Il mio Cyrano

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Vorrei poter ricordare un suo grande film, ma non ce ne sono ed è una cosa che non sono mai riuscito a spiegarmi, un mistero la cui soluzione è magari banalissima ma fuori dalla mia portata. Così per quanto imbarazzante devo ammettere che per me Gigi Proietti è stato per prima cosa il presentatore di Fantastico 4, varietà autunnale di Enzo Trapani su Rai1, abbinato nel 1983 alla Lotteria Italia. Questa cosa non la ricorderanno in molti, del resto non fu nemmeno un successo; anzi un discreto disastro visto che la per la prima volta Rai1 perse la sfida del sabato sera contro il varietà più convenzionale di Canale 5, Premiatissima. Io avevo dieci anni e sentivo che qualcosa stava succedendo; notavo che uno dopo l'altro i miei compagni smettevano di seguire il Primo Canale e passavano a quell'Entità che stavo già cominciando a considerare il Nemico, se non altro perché insisteva a interrompere i cartoni con la pubblicità. Io invece imperterrito il sabato sera guardavo Fantastico e non mi costava nessuna fatica stare fuori dal gregge, perché a me piaceva Proietti. Piazzato lì tra un giochino e un balletto, veniva visibilmente da un altro mondo e ne era ben fiero, e io con lui. Ogni tanto riciclava un suo sketch, roba vecchia ma non per me, per me il mondo era appena iniziato. 

Da cui l'angosciosa domanda: ai decenni di oggi, può capitare la stessa fortuna? Ammesso che ci sia in giro gente brava quanto Proietti – ovviamente nei loro campi, che sono diversi da quelli che erano importanti quando ero bambino io, per cui non pretendo di capire se in giro c'è qualcuno altrettanto bravo a fare la sua cosa quanto Proietti era bravo a fare la sua. Spero proprio che ci sia, ma anche in questo caso: come fa un bambino di dieci anni a trovarlo, sul digitale terrestre o su youtube o tictoc od ovunque sia? A me Proietti arrivò per un capriccio dei palinsesti, l'effetto collaterale di un esperimento sbagliato; da lì in poi la Rai capì che non era la direzione giusta, chiamò Baudo a blindare il varietà nazionalpopolare e gli anni '80 proseguirono nel modo in cui preferiscono tutti ricordarli. Nel frattempo però io avevo visto Proietti: e avevo scoperto che mi piaceva di più. 

Appena tornò in tv, mi ci appiccicai: e questo fu il regalo più bello che mi fece Proietti, e in generale uno dei migliori che mi fece la tv, perché ci tornò con il Cyrano de Bergerac; non una versione televisiva, ma proprio il testo di Edmond Rostand, recitato con gli allievi del suo laboratorio. Un'altra cosa che non fu un successo: per quanto ho potuto appurare, di solito i ciraniani italiani si dividono in quelli che si ricordano Modugno e quelli che si ricordano Depardieu; per me invece Cyrano è Proietti, e Proietti è Cyrano. E Cyrano ovviamente è lo spirito guida di ogni preadolescente che l'abbia visto al momento giusto: a me è successo, grazie a Proietti. Probabilmente se lo rivedessi ora troverei i suoi allievi ancora un po' legnosi (come è giusto che fosse), e lui fin troppo debordante (come Cyrano d'altronde dev'essere). Ma sulle teche Rai non c'è, maledizione. 

Da cui il ritorno dell'angoscioso interrogativo: come faranno i ragazzini di oggi a capire quanto è bello il Cyrano di Bergerac e quanto sia necessario punzecchiare i De Guiche, sostenere i Cristiani e rinunciare alle Rossane? Magari non lo impareranno mai, magari non era affatto importante. Ogni generazione ha i suoi miti e i suoi sistemi di valori; è solo la ristrettezza del nostro punto di vista a suggerirci che il nostri fossero migliori. Proietti è stato un regalo per me, tra il 1983 e il 1986; in seguito l'ho perso un po' di vista, ma non riesco a credere che chi sia cresciuto col Maresciallo Rocca in tv abbia avuto lo stesso regalo che ho avuto io; quanto a quelli che da vent'anni in tv si trovano davanti il Grande Fratello e Ballando con le Stelle, beh capisco che preferiscano altri media, altri contenuti, e spero davvero che li trovino e che siano importanti e formativi come furono i miei. Devo sforzarmi di pensare che potrebbero esserlo; non devo essere schiavo del mio ristretto e fugace punto di vista, non devo trasformarmi in un querulo laudator temporis acti che Proietti irriderebbe in uno sketch. 

Ma non credo di riuscirci. Per quanto mi sentirete affermare il contrario, tenetevelo per detto: dentro di me una voce proclama che io ho avuto la migliore formazione possibile: ho avuto Rodari e Calvino e poi Eco; e in tv pure al sabato sera poteva persino capitare un Proietti. Ho visto un Cyrano integrale a dodici anni, certo non per merito mio: posso solo ringraziare. Grazie. 

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Il santo che perse la testa (a causa di una ragazzina!)

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29 agosto - San Giovanni decollato (1-30 ca.)

Infanzie devastate da materiale audiovisivo discutibile.
[2013]. Giovanni Battista è l'unico santo di cui festeggiamo sia il compleanno (24 giugno) che il martirio (oggi). Io per la verità da bambino pensavo che il Giovanni Decollato fosse un santo omonimo che avevano ammazzato buttandolo dalla finestra.

Invece Giovanni, come tutti sanno, fu decollato nel senso che gli staccarono la testa dal collo: un supplizio violento ma che esprimeva una considerazione per lo status della vittima; la crocifissione invece era una cosa da schiavi. A metterlo a morte fu Erode Antipa, tetrarca della Galilea satellite di Roma. Su questo le fonti concordano. Purtroppo le "fonti" sono i vangeli e l'ebreo romanizzato Giuseppe Flavio. Quest'ultimo dovrebbe essere un po' più affidabile, ma le sue Antiquitates Judaicae sono state interpolate per secoli, da copisti cristiani anche in buona fede, a cui sembrava impossibile che un cronista ebreo del primo secolo si facesse sfuggire notizie su Giovanni Battista e Gesù Cristo - così le aggiungevano loro, toh, ecco, adesso sì che è un testo completo. Quindi non è sicuro che Flavio abbia mai veramente scritto qualcosa su Gesù o Giovanni. Senz'altro non erano al centro del suo interesse: lui parla di politica, guerre, dinastie, e poi ogni tanto ci sono questi predicatori che fanno un po' casino, ma niente su cui valga la pena di imbastire un capitolo. Nelle Antiquitates si accenna a Giovanni come "un uomo buono che esortava i Giudei a una vita corretta, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, e così facendo si disponessero al battesimo". Questo sarebbe bastato al sospettoso re per incarcerarlo e, in un secondo momento, farlo ammazzare.
Un'eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché pareva che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa facessero. Erode, perciò, decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione, piuttosto che aspettare uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile da pentirsene.
Condannato a morte perché parlava bene. Non che non sia plausibile, da quelle parti, almeno in quel periodo, però è veramente troppo vago. Cosa avrebbe detto il battista di così pericoloso per l'ordine costituito? I vangeli di Marco e Matteo ci forniscono un'ipotesi ragionevole: Giovanni avrebbe protestato contro il matrimonio di Erode con Erodiade. "Non ti è lecito tenerla". E in effetti prima di stare con Erode, Erodiade era stata sposata col di lui fratello, che aveva litigato col padre Erode il grande e si era trasferito a Roma. Inoltre era figlia di un altro fratello di Erode, il maggiore, Aristobulo; anche lui caduto in disgrazia presso Erode il grande e fatto ammazzare. E se tutto questo vi pare un po' incestuoso, considerate che la mamma di Erodiade era una cugina di Aristobulo. L'endogamia della famiglia erodiana era tipica di altre dinastie regali del Medio Oriente, dai faraoni in poi, ma non degli ebrei. E in effetti gli Erodi erano ebrei sui generis: venivano da una regione di confine (l'Idumea), e malgrado Erode il grande avesse sposato una principessa di stirpe maccabea, molti sudditi li consideravano ebrei posticci, pedine dell'imperialismo romano. Criticare un tetrarca per i suoi costumi incestuosi poteva, insomma, avere un significato politico.

Miley Cirus scostati, questo è un lavoro per Brigid Mary Bazlen.
Infanzie che volevano vedere un film su Gesù al cinema parrocchiale, messe davanti alle anche di Brigid Mary Bazlen.
Un altro motivo per diffidare dei resoconti evangelici è che quando si voltano indietro a ricordare il martirio di Giovanni, la buttano in fiaba. Marco e Matteo sono due scrittori asciutti, ma entrambi all'improvviso sembrano voler abbassare le luci e atteggiarsi a Shahrzad, tutta un'atmosfera da corte orientale che non c'entra niente con quel che viene prima e dopo, miracoli e prediche per strade polverose. I dettagli sono universalmente noti: Erode che imprigiona Giovanni ma lo teme, Erodiade che invece lo vuole morto e per ottenerne la testa manda avanti la figlia Salomè, la danza dei sette veli, chiedimi tutto quel che vuoi, eccetera. Tutto sembra modellato sulla storia biblica di Ester, la moglie ebrea di Assuero scià di Persia. Durante un banchetto, accecato dalla sua bellezza, Assuero (Serse?) le promette che le regalerà qualunque cosa lei chieda, qualunque: anche metà del suo impero. Ester si accontenta di far ammazzare il nemico del suo popolo, l'antisemita ministro Aman, che aveva già preparato un pogrom per il mattino seguente. (Anche Erodoto attribuisce un aneddoto del genere a Serse il grande, ma la moglie nel suo caso si limita a chiedere la testa dell'amante).

Maud Allan, la prima Salomè in scena.
Maud Allan, la prima Salomè in scena
Ester però è un personaggio assolutamente positivo, l'eroica patriota che mentre si trucca e si tira da urlo per lobbizzare il marito non cessa di pregare per le sorti del suo popolo minacciato nella sua stessa esistenza. L'Erodiade dei vangeli viceversa è una malvagia principessa orientale, disposta a usare la figlia come un'esca per manovrare gli impulsi incestuosi del marito. La danza dei sette veli, che Oscar Wilde voleva far ballare a Sarah Bernhardt, ma poi il testo fu accusato di blasfemia e lei strappò il contratto, nei vangeli non c'è. Non è chiaro da che punto in poi qualcuno decise che Salomè dovesse togliersi sette veli. Potrebbe essere un'antica reminiscenza di Ishtar, la dea babilonese dell'amore e della fertilità che quando va sottoterra a trovare la dea avversaria Ereshkigal deve passare sette cancelli e togliersi sette vestiti - finché non resta nuda. Ma del mito è rimasto soltanto un motivo narrativo, riutilizzato in chiave romanzesca. Quello che Erode Antipa promette a Salomè, che Serse prometteva alle sue mogli, è il cosiddetto "don contraignant": una promessa in bianco che impegna un sovrano a fare qualunque cosa, compresa ovviamente qualcosa di cui il sovrano si pentirà immediatamente. Diventerà un motivo tipico della letteratura cavalleresca, soprattutto nel ciclo bretone, dove spesso i cavalieri sono costretti a fare cose molto stupide perché l'hanno promesso senza saperlo. Salomè, lo sappiamo tutti, chiede la testa di Giovanni su un piatto d'argento, e su tutto è questo dettaglio di decadente cinismo a farci sentire a miglia di distanza dal resto dei vangeli. Erode è sconvolto: anche in catene il profeta gli fa paura, da martire poi sarà sicuramente foriero di sciagure, ma ha promesso: e ogni promessa è un debito. Verrà sconfitto in guerra, morirà in esilio. Anche di Salomè si raccontano morti orribili, in cui di solito le capita di perdere la testa, ad esempio incastrandosi in un lago ghiacciato. Quanto a Giovanni, darà vita a una importante produzione di teschi reliquia: ce n'è una a Roma (ma la mascella è a Viterbo), una a Istanbul, a Monaco di Baviera, a Damasco, ce n'era anche una poco lontano, ad Antiochia, un'altra ad Amiens bottino della quarta crociata, una a Kent. Di ossa e frammenti d'ossa ce n'è praticamente dappertutto.

HO BACIATO LA TUA BOCCA, IOKANAAN. HO BACIATO LA TUA BOCCA.
HO BACIATO LA TUA
BOCCA, JOKAHAN.
Si parlava di Oscar Wilde. La sua Salomè, la fanciulla assetata di sangue di martire, è uno dei suoi personaggi più memorabili. Per darle forma scelse il francese, che amava ma non maneggiava alla perfezione. Quanto alla traduzione in inglese, si affidò all'amico del cuore, Lord Alfred Douglas, che ne aveva recensito con tanto entusiasmo l'originale nel 1891, ai tempi del loro primo incontro. C'era solo il piccolo problema che Douglas non era un bravo traduttore, la sua versione era disastrosa. Wilde non sapeva come dirglielo senza offenderlo, l'altro del resto decise di offendersi comunque, è colpa tua che in francese non ti spieghi bene ecc. ecc.. Beardsley, l'illustratore (a cui si deve gran parte del successo), racconta di un traffico incessante di fattorini e telegrammi, non c'erano ancora gli sms per litigare ma nella scena letteraria decadentista ne esisteva già la necessità. Alla fine la traduzione fu rifatta, forse da Wilde forse no; il nome di Douglas fu tolto dalla copertina, ma all'interno una dedica di Wilde lo accreditava come traduttore. Douglas apprezzò, in fondo è volgare il nome in copertina, la dedica invece fa fine. L'anno dopo il padre di Douglas riuscì a far sbattere Wilde in carcere: era ancora rinchiuso quando finalmente Salomè debuttava a Parigi, senza la Bernhardt. Wilde a Douglas voleva bene, questo non si discute: ma così bene da affidargli il suo libro, il suo nome? Chiedimi qualunque cosa, qualunque cosa, la testa del mio superego su un piatto d'argento, eccola: ma non di tradurmi un libro, per favore, no, quello no; è mio, c'è il mio nome sopra, potrebbe sopravvivermi, e tu scusami sei tanto carino ma tradurre è roba da professionisti. Io gli avrei risposto così. Ma io non ho mai amato Lord Douglas, evidentemente.
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Fo era un grande, Fo era un grillino, Fo era brechtiano (e Dylan no)

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Contrariamente a quanto molti pensano,
lo strumento che si vede nella foto
non serviva a suonare musica, ma
a scrivere parole su un foglio.
Possiamo voler bene a Fo anche se negli ultimi anni era grillino? Gli possiamo perdonare questa patetica avventura senile, così come possiamo e dobbiamo perdonargli di essersi arruolato a 17 anni nei repubblichini per evitare l'internamento? A me piacerebbe tanto rispondere di sì, che possiamo. Gli anziani spesso perdono i punti di riferimento, ma non per questo smettono di meritare il rispetto che si sono conquistati con una vita di lavoro. Dario Fo ha lavorato tanto per noi: ci ha reso tutti migliori, anche se non ci fermiamo troppo spesso a rifletterci (certe cose che faccio oggi, e mi divertono immensamente, come la rubrica dei santi del Post: non sono affatto sicuro che avrei mai potuto pensarla o farla senza Dario Fo), e quindi se alla fine è stato raggirato da una banda di cialtroni, pazienza. Potremmo chiuderla così. Invece - indovinate - la questione è più complessa.

Mettiamola così: io non ci sto a invocare qualche forma di infermità senile per l'anziano Dario Fo. Quando decise di seguire Grillo e i suoi, per me era ancora perfettamente in grado di capire e comprendere: era ancora lo stesso Dario Fo di Mistero Buffo. Non vedo contraddizioni, anzi vedo una profonda coerenza di fondo. Fo era grillino molto prima che arrivasse Grillo; possiamo dire che lo era dal medioevo. Per dimostrarlo prendo un libro a caso.

A fine anni '90, grazie a una pazza idea dei giurati di Stoccolma che potevano leggere le sue commedie tradotte in svedese (altri scrittori italiani che ritenevamo più importanti non erano stati tradotti) Fo diventa all'improvviso un Venerato Maestro.

APERTA PARENTESI

Con tutto il bene che voglio a Bob Dylan, e a tutti i brutti dischi che mi ha fatto ascoltare (nessuno ha mai fatto tanti dischi brutti come Dylan), con tutto il sollievo che provo perché per una volta hanno premiato uno che un po' conosco, devo dire che per me il Nobel alla letteratura più pazzo di tutti, quello che mi ha dato più soddisfazioni, continua a sembrarmi quello a Fo.

Dylan farà brontolare ancora un po' i benpensanti di ogni età, quelli con l'estetica a compartimenti stagni ("letteratura", "musica") che non si capisce neanche esattamente dove se la siano formata: cioè non puoi neanche dare la colpa al liceo gentiliano, o a un Benedetto Croce; nemmeno loro la mettevano giù tanto scema. Più probabilmente hanno in testa i reparti di una libreria, di un multistore: i testi di Dylan non sarebbero "letteratura" perché non stanno in quello scaffale, più che autonomia/eteronomia dell'arte dev'essere una questione merceologica, di inventario.

Con Fo è diverso. Faceva teatro - che è una branca della letteratura più o meno da Eschilo - e non si può neanche dire che non si affidasse alla parola scritta: cioè è vero che improvvisava, ma i testi teatrali suoi e della Rame sono tutt'altro che canovacci: sono dialoghi assolutamente scritti, di buona qualità - e nessuno aveva protestato per George Bernard Shaw o tanti altri. No, il problema con Fo era un po' più sottile. C'è qualcosa in lui che non riusciamo a ridurre a "letteratura", in un senso della parola "letteratura" che non è chiaro nemmeno a noi: e non sono le boccacce o il grammelot. Credo che sia un po' lo stesso problema di Brecht. Fo è un autore a suo modo brechtiano, e quello che fa Brecht non è più, in senso stretto, "letteratura". Forse ancora negli anni Cinquanta, ma in seguito il reparto si è ristretto. Abbiamo deciso, per esempio, che la politica non c'entra, sta in altri scaffali. Ma Brecht la politica la voleva fare. Galileo e Madre Coraggio sono testi che non si limitano a descrivere il mondo: lo vogliono cambiare. Non stanno al loro posto, non si accontentano di gareggiare in un'ipotetica serie A del consumo letterario che peraltro è stata formalizzata qualche decennio dopo da una branca commerciale di qualche casa editrice.

Con Fo succede la stessa cosa. Marino libero, Marino è innocente! è un bel monologo? Non lo so. Quel che mi è ben chiaro, dopo averlo visto, non è la qualità letteraria del testo, ma il fatto che Marino sia, perlappunto, innocente. Si può apprezzare un testo del genere se invece sei sicuro che Marino sia colpevole? Un fascista può apprezzare Brecht? Secondo me no. Al limite ci sarà un equivoco, ma Brecht non è un autore che si lasci così liberamente interpretare. Ha lasciato note di scena ben precise, non puoi interpretare il Galileo come una difesa di Galileo o addirittura della Chiesa cattolica: non funziona.

Con altri scrittori non succede questo - non è previsto che succeda. Non devo condividere l'ideologia di Hemingway - ammesso che ne abbia una - per amare Hemingway. Non devo coindividere le idee politiche di Montale, non devo condividere le convinzioni di Rushdie, e nemmeno quelle di Bob Dylan. Ma non potevo uscire da uno spettacolo di Fo dicendo "mi è piaciuto ma non mi ha convinto". Se non ti ha convinto, non ti è piaciuto. Non è letteratura nel senso che gli abbiamo dato negli ultimi anni: forse è propaganda. In ogni caso la faceva benissimo. Ma a questo punto, di nuovo, si pone il problema: gli possiamo perdonare di essere diventato grillino? Perché non è stato un equivoco, lui nel grillismo ha visto qualcosa che aveva inseguito per tutta la vita. Come stavo perlappunto per mostrare prima di aprire questa parentesi che adesso chiudo.

CHIUSA PARENTESI

A fine anni '90, grazie a una pazza idea dei giurati di Stoccolma che potevano leggere le sue commedie tradotte in svedese (altri scrittori italiani che ritenevamo più importanti non erano stati tradotti) Fo diventa all'improvviso un Venerato Maestro. Potrebbe ritirarsi o ripetere i vecchi numeri approfittando del rilassamento della censura, e invece si butta in altri progetti. Lavora molto. Si interessa soprattutto a uno dei periodi meno conosciuti della nostra Storia, la tarda antichità. Il progetto multimediale La vera storia di Ravenna (1999) prelude ad analoghi spettacoli dedicati al duomo di Modena, ad Ambrogio e ad altre cose che sicuramente mi sono sfuggite; però già nel '99 in quel libro Fo non si limita a raccontare la città che lo ospita: sono due secoli di Storia che riscrive, approfittando del fatto che non li conosce nessuno.

Il libro è completamente disponibile on line: è una lettura facile e godibile (era uno spettacolo per le scuole, questo fanno gli scrittori brechtiani: mentre voi vi affannate a leggere Roth o ascoltare Dylan, occupano le scuole e vi rovinano i fanciulli), ed è assolutamente in linea con quello che Fo aveva fatto prima, ma anche con quello che ahinoi appoggerà dopo. C'è l'amore per il popolo, unico vero motore della Storia: c'è tutta la curiosità del lettore operaio di Brecht, che vuole sapere se Giulio Cesare avesse un cuoco. E poi c'è questa cosa folle che vi vado a mostrare: la scoperta di un eroe proletario nell'Italia disastrata del sesto secolo. Nientemeno che Totila, re dei Goti. Approfittando di due o tre accenni a una riforma fondiaria che Totila aveva avvallato per rifondare il suo esercito, Dario Fo descrive una scena che col senno del poi assume una valenza ben più inquietante di quella che aveva a fine anni '90 (ai quei tempi al massimo ci si diceva vabbe', Cristo e morto, Marx è morto, e Fo si mette a cercare un Che Guevara nella Storia dei Goti).


  



La riforma fondiaria di Totila non ebbe un grosso seguito: vuoi per la peste che colpì di lì a poco la penisola, decimandone gli abitanti (e rendendo una riorganizzazione del territorio in qualche modo necessaria); vuoi perché dopo tante brillanti vittorie che Fo racconta con l'entusiasmo del militante, Totila viene sconfitto e i suoi seguaci crocefissi. Però per Fo l'importante è che ci sia stata: che abbia preso l'esempio da una rivolta avvenuta poco prima in Palestina, e che abbia passato il testimone ad altre rivendicazioni, altre lotte avvenute poco dopo nei territori Bizantini. Totila non è morto, Totila lotta insieme a noi - Fo non lo scrive, ma vuole che uscendo di teatro noi un po' lo pensiamo. In seguito vedrà nel Duomo di Modena l'opera di un popolo che non vuole essere eterodiretto da papi o imperatori, e dipingerà Sant'Ambrogio come l'eroe del popolo di Milano, un non battezzato che diventa vescovo per acclamazione. Si tratta di operazioni propagandistiche molto più spinte di quelle che i Wu Ming stanno facendo nello stesso periodo. Fo riscrive la Storia dal basso - gli storici ovviamente storcono il naso ma non è a loro che evidentemente Fo guarda. Fo sta cercando e proponendo dei modelli, un po' perché quelli del Novecento ormai sono inutilizzabili, un po' perché è quel che ha sempre fatto, dai tempi di Lisistrata e Mistero Buffo.

Un passo oltre: in quel re barbaro che convoca i servi della gleba, gli propone di abolire il feudalesimo della Casta e confessa "abbiamo poca esperienza", non vi sembra di riconoscere qualcuno? Un Fo che era disposto a farsi andar bene personaggi come Totila o lo stesso Ambrogio, perché non avrebbe dovuto salutare con gioia l'avvento di Grillo e dei suoi uomini inespertissimi? Il movimento del Vaffanculo, Fo lo stava aspettando da una vita. Era stata la voce che lo chiamava dal deserto del Novecento. E a questo punto la palla torna a noi. Ci piaceva Fo, ovvero: ci piaceva una persona che il grillismo lo ha immaginato, lo ha cercato qua e là nei secoli più bui della nostra Storia, lo ha finalmente visto in Grillo e nei suoi. Possiamo anche raccontarci che la situazione sia molto più complessa, ma non è così. Possiamo stabilire che che Fo ci piaceva in quanto geniale propagandista di una cosa che in realtà non funziona, ma è un'operazione un po' fredda. Se davvero ci piace Fo, dobbiamo accettare che c'è qualcosa del grillismo che tutto sommato non ci dispiace: e decidere, di conseguenza, se vogliamo rimuoverla o mantenerla dentro di noi. Almeno per me è così
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Un genio incompatibile (e il suo sceneggiatore)

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Steve Jobs (Danny Boyle, ma soprattutto l'ha scritto Aaron Sorkin, 2015).

Abbiamo mezz'ora e il copione, pardon, intendevo il software,
 è tutto da riscrivere.
Se fosse nato nel Quattrocento, avrebbe fatto l'artista. Avrebbe fatto impazzire tutti i committenti progettando per anni una statua equestre costosissima e irrealizzabile, i cui bozzetti però sarebbero ancora nei musei. Se fosse nato negli anni Quaranta avrebbe formato la sua band - senza saper suonare uno strumento e litigando con tutti i colleghi, ma creando una nuova dimensione musicale fatta di tante cose rubacchiate in giro. Se fosse nato negli anni Cinquanta e si fosse trovato nella Silicon Valley al momento giusto, si sarebbe improvvisato inventore di computer costosi che funzionano benissimo finché non li colleghi a nient'altro. Se invece fosse nato nei Sessanta avrebbe potuto scrivere per il cinema e la tv, costringendo i registi a inventare uno stile tutto per lui e rifiutando di riconoscere i contributi dei colleghi - finché non avrebbe litigato col network, licenziandosi o facendosi licenziare, e meditando immaginosi piani di vendetta.

Questo è Aaron Sorkin, acclamato drammaturgo e sceneggiatore di The West Wing, The Social Network e... no, scusate, questo è Steve Jobs. Ma è anche un po' Sorkin, che ha preso l'immensa biografia di Jobs e ne ha ricavato qualcosa di assolutamente personale e incompatibile con qualsiasi altro film nelle sale; un dramma in tre atti, ambientato nei backstage di tre teatri diversi. Sono pochi i film che ti fanno pensare: chissà come renderebbe su un palco. Steve Jobs sembra pensato apposta per una messa in scena alla vecchia maniera sperimentale: niente sipario, gli attori cominciano a parlare di quello che deve andare in scena, e lo spettacolo consiste in questo. Lo stesso regista Danny Boyle, un po' meno frastornante del solito, sembra aver fatto qualche passo indietro di fronte all'evidenza: Steve Jobs è una questione privata tra Aaron Sorkin e il suo (alter)ego.

Lisa questo è Mac, Mac questa è la tua sorellina, ora
disegnate un po' coi pennarelli e non rompete le palle a papà.
Steve Jobs non è il primo film biografico che taglia fuori gran parte della vita del suo personaggio per concentrarsi soltanto su pochi episodi; è l'evoluzione estrema di una tendenza che a Hollywood negli ultimi dieci anni ha dato soddisfazioni sia a chi vende i biglietti che a chi li compra. Ma di tutto quello che poteva scegliere di raccontare, Sorkin ha scelto con cura proprio quei momenti in cui il manager geniale potrebbe essere l'autore di un dramma che sta per andare in scena: i cancelli stanno per aprirsi, il pubblico per entrare, ma dietro le quinte c'è qualcosa che non va, c'è sempre qualcosa che va risolto all'ultimo momento. Un dialogo da cambiare, un dipendente mediocre da torchiare, un collega che vuol essere ringraziato quando sai che non se lo merita, i parenti con le loro beghe da parenti. Sorkin non è Steve Jobs, ma Steve Jobs è il Ritratto dello Sceneggiatore nei panni del Genio del Computer (continua su +eventi!)
"RICONOSCI LA MIA IMPORTANZA!" "AMMETTI LA TUA SUBALTERNITA''!"
Anche a Sorkin non interessava tanto la tecnologia digitale, né la generazione che l'ha immaginata, quanto il "comeback", l'odissea di un manager che viene scaricato dalla sua stessa azienda e poi torna e si vendica. È una parabola banale - la stessa descritta più convenzionalmente nel biopic di due anni fa - ma terribilmente congeniale all'autore che dopo aver divorziato da The West Wing non è mai riuscito a guardare una puntata della nuova gestione, e ha continuato a raccontarci storie di comeback. L'autore e il produttore di Studio 60, l'anchorman di Newsroom, sono tutti eroi caduti che tornano sui loro passi cercando di riprendersi quello che si meritano. Lo Steve Wozniak del film (Seth Rogen), che continua a chiedere a Jobs di essere ringraziato pubblicamente, più che all'inventore dell'home computer somiglia a Rick Cleveland che si sente umiliato perché Sorkin non riconosce che l'episodio che ha vinto l'Emmy era una sua idea. E così via.
Sorkin non ha mai rifiutato l'autoreferenzialità, ma nelle serie tv almeno la disperde su più personaggi, coinvolgendoci in scene corali che ci fanno dimenticare come tutti i colori provengano dallo stesso prisma. Stavolta il coro non c'è: sulla scena Fassbender è solo. La Winslet, ovviamente ottima, non è che l'appendice del protagonista, necessaria a far risaltare il suo ego. Jeff Daniels ha a disposizione pochi minuti, lungo tre atti, per evocare un tortuoso complesso di Edipo - del resto è un Sorkin formato cinema, tutti camminano e parlano come indiavolati. La versione italiana sarà probabilmente un macello, quella coi sottotitoli va bene se invece di guardare il film vuoi leggerti i sottotitoli.

E quindi? Chi voleva vedere un film sull'inventore della Apple, potrebbe restarci male - e sarà la seconda volta in due anni. Se invece interessa l'opera di un talento individuale che voleva specchiarsi in un altro talento e raccontarci com'è difficile essere grandi in un mondo di mediocri, Steve Jobs è il pilota di una serie che butteremmo giù tutto d'un fiato, e uno straordinario dramma in scena stasera anche al Cityplex di Alba (19:45, 22:10); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); al Vittoria di Bra (21:30); al Fiamma di Cuneo (21:10); ai Portici di Fossano (18:30, 21:15); al Politeama di Saluzzo (15:30, 17:45, 20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:15, 22:30).
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Il lungo e folle volo di Iñárritu

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Questa per esempio non si sarebbe potuta mai fare,
perché è troppo scura - non c'erano luci se non
quelle su Broadway
Birdman, o l'imprevedibile virtù dell'ignoranza (Alejandro González Iñárritu, 2014)

Ma guarda che cesso di posto. Chissà se qualcuno viene mai a spolverare questo buco di merda. Come siamo arrivati fin qui, Alejandro?
Noi non apparteniamo a questo posto. Perché non siamo a LA a bere ginger ale su un terrazzo mentre leggiamo copioni drammatici sui destini incrociati di persone qualsiasi? Cristo Alejandro, c'era una sola cosa al mondo che sapevi fare bene, e te la stai fottendo, lo sai vero? Ti stai fottendo la carriera, sapresti dirmi per cosa esattamente?
"Mr Iñárritu quando vuole uscire siamo pronti a girare".
Non ascoltarli. Lo sai che mentono. Non sono pronti e lo sai benissimo. Non saranno  mai pronti per questo film, perché questo film è impossibile da girare e tu lo sai, come lo so io. Chi ti credi di essere, alla fine?

 Non è che non apprezzi, è che la cosa meritava
 secondo me un maggiore approfondimento,
magari uno spin off, una serie tv in due o tre stagioni.
Senti, io ti conosco da così tanto tempo, e te lo devo proprio dire. Sono l'unico che ti vuole bene qui dentro. L'unico. Gli altri hanno paura di te, o sperano in te come un naufrago spera in un canotto anche se ha già visto che è forato. Ti diranno tutti che sta andando tutto bene, che il film funziona, che l'idea è geniale, e non è vero un cazzo. L'idea è irrealizzabile e loro hanno una paura fottuta di sbagliare. Il tuo protagonista non fa una parte importante da vent'anni, e anche a quel tempo usava una maschera. Ma almeno è riuscita a tenersela per un sequel. Sempre meglio di quello giovane, che non è più giovane da un pezzo, ed  riuscito a farsi cacciare a calci pure dall'universo cinematico Marvel, ti rendi conto? Sai cos'ha fatto di importante negli ultimi dieci anni? Il re lebbroso, anche lui rigorosamente mascherato. Lo capisci che sono fantasmi, vero? Gente di cui ci stiamo tutti dimenticando il volto? È con questa gente che ti stai riducendo a lavorare, Cristo, tu hai ancora il numero di Brad Pitt in rubrica e invece lavori con Naomi Watts. Sai cosa faceva Naomi Watts nell'ultimo suo film? La nonna. Ora dimmi di chi è l'idea di farle baciare Andrea Riseborough, la cosa più gratuita che ti ho mai visto girare - coraggio, dimmi che non l'hai fatto per il panico, per avere almeno qualcosa di stuzzicante da mettere nei trailer, dimmi che non hai piazzato un bacio lesbo inutile perché hai la paura fottuta che questo film non se lo guardino nemmeno i critici in copia di valutazione (continua su +eventi!)

Ma cosa c’è che non va, Alejandro? Con Biutiful hai incassato un quinto di Babel, sarà questo? Non ha nessuna importanza finché hai ancora un piede a Hollywood. Ma quel piede devi tenercelo sul serio. Devi fare le cose che sai fare, le cose che la gente si aspetta. Destini incrociati, montaggi serrati, la gente vuole il dramma ma soprattutto vuole saltare di scena in scena senza troppe menate. Sono bambini iperattivi, anche se si danno arie d’adulti. Si stancano subito, non lo vedi che a metà proiezione si mettono a twittare? Cosa pretendi da loro, un piano sequenza di due ore? chi cazzo ti credi di essere, Sokurov?



Signori qui se qualcuno sbaglia una battuta tocca rifare una ripresa di dieci minuti.

Perché non ti rassegni a mettere la maschera che ti sei fatto? La gente vuole quella. La gente ha bisogno di maschere, sono comode. Si riconoscono da lontano. Perché vuoi provare a fare cose che nessuno sa ancora come fare? Cosa ti porta verso il disastro esattamente? Non puoi accettare di essere Iñárritu, il regista messicano dallo stile abbastanza riconoscibile? Stai girando un film per chi, esattamente, qualche milione di palati raffinati in tutto il mondo la cui sola preoccupazione è dove andranno a mangiare dopo la proiezione? Credi che a qualcuno di loro gliene fotta realmente qualcosa di te? E diciamocelo in faccia, Alejandro, non lo fai per amore dell’arte. Lo fai perché vorresti essere nei manuali di Storia del cinema, vorresti essere davvero Qualcuno. Come se non ci fosse là fuori un mondo pieno di gente che lotta all’ultimo sangue per essere Qualcuno – ma per te nemmeno esistono. Accadono cose continuamente, in luoghi che tu sei fiero di ignorare, e in quei luoghi tu sei già stato completamente dimenticato. Stai facendo tutto questo perché l’idea di non importare più a nessuno ti spaventa a morte, come chiunque altro, e sai cosa? Hai ragione. Non importi più a nessuno. Non sei nemmeno qui. Non sei che un puntino minuscolo sull’ultimo foglio di carta igienica su cui è tratteggiata la storia dell’umanità. Se pensi che il tuo suicidio professionale sia uno spettacolo artisticamente rilevante, perché non vai davanti al tuo pubblico di figuranti e non ti spari direttamente un colpo in testa?

“Mr Iñárritu, mi ha sentito?”.
“Arrivo, arrivo”.
(Birdman era un film impossibile da fare, finché Iñárritu e tutti gli altri non lo ha fatto e adesso è uno dei più bei film degli ultimi anni, che vale assolutamente la pena di andare a guardare, stasera, al cinema Fiamma di Cuneo alle 21:10).
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Un Amleto in meno a Bangkok

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Se pensi a chi entra per vedere il suo bel faccino
Solo Dio perdona (Nicolas W. Refn, 2013)

(Ci sono alcuni spoiler, tanto non è che sia questo gran film).

Ryan Gosling è uno sfigato. No, in realtà Ryan è sempre il grande attore e sex simbol che conosciamo, sempre più ieratico. Stavolta però interpreta uno sfigato figlio di mammà, che per le strade di Bangkok-Pericolosa dovrebbe vendicare l'assassinio del fratello, ma le prende soltanto. Ne prende veramente tante: malgrado il trailer cerchi di vendervi un film d'azione in cui Gosling si fa strada spaccando facce ai cattivi, nell'unica vera colluttazione non riesce ad assestare un pugno che è uno; finisce per suscitare tenerezza mentre si fa pestare a sangue da un poliziotto in pensione. Considerato che Ryan gestisce la palestra di boxe thai che fa da copertura alle attività criminose della sua famiglia, e si atteggia per tutto il film a esperto di combattimenti, misurate la spaventosa entità della sua figura di merda.

Questo è il tipo di film che Gosling si sceglie ultimamente. Non lo obbliga nessuno, ormai, è Ryan Gosling, se solo volesse secondo me potrebbe fare un supereroe o un pirata dal cuore d'oro o qualsiasi altra cosa - al limite anche l'insegnante eroinomane come ai vecchi tempi, secondo me adesso la gente farebbe la fila per vedere di nuovo un insegnante che fuma crack nel tempo libero o il self-hating jew di The Believer. E invece negli ultimi mesi ha già fatto il rapinatore sfigato con Cianfrance, e adesso il camorrista sfigato che si fa tumefare il volto da un poliziotto con Refn. Non è che vuole dirci qualcosa? Non so, ma a ogni buon conto intendo esprimere solidarietà a tutte le donne e agli uomini che provano attrazione per Ryan Gosling e pagano un sacco di soldi di biglietto per vederlo farsi distruggere la faccia, senza neanche più accennare un sorriso, una smorfia, niente. Ormai non è più una faccia, è una maschera kabuki che allude forse all'incapacità di esprimere i propri reali sentimenti e altre menate molto scandinave. Come l'Amlodhi delle antiche saghe nordiche, Gosling è un inetto. Non sa vendicarsi, è debole, pure impotente, non riesce a sottrarsi dalle morbose attenzioni materne, insomma una frana totale. Quando la madre, giunta dall'America in fretta e furia, si lamenta del fratello invendicato, Gosling cerca di spiegarle che la cosa è più complicata, sai mamma, in realtà è stato ammazzato perché aveva massacrato una ragazza sedicenne...

"Avrà avuto i suoi buoni motivi".

È la battuta più divertente del film, tanto vale dirvelo... (continua su +eventi!) La mamma è una notevole Kristin Scott Thomas finto-bionda, tigrata, versacizzata, la Clitemnestra più tamarra mai vista sul grande schermo. Anche lei patisce di una certa ieracità, non fosse per il fatto che Refn tiene la camera fissa su qualsiasi immagine finché è sicuro di aver annoiato anche lo spettatore più ben disposto. È un film statico, troppo statico, qual è il superlativo di statico? È un film lynchano, sapete quel tipo di film con i carrelli lentissimi nei corridoi che quasi sempre sono metafore della mente, e dove non si esita mai abbastanza davanti a una porta dietro alla quale a un certo punto ti aspetteresti saltasse fuori Laura Dern – invece arriva il poliziotto in pensione con la katana e ti taglia le mani. Si tratta forse del diavolo, del Vendicatore: non aveva forse detto “vado a incontrare il diavolo” il fratello di Gosling prima di partire per il suo ultimo fatale puttantour? Ma ovviamente non è chiaro, e sicuramente mi sono perso alcune metafore – come coi film di Lynch, ma fa lo stesso: tra qualche anno se mi viene la curiosità troverò un sito internet con un sacco di teorie interessanti sul perché il poliziotto esca dagli armadi e dal rubinetto esca il sangue. Ho paura che comunque scoprirò che si tratta in fin dei conti di una cosa banale, del tipo “mamma ri-accettami nelle tue viscere”, tutti questi edipi irrisolti che se fossi il re di Danimarca bandirei per una generazione: cari cineasti, siete l’orgoglio della nostra piccola nazione, però… però Edipo ha anche rotto. No, così.



Qui è mentre la mamma svergogna la fidanzata, che è poi una finta fidanzata perché si vergogna di non averne una.

Oltre a essere molto statico, è un film assai violento. Quanto violento? Se per voi Tarantino è violento, ecco, lasciate proprio perdere; in una scena Refn suggerisce a tutte le ragazze (con la sua usuale levità) di chiudere semplicemente gli occhi, mentre i maschietti dovrebbero “godersi lo spettacolo”. Non mi sono goduto lo spettacolo. La lentezza può essere una voluta aggressione ai montaggi ipercinetici dell’action contemporaneo, o un tentativo di ipnotizzare lo spettatore con ritmi da horror di serie B, ma forse semplicemente Refn non sapeva cosa girare per novanta minuti. Questo è un certo handicap per i cineasti; per dire, gli scrittori, se hanno una storia breve, possono anche farci un romanzo breve: ma un regista se vuole essere distribuito in sala almeno un’ora e un quarto te la deve montare. È un vero peccato che non ci sia mercato per i mediometraggi. Si potrebbero fare dei double-feature, non so, quaranta minuti di Amleto refniano e poi una riflessione di Von Trier su quanto le donne siano il demonio, o mezz’ora di conigli di Lynch: magari funzionerebbe, si intercetterebbe un pubblico che è sensibile a Lynch ma si annoia a vedere due ore di corridoi; e anche i danesi secondo me c’è tanta gente che li apprezzerebbe più in piccole dosi. Non so, la butto lì. 
Solo Dio perdona, se proprio ci tenete, ma non dite poi che ve l’avevo consigliato io, è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 15:30, alle 17:40, alle 20:30 e alle 22:40; al Cinecittà di Savigliano alle 16:00, alle 18:10, alle 20:20 e alle 22:30. È vietato ai minori di 14 anni.

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ottima scelta?

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Il mondo salvato dai camerieri

In effetti lo spot del gorgonzola (per cui vedi Wittgenstein) è indifendibile. Il testo sembra scritto da un grumo di forfora di Vanzina. “Ottima scelta bella topolona” è lo slogan che in nome dell'incisività sacrifica secoli di spirito italiano. Eppure.
Eppure non mi sento di buttarlo via. C'è qualcosa, in quello spot, che funziona nonostante tutto. È scritto male, da persone che evidentemente pensano male. Poi però è stato girato molto bene, da un regista bravo, e con un attore fantastico.

È volgare? Altroché se è volgare. Ma è una volgarità tutta verbale. In un palinsesto pubblicitario in cui si usano normalmente chili di donna nuda per venderti il silicone sigillante per infissi, in questo spot non si fa vero mercimonio visivo del corpo femminile. Nel senso che la “bella topolona”, in realtà, è una signora che si vede pochissimo. Giusto il tempo per apprezzarne le forme; poi il cameriere ha il suo raptus, si vede di sfuggita che la tipa sgrana gli occhi e spalanca la bocca, ma non riusciamo più a metterla a fuoco. Questa idea di lasciarla sullo sfondo, mentre il cameriere resta solo in primo piano con la sua vergogna, è quasi cinema.

Ma non sarebbe cinema se non ci fosse il cameriere – quel cameriere. Io non so come si chiami l'attore, e come stia vivendo questa situazione. Probabilmente ha studiato per anni, ha fatto teatro, ha fatto tv, e in questo momento rischia di passare alla storia come l'uomo che disse “bella topolona”. Molto peggio di Calindri col logorio della vita moderna. Eppure.
Eppure se lo meriterebbe, perché è davvero bravo. Riuscire a renderci empatici nei confronti di un personaggio con una sola battuta a disposizione non è facile. Se poi quell'unica battuta era “ottima scelta bella topolona” l'impresa è ai limiti del possibile. Eppure lui ci riesce. In poche sillabe riesce a passare, con un accelerazione graduale, dal tono ossequioso del maggiordomo di classe (“Ottima scel...”) al grugnito del vecchio porco represso (“...ta bella topolona!) E quell'occhiata finale di pentimento ed espiazione è meravigliosa.

Così, se mi chiedete segni di speranza per l'anno che verrà, io per ora non ho che da offrirvi questo: in Italia c'è ancora un sacco di gente come questo attore, in grado di realizzare con professionalità qualsiasi cosa gli si chieda. Se gli dai Shakespeare, ti recitano Shakespeare. Se gli dai “bella topolona”, te lo leggono con la stessa bravura con cui ti leggerebbero Shakespeare. Non importa quanto schifo facciano i testi, c'è sempre qualcuno in grado di nobilitarli con l'amore per il proprio lavoro. Vorrei poter concludere dicendo che è l'amore per il proprio lavoro che ci salverà.

Poi mi viene in mente che anche i boia nazisti amavano il loro lavoro ed eseguivano con professionalità un piano elaborato da un mitomane deficiente, e mi rendo conto di essermi fregato da solo. Che figura.
Pessima scelta, vecchio sbabbione.
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- tutti pazzi per BB

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50 anni senza Brecht

(non sono passati in fretta)

AVVERTENZA: paradossalmente, questa è una delle cose meno didattiche che ho scritto. Nel senso che chi non conosca Brecht (non è un reato) non troverà qui nessuna spiegazione utile. Questo è solo uno sfogo di un tale che non sa spiegarsi. Mi spiace.

Quando il mondo non ti capisce, un po' è anche colpa tua. Io sono convinto di questo.
Gran parte dell'incomprensione tra me e il mondo, in questi giorni, scaturisce da una concezione diversa dello strumento-blog: per me si tratta di un luogo dove si osservano le cose come stanno. Non è che mi metta ad attaccare adesivi o a protestare formalmente contro gli incendi alle ambasciate, perché le mie proteste formali non sono interessanti. Interessante è cercare di capire cosa porta a un incendio a un'ambasciata. Ma poi qualcuno pensa che voglio giustificare, che sono complice, che che che che. Io guardo alle cose come stanno, loro preferiscono immaginarsi le cose come dovrebbero essere. Non ci vuole molto tempo a ricostruire il pattern di questo mio modo di ragionare. È Marx, in effetti. E mi viene da chiedermi cosa sta succedendo, da quand'è che mi sono svegliato marxista? O sono sempre stato un agente della seconda internazionale in sonno? La cosa buffa è che ne ho letto veramente poco. Forse Marx per me è quel tipo di "cultura" che non si legge ma si respira, quella che meno cose sai più ti ci attacchi: come la Bibbia per i cristiani o Tocqueville per i neoconi.

Aspetta. Forse è Brecht. Io ho letto molto Brecht. Parecchio tempo fa (non ho neanche più i libri in casa).

L'altra sera ero a questo spettacolo, di Lisa Severo (amica) e Rocco Casino Papia, e mi stavo divertendo, ma mentre mi divertivo, pensavo (non ci posso fare niente): possibile che il giovane Brecht sia davvero questo simpatico giovinastro sesso-sigaro-e-chitarra? Andare a ripescare il Brecht giovane, non è un modo di addomesticarlo?
Probabilmente sì, ma non è che ci siano molte altre opzioni per parlare di Brecht oggi. Prima che l'anniversario entri nel vivo – e che tutti si mettano a parlare dell'eredità del grande drammaturgo – io qua vorrei sostenere senz'alcuna serietà un'idea antipatica e (spero) soltanto mia: non esiste nessuna eredità. Noi non riusciamo neanche a capirlo, Brecht. È un uomo di un'altra epoca, infinitamente più antico dei suoi contemporanei. È un pezzo di Storia a sé: il Novecento funzionerebbe benissimo anche cancellandolo; sarebbe un secolo più povero, ma non s'indovinerebbero i rami tagliati. È uno che non c'entra niente, né con quello che veniva prima, né con quello che è seguito dopo. (Con un sforzo senz'altro maggiore, forse si potrebbe ritagliare dal '900 anche l'Unione Sovietica).
Ogni volta che tentiamo di accostarci a Brecht, prendiamo cantonate. Gran parte delle nostre associazioni di idee (Strehler, Milva, Louis Armstrong, Jim Morrison…) sono semplicemente assurde. Pensiamo all'Opera da tre soldi e ci dimentichiamo quanto Brecht la odiasse. Facciamo finta che sia espressionismo – una delle famose avanguardie storiche – quella un po' più teutone, un po' più grottesca, con le voci in falsetto – e fraintendiamo tutto quanto. Non è del tutto colpa nostra.

Non riesco a spiegarmi che per metafore – necessariamente fuorvianti. Per esempio: Brecht è un sistema operativo per un tipo di computer che nessuno sa più progettare. Brecht è un Mac in un pianeta di PC, o viceversa (forse è meglio viceversa). Brecht è l'antimateria, che schizza via dal nostro universo repellente. Brecht è il Minitel francese, un'innovazione rifiutata dal successivo sviluppo tecnologico. Brecht è il motore a idrogeno; perché funzionasse bisognerebbe rivedere la civiltà dalle fondamenta, forse non vale la pena. Brecht è Brecht, sarei tentato di concludere. Per capirlo dobbiamo continuamente rifarci a cosa pensava lui di sé stesso – non è un buon segno. Persino Benjamin lo fraintendeva (e sicuramente noi fraintendiamo Benjamin).

E dire che sembra l'autore più semplice del mondo. Cosa c'è di più lineare di Vita di Galileo? Scienza è bene e Chiesa è male, o no? Madre Coraggio? La guerra è brutta. Arturo Ui? Hitler è un gangster. Tutto qui? Sembra di stare a scuola. E infatti è lì che lo abbiamo conosciuto, sui libri di testo (comunisti!). Del resto anche la scuola è una scheggia di mondo in fuga libera. Educare i giovani, che ingenuità, nell'era dell'intrattenimento. Cosa c'è di più anti-attuale di un autore didattico? Certa sua poesia sembra guardarci da un promontorio di secoli; Libro del Siracide, Libro dei Proverbi, Poesie di Bertolt Brecht.
(A proposito, l'autore italiano più brechtiano secondo me è Calvino, un altro che si scriveva le introduzioni da solo. Scriveva "libri per le scuole medie". Addirittura ha fatto un'antologia scolastica. Poi non c'è da stupirsi se crescendo lo trovano antipatico. Gli adulti vogliono libri ggiovani, che li facciano sentire ggiovani. Sesso e parolacce. Calvino scriveva per i giovani veri, quelli che hanno voglia di crescere in fretta).

Brecht è un caso a sé non perché sia difficile da capire. Proprio per l'esatto contrario. Ti spiazza per quanto è ovvio. Tu pensi al teatro, ma il teatro è semplicemente quello che la sua epoca aveva da offrirgli. Se fosse nato oggi scriverebbe per cinema, tv, internet. Ma cosa scriverebbe? È immaginabile, oggi, un cinema brechtiano? Persino la recitazione sarebbe una cosa diversa. Brecht riprenderebbe gli attori mentre si preparano ad andare in scena, salve sono Cathrine Deneuve e in questa scena faccio la vivandiera alla Guerra dei Trent'anni – la mente vacilla. Mi ricorda un po' gli ultimi due film di Von Trier, ma forse nemmeno lui c'entra con Brecht.
Prima di scegliere la Germania Est, Brecht girò parecchio. Visse in California, ma non riuscì a lavorare per Hollywood. Non lo capivano e non capiva. Io naturalmente fantastico su cosa sarebbe successo, se fosse riuscito a sfondare laggiù (come il collega Weill). Di sicuro oggi i nostri canoni sarebbero diversi. Ma è un pensiero ozioso. Brecht non poteva farcela. Era una sfida epica, la sua, ma non nel senso che lui dava alla parola. Nel senso che aveva contro tutta la prassi dell'intrattenimento occidentale. È come quella scena di Goodbye Lenin (molto proiettato da noi) in cui il protagonista mostra alla madre la caduta del muro, ma in senso inverso: gli occidentali fanno la fila per entrare in Germania Est a comprare i cetriolini della Sprea e il surrogato di caffè della DDR. Ecco, pensare a Brecht oggi richiede il medesimo, titanico, sforzo d'immaginazione

In un libro del mio Professore (che incautamente ho prestato a qualcuno), c'è un capitolo titolato "Che fare dopo Brecht?" Mi ha sempre fatto impazzire. Quanto comunismo in appena quattro parole. Che fare dopo Brecht? Ce lo siamo sempre chiesto in pochi.
Qualche mese fa il mio Professore è andato in pensione. Al pranzo di addio ho conosciuto un altro suo discepolo, un poeta, che mi ha detto di adorare la poesia di Ardengo Soffici. La cosa avrebbe lasciato indifferenti i più, ma io mi sono laureato (tra gli altri) anche su Soffici. Non perché lo adorassi, ma perché lo detestavo, lo consideravo l'inventore del fascismo in letteratura, un profeta dello squadrismo quando ancora Mussolini era un pacifista senza se e senza ma; insomma, per me era l'archetipo del letterato stronzo del Novecento, e consideravo una missione morale laurearmi su quella gente.
A un certo punto del pranzo il professore ha detto: ma io come faccio ad avere avuto due studenti così diversi? Parlava di lui e di me. Uno opposto all'altro.
Io adesso sono qui. Il mio opposto è al Grande Fratello. Essendo il mio opposto, mi sta molto simpatico. E mi pare che se la stia cavando. In ogni caso, lui ha trovato la sua risposta: che fare dopo Brecht? Il Grande Fratello. C'è poco da scherzare: non escludo che abbia ragione lui. In ogni caso, a me tocca fare l'opposto, e cioè?
Prendiamo quello che sto facendo adesso. Un blog. Come si fa a brechtizzare un blog? Io a volte ci ho provato. Ma forse non ho capito niente. In ogni caso ringrazio Georg, che ha rimesso in giro quella che definisce "una delle dichiarazioni di poetica meno fortunate della storia della letteratura probabilmente". Ecco. Io provo a ripartire da lì. Forse sono sempre stato lì. In ogni caso, riparto. La forma epica del blog. Vediamo.


Forma drammatica del blog


Forma epica del blog

attiva
narrativa
involge il pubblico in un'azione scenica
fa dello spettatore un osservatore
ne esaurisce l'attività
però ne stimola l'attività
gli consente dei sentimenti
lo costringe a decisioni
delle emozioni
a una visione generale
lo spettatore viene immesso in qualcosa
lo spettatore viene posto di fronte a qualcosa
suggestioni
argomenti
le sensazioni vengono conservate
le sensazioni vengono spinte fino alla consapevolezza
lo spettatore sta nel bel mezzo, partecipa
lo spettatore sta di fronte, studia
l'uomo si presuppone noto
l'uomo è oggetto di indagine
l'uomo immutabile
l'uomo mutabile e modificatore
tensione riguardo all'esito
tensione riguardo all'andamento
una scena serve l'altra
ogni scena sta per sé
corso lineare degli accadimenti
a curve
natura non facit saltus
facit saltus
l'uomo come dato fisso
l'uomo come processo
ciò che l'uomo dovrebbe fare
ciò che l'uomo deve fare
il pensiero determina l'esistenza
l'esistenza sociale determina il pensiero
sentimento
ratio
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