore e costringerlo a rivedere le sue opinioni. Da quel che ho letto in giro però non mi pare che le cose siano andate così: ognuno ha semplicemente pescato nell'ambiguità del film quello che serviva a sostenere la propria tesi preconfezionata. Per aver mostrato semplicemente come funzionavano gli interrogatori dei prigionieri (waterboarding, musica ad alto volume ecc.), la Bigelow è stata accusata di apologia di tortura. Per Michael Moore invece il film sarebbe la dimostrazione che la tortura è inefficace, infatti Bin Laden viene trovato soltanto dopo che Obama la proibisce (ma l'inchiesta era partita molto prima, dalla soffiata di un tizio sottoposto a waterboarding...) Per Andrew Sullivan è addirittura un atto di accusa ai criminali che governavano nel 2002 (quando Sullivan li sosteneva), ma in fondo è inutile porsi il problema di quel che pensa Sullivan, tra qualche anno avrà cambiato di nuovo idea. Se però uno spettatore medio entra convinto che la tortura possa essere necessaria per prevenire stragi come quella dell'11/9, non sarà Zero Dark Thirty a fargli cambiare idea: il film a un certo livello di lettura sembra proprio dire che Bin Laden è stato trovato anche grazie al waterboarding.

Se ne parli con un cinefilo puro ti dirà che è un film, soltanto un film: mostra cose che semplicemente sono successe, e lo fa molto bene. La sequenza dell'attacco al compound di Abbottabad è senz'altro lo stato dell'arte del film di guerra nel 2012: tra cinquant'anni guarderemo ancora Zero Dark Thirty se vorremo sapere come era fatta la guerra ai nostri tempi. Purtroppo era una cosa molto noiosa, con elicotteri invisibili e occhiali infrarossi da una parte e kalashnikov impolverati dall'altra, un lunghissimo estenuante match di nervi tra Juventus e Nocerina di cui peraltro conosci già il risultato finale. E i giocatori della Nocerina sono brutti, sporchi, fanatici. Ciononostante, quando fanno almeno un gol... (continua su +eventi!) mi è venuto da alzare il pugno, ma è un problema credo solo mio.

Forse ha ragione chi sostiene che la Bigelow è diventata una specie di regista embedded. Dopo il successo di The Hurt Locker (premio Oscar alla faccia blu dell'Avatar dell'ex marito Cameron) si è subito rimessa a scrivere un altro film di guerra vera, non videogiocata: all'inizio doveva raccontare la battaglia di Tora Bora (in cui Bin Laden non veniva trovato), poi la scoperta del vero nascondiglio dello sceicco del terrore l'ha portata a riscrivere la sceneggiatura in corsa. Film del genere sono interessanti e persino necessari, però per girarli devi avere dei contatti nell'esercito, forse anche nell'Agenzia - ed è gente preparata, magari non sono bravissimi a trovare Bin Laden, ma è indubbio che ai registi la sappiano raccontare. I giornalisti embedded sono inquadrati nell'esercito senza la possibilità di vedere le cose dal di fuori: non c'è scelta, l'unico modo di vedere la guerra è assumere il punto di vista di chi la fa. Allo stesso modo la Bigelow non può permettersi di mettere in dubbio la sua fonte. Col tempo forse scatta anche una specie di sindrome di Stoccolma: a forza di stare in mezzo ai soldati (o agli agenti CIA) non puoi che sviluppare un po' di simpatia per questi uomini rudi, per queste donne tutte d'un pezzo che lottano contro mille avversità per uno scopo, e se torturano qualche talebano nelle gabbie lo fanno comunque con professionalità e senza partecipazione emotiva, figurati, poi si sfogano vezzeggiando le scimmiette nella gabbia più piccola. Per la verità, da quel poco che sappiamo, i carcerieri sadici (e le carceriere) non sono affatto mancati; però la Bigelow non ce li mostra, non ha tempo. Deve raccontarci la storia di Maya, piccola grande Maya, che sola contro tutti e contro tutto riesce a trovare Bin Laden e poi - siccome ai suoi superiori alla fine sembra che non interessi più di tanto questo Bin Laden - pianta una grana infinita finché Obama non si decide a farlo ammazzare.

Maya, ha osservato qualcuno, a suo modo non è meno fanatica dei tizi che vuole eliminare. Sotto ai capelli rossi di Jessica Chastain (bravissima) è ancora e sempre il capitano Achab che non si darà pace finché la Balena Bianca non sarà catturata, e con la Balena tutto il dolore e tutto il terrorismo del mondo. Non ha un passato e, una volta liquidata la Balena, nemmeno un futuro; non si capisce nemmeno come possa far carriera, visto che l'unica cosa che ammette di saper fare è dare la caccia a Bin Laden, con risultati (per i primi nove anni) piuttosto frustranti. In un qualche modo, comunque, i compagni la rispettano e i superiori la temono, e lei va dritta per la sua strada finché la Storia non le dà ragione. Quella che vuole raccontarci la Bigelow, per sua stessa ammissione, è la success story di una persona che non tradisce la sua fede. "Tutti noi come esseri umani possiamo identificarci con il credere in qualcosa - crederci così tanto che non rimane nient'altro nella nostra vita" (tutti? Sul serio?) La narrazione americana procede per success stories: anche la biografia complessa di Lincoln deve essere bignamizzata da Spielberg in un singolo episodio in cui lui deve avere ragione e tutti gli altri torto, a onta di tante altre situazioni in cui gli altri acceleravano e lui frenava, e del chiaroscuro degli eventi precedenti e successivi. Alla fine della fiera Zero racconta la stessa storia dei film di ballerini da talent: devi credere fortissimo nel tuo successo finché si autoavvera; tutti i falliti che ti scorrono attorno non ci hanno creduto abbastanza forte.

Per una Maya testarda che cerca Bin Laden e alla fine incoccia nella pista giusta, chissà quanti agenti hanno continuato a brancolare per dieci anni nel buio, leggendo e rileggendo verbali di interrogatori tradotti alla carlona, bevendo caffè e mangiando ciambelle a spese del contribuente senza cavarci un ragno dal buco - ma la Bigelow ci mostra solo Maya, quell'una su mille che ce l'ha fatta. E ci mostra il mondo con gli occhi di Maya: un luogo pieno di maschi lenti che non vogliono convincersi che Maya ha ragione. Neanche quando un superiore glielo dice chiaro e tondo: Bin Laden è morto, o comunque chissenefrega di Bin Laden, il terrorismo è ovunque, le cellule si scambiano informazioni via internet... Maya non capisce, non può. Nemmeno per un istante l'attraversa il dubbio di essere una semplice pedina: trova intollerabile che una volta rintracciato il compound i dirigenti esitino a fiocinare la Balena. L'unica spiegazione che riesce a darsi (ed è l'unica che ci offre la Bigelow) e che vogliano essere assolutamente sicuri che quello sia proprio Bin Laden e non, poniamo, un trafficante di droga: sono rimasti traumatizzati dalla figuraccia di Colin Powell che mostrava delle foto di camion alle Nazioni Unite spergiurando di aver trovato le Armi di Distruzione di Massa in Iraq. Nemmeno il dubbio che ai piani alti non preferissero tenersi un Bin Laden anziano, stanco, tracciato, piuttosto di farlo fuori a rischio di scatenare rappresaglie e una prevedibile gara tra i successori per conquistarsi sul campo la carica di "Numero uno di Al Qaida". Nemmeno il sospetto che l'ordine finale non sia dovuto all'esasperazione di un direttore che non ne può più di vedersi Maya tutte le mattine che tiene il conto dei giorni col pennarello, ma a un presidente che magari comincia a pensare alla campagna per la rielezione. Niente. Un pezzo grosso saudita offre un'informazione fondamentale? Sarà senz'altro perché gli hanno offerto una Lamborghini, i sauditi sono tutti bambinoni viziati. Così almeno le fonti governative devono averla raccontata alla Bigelow, ma potrebbe anche essere andata diversamente: qualche pezzo grosso saudita potrebbe aver deciso che era il momento politico adatto per mollare l'osso, e la Lamborghini potrebbe essere stato un semplice lubrificante di una trattativa più complessa. Non è che ci voglia molto per farsi venire il dubbio, ma la Bigelow non sembra nutrirne, né ha l'aria di credere che ne debbano nutrire i suoi spettatori.

Solo in un fotogramma l'arcigna Maya si scioglie in un sorriso: quando un soldato, in attimo di relax alla vigilia della battaglia, ammette con un commilitone di essere convinto che Bin Laden c'è, soltanto perché ci crede lei, Maya, e in Maya lui confida. Lì tutto il femminismo della Bigelow si stacca come una concrezione calcarea, e sotto riusciamo a vedere ancora la fanciulla medievale che gode nel vedere il cavaliere pronto a morire per lei. Perlomeno io l'ho vista, ma forse è solo un problema mio eccetera.

Zero Dark Thirty è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (ore 21). Buona visione.
Comments

Bruce non si rottama facile

Permalink
Looper (Rian Johnson, 2012).

Il viaggio nel tempo non è stato ancora inventato, ma tra cinquant'anni lo sarà; e a quel punto la malavita organizzata lo utilizzerà per sbarazzarsi dei cadaveri scomodi spedendoli nel passato. Il giovane Joe (Joseph Gordon-Levitt), nel 2044, di mestiere fa il "looper" ("colui che gira in circolo"): ammazza sconosciuti incappucciati che gli arrivano dal futuro. Non se la passa male, ma sa che un giorno sotto uno di quei cappucci ci sarà lui: il contratto base dei looper prevede che il circolo si chiuda in questo modo. Bene. C'è solo un piccolo problema: Joe, da vecchio, è Bruce Willis. E nessuno vorrebbe avere contro Bruce Willis da vecchio, neanche lui da giovane. Questo per dire come i distributori italiani abbiano perso una meravigliosa occasione, facendolo uscire adesso e non nel novembre scorso, quando Matteo Renzi lottava per rottamare il Bersani che diventerà tra trent'anni. Bastavano un paio di pezzi sui quotidiani e avrebbero portato al cinema anche quelli che al giovedì guardano Santoro. Invece hanno deciso di programmarlo in questo pazzo, pazzo pazzo gennaio 2013.

Chissà se ce ne ricorderemo ancora tra qualche anno, di quel mese in cui nelle sale italiane sono arrivati quasi contemporaneamente i film di P.T. Anderson, dei fratelli Wachowski, di Tarantino, di Spielberg, di Zemeckis: un'offerta così generosa da farci diventare persino schizzinosi, quando ci siamo sorpresi a osservare che beh, sì, The Master non è il Petroliere, Cloud Atlas non è Matrix, persino Django è tanto bello ma non è Inglourious Basterds, quanto a Lincoln non è senz'altro Amistad, insomma, tutti i Grandi Nomi tirati fuori dai distributori dopo aver evacuato i cinepanettoni ci hanno mostrato film belli e interessanti, ma forse neanche un capolavoro, uno di quei film che ti sconvolge. E pensi che forse alla fine, sommando e sottraendo aspettative e soddisfazioni, può darsi che ti sia divertito di più con Looper, il terzo film di un regista americano che non conoscevi (continua su +eventi). È un piccolo film che puoi metterti a guardare senza l’ansia di dover applaudire al  capolavoro. Può sorprenderti come nemmeno Tarantino e i Wachowski riescono più a fare: per quanto originali li hai già visti all’opera. Ma questo Rian Johnson non hai la minima idea di dove vada a parare; il film procede in un modo tutto suo, disorientante, è come se, invece di innervarsi lungo il solito e rassicurante arco narrativo, accumulasse una serie di false partenze. La premessa del film è introdotta in pochi minuti; poi la storia prende una piega del tutto imprevista e si scontra in modo originale con uno dei Grandi Temi della filosofia dei viaggi nel tempo: è giusto fare la prima cosa che viene in mente a tutti di fare, ovvero ammazzare Hitler da bambino? (No, Hitler nel film non c’è, ma c’è qualcosa di analogo). Mi torna in mente un meraviglioso raccontino, in cui i viaggiatori del tempo sembrano volontari di wikipedia, che passano il tempo a correggere la Storia, rettificare qualche errore qua e là, e poi c’è sempre qualche scemo che vuole andare negli anni ’30 a Monaco per sparare al futuro Führer, e ogni volta devi spiegare loro l’arcano: niente Hitler, niente seconda guerra mondiale, niente guerra fredda, niente progresso tecnologico, niente macchina del tempo. 

Looper piacerà ai patiti di viaggi del tempo; non deluderà troppo quelli che vogliono vedere pistole molto grosse; però alla fine lascia la sensazione di essere qualcosa di nuovo, finalmente. È una sensazione sempre più rara ultimamente, per la quale sono disposto a passare sopra a tanti difetti. Forse è un problema anagrafico – invecchio, comincio a somigliare più a Bruce che a Gordon-Levitt e ovviamente tifo per l’anziano – ma temo che sia anche una tendenza generale, per cui una certa struttura del film d’azione che ha funzionato sin da quando eravamo bambini (’80) ormai mostra le corde, è stata sfruttata fino all’osso; già i Wachowski lamentavano quella sensazione per cui a tre quarti di un qualsiasi film sai già più o meno cosa succederà. Per non parlare di altri elementi, uno a caso: l’abbigliamento. All’inizio del film il boss di Joe gli dice: ma si può sapere perché porti il cravattino? Il boss di Joe viene dal futuro, una delle cose che ci porrebbe più problemi se viaggiassimo nel tempo è la moda, perché segue evoluzioni quasi totalmente arbitrarie e siamo abituati a subirla in gruppo, ad accettare le cose che piacciono a tutti intorno a noi. Ma se viaggiassimo nel tempo non sentiremmo questo istinto del gregge, e dovunque andremmo non capiremmo perché la gente veste in un modo arbitrario e stupido (è la reazione di un bambino di fronte a un film di vent’anni fa: perché sono tutti pettinati come dei matti?)

Dunque, dice il boss a Joe: ma lo sai cosa significa quel cravattino? Lo sai che lo hai preso da film che citano altri film che non hai mai visto? Joe sorride, non capisce, dice che è solo moda, ma la moda è la misura del tempo. Noi misuriamo l’antichità dei film dalle dimensioni dei telefoni dei personaggi (in Looper ce li hanno trasparenti). E poi continua, il boss: perché invece di un cravattino non provi un’altra cosa, invece degli stereotipi di stereotipi di cose che non hai nemmeno visto? Qualunque cosa, anche buffa, un collarino di plastica, perché non sperimenti un po’? Ecco, se anche solo il senso di Looper fosse tutto qui (il tentativo di sperimentare qualcosa di nuovo, anche sbagliato) varrebbe comunque la pena di una visione. Non ci si può aspettare che l’ultimo film di Tarantino o di Spielberg sia sempre il migliore film di Tarantino o di Spielberg (sarebbe anche molto ingiusto) ma da un regista giovane sì, deve giocarsi tutto e provare a mandare all’aria il vecchio action movie senza nostalgie. Altrimenti continueranno a servirci film con Schwarzenegger, non scherzo, questa settimana ne è uscito anche uno con Schwarzenegger che spara. A un certo punto con tanto affetto questi qui bisogna rottamarli, anche se sono noi stessi da vecchi.

Looper è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:15, 22:45); al Multisala Impero di Bra (20:15, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (20:20; 22:30). Buona visione. 
Comments

Un Lincoln quasi Obama

Permalink
Lincoln (Spielberg, 2012)

"La bussola ti indica il nord, ma non ti mostra dove sono le paludi", dice più o meno Abraham Lincoln al leader radicale Thaddeus Stevens durante uno dei dialoghi che scandiscono il film. La frase sembra fatta apposta per essere citata, linkata, twittata all'infinito da un certo pubblico che temo sia quello che soprattutto Spielberg aveva in mente (dico "temo" perché ahimè, ne faccio parte): i progressisti moderati, liberal ma non troppo. Quelli che si incazzano con gli amici che votano Ingroia anche se su tanti argomenti starebbero molto più a sinistra di quanto starà mai qualsiasi Ingroia: la nostra bussola indica quel Nord, ma noi abbiamo anche una carta del territorio e sappiamo che in mezzo c'è un'enorme palude e che forse toccherà passare da Sud, attraversando Monti, forse addirittura Casini. Sono cose che succedono e ci fanno vergognare, ma di cosa, poi? Di avere cartine aggiornate?

Spielberg, come il migliore cinema americano, ha la bussola e ha la cartina: non dimentica il nobile ideale a cui tendere (l'abolizione della schiavitù) ma non si sottrae alla complessità del reale (bisogna comprar voti al Congresso uno scilipoti alla volta), anzi ci si tuffa con passione, restituendo agli spettatori una sintesi affascinante anche se, nel caso di Lincoln, più utile a discutere il presente che il passato a cui fa riferimento. Questo è un altro tratto tipico di Spielberg: se la Guerra dei Mondi parlava dell'11 settembre, Minority Report del Patriot Act, Lincoln potrebbe essere definito il primo biopic su Barack Obama. Tony Kushner, lo sceneggiatore di Angels in America e Munich, ha lavorato per più di tre anni, leggendosi scaffali di libri sul personaggio, per poi uscirsene con uno script in cui la first lady e la sua sarta nera (personaggio storico) assistono alle sedute del Congresso, una circostanza veramente poco probabile a metà Ottocento. Di fronte a invenzioni come queste, tanto più sleali quanto più il film sembra garantire la solita precisione filologica spielberghiana di Schindler's o del Soldato Ryan, il regista non ha trovato di meglio che affermare che una ricostruzione come Lincoln è da considerarsi "un sogno". La Storia americana ci mette gli arredi e i costumi, ma sotto barbette e giacche blu i protagonisti siamo sempre noi, sognanti noi stessi. All'inizio del film un pugno di soldati yankee bianchi e neri imbarazza Lincoln recitando un suo celebre discorso a memoria. Gli storici storcono il naso, i soldati della Guerra di Secessione erano perlopiù analfabeti ed è improbabile che cercassero sui giornali testi di discorsi scritti in piccolo per impararli nelle trincee, come i fans di Obama che li trovano su youtube. Ma nel sogno accadono queste cose: che i discorsi schiudano le porte e spezzino le catene, e che i cittadini le imparino a memoria per motivarsi mentre scannano i ribelli. Più tardi il film darà l'impressione di credere che un buon discorso a quattr'occhi di Abe "l'onesto" Lincoln a un deputato avversario possa riuscire dove non riesce l'offerta di incarichi e prebende. La parola è più forte della corruzione. Ci crediamo?

Gli americani ci credono, tanto che spesso si fanno governare dagli avvocati: dateci un podio, fateci leggere un’arringa, dicono gli avvocati Abe e Barack, e vi solleveremo il mondo (il fatto che sia Abe che Barack siano stati anche comandanti in capo, e il mondo lo abbiano cambiato più coi cannoni e i droni che con le chiacchiere, scivola in secondo piano). È una cosa di cui ci accorgiamo ogni volta che Obama fa un discorso ufficiale – qualche giorno fa per esempio ha giurato su un paio di bibbie per il re-insediamento, una formalità. Negli USA è anche uno spettacolo, Beyoncé ha cantato l’inno e tutti si sono arrabbiati perché era in playback, ma non è questo il punto. Il punto è che milioni di persone negli USA, nel mondo, persino in Italia, sono pronti a dare a un discorso formale un senso politico: c’è una diffusa convinzione che Obama cambi il mondo con le parole che dice, più con i droni che comanda. Alcuni si lamentano che in Italia non funzioni così: perché i nostri politici non fanno discorsi altrettanto belli e importanti? Tanto vale chiedersi perché non friggiamo il bacon e il baseball ci annoia, comunque dipende da fattori storici: la centralità del sermone nella cultura protestante, la diffidenza italiana per la retorica da cui il fascismo dovrebbe averci vaccinato, ma anche la difficoltà dell’italiano medio a mantenere l’attenzione per più di tre minuti, per cui delle infinite dirette di Santoro o Floris nelle conversazioni del giorno dopo resistono solo due o tre scambi di battute estemporanee.

Temo che uno spettatore italiano possa avere qualche difficoltà a capire cosa succede in Lincoln, un film dove Spielberg dà per scontate veramente troppe cose sul personaggio, il che non è da lui. A scuola non lo studiamo molto, gli anni intorno al 1860 sono già fin troppo ricchi di date e battaglie e trattati da memorizzare; già ci rammentiamo a malapena che i grigi sono gli schiavisti e i blu sono i buoni; ma il fatto per esempio che i Repubblicani siano per l’abolizione della schiavitù e i Democratici contrari ci fa girare la testa, sembra un mondo alla rovescia. Secondo una tendenza dei biopic moderni, il film preferisce concentrarsi su un periodo molto ristretto della vita del protagonista. Il risultato lo fa assomigliare, più che a un bell’affresco spielberghiano, al pilota di una miniserie televisiva di lusso, o se preferite a una season finale di West Wing in costume. L’episodio descritto risulta probabilmente sopravvalutato rispetto al contesto: si tratta della battaglia congressuale per far passare il Tredicesimo Emendamento, che abolisce formalmente la schiavitù su tutto il territorio dell’Unione. Se non fosse passato, gli Stati del Sud riammessi dopo la sconfitta avrebbero potuto reclamare gli schiavi che si erano emancipati durante la guerra, compresi quelli che avevano combattuto per anni con la giacca blu. Così almeno la pensa Lincoln, che come ogni politico è molto bravo a convincerci che la prossima battaglia è quella definitiva, quella più importante, quella da cui dipende il destino delle future generazioni. Gli storici sono un po’ più scettici: all’abolizione si sarebbe anche arrivati in altri modi, non è detto che il decisionismo di Lincoln (in altri casi molto più prudente) sia stato il metodo migliore. Ma questo comunque è il Nord che la bussola addita a Lincoln per tutto il film, mentre si destreggia nelle paludi del Campidoglio proprio come fa Obama quando scende a compromessi col demonio per far passare la riforma sanitaria o superare il Fiscal Cliff. Barack può stare sereno, Abe fece di peggio: mentre un suo pool di maneggioni corteggiava i senatori democratici a scadenza di mandato, lui si permise di allungare di qualche mese la guerra con un Sud in ginocchio per evitare che la pace cambiasse gli equilibri del Congresso, gravandosi la nobile coscienza di qualche migliaio di ragazzini morti in più. Ma se la tua bussola ti mostra il Nord giusto, non c’è palude che ti possa insozzare. In Italia diciamo semplicemente “il fine giustifica i mezzi”, e non ci facciamo un film sopra: un po’ perché non siamo capaci di scrivere un procedurale, un po’ perché da noi i guerriglieri parlamentari sono visti con diffidenza, sia quando acquistano scilipoti un tanto al chilo sia quando si riducono a precettare senatori a vita in fin di vita. Un’altra cosa di cui diffidiamo sono i politici che si affidano troppo spesso alle battute, anche se quelle di Berlusconi non si possono neanche lontanamente paragonare alle storielle da avvocato messe in bocca allo straordinario Daniel Day-Lewis.

Ma insomma il film vuole farci pensare – il film ha un disperato bisogno di farci pensare – che un presidente che sappia quel che è giusto non deve risparmiarsi a ottenerlo da riottosi organismi democratici, anche con metodi ai limiti della decenza e della legalità (solo “ai limiti”: Lincoln tecnicamente non corrompe, offre solo incarichi federali; non mente al Congresso, racconta solo verità parziali). Siccome il film non parla d’altro (dieci secondi di battaglia, qualche grana famigliare tutto sommato dimenticabile), siamo autorizzati a pensare che la grandezza di Lincoln consista in questo suo machiavellismo etico. Non è vero: Lincoln è stato molto altro che il film ha deciso di non mostrarci. Un presidente di guerra, da principio recalcitrante, e poi determinato a intestarsi uno dei più sanguinosi massacri della storia dell’umanità, il primo conflitto industriale con le trincee, la dinamite e le armi a ripetizione. Ma Spielberg preferisce mostrarcelo sbigottito davanti alle fosse comuni, indeciso se graziare un disertore. Thaddeus Stevens, il memorabile personaggio interpretato da Tommy Lee Jones, può essere scambiato dallo spettatore inesperto per un radicale di ultraminoranza: viceversa, da esponente di spicco della corrente maggioritaria tra i Repubblicani, si stava avviando a diventare il “dittatore” del Congresso nei primi anni della ricostruzione post-bellica. Ricostruzione che fallì, platealmente, nel tentativo di trasformare di punto in bianco gli schiavi delle piantagioni in cittadini elettori, forse anche a causa del radicalismo con cui Stevens e i suoi colleghi la portarono avanti. Il tentativo di imporre l’uguaglianza con le baionette federali portò alla nascita del Ku Klux Klan e alle leggi segregazioniste che per un altro secolo fecero degli afroamericani dei cittadini di serie B. Una palude che né Stevens né Lincoln avevano previsto. I due personaggi, pur simpatici e interpretati al meglio, non hanno la profondità di un autentico machiavelli come Oskar Schindler, ed è un peccato, soprattutto per l’impegno che ci ha messo anche stavolta Daniel Day-Lewis. Il suo Lincoln rimane un bravo avvocato e un simpatico conferenziere, con una vita privata non semplice e una vita pubblica sfibrante: un uomo leale, astuto, amabile eccetera eccetera, il presidente che molti americani vorrebbero, e infatti ce l’hanno.

Lincoln stasera è al cinema Fiamma di Cuneo (ore 21); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (21:10), al Multisala Vittoria di Bra (21:00), al Multilanghe di Dogliani (21:05), al Cinecittà di Savigliano (21:30). Dura due ore e mezza.
Comments

Il Siegfried Nero

Permalink
Django Unchained (Quentin Tarantino, 2012).

Alla vigilia della guerra Civile il dottor Schultz (un Christopher Waltz di nuovo divertentissimo) si aggira per il Sud praticando questo mestiere di recente invenzione, il cacciatore di taglie. Django è lo schiavo che ha liberato perché lo aiuti a identificare una banda di criminali. Ma Django (Jamie Foxx) non è un "negro" qualunque, uno come lui ne nasce una volta su diecimila. Ogni volta che lo buttano a terra, risorge in una versione più cool. Dopo l'orgia citazionista di Kill Bill in parecchi lo avevamo dato per perso, Quentin Tarantino, nella sua cineteca di vhs sbiadite: avrebbe frullato per sempre tutto quello che gli veniva in mente per un pubblico che comunque dimostrava di mandare giù qualunque cosa. Abbiamo dovuto ricrederci con Inglourious Basterds, dove il regista ha messo a punto il congegno che ritroviamo perfettamente oliato nella lunga parte centrale di questo film: un'estenuante trappola per gli spettatori, che in Django hanno ancora meno digressioni e siparietti per tirare il fiato - per salvare la sua principessa l'eroe scende in un inferno vero, un luogo dal quale non si risale senza aver venduto un po' d'anima, dove ci attende un luciferino Leonardo Di Caprio e il suo terribile schiavo-patrigno (Samuel L. Jackson, micidiale).  Se in Basterds ci ritrovavamo per qualche minuto a vivere il dissidio e la vergogna di un padre di famiglia che per salvarsi tradisce gli ebrei che ha nascosto, in Django dobbiamo reggere la vista di fuggitivi sbranati senza tradire un sentimento. Tutto questo, per qualche strana alchimia che Tarantino ha raggiunto dopo anni in cui non sembrava nemmeno provarci, capita ai personaggi sullo schermo, ma capita anche a noi sulla poltrona. Siamo cavalieri senza paura ma con moltissime macchie, dobbiamo scegliere con chi stare e il più simpatico spara alle spalle di mestiere (continua su +eventi)Si scherza anche, si ride persino, ma sempre con la mano alla fondina e il dito sulla sicura.

Chi pensa che in questi film Tarantino stia solo scherzando con le pagine più delicate della Storia, quasi sempre non li ha visti. Spike Lee per esempio Django non lo vuole vedere perché, cinguetta, lo schiavismo è stato “un olocausto”, non “uno spaghetti western di Sergio Leone”. Il solito equivoco, così protratto che alla fine chi va al cinema aspettandosi un semplice omaggio cinefilo ai vecchi spaghetti rischia di restare deluso. Senz’altro gli ultimi due film di Tarantino si prendono nei confronti della Storia delle libertà a cui non siamo più abituati. Sarebbe interessante capire il perché.  Fino a qualche anno fa il West dei cacciatori di taglia, il Sud della Guerra Civile – ma anche la Seconda Guerra Mondiale – venivano usati tranquillamente come sfondi di canovacci per film dalla serie B alla Zeta. Poi la serie B ha chiuso bottega, sostituita dalla narrativa televisiva che non poteva che proporre contenuti meno disturbanti. Nel frattempo si imponeva il politically correct, e Spielberg (che coi nazisti cattivi da fumetto aveva giocato fino all’Arca perduta ) con Schindler’s List imponeva un approccio iperrealista documentario e didattico che purtroppo ha fatto scuola. Dico purtroppo perché non è affatto semplice essere documentari e didattici: per esempio quando ci ha provato Spike Lee, col Miracolo a Sant’Anna, ci siamo ritrovati i Buffalo Soldiers in gita in Garfagnana che si palleggiano teste di marmo come fossero basketball – Mr Lee, si fidi, era più profondo Sergio Leone. 

Per una coincidenza troppo curiosa per esserlo davvero, anche Spielberg come Tarantino, dopo aver dedicato un capolavoro alla seconda guerra mondiale e allo sterminio degli ebrei, si è immediatamente rivolto al passato schiavista americano, con Amistad. È come se un olocausto richiamasse l’altro, come se, dopo aver accusato i nazisti, due registi così astronomicamente diversi avessero sentito entrambi la stessa necessità di scavare negli orrori di casa propria. Ovviamente Tarantino non è didattico, non è documentario, ovviamente pasticcia con antichi amori e nuove infatuazioni, Corbucci, il rap e la mitologia norrena, ovviamente strizza l’occhio ai suoi ammiratori storici (c’è la scena da feticista dei piedi? C’è). Nella sua fiaba infila dettagli storicamente inaccurati o non documentati (i duelli di mandinghi all’ultimo sangue). Ma Spike Lee dovrebbe stare tranquillo, se c’è un film che può aiutare spettatori di tutto il mondo a considerare lo schiavismo un olocausto, questo è Django. Tarantino si libera da qualsiasi catena di verosimiglianza e sceglie una via tutta sua, maturata guardando senz’altro gli spaghetti western ma trovandoci cose che, per sua ammissione, forse non ci sono. “Stavo scrivendo un libro su Sergio Corbucci, quando ho trovato un modo di raccontare la storia […] Stavo scrivendo di come i suoi film avessero questo selvaggio West malvagio, orribile. Era surreale, aveva molto a che fare col fascismo. Così stavo scrivendo questa cosa sull’argomento e ho pensato: non sono sicuro che Sergio ci stesse pensando mentre lo faceva. Ma so che io ci sto pensando adesso. E io posso farlo!” Che gli spaghetti-western fossero ancora posseduti dai fantasmi del fascismo e della Resistenza, è un’osservazione non così banale da parte di uno spettatore non italiano. Il tentativo di riattivare il meccanismo a trent’anni di distanza, usando un linguaggio di genere ormai in disuso per denunciare in modo surreale gli orrori dello schiavismo americano, sulla carta poteva sembrare un’operazione impossibile. Il punto è che a Tarantino ultimamente riescono film impossibili. Speriamo che duri.

Un appunto sul doppiaggio: anche Django, come Inglourious, è un film parlato, dove ogni personaggio ha un accento particolare tranne alcuni che ne hanno due o tre, e tutto questo doppiato in italiano va ovviamente a farsi fottere. Chi lo ha visto in versione originale non fa che lamentarsi del doppiaggio, quindi il consiglio è di non guastarsi il fegato e non vederlo in versione originale, tanto più che è distribuita in pochissime sale. Secondo me è meglio vederlo un po’ rovinato la prima volta, e poi goderselo la seconda, in dvd o altrove. Dico una cosa antipatica: le versioni originali non sono per tutti. Chi non ha abbastanza dimestichezza con l’inglese rischia di passare il tempo a leggersi i sottotitoli invece di guardare il film, e a quel punto saper distinguere l’accento del Texas da quello del Mississippi forse non è la priorità. Sì, il vero timbro di Leonardo Di Caprio è tutta un’altra cosa. Ma se ci pensate bene anche la solita vocetta doppiata da ragazzino, nei suoi panni di Giovin Signore del Sud, non è così sbagliata. 

Django Unchained è al cinema Fiamma di Cuneo (ore 21:10), al Cityplex di Alba (21:00), al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:30, 22:00), all’Impero di Bra (21:15), al Multilanghe di Dogliani (20:45), ai Portici di Fossano (21:30), al cinema Italia di Saluzzo (21:00) e al Cinecittà di Savigliano (21:30). Dura praticamente tre ore. Buona visione.
Comments

V per vendetta, B per Benigni

Permalink
Posto che Benigni è un grande artista, e che lo sarebbe anche se non riuscisse a calamitare il 40% di share con niente più che una lezione frontale sulla Costituzione, vorrei provare a spiegare perché ieri sera io non sono riuscito a guardarlo più di qualche minuto - un fenomeno per nulla eccezionale, ma ultimamente c'è twitter che rende più visibili minoranze fino a ieri poco interessanti, ad esempio quelli che in teoria rientrerebbero nel target degli estimatori di Benigni (over 40 "de sinistra") e invece non lo sopportano; magari con tanto affetto per quando bestemmiava e inneggiava al corpo sciolto, ma è successo secoli fa. E poi c'è un'altra minoranza curiosa, ovvero quelli che non se ne capacitano: non capiscono come si possa malsopportare un genio come Benigni che fa il 40 di share parlando di una cosa come la costituzione. Al punto di scomodare il demone dell'Invidia: saremmo tutti Invidiosi, ecco perché non riusciamo più a guardare Benigni e goderne come ne godono vecchi e bambini. L'Invidia ci ha rosicchiato il cuore. Il che tra l'altro è vero.

Almeno nel mio caso: certo che invidio Roberto Benigni, mi sembra il minimo. Ha fatto di tutto, compresi i milioni; ha vinto un Oscar; ma soprattutto riempie le piazze spiegando Dante, io giusto stamattina spiegavo Dante e me ne accorgevo da solo che non sono altrettanto bravo. Me ne accorgevo per esempio perché sul più bello, con il conte Ugolino chiuso nell'orribil torre che sente inchiodare l'uscio, c'è sempre qualcuno che chiede di andare in bagno. Ci fosse al mio posto Roberto Benigni sono sicuro che non succederebbe, nessuno oserebbe perdersi la scena in cui si morde le mani e i figli gli propongono di addentare piuttosto le loro misere carni: se la farebbero addosso sul posto per sapere se alla fine li mangia o no. Quindi l'Invidia c'è, e gioca un ruolo. Ma non credo che sia decisiva.

Anche perché se invidiassi tutte le cose che non mi piacciono più... per esempio ieri sera a un certo punto ho cambiato canale e mi sono reso conto che Italia1 controprogrammava V per Vendetta, una scelta tanto sottile che forse è casuale: al campione dei democratici progressisti, Roberto Benigni, il settore giovanile mediaset opponeva il campione degli anarco-antipolitici grillini, il V con la maschera di Guy Fawkes. In effetti se avete l'età per apprezzare Benigni magari neanche sapete chi è 'sto V... ma la maschera l'avete vista in giro senz'altro, ecco: pochi film negli ultimi anni si sono infilati nell'immaginario collettivo occidentale come questo, che come sempre in questi casi non è nemmeno un gran film... eppure evidentemente funziona. Proprio come Benigni, a un certo punto bisogna arrendersi: toccano le corde giuste, corde che tu non sai toccare e forse nemmeno vedere, ma ci sono e fanno vibrare per simpatia milioni di persone.

Ora io ho un problema. Forse faccio parte di una generazione di mezzo. Forse sono io che sono sempre stato in mezzo. Questa cosa ormai mi si ritorce contro nel momento in cui mi rendo conto che non solo non riesco più a guardare Benigni, che è bravo per carità... ma neanche Natalie Portman che prepara il funerale vichingo a V: neanche lei riesco più a prendere sul serio. Sarà il doppiaggio, i troppi break pubblicitari, ma mi sembra un'autoparodia; quando lui le dice "sto morendo" e lei una cosa del tipo "no, non puoi lasciarci adesso" istintivo mi ricorre Supergiovane che piange Catoblepa, o rido o cambio canale, e questo cosa vorrebbe dire? Che invidio Natalie Portman? Che non sopporto che sia più bella di me, o in generale più brava a recitare? Può anche darsi ma forse il problema è un altro.

Il problema è che vedo due generazioni l'una contro l'altra armate, e non so scegliere: stare in mezzo non si può ma soprattutto non è la mia posizione. Per stare in mezzo bisogna apprezzare e comprendere gli uni e gli altri e invece è il contrario: non li capisco e non li apprezzo entrambi. La generazione che si beve con entusiasmo una lezione frontale di due ore sulla costituzione "più bella del mondo" ha un'età media di 55 anni, chi ha preso sul serio il messaggio politico di V per Vendetta difficilmente ha superato i 30. Non credo che siano in grado di capirsi: già Benigni è indigesto per me, dopo di me vengono i barbari baricchiani, gente fisicamente incapace di restare immobile davanti a uno schermo se sullo schermo c'è un tizio che parla per due ore. E lo so che c'è qualcosa di commovente in questa resistenza della parola sull'immagine, del discorso sul montaggio serrato: ma so anche che non può durare. Certo, siamo in Italia, Benigni ha ancora 15 anni a disposizione per entusiasmare il suo pubblico e, quel che più importa, è quello il pubblico che ti fa vincere le elezioni. Ma ti fa vincere anche Sanremo, se per una volta in mezzo ai vari concorrenti di Talent si presenta un Vecchioni. Lo stesso Renzi, nei suoi comizi, mi sembra segua ancora strategie retoriche simili a quelle messe in atto da Benigni: la dialettica tra rottamabili e rottamatori è tutta interna all'insieme di gente che ieri sera si poteva guardare lo spettacolo sulla Costituzione. E che V per Vendetta non sa cosa sia: roba per ragazzini, un film d'azione con un tizio mascherato che rotea coltelli al ralenti, un Matrix aggiornato all'epoca della paranoia sulla febbre aviaria.

V per Vendetta è tutto ciò, ma è anche un oggetto più complesso. Lasciamo perdere le nobili origini (all'inizio era un fumetto di uno dei geni letterari ahimè del secolo scorso, Alan Moore, nato dall'inquietudine di quel decennio che adesso invece sembra essere stato tutto giocoso e colorato, gli anni Ottanta: chi li ha vissuti lo sa, quanto invece si prestassero bene a fantasie di apocalisse). Moore questo film non l'ha mai voluto, già lo script dei fratelli Wachowski (gli stessi di Matrix) non gli piaceva. Per guardarlo bisogna davvero scordarsi il fumetto, così come probabilmente per apprezzare la lezione di Benigni bisogna temporaneamente dimenticare eventuali mesi trascorsi a studiare diritto costituzionale. Come nel caso di Matrix, è molto difficile per me capire cosa abbia reso proprio questi due film d'azione due testi sacri, fonti di ispirazione filosofica, esistenziale, addirittura politica per tanti membri di una generazione alla quale evidentemente non appartengo. Mi è solo chiaro che i Wachowski ragionano per immagini, molto più di quanto lo facesse un autore già visionario come Moore. E che nella costruzione del loro linguaggio visivo non si vergognano minimamente di riutilizzare immagini (ma anche discorsi) che la mia sensibilità 'vecchia' rifiuta immediatamente come banali, scontati, risaputi, kitsch; se il mio senso estetico avesse una spia sonora, questa bipperebbe in continuazione: pericolo kitsch / attenzione! populismo da due soldi in avvicinamento / procedere con prudenza, qualcuno sta trasformando i totalitarismi del Novecento in cattivi da operetta / stooop! qui usano un terrorista come deus ex machina, invertire la marcia immediatamente!!!! / warnung, dietro l'angolo stuprano Orwell per due spicci. E così via.

Ma questo significa semplicemente che la mia sensibilità non riesce ad aggiornarsi, perché V per Vendetta funziona, porta migliaia di persone in piazza in tutto il mondo. Quelle che io interpreto come continue cadute di stile fanno parte di una strategia retorica che non riesco a cogliere, trasmessa su una frequenza che le mie antenne non captano, ma d'altro canto già in Matrix quando chiedevano di scegliere la pillolina blu o quella rossa io ridevo e pensavo soltanto ad Alice nel Paese delle Meraviglie e mi stavo perdendo la metafora più potente dei tardi anni Novanta. E non c'è niente da fare, in V riesco a vedere solo un film d'azione con ralenti e dialoghi stucchevoli, allo stesso modo come in due ore di Benigni riesco solo a vedere un insegnante di mezza età che cerca di fare il simpaticone, e ci riesce per carità, ma non viene anche a voi voglia di alzare la mano e fare una qualsiasi domanda stupida, prof ma quale giuria esattamente ha deciso che la nostra costituzione era "la più bella del mondo", e quando è successo? Perché nascono nazioni nuove tutti gli anni, chissà se il Sud Sudan non ne abbia una più bella della nostra; probabilmente no ma qualcuno si è preso la briga di leggerla e fare un confronto? E poi, prof, il fatto che sia la più bella, e il fatto che sia anche la meno applicata; non le è mai venuto in mente di collegare le due cose? Ma anche più semplicemente

posso andare in bagno?

Che è un messaggio che secondo me li contiene tutti: i ragazzi, è una delle poche cose che ho imparato negli ultimi anni, protestano con la vescica. È l'unico strumento che gli consente di controbattere alla retorica degli adulti, dei professionisti.

Ecco, se c'è qualcosa che hanno in comune, V e Benigni, è che non ti autorizzano ad andare in bagno: devi guardarli con un'adeguata partecipazione emotiva, ridere quanto ti viene chiesto di ridere, piangere quando si toccano i tasti del pianto: e niente battutine. Sono due spettacoli del tutto privi di ironia. Benigni non è mai stato molto ironico, anche quando faceva il comico mi sembra che ricorresse all'ironia solo occasionalmente, magari con il tocco del maestro. Da quando è salito in cattedra anche queste brevi frecciate sono sparite; l'approccio che Benigni adopera con Dante o con la Costituzione è sempre estremamente empatico: ed è poi questo che mi rende faticoso restare a lungo sul suo canale. Non è una questione di contenuti, sempre abbassati il più possibile, ma avete fatto caso al tono? È una specie di musica ossessiva, la voce di un tizio che ti invita continuamente a commuoverti, ma lo capisci che ti sto dicendo qualcosa di commovente, ma lo capisci che ti sto spiegando qualcosa di nobile, di grande, come la costituzione scritta dai nostri nonni, ma lo capisci che te lo sto spiegando con parole semplici, e che anche questo è nobile e grande, ma lo capisci che mentre ne parlo mi commuovo io stesso, ma lo capisci, e allora perché non ti commuovi, ma lo capisci, ma lo capisci, ma perché non piangi? se non piangi adesso, ma di cosa? e piangi su.

"Prof, posso andare in bagno?"

No adesso tu piangi.

"Preferirei piangere in bagno".

Non mi fido piangi qui.

"Ma non è un po' anticostituzionale questa cosa?"

Allora cambi canale e c'è V coi suoi discorsi bisbigliati sotto la maschera, ma ti viene il dubbio che anche lui, con molta più azione e molte meno parole, voglia solo farti piangere o ridere a comando; la sua grande idea di palingenesi rivoluzionaria consiste nel fare esplodere il Parlamento dopodiché la Gente festeggerà e si autogovernerà; buffo, se la terrorizzi con le epidemie la stessa Gente va in confusione e vota i fascisti cattivi; invece se gli fai saltare in aria il parlamento la Gente si sveeeeeegliaaaa!!!11! capisce e festeggia. E io resto in mezzo, un po' perplesso. Da una parte vedo la civiltà dei Benigni, dei Bei Discorsi, dei Padri Nobili, che ha ancora un buon decennio davanti, ma poi inevitabilmente sfumerà. Dall'altra arriva una generazione che si esalta per cose che non riesco a capire. Ci penso e mi sento un peso dentro.

Per fortuna che posso andare in bagno.
Comments (35)

Scampato alle Diaz

Permalink

un pezzo del 2007. Non aggiungo più niente, ho già scritto troppo). 

Stasera non avrei scritto niente, se non che prima di coricarmi, passando davanti allo specchio, ho visto la faccia di uno che ha scampato le Diaz per pura botta di culo.
Siccome un pensiero tira l'altro, mi sono anche domandato che faccia avrei. Un po' più sbattuta di certo: magari un dente in meno (qualcuno lasciò un dente sulle scale). Forse più calvo, chi lo sa, più rugoso e interessante. Io non voglio passare per un reduce – è ridicolo, Genova furono tre giorni – però capisco perfettamente la gente che va in guerra, la scampa e poi si sente in colpa per tutta la vita. È un senso di colpa strano, misto a una curiosa invidia, e alla voglia di contar balle ai ragazzini al bar.

Io alle Diaz in quel momento avrei voluto esserci. Nel senso che avevo una gran voglia di andarci, venti minuti prima che le Diaz passassero alla Storia. Suona buffo, ma era tutta una questione di blog. Volevo aggiornare il blog, che poi era un modo di avvertire una ventina di persone che l'avevano letto fino a poche ore prima che ero salvo e stavo bene. Era tutto puerile e terribilmente serio allo stesso tempo. Le scuole cablate erano due, una di fronte all'altra: la più grande aveva la Sala Stampa e i server, ma i computer giravano con un cacchio di sistema operativo alternativo che s'inchiodava continuamente. Nelle Diaz invece c'era il vecchio stramaledetto windows duemila. Io dunque, mentre stavo in fila per accedere al sospirato blogger, avevo una gran voglia di provare se lì di fianco c'era meno fila. La Diaz, fino a quel momento, la conoscevano in pochi, tra cui io; io che due sere prima mi ero coricato con le chiavi della Diaz in tasca, perché nel cosiddetto servizio d'ordine del Movimento dei Movimenti si faceva carriera rapidissimamente, bastava continuare a preoccuparsi mentre la gente andava a dormire.

Io dunque ero indeciso se restare lì o andare alle Diaz. Se ci fossi andato, forse oggi passerei i miei pomeriggi a fissare il muro o a guardare i manga, magari soffrirei la depressione e peserei 120 chili; oppure mi sarei liberato di ogni borghese inibizione, come quelli che scampano un disastro aereo e non hanno più paura di nulla, e lavorerei sulle impalcature dei grattacieli, chi lo sa. Se invece fossi rimasto lì in fila, di lì a cinque minuti i carabinieri mi avrebbero semplicemente convinto ad accucciarmi al muro con le mani alzate, mentre sequestravano i server con un sacco di immagini compromettenti (compromettenti per loro, visto che in tutti questi anni non risulta le abbiano usate per incriminare chicchessia). Ma non feci nulla di tutto questo, perché passò Glauco a dirmi che andavano a prendere una birra lì all'angolo e io dissi ma sì, chi se ne frega. Era tutto molto serio, e allo stesso tempo no.

Come Buzzati, quando la sera tornava a casa dal grande giornale e scriveva su un quadernetto il Deserto dei Tartari; come Fenoglio quando da bambino montava sui tetti e s'immaginava di sparare agli invasori, anch'io probabilmente nel mio piccolo pensavo che ci sarebbe stata una guerra prima o poi, almeno una Battaglia, e che solo la Battaglia mi avrebbe fatto uomo. La guerra però non arrivava mai e così ho provato ad arrangiarmi con Genova.
A Genova le cose erano estremamente serie, in effetti, e allo stesso tempo restare seri era spesso difficile: tutto rischiava di diventare puerile da un momento all'altro. La cosa di cui sono più fiero è il servizio d'ordine al concerto di Manu Chao, quelle quattro ore spese a sgolarsi per avvertire i ragazzini di non oltrepassare la linea rossa della corsia ambulanze, e per cortesia di non rompersi l'osso del collo sugli scogli. Mercoledì sera, prima di ritirarmi al campeggio, avevo lungamente cercato di mettere pace tra due skin francesi impasticcati che se le davano in piazzale Kennedy, e non avevano l'età di mio fratello. Poi mi ero scocciato: ero un adulto, non Madre Teresa.

In seguito ci furono le cariche di venerdì, e bamboccioni se n'erano visti molti, in uniforme e in tenuta da movimento. Noi stessi, soliti modenesi, ondeggiavamo da una piazza tematica all'altra, cercando di mantenere un distacco critico, ma anche annusando a pieni polmoni la voglia di mettersi nei guai, il profumo con cui la troia Guerra seduce tutti i ragazzini. Poi era corsa voce di un morto, anzi di due, di tre; dalla città salivano fili di fumo e tutto sembrava allo stesso tempo serio e patetico, e per quanto non fossimo allegri eravamo più che mai fieri di essere lì piuttosto che altrove. Sabato ci eravamo svegliati con la sensazione di essere più che mai nel giusto, e le cariche e la lunga anabasi per i quartieri della città scoscesa in fondo li avevamo vissuti con lo spirito giusto: che era lo spirito d'avventura. All'ora in cui Glauco mi invitò a bere una birra tutto sembrava finito, la tensione era scesa di molto; e l'ansia di aggiornare il blog (l'unico blog a Genova!) poteva sembrare una cosa puerile.

La birreria stava dietro l'angolo e faceva affari d'oro, perché era l'unica rimasta aperta in quel quadrante della città. C'incontrammo una ex compagna di classe di Glauco che si era trasferita in Belgio e faceva teatro e tornava in Italia solo per le rivoluzioni. Quella birra non l'ho mai bevuta – ma la storia credo di averla già raccontata, o no? Ma qui c'è un sacco di gente che forse non l'ha ancora sentita, e allora sedetevi ragazzuoli, che vi spiego. Ci fu un frastuono di sirene, e quando uscimmo a vedere, restammo molto stupiti che non fossero i soliti CC o PS o GdF o Forestali, ma una colonna di ambulanze e Croce Rosse. Magari le aveva chiamate proprio Fournier, che ringrazio. Ho sempre pensato che fossero state molto tempestive, come se i picchiatori delle Diaz le avessero chiamate ancora prima di irrompere.

Voi, com'è giusto, la storia la conoscete dalla A alla Z: il poliziotto che si graffia il giubbotto con un coltello e poi lancia l'allarme (hanno cercato di accoltellarmi), i carabinieri e i poliziotti che entrano, le ambulanze che arrivano, le barelle che escono, il questore il giorno dopo in conferenza stampa che mostra le prove della resistenza armata della Diaz: un piccone fregato al cantiere di fianco, le molotov che poi qualche poliziotto confessò di avere fabbricato, e che in seguito sono misteriosamente scomparse, un sacco di coltellini svizzeri e pacchetti di kleenex da non sottovalutare (se si pensa che la principale fobia dei ragazzini in uniforme da poliziotto erano i fantomatici "palloncini di sangue infetto"). A raccontarlo sembra una comica, col sangue finto e i pugni per finta che fanno saltare i denti per finta.

Quando però le vivi, certe situazioni, ti trovi come nel mezzo della battaglia: non hai la minima idea di quello che sta succedendo. Dopo esserci nascosti per un quarto d'ora dietro la saracinesca della birreria, alla fine cedemmo alla tentazione di andare a vedere cosa succedeva. Non si capiva nulla, e non c'era nessuno che ti raccontasse la stessa cosa. Siccome nessuno mi aveva spiegato che i server avevano preso il volo, io mi fiondai subito all'ufficio stampa per aggiornare il blog, che ora mi sembrava la cosa più adulta da fare; stavo inutilmente cliccando il tasto refresh quando sentii un boato d'umana indignazione che mi scaraventò di nuovo fuori, e mi fece arrampicare sulla cancellata di fronte alle Diaz. Cosa stava succedendo?
"Portano via un morto".

Il morto in realtà era una barella carica delle famose munizioni di cui sopra, ma coperte da un telo verde impermeabile, che faceva un effetto body bag orribile a vedersi. Rimasi appeso alla cancellata per un tempo che mi sembrò interminabile, fregandomi del blog e probabilmente inveendo e fischiando a poliziotti e infermieri, ben sapendo che non era la cosa più adulta da fare.

Più tardi sono entrato, come altri cento, e ho visto le cose che avevano già visto altri cento: ma le ho viste male, in fretta, sicché quando le rifanno vedere in tv (molto di rado) non le riconosco, oppure confondo ricordi televisivi e reali, e mi vergogno. La sensazione di trovarsi al centro delle cose, che ci aveva aiutato a drizzare le antenne per tre giorni, stava svanendo. Ricordo sempre quella porta dei bagni forata da un colpo secco di manganello: m'immagino sempre di trovarmi lì, di chiudermi in bagno, di sentire le botte di manganello e poi di vedere la mano del poliziotto che si sbuca dal foro, trova la maniglia e la apre. Ma non ero lì, per cui in fondo il mio è solo un film come un altro.

Genova mi ha fatto paura, bisogna dirlo: quando tornai a casa continuavo a sentire le sirene, di giorno, di notte, per una settimana. Poi mi è passata.
Genova mi ha dato la scossa, e per alcuni mesi mi ha spinto a fare cose serie; ma in mezzo alle cose serie continuavano a esserci molte storie buffe, ridicole e apparentemente inadeguate, che col tempo hanno preso il sopravvento. Ho concluso che la vita è così, seria e ridicola insieme, che il bambino egotico e curioso che mi porto dentro non deve per forza morire in seguito a una battaglia: può restarsene lì, a patto che non rompa troppo.
Adesso vivo in una città ancora più piccola, davvero una miniatura; continuo ad aggiornare il blog per un motivo o per un altro e non racconto balle da reduce ai ragazzini, perché un reduce non sono.
I ragazzini poi sono terribili, perché ogni anno ne arrivano di nuovi, e non c'è cura migliore alle nostalgie sciocche di una nuova infornata di allegri ignoranti. Questi che stamattina han fatto l'esame sono del Novantatré, cosa vuoi che gli freghi di un tafferuglio che scoppiò a 9 anni? Quello che gli fa drizzare le antenne sono gli argentini torturati sotto lo stadio e lanciati dagli aeroplani senza paracadute. Il desaparecido volante è un enigma che coinvolge Storia, Geografia e Scienze: da che altezza venivano lanciati? Che velocità raggiungevano durante la caduta? Cadevano in moto uniforme o con un'accelerazione costante? Morivano asfissiati, inceneriti come le meteore, o annegavano? Questi sono misteri intriganti per un ragazzino.

Io non vorrei dover aggiungere misteri alla Storia del dopoguerra, che già ne sovrabbonda. Crescendo i miei ragazzini dovranno prendere appunti sull'Italicus, sulla Stazione di Bologna, su Ustica, Piazza Fontana... io vorrei che almeno si risparmiassero le Diaz. In fondo sono un mistero minore, che con un piccolo sforzo da parte dei carabinieri e dei poliziotti onesti si potrebbe archiviare in breve. Non era mica la guerra, anche se "Diaz" ha sempre avuto un suono sinistro (i giornalisti non avrebbero potuto inventarsi di meglio). Si disse subito che era l'Argentina, il Cile. No: erano le Diaz, nemmeno una scuola vera, una piccola palestra in cui le forze dell'ordine dello Stato repubblicano persero del tutto l'autocontrollo, e ancora aspettiamo che ci spieghino il perché.
Dovrebbero farlo. Sarebbe un bene per loro, per il Senso dello Stato dei nostri ragazzini, e anche per me. Personalmente non ho voglia di rivedermi tra cinque o dieci anni in un documentario sgranato, mentre mi appendo all'inferriata come un deficiente. Non vorrei perdere tempo a spiegare a mio figlio perché ero lì. Ero lì perché in quel momento non avrei sopportato di essere altrove: fine.
Comments (6)

Perché sono omofobo

Permalink
L'omosessualità è apparsa come una delle figure della sessualità quando è stata ricondotta dalla pratica della sodomia ad una specie di androginia interiore, un ermafroditismo dell'anima. Il sodomita era un recidivo, l'omosessuale ormai è una specie (Michel Foucault, La volontà di sapere, 1976).


Oggi è la giornata mondiale contro l'omofobia, dicono, e pensavo di celebrarla con un piccolo autodafé. Siccome ogni tanto mi viene rivolta l'accusa di essere io stesso omofobo, vorrei cercare di spiegare e spiegarmi il perché questo è successo, succede e succederà. Non è un pezzo polemico, in teoria; in pratica qualcuno con cui litigare lo trovi sempre; ma questo pezzo è da intendersi più come la fine di un litigio, quella parte noiosa che alcuni chiamano "spiegazioni", e che molti giustamente saltano: potete anche saltare questo, al massimo la prossima volta che mi date dell'omofobo ve lo linco e ci date un'occhiata. È anche parecchio autoreferenziale.

L'accusa di omofobia è meno scontata di quella di antisemitismo, socialmente meno pericolosa di quella di pedofilia; in ogni caso dà un po' fastidio. Io poi sono convinto, da molto tempo, che un gay dovrebbe avere gli stessi diritti che ho io, compreso quello di sposarsi e crescere figli; per quel poco che posso fare cerco di contrastare l'omofobia nel mio ambiente di lavoro; ho conosciuto e voluto bene a persone omosessuali, cosa un po' banale da dire ma pure è successo; ero cautamente favorevole a un testo di legge che riconoscesse l'aggravante per omofobia; e il video di Small Town Boy mi fa venire i lacrimoni. Per cui quando mi ritrovo iscritto tra gli omofobi mi sembra sempre un po' un'ingiustizia. All'inizio pensavo che si trattasse del mio attendismo, che è un tratto della mia personalità che ha sempre fatto arrabbiare molte persone, buoni ultimi i gay. In sostanza io ho sempre amato i compromessi e diffidato dei duri e dei puri, ce l'avevo con Bertinotti nel '98 e tutto quanto, e sono tuttora convinto che se nel 2007 fossero passati i Dico, oggi la qualità di vita di molte famiglie gay italiane sarebbe lievemente superiore - il solo fatto di aver uno status riconosciuto da una legge italiana accelererebbe anche il processo verso il definitivo riconoscimento della parità e del diritto al matrimonio, perlomeno io la penso così, e non credevo di essere omofobo per questo. E infatti questo in realtà c'entra in modo molto relativo. Ci ho messo un po' di tempo a capirlo: il mio attendismo è oggettivamente snervante per molti che mi leggono, ma non è il motivo per cui alcune conversazioni terminano con qualcuno che mi dà dell'omofobo. C'è qualcosa di più profondo.

"Omofobo" è un curioso portmanteau. Generalmente lo usiamo per intendere una "persona che odia gli omosessuali": però il suo significato letterale sarebbe: colui che ha paura di sé stesso. In questo senso io potrei essere effettivamente un po' omofobo, e mi domando chi non lo sia mai stato. Il nostro corpo è una fonte inesauribile di ansie e paure, molte delle quali coinvolgono la sfera sessuale e l'identità di genere. È un argomento fin banale: chi ha paura degli omosessuali teme soprattutto l'omosessuale che è in sé. Se vi soffermate sulle dichiarazioni omofobe di questo o quel politico o attivista vi accorgerete che implicano l'idea (folle) che tutti possiamo diventare omosessuali, se non stiamo attenti. C'è chi paventa l'estinzione del genere umano, e non dice una battuta: ci crede. L'omosessualità per costoro non è soltanto una malattia, ma è anche altamente contagiosa. Nel loro fanatismo, questi signori hanno capito una cosa che altri gay temo non afferrino: siamo tutti omosessuali. Potenzialmente. No, non è vero. Cioè, in realtà ne sappiamo poco, molto meno di quanto crediamo di saperne.

Tra l'altro fu uno scout ad alto livello.
Do per scontato che chi legge qui conosca un po' la storia del rapporto Kinsey. La figura dell'entomologo che studia la sessualità degli americani in piano maccartismo, giungendo a conclusioni ancora oggi sorprendenti, è insieme modernissima e antica, come la serie classica di Star Trek: mostra un futuro radicalmente diverso da quello che poi c'è stato. È profondamente alieno, per esempio, l'approccio; per noi, qui nel 2012, la cosa più importante è definirsi: etero, omo, trans, eccetera. A Kinsey questo tipo di etichette non diceva nulla, lui partiva dalle esperienze: non chiedeva ai suoi campioni Chi sei?, Come ti definisci, ma Cosa hai fatto? E scopriva cose che ci sorprendono ancora: che il 37% dei maschi intervistati aveva avuto un'esperienza omosessuale; che il 46% degli stessi aveva provato attrazione per persone di ambo i sessi. Spesso nelle discussioni si tira in ballo Kinsey per ricordare una fantomatica stima della "popolazione omosessuale" tra il 5 e il 10% (è un errore che ho fatto anch'io): non è esattamente così, ma soprattutto non è il dato più interessante; perlomeno, mi pare più interessante il fatto che negli USA degli anni '50 un terzo della popolazione maschile avesse avuto almeno un'esperienza omosessuale e quasi la metà avesse provato attrazione per qualcuno del suo stesso sesso: se comunque accettiamo di prendere per buona la stima del 10% di omosessuali 'esclusivi' (il gradino 6 della scala Kinsey) ci rimane una fascia grigia del 40% che forse ci spiega meglio perché Giovanardi, se vede due gay baciarsi, può avere paura sul serio. Prendendo per buone le stime di Kinsey potremmo avere 4 possibilità su 10 che Giovanardi, un politico cattolico di centrodestra, un bacio così lo abbia trovato almeno in un periodo della sua vita desiderabile; un apostrofo roseo che un politico cattolico di centrodestra deve assolutamente cancellare con un vigoroso tratto nero (o un virgineo bianchetto), ne va della carriera politica nel centrodestra. Molti omofobi sono realmente omo-fobi. Non sono nati eterosessuali (gradino 1 Kinsey): ci sono arrivati rinunciando a qualcosa, che a volte può bussare e ripresentarsi, il che fa paura. Visto che si doveva parlare di me, ammetto che no, non ha mai bussato nessuno, per ora. Però i gradini di Kinsey qualche turbamento me lo danno. Non siamo tutti omosessuali; non siamo nemmeno tutti bisessuali; però non siamo neanche quasi mai eterosessuali grado 1; insomma cosa siamo? Non lo sappiamo, e questo ci rende diffidenti.

Mi capita molto spesso di pensare alle stime di Kinsey, quando discuto di omosessualità, e questo mi frega, perché davvero Kinsey è un altro mondo: persino il modo in cui usa le parole è diverso da quello con cui si usano oggi, e questo fa sì che non ci capiamo. Per esempio, io tendo a concepire l'omosessualità come una possibilità, mentre per molti interlocutori l'omosessualità è una comunità precisa. La comunità LGBT non è unita soltanto dagli orientamenti sessuali (che tra l'altro sono diversi, lo dice la sigla stessa), ma da un'ideologia. Ora magari qualcuno protesterà che non è vero. Capiamoci: ideologia non è una brutta parola. Non credo possano esistere comunità senza un'ideologia condivisa che le tiene insieme. Non sta a me definire quale sia l'ideologia gay-lesbica-bisessuale-transgender. Nel corso degli anni e dei litigi ho solo fatto caso a un paio di cose. Per esempio, l'innatismo. Non so quanto sia diffuso, ma mi capita sempre più spesso di discutere con gente convinta che gay si nasce. Non mi è difficile immaginare che molti gay o lesbiche si sentano tali "dalla nascita", però resto persuaso che tutt'intorno ci sia un'enorme fascia grigia di gente che nasce e cresce, come dire, confusa. Affermare questa cosa (con un po' di statistiche alle spalle) non implica che queste persone vadano rieducate o mandate dallo psicologo o quant'altro: non sto parlando di persone "confuse" perché sono nate gay e le voglio rieducare: sto dicendo che sono confuse perché stanno sul 2 o sul 3 o sul 4 della scala Kinsey, e se non fosse per le rigidità della società (di qualsiasi società), resterebbero lì: e invece a un certo punto devono scegliere una cosa e rinunciare all'altra. È quello che fanno. Milioni di persone in Italia, non saprei proprio dire quanti, scelgono la loro identità di genere, e non sempre scelgono la cosa giusta, e a volte hanno paura di essersi sbagliati, e questa paura possiamo anche chiamarla omofobia. (Mi accorgo che ho già scritto tantissimo ed è tardi, continuo un'altra volta)
Comments (29)

Con infinita cura e sospensione

Permalink
(Da Schegge di Liberazione, 2011)

Nell’inverno del 1945 sulle Langhe i partigiani in servizio attivo sono ridotti a poche unità. Sulla sua collina Johnny è rimasto solo: l’ultimo amico arrestato in un rastrellamento, l’ultima sigaretta già da un pezzo fumata, calpestata e rimpianta.
Si sedette e rilassò nella più facile e sciolta posizione; poi iniziò la cerca, col più fino e sensibile delle dita, di tutti i resti di tabacco in ogni tasca e per minuti estrasse e cavò segmentini ed atomi di tabacco, misti a briciole di antico pane e fili di stoffa. Aveva ora in un palmo quanto bastava per una sigaretta [...] Poi cercò la carta. La carta di giornale sarebbe andata egregiamente, ma i giornali erano merce sconosciuta nella fattoria. Girò, frugò, rovistò e trovò infine un vecchio opuscolo, aggrinzito e ingiallito dal tempo, di agricoltura e masseria. Ne strappò un foglio e cominciò a torchiare. Era nuovo a questo lavoro, ma da quando partigiano s’era fatto avvezzo ed abile ad una quantità di nuove opere ed imprese. Lavorandoci con infinita cura e sospensione, si rese conto di quanto le sue mani si fossero fatte grossolane e inadatte a questi lavori. Se gli veniva discretamente modellata ad un capo, restava un caos all’altro, e ad un certo momento tutto il tabacco gli sfuggì a terra dalla carta aperta.
Una febbre lo prese e lo squassò, forzosamente si allontanò dal naufragio del tabacco e si disse ad alta voce: «Non perder la testa, Johnny. Non perder la testa, non è assolutamente niente. Del resto, non avevo nemmeno il fiammifero per accenderla»
(Opere, vol. I, p. 840).
Dopo la presa di Forlì, nel novembre precedente, il generale Alexander aveva annunciato alla radio che ai partigiani conveniva coprirsi: di Liberazione si sarebbe riparlato in primavera. Molti prendono il suo annuncio per quello che non è, un perentorio invito a mettersi in letargo e attendere tempi migliori. L’inverno sarà in effetti durissimo. Anche nei territori che durante l’estate erano stati temporaneamente liberati qualcuno si pente di avere fornito ospitalità e sostegno ai partigiani, sperando in una liberazione rapida ed esponendo le proprie famiglie alle rappresaglie di repubblichini e nazisti. «Stanno facendovi cascare come passeri dal ramo» spiega a Johnny un mugnaio. «Ma al disgelo gli Alleati si rimuoveranno e daranno il colpo, quello buono. E vinceranno senza voi. Non t’offendere, ma voi siete la parte meno importante in tutto intero il gioco, ne converrai.» Johnny ne conviene, ma resiste: sarà “l’ultimo dei passeri”, come urla uscendo nella tormenta (e vergognandosene subito), il partigiano che non andrà in letargo. Nel lungo inverno combatterà contro fame, freddo, epidemie, solitudine, nostalgia di casa, astinenza da tabacco.

Qualche anno dopo, l’ex partigiano Beppe Fenoglio dirige un’azienda vinicola. Il tempo libero lo dedica allo studio e alla traduzione dei suoi autori preferiti (inglesi e classici) e alla scrittura. In quegli anni la guerra sembra aver dato a tutti un romanzo da raccontare.
Certe sere tornava a casa prima del solito, visibilmente gravido di pensieri da affidare alla carta. Passava veloce accanto a mia madre e a me [...]. Si ritirava subito nella camera della scala e attaccava a lavorare. Noi dall’alto percepivamo quei tre segni inconfondibili della sua presenza in casa: il fumo delle sigarette, la tosse, e il battere dei tasti della macchina da scrivere.
Scriveva ininterrottamente per ore
. (Marisa Fenoglio, Casa Fenoglio, Sellerio, Palermo 1995, p. 120).
Fenoglio non crede che il suo romanzo sia migliore di quello di molti altri. All’inizio non è nemmeno sicuro di avere un romanzo. La sua prima raccolta di racconti piace più a Calvino che a lui.

La Malora è uscita il 9 di questo agosto. Non ho ancora letto una recensione, ma debbo constatare da per me che sono uno scrittore di quart’ordine. Non per questo cesserò di scrivere ma dovrò considerare le mie future fatiche non più dell’appagamento d’un vizio. Eppure la constatazione di non esser riuscito buono scrittore è elemento così decisivo, così disperante, che dovrebbe consentirmi, da solo, di scrivere un libro per cui possa ritenermi buono scrittore. (Opere, vol. III, p. 201).
Il libro crescerà, lentamente, una sera dopo l’altra, una sigaretta dopo l’altra. Forse per cercare uno stile più suo, o tentare un impossibile distacco da una materia troppo scopertamente autobiografica, Fenoglio inizia a scriverlo in inglese, per passare in seconda stesura a uno strano italiano, ancora sporco di anglismi ma secco, nobile eppur maldestro, come un Cesare o un Livio tradotto alla benemeglio da uno studente ginnasiale – e in fin dei conti quale lingua migliore per l’epica dei partigiani di Badoglio? Non è solo un problema di stile: il libro è l’ennesimo memoriale di guerra, genere ormai inflazionato. Per di più, indulge in episodi che nessuno appare ansioso di condividere – l’esperienza dell’autore nell’esercito regio, prima e dopo il 25 luglio; non omette la vergogna dell’otto settembre; descrive partigiani comunisti e badogliani come antieroi volonterosi, ma prigionieri di una mentalità strategica sbagliata. L’esperienza per altri gloriosa della repubblica di Alba viene descritta impietosamente come un catastrofico errore tattico, che preclude alla rotta dell’autunno ’44: poche settimane dopo Johnny si ritrova solo sulla sua collina, a mettere insieme tremando una sigaretta che non può accendere.

Mentre il romanzo gli cresce davanti, mentre pesta sulla macchina da scrivere e tossisce, Fenoglio si rende probabilmente conto di quanto poco tutto questo sia commerciabile. Un romanzo che si concede la stessa severa ironia nei confronti dei maestri di mistica fascista e dei comandanti partigiani (a volte del resto si tratta delle stesse persone). Un libro sulla provincia senza nessuna concessione al vernacolare, dove mugnai e contadine parlano come personaggi di Omero. Un libro in cui i partigiani non fanno che commettere errori, sparare quando devono scappare, scappare quando devono sparare (ma in generale si scappa molto più di quanto si spari). Prima che scrittore Fenoglio è un uomo pratico. Con Einaudi non ci prova nemmeno. Manda invece una stesura a Garzanti. Gli rispondono proponendogli un taglio drastico: far morire il personaggio subito dopo l’otto settembre, concentrandosi sull’esperienza di Johnny nell’esercito regio, nei giorni cruciali dell’armistizio. Quanto alla guerra partigiana… a Garzanti non interessa. È un po’ come proporre a Melville di far affondare il Pequod appena salpato da Nantucket, ma Fenoglio non si considera certo un Melville. Piuttosto un mercante di vini, e scrittore di quart’ordine, e gli editori hanno senz’altro più fiuto di lui.
Il breve romanzo uscirà nel 1959 col titolo Primavera di Bellezza, senza destare particolare attenzione di pubblico e critica.

Il vero libro è quello che rimane negli scartafacci di Fenoglio, una poltiglia inestricabile di italiano classicheggiante e inglese miltoniano. Ma nel 1959 Fenoglio non sa di essere un bravo scrittore: è abbastanza persuaso del contrario. L’abitudine a pensare in miltonese e tradurre in un italiano marziale e senza tempo la vive più come un limite che come una risorsa espressiva. Eppure qualcosa in lui resiste. Dopo avere ucciso il suo alterego all’inizio della guerra antifascista, Fenoglio lo resuscita, e si rimette a lavorare sul rovente materiale della guerriglia nelle Langhe. Fa in tempo a uccidere Johnny una seconda volta, stavolta alla fine del gennaio ’45, nel primo conflitto a fuoco dell’anno nuovo (la parte finale, in cui negli ultimi mesi di guerra segue le truppe inglesi come interprete, viene accantonata senza essere tradotta in italiano).
Vuole farne un altro libro; forse ha riconosciuto nello scartafaccio il suo libro migliore. Ma non ha più tempo: si arrende al cancro ai polmoni nell’inverno del 1963. Aveva 41 anni. Lo scartafaccio finisce nelle mani dei filologi, che ci litigheranno per qualche anno senza riuscire, a tutt’oggi, a pubblicarne una versione completa e coerente.
Quello che trovate oggi sugli scaffali si chiama Il partigiano Johnny (il titolo glielo diede il primo curatore). È privo della prima parte (l’esperienza militare di Johnny fino all’otto settembre), dell’ultima (le avventure di Johnny come interprete degli inglesi), e di tanti altri episodi importanti, eliminati da Fenoglio nel tentativo di trasformare il libro di una vita in quello che sarebbe piaciuto agli editori, e magari anche ai lettori, un romanzo breve.

Fenoglio aveva chiesto di riposare ad Alba, al riparo dal vento cattivo di quella langa che Johnny aveva difeso da solo per un inverno intero, quando gli stessi abitanti gli suggerivano di farla finita, tornare a casa, non restare ultimo passero sul ramo. «Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e di partigiano. Mi pare d’aver fatto meglio questo che quello» (Opere, vol. III, p. 200).

I suoi brani sono citati dall’edizione critica Einaudi in cinque volumi, a cura di Maria Corti, oggi fuori commercio.
Comments (4)

La Città dei Vecchietti

Permalink
Che Boris sarebbe stato un flop avremmo potuto capirlo già entrando nella sala vuota, rischiarata dall'argento delle chiome dei rari spettatori. C'è da dire che il sabato in prima serata da noi è davvero solo roba da vecchietti. Sarà colpa del precariato, dei siti russi pirati, dello strascicamento dell'aperitivo. Si rifaranno con la seconda proiezione, pensavamo. Dai dai dai. Ho passato un'ora e mezza a chiedermi se ai vecchietti sarebbe piaciuto, se ci avrebbero capito qualcosa. Non vanno sottovalutati, i vecchietti; magari non capiscono al volo, ma hanno molta esperienza e pazienza. Che poi non era mica un film difficile. Dai che magari gli piace. Dai che parte il tam tam della bocciofila. Dai.

Non è andata. Boris è stato meta anche nel suo essere un flop: un metaflop. Il film che racconta quanto sia difficile inventarsi qualcosa di nuovo quando il tuo pubblico è composto per lo più da vecchietti, è stato dai vecchietti sostanzialmente snobbato. Amen. La settimana dopo siamo tornati per il film di Moretti. Stesse teste canute. Qualche risata in più. Del resto era più facile seguire, rispetto al Caimano Moretti ha rallentato in un modo impressionante. I personaggi sono anziani, spesso stranieri, e parlano lentamente. Moretti pure parla lentamente; molte battute le ripete più volte, con la manifesta preoccupazione di farsi capire. Anche alcune scene vengono riprese due volte (il balcone in diretta e in tv). Dopo un po', sarà anche perché c'è Piccoli, mi vengono in mente certi film d'Oliveira, ma è un sospetto che caccio come una zanzara. Qualche scena dopo i personaggi si ritrovano in bocca le battute di Cechov, roba da Divina Comedia, ma vuoi vedere che Moretti si sta oliveirizzando sul serio? Voglio dire, consapevolmente?

Adesso scrivo che è un bel film, così non si offende nessuno. Aggiungo anche che non sono un esperto, metti caso che qualcuno mi scambi per uno che dà le stelline, non è davvero il mio mestiere. M'intriga soltanto questo dettaglio, magari banale, magari fuorviante: negli anni in cui le sale si riempiono coi vecchietti (o col 3d), Moretti ha fatto un film di vecchietti. Tante grazie direte voi, son cardinali. Ma sono davvero cardinali? Li avete presenti i cardinali veri? Confrontate anche soltanto gli amabili giocatori di scopone di Moretti con quegli uomini di potere che in questi giorni si stanno scagliando contro di lui: volete mettere? Non è che Moretti abbia voluto darci una versione edulcorata di un conclave: a lui proprio un conclave vero non interessava, il suo è tutta un'altra cosa, una metafora, un pretesto. Il tutto si denuncia da solo in quel balletto iniziale in cui tutti si mettono a pregare “Non scegliere me Signore”: ecco, mettere in scena un consesso di uomini di potere tutti improvvisamente refrattari alla più umana delle pulsioni – l'ambizione – è surrealismo puro: ceci n'est pas un conclave. Malvino: “Il Papa e il Vaticano c’entrano poco o niente: si offrono come espedienti, e vengono trattati con la delicatezza di chi vuole riconsegnarli intatti dopo l’uso”.

Certo, volendo mettere in scena un Rifiuto, gli sceneggiatori non potevano trovarne uno più grande. La Coppola per raccontarci la sua formazione occupa Versailles o il Chateau Marmont, Moretti per descriverci un esaurimento nervoso noleggia Palazzo Farnese. Il Vaticano ricostruito a Cinecittà è un po' come l'Altare della Patria dell'Ora di religione di Bellocchio, un feticcio da profanare per questioni sostanzialmente private. È un intimismo kolossal che un po' ti disorienta, ci vuole un bel polso per maneggiare una cosa pesante come la Chiesa Cattolica con un tocco così lieve, riducendola alla quinta di un dramma interiore. Quindi, insomma, non è di Ratzinger che si parla (ma neanche di Papa Luciani). E quindi di chi. Potrebbe davvero trattarsi di Nanni Moretti? Ne avrebbe diritto, per carità. Ma anche lui sembra un po' evasivo. Non vuole fare un film sulla Chiesa, ma neanche sulla psicoanalisi (che sembra anch'essa poco più di un pretesto). A un certo punto poteva diventare un film sulla recitazione: ho avuto i brividi mentre Piccoli diceva alla Buy che di mestiere era un attore, sta' a vedere che crolla la quarta parete... no, niente, falso allarme, anche la recitazione rimane un po' ai margini. Niente, è proprio un film sul rifiuto. Quando tutti vogliono che tu faccia una cosa e tu non la vuoi fare.

E non è neanche il primo. Si fa un po' fatica a unire i puntini, c'è sempre tantissimo spazio bianco tra un'apparizione di Moretti e l'altra; però la sensazione è che da più di dieci anni, almeno da Aprile in poi, ci stia dicendo: Non Voglio Fare Quello Che Mi Volete Far Fare. Non voglio fare il documentario sui leghisti, voglio andare al bar. Non voglio fare il solito film di nannimoretti, voglio parlare di un lutto privato senza regalarvi nessun fulminante tormentone. Non voglio fare un film su Berlusconi, mi avete incastrato con quella cosa dei girotondi, ma fino agli ultimi dieci minuti il mio film non parlerà di Berlusconi. Non voglio dirigere, voglio stare su una panchina e guardare il mondo scorrermi ai lati. Non voglio essere il più bravo, non voglio darvi a ogni mio film lo stato dell'arte sull'etnologia della sinistra italiana, non voglio fare film a tema, non voglio puntellare analisi sociologiche di critici e blogger dopolavoristi, non voglio, non voglio. Giusto. Hai ragione. Però nel frattempo cosa vuoi fare? Cosa fai? Un film di vecchietti. Un meraviglioso film di fantastici vecchietti che fanno smorfie superbe, ti viene quasi voglia di iscriverti alla loro bocciofila. Vecchietti dolenti, vecchietti rintronati, vecchietti drogati, vecchietti che giocano alla palla, e Moretti arbitra. Più o meno il sogno erotico di Fabio Fazio.

Di sicuro mi sbaglio, però Fazio mi è sempre sembrato il ragazzino che cresce coi nonni, in un contesto di bocciofila, e che una volta adulto continua istintivamente a circondarsi di persone anziane e rassicuranti. Ma per Fazio la capacità di trovarsi a proprio agio con gli anziani si è rivelata un vero e proprio vantaggio evolutivo: in una RAI e in una società italiana in rapido invecchiamento, è riuscito a proporsi come intermediario tra i Titani del passato e precari del presente. Gli diedero Sanremo, lui si portò Dulbecco. Prima che arrivasse Saviano ad abbassarla un po', l'età media degli ospiti di una puntata di Che tempo che fa poteva benissimo oltrepassare gli ottanta. Più sono anziani, più l'eterno ragazzino è a suo agio con loro. Questo rende magari Fazio il conduttore del futuro (un futuro di dinosauri in dismissione). Ma Nanni Moretti?

Lui non è cresciuto tra nonni rassicuranti; tutta la sua filmografia contiene atti d'accusa nei confronti di una generazione di genitori distratti che quando piangeva non accorrevano ad allattarlo. Qualcuno ha fatto il conto di quante volte Michele Apicella mette le mani addosso ai genitori? Nella Messa è finita, in particolare, il prete d'assalto spintona con violenza un padre in crisi di mezz'età, che si è messo con una ragazzina ma pietisce l'assoluzione. C'è stata, fino a un certo punto, una questione generazionale anche in Moretti.

E può darsi che ci sia ancora, anche se in fase di risoluzione – che questi mirabili vecchietti siano l'ombra dei nobili padri, dei venerabili maestri coi quali volente e nolente Moretti ha dovuto misurarsi fin qui. Ora però se ne stanno andando, per una mera questione anagrafica, e il regista li segue con affetto, li accompagna con allegria verso il nulla, dosando con sapienza gli antidepressivi. Non è più tempo di condurre, ma di essere condotti, già, e da chi? Non si sa, ma nel frattempo chi organizza il tempo libero è il regista. Paradossalmente, ha smesso di dare troppa importanza a quel deficit di accudimento che lo ha tormentato per tutta la vita. Lo riconosce per quello che è: una formuletta per tranquillizzare gli anziani. Adesso tocca a loro fare le scenate in pubblico, rompere le tazzine, regredire a quello stato di grazia in cui si gioca a pallone e si canta tutti assieme la canzoncina. Habemus Papam sarebbe il film in cui il Padre accetta non già di morire, ma di farsi mettere a riposo. E dopo di lui chi si affaccerà al balcone? Dopo il Padre toccherebbe al figlio, ma il figlio non vuole, lo si nota di più se non viene. In fondo nel film precedente l'attore-Moretti non faceva che nicchiare per tutto il film davanti a un pubblico che lo implorava Dai Facci Berlusconi. Alla fine cedeva (e l'unica cosa che tutti si ricordano è quel finale, mi pare). Stavolta no, il pubblico non avrà nessuna soddisfazione, la messa è finita davvero, andate a casa.

O no? Magari è ancora un po' presto per accettare un pontificato; però Moretti qualche tentazione ecumenica ce l'ha. Rallenta il ritmo, consapevole che il pubblico invecchia e ha bisogno di essere preso per mano e guidato al finale; che i guizzi di follia di Sogni d'oro o Palombella Rossa non sono più praticabili. I vecchietti forse non comandano più, ma sono ancora la maggioranza di quella minoranza che entra nelle sale, e Moretti lo sa. Ma è un problema? Oliveira dovrebbe aver compiuto centodue anni, e ancora macina film, porta a casa statuette. Negli anni in cui le sale si riempiono coi vecchietti (o col 3d), Moretti si prende cura dei suoi vecchietti. O dovrebbe buttarsi sul 3d?

Secondo me sì. Moretti 3d, che fa le scenate e ti getta le tazzine addosso, figata. No, dai, scherzo.
Comments (17)

Alba of the Dead

Permalink
Anna (Alba Rohrwacher) è un'impiegata come tante, di trent'anni come tutte, nella città più qualunque di tutte (la periferia di Milano). Convive stancamente con Alessio (Giuseppe Battiston), placido commesso coi suoi hobby qualunquissimi: fai-da-te, giardinaggio, riparare ferrivecchi, leggere libri vecchi, morire di noia. L'incontro fortuito di Anna con uno squattrinato addetto al catering (Pierfrancesco Favino) scatena la passione che potrebbe riscattare la sua esistenza piattissima... magari. In realtà anche il sesso sfrenato nei motel, dopo qualche settimana, è già routine. E intanto è passata un'ora di film, ce ne aspetta un'altra, e sappiamo già più o meno dove Silvio Soldini andrà a parare: dai e dai i due amanti si faranno scoprire, i loro rispettivi consorti ci piangeranno un po' su e li perdoneranno, li riaccoglieranno in seno alla famiglia; magari un ultimo sussulto di voglia di vivere, e poi il trantran quotidiano l'avrà vinta su tutto.

(Cosa voglio di più with Zombies
è solo sull'Unità.it, e si commenta qui).

E invece nel secondo tempo Milano è invasa da zombie affamati di carne umana! Il virus viaggia attraverso il Lambro contaminato, colpendo bambini e maschi adulti. Anna e l'addetto catering, sbarrati nel motel, vivono momenti di panico che mettono a dura prova una relazione fondata esclusivamente sull'intesa sessuale. Angosciato per le sorti dei suoi cari, l'addetto catering attraversa una Milano cupa e spettrale soltanto per scoprire che la moglie è stata divorata dai due bambini contaminati (una delle metafore più visionarie e grottesche del cinema italiano degli ultimi vent'anni). Distrutto dal rimorso, deciderà ugualmente di restare con loro, per fedeltà a un vincolo che la morte ha messo a dura prova, ma non ha spezzato. Tornerà a lavorare nel catering (ma dovrà apportare molte modifiche ai menu). Nel frattempo, al termine di una rocambolesca odissea nella metropoli devastata, Anna ritrova il placido Alessio, che in sua assenza è diventato il leader della resistenza dei superstiti contro i morti viventi: le sue doti di bricoleur e giardiniere si sono rivelate fondamentali per garantire ai sopravvissuti i beni di prima necessità. Anna capisce di amarlo, ma Alessio ora convive con altre dieci concubine (la poligamia essendo necessaria alla sopravvivenza della specie). L'ex impiegata però si dimostra all'altezza del suo uomo escogitando un piano brillante per attirare gli zombie a San Siro e farlo esplodere. Con lo stadio simbolo di Milano esplode anche l'archetipo del film italiano minimale e intimista, di cui Soldini ha messo in scena nel primo tempo un'imitazione riuscitissima, soltanto per il gusto di farla esplodere nel secondo in un horror movie sgangherato. Il risultato è un autentico capolavoronf.
Ronf

“Sveglia”.
“Eh? Cosa?”
“Stavi russando”.
“Ma è finito il film?”
“Ti sei addormentato a metà, che vergogna”.
“Com'è andata a finire? No, lascia, indovino. Lui torna da sua moglie”.
“E lei torna dal marito”.
È sempre così. Non hanno neanche il coraggio di far finire un matrimonio, è come se avessero paura di far male ai loro personaggi”.
“Ma è giusto così, è così che finiscono quasi tutte le storie”.
“Sarà. Invece, pensa, stavo sognando che nel secondo tempo arrivavano gli zombie”.
“Gli zombie a Milano?”
“Perché no? Mi sembra una location adatta”.
“Ma gli italiani non sanno fare film di zombie. Loro fanno film che rispecchiano la vita vera. Film in cui le persone normali possono riconoscersi”.
“Ma io mi riconoscerei anche in un film di zombie, sai quanti ne incontro tutti i giorni? No, sul serio, sai quanti se ne devono trovare in giro per Milano... per dire, quelli che hanno scritto questo film, secondo te sono ancora vivi? Un essere vivente non scrive un film così. Voglio dire, hai la possibilità di scrivere un film, cosa fai? Cerchi di metterci un sacco di cose belle, interessanti, divertenti”.
“Ma la vita non è sempre così”.
“Ma i film dovrebbero. Io mi sarei anche stancato di andare al cinema a vedere personaggi che hanno un'esistenza più piatta della mia. Cioè, sul serio, le mie giornate sono più interessanti di quelle di questi due. E mi chiedo: ma come fa un essere vivente a decidere di scrivere un film così? 'Mi raccomando, mettiamoci solo cose mediocri: personaggi mediocri, incontri mediocri, discorsi mediocri'...”
“Sono i discorsi mediocri che fa la gente normale”.
“La gente normale fa discorsi mediocri anche perché quando va al cinema non trova nessuno che le suggerisca qualche parola in più. Una volta serviva anche a questo, il cinema: a fornire modelli di comportamento o di conversazione. Le signorine ascoltavano come parlavano le dame dei telefoni bianchi e prendevano appunti. I ragazzi studiavano le battute dei cow-boy o dei padrini. La gente ha bisogno di mettere parole nella loro vita, e il cinema gliele deve suggerire. Non può tutte le volte limitarsi a rispecchiare una realtà nel modo più piatto e fotografico possibile”.
“Mah”.
“Sennò contribuisce a renderci ancora più banali e afasici di quello che siamo. Almeno, è una mia teoria”.
“Già, le tue teorie”.
“Torniamo a casa? Ho fame”.
“Cosa c'è per cena?”
“Carne umana. ARRRRRGH!”
“Cretino”.
Comments

Gomorra e non Gomorra

Permalink
Guarda avanti, Lot
Oggi vorrei parlarvi di due opere audiovisive prodotte in Italia negli ultimi anni: Gomorra di Matteo Garrone e Il Capo dei Capi di Enzo Monteleone e Alexis Sweet. Si vedrà che non hanno poi molte cose in comune.

Gomorra (2008) è un lungometraggio tratto dall'omonimo libro-inchiesta di Roberto Saviano. Il Capo dei Capi (2007) è una miniserie tv di sei puntate, tratta da un libro-inchiesta di Giuseppe D'Avanzo e Attilio Bolzoni.

Gomorra dura due ore abbondanti; Il Capo dei Capi nove.

Il Capo dei Capi racconta la formidabile ascesa di Totò Riina, da umile contadinello a capo della più grande organizzazione malavitosa italiana. Gomorra racconta le vite “normali” di alcune persone in un territorio governato dalla camorra. Nessuno di loro ascende in nessun posto; alcuni si ammalano, un paio scappa, molti muoiono.

Gomorra è un film discusso, tratto da un libro altrettanto discusso. Fu il fim più visto in Italia nel week end in cui uscì (maggio 2008). Nel marzo del 2009 aveva già incassato 10.175.071 euro. Divisi per sette fanno più o meno un milione e mezzo di spettatori paganti. È una cifra impressionante, complimenti.

Però Il capo dei capi è stato visto, nell'autunno del 2007 da un numero di telespettatori praticamente mai inferiore ai sette milioni. Il trenta per cento dello share – più o meno un telespettatore su tre, in prima serata. Più o meno una famiglia su tre ha visto il capo dei capi. Molta di questa gente di Gomorra ha sentito solo vagamente parlare (da quanto mi risulta non è mai stato programmato sulla tv in chiaro).

Questo può in parte sorprendervi. Perché state leggendo un blog su internet. Non c'è niente di male, ma dovete sapere che fate parte di una certa nicchia statistica. Chi vive in questa nicchia può essere portato a pensare che Gomorra sia un prodotto più famoso del Capo dei Capi. Probabilmente ha visto il film, magari ha pure letto il libro. Difficilmente però avrà seguito una fiction su Canale5: le fiction italiane, si sa... Ripeto, niente di male: e non sentitevi soli, parliamo di più di un milione di persone.

Ma fuori c'è tutto un mondo. Ci sono sette milioni di persone che hanno visto Claudio Gioè interpretare l'indomito Riina, e di Gomorra hanno solo vagamente sentito parlare. Giusto per ristabilire le proporzioni. Gomorra ha vinto il Gran premio della Giuria a Cannes (ma la palma d'oro è andata a un filmetto scolastico su un prof demotivato) e ben sette David di Donatello, sì, vabbè. Il Capo dei Capi ha macinato milionate di euro di inserzioni: e quanto rimpiango di non averlo videoregistrato, di non potervi dire che prodotti ci fossero in televendita (una linea di coppole trendy?)

Nella prima puntata del Capo dei Capi, Totò è un tredicenne che perde il padre zappatore su una bomba rimasta nel sottosuolo dalla Seconda Guerra Mondiale. Divenuto così capofamiglia, con tante bocche da sfamare, Riina si mette a lavorare per i corleonesi, brillando subito per ferocia e capacità organizzativa.

Nella prima seqenza di Gomorra c'è un camorrista che si abbronza in un centro estetico. Un suo collega, dopo aver scherzato con lui, estrae una pistola e lo uccide a sangue freddo. Di lui non sapremo più niente. È come se l'eroe del film morisse subito, e il resto dei personaggi brancolasse per due ore senza trovare un senso. Una cosa molto spiazzante.

Il Capo dei Capi è una success story, una specie di versione sicula del sogno americano: tutti possono diventare Presidente, se studiano sodo... ehm, no: tutti possono diventare capiclan, se si liberano dagli scrupoli e imparano ad ammazzare i traditori prima che ammazzino loro. Anche Gomorra ci mostra un capoclan, ma per pochi minuti. È un poveretto cocainomane che vive nascosto in una brutta casa, ossessionato dalla necessità di ammazzare gli altri prima che ammazzino lui, Bum! Bum! Bum! (Dice proprio così: “Bum! Bum! Bum!” Non è carismatico proprio per niente).

Pare che a Totò Riina, che dal carcere di Opera non si perdeva una puntata, l'interpretazione di Claudio Gioè non sia dispiaciuta. Invece i camorristi ritratti da Saviano, si sa, hanno un po' brontolato, tanto che l'autore è sotto scorta.

Il Capo dei Capi è un figlio di contadino che diventa capoclan, ma cosa significhi essere capoclan da un punto di vista economico non è affatto chiaro. La mafia sembra semplicemente adeguarsi alla società in progresso: quando tutti si mettono a comprare le automobili, anche i mafiosi cominciano a usarle per ammazzarsi. Gomorra mostra cosa succede all'economia nei luoghi dell'indotto della malavita: il sarto Pasquale, artista di livello internazionale, non riesce a vivere del suo lavoro. Alla fine tradisce i segreti del suo mestiere ai cinesi e si mette a fare il camionista.

Dicevamo che all'inizio del Capo dei Capi Totò Riina è un tredicenne. Molti appassionati telespettatori del Capo dei Capi avevano più o meno quell'età. Nel novembre del 2007 il pm Antonio Ingroia andò a parlare di mafia in una scuola di Palermo. La maggioranza degli studenti di quella scuola, in un sondaggio, aveva scritto di non voler far parte della mafia. Alla domanda di Ingroia “qual è il personaggio più simpatico della fiction?” risposero tutti Totò Riina. È impossibile non notare che i modi del giovane Totò sono quelli del classico bulletto da corridoio.

Anche in Gomorra ci sono alcuni ragazzini. Uno di mestiere resta nascosto tutto il giorno, pronto a dare un segnale appena passa una macchina della polizia. È lavoro, come dice lui, è fatica. Sua madre verrà uccisa alle spalle dai camorristi del clan avverso. A tradirla sarà il suo migliore amico, un bambino pure lui. E poi ci sono Marco e Ciro, proprio due bulletti di quartiere: rubano droga di qua, armi di là, sparano all'aria, toccano le donne, sono convinti di poter fare quello che vogliono. Vengono ammazzati da una squadra di vecchi camorristi spazientiti. Anche loro in un agguato. Anche loro senza gloria.

Potrei andare avanti molto a lungo, ma direi che il senso è chiaro: il Capo dei Capi è una cosa, Gomorra è un'altra.

E dunque sabato il produttore del Capo dei Capi si è lamentato per la pubblicità che Gomorra ha fatto alla mafia.
Comments (35)

Ippopotami italiani

Permalink
Berciami ancora(*)

In questa immagine potete vedere un vaso. Oppure due volti di profilo. O ancora l'ultimo film di Muccino, che per buona metà è impaginato così: faccia a sinistra, faccia a destra, e in mezzo una coppa nera di frustrazione che può comunque sparire da un momento all'altro stritolata in un bacio che non è mai, accidenti, l'ultimo.
Ma il più delle volte le bocche sono spalancate, i volti sono rossi, e tutti si stanno urlando addosso. Nei minimi termini il film è questo: un rosario di scene madri tra due personaggi che dopo un po' si gridano in faccia le peggio cose. Che i personaggi dei film italiani contemporanei tendessero al melodramma urlato si sapeva, ma qui sembra veramente che non ci siano alternative: ogni dialogo è uno scontro, e gli scontri si risolvono così: faccia contro faccia, chi urla più forte vince (analogie tra gli italiani e gli ippopotami del Kenya). Qualcuno dirà che è liberatorio. Secondo me no. Secondo me il mimetismo vince su tutto, secondo me il 40% di chi è andato a vederlo ha sentito l'esigenza di mangiare la faccia del partner nel tragitto verso casa.

“Non vedo l'ora di mettermi a letto”.
“Io invece mi scongelo una pizza”.
“Certo, così mi sporchi tutta la cucina”.
“Senti, ma se ho fame... e poi PERCHE' MI DEVI PRENDERE COME UN IDIOTA MALEDETTA STRONZA TI AMMAZZO! TI AMMAAAAAZZZZOOOOOOOO!”


Metà del film così. L'altra metà propone la variante: invece di fissarsi come ippopotami allupati, i due volti guardano in camera, grazie all'invenzione più importante dell'ultimo secolo: l'Automobile. Essa ha rivoluzionato i nostri costumi e forse sì, vabbè, può aver contribuito a intossicare l'atmosfera, ma in compenso ha permesso ai nostri valenti film-maker qualcosa che altrimenti sarebbe irrealistico: far discutere i personaggi mentre guardano dritto verso di noi. Si capisce la convenienza, perché nelle scene di profilo butti via un 50% di faccia che comunque devi pagare lo stesso intera (e con quel che può costare al giorno d'oggi la faccia di un Accorsi o di un Favino...) E soprattutto, l'avrete sperimentato nella vostra realtà vera, certe scenate si possono fare solo in una macchina pressurizzata ai cento all'ora – a casa no, c'è rischio che i vicini s'appassionino.

Lo so cosa state pensando. Stronca Muccino, che coraggio, domani mitraglierà la croce rossa... no. Sette anni fa, quando stroncare GM era già sport nazionale, io resistevo. Una possibilità a GM l'ho sempre voluta dare, perché fra tutti i registi di film bruttini gli riconoscevo almeno una cosa che faceva la differenza: il ritmo. Per quanto potesse apparire simile a tutti quei registi romani persuasi di ritrarre una generazione attraverso i complementi d'arredo dei salotti, Muccino aveva qualcosa che parzialmente lo riscattava, ed era proprio la spudoratezza: i salotti rimanevano salotti, ma vuoi mettere, col carrello circolare! La grammatica dell'action movie applicata agli amorazzi dei trentenni, l'handycam che ti segue nel corridoio stretto verso il bagno in fondo a destra. Le isteriche che piangono hanno fatto il loro tempo? Ok, proviamo con le isteriche che urlano in mezzo alla strada! Le isteriche sotto la pioggia! E se dobbiamo ritrarre borghesi inutili, almeno ficchiamocene dentro un centinaio in due ore: sovraccarichiamo il sistema finché non si rompe qualcosa.

Qualcosa si ruppe davvero. L'ultimo bacio e Ricordami di me sono stati l'esplosione, in tutti i sensi, di un genere di cui Ozpetek e colleghi hanno faticosamente raccattato i pezzi per ribollirci il solito passato sciapo di buoni sentimenti. Ma il Muccino di dieci anni fa se li friggeva, i buoni sentimenti. Non aveva pietà di nonne o di ragazzini, disprezzava tutti e non lo mandava a dire. Probabilmente quei due sono gli unici film-italiani-bruttini che reggono ancora la prova televisiva in seconda serata. Vanno giù come piloti di serie americane, ed è il complimento migliore che si possa fare a GM. Il quale, scheggia impazzita detonata coi suoi film, si era ritrovato catapultato ad Hollywood. Tifavo per lui. La tecnica l'aveva, il coraggio pure: quello che gli mancava erano le storie originali, proprio quelle che gli americani sanno trovare. Hollywood gli avrebbe tolto di mano i soliti triti canovacci generazional-amorosi, gli avrebbe presentato qualche soggettista degno di questo nome e... un film in effetti funzionò, l'altro meno, così l'avventura sembra già finita. Però almeno hai avuto un'avventura, Gabriele Muccino. Hai fatto film con Will Smith, sei stato per due stagioni alla catena nell'autentica fabbrica dei sogni. Adesso non è che puoi tornare a rifriggere le solite storielline amorose per il pubblico bue italiano. Sarebbe come dire che hai perso l'unica cosa buona che avevi, il coraggio. E un Muccino senza coraggio cosa mi diventa. Un Ozpetek eterosessuale, un soprammobile inutile e per giunta in serie, ce l'hanno uguale i vicini, buttare via.

Baciami ancora non è nemmeno un film generazionale: non sappiamo niente sulla vita dei personaggi, sui loro gusti o le loro idee (ce n'è uno che vota Fini, il che può voler dire qualsiasi cosa ormai). Fanno cose che avrebbero potuto fare dieci o vent'anni fa: i grandi spot pubblicitari, i bambini disegni di dinosauri. E tutti corrono nel grano. Dire qualcosa sugli anni Zero era troppo rischioso: facciamoli piuttosto reinnamorare disperatamente, che funziona sempre. Magari in questi dieci anni hanno avuto una vita interessante (droga, pazzia, carcere), ma appena torna Muccino col suo teleobiettivo tutto sprofonda di nuovo nell'ossessività dei rapporti amorosi banali, fedeli alla regola per cui la vita dei personaggi del cinema italiano bruttino dev'essere meno interessante di quella della media degli spettatori (sul serio, io ho giornate molto più interessanti di quelle dei personaggi di Muccino).

Baciami ancora è un chiodo sulla bara dell'industria cinematografica italiana, gestita da personaggi che sembrano terrorizzati dall'idea di poter dire qualcosa di nuovo, qualcosa d'intelligente, o persino di stupido, insomma qualcosa. Ma L'ultimo bacio qualcosa lo diceva. Era un film che si permetteva del cinismo, aveva un finale spiazzante che è rimasto in testa a tutti. Il sequel si guarda bene da spiazzare alcunché. Se c'è un suicidio non preoccupatevi, ve lo facciamo capire un'ora prima. Nel derby della scena-madre-in-camera-ardente Muccino le prende persino dall'Ozpetek di Saturno contro, come dire perdere con l'Albinoleffe in casa, rivogliamo il prezzo del biglietto. Quando dopo un paio d'ore risenti la voce fuori campo di Accorsi, capisci che è la classica voce off che tira le somme, e ti rendi conto di quanto poco ha voluto dirti questo film: Dicono che i quarant'anni siano l'età della maturità. Ma forse la vita comincia a cinquant'anni. O a Sessanta. O chi lo sa. Buio in sala, Giro di do jovannottesco, titoli. Due ore e venti per sentirsi dire che la vita va vissuta... Nostalgia dei carrelli circolari. Non che dicessero nulla di più, ma almeno ti facevi un giro in giostra. Muccino sembra aver paura di dire persino: ehi, sono sempre io, Muccino. Un regista con un determinato stile. Ma se poi ti scambiano per un Autore, di quelli che fanno i film d'Autore? C'è il rischio che il pubblico dei cinepanettoni non ti caghi più! Poi si accendono le luci, e il pubblico dei cinepanettoni corre a casa a guardarsi una puntata di Desperate Housewives che con personaggi da fumetto e una trama totalmente surreale ti dice più cose della tua vita che due ore di quarantenni che si urlano in faccia. Prima o poi a Roma bisogna che si mettano in testa una semplice cosa.

Non è che al cinema ci si va per specchiarsi – oddio, sì, può capitare anche di specchiarsi in qualcuno, ma è sempre qualcuno migliore di noi. Come minimo è più bello. Probabilmente veste meglio, ha la risposta pronta che a noi verrebbe in mente mezz'ora dopo. Perché al cinema ci si va per cercare dei modelli. Nessuno sano di mente crede di specchiarsi in George Clooney. Le persone vanno a vedere George Clooney perché vorrebbero diventare un po' come lui, risolvere un problema come lo risolve lui alla fine del film. Migliorare, perché persino lui ci prova. Questo è il segreto del cinema americano: modelli, non specchi. Strategie per risolvere un problema, non persone che si urlano in faccia i loro problemi irrisolti e magari uguali ai tuoi. A me non interessa se i quarantenni romani passano le giornate a gridarsi Ti-Amo-Ancora-Non-Ti-Amo-Più. Se davvero fanno così, bisogna convincerli a cambiare, a migliorare un po'. A coltivare altri interessi che non siano quelli di portarsi a letto qualcuno, restare incinta di qualcuno, riconquistare qualcuno. A gestire gli scazzi in un modo meno mediterraneo, perché sul serio, non possiamo continuare a urlare tutti quanti così. Dopo due ore ti ritrovi l'Impacciatore sul tombino che sembra una prefica del Seicento, stiamo regredendo a vista d'occhio. Ci sono altri modi di discutere che non prevedono necessariamente l'Urlo Preventivo, la Minaccia di Morte (“Giuro che t'ammazzoooooo!”), lo Specchio Riflesso (“Fottiti!” “Fottiti te!”. Era la clip che hanno portato domenica da Baudo). Non stupisce che dopo un po' comincino a urlare anche i bambini. Di colpo, dallo stand-by silenzioso (“Vuoi che ti presentiamo tuo padre?” “...”) allo stadio isterico (“Dai, se vuoi ti presentiamo tuo p...” “Ho detto di NO MALEDETTI STRONZIIIIIII!”)

Anche qui, guarda gli americani. Dialogano anche loro, di amore e di altre cose. Eppure non urlano, o magari sì, ma una volta su dieci. Hanno altri sistemi per scambiarsi i pareri: per esempio, l'ironia. Nell'ultimo bacio ce n'era un po', di ironia. Qui no, niente, il pubblico potrebbe non capire. Per ridacchiare dobbiamo aspettare che Favino incocci un muro: comicità fisica, perché chi ha rivisto la sceneggiatura temeva che una battuta di troppo possa essere fraintesa dallo spettatore di Neri Parenti. Poi lo spettatore di Neri Parenti torna a casa e si guarda le repliche del dottor House che fa ironia con le proteine e le malattie infettive.

Questo è un cinema sbagliato. Un cinema che col pretesto del realismo peggiora la realtà, ci ruba due ore e venti e ci lascia tramortiti come un vecchio amico che non senti da dieci anni e poi ti tiene un pomeriggio al telefono, urlando i suoi problemi senza che tu possa offrirgli una soluzione. Se si calma, alla fine, è per stanchezza: quella che prende tutti quanti alla fine del film. I due tizi si rimetteranno assieme, continueranno a scambiarsi baci e soprattutto urla, perché non sono mai cresciuti, la vita di coppia per loro è ancora quella di due quindicenni isterici, e non ci sono alternative: la vita è così. No, maledizione, noi possiamo essere migliori di così. A nessuno piace essere sé stesso, neanche al dottor House. Vogliamo tutti avere una chance di migliorare, e abbiamo bisogno di scrittori, di registi che ce la mostrino. Di attori che ce la impersonino. E di critici che ti mandino seriamente a quel Paese, GM: torna in America, fatti restituire quel coraggio e quel cinismo che erano le uniche cose interessanti che avevi.

* Il titolo l'ho scopiazzato da qui, grazie a M. Elena.
Comments (38)

Ho una teoria #4

Permalink
Abdulmutallab in the Matrix

Gli anni Zero cominciano e finiscono con la stessa storia. C'è un giovane che vive la sua vita in una città al centro del mondo civilizzato. Ha un buon posto, ma si annoia: prova la sensazione di vivere sulla superficie di un’illusione. È una cosa difficile da spiegare, i suoi amici non capiscono. L'unico che gli dà retta è un misterioso sconosciuto incontrato su Internet, che gli dà un appuntamento (continua sull'Unità online) (ho detto online, non cartacea).

È una sorta di profeta: nelle sue parole si sente un vago retroterra religioso, parole orecchiate nelle preghiere dell'infanzia. Al giovane spiega che il mondo in cui vive è pura apparenza, creazione di Satana che inganna gli uomini per succhiar loro l’energia. Per questo è indispensabile trascendere, chiudere gli occhi e ritrovare la realtà. La quale non è un nirvana, al contrario: la realtà è un mondo durissimo, dove gli Eletti combattono Satana e se necessario sacrificano la loro vita nel combattimento.

Ho una teoria: il film che ci ha portati negli anni Zero è The Matrix. Anche se è uscito nel ’99 – e non è certo il primo blockbuster in cui un novellino impara le arti marziali e sconfigge i cattivi – il film dei fratelli Wachowski aggiunge alla formula qualcosa di nuovo. Le scene d’azione sempre più coreografiche sono pervase da un senso di oppressione e mistero che marca la distanza dal fragore delle baracconate anni Novanta. Quello che ci tenne incollati allo schermo dieci anni fa – e che continua a sorprenderci ancora oggi, malgrado gli effetti speciali mostrino i segni del tempo – è il misticismo del film: i lunghi monologhi di Morpheus, che ipnotizzarono il pubblico scatenando sui forum on line una deriva di interpretazioni (Matrix e la gnosi, Matrix come la caverna di Platone, Matrix e le Upanishad…) Forse i Wachowski intuivano che sotto i deliri egotici dei giocatori compulsivi di consolle video si annidava un’inquietudine più profonda, metafisica addirittura. La sensazione di vivere immersi in una smagliante e perversa simulazione, che ci nasconde il mondo vero: la disponibilità a inghiottire qualsiasi pillola per ritrovarlo; un percorso di conversione e salvezza vissuto in una condizione di profonda solitudine (anche dopo la conversione l’eroe sarà sempre “the One”, l’Unico, il Solo).

L’ultimo antieroe degli anni Zero è Umar Farouk Abdulmutallab. Classe 1986, studente brillante, figlio di un ex direttore di banca, Abdulmutallab non si è mai veramente sentito a suo agio nel suo appartamento londinese da quattro milioni di sterline, nel suo quartiere, nel suo mondo. Probabilmente ha condiviso con milioni di coetanei la sensazione di vivere sulla superficie di un sogno non suo. Finché probabilmente qualcuno non ha risposto agli appelli lanciati su Internet, dove si lamentava per la sua solitudine di studente musulmano a Londra. In Yemen, dove si è recato con il pretesto di un corso di lingua araba, Abdulmutallab ha ricevuto la conferma a gran parte delle sue intuizioni: il mondo in cui ha vissuto tutta la sua esistenza è pura apparenza, creatura di Satana che inganna gli uomini per succhiar loro l’energia. La realtà, viceversa, è un mondo durissimo, dove gli Eletti ingaggiano con Satana una lotta senza quartiere. Una volta de-programmato e riconvertito, Abdulmutallab è stato rispedito nella realtà simulata del Grande Satana, con una fiala di esplosivo e una missione: provocare uno squarcio nella simulazione, fare irrompere la realtà rivelata su un volo per Detroit.

Spesso, quando parliamo di Al-Qaida, la consideriamo un movimento retrogrado, espressione del ritardo storico del Medio Oriente: come una 'sacca di medioevo' in un mondo che va avanti. Forse ci sbagliamo: Al-Qaida è moderna quanto noi. I suoi militanti più famosi sono uomini di origine islamica, ma di studi occidentali, come il plurilaureato Mohamed Atta (autore nel 1999 di una tesi in cui si lamentava l’impatto dei grattacieli moderni sulla skyline islamica di Aleppo). Se l’Islam è una via di fuga da una realtà in cui non si trovano a loro agio, l’immaginario da cui scaturiscono i loro piani sembra risentire più dei blockbuster globalizzati che delle sure del Corano. Atta e Abdulmutallab provengono dallo stesso nostro mondo civilizzato, e condividono le stesse ansietà, la stessa alienzione che dieci anni fa trovammo rispecchiate nel film dei Wachowski. Obama può bombardare lo Yemen, come Bush bombardò Afganistan e Iraq. Ma l’alienazione e la solitudine che hanno portato Abdulmutallab in Yemen sono in mezzo a noi, e presto o tardi porteranno un altro studente brillante e solitario a colloquio col Morpheus di turno.
Comments (16)

La vendetta del faccione

Permalink
Saltare in aria col cinema d'azione

Ok, Tarantino, lo ammetto: di te non avevo capito niente.
Dai tempi della palma d'oro addirittura, quando Pulp Fiction sbancò Cannes e sembrava l'inizio di una nuova era. Un nuovo linguaggio, un nuovo montaggio, una nuova violenza, truculenta e scanzonata, il citazionismo ironico, tante cose a cui una generazione senza molta identità (la mia) si aggrappò immediatamente. Qui in Italia il “pulp” ci mise 15 giorni a diventare una macchietta di sé stesso, ma tu probabilmente non lo hai mai saputo. Eri già altrove. No: in verità non eri mai nemmeno stato lì. Era tutto un abbaglio, ci ho messo anni per capirlo. Tu non mostravi nessun nuovo linguaggio: non eri il futuro e non hai mai preteso di esserlo. Eri nel passato e non ne sei mai venuto fuori.

Si parla spesso della tua cinefilia cronica: di solito passi per un onnivoro senza criterio, un frullatore americano in cui Kurosawa si centrifuga con Barbara Bouchet. È vero, ami di tutto, però non ami tutto. Pensandoci bene c'è un sacco di cinema che non citi mai, di cui non parli mai. Dagli Ottanta i tuoi riferimenti si diradano all'improvviso (estremo oriente a parte, forse) per svanire del tutto. In questo il tuo amico Rodriguez ti è complementare.

Certo, è evidente, eppure ci ho messo tanti anni a capirlo: il cinema di oggi non ti piace. Tutto il vintage che rimetti ciclicamente a nuovo, mai posteriore al '79, ha un senso polemico che mi era del tutto sfuggito. In fondo sei un reazionario. E non fai film d'azione, quasi mai: magari provano a venderli così, ma non sono film d'azione. Non nel senso che oggi ha il termine. Sono film dialogati, anche quando girano katane; e questo spiega come mai con te capita sempre di vedere spettatori che si alzano: erano venuti per i bang bang e si ritrovano in mezzo a dei bla blà. Ora, c'è gente che i bla blà non li regge, peggio: non li capisce. Dopo tre battute perde il segno, chi è che ha detto cosa? Ma questo film è... difficile! Soprattutto i ragazzini: non sorprende, cresciuti a Wachowski e Michael Bay, si aspettano accelerazioni, ralenty e soprattutto molti clang clang: tu invece sei statico, inquadri facce che parlano, parlano... Stavo per dire teatrale, ma no, c'entra poco anche il teatro.

Piuttosto... anche qui ci ho messo parecchio a capire: poi leggendo un tale che non ti sopportava ho capito. Un fumettone, diceva. Beh, sai una cosa? Aveva ragione. I tuoi film migliori sono sontuose graphic novel. Sequenze meravigliosamente impaginate, scene statiche, didascalie e soprattutto fumet... dialoghi. Lunghissimi dialoghi, li leggiamo mentre restiamo fermi davanti alla vignetta, pardon, l'inquadratura, e la battuta e l'inquadratura ci entrano in testa così, icastiche, dritte dritte nell'archivio mentale dei migliori fumetti della nostra vita. Anche in questo perfettamente speculare a Rodriguez: lui prende i fumetti veri e li usa come sceneggiature; tu prendi il grande cinema e lo trasformi in uno strano bastardo, un fumetto di celluloide. E come i grandi artisti del fumetto, riesci a trasformare in qualcosa di intellettualmente appagante l'intreccio più pacchiano (la trama di Inglorious Basterds è una cosa impossibile da raccontare restando seri, eppure).

Dopo tanti stucchevoli quadretti di Tarantino cinefilo, lo scorcio inedito sul Tarantino cinefobo è ben più interessante. E allora diccelo: qual è il cinema che odi? Chi lo avrebbe detto mai, gli sparaspara. L'orgoglio della nazione, il finto capolavoro di Goebbels, non è una summa di tutto l'action movie moderno? Inquadra nemico, spara. Inquadra altro nemico, spara, spara, spara. Hitler se la gode e divora i popcorn. Ma c'è anche qualcosa del Soldato Ryan, o di quell'immondo pezzo di celluloide che Spike Lee venne a girare in Toscana qualche anno fa. Sparatorie: puah. Roba da cecchini repressi. Tarantino preferisce gli standoff: gente che si fissa con la pistola in mano. Se invece vi piacciono i montaggi nervosi e i bangbang – ci dice – siete nazisti, e non meritate lezioni di umanità. Vi farò saltare in aria sulle vostre poltroncine.

Ma non subito. Questo è il segreto. Io non sono un qualunque Michael Bay. Io prima di ammazzarvi vi terrò una lezione di vero cinema, quello antico dei Maestri, che sequestrava in sala lo spettatore. Sarete in mio potere e vi farò sentire la paura e il dolore. Da una curva farò spuntare l'emissario della Bestia – è gentile e senza umane tenerezze, e la sua lingua velenosa conosce tutte le lingue della terra e dell'inferno. Lo farò sedere al vostro tavolo, e mentre gioca al gatto e al topo con voi, io nasconderò una famiglia di ebrei sotto le assi del vostro soggiorno. Voi avrete pena per loro e per voi stessi: e li tradirete. Perché non avrete scelta, e perché siete totalmente succubi delle parole della Bestia, del meccanismo antico di un cinema che ti faceva sudare con le parole e con gli sguardi. Nient'altro che sguardi e parole, e avrete già tradito i vostri fratelli. Ed è solo l'inizio.

Poi vi reinsegnerò cos'è la violenza. Niente pistole. Troppo facili, diceva il Cavaliere Oscuro. Troppo banali. Io vi mostrerò l'incontro non spettacolare tra una testa e una mazza da baseball: senza moviole e carrelli circolari, un normale fatto della vita: mazza colpisce testa, strike. Vi farò vedere come scotennavano gli apaches. Vi mostrerò cosa significa, letteralmente, tirare il collo a una persona che vi fissa negli occhi. E non avrò fretta, mai: vi lascerò il tempo di annusare la paura e di digerire il dolore. Questo era il cinema, una volta: un meccanismo di attese. Questo è rimasto il mio. La violenza la mostro, non mi tiro indietro, ma quello che m'interessa è sempre un attimo prima: la tortura, la suspance. Lo so che a voi non piace.

Voi volete i bangbang. E io allora manderò l'operatore a sbarrare le uscite, e vi darò i bangbang nella schiena, mentre un meraviglioso faccione resuscitato dagli anni '20 vi ride in faccia la mia vendetta, la vendetta del cinema antico sui suoi indegni spettatori. E chi risparmierò sarà marchiato per sempre col segno della Bestia.

Perdonami se non ti ho capito, Quentin Tarantino. Tu non hai forse una sola parola nuova da aggiungere a Leone o a Ford; ma hai la dinamite necessaria a far saltare in aria tutti i Bay e i Bruckheimer che occupano il cervello dei ragazzini. Il tuo cinema è un atto di fede nel linguaggio che si screzia in dialetti, nei silenzi negli sguardi e nei gesti che possono valere una vita o terminare una guerra, più di cento fucili da cecchino. Sei l'ultimo europeo in America, o viceversa, non importa: sei un bastardo reazionario, e io sono con te. Ti devo cento scalpi.
Comments (23)

Allegria di naufragi

Permalink
Lui faceva solo le domande 

L'ironia è che Mike Bongiorno un funerale di Stato se lo meritava, come tutti i partigiani. Forse nel casino dell'8 settembre per un italoamericano era più facile capire da che parte stare; ma ci voleva comunque molto coraggio, che non gli è mai mancato. Gli mancò invece la voglia di parlarne: mentre altri si sono riciclati ex partigiani per tutta la vita, lui si è messo subito a fare altro, seppellendo diligentemente l'esperienza di staffetta e di prigionia nel suo curriculum. Un riserbo ai limiti della rimozione, che potrebbe anche insospettire: l'uomo aveva tanti difetti ma non la falsa modestia. Più probabilmente non ne parlava perché non voleva correre il rischio di annoiare. 

Del resto nessuno crede che Mike “Ordine al Merito della Repubblica Italiana” Bongiorno sia sepolto da eroe perché a 19 anni cercava di tradurre i dispacci partigiani in inglese e viceversa. MB si meritava solenni esequie perché era la Storia della tv di Stato + la Storia della tv commerciale. Questo in Italia è terribilmente importante. E questa importanza, temo, è terribilmente italiana. Perché Mike Bongiorno, in fondo, era solo un conduttore televisivo. Nemmeno dei più brillanti: non è che abbia inventato un granché. Seppe sfruttare al meglio il suo bilinguismo, cominciando a importare format dagli Usa quando l'inglese in Rai era probabilmente compreso come l'arabo oggi. Lascia o raddoppia in originale si chiamava The 64000$ Question. Era un quiz, un giuoco a premi, come se ne facevano già in tanti Paesi. Prima o poi qualcuno li avrebbe portati in Italia, ed era fatale che si trattasse un uomo nato all'incrocio tra due culture (senza saperne molto di entrambe, ma che c'entra). 

Quello che non ci si poteva aspettare è che Lascia e raddoppia segnasse in modo così profondo l'immaginario degli italiani. Era solo un programma, solo tv, e Mike Bongiorno era solo un signore gentile che faceva le domande, lasciandosi scappare qualche simpatico strafalcione. Poteva durare una stagione, o dieci stagioni, e poi sparire nel dimenticatoio – alla Rai MB non ebbe sempre vita facile – e invece eccoci qui, solenni funerali di Stato. Qui io direi che c'è qualcosa che non va: nel culto del presentatore, che negli altri Paesi è quasi sempre un signore brillante che legge una cartellina e da noi è l'assoluto protagonista, un art director, un profeta, un dittatore vendicativo. Ai bei tempi, MB arrotondava il salario Rai con vere e proprie tournée estive: sfuggiva da folle di signore che cercavano di toccargli i capelli, saliva su un palco di una sagra di paese e... cosa faceva? Cosa fa un conduttore senza qualcosa da condurre? Erano le prime comparsate della storia dell'umanità. Gli avranno dato una miss da incoronare, più spesso un prodotto da vendere, gli sponsor da ringraziare, patetiche scuse per ascoltarlo parlare, per l'allegria di sentirlo dire allegria. Lo spettacolo era lui, la tv dal vivo. 

Nel Regno Unito nasceva la beatlemania, negli Usa Dylan diventava un divo. A Parigi andavano forte i filosofi esistenzialisti; in Italia sognavamo di toccare i capelli a Mike Bongiorno. C'era già qualcosa di profondamente sbagliato. Cosa ha reso di noi il popolo più teledipendente di Europa? La tv la guardano tutti, ma nel resto del mondo è un elettrodomestico che dialoga con altri, senza mangiarseli: ieri c'era la radio, la carta stampata, oggi c'è internet; ci si può aggiornare su tutto senza nemmeno sapere cosa c'è in tv. In Italia non è possibile, persino se uno cercasse di vivere esclusivamente di quotidiani: per esempio, di che parlano le prime pagine cartacee e telematiche di oggi? del palinsesto rai – al posto di Ballarò faranno un programma di Vespa e questo si dà scontato che leda profondamente il pluralismo democratico. La Rai è l'Italia in diretta, chiudere un programma è come chiudere una piazza e impedire agli italiani di radunarvisi. Altrove secondo me non è così. 

Ma non è colpa di Mike Bongiorno. Lui faceva domande, senza nemmeno fingere di conoscere le risposte. I suoi programmi non creavano nessuna illusione di focolare nazionalpopolare, alla Baudo. MB non accarezzava l'autoindulgenza del telespettatore con la goliardia di Corrado o l'ironia un po' snob di Enzo Tortora. Mike Bongiorno registrava telequiz, punto. Quando la formula del telequiz cominciava a stancare, lui si metteva a cercare qualche formula nuova. Quando tramontò l'archetipo del signore stravagante dotato di una cultura settoriale impressionante (oggi lo chiameremmo, tagliando corto, nerd) lui scoprì i giochini enigmistici alla portata di casalinghe e pensionati, i rebus di Bis, il paroliamo della Ruota della Fortuna, un altro format americano fatto e finito. Giochi a premi senza ironia, senza riflessioni o metadiscorsi. Per quanto gli italiani cercassero in tv Art Director, Profeti, Dittatori Vendicativi, bisogna dare atto a MB di aver mai provato a essere qualcosa di più di quel che era: quello che fa le domande, o almeno le domandine. Almeno fino a qualche anno dalla fine, quando anche lui non riuscì più a resistere alla grande celebrazione autoreferenziale, e a dare retta a chi lo voleva Senatore a vita, maestro di stile (per via delle sue gaffes), protagonista del Novecento italiano. L'ultimo Mike, quello che faceva da spalla a Fiorello, era un buffo monumento a sé stesso – alla gente piacerà ricordarselo così. Ma il vero MB era un altra cosa. 

Una macchina per far soldi, sostanzialmente. Nessuna complicazione intellettuale, politica, etica. Nessuna ambizione di raccontare gli italiani. MB non era distratto nemmeno dall'ego. Non andò da Berlusconi a fare il Grande Personaggio – andò a fare l'operaio alla catena, una striscia di mezz'ora al giorno e tre ore di prima serata settimanali, per dieci e più anni. Consapevole che si trattava sostanzialmente di vendere materassi e mortadelle, MB si lasciò tranquillamente alle spalle il suo passato di partigiano, alpinista, patriarca della tv, e si mise a vendere materassi e mortadelle. Senza vergogna, e senza nemmeno provare a ridersi addosso – pura televisione commerciale, senza autoironie, complicazioni sociologiche, protagonismi. Gli altri grandi conduttori, lo sentivi, volevano soprattutto essere amati, e a tal fine erano disposti a sedurre. MB no, lui non fingeva di voler bene a nessuno. Se eri bravo ti diceva bravo, se sbagliavi ti mandava a casa, se provavi a barare o ti portavi i bigliettini ti maltrattava davanti al pubblico, senza pietà o comprensione. Perché MB non comprendeva nessuno. Lui faceva le domande, punto. 

Passavano gli anni, cambiavano i fondali in cartongesso; lui rimaneva immobile, indifferente ai destini umani. Sfiorivano le vallette – un autore morì, ma aveva già registrato ore e ore di Ruote della Fortuna che andarono in onda lo stesso. Niente piagnistei, è solo televisione. Oggi, se guardi Affari Tuoi, ti costringono a piangere se il concorrente esce con meno di ventimila euro. Non è stato Mike Bongiorno a far impazzire la tv italiana. Lui fin dall'inizio ha pensato che nei palinsesti ci fosse lo spazio commerciale per un intrattenimento di livello medio-basso (come si faceva negli Usa) e si è adoperato in tal senso. Ma non ha mai invaso il campo dell'informazione, del dibattito politico, della cultura. I suoi colleghi – quelli che credevano che si potesse usare lo stesso palco per fare dibattito politico e varietà, ritrovare il parente disperso e salvare la foca monaca, vendere il libro e il caffè, dir messa e lanciare il balletto, tutto sempre in un unico enorme contenitore che avrebbe dovuto piacere a tutti per forza – loro hanno più responsabilità. 

Una volta Beniamino Placido andò a intervistarlo. Scoprì che passava le notti a studiare la tv americana via satellite – eravamo ancora negli anni '80. Concluse che Mike era un alieno: viveva tra noi, senza capirci; e noi non riuscivamo a capire lui. Questo non ci impedisce di celebrarlo, come un altro pezzo del nostro passato che se ne va. Ma è il solito fraintendimento: questo passato più lo festeggiamo più ci sfugge.
Comments (19)

è++++++++èèèèèèèèè+

Permalink
Sogni di 1961

Hai notato come la gente come me e te si ritrovi sempre più spesso nel 1960?
Dopo cena, s'intende.
Al mattino infatti la sveglia è fissa agli anni Zero. (Dai, che è l'ultimo). (Dai, che tra un po' arrivano i Dieci, e con loro il posto e il mutuo a tasso fisso). (Dai e dai, perché non dovremmo diventare adulti pure noi?)

La gente come noi peraltro ha problemi sin dalla sveglia, che ogni notte va puntata a un'ora diversa. Se ci pensi, è un pessimo modo per finire/cominciare la giornata. Ma si sa, a un certo punto qualcuno ci ha traviato, ci ha raccontato che la flessibilità era qualcosa di nuovo ed eccitante, per cui lunedì ti svegli alle sette, martedì alle undici, mercoledì non ti svegli proprio nel senso che sei rimasto dilà a lavorare a una traduzione e sei crollato alle cinque del mattino col naso sul laptop e quando ti sei svegliato avevi riempito duecento pagine di hjjhjhjhjjjhjhjhjhjhjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjhhhjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjjj
(per la verità a pag. 79 spostandoti nella fase rem e ti eri riposizionato su è+è+è+è+è+èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè+++++++++++++++++++++è+è+è+èèèèè++++++++++++ùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùàè+èèèè++++++++++++++++++++++++++èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè)
e prima di svegliarti, in un soprassalto di sonnambulismo, contemplando il tuo capolavoro avevi selezionato “Stampa”.

(La gente come noi, quando le dicono “Lo so che hai un romanzo nel cassetto”, sorride.
“Hai ragione. Ma è un po' sperimentale. L'ho scritto a notte tarda”. “Come Kafka!”).

Ma tergiverso quando tu hai fretta, vuoi finire il post per rispondere alla mail che ti è appena arrivata da Tizio che ti chiede se hai finito il lavoro dello scorso mese per Caio così può farti pagare da Sempronio, e tu non hai la minima idea di chi siano tutti e tre, e la colpa di chi è? È anche un po' colpa di Leonardo che scrive pezzi lunghi. Hai ragione, scusa.

Ma hai notato questa cosa buffa? Com'è che ci ritroviamo sempre più spesso proprio nel 1960?
Alla fine di queste giornate che non iniziano e non finiscono precisamente mai, dopo una cena mangiata di fretta o saltata proprio, ci si tuffa in una puntata di Mad Men, fresco di download; oppure si va al cinema a vedere Revolutionary Road che è la stessa identica bazza: pendolari suburbani che sbarcano a Grand Central alle otto in punto, salgono un ascensore, si ficcano in un ufficio dove non c'è nemmeno la macchina da scrivere (per quello ci si serve di apposite schiave), e ding dong, è già mezzogiorno. Ristorante, bistecca ai ferri, sigaretta, si fa anche in tempo a ingroppare la segretaria e prendere il treno delle 5.

Tutto filologicamente documentato, accuratamente riprodotto, scrupolosamente standardizzato, per il nostro sofisticato intrattenimento. Da quand'è che un passato non ci prendeva così?
Escluderei il fattore nostalgia; non eravamo nemmeno nati. Del resto siamo nati anche un po' troppo tardi per Happy Days dopo la Tv dei Ragazzi. Dopodiché, certo, ci sono generazioni che hanno ereditato la nostalgia di quella dei padri, ma non pensavamo d'essere altrettanto deficienti.

E quindi? E quindi chissà? Forse in quel passato così accurato e sottilmente claustrofobico, in quel passato omologante cinico e disperato, c'è qualcosa di consolatorio. Noi che un treno da prendere tutte le mattine ormai ce lo sogniamo; noi schiavi di noi stessi e delle nostre fottute scadenze, noi che guadagniamo un mezzo eurocent per ogni tasto che spingiamo; noi guardiamo Don Draper o Frank Wheeler sconfitti e frustrati e un po' ce la godiamo.
Mentre voi che avete vissuto all'apice della civiltà del consumo, e oggi siete cenere indistinguibile da quella delle vostre sigarette che non vi siete mai goduti veramente, voi: cosa sognavate sui seggiolini del treno, mentre tornavate a casa dalla mogliettina bionda? Scene di caccia, barricate a Parigi, western in bianco e nero, vite fuori dagli schemi, selvagge, precarie. Come le nostre, già! Sognavate di essere noi, è così?



[No. Forse è meglio avvertirvi che scherzo, non è così. È ovviamente il contrario. È che a una certa ora dopocena, non c'è mansarda parigina che non venderemmo per un lotto suburbano e la casina bianca dei Wheeler, per i lenti treni che si tuffano nel bosco e riemergono a Park Ave., per un po' di vuoto patinato standardizzato e una sveglia, una sveglia cromata che suoni cinque e solo cinque mattine alla settimana, e alla stessa fottuta ora].
Comments (12)

Il futuro di chi ha memoria

Permalink
Sabato a scuola non si trovava un videoregistratore, neanche a pagarlo. Tutti prenotati da mesi. Nei corridoi echeggiavano voci stentoree, gridi disperati. “Achtung Juden!” “H'raus!” “Tod und Verzweiflung!” E' un'altra Giornata della memoria.


Servirà a qualcosa? Questi ragazzi ricorderanno? O anche questi ricordi non sono destinati a perdersi come lacrime nella pioggia martellante di Scusa se ti chiamo amore e/o Alien vs Predator 2?

Dopo anni di martellamento a furia di Schindler's List e Il Pianista e La Caduta, credo di sì, credo che qualcosa resterà. In fondo sono piccoli, s'immedesimano in tutto.

Così a volte penso a me stesso più vecchio, mentre faccio una fila nella nebbia. A un certo punto un giovane seduto a un banchetto mi chiede COGNOME E NOME.
“Randolla Matteo”.
“Randolla... un suo parente non faceva il maestro alle medie di *****, per caso?”
“Veramente ero io”.
“Era lei? Il Prof Randolla?” Si alza di slancio, rivelando due metri di eleganza un po' marziale. “Professore, sono io! Galavotti Enea, si ricorda? La terza effe del duemiladieci!”
Queste cose io le odio, perché i nomi e i volti sono il mio punto debole, così corrugherò un attimo la fronte e poi la distenderò facendo finta di ricordare, e nel frattempo continuerò a frugare nei resti della mia memoria, alla ricerca dei medesimi occhi verdi, di un naso analogamente schiacciato, e di quel nome, Enea, Enea, Enea.
“Ah, bene, Enea, vedo che ti sei sistemato!”
“Se n'è accorto, eh?” E si tocca le spalle, indicando un distintivo o una mostrina di cui in realtà io ignoro il significato. “E se tutto questo va a buon fine ci dovrebbe anche essere una promozione”.
“Beh, in bocca al lupo”.
“Professore, devo dirle, in questi anni ho pensato molto a lei”.
“Ah, sì, beh...”
“Vede, ne ho discusso anche con i miei coetanei, e siamo arrivati alla medesima conclusione: gli anni delle medie sono stati i più formativi”.
“Ah, però. Chi se l'aspettava”. (Io, no. Io pensavo di gestire un parcheggio tra le elementari e il liceo).
“Sì, perché in quegli anni hai la mente e il cuore... come dire... teneri. Si plasmano su quello che trovano, capisce. E io ho avuto una grande fortuna a incontrare lei”.
“Ah, davvero?”
“Ho ancora vivide nella memoria le immagini che ci proiettava, tutti quei film... a volte penso che tutto quello di buono che ho fatto nella vita lo devo a quei film”.
“Tutto questo è molto commovente, Enea, ma fa un po' freddo, la fila è lunghissima e sento che dal fondo qualcuno ci sta maledicendo”.
“Ma non si preoccupi. Senta (mi prende sottobraccio, la sua uniforme di ufficiale si strofina sul mio pigiama liso). Noi adesso qui dobbiamo dividervi in gruppi di sei e poi mettervi in fila. Lei cerchi di stare in fondo alla fila. Sempre in fondo”.
“Ma perc...”
“Poi vi portano nel piazzale della palestra, e sparano al torso del primo della fila. La pallottola trapassa e ne ammazza altri quattro, ma a volte l'ultimo si salva, capisce? Se riesce a fare il morto fino a sera può scappare”.
“Ma farà freddo!”
“I cadaveri scaldano”.
“Ma Enea, posso farti una domanda seria?”
“Dica pure, prof”.
“Perché tutto questo orrore, perché?”
“Cosa vuole che le dica, stiamo esaurendo le munizioni, dobbiamo fare economia. O preferirebbe che vi strangolassimo? Converrà che questo è un metodo più pietoso”.
“Ma...”
“E lo abbiamo preso da un film, sa? Quello in bianco e nero lungo lungo, ha presente? Che gran film! Credo proprio che ce lo abbia fatto vedere lei”.
“Sì, però...”
“Aveva ragione, sa? Anche dai film si può imparare. E noi abbiamo imparato tutto. Ora, se non le spiace, devo esaurire questa coda. In bocca al lupo, professore”.
“In bocca al lupo, Enea, e grazie”.
“Ma grazie a lei. E si ricordi. Stia in fondo alla fila. Sempre in fondo”.


- Giornata della memoria 2004.
Comments (14)

land of fucking geniuses

Permalink
5 diagnosi su House
(una potrebbe anche essere corretta)

Se siete della razza che scarica i telefilm (pardon, le serie) da internet, misurandovi reciprocamente i centimetri sulla barretta di bit-torrent, alla fine House non è che il solito prodotto di nicchia che vi identifica e vi gratifica: e beati voi.

Se invece siete ancora nella fase catodica, come me, probabilmente condividete l’incredulità, l’imbarazzo, il fastidio di aver dovuto premere il pulsante 5 del telecomando in prima serata. È una cosa che non facevo più da anni - che forse non avevo mai fatto. Oddio, beh, qualche pezzo di Grande Fratello quando c’era Franco, ma… insomma, io pensavo di non avere più nulla a che fare con quel Canale, con quel target, con quel mondo. A Italia1 ci si attacca in un disperato tentativo di restar giovani, Rete4 da sempre blandisce col piacere proibito di sentirsi intelligente vedendo gli idioti al lavoro. Canale 5 è una cosa diversa, una cosa seria. È la morte che si mette in marcia. Quando il programma che ti piace di più va in onda in prima serata su C5, sei definitivamente uscito dalla nicchia. Sei un adulto medio. Sei brutto. Tra un po’ sarai anche vecchio, e andrai a dalla De Filippi a piangere e scatarrare nei fazzoletti.

Non puoi nemmeno invocare l’errore umano: House non è finito su C5 per sbaglio. Se l’è sudato tutto, il percorso verso la prima serata generalista. Se l’hanno messo lì, è perché funziona: ci sono milioni di italiani che lo guardano. Alla faccia della nicchia. Giovani, adulti, casalinghe che stirano mentre il dottore drogato trapana cervelli per mettere a fuoco un’ipotesi. Come ci si sente, ad avere gli stessi gusti di milioni di italiani? Fa un po’ senso, vero?

Non è un incidente di percorso. A un certo punto la Mediaset si è gettata anima e cuore sul dottore drogato. La copertina di TV sorrisi e canzoni, che non è mica Rolling Stone; le telepromozioni imbarazzanti (dopo aver diagnosticato una rarissima forma di cancro, il doppiatore si mette a decantare con lo stesso tono le virtù della skoda fabia). Il punto di massima speculazione l’ha toccato Mentana, che una sera per battere Vespa ha messo su una replica di House. Col dibattito. Ma il dibattito veniva dopo: in sostanza era una replica di House, e contro la Franzoni ha fatto il botto. A pensarci, è l’uovo di colombo: bisognava pensarci prima. La De Filippi non ha abbastanza casi umani da opporre alla Clerici? Proietta in studio una puntata di House! La fiction in costume fa schifo alla miseria? Titolo: La Contessina di Villapenosa stasera presenta il Doctor House! Il reality sprofonda nella noia? Costringi gli inquilini a guardare House, e piano piano zoomi sul loro televisore. E se il pubblico gradisce, perché no?

Già, ma si può sapere perché il pubblico gradisce? La reazione del pubblico generalista italiano a House contraddice tutte le conclusioni scientifiche e sperimentali degli ultimi due decenni, tra cui il primo, fondamentale postulato di Berlusconi (i programmi vanno pensati per “un bambino di 11 anni neanche tanto intelligente”). È una cosa che non può assolutamente passare liscia, così ho preso la mia lavagna e ho messo giù alcune ipotesi di lavoro.

Prima ipotesi: House è un programma stupido. Perlomeno, molto meno intelligente di come si presenta. Dietro la gratificante superficie intellettuale e specialistica, le trame sono abbastanza lineari: c’è un malato e un dottore che lo salva (quasi sempre).
Qualche anno fa fece molto rumore un libro che diceva che i telefilm fanno diventare intelligenti perché mettono al lavoro tutta una serie di abilità del tuo cervello. Alcune cose erano interessanti, ma mi colpì molto il fatto che citasse un dialogo di ER in medichese spinto: la pressione è a ottanta, quindici milligrammi di betaprozitene, stiamo perdendo la cistifellea, ecc. ecc.
Qui evidentemente c’è un equivoco: nessuno impara la medicina guardando ER, altrimenti i nostri padri sarebbero tutti diventati bovari provetti a furia di Bonanza. Di fronte a uno sfoggio di vocabolario tecnico, lo spettatore ha lo stesso atteggiamento di Linus Van Pelt quando legge i fratelli Karamazov: “Come fai a pronunciare tutti quei difficili nomi in russo?” “Mi limito a guardarli”. A parte qualche studente di medicina, nessuno è veramente in grado di seguire i percorsi diagnostici di House: noialtri ignoranti ci limitiamo a guardare quel che succede, e constatiamo che il dottore drogato sbaglia molto ma alla fine ce la fa quasi sempre, e nel frattempo produce una serie di facce spassosissime. Siccome quell’attore, prima di House, faceva il papà di Stuart Little o il cattivo della Carica dei 101, l’ipotesi non è da buttar via: ci crediamo tutti esperti di medicina, ma siamo ancora e sempre 11enni poco intelligenti, che con la scusa delle diagnosi ci esaltiamo con le smorfie.

Seconda ipotesi: Turismo ospedaliero. Ci pensavo ieri sera. House ha dei colori meravigliosi. Quell’ospedale è bellissimo. Molto spesso è autunno, e cosa c’è di più bello di un autunno nel New Jersey? È tutto meravigliosamente pulito e ordinato, un mondo a mille miglia dagli ospedali italiani. Forse House per noi italiani è pura evasione in un mondo di ospedali colore arcobaleno. Una volta non si poteva andare in Africa, e allora si andava al cinema a guardare il film coi leoni. Adesso Sharm el Sheik te lo regalano, ma una degenza in un ospedale del genere è ancora un’esperienza da mille e una notte. Va da sé che lo stato della sanità USA non è esattamente quella dipinta nel telefilm, per cui a questo punto mi viene in mente una…

…Terza ipotesi: la rimozione della politica. House la sostituisce con la natura. Per lui è naturale lavorare in un ospedale al top, dove possono entrare pazienti di qualsiasi ceto sociale: le differenze sociali sono occultate con molta eleganza. Che tu sia zingaro o miliardario, ti curano notte e giorno e non ti fanno mai vedere la parcella. L’unico tipo di politica presente in House è il dibattito tra razionalismo (di House) e sentimentalismo vagamente religioso (di tutti gli altri deficienti): un dibattito vinto in partenza da House, anche se ogni tanto i saggi sceneggiatori danno un colpo al cerchio ed ribadiscono che House è uno stronzo, che anche i sentimenti sono importanti, che le convinzioni religiose ogni tanto vanno rispettate, ecc., ecc. Tutti possono tranquillamente restare aggrappati al proprio punto di vista. Per intenderci, il super-razionalista che capisce tutto da solo può piacere a Capezzone, ma la puntata in cui la Cuddy salva il feto è perfetta per far spuntare una lacrimuccia a Bagnasco. Quindi House ci mette tutti contenti: gli unici un po’ frustrati sono i giornalisti italiani, che abituati come sono a distinguere tra doccia di sinistra e vasca da bagno di destra, di fronte a un prodotto così elaboratamente paraculo vanno in confusione. Accadono così equivoci assurdi, per cui se House cita di sfuggita il film di Michael Moore, al Corriere della Sera si convincono che House sia democratico anti-Bush, eccetera eccetera. A riprova del fatto che anche se guardiamo House, manteniamo le facoltà intellettive di un 11enne: Eh? Che ha detto? Ha citato Maicolmuùr? Ma allora è di sinistra! Sì, vabbè.

Quarta ipotesi: Il cantico del Professionista.
Se House non ha nulla di politico, qual è il suo messaggio? Il messaggio che traspare da ogni singolo fotogramma è che bisogna avere fede nei professionisti, perché anche se sono drogati e antipatici, sanno il loro mestiere.
Forse ci siamo. Gli italiani, e in particolare i teleutenti di Canale5, non sono di sinistra o di destra. Sono idraulici, avvocati, camionisti, artigiani. Gli italiani sono un popolo di professionisti, e House parla a tutti loro. E gli dice: siete grandi, siete eroi, fate bene a maltrattare i sottoposti e a snobbare i clienti, è da queste cose che si riconosce la grandezza. Attenzione, perché questo non c’entra con la Professionalità: in effetti House è tutto fuorché professionale. Mobbizza i colleghi, si droga sul luogo di lavoro, perverte il codice deontologico ogni qualvolta lo ritenga necessario, ecc. ecc. Fa quel che gli pare, perché è un fottuto genio. Ora, si dà il caso che in Italia la maggior parte dei professionisti si credano appunto fottuti geni, in grado di violare le leggi della professione, dello Stato, e a volte anche della scienza. Perché i camionisti pasteggiano a China Martini? Perché l’alcolismo non è un loro problema, loro sono più bravi! Pensate al vostro commercialista mentre irride le regole dell'algebra, pensate al dentista mentre vi martella un dente si fa beffe del dentista precedente: a sentirlo, sono tutte mezze calze tranne lui. Lui è il Professionista. Ecco, è anche il tipo che guarda House e si esalta. Ora che ci pensate, probabilmente il dottore drogato vi riuscirà meno simpatico.

Quinta ipotesi: non si può escludere a priori che House piaccia a tanti italiani perché è un prodotto scritto, interpretato e diretto molto bene. E tuttavia rimane il dubbio: se agli italiani piace House, perché tutti gli altri giorni della settimana gli date fotoromanzi tipo Rivombrosa o Rino Gaetano contro i discografici nazisti?(*) Se non è per compiacere il pubblico, perché?

A questo punto mi tocca spugnare la lavagnetta e ricominciare: perché la tv italiana è più stupida dei suoi spettatori? Stavolta però non mi viene nessuna teoria credibile. L’unica che mi viene in mente è che dietro ci sia un preciso intento diseducativo. Ma no, dai, nemmeno nei peggiori telefilm.

(*)Vincono i nazisti.
Comments (37)

Fascisti da Sparta

Permalink
Corso di Martirio Illustrato

1. Insegnate bene ai vostri figli:
Ogni volta che qualcuno tira fuori le Termopili, è per fotterti. Per dire, una volta ci provò persino Bertinotti. 300 intrepidi spartani si fecero massacrare per salvare un popolo che se la spassava alle Olimpiadi: voi lo fareste? E mentre tirate su un muro di cadaveri persiani, non vi sentireste un po' presi per il culo, a fare il cane da guardia alla democrazia e alla libertà degli altri?

2. Fasìsta!
Già sparare giudizi, come si fa in questi maledetti blog, è un po’ antipatico.
Usare poi etichette come “fascista” è veramente tremendo. Puzza di anni ’70 – e gli anni ’70 ormai puzzano parecchio. Detto questo, Frank Miller è un fascista. Ma non è questo il motivo per cui non andrò a vedere il film sulle Termopili.
E perché sarebbe un fascista, sentiamo.

Non c’è un “perché”. Anche se facciamo finta di non credere in nulla, abbiamo tutti un sistema di credenze e di valori, che emerge in quello che scriviamo. Spesso non è esattamente il sistema di credenze e di valori che vorremmo avere. Io, per dire, preferirei essere meno pessimista quando scrivo, ma non ci riesco. Anche Miller forse preferirebbe essere meno fascista. Specie ai tempi del Cavaliere Oscuro aveva sviluppato tutta una serie di anticorpi e controcanti che rendevano la sua opera straordinariamente dialettica e complessa: ma alla fine di tutta questa complessità, comunque, sopravviveva un personaggio marziale e mascellone che si appartava negli inferi a crescere una nuova razza di uomini superiori. Le sue ultime parole erano: “Robin, sta composto!”, e Robin gli rispondeva “Sissignore”. Miller è un fascista perché, in fin dei conti, quel che gli importa è essere Uomini, con la schiena dritta, i valori saldi e i riflessi pronti. Dietro questa grande idea di mascolinità ti aspetti sempre che ci sia qualcosa di più, ma alla fine non c'è.
Non è mica il solo, figurarsi. Prima di lui ci fu la letteratura hard-boiled, con i suoi eroi mascelloni di poche parole e rocciosi ideali. Ma nessuno si sogna (oggi) di dare del fascista al detective Marlowe, che senso avrebbe? Anche gli eroi di Miller, finché si muovono nel mondo depravato di Gotham o Hell's Kitchen o Sin City, sono semplicemente uomini tutti d’un pezzo, senza complicazioni ideologiche. Se Miller si limitasse a disegnare i suoi ribelli, muscolosi e derelitti, quelli che di solito perdono tutto per colpa di una donna e poi risuscitano più forti di prima (gratta l’80% delle sue storie e ci trovi il mito biblico di Sansone)…
Il problema è che Miller non tratteggia solo ribelli: è ugualmente tentato dalla figura del Re. Lo ha ombreggiato nel Batman Oscuro, c’è tornato sopra con Leonida. Ecco, quando disegna i suoi re, Miller non può evitare di suonare certe corde. Forse la canzone suona più sinistra qui in Italia, dove ai mascelloni siamo più vaccinati. In ogni caso è terribilmente significativo che, in un momento di assoluta libertà creativa, abbia scelto per un’epopea a fumetti proprio quei fascistoni degli spartani, una casta chiusa di guerrieri famosi per le pratiche eugenetiche (e dovevano averne bisogno, perché a furia di sposarsi tra consanguinei i parti mostruosi dovevano essere frequenti).

3. Gente che non sopporto.
A questo punto c’è sempre qualcuno che risponde “Dai, ma è solo un fumetto / un film / una canzone, che palle con le tue sovrainterpretazioni, goditelo e basta". Io questa gente non la sopporto. Solo un fumetto? Siete cresciuti con Zio Paperone, il simpatico capitalista in palandrana, e vi domandate perché vi viene istintivo votare Berlusconi? Solo un film? La cinematografia è l’arma più forte, l’ha detto un tale più furbo di voi. Ma sul serio voi siete in grado di “godervi” 300 senza riflettere neanche un momento sul messaggio politico, neanche se è evidente e grosso come una montagna? Come fate? Avete il Giudizio Estetico tutto in un emisfero del cervello, il Giudizio Etico nell’altro, e una manopolina tipo Balance, per cui riuscite a oscillare a comando?
Io ho due cose da dirvi. Prima cosa: non vi credo. Non credo all’autonomia del giudizio estetico. Se 300 vi piace, probabilmente siete sensibili anche al messaggio politico. È solo che vi vergognate ad ammetterlo. Ma io non mi vergogno a giudicare voi.
Seconda cosa: a me 300 (il fumetto) è piaciuto, proprio perché sono sensibile ai messaggi politici di Frank Miller. Anch’io penso talvolta che il mondo girerebbe meglio se i giovani tenessero la schiena diritta. E per inciso, studio la letteratura del fascismo. Mi interessa, mi intriga. Ma soprattutto, credo che sia indispensabile studiarla: capire come funziona, le rare volte che ha funzionato.
Ed è anche (almeno credo) un modo per immunizzarsi: i sultani assumevano veleno dopo i pasti, per diventare invulnerabili. Io non sono del tutto sicuro di essere invulnerabile ai messaggi fascisti, ma col tempo ci arriverò. Anche grazie a Frank Miller, che è stato una fantastica scuola di fascismo illustrato.

3. Il senso del ridicolo

Con tutto questo, non credo che andrò a vedere il film. Già Sin City mi lasciò l’amaro in bocca.
Eppure era fedele al fumetto, addirittura ricalcato dalle tavole. Già, è proprio questo il punto. È triste vedere storie che sulla carta sembravano robuste e (relativamente) verosimili, trasformarsi sullo schermo in pagliacciate. Come quella scena di Kill Bill dove Uma Thurman uccide 88 ninja assassini: sembrava già il Wolverine di Miller, eppure era una pacchianata. Il fumetto rende astratte e credibili le più pantagrueliche carneficine. Ma se lo trasformi in pellicola, diventa ridicola, e di riflesso anche il fumetto. Non credo che riprenderò più in mano gli albi di Sin City: grazie regista Rodriguez, adesso mi fanno senso. Perché devo rovinarmi anche 300, trasformando un buon fumetto in un torneo di culturisti? E poi diciamolo, è roba da ragazzini.

4. “I nostri ragazzi!”

I ragazzini, appunto. Non è che io creda veramente che la visione di 300 possa trasformarli in piccoli fasci lacedemoni. Non credo che li spingerà a sostenere un’eventuale guerra americana all’Iran – tutti i film del mondo possono poco, finché gli americani continuano a dare sul campo di battaglia un’immagine così poco vincente. E tuttavia qualcosa mi disturba. Un po’ di fascismo, nell’intrattenimento dei ragazzini, c’è sempre stato. C’è stato John Rambo, e prima di lui John Wayne. Presi a piccole dosi, questi grandi uomini ci aiutavano a immunizzarci dal mito del Grand’Uomo.
Da qualche anno in qua – direi dal Gladiatore in poi – la dose mi sembra sempre più massiccia. Si punta tutto su paroloni come Onore o Gloria, ripescati in extremis dai vocabolari; Mel Gibson sdogana persino i Conquistadores; ed è tutto così sfacciato e palese che ti aspetti da un momento all’altro l’ironia. Ma non c’è nessuna ironia. Gibson è terribilmente serio; e anche Miller lo è. Il film, da quel che ho capito, la butta un po’ sul fantasy, ma senza arretrare di un centimetro dal messaggio milleriano. Mi sembra che stia nascendo un cinema per ragazzini propedeutico alla Guerra di Civiltà. Che dalle sale possano uscire buoni soldati, ripeto, è difficilmente credibile. Ma per le esercitazioni ci sono pur sempre playstation e xbox. E comunque, anche Rambo sparava parecchio; ma il Gladiatore di Scott, il Cristo di Gibson o il Leonida di Miller vanno più in là. Stanno recuperando, a colpi di ralenty ed effetti digitali, l'antiquata nozione di Martirio. La stanno trasformando in qualcosa di moderno, qualcosa di occidentale, qualcosa di cool (che alla fine può piacere anche agli eredi dei persiani, che questi dvd se li comprano volentieri).

Queste son cose che mi angosciano, molto più di sapere se alla fine ha vinto Serse o gli intrepidi difensori dell’occidente. Che importanza ha chi ha prevalso alla fine, se entrambe le fazioni erano unite dall'esaltazione fanatica del martirio? Se per vincere dobbiamo assomigliare a Bin Laden, secondo me Bin Laden ha vinto.

(Mi sembra di ricordare che vinsero i greci, giusto per il gusto di scannarsi tra loro qualche decennio dopo. Ma è roba passata, appunto: mi preoccupano di più i sequel).
Comments (126)

- scoop

Permalink
(Che io sappia, in Italia Scoop, l'ultimo film di Woody Allen, non è ancora uscito. Io l'ho visto, e in questo pezzo riesco a parlarne senza spiegarvi esattamente come va a finire. Credo).


Siete un pubblico speciale, e vi amo.


Allen è un grande cineasta che sta invecchiando. Non stiamo neanche a discutere. Ha fatto molti film: alcuni belli, altri sopravalutati. In ogni caso ha finito di farli più o meno dieci anni fa. Da dieci anni non ha probabilmente nulla da dire: sta solo invecchiando.

Il punto è che sta invecchiando bene: che un suo film, magari bruttino, magari con poco o nulla da dire, regge comunque il confronto con quello che passa in cinema, e in tv. I suoi dilemmi morali possono suonare banali, ma almeno sono dilemmi, almeno sono morali. Allen può essere noioso, ma non è che in giro ci sia roba molto più eccitante; può essere vecchio, ma non è che i giovani si stiano dando molto da fare. Senza parlare dei vecchi come lui. Anzi parliamone. Prendiamo un Altman: ci sarà un motivo per cui Altman passa in estate, praticamente inosservato, e Allen si conserva per l’autunno, quando la gente torna al cinema? Prendiamo un qualsiasi autore dell’età di Allen: ha ancora cose da dire? Riesce a dirle meglio di lui?

È inutile cercare di difendere i suoi ultimi film. Inutile anche arrampicarsi sulla suo presunto risorgimento londinese - come se Allen riuscisse davvero a descrivere le città e le campagne in cui ambienta le sue operette. La questione è molto meno artistica e molto più umana: c’è chi colleziona modellini, chi scrive un libro, chi tiene un blog. Quest’uomo sta cercando semplicemente di mettere un film all’anno tra sé e la morte, perché è quello che ha sempre fatto, perché è quello che sa fare meglio. A lungo andare, è chiaro, il pubblico pagante diventa sempre più una variabile indipendente e irrilevante. La buona notizia (per noi? Per lui?) è che quel giorno è ancora lontano. L’appuntamento annuale col film di Allen è ancora piacevole – in mancanza di meglio, certo. Si vive in mancanza di meglio.

Io la vedo così: nei grandi film della sua maturità (Io e Annie, su tutti), Allen ha tratteggiato, con ironia, l’autoritratto di uno sfigato immaturo. Non importa che questo ritratto fosse abbastanza impietoso e a tratti persino tragico: non importa perché la generazione di Allen ci ha riso sopra, trasformandolo in una macchietta indulgente, e prendendolo ad esempio per procrastinare a mai la propria maturità. Bei film, pessimo risultato.

Oggi però succede l’inverso. Se coi suoi migliori film è stato una pessima guida per una generazione di immaturi boccaloni, coi suoi peggiori film ci sta dando ottime lezioni su un problema che ci interessa tutti: come invecchiare decentemente. Qui non si tratta, insomma, di avvertire che Scoop è il suo miglior film dai tempi di. Potrebbe anche essere. E chi se ne frega. Qui si tratta solo di apprezzare il modo in cui Allen sta invecchiando in Scoop. Fotografarsi è sempre difficile, e fotografarsi da vecchi lo è ancora di più. Bene, nessuno che io ricordi ci è riuscito con la stessa grazia di Allen in Scoop.

Per prima cosa, è uno sfigato. Un ciarlatano mediocre. Ha qualche illuminazione, ma non riesce a servirsene. Niente famiglia, niente figli, nulla gli sopravvivrà. Entra nella storia controvoglia, ne esce per manifesta incapacità, nel più ridicolo e prevedibile dei modi. Ma per un’ora, lui e Scarlett si sono improvvisati padre e figlia, divertendosi un mondo. E divertirsi è tutto. Stare coi giovani. Cercare di salvarli. L’importante è non riuscirci.

Quindici anni fa Allen era ancora un signore di mezza età che cercava di riscattare il suo matrimonio salvando la Keaton da un diabolico assassino, nel Misterioso Omicidio a Manhattan. E non importa quante strizzate d’occhio, citazioni e understatement ci fossero in quella scena finale: in fin dei conti, Diana era pur sempre la donna salvata che diceva al suo eroe: ti amo. (Gratta gratta, le trame di Allen sono reazionarie, chi lo ha detto? Io, credo). Una scena così, in Scoop, avrebbe potuto esserci. Ma non c’è. Allen non è il vecchietto idiota che cerca di correre la maratona a sessant’anni. Per salvare un amore, una famiglia, una splendida ragazza, occorre cuore ma anche fiato, e non ne ha più: quel che è bello è che se ne rende conto. Scarlett dovrà farcela da sola.

E Allen? Vedi la scena finale: Allen continuerà a recitare la stessa scena per l’eternità. I soliti mediocri giochi di prestigio, il solito monologo sconnesso in cui garantisce di amare l’ennesimo pubblico sconosciuto ed estraneo, di amarlo sul serio: le cose cretine che si dicono a fine serata, quando si avrebbe voglia di andare via ma ancora non si può, e pur non amando veramente nessuno non si vuole essere scortesi. Allen non è mai stato scortese. Farà ancora molti film bruttini, facendo il possibile per non annoiare, per non strafare, per dare scena a belle donne (e begli uomini, direi). E noi li andremo a vedere, perché Fellini è morto, Kubrick è morto, e Spielberg non può farne più di due a stagione. E i giovani si facciano avanti, non è certo Allen a impedirglielo.
Comments (7)

- il pezzo che lunedì non ti aspettavi

Permalink
(Il film non finisce così:

Nell'ultima scena il giudice sta per emettere la sentenza, quando la donna magistrato si volta verso il Caimano. Che la fissa, lo sguardo iniettato di sangue.
Ma la donna magistrato è Margherita Buy, che ha finalmente accettato la particina a cui teneva tanto l'ex marito! "Non mi chiamo Ilda", esclama, "il mio vero nome è Aittra…" E poi trafigge il Caimano con l'asta di una bandiera tricolore (oppure tutta rossa, non cambia niente); la polizia la bracca, lei fugge sui tetti, sparatoria, titoli di coda.
Io il film l'avrei finito così, prima di entrare in clandestinità).

Quello che segue è un pezzo sul Caimano. Già. Proprio così. Chi se l'aspettava.
Non avete ancora visto il film? Non importa, non svelerò niente di più di quello che avete già letto sui giornali (cioè, più o meno, tutto).

Il caimano – sbarazziamoci subito dell'argomento – non sposterà un solo voto da una parte o dall'altra. I film non spostano voti. Nel 2006, un film assolve alla sua missione se riesce a portare il grosso sedere dello spettatore occidentale su una poltrona diversa da quella di casa sua. Il cinema guarda a sinistra non per spirito di missione, ma di sopravvivenza, perché di solito questi spettatori strani che vanno a vedere i film su schermi grandi in sale buie sono più orientati a sinistra. Succede persino negli USA (a Hollywood è una gara a chi è il più liberal, ormai), figurati da noi.

Il caimano è un film irrisolto – dopodiché va bene lo stesso, i film non sono mica problemi, non è che un film risolto debba essere per forza più bello o interessante.
Il caimano, d'altro canto, era un film impossibile da fare. L'impossibilità era il risultato della somma di due difficoltà. La prima è Berlusconi. Non si tratta solo di una difficoltà di ordine pratico – realizzare un film polemico nei confronti dell'uomo più potente e ricco d'Italia. Ma di ordine estetico: a cosa sarebbe servita l'ennesima parodia di Berlusconi? E d'altro canto, si può mettere in scena Berlusconi senza trasformarlo in parodia? Lui stesso, nei filmati di repertorio, mostra quant'è difficile essere Berlusconi rimanendo seri. Berlusconi è la storia che si ripete in farsa, la barzelletta del nostro tempo: il ridicolo che lui stesso cerca di esorcizzare a suon di barzellette tristi.
Inoltre Berlusconi è il simbolo del berlusconismo: un fardello davvero troppo pesante per un uomo solo. La deriva morale, l'involuzione culturale, la corruzione al potere, si sono visti un po' dappertutto, nel mondo civilizzato. Ma soltanto in Italia questi fenomeni si sono presentati dietro alla faccia (tosta) di un solo individuo. Al punto che riassumere, in un'ora e mezza, quello che Berlusconi ci ha fatto era un'impresa impossibile, e forse nemmeno tanto utile. Perché, come dice il Moretti-personaggio, ormai chi voleva capire ha capito, e agli altri evidentemente sta tutto bene così.

La seconda difficoltà è la croce personale di Moretti: vale a dire il dover fare, ogni tanto, un film di Nanni Moretti. Un film che i giornalisti delle principali testate si precipiteranno a descrivere, dalla prima scena all'ultima, sui quotidiani del giorno dopo. Un film destinato a essere vagliato, sviscerato, da critici non solo cinematografici, alla ricerca di slogan e tormentoni in grado di riassumere lo spirito dei tempi eccetera. Un film persino più difficile del solito, perché stavolta Moretti doveva dare conto sia della sua stagione di effettivo impegno politico coi girotondi, sia del suo ritorno al privato nell'ultimo paio d'anni.
Ricapitolando, il film doveva:
– mettere in scena Berlusconi senza fargli il verso: niente battute tricologiche, niente imitazioni;
– pagare il tributo alle campagne giustizialiste dei girotondi: riassumere quindi per sommi capi il complesso intreccio di soldi sporchi, mazzette, collateralismo politico, ecc. ecc.
– allo stesso tempo illustrare il berlusconismo, un fenomeno che va ben oltre il malaffare: l'involuzione morale ed estetica di un intero Paese.
– essere un film di Nanni Moretti, vale a dire un film dove un borghese nevrotico lotta contro le avversità sempre nuove della vita, finché in un paio di scene cruciali non compie una scenata in pubblico o non si sfoga in casa rompendo qualche oggetto domestico.

Viste le premesse, c'è da essere contenti di come il regista sia riuscito a uscirne riducendo i danni; evitando di darci sia la parodia di Berlusconi che di sé stesso. Il suo eroe-tipo si è trasformato in un produttore di B-movies in crisi coniugale; un mascheramento parziale (un po' come quando Woody Allen in Hollywood Ending si traveste da regista di kolossal) che gli consente di esprimere anche la nostalgia per un tipo di cinema meno meditato, più viscerale, veramente autarchico. Il rischio di fare di Berlusconi una macchietta è evitato con un gioco di specchi: nel film ci sono 4 Berlusconi diversi; siamo tutti Berlusconi, come in Casino Royale eravamo tutti James Bond. Morale: Berlusconi forse perderà le elezioni e i processi, ma il berlusconismo ha vinto, ci ha penetrato, ha trasformato le nostre esistenze. E su questo siamo tutti d'accordo, non importa cosa voteremo il nove aprile. Tutto bene, poteva andare peggio. Ma anche meglio.

Il paragone con Il portaborse, ad esempio, è impietoso. I protagonisti erano più giovani, la trama più solida, le aspettative meno problematiche – forse Moretti dovrebbe recitare più spesso nei film degli altri.
Il caimano, alla fine, è un film che cerca di essere tante cose senza mai crederci davvero. Per prima cosa, non è un film girotondino, sulla misteriosa ascesa finanziaria di SB. Dovendo riassumerla per sommi capi, Moretti se la cava con una serie di flash-back immaginari che sono davvero capolavori di sintesi (un mezzo minuto di sederi di ballerine riassume tutta la degenerazione televisiva degli anni Ottanta), ma che rimangono comunque parecchio in superficie (certo, forse la cosa più bella del film è il flash della cassaforte: ma è uno spunto surreale che non viene più ripreso. Peccato: un Berlusconi surreale ci manca).

Non è neppure quel film epico – che forse aveva in mente Moretti – in cui un eroe ammalato di cinema trionfa sulle avversità della vita, e riesce a girare almeno una scena del suo capolavoro. In realtà non si capisce perché Silvio Orlando ci tenga tanto, a rovinarsi col Caimano. La sceneggiatura gli interessa relativamente, e non fa neanche in tempo a innamorarsi della regista. Forse vuole soltanto dimostrare ai figli che ha un lavoro importante, organizza i set e paga un sacco di gente.

Allora è un film socio-politico sul berlusconismo della vita quotidiana? Sul modo in cui Berlusconi ci ha reso tutti più meschini e gretti? È una chiave di lettura, ma non è che apra molte porte. In fin dei conti la trama 'privata' del film è la più banale del mondo (moglie vuole lasciare marito che non vuole), e non è che il berlusconismo c'entri molto, con la rovina finanziaria e famigliare dei personaggi. Non è a causa del Caimano che Margherita e Silvio Orlando si stanno lasciando (a proposito: perché si stanno lasciando?) E i figli – che per metà del film occupano la scena ballando e saltando – questi figli stanno crescendo nevrotici e iperattivi non a causa della tv berlusconiana, ma più semplicemente perché hanno due genitori separati e altrettanto nevrotici. È vero, Placido è un viscidone riuscitissimo, ma di qui a farne l'incarnazione del berlusconismo, ce ne passa. No. Il Berlusconismo senz'altro esiste, e ha ragione il personaggio-Moretti a dire che ha vinto: ma nel film è soltanto definito, evocato, non messo in scena. E dire che Moretti questo imbarbarimento lo ha descritto, stigmatizzato, esemplificato, per quasi vent'anni (senz'altro da Bianca a Caro Diario), con una cattiveria che è stata il suo marchio di fabbrica. Paradossalmente, proprio nel Caimano di tutta questa cattiveria non c'è quasi più traccia: Moretti non è mai stato tanto gentile coi suoi personaggi quanto col suo produttore frustrato, la sua regista lesbica, la moglie emancipata, i figli iperattivi. Non sono più macchiette: sono persone. E allo stesso tempo, non sono nemmeno personaggi. Non si capisce esattamente perché stiano assieme o perché divorzino.

Insomma, Moretti – che di solito non fa passi più lunghi delle sue gambe – si è lasciato convincere, per spirito di servizio, a un'impresa troppo ambiziosa: mostrare in un film solo il volto tronfio del potere e la miseria del privato. Mettere in un solo film Berlusconi e il borghese divorziato. Il punto in cui secondo me il Caimano fallisce è proprio nel dimostrare il ruolo di Berlusconi nel fallimento del borghese divorziato. Alla fine le due storie vanno avanti per compartimenti stagni. Si poteva fare diversamente? Io, per esempio, come avrei fatto? Non lo so. Probabilmente avrei saccheggiato Jonathan Coe, che con What a carve up! (La famiglia Winshaw, 1994), ci ha dato negli ultimi anni il migliore esempio di come pubblico e privato si possano intrecciare nella stessa narrazione. Invece di affaticarsi a ritrarre la Thatcher, Coe ha selezionato alcuni aspetti in cui il thatcherismo ha dato il peggio di sé: l'involuzione culturale, la privatizzazione della sanità, il cibo-spazzatura, l'intrattenimento-spazzatura, il giornalismo-spazzatura, il traffico d'armi. Questi sei aspetti si incarnano, nel romanzo, in sei personaggi: i membri della diabolica famiglia Winshaw. Coe non intendeva descriverli come figure a tutto tondo: gli è bastato tratteggiarli come villain dickensiani; quello che gli premeva è mostrare come le scelte prese da questi sei fantocci abbiano effetti indiretti, ma concreti e tragici, nella vita quotidiana dei personaggi del romanzo. C'è chi muore in un ospedale privatizzato, chi perde contatto con la realtà a causa del vhs.

E allora: io, dovendo ri-scrivere il Caimano, metterei in chiaro una cosa che Moretti non dice mai: quel cinema viscerale e strampalato che oggi non si fa più, non si fa più anche perché in ogni casa ci sono tre canali di Berlusconi – ed ecco che il protagonista avrebbe un vero motivo esistenziale per prendersela con lui. Farei dei suoi due figli due insopportabili berluschini, ipnotizzati dalla tv, pronti a pestare i piedi appena l'allenatore li tiene in panchina. Farei di sua moglie una quarantenne frustrata che cerca di aggrapparsi ai modelli femminili delle riviste patinate. E in mezzo a tutto questo metterei un po' di Caimano che prende decisioni, qui ci mettiamo un ripetitore, qui una televendita, qui una depenalizzazione, qui un attacco a due punte. Quelle piccole grandi decisioni che probabilmente ci hanno rovinato la vita. Io farei questo. Ma d'altronde, perché dovrei mai infilarmi in un guaio del genere? Insomma, onore al merito. Un film irrisolto è quasi sempre meglio di nessun film.

(Stanotte sognerò chele d'aragosta).
Comments (7)